Manuale di base di storia della filosofia. Autori, indirizzi, problemi 8884539536, 9788884539533

Il manuale di base si propone come testo fondamentale per coloro che si avvicinano per la prima volta alla storia della

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Sommario
Presentazione
Capitolo 1. Platone
Capitolo 2. Aristotele
Capitolo 3. Agostino
Capitolo 4. Tommaso d’Aquino
Capitolo 5. Cartesio
Capitolo 6. Spinoza
Capitolo 7. Leibniz
Capitolo 8. Vico
Capitolo 9. Hume
Capitolo 10. Kant
Capitolo 11. Hegel
Capitolo 12. Nietzsche
Epistemologia
Ermeneutica
Esistenzialismo
Fenomenologia
Filosofia analitica
Filosofia del linguaggio
Marxismo
Nichilismo
Scuola di Francoforte
Spiritualismo
Utilitarismo
Antropologia filosofica
Bioetica
Cinema e filosofia
Cognitivo/Cognitivismo
Complessità
Ecologia
Estetica
Etica
Filosofia dell’educazione
Filosofia e politica
Globalizzazione
Internet
Lavoro/ozio
Narrazione
Neurobiologia
Pratiche filosofiche
Psicoanalisi
Storia
Strutturalismo/Post-strutturalismo
Copertina posteriore
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Manuale di base di storia della filosofia. Autori, indirizzi, problemi
 8884539536, 9788884539533

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Manuale di base di Storia della filosofia. Autori, indirizzi, problemi Book · November 2009 DOI: 10.36253/978-88-8453-954-0

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4 authors, including: Francesco Coniglione

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SEE PROFILE

f. coniglione, m. lenoci, g. mari, g. polizzi

manuale di base di storia della filosofia

Il Manuale di base, attraverso una struttura innovativa e una scrittura snella e di facile comprensione, si propone come testo fondamentale per coloro che si avvicinano per la prima volta alla storia della filosofia. La prima parte presenta gli autori della filosofia classica, cristiana e moderna che ogni studente deve conoscere. L’esposizione del contesto e l’analisi delle opere principali è pensata in modo da consentire l’individuazione dei nuclei principali della riflessione filosofica e far entrare il lettore a diretto contatto con i testi. La seconda parte è dedicata invece agli indirizzi e ai problemi più rilevanti della filosofia contemporanea, ordinati entrambi per lemma, dall’epistemologia all’utilitarismo, dalla bioetica alla globalizzazione, alla neurobiologia. Un’introduzione aggiornata alla filosofia che si avvale del contributo di alcuni tra i più importanti esponenti del panorama filosofico italiano.

f rancesco c oniglione , m ichele l enoci , g iovanni m ari , g aspare p olizzi

Francesco Coniglione è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Scienze della formazione e Direttore del Dipartimento di Processi formativi dell’Università di Catania, dove coordina anche il Dottorato internazionale in Scienze Umane. Michele Lenoci è professore di Storia della filosofia contemporanea e Preside della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fa parte del Comitato scientifico di «Rivista di filosofia neoscolastica» e di «Brentano Studien». Giovanni Mari, professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze, è direttore di «Iride. Filosofia e discussione pubblica» e di «Iris». Gaspare Polizzi, docente di storia della filosofia presso la IUL-Università di Firenze, è studioso di storia del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo.

18,50 €

ISBN 978-88-8453-953-3

9

788884 539533

Manuale di base di Storia della filosofia Autori, indirizzi, problemi

FUP

contributi di R.Bodei, A. Borsari, A. Bugliani, G. Cacciatore, F. Cambi, F. Desideri, P. Donatelli, U. Fadini, V. Gessa Kurotschka, S. Givone, E. Lecaldano, G.O. Longo, R. Marchesini, G. Marramao, M. Pezzella, M. Solinas, G. Vattimo, F. Vercellone, D. Zolo

FIRENZE UNIVERSITY

PRESS

manuali umanistica

– 11 –

francesco coniglione, michele lenoci, giovanni mari, gaspare polizzi

Manuale di base di storia della filosofia Autori, indirizzi, problemi

Firenze University Press 2009

Manuale di base di storia della filosofia / Francesco Coniglione, Michele Lenoci, Giovanni Mari e Gaspare Polizzi. – Firenze : Firenze University Press, 2009. (Manuali . Umanistica ; 11) http://digital.casalini.it/9788884539540 ISBN 978-88-8453-953-3 (print) ISBN 978-88-8453-954-0 (online)

Immagine di copertina: © Imag3 | Dreamstime.com Editing e redazione a cura di Mario Caricchio Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández © 2009 Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Firenze University Press Borgo Albizi, 28 50122 Firenze, Italy http://www.fupress.com/ Printed in Italy

Sommario

Presentazione

VII

Parte I – Autori Sezione I – La filosofia classica Cap. 1

– Platone

Cap. 2

– Aristotele

5 21

Sezione II – La filosofia cristiana Cap. 3

– Agostino

39

Cap. 4

– Tommaso d’Aquino 

51

Sezione III – La filosofia moderna Cap. 5

– Cartesio

65

Cap. 6

– Spinoza

77

Cap. 7

– Leibniz

Cap. 8

– Vico

101

Cap. 9

– Hume

111

Cap. 10 – Kant

89

123

Cap. 11 – Hegel 

137

Cap. 12 – Nietzsche

149

Parte II – Indirizzi e problemi della filosofia contemporanea Sezione IV – Indirizzi Epistemologia 

165

Ermeneutica

169

Esistenzialismo

173

Fenomenologia 

177

Filosofia analitica 

181

Filosofia del linguaggio

186

Marxismo

190

Nichilismo

193

Positivismo, neopositivismo, pragmatismo

197

VI



sommario

Scuola di Francoforte

205

Spiritualismo 

208

Utilitarismo

212

Sezione V – Problemi Antropologia filosofica

217

Bioetica 

219

Cinema e filosofia

223

Cognitivo/Cognitivismo

225

Complessità

228

Ecologia

231

Estetica

234

Etica

238

Filosofia dell’educazione

240

Filosofia e politica

243

Globalizzazione

245

Internet

248

Lavoro/ozio

251

Narrazione

254

Neurobiologia

256

Pratiche filosofiche

259

Psicoanalisi

262

Storia

264

Strutturalismo/Post-strutturalismo

267

Capitoli e voci sono stati scritti da: R. Bodei (Storia), A. Borsari (Antropologia filosofica), A. Bugliani (Psicoanalisi), G. Cacciatore (Vico), F. Cambi (Filosofia dell’educazione), F. Coniglione (Hume; Kant; Epistemologia; Filosofia analitica; Filosofia del linguaggio; Positivismo, neopositivismo, pragmatismo), F. Desideri (Estetica), P. Donatelli (Etica), U. Fadini (Strutturalismo/Poststrutturalismo), V. Gessa Kurotschka (Neurobiologia), V. Gessa Kurotschka e G. Cacciatore (Pratiche filosofiche), S. Givone (Narrazione), E. Lecaldano (Utilitarismo), M. Lenoci (Agostino; Tommaso d’Aquino; Esistenzialismo; Fenomenologia; Spiritualismo; Bioetica), G.O. Longo (Internet), R. Marchesini (Cognitivo/Cognitivismo; Ecologia), G. Mari (Hegel, Nietzsche; Marxismo; Lavoro/ozio), G. Marramao (Filosofia e politica), M. Pezzella (Cinema e filosofia), G. Polizzi (Platone; Aristotele; Cartesio; Spinoza; Leibniz; Complessità), M. Solinas (Scuola di Francoforte), G. Vattimo (Ermeneutica), F. Vercellone (Nichilismo), D. Zolo (Globalizzazione).

Presentazione

Questo Manuale di base è stato pensato per tutte quelle situazioni didattiche in cui è richiesta agli studenti una sintetica, ma non superficiale, conoscenza della storia della filosofia e dei principali temi del dibattito filosofico contemporaneo. Il Manuale vuole essere uno strumento utile ed efficace per frequentare con profitto lezioni di filosofia nelle quali si presuppone un inquadramento storico e teorico della materia, e l’approfondimento delle questioni richiede una sufficiente padronanza del linguaggio filosofico e delle principali problematiche trattate. In tale situazione si vengono a trovare, da una parte, gli studenti universitari che hanno frequentato scuole medie superiori in cui la filosofia non viene insegnata e che tuttavia debbono sostenere esami nelle discipline filosofiche; dall’altra, gli studenti di quelle scuole in cui la filosofia viene insegnata con finalità meno specialistiche. Il presente volume è, in generale, pensato per tutti quei casi in cui i programmi svolti dagli insegnanti richiedano uno strumento agile, aggiornato e capace di arrivare fino ai nostri giorni. In quest’ottica, il Manuale di base non si propone di sostituire la didattica ma di servirla, lasciando ad essa lo spazio degli approfondimenti necessari, per i quali si consiglia la conoscenza diretta e non manualistica degli autori, a cominciare dai classici. Soprattutto, i curatori hanno provato, e si augurano di essere riusciti, ad avvicinare la filosofia, e il ragionamento critico cui essa forma, ai giovani delle nostre scuole e università, suscitando in essi una curiosità e un interesse che spesso i tradizionali manuali non riescono ad accendere. Il Manuale di base ha una triplice struttura. Nella prima parte, divisa in tre sezioni di carattere puramente storiografico, vengono presentati i principali classici del pensiero filosofico. Si è operato una selezione molto accentuata, rifiutando quell’impossibile ambizione alla completezza, che spesso si traduce nella semplice elencazione degli autori e dei nodi del

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presentazione

loro pensiero. Figure importanti sono per questo state omesse consapevolmente e di quelle trattate si è cercato di cogliere il significato centrale, tenendo in considerazione anche la loro presenza e fortuna nel dibattito contemporaneo, senza pretendere di riassumerne in poche pagine l’intero pensiero. Nella seconda parte, la quarta sezione è dedicata ad alcuni tra i più significativi indirizzi della filosofia contemporanea. Anche in questo caso, sia nella scelta, sia nella composizione dei testi, permane il filo storiografico, ma lo scopo è quello di fornire mappe di orientamento che vanno al di là dei singoli autori, collocando i filosofi in determinate tradizioni di pensiero. La quinta sezione, infine, discute i principali problemi della filosofia contemporanea, ma anche questioni che, pur non direttamente filosofiche, appaiono cruciali per la riflessione filosofica. Ancor più della seconda e della prima, questa terza parte vuole essere una piccola enciclopedia filosofica, da leggere e impiegare liberamente a seconda delle esigenze didattiche e culturali. Tutto il libro, comunque, si presta ad essere scorso avanti e indietro al fine di rinvenire problemi, concetti e termini linguistici indispensabili per ogni ulteriore approfondimento scolastico o di gusto personale. Gli autori che hanno collaborato al volume non sono solo storici della filosofia, anzi questi sono una minoranza. Appartengono a diversi settori disciplinari e sono tutti noti specialisti di diverse aree della ricerca filosofica e teorica. Rivolgo infine un invito ai colleghi e docenti, che adotteranno il Manuale, a contribuire a migliorarlo con osservazioni e consigli formulati a partire dalla loro esperienza didattica. Ai colleghi Coniglione, Lenoci e Polizzi, con cui ho spartito la maggiore fatica, e a tutti gli altri che per pura amicizia hanno risposto positivamente all’invito a collaborare, va il mio sincero ringraziamento, che estendo anche ai dottori Mario Caricchio e Fulvio Guatelli che per conto della Firenze University Press hanno egregiamente seguito, rispettivamente, la redazione e la progettazione editoriale dell’opera. Firenze, Ottobre 2009 Giovanni Mari [email protected]

parte i Autori

sezione i La filosofia classica

Capitolo 1 Platone Gaspare Polizzi

1. La vita e le opere 1.1 Biografia Platone nasce ad Atene da famiglia nobile nel 428/427 a.C., poco dopo la morte di Pericle (429 a.C.), in un periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche e di crisi della grandezza di Atene, che nel 404 sarà sconfitta da Sparta nella guerra del Peloponneso. È un periodo nel quale viene meno la tradizione dei valori aristocratici, si afferma, grazie ai sofisti, l’idea che l’istruzione e la cultura si trasmettano tramite l’insegnamento, le fazioni politiche si contendono il potere nelle città greche anche tramite l’esercizio della retorica e dell’arte della comunicazione. La figura più alta della cultura ateniese, Socrate affronta con coraggio l’opinione comune e viene processato e condannato a morte per aver introdotto nuove divinità, non credere negli dei di Atene e aver corrotto i giovani. Socrate diverrà per il giovane Platone che lo conobbe intorno al 408, il maestro e il modello di vita e, dopo la sua morte, Platone erigerà un monumento perenne alla sua figura facendone nei suoi Dialoghi (quasi tutti orientati dal personaggio di Socrate) il filosofo per eccellenza. Non si potrebbe comprendere la filosofia di Platone e la sua stessa scelta di dedicarsi alla ricerca della giustizia e della verità senza la presenza di Socrate e soprattutto senza la sua drammatica vicenda biografica, culminata nel processo e nella condanna a morte. Proprio la condanna di Socrate da parte del regime democratico ateniese da un lato allontana Platone dalla politica attiva nella sua città, dall’altro lo costringe a confrontarsi con i temi centrali del pensiero politico del suo tempo, a partire da quello della giustizia dei cittadini e dello Stato. Dopo la morte di Socrate Platone lascia Atene per un lungo viaggio che lo conduce in Egitto, a Cirene e nella Magna Grecia. Qui entra in rapporto

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gaspare polizzi

con noti filosofi e matematici provenienti dalla scuola di Pitagora, come Archita di Taranto, che governava anche la città. I legami con i pitagorici, dopo quelli con Socrate, saranno alla radice del suo pensiero. È del 388 a.C. il primo dei tre viaggi di Platone a Siracusa, dove conobbe il capo della città, Dionisio I e strinse un profondo rapporto con suo cognato Dione, che gli sarà amico e discepolo. Durante il viaggio ebbe la disavventura di esser catturato come prigioniero a Egina e di essere venduto come schiavo. L’anno successivo, nel 387 a.C., Platone decise di dedicarsi agli studi matematici e filosofici e fondò la sua scuola, l’Accademia, non priva di affinità con le scuole pitagoriche. Per vent’anni coltiverà la ricerca teorica configurando i temi e i concetti fondamentali della propria filosofia, che non cesseranno di essere orientati dall’insegnamento di Socrate e dalla questione della giustizia nella pólis. Tornerà a Siracusa nel 367 a.C. su richiesta dell’amico Dione e di suo nipote Dionisio II, succeduto al padre Dionisio I, che inizialmente sembra gradire l’insegnamento e i consigli politici di Platone, ma in seguito entra in conflitto con Dione, che viene esiliato. Platone ritiene opportuno tornare in patria e all’insegnamento nell’Accademia, dove nello stesso anno troverà un nuovo, promettente allievo, il giovane straniero Aristotele. Nonostante l’età (aveva sessantasei anni) nel 361 a.C. Platone compie un terzo viaggio a Siracusa, stavolta per ottenere il ritorno in patria dell’amico Dione; ma anche stavolta il viaggio è infruttuoso e provoca un duro attrito con Dionisio II, che viene risolto soltanto grazie all’intervento del pitagorico Archita di Taranto. Dopo il ritorno di Platone ad Atene, Dione prenderà il potere a Siracusa con una congiura, ma verrà a sua volta ucciso in un complotto. Il vecchio Platone assiste da lontano al fallimento del suo ideale di riforma politica di Siracusa e riprende la propria attività filosofica con ricerche di approfondimento e di revisione. Platone muore nel 347 a.C.: l’Accademia gli sopravviverà a lungo, per secoli, mentre l’autonomia politica di Atene e delle altre città greche sarà destinata a scomparire sotto i colpi delle armate macedoni e l’ambizione di Alessandro Magno.

1.2 Il Corpus platonicum Platone è l’unico pensatore greco i cui scritti sono arrivati per intero a noi. Il Corpus platonicum, che raccoglie tutte le sue opere, è composto da trentasei titoli e fu ordinato dal grammatico Trasillo di Alessandria (i sec. d.C.) in nove tetralogie (nove gruppi di quattro). Esso comprende: l’Apologia di Socrate, trentaquattro dialoghi (Eutifrone, Critone e Fedone; Cratilo, Teeteto, Sofista e Politico; Parmenide, Filebo, Simposio e Fedro; Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco e Amanti; Teage, Carmide, Lachete e Liside; Eutidemo, Protagora, Gorgia e Menone; Ippia maggiore, Ippia minore, Ione e Menesseno; Clitofonte, La Repubblica, Timeo e

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Crizia; Minosse, Leggi, Epinomide) e le tredici Lettere. Il Corpus pone piuttosto problemi per la valutazione dell’autenticità delle opere (alcune, come l’Alcibiade primo, l’Alcibiade secondo, le Amanti, il Teage, il Minosse, sono ritenute apocrife) e per la loro datazione, decisiva per seguire lo svolgimento del pensiero di Platone, che fu oggetto di varie revisioni e modifiche. Grazie al metodo «stilometrico», che misura statisticamente, con l’aiuto di strumenti informatici, le particolarità stilistiche di ogni dialogo, è ora possibile distinguere i dialoghi sicuramente platonici in tre gruppi, compresi tra l’Apologia di Socrate (che presenta la difesa di Socrate al suo processo) e le Leggi (riconosciuta come l’ultima opera). I dialoghi «giovanili», chiamati anche «socratici» perché segnati dal pensiero di Socrate, sono ritenuti anteriori al primo viaggio a Siracusa e alla fondazione dell’Accademia. Sono, oltre all’Apologia di Socrate, il Critone (sul rispetto delle leggi), l’Ippia minore (sull’errore volontario o meno), il Protagora (sull’insegnabilità della virtù), l’Eutifrone (sulla religione), il Liside (sull’amicizia), il Carmide (sulla temperanza), il Lachete (sul coraggio), l’Ippia maggiore (sull’idea del bello; l’aggettivo indica semplicemente la maggiore lunghezza del dialogo rispetto a l’altro omonimo), lo Ione (sull’attività dei poeti), il Menesseno (contro la retorica), La Repubblica (libro i, sul problema della giustizia; ma sarebbe più corretto tradurre «costituzione dello Stato»), il Gorgia (sulle doti del politico). I dialoghi della maturità, che presentano la filosofia platonica e sono successivi alla fondazione dell’Accademia, sono il Menone (sulla virtù e le idee), l’Eutidemo (contro l’eristica), il Cratilo (sulla natura del linguaggio), La Repubblica (libri II-X, sulla giustizia e lo Stato), il Fedone (sulla teoria delle idee e l’immortalità dell’anima), il Simposio (sull’amore), il Fedro (sull’amore e la retorica). I dialoghi della vecchiaia, nei quali il pensiero platonico subisce un’ampia revisione e viene fortemente ridimensionata la figura di Socrate, furono scritti dopo il terzo viaggio a Siracusa e sono il Teeteto (sulla teoria della conoscenza), il Parmenide (sulle obiezioni alla teoria delle idee), il Sofista (ancora sul rapporto tra essere e non essere), il Politico (sul governo della pólis), il Filebo (sul piacere e sul bene), il Timeo (sulla cosmologia), il Crizia (sullo Stato), le Leggi (dodici libri, incompiuto, ancora sullo Stato).

2. La teoria delle idee: essere, conoscenza, politica La grandezza dell’opera di Platone è consegnata ai dialoghi, anche se da testimonianze coeve, a partire da quella di Aristotele, sappiamo dell’esistenza di dottrine «esoteriche», riservate agli allievi dell’Accademia e in parte diverse da quelle esposte nei dialoghi. Alcuni studiosi hanno cercato di ricostruire tali «dottrine non scritte» che evidenzierebbero una teoria delle idee-numeri, sostenuta a partire dalla coppia di limite e illimite (Uno e Diade infinita), che riprenderebbe in chiave dialettica

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alcuni aspetti del pitagorismo. Tali dottrine permangono tuttavia ancora largamente ipotetiche e non smentiscono la centralità dei dialoghi, che hanno consegnato ai posteri la tradizione del platonismo. Come si è detto, il motivo dominante della filosofia platonica è legato alla figura di Socrate, al suo metodo dialogico, e alla vicenda tragica della sua condanna a morte. Il tema della giustizia, che compare già nell’Apologia di Socrate e nel Critone, mantiene la sua centralità nella ricerca platonica di una verità assoluta che richiede una definizione per la prima volta completa e compiuta del ruolo e dei compiti della filosofia. Porre il problema della giustizia nell’Atene del IV secolo a.C. significava confrontarsi e scontrarsi con una visione della pólis e della cittadinanza affermata dai sofisti, teorici di una politica espressa tramite il confronto delle opinioni e l’efficacia retorica e dialettica delle argomentazioni. Per i sofisti l’arte della politica, orientata dall’abilità nel convincere i cittadini a partire dall’opinione comune («dóxa»), era oggetto di insegnamento e prescindeva da una competenza specifica e da una verità unica. Diverso era stato l’insegnamento di Socrate che aveva cercato con le sue «provocazioni» di spingere i concittadini a ricercare un fondamento sicuro per le virtù e per l’azione nella pòlis. Ma il suo messaggio non era stato capito ad Atene. A partire dalla vicenda di Socrate, e facendo un uso «filosofico» della sua figura, Platone entra in un conflitto radicale con i sofisti (primi fra tutti Protagora e Gorgia) e con il governo di Atene, e avvia una ricerca che condurrà alla prima grande fondazione della storia della filosofia e che ruoterà intorno a due principali linee di sviluppo, tra di loro connesse: la ricerca morale e politica e la ricerca sulla conoscenza e sul suo rapporto con la realtà. La concezione platonica della conoscenza e della realtà deve condurre a scoprire quali sono le verità ideali che possono orientare i comportamenti morali e politici dei cittadini e configurare il progetto di uno Stato ideale. Ed è proprio intorno al significato di «ideale» che si concentra la visione platonica dell’essere: dinanzi alla varietà molteplice e mutevole delle cose del mondo e delle azioni umane non bisogna cadere nel «relativismo» dei sofisti, che si rassegna all’impossibilità di trovare una misura unica delle azioni e degli oggetti, bisogna guardare a qualcosa che rimane sempre identico a se stesso e che non può trovarsi nel mondo sensibile, dove vige il mutamento, e la conoscenza si presenta come opinione, ma in un altro mondo, un mondo diverso e lontano rispetto a quello sensibile, che può essere visto soltanto tramite gli occhi della mente («idèa»), intuito con l’intelletto («noùs») e che è composto da forme eterne («éide»). Quando nell’Eutifrone (dialogo del primo periodo che tratta della «santità») vengono discussi alcuni casi particolari di santità, Socrate obietta che va ricercata «quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante» (Eutifrone, 6d). Così nel Cratilo, che ha per oggetto il

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problema della natura del linguaggio, la concezione di Socrate si distingue da quella di Ermogene, che afferma il carattere convenzionale del linguaggio, frutto delle esigenze delle società umane, ma anche da quella di Cratilo, che sostiene che le parole hanno la loro radice nelle cose stesse; secondo Socrate alle parole e alle cose corrisponde un «éidos», una forma eterna sulla quale le une e le altre si conformano, corrispondendole non sempre fedelmente. Sono questi i primi accenni alla teoria dell’«éidos», «ciò che viene visto con gli occhi della mente», l’oggetto dell’intuizione intellettuale, e dell’«idèa», la realtà intellegibile, incorporea, eterna e separata dalle cose che è principio delle cose stesse e che si trova in un mondo separato da quello sensibile, l’«iperuranio». Come nel mondo sensibile vi sono gli oggetti e le persone belle, vi sarà un éidos della bellezza posto nell’iperuranio, dal quale essi provengono e del quale essi partecipano; esso costituisce il riferimento univoco di ciò che nel mondo sensibile è bello. L’éidos è il modello eterno delle cose, è parte costitutiva dell’essere (e ha quindi un valore ontologico), ma è anche il concetto generale che permette la conoscenza delle cose molteplici dell’esperienza (e ha quindi un valore logico). La teoria degli éide e delle idee consente di fondare una visione dell’essere come realtà universale ed eterna e della conoscenza come intuizione univoca e assoluta di essa. Essa comporta la definizione di un doppio livello di realtà e di verità (dualismo ontologico e gnoseologico): vi è una realtà propria del mondo sensibile, mutevole e molteplice, e una realtà delle idee intelligibili, stabile e univoca; vi è una verità del mondo che ci circonda, che non può essere che opinabile (dóxa), anche se tra le opinioni è possibile individuarne una «retta», vi è una verità del mondo iperuranio costituita da éide, eterni e assoluti. Il metodo e le tematiche socratiche subiscono ora una radicale trasformazione. Innanzitutto il dialogo scritto introduce una forma letteraria e filosofica che smentisce la volontà di Socrate di dialogare soltanto oralmente con i propri concittadini. Inoltre alle domande socratiche su cos’è la virtù, come educare i giovani, cos’è il bene, Platone non risponde con il metodo dialogico di Socrate, che metteva in crisi le opinioni dell’interlocutore (ironia) e cercava di arrivare insieme a lui a una soluzione (maieutica), che si rivelava sempre problematica e aporetica. Platone muove dalla teoria delle idee e, pur mantenendo attivo l’impegno per una continua rielaborazione problematica, si domanda: se virtù è conoscenza, cos’è la conoscenza; cosa possiamo conoscere; qual è il rapporto tra conoscenza e azione; si può raggiungere la conoscenza del bene; come dovrebbe essere uno Stato giusto? In questo orizzonte insieme ontologico e gnoseologico trova spazio l’intreccio e il continuo ripensamento operato da Platone nei dialoghi della maturità e della vecchiaia fra ricerca morale e politica da un lato e ricerca

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sull’essere e sulla conoscenza dall’altro. Un intreccio che fa la ricchezza problematica e argomentativa dei dialoghi e che viene vivificato dalla figura di Socrate, dalla presenza dei personaggi più in vista della cultura e della società ateniese e dal genere dialogico, che riflette l’apertura e la concretezza delle discussioni nelle piazze di Atene e introduce, con un efficacissimo espediente letterario, elementi mitologici tratti dalla tradizione religiosa e liberamente rielaborati dallo stesso Platone. L’uso ampio del mito e il rapporto complesso fra mito e lògos costituiscono tra l’altro una peculiarità della scrittura e del pensiero di Platone, riaprendo la questione originaria della filosofia sulla relazione fra la narrazione mitico-religiosa (mỳthos) e l’argomentazione razionale (lògos), propria della filosofia.

3. Filosofia: giustizia e verità L’esemplarità del pensiero platonico può essere riconosciuta in due direzioni entrambe cruciali per la sua filosofia: quella relativa al ruolo e al significato stesso della filosofia e quella orientata a trovare una soluzione per la fondazione di uno Stato giusto. Si può asserire con buona approssimazione che Platone è stato il primo pensatore a porre la questione della «filosofia» (termine forse introdotto da Pitagora o da Eraclito), del rapporto tra la «sofia» propria del saggio, con il «phìlos», l’amico e amante della saggezza, che rimane sempre «philò-sophos» perchè cerca la saggezza ma non la possiede mai definitivamente. Vi sono due dialoghi dove tale questione cruciale viene presentata e discussa: il Simposio e il Fedro. Il Simposio presenta il banchetto di un gruppo di amici, fra i quali Socrate, che festeggiano la vittoria di un poeta tragico; ciascun invitato dovrà pronunciare un discorso in lode di Eros. Nel suo discorso Socrate descrive un percorso che dall’amore per la bellezza dei corpi conduce a riconoscere «che la bellezza delle anime è più preziosa di quella del corpo» (Simposio, 210b) e che la ricerca della bellezza può realizzarsi in pieno soltanto tramite la «filo-sofia», l’amore per il sapere, che conduce a intuire l’éidos della bellezza, l’idea di bello, che non si identifica con nessuna bellezza particolare, la bellezza «come essa è per sé e con sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bellezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s’arricchisce né scema, ma rimane intoccata» (Simposio, 211b). Eros, figlio di Penìa (Povertà) e Póros (Espediente), è sempre mancante di qualcosa, ma anche sempre alla ricerca della bellezza, è «filosofo», in quanto si domanda cos’è il bello e il buono e ne ricerca l’idea. La filosofia dunque, nel suo significato originario, è éros, amore della saggezza, che conduce alla ricerca della verità e alle idee. Platone torna sul tema dell’amore e della filosofia nel Fedro, dove Socrate e Fedro discutono dell’amore. Nel suo secondo discorso Socrate

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interpreta «éros» come «manìa», follia, un dono divino che conduce alla bellezza, la sola idea visibile anche nel mondo sensibile, e permette di ascendere alla bellezza in sé e di raggiungere il mondo delle idee. Per far ciò ricorre al mito, presentando il noto racconto del carro alato (Fedro, 246a-d), che gli consente di descrivere innanzitutto la natura immortale dell’anima, la sua vita celeste e il suo rapporto con le idee (Fedro, 245c247e). Socrate richiama quindi la funzione della filosofia come ricerca inesauribile della verità e la interpreta come «dialettica». La filosofia risale ai principi della conoscenza tramite un metodo che consente di unire e dividere, di pervenire, tramite la «congiunzione» (synagogé) all’idea unitaria – «ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato» (Fedro, 265d) – e di riconoscere, tramite la «divisione» (diáiresis), come tale idea si articoli in forme particolari e specifiche. Qui la concezione della filosofia come dialettica propone già il problema del rapporto tra l’uno e i molti, che sarà molto sentito nell’ultimo Platone: unire e dividere significa ritrovare una stessa idea in molte idee (per esempio, l’idea generale di virtù che unifica le diverse virtù) e molte idee in una (per esempio, l’idea di una singola virtù, differente dalle altre, nell’unica idea di virtù). Nell’insegnamento platonico la dialettica è connessa strettamente alla matematica: mentre la seconda parte da princìpi indimostrabili (gli «assiomi») e grazie ad essi trae con il ragionamento e la dimostrazione conclusioni compiute e coerenti con le premesse (come i «teoremi»), la dialettica esamina criticamente proprio i princìpi che fondano il sapere matematico e che costituiscono le idee matematiche. Il «dialettico» studia le idee nel loro rapporto reciproco, senza appoggiarsi al mondo sensibile, mentre il matematico studia sì le forme intelligibili, ma le riferisce alle loro rappresentazioni sensibili (come nel caso delle figure geometriche). Tutte le altre discipline, compresa la matematica, sono quindi preliminari alla filosofia che, come dialettica, è la sola a consentire la conoscenza di ciò che è. La funzione specifica della filosofia come dialettica non smentisce tuttavia la sua vocazione originaria consistente nell’amore della conoscenza, nella tensione dell’argomentazione, della vocazione dialogica e orale, e il suo legame con éros, vero motore della ricerca della verità

4. La Repubblica: l’uomo e lo Stato L’altra linea esemplare della ricerca platonica si sviluppa intorno al tema della giustizia e dello Stato a partire dall’esperienza della propria città, che ha condannato a morte Socrate, il filosofo per eccellenza. A tale questione Platone dedica il dialogo forse più noto e teoreticamente più rilevante: Politéia (ovvero «costituzione dello Stato») – comunemente tradotto Repubblica, dal titolo latino Res publica (che fa pensare allo Stato repubblicano, non gradito da Platone) – ma anche due tra gli ultimi dialoghi della vecchiaia: il Politico e le Leggi.

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La Repubblica è divisa in dieci libri e pone fin dal primo libro, scritto nella giovinezza, la questione della giustizia. Qui Socrate si trova a contrastare le tesi del sofista Trasimaco, secondo il quale la giustizia sta sempre dalla parte del più forte: «In ciò dunque consiste, mio ottimo amico – dice Trasimaco – quello che, identico in tutti quanti gli stati, definisco giusto: l’utile del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza: così ne viene, per chi sappia bene ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre l’identica cosa, l’utile del più forte» (La Repubblica, I, 338e-339a). La discussione porta a sostenere che chi vive secondo giustizia è più felice di chi si comporta ingiustamente, ma rimane aperto il problema della definizione della giustizia. Sarà l’intera articolazione del dialogo, dal secondo libro in poi a smentire, soprattutto con le parole di Socrate, l’affermazione di Trasimaco, attraverso un vasto disegno che delinea una teoria dello Stato giusto tracciando la scena di uno Stato come dovrebbe essere, di uno Stato ideale, in contrasto con lo Stato com’è. Innanzitutto Socrate si interroga sulla nascita dello Stato e sul suo sviluppo, dovuto ai commerci e alle guerre, che rendono decisivo il ruolo dei «guardiani», ovvero dei militari. Emerge a questo punto il problema dell’educazione, che diventa cruciale per formare i nuovi cittadini e che viene messo alla prova con l’educazione dei guardiani: essa sarà incentrata sulla musica e sulla ginnastica, che consentono di raggiungere l’armonia nell’anima e nel corpo, e non sulla poesia, che è imitazione della realtà sensibile e allontana dalla realtà ideale, oltre a proporre modelli negativi di comportamento. L’obiettivo dell’unità e della felicità dello Stato comporta però numerosi limiti per i cittadini, che non dovranno essere né ricchi, né troppo poveri. Quindi Socrate descrive, nel libro IV, le quattro virtù dello Stato perfetto – sapienza, coraggio, temperanza e giustizia – e di conseguenza le modalità che negli individui possono condurre a tali virtù. La teoria della tripartizione dell’anima in razionale, irascibile e concupiscibile consente a Platone di intendere la giustizia nell’individuo come armonia fra le virtù relative alle tre parti dell’anima: la sapienza nell’anima razionale, il coraggio nell’anima irascibile e la temperanza nell’anima concupiscibile. Sarà giusto il cittadino che eseguirà con armonia le virtù che gli sono proprie e farà bene il lavoro per il quale è competente, in vista del bene comune stabilito dallo Stato: i contadini saranno temperanti, i guerrieri coraggiosi e i governanti sapienti. È lo stesso Platone, a questo punto, a riconoscere che vi sono almeno tre concezioni poco accettabili per l’opinione comune: l’affermazione dell’identità di compiti e di educazione fra uomini e donne («continueremo a credere che i nostri guardiani e le loro donne debbono attendere alle stesse occupazioni»; La Repubblica, III, 454e); la comunanza delle donne, dei figli e degli averi tra i custodi («Queste donne di questi uomini [dei custodi] siano tutte comuni a tutti e nessuna abiti privatamente con

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alcuno; e comuni siano poi i figli, e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore»; La Repubblica, III, 457c-d); l’affermazione che i governanti devono essere filosofi, perché soltanto essi amano la verità e conoscono la verità ideale eterna («a meno che [..] i filosofi non regnino negli stati o coloro che oggi sono detti re o signori non facciano genuina e valida filosofia, e non si riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia […] non ci può essere, caro Glaucone, una tregua di mali negli stati e, credo, nemmeno per il genere umano»; La Repubblica, V, 473c-d). La terza concezione conduce Socrate a descrivere quale dovrebbe essere l’educazione dei filosofi, che dovrà essere intensa e lunga e comprenderà, oltre alla musica e alla ginnastica, l’aritmetica e la geometria (sullo stipite della porta dell’Accademia si trovava scritto: «Nessuno entri se non sa di geometria»), l’astronomia, la scienza musicale e la dialettica, ovvero il metodo platonico della filosofia, che, dopo un lungo tirocinio che si concluderà a 50 anni, condurrà i filosofi a governare. Tramite la dialettica i filosofi arrivano a «vedere» l’idea del Bene, che costituisce il punto di riferimento della giustizia dello Stato e di tutte le virtù. Il Bene illumina gli oggetti intelligibili, le idee, come il Sole illumina gli oggetti sensibili. I filosofi devono governare non in quanto esperti della politica, ma perché si sono avvicinati più di tutti alla contemplazione della verità, alla conoscenza dei valori ideali; proprio grazie a questa loro vocazione conoscitiva i filosofi potranno, se costretti dallo Stato a governare («lo stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato in modo opposto»; La Repubblica, VII, 520d), indicare le leggi più sagge ed educare i cittadini ai valori e alle virtù. In questo contesto viene anche riaffermato il dualismo ontologico e gnoseologico tramite la «teoria della linea»: ai quattro tipi di oggetti da conoscere – immagini, oggetti sensibili, concetti scientifici e idee – corrispondono le quattro le forme di conoscenza – immaginazione, credenza, matematica e dialettica. Qui trova posto, all’inizio del Libro VII, il più noto mito platonico, il mito della caverna, che raffigura con un’immagine plastica e dinamica l’azione del filosofo che si eleva al di sopra dell’opinione comune e della visione degli oggetti sensibili per vedere le idee, e quella del Bene che tutte le illumina, per poi poter governare lo Stato nella giustizia. Soltanto dopo aver delineato tale potente quadro dello Stato ideale Platone presenta le forme attuali dello Stato (timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide), che risultano essere degenerazioni dello Stato ideale. Il dialogo si conclude con la presentazione del re-filosofo, che possiede la felicità prodotta dalla conoscenza del Bene e realizza lo Stato ideale, e con la rinnovata critica della poesia, che imita la realtà sensibile e apparente e non la realtà vera delle idee. Nella Repubblica troviamo quindi una stretta connessione tra la dimensione ontologica e conoscitiva, espressa dalla teoria delle idee, e quella

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morale e politica, configurata nella teoria della tripartizione dell’anima e nella teoria dello Stato ideale, che comporta anche una riflessione sulla filosofia, la poesia e l’educazione. Anche per questo motivo il dialogo è considerato il fulcro del pensiero platonico maturo. La riflessione sul tema della giustizia e dello Stato prosegue anche nel Politico e nelle Leggi. Nel Politico l’arte di governo viene presentata come una ricerca del giusto mezzo, che contempera le diverse virtù necessarie per la vita della comunità. Nel Politico viene affrontato il tema della definizione dell’arte politica, che scaturisce da quella «retta opinione» che può dirigere l’azione umana. Essa viene paragonata all’arte della tessitura: come la tessitura, la politica usa le altre arti per farle convergere in un disegno unitario. Il vero politico, identificato con il re-filosofo, riconosce l’ordito e la trama e pratica un’arte regia che sa intrecciare con abilità il valore e la saggezza. Va rilevato come Platone torni qui sul ruolo dell’opinione, della dóxa, che non viene più contrapposta alla scienza, all’epistéme. Nelle Leggi, l’ultima opera di Platone, pur guardando alla società ideale il filosofo di Atene ricerca un modo di governare accessibile agli uomini: viene qui posto in primo piano il problema di distinguere ma di non contrapporre il modello ideale di Stato rispetto alla condizione attuale della civiltà. «Non occorre perciò – afferma Platone – osservare altrove un modello di costituzione, ma attenersi a questo e cercare di realizzare più che sia possibile uno che a esso somigli. Lo Stato cui ora abbiamo messo mano sarà il più prossimo in qualche modo a questa vita immortale, ed è uno che appartiene al secondo grado» (Leggi, IV, 739e). Si tratterà di uno Stato lontano dal dispotismo, ma anche dalla democrazia; in esso è garantito il principio della elettività ed è proposta una equa distribuzione dei redditi, ma vi sono schiavi e stranieri con diritti ridotti e la sua direzione sarà in mano a un «consiglio notturno» composto da pochi saggi «custodi delle leggi», che devono essere rigorose e prescrittive per tutti gli aspetti della vita pubblica e privata e devono essere accettate come immutabili. Esso dovrà costituire una comunità saggiamente organizzata, retta con forza e controllata in ogni settore della vita sociale, familiare e religiosa. Nel passaggio dalla Repubblica al Politico e alle Leggi Platone modifica il suo modello ideale di Stato approfondendo la trattazione del governo di una comunità politica sulla base di un’arte plastica del governo, che poggia sulla «retta opinione», e di un riferimento sicuro a leggi immutabili, che trovano nel mondo delle idee il loro ancoraggio ultimo: si tratta di un itinerario di ricerca che testimonia l’importanza degli interessi morali e politici nell’intero arco della ricerca platonica e il rilievo della riflessione morale e politica per cogliere il quadro d’insieme della sua concezione filosofica.

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Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

Le principali edizioni moderne del Corpus sono: Plato, Platonis Opera, ed. J. Burnet, 5 voll., Clarendon Press, Oxford 1899-1905 (edizione on-line a cura del Perseus Project: ); Platon, Oeuvres complètes, 27 voll., Les Belles Lettres, Paris 1920-1960 (in corso di aggiornamento). In Italia si rinvia a: Platone, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, 9 voll., Laterza, Roma-Bari 1971; Platone, Dialoghi, a cura di F. Adorno e G. Cambiano, 4 voll., UTET, Torino 1953-1981; Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, 7 voll., Bibliopolis, Napoli 1998-2007.

Letteratura secondaria

Nella letteratura internazionale ci si limita a ricordare: O. Gigon, La teoria e i suoi problemi in Platone e Aristotele, premessa di M. Gigante, Bibliopolis, Napoli 1987; V. Hösle, I fondamenti dell’aritmetica e della geometria di Platone (1982-84), introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1994; W.D. Ross, Platone e la teoria delle idee (1951), il Mulino, Bologna 2001 (19891); A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera (1926), La Nuova Italia, Firenze 1968. Tra le opere italiane si segnalano: F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 2005 (19781); G. Cambiano, Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 1991 (19711); C. Quarta, L’utopia platonica. Il progetto politico di un grande filosofo, Dedalo, Bari 1993 (19851); G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Loffredo, Napoli 1996; M. Isnardi Parente, Il pensiero politico di Platone, Laterza, Roma-Bari 1996; G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle «Dottrine non scritte», Vita e pensiero, Milano 1997.

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Per una conoscenza diretta Le idee sono la vera causa delle cose

– Dopo ciò, egli disse, stanco com’ero di tali indagini, credetti bene guardarmi da questo, che cioè non mi capitasse come a coloro che durante una eclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa nell’acqua o in qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e temetti mi s’accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E mi parve che mi bisognasse rifugiarmi nei concetti, e considerare in essi la realtà delle cose esistenti. Sebbene forse, in certo senso, la similitudine non si addice. Perché io non posso ammettere che chi considera le cose nei loro concetti le vegga in immagine più di chi le consideri nella loro realtà. Io mi misi dunque per questa via; e, assumendo caso per caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, le cose che a codesto concetto mi parevano accordarsi, queste ritenevo come vere, sia rispetto alla causa sia rispetto a tutte le altre questioni; quelle che no, ritenevo come non vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo di dire. Perché penso che tu ora non capisca. No, disse Cebète, non troppo. – Eppure, rispose Socrate, questo che io dico non è niente di nuovo, ma quello sempre che già altre volte e anche nel precedente ragionamento non ho mai cessato di dire. E ora son qui per tentare di dimostrarti qual è questa specie di causa che mi sono costruita, e torno di nuovo a quei punti dei quali già fu discorso più volte, e ricomincio da quelli. Poniamo dunque che esista un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che esistano realmente, io ho speranza, movendo da queste, di scoprire la vera causa e di dimostrarti che l’anima è immortale. – Sta bene, disse Cebète: fa pur conto ch’io ti conceda ciò; e affretta, ti prego, le tue conclusioni. – Esamina dunque, egli disse, quello che da codesti punti consegue, se anche a te pare lo stesso che a me. A me pare infatti che, se c’è cosa bella all’infuori del bello in sé, per nessuna altra cagione sia bella e non perché partecipa di codesto bello in sé. E così dico, naturalmente, di tutte le altre cose. Consenti tu che la causa sia questa? – Consento, rispose. – E allora, riprese Socrate, io non capisco più e non posso più riconoscere le altre cause, quelle dei dotti. E se uno mi dice perché una qualunque cosa è bella, sostenendo che è bella o perché ha un colore brillante o perché ha una sua figura o comunque per altre proprietà dello stesso genere, ebbene, io tutte codeste altre cause le lascio perdere, perché in esse tutte mi confondo; e mi tengo fermo a questa mia, sia pur ella semplice e grossolana e forse sciocca: e cioè che niente altro fa sì che quella tal cosa sia bella se non la presenza o la comunanza di codesto bello in sé, o altro modo qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su questo modo, e dico solo che tutte le cose belle sono belle per il bello. E questo pare a me che sia l’argomento più sicuro per rispondere a me stesso e ad altri; e, tenendomi stretto a questo, penso che non potrò mai cadere, e che per me e per ogni altro la cosa più sicura da rispondere sia questa, che le cose belle sono belle per il bello. O non pare anche a te così? – Mi pare. Fedone, 100b-e, in Opere complete, vol. I, pp. 165-166.

Il mito della caverna

– In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora

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sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la lunghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus! rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per forza, ammise. La Repubblica, VII, 514a-515c, in Opere complete, vol. VI, pp. 237-238.

La scoperta della realtà vera e propria

– Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo, rispose. – E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È così, rispose. – Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso. – Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il

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cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. – Come no? – Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. – Per forza, disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? – Certo. – Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe «altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza», e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo? – Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo. La Repubblica, VII, 515c-516e, in Opere complete, vol. VI, pp. 238-239.

La verità del mito: i filosofi conoscono il bene e devono governare gli Stati secondo giustizia

– Ora, ripresi, se questa è la verità, dobbiamo trarne la seguente conclusione: l’educazione non è proprio come la definiscono taluni che ne fanno professione. Essi dicono che, essendo l’anima priva di scienza, sono loro che la istruiscono, come se in occhi ciechi ponessero la vista. – Lo dicono, sì, rispose. – Invece, continuai, il presente discorso vuole significare che questa facoltà insita nell’anima di ciascuno e l’organo con cui ciascuno apprende si devono staccare dal mondo della generazione e far girare attorno insieme con l’anima intera, allo stesso modo che non è possibile volgere l’occhio dalla tenebra allo splendore se non insieme con il corpo tutto; e questo si deve fare finché l’anima divenga capace di resistere alla contemplazione di ciò che è e della parte sua più splendida. In questo consiste, secondo noi, il bene. No? – Sì. – C’è dunque, feci io, un’arte apposita di volgere attorno quell’organo, e nel modo più facile ed efficace. Non è l’arte di infondervi la vista: quell’organo già la possiede, ma non è rivolto dalla parte giusta e non guarda dove dovrebbe; e a quell’arte spetta appunto di occuparsi di questa sua conversione. – Sembra di sì, rispose. – Ebbene, le altre che si dicono virtù dell’anima forse si avvicinano in certo modo a quelle del corpo. Ché realmente, anche se non vi sono dentro prima, forse vi vengono infuse più tardi dalle abitudini e dagli esercizi. Ma la virtù dell’intelligenza è propria più di ogni altra, come pare, di un elemento più divino, che non perde mai il suo potere e che, secondo come lo si rivolge, è utile e vantaggioso o inutile e dannoso. Non hai mai pensato quanto sia penetrante lo sguardo dell’animuccia propria dei cosiddetti malvagi sapienti? e quanto acutamente discerna gli oggetti cui è rivolta, appunto perché è dotata di vista non mediocre, ma è costretta a servire alla loro cattiveria sì che i mali da essa prodotti sono tanto più numerosi quanto più acuto è il suo sguardo? – Senza dubbio, rispose. – Supponiamo dunque, continuai, che, con un’operazione eseguita fin dall’infanzia, questa natura così formata fosse amputata tutto intorno

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di quella sorta di masse plumbee che appartengono al mondo della generazione e che le stanno attaccate addosso con gli alimenti, i piaceri e simili golosità, tutte cose che fanno volgere in giù lo sguardo dell’anima. Se ne fosse stata liberata e fosse stata volta alle cose vere, questa medesima natura, di questi medesimi uomini, avrebbe potuto vedere anche quelle, così come vede gli oggetti ai quali è rivolta ora, assai acutamente. – È ben naturale, rispose. – E non è naturale, ripresi, anzi non è conseguenza necessaria delle nostre parole che né le persone non educate e inesperte del vero né quelle cui si è permesso di consacrare tutta la vita all’educazione potranno mai amministrare bene uno stato? quelle perché nella loro vita mancano di una mèta cui mirare compiendo tutte le loro azioni private e pubbliche, queste perché non le compiranno spontaneamente, convinte di abitare ancora da vive nelle isole dei beati? – È vero, rispose. – È dunque cómpito nostro, dissi, cómpito proprio dei fondatori, quello di costringere le migliori nature ad accostarsi a quella disciplina che prima abbiamo definita la massima, vedere il bene e fare quell’ascesa. E quando sono salite e l’hanno visto pienamente, non dobbiamo permettere loro ciò che si permette ora. – Che cosa? – Rimanere colà, feci io, senza voler ridiscendere presso quei prigionieri e partecipare delle fatiche e degli onori del loro mondo, a prescindere dalla minore o maggiore loro importanza. – Ma, rispose, dovremo veramente fare ingiustizia a queste nature e farle vivere peggio, quando possono vivere meglio? – Ti sei dimenticato di nuovo, mio caro, replicai, che alla legge non interessa che una sola classe dello stato si trovi in una condizione particolarmente favorevole. Essa cerca di realizzare questo risultato nello stato tutto: armonizza tra loro i cittadini persuadendoli e costringendoli, fa che si scambino i vantaggi che i singoli sappiano procurare alla comunità; e creando nello stato simili individui, la legge stessa non lo fa per lasciarli volgere dove ciascuno voglia, ma per valersene essa stessa a cementare la compattezza dello stato. – È vero, rispose; me ne sono dimenticato. – Considera poi, Glaucone, continuai, che non faremo torto nemmeno a quelli che nel nostro stato nascono filosofi; ma che saranno giuste le cose che loro diremo costringendoli a curare e custodire gli altri. Parleremo così: coloro che nascono filosofi negli altri stati, è naturale che non partecipino alle fatiche politiche, perché sorgono spontanei, indipendentemente dalla costituzione dei singoli stati; e ciò che è spontaneo, non dovendo il nutrimento ad alcuno, è giusto che non si senta spinto a pagare ad alcuno le spese. Voi però, vi abbiamo generato per voi stessi e per il resto dello stato, come negli sciami i capi e i re; avete avuto educazione migliore e più perfetta che non quegli altri filosofi, e maggiore attitudine a svolgere ambedue le attività. Ciascuno deve dunque, a turno, discendere nella dimora comune agli altri e abituarsi a contemplare quegli oggetti tenebrosi. Abituandovi, vedrete infinitamente meglio di quelli laggiù e conoscerete quali siano le singole visioni, e quali i loro oggetti, perché avrete veduto la verità sul bello, sul giusto e sul bene. E così per noi e per voi l’amministrazione dello stato sarà una realtà, non un sogno, come invece oggi avviene nella maggioranza degli stati, amministrati da persone che si battono fra loro per ombre e si disputano il potere, come se fosse un grande bene. La verità è questa: lo stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato in modo opposto. La Repubblica, VII, 517a-520d, in Opere complete, vol. VI, pp. 240-243.

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Superiorità e caratteri del metodo dialettico

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– Ebbene, dissi io, il metodo dialettico è il solo a procedere per questa via, eliminando le ipotesi, verso il principio stesso, per confermare le proprie conclusioni; e pian piano trae e guida in alto l’occhio dell’anima, realmente sepolto in una specie di barbarica melma, valendosi dell’assistenza e della collaborazione di quelle arti che abbiamo considerate, arti che spesso abbiamo chiamate scienze, conforme all’uso, ma cui dobbiamo dare un nome diverso, più fulgido di «opinione», più oscuro di «scienza». Prima abbiamo usato per esse la definizione di «pensiero dianoetico», ma, a mio avviso, chi ha dinanzi un’indagine di problemi tanto importanti quanto i nostri non disputa sul nome. – No davvero, rispose, ma quel «nome» che solamente faccia conoscere la condizione dell’anima, è espressione chiara. – Dunque va bene, dissi, chiamare, come s’è fatto prima, scienza la prima frazione, pensiero dianoetico la seconda, credenza la terza e immaginazione la quarta; e queste due ultime insieme opinione e le altre due insieme intellezione; e va bene dire che l’opinione ha per oggetto la generazione, l’intellezione l’essenza, e che l’intellezione sta all’opinione come l’essenza alla generazione, e la scienza sta alla credenza e il pensiero dianoetico all’immaginazione come l’intellezione all’opinione. La Repubblica, VII, 531c-534a, in Opere complete, vol. VI, pp. 255-258.

Capitolo 2 Aristotele Gaspare Polizzi

1. La vita e le opere 1.1 Biografia Aristotele nasce a Stagira, piccola località ionica della Calcidica, nel 384 a.C. da una famiglia benestante: il padre, Nicomaco, è stato medico presso il re Filippo di Macedonia. Nel 367 a.C. si reca ad Atene per completare i suoi studi ed entra nell’Accademia di Platone, dove rimarrà vent’anni, fino all’anno della morte del maestro (347 a.C.), seguendo prima il difficile curricolo di studi matematici e filosofici e divenendo quindi uno degli assistenti più apprezzati di Platone nell’insegnamento. È un periodo decisivo per la formazione di Aristotele che acquisisce una vastissima cultura enciclopedica e sviluppa anche una propria indagine filosofica, già parzialmente in contrasto con quella di Platone. Dopo la morte di Platone per Aristotele la permanenza ad Atene e nell’Accademia diviene difficile: da un lato non ha da straniero diritti politici e viene considerato filomacedone, dall’altro non è in linea con le posizioni della scuola, che segue l’ortodosso insegnamento del maestro. Si reca ad Asso, presso l’amico Ermia, signore della città e conoscitore della filosofia platonica, nella speranza di potervi fondare una propria scuola, dedita agli studi naturalistici. La potrà costituire però soltanto a Mitilene, dove si trasferisce nel 345 a.C. e inizia ad avere allievi e collaboratori, tra i quali spicca Teofrasto di Ereso (372-287 a.C.), che gli sarà sempre vicino e gli succederà nella direzione della scuola. Una svolta imprevista e molto favorevole tocca la vita di Aristotele nel 343 a.C., quando Filippo re di Macedonia lo chiama alla sua corte per fare il precettore del figlio tredicenne Alessandro; Aristotele per tre anni sarà il maestro di Alessandro e ciò gli consentirà non soltanto l’agiatezza, ma anche la protezione del più grande imperatore del suo tempo. Quando nel

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335 a.C. Aristotele ritornerà ad Atene, sotto l’egida di Alessandro signore di tutta la Grecia, potrà riprendere le sue ricerche e il suo insegnamento e fondare una grande scuola in concorrenza con l’Accademia, il Liceo. La massima affermazione del ruolo di Aristotele ad Atene durerà dodici anni: quando nel 323 a.C. Alessandro muore e prevale il partito antimacedone, Aristotele preferirà abbandonare la città e si trasferirà nella casa della madre, a Calcide nell’Eubea, dove morirà l’anno dopo (322 a.C.).

1.2 Le opere Aristotele ha lasciato molti scritti. Alcuni, come per Platone, erano rivolti a un largo pubblico e si presentavano nella forma del dialogo filosofico (come Grillo, Eudemo, Della filosofia) o dello scritto esortativo (come il Protreptico, uno scritto molto noto nell’Antichità che invitava allo studio della filosofia), che furono noti fino al I secolo a.C., ma dei quali ci rimangono oggi soltanto alcuni titoli e frammenti. Altri erano legati all’attività d’insegnamento e – a eccezione di quelli di logica, etica e politica – non erano stati ordinati per una lettura pubblica. La loro storia costituisce «un singolare naufragio letterario»: dopo la morte di Teofrasto questi scritti, insieme alla biblioteca personale di Aristotele, furono portati da un allievo, Neleo, nella sua città, a Scepsi, nella Triade, e se ne persero le tracce. Soltanto intorno all’anno 100 a.C. i manoscritti di Aristotele furono trovati e portati prima ad Atene, poi a Roma nell’anno 86 a.C. con il bottino di Silla; il grammatico Andronico di Rodi (i sec. a.C.) lì ordinò nel Corpus aristotelicum secondo un criterio sistematico che verrà assunto come definitivo dai posteri. Il Corpus di Andronico fornisce un’immagine «scientifica» dell’aristotelismo, ed è distinto in cinque gruppi di scritti di logica, fisica, metafisica, etica e politica, retorica e poetica. Il primo gruppo è costituito dai sei scritti di logica, denominati Órganon («strumento»): Categorie, Dell’espressione, Primi analitici, Secondi analitici, Topici, Confutazioni sofistiche. Il secondo gruppo raccoglie scritti di fisica, scienze naturali, psicologia: Fisica, Del cielo, Della generazione e della corruzione, Dell’anima, Parva naturalia, Parti degli animali, Riproduzione degli animali, Storia degli animali, Sul movimento degli animali, Sulle meteore. Il terzo gruppo contiene i quattordici libri della Metafisica, posti dopo le opere di «fisica» e ordinati da Andronico con il titolo: tà metà tà physiká (biblía) «i (libri) che vengono dopo quelli di fisica». Il quarto gruppo comprende libri di etica e di politica: Etica nicomachea, Grande etica, Etica eudemia, Politica, Trattato sull’economia. Il quinto gruppo consiste delle due opere Retorica e Poetica. L’edizione del Corpus aristotelicum ha reso nota nel mondo romano e poi nella cultura medievale la filosofia di Aristotele, facendo dimenticare gli

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scritti destinati al pubblico, che non sono arrivati fino a noi. È così emersa un’immagine del pensiero aristotelico sistematica ed enciclopedica, divergente rispetto al carattere aperto e incompiuto di gran parte degli scritti del Corpus, fortemente connessi all’insegnamento. Aristotele giustificava in essi le proprie posizioni, ponendole in rapporto con le concezioni degli altri pensatori, fornendo esempi, stabilendo distinzioni e prevedendo obiezioni che venivano adeguatamente confutate.

1.3 Il contesto culturale e le differenze con Platone Il contesto culturale nel quale si colloca l’opera aristotelica è profondamente diverso da quello platonico: è scomparsa l’autonomia delle póleis e con essa si è molto ridimensionata la centralità del problema politico. Già nell’Accademia di Platone aveva preso forma una comunità di ricerca che guardava al primato della conoscenza, alla contemplazione delle idee, come fine supremo del filosofo. L’impegno in una scuola che trasmette il sapere richiede competenze precise e ben definite e tocca al filosofo che si fa anche insegnante delimitare e approfondire i diversi settori del sapere cercando anche i criteri e il metodo per pervenire a nuove conoscenze, che assumano il carattere di universalità e compiutezza già indicato da Platone nella sua teoria delle idee. Aristotele aveva appreso nell’Accademia che la conoscenza non può che allontanare dal relativismo e condurre, come in Platone, a una verità assoluta ed eterna e rimane fedele a una visione che riconosce in un ordine di valori e di princìpi immutabile il fondamento di tutto ciò che cambia nel mondo sensibile. Tuttavia, diversamente da Platone, Aristotele critica la teoria delle idee, in quanto sostiene l’esistenza di una sola realtà, quella delle cose sensibili e del mondo del divenire, rispetto alla quale bisogna ricercare la sola verità che spieghi l’essenza del mondo, la struttura del reale, in tutte le sue articolazioni, mantenendo inalterata la sua varietà. Le forme eterne che conducono a una conoscenza vera del mondo non vanno cercate in un improbabile iperuranio, ma nello stesso mondo sensibile, nell’unico mondo reale. È necessario quindi un impegno ‘scientifico’, un consistente sforzo osservativo e metodologico, che consenta di raccogliere e classificare una gran mole di dati, di descrivere accuratamente i problemi, di costruire un nuovo linguaggio univoco e rigoroso. L’esperienza (empeiría) va unita con l’osservazione teorica (theoría), in un metodo generale che permetta la conoscenza e la scienza. Platone ha sbagliato a intendere le idee separatamente dalle cose; egli – sostiene Aristotele con una critica che riecheggia nel Parmenide, – raddoppia così gli enti, perché pone accanto alle cose sensibili gli oggetti ideali. Se si abbandona la concezione delle idee trascendenti si possono rintracciare nello stesso mondo sensibile le forme immanenti che ne costituiscono il fondamento univoco e vero. All’interpretazione trascen-

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dente delle verità ideali eterne proposta da Platone Aristotele oppone una visione immanente e realista della verità: le idee esistono nella natura e sono immanenti nelle cose del mondo. Esse possono essere conosciute dalla ragione, tramite le scienze, e la «filosofia prima» permette di individuare i princìpi fondamentali delle scienze e le verità più elevate dalle quali scaturisce ogni sapere. Tuttavia se l’orizzonte teorico di riferimento di Aristotele diverge nettamente da quello di Platone – realismo e immanentismo contro idealismo e trascendentismo – simile appare quello dei problemi: • se esistono, come si configurano gli éide, modelli eterni e formali che danno senso alla realtà in divenire dei corpi? • qual è il ruolo della filosofia nella indicazione della via che conduce alla verità? • qual è il ruolo conoscitivo dell’intelletto? • la natura è orientata verso un fine superiore che si identifica con il Bene? Aristotele esprime dunque, di fronte a Platone, un medesimo orizzonte problematico segnato da una diversa e in un certo senso opposta prospettiva interpretativa. Anche per Aristotele la filosofia possiede un ruolo fondativo e superiore, anche se – a differenza di Platone – il filosofo di Stagira non riconosce più la centralità del nesso fra dimensione morale, politica e conoscitiva. Prevale ora la funzione «pura» della conoscenza, motivata da un desiderio naturale che è per Aristotele alla radice della condizione umana: «Tutti gli uomini sono protesi per natura alla conoscenza» (Metafisica, I (A), 1, 980a) e la meraviglia li ha spinti verso la filosofia, liberandoli dal loro primitivo stato animalesco («Gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto»; Metafisica, I (A), 1, 982b). Dalla dimensione naturale bisogna tuttavia passare a una preparazione attenta e approfondita che comporta la specializzazione del sapere, la filosofia dirigerà tale tendenza alla conoscenza completa e specializzata di tutta la realtà.

2. Un’enciclopedia del sapere La filosofia di Aristotele ordinata nella forma datale da Andronico di Rodi si presenta come un’enciclopedia del sapere antico che descrive ogni aspetto della realtà naturale e umana in un quadro scientifico organico e rigoroso articolato nelle cinque parti del corpus: l’òrganon, ovvero lo «strumento», che raccoglie gli scritti che studiano gli strumenti logici e linguistici, che descrivono le forme del ragionamento e ne rendono possi-

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bile l’uso corretto; gli scritti di fisica, che si soffermano su tutti i fenomeni della natura; gli scritti di «metafisica», la sezione più filosofica del corpus, che stabilisce i principi fondamentali dell’essere e della conoscenza; gli scritti di etica e politica, e quelli di retorica e poetica. L’articolazione presenta un suo ordine gerarchico che distingue tre gruppi di scienze. Le scienze teoretiche studiano la realtà nella sua essenza, l’essere necessario; esse sono la «filosofia prima», che studia l’essere in quanto essere e dopo la sistemazione di Andronico si è chiamata correntemente metafisica, la «filosofia seconda» o fisica, che studia l’essere dal punto di vista del mutamento, e la matematica, che studia l’essere dal punto di vista della numero e della misura. Le scienze pratiche hanno per oggetto l’essere possibile, ciò che può essere e non essere, come le azioni umane, individuali (etica) e collettive (politica). Le scienze poetiche studiano l’essere come prodotto, come esito del poiéin («fare con arte»), come nel caso delle arti letterarie e delle tecniche del linguaggio. È evidente che in tale gerarchia assumono un rilievo particolare le scienze teoretiche e tra di esse la metafisica, oltre all’òrganon degli scritti logici che possiede un’essenziale funzione strumentale. Su questi aspetti ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. Intendiamo ora indicare qualche tratto della dimensione pratica del pensiero aristotelico che continua ad assumere grande rilievo attuale. Alle scienze pratiche, che riguardano l’essere possibile, ciò che può e non può accadere (il termine tecnico è «accidente»), Aristotele destina la descrizione e lo studio delle azioni volontarie degli uomini, senza prevedere una netta separazione tra etica e politica, in un orizzonte – quello delle póleis greche – nel quale ancora gli uomini erano innanzitutto cittadini. All’azione degli individui sono dedicate le opere di etica, la più rilevante delle quali è l’Etica Nicomachea; alla vita associata è dedicata la Politica. Come per ogni scienza o settore della conoscenza, Aristotele si sofferma innanzitutto sui principi che lo orientano, ovvero sui suoi fini. Il fine primario e ultimo dell’etica, verso il quale tendono tutti gli uomini in quanto tali è la felicità, chiamata «eudaimonìa» («lo stare con un buon demone», ovvero trovarsi in uno stato di benessere superiore). Ma al di là delle opinioni degli uomini bisogna ritrovare la vera felicità, che risponde all’essenza dell’uomo stesso. E poiché ciò che differenzia l’uomo dagli altri animali è la ragione, la felicità umana consiste nell’attività intellettuale, che realizza la virtù razionale per eccellenza. La virtù razionale si pone al culmine delle azioni umane, orientate anche dai sensi e dalle passioni, che possono risolversi in comportamenti virtuosi. Come e più che per le altre forme di conoscenza Aristotele espone, spiega e distingue, senza prescrivere norme e comportamenti ideali, che non possono valere per un essere possibile qual è l’uomo. La distinzione principale riguarda le «virtù etiche», che legano la parte razionale del-

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l’anima con quella sensibile, e le «virtù dianoetiche», che concernono la ragione in quanto tale (diánoia, «pensiero, riflessione»). Le virtù etiche consentono di controllare e regolare gli istinti e sono il prodotto dell’esercizio, che si trasforma in abitudine. Soltanto delle azioni volontarie e ripetute possono costruire un abito di comportamento, nel rispetto del principio del «giusto mezzo» tra due eccessi, che risalta in tutta la cultura greca, a partire dai pitagorici. Un posto di rilievo tra le virtù etiche occupa la giustizia, nella quale l’azione degli individui converge per il bene della città; essa consiste in un’equa proporzione, distributiva, quando si distribuiscono beni o onori in proporzione al merito, e commutativa, quando si scambia una pena con una colpa. Aristotele valorizza, come Platone, la funzione della giustizia, anche se la inserisce tra le virtù etiche e non le attribuisce quel ruolo ideale, fondamentale per la vita individuale e collettiva proposto nella Repubblica. Un’altra virtù etica molto importante per Aristotele, come anche per Platone, è l’amicizia, alla quale sono dedicati i libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea, nella più ampia discussione filosofica del mondo antico: l’amicizia autentica e durevole è rivolta esclusivamente al bene dell’amico. Le virtù dianoetiche, puramente razionali, sono presenti negli uomini che raggiungono l’eudaimonìa. Esse sono cinque: l’arte o tecnica (il termine greco «tèchne» significa sia «arte» che «tecnica»), «una disposizione creativa accompagnata da ragione» (Etica Nicomachea, VI (Z), 4, 1140a), la saggezza, «una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e male per l’uomo» (Etica Nicomachea, VI (Z), 4, 1140b), la scienza, la conoscenza di ciò che è necessario (come nel caso delle scienze teoretiche), l’intelletto, il «noùs», che intuisce i princìpi primi di ogni scienza, e infine la sapienza che unisce insieme scienza e intelletto («La sapienza è insieme scienza e intelletto delle cose più eccelse per natura»; Etica Nicomachea, VI (Z), 7, 1141b), il grado più alto della conoscenza, in quanto richiede insieme la conoscenza dimostrativa e quella dei primi princìpi da cui essa scaturisce. Va osservato che Aristotele distingue la saggezza, «phrònesis», che comporta la capacità di orientare razionalmente l’azione distinguendo il bene dal male, dalla sapienza, «sophìa», virtù teoretica che unisce scienza e intelletto pervenendo alle conoscenze più elevate. Soltanto quest’ultima virtù può condurre alla vera felicità, con la conoscenza di tutte le scienze e la contemplazione dei princìpi primi di tutta la realtà. L’affermazione del valore superiore della vita contemplativa, che possiede «qualcosa di divino», si presenta come esito ultimo della via della ricerca intrapresa da Socrate e da Platone: il primo si era soffermato sul ruolo del dialogo nella sua apertura e incompiutezza, il secondo aveva orientato la conoscenza delle idee alla vita pratica e politica, mentre Aristotele guarda alla vita teoretica in se stessa, come valore supremo e incondizionato.

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Ma naturalmente non è necessario arrivare alla sapienza per essere felici, in quanto ciascun individuo potrà raggiungere la felicità che gli è propria cercando di produrre un comportamento virtuoso in relazione al proprio carattere e alle proprie inclinazioni. Anche per Aristotele la vita virtuosa si inquadra nella prospettiva del bene collettivo, pone il problema dello Stato giusto, discusso nella Politica. Se gli uomini vivono in società per la loro natura, che li rende bisognosi gli uni degli altri, bisogna descrivere i diversi caratteri dello Stato e individuare le possibili forme costituzionali; tre – la monarchia, l’aristocrazia, la «politía» (politéia «costituzione democratica») tendono al bene comune; altre tre – la tirannide, l’oligarchia, la democrazia (che ha il significato negativo di governo per l’interesse dei molti) – sono degenerazioni delle buone costituzioni, perché poggiano sull’interesse di una parte della popolazione (anche se maggioritaria, come nel caso della democrazia) e non di tutti. Ciascuno Stato dovrà trovare la forma costituzionale che meglio risponde alla sua realtà storica e sociale; non vi è quindi – come in Platone – un modello di Stato ideale, anche se nella concreta realtà greca la «politía», via di mezzo tra l’oligarchia e la democrazia ed espressione della classe media, rappresenta la forma migliore di costituzione. In polemica con Platone, Aristotele riconosce le differenze tra gli Stati e la necessità di seguire anche nella politica come nell’etica il «giusto mezzo». In definitiva, l’obiettivo descrittivo di Aristotele intende presentare la realtà in tutti i suoi aspetti, mettendo in atto un’idea della filosofia come lavoro collettivo, che si avvale di competenze diverse radicate nelle singole scienze e tiene conto di quanto è stato ricercato e scoperto dai saggi del passato come anche delle opinioni correnti condivise da tutti, per sistemarle in un quadro coerente e ordinato che avvii in ogni settore un progresso della conoscenza. In tal senso si può sostenere che Aristotele è il primo sapiente greco che avvia un dialogo con la tradizione conoscitiva che lo ha preceduto per orientare la propria ricerca in vista del bene comune e in un consapevole processo di accumulo culturale e scientifico.

3. La logica Gli scritti di logica – il termine usato da Aristotele fu quello di «analitica» (análysis = «risoluzione») – permettono il possesso degli strumenti dell’argomentazione e del discorso scientifico. Aristotele pone con essi le basi per la «logica formale», l’analisi delle forme del linguaggio e del discorso, indipendenti dai contenuti specifici, soffermandosi in particolare sul ragionamento proprio delle scienze. L’interesse di Aristotele per la logica formale è connesso alla tradizione platonica del dialogo socratico e allo sviluppo del ragionamento matematico.

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Anche in questo contesto la successione degli scritti logici presenta un ordine significativo. Con le Categorie si analizzano gli elementi costitutivi del linguaggio; esse sono – secondo Aristotele – dieci predicati che possono consentire qualsivoglia giudizio, costituiscono i «generi ultimi» a partire dai quali si possono ridurre tutti i termini di una frase: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, essere in una situazione, avere, agire, patire. La prima categoria, la sostanza, ha un valore fondamentale, esprime il «soggetto» della proposizione e permette di articolare i giudizi che utilizzano le altre categorie. Aristotele passa quindi in Dell’espressione a descrivere come i termini si mettono insieme in una frase per formare un giudizio. Per arrivare a una definizione, «il discorso che esprime la sostanza delle cose», vanno posti in relazione l’universale e il particolare, le categorie (generi sommi) vanno attribuite agli enti particolari (individui). Le categorie da sole sono indefinibili come gli individui, perché ogni individuo è differente dall’altro. Le proposizioni esprimono tutte le possibili definizioni tra categorie e individui, utilizzando il «genere prossimo» e introducendo la «differenza specifica», che permette di distinguere il genere in questione da quello vicino: se, per esempio, intendiamo definire «uomo», dobbiamo riconoscere il genere prossimo, «animale», e aggiungervi la differenza specifica «razionale» e arriveremo così ad affermare «l’uomo è un animale razionale». Aristotele si limita alle frasi dichiarative e pone il problema della verità o falsità dei giudizi, le forme più elementari di conoscenza: i termini da soli «uomo» e «bianco» non sono né veri, né falsi, ma la frase «quell’uomo è bianco» può essere vera o falsa. Considerando l’aspetto della qualità i giudizi sono «affermativi» o «negativi», affermano o negano qualcosa di qualcos’altro, mentre riguardo alla quantità i giudizi possono essere universali («tutti gli uomini sono bianchi» e «tutti gli uomini non sono bianchi»), individuali («Callia è bianco» e «Callia non è bianco») e particolari («qualche uomo è bianco» e «qualche uomo non è bianco»). Infine rispetto alla modalità i giudizi possono essere necessari o possibili, anche se Aristotele si sofferma sui primi, propri della scienza. L’aspetto più rilevante della logica aristotelica è costituito dalla teoria del sillogismo (da syn «con», «insieme» e lógos «discorso»: «discorso congiunto insieme»), presentata nei Primi e nei Secondi analitici. Il ragionamento vero e proprio, il sillogismo, unisce insieme in un rapporto consequenziale più proposizioni. Il sillogismo perfetto è quello dimostrativo che regge il ragionamento scientifico. Esso è costituito – nella sua forma più nota e più perfetta (sillogismo di prima figura, ovvero universale e affermativo) – da tre proposizioni, due premesse e una conclusione, unite in modo coerente. Nel sillogismo «Se tutti gli esseri viventi sono mortali, e se tutti gli uomini sono esseri viventi, tutti gli uomini sono mortali» la premessa maggiore – «tutti gli esseri

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viventi sono mortali» – contiene il «termine maggiore», che farà da predicato nella conclusione «mortali»), mentre nella premessa minore – «tutti gli uomini sono esseri viventi» – compare il «termine minore» «uomini», che sarà il soggetto della conclusione; il termine che unisce le due premesse, rendendo possibile la conclusione è il «termine medio» «esseri viventi». Nella trattazione dei sillogismi non è valutata la verità o la falsità del ragionamento, ma la sua coerenza e consequenzialità. La questione della verità di un sillogismo rinvia a quella della verità delle premesse: se è vero che «tutti gli esseri viventi sono mortali» e che «tutti gli uomini sono esseri viventi», sarà vero di conseguenza che «tutti gli uomini sono mortali». La verità di un sillogismo scientifico richiede che le premesse siano verità universali. Per accertarsene Aristotele propone due criteri metodologici: l’induzione e l’intuizione. L’induzione consiste in un processo di astrazione che conduce dal particolare all’universale, mentre l’intuizione è la comprensione immediata dei princìpi primi. Ciascuna scienza poggia su alcuni princìpi primi (come il numero per l’aritmetica) e su un certo numero di assiomi (un assioma dell’aritmetica è «se da oggetti eguali si sottraggono rispettivamente oggetti eguali, gli oggetti rimanenti sono eguali»; Secondi analitici, i (A), 10, 76a). Più in alto vi sono alcuni assiomi comuni a tutte le scienze, princìpi primi generalissimi e indimostrabili senza i quali non potrebbe esserci nessuna forma di pensiero. Aristotele ne individua tre: il principio di identità – ogni cosa è uguale a se stessa –, il principio di non contraddizione – «è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione» (Metafisica, iv (Γ), 3, 1005b) e il principio del terzo escluso – in riferimento a un qualunque oggetto, un predicato può essere affermato oppure negato, non c’è una terza soluzione. Tali princìpi sono formalizzabili nel modo seguente: A=A (identità); se A è B, A è B o non B (non contraddizione); A non è non B (terzo escluso). Essi non costituiscono per Aristotele soltanto i principi di ogni possibile discorso, ma le forme stesse della realtà: principio di identità, di non contraddizione e terzo escluso sono aspetti costituitivi di ogni realtà, riguardano l’ontologia allo stesso modo della logica. Gli ultimi due libri dell’Organon, i Topici e le Confutazioni sofistiche esaminano i sillogismi che muovono da premesse probabili, chiamati «dialettici» (nei Topici) e forme scorrette di sillogismo usate dai sofisti, i «paralogismi» (nelle Confutazioni sofistiche). L’Organon propone il primo quadro completo della ricerca logica definendo le condizioni universali del ragionamento e aprendo la strada a quella conoscenza vera dell’essenza delle cose che verrà esaminata nella metafisica.

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4. La metafisica Nei quattordici trattati raccolti sotto il titolo Metafisica, è racchiusa la «filosofia prima» che per Aristotele costituisce il fondamento di tutto il sapere e studia la realtà in quanto tale, l’essere in quanto essere, le cause e i princìpi primi del mondo, la sostanza celata nelle apparenze dei fenomeni e Dio, sostanza immobile. L’opera non è il risultato di un disegno unitario ed è utile elencare succintamente il contenuto di alcuni suoi libri, che sono stati suddivisi tramite le lettere dell’alfabeto greco. Nei primi libri, a carattere introduttivo, Aristotele presenta una ricognizione storica relativa alla ricerca delle cause della realtà (libro Α), discutendo le precedenti concezioni filosofiche, con particolare attenzione per la teoria delle idee di Platone; si tratta di una prima «storia della filosofia», che dimostra l’impegno di Aristotele nel discutere e criticare le teorie a lui precedenti. Si trova qui (libro Β) anche un’introduzione sui problemi fondamentali della «filosofia prima». I sei libri dal IV al IX sono dedicati specificamente alla «filosofia prima»: il libro Γ definisce l’oggetto e gli assiomi generali della metafisica; il libro ∆ è un vero e proprio lessico della filosofia aristotelica; i libri Ζ, Η e Θ affrontano in modo lineare i problemi relativi all’esserein-quanto-essere, alla sostanza e al rapporto tra atto e potenza. Vi sono poi alcuni libri (Ι, Μ, Ν) che discutono criticamente le teorie platoniche, fornendo anche il principale riferimento per lo studio delle cosiddette «dottrine non scritte» di Platone. Particolare rilievo infine assume il libro XII (Λ), tra i più antichi, che ha per oggetto la ricerca sui primi princìpi dell’essere e del movimento e su Dio, sostanza immobile ed eterna. La metafisica costituisce la realizzazione più elevata dell’esigenza naturale degli uomini alla conoscenza di quella originaria aspirazione al sapere prodotta dalla meraviglia. Aristotele vede in questa funzione, insieme naturale e altamente razionale, la motivazione profonda della filosofia, che viene svincolata dalle contingenze storiche e politiche per assumere una pura finalità conoscitiva. La metafisica studia l’essere in quanto tale, e l’essere svincolato dai suoi attributi particolari non è altro che l’insieme degli enti del mondo, cose, animali, uomini: la domanda «cosa è l’essere» esige la risposta «l’essere si dice in molti modi», molti sono i significati e i modi in cui si presenta e che saranno oggetto di una scienza dell’essere in quanto tale. Questa scienza, la metafisica, studierà gli esseri-in-quanto-esseri interrogandosi sul loro principio e sulla loro causa, ovvero sulla loro sostanza (ousía «essenza»). La domanda «cosa è l’essere» si trasforma quindi in quella «che cosa è la sostanza? (giacché proprio questa sostanza alcuni sostengono che è una, altri che è molteplice, e alcuni parlano di un numero finito di sostanze, altri di un numero infinito)». La sostanza non può però risolversi nella prospettiva realista di Aristotele nell’universale o nei generi sommi, le «idee» eterne, immutabili e trascendenti di Platone, essa è sempre l’essenza, il sostrato di un essere

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individuale, di un ente particolare. E nel mondo sensibile essa è composta inscindibilmente di materia e di forma (Aristotele riprende il termine platonico éidos): l’intima natura di una cosa, ciò che fa sì che una cosa sia quello che è, la sua «essenza», viene individuato dalla metafisica nella sostanza, che non si identifica con una singola cosa ma rimane immutabile in rapporto al mutamento della cosa particolare (l’essenza della pietra o dell’uomo, ciò che fa sì che una pietra o un uomo siano riconosciuti come tali, non muta mentre la singola pietra o il singolo uomo sono destinati a dissolversi). La sostanza quindi si può definire come materia, «sostrato» (in greco hypokéimenon), il sostrato materiale senza il quale una qualunque cosa non sarebbe tale; come forma, essenza intima natura di una cosa per cui essa è quella che è; come insieme determinato e concreto di materia e forma, «sinolo» (tò synolon, «tutto insieme, intero, l’insieme»). L’oggetto della metafisica, l’essere-in-quanto-essere, si risolve dunque innanzitutto nella teoria della sostanza, che ne riconosce la sua essenza, ma non si esaurisce in essa. La sostanza stessa viene distinta da Aristotele in una sostanza «prima», che si identifica con il tòde tí, l’individuo nella sua singolarità indefinibile, e una sostanza «seconda», la sostanza espressa nel giudizio, quando si afferma che «questo è un uomo». Bisognerà studiare anche gli aspetti accidentali dell’essere, che non investono la sua essenza. Va inoltre individuato il criterio di verità che ci consente di dire che una cosa è quella che è: per Aristotele la verità dell’essere coincide con la sua realtà, la verità della frase «la neve è bianca» è tale se in realtà la neve è bianca. Infine va esaminato l’aspetto, delicato, relativo al mutamento, va spiegato come una cosa muta pur rimanendo stabile la sua essenza, il divenire del mondo deve essere spiegato pervenendo a una verità stabile e univoca e senza cadere nel relativismo. A tal proposito Aristotele elabora la teoria della potenza e dell’atto. Ciascun ente, ciascuna cosa, può presentarsi in potenza o in atto, secondo la potenzialità della sua sostanza: un uomo che ha gli occhi chiusi «può» vedere; secondo la realizzazione della sua sostanza un uomo che sta vedendo possiede in atto la sua potenzialità di vedere. Aristotele distingue le modalità diverse del rapporto tra la potenza e l’atto per spiegare il divenire delle cose e assegna la priorità dell’atto sulla potenza, in relazione al concetto (il concetto di «gallina» ha priorità logica rispetto a quello di «pulcino»), in relazione al tempo per quanto riguarda la specie (un uovo ha avuto origine da una gallina), in relazione all’essere, alla sostanza (la gallina rappresenta il fine del mutamento sostanziale del pulcino). Soltanto nel caso della cronologia dell’essere individuale prevale la potenza rispetto all’atto (il singolo pulcino precede nel tempo la singola gallina). La comprensione completa del mutamento non è più oggetto della metafisica, ma della fisica, che studia l’essere in quanto movimento; essa richiede lo studio degli enti naturali – gli animali, le piante e i quattro composti elementari (terra, fuoco, aria, acqua) – la cui differenza «so-

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stanziale» rispetto a quelli artificiali consiste nel fatto che i primi hanno in se stessi «il principio del movimento e della quiete». Aristotele distingue quattro forme di mutamento: il mutamento secondo la qualità, che consiste nell’alterazione (per esempio, in Socrate, il diventare canuto); quello secondo la quantità, che si rintraccia nell’aumento e nella diminuzione (sempre in Socrate, il diventare più grasso); quello secondo il luogo, che consiste nel movimento vero e proprio di traslazione (lo spostarsi da un luogo a un altro); il mutamento sostanziale, che comporta la generazione e la corruzione, ovvero il passaggio dalla potenza all’atto. La spiegazione del mutamento naturale richiede la teoria delle quattro cause: la conoscenza del mondo naturale esige l’indagine accurata sulle cause del mutamento e, quindi, si risolve nella ricerca delle cause (aitía) delle cose. In questo contesto Aristotele distingue quattro forme di causalità. La causa materiale consiste della materia della quale è composta una cosa (il bronzo è «causa materiale» della statua). La causa formale è la forma o il concetto che fa sì che una cosa sia quello che è (una casa è tale perché risponde al concetto di casa). La causa efficiente è ciò che dà origine a un cambiamento, sia esso un fatto fisico che determini un altro fatto fisico (il movimento di una pietra mette in moto altre pietre), sia un essere vivente che generi un altro essere vivente (il padre è causa efficiente del figlio), sia un uomo che costruisce un oggetto (il falegname costruisce il tavolo). E infine la causa finale, il fine per il quale qualcosa muta (la causa finale del passeggiare è la salute). Con la teoria delle quattro cause Aristotele completa la propria spiegazione metafisica del mondo sensibile e del suo mutamento. Le prime due cause (materiale e formale) spiegano la struttura delle cose, il modo in cui le cose sono fatte, le altre due cause (efficiente e finale) danno ragione del mutamento delle cose. La causa più rilevante nell’ordine del mondo è quella finale. Tutto ciò che avviene nel mondo deve accadere in vista di un fine. Ogni essere naturale si sviluppa per un suo fine intrinseco, che richiede che vi sia un progetto finalizzato che costituisce la legge dell’organismo. Negare la finalità equivale a negare la natura: Aristotele insiste nel valorizzare una prospettiva finalistica che rende conto della finalità dell’universo a partire dal fine interno di ogni essere vivente. Se ogni cosa passa dalla potenza all’atto per realizzare il suo fine e poiché tale processo non può essere infinito, si dovrà pensare a un fine ultimo di tutte le cose, a un atto puro. È questo l’ultimo aspetto della ricerca metafisica, al quale è dedicato il libro XII della Metafisica: Aristotele cerca di dare un senso alla finalità della natura, introducendo una «teologia» che poggia su una concezione di Dio come sostanza immobile. Aristotele sostiene che gli enti del mondo sensibile possono essere o non essere: «Ciò che ha la potenza di essere può essere ed anche non-essere». Se si riconosce – come si è visto – che l’atto precede la potenza e non si accetta

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che tale processo si svolga all’infinito, se ne desume che niente esisterebbe se non esistesse qualcosa che esiste necessariamente, se non vi fosse un ente sempre in atto che orienta tutte le cose che mutano. La causa di ogni movimento deve essere un ente immobile ed eterno, che costituisce il fine di tutte le cose. Tale sostanza divina viene dunque concepita come puro atto, motore immobile, causa finale della realtà, oggetto del desiderio da parte di tutte le cose e fine ultimo verso cui esse tendono, e anche come Intelletto che pensa se stesso, poiché solo ciò che è immutabile può essere oggetto del pensiero di un Intelletto immutabile. La concezione aristotelica di Dio come fine di tutte le cose, atto puro e pensiero di pensiero costituisce insieme il fulcro finale della metafisica e il tramite che la unisce alla fisica, rendendo possibile una definizione metafisica del movimento tramite una spiegazione teologica del mondo.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

La prima edizione completa moderna del Corpus aristotelico è Aristotelis Opera edidit Accademia Regia Borussica, 5 voll., C. Reimer, Berlin 1831-1870, curata da I. Bekker ed altri, ristampata da O. Gigon, De Gruyter, Berlin 1960-1961; cfr. anche l’edizione moderna del testo greco: W.D. Ross, ed., The Works of Aristotle, 11 voll., Clarendon Press, Oxford 1910-1930. Tra le edizioni italiane si rinvia ad Aristotele, Opere, a cura di G. Giannantoni, 11 voll., Laterza, Roma-Bari 1973.

Letteratura secondaria

Si forniscono soltanto alcuni riferimenti nella vastissima letteratura secondaria internazionale: J. Ackrill, Aristotele, il Mulino, Bologna 1999 (19931); J. Barnes, Aristotele (1982), Einaudi, Torino 2002; I. Düring, Aristotele. Descrizione e interpretazione del suo pensiero (1966), Mursia, Milano 1976; W.D. Ross, Aristotele (1923), Feltrinelli, Milano 1971. Tra le opere italiane si ricordano: E. Berti, Profilo di Aristotele, Studium, Roma 1994 (19791); E. Berti, a cura di, Guida ad Aristotele: logica, fisica, cosmologia, psicologia, biologia, metafisica, etica, politica, poetica, retorica, Laterza, Roma-Bari 2004 (19971); E. Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, Milano 2004 (19771); E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 2008 (19921); E. Berti, C. Rossitto, F. Volpi, Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1998; P. Donini, La metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2007 (19951); G. Reale, Introduzione ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2000; M. Zanatta, Lineamenti della filosofia di Aristotele, UTET, Torino 1997.

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Per una conoscenza diretta I quattro tipi fondamentali di proposizioni

Poiché tra gli oggetti alcuni sono universali, altri invece singolari (chiamo «universale» ciò che per natura si predica di parecchi oggetti, e per contro «singolare» ciò che non si predica di parecchi oggetti: uomo, ad esempio, fa parte degli oggetti universali, mentre Callia fa parte di quelli singolari), è così necessario dichiarare che qualcosa appartiene, o non appartiene, ora ad un oggetto universale, ora ad un oggetto singolare. Se qualcuno dichiarerà dunque che qualcosa appartiene, e d’altro lato che non appartiene, ad un oggetto universale, presentato in forma universale, tali giudizi risulteranno contrari. Dico: dichiarare l’appartenenza e la non appartenenza all’oggetto universale presentato in forma universale, intendendo ad esempio «ogni uomo è bianco», «nessun uomo è bianco». Quando si dichiara invece l’appartenenza e la non appartenenza agli oggetti universali, non però presentati in forma universale, i giudizi non risultano in questo caso contrari; tuttavia, i contenuti di tali giudizi possono risultare talvolta contrari. Dico: dichiarare l’appartenenza e la non appartenenza agli oggetti universali non presentati in forma universale, intendendo per esempio «uomo è bianco», «uomo non è bianco». «Uomo», in effetti, pur essendo un oggetto universale, non è presentato attraverso questo giudizio in forma universale; il termine «ogni» non indica infatti l’oggetto universale, bensì la sua forma universale. Per contro, predicare un predicato universale, presentato in forma universale, non costituisce un giudizio vero: non sussisterà infatti nessuna affermazione, in cui si predichi un predicato universale, presentato in forma universale, ad esempio, «ogni uomo è ogni animale». Orbene, dico che un’affermazione è contrapposta in modo contraddittorio ad una negazione, quando una di esse esprime un oggetto in forma universale, e l’altra esprime lo stesso oggetto in forma non universale, ad esempio «ogni uomo è bianco – qualche uomo non è bianco»; «nessun uomo è bianco – qualche uomo è bianco». Dico invece che un’affermazione è contrapposta in modo contrario ad una negazione, quando sia l’affermazione che la negazione presentano l’oggetto in forma universale, ad esempio: «ogni uomo è giusto – nessun uomo è giusto». Non è possibile, perciò, che tali giudizi contrari siano veri al tempo stesso; può accadere tuttavia che i giudizi rispettivamente contrapposti ad essi risultino al tempo stesso veri, riguardo al medesimo oggetto, ad esempio: «qualche uomo non è bianco – qualche uomo è bianco». In tutte le contraddizioni d’altro canto, che si riferiscono ad un oggetto universale, presentato in forma universale, è necessario che uno dei giudizi sia vero e l’altro falso; del pari avviene per tutte le contraddizioni che si riferiscono ad un oggetto singolare, ad esempio: «Socrate è bianco – Socrate non è bianco». In tutte le contraddizioni, per contro, che si riferiscono ad un oggetto universale, presentato però in forma non universale, non sempre uno dei due giudizi sarà vero e l’altro falso. In realtà, è vero al tempo stesso sia dire: «uomo è bianco», che dire: «uomo non è bianco»; come pure, sia dire: «uomo è bello», che dire: «uomo non è bello». Posto infatti che sia brutto, si dirà altresì che non è bello; del pari, ammesso che diventi qualcosa, sarà vero pure che non è ciò. Ciò potrà apparire senz’altro assurdo, per il fatto che il giudizio «uomo non è bianco» sembra inoltre significare, al tempo stesso, che nessun uomo è bianco; eppure i due giudizi non hanno lo stesso significato, né vanno necessariamente congiunti.

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È poi evidente che una sola affermazione ha una sola negazione; occorre in tal caso che la negazione neghi proprio la stessa determinazione, che è stata affermata dall’affermazione, ed è necessario che la neghi dello stesso oggetto, sia singolare sia universale, presentato in quest’ultimo caso in forma universale oppure non universale. Ecco un esempio di quanto intendo dire: «Socrate è bianco – Socrate non è bianco». Se la negazione, per contro, nega un’altra determinazione, oppure la stessa determinazione, ma di un altro oggetto, non risulterà contrapposta all’affermazione, bensì differente da questa. Inoltre, all’affermazione «ogni uomo è bianco», risulta contrapposta la negazione «qualche uomo non è bianco»; all’affermazione «qualche uomo è bianco», la negazione «nessun uomo è bianco»; all’affermazione «uomo è bianco», la negazione «uomo non è bianco». Si è detto, in tal modo, che una sola affermazione è contrapposta in forma contraddittoria ad una sola negazione, ed abbiamo precisato quali siano questi giudizi; si è detto che i giudizi contrari sono differenti dai suddetti, precisando quali siano; si è detto altresì che non sempre, in una contraddizione, un giudizio è vero e l’altro è falso, precisando il perché ed i casi in cui, per contro, un giudizio è vero e l’altro è falso. Dell’espressione, 7, 17a-18a, in Opere, vol. I, pp. 57-59.

L’oggetto della metafisica è l’essere-in-quanto-essere

C’è una scienza che studia l’essere-in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa natura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scienze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale oggetto d’indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per proprio conto una qualche parte dell’essere e ne studia gli attributi, come fanno, ad esempio, le scienze matematiche. E poiché noi stiamo cercando i princìpi e le cause supreme, non v’è dubbio che questi princìpi e queste cause sono propri di una certa realtà in virtù della sua stessa natura. Se, pertanto, proprio su questi princìpi avessero spinto la loro indagine quei filosofi che si diedero a ricercare gli elementi delle cose esistenti, allora anche gli elementi di cui essi hanno parlato sarebbero stati propri dell’esserein-quanto-essere e non dell’essere-per-accidente; ecco perché anche noi dobbiamo riuscire a comprendere quali sono le cause prime dell’essere-in-quanto-essere. Metafisica, IV (Γ), 2, 1003a, in Opere, vol. VI, p. 85.

Una definizione di sostanza

Ed è sostanza il sostrato, cioè in un senso la materia (chiamo materia quella che, senza essere in atto qualcosa di determinato, è, però, potenzialmente qualcosa di determinato), in un altro senso il concetto e la forma, ossia ciò che, essendo qualcosa di determinato, può esistere separatamente solo per logica astrazione; in terzo luogo è sostanza il composto di materia e forma, e di esso soltanto c’è generazione e corruzione, ed è esso quello che, in modo assoluto, ha un’esistenza separata: infatti, tra le sostanze formali, alcune hanno esistenza separata, altre no. Metafisica, VIII (Η), 1, 1042a, in Opere, vol. VI, p. 234.

Il rapporto tra atto e potenza

È atto l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come diciamo che l’oggetto è in potenza. Noi diciamo che una cosa è in potenza nel senso che, ad

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esempio, Ermete è presente in potenza nel legno o la semiretta è presente in potenza nella retta intera, perché può essere staccata da questa, e chiamiamo scienziato anche chi non sta contemplando, qualora, però, egli sia capace di contemplare: ma in ben altro senso noi parliamo di presenza attuale! Ciò che qui intendiamo dire risulta evidente per induzione nei casi particolari, e non c’è affatto bisogno che noi ci mettiamo a ricercare la definizione di ogni cosa, ma basta che noi riusciamo a cogliere l’analogia, nel senso che l’atto sta alla potenza nello stesso rapporto in cui chi sta costruendo è con chi ha la capacità di costruire, anche chi è sveglio è in rapporto con chi sta dormendo, e chi vede con chi, pur avendo la vista, ha gli occhi chiusi, e ciò che è stato separato dalla materia è in rapporto con la materia, e un oggetto confezionato è in rapporto con un altro che non è stato confezionato. Di questi due gruppi diversi di cose il primo è quello che noi dobbiamo considerare attuale, l’altro, invece, dobbiamo considerarlo solo potenziale. Né si considerano attuali tutte le cose allo stesso modo, ma solo per analogia, nel senso che, come questa data cosa è presente in quest’altra o è relativa a quest’altra, così quell’altra data cosa è presente in quell’altra o è relativa a quell’altra, giacché alcune cose si trovano tra loro nella stessa relazione in cui è un movimento rispetto ad una potenza, altre, invece, nella stessa relazione in cui è una sostanza rispetto ad una qualche materia. Metafisica, IX (Θ), 6, 1048a-b, in Opere, vol. VI, p. 261.

«L’atto è un fine»

Ma l’atto è anteriore alla potenza anche relativamente alla sostanza, in primo luogo perché le cose che sono posteriori secondo la generazione sono anteriori secondo la forma e la sostanza (come, ad esempio, l’adulto è anteriore al fanciullo e l’uomo è anteriore al seme, perché l’uno ha già la forma e l’altro no), e in secondo luogo perché tutto ciò che è generato procede verso il proprio principio, ossia verso il fine (giacché la causa finale è principio, e in vista del fine si va attuando il divenire), e l’atto è un fine, e in grazia di questo viene assunta la potenza. Infatti gli animali vedono non allo scopo di avere la vista, ma hanno la vista allo scopo di vedere, e allo stesso modo gli uomini posseggono l’arte della costruzione allo scopo di costruire e la capacità contemplativa al fine di contemplare, ma essi non contemplano allo scopo di possedere la capacità contemplativa, ove si eccettuino quelli che lo fanno per esercitazione, quantunque costoro non contemplino veramente, ma solo in un certo qual modo [nel caso contrario essi non hanno bisogno di contemplare]. Inoltre la materia esiste in potenza, soltanto perché possa pervenire alla forma; e sta nella forma soltanto quando è in atto. Metafisica, IX (Θ), 8, 1050a, in Opere, vol. VI, pp. 267-68.

sezione ii La filosofia cristiana

Capitolo 3 Agostino Michele Lenoci

1. La vita e le opere 1.1. I primi anni Aurelio Agostino nasce a Tagaste, nell’odierna Algeria, nel 354: il padre, Patrizio, è un piccolo possidente con scarsi mezzi economici, mentre la madre, Monica, che grande influsso avrà nella formazione e nelle vicende spirituali del figlio, è una cristiana fervente. Come risulta anche dalle sue opere, le vicende biografiche influiranno decisamente sulla sua riflessione, che sarà ispirata sia dal tormento interiore e dalla ricerca a lungo insoddisfatta nei primi anni, sia dalle urgenze della sua missione, dopo aver abbracciato il sacerdozio ed essere stato consacrato vescovo. Inoltre, egli non si limita a enunciare tesi filosofiche, pago di elaborare teorie nuove, ma le vive drammaticamente, sicché egli è uno di quei pensatori per i quali la filosofia è veramente il tentativo, continuamente ripetuto, di affrontare il problema della vita e di dare un significato all’esistenza umana. Frequentate le prime scuole nella città natale, prosegue gli studi superiori a Madaura; interrompe, poi, per un anno gli studi e torna a Tagaste, giacché il padre non può mantenerlo in una città grande e costosa come Cartagine, ove soltanto ci sono scuole di retorica. Agostino, nelle Confessioni, ricorderà questo periodo come il peggiore della sua vita, fatto di dissipazione e di alcune bravate. Grazie al sostegno di Romaniano, un amico ricco, raggiunge Cartagine e si dedica intensamente agli studi letterari latini, in un ambiente nel quale la cultura classica è viva e coltivata, si fonda su un’ottima acquisizione della grammatica e della retorica e tende a realizzare il tipo ideale dell’oratore elegante e forbito. Anche per questo motivo, allorché si avvicina alla Bibbia, ne viene respinto proprio dallo stile giudicato troppo barbaro, oltre che dall’obbligo di accettare certe verità solo per fede o per obbedienza a un’autorità.

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Un incontro filosoficamente importante è quello con il manicheismo, una setta (ispirata all’insegnamento di Mani di Babilonia) che si presenta come una religione senza dogmi, in cui tutto può essere dimostrato: quando si accorgerà che tale promessa non è in grado di essere mantenuta, Agostino se ne allontanerà; ma per alcuni anni seguirà con impegno i manichei, pago della prospettiva di seguire esclusivamente la ragione e di aver trovato una via per liberarsi dal male. I manichei, infatti, presentano una concezione dualistica e materialistica: tutta la realtà è costituita di materia, più o meno sottile, ed è retta da due principi, uno buono e uno cattivo, la luce e le tenebre; dalla loro mescolanza e dal loro conflitto è nato l’universo e anche nell’uomo si trovano frammenti di bene e di male, e suo compito è quello di liberare le tracce di bene in lui presenti. La responsabilità ultima del male non risiede perciò nella volontà dell’uomo, ma nel fondamento della realtà; tuttavia, questa visione si accompagna a una complicata cosmologia, assai fantasiosa, che suscita molte riserve in Agostino, sino al momento in cui, insoddisfatto dalle risposte ottenuto da Fausto, un autorevole esponente della setta, egli si allontana dal manicheismo. In questi anni, inoltre, attraverso la lettura dell’Ortensio, un opuscolo di Cicerone andato perduto, che esortava alla filosofia, ne rimane profondamente impressionato e comincia a nutrire un vivo interesse per tale disciplina. Conosce anche una donna, dalla quale ha un figlio assai amato, Adeodato, che morirà molto giovane. Dopo un breve soggiorno a Tagaste, dove insegna grammatica ai ragazzi, Agostino apre a Cartagine una scuola di retorica, ove ha modo di mettere in luce le sue doti, insegnando a vincere le cause e ad esercitare l’eloquenza. L’allontanamento dal manicheismo è graduale: egli comincia a dubitare sempre più della possibilità per l’intelletto di conoscere il vero e comincia a condividere una certa forma di scetticismo.

1.2 Roma, Milano e la conversione Intorno al 383 Agostino si trasferisce a Roma, sperando di trovare più tranquille occasioni di insegnamento e di venire a contatto con un centro culturale più ampio e stimolante. Deluso dal comportamento degli studenti, fa in modo di ottenere una cattedra di retorica, resasi libera a Milano, grazie anche al sostegno del Prefetto dell’Urbe, Simmaco. Il nuovo incarico, più sicuro e assai prestigioso, gli consente di entrare in contatto con il vescovo Ambrogio, del quale ascolta le prediche per valutarne e apprezzarne la dotta eloquenza. Insieme, però, avverte anche che la dottrina cattolica è almeno plausibile, che le Scritture possono essere interpretate in modo non meramente letterale e che taluni affermano l’esistenza di sostanze spirituali; inoltre, si avvicina al neoplatonismo attraverso un’interpretazione cristiana.

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Agostino desidera allora risalire alle fonti di tale interpretazione, assillato come è da due problemi fondamentali e insoluti: donde si origini il male e come si possa pensare una realtà spirituale. Entra in possesso di alcuni «libri dei platonici» (ossia dei neoplatonici, di Plotino e Porfirio) e in essi trova argomenti e tesi che gli faciliteranno l’accoglimento della dottrina cattolica. In particolare, sarà indotto a cercare la verità non fuori ma dentro di sé, trovando realtà spirituali e immutabili; inoltre, il noùs, l’intelletto di cui tratta Plotino rivela analogie con il Lògos, il Verbo, di cui si parla nel Prologo del Vangelo di Giovanni; infine, troverà che il male non è una realtà, un principio sussistente, ma è una mancanza di bene, un non essere, e quindi non ha realtà alcuna. Nel 386, insieme con la madre e alcuni amici, si ritira a Cassiciaco, un piccolo centro della Brianza, ove conduce lunghe meditazioni e compone le prime opere filosoficamente e teologicamente rilevanti: Contro gli accademici, La vita felice, L’ordine, i Soliloqui. I dialoghi secondo cui sono prevalentemente strutturati questi scritti riflettono le conversazioni realmente avvenute nella quiete della provincia e rivelano la maturazione spirituale che Agostino intraprende, con la definitiva e consapevole conversione al cristianesimo, che per certi aspetti costituisce un ritorno alla primitiva educazione ricevuta dalla madre: più tardi egli dirà che la fede in Cristo, visto non solo come un grande uomo e un sommo sapiente, ma come figlio di Dio e salvatore, gli ha consentito di perfezionare e correggere la dottrina neoplatonica, giacché questa era in grado di indicare il fine della vita umana, mentre il cristianesimo fa anche vedere la via e offre i mezzi per giungervi. Nella Pasqua del 387 riceve il battesimo a Milano e decide di tornare in Africa, insieme con la madre, il figlio e gli amici, divenuti alla fine suoi discepoli e seguaci. Nell’attesa di imbarcarsi, a Ostia muore Monica e il figlio ne prova un dolore immenso: poco tempo prima, con la madre si era intrattenuto in un profondo colloquio sulla vita eterna, cercando di averne un qualche concetto, attraverso una riflessione che, dalla considerazione delle realtà sensibili, gradualmente passava alla contemplazione razionale e da questa alla visione della verità immutabile che illumina la ragione. Si tratta della famosa estasi di Ostia, di cui Agostino dà appassionato resoconto nelle Confessioni.

1.3 Il ritorno in Africa Venduta la proprietà paterna, Agostino conduce, con gli amici più fidati, una vita di tipo monastico; nel 391 a Ippona viene ordinato sacerdote, poiché il vescovo locale, ormai vecchio, ha bisogno di un prete che lo aiuti, e nel 395 viene consacrato vescovo. Sono anni di intensa attività pastorale, di predicazione, ma anche di fervido lavoro filosofico e teologico, che dà vita alle importanti opere della maturità e alle grandi

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controversie con avversari ed eretici. In particolare, egli polemizzerà con gli amici di un tempo, i manichei; attaccherà i donatisti (dal nome del loro vescovo Donato), i quali esigono che vengano nuovamente battezzati quei cristiani che, davanti alle persecuzioni, hanno abiurato, e poi hanno chiesto di rientrare nella Chiesa. Verso costoro Agostino vuole usare misericordia, purché siano pentiti, mentre contro gli avversari donatisti invoca persino l’intervento dello Stato. Infine, contro i pelagiani, che si ispirano al monaco Pelagio e ritengono che l’uomo possa salvarsi con il solo sforzo della propria volontà, Agostino afferma che il peccato originale è presente in ogni uomo e che la grazia è necessaria alla salvezza, a prescindere dalle opere e dall’umana volontà. In questi anni scrive Il libero arbitrio, La vera religione, La dottrina cristiana, le Confessioni, La Trinità, La città di Dio e vari commenti alle Scritture. Quando i Vandali invadono l’Africa e assediano anche Ippona, Agostino rimane nella sua sede episcopale e muore, alla vigilia dell’occupazione della città, il 28 agosto del 430.

2. Il significato della filosofia di Agostino 2.1 Al confine tra due epoche La riflessione agostiniana si colloca in un ideale spartiacque tra il pensiero classico e quello medievale ed assume un significato particolarmente rilevante: da un lato, per la sua formazione e per l’ambiente in cui vive, Agostino rappresenta il portato della cultura classica, greca e romana, quale era vissuta nel periodo ellenistico e quale, soprattutto, era diffusa nel bacino del Mediterraneo, nelle province dell’Impero assai vitali economicamente e culturalmente. D’altro lato, egli con i suoi scritti eserciterà sul Medioevo un’influenza inferiore soltanto a quella della Bibbia e la sua presenza si avvertirà anche, in molti modi, nel pensiero moderno e contemporaneo, sia sul versante teologico, sia su quello più propriamente filosofico. Il rilievo della sua opera dipende anche dal fatto che pone le basi per quel confronto tra l’esercizio filosofico della ragione, coltivato nella Grecia e a Roma, e l’annuncio di salvezza, diffuso dal cristianesimo e dalla Bibbia. Il problema del rapporto tra ragione e fede trova in Agostino una delle prime formulazioni e la soluzione da lui proposta costituirà un punto di riferimento costante per le successive discussioni. Pur non negando valore alla vita filosofica e all’attività razionale, conoscitiva e contemplativa, egli, nello sviluppo della sua riflessione, sottolinea con sempre maggiore forza un punto fondamentale: certamente la fede non elimina l’intelligenza, né le esigenze della ragione; inoltre, con questa si può provare che le verità di fede sono credibili, plausibili e non assurde. Tuttavia, la felicità consiste nel conoscere Dio e in una situazione non più condizionata dal dolore e dalla

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morte, cioè nella salvezza della persona intera, e questa sarebbe garantita solo dalla grazia divina, che non può essere acquisita con le azioni umane, né può essere data in premio a particolari meriti, ma è esclusivo dono di Dio, totalmente gratuito. Tuttavia, tale grazia non viene elargita da Dio indifferentemente a tutti gli uomini: resta, però, un mistero il motivo per cui alcuni uomini siano lasciati nella loro condizione di peccato, mentre ad altri venga offerta una possibilità di salvezza, che, essendo sufficiente, si trasforma in sicura attualità. La salvezza implica l’amore, che è amore di Dio e del prossimo. Tra ragione e fede si crea, allora, un circolo virtuoso e si afferma un modello, che tanta fortuna avrà in tutto il Medioevo: «credo per comprendere e comprendo per credere», nel senso che la fede costituisce l’orizzonte entro cui l’attività razionale viene esercitata e potenziata nelle sue capacità. Fino al momento in cui le opere aristoteliche saranno conosciute attraverso le traduzioni e in cui la filosofia sarà vista anche come una ricerca dotata di peculiare autonomia, l’influsso di questo modello agostiniano sarà totale. Su un altro grande tema Agostino costituirà punto di riferimento imprescindibile, veicolando l’eredità platonica e neoplatonica nella tradizione del cristianesimo e nella filosofia moderna: il richiamo all’interiorità e la proposta di un’antropologia essenzialmente dualista. Fin dalle prime opere emerge che due cose Agostino desidera conoscere: Dio e l’anima e nient’altro; e l’anima, non il mondo che ci circonda, sarà il tramite necessario per arrivare a Dio. Ne segue il costante richiamo a tornare in se stessi, a non uscire da sé, disperdendosi, giacché la verità dimora nell’uomo interiore, una verità che misura e giudica la ragione, e non è da essa misurata; pertanto, a differenza della natura umana, mutevole e diveniente, tale verità sarà immutabile ed eterna: «Non andare fuori di te, ritorna in te stesso. La verità dimora nell’uomo interiore. E se scoprirai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando trascendi te stesso, tu trascendi l’anima razionale. Tendi pertanto là donde s’accende il lume stesso della ragione» (La vera religione, XXXIX, 72). Inoltre, l’anima costituisce l’essenza dell’uomo, nel senso che l’uomo è l’anima, sia pure un’anima unita a un corpo, senza che però tra i due si realizzi un’unità piena e compiuta. L’anima è una sostanza di ragione, fatta per governare un corpo: essa è una sostanza autonoma, destinata a reggere un corpo, come il timoniere è una sostanza per sé, fatto con il compito di governare una nave. Ne segue che il corpo è solo uno strumento dell’anima: questa, razionale e spirituale, è destinata all’immortalità; quello, materiale, è sottoposto alla corruzione. Tale visione influirà notevolmente sul pensiero moderno e contemporaneo e apparirà facilmente compatibile con la dottrina cristiana, che difende una concezione dell’anima spirituale e immortale.

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2.2 Le grandi tematiche agostiniane Uno dei primi problemi di cui Agostino si occupa è quello della certezza e della verità, in polemica contro ogni forma di scetticismo: poiché la beatitudine implica la sapienza e questa richiede il possesso della verità, ci si chiede se noi possiamo conoscere la verità, data la nostra finitezza. Ebbene, sembra che almeno alcune verità siano indubitabili, come quelle relative all’esistenza dell’io che ricerca – poiché anche se stesse sognando, sarebbe pur certo di essere lui a pensare e esistere – o le verità matematiche e quelle della logica, come il principio del terzo escluso e di non contraddizione. Da questa certezza Agostino muove poi per dimostrare l’esistenza di Dio: egli nell’io distingue tra l’esistenza, la vita e l’intelligenza, la quale non è posseduta dai bruti o dai semplici viventi, ma solo dall’uomo; inoltre, giudica i dati dei sensi e quindi è superiore a essi, giacché ciò che giudica sopravanza quanto è giudicato. Se si troverà qualcosa di superiore alla ragione, o non avrà nulla di superiore a sé, e sarà Dio, oppure avrà qualcosa d’altro di superiore, e quest’ultimo sarà Dio. E per individuare un tale ambito di superiorità, Agostino osserva che, come i sensi presentano un oggetto da loro distinto, così la ragione, nei suoi atti, coglie un oggetto non sensibile, ma valido per tutti, eterno e immutabile (ad esempio, le verità matematiche); inoltre, questa verità è per noi normativa, in quanto noi giudichiamo secondo quella verità, in base ad essa, ma non giudichiamo di essa. Questa è superiore alla ragione, e fonte ultima della verità è Dio. Un altro argomento muove dalla considerazione delle cose mutevoli, per affermare che queste rimandano a un essere immutabile. Infine, Agostino osserva che tutto quanto rivela una perfezione limitata e finita, partecipa di quella perfezione, ma non si identifica con essa; solo questa sarà, in se stessa, perfezione infinita. Poiché Dio è l’assoluto e fonte dell’essere, crea la realtà secondo ragione, cioè secondo forme o modelli: queste sono le idee, eterne e immutabili, perché coessenziali con l’intelletto divino. Noi potremo conoscere queste idee, tramite la conoscenza intellettiva, grazie a un’illuminazione divina, cioè a un’intuizione dell’intelligibile che non passa attraverso la conoscenza sensibile dei corpi. In questo modo, Agostino eredita e trasforma la concezione platonica della reminiscenza, per spiegare la nostra conoscenza concettuale. L’intelletto, sul quale si fonda la sapienza, è allora superiore alla ragione, che discorre sulle cose sensibili e che costituisce la base della scienza. Della realtà circostante abbiamo conoscenza tramite la sensazione, un’attività dell’anima alla quale non rimane nascosta, non sfugge (non latet) la modificazione indotta nel corpo dal contatto con le cose. Se Dio è inizio, è anche fine della realtà e, soprattutto, della storia. Ne La città di Dio, Agostino traccia una teologia e una filosofia della storia, vista come un processo in cui bene e male si fronteggiano, anche in virtù della libera attività dell’uomo, e che avrà oltre ad una fine, anche un fine,

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rivelando una razionalità intrinseca. Tale visione diverrà un modello, in riferimento o in opposizione al quale si svilupperanno molte concezioni della storia, e del suo senso globale, delineate in epoca moderna e contemporanea. I momenti principali della fede cristiana (creazione, peccato originale, incarnazione, passione e resurrezione di Cristo) diventano parti essenziali della storia del mondo, necessarie a comprenderne lo sviluppo. Nella storia si fronteggiano, allora, la città di Dio, fatta di quanti amano Dio sino al disprezzo di sé, e la città terrena, costituita da quanti amano sé sino al disprezzo di Dio. Le due città sono mescolate tra loro nel corso della storia e non è possibile, né giusto tentare di separarle; la grazia divina esercita un’influenza decisiva nel determinare l’appartenenza all’una o all’altra di esse e solo al momento del giudizio finale apparirà in tutta la sua purezza la città di Dio, coincidente con la Chiesa invisibile, cui appartengono tutti quanti vivono realmente nella grazia di Dio.

3. Le Confessioni Quest’opera, scritta tra il 397 e il 401 e formata da tredici libri, è, insieme, un’autobiografia, una meditazione sul male e sulla grazia divina, sul tempo e sulla creazione del mondo, una confessione della propria fede, una preghiera e un ringraziamento a Dio. È sicuramente lo scritto più conosciuto di Agostino, riveste un grande valore letterario, oltre che filosofico, e offre molte informazioni sull’ambiente umano e culturale in cui Agostino è vissuto. Le dissipazioni giovanili, guardate con occhio severo, le ansie della madre Monica, il lento avvicinarsi alla filosofia e al cristianesimo, la maturazione di una scelta di fede, sofferta e consapevole, trovano nelle Confessioni una rievocazione stilisticamente elaborata e, insieme, assai appassionata. L’incontro con i neoplatonici è descritto nei particolari, come pure il momento in cui viene percepita l’esistenza di una realtà spirituale: nel libro VII, rientrato in se stesso, Agostino vede con l’occhio della sua anima, al di sopra dell’anima, una luce immutabile, ben diversa da quella sensibile, perché si intuisce che essa ha creato tutte le cose. Grazie ad essa comprende che l’immutabile vale più di quanto è mutevole e riesce, almeno per un attimo, quasi in un’estasi, a cogliere ciò che è, quell’immutabile del quale, altrimenti, non avrebbe alcuna idea. Con questa ascesa a Dio, di chiara impronta neoplatonica, Agostino supera il materialismo manicheo e si convince dell’esistenza di una realtà spirituale e divina. Anche di un altro problema, assai assillante, viene descritto in queste pagine il cammino verso la soluzione: quello del male. La risposta manichea non è più plausibile, ma non c’è ancora una proposta convincente: non si può negare l’esistenza del male e se il nostro timore fosse infondato, esso, nella sua vanità, sarebbe il vero male. Agostino sente dalle prediche di Ambrogio che il male dipende dalla nostra volontà: questa può deviare dall’ordine e fallire il fine cui è chiamata. Il male deriva da un cattivo uso

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di una facoltà in sé buona, il libero arbitrio; è il preferire un bene minore a un bene maggiore. Il male è perciò una privazione, un meno di bene, e il male assoluto sarebbe assoluto non essere: non si può attribuire al male alcuna positività sostanziale. Nel libro X particolare attenzione viene dedicata alla memoria, la cui funzione è assai importante per la conoscenza e per la costruzione del soggetto umano. Essa è il ricettacolo, ampio e profondo, che contiene tutte le immagini derivanti dalla percezione esterna e interna; aiuta a determinare la coscienza che ognuno ha di sé, giacché, unendo il passato al presente, consente di progettare le azioni future: perciò essa è anche la condizione di ogni azione umana. Nel «cuore» della memoria sono racchiuse, da un lato, le idee innate o verità di ragione, dall’altro, il desiderio infinito di una felicità piena e mai provata, in cui si dischiude la tensione a Dio. Nel libro XI si trovano le famose pagine dedicate al problema del tempo: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più» (Conf., 14,17). Sembra, infatti, che il tempo non ci sia, poiché il passato non è più, il futuro non è ancora e l’istante, l’attimo presente, è solo il passaggio da un non più a un non ancora. Eppure percepiamo gli intervalli di tempo, li misuriamo e, quindi, devono esserci e avere una qualche consistenza. Agostino nota che non ci sono presenti le cose passate e future in se stesse, ma le loro immagini o le anticipazioni che ne facciamo. C’è un presente del passato, un presente del presente e un presente del futuro, resi possibili dalla memoria, dall’intuizione e dall’attesa. Il tempo non è legato al moto degli astri, come pensava Aristotele, ma può essere misurato solo se confrontato con qualcosa che dura e permane: «perciò mi pare che il tempo sia una distensione; di quale cosa non so; sarebbe strano se non fosse dell’anima» (Conf., 26, 33). Gli eventi si misurano nell’anima, la quale dà al passato, al presente e al futuro quello sfondo e quella consistenza che nella realtà esterna non posseggono. Questa distensione temporale presuppone l’essere tutto raccolto in sé, proprio dell’eternità, e di Dio: il rapporto tra tempo ed eternità offre ad Agostino l’occasione per parlare della creazione e commentare i primi versetti del Genesi. Solo Dio è l’essere assoluto e fuori di lui c’è solo il nulla: Dio, che ha creato innanzi tutto le forme ideali e la materia, la quale, essendo informe, è quasi niente, incorpora poi le idee nella materia, dando vita alla realtà contingente e mutevole: questa possiede uno statuto ontologico assai ambiguo, è quasi un nulla che è qualcosa o un essere che non è.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

Le opere di Agostino si trovano, in edizione critica, presso il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum (CSEL) e il Corpus Christia-

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norum – Series Latina (CCSL). Sono stati editi, inizialmente, nella Patrologia Latina, a cura del Migne, nei volumi 32-47. La traduzione italiana è pubblicata nella Nuova Biblioteca Agostiniana, presso Città Nuova, Roma. Fra le numerose altre traduzioni di singoli testi, vanno segnalate almeno le seguenti: La città di Dio, Rusconi, Milano 1984; Bompiani, Milano 2001; Confessioni, Garzanti, Milano 1990; L’istruzione cristiana, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1994 (III ed. 2006); Il filosofo e la fede, Rusconi, Milano 1989 (traduce: Soliloqui, La vera religione, L’utilità del credere, La fede nelle cose che non si vedono); Tutti i dialoghi, Bompiani, Milano 2006 (traduce: Contro gli Accademici, La vita felice, L’ordine, Soliloqui, L’immortalità dell’anima, La grandezza dell’anima, Il libero arbitrio, La musica, Il maestro).

Letteratura secondaria

La letteratura critica su Agostino è immensa, sia sul versante filosofico, sia su quello teologico; sia con scopi filologici e interpretativi, sia per compiere indagini teoretiche su vari temi o ricognizioni dell’influenza esercitata nei secoli successivi. Per una presentazione generale si possono consultare: É. Gilson, Introduzione allo studio di S. Agostino, Marietti, Genova 1984; P. Brown, Agostino d’Ippona, Einaudi, Torino 2005, che si dedica soprattutto alla biografia e alla formazione culturale. Classica la presentazione di M. Pellegrino, Le Confessioni di S. Agostino, Studium, Roma 1956. Sull’influenza e l’attualità di Agostino: L. Alici, A. Pieretti, R. Piccolomini, a cura di, Agostino nella filosofia del Novecento, 4 voll., Città Nuova, Roma 2000-2004.

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Per una conoscenza diretta L’influsso dei neoplatonici

[Agostino è in ideale dialogo con Dio] Ma allora, dopo aver letto quei libri dei platonici e averne accolto l’invito a cercare una verità incorporea vidi e compresi attraverso le cose create la tua potenza invisibile: e pur essendone respinto sentii di cosa il buio di quest’anima mi impediva la visione. Fui certo che esistevi ed eri infinito, ma senza occupare lo spazio, finito o infinito che fosse, che anzi esistevi in senso proprio, tu che eri sempre identico a te stesso, e per nessunissimo aspetto o movimento mai diverso o altrimenti atteggiato, mentre tutte le altre cose avevano da te l’esistenza, in base a quest’unica certissima prova, che esistevano. Certo di tutto questo ero, eppure ancora troppo malfermo per possederti. Anzi ero garrulo come un vero esperto, e se non avessi cercato la via verso di te in Cristo, nostro salvatore, sarei stato perituro più che perito. Già avevo cominciato a voler apparire sapiente, pieno com’ero della mia pena, e invece di piangere mi inorgoglivo addirittura di questa consapevolezza. Dov’era quell’amore che costruisce sul fondamento dell’umiltà, cioè Gesù Cristo? E come avrebbero potuto insegnarmelo quei libri?. Confessioni, XX, 26, p. 247.

Dio e l’anima

A[gostino] Ecco, ho pregato Dio. R[agione] Che cosa vuoi dunque sapere? A. Esattamente tutte queste cose che ho chiesto con la preghiera. R. Riassumile brevemente. A. Desidero sapere Dio e l’anima. R. E nulla più? A. Assolutamente nulla. Soliloqui, II, 7, in Tutti i dialoghi, p. 481. A[gostino] Hai mai visto, quindi, con questi tuoi occhi corporei, un punto, una linea, una larghezza del genere? E[vodio] Mai e poi mai. Questi, infatti, non sono oggetti corporei. A. Ora, se le cose corporee si scorgono con occhi corporei, in base ad una «mirabile» parentela tra cose, occorre che l’animo, con cui vediamo quegli oggetti incorporei, non sia corpo o corporeo. O sei di opinione diversa? E. Via, ormai concedo che l’animo non è né corpo né cosa corporea. Che cos’è, insomma? Dimmelo. A. [...] Ti ricordi infatti di aver chiesto per prima cosa da dove l’animo derivasse; e io ricordo che abbiamo affrontato questo problema secondo due accezioni: una secondo la quale l’interrogativo riguardò la sua «regione» di provenienza, l’altra con cui ci si chiese se esso fosse costituito di terra o di fuoco o di qualcun altro di questi elementi o di tutti o di alcuni di essi. Nell’indagine condotta secondo quest’ultima accezione, convenimmo che porre tale domanda non è più sensato che chiedersi da dove derivi la terra o qualsiasi altro singolo elemento. Bisogna infatti capire che, benché sia stato creato da Dio, l’animo possiede una determinata sostanza, che non è né terrena né ignea né aerea né umida; a meno che non si debba ritenere che Dio abbia concesso alla terra di non essere nient’altro che terra e non abbia invece concesso all’animo di non essere nient’altro che animo.

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Se invece vuoi una definizione dell’animo, ed è in questo senso che chiedi che cosa esso sia, ti rispondo facilmente. Mi pare difatti che esso sia una certa sostanza, partecipe di ragione, addetta a governare il corpo. La grandezza dell’anima, XIII, 22, in Tutti i dialoghi, pp. 737-739. Ne [dei libri dei platonici] accolsi il consiglio di tornare a me stesso e con la tua guida entrai nel mio mondo interiore: e ci riuscii perché t’eri fatto mio sostegno. Vi entrai, e con l’occhio di quest’anima, quale che fosse, vidi al di sopra dell’occhio stesso di quest’anima, al di sopra di questa mente, la luce che non muta. Non era questa ordinaria e visibile a ogni carne, e neppure era una luce più intensa ma dello stesso genere, come se questa facendosi molto, ma molto più chiara si diffondesse con la sua potenza per l’universo intero. Altro era, ben altra cosa che tutte queste luci… E non era al di sopra della mia mente come sta l’olio sopra l’acqua, o anche il cielo sopra la terra: era più in alto di me perché era lei ad avermi fatto, e io ero più in basso, perché fatto da lei. Confessioni, X, 16, pp. 233-235. A[gostino] E se riusciremo a trovare qualche cosa di cui non dubiti non soltanto che esista, ma anche che sia più eccellente della nostra stessa ragione? Esiterai a dirla «Dio», qualunque cosa essa sia? E[vodio] Se riuscirò a trovare qualche cosa migliore di ciò che nella mia natura è ottimo, non per questo dovrò necessariamente dirla «Dio». Non mi sembra corretto, infatti, dare il nome di «Dio» a ciò a cui la ragione è inferiore, ma solo a ciò a cui nessuno è superiore. A. Sì, certo, difatti Egli stesso ha concesso a questa tua ragione di avere un concetto così pio e vero di Lui. Però, scusa, se non troverai esservi qualcosa al di sopra della nostra ragione se non ciò che è eterno e inalterabile, esiterai forse a dirlo «Dio»? Difatti constati che i corpi sono mutevoli, ed è evidente che la vita stessa da cui il corpo è animato non è priva di mutevolezza a causa della variabilità degli stati d’animo, e la ragione stessa, che ora si sforza ora non si sforza di giungere al vero e a volte vi giunge a volte non vi giunge, si dimostra essere sicuramente mutevole. Ed essa, se scorge qualcosa di eterno e inalterabile non con un organo corporeo adoperato allo scopo né per mezzo del tatto né per mezzo del gusto né per mezzo dell’olfatto né per mezzo degli orecchi né per mezzo degli occhi né per mezzo di qualche senso ad essa inferiore, bensì mediante se stessa, deve ammettere contemporaneamente sia che essa stessa è inferiore sia che quello è il suo Dio. E. Riconoscerò chiaramente come Dio questo a cui nulla sarà risultato essere superiore. Il libero arbitrio, II, 6, 14, in Tutti i dialoghi, p. 993.

Il male

E mi fu chiaro che sono buone le cose soggette a corruzione: perché non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi né se non fossero beni. Se fossero sommi beni sarebbero incorruttibili, ma se non fossero beni affatto non avrebbero in sé di che farsi corrompere. La corruzione infatti è un danno: e se non c’è diminuzione di bene non c’è danno. Dunque o la corruzione non arreca alcun danno, il che è impossibile, oppure – il che è certissimo – tutto ciò che si

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corrompe subisce una privazione di valore. Ma se la privazione di valore è totale, una cosa cesserà di esistere. Se infatti una cosa continua a esistere senza poter più essere corrotta, allora sarà migliore, perché perdurerà incorruttibile. E che cosa è più mostruoso dell’asserzione che una cosa diventa migliore per aver perduto ogni valore? Dunque se un ente sarà privato di ogni valore, sarà un assoluto niente: dunque in quanto esiste, è buono. Dunque tutto ciò che esiste è buono, e quel male di cui io cercavo l’origine non è una sostanza, perché se fosse una sostanza sarebbe un bene. Confessioni, VII, 12, 18, pp. 235-237.

Il tempo

Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente. Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch’esso? Se appunto la sua sola ragion d’essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c’è solo in quanto tende a non esistere. Confessioni, XI, 14, 17, p. 445. Almeno questo è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto sarebbe forse dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell’anima e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente è la percezione, di ciò che è futuro è l’aspettativa. Se ci è permesso di dir così, vedo i tre tempi e ammetto che siano tre. Confessioni, XI, 20, 26, pp. 453-455.

Le due città

Due amori quindi hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: Tu sei la mia gloria e sollevi il mio capo. […] Nella prima città, perciò, i sapienti, che vivono secondo l’uomo, hanno cercato i beni del corpo o dell’anima o tutti e due […]. Nell’altra città invece non v’è sapienza umana all’infuori della pietà, che fa adorare giustamente il vero Dio e che attende come ricompensa nella società dei santi, uomini e angeli, che Dio sia tutto in tutti. La città di Dio, XIV, 28, pp. 691-692.

Capitolo 4 Tommaso d’Aquino Michele Lenoci

1. La vita e le opere Tommaso nasce a Roccasecca da Landolfo d’Aquino e da Teodora intorno al 1225 e dalla famiglia viene affidato all’Abbazia di Montecassino, affinché vi venga istruito, nella prospettiva che vi resti poi come monaco e possa eventualmente diventarne abate. A Napoli frequenta l’Università, recentemente istituita da Federico II; nel 1244 diventa frate domenicano e, mentre accompagna il Generale dell’Ordine verso Roma e Bologna, viene costretto dalla sua famiglia, contraria al suo ingresso in un Ordine mendicante, a soggiornare nel castello paterno. Dopo un anno, fa ritorno a Napoli e di qui muove alla volta di Parigi, ove perfeziona la propria formazione filosofica. Dal 1248 al 1252, a Colonia, studia alla scuola di Alberto Magno che aveva appena fondato uno Studium Generale; quindi torna a Parigi, ove, dopo aver tenuto seminari di lettura e commento delle Sentenze di Pietro Lombardo, nel 1256 diventa magister in teologia. In questi anni scrive L’ente e l’essenza, I principi della natura, le Questioni disputate sulla verità e probabilmente inizia la Somma contro i Gentili. Nel 1259 si trasferisce in Italia e, sino al 1268, va ad Anagni, Orvieto, Roma e Viterbo: partecipa a diversi capitoli provinciali del suo Ordine, termina la Somma contro i Gentili e inizia la Somma teologica, comincia anche a scrivere i commenti ad Aristotele, in particolare alle opere di etica, fisica, metafisica e antropologia, e alla Bibbia, nonché molti opuscoli, brevi trattati su questioni particolari. Nel 1264 compone anche preghiere e inni per la festa del Corpus Domini, che entreranno nella tradizione della Chiesa, divenendo famosi. Nel 1268 fa ritorno a Parigi, ove per tre anni svolge il suo apprezzato magistero, dedicandosi anche alla stesura di molti scritti, fra cui le Questioni disputate sulle creature spirituali, L’unità dell’intelletto, la seconda

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parte della Somma teologica, la maggior parte dei commenti alle opere di Aristotele. Nel 1272 viene chiamato a dirigere lo studium domenicano di Napoli, appena fondato; scrive la terza parte, mai completata, della Somma teologica, nonché il Compendio di teologia, rimasto incompiuto. Nel 1273, con il progressivo declino delle condizioni di salute, Tommaso smette di scrivere; nel 1274 intraprende un viaggio per recarsi al Concilio di Lione, ma il 7 marzo muore nell’abbazia cistercense di Fossanova. Il suo insegnamento ha dato ai contemporanei un’impressione di grande novità per le tesi sostenute, gli argomenti addotti e il metodo adottato, e questo ha suscitato una serie di sospetti e di conseguenti condanne. Le sue tesi, soprattutto quelle antropologiche, relative, come vedremo, all’unicità della forma sostanziale nell’uomo, appaiono una deviazione pericolosa rispetto a tutta la tradizione dei Padri della Chiesa, soprattutto rispetto al pensiero di Agostino, e sembrano avvicinarsi a certe interpretazioni di Aristotele, come quelle del filosofo arabo-spagnolo Averroè. Nel 1277 il vescovo di Parigi, Tempier, condanna una serie di proposizioni, fra cui un certo numero di tesi tomiste. Intanto, anche in Inghilterra il domenicano Roberto Kilwardby, arcivescovo di Canterbury, che ha giurisdizione sull’Università di Oxford, colpisce proprio la dottrina antropologica e la condanna viene confermata e ampliata dal suo successore, Giovanni Peckham, nel 1284 e nel 1286. Il 18 luglio del 1323 Tommaso viene proclamato santo e solo nel 1325 un vescovo di Parigi cancella ogni censura riferita al suo pensiero.

2. Il significato della filosofia di Tommaso Si è accennato alla novità costituita dal pensiero di Tommaso. Uno dei suoi biografi, Guglielmo di Tocco, ricorda che il filosofo affrontava nelle sue lezioni tematiche nuove, con metodo innovativo, adducendo nuovi argomenti per decidere le questioni affrontate. Egli, piuttosto che tendere all’originalità a tutti i costi, presenta in modo personale i copiosi materiali offerti dalla tradizione e vuole ripensare con la sua testa, vale a dire con argomenti plausibili ed evidenti, quelle tesi che altri si limitavano, più o meno stancamente, a ripetere. Egli ritiene che esista un’unica e complessa verità, che sia, almeno parzialmente, accessibile a tutti gli uomini, senza distinzioni, e che, a tale scopo, strumento necessario e sufficiente sia la ragione naturale, di cui ogni uomo è dotato e che caratterizza l’uomo come tale, rispetto a tutti gli altri enti. Nel trattare un argomento Tommaso non dimentica mai di collocarsi all’interno di una lunga tradizione di pensiero e ne tiene conto, al punto che molti lettori moderni o contemporanei vedono in lui più un raccoglitore fedele di materiali altrui e un compilatore puntuale, che un filosofo originale. In effetti, egli, sulla base dei documenti in suo possesso, offre sempre una rassegna delle opinioni precedenti, a partire dai presocra-

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tici e dando ampio riconoscimento ai contributi di Platone e Aristotele, nonché a quelli dei Padri della Chiesa. Tiene anche conto delle Scritture, ma non si appella mai alla loro autorità per chiudere una questione di natura razionale. Inoltre, egli tende a essere il più possibile inclusivo e conciliante, e, pur esprimendo con chiarezza il suo punto di vista e il suo giudizio, evita di pronunciare condanne e di mettere in primo piano i veri o presunti errori degli altri pensatori o gli elementi di dissenso rispetto a essi: in questo senso, anche quando muove critiche o non condivide proposizioni altrui, non solo mantiene sempre il tono di una discussione pacata, ma cerca di valorizzare anche l’autore criticato, cercando di individuare i motivi che possono far comprendere le sue posizioni o le condizioni alle quali esse potrebbero diventare plausibili. Non interpreta la storia del pensiero come il succedersi di grandi contrapposizioni e di relativi superamenti, ma piuttosto come un percorso, accidentato, anche se lineare, complesso e non scevro da errori, ma convergente, di ricerca multipla dell’unica verità. Contrariamente a quanto spesso si è ritenuto, Tommaso non elabora un sistema chiuso e impermeabile al confronto con altre posizioni; egli affronta, piuttosto, in modo sistematico i vari problemi filosofici, nel senso che si propone di indagare le diverse domande implicate da un’indagine sul reale in genere, su Dio e sull’uomo, sulla società, la morale e la legge, ma assolve questo compito senza dedurre le risposte da principi primi, concatenandole in un sistema che ignori obiezioni o critiche; al contrario, procede con il metodo scolastico della quaestio, il quale intende riprodurre il percorso di una discussione pubblica e di un reale dialogo. Secondo lo schema, di cui le Summae costituiscono un esempio e un modello, l’obiezione non ha solo una funzione retorica ed esornativa, «bensì [è] la molla di un dinamismo dell’interrogazione che esprime uno sforzo esercitato dal pensiero su se stesso. Il sed contra [«ma al contrario»] non ha meno forza degli argomenti addotti all’inizio a favore della tesi sostenuta. Il respondeo (dicendum) [«rispondo: si deve dire»], che viene a «decidere» la questione, assume il più delle volte la forma di una distinzione che consente di ritrovare nella posizione avversaria quella parte di verità che la sorregge. L’articolo è dunque l’esatto contrario di una «tesi» (thesis); è, e tale rimane, una quaestio che, nel momento in cui riceve una risposta, propone di norma tutti gli elementi per valutarne la portata» (A. De Libera, La filosofia medioevale, il Mulino, Bologna 1991, pp. 33-34). Come è noto, Tommaso ha poi esercitato, tra consensi e opposizioni, un enorme influsso sulla filosofia successiva, e non solo medioevale, sino ai nostri giorni. Con il passare del tempo, egli è diventato sempre di più il filosofo esemplare dell’Ordine domenicano, suscitando, per questo motivo, fin dagli inizi, accesi contrasti e forti opposizioni nell’Ordine francescano. Inoltre, già nel Seicento e poi con i tentativi di ripresa della Scolastica nell’Ottocento, egli ha assunto il ruolo di pensatore emblematico della

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Chiesa cattolica, chiamato a esprimerne e difenderne, sul piano razionale, la piena e autentica ortodossia. L’Enciclica di Leone XIII, Aeterni Patris, promulgata il 4 agosto 1879, allo scopo di determinare un corretto rapporto tra fede e ragione, contro i pericoli del pensiero moderno, invita a ritornare alle fonti, cioè a leggere finalmente i testi di Tommaso, senza più accontentarsi di manuali, scritti secondo le intenzioni di Tommaso: questi testi, infatti, si limitavano a enumerare una serie di tesi, separate dal loro contesto storico e presentate più come dogmi da ripetere, che come una concezione da giustificare razionalmente. Come scrive S. Vanni Rovighi, anche questa enciclica, tuttavia, ha solo un valore di politica scolastica dell’autorità ecclesiastica: «si raccomandava, diciamo pure si imponeva l’insegnamento della filosofia di san Tommaso nelle scuole cattoliche; non si diceva che quella filosofia fosse l’unica compatibile col pensiero cristiano. Questa fu la deduzione di alcuni esecutori delle prescrizioni dell’enciclica, di quegli esecutori troppo zelanti che finiscono col danneggiare le iniziative che intendono promuovere» (S. Vanni Rovighi, Presentazione di Enciclica Aeterni Patris di Leone XIII 1879-1979, Vita e Pensiero, Milano 1979, p. XI). Per due ulteriori motivi, di carattere generale, il pensiero di Tommaso risulta significativo e influente: da un lato, la precisazione del rapporto tra fede e ragione e, dall’altro, il recupero dell’aristotelismo e il rapporto con il pensiero greco. Pur collocandosi in un periodo in cui l’orizzonte di fede è ampiamente condiviso, anche sul piano culturale e pubblico, e pur essendo convinto che l’uomo può attingere la piena felicità solo attraverso l’unione con Dio, la quale, in ultima istanza, non è raggiungibile con le sole forze umane e necessita dell’intervento salvifico di Dio, Tommaso rivela sempre una visione ottimistica della natura umana e dei suoi valori. In particolare, l’uomo si caratterizza per la ragione e la ragione va utilizzata, con il suo metodo e nella sua autonomia, fin dove è possibile, anche per quanto riguarda i problemi fondamentali della realtà e dell’esistenza. In questo senso, la filosofia non consente certo di avere una conoscenza esauriente e assoluta, né riesce a garantire la salvezza, e tuttavia va praticata per conseguire tutti quei risultati che le sono accessibili. La fede non mira a sopprimere le attività naturali, semmai si propone di potenziarle: Tommaso afferma, infatti: «la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona» (Somma teologica, I, q. 1, a. 8) e in altro luogo ribadisce: «Dio, il quale è l’istitutore della natura, non toglie alle cose quanto è proprio della loro natura» (Somma contro i Gentili, II, cap. 55). Poiché la ragione e la rivelazione discendono dall’unico Dio, non possono essere fra loro in conflitto, anche se naturalmente Tommaso ritiene che la fede abbia un grado di certezza e di affidabilità maggiore di quello posseduto dalla ragione, in quanto, se i principi naturali della ragione sono sempre veri, le argomentazioni derivate possono sempre cadere in errore, soprattutto a causa del peccato originale, che ha indebolito le capacità naturali degli

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uomini. Tuttavia, alla ragione si deve ricorrere anche per un altro motivo: quando si discute con persone che non credono nelle Scritture, comuni ai cristiani e agli ebrei, o perché sono atee oppure perché credono in altri libri sacri, come il Corano per i mussulmani, allora l’unico terreno comune per dirimere le questioni e risolvere i contrasti è offerto proprio dalla ragione, che tutti gli uomini condividono. Un altro motivo di rilievo è dato dal fatto che la filosofia tomista assume e valorizza il pensiero di Aristotele, del quale vengono studiate e commentate le opere, insieme a quelle degli esegeti antichi, arabi ed ebrei: tuttavia, non si tratta tanto di tentare una conciliazione tra l’aristotelismo e il cristianesimo, allo scopo di elaborare una filosofia adeguata a pensare il dato rivelato. Piuttosto, Tommaso ritiene che il pensiero aristotelico, adeguatamente interpretato e rigorosamente sviluppato nelle sue conseguenze, abbia conquistato un gran numero di verità, importanti per l’ontologia, la metafisica, l’antropologia e l’etica. Come è risultato da molti studi critici del secolo scorso, Tommaso ha attinto anche da Platone e dalla tradizione neoplatonica e ha cercato, dando una sua autonoma e originale interpretazione, di mettere in luce i punti in cui le due tradizioni, platonica e aristotelica, sono concordi: la nozione metafisica di partecipazione, nel senso che tutti gli enti che posseggono una perfezione in misura limitata, dipendono da un ente, nel quale quella perfezione è piena e assoluta; inoltre, le sostanze semplici sono immateriali, anche se non sono esenti da potenzialità, ad esclusione di Dio che, solo, è atto puro; infine, questi è anche provvidente nei confronti di tutti gli enti che, a vario titolo e in diversa misura, dipendono da lui.

3. I primi scritti: le nozioni di ente e di verità Tra le prime opere di Tommaso, due appaiono particolarmente significative, anche alla luce degli sviluppi successivi: L’ente e l’essenza (12541256) e le Questioni disputate sulla verità (1256-1259). Nella prima viene delineata, brevemente e con chiarezza, la struttura dell’ontologia e della metafisica tomiste: l’ente logico è quello che può essere soggetto di una proposizione affermativa e, quindi, riguarda l’esser vero; l’ente reale si differenzia secondo le dieci categorie e possiede un’essenza. Questa indica ciò che un ente è e significa la determinatezza di una cosa, il suo principio di attività. Nelle sostanze corporee, composte di materia e forma, la loro essenza rinvia a un tale composto, nel senso che l’essenza in generale (l’essenza di uomo) implica la materia in generale, mentre nell’essenza di un individuo (l’essenza di Socrate) è inclusa quella materia (materia signata quantitate), la quale, nel corso di molte generazioni, ha assunto quelle dimensioni e quei caratteri che la rendono idonea a determinarsi in quel particolare individuo. A questo proposito, Tommaso, parlando del genere e della specie, tratta il problema degli universali, in rapporto

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all’essenza. Questi, cioè i generi e le specie, non esistono nella realtà; essi non sono altro che gli individui considerati in maniera più indeterminata, così come il nostro intelletto è in grado di coglierli. L’essenza, in sé considerata, non è né particolare, né universale, ma esprime che cosa è un certo ente; essa, poi, può realizzarsi nelle cose singolari oppure nell’intelletto, e allora esisterà come universale, cioè predicabile di più individui. Ma si tratta sempre della stessa essenza. Esistono poi anche le sostanze separate, come i puri spiriti, vale a dire gli angeli e Dio: secondo Tommaso, fra essi esiste comunque una differenza ontologica fondamentale. Atto puro, assolutamente semplice, è solo Dio, mentre le altre sostanze, pur non avendo materia, ricevono il loro essere da Dio, per partecipazione e, quindi rivelano un’intrinseca composizione, quella tra essenza ed essere. Ne risulta che in tutti gli enti creati, oltre l’eventuale composizione tra materia e forma, che dà luogo al sinolo, il quale costituisce le sostanze composte, c’è un’ulteriore distinzione reale, quella tra essere ed essenza. Riguardo al tema della verità, Tommaso fissa alcuni punti che avranno poi decisiva influenza nelle epoche successive: essa indica sempre un rapporto di conformità e di adeguazione tra la cosa e l’intelletto; ma questo può aver luogo secondo direzioni diverse. Nel caso dell’intelletto umano, la verità della conoscenza e del giudizio consiste nella conformità alle cose; nel caso dell’intelletto divino o dell’intelletto umano se è artefice di qualcosa, allora l’adeguazione sarà da parte della cosa creata nei confronti dell’intelletto creatore. Risulta così che vere non sono solo le conoscenze o le proposizioni, quando dicono qualcosa che corrisponde alla realtà delle cose; ma vere sono anche le cose stesse, nella misura in cui corrispondono al modello ideale concepito dal loro artefice, l’uomo o, nel caso dell’intera realtà (come vedremo), Dio.

4. La Somma teologica L’opera, divisa in tre parti, è stata composta a Roma, Parigi e Napoli tra il 1267 e il 1273 e intende offrire un corso per principianti in una forma unitaria e articolata, in cui la «sacra dottrina», cioè la verità cattolica, sia dispiegata in forma scientifica, cioè teologica e filosofica, in modo che i due ambiti, pur non essendo privi di connessioni, vadano tenuti distinti. Lo scopo è triplice: far conoscere Dio, anche in relazione al creato; trattare del cammino dell’uomo verso Dio, mediante la ragione; parlare di Cristo, che offre quella salvezza, cui le sole forze naturali non potrebbero pervenire. Tommaso ritiene che con la ragione si riesca a dimostrare l’esistenza di Dio e, a questo scopo, propone le famose «cinque vie». Lo schema logico generale è il seguente: la realtà contingente, che può essere e non essere, sarebbe contraddittoria, se fosse tutta la realtà, e, poiché quanto

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è logicamente contraddittorio non può essere reale, occorre ammettere un ente, che non sia contingente, cioè che non abbia i caratteri che rendono contingenti le cose del mondo. Tale ente è quanto, in genere, gli uomini chiamano Dio. Le «cinque vie» individuano ciascuna un segno della contingenza del reale e, quindi, un carattere che Dio non dovrebbe possedere per essere tale. Nella prima via, il moto viene considerato nel suo aspetto più universale, come mutamento o divenire; si osserva che quanto muta è mosso da altro (omne quod movetur ab alio movetur), cioè deve avere in altro la ragione del suo mutamento. Infatti, se qualcosa diviene, è in potenza, poiché, se fosse in atto, non avrebbe bisogno di divenire e mutare, mentre quanto fa mutare deve essere in atto; ora, una cosa non può essere, per lo stesso aspetto, in atto e in potenza insieme, poiché violerebbe il principio di non contraddizione; quindi, nulla può mutare da sé, e poiché non si può procedere all’infinito, occorre ammettere che esista un primo ente, che non divenga e sia immutabile e atto puro, senza potenza alcuna. La seconda via inferisce una causa prima, partendo dalla realtà causata; la terza arguisce da realtà generabili e corruttibili, che hanno un inizio e una fine e sono quindi possibili e non necessarie, l’esistenza di un ente necessario; la quarta dalla gerarchia dei valori e dei beni, sempre limitati, prova un ente perfettissimo; infine, la quinta dalla finalità, presente in natura presso molti enti privi di coscienza, dimostra l’esistenza di un Ordinatore massimamente intelligente. Questi argomenti non ci fanno conoscere Dio nella sua essenza, ma attestano solo che la proposizione: «Dio esiste» è vera; inoltre, riusciamo a sapere soprattutto come Dio non è, vale a dire quali caratteristiche, tipiche della realtà contingente, non gli convengono: si tratta della famosa «teologia negativa». Le perfezioni, poi, che negli enti reali sono limitate, competono a Dio in modo infinito e assoluto. La nostra conoscenza di Dio è solo analogica, cioè i nomi con cui parliamo di Dio, hanno un significato in parte eguale e in parte diverso rispetto a quello con cui designiamo la realtà contingente. Poiché Dio è atto puro, in lui essenza ed esistenza coincidono; è l’Ipsum esse subsistens, cioè l’Essere pienamente sussistente; è unico e tutto quanto esiste è stato creato da lui e da lui riceve il suo essere. Riguardo alla creazione, essa non è avvenuta in modo necessario, ma è stata un atto libero e intelligente di un Dio personale. Su questo progetto creativo si fonda la tesi che ogni cosa, oltre che in sé determinata e una, è anche vera e buona (i trascendentali, come supremi predicati di ogni ente); infatti ogni ente, in quanto conosciuto e voluto da Dio, ha un senso e un fine intrinseco, conferitogli nel momento della creazione. Tale concezione vuole anche giustificare l’ammissione di un finalismo universale, di cui l’uomo può cogliere solo qualche tratto parziale e limitato. Tommaso si sofferma particolarmente sull’uomo: a questo proposito, presenta una concezione innovativa, rispetto a quella tradizionale. Essa di-

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fende due tesi fondamentali: la spiritualità dell’anima e l’unità dell’uomo, il quale è sì un sinolo, un composto, ma l’anima spirituale è, essa stessa, direttamente anche forma del corpo. L’anima è spirituale, cioè ha una sussistenza propria, indipendente dal corpo, in quanto possiede attività che svolge autonomamente rispetto al corpo, come, ad esempio, la conoscenza dell’universale (conosciamo non solo Pietro e Carla, ma abbiamo anche il concetto di persona umana; anzi, conosciamo gli individui solo attraverso concetti universali) e l’autocoscienza, la consapevolezza di se stessi. Quest’anima, tuttavia, è anche l’unica forma del corpo, giacché l’uomo, che ha la conoscenza sensibile solo attraverso il suo corpo, del quale è anche pienamente consapevole, è proprio lo stesso individuo che conosce intellettivamente, contempla e ragiona. L’anima è «l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza». E Tommaso cerca pure di mostrare in che modo l’anima, così intimamente unita al corpo, sia anche immortale e continui a vivere, nonostante la decomposizione del corpo dopo la morte. Questa antropologia implica, come conseguenza, che l’uomo non disponga di idee innate, né conosca le verità eterne indipendentemente dalla conoscenza sensibile e prima di essa. L’intelletto umano coglie il significato intelligibile del mondo sensibile e la sua prima fonte di conoscenza è unicamente l’essenza delle cose materiali, dalle quali, per astrazione, perviene ai concetti più astratti, come quello di essere, applicabili anche a ciò che sensibile non è. L’etica si fonda sulla tesi della finalità del reale, che, a sua volta, come abbiamo visto, trova la sua giustificazione nel fatto che il reale è creato secondo un progetto divino. Anche l’uomo ha un fine da attuare e in esso consiste la sua perfezione e il senso della vita, ma tale fine può essere raggiunto solo attraverso una scelta consapevole e libera. Nella sensazione del piacere l’uomo avverte sensibilmente la perfezione raggiunta, ma questa non consiste esclusivamente nel piacere: anzi, Tommaso chiama gioia (gaudium) il senso della perfezione acquisita, allorché questa sia propriamente umana. La beatitudine, in cui consiste la massima perfezione, si raggiunge con l’esercizio dell’attività intellettiva, che è tipica dell’uomo e si realizza nella contemplazione: poiché in questa vita tale stato è inevitabilmente frammentario ed esposto a molti ostacoli, la vita ultraterrena consentirà di raggiungere la beatitudine piena. In questa vita l’uomo è chiamato a dare soddisfazione, secondo una precisa gerarchia di valori, alle diverse esigenze caratteristiche della sua natura, quella corporea, quella animale e quella spirituale: si tratta della tendenza naturale a persistere nell’esistenza, a procreare ed educare la prole, a conoscere la verità riguardo a Dio e a vivere in società (Somma teologica, Ia-IIae, q. 94, art. 2). E la legge, sia quella naturale, sia quella positiva, costituisce la via per meglio e più facilmente conseguire il fine della beatitudine.

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Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

L’edizione critica delle opere di Tommaso, avviata per impulso di Papa Leone XIII, a cura della Commissione Leonina, a partire dal 1882, è tuttora in corso. Un’edizione, pubblicata in 33 volumi, è quella di Marietti, Torino. Fra le numerose traduzioni di singole opere si segnalano: L’ente e l’essenza, Rusconi, Milano 2002; Sulla verità, Bompiani, Milano 2005; Somma contro i Gentili, Utet, Torino 1975; La Somma teologica, a cura dei Domenicani italiani, Firenze 1949-1972; ristampa, Bologna 1984-1985 (35 voll. che riportano anche il testo a fronte dell’edizione Leonina); Trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti, Rusconi, Milano 2000.

Letteratura secondaria

Nell’immensa letteratura critica, si segnalano come acute e documentate introduzioni e presentazioni: E. Gilson, Le Thomisme. Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 19797; C. Fabro, Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Edizioni Ares, Milano 1983; R. Schönberger, Tommaso d’Aquino, il Mulino, Bologna 2002; A.-D. Sertillanges, La filosofia di S. Tommaso d’Aquino, Edizioni Paoline, Roma 1957; J.-P. Torrell, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006; S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, Bari 200712.

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Per una conoscenza diretta La struttura ontologica fondamentale

Da quanto si è visto, appare quindi chiaro in che modo l’essenza si ritrovi nelle diverse cose. Si trovano dunque nelle sostanze tre diversi modi di possedere l’essenza. Vi è infatti qualcosa, come Dio, la cui essenza è il suo stesso essere, e perciò ci sono alcuni filosofi che affermano che Dio non ha quiddità o essenza, poiché la sua essenza non è altro che il suo essere. […] In un secondo modo l’essenza si trova nelle sostanze create intellettuali, in cui l’essere è altro dalla loro essenza, per quanto l’essenza stessa sia priva di materia. Il loro essere non è perciò assoluto, ma ricevuto, e perciò limitato e finito secondo la capacità della natura ricevente; ma la loro natura o quiddità è tuttavia assoluta, non ricevuta in alcuna materia. […] E pertanto in queste sostanze non si trova una molteplicità di individui all’interno di una stessa specie, come si è detto, se non nel caso dell’anima umana, a causa del corpo a cui s’unisce. […] In un terzo modo l’essenza si ritrova nelle sostanze composte di materia e forma, nelle quali non solo l’essere è ricevuto e finito, per il fatto che ricevono l’essere da altro, ma la stessa natura o quiddità è in questo caso ricevuta nella materia segnata […] e in esse è già possibile, per la divisione della materia segnata, la moltiplicazione degli individui all’interno di una stessa specie. L’ente e l’essenza, 6, Rusconi, Milano 1995, pp. 119-127.

L’essenza non è né universale, né individua

La natura o essenza così intesa può essere considerata in due modi: in primo luogo, secondo il suo proprio modo di essere, e questa è la sua considerazione assoluta, e in questo senso nulla è vero di essa, se non ciò che le conviene in quanto tale, così che qualunque altra cosa le venga attribuita, l’attribuzione risulti falsa: ad esempio all’uomo, in quanto uomo, convengono «razionale» e «animale» e tutte le altre cose che cadono nella sua definizione, mentre bianco o nero o tutto ciò che non appartiene al modo di essere dell’umanità non conviene all’uomo in quanto uomo. Pertanto, se si chiede se questa natura così considerata possa dirsi una o molteplice, non si deve concedere né una cosa né l’altra, perché ambedue sono al di fuori del concetto di umanità, e ambedue possono appartenergli. [...] Nel secondo modo, l’essenza può essere considerata sotto l’aspetto per cui possiede l’essere in questo o quell’individuo determinato; e così di essa si può predicare qualcosa per accidente, a causa di ciò in cui è, così come si dice che l’uomo è bianco, perché Socrate è bianco, quantunque ciò non convenga all’uomo in quanto uomo. Questa natura ha un duplice essere: uno nelle realtà singolari, l’altro nell’anima […] La stessa natura esiste nell’intelletto indipendentemente da tutte le condizioni individuanti, e pertanto possiede un modo di essere uniforme a tutti gli individui che esistono nella realtà, nella misura in cui essa è ugualmente somiglianza di tutti e conduce alla conoscenza di tutti, in quanto sono uomini. L’ente e l’essenza, 3, pp. 101; 103-105.

La verità

Ora, una cosa non è detta vera, se non nella misura in cui è adeguata all’intelletto; per conseguenza, il vero si trova in secondo luogo nelle cose, invece in primo luogo nell’intelletto. Ma bisogna sapere che una cosa si rapporta all’intelletto

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speculativo in un modo e all’intelletto pratico in un altro. Infatti l’intelletto pratico causa le cose, cosicché è misura delle cose, che si fanno per mezzo di esso, invece l’intelletto speculativo, poiché riceve dalle cose, è, in un certo qual modo, mosso dalle stesse cose; e quindi le cose ne sono la misura. Da ciò è manifesto che le cose naturali, dalle quali il nostro intelletto riceve la scienza, misurano il nostro intelletto, com’è detto nel libro X della Metafisica, però sono misurate dall’intelletto divino, nel quale tutte le cose esistono come nell’intelletto dell’artigiano [esistono] tutti gli artefatti. Così, dunque, l’intelletto divino è misurante e non misurato, invece le cose naturali [sono] misurate e misuranti, ma il nostro intelletto [è] misurato e non misurante le cose naturali, ma solo quelle artificiali. Dunque, una cosa naturale, posta tra due intelletti, è detta vera secondo l’adeguazione ad entrambi. Infatti, è detta vera secondo l’adeguazione all’intelletto divino, nella misura in cui realizza ciò cui è ordinata dall’intelletto divino […]. Invece, una cosa è detta vera secondo l’adeguazione all’intelletto umano, in quanto è di natura tale da rendere vero il giudizio riguardo ad essa […]. Ora, la prima nozione di verità esiste nella cosa prima della seconda, poiché c’è il suo rapporto all’intelletto divino prima che [a quello] umano. Per conseguenza, anche se non ci fosse l’intelletto umano, le cose si direbbero ugualmente vere in ordine all’intelletto divino; ma se, per assurdo, si eliminassero entrambi gl’intelletti e restassero solo le cose, non rimarrebbe in nessun modo la nozione di verità. Questioni disputate sulla verità, q. 2, a. 2, in Sulla verità, pp. 127-129.

L’esistenza di Dio

Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta ai sensi che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia in potenza rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto e in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La Somma teologica, I, q. 2, a. 3, pp. 80-82.

La nostra conoscenza di Dio

Se un intelletto creato possa con le sue forze naturali vedere l’essenza divina. Ora, molti sono i modi di essere delle cose. Alcune sono tali che la loro natura

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non ha l’essere che in questa o quella materia individuale: e tali sono tutti gli enti corporei. Ve ne sono poi di quelle le cui nature [o essenze] sono per sé sussistenti, fuori d’ogni materia, le quali tuttavia non sono il loro essere, ma sono nature che hanno l’essere; e tali sono le sostanze incorporee, chiamate angeli. Soltanto a Dio invece appartiene di essere in maniera tale che egli sia il suo stesso essere sussistente. A noi dunque è connaturale conoscere quelle cose che non hanno l’essere se non nella materia individuale; perché l’anima nostra, con la quale intendiamo, è anch’essa forma di una materia. Quest’anima, tuttavia, ha una duplice potenza conoscitiva. Una è atto di un organo corporeo. E ad essa è connaturale conoscere le cose secondo che sono nella materia individuale: cosicché il senso non conosce che i singolari. L’altra potenza conoscitiva dell’anima è l’intelletto, il quale non è atto [o funzione] di alcun organo corporeo. Perciò mediante l’intelletto ci è connaturale conoscere nature [o essenze] le quali, veramente, non hanno l’essere che nella materia individuale; tuttavia non [sono percepite da noi] in quanto esistenti nella materia, ma in quanto ne sono astratte dall’intelletto che le considera. Cosicché noi possiamo conoscere intellettualmente tali cose con una conoscenza universale: il che supera la capacità del senso. All’intelletto angelico poi è connaturale conoscere le nature esistenti fuori della materia. Ciò supera la naturale capacità dell’intelletto dell’anima umana nello stato della vita presente, durante il quale è unita al corpo. La Somma teologica, I, q. 12. a. 4, pp. 258-260.

L’unità dell’uomo

È necessario affermare che l’intelletto, cioè il principio dell’operazione intellettiva, è forma del corpo umano. Infatti il principio, in forza del quale un essere immediatamente opera, è la forma del soggetto cui viene attribuita l’operazione. […] La ragione di ciò sta nel fatto che nessun essere agisce, se non in quanto è in atto: perciò agisce in forza di quell’attualità che possiede. Ora è evidente che l’anima è il principio immediato in forza del quale il corpo vive. E siccome la vita si manifesta con varie operazioni nei diversi gradi dei viventi, l’anima è il principio primo e immediato, in forza del quale compiamo tutte le operazioni vitali: infatti l’anima è il principio primo e immediato, in forza del quale ci nutriamo, sentiamo e ci moviamo nello spazio, e in forza del quale abbiamo l’intellezione. Questo dunque, che è il principio primo della nostra intellezione, e che chiamiamo intelletto, oppure anima intellettiva, è forma del corpo. […] Quando dunque diciamo che Socrate, oppure Platone, intende, è chiaro che non si vuol fare tale attribuzione in modo accidentale, poiché l’attribuzione gli è fatta in quanto è un uomo, e uomo è predicato essenziale di un uomo. Bisognerà allora dire così: o Socrate intende con tutto se stesso, come voleva Platone, il quale insegnava che l’uomo non è che l’anima intellettiva; oppure bisognerà dire che l’intelletto è una parte di Socrate. La prima ipotesi non regge, come si è visto, per il fatto che l’identico uomo percepisce non solo di intendere, ma anche di sentire: e non si può sentire senza un corpo; dunque è necessario che il corpo sia una parte dell’uomo. Bisognerà ammettere perciò che l’intelletto, col quale Socrate intende, è una parte di Socrate; nel senso che esso è unito in qualche modo al corpo di Socrate. La Somma teologica, I, q. 76, a. 1, pp. 208-210.

sezione iii La filosofia moderna

Capitolo 5 Cartesio Gaspare Polizzi

1. La vita e le opere René Descartes, latinizzato in Cartesius, da cui Cartesio, nasce a La Haye, in Touraine, nel 1596; di origini nobili, compie i suoi studi in uno dei più rinomati collegi gesuiti, quello di La Flèche (1604-1612). Nel Discorso sul metodo (1637), la sua opera più celebre, scritta nella forma dell’autobiografia filosofica, racconta dei suoi studi, seguiti con impegno, ma anche con un’insoddisfazione che lo condurrà alla critica del sapere del proprio tempo e alla ricerca di una nuova via per la verità e di un nuovo sistema del sapere. Uscito dal collegio studierà diritto all’università di Poitiers conseguendo nel 1616 il baccalaureato in legge; allo scoppio della guerra dei Trent’anni (1618) si arruolerà come «gentiluomo volontario» nell’esercito di Maurizio di Nassau. Ma nello stesso anno incontra in Olanda uno studioso di questioni fisico-matematiche, il medico Isaac Beeckman, che lo stimola nella ricerca. La consapevolezza di appartenere a un’epoca di grandi trasformazioni nei più diversi campi del sapere si unisce alla delusione per una tradizione filosofica superata dal sapere scientifico e ondeggiante tra le «scienze curiose» della cultura rinascimentale, al punto da fargli scrivere che non c’è nulla di strano che qualche filosofo non abbia detto. In una ricostruzione successiva Cartesio presenterà la sua intuizione di una «scienza nuova» come un’illuminazione ricevuta in sogno la notte del 10 novembre 1619. Abbandonata la carriera militare, si darà ai viaggi per conoscere la cultura e i costumi dei paesi europei, tra i quali l’Italia. Nel 1628 si stabilisce in Olanda dove, grazie ai beni di famiglia, può intraprendere un lungo e articolato itinerario di studi svincolato da ogni impegno lavorativo. La prima opera che segna il progetto cartesiano fu scritta forse già nel 1628 in latino e lasciata incompleta: si tratta delle Regole per la guida dell’intelligenza, nelle quali vengono proposte ventuno «regole» per una

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ricostruzione del sapere universale. Nonostante il volontario isolamento negli studi (il suo motto era «larvatus prodeo», «procedo mascherato») Cartesio rimane tuttavia in contatto con i principali studiosi francesi ed europei, attraverso intensi scambi epistolari che contribuiranno a delineare quella «république des lettres» che univa i letterati tra Cinquecento e Seicento, nonostante la divisione interna al cristianesimo europeo maturata con la Riforma protestante e con la Controriforma. Un importante punto di riferimento per i legami con la cultura francese è costituito dal teologo e scienziato, Marin Mersenne, amico e corrispondente di Cartesio che avrà un ruolo importante per la conoscenza delle sue opere in Francia. Lo spirito della Controriforma pesa anche su Cartesio, sostenitore della scienza moderna e della teoria copernicana: con il processo del 1633 Galilei subisce la seconda condanna e Cartesio decide di non pubblicare il trattato Il mondo, che contiene la sua concezione della fisica e sarà pubblicato postumo in due parti, Il mondo e L’uomo. Nel 1637 Cartesio pubblica in francese le sue principali opere scientifiche in tre libri: la Diottrica, che affronta questioni di ottica, le Meteore, che trattano dei fenomeni «meteorologici», posti tra la Terra e il Cielo, la Geometria, che introducendo la geometria analitica produce una grande svolta della matematica. Vi premette un’introduzione che diverrà presto uno tra i più noti scritti della filosofia moderna: il Discorso sul metodo – vera e propria autobiografia filosofica che traccia la strada percorsa da Cartesio per pervenire alle sue scoperte scientifiche, le più rilevanti delle quali si ritrovano in quella nuova scienza che lo aveva impegnato dal 1618, la geometria analitica. La più articolata esposizione della filosofia cartesiana sarà consegnata nel 1641 a un’opera in latino, rivolta ai dotti europei, le Meditationes de prima philosophia (Meditazioni metafisiche, nelle quali sono dimostrate l’esistenza di Dio e la distinzione reale tra l’anima e il corpo dell’uomo), e seguita da sette gruppi di Obiezioni fatte da persone dottissime contro le precedenti meditazioni con le risposte dell’autore, che raccolgono le obiezioni degli studiosi che corrispondevano con l’autore e le relative risposte. Per la loro struttura le Meditazioni metafisiche costituiscono così un’opera collettiva nella quale converge il dibattito filosofico del primo Seicento con la partecipazione di filosofi di grande levatura: Harleem Jan de Kater (Prime obiezioni), Marin Mersenne (Seconde obiezioni), Thomas Hobbes (Terze obiezioni), Antoine Arnauld (Quarte obiezioni), Pierre Gassendi (Quinte obiezioni), un gruppo di geometri e di teologi (Seste obiezioni), il gesuita Pierre Bourdine (Settime obiezioni). Poco dopo, nel 1644, Cartesio curerà la redazione di un’opera manualistica di sintesi in latino che potesse essere utilizzata dagli studenti nelle Università olandesi e raccogliesse i fondamenti della sua metafisica e della sua fisica: i Principia philosophiae. Ma le concezioni cartesiane non sono ben accolte dagli ambienti accademici olandesi, anche se cresce l’interesse

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e l’adesione degli studiosi per le sue teorie. Cartesio troverà invece ascolto tra le nobildonne europee come Elisabetta principessa del Palatinato, che lo conduce a redigere tramite uno scambio epistolare un vero trattato di questioni morali, Le passioni dell’anima, pubblicato nel 1649. Ma sarà soprattutto la regina Cristina di Svezia ad essere talmente attratta dal pensiero di Cartesio da invitarlo a Stoccolma, dove il filosofo francese soggiornerà per pochi mesi, prima di morirvi nel febbraio 1650.

2. Rifondare la filosofia Cartesio partecipa delle difficoltà e delle esigenze proprie di numerosi filosofi moderni, tra i quali vanno ricordati Francesco Bacone e Galileo Galilei: da un lato vede entrare in crisi il modello del sapere aristotelico, che aveva dominato fino al Cinquecento, dall’altro ricerca una nuova via che possa condurre a quelle salde verità che la dissoluzione dei riferimenti culturali aristotelici aveva reso traballanti. La cultura rinascimentale aveva a suo modo riorientato l’orizzonte del sapere, introducendo la conoscenza di una realtà naturale fatta di forme, qualità, vita, ma soltanto con la nascita della scienza moderna, avviata dalla grande rivoluzione astronomica prodotta da Copernico era sorta una nuova indicazione per interpretare i fenomeni naturali con il doppio criterio delle dimostrazioni matematiche e delle verifiche sperimentali. Cartesio ha esperienza diretta di tutte e tre le dimensioni della cultura del suo tempo: ha studiato nel collegio gesuitico secondo i canoni del sapere aristotelico, ha conosciuto le teorie rinascimentali che proponevano un’immagine animata e vitale della natura, ha appreso in Olanda le concezioni della nuova scienza, a partire dall’astronomia copernicana. La sua esigenza è innanzitutto ricostruttiva: è possibile rifondare la filosofia come ricerca della verità sulle macerie della tradizione aristotelica e tra gli incerti orientamenti del nuovo sapere? Bisogna trovare un metodo, una «retta via», che conduca a una rifondazione completa e compiuta dell’orizzonte della conoscenza e possa ricostituire quell’unità del sapere che la filosofia classica aveva ritenuto il suo obiettivo più alto, a partire dalla constatazione che gli strumenti forgiati dalla tradizione filosofica non sono più affidabili. Cartesio è un matematico e nel ragionamento matematico ha trovato gli strumenti che gli hanno consentito di fondare una scienza nuova, la geometria analitica, che unisce il rigore deduttivo della dimostrazione algebrica con i vantaggi intuitivi della geometria. La matematica, ancora marginale nella cultura del Cinquecento, offre a Cartesio l’esempio di un modo diverso di produrre conoscenze scientifiche, che apre straordinarie possibilità in ogni direzione del sapere; essa costituisce un modello rigoroso e deduttivo di conoscenza: muove da premesse certe ed evidenti e arriva a risolvere i problemi più difficili attraverso una lunga catena di dimostra-

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zioni. Per Cartesio il metodo deduttivo presenta inoltre il vantaggio che un solo architetto possa costruire un progetto unitario del sapere a partire da pochi principi generali. L’immagine che Cartesio propone è quella piramidale dell’albero della conoscenza; nei Principi della filosofia scrive che «la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale».

3. L’albero della conoscenza La filosofia dovrà quindi costruire un «albero» organicamente proporzionato nelle sue parti che poggerà sulla metafisica e si articolerà nelle grandi divisioni scientifiche avviate al tempo: fisica (da intendersi in senso generale, comprensivo dell’astronomia), medicina (l’arte di preservare la salute), meccanica (lo studio delle macchine), morale (scienza che avrebbe dovuto definire la sfera dei comportamenti e delle azioni umane e che verrà sviluppata soltanto per quanto riguarda l’analisi delle passioni). Il progetto di Cartesio non possiede intenti pratici o applicativi e valorizza un approccio deduttivo che trova nella matematica il suo fondamento. Esso svilupperà, nel trattato pubblicato postumo Il mondo ovvero Trattato della luce, una fisica meccanicistica che, pur mancando di una connotazione sperimentale, apporterà un significativo contributo alla scienza moderna. La fisica cartesiana pone al centro i concetti di materia, identificata con l’estensione (res extensa), e di movimento, in linea retta nei corpi, o vorticoso nelle particelle dei corpi. Il movimento in linea retta è definito dal principio di inerzia, mentre la teoria dei «vortici» spiegherebbe la formazione dell’universo e quella del sistema solare che ruota intorno al sole, posto al suo centro. Un simile orientamento «materialistico» consentirà la definizione di una biologia meccanicistica, che spiega il movimento e la sensibilità degli esseri animati tramite l’azione degli «spiriti animali», particelle materiali sottilissime in rapido movimento: le funzioni vitali e quelle connesse alla sensibilità non richiedono l’intervento di un’anima, propria soltanto degli uomini, esseri razionali. Anche nella ricerca incompiuta sulle passioni dell’anima, che conclude il suo progetto unitario affrontando la definizione di una scienza morale, Cartesio ripropone il problema delle relazioni tra anima e corpo. A differenza degli altri animali, nell’uomo l’anima razionale reagisce tramite la volontà alle passioni convogliate degli «spiriti animali», ma soltanto in modo indiretto, in quanto non può interagire con il meccanismo materiale delle passioni. La saggezza consiste – secondo un ideale che risale allo stoicismo antico – proprio nel saper controllare le passioni, tramite l’abitudine a contrastarne gli effetti negativi: l’uso della ragione è determinante per considerare le motivazioni di comportamenti alternativi a quelli suscitati meccanicamente da una passione. Ad esempio se la vista

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di un leone mi spinge alla fuga un’analisi razionale delle conseguenze del mio atto può condurmi a rimanere immobile. La fisica cartesiana rimarrà, soprattutto in Francia, un importante punto di riferimento e, pur essendo superata dalla scienza newtoniana e dalla cultura illuministica, verrà considerata il punto di partenza della filosofia moderna.

4. Un «discorso intorno al metodo» Dopo aver realizzato grandi risultati nelle scienze fisico-matematiche, che si accinge a pubblicare nei tre importanti trattati della Diottrica, delle Meteore e della Geometria, Cartesio ritiene di aver trovato quella via che conduce alla verità, oltrepassando le macerie dell’aristotelismo e le incertezze del proprio tempo. Scrive allora in francese un’introduzione alle sue opere scientifiche che inizialmente vorrebbe intitolare Progetto di una scienza universale, che possa innalzare la nostra natura al suo massimo grado di perfezione, proprio per segnare l’importanza e la vastità del progetto della nuova scienza, e che poi chiamerà più modestamente Discorso sul metodo (1637). Si tratta di un breve opuscolo che segnerà la storia della filosofia moderna costituendone un fondamento unico per la sua originalità; ne presentiamo le linee essenziali. Cartesio non impone le norme di un metodo, ma propone un «discorso intorno al metodo» che ha messo in atto nella sua ricerca fisico-matematica, nella convinzione che tale metodo possa essere applicato da tutti, in quanto la ragione o «il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita». Nel Discorso Cartesio propone quindi un itinerario verso la verità che possiede il doppio vantaggio di essere stato provato dallo stesso autore nella fondazione della geometria analitica e di essere percorribile da tutti gli uomini, in quanto esseri dotati di ragione. Già questa doppia indicazione segnala la fiducia del filosofo e scienziato nella possibilità di fondare una scienza universale che sia accresciuta e progredisca continuamente con il contributo di tutti gli studiosi; è la stessa fiducia che sta alla base della scienza e ne ha garantito il successo e che hanno mostrato grandi scienziati e filosofi moderni, da Bacone a Galileo. Ma Cartesio, proprio per il suo orientamento matematico, segue in modo più esplicito, rigoroso e deduttivo, le procedure del metodo e ne trae conseguenze filosofiche originali. È tuttavia assente ogni presunzione normativa: Cartesio racconta la propria vicenda intellettuale, mostra la via che ha seguito, chiarisce le proprie intenzioni e ricostruisce la genesi del proprio pensiero, partendo dall’esperienza del collegio, che ritiene fallimentare perché fondata su contenuti astrusi e incoerenti, non in grado di dar conto delle conoscenze moderne e di orientare la conoscenza futura. Il nuovo metodo poggerà su quattro semplici regole, convalidate dal lungo esercizio dell’autore, che sintetizzano le ventuno regole proposte nel

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precedente trattato sulle Regole per la guida dell’intelligenza: la prima richiede di non accogliere mai come vero nulla che non si conosca con evidenza; la seconda di dividere un problema complesso nelle sue parti semplici; la terza di seguire un ordine di ragionamento che inizi dagli elementi più semplici e proceda per gradi verso la conoscenza dei più complessi; la quarta di fare l’enumerazione completa dei passaggi seguiti, in modo da non trascurarne nessuno. Ma le regole del metodo registrano un dato di fatto, un modo di funzionare della ragione, non costituiscono ancora una solida base per accreditare tale metodo anche di diritto. Il criterio dell’evidenza non è così «evidente»: chi mi assicura che ciò che a me appare evidente sia vero di per sé? Cartesio inaugura così – nella parte IV del Discorso sul metodo – la via del «dubbio», un dubbio anch’esso esercitato con razionalità e metodo, e da seguire fino alle sue estreme conseguenze. Si potrebbe ipotizzare che la certezza dei sensi, l’evidenza delle operazioni matematiche, la stessa sicurezza che fa distinguere il sonno dalla veglia, siano oggetto dell’inganno di un diavolo, di un «genio maligno». Ma raggiunto il punto più elevato del dubbio il soggetto, l’io che pone il dubbio, si accorge intuitivamente che proprio mentre dubita egli esprime una certezza evidente, quella di essere un soggetto che pensa: «penso, dunque sono» (cogito, ergo sum). Si raggiunge così una verità indubitabile che poggia sulla coscienza interiore all’io, colta immediatamente senza alcun bisogno di ricorrere a princìpi esterni al soggetto che pensa. Una verità dunque che tutti possono sperimentare in se stessi e che unisce il pensare all’esistere in una consapevolezza che si presenta come il primo tassello di una ricerca autonoma della verità. Occorre ora fare un passo avanti per ritrovare la verità dei contenuti del pensiero, in rapporto con il mondo esterno e con i corpi. Perché le idee presenti nella mente posseggano quell’evidenza che costituisce il criterio primo di verità è necessario che non provengano dal mondo sensibile, che può sempre essere oggetto di dubbio, ma che siano quindi innate. Si tratta di una scelta che pone tra parentesi l’esperienza, incapace di far conoscere la realtà, e che si affida – con un’indicazione di sapore platonico – alle idee innate, distanziandosi dal recente sviluppo delle scienze sperimentali. L’idea innata che più di tutte appare chiara ed evidente, e non derivata né dal mondo sensibile, né dal soggetto che pensa, è l’idea di Dio. Riprendendo un ragionamento che aveva la sua radice nell’argomento ontologico proposto da S. Anselmo nel XII secolo, Cartesio sostiene che l’idea di «una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e tutte le altre cose che sono (se è vero che ve ne sono di esistenti), siamo stati creati e prodotti», non può provenire da un soggetto finito, ma deve essere causata da un essere infinito, da un Essere superiore che nella sua perfezione e onnipotenza non può non esistere: l’esistenza è legata all’essenza di Dio con la stessa necessità per la quale all’idea di triangolo inerisce che la somma dei suoi

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angoli sia uguale a due retti. Viene così definita la doppia fondazione di una nuova metafisica che poggia esclusivamente sulla coscienza del soggetto: la conoscenza del soggetto come essere pensante, come res cogitans, e la conoscenza dell’esistenza di Dio nell’idea chiara e distinta di Dio che è presente nella mente di ogni uomo. L’idea innata di Dio diviene garanzia indiscutibile sia della creazione del mondo, e quindi dell’esistenza del mondo esterno al soggetto, sia delle altre idee innate: dall’idea di Dio scaturisce la certezza dell’esistenza del mondo e della corrispondenza tra la realtà del mondo e le idee che lo rappresentano nella mente. Tale concezione razionale di Dio, visto come oggetto di una conoscenza chiara e distinta, distingue Cartesio da tanta parte della tradizione cristiana e da altri filosofi a lui contemporanei, come Blaise Pascal, e produrrà, unitamente alle sue teorie fisiche e biologiche, critiche e condanne da parte della Chiesa cattolica. Sul piano della conoscenza Cartesio individua tre tipologie di idee: le idee innate, presenti in noi indipendentemente dell’esperienza, che posseggono il carattere della chiarezza e dell’evidenza; le idee relative al mondo esterno e da esso derivate (idee avventizie); le idee fattizie, costruite da noi stessi unendo tra di loro più idee avventizie. Sul piano metafisico, la doppia realtà costituita da un soggetto che pensa, res cogitans, e da un mondo materiale che esiste fuori di esso, res extensa, è garantita dall’esistenza di Dio e riproduce un dualismo tra pensiero e mondo, tra anima e corpo, che costituirà il punto di arrivo della metafisica cartesiana e anche il principale elemento di criticità del suo sistema filosofico. Il dualismo cartesiano non soltanto ruota intorno alla triplice fondazione legata alla sostanza divina, alla sostanza pensante (il soggetto) e alla sostanza estesa (il mondo materiale), due delle quali – l’anima e i corpi – risultano autonome ma non del tutto autoconsistenti, ma pone anche un ordine di questioni sul rapporto tra l’azione del corpo sull’anima e viceversa. Per spiegare l’azione volontaria degli uomini e viceversa il peso sull’anima di passioni e sensazioni Cartesio rintraccia un luogo del cervello, la ghiandola pineale, come punto d’incontro tra anima e corpo; si tratta di una soluzione che risulterà debole sul piano filosofico e infondata su quello scientifico. Il percorso che dalla certezza del cogito ha condotto alla certezza del suo contenuto, delle idee presenti nella mente, ha connesso insieme la dimensione della conoscenza con quella metafisica e ha consentito l’avvio di quella ricostruzione della filosofia su basi sicure e autonome che costituisce l’obiettivo sistematico della ricerca cartesiana. Ma l’ampio progetto di ricostruzione non può escludere la sfera dell’azione umana, che dovrà essere orientata da norme morali anch’esse basate su idee chiare e distinte. In attesa che tale progetto si compia Cartesio – nella parte III del Discorso sul metodo – propone di consentire sui princìpi pratici di una «morale provvisoria» per regolare la propria condotta. Essi si riducono a «tre o

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quattro massime»: «obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese»; «esser fermo e risoluto, per quanto potevo, nelle mie azioni»; «vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna». Prudenza, moderazione e adesione alla tradizione, ivi compresa quella religiosa (Cartesio manterrà sempre ferma la propria adesione al cattolicesimo) esprimono i caratteri di fondo di tale morale provvisoria. Nelle ultime due parti il Discorso sul metodo svolge la propria funzione introduttiva descrivendo alcuni aspetti della ricerca scientifica di Cartesio ed esponendo una teoria sulla circolazione del sangue che si contrappone a quella del medico inglese William Harvey, che nel 1628 aveva scoperto i caratteri essenziali della circolazione sanguigna nell’interazione tra cuore e polmoni. Il Discorso non risponde soltanto all’aspirazione a costruire un nuovo sistema del sapere in base a un metodo solido e coerente; esso pone le fondamenta di una riflessione che poggia unicamente sulla ragione umana e trova il suo fulcro nella centralità del soggetto, aprendo così la strada alla filosofia moderna.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

L’edizione principale delle opere di Cartesio è: Descartes, Œuvres, a cura di C. Adam e P. Tannery, 12 voll., Cerf, Paris 1897-1913, ristampa a cura di B.Rochot, P. Costabel, J. Beaude e A. Gabey, 11 voll., Edition du CNRS – J.Vrin, Paris 1964-1974. Tra le edizioni italiane si ricordano: R. Descartes, Opere filosofiche, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1967, nuova ed. a cura di E. Garin, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1986; R. Descartes, Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, 2 voll., UTET, Torino 1994; R. Descartes, Il mondo ovvero Trattato della luce e L’uomo, Theoria, Roma 1983.

Letteratura secondaria

Nella vastissima letteratura ci si limita a ricordare: N. Allocca, Cartesio e il corpo della mente, Aracne, Roma 2006; F. Alquié, La decouverte metaphysique de l’homme chez Descartes, P.U.F., Paris 2000 (19501); F. Bonicalzi, Il costruttore di atomi. Descartes e le ragioni dell’anima, Jaca Book, Milano 1987; D.M. Clarke, Descartes: a biography, Cambridge University Press, Cambridge 2006; E. Garin, Vita e opere di Cartesio, Laterza, Roma-Bari 1984 (19671); G. Gori, a cura di, Cartesio, Isedi, Milano 1977; A. Koyré, Lezioni su Cartesio (1944), Tranchida, Milano 1996; S. Landucci, La mente in Cartesio, FrancoAngeli, Milano 2002; P. Mesnard, Cartesio: la vita, il pensiero, i testi esemplari (1966), Accademia, Milano 1972; A. Robinet, Descartes: la lumière naturelle: intuition, disposition, complexion, J.Vrin, Paris 1999; E. Scribano, Guida alla lettura delle “Meditazioni metafisiche” di Descartes, Laterza, Roma-Bari 1997.

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Per una conoscenza diretta La centralità della ragione

Il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita: ciascuno, infatti, pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili ad accontentarsi in ogni altra cosa, per questa non ne desiderano di più. Né è verosimile che tutti s’ingannino; anzi ciò dimostra che la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propriamente ciò che si dice il buon senso o ragione) è eguale per natura in tutti gli uomini, e che la diversità delle opinioni non deriva dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma solamente dal condurre i nostri pensieri per vie diverse e dal non considerare le stesse cose. Poiché non basta avere un buon ingegno: ciò che più importa è di applicarlo bene. Le anime più grandi sono capaci dei maggiori vizi come delle maggiori virtù; e quelli che seguono sempre la via dritta, anche se camminano più lentamente, possono andare molto più innanzi di coloro che, correndo, se ne allontanano. Discorso sul metodo, parte I in Opere filosofiche, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1967, vol. I, pp. 131-32.

Le regole del metodo

La prima era di non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza: di evitare, cioè, accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio. La seconda era di dividere ogni problema preso a studiare in tante parti minori, quante fosse possibile e necessario per meglio risolverlo. La terza, di condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri. L’ultima, di far dovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da esser sicuro di non aver omesso nulla. Discorso sul metodo, parte II, in Opere filosofiche, vol. I, p. 142.

Rilievo della matematica

Quelle catene di ragionamenti, lunghe, eppur semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni, mi diedero motivo a supporre che nello stesso modo si susseguissero tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscenza, e che, ove si faccia attenzione di non accoglierne alcuna per vera quando non lo sia, e si osservi sempre l’ordine necessario per dedurre le une dalle altre, non ce ne fossero di così lontane alle quali non si potesse arrivare, né di così nascoste che non si potessero scoprire. Da quali cominciare, non tardai molto a stabilire: ché sapevo già che dovevano essere le più semplici e facili a conoscersi. Considerando, quindi, come, fra tutti quanti hanno finora cercata la verità nelle scienze, soltanto i matematici sono riusciti a trovare alcune dimostrazioni o ragionamenti certi ed evidenti, non dubitai che quelle fossero le verità prime da esaminare, sebbene non ne sperassi altro vantaggio che di abituare la mia intelligenza alla ricerca fondata sul vero e non su falsi ragionamenti. Discorso sul metodo, parte II, in Opere filosofiche, vol. I, pp. 142-43.

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Le regole della morale provvisoria

Prima di por mano alla ricostruzione della casa che abitiamo, non basta abbatterla e provvedere ai materiali e all’architetto, o farci noi stessi architetti e averne anche disegnato accuratamente il progetto; occorre, anzitutto, provvedersi di un altro alloggio, dove sia possibile abitare comodamente finché durano i lavori. Così io, per non restare irresoluto nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non rinunziare sin da allora a vivere quanto mi era possibile felicemente, mi formai una morale provvisoria, la quale si riduceva a tre o quattro massime che mi piace qui esporre. La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, serbando fede alla religione nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dall’infanzia e regolandomi nel resto secondo le opinioni più moderate, lontane da ogni eccesso, e comunemente seguite dalle persone più assennate, con le quali dovevo vivere. Io avevo deciso, infatti, di prenderle tutte in esame, ma poiché dovevo cominciare a non tener conto delle mie proprie, riconoscevo giusto di seguire intanto quelle dei più assennati. E benché fra Persiani e Cinesi ci siano forse uomini assennati quanto fra noi, mi pareva molto più utile regolarmi alla maniera di coloro con i quali dovevo condur la mia vita. [...] La seconda massima era di esser fermo e risoluto, per quanto potevo, nelle mie azioni, e di seguire anche le opinioni più dubbie, una volta che avessi deciso di accettarle, con la stessa costanza come se fossero le più sicure: imitando in ciò i viaggiatori, i quali, se si trovano smarriti in una foresta, non debbono aggirarsi ora di qua e ora di là, e tanto meno fermarsi, ma camminare sempre nella stessa direzione, e non mutarla per deboli ragioni, ancorché l’abbiano scelta a caso, perché, così, anche se non vanno proprio dove desiderano, arriveranno per lo meno alla fine in qualche luogo dove probabilmente si troveranno meglio che nel fitto della boscaglia. [...] La mia terza massima fu di vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna, e di voler modificare piuttosto i miei desideri che l’ordine delle cose nel mondo; e in generale di assuefarmi a credere che nulla all’infuori dei nostri pensieri è interamente in nostro potere, in modo che, quando abbiam fatto del nostro meglio riguardo alle cose che son fuori di noi, se qualcosa non ci riesce, vuol dire ch’essa non dipende assolutamente da noi. Questa considerazione mi parve sufficiente a impedirmi di nulla desiderare per l’avvenire ch’io non potessi acquistare, e così a farmi contento. Discorso sul metodo, parte III, in Opere filosofiche, vol. I, pp. 144-46.

Penso, dunque sono

Intanto: poiché i nostri sensi talvolta c’ingannano, volli supporre non esserci nessuna cosa che fosse quale essi ce la fanno immaginare. E poiché ci sono uomini che cadono in abbagli e paralogismi ragionando anche intorno ai più semplici argomenti di geometria, pensai ch’io ero soggetto ad errare come ogni altro, e però respinsi come falsi tutti i ragionamenti che avevo preso sin allora per dimostrazioni. In fine, considerando che gli stessi pensieri, che noi abbiamo quando siam desti, possono tutti venirci anche quando dormiamo benché allora non ve ne sia alcuno vero, mi decisi a fingere che tutto quanto era entrato nel mio spirito sino a quel momento non fosse più vero delle illusioni dei miei sogni. Ma, subito dopo, m’accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa,

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bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pur qualcosa. Per cui, dato che questa verità: Io penso, dunque sono, è così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senza esitazione come il principio primo della mia filosofia. Discorso sul metodo, parte iv, in Opere filosofiche, vol. I, p. 151.

La definizione di sostanza

Per quanto riguarda le cose che noi consideriamo come dotate di qualche esistenza, è necessario che le esaminiamo qui l’una dopo l’altra, per distinguere quello ch’è oscuro da quello che è evidente nella nozione che abbiamo di ciascuna. Quando noi concepiamo la sostanza, concepiamo solamente una cosa che esiste in tal modo da non aver bisogno che di se medesima per esistere. Nel che può esserci dell’oscurità riguardo alla spiegazione di questa espressione: non aver bisogno che di se medesimo; poiché, a parlar propriamente, non v’ha che Dio che sia tale, e non v’ha niuna cosa creata che possa esistere un sol momento senza essere sostenuta e conservata dalla sua potenza. Ecco perché si ha ragione nella scuola di dire che il nome di sostanza non è «univoco». I princìpi della filosofia, parte i, par. 51, in Opere filosofiche, vol. II, pp. 51-52.

Il dualismo: res cogitans e res extensa

Ma, benché ogni attributo sia sufficiente per fare conoscere la sostanza, ve n’ha tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura e la sua essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea; ed il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante. Poiché tutto ciò che del resto si può attribuire al corpo presuppone estensione, e non è che un modo di quello che è esteso; egualmente, tutte le proprietà che troviamo nella cosa che pensa, non sono che modi differenti di pensare. Così non sapremmo concepire, per esempio, nessuna figura se non in una cosa estesa, né movimento che in uno spazio che sia esteso; così l’immaginazione, il sentimento e la volontà dipendono in tal modo da una cosa che pensa, che non possiamo concepirli senza di essa. Ma, al contrario, noi possiamo concepire l’estensione senza figura o senza movimento, e la cosa che pensa senza immaginazione o sentimento, e così via. I princìpi della filosofia, parte i, par. 53, in Opere filosofiche, vol. II, pp. 52-53.

Capitolo 6 Spinoza Gaspare Polizzi

1. La vita e le opere Nei tempi e nei luoghi che fanno da sfondo alla biografia di Baruch Spinoza esplodono le violenze e i drammi della scissione religiosa del cristianesimo e delle guerre di religione in Europa, ai quali si aggiungono quelli, di più lunga durata, dovuti alla persecuzione degli ebrei. Pur nascendo nel 1632 in Olanda, ad Amsterdam, terra nella quale la libertà religiosa ha raggiunto il più alto grado nell’Europa del primo Seicento, scelta non a caso da Cartesio per la tolleranza delle sue leggi, Spinoza da un lato porta con sé il dramma della persecuzione che ha colpito la famiglia di religione ebraica, costretta a fuggire dal Portogallo per rifugiarsi nel quartiere ebraico della città, dall’altro assiste alla più sanguinosa tra le guerre di religione, la guerra dei Trent’anni, che colpisce anche la nascente Repubblica delle Province Unite, in lotta per l’indipendenza dalla Spagna. Le sue vicende personali saranno segnate dal clima violento del suo tempo: anche se nella libera Olanda possono convivere gruppi religiosi diversi ciascuna comunità è chiusa al suo interno e non viene tollerata nessuna critica. Il giovane Spinoza, formatosi agli studi ebraici presso la sinagoga, sarà accusato per la sua indipendenza di pensiero dalla comunità ebraica di essersi allontanato dall’ebraismo e sarà espulso nel 1656 con un decreto che peserà sul suo futuro. Sarà costretto ad abbandonare Amsterdam e troverà accoglienza presso i Collegianti, un gruppo calvinista in dissenso nei confronti della Chiesa olandese; gli garantirà il sostentamento il lavoro di levigatore di lenti. Alla prima formazione ebraica Spinoza aggiunge presto lo studio delle teorie cartesiane, diffusesi di recente in Olanda, alle quali dedica il suo primo scritto pubblicato – uno tra i pochi che pubblicherà in vita – i Principi della filosofia cartesiana (1663), in latino, che espone in sintesi

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il sistema di Cartesio. Le sue ricerche, condotte in privato e diffuse tra una ristretta cerchia di amici, si allontanano presto dal cartesianesimo, ponendolo a confronto con quella «repubblica delle lettere» che unisce i dotti europei: importanti in questo contesto i contatti con Henry Oldenburg, segretario della Royal Society, fondata a Londra per promuovere la ricerca scientifica; va anche segnalato l’incontro con Gottfried Wilhelm Leibniz, altro grande filosofo, impegnato in una difficile missione diplomatica per scongiurare la guerra tra la Francia e l’Olanda. Spinoza, ammaestrato dalle persecuzioni subite in gioventù, non ritiene opportuno diffondere gli esiti della propria originale indagine filosofica: soltanto nel 1670 deciderà di pubblicare anonimo e in latino il Trattato teologico-politico, che affronta problemi religiosi e politici riaffermando quella libertà di pensiero, anche in materia religiosa, che fa problema anche nella tollerante Olanda, peraltro in quegli anni costretta a fronteggiare l’aggressione della Francia di Luigi XIV e attraversata da un conflitto civile, politico e militare, che oppone i Witt, repubblicani, sostenitori della tolleranza religiosa, agli Orange, capi militari che affermano la necessità di un potere forte. In questo conflitto viene ucciso Giovanni de Witt, amico e protettore di Spinoza. L’anonimo autore del Trattato, che viene letto come un esemplare della varia e vasta tradizione «libertina», viene condannato dalle autorità ecclesiastiche e da quelle politiche; non è difficile identificarlo con Spinoza, che sarà condotto a una maggiore prudenza e rinuncerà alla pubblicazione della sua opera maggiore, l’Ethica more geometrico demonstrata (Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico). Dopo il 1670 Spinoza vivrà in un volontario e più netto isolamento, che sarà garanzia per la sua piena libertà di pensiero, nonostante la notorietà delle sue ricerche abbia prodotto nel 1673 un invito, rifiutato, a insegnare nell’università tedesca di Heidelberg. Alla sua morte, nel 1677, i suoi amici pubblicheranno le opere rimaste inedite (Opera posthuma), e in particolare l’incompiuto Trattato politico e l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, che segnerà insieme la sua fama duratura e una dura condanna religiosa della sua filosofia, bandita come eretica e atea da tutte le confessioni cristiane e proibita per oltre un secolo. Il pensiero di Spinoza può essere agevolmente distinto in una riflessione politica e religiosa che ha trovato un’espressione pubblica in vita, soprattutto con il Trattato teologico-politico, ed è ben riflessa nel denso Epistolario, e in una filosofia ontologica e morale che trova la sua originale sistemazione nell’Etica.

2. La riflessione politico-religiosa L’indagine religiosa e politica di Spinoza è raccolta soprattutto nel Trattato teologico-politico che presenta l’aspetto «libertino» del pensiero spinoziano.

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In direzione religiosa, Spinoza contribuisce a una critica radicale delle dottrine bibliche sulla base di una prospettiva razionale. Facendo leva sulla sua profonda conoscenza della Bibbia, Spinoza propone nuovi criteri per interpretare le Sacre Scritture cercando di analizzarle nel loro contesto storico e linguistico e di sottoporle al vaglio critico della ragione, secondo una procedura analitica che verrà chiamata «ermeneutica» («interpretazione»). Il primo risultato di tale indagine consiste nel riconoscere le differenze temporali nella redazione dei vari libri dell’Antico Testamento e nell’individuare il carattere metaforico di tante pagine dei testi sacri, rivolti a colpire la fantasia di popoli poco colti e non a elaborare una compiuta conoscenza della natura. La Bibbia possiede quindi un valore per la conformazione del sentimento morale e religioso, educando all’obbedienza in Dio, ma non conduce alla conoscenza della natura; di conseguenza vanno distinti il piano religioso della rivelazione da quello conoscitivo della ragione. In particolare, Spinoza mette in discussione l’esistenza dei miracoli, che prevederebbero un intervento diretto di Dio nel mondo a modificazione di quelle stesse leggi naturali create da Dio in un ordine immutabile ed eterno. Il significato univoco della religione non abbisogna di una teologia complessa e a volte contraddittoria, ma si ritrova semplicemente nell’obbedienza a Dio e nell’adesione al comandamento cristiano di amare il prossimo come se stessi. Proprio perché la Bibbia non impone a nessuno di credere in dogmi incomprensibili, l’essenza della religione risulta riassumibile nella «disciplina dell’obbedienza» («Chi infatti non vede – sottolinea Spinoza – che il Vecchio e il Nuovo Testamento, nient’altro sono che una disciplina d’obbedienza? Né altro aver essi per fine che gli uomini obbediscano con animo sincero?») e in un conciso elenco di princìpi ai quali tutti devono prestare il loro assenso: esiste un unico Dio, onnipresente e onnipotente, mentre il suo culto e «l’obbedienza a lui consistono soltanto nella giustizia e nella carità, cioè nell’amore verso il prossimo». Anche in direzione politica Spinoza sostiene l’efficacia del principio evangelico dell’amore per il prossimo, che può regolare ogni condotta morale e sociale. Vi aggiunge tuttavia una forte sottolineatura del valore della libertà di pensiero, anche religioso: in nessun altro filosofo del Seicento si trovano affermazioni altrettanto forti sul primato della libertà di pensiero. Se il fondamento dello Stato risiede – come aveva sostenuto Thomas Hobbes – in un contratto che unisce gli uomini in società, esso non deve però prescindere dal valore delle libertà personali, da salvaguardare in ogni modo e connesse soltanto alla ragione, la sola che può «elevarsi alle somme altezze della libertà umana». Lo Stato è fonte unica di tutti i diritti e doveri dei cittadini, che non possono opporsi in base alle proprie scelte, ma esso si affermerà sul popolo se si rivolgerà «verso ciò che una sana ragione insegna essere utile agli uomini tutti». La sfera delle libertà personali comprende il diritto di pensare, di giudicare e di parlare, anche in materia religiosa, e rimane valida purché non arrechi danno alla società

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e allo Stato. La dimensione privata della religione viene quindi separata da quella pubblica dello Stato, nel rispetto di un principio di libertà, per noi ormai ineliminabile, ma che Spinoza affermò tra i primi, subendo per questo condanne dalle chiese cristiane e dalla comunità ebraica.

3. La filosofia come sistema L’aspetto «libertino» del pensiero spinoziano costituisce soltanto l’esito politico-religioso della sua ricerca ontologica, consegnata all’Etica, che mira insieme a cogliere l’essenza dell’ordine cosmico e a conquistare la più elevata libertà. Seguiremo nel prossimo paragrafo i principali contenuti di questo grande libro filosofico. Guardiamo qui all’itinerario che ha condotto Spinoza alla sua originale metafisica. Mosso dal desiderio di istaurare, con la filosofia, «una nuova regola di vita» nell’iniziale cornice dell’enciclopedia cartesiana, Spinoza guarda alla razionalità del mondo e cerca di rappresentarlo in un rigoroso ordine deduttivo che non presenti le contraddizioni implicite nel modello dualistico di Cartesio. La comprensione vera della totalità del reale deve muovere da un principio unico e assoluto e non può riflettersi nella tripartizione cartesiana delle sostanze: Dio, spirito (res cogitans) e materia (res extensa). Soltanto in Dio può trovarsi la causa incausata, soltanto Dio è vera sostanza in quanto non ha bisogno di altro che di se stesso per esistere; tutto ciò che è, è in Dio e deriva da Dio. Il mirabile e complesso ordine del mondo si presenta come l’articolazione attuale della potenza divina; ogni cosa è inserita nella filiera derivata dalla necessaria concatenazione di cause ed effetti che deriva dall’onnipotenza e dall’onniscienza divina. L’unicità del principio divino in Spinoza si identifica così con l’omogeneità complessa dell’ordine della natura: Dio, ovvero la natura (Deus sive natura), è la causa di tutto ciò che è, sia nell’ordine del pensiero che in quello della materia. L’orientamento ontologico del pensiero di Spinoza consente inoltre di offrire una soluzione al problema morale, lasciato aperto da Cartesio. Se si guardano «le azioni e gli appetiti umani come se fosse questione di linee, di superfici o di corpi», essi possono essere inseriti nell’organizzazione necessaria della realtà, nella catena infinita delle cause, all’interno della quale il saggio può ritrovare, con la comprensione dell’ordine del mondo, quella libertà che consiste nella piena realizzazione di sé e nell’adesione alla «vita non nella tristezza e nel lamento, ma in tranquilla e serena letizia», lontano dagli «affetti» negativi che distruggono l’essere.

4. L’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico L’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico appare simile a un manuale di geometria euclidea in latino, contenente definizioni, assio-

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mi, dimostrazioni, teoremi, corollari. Anche nella sua forma, l’Etica si propone come un’opera che tratta in modo geometrico questioni morali, prefiggendosi quell’obiettivo già posto da Cartesio di fondare una scienza rigorosa delle azioni e dei comportamenti umani. Essa è divisa in cinque libri che trattano di Dio, della mente, degli affetti, della servitù dell’uomo e della libertà dell’uomo. Come in ogni buon manuale di geometria, sono proposte all’inizio otto proposizioni fondamentali consequenzialmente collegate tra di loro, riguardanti i concetti di causa sui, finito, sostanza, attributo, modo, Dio, libertà ed eternità, seguite da sette assiomi che mettono in chiaro l’ordine causale della natura: il primo afferma che niente esiste che non sia sostanza o modo, il secondo sostiene che ciò che non è modo è sostanza, i successivi tre assiomi riguardano la causalità, il sesto tratta del rapporto tra idea e oggetto cui essa si riferisce, il settimo si richiama alla prima definizione. La definizione che fa da cardine ontologico dell’intero edificio è la terza, che afferma la sostanza come «ciò, che è in sé, ed è concepito per sé: vale a dire ciò, il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, da cui debba essere formato». Tale definizione comporta che soltanto Dio può essere causa sui, in quanto la sua essenza implica la sua esistenza; egli è quindi l’unica sostanza, mentre la res cogitans e la res extensa sono infiniti «attributi» della sostanza divina, che a loro volta si articolano in infiniti modi individuali e non essenziali dei singoli pensieri e dei singoli corpi. Un corpo è un modo dell’attributo «estensione», come un’idea è un modo dell’attributo «pensiero», in una lunga catena di concatenazioni causali. Saranno gli otto assiomi preliminari a definire l’ordine causale della natura e della conoscenza, che per Spinoza è rigorosamente deterministico. La presunta libertà umana consiste in un difetto di conoscenza, nel mancato riconoscimento dell’ordine dei rapporti causa-effetto che lega tutti i fenomeni della natura: l’uomo è come una pietra, messa in movimento da una causa esterna, che ignora l’esistenza di tale causa e crede di essere libera nel suo movimento. Non c’è posto in tale prospettiva causale per la visione finalistica sostenuta dalla tradizione aristotelica e cristiana. La conoscenza della vera natura umana – sostiene Spinoza nella celebre Appendice che conclude la Parte prima dell’Etica – deve sgombrare il campo da ogni pregiudizio finalistico e con esso da ogni visione antropocentrica e antropomorfica della natura e di Dio. La critica del finalismo non comporta soltanto l’adesione a una visione deterministica della realtà secondo la quale «la natura non si è prefissa nessun fine», ma conduce a dissolvere i pregiudizi sul carattere assoluto delle nozioni morali di bene e di male e ad aprire la via a una visione scientifica della morale: gli uomini «hanno chiamato bene tutto ciò che giova al culto di Dio e alla salute, e male invece, ciò che è contrario a questo».

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La seconda parte dell’Etica si avvicina alla morale, oggetto delle altre tre parti, passando dall’ontologia alla teoria della conoscenza; essa si intitola Natura e origine della mente e si interroga sulle caratteristiche della conoscenza. La conoscenza è resa possibile dalla corrispondenza biunivoca tra l’ordine delle idee e quello delle cose, come spiega la «Proposizione 7: «L’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose» («Ordo et connexio idearum idem est, ac ordo, et connexio rerum»). Vengono insieme accantonati due aspetti centrali della filosofia cartesiana: la concezione dualistica e l’esigenza di un metodo che orienti la conoscenza. Come nell’uomo la mente è unita al corpo e questo è oggetto della mente, nella mente ogni idea risulta da connessioni che rinviano ad «affezioni» prodotte nel nostro corpo da altri corpi. Tale corrispondenza si distende in un processo posto su tre livelli successivi. Il primo genere di conoscenza, inadeguato e parziale, consiste nella percezione da parte della mente delle relazioni immediate che comportano la modificazione del mio corpo da parte di altri corpi. Il secondo genere di conoscenza, la conoscenza razionale, produce idee chiare e distinte e perviene a princìpi universali. Ma soltanto al terzo grado di conoscenza, intuitivo e immediato, si coglie l’ordine delle cose che procedono da Dio; questo ultimo grado di conoscenza ricongiunge l’ordine ontologico del mondo con la sua comprensione, in una visione «mistica» della totalità che esprime la vera saggezza. A questo punto, e soltanto a questo punto, si potrà presentare un’adeguata trattazione delle passioni dimostrando razionalmente l’origine e la natura degli «affetti», che sono insieme stati fisici e mentali e che possono produrre effetti positivi o negativi. Tre risultano gli affetti fondamentali. Innanzitutto la «cupidità», espressione del conatus, ovvero dello «sforzo di conservarsi», e derivata dall’appetito, che «non è altro che la stessa essenza dell’uomo» e si rivolge sia al corpo che alla mente: «La cupidità è l’appetito con la consapevolezza di esso». Qualsivoglia evento che incrementi la cupidità produce la letizia, mentre ciò che la diminuisce o l’ostacola conduce alla tristezza. A partire da questi tre «affetti» fondamentali è possibile presentare tutta una «geometria delle passioni»; ad esempio l’amore e l’odio sono rispettivamente definiti come «letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna» e «tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna». Spinoza offre una descrizione dettagliata di quella potenza di agire tramite la letizia e la cupidità che conduce a conformarci adeguatamente con il mondo. La trattazione delle passioni consente di descrivere la condizione umana nei suoi due aspetti paralleli e contrari della Schiavitù umana, ossia le forze degli affetti (parte quarta dell’Etica) e della Potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana (parte quinta dell’Etica). Da un lato va segnalato il peso negativo delle passioni sull’essere proprio dell’uomo che assoggettandosi alle passioni diviene schiavo e deprime il proprio conatus, al di là di

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ogni astratta distinzione tra il bene e il male universalmente intesi. Viceversa se l’uomo si fa guidare dalla propria ragione, si svincola dalle cause esterne e raggiunge quella libertà che si identifica con la comprensione e il potenziamento dalla propria natura. Il saggio vive secondo ragione, ma non in solitudine: egli conosce il sommo bene si adopera perché si possa costruire una «società comune degli uomini», una società che risponde alla natura umana e nella quale prevalgano le virtù e il bene collettivo. Il bene è per ciascuno di noi «ciò che sappiamo con certezza che ci è utile»; esso conduce alla libertà, che si identifica con il vivere secondo ragione, con la conoscenza di sé e del mondo, della necessità che lega ogni cosa in un’infinita concatenazione di cause e infine con la conoscenza di Dio. Quest’ultima conduce alla somma perfezione della mente, nella quale si realizza il terzo genere di conoscenza, che muove nell’uomo un affetto diverso da tutti gli altri, l’amore intellettuale di Dio (amor Dei intellectualis), la suprema beatitudine, nella quale l’amore di Dio va inteso come soggetto (Dio ama tutto il creato) e come oggetto della mente umana (Dio è amato dagli uomini), secondo i due significati del genitivo latino. Il saggio conosce le cose sub specie aeternitatis, in un loro aspetto di eternità, superando ogni dipendenza dalle cose e dagli eventi; la conoscenza aumenta il potere della mente sugli affetti, e fa scaturire l’amore per Dio, che trasforma la conoscenza della totalità in un movimento intellettuale di amore. La conoscenza e la comprensione della natura di Dio converge in definitiva con l’adesione gioiosa all’essere divino, si esprime in un amore squisitamente filosofico. Tale riflessione, che ha posto con tale potenza la centralità di Dio, natura e sostanza, è stata accusata di panteismo e di ateismo, proprio per aver inteso Dio, al di fuori della tradizione del Dio personale ebraico e cristiano, come divina presenza in tutte le cose, come totalità immanente che non si trova fuori dal mondo, non si raggiunge tramite la fede e non richiede per essere compresa che uno sforzo supremo di conoscenza.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

Dopo l’edizione senza menzione di editore e di luogo degli Opera posthuma nel 1677 le edizioni critiche dell’opera spinoziana sono: Opera quotquot reperta sunt, a cura di J. van Vloten e J.P.N. Land, 2 voll., Nijhoff, La Haye 1882-1883; Opera, a cura di C. Gebhardt, 4 voll., Winters, Heidelberg 1924. Disponiamo ora anche della riproduzione fotografica integrale dell’Opera posthuma: Benedictus de Spinoza, Opera posthuma, a cura di P. Totaro, prefazione di F. Mignini, Quodlibet, Macerata 2008. Tra le traduzioni italiane si ricordano: B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, a cura di S. Giammetta, Boringhieri, Torino 1959; B. Spinoza, Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974 (19511).

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Letteratura secondaria

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F. Alquié, Il razionalismo di Spinoza (1981), Mursia, Milano 1987; R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991; P. Cristofolini, Spinoza per tutti, Feltrinelli, Milano 1993; G. Deleuze, Spinoza: filosofia pratica (1981), Guerini, Milano 1991; G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione (1973), Quodlibet, Macerata 1999; E. Giancotti Boscherini, Che cosa ha veramente detto Spinoza, Ubaldini, Roma 1972; E. Giancotti, Baruch Spinoza: 16321677, Editori Riuniti, Roma 1985; F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza, Roma-Bari 1983; F. Mignini, L’Etica di Spinoza: introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2002 (19951); S. Nadler, L’eresia di Spinoza: l’immortalità e lo spirito ebraico (2001), Einaudi, Torino 2005.

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Per una conoscenza diretta Le otto definizioni iniziali dell’Etica

1. Per causa di sé intendo ciò, la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò, la cui natura non si può concepire se non esistente. 2. Dicesi nel suo genere finita, quella cosa che può essere delimitata da un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo si dice finito, perché ne concepiamo un altro sempre maggiore. Parimenti un pensiero è delimitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è delimitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo. 3. Per sostanza intendo ciò, che è in sé, ed è concepito per sé: vale a dire ciò, il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, da cui debba essere formato. 4. Per attributo intendo ciò, che l’intelletto percepisce della sostanza, come costituente la sua essenza. 5. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò, che è in altro, per cui anche viene concepito. 6. Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna e infinita essenza. [...] 7. Si dice libera quella cosa, che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola: mentre necessaria, o piuttosto coatta, quella che è determinata da altro ad esistere ed operare secondo una certa e determinata ragione. 8. Per eternità intendo la stessa esistenza, in quanto si concepisce seguire necessariamente della sola definizione della cosa eterna. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Parte prima. Dio, Definizioni, pp. 19-20. I sette assiomi iniziali dell’Etica 1. Tutte le cose che sono, sono o in sé o in altro. 2. Ciò, che non si può concepire per altro, deve concepirsi per sé. 3. Da una data causa determinata, segue necessariamente un effetto, e di contro, se nessuna determinata causa è data, è impossibile che segua un effetto. 4. La conoscenza dell’effetto dipende dalla conoscenza della causa, e la implica. 5. Cose che non hanno niente in comune fra loro, neanche possono intendersi l’una per mezzo dell’altra, ossia il concetto dell’una non implica il concetto dell’altra. 6. L’idea vera deve convenire col suo ideato. 7. L’essenza di tutto ciò, che si può concepire come non esistente, non implica l’esistenza. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Parte prima. Dio, Assiomi, pp. 20-21.

Vera libertà e libero arbitrio

Il nostro amico J. R. mi ha trasmesso la lettera che vi siete degnato di scrivermi, insieme con il giudizio del vostro amico sul pensiero mio e di Cartesio circa il libero arbitrio, il che mi ha fatto molto piacere. [...].

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Passo dunque a quella definizione della libertà che egli dice essere mia, ma che non so donde l’abbia presa. Io dico libero ciò che esiste e opera per la sola necessità della sua natura; dico invece costretto ciò che è determinato a esistere e a operare da altro secondo una certa e determinata ragione. Per esempio, Dio, per quanto necessariamente, esiste tuttavia liberamente, perché esiste per la sola necessità della sua natura. Vedete, dunque, che io pongo la libertà non nel libero arbitrio, ma nella libera necessità. Ma veniamo alle cose create, le quali sono tutte determinate a esistere e ad operare da cause esterne, secondo una certa e determinata ragione. E per intendere questo chiaramente, pensiamo una cosa semplicissima. Per esempio, una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente a essere mossa. Dunque, questo persistere della pietra nel movimento è coatto non perché necessario, ma perché dev’essere definito dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualsiasi cosa particolare, per quanto complessa e adatta a una molteplicità di usi, perché ciascuna cosa è necessariamente determinata a esistere e a operare da una qualche causa esterna, secondo una certa e determinata ragione. Inoltre poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi, e sappia di sforzarsi per quanto può di persistere nel movimento. Davvero questa pietra, in quanto è consapevole unicamente del suo sforzo, al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo vuole. Proprio questa è quell’umana libertà che tutti vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e ignari delle cause da cui sono determinati. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte; il fanciullo rissoso la vendetta e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe aver taciuto. Così il delirante, il chiacchierone e molti altri di risma analoga credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso. Epistolario, LVIII, pp. 247-249.

I limiti teorici del finalismo

Né qui va passato sotto silenzio che i seguaci di questa dottrina, che hanno voluto ostentare il loro talento nell’assegnare fini alle cose, per provare codesta loro dottrina, hanno introdotto un nuovo modo di argomentare, col ridurre cioè non all’impossibile, ma all’ignoranza; il che dimostra che nessun altro mezzo aveva più questa dottrina per sostenersi. Infatti, se per esempio, da un tetto cade una pietra in testa a qualcheduno e lo uccide, dimostreranno che la pietra è caduta per uccidere l’uomo in questo modo: se non è caduta a tal fine, per volontà di Dio, come mai hanno potuto convergere per quel caso tante circostanze (giacché spesso ne concorrono appunto molte insieme)? Forse risponderai che soffiava il vento e l’uomo passava di là, e che perciò è avvenuto. Ma domanderanno: perché il vento soffiò in quel momento? Perché in quel medesimo tempo l’uomo passava di là? Se rispondi ancora che il vento era sorto in quel momento per il fatto che il giorno precedente il mare, col tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi; e per il fatto che l’uomo era stato invitato da un amico; chiederanno di nuovo – giacché non c’è fine al domandare – perché il mare era agitato, e perché

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l’uomo era stato invitato quel giorno. E così via, non cesseranno di chiedere le cause delle cause, finché non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza. Così anche, quando vedono la struttura del corpo umano, si stupiscono, e dal momento che ignorano le cause di una sì grande arte, concludono che essa non è dovuta a un’arte meccanica, ma divina o soprannaturale, e che è costituita in modo tale, che una parte non leda l’altra. E di qui viene, che chi ricerca le vere cause dei miracoli, e chi si studia di capire da saggio le cose naturali e non di meravigliarsene come uno stolto, sia ritenuto e proclamato ora eretico e ora empio da quelli, che il volgo adora come interpreti della natura e degli Dei. Essi sanno infatti, che, tolta l’ignoranza, vien meno lo stupore, l’unico mezzo che abbiano di sostenere e difendere la loro autorità. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Parte prima. Dio, Appendice, pp. 62-63.

L’ordine geometrico degli affetti

Sembra che la maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e il modo di vivere degli uomini, non trattino di cose naturali, che seguono le leggi comuni della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come uno Stato nello Stato, perché credono che l’uomo turbi, piuttosto che seguire, l’ordine della natura, che abbia una assoluta potenza sulle proprie azioni, e non sia determinato da niente altro che da se medesimo. Attribuiscono quindi la causa dell’impotenza e dell’incostanza umane, non alla comune potenza della natura, bensì a non si sa qual vizio dell’umana natura, che perciò compiangono, deridono, disprezzano, o, quel che avviene più di frequente, detestano; e chi sa pungere l’impotenza della mente umana più eloquentemente o più sottilmente, è ritenuto divino. Non sono, tuttavia, mancati uomini valorosissimi (alla cui fatica e operosità confessiamo di dovere molto), che hanno scritto molte cose eccellenti sul retto modo di vivere, e che hanno dato ai mortali consigli pieni di prudenza; ma nessuno, che io sappia, ha determinato la natura e le forze degli affetti, e che cosa possa la mente allo scopo di dominarli. So bene che il celeberrimo Cartesio, sebbene abbia anch’egli creduto che la mente possieda un potere assoluto sulle sue azioni, ha tuttavia cercato di spiegare gli affetti umani mediante le loro prime cause, e nello stesso tempo, di mostrare la via per la quale la mente possa avere un assoluto dominio sugli affetti; ma, a mio parere, non ha dimostrato se non l’acume del suo grande ingegno, come farò vedere a suo luogo. Voglio infatti ritornare a coloro, che preferiscono detestare o irridere le azioni e gli affetti umani all’intenderli. A questi senza dubbio sembrerà strano che io imprenda a trattare con procedimento geometrico le stoltezze e i vizi umani, e che io voglia dimostrare secondo una ragione certa cose che secondo i loro strepiti ripugnerebbero alla ragione, sarebbero vane, assurde, orrende. Ma il mio argomento è questo: nella natura è infatti sempre la stessa, e la sua virtù e potenza di agire una e medesima dappertutto; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e da certe forme si trasmutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve anche essere il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura. Dunque gli affetti di odio, ira, invidia, eccetera, in sé considerati, conseguono dalla stessa virtù e necessità della natura, come in altre cose singole; e perciò ammettono certe cause, mediante le quali vengono intesi, e hanno certe proprietà

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ugualmente degne della nostra conoscenza che quelle di qualsiasi altra cosa, della cui sola contemplazione ci dilettiamo. Perciò, tratterò della natura e delle forze degli affetti, e del potere della mente di dominarli, con lo stesso metodo con cui ho trattato, nelle parti precedenti, di Dio e della mente, e considererò le azioni umane e gli appetiti, come se fosse questione di linee, superfici o corpi. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Parte terza. Origine e natura degli affetti, Prefazione, pp. 129-131. L’amor Dei intellectualis Proposizione 14. La mente può fare in modo che tutte le affezioni del corpo, cioè le immagini delle cose, siano riferite all’idea di Dio. [...] Proposizione 15. Chi intende in modo chiaro e distinto sé e i propri affetti, ama Dio, e tanto più, quanto più intende sé e i suoi affetti. [...] Proposizione 16. Questo amore verso Dio deve occupare la mente massimamente. [...] Proposizione 17. Dio è esente da passioni, né è non affetto mediante alcun affetto di letizia o di tristezza. [...] Proposizione 24. Quanto più intendiamo le cose singole, tanto più intendiamo Dio. [...] Proposizione 25. Lo sforzo supremo, la suprema virtù della mente è intendere le cose col terzo genere di conoscenza. [...] Proposizione 27. Da questo terzo genere di conoscenza scaturisce il più alto compiacimento della mente che possa darsi. [...] Proposizione 30. La nostra mente, in quanto conosce sé e il corpo sotto specie dell’eternità, in tanto ha necessariamente la conoscenza di Dio e sa di essere in Dio e di essere concepita attraverso Dio. [...] Proposizione 32. Siamo allietati da tutto ciò che intendiamo col terzo genere di conoscenza, e questa letizia è accompagnata dall’idea di Dio come causa. [...] Corollario. Dal terzo genere di conoscenza nasce necessariamente l’amore intellettuale di Dio. Proposizione 38. Quante più cose la mente comprende col secondo e terzo genere di conoscenza, tanto meno patisce dagli affetti che sono cattivi e tanto meno teme la morte. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Parte quinta. La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana, pp. 308-324.

Capitolo 7 Leibniz Gaspare Polizzi

1. La vita e le opere Nella Germania imperiale del Seicento, frantumata in una miriade di Stati indipendenti e divisa dalle diverse confessioni cristiane, l’impegno culturale e filosofico oscilla fra la tradizione ancora aristotelica e le nuove teorie cartesiane, fra il prevalere del latino nella cultura ufficiale e l’affermazione del tedesco come lingua nazionale. Gottfried Wilhelm Leibniz esprime nel modo più alto tale frastagliato panorama culturale e filosofico, riunendo nella propria vicenda biografica la figura dello studioso a vocazione enciclopedica a quelle dell’organizzatore culturale e del diplomatico. Leibniz nasce a Lipsia nel 1646, dove studia filosofia e diritto, disciplina nella quale si specializza nel 1666. Nello stesso anno inizia la sua duratura frequentazione degli studi logico-matematici, con il saggio Dissertatio de arte combinatoria, che inaugura una riflessione insieme tecnica e filosofica sulla possibilità di utilizzare i princìpi logici per costituire una lingua universale logicamente coerente. Il metodo logico sostanzia un progetto enciclopedico che dovrebbe realizzare quel sistema unitario del sapere auspicato da Cartesio. Agli interessi per il diritto e per la logica si aggiungono presto altre competenze, come quelle in fisica, in storia (fu storiografo ufficiale della casata di Brunswick), in biologia, tutti aspetti di una ricerca che converge in un’originale visione metafisica della realtà. Accanto alla ricerca teorica Leibniz tiene le fila di un vasto impegno diplomatico: lavora a una unificazione politica degli Stati germanici, auspica la riconciliazione delle chiese cristiane (condurrà con qualche successo trattative riservate tra il 1679 e il 1683), tenta di convincere il re di Francia Luigi XIV dell’utilità di sostituire l’invasione dell’Olanda con una guerra di crociata in Egitto contro l’impero turco, fonda grazie al sostegno del Principe Elettore del Brandeburgo Federico III l’Accademia delle scienze

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di Berlino (1700). Dal 1672 al 1676, come consigliere di Luigi Filippo, Principe Elettore di Magonza, intraprende viaggi diplomatici in vari Paesi europei e ha occasione di conoscere direttamente i maggiori studiosi del suo tempo: il logico e teologo Antoine Arnauld e il fisico Christiaan Huygens a Parigi; il segretario della Royal Society Henry Oldenburg e il chimico Robert Boyle a Londra; il filosofo Spinoza e il biologo Antony van Leeuwenhoeck, inventore del microscopio, in Olanda; il fisico Vincenzo Viviani, allievo di Galilei e il biologo Marcello Malpighi in Italia. Il contatto con la «repubblica delle lettere» è talmente ampio che l’epistolario di Leibniz supera le 20000 lettere, con più di 600 corrispondenti. Molto rilevante e significativa appare anche la produzione scientifica di Leibniz, concentrata nei suoi picchi più elevati nella logica, nella matematica e nella fisica. L’invenzione più significativa è stata quella del calcolo infinitesimale e integrale, per la priorità della quale entra in conflitto con Isaac Newton, al quale nel 1712 la Royal Society attribuisce la paternità dell’invenzione: gli storici hanno appurato che Leibniz aveva raccolto i suoi primi risultati nel 1676, indipendentemente da Newton, ma pubblicò la memoria sul calcolo infinitesimale soltanto nel 1684, successivamente alla pubblicazione di uno scritto di Newton sullo stesso argomento. Importanti anche le ricerche fisiche che confuteranno il principio cartesiano della persistenza della quantità di moto e introdurranno il concetto di forza motrice, in seguito chiamata «energia cinetica». Notevoli anche le indagini biologiche sull’origine della vita, che Leibniz spiega con la teoria della preformazione, secondo la quale la conformazione delle diverse parti di un organismo è già presente nell’uovo o nel seme. Soltanto nel 1686 la varietà delle ricerche di Leibniz converge verso una prima esposizione sistematica, il Discorso di metafisica, che presenta la visione complessiva delle sostanze individuali in un quadro di profonda armonia cosmica. Seguiranno altre opere filosofiche, non tutte pubblicate in vita, tra le quali vanno ricordati i Nuovi saggi sull’intelletto umano, scritti tra il 1703 e il 1705 per criticare il Saggio sull’intelletto umano di John Locke, i Saggi di Teodicea (1710), legati al carteggio con lo studioso newtoniano Samuel Clarke e finalizzati al sostegno del valore della giustizia divina e dell’armonia prestabilita, i Princìpi della natura e della grazia fondati sulla ragione e i Princìpi di filosofia, meglio noti come Monadologia, entrambi del 1714. Nonostante il suo impegno teoretico le concezioni filosofiche di Leibniz non trovano ascolto in un contesto nel quale da un lato è ancora attivo il cartesianesimo, dall’altro si stanno affermando la fisica newtoniana e la filosofia empirista di Locke. Dopo aver servito come consigliere di Stato per quarant’anni, dal 1676 al 1716, i duchi di Hannover ed essere riuscito a farli riconoscere come Grandi Elettori dell’Impero (1692) e come eredi al trono d’Inghilterra, isolato e abbandonato dallo stesso Giorgio di Hannover, divenuto re d’Inghilterra con il titolo di Giorgio I, Leibniz muore nel 1716 a causa della gotta.

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L’opera di Leibniz è decisamente enciclopedica per la più ampia varietà di interessi e di contenuti. Vi sono tuttavia alcuni assi portanti che convergono verso una complessa e originale visione metafisica incentrata sul concetto di monade: le ricerche logico-matematiche e l’indagine sul mondo naturale fisico e vivente.

2. Le ricerche logico-matematiche Gli studi logici esprimono il primo e più durevole progetto di ricerca di Leibniz. Essi sono funzionali all’ambizioso disegno, condiviso da molti studiosi nell’età moderna, di costruire una lingua universale. Leibniz intende tale lingua come il risultato di una riforma del sapere che trova la sua base materiale nella «caratteristica universale», ovvero in una lingua simbolica ideografica (come l’egizio o il cinese) che presenti un simbolo per ogni concetto; i caratteri elementari consentirebbero di risolvere la filosofia in un semplice calcolo, di ridurre «ogni cosa a numeri». La ricerca dei simboli elementari e delle regole per la loro combinazione è una sfida logica che Leibniz farà propria con durevole passione e che infine lo vedrà sconfitto. Tuttavia essa consentirà di individuare le regole logiche di base, favorendo la rifondazione moderna della logica formale dopo la sua originaria fondazione aristotelica e conducendo ad alcuni esiti teorici che faranno da cardine alla futura metafisica razionalistica. Si tratta di una prospettiva che si avvicina al «panlogicismo», o meglio alla «pansofia», per la convinzione che la conoscenza possa essere considerata il risultato complessivo della combinazione di concetti originari. Inoltre la stessa invenzione del calcolo infinitesimale, che conduce a una trattazione matematica delle variazioni infinitesime, è funzionale alla ricerca della «caratteristica universale», anche se assumerà un valore proprio fondando un nuovo, decisivo settore della matematica moderna. Mette conto richiamare alcuni motivi e princìpi logici fondamentali che sono presenti nella visione metafisica di Leibniz. Leibniz sostiene che ogni sostanza, ogni concetto elementare, include in sé i suoi attributi e afferma il carattere analitico e a priori di ogni verità, compresa in ogni singolo concetto. Il filosofo di Lipsia distingue tra proposizioni esistenziali, contingenti e non a priori, la cui verità è «di fatto» e rimanda a quella di tutte le altre proposizioni di esistenza (per conoscere la verità degli eventi che riguardano la vita di Pietro dovremmo conoscere quella di tutti gli eventi che rinviano agli individui e alle cose a essa legati), e quindi non è mai conoscibile in modo finito, e proposizioni necessarie, a priori, la cui verità è «di diritto», non contraddittoria e conoscibile in modo finito, come nel caso della somma degli angoli interni di un triangolo, sempre uguale a due angoli retti. Altro criterio logico fondamentale è quello secondo il quale l’attribuzione di un predicato a un soggetto è un’operazione analitica, che esplicita

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ciò che il concetto completo del soggetto conteneva già: la proposizione «Socrate è saggio» esplicita un attributo contenuto nel concetto e nella sostanza di Socrate. Tuttavia nel caso di proposizioni contingenti, come quelle legate a Socrate, soltanto Dio, con la sua onniscienza, potrà cogliere l’infinità dei loro attributi, celati agli uomini prima della loro espressione, come nel caso di «Socrate beve la cicuta». Tale criterio logico implica un principio costitutivo della metafisica leibniziana, il principio di ragion sufficiente, secondo il quale niente accade senza ragione; si tratta di un principio sempre presente nel pensiero leibniziano, che afferma la razionalità costitutiva degli eventi del mondo. Se ogni sostanza contiene in sé i propri predicati, ovvero ciò che le è accaduto e che le accadrà, ed è connessa con tutte le altre sostanze del mondo, presenti, passate e future, ciò implica che tutto ciò che è accade in un certo modo e non può accadere altrimenti; implica che – in una visione razionalistica del mondo – nulla accade a caso. In tal modo la nozione di una determinata sostanza individuale comprende tutto degli eventi che le sono impliciti e, per il suo legame con tutte le altre sostanze del mondo, rinvia all’intero universo. Siamo così già nel cuore della metafisica delle monadi.

3. Le ricerche sul mondo naturale L’altra linea costitutiva della metafisica leibniziana consiste nella visione dinamica e organica del mondo naturale. Leibniz muove dalla critica della fisica cartesiana che riduce la materia a estensione e sostiene il principio della conservazione del movimento. «Il memorabile errore» di Cartesio (nel 1686 Leibniz aveva pubblicato negli Acta eruditorum una Brevis demonstratio erroris mirabilis Cartesii), confutato nel paragrafo XVII del Discorso di metafisica (e nel Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo, 1695) consiste nel ridurre la materia a una sua qualità, l’estensione, mentre la possibilità stessa di ogni movimento comporta il riconoscimento di un principio immateriale soggiacente all’estensione che costituisce la forza e, di conseguenza, è la materia come estensione a dover essere considerata soltanto un «fenomeno ben fondato». Leibniz non nega l’esistenza della materia, ma la riconosce come un aggregato di sostanze immateriali che non possiede in sé alcun principio organizzatore: «Questa, infatti, non è concepita come un’armata o come un gregge o come uno stagno pieno di pesci o come un orologio composto di molle o di ruote» (Nuovo sistema della natura). Le leggi che regolano la trasmissione del movimento da un corpo a un altro non conducono a sostenere – come dice Cartesio – la conservazione della quantità di movimento, bensì quella della «forza viva», che i fisici chiameranno «energia cinetica». Se la forza è diversa dal movimento – e un corpo privo di movimento, possiede ugualmente una forza, una resistenza rispetto al

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movimento – vi è un’energia, una forza, come aspetto costitutivo e «metafisico» di ogni corpo, da sostituire a quello cartesiano di estensione. Ciò non comporta tuttavia l’abbandono dell’interpretazione meccanicistica della natura, che va integrata con una visione metafisica più profonda di orientamento finalistico. Il concetto di forza promuove una visione «dinamica» della natura che individua nella forza il suo principio costitutivo e conduce a una metafisica dei «punti di forza» immateriali che rendono possibile l’esistenza e il movimento dei corpi; tali punti di forza sono concepiti come infinite sostanze spirituali che animano un universo, dinamico, vitale, organico. Leibniz raccoglie altre importanti conferme alla sua visione vitalistica dell’universo dagli sviluppi della biologia, a partire dalle nuove indagini al microscopio che fanno vedere un mondo vivente e organizzato in aspetti considerati inerti della materia, come una goccia d’acqua.

4. La metafisica delle monadi La metafisica delle monadi emerge dal contesto delle ricerche scientifiche e si definisce nel quadro di una riflessione sulla sostanza individuale e sulle forme sostanziali di origine teologica e aristotelica, peraltro comune nel contesto della filosofia cartesiana; essa si presenta come il punto di convergenza delle riflessioni logiche, fisiche e metafisiche. Leibniz intende conciliare la philosophia perennis, delle forme sostanziali di origine aristotelica con la nuova filosofia moderna legata allo sviluppo della scienza matematica e sperimentale. Il suo obiettivo comporta l’indicazione della via per la felicità umana tramite gli strumenti offerti da una nuova sistemazione universale del sapere; come recita il titolo di un suo scritto, Aurora, ovvero Princìpi della scienza generale dalla luce divina alla felicità umana (1693). Essa presenta anche un’origine teologica. Nel Discorso di metafisica (1686) viene concepita una visione di Dio come Essere perfetto, che ha ordinato l’universo nell’armonia migliore e più semplice. Il criterio di semplicità è anche un criterio di razionalità, in quanto in natura non vanno moltiplicate le ipotesi e gli enti. Leibniz stesso affermerà su questo punto il principio dell’identità degli indiscernibili, secondo il quale due enti che non possono essere distinti sono da considerare un unico ente. Secondo Leibniz bisogna porre al centro della comprensione della realtà la sostanza individuale, trascurata da Cartesio, teorico di uno scomodo dualismo, e da Spinoza, sostenitore di una filosofia monista della Sostanza identificata con Dio. Ogni sostanza individuale possiede invece per Leibniz la sua unicità, tale che il suo concetto implica tutti i suoi attributi. Essa viene definita nel 1696 con il termine «monade» (da «monás», «semplice», a sua volta derivato da «mónos», «solo») e possiede i caratteri di un «punto metafisico», di un atomo psichico, semplice, immateriale, dotato di energia,

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capace di un’attività psichica continua e graduale che procede dalla dimensione impercettibile delle «piccole percezioni» a quella consapevole della percezione cosciente degli uomini, che Leibniz chiama «appercezione». Ogni monade si presenta come uno specchio dell’intero universo, contiene in sé il punto di vista dell’universo secondo modalità più o meno confuse e distinte. Essa comprende in sé tutti i suoi attributi e non abbisogna di nulla dall’esterno, non ha finestre che la mettono in contatto con le altre monadi. La monade immateriale produce la materialità dei corpi, rendendo possibile concepire un universo materiale che non sia in contrasto con la spiritualità del suo principio propulsivo. La conoscenza non è altro che l’espansione graduale e continua delle percezioni, poste a un livello superiore rispetto alle sensazioni animali e inferiore rispetto alla razionalità. Allo stesso modo e parallelamente l’azione della monade consiste nell’appetizione, tendenza a passare da una percezione all’altra producendo il movimento. La metafisica monadologica prospetta un universo continuo che si estende armonicamente in gradi differenti di perfezione, seguendo la legge della continuità, principio metafisico secondo il quale «natura non facit saltus» («Nulla avviene d’un tratto ed è uno dei miei grandi e più verificati principi che la natura non fa mai salti; io l’ho chiamato la legge della continuità»; Nuovi saggi sull’intelletto umano, Premessa), che vale per l’intero sviluppo dell’universo, nella stretta connessione causale tra passato, presente e futuro. Nei corpi complessi come quelli umani si stabilisce a sua volta un’armonia che unisce le monadi-anima, «monadi dominanti» – che Leibniz chiama «spiriti» per distinguerle da quelle che reggono gli altri animali – alle altre monadi che danno luogo ai diversi organi corporei, da esse organizzate. La gerarchia delle monadi poggia sul loro possibile grado di appercezione: dalle monadi semplici alle anime, monadi che hanno percezioni distinte e accompagnate da memoria e reggono gli esseri animati, agli spiriti, monadi razionali. Ne scaturisce una catena degli esseri, creata da Dio, monade suprema, unica increata, che conosce con somma chiarezza tutto l’universo. Il problema più difficile posto dalla metafisica delle monadi consiste nella spiegazione della modalità di relazione tra le monadi che generano gli esseri e tra quelle che si trovano negli esseri complessi come l’uomo. La soluzione fornita da Leibniz è data dalla teoria dell’armonia prestabilita. Dio, nella sua onniscienza, ha creato tutte le monadi dell’universo, in modo tale che le percezioni future di tutte le monadi e gli stati degli spiriti corrispondano a un momento dato con gli stati dei corpi, come avviene per due orologi, che segnano costantemente la stessa ora; ciò perchè gli orologi sono stati costruiti da un perfetto orologiaio, che fa segnare loro sempre la stessa ora. Dio regola fin dalla creazione le percezioni interne delle monadi, in modo che permanga il più completo accordo tra le loro rappresentazioni.

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5. La Monadologia Alla sostanza individuale o monade è dedicato il breve trattato la Monadologia (1714), l’opera più nota di Leibniz. In esso l’autore, dopo aver indicato le proprietà delle monadi – esse sono immateriali, inestese, semplici, esistono dalla creazione divina e scompaiono con la fine del mondo – ribadisce il loro isolamento, espresso dallo stesso termine che deriva da «mónos», solo. La solitudine di ogni monade è l’espressione ontologica della concezione logica secondo la quale ciascuna sostanza implica tutti i suoi attributi; ne consegue il più completo distacco dall’empirismo e l’affermazione che l’esperienza umana non è altro che il risultato dell’emergere alla coscienza di quelle percezioni inconsapevoli implicite nella singola monade fin dalla sua creazione. I concetti generali e universali sono impliciti nella mente, quindi innati, anche se in modo virtuale: come in un blocco di marmo si possono ritrovare le venature che consentono di scolpire la statua di Ercole, così nella mente vi sono le potenzialità concettuali universali che tramite l’esperienza emergono con chiarezza e diventano consapevoli. Viene in tale contesto proposta la teoria delle piccole percezioni, che assume ancora grande interesse, secondo la quale – diversamente da quanto sosteneva Cartesio che identificava l’essere umano con il cogito, con la coscienza – esiste una realtà psichica composta da «piccole percezioni» che si trova al di sotto del livello della coscienza e che si esprime con gradi diversi in tutta la realtà, oltre il dualismo cartesiano tra corpo e anima, tra animali-macchine e uomini coscienti. La monade-anima sviluppa un’attività continua e in gran parte inconsapevole, costituita da una grande quantità di piccole percezioni che non arrivano alla coscienza. Noi ascoltiamo il rumore della risacca del mare, ma non cogliamo le piccole percezioni corrispondenti al rumore delle singole onde. Anche i comportamenti umani possono essere spiegati a partire dalle piccole percezioni: la scelta di un comportamento non è mai casuale e può avvenire anche a causa di piccole percezioni che si sommano tra di loro producendo una modificazione consapevole delle nostre decisioni. Un’altra serie di questioni connessa con l’isolamento della monade consiste nella difficile spiegazione dei rapporti delle monadi tra di loro e delle monadi con i corpi. La spiegazione leibniziana del rapporto tra le monadi riconduce all’intervento originario di Dio. Dio crea le monadi come idee dell’universo, come sguardi rivolti all’universo da un’infinità di prospettive, che si riferiscono alla stessa realtà e si accordano quindi necessariamente nelle loro rappresentazioni, speculari le une con le altre. Anche l’azione reciproca tra le monadi è ricondotta a un rapporto logico, in quanto è soggetta al principio di ragion sufficiente. Dio ha organizzato fin all’inizio tale interazione, in modo che ogni monade trovi nelle modificazioni delle altre la ragione di tutto ciò che le accade. Nel momento in cui

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una monade si rappresenta un’azione verso l’altra, l’altra si rappresenta di subire la medesima azione, per cui si ha l’impressione di un rapporto causale, anche se i due eventi non sono fisici, ma pure rappresentazioni psichiche, parte di una connessione reale tra le rappresentazioni, ma prive di corrispondenza con fatti esterni. Tale visione prospettica e armonica poggia sul presupposto che Dio abbia creato «il migliore dei mondi possibili»: Dio avrebbe potuto creare un mondo diverso, tra gli infiniti possibili, ovvero logicamente non contraddittori, ma la scelta di Dio, infinitamente buono, non può che essere stata la migliore, quella che include la minore quantità di male e di sofferenza. Il mondo attuale può apparire a noi imperfetto e colmo dei peggiori mali, ma ciò è dovuto alla ridotta visione della nostra ragione contingente. Se, ad esempio, Giuda non avesse tradito Cristo, questo fatto avrebbe mutato tutto l’ordine delle correlazioni passate, presenti e future tra monadi e non avrebbe condotto Cristo a immolarsi sulla croce per salvare l’umanità, secondo un disegno che era il migliore possibile nella mente di Dio. Naturalmente affermazioni come queste riaffermano una prospettiva rigorosamente razionalistica di impianto deduttivo nella quale viene meno il concetto di una libertà come possibilità di scelta individuale.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

In attesa di un’edizione critica definitiva, Samtliche Schriften und Briefe, in corso di pubblicazione a cura dell’Accademia delle scienze di Berlino sono disponibili le seguenti edizioni critiche: G.W. Leibniz, Philosophische Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, 7 voll., Weidmann, Berlin 1875-1890; Die philosophische Schriften, a cura della Leibniz-Forschungsstelle der Universitat, Munster e quindi della Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 10 voll., Akademie Verlag, Berlin 1971-1980. Fra le traduzioni italiane si ricordano: G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, 2 voll., UTET, Torino 1967-1968; G.W. Leibniz, Monadologia e Discorso di metafisica, a cura di M. Mugnai, Laterza, Roma-Bari 1986; G.W. Leibniz, Scritti di logica, a cura di F. Barone, Laterza, Roma-Bari 1992 (19681).

Letteratura secondaria

Nella vastissima letteratura secondaria si segnalano: E.J. Aiton, Leibniz (1985), il Saggiatore, Milano 1991; F. Barone, Da Leibniz a Kant, Unicopli, Milano 1964; Y. Belaval, Leibniz critique de Descartes, Gallimard, Paris 1960; E. Cassirer, Cartesio e Leibniz (1902), Laterza, Roma-Bari 1986; S. Gensini, Il naturale e il simbolico. Saggio su Leibniz, Bulzoni, Roma 1991; K. Hildebrandt, Leibniz und das Reich der Gnade, M. Nijhoff,

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Haag 1953; J. Jalabert, Le Dieu de Leibniz, P.U.F., Paris 1960; M.-T. Liske, Leibniz (2000), il Mulino, Bologna 2007; V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, Laterza, Roma-Bari 1976; J. Moreau, L’univers leibnizien, E.Vitte, Paris-Lyon 1956; M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001; A. Lamarra, a cura di, L’infinito in Leibniz: problemi e terminologia. Simposio internazionale del Lessico intellettuale europeo e della Gottfried-Wilhelm-Leibniz-Gesellschaft, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1990; A. Robinet, G.W. Leibniz: le meilleur des mondes par la balance de l’Europe, PUF, Paris 1994; B. Russell, La filosofia di Leibniz (1900), Longanesi, Milano 1971; M. Serres, Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques: étoiles, schémas, points, P.U.F., Paris 1968.

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Per una conoscenza diretta I grandi principi della logica

31. I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi princìpi quello di contraddizione, in virtù del quale noi giudichiamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso. 32. E quello di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna proposizione vera, senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non possano esserci conosciute. 33. Vi sono pure due specie di verità, quelle di ragione, e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie ed il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile. Quando una verità è necessaria, è possibile trovarne la ragione, mediante l’analisi, risolvendola in idee e verità più semplici, fino a quando non si giunga alle verità primitive. Monadologia, in Scritti filosofici, vol. I, p. 288.

Ogni sostanza esprime «tutto ciò che accade nell’universo»

Inoltre, ogni sostanza è come un mondo intiero e come uno specchio di Dio o di tutto l’universo che essa esprime a suo modo, press’a poco come una medesima città è rappresentata diversamente a seconda delle differenti posizioni in cui si trova colui che la guarda. Così l’universo è in qualche modo moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria di Dio è similmente moltiplicata dalle tante rappresentazioni, tutte differenti, della sua opera. Si può anche dire che ogni sostanza in qualche modo porta in sé il carattere della sapienza infinita e della onnipotenza di Dio e che lo imiti per quanto ne è capace. Essa infatti esprime, benché in modo confuso, tutto ciò che accade nell’universo, passato, presente, futuro, il che rassomiglia, in qualche modo, ad una percezione o conoscenza infinita; e poiché tutte le altre sostanze, a loro volta, esprimono quella e le si coordinano, si può dire che essa estende il suo potere su tutte le altre, ad imitazione dell’onnipotenza del Creatore. Discorso di metafisica, IX, in Scritti Filosofici, vol. I, p. 72.

I punti metafisici

Inoltre, per mezzo dell’anima o forma, c’è vera unità che risponde a ciò che noi si chiama «io»: cosa che non può trovarsi nelle macchine artificiali, né nella semplice massa della materia, per organizzata che sia. Questa, infatti, non è concepita come un’armata o come un gregge o come uno stagno pieno di pesci o come un orologio composto di molle o di ruote. Ma se non vi fossero vere unità sostanziali, non ci sarebbe nulla di sostanziale o di reale nella collezione. Fu questa difficoltà che costrinse il Cordemoy ad abbandonare Cartesio e ad accettare la dottrina degli atomi di Democrito, per trovare una vera unità. Ma gli atomi di materia ripugnano alla ragione perché, a loro volta, sono composti di parti e quand’anche la coesione d’una parte all’altra fosse invincibile (ammesso che ciò potesse essere supposto o concepito ragionevolmente) ciò non distruggerebbe la loro diversità. Solo gli Atomi di sostanza, cioè unità reali ed assolutamente prive di parti, sono le sorgenti delle azioni ed i primi princìpi assoluti della composizione della cosa e quasi gli elementi ultimi dell’analisi delle cose sostanziali. Potrebbero essere chiamati punti metafisici: essi hanno qualcosa di vitale ed una specie di percezione; i punti matematici sono

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i loro punti di vista per esprimere l’universo. Ma quando le sostanze corporee sono ravvicinate, tutti i loro organi connessi, rispetto a noi, costituiscono un punto fisico. Così i punti fisici non sono indivisibili che in apparenza; i punti matematici sono esatti, ma sono solo modalità; solo i punti metafisici o di sostanza (costituiti dalle forme o dalle anime) sono esatti e reali; e senza di essi non vi sarebbe nulla di reale, perché senza le vere unità non vi sarebbe alcuna molteplicità. Nuovo sistema della natura, in Scritti filosofici, vol. I, pp. 194-195.

Le proprietà delle monadi

1. La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè, senza parti. 2. E debbono esservi sostanze semplici, perché ve ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di semplici. 3. Ora, laddove non ci sono parti, non c’è né estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. 4. Non è da temere alcuna dissoluzione e non è concepibile alcun modo per il quale una sostanza semplice possa naturalmente estinguersi. 5. Per la stessa ragione non c’è alcun modo per il quale una sostanza semplice possa avere un’origine naturale, perché essa non può formarsi per composizione. 6. Così si può affermare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè, che possono cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto, comincia o finisce per parti. Monadologia, in Scritti filosofici, vol. I, p. 283.

La monade «non ha finestre»

7. Di conseguenza, non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o diminuito, come accade nei composti, nei quali c’è mutamento tra le parti. La monadi, non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare od uscire. Gli accidenti non possono staccarsi dalle sostanze, né passeggiare fuori di esse, come in altri tempi facevano le specie sensibili degli Scolastici. Così, né le sostanze, né gli accidenti possono entrare dal di fuori in una monade. Monadologia, in Scritti filosofici, vol. I, pp. 283-284.

L’organismo

63. Il corpo che appartiene ad una monade, che ne è l’Entelechia od anima, costituisce, con l’entelechia, ciò che può essere chiamato un essere vivente, con l’anima ciò che si chiama un animale. Ora il corpo d’un vivente o d’un animale è sempre organico perché, se ogni monade è a suo modo uno specchio dell’universo e se questo è regolato secondo un ordine perfetto, bisogna che vi sia anche un ordine in chi se le rappresenta, cioè nelle percezioni dell’anima e quindi anche nel corpo, secondo il quale l’universo è rappresentato nell’anima. 64. Così il corpo organico di ogni essere vivente è una specie di macchina divina, o di automa naturale, che supera infinitamente tutti gli automi artificiali. Perché una macchina costruita dall’arte umana non è una macchina in ciascuna delle sue parti; per esempio il dente di una ruota d’ottone ha parti o frammenti

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che non sono più per noi qualche cosa di artificiale e non hanno più nulla che segni i caratteri della macchina in rapporto all’uso cui la ruota è destinata. Ma le macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nei loro più piccoli particolari sino all’infinito. E ciò costituisce la differenza tra la natura e l’arte, cioè tra l’arte divina e la nostra. 65. E l’Autore della Natura ha potuto compiere questo artificio divino e infinitamente meraviglioso perché ciascuna porzione di materia non solo è divisibile all’infinito, come già avevano riconosciuto gli antichi, ma è anche attualmente suddivisa all’infinito, ogni parte in parti, ognuna delle quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sarebbe impossibile che ogni porzione della materia esprimesse tutto l’universo. 66. Dal che deriva che anche nella più piccola parte di materia c’è un mondo di creature, di viventi, di animali, di anime. 67. Ogni parte di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo delle piante, ciascun membro dell’animale, ciascuna goccia dei suoi umori è ancora un giardino o uno stagno. 68. E quantunque la terra e l’aria interposte tra le piante del giardino o l’acqua interposta tra i pesci di uno stagno non siano né piante né pesce, esse tuttavia ne contengono ancora, ma per lo più di una piccolezza a noi impercettibile. Monadologia, in Scritti filosofici, vol. I, pp. 393-294.

I due orologi

Immaginate due orologi che si accordino perfettamente. Ciò può avvenire in tre maniere: la prima consiste nella mutua influenza di un orologio sull’altro; la seconda nella cura di un uomo che vi provveda; la terza nella loro propria esattezza. La prima maniera è quella dell’influenza [...]. La seconda maniera di far sempre accordare due orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre provvedere da un abile operaio, che li accordi ad ogni istante: e questa è quella che io chiamo la maniera dell’assistenza. Infine la terza maniera sarà di fare da principio queste due pendole con tanta arte e giustezza, da potersi assicurare il loro accordo per il futuro. E questa è la via dell’accordo prestabilito. Mettete ora l’anima e il corpo al posto di questi due orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure in una di queste tre maniere. La maniera dell’influenza è quella della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire particelle materiali, né specie o qualità immateriali che possano passare dall’una di queste sostanze nell’altra, si è obbligati ad abbandonare questa opinione. La maniera dell’assistenza è quella del sistema delle cause occasionali; ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex machina in un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo ragione, egli non deve intervenire, se non nella medesima maniera nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura. Così non resta che la mia ipotesi, cioè la maniera dell’armonia prestabilita attraverso un artificio divino preventivo, il quale, fin da principio, abbia formato queste sostanze in un modo così perfetto e regolato con tanta esattezza che, non seguendo se non le sue proprie leggi ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una mutua influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la mano, oltre il suo concorso generale. Lettera del 1696, in G.W. Leibniz, La monadologia preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di E. Colorni, Sansoni, Firenze 1963, pp. 120-121.

Capitolo 8 Vico Giuseppe Cacciatore

1. La vita e le opere Giambattista Vico, nato a Napoli il 23 giugno 1668, ci ha lasciato nell’autobiografia (1728) un prezioso documento del suo itinerario intellettuale. Avviatosi agli studi giuridici, ben presto si rivolge a quelli letterari, filologici e speculativi e nel 1693 pubblica due importanti canzoni, Affetti di un disperato e Canzone in morte di Antonio Carafa. Dopo aver conseguito la laurea «in utroque iure», ottiene la cattedra di retorica presso l’Università di Napoli e tra il 1698 e il 1708 è chiamato a tenere una serie di prolusioni per inaugurare gli anni accademici universitari: le prime sei sono note con il nome di Orazioni inaugurali e si sviluppano intorno a un programma ben riassunto dallo stesso Vico: «le prime tre trattano principalmente de’ fini convenevoli alla natura umana, le due altre principalmente de’ fini politici, la sesta del fine cristiano». La settima, De nostri temporis studiorum ratione (1708), occupa una posizione particolare all’interno della concezione vichiana e quindi ha meritato un posto a parte rispetto alle altre. Dopo il 1708, l’interesse di Vico si sposta verso un tentativo di fondazione metafisica del mondo umano, per cui egli elabora il progetto di un lavoro suddiviso in tre parti composte da un Liber metaphysicus, un Liber physicus e un Liber moralis, nel quale sistemare rispettivamente le sue idee su Dio, il mondo e l’uomo. L’opera, De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda libri tres, viene realizzata nel 1710 relativamente al solo primo libro. Nell’aprile del 1711 compaiono le dispense del corso di retorica dell’anno accademico 1710-11 con il titolo Institutionum oratoriarum liber unus, e successivamente sul «Giornale de’ letterati d’Italia» esce una recensione anonima al De antiquissima, alla quale Vico replica con due Risposte. Il programma vichiano, che si orienta sempre di più nel senso di una ricerca dello sviluppo dell’uma-

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nità, trova una sua prima, compiuta espressione nel Diritto universale (1722), opera che, illustrata nell’opuscolo del 1720, Sinopsi del «Diritto universale», è suddivisa in due libri – De universi iuris uno principio et fine uno e De constantia jurisprudentis (a sua volta ripartito in De constantia philosophiae e De constantia philologiae) – corredati da una serie di Notae. Sul finire del 1724 il filosofo termina la stesura della cosiddetta Scienza nuova in forma negativa, opera che non riesce a pubblicare per mancanza di finanziamenti. Per questo ne riscrive una versione più breve e autofinanziata, che vede la luce nel 1725 e alla quale viene posto il titolo di Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni. Qualche anno più tardi, nel 1727, sugli «Acta eruditorum lipsiensia» esce una recensione anonima negativa e critica verso l’opera vichiana, alla quale il Vico stesso replica duramente nelle Vici vindiciae. Nel 1728 pubblica la Vita. Vico ora lavora a una seconda edizione della Scienza nuova che, dopo poco più di cento giorni di febbrile lavoro, vede la luce nel 1730 e alla quale appone la famosa «Dipintura». Nel corso della stampa di questa seconda edizione Vico compone le «Correzioni, miglioramenti e aggiunte», e successivamente, per emendare alcuni errori rimasti nel testo, dà alle stampe il fascicolo delle «Correzioni, miglioramenti e aggiunte seconde» (1731), a cui seguiranno le «Correzioni, miglioramenti, ed aggiunte terze» (1731 e 1733). Nel 1732 recita l’orazione inaugurale De mente heroica, e nel 1735 il re Carlo di Borbone lo nomina storiografo regio. Tra il 1735 e il 1736 Vico comincia la stesura di una nuova edizione della Scienza nuova, alla quale lavora fino alla morte. Nel 1743 avvia la pubblicazione della terza edizione del suo capolavoro, che avviene postuma nel luglio del 1744, dopo che Vico ne ha rivisto le bozze fino all’ultima notte della sua vita, quella tra il 22 e il 23 gennaio 1744.

2. La storia come problema filosofico in Vico C’è un tema di fondo che, tra gli altri, caratterizza il De antiquissima: l’uomo non può avere accesso alla verità del mondo naturale, giacché questa è resa possibile solo grazie all’atto creativo di Dio. Ben diversamente si pone il problema della conoscenza del mondo storico. Nel capitolo dove affronta il rapporto tra il vero e il fatto, dopo aver sostenuto che il «primo vero» è in Dio, cioè nel «primo facitore», e dopo aver assegnato alla mente divina una capacità di intelligenza infinita e compiuta delle cose, Vico lascia alla mente umana lo spazio del pensare, della cogitatio. «Dio infatti raccoglie tutti gli elementi delle cose, estrinseci e intrinseci, in quanto li contiene e dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non sieno essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi estremi delle cose, senza mai collegarli tutti. Pertanto è partecipe della ragione, non padrona» (De antiquissima

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italorum sapientia). La mente umana, allora, è in grado di elaborare un sistema di conoscenze applicabile a un ambito di fatti, quello storico per intenderci, costruito e al tempo stesso conosciuto dall’uomo. La scienza, afferma Vico in modo inequivocabile, «è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa: per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa». Sta qui il senso di quella che forse è la più profonda ipotesi teorica di Vico: la convertibilità di verum e factum. Il vero, oggetto della conoscenza dell’uomo, è convertibile con ciò che dall’uomo viene fatto e conosciuto. Solo in Dio vi è piena identità di verità e creazione, mentre la ragione umana conosce il vero solo nella misura in cui lo produce. Tutto ciò che l’uomo costruisce nelle operazioni concettuali, nelle creazioni linguistiche e nell’esperienza storica è per lui stesso conoscibile e vero, in quanto egli stesso l’ha prodotto. Il ragionamento vichiano prefigura la possibilità di fondazione delle scienze dell’uomo. Infatti, dall’assoluta impenetrabilità del vero divino discende la pensabilità di una «norma» che serve a riconoscere le verità prodotte delle scienze umane. Così, dalla divisione tra corpo e anima, intelletto e volontà, figura e moto, ente e uno, derivano i vari ambiti del sapere: la metafisica, l’aritmetica, la geometria, la meccanica, la medicina, la logica, la morale. Dunque, proprio muovendo dalla consapevolezza dei limiti della sua mente, l’uomo si dispone ad «investigare la natura delle cose», poggiando sulla astrazione, per mezzo della quale riesce a immaginare il punto e l’uno, cioè i contenuti della geometria e della matematica. Il principio della conversione verum-factum sta, com’è noto, anche all’origine della polemica anticartesiana di Vico. Essa, e lo si vedrà meglio più innanzi, ruota intorno alla centralità che in Vico assume il senso comune e ciò che costituisce il suo sfondo, cioè il mondo del verosimile, il mondo della umana produttività. Proprio nel De antiquissima Vico traccia le linee di fondo della sua critica al concetto cartesiano di verità basato sulle idee chiare e distinte. Il nesso di convertibilità tra vero e fatto, l’individuazione della norma del vero umano «nell’averlo fatto», impediscono che l’idea chiara e distinta possa essere elevata a criterio della mente. Conseguentemente, anche la metafisica del «primo vero», di quel vero «esente da dubbio» dal quale deriverebbero i «secondi veri» di tutte le altre scienze, non riesce alla fine a districarsi dalle contraddizioni cui conducono sia il dogmatismo sia lo scetticismo. Al contrario, la metafisica vichiana non mette in dubbio che il primo vero sia quello divino, capace di contenere l’infinità di tutti i generi e di tutte le cause. Si tratta solo di riconoscere che il vero umano, proprio perché non è in grado di elevarsi a questa infinità, ha una sola via per individuare il criterio del vero, cioè la sua identificazione con l’effettuazione di esso. Nella conclusione del Liber metaphysicus, egli parla esplicitamente di una «metafisica commisurata alla debolezza del pensiero umano». Si tratta di una metafisica che non

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pretende di fornire all’uomo la gamma di tutte le possibili conoscenze, ma soltanto quelle che si producono nel fare. Essa non intende revocare in dubbio le verità della religione, proprio perché sa distinguere il vero divino da quello umano, anzi individua nella scienza divina le regole di ogni scienza umana. Ma Vico, sulla scia della grande tradizione moderna della scienza galileiana, ci dice pure che proprio la limitatezza della conoscenza umana è alla base della regola «che serve alla fisica sperimentale [...], poiché in funzione di essa riconosciamo per vero in natura solamente ciò che è possibile riprodurre con adeguati esperimenti». Solo Dio conosce le cose fisiche, ma l’uomo conosce e produce punti, linee e rapporti numerici e, quel che più conta, ha la consapevolezza della non perfettibilità e incompiutezza delle conoscenze da lui prodotte. «La mente conoscendo produce cose fittizie; la mente umana crea le verità, ricavandole da un’ipotesi, mentre la divina genera verità in senso assoluto. Perciò l’ingegno è stato concesso all’uomo per conoscere, cioè per fare». L’uomo, dunque, a differenza di Dio che opera nel mondo delle cose reali, utilizza astrazioni e può conoscere in tal modo le sue costruzioni, rendendo alla fine possibile il passaggio, grazie alla matematica e alla geometria, dalla metafisica alla fisica. La metafisica, nel senso appunto di una «metafisica della mente umana», diventa il motivo fondamentale dell’opera vichiana, già delineato nel Liber metaphysicus e, poi, definitivamente elaborato nella Scienza nuova. La mente umana, come si è visto, è stata creata da Dio, ma essa non ha carattere di completezza e definitività. Essa, piuttosto, rappresenta il mondo dell’indeterminatezza e della possibilità. La natura di Dio – scrive Vico nella Sinopsi del diritto universale – è che sia «nosse, velle, posse infinitum», dal che dimostra la natura dell’uomo, che sia «nosse, velle, posse finitum, quod tendat ad infinitum» (Sinopsi del diritto universale 1720). Perciò, in questo contesto, diventa decisivo il ruolo della storia. La mente umana non può mai attingere la verità assoluta, però, attraverso la storia, può cogliere le modificazioni della coscienza umana e le articolazioni di queste modificazioni nella mente dell’uomo. Si chiarisce, in tal modo, il concetto di «storia ideale eterna», quell’argomento «e nuovo e grande» che s’agitava, fin dalle prime prove, nella mente di Vico e, cioè, come si legge nell’Autobiografia, la ricerca di un «principio» che «unisse egli tutto il sapere umano e divino». La metafisica vichiana della storia, come si vedrà meglio anche più innanzi, postula consapevolmente il grande problema filosofico del rapporto tra fatti e idee, temporalità ed eternità. La storia ideale eterna, se è da intendere come storia delle idee, lo è non certo nel senso della riduzione della storia a idee metafisiche, predefinite e preesistenti alla coscienza dell’uomo, ma in quello di idee costruite dalla mente umana, la cui capacità creativa muove lo stesso agire sociale e storico dell’uomo.

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3. La Scienza nuova Per questo, la metafisica di Vico, la rinnovata metafisica che non ha più nulla ormai della tradizionale metafisica di essenze eterne e immutabili, è inscindibile dal programma che sta al centro della Scienza nuova: la «storicizzazione della ragione». È una metafisica, come si è visto, del genere umano, che nella storia ideale eterna non trova un luogo dispensatore di immobili idee date una volta per tutte, ma «quella singolare inventio rationis che è la scoperta del logos-lex, nous-nomos, quale universale civile» e, si può aggiungere, la scoperta dell’universale storico che si dispiega nelle forme di civilizzazione e socializzazione dell’umanità, dell’universale fantastico che si manifesta nelle forme di creatività poetica e linguistica di popoli e nazioni. La comprensione degli eventi storici ha bisogno di tutti i sussidi della scienza filologica (dell’antiquaria, dell’etimologia, della cronologia), ma ha ancor più bisogno di commisurare i movimenti della storia con le strutture ideali della mente umana, con quelle strutture, cioè, dell’ordine naturale che attraversa, nel tempo, la vita degli uomini e delle nazioni. Si può così tornare agli essenziali tratti del concetto vichiano di «storia ideale eterna» e al ruolo che essa svolge nel rinnovato significato della metafisica nel pensiero vichiano. Se si volge per un momento l’attenzione alla «spiegazione della dipintura» che, com’è noto, apre la Scienza nuova, a mò di quadro sinottico dell’intera opera e di ausilio mnemotecnico per il lettore, si possono agevolmente fissare alcuni punti fermi. Al centro del dipinto, sia simbolicamente sia concettualmente, appare la metafisica, la «donna con le tempie alate» che certo anche figuralmente sovrasta il globo terrestre, cioè il mondo della natura, ed è investita dal raggio della provvidenza che parte dall’occhio veggente di Dio. E, tuttavia, prima ancora che Vico si dia a spiegare il senso della raffigurazione, egli afferma significativamente di voler offrire al lettore in primo luogo una «tavola delle cose civili» (Scienza nuova, 1744), mostrando in tal senso la preminenza dello specifico oggetto della nuova scienza: il processo di incivilmento e socializzazione del genere umano. D’altronde, il paragrafo sulla Idea dell’opera che apre l’edizione del 1725 aveva già messo in chiaro come il libro intendesse ragionare su una Scienza «dintorno alla natura delle nazioni», muovendo cioè dal livello di acquisita umanizzazione dei rapporti civili, dal momento che è se pur vero che l’alba dell’umanità inizia con la religione, essa si è poi definitivamente compiuta «con le scienze, con le discipline e con l’arti». Nell’immagine del frontespizio la metafisica non si limita a contemplare Dio «sopra l’ordine delle cose naturali»; nell’occhio divino essa contempla anche il mondo delle menti umane proprio al fine di dimostrare l’azione della provvidenza in quel mondo civile che è essenzialmente il mondo delle nazioni. Vico, dunque, non ha alcuna intenzione di negare il ruolo della provvidenza nella vita e

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nella storia dell’uomo; ma questo non significa che non possa delinearsi uno spazio di autonomia proprio del facere delle umane volontà. È tale spazio che può e deve divenire oggetto della scienza che Vico vuole fondare e prefigurare. Perciò il globo che è ai piedi della donna alata è poggiato su un solo lato dell’altare, a significare, come spiega Vico stesso, il fatto che avendo i filosofi «contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte». E si tratta di quella parte che è la «più propria» degli uomini, «la natura de’ quali ha questa principale proprietà: d’esser socievoli». Si definisce e si precisa sempre di più il ruolo della storia dell’uomo, dell’umanità nel suo processo di civilizzazione, e si spiega, così, la centralità delle forme di socializzazione e di organizzazione politico-giuridica. Ma tutto ciò diventa possibile perché, a partire dalla Scienza nuova (sia pur sviluppando intuizioni già contenute nel De antiquissima), la filosofia di Vico – come ha sostenuto in un famoso saggio Pietro Piovani – è diventata «filosofia senza natura». E non perché il filosofo napoletano voglia negare l’ambito specifico di conoscenza e realtà del mondo fisico-naturale, ma proprio per attestare uno spostamento di interesse verso un mondo, quello dell’uomo e della sua storia, finora trascurato o sottovalutato dai filosofi. Vico ha così individuato la «strada verso lo studio del mondo morale; ma solo nella ricerca specifica della nuova scienza quella indicazione esce dalla genericità e designa una scelta metodologica fra mondo morale e mondo naturale». Il principio teoretico basilare su cui poggia la nuova scienza diventa la certezza di un «mondo civile» fatto dagli uomini e la filosofia, arricchita dal metodo filologico, può impegnarsi nella conoscenza dei «veri che gli uomini hanno fatto». Riprendendo il concetto già espresso in apertura dell’opera – quando spiega il motivo della precaria positura del globo su un solo lato dell’altare – Vico chiarisce, nella sezione Dé principi, che cosa egli intende quando parla di una verità che assolutamente non può essere messa in dubbio (e cioè il mondo civile come prodotto dell’umano facere), ma, al tempo stesso, egli critica il fatto che la filosofia non abbia saputo fino ad allora sviluppare tutte le conseguenze di tale verità. «Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli li fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini» (Scienza nuova, 1744). Vico ritiene così possibile la «scoverta dé veri elementi della storia», ancora una volta individuabili a partire dalla natura degli uomini e non dati una volta per tutte da una astorica mente universale (la storia ideale eterna, come sappiamo, non è separabile dal tempo storico delle nazioni). Soltanto dalla natura degli uomini derivano i costumi e da questi poi discendono i governi, i quali, a loro volta, danno vita alle leggi, sulla cui

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base si formano gli «abiti civili» e, infine, le costanti che caratterizzano la vita delle nazioni. «I veri elementi della storia, sostiene Vico, sembrano essere questi principi di morale, politica, diritto e giurisprudenza del genere umano, ritruovati per questa nuova scienza dell’umanità, sopra i quali si guida la storia universale delle nazioni, che ne narra i loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini» (Scienza nuova, 1725). Tutto ciò, come ben sappiamo, è certo regolato dalla provvidenza divina, ma proprio i caratteri della storia incardinati nella natura umana e nel suo esplicarsi nelle forme di incivilimento politico e sociale, fanno sì che la scienza della quale vuole ragionare Vico si presenti come una «teologia civile ragionata della provvedenza divina» (Scienza nuova, 1744). Si ripropone qui, ancora una volta, il problema della provvidenza. Ora il fatto che Vico designi la scienza oggetto del suo libro come teologia civile e ragionata della provvidenza non sopporta forzature interpretative, né sul lato di una assoluta laicizzazione immanentistica, né su quello di un altrettanto assoluto provvidenzialismo religioso. In effetti, basta affidarsi ai testi vichiani per vedere come il problema non è da porsi nel senso della affermazione o meno del ruolo della provvidenza, quanto, piuttosto, in quello di una consapevole distinzione – che è innanzitutto metodologica e conoscitiva e non, dunque, ontologica – che il Piovani ha efficacemente individuato tra una «universalità cosmica che va lasciata, come natura, a Dio, e l’universalità civile che va riservata, come storia, all’uomo e alle autorità che, nella sua società, egli riconosca come sue». Il problema di Vico, dunque, non è quello di negare l’universalità delle forme in cui si manifesta (attraverso l’eterna ragione) la presenza divina nel mondo, e neanche quello di sostituire a essa una universalità o logica o naturale di segno opposto. Si tratta, piuttosto, di muovere dalla scoperta di una universalità propria del mondo umano che, per essere esperita e compresa, ha bisogno di strumenti conoscitivi (oltre che di esperienze) che non possono essere analoghi a quelli della fisica e della metafisica. Il concetto è espresso in modo inequivocabile nel capoverso conclusivo della spiegazione della «dipintura». C’è sempre un ordine finalistico che sovrasta ogni cosa e che prefigura in sé le tappe del percorso che le menti umane devono seguire per innalzarsi al cielo. E, tuttavia, questo percorso passa per fasi e per «mondi» distinti. «Tutti i geroglifici che si vedono in terra dinotano il mondo delle nazioni [come si vede il tragitto delineato da Vico inizia dal livello più terrestre e vicino alla realtà dell’uomo], al quale prima di tutt’altra cosa applicarono gli uomini. Il globo ch’è in mezzo rappresenta il mondo della natura, il quale poi osservano i fisici. I geroglifici che vi sono al di sopra significano il mondo delle menti e di Dio, il quale finalmente contemplarono i metafisici» (Scienza nuova, 1744). Vico appare dunque consapevole della sua scoperta, di quell’argomento «e nuovo e grande», a lungo trascurato dai fisici che si sono applicati al solo mondo naturale e dai filosofi che hanno contemplato il mondo nella

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sua sola parte metafisica, trascurando questo nuovo e inesplorato mondo della storia e delle civiltà umane.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

Il «Centro di studi vichiani» del C.N.R. di Napoli sta completando l’edizione critica delle opere di Vico. Per ciò che concerne la bibliografia vichiana si rimanda al repertorio di B. Croce, Bibliografia vichiana (accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, Ricciardi, Napoli 1947-1948) e ai successivi aggiornamenti preparati dal «Centro di studi vichiani». Si segnalano, inoltre, le seguenti edizioni delle opere di Vico; Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1971; Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1974; Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori 1990.

Letteratura secondaria

Per quel che riguarda gli studi si segnalano i principali contributi novecenteschi: N. Badaloni, Introduzione a G.B.Vico, Feltrinelli, Milano 1961; B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1911; B. Donati, Nuovi studi sulla filosofia civile di G. B. Vico, Le Monnier, Firenze 1936; G. Gentile, Studi vichiani, Principato, Messina 1915 (e la III ed. rivista e accresciuta a cura di V. Bellezza, Sansoni, Firenze 1968); F. Nicolini, Commento storico alla seconda Scienza Nuova, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1949-1950; Omaggio a Vico, a cura di P. Piovani, Morano, Napoli 1968; S. Otto, Giambattista Vico. Lineamenti della sua filosofia, Guida, Napoli 1992 (edizione tedesca Giambattista Vico. Grundzüge seiner Philosophie, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin-Köln 1989); E. Paci, Ingens sylva, Mondadori, Milano 1949 (e la II edizione Bompiani, Milano, 1995); P. Piovani, La filosofia nuova di Vico, a cura di F.Tessitore, Morano, Napoli 1990.

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Per una conoscenza diretta Il criterio gnoseologico del verum-factum

La scienza umana è nata dunque da un difetto della nostra mente, ossia dalla sua estrema limitatezza, per cui è fuori da tutte le cose, non contiene le cose che aspira a conoscere, e, poiché non le contiene, non traduce in effetto le cose vere che si sforza di raggiungere. Ma scienze certissime sono quelle che espiano il vizio di origine, e per mezzo delle operazioni diventano simili alla scienza divina, in quanto vero e fatto si convertono. [...] Da quanto si è finora dissertato, si può senz’altro concludere che il criterio e la regola del vero consiste nell’averlo fatto. Dunque l’idea chiara e distinta della nostra mente, nonché di tutti gli altri veri, non può essere criterio nemmeno della mente: poiché la mente, quando si conosce, non si fa; e poiché non si fa, non conosce il genere o modo del suo conoscersi. Ora, essendo la scienza umana fondata sull’astrazione, le scienze sono tanto meno certe, quanto più si immergono nella corposità della materia. De antiquissima, in Opere filosofiche, pp. 66 e 68.

I «quattro auttori» di Vico

Fino a questi tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente metafisica incomparabile Tacito contempla l’uomo qual è, Platone qual dee essere; e come Platone con quella scienza universale si diffonde in tutte le parti dell’onestà che compiono l’uom sapiente d’idea, così Tacito discende a tutti i consigli dell’utilità, perché tra gl’infiniti irregolari eventi della malizia e della fortuna si conduca a bene l’uom sapiente di pratica. E l’ammirazione con tal aspetto di questi due grandi autori era nel Vico un abbozzo di quel disegno sul quale egli poi lavorò una storia ideale eterna sulla quale corresse la storia universale di tutti i tempi, conducendovi, sopra certe eterne proprietà delle cose civili, i surgimenti, stati, decadenze di tutte le nazioni, onde se ne formasse il sapiente insieme e di sapienza riposta, qual è quel di Platone, e di sapienza volgare, qual è quello di Tacito. Quando finalmente venne a lui in notizia Francesco Bacone signor di Verulamio, uomo ugualmente d’incomparabile sapienza e volgare e riposta, siccome quello che fu insieme un uomo universale in dottrina ed in pratica, come raro filosofo e gran ministro di stato dell’Inghilterra. E, lasciando da parte stare gli altri suoi libri, nelle cui materie ebbe forse pari e migliori, in quelli De augumentis scientiarum l’apprese tanto che, come Platone è il principe del sapere de’greci e un Tacito non hanno i greci, così un Bacone manca a’latini ed a’greci; che un sol uom vedesse quanto vi manchi nel mondo delle lettere che si dovrebbe ritruovare e promuovere, ed in ciò che vi ha, di quanti e quali difetti sia egli necessario emendarsi; né per affezione o di particolar professione o di propria setta, a riserva di poche cose che offendono la cattolica religione, faccia a tutte le scienze giustizia, e a tutte col consiglio che ciascuna conferisca del suo nella somma che costitovisce l’universal repubblica delle lettere. E, propostisi il Vico questi tre singolari auttori da sempre avergli avanti gli occhi nel meditare e nello scrivere, così andò dirozzando i suoi lavori d’ingegno, che poi portarono l’ultima opera De universi iuris uno principio, ecc... Nell’apparecchiarsi a scrivere questa vita, il Vico si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure belli ac pacis. E qui vide il quarto auttore da aggingere agli altri tre che egli si aveva proposti.

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Perché Platone adorna più tosto che ferma la sua sapienza riposta con la volgare di Omero; Tacito sparge la sua metafisica, morale e politica per gli fatti, come da’ tempi ad essolui vengono innanzi sparsi e confusi senza sistema; Bacone vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non ha ed emendare in ciò che ha, ma, intorno alle leggi, egli co’ suoi canoni non s’innalzò troppo all’universo delle città ed alla scorsa di tutti i tempi né alla distesa di tutte le nazioni. Ma Ugon Grozio pone in sistema di un dritto universale tutta la filosofia e la filologia in entrambi le parti di quest’ultima, sì della storia delle cose o favolosa o certa, sì delle storia delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della cristiana religione. Ed egli molto più poi si fe’ addentro in quest’opera del Grozio, quando, avendosi ella a ristampare, fu richiesto che vi scrivesse alcune note, che ‘l Vico cominciò a scrivere, più che al Grozio, in riprensione di quelle che vi aveva scritte il Gronovio, il quale le vi appiccò più per compiacere a’ governi liberi che per far merito alla giustizia; e già ne aveva scorso il primo libro e la metà del secondo, delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva ad uom cattolico di religione adornare di note opera di auttore eretico. Con questi studi, con queste cognizioni, con questi quattro auttori che egli ammirava sopra tutt’altri, con il desiderio di piegargli in uso della cattolica religione, finalmente il Vico intese non esservi ancora nel mondo delle lettere un sistema, in cui accordasse la miglior filosofia, qual è la platonica subordinata alla cristiana religione, con una filologia che portasse necessità di scienza in entrambe le sue parti, che sono le due storie, una delle lingue, l’altra delle cose; e dalla storia delle cose si accertasse quella delle lingue, di tal condotta che sì fatto sistema componesse amichevolmente e le massime de’ sapienti dell’accademie e le pratiche de’ sapienti delle repubbliche. Ed in questo intendimento egli tutto spiccossi dalla mente del Vico quello che egli era ito nella mente cercando nelle prime orazioni augurali ed aveva dirozzato pur grossolanamente nella dissertazione De nostri temporis studiorum ratione e, con un poco più di affinamento, nella Metafisica. Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, in Opere, pp. 29-30 e 44-45.

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La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione (Degnità V). La filosofia considera l’uomo quale dev’essere, e sì non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo (Degnità VI). La legislazione considera l’uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società; come della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il gener umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la testa, ne fa la civile felicità (Degnità VII). Principi di Scienza nuova di Giambattista Vico d’intorno alla comune natura delle nazioni, in Opere, p. 497.

Capitolo 9 Hume Francesco Coniglione

1. La vita e le opere 1.1 La fase giovanile e il Trattato sulla natura umana (1711-1740) David Hume nasce ad Edinburgo il 26 aprile 1711, dove muore il 25 agosto 1776. Figlio di un avvocato, conte di Ninewells, nella Scozia meridionale, compie tra il 1721 e il 1725 i suoi studi nel College della città natale. La sua famiglia voleva avviarlo alla professione forense, ma ben presto in lui si afferma una «avversione insormontabile per tutto ciò che non fosse la coltivazione della filosofia e della cultura in generale» (La mia vita), sicché dopo il College egli continua da autodidatta gli studi di filosofia, «divorando» i classici (come Virgilio e Cicerone). Lo studio appassionato provoca in lui un esaurimento, da cui cerca di fuoriuscire impiegandosi per alcuni mesi presso un commerciante di Bristol. Infine decide di seguire la sua vocazione trasferendosi in Francia, dove tra il 1734 e il 1737 si dedica alla redazione della sua opera principale, il Trattato sulla natura umana (Treatise of Human Nature). Essa viene rifinita quando torna in Inghilterra, stabilendosi a Londra, dove ne pubblica alla fine del 1738 le prime due parti (concernenti la conoscenza e le passioni). «Mai tentativo letterario fu più sfortunato» (Ib.), poiché venne ignorato dalla stampa e accolto con freddezza dagli studiosi; sicché nella primavera del 1740 Hume pubblica in modo anonimo un Estratto del Trattato (An Abstract of a Treatise of Human Nature), nel quale cerca di autopromuovere la propria opera fingendosi un gentiluomo che ne riassume i contenuti e ne suggerisce la lettura, ritenendo che i suoi principi portano a modificare sin dalle fondamenta la maggior parte delle scienze: «scuotono il gioco dell’autorità, abituano gli uomini a pensare con la propria testa, offrono nuovi spunti che uomini di ingegno possono portare più avanti e con la loro decisa opposizione chiariscono dei punti in cui nessuno prima aveva

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sospettato che si celasse qualche difficoltà» (Estratto del Trattato sulla natura umana). Alla fine dello stesso anno pubblica la terza parte del Trattato, dedicata alla morale e alla politica. Così, all’età di 39 anni, Hume ha completato la pubblicazione della sua prima opera, la più importante di tutta la sua carriera filosofica.

1.2 L’attività pubblicistica degli anni 1741-1752 Negli anni successivi all’uscita del Trattato, Hume si ritira a Ninewells e si dedica prevalentemente alla pubblicazione di due volumi di saggi di natura politica e morale (nel 1741 e 1742) che ebbero un successo immediato. Grazie a ciò si fa il suo nome per una cattedra all’Università di Edinburgo, alla quale però si oppongono i conservatori e i bigotti religiosi, che in un pamphlet rivolgono al filosofo le accuse di ateismo, eresia e immoralità, dalle quali egli cerca di difendersi in una Lettera a un amico di Edinburgo (Letter from a Gentleman to his Friend in Edinburgh) del 1745. Tuttavia la sua candidatura tramonta. Egli così accoglie l’invito del Marchese di Annandale a vivere con lui in Inghilterra e quindi si mette al seguito del generale St. Clair, che segue nelle ambascerie a Vienna e a Torino, interrompendo per la prima e unica volta nella sua vita, per due anni, la sua attività di studioso. Inoltre, convinto che la sfortuna del suo Trattato fosse dovuta più al modo in cui era stato scritto che al suo contenuto, decide di riprenderne la prima parte in una nuova opera, la Ricerca sull’intelletto umano (An Inquiry concerning Human Understanding, Londra 1748). Anche quest’opera ha poco successo, così a seguito della morte della madre avvenuta nel 1745, egli decide di tornare nella proprietà di famiglia. Qui si dedica alla stesura sia della Ricerca sui principi della morale (An Inquiry concerning the principles of Morals, Londra 1752), che costituisce la riesposizione della seconda parte del Trattato, che dei Saggi politici (Political Discourses, Edinburgo 1752), che ne riespongono la terza parte; sono solo questi ultimi ad aver successo al momento della loro pubblicazione. Inoltre a questi anni risale la prima stesura dei Dialoghi sulla religione naturale (Dialogues concerning Natural Religion), che verranno pubblicati postumi a causa della loro critica radicale della religione, che suscita persino l’opposizione di molti amici del filosofo.

1.3 L’ultima fase della vita e l’interesse per la storia (1752-1776) Nel 1752 Hume viene nominato conservatore della Biblioteca degli avvocati di Edinburgo e si dedica, oltre alla ripubblicazione dei suoi scritti, anche alla stesura di una Storia dell’Inghilterra in più volumi (1753-1762). Nel 1758 lascia il suo incarico di bibliotecario e nel 1763 segue Lord Hertford a Parigi, dove viene accolto calorosamente nei salotti degli illuministi, incontrando D’Alembert, Diderot, Buffon, Helvetius, D’Holbach. Fa anche

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amicizia con Rousseau, che lo segue al suo ritorno in Inghilterra, si affida alla sua protezione e poi lo accusa di aver ordito un complotto contro di lui. In questa fase occupa anche alte cariche politiche, per poi ritirarsi nel 1769 a Edinburgo, ormai assai agiato grazie al successo finalmente conseguito dalle sue opere, specie di carattere politico e storico, delle quali prepara l’edizione definitiva, uscita postuma nel 1776, scrivendo anche la propria autobiografia che ne costituirà la premessa. Muore nel 1775, probabilmente per un cancro allo stomaco.

2. Empirismo e scetticismo Per capire il senso più autentico del pensiero di Hume occorre iniziare dalle sue conclusioni, cioè dal modo in cui egli chiude la sua Ricerca: «Quando scorriamo i libri d’una biblioteca […] che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto o di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni» (Ricerca, XII, 3).

2.1 L’empirismo In questa affermazione così drastica è contenuta la principale dottrina della sua intera attività filosofica, ovvero l’idea che tutta la conoscenza umana possa suddividersi in quella avente carattere matematico o logico (la conoscenza che riguarda la «relazione tra idee»), e in quella che si basa sull’esperienza, come le scienze naturali (e che concerne i dati di fatto e le relazioni che tra essi sussistono). Al di fuori di questi due tipi di conoscenza non è ammissibile alcuna altra possibilità per l’uomo di raggiungere una verità, e in particolare Hume esclude tutte le teorie o dottrine che hanno per proprio oggetto le essenze e il mondo soprasensibile, tradizionale oggetto della metafisica e della teologia. È questa una tipica bipartizione del campo conoscitivo umano tra «giudizi analitici» e «giudizi sintetici» che sarà ripresa da Kant e verrà accettata da ogni successiva filosofia di impostazione empirista, come accadrà nel Novecento con il neo-empirismo (o neopositivismo), che avrà in Hume un nume tutelare. In tale dottrina si esprime appieno l’empirismo di Hume, che lo fa ritenere il massimo esponente di questo indirizzo tipicamente inglese, accanto a John Locke e al vescovo irlandese George Berkeley. Riprendendone i temi principali, Hume infatti estende e radicalizza la posizione tipicamente empirista che vede nell’esperienza ottenuta attraverso i sensi l’unica strada che porta alla conoscenza del mondo esterno, per cui la funzione della ragione consiste solo nella sua capacità di ordinare e sistematizzare

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i contenuti offertici dalle impressioni sensoriali e dalle idee che da queste derivano, come loro riflesso più illanguidito e debole. Nell’assumere questa posizione è stata importante su Hume l’influenza di Isaac Newton, che aveva definitivamente fondato la scienza moderna, portando a compimento la rivoluzione concettuale e metodologica operata da Galileo Galilei. Ed è proprio il metodo di questa nuova scienza che egli vuole estendere dalle scienze fisiche alla scienza della natura umana, individuando anche per essa dei principi organizzatori ed esplicativi che rivestano la medesima funzione di quelli indicati da Newton per la spiegazione dei fenomeni naturali. Così come questi aveva visto nella legge della gravitazione universale il principio fondamentale che spiega il movimento di tutti i corpi nel sistema solare, unificando fenomeni terrestri e celesti, allo stesso modo Hume pensa di scoprire nella dottrina della associazione delle idee il principio fondamentale che permette di spiegare come sia possibile, a partire dalle impressioni sensibili, costruire tutte le nozioni e i concetti che fanno parte della conoscenza umana. Grazie a questa scoperta, egli «ambisce quasi ad essere riconosciuto come il Newton della natura umana» (Estratto del Trattato sulla natura umana). Sono i principi della somiglianza (che ci fa associare idee tra loro simili), della contiguità (che ci fa richiamare alla mente idee di eventi o fatti tra loro spazialmente o temporalmente vicini) e della causazione (che ci fa passare dalla causa all’effetto) a farci costruire le idee complesse partendo dalle idee semplici e quindi a permetterci di edificare un sistema ordinato e organico di conoscenze, la cui unica base sono le impressioni sensibili. È una specie di attrazione che, grazie a questi tre principi e analogamente a quanto fa la gravità in natura, fa sì che le idee si colleghino le une alle altre. Tra gli effetti più notevoli di tale «attrazione» tra le idee v’è quello di dare origine alle idee complesse, che possono suddividersi in idee di relazione, di modi e di sostanza. Da questa impostazione deriva anche la dottrina che sia del tutto destituita di fondamento ogni credenza non riducibile alle impressioni, che sono alla base delle idee e della loro organizzazione per associazione; egli così stabilisce con chiarezza il principio secondo il quale il significato di una idea o di un concetto filosofico sia nella sostanza riconducibile alle impressioni sensibili che ne stanno alla base. E siccome i concetti tipici della teologia e della religione non hanno alcuna corrispondenza nelle impressioni, ecco che il loro significato viene azzerato e i libri che li contengono devono esser dati alle fiamme.

2.2 L’induzione Tuttavia la fondazione empirista della conoscenza non è priva di difficoltà: non solo la reciproca attrazione che l’associazione delle idee stabilisce attraverso i principi della somiglianza, della contiguità e della

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causalità ha per Hume cause sconosciute, analogamente a come avviene per la gravitazione universale di Newton, per cui essi devono essere riguardati come proprietà originarie della natura umana che non si può pretendere di spiegare ulteriormente (Trattato, I, 4), ma lo stesso principio di causalità – per citare quello più importante e che sta alla base della scienza della natura newtoniana – è incerto e quanto mai fragile, in quanto non lo si può giustificare in alcun modo. Ma è proprio questo principio a esser richiamato in tutti gli argomenti che concernono questioni di fatto e quindi nella nostra conoscenza della natura. È una delle più celebri teorie di Hume, le cui conseguenze sono enormi sul pensiero successivo, a tal punto che si potrebbe sostenere a ragione che essa costituisce il principale oggetto di discussione e analisi di tutte le dottrine che abbiano affrontato il problema della conoscenza naturale e della sua possibile giustificazione. Infatti, domandiamoci quale sia il fondamento razionale per cui affermiamo che alla causa A segue un certo effetto B; che ad esempio la palla di biliardo che ne urta un’altra è la causa del movimento di questa o che il fuoco è la causa del riscaldarsi del metallo posto su di esso. Su quali basi possiamo affermare che esista un nesso particolare di causalità tra i due eventi? In effetti, sulla base delle nostre impressioni sensibili (le sole su cui dobbiamo basarci) constatiamo solo che l’evento A precede temporalmente l’evento B; che A e B sono spazialmente contigui; infine che A e B sono congiunti in modo costante, ovvero che la nostra esperienza ci ha fatto sinora constatare il loro presentarsi insieme. V’è qualcosa di più oltre a queste tre circostanze che ci autorizza a stabilire un nesso causale e necessario tra i due eventi? Possiamo ad esempio – senza aver avuto prima una qualsiasi esperienza di tale evento – prevedere cosa succederà osservando solo la causa? Ad esempio, possiamo affermare guardando solo la fiamma (senza prima aver mai conosciuto il fuoco e il calore), che essa riscalderà quel pezzo di ferro? No, risponde Hume; ovvero non è possibile per mezzo di un ragionamento a priori inferire l’effetto dalla causa, in quanto «non esiste nella causa nulla che la ragione veda e che ci faccia inferire l’effetto» (Estratto). Se la causalità non è una relazione logica necessaria, allora deve essere fondata sull’esperienza; ma quest’ultima nulla di più ci dice se non che tra certi eventi abbiamo sempre constatato che esiste un legame di priorità temporale, contiguità spaziale e congiunzione costante. Insomma, dall’esperienza nulla più possiamo sapere se non che le cose sono andate finora così, che cioè sinora è sempre accaduto che il fuoco ha riscaldato il metallo, che le palle di biliardo si sono respinte l’un l’altra e così via. Ma per esser certi che anche in futuro le cose andranno allo stesso modo, sarebbe necessario stabilire una legame necessario tra causa ed effetto, ovvero stabilire che A deve produrre B, che v’è una necessità intrinseca, un nesso profondo che impedisca che le cose vadano in altro modo. Ebbene proprio

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questo nesso necessario è ciò che una conoscenza basata sull’esperienza non può fornirci. La nostra convinzione che il sole continuerà a sorgere domani e che l’acqua continuerà a dissetarci dipende dalla circostanza che noi assumiamo tacitamente il principio dell’uniformità della natura, ovvero l’idea che la natura si comporta sempre allo stesso modo e segue sempre le stesse leggi. Ma anche questa assunzione è razionalmente immotivata, in quanto il fatto che in natura le cose siano andate sempre in un certo modo non costituisce una prova che anche domani avverrà lo stesso. E tuttavia noi crediamo in una serie di regolarità della natura: se non avessimo questa convinzione non potremmo neanche vivere, in quanto avremmo il timore che ciò che ci ha sempre nutriti, domani possa avvelenarci, che il fuoco che ci ha sempre riscaldato, possa improvvisamente trasformarci in pezzi di ghiaccio, e così via. Ma questa nostra ferma fiducia in un nesso di causalità che regge gli eventi del mondo è solo effetto della nostra abitudine, del fatto che la nostra natura si è adattata a questi eventi e li ritiene ormai necessari: «non è dunque la ragione la guida della vita, ma l’abitudine. Essa soltanto muove la mente, in tutti i casi, a supporre il futuro conforme al passato» (Estratto). La conclusione è netta e concerne tutto quanto può derivare dall’esperienza: «Tutte le inferenze dall’esperienza, dunque, sono effetti di consuetudine, non di ragionamento» (Ricerca, V, 1). Nell’affermazione che nulla garantisce che il futuro sia eguale al passato v’è in nuce l’idea dell’impossibilità di giustificare il procedimento induttivo, ovvero quel tipo di inferenza che sin da Francesco Bacone era stata ritenuta il cuore del metodo applicato nelle scienze naturali. L’induzione consiste tradizionalmente nella possibilità di estendere un numero limitato di esperienze a tutte le altre dello stesso tipo; nella possibilità di poter affermare che «tutti i corvi sono neri» grazie all’osservazione di un certo numero di corvi neri, con la convinzione che più il numero di corvi osservati è elevato, più aumenta la certezza dell’affermazione generale. Ma Hume, affermando che è solo l’abitudine il principio che sta alla base del passaggio dalle osservazioni passate alle osservazioni future possibili – e non un qualsivoglia principio razionale o una speciale «inferenza» di tipo induttivo, anche se di natura probabilistica – mette in crisi la possibilità dell’induzione e così getta un’ombra anche sulle certezze della scienza naturale edificata da Newton. Le leggi scientifiche da questi ritenute universali e necessarie vengono da Hume ricondotte a un principio psicologico, quale quello dell’abitudine, e quindi vengono depotenziate del loro valore conoscitivo. È indubbio che anche nelle più sofisticate riflessioni logiche sul problema dell’induzione, effettuate adoperando tutto l’armamentario matematico e probabilistico messo a disposizione dalla scienza contemporanea, non si è riusciti ad andare oltre quanto già sostenuto dal filosofo scozzese; sicché ancora oggi non si può fare a meno di riconoscere che

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le generalizzazioni induttive dipendono da assunzioni che non possono essere razionalmente giustificate, così come ha sostenuto Hume.

2.3 Lo scetticismo La filosofia di Hume, dunque, si caratterizza per il fatto di mettere in evidenza i limiti della conoscenza umana. Limiti innanzi tutto fissati dal suo carattere empirico e quindi escludente ogni possibilità di accedere alle essenze delle cose o al soprasensibile; ma limiti anche nel campo della conoscenza empirica, così come dimostra la sua critica del concetto di causalità. Egli stesso ammette che la filosofia contenuta nel suo Trattato «è molto scettica» (Estratto). Tuttavia, rispondendo alle accuse mossegli in merito, egli intende precisare che il suo scetticismo ha come risultato solo «la modestia e l’umiltà riguardo alle operazioni delle nostre facoltà naturali» (Lettera a un amico di Edinburgo) e non tanto un «dubbio universale» che rende incerto tutto. E qui la filosofia di Hume ha una sua particolare curvatura: una cosa è il riconoscere l’impossibilità di pervenire alla conoscenza della «vera natura» (della «essenza») di certi processi naturali (ad esempio, in cosa consiste la «gravitazione» che Newton pone a base del suo sistema scientifico), come anche di giustificare razionalmente il nesso causale, affidandolo tutto all’abitudine; un’altra è il comprendere quali siano le basi naturalistiche che permettono all’uomo di agire e decidere. Una cosa è ammettere la debolezza della ragione umana, limitata alle apparenze sensibili; un’altra è invece riconoscere la potenza e la forza della natura. E se la prima non può che gettarci nell’amara constatazione sulla debolezza dell’intelletto umano, invece la seconda ci permette di vivere e agire nella vita di ogni giorno. Se dunque la ragione è incapace di dissipare le nubi dello scetticismo «per mia grande fortuna […] a ciò pensa la natura, la quale mi cura e guarisce di questa tristezza e di questo delirio filosofico […]» (Trattato, IV, 7). Così come gli scettici antichi – che avevano individuato nella «vita biologica» ciò che poteva condurre gli uomini a superare praticamente lo scetticismo cui li conduceva l’esercizio rigoroso della ragione – anche Hume non vede altra salvezza dalla critica distruttiva della ragione se non il ricorso alla natura (come avviene con l’abitudine). In fin dei conti la migliore giustificazione del ragionare e del credere è il fatto che ciascuno continua a ragionare e credere. «La natura conserverà sempre i suoi diritti, e prevarrà alla fine su qualsiasi ragionamento astratto, qualunque esso sia» (Ricerca, V, 1). La ragione umana è sì uno strumento debole che non fornisce alcuna certezza, ma è sempre quanto di meglio la natura ha messo a disposizione per la sopravvivenza della specie umana; in tal modo lo scettico continuerà a ragionare e credere pur essendo convinto di non poter difendere le sue credenze con la ragione, come anche continuerà

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ad ammettere l’esistenza dei corpi o della causalità, pur senza poterne dare una giustificazione razionale. Potrà solo spiegare la natura di tale credenza, riportandola all’abitudine, che è il principio che regge tutto. E potrà proporzionare le sue credenze rispetto all’evidenza disponibile, giudicando in base a un giudizio di probabilità. La filosofia di Hume si caratterizza, dunque, per una forma di naturalismo filosofico che troverà nuova fortuna nel corso del XX secolo. Anche in questo caso la salvezza e la soluzione delle eterne questioni legate alla possibilità della conoscenza e al superamento del dubbio scettico saranno affidate alla potenza della natura.

3. La morale e la religione Anche nel campo della morale Hume vuole applicare il metodo sperimentale; cioè effettuare uno studio del comportamento morale dell’uomo non a partire da principi etici assunti in modo aprioristico, ma piuttosto esaminando il comportamento reale dell’uomo, per cercare di individuare i molteplici moventi psicologici delle sue azioni; l’etica rientra, quindi, in quelle che Hume aveva definito «questioni di fatto». Per far ciò bisogna partire dall’esame delle «passioni dell’uomo», alle cui analisi e classificazione egli dedica tutto il libro secondo del suo Trattato e la seconda parte della Ricerca. Le passioni sono per la vita morale ciò che le impressioni sono per la conoscenza, ovvero la base di partenza di ogni comportamento pratico, risalendo alle quali è possibile spiegare le azioni morali degli uomini. Sono le passioni, «impressioni interne», la base di ogni azione che ha una motivazione essenzialmente emotiva e non conoscitiva. Non è la volontà governata dalla ragione a costituire il fondamento dell’etica – da ciò la polemica contro i moralisti razionalisti della sua epoca – ma il sentimento, come si vede ad esempio nel caso delle cosiddette «passioni primarie» (la vendetta, la fame, l’amicizia, la concupiscenza ecc.) che derivano da un istinto naturale incomprimibile, esistente in tutti gli individui e la cui origine risulta misteriosa e non indagabile, allo stesso modo di come lo sono la gravità newtoniana e l’attrazione che regola l’associazione delle idee. Per Hume la volontà risulta completamente «schiava delle passioni». Tra le passioni primarie assume, tuttavia, particolare importanza la «simpatia», intesa come capacità di «com-patire» con gli altri, immedesimandosi nelle loro inclinazioni e desideri, per quanto diversi dai nostri, e che ci fa giudicare virtuosi, ad esempio, anche comportamenti di nostri nemici o azioni che non hanno come propria motivazione l’interesse egoistico, ma il bene comune. È questa la base che ci fa superare l’egoismo ed evadere dalla perfetta solitudine: così come la credenza nel campo conoscitivo ci fa ampliare il campo della nostra esperienza, allo stesso modo la simpatia ci fa fuoriuscire dall’ambito ristretto delle nostre passioni,

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rendendoci compartecipi di quelle degli altri. Grazie a essa è possibile quella reciproca solidarietà umana che regola l’operare collettivo in base a criteri di giustizia, rispetto e obbedienza verso le istituzioni. La netta distinzione posta da Hume tra le regole che governano la vita morale e quelle che stanno alla base della conoscenza fa sì che egli stabilisca un netto discrimine tra il giudizio che concerne il vero e il falso e quello che stabilisce il bene e il male. Un’azione morale non può essere giudicata con criteri conoscitivi: può essere soggetta all’approvazione o al biasimo, ma mai esser ritenuta corrispondente al vero o al falso. Si tratta della cosiddetta «legge di Hume» – che tanta fortuna avrà nella discussione etica successiva e che ancora oggi viene ritenuta un principio fondamentale del dibattito morale e civile – secondo la quale non è possibile passare dall’essere (oggetto della conoscenza) al dover essere (oggetto della morale); non è cioè possibile dedurre da asserti di tipo descrittivo (su come stanno le cose) asserti di tipo prescrittivo (su come devono o dovrebbero stare le cose). Non è possibile, ad esempio, sostenere che poiché in una certa società è praticata la monogamia, allora tutte le società debbano praticare la monogamia. In breve, non si può passare dal fatto al valore: è questa la conseguenza che segue dalla netta distinzione posta da Hume tra vita morale e attività conoscitiva dell’uomo. Sempre sulla base del suo empirismo Hume affronta il problema religioso nei Dialoghi e nella Storia naturale della religione, ponendosi la domanda: qual è il fondamento della religione, ovvero su cosa si basano le nostre credenze religiose? E a ciò egli non può che rispondere in coerenza al suo assunto generale circa la possibilità di giustificare le nostre credenze: che esse abbiano senso solo se riconducibili a qualche impressione che le abbia originate. Esiste dunque qualche percezione in grado di giustificare le credenze religiose? Nulla di ciò esiste, in quanto noi troviamo solo sentimenti di timore e speranza, che non hanno alcun valore razionale e non possono in alcun modo essere alla base delle elaborate prove a posteriori prodotte nei secoli per sostenere l’esistenza di Dio, ad esempio sulla base dell’esistenza di un ordine del mondo, così come avevano cercato di fare alcuni teologi cercando di utilizzare il pensiero di Newton. Ma anche l’argomento a priori per dimostrare l’esistenza di Dio è privo di fondamento: è assurdo cercare di dimostrare una cosa di fatto (l’esistenza di Dio) per mezzo di argomenti che non facciano ricorso ad argomenti fattuali, tratti dall’esperienza. Alla base della religione – analogamente a come avviene per la scienza e la morale – non sta la ragione, bensì la fede, che è un esigenza del cuore, ovvero una «passione»; ma a sua volta la fede è spiegabile per mezzo della sua genesi, ovvero quale effetto del timore della punizione e della speranza nella salvezza, scaturenti dalle miserie in cui gli uomini vivono nella loro vita terrena. La religione è dunque parente prossima della superstizione, ed è pertanto scaturigine di intolleranza e dogmatismo, per cui è meglio affidarsi alla filosofia, per quanto questa possa essere anche

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fonte di turbamenti scettici. Tale diagnosi è anche supportata da una ricostruzione storica delle credenze religiose, con la quale Hume fa vedere come queste si siano evolute su base naturalistica a partire dai sentimenti primordiali degli uomini. Nondimeno egli ritiene la religione un fenomeno originario della natura umana, misterioso e inesplicabile come lo sono anche le passioni primarie e i concetti fondamentali che stanno alla base della scienza e della conoscenza: sebbene priva di ogni valore conoscitivo e spesso pericolosa per il suo fanatismo, essa è socialmente utile per far fuoriuscire l’umanità da uno stato di mera brutalità.

Bibliografia essenziale Edizioni inglesi e traduzioni italiane delle principali opere

Un’edizione delle principali opere di Hume in lingua originale fu pubblicata nel 1826: The Philosophical Works of David Hume, 4 voll., Edinburgh and London. Questa edizione è accessibile in rete attraverso The Online Library of Liberty . In italiano sono state pubblicate le Opere filosofiche di David Hume, (4 voll., a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1982-1987) che comprendono tutte le opere filosofiche ed escludono l’opera storica humeana, la History of England.

Letteratura secondaria

Nella vasta letteratura ci si limita a ricordare le opere in italiano maggiormente significative: A.J. Ayer, Hume, Dall’Oglio, Milano 1980; A. Attanasio, Gli istinti della ragione. Cognizioni, motivazioni, azioni nel «Trattato della natura umana» di Hume, Bibliopolis, Napoli 2002; F. Baroncelli, Un inquietante filosofo perbene. Saggio su David Hume, La Nuova Italia, Firenze 1975; M. Dal Pra, David Hume. La vita e l’opera, Laterza, Roma-Bari 1984; A. Mura, Dal noto all’ignoto. Causalità e induzione nel pensiero di David Hume, ETS, Pisa 1996; M. Pera, Hume, Kant e l’induzione, il Mulino, Bologna 1982; F. Restaino, David Hume, Editori Riuniti, Roma 1986; A. Santucci, Sistema e ricerca in David Hume, Laterza, Bari 1969; A. Santucci, Introduzione a Hume, Laterza, Roma-Bari 2005; G. Vittone, Soggetto e norma. La teoria delle passioni in David Hume, Ed. del Prisma, Catania 1999.

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Per una conoscenza diretta La distinzione tra relazioni di idee e materia di fatto

Tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umane si possono naturalmente dividere in due specie, cioè relazioni di idee e materia di fatto. Alla prima specie appartengono le scienze della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica; e, in breve, qualsiasi affermazione che sia certa sia intuitivamente che dimostrativamente. Che il quadrato dell’ipotenusa sia uguale al quadrato dei due cateti è una proposizione che esprime una relazione tra queste figure. Che tre volte cinque sia uguale alla metà di trenta esprime una relazione fra questi numeri. Proposizioni di questa specie si possono scoprire con una semplice operazione del pensiero, senza dipendenza alcuna da qualche cosa che esista in qualche parte dell’universo. Anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza. Le materie di fatto, che sono la seconda specie di oggetti della ragione umana, non si possono accertare nella stessa maniera, né l’evidenza della loro verità, per quanto grande, è della stessa natura della precedente. Il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile, perché non può mai implicare contraddizione e vien concepito dalla mente con la stessa facilità e distinzione che se fosse del pari conforme a realtà. Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intellegibile e che non implica più contraddizione dell’affermazione che esso sorgerà. Invano tenteremo, dunque di dimostrare la sua falsità; se essa fosse falsa dimostrativamente, implicherebbe contraddizione e non potrebbe mai esser distintamente concepita dalla mente. Ricerca sull’intelletto umano, in Opere filosofiche, pp. 38-39.

La critica dell’inferenza causale e l’induzione

È evidente che tutti i ragionamenti che riguardano questioni di fatto sono fondati sulla relazione di causa ed effetto e che noi non possiamo mai inferire l’esistenza di un oggetto da quella di un altro, a meno che essi non siano collegati insieme, o mediatamente o immediatamente. Perciò per comprendere questi ragionamenti, dobbiamo conoscere perfettamente l’idea di una causa; ed a questo scopo dobbiamo guardarci intorno per trovare qualche cosa che sia la causa di un’altra. Ecco una palla di biliardo che sta ferma su un tavolo ed un’altra palla che si muove verso di essa con rapidità; le due palle si urtano e quella delle due che prima era ferma, ora acquista un movimento. Questo è un esempio della relazione di causa ed effetto tanto perfetto quanto ogni altro di quelli che noi possiamo conoscere sia per mezzo della sensazione che della riflessione. Perciò esaminiamolo. È evidente che le due palle si sono toccate l’una con l’altra prima che il movimento fosse comunicato alla seconda e che non vi fu intervallo fra l’urto e il movimento della seconda palla. Perciò la contiguità nel tempo e nello spazio è una circostanza richiesta perché operi una causa qualunque. È del pari evidente che il movimento che è causa precede il movimento che è effetto. Pertanto la priorità nel tempo è un’altra circostanza che si richiede a ogni causa. Ma questo non è tutto. Facciamo la prova con altre palle qualsiasi della stessa specie in circostanze uguali e troveremo sempre che l’impulso dell’una produce il movimento nell’altra. Ecco quindi una terza circostanza, quella cioè della congiunzione costante fra la causa e l’effetto.

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Qualunque oggetto simile alla causa produce sempre qualche oggetto simile all’effetto. In questa causa non posso scoprire nulla, oltre queste tre circostanze della contiguità, della priorità e della congiunzione costante. […] Se un uomo fosse creato, come Adamo, nel pieno vigore della sua intelligenza, egli senza esperienza non sarebbe in grado di inferire dal movimento ed impulso della prima palla il movimento della seconda. Non esiste nella causa nulla che la ragione veda e che ci faccia inferire l’effetto. Tale inferenza, se fosse possibile, equivarrebbe ad una dimostrazione, in quanto sarebbe fondata solo sulla comparazione delle idee. Ma nessuna inferenza dalla causa all’effetto equivale ad una dimostrazione. […] Ne segue, allora, che tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l’effetto sono fondati sull’esperienza e che tutti i ragionamenti che derivano dall’esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad essere uniformemente lo stesso. Noi concludiamo che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili. Può essere ora opportuno considerare che cosa ci induce a formulare una conclusione di portata così infinita. È evidente che Adamo, con tutta la sua scienza, non sarebbe mai stato in grado di dimostrare che il corso della natura deve continuare ad essere uniformemente lo stesso e che il futuro deve essere conforme al passato. Ciò che è possibile non si può mai dimostrare che è falso; ed è possibile che il corso della natura possa cambiare, dal momento che noi possiamo concepire tale cambiamento. Ma io dico di più ed affermo che Adamo non sarebbe riuscito a provare con argomenti probabili qualsiasi che il futuro deve essere conforme al passato. Tutti gli argomenti probabili sono fondati sulla supposizione che vi sia conformità fra il futuro e il passato e perciò non possono provare tale supposizione. Questa conformità è una questione di fatto e, se deve essere provata, non ammetterà altra prova che non sia quella tratta dall’esperienza. Ma la nostra esperienza del passato non può provare nulla per il futuro, se non in base alla supposizione che ci sia una somiglianza fra passato e futuro. Perciò questo è un punto che non ammette affatto prova di sorta e che noi diamo per concesso senza prova alcuna. Noi siamo determinati soltanto dall’abitudine a supporre che il futuro sia conforme al passato […]. Noi percepiamo soltanto le loro qualità sensibili; e quale ragione abbiamo per ritenere che gli stessi poteri saranno sempre congiunti con le stesse qualità sensibili? Non è dunque la ragione la guida della vita, ma l’abitudine. Essa soltanto muove la mente, in tutti i casi, a supporre il futuro conforme al passato. Per quanto facile possa sembrare questo passo, la ragione non sarebbe mai in grado di compierlo per tutta l’eternità. Estratto del Trattato sulla natura umana, Laterza, Bari 1968, pp. 84-92.

Capitolo 10 Kant Francesco Coniglione

1. La vita e le opere 1.1 Il giovane scienziato e studioso Immanuel Kant nasce il 22 aprile 1724 da modesta famiglia a Königsberg, nella Prussia orientale: il padre è un sellaio e la madre nutre un intenso sentimento religioso ispirato al pietismo, influendo notevolmente sul carattere e sulla sensibilità del giovane Immanuel, che ne parlerà sempre con grande affetto. Il pietismo – forma di religiosità protestante iniziata nella seconda metà del Seicento da P.J. Spener e contraddistinta dalla sua ostilità ai dogmi e da una vita morale interiore assai esigente e pervasa di afflato mistico – aveva fatto la sua comparsa a Königsberg all’inizio del secolo dando luogo a un vivace dibattito con il razionalismo illuministico di Christian Wolff; aveva quindi trovato una sintesi nella filosofia di F.A. Schultz, che dalla sua cattedra di teologia dell’Università diffuse un pietismo mitigato e illuministicamente più tollerante, al quale si ispirava la madre di Kant. Schultz dirige il collegio Fredericianum, in cui Kant entra nel 1732 per volontà della madre, dove riceve un’educazione orientata in senso etico-religioso e fortemente centrata sullo studio del latino. Kant ricorderà in seguito con «sgomento e angoscia» la «schiavitù giovanile» dei suoi anni di scuola, in quanto – come scrive il suo collega e biografo Borowski – «non riusciva a trovare gusto nella devozione o, meglio, bigotteria alla quale parecchi suoi compagni si adattavano». Nel 1740 Kant si iscrive all’università, dove insegna Martin Knutzen, cultore delle scienze e ottimo conoscitore della «filosofia naturale» di Newton, che diviene il suo maestro e lo introduce allo studio del grande scienziato inglese, accendendo in lui la passione per le scienze. Ciò viene favorito anche dall’avvento al trono nel 1740 di Federico II il Grande che si contrappone al pietismo e incarna la figura del monarca illuminato.

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Alla fine degli studi universitari, nel 1746, Kant, non avendo altri mezzi di sostentamento dopo la morte del padre, si guadagna da vivere facendo il precettore, ma al tempo stesso approfondisce i propri studi di argomento scientifico: legge Newton, Buffon, Maupertuis, Eulero, Huygens. Nel 1755 riesce a ottenere il dottorato universitario e quindi si abilita all’insegnamento, iniziando la sua carriera universitaria come libero docente. In questi anni i suoi interessi sono prevalentemente scientifici e si esprimono in una serie di scritti di argomento naturalistico (ad esempio, sul concetto di forza e la sua definizione, sulla storia naturale della terra, sulla geografia fisica, sul moto e la quiete), ma riflette anche sulle implicazioni metafisiche delle scienze naturali e fa osservazioni di carattere morale. A ciò egli è portato anche dalla necessità di preparare con scrupolo le sue lezioni, che spaziano su argomenti di logica, metafisica, meccanica, geografia, fisica, aritmetica, geometria, trigonometria. In questo periodo studia anche i metafisici tedeschi, gli empiristi inglesi e Rousseau.

1.2 Docente all’università e maturazione filosofica Nel 1770 Kant diviene professore universitario e gode di uno stipendio fisso che gli permette di avere più tempo per lo studio, senza esser costretto a insegnare sino a ventidue o ventiquattro ore a settimana, come faceva da precettore. La sua vita è ora caratterizzata dalla scarsità di eventi esteriori (Kant, per esempio, non lasciò Königsberg, neanche per un breve viaggio) e per la sistematicità del suo stile di vita, passato ai posteri anche per una serie di aneddoti che servono a caratterizzare il carattere dell’uomo; come la passeggiata fatta sempre alla stessa ora, tanto che i suoi concittadini regolano l’orologio quando vedono Kant passare per la via. È questo il periodo più fecondo della sua attività, assai povera di pubblicazioni, ma assai intensa nell’approfondimento del proprio pensiero. Alla fine di tale approfondimento scriverà la sua Critica della ragion pura, uscita nel 1781, che lo consegnerà alla storia del pensiero come uno dei più grandi filosofi di ogni epoca; a essa sono strettamente collegati i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783) in cui sono riesposti in modo più divulgativo i concetti della Critica e che pertanto ne costituiscono la migliore introduzione. La sua riflessione viene completata con l’uscita nel 1788 della Critica della ragion pratica e nel 1790 della Critica del giudizio: in questa trilogia è posta la base della futura fortuna del pensatore di Königsberg.

1.3 Gli ultimi anni e i problemi con le autorità Negli ultimi anni la vita di Kant è turbata dalla salute malferma e dal conflitto con le autorità. Morto il sovrano illuminato Federico II, il suo

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successore Federico Guglielmo II reintroduce la censura preventiva su libri e riviste, allo scopo di evitare pubblicazioni critiche verso la religione. Quando Kant pubblica nel 1793 il volume La religione nei limiti della semplice ragione che contiene alcuni saggi di argomento religioso, il sovrano condanna il libro e gli intima di non occuparsi mai più di questioni religiose. Kant accetta l’imposizione fino alla morte del sovrano. Negli ultimi anni la sua salute peggiora e la sua intelligenza si appanna, sino a ridurlo in uno stato di quasi demenza. Il 12 febbraio del 1804 il filosofo dell’illuminismo tedesco muore invocando «più luce».

2. Il significato della filosofia di Kant Il posto di Kant nella storia della filosofia è straordinario, paragonabile a quello di grandi filosofi come Platone, Aristotele, San Tommaso e pochi altri. Il suo pensiero costituisce la cerniera che chiude il pensiero moderno e inaugura il pensiero contemporaneo, aprendo – secondo l’interpretazione che ne darà Fichte – la stagione dell’idealismo e influendo profondamente su tutta la filosofia dell’Ottocento e del Novecento. Egli è inoltre il più grande esponente dell’illuminismo tedesco, che porta alla sua maturità rivendicando all’uomo una completa autonomia. Nella piccola opera pubblicata nel 1784 – durante il regno di Federico II il Grande – dal titolo Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, Kant sintetizza in poche pagine lo spirito dell’illuminismo e l’orizzonte complessivo nel quale si pone la sua opera: «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo». La maturità dell’uomo sta dunque per Kant nella capacità di esser guidati dall’intelletto, senza inchinarsi ad alcuna autorità che pretenda esserci da guida in virtù di una sua superiorità non legittimata dalla ragione. Ciò implica tutta una serie di conseguenze, come la libertà di parola, di coscienza e di ricerca scientifica, che non devono essere limitate da alcun tipo di autoritarismo o di religione, imposta con la forza della legge. Per questo la cosa più importante è uscire dalla «minorità religiosa», la quale «è tra tutte le forme di minorità la più dannosa ed anche la più umiliante». L’uomo e la sua ragione diventano dunque il centro attorno a cui ruotano il mondo, la società, la storia; ed è appunto dalla ragione che bisogna partire, accertandone i limiti e le possibilità, affinché essa «si assuma di nuovo il più impegnativo dei suoi compiti, vale a dire la conoscenza di sé,

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e istituisca un tribunale che la garantisca nelle sue giuste pretese, e che al contrario possa liquidare tutte le sue infondate presunzioni, non con un atto di forza, ma secondo le sue leggi eterne e immutabili: e questo tribunale non è altro che la stessa critica della ragione pura» (Critica della ragion pura, Pref.). È con ciò definito l’oggetto della sua prima grande opera.

3. La Critica della ragion pura In quest’opera Kant rivoluziona il modo in cui era stata precedentemente praticata la filosofia: essa è ora «critica» della ragione in quanto concerne la riflessione sul modo in cui l’uomo conosce la realtà; essa ha innanzi tutto il compito di capire, per esempio, non tanto se sia possibile una scienza della natura (la sua esistenza di fatto è testimoniata dall’opera di Newton), ma piuttosto come essa sia possibile. Ma la fiducia di Kant nella scienza porta con sé la domanda circa la possibilità della metafisica, cioè se anch’essa possa ambire a qualificarsi come «scienza». Infine, dalla soluzione che viene data al problema della metafisica (e della conoscenza) deriverà anche il modo di intendere la moralità, di solito da essa dipendente, con ciò seguendone il destino (quest’ultimo aspetto sarà poi l’oggetto della Critica della ragion pratica).

3.1 La possibilità della scienza naturale e la rivoluzione copernicana Hume aveva posto l’abitudine alla base dell’idea di causalità, con ciò mettendo in crisi la scienza di Newton, in quanto la faceva diventare solo il frutto di un abito psicologico dell’uomo, destituendola di ogni universalità e oggettività. Ma la scienza è per Kant qualcosa di più di un semplice abito mentale, in quanto essa dimostra di essere universale e necessaria ma anche feconda di nuove conoscenze fattuali, cioè di avere sia le caratteristiche tradizionalmente attribuite ai giudizi analitici (quelli che per Hume trattano delle «relazioni tra idee») sia quelle dei giudizi sintetici (che per Hume concernono le «questioni di fatto»). Così la scienza dimostra di realizzare a un tempo due esigenze: quella della filosofia razionalista, i cui sostenitori avevano insistito sul carattere deduttivo e necessario della conoscenza della realtà, inferibile rigorosamente a partire da idee innate presenti nella mente dell’uomo; quella dell’empirismo, i cui sostenitori avevano sostenuto l’indispensabilità della fonte sensibile affinché la conoscenza risultasse effettivamente feconda e in grado di farci conoscere i fatti del mondo e non solo i nessi tra le idee. Com’è possibile che ciò avvenga nella scienza? Ciò è dovuto al fatto che essa utilizza un particolare tipo di giudizio, da Kant chiamato giudizio sintetico a priori, che ha i vantaggi di entrambi i precedenti tipi di giudizio, senza conoscerne i difetti: è fe-

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condo di nuove conoscenze fattuali, come i giudizi sintetici, ma è anche necessario e universale, stabilendo un legame non semplicemente basato sull’abitudine tra il soggetto e il predicato. Insomma, il carattere proprio della scienza è quello di formulare i suoi asserti nella forma di giudizi sintetici a priori: sintetici in quanto traggono la loro materia dai sensi; a priori, in quanto questa esperienza deve essere organizzata e in un certo qual modo plasmata mediante dei principi sistematici posseduti dal nostro intelletto, comuni a tutti gli uomini, che non provengono dall’esperienza, ma in un certo qual senso appartengono alla razza umana in quanto tale. In ciò consiste la cosiddetta «rivoluzione copernicana» di Kant: come Copernico spiegò i movimenti dei corpi celesti supponendo che fosse la terra insieme agli altri pianeti a girare intorno al sole, fermo come le altre stelle; allo stesso modo bisogna invertire il rapporto tra la nostra conoscenza e il reale, tra il soggetto e l’oggetto: non è il primo a doversi regolare sul secondo, cercando di coglierne le strutture da questo possedute di per sé, ma è piuttosto l’oggetto che diventa tale solo in quanto è il frutto dell’attività plasmatrice della nostra mente e delle sue strutture, possedute a priori. E dunque se è vero che ogni conoscenza comincia con l’esperienza, nondimeno non è affatto vero che «essa deriva tutta quanta dall’esperienza» (Cr. rag. pura, Intr., I), in quanto senza l’attività delle strutture mentali del soggetto non potremmo neanche parlare di esperienza. La nostra conoscenza è pertanto una sintesi tra ciò che riceviamo tramite l’esperienza e ciò che invece la nostra facoltà conoscitiva vi apporta come patrimonio suo, che è posseduto a priori, ovvero anteriormente e indipendentemente da essa. Ed è a priori la condizione stessa della possibilità che ci siano dati gli oggetti, ovvero quel mondo fatto di cose e relazioni, collocate nello spazio-tempo e ordinate secondo regole costanti (tra cui lo stesso nesso causale), che costituisce il mondo da noi conosciuto empiricamente. Per riferirsi a tal modo di intendere la funzione organizzativa della nostra mente, Kant introduce il termine «trascendentale», intendendo con ciò «ogni conoscenza che, in generale, si occupi non tanto di oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti, nella misura in cui questo modo dev’essere possibile a priori» (Cr. rag. pura, Intr., VII). Per cui l’approccio kantiano viene detto «trascendentale», con ciò intendendosi appunto quella filosofia che mira e indagare non tanto i contenuti della conoscenza (oggetto delle specifiche scienze), quanto il modo in cui essi vengono conosciuti e cioè quelle forme a priori che permettono la conoscenza del reale, pur non appartenendo a esso e non essendo da esso originate; forme che non sono dunque né empiriche (in quanto non traggono origine dall’esperienza), né trascendenti (cioè qualcosa che è al di là di ogni possibile esperienza): esse sono assolutamente indipendenti dall’esperienza, in quanto sono le strutture mentali che ci consentono di

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avere esperienza, e pertanto vengono indicate come «conoscenze pure» (poiché in esse non vi è mescolato alcunché di empirico).

3.2 Senso e intelletto Dopo aver delineato nell’Introduzione le linee direttive del suo nuovo approccio, la Critica della ragion pura prosegue col delineare l’articolazione del processo conoscitivo umano, a partire dal suo livello iniziale, in modo da far vedere come queste forme a priori intervengano nella sua costituzione. Nella Estetica trascendentale Kant esamina il primo gradino della conoscenza, l’intuizione sensibile (dal greco aìsthesis, «sensazione») e fa vedere come essa venga organizzata mediante le due forme a priori di spazio (la forma del senso esterno) e tempo (la forma del senso interno): ogni sensazione, infatti, non può che avere una dimensione spaziale (è qui o lì) e una temporale (avviene prima o dopo). Spazio e tempo – dette «forme a priori dell’intuizione sensibile» – non sono concetti empirici, ricavati per astrazione dall’osservazione degli spazi e dei tempi concreti, ma piuttosto costituiscono il presupposto a priori, affinché le sensazioni possano essere collocate nello spazio e nel tempo: sono la condizione stessa della possibilità dei fenomeni esterni. Sull’intuizione pura dello spazio e del tempo è edificata la matematica, in quanto la geometria si fonda sull’intuizione spaziale (come è facile constatare ogni volta che si vuole costruire una figura geometrica) e l’aritmetica costruisce i suoi concetti (i numeri e le loro operazioni) come successione additiva e quindi richiede l’intuizione pura del tempo. Spazio e tempo, pertanto, non esistono di per sé (come ad esempio pensava Newton, ipotizzando uno spazio e un tempo assoluti, come realtà oggettiva al di fuori dell’uomo, nella quale sono collocati tutti gli oggetti), ma hanno solo una realtà empirica: sono legati alla nostra esperienza, al modo in cui ci rapportiamo al mondo. Tuttavia quella fornitaci dai sensi non è ancora autentica conoscenza, cioè sistema organico di connessioni universali e necessarie tra gli oggetti dell’esperienza; a tal fine è necessario che intervenga l’opera dell’intelletto. Si entra così nella seconda parte della Critica della ragion pura, chiamata Logica trascendentale, a sua volta divisa in due parti: l’Analitica trascendentale e la Dialettica trascendentale. L’Analitica trascendentale esamina come sia possibile passare dalla disposizione ancora disorganica delle nostre esperienze nello spazio e nel tempo a un mondo fatto di oggetti con saldi nessi che li legano e che costituiscono il cosmo organizzato, nel quale l’uomo vive nella sua quotidianità e che viene indagato nei suoi nessi universali e necessari dalla conoscenza scientifica. Ciò avviene con una sintesi nella quale entrano, da una parte, i dati della sensibilità (collocati nello spazio e nel tempo) e

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dall’altra le forme a priori dell’intelletto, i suoi concetti puri; il risultato è la formazione dei giudizi. I concetti dell’intelletto – chiamati da Kant categorie – sono funzioni trascendentali che – analogamente a quanto fatto dallo spazio e dal tempo – si applicano al molteplice dell’intuizione sensibile e permettono di organizzarlo in trame e relazioni universali e necessarie. Kant fornisce una tavola delle categorie, che si richiama a quella a suo tempo formulata da Aristotele, anche se le dodici categorie kantiane (a differenza delle dieci aristoteliche) non costituiscono i sommi predicati dell’essere, bensì altrettante determinazioni a priori sotto le quali sussumere i dati percepiti sensibilmente. Tra queste categorie, ha particolare significato quella di causalità: essa fa sí che l’intelletto congiunga secondo un nesso necessario e universale eventi diversi, stabilendo tra essi un legame garantito dall’universalità dell’intelletto, ovvero dalla sua capacità di essere un «legislatore universale» che organizza e sistematizza l’intera esperienza umana. Grazie a questa operazione, dovuta alla spontaneità dell’intelletto e mediante la quale si congiunge una molteplicità di esperienze sotto una categoria, è possibile l’unità sintetica del molteplice. In tale funzione sintetica dell’esperienza l’io ha la sua unità e si concepisce quale centro unitario di ogni conoscenza, ovvero quale «Io penso», inteso però non come soggetto individuale («Io empirico»), né come il soggetto-sostanza della tradizionale metafisica, bensì come principio formale di unificazione del pensiero. Esso costituisce la condizione di possibilità della conoscenza del mondo, ordinaria e scientifica, unificata all’interno di un orizzonte unitario, superando la dispersione delle molteplici rappresentazioni. In tal modo Kant supera lo scetticismo di Hume col sostenere che le leggi di natura non sono ricavate induttivamente dall’esperienza, ma esistono solo relativamente al soggetto, che mediante le categorie dell’intelletto le prescrive alla realtà.

3.3 Fenomeno e noumeno Una volta ammesso che sia l’esperienza sensibile sia i giudizi dell’intelletto sono il frutto di un incontro tra i dati dei sensi e le forme a priori possedute dalla mente umana, ne deriva che noi non sappiamo nulla della realtà che vada oltre la sintesi tra soggetto e oggetto. In particolare noi conosciamo del reale solo ciò che ci «appare» mediante i sensi e che organizziamo mediante le categorie dell’intelletto; nulla sappiamo di come sia il reale indipendentemente e anteriormente alla nostra capacità sintetizzatrice posta in atto mediante le nostre forme a priori. La nostra conoscenza si limita ai fenomeni, intesi come oggetti di una «esperienza possibile», e non può pretendere di cogliere i noumeni, ovvero le cose che non sono oggetto della nostra intuizione sensibile ma che sarebbero oggetto di un’intuizione meramente intellettuale, che «si trova asso-

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lutamente al di fuori della nostra facoltà conoscitiva» (Cr. rag. pura, Anal. trasc., Lib. II, Cap. III). Le categorie del­l’intel­letto hanno solo un uso empirico, ovvero possono essere applicate soltanto a oggetti forniti dall’esperienza; ne segue che «poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetto dell’esperienza, l’intel­let­to non potrà mai oltrepassare i limiti della sensibilità, entro i quali soltanto gli oggetti ci vengono dati» (ib.). In sostanza, la conoscenza per Kant si configura necessariamente come una relazione tra il soggetto, con i suoi strumenti cognitivi (le forme a priori di spazio e tempo proprie della sensibilità e le categorie dell’intelletto), e l’oggetto, sicché non è possibile conoscere quest’ultimo in sé, indipendentemente da come esso ci è dato, bensì sempre e soltanto quale risultato di tale relazione. Il concetto di noumeno – uno dei più controversi dell’intera filosofia kantiana, che ha dato luogo ad accesissime controversie e a partire dal quale hanno tratto origine numerose interpretazioni e conseguenze filosofiche, come ad esempio l’idealismo – è solo un concetto limite, precisa Kant: esso non ci fornisce una conoscenza positiva, ma serve a definire i limiti della conoscenza stessa. Ha pertanto un uso puramente negativo, come concetto che limita la sensibilità e ne circoscrive le pretese, senza con ciò ammettere una divisione positiva degli oggetti in fenomeni e noumeni, e del mondo in sensibile e intellegibile: il noumeno non è un particolare oggetto intelligibile per il nostro intelletto. Insomma, il nostro pensiero non ha la possibilità di conoscere oggetti se non in quanto questi si danno nell’intuizione sensibile, perché l’intelletto non produce di per sé tali oggetti, ma li sintetizza solamente. La conoscenza è definitivamente ancorata al mondo dell’oggettività fenomenica, i cui confini invalicabili sono quelli dell’esperienza possibile. Le cose in sé sono completamente sottratte alla conoscenza: possiamo sì pensarle – in quanto l’idea stessa della conoscenza intesa come rapporto tra soggetto e oggetto implica l’esistenza di oggetti considerati indipendentemente da tale rapporto –, ma non possiamo, per definizione, conoscerle; eppure è stata ed è insopprimibile l’esi­gen­za di varcare questo limite e di giungere, mediante la metafisica, alla conoscenza di questa realtà intellegibile. Com’è possibile ciò?

3.4 Il destino della metafisica A tale domanda Kant risponde nella Dialettica trascendentale, che segue all’Analitica trascendentale, e nella quale viene esaminato lo statuto conoscitivo delle principali idee che sono state l’oggetto tradizionale della metafisica e che vogliono appunto trascendere il mondo sensibile per giungere alla conoscenza di quella realtà intellegibile che Kant aveva posto nel regno noumenico e quindi escluso da ogni possibilità di conoscenza oggettiva. Si entra qui nel mondo della ragione, che è quella facoltà del pensiero

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che aspira alla conoscenza di ciò che sta al di là dell’esperienza, guidata dalla esigenza verso la totalità e verso il superamento delle limitazioni dell’intelletto, che opera sempre all’interno di un’esperienza circoscritta. Nel far ciò, la ragione forza l’utilizzo delle categorie, cercando con esse di andare oltre quello per cui sono legittimate (l’esperienza possibile). Così, ad esempio, a partire dalla categoria della causalità, la ragione tenta di risalire a una causa ultima (a Dio come causa del mondo), dimenticando che essa serve a sintetizzare e collegare in un nesso necessario solo le esperienze possibili, ovvero i fenomeni che si danno (o si possono dare) nell’intuizione sensibile – un certo evento A e un altro evento B – e non un evento A (la successione degli stati naturali del mondo) e un altro ente X che ne sarebbe la causa ultima ed è per principio indisponibile a ogni esperienza possibile, quale è Dio. Il frutto di questa cattiva utilizzazione delle categorie sono le Idee della ragion pura, che nascono tutte dall’esi­gen­za di pervenire a un’unificazione e a una completezza dell’esperienza, impossibile mediante la sola funzione dell’intelletto. Sono le idee dell’anima (che risponde all’esigenza di pensare un soggetto assoluto e incondizionato), del mondo (ovvero, la totalità dei fenomeni esterni) e di Dio (come condizione assoluta di ogni realtà), che costituiscono l’oggetto di specifiche discipline metafisiche come la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale: tali idee sono mere illusioni che danno luogo a paralogismi (cioè falsi ragionamenti, come nel caso dell’idea dell’anima), ad antinomie (ovvero tesi che stanno in alternativa tra di loro senza che sia possibile una loro risoluzione razionale – come nel caso dell’idea del mondo) o ad argomenti fallaci (come avviene con le tradizionali prove dell’esistenza di Dio, tutte da Kant criticate e destituite di ogni validità razionale e conoscitiva). Per questo motivo Kant parla a proposito della dialettica trascendentale di «logica della parvenza», in quanto tali tentativi unificatori ci conducono a illusioni, spacciate per vere conoscenze. E tuttavia – avverte Kant – è questa una «naturale e inevitabile illusione», che «è inscindibilmente connessa all’umana ragione, di modo che – anche dopo aver smascherato il suo miraggio – non cesserà tuttavia di sedurla e di trarla continuamente in errori momentanei che richiederanno sempre di essere nuovamente eliminati» (Cr. rag. pura, Dial. trasc., Intr., I). È così pronunciato un verdetto chiaramente negativo sulla possibilità di una metafisica intesa come scienza: non è possibile alcuna conoscenza se non dentro il confine invalicabile segnato dalla nostra esperienza possibile. Se così viene salvata la conoscenza della natura – la cui legittimità è stata appurata mediante l’analisi dell’uso delle categorie dell’intelletto (e ciò consente di accantonare il dubbio scettico sollevato da Hume sull’universalità e necessità della conoscenza scientifica) – è invece condannata ogni pretesa conoscitiva della metafisica tradizionale.

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Tuttavia, le illusioni della ragione hanno una funzione positiva, che consiste nella loro funzione regolativa: le idee pongono al nostro intelletto l’esigenza di estendere sempre più il suo campo applicativo e lo incitano a raggiungere il massimo grado di unità e completezza. Pur nella consapevolezza che questo compito non potrà mai esser soddisfatto del tutto, il nostro intelletto fa delle idee della ragione un «uso regolativo»: esse hanno una funzione analoga a quelle che certi concetti hanno nella scienza, come quelli di «acqua pura», «aria pura» ecc., che non esistono in natura e nondimeno ci servono per intendere la natura, nel senso di farci pervenire a concetti sempre più perfezionati e precisi.

4. Le altre opere 4.1 La Critica della ragion pratica Se l’esistenza di una scienza della natura era stata assunta da Kant come un dato di fatto, analogamente egli ritiene un dato di fatto anche l’esistenza di una coscienza morale, di cui bisogna indagare i fondamenti, ovvero le condizioni formali che reggono la vita morale. È questo il compito della Critica della ragion pratica. Anche in questo caso Kant mira a evidenziare l’autonomia della vita morale: la legge che ci impone di agire moralmente obbedisce a un imperativo categorico, ovvero a un comando che non deve essere subordinato a nessun fine, né di carattere egoistico o utilitario, né di natura religiosa, eteronomo rispetto alla volontà del soggetto. E ciò diversamente da quanto avviene con gli imperativi ipotetici che subordinano una certa azione a un certo obiettivo: «se fai questo, allora otterrai quest’altro». È la ragione, nella sua universalità e necessità, a dare la legge morale a se stessa, per cui (come poi Kant sosterrà più diffusamente nella sua opera La religione nei limiti della semplice ragione) non è la morale a fondarsi sulla religione, ma piuttosto è la religione a essere fondata sulla morale. La morale ha inoltre carattere formale: non ci dice cosa dobbiamo fare, ma come lo dobbiamo fare; non ci indica azioni concrete, ma il modo in cui ogni azione, indipendentemente dal suo contenuto, deve essere compiuta. Ciò si riassume nella suprema massima dell’agire morale: «agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere, insieme, come principio di una legislazione universale» (Cr. rag. prat., § 7) (la volontà di chi chiede in prestito del denaro con l’intenzione di non restituirlo non può essere universalizzabile, perché altrimenti farebbe venir meno la fiducia reciproca e la possibilità stessa di ottenere prestiti). La virtù dell’uomo consiste nel rispetto della legge morale; ma alla virtù non sempre si accompagna la felicità, dando così luogo al sommo bene. Capita che il virtuoso sia infelice, e che sia invece felice chi non è virtuoso: questa antinomia può essere sciolta solo nella prospettiva di una

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vita ultraterrena, cioè postulando che esista l’anima, che vi sia un Dio che garantisce la felicità ai virtuosi e che esista una libertà dell’essere finito. Sono questi i tre postulati della ragion pratica; essi sono mere sue esigenze allo scopo di dare senso alla vita morale, e non suoi acquisti conoscitivi, la cui possibilità è stata esclusa dalla Critica della ragion pura. Così Kant riconquista su un piano puramente etico quanto l’esercizio puramente intellettuale della ragione aveva escluso dal suo campo.

4.2 La Critica del giudizio Con la Critica del giudizio Kant si propone l’obiettivo di unificare la problematica delle due precedenti Critiche, cioè quella della scienza e quella della moralità. Ciò avviene mediante la facoltà di giudizio che, a differenza dei giudizi conoscitivi tipici della scienza (che vengono qui chiamati determinanti, in quanto definiscono i nessi necessari tra eventi appartenenti al mondo dell’esperienza), fa uso dei cosiddetti giudizi riflettenti, grazie ai quali le rappresentazioni sensibili vengono considerate per la loro rispondenza o meno col soggetto e con le sue esigenze: quando contempliamo il cielo stellato in una notte limpida, non vediamo nelle stelle gli oggetti di un’esperienza scientifica, ma piuttosto sentiamo la commozione e l’emozione che suscitano nel nostro animo. È questa la forma più semplice e immediata di giudizio riflettente: il giudizio estetico, che si origina dall’incontro dei fenomeni con le aspirazioni, le tendenze e i bisogni più profondi del nostro animo e che ci permette di oltrepassare i confini dell’esperienza. Con ciò non perveniamo a una conoscenza, ma scopriamo una realtà che non appartiene solo a noi, che è anche degli altri e perciò possiede in comune col giudizio logico il carattere della universalità. Il bello dipende dalla contingente sensibilità, dal gusto dei singoli individui, ma ha un’affinità con la moralità: esso è il segno, nel mondo naturale, di quella realtà soprasensibile che viviamo nella legge morale. Certo, così non conosciamo il soprasensibile, ma il giudizio estetico nobilita le nostre facoltà in modo da darci un legame col soprasensibile, facendolo incontrare con la natura. Lo stesso avviene con un altro giudizio riflettente, il giudizio teleologico, che dà un senso alla considerazione finalistica della natura: questa non viene intesa più meccanicamente e deterministicamente, ma in conformità a un mondo soprasensibile di fini, che testimonia ancora una volta della legge morale e integra la spiegazione meccanica dei fenomeni. Nonostante il tentativo di conciliare il momento conoscitivo con quello morale mediante la critica del giudizio, si vede come l’uomo di Kant sia segnato da un insopprimibile dualismo: esso è insieme sottomesso al determinismo della natura, ma partecipe di un mondo intellegibile che si rivela nella legge morale; è confinato nel mondo dei fenomeni, ma attinge praticamente ai noumeni mediante la sua attività pratica. Dal tentativo di

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risolvere questo dualismo e di eliminare la scissione tra mondo fenomenico e mondo noumenico prenderà avvio la filosofia postkantiana e trarrà alimento la soluzione proposta dall’idealismo tedesco.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

Numerose sono le edizioni complete in tedesco delle opere di Kant, delle quali citiamo solo la più recente: Werke in sechs Bänden, hrsg. von W. Weischedel, Frankfurt a. M. 1956-1964. L’edizione completa in 33 voll. di tutti gli scritti di Kant curata dalla Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften, G. Reimer (poi W. De Gruyter), Berlin, 1910-1983 è scaricabile da Gallica, , la biblioteca elettronica della Bibliothèque Nationale de France. Numerose le traduzioni italiane delle singole opere. Citiamo le più recenti: Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2007; Critica della ragion pratica, Rizzoli, Milano 1992; Critica del giudizio, Bompiani, Milano 2004.

Letteratura secondaria

Dalla vastissima letteratura secondaria si scelgono soltanto alcuni volumi, in lingua italiana: R. Ciafardone, La «Critica della ragion pura» di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Firenze 2007; A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1980; F. Gonnelli, Guida alla lettura della «Critica della ragion pratica» di Kant, Laterza, Roma-Bari 2008; F. Menegoni, La «Critica del giudizio» di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Firenze 2008. In queste opere è possibile rinvenire ulteriore ampia bibliografia.

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Per una conoscenza diretta La rivoluzione copernicana

Quando Galilei fece rotolare lungo un piano inclinato le sue sfere, avendo egli stesso deciso la loro pesantezza; o quando Torricelli face sopportare all’aria un peso, calcolato in precedenza come uguale a quello di una colonna d’acqua prestabilita; o quando, in un tempo successivo, Stahl trasformò dei metalli in calce, e quest’ultima nuovamente in metallo, sottraendo e aggiungendo loro di nuovo qualcosa – una luce si accese in tutti i ricercatori della natura. Essi compresero che la ragione arriva a vedere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo progetto; e compresero che essa deve avanzare con i principi dei suoi giudizi, secondo leggi stabili, e deve costringere la natura a rispondere alle sue domande, senza farsi soltanto da essa, come se fosse tenuta per le dande. E questo perché, in caso contrario, le osservazioni casuali che noi facessimo senza un piano prestabilito, non si connetterebbero affatto in una legge necessaria, mentre è proprio di una tale legge che la ragione va in cerca e ha bisogno. La ragione deve accostarsi alla natura , tenendo in una mano i suoi principi – seguendo i quali soltanto è possibile che dei fenomeni concordanti valgano come delle leggi –, e nell’altra mano l’esperimento che essa ha escogitato seguendo quei principi: e questo per essere istruita dalla natura, certo, ma non come uno scolaro che stia a sentire tutto ciò che vuole il maestro, bensì come un giudice che svolga il suo ruolo, costringendo i testimoni a rispondere alle domande che egli pone loro. E così, anche nella fisica una rivoluzione tanta vantaggiosa del modo di pensare la si deve solo a un’idea: che la ragione cerchi nella natura, in conformità a ciò che essa stessa vi pone, quello che deve imparare da essa (senza attribuirglielo in maniera falsata), e di cui di per se se stessa non saprebbe nulla. È in questo modo che la scienza della natura è stata portata per la prima volta sul cammino sicuro della scienza, mentre per tanti secoli non aveva fatto altro che andare a tentoni […]. Finora si riteneva che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti: ma tutti i tentativi di stabilire qualcosa di a priori su questi ultimi mediante dei concetti – qualcosa con cui venisse estesa la nostra conoscenza –, a causa di quel presupposto sono finiti in niente. Per una volta, allora, si tenti di vedere se non possiamo forse adempiere meglio ai compiti della metafisica, ammettendo che siano gli oggetti a doversi adeguare sulla nostra conoscenza: ciò che di per sé meglio si accorderebbe con l’auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che stabilisca qualcosa su questi ultimi prima che essi ci vengano dati. Si tratta di una cosa simile a quella che per la prima volta pensò Copernico: poiché la spiegazione dei movimenti celesti non riusciva a procedere bene ammettendo che tutto quanto l’ordine delle stelle girasse attorno allo spettatore, egli tentò di vedere se non potesse andar meglio facendo ruotare lo spettatore e star ferme invece le stelle. Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2007, pp. 31-35.

Fenomeno e noumeno

L’intelletto adunque, proprio con l’ammettere i fenomeni, ammette anche l’esistenza delle cose in sé, e pertanto noi possiamo dire che sia non soltanto ammissibile ma anche indispensabile la rappresentazione di tali esseri che son di fondamento ai fenomeni, e quindi di puri esseri intellegibili.

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La nostra deduzione critica non esclude affatto tali cose (noumena), anzi limita i principi dell’estetica in modo che questi non debbano estendersi alle cose nella loro integrità (per il che tutto sarebbe trasmutato in semplice fenomeno) ma debban valere soltanto per oggetti di una esperienza possibile. Gli esseri intellegibili sono dunque per ciò ammessi, ma con l’ingiunzione di questa regola che non tollera eccezione alcuna: che noi non conosciamo né possiamo conoscere alcun che di determinato di questi puri oggetti intellegibili, giacché i nostri concetti puri dell’intelletto, così come le ingiunzioni pure, non riguardano altro che oggetti di una esperienza possibile e quindi semplici oggetti sensibili, e, tostoché ci si allontana da questi, a quei concetti non rimane più alcun minimo significato. Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Laterza, Bari 1972, § 32, pp. 111-112.

Uso regolativo delle idee della ragione

Essendo le idee psicologiche, cosmologiche e teologiche soltanto concetti puri di ragione, che non possono esser dati in esperienza alcuna, le quistioni che la ragione a loro riguardo ci presenta, non ci sono date dagli oggetti, ma da semplici massime della ragione per la soddisfazione di se stessa, e devono tutte poter esser risolute sufficientemente; il che avviene anche col mostrare che esse sono principi atti a portare l’uso del nostro intelletto a universale unanimità, compiutezza e unità sintetica, e così valgono soltanto per l’esperienza, ma nel tutto di essa. Le idee trascendentali adunque esprimono quella destinazione che è propria della ragione, l’essere, cioè, un principio dell’unità sistematica dell’uso dell’intelletto. Ma quando questa unità del modo di conoscere si considera come se inerisca all’oggetto della conoscenza, quando essa unità, che è propriamente soltanto regolativa, la si tiene per costitutiva, e si è persuasi di poter con queste idee estendere la propria conoscenza molto al di là di ogni esperienza possibile e quindi in modo trascendente, mentre invece essa serve soltanto a portare l’esperienza in se stessa più vicino che sia possibile alla compiutezza, cioè a non porre, nel progresso dell’esperienza, confini con qualcosa che non può appartenere all’esperienza: siamo allora in un puro equivoco nel valutare la determinazione propria della nostra ragione e dei suoi principi, e nasce una dialettica che in parte sconvolge l’uso della ragione nella esperienza, e in parte mette in discordia la ragione con se medesima. Prolegomeni ad ogni futura metafisica, § 56.

Capitolo 11 Hegel Giovanni Mari

1. La vita e le opere 1.1 La giovinezza (1770-1800): la formazione, l’attività di precettore, i primi scritti filosofici Hegel nasce a Stoccarda il 27 Agosto 1770. Muore improvvisamente a Berlino, durante un’epidemia di colera, nel 1831, due anni dopo aver assunto la carica di rettore dell’università. Suo padre era funzionario presso la cancelleria del duca del Württemberg e seguirà l’educazione del figlio dopo la morte della madre, Maria Magdalena Fromm, avvenuta nel 1784. Tra il 1785 e 1787 il giovane scrive un diario in latino e in tedesco che ci fa conoscere le sue letture, in particolare la buona conoscenza del mondo classico: Omero, Sofocle, Euripide, Platone, Aristotele, Cicerone, Livio, Longino, Longo, Epitteto, Vecchio e Nuovo Testamento, autori moderni come Lessing, Mendelssohn, Goethe, Schiller. Svolti gli studi ginnasiali nella città natale, nel 1788 Hegel è ammesso allo Stift (il collegio granducale preposto alla formazione del clero protestante) di Tübingen dove conosce Hölderlin e Schelling con cui condivide interessi filosofici (Rousseau, Kant e Spinoza) e entusiasmi nei confronti degli avvenimenti legati alla Rivoluzione Francese. La pesante atmosfera luterana del collegio non viene accettata dal giovane che cade in numerose infrazioni che culmineranno, dopo un ritardo nel rientro, nella prigione d’isolamento. Contemporaneamente si iscrive all’università dove segue corsi di filosofia e teologia. Nel 1793 conclude il corso di studi dello Stift ottenendo il titolo di Kandidat con cui avrebbe potuto intraprendere la carriera ecclesiastica. Nell’attestato finale rilasciatogli si legge che il candidato «non è ignorante di filologia» e che «non ha mostrato alcuna diligenza in filosofia». Anziché la carriera ecclesiastica Hegel inizia quella dell’insegnamento, prima come precettore a Berna della famiglia aristocratica von Steiger (1793-96) poi,

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grazie all’interessamento di Hölderlin, a Francoforte (1797-1800) presso il commerciante Gogel. I von Steiger possiedono una ricca biblioteca che favorisce gli studi di Hegel. Al periodo bernese risale una Vita di Gesù (pubblicata solo nel 1906) in cui confluiscono temi e approfondimenti di impronta illuministica sulla religione pervenutici anche attraverso i Frammenti su religione popolare e cristianesimo. Legge Kant (in particolare La religione entro i limiti della sola ragione), compone La positività della religione cristiana (1796). Si trasferisce a Francoforte anche per il senso di isolamento deprimente in cui vive a Berna. A Francoforte si inserisce nella cerchia di Hölderlin con cui vive e approfondisce le letture politiche ed economiche che aveva iniziato a Berna. Redige un commentario (perduto) sulla Metafisica dei costumi di Kant, scrive sull’organizzazione giudiziaria del Württenberg; insieme a Hölderlin (e in contatto epistolare con Schelling) stende un «manifesto» dell’Idealismo tedesco, e il Programma di sistema (1798).

1.2 Il periodo di Jena (1801-1807): le prime pubblicazioni e la Fenomenologia dello spirito Nel 1799 muore il padre e l’eredità gli permette di abbandonare l’attività di precettore. Grazie all’interessamento di Schelling nel 1801 si trasferisce a Jena, allora il centro filosofico e culturale più vivace della Germania (oltre a Schelling vi insegnarono Reinhold e Fichte, erano presenti Novalis, i fratelli Schlegel, Tieck), nella cui università, dopo l’abilitazione, viene chiamato ad insegnare filosofia. Nel 1801 pubblica la Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in cui prende posizione per la filosofia di Schelling. Con quest’ultimo fonda il «Kritisches Journal der Philosophie», sulle cui pagine pubblica importanti saggi. Insegna come libero docente, ma solo grazie all’intervento di Goethe riesce ad avere qualche sussidio. Tra il 1806 e il 1807 stende la Fenomenologia dello spirito, una delle sue fondamentali opere, che sarà l’occasione della irrevocabile rottura con Schelling. Nel 1806 la città è occupata dai Francesi ed Hegel ha l’occasione di vedere Napoleone, «quest’anima del mondo», mentre a cavallo passa in rassegna le truppe.

1.3 L’insegnamento a Norimberga e a Heidelberg (1808-1818): l’Enciclopedia delle scienze filosofiche Nel 1808 si trasferisce a Norimberga dove insegna nel locale ginnasio. Si tratta di un periodo di stabilità. Si sposa con Maria von Ticher (da cui ebbe due figli) e pubblica il primo volume della Scienza della logica (1812), cui seguirono nel 1813 e nel 1816 il secondo e terzo. Grazie anche a queste pubblicazioni fu chiamato ad insegnare ad Heidelberg, uno dei principali centri del romanticismo. Nel 1817 pubblica l’Enciclopedia delle

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scienze filosofiche in compendio, pensata come uno strumento per l’insegnamento della filosofia, e partecipa alla direzione degli «Heidelbergische Jahrbücher der Literatur».

1.4 Gli anni di Berlino (1818-1831), l’insegnamento, i viaggi in Europa, le ultime opere. Nel 1818 viene chiamato ad insegnare all’università di Berlino, di cui nel 1829 è nominato rettore. Sono gli anni del culmine della carriera accademica di Hegel e della massima influenza del suo pensiero. Gli argomenti dei corsi copriranno tutte le discipline filosofiche e le lezioni verranno pubblicate dagli allievi: assai note le lezioni di Filosofia della storia, di Storia della filosofia, di Estetica. Nel 1821 pubblica i Lineamenti di filosofia del diritto, in cui aderisce esplicitamente all’ordinamento statale prussiano. Tra il 1822 e il 1827 visita i Paesi Bassi ed Amsterdam, Praga, Vienna, Parigi: sulla via del ritorno, a Weimar, avviene il famoso incontro con Goethe. Nel 1827 fonda la rivista «Annali berlinesi per la critica » che costituisce l’organo ufficiale dell’hegelismo e a cui collaborano eminenti figure, come Goethe, i due fratelli Humboldt, P.A. Boeckh, l’archeologo Hirt e sui quali appaiono importanti testi e recensioni scritti da Hegel stesso. Le rivoluzioni liberali del 1830 lo trovano decisamente avversario e lo vedono attivamente impegnato a tenerne lontano lo spirito dall’università. Rivede costantemente le opere già pubblicate. La morte lo coglie mentre sta preparando una nuova edizione della Scienza della logica.

2. Una filosofia della totalità Nelle Lezioni sulla storia della filosofia (3, II) Hegel sostiene che la tesi di Cartesio «io penso dunque sono» trasferisce «d’un tratto» la filosofia «su un terreno e in un punto di vista affatto nuovi, nella sfera, cioè, della soggettività». Un punto di vista in cui l’essere è il pensiero e la verità «certezza». Si può sostenere che tutta la ricerca di Hegel è il tentativo di pensare la svolta introdotta da Cartesio nella filosofia moderna come insieme irreversibile e richiedente una nuova visione della totalità in cui accogliere tale «soggettività». Una totalità che non abbia, come nella metafisica tradizionale, i caratteri dell’essere, cioè del fisso e dell’eterno, ma del divenire, cioè dello sviluppo e della storia. Un divenire di cui Hegel indagherà le forme, la struttura e la legge, cioè il senso che implica un fine. Se la «certezza» di Cartesio proclamava la libertà della «soggettività», la ricerca di Hegel approfondisce i limiti in cui pensare tale libertà nel divenire della totalità, come condizione dell’effettivo dispiegamento di tale libertà. Se Cartesio parte dalla «certezza» del pensiero, Hegel parte dalla certezza del divenire del pensiero. E siccome il mondo non può che essere il mondo che riesco a pensare, cioè una totalità di pensiero, le leggi

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del pensiero saranno anche le leggi del mondo come, d’altra parte, le leggi del mondo saranno le leggi del mio pensare (idealismo oggettivo). La libertà del pensiero coincide con la scoperta della necessità del divenire della totalità. E se la totalità è sempre una totalità di pensiero, il sapere è l’anima e la forza motrice del mondo, cioè l’inizio e il fine del suo divenire. A sua volta la filosofia, che si propone come l’interpretazione più alta ed autentica del pensiero, diviene il centro, in termini di consapevolezza e di impulso, di tale divenire. L’idea che l’essere sia un divenire, che possiede una propria legalità (la dialettica) ed un proprio fine (più avanzato rispetto al punto di partenza), è probabilmente la principale idea che il pensiero di Hegel consegna alla filosofia e alla cultura moderna. Un’idea cui fa riscontro nell’Ottocento il profondo senso storico e storiografico dei principali comparti del sapere e di fondamentali autori: da Comte a Spencer, da Marx a Darwin, per non parlare dello storicismo storiografico. Tutte le principali opere di Hegel sono indagini attorno a determinate forme del divenire del pensiero e del sapere che producono effetti di conoscenza e di movimento della totalità, la quale può essere vista e indagata da diversi punti di vista. Nella Fenomenologia dello spirito si indaga il divenire della coscienza, che da soggettiva perviene alla conoscenza assoluta. Nella Scienza della Logica, l’itinerario del pensiero che dai concetti perviene alle idee, che sole riescono ad abbracciare e rispecchiare il tutto come qualcosa di organico. Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche l’idea di sistema e l’organizzazione del sapere coincidono con la costituzione dinamica della realtà. Nei Lineamenti di filosofia del diritto, il divenire della libertà di ciascuno perviene alla libertà universale attraverso il diritto. Nelle Lezioni sulla storia della filosofia il divenire delle forme dello spirito approda alla filosofia attraverso l’arte e la religione. Nelle Lezioni sulla filosofia della storia il divenire della storia del mondo appare ad Hegel come un processo razionale in cui si attua un progresso della libertà. Nelle Lezioni di estetica la storia dell’arte è il manifestarsi storico dello spirito assoluto attraverso le diverse forme d’arte.

3. La Fenomenologia dello spirito La Fenomenologia dello spirito rimane l’opera più letta, discussa e tradotta di Hegel. Probabilmente è anche la sua opera più moderna e attuale, quella che, anche per la sua oggettiva complessità e profondità teorica, ha presentato molteplici interpretazioni e offerto spunti per ulteriori ricerche. Alcune interpretazioni e commenti, come quelle di A. Kojève (1933-39) o di J. Hippolite (1939-41), sono diventate a loro volta dei classici della filosofia. «Fenomenologia» significa, dal greco, «scienza dell’apparire». Quindi il titolo indica come oggetto dell’opera la «scienza dell’apparire dello spirito». Laddove «scienza» ed «apparenza» sono in tensione, perché

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l’apparenza accade e la scienza, la filosofia, devono spiegare e comprendere ciò che accade. La Fenomenologia dello spirito è una ricerca sull’attività dello spirito, cioè su come l’uomo conosce e su questa base agisce, a partire da come questa attività «appare». Questa «apparenza» è un problema: una dimensione che occorre superare se si vuole pervenire alla scienza. In questo senso il libro doveva essere la prima parte di un Sistema della scienza, che poi Hegel non ha scritto. Ma lo spirito non «appare» sempre nello stesso modo. Esso accade in «figure», diverse, che secondo Hegel costituiscono un divenire, un «cammino», cioè una successione che possiede una forma complessiva e un senso: una storia che ha un inizio e una fine. L’inizio è la coscienza immediata, la fine il sapere assoluto. Le tappe di questa storia sono insieme i gradini che ciascuno di noi può compiere per passare dall’«apparenza» alla scienza, e insieme i gradini che l’umanità ha compiuto nei secoli per avvicinarsi alla «figura» più elevata del sapere. Lo studio della storia del sapere e della filosofia sono indispensabili strumenti per l’elevazione spirituale di ciascuno. La struttura dell’opera corrisponde alle «figure» dello spirito che secondo Hegel rappresentano le fondamentali «stazioni del cammino» dello spirito attraverso cui esso diviene «sapere puro». Un insieme, quello dei «fenomeni in cui lo spirito si manifesta», che appare un «caos», che l’indagine riconduce alla «necessità» del suo «ordine scientifico». Tali stazioni sono: la coscienza, l’autocoscienza, la ragione (osservatrice e agente), lo spirito stesso (etico, colto e morale, religioso e infine assoluto). Siccome per Hegel ogni tappa o «figura» è in grado di trapassare o divenire nella «figura» successiva e superiore, l’insieme delle manifestazioni dello spirito costituisce un tutto dinamico che è insieme la storia del sapere individuale e delle tappe che l’umanità ha percorso per approdare alle forme moderne e più elevate della propria consapevolezza scientifica. Fondamentale è pertanto capire come Hegel pensi il passaggio da una «figura» all’altra, cioè i diversi passaggio dall’«apparire» alla verità relativa e quindi a quella assoluta. Assai famose sono le parti dell’opera dedicate alla coscienza naturale e all’autocoscienza, che sono anche quelle più direttamente legate all’esperienza di ciascuno e su cui quindi ci soffermeremo in particolare. Hegel parte dalla fondamentale contraddizione da cui è segnata la coscienza, la quale è coscienza di qualcosa che a lei «appare» autonomo e da essa totalmente indipendente ed esterno, o, come dice Hegel, «in sé». Ma Hegel sottolinea come sia la coscienza stessa ad attribuire tale autonomia, ovvero, diremmo noi, come ogni oggetto (sia esso sensibile o astratto) che si pone di fronte alla coscienza sia tale solo se la coscienza lo coglie e come essa lo colga sempre in una modalità che dipende dalla coscienza stessa. Questa consapevolezza toglie ogni «in sé» agli oggetti della coscienza che divengono oggetti «per» la coscienza. La coscienza, cioè, questa la sua

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ambiguità, fornisce agli oggetti un’indipendenza rendendoli «per sé». La scienza che sa tutta questa storia, allora tratta gli oggetti per quello che essi sono, cioè un «in-sé-per-sé». Ciò che a Hegel preme rilevare è che il passaggio dall’«in sé» a l’«essere per la coscienza di questo in sé», cioè ad un «nuovo oggetto», ha un prezzo e costituisce un’«esperienza»; non si tratta di un semplice atto teoretico, ma di un risultato teorico fondato su di un atto di vita. Più precisamente, il passaggio comporta la «negazione» dell’«in sé», una «negazione» che fa parte del «movimento dialettico» che la coscienza esercita. «Questo nuovo oggetto contiene la nullità del primo, ed è l’esperienza fatta su di esso». Il «cammino» delle «figure» dello spirito che la scienza descrive è pertanto una «dialettica» (tesi, antitesi, sintesi) che è una «fatica», una «necessità» che è parte integrante della vita. Assai interessanti, e per questo hanno attirato l’attenzione di innumerevoli interpreti, sono le pagine sulla «figura» dell’«autocoscienza» (unità di opposti: l’io come soggetto e come oggetto) che Hegel dedica all’esempio della dialettica tra servo e padrone. Nello studio di questa «figura» Hegel mette i gioco i concetti di «appetito», «riconoscimento» e «indipendenza». Il primo è una determinazione fondamentale della vita al cui appagamento è indispensabile l’altro, cioè il «riconoscimento». Hegel insiste sul carattere «dialettico» del «riconoscimento», che non è atto privo di tensioni e drammaticità, «lotta». Gli uomini non si «riconoscono» disinteressatamente e pacificamente, perché gli «appetiti» sono in competizione. La lotta per il «riconoscimento» tra «autocoscienze» si conclude o con la «morte» o con la «sottomissione» dell’avversario. Emblematico è il caso del rapporto tra «signoria» e «servitù» in cui entrano in gioco anche il «lavoro» (un «formare» che è un trasformare l’in sé in qualcosa per la coscienza), la conoscenza ad esso connessa e la «paura». In particolare Hegel nota come la scissione tra lavoro (un «formare» che è un «trasformare») e «godimento» (degli oggetti trasformati dal lavoro), impedisca al signore la «certezza» della propria autocoscienza perché il servo, costretto a lavorare per il signore, impedisce a questi il passaggio al «concetto» della propria coscienza, cioè il passaggio dall’in-sé al per-sé. Infatti questo passaggio ha bisogno di una negazione che non sia nulla, cosa che invece accade col «godimento» che annulla l’oggetto. Solo il servo, in altre parole, perviene ad una «indipendenza», una «libertà» ancora «irretita entro la servitù» e che può essere sperimentata solo nel pensiero. Quanto alle altre «figure», la «ragione» e lo «spirito», è sufficiente ricordare che la prima, caratterizzata dalla certezza che la realtà non è niente di diverso da essa, presenta tre fondamentali modalità in cui sperimenta tale certezza: quella conoscitiva, quella pratica e quella virtuosa. Con lo «spirito» si fuoriesce dalla dimensione della coscienza per approdare a figure che sono mondi storici. Hegel indaga in particolare le manifestazioni della religione attraverso cui matura il «contenuto» asso-

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luto cui può pervenire la coscienza. Quando a tale contenuto si associa la «forma» assoluta maturata dalla coscienza nelle quattro precedenti tappe, questa perviene al «sapere assoluto» in cui la coscienza supera tutte le «apparenti» scissioni tra se stessa e l’oggettività. La Fenomenologia dello spirito si apre con una Prefazione, che Hegel scrisse di getto ad opera completata e che rappresenta il manifesto della sua filosofia. Il testo rivendica la necessità di una ricerca scientifica e sistematica della verità sia contro il formalismo del modello matematico e del metodologismo, sia contro le scorciatoie della cultura romantica, ed in questo senso segna anche la rottura con la filosofia di Schelling.

4. Altre opere principali 4.1 La Scienza della logica (1812-1816) Se nella Fenomenologia Hegel ritiene di essere approdato alla risoluzione della contrapposizione tra coscienza e oggetto, nella Scienza della logica egli indaga il movimento del pensiero in quanto tale. Il quale, proprio perché ha superato quella contraddizione, può pensare tale movimento non come qualcosa di estrinseco o antecedente ai contenuti che pensa (come fanno la logica formale e quella kantiana trascendentale), ma come il movimento della «cosa stessa», cioè di ciò che si pensa. In altre parole, la logica di Hegel non è uno strumento (o metodo) o un momento del pensare da applicare successivamente alle cose che si pensano, ma insieme il movimento del pensiero e quello delle cose (logica oggettiva). Come nella Fenomenologia il movimento è, sia un divenire, cioè un mutamento che possiede il senso dell’accrescimento e dell’elevazione, sia una dialettica, cioè un movimento che accade per forza intrinseca: la dinamica del superamento della «contraddizione». La «contraddizione» è uno dei concetti fondamentali della Scienza della logica: per Hegel ogni aspetto del pensare, della vita e del mondo presenta «contraddizioni». Afferrare qualsiasi cosa dal lato della «contraddizione» significa coglierne l’aspetto essenziale. Nello stesso tempo il pensiero, la vita, la storia tendono a superare le contraddizioni e lo fanno, come si è visto per la coscienza nella Fenomenologia, «togliendole» (Hegel usa il verbo aufheben), cioè negandole e conservandole nello stesso tempo, di modo che il risultato della negazione non sia nulla, ma, appunto, un risultato, cioè qualcosa di più rispetto ai termini iniziali della contrapposizione. Prendiamo, ad esempio, la contrapposizione tra essere e nulla, il cui superamento è il divenire, il quale non è l’Essere (che rimanda a qualcosa di fisso e immobile), ma che non è neppure nulla; il divenire è pure qualcosa, pur non essendo Essere. In fondo si tratta di un’esperienza che ciascuno può verificare, pensando che dall’inizio alla fine della nostra vita siamo sempre la stessa persona, eppure non siamo sempre gli stessi, appunto perché diveniamo.

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Un altro concetto importante della Logica è quello di «idea», che l’autore tratta nella parte finale del libro, e che rappresenta la forma più elevata cui perviene il pensare. Con «idea» Hegel non intende qualcosa di soggettivo, mentalistico o psicologico, ma la modalità in cui compiutamente accade l’unità tra pensiero ed essere. Sia che l’idea sia relativa alla vita, alla conoscenza o assoluta, essa dà unità alla molteplicità. Unità alla molteplicità della vita; la verità o il bene come unità della molteplicità della conoscenza; infine unità dello stesso molteplice divenire del pensiero come ha testimoniato l’intera Scienza della logica.

4.2 L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817-30) «Enciclopedia» per Hegel è un’opera che espone le conoscenze in maniera sistematica, cioè secondo la loro intrinseca necessità razionale, ed è «delle scienze filosofiche» in quanto la filosofia tratta i concetti fondamentali del sapere scientifico. L’opera è divisa in tre parti: «La scienza della logica», la «Filosofia della natura» e la «Filosofia dello spirito». La prima espone sinteticamente l’opera del 1812. La seconda, che dimostra la vasta conoscenza di Hegel della ricerca scientifica contemporanea, è divisa in tre parti («Meccanica», «Fisica» e «Fisica organica») e offre una visione sistematica e unitaria della scienza e dei suoi risultati a partire da una interpretazione filosofica dei metodi e delle teorie impiegate nella scienza. La terza, a sua volta suddivisa in tre sezioni («Lo spirito soggettivo», «Lo spirito oggettivo» e «Lo spirito assoluto») è forse la parte più interessante e originale, anche se presenta numerosi risultati della Fenomenologia dello spirito. Un tema, forse il principale, che attraversa le tre sezioni della terza parte, è la libertà: «L’essenza dello spirito è quindi, formalmente, la libertà. […] Lo spirito è l’idea infinita. […] I diversi gradi […] pei quali […] lo spirito finito […] deve passare, sono gradi della sua liberazione; nella cui verità assoluta il trovare un mondo come presupposto, il generarlo come posto da lui, e la liberazione da quel mondo e in quel mondo, sono una medesima cosa». Le forme di questa verità che ha superato l’apparenza dell’estraneità del mondo fino a saperlo come da sé «generato» sono l’arte, la religione e la filosofia. Nella quale l’uomo rinviene la modalità più elevata della propria libertà coincidente con la verità della sua consapevolezza.

Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

Werke. Vollständige Ausgabe durch einen Verein von Freunden des Verewigten, Duncker & Umblot, Berlin 1832-45; Sämtliche Werke Kritische Ausgabe, a cura di G. Lasson (dal 1955 J. Hoffmeister), Leipzig

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1911; per un’edizione più recente delle opere: Werke, 20 voll., a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Suhrkamp, Franfurt am Main 1971; Vorlesungen. Ausgewählte Nachsshriften und Manuskripte, Hamburg 1983. Alcune traduzioni: Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Bari 2009; Estetica, a cura di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1976; Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1933 e, più recente, a cura di G. Garelli, Torino, Einaudi 2008; Filosofia dello spirito senese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 2008; Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 2001; Lezioni sulla filosofia della storia, a cura C. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza, Roma-Bari 2008; Lezioni sulla storia della filosofia, a cura R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2009; Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1990; Scienza della logica, trad. di A. Moni (rivista da C. Cesa), Laterza, Roma-Bari 2008; Scritti giovanili, a cura di E. Mirri, Guida 1993.

Letteratura secondaria

H. Althaus, Vita di Hegel, Laterza, Roma-Bari 1993; G. Bedeschi, Hegel, Laterza, Roma-Bari 1993; C. Cesa, a cura di, Guida a Hegel, RomaBari, Laterza 2005; I. Fetscher, Grandezza e limiti di Hegel, Feltrinelli, Milano 1973; J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, Bompiani, Milano 2005; J.-L. Nancy, Hegel, Cronopio, Napoli 1998; F. Rosenkranz, Vita di Hegel, Mondadori, Milano 1974; P. Rossi, Hegel, Laterza, Roma-Bari 1992; H. Schnädelbach, Hegel, il Mulino, Bologna 1999; Ch. Taylor, Hegel e la società moderna, il Mulino, Bologna 1984; V. Verra, Introduzione a Hegel, Laterza, Roma-Bari 2007; F. Volpi, Hegel e i suoi critici, Laterza, Roma-Bari 1998; E. Weil, Hegel, Cappelli, Bologna 1984.

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Per una conoscenza diretta Scopo e struttura della «Fenomenologia dello spirito»

Nell’edizione delle librerie di J. A. Goebhardt, a Bamberg e Würzburg, è apparso ed è stato distribuito a tutte le migliori librerie il Sistema della scienza di G.W.F. Hegel. Primo volume, contenente la Fenomenologia della spirito. Gr. 8. 1807. Prezzo 6 fl. Questo volume presenta il sapere nel suo divenire. La fenomenologia dello spirito deve prendere il posto delle spiegazioni psicologiche, nonché delle trattazioni più astratte circa la fondazione del sapere. Considera la preparazione alla scienza da un punto di vista per cui questa si rivela nuova, interessante, ed è la prima scienza della filosofia. Tale scienza comprende al proprio interno le diverse figure dello spirito, intese come stazioni del cammino attraverso cui lo spirito diviene sapere puro, ossia spirito assoluto. Pertanto, nelle principali sezioni di questa scienza – a loro volta suddivise in varie parti ulteriori – si prendono in considerazione: la coscienza; l’autocoscienza; la ragione osservatrice e la ragione agente; lo spirito stesso, come spirito etico, colto e morale, e infine come spirito religioso, nelle sue differenti forme. La ricchezza dei fenomeni in cui lo spirito si manifesta, che a un primo sguardo si presenta come un caos, è ricondotta ad un ordine scientifico, che li presenta secondo la loro necessità. Così ordinati, i fenomeni imperfetti si dissolvono e trapassano in fenomeni superiori, che ne sono la verità più prossima. Tali fenomeni trovano poi la loro verità ultima anzitutto nella religione, e quindi nella scienza, intesa come risultato del tutto. Nella Prefazione l’autore chiarifica ciò che gli pare costituire il bisogno della filosofia, considerata nella prospettiva che essa occupa attualmente; inoltre si pronuncia sulla presunzione e sull’eccesso delle formule filosofiche che al presente screditano la filosofia, nonché su ciò che in generale ha importanza nella filosofia e nel suo studio. Un secondo volume conterrà il sistema della logica, come filosofia speculativa, e delle due rimanenti parti della filosofia: la scienza della natura e quella dello spirito. Annuncio bibliografico hegeliano della pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, «Bamberger Zeitung», 28 Giugno 1807 (poi ripetuto sulla stessa rivista e in altri periodici), in G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Torino, Einaudi 2008, pp. 554-55.

Ambiguità e dialettica della coscienza naturale

Ora, questo movimento dialettico che la coscienza esercita in se stessa – tanto nel suo sapere quanto nel suo oggetto – nella misura in cui ai suoi occhi sorge il nuovo vero oggetto, è ciò che si chiama propriamente esperienza. […] La coscienza sa qualcosa; questo oggetto è l’essenza o lo in-sé; ma esso è lo in-sé anche per la coscienza; e con ciò entra in gioco l’ambiguità di quel vero. Noi vediamo che ora la coscienza ha due oggetti; l’uno è il primo in-sé, l’altro è l’esser-per lei di questo in-sé. Quest’ultimo oggetto sembra essere da prima soltanto la riflessione della coscienza entro se stessa: rappresentazione non già di un oggetto, ma soltanto del sapere che essa coscienza ha di quel primo oggetto. Se non che, ed è stato mostrato, ora le si muta il primo oggetto; esso cessa di essere lo in-sé, e le diviene un oggetto siffatto che è lo in-sé solo per lei; ma così ciò, l’esser-per-lei di questo in-sé, è poi i

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vero; il che significa peraltro che questa è l’essenza, o il suo oggetto. Questo nuovo oggetto contiene la nullità del primo, ed è l’esperienza fatta su di esso. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, 1972, 2 Voll., I, p. 76.

La dialettica servo-padrone: autocoscienza, lavoro, indipendenza

Il signore è la coscienza che è per sé […] la quale è mediata con sé da un’altra coscienza [quella del servo], cioè da una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente o con la cosalità in genere. Il signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa come tale, all’oggetto [prodotto dal servo], cioè, dell’appetito; e alla coscienza [del servo] cui l’essenziale è la cosalità […] In questi due momenti per il signore si viene attuando il suo esser-riconosciuto da un’altra coscienza. Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l’indipendente essere, ché proprio a questo è legato il servo; questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; giacché egli nella lotta mostra infatti che questo essere gli valeva soltanto come un negativo; siccome il signore è la potenza che domina l’essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull’altro individuo, così, in questa disposizione sillogistica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Parimenti, il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo; anche il servo, in quanto autocoscienza in genere, si riferisce negativamente alla cosa e la toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo indipendente; però, col suo negarla, non potrà mai distruggerla completamente; ossia il servo col suo lavoro non fa che trasformarla. Invece, per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa: ossia il godimento; ciò che non riuscì all’appetito, riesce a quest’atto del godere: esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento […] il lato dell’indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora. In questi due momenti per il signore si viene attuando il suo esser-riconosciuto da un’altra coscienza. […] Ma al vero e proprio riconoscimento manca il momento pel quale ciò che il signore fa verso l’altro individuo lo fa anche verso se stesso, e pel quale ciò che il servo fa verso di sé lo fa verso l’altro. Col che si è prodotto un riconoscimento unilaterale e ineguale. La coscienza inessenziale è quindi per il signore l’oggetto costituente la verità della certezza di se stesso. È chiaro però che tale oggetto non corrisponde al suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo compimento [nel riconoscimento attraverso il godimento], gli è divenuta tutt’altra cosa che una coscienza indipendente; non una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è dunque certo dell’essere-per-sé come verità, anzi la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale e l’inessenziale operare di essa medesima. La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa da prima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell’autocoscienza. Ma come la signoria mostrava che la propria essenza è l’inverso di ciò che la signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento [nel riconoscimento attraverso la trasformazione del lavoro] diventerà piuttosto il contrario di ciò

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ch’essa è immediatamente; essa andrà in se stessa come coscienza riconcentrata in sé e si volgerà nell’indipendenza vera. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1972, I, pp. 159-161.

La libertà come realtà degli uomini

Di nessun’idea si sa così universalmente, che è indeterminata, polisenso, e adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori equivoci, come dell’idea della libertà; e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza. Poiché lo spirito libero è lo spirito reale, i malintesi intorno ad esso hanno conseguenze pratiche tanto più mostruose, in quanto, allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello spirito, e cioè la sua realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora: i Greci e i Romani, Platone ed Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano, ecc.), o mercé la forza del carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del Cristianesimo; pel quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà. Se nella religione come tale l’uomo sa la relazione verso lo spirito assoluto come verso la sua esistenza, egli ha presente inoltre lo spirito divino anche come quello che entra nella sfera dell’esistenza mondana, come la sostanza dello Stato, della famiglia, ecc. Queste relazioni vengono, mediante quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed egualmente, mediante siffatta esistenza, il senso della moralità diventa insito all’individuo; ed egli allora, in questa sfera dell’esistenza particolare, del sentire e del volere presente, è realmente libero. Se il sapere dell’idea, cioè il fatto che gli uomini sanno che la loro essenza, il loro scopo e il loro oggetto è la libertà, è sapere speculativo, questa idea stessa come tale è la realtà degli uomini, non perché essi hanno questa idea, ma perché sono questa idea. Il Cristianesimo ne ha fatto, nei suoi aderenti, una realtà; per es., non essere schiavo: se essi fossero fatti schiavi, se la decisione circa la loro proprietà fosse messa nel capriccio, non nella legge e nei tribunali, essi vedrebbero danneggiata la sostanza della loro esistenza. Questo volere della libertà non è più un impulso, che esige la sua soddisfazione; ma è il carattere – la coscienza spirituale diventa l’essere senza impulsi. Ma questa libertà, che ha il contenuto e lo scopo della libertà, è essa stessa dapprima soltanto concetto, principio dello spirito e del cuore; ed è destinata a svolgersi come oggettività, come realtà giuridica, morale e religiosa, e realtà scientifica G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 482, pp. 442-43.

Capitolo 12 Nietzsche Giovanni Mari

1. La vita e le opere 1.1 La giovinezza (1844-1869): la filologia, Schopenhauer, Wagner Friederich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken (Lipsia) il 15 Ottobre 1844. La madre, Franziska Oehler è figlia di un pastore protestante, come un pastore è anche il padre di Friedrich, Karl Ludwig Nietzsche. Nel 1849 il padre muore a trentasei anni, quando Friedrich non ha ancora compiuto i cinque. La famiglia, fortemente radicata nei valori tradizionali, si trasferisce nel 1850 a Naumburg dove, nella scuola privata del candidato Weber, Friedrich studia religione, musica, latino e greco, compone poesie e musica per pianoforte. Egli si impegna in analisi psicologiche della propria personalità avviando diversi tentativi autobiografici. Nel 1858 è ammesso al ginnasio della Scuola Reale nel monastero di Pforta (Naumburg), dove avevano studiato Klopstock, Schlegel, Fichte, Ranke, e in autunno si iscrive, senza trarne molto profitto, alla Facoltà di Teologia di Bonn dove conosce Friedrich Ritschl, filologo classico e filosofo della scuola storica che può considerarsi in questi anni il suo vero «maestro». Nel 1865 Nietzsche si trasferisce, insieme a Ritschl, all’Università di Lipsia per studiare filologia classica. Qui vengono in evidenza per la prima volta i segni della sua cagionevole salute che lo condurrà a soffrire per tutta la vita di forti emicranie e attacchi di vomito. In questo periodo, Nietzsche si dedica allo studio di autori antichi (Teognide, Diogene, Laerzio, Aristotele, Omero, Democrito) e moderni (Schopenhauer, Kant, Kuno Fischer, Lange, Schiller, Hölderlin, il suo poeta preferito, Stendhal, Dostoevskij). Diviene amico del filologo classico Erwin Rohde, che difenderà le teorie nietzschiane sulle origini della tragedia greca, entra in rapporto con Jacob Burckhardt, conosce Richard Wagner e il teologo, filosofo e storico della chiesa Franz Overbeck. Particolarmente

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importante è la lettura del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Nel 1869 ottiene il dottorato presso l’Università di Lipsia e la cattedra di lingua e letteratura greca presso l’Università di Basilea. La formazione giovanile è caratterizzata dalla scelta della filologia: il giovane Nietszche è un filologo wagneriano, appassionato lettore di Schopenhauer.

1.2 Il periodo di Basilea (1869-1884): dalla metafisica dell’arte allo spirito libero Nietzsche è un docente assai scrupoloso, come attestano gli appunti delle sue lezioni, sa far amare ciò che insegna, come testimoniano i ricordi dei suoi scolari. Nel 1870 è profondamente colpito dagli avvenimenti legati alla Comune di Parigi, come gran parte degli intellettuali europei che vi vedono il segno di una decadenza di civiltà. Nel 1872 pubblica uno dei suoi più importanti e noti libri: La nascita della tragedia dallo spirito della musica, dove elabora una metafisica dell’arte (cfr. § 4) che sarà accolta in maniera entusiastica da Wagner e in maniera assai controversa tra gli studiosi di filologia e di filosofia. Tra il 1873 e il 1876 escono le quattro «Considerazioni Inattuali»: I. David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore; II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita; III. Schopenhauer come educatore; IV. Richard Wagner a Bayreuth. In questo periodo, approfondisce il rapporto con Paul Rée, un filosofo che si interessa di psicologia, e con il giovane musicista H. Köselitz (pseudonimo: Peter Gast) che sarà uno dei suoi più fedeli seguaci. Le sue condizioni di salute conoscono un peggioramento e nel 1877 ottiene un anno di congedo durante il quale, insieme a Rée, soggiorna in Italia. Nel 1878-79 esce Umano troppo umano. Un libro per spiriti liberi (cfr. § 4) che rappresenta una frattura rispetto al periodo della metafisica dell’arte, maturata a metà degli anni Settanta e segnata dalla fine dell’amicizia e della condivisione di valori con Wagner. Nel 1879 l’ulteriore peggioramento della salute lo conduce a dare le dimissioni dall’Università di Basilea. Si reca a St. Moritz nell’Alta Engadina. Di fronte al paesaggio che lo colma di gioia scrive: «Vi sono certi paesaggi della natura nei quali – con un brivido di piacere – riscopriamo noi stessi: è il modo più bello di avere un sosia». Dai taccuini che riempie nelle passeggiate nasce Il viandante e la sua ombra che pubblicherà nel 1880.

1.3 Il periodo dello Zarathustra (1880-1884): l’intuizione dell’eterno ritorno e l’«oltreuomo» Dopo l’abbandono dell’insegnamento a Basilea, Nietzsche si sposta in numerose città europee e italiane, fino a stabilirsi a Genova. È un periodo dedicato a letture sul problema morale, in cui vede la luce Aurora,

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pubblicato nel 1881. L’estate del 1881, in cui Nietzsche è ripetutamente assalito da emicranie e vomiti, sarà caratterizzata da nuove letture (Spinoza) e approfondimenti che culmineranno nella prima formulazione della dottrina dell’«eterno ritorno delle stesse cose» e ritroveremo alla base dello Zarathustra. Nel 1882 pubblica La gaia scienza e si reca a Messina. Nel ritorno da questa città si ferma a Roma, dove conosce Lou von Salomé che vorrebbe sposare. Dopo alcuni viaggi, in cui viene coinvolto anche l’amico Rée, Nietzsche vedrà per l’ultima volta entrambi a Lipsia nell’ottobre 1881. È ai nuovi viaggi in Italia dell’inverno 1882-83, che secono Mazzino Montinari, deve essere fatta risalire la prima formulazione dell’idea di «superuomo» o «oltreuomo» (Übermensch) e la composizione della prima parte di Così parlò Zarathustra. Quest’opera verrà terminata nel 1884 e pubblicata l’anno seguente (la parte IV uscirà privatamente). Nel 1885 la sorella si sposa con Bernhard Föster, che progetta di fondare una colonia tedesca su principi razziali, ma Nietzsche non partecipa al matrimonio.

1.4 Gli ultimi anni (1885-1900): il nichilismo e La volontà di potenza, un’opera mai scritta che ha fatto discutere più delle altre Gli ultimi anni sono caratterizzati da una crescente solitudine e dall’inconciliabile contrasto con la sorella. Sono accanto a Nietszche Overbeck, che cura i suoi interessi finanziari, e Peter Gast che lo aiuta nella revisione e pubblicazione delle opere. Di fronte al rifiuto degli editori di pubblicarle, dal 1885 Nietzsche farà uscire a proprie spese tutte le sue ultime opere, tra cui Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886) e Per la genealogia della morale (1887). Nei suoi manoscritti compare allora il tema della «volontà di potenza» su cui progetta un libro: «La volontà di potenza, tentativo di una nuova interpretazione di tutto l’accadere», titolo che nel 1886 diviene «La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori». Particolare importanza, in questi frammenti inediti riveste il tema del nichilismo (strettamente connesso a quelli dell’eterno ritorno e della volontà di potenza) inteso quale caduta epocale di senso della vita e impossibilità di credenza nei valori. Anche se tra il 1887 e il 1888 Nietszche raccoglie e ordina 372 frammenti, i diversi piani dell’opera non approderanno mai al libro progettato, mentre parte degli appunti confluiranno nel Crepuscolo degli idoli (1889) e nell’Anticristo (scritto nel 1888): quando, dunque, la sorella Förster-Nietzsche e Peter Gast pubblicheranno nel 1906 il libro postumo Volontà di potenza andranno ben oltre la pubblicazione di un inedito. Dinanzi al peggioramento progressivo della sua salute, nel 1888 Overbeck conduce via da Torino il filosofo, che viene ricoverato in casa di cura ormai demente. Morirà il 23 Agosto 1900.

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2. Compimento o oltrepassamento della metafisica? Il significato della filosofia di Nietzsche è legato al giudizio sulla sua collocazione di fronte alla metafisica. Egli è l’ultimo dei grandi metafisici, ovvero «porta a compimento la metafisica», come sostiene Martin Heidegger, oppure si pone oltre la metafisica, fuori da questa forma di pensiero, come ritiene Gianni Vattimo? Ovvero, e forse meglio, la domanda in questi termini è ben posta? Perché, tra l’altro, presupporrebbe che la metafisica, che Nietzsche ha di fronte, sia un pensiero comunque superabile una volta per tutte. In ogni caso, e qui forse risiede il principale significato della filosofia nietzscheana, essa metaforizza e ridescrive i temi fondamentali della grande metafisica occidentale, sperimentando in maniera radicale e personale le conseguenze della fine della credenza nei suoi temi e valori essenziali: la verità, l’unità e l’immanenza di senso e di razionalità degli accadimenti, l’idea di uno svolgimento teleologico del tempo storico, la possibilità di un’universalità del bene e del male, la contrapposizione tra anima e corpo e il dualismo tra realtà e apparenza, la veridicità di alcune grandi idee della civiltà occidentale, come quelle di giustizia, uguaglianza e fratellanza. Allora, il significato della filosofia di Nietzsche risiede nel significato della ricostruzione che egli intraprende di un’idea di mondo e di vita dopo che il mondo della metafisica è venuto meno, ma non per questa è venuta meno la volontà dell’uomo di non soccombere sotto le sue macerie. Il superuomo o oltreuomo, la volontà di potenza e l’eterno ritorno sono tutte risposte e strumenti concettuali, autonomi e legati l’un l’altro, per riuscire in questa sopravvivenza. Essa si fonda sull’individuo e la sua volontà, che risultano gli unici fondamenti di qualsiasi pensiero e modalità di esistenza. Che il mondo in cui oggi viviamo sia un mondo in cui l’individuo si apre all’individualismo più radicale e nel quale l’assenza di limiti condivisi rende per lo più priva di senso finale una vita che pure si è significativamente allontanata dalla miseria materiale tradizionale, sembra rendere attuale e insieme evidentemente insufficiente il pensiero di Nietzsche.

3. Così parlò Zarathustra Lo sviluppo della ricerca filosofica di Nietzsche viene di solito suddiviso in tre periodi principali: quello giovanile, caratterizzato dalla Nascita della tragedia e dalle quattro Inattuali; quello intermedio, da taluni chiamato anche periodo «illuministico», che va dalla pubblicazione di Umano, troppo umano alla Gaia scienza, con un pensiero genealogico e decostruttivo; quello maturo che inizia con lo Zaratustra. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen) è l’opera che presenta in maniera più completa i temi

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fondamentali del pensiero nietzschiano e ne permette meglio di ogni altro una conoscenza d’insieme. Lo stile e la forma espressiva scelte dal filosofo in quest’opera meriterebbero un discorso a parte, Essi costituiscono, infatti, elementi non secondari dell’originalità dell’opera che non ha una forma sistematica, ma neppure propriamente narrativa o aforistica. Essa si compone dei discorsi di Zarathustra che vengono tenuti insieme da un minimo tessuto narrativo mitologico, in cui compaiono personaggi di vario tipo e diverso significato simbolico (il funambolo, l’eremita, il nano, animali). Tali discorsi raccontano frequentemente sogni e rappresentazioni del protagonista che si esprime mediante parabole, allegorie, perifrasi e immagini che hanno richiesto attente interpretazioni. Talvolta Zarathustra si esprime anche mediante il ditirambo. In generale, si può dire che, attraverso questo linguaggio immaginifico e pieno di pathos, Nietzsche intende rivolgersi a tutti gli uomini per comunicare loro un messaggio profetico e annunziare l’avvento di una nuova era e di un nuovo uomo oltre la modernità, avvenimenti futuri per la cui descrizione le parole non hanno ancora un significato sicuro. Anche la scelta della figura di Zarathustra rientra in questo intento. Zarathustra, che probabilmente visse e operò verso la fine del secondo millennio a.C., è tramandato come il fondatore della religione persiana (appunto lo Zoroastrismo) e i suoi testi parlano di una lotta tra il Bene ed il Male dal cui esito fuoriuscirebbe l’affermazione di un essere supremo. Nella narrazione dell’opera di Nietzsche, Zarathustra vive sui monti meditando in solitudine e ridiscendendo più volte tra gli uomini per annunciare e insegnare loro il proprio pensiero e farne dei discepoli. L’opera è divisa in quattro parti, precedute da una «Prefazione di Zarathustra», pubblicate tra il 1883 e il 1885. Le prime due parti portano con un crescendo alla terza, che appare la più importante e densa, mentre la quarta risulta decisamente la meno interessante. Nella «Prefazione», che si presenta come un vero e proprio prologo, vengono introdotti i concetti di «morte di Dio», di superuomo e di «ultimo uomo». Questo è insieme la «speranza» del superuomo e il livello umano più basso, coincidente con l’individuo che ha perso ogni idealità e che rappresenta l’esperienza del nichilismo passivo. Nel complesso dell’opera, poi, le idee fondamentali sono quelle di superuomo, di volontà di potenza e di eterno ritorno dell’eguale, e nella prima parte emerge anche il tema del «corpo» («Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza» – discorso «Dei dispregiatori del corpo»). Soffermiamoci sull’idea di superuomo di cui la «morte di Dio» appare come una premessa indispensabile. I discorsi di Zarathustra cui possiamo fare principalmente riferimento sono: «Delle tre metamorfosi», «Del cammino del creatore» e «Della virtù che dona». Considereremo solo il primo in cui Nietzsche scrive: «Tre metamorfosi io vi nomino dello

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spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo». Le tre figure rappresentano, rispettivamente, lo «spirito paziente» che cerca e sopporta le cose più gravose per lo spirito, cioè la «verità», la disposizione a «umiliarsi», la rinuncia al riconoscimento della «vittoria», la frequentazione degli esseri più modesti e la vita nel «deserto», in una parola lo spirito sottoposto alla trascendenza, all’ubbidienza e all’idealismo solitario; il «leone» rappresenta la ribellione, in nome della «libertà», ai pesi sopportati dal cammello, esso dice «no» a tutti i «Tu devi» e ai «valori millenari» ammessi dal cammello, cui contrappone un «io voglio». Ma il leone non è capace di «creare nuovi valori», ma solo la «libertà per una nuova creazione» e il terribile «diritto per valori nuovi». È a questo punto che interviene il fanciullo che rappresenta il nuovo inizio inteso come un «giuoco della creazione»: «Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì». Il superuomo non si presenta quindi con caratteri temibili o terrificanti, ma con quelli del fanciullo e del gioco, e di una libertà creativa finalizzata all’innovazione in sé. Il superuomo, l’oltreuomo, è colui che crea. Per il tema della volontà di potenza si possono indicare soprattutto i seguenti discorsi della seconda parte: «Delle tarantole», «Della vittoria su se stessi» e «Della redenzione». In «Della redenzione» la volontà di potenza si misura con le tre estasi del tempo, in particolare col futuro. La volontà di potenza è volontà creatrice, rivolta al futuro e al superuomo: «L’oggi e il passato sulla terra – ah, amici miei – questo è per me il massimo di ciò che non posso sopportare; e non saprei vivere, se non avessi anche la visione di ciò che necessariamente verrà». Una visione in cui la volontà, «un ponte verso il futuro», «ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma ed orrida casualità». Una ricomposizione in cui consiste la redenzione della casualità e della frammentarietà che il mondo mostra una volta che sia venuta meno ogni credenza nella metafisica. A questo punto, di fronte alla volontà si erge il passato come ciò che appare immodificabile, il passato come prova cruciale della volontà: «Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato». Ma anche in questa prova la volontà può riuscire vittoriosa, attraverso un atto, che annuncia l’eterno ritorno, in cui essa redime se stessa. Un atto in cui la volontà riesce a volere anche il passato: ogni «così fu» è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: «ma così volli che fosse!». L’eterno ritorno è il pensiero fondamentale dello Zarathustra e di esso il protagonista del libro parla solo con se stesso. Nella terza parte del libro il raggiungimento di tale pensiero coincide anche con l’ultima trasfigurazione di Zarathustra. Nietszche tratta di questo tema in tre discorsi, «La visione e l’enigma», «Prima che il sole ascenda» e «Il

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convalescente». Il primo, in cui l’idea dell’eterno ritorno è introdotta sotto forma di parabola, presenta un dialogo tra Zarathustra e il nano sul pensiero del tempo. Il tempo va inteso come una successione unilineare di presenti che vanno all’infinito verso il futuro, come infinitamente sono e saranno nel passato, oppure altrimenti? Per il nano il tempo, considerato nella dimensione dell’eternità, è semplicemente circolare e in questo modo si contrappone alla volontà creatrice. Ma se invece io posso volere, cioè decidere, ogni «adesso» che è stato e che eternamente ritornerà, allora l’essere, che è l’eterno ritorno, non soffocherà la volontà di potenza perché sarò stato io a dare il significato ad ogni «adesso». Nel discorso «Il convalescente» ritorna il tema del nesso tra eterno ritorno e decisione attraverso la parabola del pastore a cui un serpente è entrato in bocca mentre dormiva: «come la bestiaccia mi è strisciata dentro le fauci per strozzarmi! Ma io ne ho morso il capo e l’ho sputato lontano da me»: il serpente dalla forma a spirale simboleggia la «ruota» e l’«anello dell’essere» che «eternamente» ricorre e il morso che gli stacca la testa la decisione della volontà di potenza che in questo modo sceglie l’attimo.

4. Altre opere Tra le altre opere di Nietzsche segnaliamo, del primo periodo, La nascita della tragedia dallo spirito della musica. L’opera si presenta come una ricerca di storia della civiltà e di filosofia della storia occidentale. La tragedia attica, espressione dell’«età tragica dei greci», che finisce intorno al 400 a.C. quando inizia la loro decadenza, è la forma più alta di sintesi delle due potenze che, secondo Nietzsche, si trovano alla base di ogni accadere della vita e del mondo: il dionisiaco e l’apollineo, i due concetti fondamentali dell’opera che l’hanno resa famosa. Nella mitologia classica Dioniso (chiamato anche Bacco) è il dio del vino e dell’ebbrezza, del delirio mistico e dell’ispirazione, in nome del quale si svolgono riti collettivi, anche a carattere orgiastico, a base di musica e suoni: in Nietzsche rappresenta il terrore, la sofferenza, la lotta per la vita e insieme il piacere dell’abbandono e l’unità mistica dell’esistenza. Apollo è legato alla bellezza e alla misura, talvolta viene presentato come padre di Pitagora, e in Nietzsche rappresenta la forma, soprattutto plastica, l’illusione e il sogno che rendono possibile la vita quale caos e continuo divenire. Le stesse arti sono per Nietzsche dionisiache (la musica) e apollinee (plastica ed epica). Nella tragedia, sintesi del coro (musica) e della recitazione (scrittura e forma), lo spettatore si identifica dionisiacamente con l’eroe perdendo la propria identità e ricostituendo l’uno-tutto della vita. La decadenza dei greci coincide con la perdita di questa unità forte e arazionale e col prevalere del logos scientifico, oggettuale e intellettuale il cui emblema negativo è Socrate.

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Del secondo periodo occorre ricordare Umano, troppo umano. Un libro per gli spiriti liberi e La gaia scienza. Nel primo, scritto in forma aforistica, Nietzsche colloca se stesso nella tradizione illuministica e in quella della moderna scienza sperimentale, critica ogni pretesa metastorica di verità e rivendica il carattere storico di qualsiasi risultato culturale. Rispetto al primo periodo non c’è più la visione dell’arte come rimedio alla vita: il posto dell’arte viene preso dalla scienza. Lo «spirito libero», tuttavia, è qualcosa di assai diverso dal libero pensatore illuministico (ad esempio non ha fiducia nel progresso): la figura di Nietzsche è assai più temeraria e spiritualmente rivoluzionaria, soprattutto indirizzata alla decostruzione della metafisica e della morale che su essa si fonda. Lo «spirito libero» è quindi l’uomo liberato dal peso della metafisica. Questo uomo, che nello Zarathustra sarà simboleggiato dal «leone», qui è rappresentato dal «viandante», celebre figura dell’ultimo aforisma dell’opera che anticipa senza pathos il tema del superuomo o oltreuomo, come «filosofia del mattino»: «Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante – per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste […] deve esserci in lui qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà […] egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi». La gaia scienza, composta anch’essa in stile aforistico, è piena di prodromi (come il tema della «morte di Dio» e quello dell’eterno ritorno) dello Zarathustra. Al centro stanno la critica della metafisica vista come un pensiero alimentato dalla negazione del corpo e degli istinti e la loro rivalutazione, che costituirà pure un tema della prima parte dello Zarathustra. In questo senso «gaia» è la scienza di uno spirito che, guarito dalla pressione orribilmente lunga della metafisica, si apre alla speranza della salute. Del terzo periodo ricordiamo la Genealogia della morale con cui si torna a una forma sistematica. L’opera, che il filosofo presenta come uno «scritto polemico», si compone di tre «dissertazioni»: «Buono e malvagio. Buono e cattivo»; «Colpa, cattiva coscienza e simili»; «Che cosa significano gli ideali ascetici». Si tratta di un’indagine sull’«origine dei nostri pregiudizi morali», sull’invenzione umana dei «giudizi di valore», cioè di una critica del «valore della morale», del valore dei valori, della morale storicamente e realmente esistita e vissuta. La genealogia svela gli interessi profondi e extramorali, sociali e psicologici, su cui si fonda il discorso morale. Tali interessi scaturiscono dall’esistenza di due classi contrapposte, quella dei «signori» e quella degli «schiavi», che attraverso la morale intendono affermare e difendere le proprie forme di vita.

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Bibliografia essenziale Edizioni del Corpus e traduzioni italiane delle opere

L’edizione delle Opere di Nietzsche ha conosciuto una storia travagliata, anche per i numerosi inediti lasciati dal filosofo, la cui pubblicazione non sempre è stata ispirata a criteri scientifici. Il progetto della prima edizione completa degli scritti di Nietzsche in tre sezioni e 19 volumi (conosciuta come Grossoktavausgabe) risale al 1895 – a cura dell’Archivio Nietzsche di Weimar custodito dalla sorella Elisabeth Förster Nietzsche – ma alcuni volumi non videro mai la luce ed i volumi 9-19 sono inattendibili. Nel 1933 L’Archivio Nietzsche iniziò la pubblicazione della Historischkritische Gesamtausgabe che però si interruppe per la disfatta nazista. A cura di Karl Schlechta (Monaco 1956) le Werke in 3 Bden comprendono anche il materiale della Volontà di potenza, in un ordinamento che solo in parte è fedele ai manoscritti. Infine, è stata pubblicata a partire dal 1967, presso la casa editrice De Gruyter, l’edizione critica di tutte le opere e dei frammenti Werke. Kritische Gesamtausgabe in 30 volumi, cui si affianca l’edizione delle lettere (Briefwechsel. Critische Gesamtausgabe) in 20 volumi. Entrambe le edizioni sono a cura di G. Colli e M. Montinari, che sono deceduti prima di averne completato la pubblicazione; essa prosegue adesso sotto la direzione di altri studiosi. Contemporaneamente all’edizione tedesca, sono uscite la traduzione italiana, da Adelphi, e francese, da Gallimard. In italiano esiste anche una traduzione delle Opere, 2 voll., Newton Compton, Roma 1993, a cura di F. Desideri.

Letteratura secondaria

Tra gli studi dedicati a Nietszche segnaliamo: M. Ferraris, a cura di, Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1999; E. Fink, La filosofia di Nietzsche, Mondadori, Milano 1977; S. Mati e F. Rella, Nietzsche: arte e verità. Una introduzione, Mimesis, Milano 2008; M. Montinari, Che cosa ha veramente detto Nietzsche, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1975; G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari, Laterza 2007.

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Per una conoscenza diretta Il superuomo o oltreuomo

E Zarathustra parlò così alla folla: Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? […] Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra. Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! […] In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta […] Ecco, vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù. L’ora in cui diciate: «Che importa la mia felicità?» […] L’ora in cui diciate: «Che importa la mia ragione?» […] L’ora in cui diciate: «Che importa la mia virtù?» […] L’ora in cui diciate: «Che importa la mia giustizia?» […] «Che importa la mia compassione?» […] E la folla rise di Zarathustra. […] Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso. […] La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono la transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva […]». Dette queste parole, Zarathustra guardò di nuovo la folla e tacque […]. Voglio parlare loro dell’essere più di tutti spregevole: questi è però l’ultimo uomo … Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. «Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?» – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpiccolisce […] «Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. E qui ebbe termine il primo discorso di Zarathustra […] a questo punto infatti lo interruppe il clamore smanioso della folla. «Dacci l’ultimo uomo, Zarathustra, – così gridavano – fa’ di noi degli ultimi uomini! E noi ti lasciamo il tuo superuomo!» Così parlò Zarathustra, in Opere, VI, I, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1979, «Prefazione di Zarathustra», pp. 6-12.

La volontà di potenza

«Volontà di verità, o saggissimi, voi chiamate ciò che vi incalza e vi riempe di desiderio? Volontà di rendere pensabile tutto l’essere: così chiamo io la vostra volontà! Tutto quanto è, voi volete prima di tutto farlo pensabile: giacché con buona diffidenza dubitate che sia già pensabile. Ma esso deve anche adattarsi e piegarsi a voi! Così vuole la vostra volontà. Levigato deve diventare e soggetto allo spirito, come suo specchio e immagine riflessa. Questa è la vostra volontà tutta intera, saggissimi, in quanto una volontà di potenza; anche quando parlate del bene e del male e dei valori. […] Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza. […] E la vita stessa mi ha confidato questo segreto. «Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa. […] Piuttosto preferisco tramontare che rinunciare a questa sola cosa; e invero, dov’è tramonto e cader di foglie, ecco, là la vita immola se stessa – per la potenza!

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Che io non possa essere se non lotta e divenire e scopo e contraddizione degli scopi: ah, colui che indovina la mia volontà, indovina certo anche per quali sentieri tortuosi egli è obbligato a camminare! Qualunque cosa io crei e comunque l’ami, – ne debbo ben presto essere avversaria, avversaria del mio amore: così vuole la mia volontà. E anche tu, uomo della conoscenza, non sei che un sentiero e l’orma della mia volontà: in verità, la mia volontà di potenza cammina anche sulle gambe della tua volontà di verità! […] Solo dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì – così ti insegno io – volontà di potenza». Questo mi ha insegnato una volta la vita […] un bene e male che fosse imperituro non esiste – non esiste! Esso deve superarsi continuamente, da se stesso. Con i vostri valori e le vostre parole di bene e male, voi esercitate violenza, voi che determinate i valori. […] Ma una forza più grande cresce dai vostri valori, e un nuovo superamento: per essa si frantuma l’uovo e il suo guscio Così parlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi», pp. 137-140.

La dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale

Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere! La gaia scienza, in Opere, V, II, 1967, aforisma 341, «Il peso più grande», pp. 201-202. «Alt, nano! Dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io –: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo – tu non potresti sopportarlo!» […] «Guarda questa porta carraia! Nano! Continuai: essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convergono. In alto sta scritto il nome della porta «attimo». Ma, chi ne percorse uno dei due – sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?» […] Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque – anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? Così parlò Zarathustra, «La visione e l’enigma», pp. 191-192.

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Frammenti sul nichilismo

Il nichilismo come stato NORMALE. Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al «perché?»; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalorizzano Opere, VIII, Tomo II, 1971, framm. (27) ) [35], p. 12. Critica del nichilismo. 1. Il nichilismo come stato psicologico subentra di necessità, in primo luogo, quando abbiamo cercato in tutto l’accadere un «senso» che in esso non c’è, sicché alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio. Il nichilismo è allora l’acquistar coscienza del lungo spreco di forze. […] Quel senso potrebbe essere stato: l’«adempimento» di un supremo canone morale in tutto l’accadere, l’ordine morale del mondo; o l’accrescimento dell’amore e dell’armonia nei rapporti tra gli esseri; o l’avvicinamento a uno stato universale di felicità; o anche il dirigersi verso uno stato universale del nulla – una meta è ancor sempre un senso. Ciò che è comune a tutte queste rappresentazioni è che si debba raggiungere qualcosa attraverso il processo stesso – e poi si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla… Dunque la delusione su un preteso fine del divenire è una causa del nichilismo. […] Il nichilismo come stato psicologico subentra, in secondo luogo, quando si è postulata una totalità, una sistematizzazione e addirittura un’ organizzazione in tutto l’accadere e alla sua base. […] Una specie di unità, una qualunque forma di «monismo»: e in conseguenza di questa credenza l’uomo ha un profondo sentimento della connessione e della dipendenza da un tutto a lui immediatamente superiore, è un modus della divinità … «Il bene dell’universale esige l’abbandonarsi del singolo» … ma, guarda un po’, un siffatto universale non c’è! In fondo l’uomo ha perduto la fede nel suo valore, se attraverso di lui non opera un tutto per poter credere nel proprio valore. Il nichilismo come stato psicologico ha ancora una terza e ultima forma. Date queste due constatazioni, che col divenire non si deve raggiungere niente, e che sotto ogni divenire non si ritrova per nulla una grande unità, dove l’individuo possa totalmente immergersi come in un elemento di supremo valore: non resta come scappatoia che condannare come illusione tutto questo mondo del divenire e inventare un mondo che sia al di là di esso, come mondo vero. Ma appena l’uomo si accorge che questo mondo è stato fabbricato solo in base a bisogni psicologici, e che in nessun modo egli ha diritto di far ciò, sorge l’ultima forma del nichilismo, che racchiude in sé l’incredulità per un mondo metafisico – che proibisce a se stessa di credere in un mondo vero. In questa posizione si ammette la realtà del divenire come unica realtà, ci si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a mondi dietro i mondi e false divinità – ma non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare … Che cos’è accaduto in fondo? Si raggiunge il sentimento della mancanza di valore, quando si comprese che non è lecito interpretare il carattere generale dell’esistenza né col concetto di «fine», né col concetto di «unità», né col concetto di «verità». Con ciò non si ottiene né raggiunge niente; nella molteplicità dell’accadere manca un’unità che permei tutto; il carattere dell’esistenza non è «vero», è falso …, non si ha assolutamente più ragione di favoleggiare un mondo vero… Insomma: le categorie «fine», «unità», «essere», con cui avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte – e ora il mondo appare privo di valore … Opere, VIII, Tomo II, framm, (351) 11 [99], pp. 256-258.

parte ii Indirizzi e problemi della filosofia contemporanea

sezione iv Indirizzi

Epistemologia Francesco Coniglione Che cos’è l’epistemologia: il problema della definizione – L’epistemologia non costituisce una specifica corrente filosofica della storia della filosofia, ma è piuttosto una parte della filosofia generale, come l’estetica, la morale o la metafisica. Nasce allora il problema di una sua chiara definizione, che ne delimiti l’ambito problematico: in cosa consiste l’epistemologia e come possiamo caratterizzarla tra le discipline filosofiche? Per dare una risposta a queste domande è necessario indicare innanzi tutto l’oggetto da essa studiato e cercare quindi di capire quali siano le metodologie adoperate. Partiamo da una constatazione di fatto: nella letteratura filosofica locuzioni come «gnoseologia», «teoria della conoscenza», «epistemologia» e «filosofia della scienza» (a volte anche «filosofia scientifica») sono spesso usate in maniera interscambiabile; altre volte sono invece differenziate, attribuendo a ciascuna un campo di indagine peculiare. Il termine al quale l’epistemologia più spesso viene assimilata è quello di «filosofia della scienza». Usato per la prima volta dallo studioso scozzese James F. Ferrier (1808-1864) nell’Ottocento, esso indicava una delle due parti fondamentali della filosofia, la seconda essendo costituita dall’ontologia (o metafisica). L’epistemologia è intesa da Ferrier come «teoria della conoscenza»; egli precisa, però, che questa espressione è sempre più riferita alla «teoria della conoscenza scientifica». Già si annuncia in questa definizione la tensione tra i diversi significati del termine nel pensiero del Novecento. Ciò è dipeso anche dalle diverse tradizioni nazionali. In Italia (e spesso anche in Francia) l’epistemologia si colloca nel campo della riflessione sul pensiero scientifico, per cui viene assimilata in sostanza alla filosofia della scienza. In tal modo, col termine «epistemologia» si indica di solito «quella branca della teoria generale della conoscenza che si occupa di problemi quali i fondamenti, la natura, i limiti e le condizioni di validità del sapere scientifico» (Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981). Essa è dunque concepita come «una “teoria della scienza” che riconosce l’esemplarità del sapere positivo e si propone di analizzarne metodi e strutture» (Cappelletti), sostituendo la ormai erosa «gnoseologia», in piena decadenza a partire dall’idealismo. Nella tradizione filosofica anglosassone, invece, l’epistemologia è assimilata alla «teoria della conoscenza» ed è pertanto distinta dalla filosofia della scienza. Secondo questa accezione l’epistemologia tratta «della natura e degli scopi della conoscenza, dei suoi presupposti e delle sue basi e della generale affidabilità delle pretese di conoscenza» (Bunge). Più recentemente si è definita l’epistemologia come «la branca della filosofia che concerne l’indagine sulla natura, le fonti e la validità della conoscenza. Fra le questioni chiave cui essa tenta di rispondere ritroviamo: Che cos’è la conoscenza? Come possiamo ottenerla? Possiamo difendere i mezzi che ci permettono di ottenerla dalla sfida scettica?» (Grayling). Anche in Polonia, paese di primo piano nel campo delle ricerche logico-epistemologiche, prevale questo modo di intendere il concetto di epistemologia, sulla base dell’insegnamento di Kazimierz Ajdukiewicz (18901963), per il quale teoria della conoscenza, epistemologia e gnoseologia sono da intendere come sinonimi, in quanto tutte hanno come oggetto la «scienza della conoscenza».

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I quesiti dell’epistemologia tradizionale – Vediamo ora in che modo è di solito concepita l’epistemologia nel suo senso proprio, ovvero nell’accezione anglosassone. Suo problema centrale è definire i criteri e i caratteri che devono essere presi in considerazione per giungere alla conoscenza del reale. Essa pertanto si pone alcuni classici quesiti: 1. Che cos’è la conoscenza? Che cosa intendiamo dire quando affermiamo che conosciamo qualcosa? 2. Come dovremmo arrivare a essa? 3. Come ci arriviamo? 4. I processi con cui ci arriviamo sono i medesimi di quelli con cui dovremmo arrivarci? La concezione tradizionale dell’epistemologia, che risale al Menone di Platone, si caratterizza per il fatto di sostenere le seguenti tesi in risposta a tali domande. 1. La conoscenza è definibile come credenza vera giustificata. Ciò significa che possiamo dire di conoscere p se e solo se: a. p è vero; b. crediamo in p; c. abbiamo qualche giustificazione per credere in p. Per fare un esempio, supponiamo che vogliamo affermare che fuori dalla nostra aula il sole sta splendendo. In base a quanto detto per poter sostenere di conoscere che fuori il sole splende è necessario che: a. sia vero che «fuori il sole sta splendendo»; b. noi siamo convinti, crediamo, che fuori il sole stia splendendo; c. che abbiamo qualche valido motivo per sostenere e giustificare la nostra credenza che fuori il sole stia splendendo. Affinché si abbia conoscenza di qualcosa è pertanto necessario possedere innanzi tutto una credenza (belief), consistente in uno stato psicologico del soggetto di adesione a certe idee (o «credenze»), di solito espresse in forma proposizionale (del tipo: «la moglie di mio fratello Giovanni ha i capelli rossi»). Ciò non è da solo sufficiente, perché si può anche credere nelle più assurde fantasticherie; è pertanto necessario anche che tale credenza sia vera, cioè deve rispecchiare o corrispondere o informarci di un reale stato del mondo. Infine, tale credenza deve essere anche giustificata, in quanto non è sufficiente che le nostre credenze siano vere, ma è necessario esibire delle ragioni o motivi per ritenerle tali, cioè essere in grado di giustificare perché esse sono vere (per esempio, affermando di aver guardato fuori dalla finestra e visto il sole splendere, oppure portando una argomentazione del tipo: «se fuori non splendesse il sole, allora nell’aula ci sarebbe buio e bisognerebbe accendere la luce e le persone che entrano non sarebbero vestite così leggere, ecc.»). 2. È compito dei filosofi rispondere a questo quesito, concernente il quid juris, cioè quali siano le regole che bisogna seguire per pervenire alla conoscenza, intesa come credenza vera giustificata. Di solito tale giustificazione viene intesa come ricerca di fondamenti sicuri che possano garantire l’edificio delle conoscenze, che su di essi deve essere eretto (è questo il cosiddetto approccio «fondazionalistico»), per cui viene così posta la questione delle fonti della conoscenza; in alternativa, si ritiene che una conoscenza sia giustificata in base alla sua coerenza, cioè al fatto che

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il sistema di credenze di cui essa è composta non contiene alcuna contraddizione, di modo che esse si sostengono le une con le altre, come avviene con i mattoni che reggono un muro. 3. Compete agli psicologi (o ai sociologi) la risposta a questa domanda, concernente il quid facti, ovvero il modo in cui effettivamente si comportano gli individui nel procurarsi le loro conoscenze (ad esempio, per sapere che tempo farà domani si potrebbe leggere nella sfera di cristallo, consultare uno stregone della pioggia, rivolgersi a un meteorologo oppure inferirlo dai propri dolori articolari). Più in particolare, a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, il compito di studiare i modi effettivi in cui si costituisce la conoscenza nella vita di ogni giorno e nel pensiero comune è divenuto compito delle cosiddette «scienze cognitive», espressione che indica un complesso di discipline specialistiche (neuroscienze, psicologia, intelligenza artificiale, filosofia, linguistica, antropologia) convergenti tutte, in modo interdisciplinare, nel tentativo di fornire una spiegazione scientifica dell’effettiva cognizione umana, intesa nella sua accezione più generale. 4. È possibile, infine, effettuare una comparazione tra le risposte date alle domande 2 e 3, in modo da poter rispondere alla domanda 4. È tipico dell’epistemologia tradizionale cercare di rispondere a tali quesiti «mediante la riflessione su casi possibili. Gli epistemologi descrivono i casi possibili, consultano le loro intuizioni per sapere se siano o no in presenza di una conoscenza e decidono su questa base se il caso esaminato dimostri o meno che l’analisi proposta è errata» (Feldmann). È importante osservare che fa parte di questo modo di intendere il lavoro dell’epistemologo la tesi che la risposta alla domanda 3 non ha alcuna rilevanza per la domanda 2. Nessun epistemologo tradizionale si sognerebbe di consultare un libro di neurofisiologia per sapere se le nostre credenze percettive sono affidabili o meno, in quanto la sua domanda sta a monte di questa stessa consultazione: trarre informazioni da un manuale di psicologia o neurofisiologia significa già conoscere ed egli si domanda se questa conoscenza sia conoscenza; per cui l’epistemologia rivendica una priorità concettuale e metodologica sulla scienza. Fondazionalismo e carattere normativo dell’epistemologia – Intesa in tal modo, l’epistemologia assume il carattere di una disciplina normativa; essa, cioè, indica delle norme sul modo in cui le nostre attività cognitive debbono essere condotte allo scopo di ottenere una conoscenza vera e giustificata. Ciò porta l’epistemologia ad assumersi un compito assai ambizioso: trovare il fondamento delle pretese di conoscenza avanzate dall’umanità, in ogni suo campo disciplinare, ivi compreso quello della scienza naturale. È questa la prospettiva «fondazionalistica»: compito dell’epistemologia sarebbe fornire alla scienza una base sicura, una classe di credenze indubitabili, di dati immediati, che stiano a fondamento di tutte le altre e sulle quali costruire l’intera conoscenza scientifica. In tal modo lo scienziato deve richiedere, per così dire, la garanzia di autenticità dei propri risultati all’epistemologo, che gli rilascia una sorta di certificato attestante il loro carattere di «fondata o giustificata conoscenza». Il filosofo, dunque, cui spetta il compito della riflessione epistemologica, si pone compiti assai ambiziosi: ambisce alla fondazione della conoscenza scientifica (vista come specificazione della conoscenza in generale), in quanto lui solo può risolvere in

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generale il problema della conoscenza; e ciò si attua facendo ricorso solo alle proprie forze, solo alla filosofia in quanto filosofia. In ultima istanza, l’orizzonte problematico in cui si pone l’epistemologia è definito dalla necessità di rispondere alla sfida scettica, dissipando l’ombra del dubbio dalle nostre conoscenze e assicurando loro una fondazione certa. Pertanto l’epistemologia viene intesa come una sorta di filosofia fondamentale, o prima philosophia, e si pone in perfetta continuità con quella tradizionale attività filosofica che ha affrontato il «problema gnoseologico». La storia dell’epistemologia verrebbe così a coincidere tout court con quella del problema della conoscenza, a iniziare dalla grecità classica: la maggior parte dei suoi problemi sono quelli discussi in dettaglio da Platone, Aristotele e dagli scettici antichi. Le origini cartesiane dell’epistemologia moderna – Il problema della conoscenza è stato posto in modo esemplare e radicale in età moderna da Cartesio, che ha gettato le fondamenta dell’epistemologia quale branca autonoma della filosofia, tracciandone le coordinate concettuali, sicché si è sostenuto che l’agenda epistemologica di Cartesio è l’agenda dell’epistemologia occidentale sino a oggi. In essa sono iscritti i problemi epistemologici fondamentali che da allora in poi tormenteranno i filosofi e costituiranno la carta d’identità della disciplina. Le proposte di Cartesio costituivano una prospettiva unitaria caratterizzata: a. da un’assunzione fondazionalista: una credenza può essere considerata autentica conoscenza, quando è fondata su di una base indubitabile; b. da un ideale deduttivista: è vera conoscenza quella che si può derivare in maniera rigorosa da tale fondamento esente da errori, così rispondendo al dubbio scettico; c. dalla conseguente ricetta per ottenere autentica conoscenza: dobbiamo scartare tutte quelle credenze che non siano immuni da dubbi o che non possano essere a queste ricondotte mediante una catena inferenziale. Questa proposta risentiva ancora di un insufficiente sviluppo del pensiero scientifico, per cui era modellata più sulla matematica che sulle scienze empiriche. Tuttavia in essa sono contenuti i temi che da allora hanno affaticato i teorici della conoscenza: il riconoscimento dei contenuti della coscienza (le «idee») quale punto di partenza del processo conoscitivo, e quindi il problema del rapporto tra il soggetto e l’oggetto, con la connessa esigenza di rinvenire i criteri che assicurano la corrispondenza tra concetti e realtà. L’impostazione cartesiana ha segnato l’epistemologia classica a tal punto che si è recentemente ritenuto il suo abbandono una svolta radicale, che ha addirittura portato alla «morte dell’epistemologia», causata in primo luogo dalle critiche effettuate dai cosiddetti teorici «antifondazionalisti». Essi criticano l’epistemologia in quanto vedono in essa «una disciplina non empirica, la cui funzione è di sedere in giudizio in merito a tutte le pratiche discorsive particolari in vista di determinarne lo statuto cognitivo. L’epistemologo […] è un professionista attrezzato in modo da determinare quali forme di giudizio sono “scientifiche”, “razionali”, “meramente espressive” e così via» (Williams). È contestata, insomma, la tendenza tipica dell’epistemologo ad assumere il carattere di giudice nei confronti della scienza. La preminenza del problema generale della conoscenza sul dato di fatto costituito dalla scienza è evidente anche in Hume. Non v’è dubbio sull’influenza della scienza newtoniana sul filosofo scozzese, in particolare in riferimento alla centralità del metodo sperimentale e al richiamo all’esperienza in ogni tipo di

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indagine filosofica. Tuttavia per Hume la scienza della natura umana precede logicamente ogni altra indagine, in quanto ogni ricerca trae la sua origine dall’attività della mente. Ne segue che un giudizio sull’oggettività e validità delle leggi stabilite nelle scienze naturali dipende dalle conclusioni cui possiamo giungere circa le possibilità e i limiti della conoscenza umana in generale. Pertanto diventa preliminare un’indagine sulla conoscenza umana in quanto tale, svincolata dalle particolari conoscenze scientifiche. La scienza naturale è in ultima istanza fondata sulla conoscenza della natura umana, sulla possibilità di esibire in quest’ultima le basi che la possono rendere certa. Bibliografia essenziale – K. Ajdukiewicz, Problems and Theories of Philosophy, Cambridge U.P., London 1973; M. Bunge, Treatise on Basic Philosophy, vol. 5, Epistemology & Methodology: Exploring the World, Reidel, Dordrecht-Boston-Lancaster 1983; V. Cappelletti, Epistemologia, in Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, vol. II; R. Feldmann, Naturalized Epistemology, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2001, ; C. Glymour, Dimostrare, credere, pensare. Introduzione all’epistemologia, Cortina, Milano 1999; A.C. Grayling, Epistemology, in Blackwell Companion to Philosophy, ed. by N. Bunnin, E.P. Tsui-James, Blackwell, Oxford 1996; A. Pagnini, Teoria della conoscenza, in Paolo Rossi, a cura di, La filosofia, vol. III, Le discipline filosofiche, UTET, Torino 1995; M. Williams, Death of epistemology, in A Companion to Epistemology, ed. by J. Dancy, E. Sosa, Blackwell, Oxford 1992.

Ermeneutica Gianni Vattimo Che cos’è l’ermeneutica – Il termine «ermeneutica» (dal greco hermeneutiké téchne) indica, nelle diverse discipline alle quali si applica, l’arte o la tecnica dell’interpretazione. Nata in Grecia, dove rimanda al nome di Hermes, il messaggero degli dei, l’ermeneutica si è poi sviluppata come «ermeneutica biblica», «ermeneutica giuridica», «ermeneutica letteraria» ecc. Accanto ai precedenti antichi (in particolare Aristotele e il suo trattato De interpretatione), lo sviluppo filosofico di questa disciplina si ha però soprattutto a partire dal pensiero dell’Ottocento e poi – più tematicamente – nella filosofia novecentesca. In questo quadro, l’ermeneutica ha assunto gradualmente un significato teorico più generale, fino a diventare una delle parole-chiave del pensiero contemporaneo. L’ermeneutica nella filosofia greca e medievale – Nei dialoghi platonici, i termini hermenéia ed hermenéuein ricorrono sostanzialmente in due sensi. Da una parte, Platone parla di hermenéia rispetto agli oggetti che «colpiscono il senso con impressioni tra loro opposte»: sono dunque interpretazioni le impressioni stesse prodotte dalle cose che, a differenza delle realtà che non pongono problemi all’intelligenza, richiedono invece un lavoro dell’intelletto volto a sciogliere le contraddizioni. Più che a un lavoro di comprensione di ciò che è contraddittorio, in questo caso il termine sembra fare riferimento al modo stesso in cui si coglie qualcosa di esterno, ma di immediatamente oscuro (Repubblica, 523b ss.; Teeteto, 209a). In altri testi platonici, invece, il verbo hermenéuein fa riferimento più strettamente all’arte della mediazione, per esempio quella che è tipica dei poeti, i quali si fanno interpreti dei messaggi

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degli dei (o degli oracoli) nei confronti degli altri uomini (Ione, 535a; Politico, 260d). È questo secondo significato, più del primo, ad avvicinarsi alla storia moderna del concetto. In Aristotele prevale, in senso più tecnico, l’utilizzo del termine hermenéia come «espressione»: così per esempio nel De partibus animalium (660 a 35), nel De anima (420 b 19) e nel titolo del De interpretatione, uno dei trattati che compongono l’Organon aristotelico. Nella stessa direzione si muovono Severino Boezio (476-525) e Tommaso d’Aquino, nei loro commentari all’opera aristotelica. In Tommaso, tuttavia, ricorre anche un altro significato del verbo interpretari, che sposta l’attenzione sull’elucidazione dei significati oscuri di un testo (Summa theologiae). Questa declinazione del termine è decisiva nel contesto medievale, dove la riflessione sul significato e sui modi in cui esso è trasmesso, si incrocia naturalmente con la riflessione sulla Sacra Scrittura. Anzi, se si prescinde dal termine interpretatio e dalle sue occorrenza specifiche, si può affermare che in molti sensi quello dell’interpretazione (della Scrittura) sia il problema al quale si erano applicati già gli sforzi teorici del Padri della Chiesa e in seguito le riflessioni degli Scolastici. Il problema dell’interpretazione nella filosofia moderna – La storia rinascimentale e poi moderna della nozione di interpretazione nasce da qui. O, meglio, nasce dall’esigenza di circoscrivere l’atto interpretativo, difendendolo dall’arbitrio e dai possibili abusi, derivanti da una considerazione ancora troppo generale. Se nel Medioevo, in chiave strettamente biblica, il problema dei «sensi della Scrittura» aveva trovato una sistemazione sotto la categoria dell’interpretazione figurale (fondata sulla lettura paolina dell’Antico Testamento come figura e allegoria profetica dei fatti del Nuovo Testamento, I Cor. 10, 1-11), in età umanistica questa lettura si accentua ulteriormente in pensatori come Marsilio Ficino (1433-1499) e Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494): qui la dottrina dei diversi sensi del testo scritturale si complica con l’inserimento di elementi simbolici di origine neoplatonica e cabalistica. È il contesto nel quale si muove il progetto di unificazione religiosa pensato da Pico, dove il ricorso all’elemento simbolico della Scrittura diventa il punto di partenza per riscoprire nelle diverse tradizioni religiose un bagaglio comune di contenuti. A questi tentativi, che trovano sistemazione per esempio nell’opera di Pietro Galatino, De Sacra Scriptura recte interpretanda (1526), si contrappongono altre soluzioni al problema dell’interpretazione, che privilegiano il sostrato spirituale della Scrittura, rispetto agli elementi simbolici. È il caso ben noto di Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e, ancor più, della Riforma protestante, la cui polemica contro le interpretazioni canoniche tocca proprio l’indebita accumulazione di letture figurali della Bibbia. L’obiettivo della Riforma (ma anche, simmetricamente, della Controriforma) è appunto quello di individuare un criterio che limiti gli arbìtri delle interpretazioni figurali: sebbene i due movimenti muovano da presupposti e con intenzioni radicalmente opposti (nelle confessioni riformate, il superamento dell’interpretazione «autoritativa» della Chiesa romana; nella Controriforma, la ricerca di un fondamento indiscutibile per tale autorità), è evidente che entrambi i percorsi si propongono di rispondere agli eccessi e agli abusi di cui abbiamo detto. A partire dal testo biblico, la centralità dell’interpretazione, come via d’accesso ai significati contenuti in un testo, si trasforma così in un problema di

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portata più generale. È, per esempio, il caso di Johann M. Chladenius (Guida alla retta interpretazione di scritti ragionevoli, 1742) e, ancor più, di Friedrich D.E. Schleiermacher (1768-1834). Proprio Schleiermacher e la sua Ermeneutica rappresentano in qualche modo l’atto fondativo della teoria dell’interpretazione moderna, per la quale si dà interpretazione ogni qualvolta si tratti di «comprendere» un testo dal quale ci separa una qualche «distanza» (storica, linguistica, psicologica...). In questo caso, il senso da interpretare (ovvero, tout court da comprendere) richiede una particolare mediazione del destinatario, non perché sia espressione della Trascendenza, ma perché è «altro» dal destinatario per ragioni strettamente culturali e dunque – si potrebbe dire – contestuali. Il «precetto» dell’ermeneutica di Schleiermacher è espresso bene dalla formula secondo la quale si tratta di «capire un discorso anzitutto altrettanto bene e poi meglio di quanto non lo capisse l’autore stesso». Emerge in tal senso una determinazione fondamentale dell’atto interpretativo, almeno nella sua declinazione otto-novecentesca: la centralità della storia come fattore di mediazione, al tempo stesso inevitabile e problematico, per l’interpretazione. In che misura, infatti, l’atto ermeneutico deve proporsi di ricostruire unicamente le condizioni storiche, in cui un dato testo si è prodotto (comprendere «altrettanto bene» quanto l’autore), o invece è chiamato a dare conto della successiva stratificazione di conoscenze, a valle del testo stesso (comprendere «meglio» di quanto non potesse fare l’autore)? L’ermeneutica come «koiné» filosofica contemporanea – Il legame tra storia e interpretazione è formalizzato in modo esplicito da Wilhelm Dilthey (1833-1911), per il quale la «vita spirituale» dell’uomo si esprime compiutamente soltanto nel linguaggio – e di tale espressione storica l’interpretazione è la forma di conoscenza più tipica: è interpretazione ogni atto di comprensione delle manifestazioni in cui la vita si fissa durevolmente; e, viceversa, l’insieme di queste manifestazioni non è altro che la storia. Si potrebbe ridurre la riflessione di Dilthey – che, lo ricordiamo, è sempre animata da un’intenzione fondativa nei confronti della scienza storica – a una formula: non c’è interpretazione senza storia (senza, cioè, la distanza storica tra l’interpretante e l’interpretato); e non c’è storia senza interpretazione (senza un atto che prenda le mosse dalla differenza di contesti di cui vive la comprensione). L’idea che l’interpretazione e la storia (o, meglio, la storicità) non possano prescindere l’una dall’altra è il filo conduttore che apre la riflessione novecentesca sull’ermeneutica, sebbene senza i toni vitalistici che caratterizzavano ancora l’indagine diltheyana. Martin Heidegger (1889-1976) è l’autore al quale si deve in larga parte l’aver inaugurato il dibattito novecentesco sul problema. In Essere e tempo (1927), egli arriva alla definizione del compito della filosofia come «analitica esistenziale», cioè come riflessione attorno alle determinazioni che fanno dell’uomo un «essere-nel-mondo», un’esistenza concreta nelle sue condizioni strutturali di possibilità. L’esserci (il Dasein, il termine con cui Heidegger connota il soggetto concretamente esistente) è «gettato» nel mondo, nel senso che la sua esistenza è già sempre costituita da una certa prospettiva sul mondo (una «pre-comprensione»). Ma poiché tale pre-comprensione si articola soltanto nel linguaggio, il rapporto con il mondo è mediato in chiave interpretativa: il linguaggio è un bagaglio di tradizioni al quale l’esserci attinge per rapportarsi al mondo e che dunque comprende di volta in volta interpretativamente.

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Se da una parte queste suggestioni trovavano un’implicita anticipazione nella filosofia di F. Nietzsche e nella sua idea dell’uomo come soggetto incluso in un gioco di interpretazioni molteplici sul mondo, il tratto più sistematico della riflessione heideggeriana è sviluppato da Hans-Georg Gadamer (1900-2002), che con il suo Verità e metodo (1960) arriva alla formalizzazione di una vera e propria ontologia ermeneutica. Per Gadamer, l’interpretazione è a tutti gli effetti un tratto ontologico (cioè una dimensione del mondo, prima che una caratteristica specifica dell’uomo); e lo è nella misura in cui l’essere stesso è linguaggio. Si può dire insomma che il mondo sia per Gadamer l’insieme delle prospettive linguistiche che si aprono sul «reale». E fare esperienza del mondo – da qui il tratto ontologico – significa contribuire direttamente all’incremento di senso di ciò che è: prima di ogni supposta oggettività, vi è il linguaggio con cui parliamo e, dunque, l’insieme dei significati da interpretare. La centralità della dimensione storica dell’interpretazione trova dunque un compimento nella coincidenza gadameriana tra «l’essere, che può essere compreso» e il linguaggio: siamo esseri storici, perché parliamo le nostre lingue, alle quali dobbiamo la prospettiva dentro cui pensiamo. Ma quest’esito, oltre che da Heidegger e ancor prima dall’ermeneutica ottocentesca, dipende dall’incontro tra la filosofia dell’interpretazione e la cosiddetta svolta linguistica della filosofia contemporanea (linguistic turn). Sotto questo titolo è raccolto un insieme di indirizzi che, con una certa approssimazione, può considerarsi accomunato dalla tesi secondo cui «non c’è pensiero senza linguaggio»: e non tanto nel senso dell’espressione linguistica di ciò che pensiamo, quanto secondo il principio per cui le risorse del pensiero (ciò che possiamo pensare) dipendono radicalmente da ciò che le lingue tramandate ci consentono di dire. È la chiave di lettura che tiene assieme autori molto diversi, da Ludwig Wittgenstein (1889-1951) a una parte importante della filosofia analitica (il linguaggio come «oggetto di analisi» della filosofia), fino alla cosiddetta «seconda generazione» della Scuola di Francoforte (Jürgen Habermas e Karl O. Apel: la razionalità come capacità di giustificare enunciati e comportamenti mediante argomentazioni). L’ermeneutica contemporanea ha tuttavia mantenuto una posizione specifica in questo contesto, proprio per la declinazione ontologica di cui si diceva: una declinazione che le ha consentito di individuare nel linguaggio non tanto un filtro attraverso cui leggiamo il mondo (al modo di una rilettura linguistica del neokantismo, come per esempio in Apel), ma come la struttura profonda della realtà stessa. Nell’approccio ermeneutico al mondo, insomma, l’interpretazione (della tradizione storica, ovvero del depositum culturale e linguistico in cui siamo gettati) diventa a tutti gli effetti il luogo in cui si fa la verità: il luogo in cui, cioè, il «vero» smette di essere una struttura oggettiva e data una volta per tutte, per diventare il prodotto del «conflitto delle interpretazioni» (Paul Ricoeur, 19132005), il risultato delle diverse «aperture» sull’essere (Luigi Pareyson, 1918-1991) o, ancora, dei successivi e sempre negoziabili accordi su ciò in cui si crede (neopragmatismo americano, pensiero debole italiano). Bibliografia essenziale – M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1997; J. Grondin, Gadamer. Una biografia, Bompiani, Milano 2004; M. Ravera, a cura di, Il pensiero ermeneutico. Testi e materiali, Marietti, Torino 1986; G. Vattimo, Tecnica ed esistenza. Una mappa filosofia del Novecento, a cura di L. Bagetto, B. Mondadori, Milano 2002.

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Esistenzialismo Michele Lenoci Che cos’è l’esistenzialismo: da stile di pensiero a moda filosofica – Si tratta di una corrente assai complessa, in cui convivono prospettive teoriche differenti e contrastanti: in ogni caso, l’esistenzialismo, soprattutto quando dalle serie, e un po’ cupe, aule tedesche è approdato sulle rive della Senna, è diventato un fenomeno di costume, ha ispirato e animato varie iniziative artistiche, letterarie e culturali e ha influenzato il modo di pensare e di vivere della gente comune, al di là delle difficoltà concettuali e delle astruserie analitiche. Comincia a delinearsi nel periodo tra le due guerre mondiali, per svilupparsi poi ed estendersi nel secondo dopoguerra, sino agli ultimi decenni del ventesimo secolo. Centri principali sono la Germania e la Francia, ma pure in Italia si sono avute manifestazioni significative e sottolineature originali. Esso nasce in polemica contro tutte le filosofie (in particolare, l’idealismo) che pretendono di offrire una spiegazione razionale ed esaustiva di tutto il reale, in cui l’uomo compaia, al pari degli altri enti, come oggetto di analisi teoretica e la storia possa essere adeguatamente compresa nel suo senso ultimo e nella sua direzione necessaria. Al pari dell’idealismo, anche il positivismo, per la sua dogmatica scientista e il suo semplicismo materialista, non riesce a cogliere la peculiarità della condizione umana e l’irriducibile ricchezza delle dimensioni storiche. L’esistenzialismo porrà l’accento su alcuni punti comuni in netta antitesi con quelle prospettive, anche se poi verranno collocati in contesti concettuali differenti e troveranno giustificazioni teoriche diverse: innanzi tutto, viene sottolineata la peculiarità dell’esistenza umana rispetto a tutte le altre cose del mondo e viene rivendicata la necessità di una comprensione che non renda l’uomo un oggetto al pari degli altri. In questa indagine vengono frequentemente messi a frutto le modalità e gli esiti del metodo fenomenologico husserliano. L’individuo umano è un singolo irriducibile, definito dalla concretezza della sua situazione, sempre particolare; per questo motivo, egli è strutturalmente e inevitabilmente finito e limitato, sicché, anche sul piano conoscitivo, non può pervenire a verità che non siano condizionate da una particolare situazione e riferite ad essa. D’altronde, la situazione non lo caratterizza in maniera esauriente e stabile; egli, essendo libero, può scegliere e decidere rischiosamente di sé e del proprio destino. Ne segue che modalità adatta all’esistenza umana è quella della possibilità (non della necessità o della realtà), che allude all’apertura verso una pluralità di opzioni e a un progetto, in cui ogni individuo decide del proprio futuro, mettendo continuamente in discussione se stesso attraverso le diverse forme dell’impegno. Si determina così un ambito di contingenza, di instabilità e di incertezza, con cui occorre convivere. Se la dimensione teoretica deve piegarsi a comprendere l’uomo, ricercando anche modalità concettuali nuove e pertinenti, in polemica nei confronti della filosofia tradizionale, non priva di venature irrazionalistiche, sarà rivalutato anche l’approccio emotivo al mondo e agli altri e l’angoscia costituirà il corrispettivo esistenziale di quella incertezza e di quel rischio cui si è costantemente esposti e in cui ne va sempre di se stessi. I precursori – L’autore che, a vario titolo, costituisce riferimento privilegiato per i vari pensatori esistenzialisti è il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855), che aveva duramente polemizzato con Hegel e la sua proposta di

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un sistema assoluto e totalizzante, per rivendicare, invece, il primato del singolo, costituito dalla sua relazione con gli altri io e, soprattutto, dal suo rapporto diretto e immediato con Dio, il Dio cristiano che interviene nella storia e offre all’uomo la scelta per la salvezza eterna, conseguibile attraverso una decisione assoluta. La possibilità e la scelta sono le strutture fondamentali dell’esistenza, sempre posta di fronte a un aut-aut, cioè ad alternative che nessuna sintesi può conciliare, e di fronte alle quali il singolo deve impegnare se stesso, giocando tutta la sua responsabilità. Il riflesso di questa vertigine della libertà è l’angoscia ed è sempre aperta la possibilità del peccato, cioè di scegliere il finito, rinunciando all’infinito e a Dio. La filosofia non delinea, allora, un cammino primariamente speculativo, ma percorre il sentiero etico della responsabilità, attraversando le forme dell’esistenza inautentica, in quanto siamo continuamente esposti alla possibilità del peccato e alla disperazione. La presenza del negativo accompagna l’esistenza e da essa l’uomo può uscire solo con un atto di fede, che non confida nelle proprie opere e nei propri meriti. Su alcuni di questi temi insiste anche un teologo protestante che ha molto influenzato la temperie esistenzialista: Karl Barth (1886-1968), il quale, nel suo famoso commento alla Lettera di S. Paolo ai Romani (Lettera ai Romani, 1919) respinge ogni tentativo di parlare di Dio in termini razionali, giacché non accetta che sia possibile una qualche analogia tra la realtà creata e il suo Creatore e l’unica parola di Dio all’uomo si riassume in Gesù Cristo. Per cui, la giustificazione verrà solo dalla fede, nella consapevolezza dell’infinita distanza dell’uomo rispetto a Dio. Un contributo rilevante ai temi e all’atteggiamento esistenzialisti è dato poi da pensatori della grande tradizione letteraria e religiosa russa: in particolare, Fëdor Dostoevskij (1821-1881), nei suoi romanzi, densi di riflessioni e di approfondimenti filosofici, mette in luce la paradossale tragicità dell’esistenza, ove bene e male sono spesso contigui, mentre i tratti dell’esistenza inautentica assumono l’aspetto di un tranquillo amoralismo, in cui la felicità sembrerebbe compatibile con uno stato di servitù volontaria e ben accetta. Sulla stessa linea si collocano figure che hanno influito molto sul pensiero occidentale, specie francese: Lev Šestov (1866-1938) e Nikolàj Berdjaev (1874-1948). Entrambi sottolineano i temi della libertà, del male e del peccato: il primo contrappone alla pretesa del razionalismo filosofico e scientifico il mistero, che avvolge l’esistenza nella sua tragicità e incertezza; il secondo, muovendo da un rifiuto della razionalità filosofica e scientifica moderna, mette in rilievo la solitudine esistenziale dell’uomo, che può essere superata solo ritornando al principio divino e collaborando liberamente al compimento della creazione. Esistenzialismo e umanesimo – Spesso l’esistenzialismo è collegato a una prospettiva umanistica, in cui, come si è accennato, l’analisi dell’esistenza concreta si accompagna a una rivendicazione della libertà e, insieme, alla sottolineatura della sua irredimibile finitezza e tragicità, sicché la componente religiosa, presente in molti precursori, viene abbandonata e permane solo in alcuni esponenti, che più chiaramente si rifanno all’esperienza cristiana. Karl Jaspers (1883-1969) accetta pienamente la sua appartenenza a questa corrente, a cui porta anche il contributo della sua iniziale competenza psichiatrica: il problema della chiarificazione dell’esistenza diventa filosofico, perché essa esige un approccio diverso da quello delle scienze, che contrappongono il soggetto all’oggetto e analizzano (soprattutto per gli aspetti quantitativi) i

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vari oggetti del mondo, ma non riescono a cogliere l’essere del mondo nel suo insieme, come abbracciante e trascendente tutte le singole cose. A questo essere occorre pervenire per chiarificare l’esistenza; ma un tale obiettivo sfugge anche alla filosofia, ove si limiti all’esercizio della pura ragione, giacché l’essere, inoggettivabile e trascendente, non è una possibilità dell’esistenza (come risulta dai tre volumi di Filosofia, 1932). L’esito però non si ferma allo scacco: se ogni esistenza, in quanto limitata, è colpevole e sempre parziale; se nella vita il male e la morte appaiono incombenti e inesplicabili; se la stessa comunicazione con le altre esistenze, necessaria perché in essa si può attingere la verità e si diventa reali e attivi, appare impossibile proprio a causa dell’unicità e irripetibilità di ogni esistenza, tuttavia queste situazioni-limite consentono di scoprire, attraverso il naufragio, la dimensione dell’essere che circonda e abbraccia tutto, ma che non è oggettivabile, né afferrabile con l’evidenza razionale. Piuttosto, si manifesta attraverso il linguaggio della cifra e del simbolo, in un modo indiretto e laterale, sempre inadeguato, perché condizionato dalla situazione e dal limite; di fronte al fallimento del linguaggio oggettivante, il silenzio consente di ascoltare, attraverso i segni visibili, il mistero e il senso dell’essere. Una visione più pessimistica della dimensione umana è presente in JeanPaul Sartre (1905-1980), un autore che, diventato il modello dell’intellettuale impegnato, nelle sue opere filosofiche e letterarie, ha dato all’esistenzialismo una formulazione classica, mentre lo rendeva anche una moda culturale. Ne L’Essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943) viene delineata una contrapposizione ontologica fondamentale tra l’in sé, l’essere comune a tutte le cose del mondo, reale, massiccio e opaco, e il per sé, corrispondente all’essere della coscienza, che è apertura intenzionale al mondo, collocata sì in una situazione di cui fa parte essenziale la corporeità, ma da essa non determinata, anzi sempre libera e capace in ogni momento di riprendersi e riprogettarsi. La coscienza pone sempre il mondo di fronte a sé e riesce a oggettivarlo; è aperta a molteplici possibilità e, scegliendo le une ed escludendo le altre, dà senso e valore a cose e situazioni che, in se stesse, sarebbero indifferenti. Per questo, rispetto al mondo, che è essere pieno, la coscienza è un nulla, non caratterizzata da alcuna essenza o natura, determinata e fissa: decidendo e progettandosi, il per sé delinea il suo volto e costruisce la sua essenza. Nell’uomo l’esistenza, cioè la libera scelta, precede, e delinea, l’essenza. Desiderio del per sé è quello di possedersi, di darsi consistenza, e, pur rimanendo se stesso, di diventare quell’in sé-per sé che equivarrebbe all’assoluto; ma questo obiettivo è irraggiungibile, perché contraddittorio, costituendo l’identificazione di due opposti. Nel suo denso saggio Sartre ripercorre le numerose tappe in cui questo tentativo concretamente si esplica, tutte destinate allo scacco; così come naufraga l’apertura agli altri. La conoscenza teorica, oggettivante, non riesce a cogliere l’altro uomo nella sua peculiarità, perché lo riduce a cosa; solo un’esperienza emozionale, come quella del sentirsi guardati, ci fa percepire tale alterità, ma, nello stesso tempo, si imbatte in un ennesimo fallimento, anzi in una serie di fallimenti. Lo sguardo dell’altro, mentre mi rende nota l’esistenza di un altro uomo e di un’altra coscienza, mi rende anche oggetto e, quindi, mi deruba di tutte le mie possibilità e della mia libertà; coglie in me quell’oggettività che io non riuscirò mai a essere, e lo stesso accade a me nei confronti degli altri, allorché li guardo: sicché tutte le forme di relazioni concrete con gli altri, come la comunicazione linguistica, l’amore, il desiderio, l’indifferenza, sino al masochismo e al sadismo,

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non riescono mai ad afferrare l’altro. Al massimo, ci si può impadronire del corpo dell’altro, ma la sua coscienza sfugge sempre ad ogni tentativo di possesso. Qui appare, da un lato, come sia ancora forte in Sartre l’influenza di Cartesio e, di là da ogni differenza, la sua impostazione fondamentalmente solipsistica: in essa l’uomo si identifica con la sua coscienza (sia pure situata), della quale si è sempre autocoscienti, senza che si possa entrare in vera interazione con altri uomini; d’altro lato, appare anche come la relazione intersoggettiva abbia solo l’aspetto di un tentativo asimmetrico di impossessarsi dell’altro e resti esclusa ogni altra forma di rapporto simmetrico, come quello della donazione gratuita o dell’amore non possessivo. Si comprende, allora, la tesi che l’uomo è una passione inutile, poiché desidera, come suo compimento, ciò che è strutturalmente impossibile ed è sempre destinato a sfuggire. Sartre cercherà di superare questo vicolo cieco, avvicinandosi, ideologicamente e politicamente, al marxismo e aprendosi così anche a varie forme di impegno e militanza: nella Critica della ragione dialettica (1960) si tenta di passare da una prospettiva individualista (ancora tipica di una società borghese) a una filosofia della prassi collettiva, con l’analisi delle varie forme di realtà sociali che agiscono in un contesto di costante penuria materiale rispetto ai bisogni. Anche qui, però, si ribadisce come l’obiettivo di una completa liberazione da ogni forma di alienazione sia irraggiungibile, in quanto l’alienazione si annida al centro dell’esistenza e tende sempre a risorgere, soprattutto quando il gruppo rivoluzionario, che inizialmente vince la passività e l’inerzia, si stabilizza e si fissa in organizzazioni e istituzioni. Esistenza e ontologia – Un impulso e insieme una svolta decisivi vengono impressi all’esistenzialismo dall’opera di Martin Heidegger, che con il volume Essere e tempo (1927) delinea i punti di riferimento di questa corrente e, insieme, segna anche una netta divaricazione rispetto agli esponenti di tale indirizzo. Heidegger dirà di non essersi mai considerato un esistenzialista e nella Lettera sull’«umanismo» (1947) polemizzerà duramente con l’interpretazione offerta dai filosofi francesi, e in particolare da Sartre, accusati di non aver inteso il vero senso del termine «esistenza», di concepire l’uomo in maniera inadeguata, ancorché in polemica con le antiche definizioni, di soffermarsi su analisi esistentive, miranti cioè a descrivere i caratteri effettivi della situazione umana concreta e disinteressate alla prospettiva autenticamente esistenziale, tutta concentrata sul rapporto tra essere ed ente. In effetti, fin dalle prime pagine di Essere e tempo, destinato a rimanere incompiuto (e anche questo fatto ha contribuito a creare il mito di un Heidegger esistenzialista), si sottolinea che intento primario è quello di raggiungere una comprensione dell’essere capace di afferrarlo nella sua radicale differenza rispetto a ogni altro ente del mondo, diversamente da quanto è avvenuto nel corso della metafisica, fin dalle sue origini, allorché l’essere è stato oggettivato, cioè è stato inteso come un ente, talora come quello sommo e assoluto, Dio, ma pur sempre un ente. Occorre, allora, riprendere l’antica questione: «che cosa è l’essere» per imboccare, ove possibile, una strada diversa. E per affrontare tale problema l’analisi dell’essere umano è prioritaria, in quanto l’uomo ha un rapporto intrinseco e privilegiato con l’essere: a differenza degli altri enti, egli si interroga sull’essere e questa domanda, come il modo di rispondervi, è costitutivo dello stesso modo di essere dell’uomo. Per sottolineare questo interesse ontologico, più che antropologico, Heidegger non parla di «uomo», ma di «Esser-ci» (Da-sein),

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a significare un ente che è situato (ci) e, insieme, non è mai dato una volta per tutte e trascende tutte le situazioni concrete, progettandosi, proprio in virtù del suo rapporto con l’essere. L’analitica esistenziale cerca, allora, di indicare le forme e le modalità secondo cui l’Esserci si declina, in una descrizione che sembra delineare un’antropologia fondamentale: e proprio in questo senso marcatamente antropologico il pensiero di Heidegger è stato inizialmente interpretato. L’essere gettato in una concreta situazione, di cui non si dà giustificazione e che resta come una colpa; le forme dell’esistenza inautentica, dispersa nella chiacchiera e negli equivoci, l’angoscia dinanzi alla mancanza di senso del mondo in sé, a parte il progetto dell’essere, la morte come quella possibilità che tutti hanno e di fronte alla quale tutte le altre possibilità vengono meno e si rivelano nella loro sostanziale indifferenza, l’importanza della decisione, con cui ci si assume con responsabilità un progetto, sono tutti temi affini a quelli sartriani, ma l’orientamento di fondo è radicalmente diverso. Essi dovrebbero servire a capire, attraverso le movenze dell’Esserci il suo rapporto con l’essere e, quindi, il senso dell’essere. L’intento primario è ontologico, come emergerà dal prosieguo della riflessione heideggeriana, anche se molte delle sue riflessioni hanno potuto trovare applicazioni antropologiche. Successivamente Heidegger rinuncia a una comprensione concettuale dell’essere, che sarebbe sempre oggettivante e inautentica. Egli intraprende, allora, una meditazione sul linguaggio e sui poeti, poiché lì meglio emerge quell’apertura all’essere costitutiva dell’Esserci; la comprensione dell’essere non dipende dalla raffinatezza speculativa di alcuni filosofi, ma dall’iniziativa dell’Essere, che nel corso della sua storia decide di manifestarsi in un certo modo, piuttosto che in altri. L’uomo è pastore dell’Essere, in quanto all’Essere è affidato e dell’Essere è manifestazione secondo una certa apertura. Bibliografia essenziale – K. Barth, Lettera ai Romani, Feltrinelli, Milano 1962; M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005; M. Heidegger, Lettera sull’»umanismo», Adelphi, Milano 1995; K. Jaspers, Filosofia, 3 voll., Mursia, Milano 1972-1978; P. Prini, Storia dell’esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, Studium, Roma 1989; A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, il Mulino, Bologna 1967; J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1964; J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, Milano 1963; J.-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1963.

Fenomenologia Michele Lenoci Che cos’è la fenomenologia: le premesse – Il termine è introdotto nel lessico filosofico da J. H. Lambert, che nella sua opera Nuovo Organo (1764) vede nella fenomenologia la scienza che studia le possibili fonti di errore, proprie degli oggetti della sensibilità, i quali, appunto, spesso appaiono ai sensi diversamente da come sono. Con Hegel il termine riceve un’integrazione e un ampliamento di senso: nella Fenomenologia dello spirito (1807) viene delineato il cammino della coscienza dalla conoscenza sensibile e naturale al sapere assoluto, in cui la coscienza è colta per quello che essa è, come spirito. Nell’epoca contemporanea, alla fine dell’Ottocento, la fenomenologia viene preparata dalle ricerche di psicologia descrittiva sviluppate da Franz Brentano

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(1838-1917), il quale, nella Psicologia dal punto di vista empirico (1874), individua la caratteristica essenziale, dei fenomeni psichici nell’intenzionalità, cioè nella loro capacità di essere diretti e orientati verso un oggetto, secondo diverse modalità. Attraverso l’introspezione possiamo avere una percezione evidente dei fenomeni psichici e darne una descrizione essenziale, che costituisce la premessa per ogni ulteriore studio di psicologia empirica. Con questo metodo vengono classificati i fenomeni psichici e su questa base viene elaborata sia una logica e una teoria della conoscenza, sia un’etica che spiega come si diano giudizi di valore dotati di evidenza apodittica. La nascita della fenomenologia e la sua struttura – A Edmund Husserl (1959-1938) si deve la fondazione di quella corrente che, con il nome di «fenomenologia», eserciterà grande influenza nel pensiero contemporaneo. Allievo di Brentano, provenendo da studi di matematica, nelle sue prime ricerche, ispirandosi ancora al metodo della psicologia descrittiva, si propone di trovare i fondamenti filosofici delle leggi logiche e li individua in alcuni atti psichici basilari, come la rappresentazione. Successivamente, anche grazie alle critiche di un eminente logico come Gottlob Frege (1848-1925), vedrà il carattere delle leggi logiche nella loro natura di enti ideali: questi non sono costituiti da dati di fatto, come le cose empiriche e contingenti (di cui si ha solo una conoscenza particolare e probabile), ma da essenze e da relazioni tra essenze (di cui si ha una conoscenza universale e necessaria). Su queste basi, Husserl, nelle Ricerche logiche, critica quell’impostazione, definita psicologistica, secondo la quale gli atti psichici costituirebbero il fondamento degli enti logici. La genesi psichica di un concetto non va confusa con il suo significato ideale, che è indifferente rispetto al fatto di essere o meno conosciuto o di essere esemplificato in qualche ente reale. Parlando di essenze, la fenomenologia non intende riproporre una forma di platonismo o di mondo delle idee, ma indicare il senso specificamente identico in oggetti individualmente diversi, la loro struttura immediatamente evidente, allorché si prescinda da (si metta tra parentesi) tutto ciò che non è accertato da una evidenza immediata. In questa prospettiva, si parla, allora, di una riduzione eidetica, grazie alla quale emergono le «cose stesse», cioè i significati che caratterizzano gli oggetti dell’esperienza quotidiana e ne determinano i nessi; i fenomeni da indagare non sono, perciò, apparenze ingannevoli, dietro cui starebbe una realtà inconoscibile, ma le cose nel loro senso intelligibile. La filosofia che studia tali essenze, coglie aspetti strutturali dell’esperienza e si qualifica come scienza rigorosa. Ma proprio perché le «cose stesse» devono manifestarsi con evidenza, diventa fondamentale indagare i modi con cui le essenze si danno alla coscienza e le condizioni perché vi sia esperienza, cioè percezione e conoscenza adeguate: richiamando la concezione brentaniana dell’intenzionalità, Husserl studia i caratteri dell’atto di coscienza e analizza le diverse modalità con cui esso, nelle sue diverse specie, si dirige a tipologie differenti di oggetti: tale correlazione intenzionale mette a tema i diversi vissuti di coscienza, gli atti che li caratterizzano e il dato di senso in essi immanente, cioè dato con evidenza immediata. L’obiettivo di Husserl, tuttavia, è quello di esplicitare le condizioni per una conoscenza adeguata: egli si chiede se e a quale livello il significato, inteso con il pensiero ed espresso attraverso il linguaggio, possa essere dato, in maniera esauriente e adeguata, in un’intuizione percettiva diretta. La sua conclusione sarà che solo la percezione immanente, quella con cui la coscienza riflette sui

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propri atti, per farli oggetto della sua descrizione, è in grado di offrire intuizioni sufficientemente compiute e adeguate. Gli oggetti della percezione trascendente, ossia quelli esistenti nel mondo che ci circonda, possono essere afferrati solo per aspetti, attraverso una serie di prospettive che non riescono mai ad esaurire la strutturale complessità delle cose spaziali. La riduzione trascendentale – A questo punto, soprattutto con le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913), la fenomenologia intraprende una svolta, che non sarà seguita dai primi discepoli di Husserl, appartenenti al circolo di Gottinga. Si tratta della riduzione trascendentale, in virtù della quale si prescinde (si mette tra parentesi, in epoché) la comune opinione dell’esistenza di un mondo, indipendente e autonomo. In tal modo, non si intende negare l’esistenza del mondo e abbracciare una concezione idealistica, ma ritrovare una base di evidenze intuitive ed originarie, che non possano essere revocate in dubbio e che offrano il punto di partenza per ricostruire i diversi sensi del mondo e dei suoi oggetti. La coscienza pura, come orizzonte ultimo entro cui appaiono i diversi ambiti del dato, risulta la dimensione non solo immediatamente evidente, ma anche ontologicamente prima, nel senso che non si può pensare di annullarla. La descrizione fenomenologica, richiamando la correlazione intenzionale, mette in luce come le differenti dimensioni oggettuali (noemi) assumano senso e si costituiscano a partire da diversi atti intenzionali: nel secondo libro delle Idee si ripercorre la genesi di senso del mondo materiale (retto da leggi di causa), della natura animale (determinata da condizionamenti) e della realtà psichica (governata da motivazioni ideali). Ulteriori tre tappe caratterizzano il percorso della fenomenologia: da un lato, la coscienza originaria si rivela non un io solipsistico, ma una pluralità di soggetti, che comunica attraverso il linguaggio e vive nella società e nella storia. Dall’altro, Husserl sottolinea come la coscienza non sia statica, né si frammenti in un’infinità di istanti giustapposti e irrelati, ma sia un fluire che avviene nel tempo. Raffinate analisi sono dedicate a studiare come passato, presente e futuro si avvicendino e si compenetrino, in modo che la loro successione non implichi una loro estraneità, ma si costituisca come un flusso di esperienza, in cui il ritenere ciò che si è appena percepito si connette con il percepire attuale e si apre a un futuro di percezioni ulteriori. In questo schema, assumono grande importanza i fenomeni della ritenzione e della protezione: allorché le sensazioni presenti scompaiono costituiscono come un alone, non più dato attualmente, ma capace di influenzare quanto viene attualmente percepito. Analogamente, la presenza di una percezione vissuta ha in sé un’attesa, un’anticipazione dell’immediato futuro. In terzo luogo, la fenomenologia si distingue in statica e genetica, così come la genesi può essere attiva o passiva. Questi sono i campi di ricerca su cui vertono molti degli scritti di Husserl lasciati inediti, i quali integrano e talora correggono il senso delle opere pubblicate. Mentre la fenomenologia statica si limita a indagare i rapporti tra percezioni già formate e a mostrare come una certa percezione ne presupponga un’altra a suo fondamento, quella genetica si propone di spiegare per quali motivi certi elementi sensoriali necessariamente portano a determinati tipi di oggetti. La genesi attiva, muovendo da oggetti già dati, delinea la costituzione di nuovi tipi di oggetti: quando un rettangolo di una certa stoffa viene appreso come una bandiera, si configura come un oggetto di tipo nuovo. La genesi passiva, invece, risale alle condizioni e

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ai costituenti sensibili di quegli oggetti che sono disponibili per successivi tipi di apprensione e di costituzione attiva. Ad esempio, noi incontriamo sempre oggetti già interpretati all’interno di un certo contesto culturale (il mondo in cui viviamo); tuttavia, essi devono originariamente esserci dati come cose spaziali, aventi tre dimensioni, in quiete o in un certo tipo di moto, dotati di fluidità o durezza ed altre qualità sensibili: l’oggetto culturale viene preparato da un tipo di apprensione percettivo-sensibile, che nel suo costituirsi segue dei percorsi studiati, appunto, dalla genesi passiva. Questo tipo di analisi mette in evidenza due ulteriori aspetti: da un lato, emerge l’importanza della coscienza temporale; infatti, grazie alla temporalità si determinano quelle sintesi associative, quelle tendenze e quelle aspettative, che fondano la credenza nella realtà di un oggetto e nella sua identità permanente attraverso il mutamento. D’altro lato, si nota come la prospettiva fenomenologica, colta nella sua integralità, è ben lontana da ogni tentazione idealistica. Husserl insiste, piuttosto, sulla necessità di indagare il livello pre-logico e quello delle originarie formazioni sensibili, che risultano comunque date alla coscienza e non poste da essa. Proprio alla luce della correlazione intenzionale, l’intento della fenomenologia è quello di ricostruire i percorsi della coscienza in cui appaiono regolarità, che sono però intrinseche al dato. Fenomenologia e filosofia – Ne L’idea di fenomenologia (1906-1907) Husserl vede la fenomenologia come una scienza rigorosa, che possiede un atteggiamento di pensiero specificamente filosofico. Essa ribadisce l’esigenza di una fondamentale criticità, sicché il «principio di tutti i principi» consisterà proprio nel richiamo a un’intuizione immediatamente evidente, che offra da sé il dato, mettendo tra parentesi tutte le opinioni del senso comune. Questa corrente di pensiero non propone quindi solo un nuovo metodo e un nuovo atteggiamento verso il mondo; è anche questo, ma è una ricerca che, mediante una descrizione essenziale, giunge a cogliere i sensi stratificati e sedimentati nei diversi oggetti, portandoli ad evidenza e rendendoli espliciti. E per questo motivo, soprattutto, essa pretende di essere scienza rigorosa in un senso rinnovato. Si potrà così rimediare alla crisi che, secondo Husserl, l’Europa stava vivendo negli anni Trenta, a causa di una crisi delle scienze, che si accompagna alla loro potenza trasformatrice. Le scienze, che sono sorte delimitando il loro campo di indagine oggettuale, hanno poi dimenticato questa origine e hanno preteso di attribuire alle loro oggettivazioni un valore di originarietà, di autonomia e di assolutezza. Il richiamo della fenomenologia trascendentale può offrire alle scienze un orizzonte di senso, che le riconduca a quel mondo di esperienza prescientifico, da cui esse sono sorte; in tale orizzonte, la razionalità, liberata dai ceppi naturalistici, ritrova la forza di additare lo scopo cui la conoscenza deve tendere e in cui l’umanità europea può, alla fine, trovare la sua realizzazione. Gli sviluppi della fenomenologia – La prima espressione della corrente fenomenologica è costituita dalla pubblicazione dell’«Annuario di filosofia e di ricerca fenomenologica», nel quale compaiono studi che mettono in luce sia la ricchezza della nuova impostazione, sia la pluralità di prospettive, da cui lo stesso Husserl non tarderà a prendere le distanze. A Gottinga si forma il «Circolo fenomenologico» con i primi discepoli, fra cui A. Reinach, J. Daubert, Th. Conrad, D. von Hildebrand, H. Conrad-Martius, R. Ingarden, E. Stein. Con questi, tuttavia, sorge ben presto un’incomprensione a causa della svolta trascendentale, che ad

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essi appare una ricaduta nel vecchio idealismo. Essi proseguiranno verso indagini di ontologia realista, in cui la conoscenza svolge un ruolo certamente attivo, ma derivato e non costitutivo. Su questa stessa linea si collocano filosofi come Max Scheler (1874-1928), che applica la fenomenologia all’etica, all’antropologia e alla filosofia della religione, e Nicolai Hartmann (1882-1950), che, pur non essendo mai stato allievo di Husserl, ne utilizza il metodo per ricerche di ontologia e assiologia, in una minuta suddivisione delle diverse sfere dell’essere, nella loro strutturale trascendenza rispetto alla coscienza. Negli anni di insegnamento a Friburgo l’allievo principale è Heidegger, che Husserl indicherà anche come suo successore: ma intorno al 1928 si palesa il dissenso tra i due, in quanto il discepolo non accetta il riferimento primario alla coscienza, né la relazione tra soggetto e oggetto come luogo originario di manifestazione dei fenomeni; inoltre, ritiene che non sia raggiungibile l’assenza di presupposti e l’evidenza originaria, giacché tutto quanto appare è sempre soggetto a un’interpretazione e inserito in un contesto. In Francia la corrente fenomenologica trova seguaci originali e fecondi: in particolare, Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), che sottolinea come la coscienza sia sempre situata in un corpo, nel mondo e in un contesto storico: suo compito è quello di ritrovare il senso delle diverse situazioni. Sartre, oltre ad alcune ricerche sull’immaginario in chiave fenomenologica, sviluppa un’ontologia il cui carattere fondamentale sarà la radicale alterità tra la coscienza (il per sé) e il mondo (l’in sé): la prima è un nulla rispetto al secondo, perché solo così può essere apertura intenzionale a tutto e assoluta libertà da ogni condizionamento. Bibliografia essenziale – F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, Laterza, Bari 1997; R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, il Mulino, Bologna 1992; V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002; E. Husserl, L’idea della fenomenologia: cinque lezioni, Il Saggiatore, Milano 1981; E. Husserl, Meditazioni cartesiane. Con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, Il Saggiatore, Milano 1989; E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002; M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1972; R. Raggiunti, Introduzione a Husserl, Laterza, Bari 1991; J.-P. Sartre, L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Einaudi, Torino 2007; J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965.

Filosofia analitica Francesco Coniglione Che cos’è la filosofia analitica: il problema della definizione – Forse non esiste corrente filosofica che conosca altrettante incertezze nella caratterizzazione dei propri confini concettuali e storici quanto la filosofia analitica. Infatti, se in passato era consueto indicare con tale espressione la corrente scaturita dal secondo Wittgenstein e dalla riflessione sul linguaggio comune, praticata per lo più presso le università di Oxford e Cambridge, in tempi più recenti il concetto si è esteso al punto di comprendere quasi tutta la riflessione filosofica a partire da Russell sino alla sua fase americana, sicché sotto il suo segno ricadono Moore, Wittgenstein, la Oxford-Cambridge Philosophy, il neopositivismo, la fase della sua dispersione e disseminazione, sino a giungere all’ultimo ventennio del secolo. Per questo negli

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ultimi anni i confini che separano la filosofia analitica dalle altre tradizionali pratiche filosofiche si sfumano al punto che alcuni ne annunciano oggi la fine. Alla base di tale dilatazione sta la difficoltà di trovare criteri univoci e condivisi per identificare con esattezza cosa si intenda con «filosofia analitica». Un metodo di indagine (applicabile indifferentemente a ogni campo del sapere filosofico) oppure un insieme di dottrine condivise? Il privilegiare un certo tipo di problemi a preferenza di altri oppure, più semplicemente, la comune accettazione di una certa genealogia intellettuale? Tutti criteri discutibili e inadeguati. La stessa idea di «analisi filosofica» e il modo di intendere la «chiarezza», a cui essa dovrebbe portare per risolvere, dissolvere o mettere nella giusta luce i problemi filosofici tradizionali, hanno ricevuto numerose e diverse interpretazioni. Dalla filosofia scientifica a quella analitica – Un punto di partenza plausibile può essere il programma nella seconda metà dell’Ottocento che si è palesato intorno al concetto di «filosofia scientifica». Essa esprime l’esigenza di rendere sempre più rigorosa ed esatta la filosofia; di pervenire a una filosofia che tenga conto dei risultati cui le scienze sperimentali sono giunte e assuma nei riguardi dei propri campi di indagine il medesimo rigore mostrato dalla scienza. La filosofia scientifica pone l’esigenza di un linguaggio simile a quello della matematica, seguendo un’esigenza pressante di tutti i pensatori moderni che dalle scienze naturali o dalla matematica hanno tratto ispirazione per proporre una filosofia rinnovata, non più invischiata nelle tradizionali controversie. All’inizio del Novecento i suoi primi e più convinti sostenitori sono George H. Moore (18731958) e Bertrand Russell (1872-1970). Russell ne fa un programma consapevole trovandone lo strumento fondamentale per raggiungere precisione e chiarezza nella nuova logica matematica, che egli edifica, in rapporto all’opera di Peano, insieme a Whitehead e in sintonia con l’altro suo fondatore, il matematico tedesco Gottlob Frege (1848-1925). V’è innanzi tutto la volontà di far piazza pulita della filosofia tradizionale, sottoponendo ad analisi rigorosa tutte le nozioni da essa tradizionalmente usate (quali realtà, percezione, causa, materia, spazio, tempo, mente ecc.); e poi la consapevolezza che la scientificità si può conseguire solo eliminando dall’indagine filosofica ogni sua funzione consolatoria, ogni intento compensativo rispetto all’aridità attribuita alla scienza, ogni considerazione etica. Tuttavia la filosofia analitica ha anche le sue radici nella tradizione mitteleuropea. In effetti la sua storia nel cuore dell’Europa può farsi iniziare nel 1874 con Franz Brentano, il cui motto è Vera philosophiae methodus nulla alia nisi scientia naturalis est. All’inizio del Novecento, poi, a Vienna comincia anche a riunirsi un gruppo –il matematico Hans Hahn, il fisico Philipp Frank e il sociologo Otto Neurath tra gli altri – accomunato da un’autonoma riflessione su filosofia e scienza, che ruota intorno alle domande: «come è possibile evitare le ambiguità e le oscurità tradizionali della filosofia? Come possiamo realizzare un accostamento, quanto più possibile intimo, tra filosofia e scienza?» (Frank). È la medesima esigenza espressa da Brentano e poi perseguita dai suoi allievi (con una consistente diramazione in Polonia nella scuola di Leopoli-Varsavia, fondata da Twardowski), ma su cui la «prima generazione» del Circolo di Vienna innesta influenze e istanze che ne trasformano i connotati. A incidere in modo decisivo è la pubblicazione del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, che ha una grandissima influenza sia nell’elaborazione del cosiddetto «atomismo

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logico» di Russell, sia nella trasformazione del modo di considerare il compito della filosofia da parte dei viennesi. Ciò causa una rapida transizione dalla filosofia scientifica a una filosofia meramente sussidiaria alla scienza, intesa come chiarificazione del significato, per giungere infine alla sua liquidazione con la sintassi logica di Carnap. Nondimeno, della precedente esperienza resta l’utilizzo della logica formale come strumento indispensabile d’analisi, l’esigenza della chiarezza del discorso teorico e infine la dimensione linguistica del filosofare. In tale inclinazione si può vedere il tratto più significativo che accomuna la filosofia analitica alla metascienza (e alla filosofia della scienza o epistemologia). Tuttavia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la filosofia analitica si interesserà prevalentemente al linguaggio comune, laddove l’analisi del linguaggio della scienza diventa prerogativa della filosofia della scienza (o della metascienza). Si tratta della filosofia analitica legata al secondo Wittgenstein – quello dell’insegnamento a Cambridge degli anni ’40 e delle Ricerche filosofiche pubblicate del 1953 – e alla riflessione di Gilbert Ryle (1900-1976) e John L. Austin (1911-1960). Il metodo dell’analisi – La filosofia scientifica che ha in mente Russell è «minimalista»; è gradualista, in quanto vuole risolvere i suoi problemi un passo alla volta; è consapevole che non tutto può essere risolto e che molto va lasciato alla scienza. Ma ha ancora una sua funzione autonoma, non ridotta a un mero ruolo ancillare rispetto alla scienza: restano infatti «un gran numero di problemi dichiaratamente filosofici» (Russell, Sul metodo scientifico), per affrontare i quali è necessario trovare quel nuovo metodo che rappresenti l’anàlogon del metodo trovato da Galilei per la fisica. Quel metodo logico-analitico è reso possibile dalla nuova logica matematica e si concreta nel cosiddetto «metodo dell’analisi». Tale metodo ha costituito una tipica specialità britannica: Locke ha ripreso l’esigenza cartesiana di chiarire le idee mediante la loro scomposizione nelle cosiddette «idee semplici»; Berkeley, ha rivolto la metodologia analitica alla demolizione delle idee non giustificate in base all’esperienza; Hume ha arricchito la metodologia analitica con la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche, che sarà un elemento caratterizzante del neopositivismo. La funzione dell’analisi filosofica diventa a questo punto chiara: per ogni concetto ambiguo è necessario operare una riduzione, in grado di ricondurlo a un rapporto tra fatti o a nessi di idee. Il momento fondante della tradizione analitica in filosofia è l’annuncio di una nuova logica contenuto nel saggio di Moore The Nature of Judgement (1898). Poco dopo, nella sua opera su Leibniz, Russell afferma: «Che ogni filosofia valida debba incominciare con l’analisi delle proposizioni è una verità troppo evidente, forse, da dover richiedere una prova» (Esposizione). In Russell il metodo dell’analisi, assai più che in Moore, deriva dall’applicazione ai problemi epistemologici generali della teoria delle costruzioni logiche. Per caratterizzare questa differenza, si è denominata l’impostazione russelliana come «logico-analitica», e se ne indica il più importante esempio in On Denoting (1905). Questo saggio introduce l’idea che si debba tener distinta la struttura grammaticale (superficiale) da quella logica (profonda) di una proposizione: solo la trasformazione della prima nella seconda garantisce la possibilità di cogliere la verità dell’enunciato. La struttura della proposizione sta in profondità, può essere espressa più o meno accuratamente in un enunciato, grazie alle risorse fornite dalla logica; quest’ultima, secondo Russell, ci permette dopo secoli di confusioni di scoprire la struttura reale che regge il

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nostro discorso. Onde, lo scopo dell’analisi filosofica – che finisce col coincidere con l’analisi logica – è trovare la proposizione che riflette nel modo più accurato la struttura dell’enunciato cui siamo interessati. È così fissata una caratteristica distintiva della pratica analitica in filosofia: ogni proposizione ambigua o problematica deve essere «tradotta» in maniera da mostrarne l’autentica forma logica che ne esibisca la struttura profonda. La logica diventa il metro di riferimento cui riportare ogni problema filosofico, permettendo di dissezionare i concetti confusi e complessi in concetti più semplici, sino a giungere a quelli in qualche modo connessi direttamente con l’esperienza, che permette di fornire loro il significato originario. Il metodo analitico è l’analogo del metodo che nelle scienze ha portato a comprendere la natura dei fenomeni mediante la loro scomposizione nelle parti che li compongono (molecole, atomi, elettroni, protoni ecc.). Questa analogia ha fatto sì che tale procedura analitica fosse anche chiamata, da Russell e Wittgenstein, «atomismo logico», in quanto si basa sull’idea che vi sono nella realtà delle componenti semplici (gli «stati di cose» o «fatti») a cui corrispondono nel linguaggio le cosiddette «proposizioni atomiche» (del tipo, «il tavolo della mia stanza è rotondo»). Scopo del lavoro filosofico è pertanto quello di pervenire a una perfetta trasparenza del linguaggio, che esprime nel modo più esatto possibile la struttura del reale, cui esso corrisponde. Tale approccio porta inevitabilmente a ritenere il linguaggio un argomento degno di considerazione filosofica: esso può costituire un ostacolo, un’insidia che ci può distogliere dal cogliere la vera forma logica sottostante agli enunciati e quindi necessita della nostra attenzione al fine di evitarne le trappole. Ma Russell è innanzi tutto un filosofo scientifico che si serve dell’analisi per portare a termine il proprio programma filosofico. Manca in lui la cosiddetta «svolta linguistica», in quanto per lui la logica non si riduce alla mera analisi del linguaggio (ordinario o scientifico), ma verte sulla struttura del reale, ne descrive le proprietà più profonde. La filosofia analitica nel secondo Novecento – Dopo la Seconda Guerra Mondiale metodo dell’analisi e svolta linguistica si congiungono a Oxford e a Cambridge. In quest’ultima università si fa sentire l’insegnamento di Wittgenstein, il cui netto distacco dalle tesi sostenute nel Tractatus (decisive invece per l’evoluzione di Russell) maturato negli anni Trenta confluisce nell’opera postuma Ricerche filosofiche (1953). In particolare viene abbandonata l’idea di una realtà costituita di stati di cose semplici che possono essere tradotte in un linguaggio perfetto. In tal modo anche la nozione di raffigurazione del reale da parte del linguaggio perde vigore e il significato delle proposizioni viene legato all’uso che di esse viene fatto dalle comunità umane: «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (Ricerche, § 43). Il linguaggio è fatto di molteplici «giochi linguistici» che non riflettono alcuna realtà metafisica, ma solo la condizionatezza storica e culturale delle diverse comunità. Anche la logica perde il suo statuto privilegiato e non diviene altro che un gioco linguistico come gli altri. Il compito della filosofia è allora quello di chiarire le regole che stanno alla base dei vari giochi linguistici e di dissipare gli equivoci che possono nascere nella mente dell’uomo dalla loro ignoranza; si tratta sì di mettere ordine al nostro linguaggio, ma questo è «uno dei molti ordini possibili; non l’ordine» (Ricerche, § 132). La filosofia non è più una chiarificazione logica dei pensieri, ma piuttosto un’attività terapeutica: essa ci libera dai «crampi mentali» causati dalla non chiara coscienza delle regole e del modo in cui funzionano i giochi linguistici: «la filosofia è una battaglia contro

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l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio» (Ricerche, § 109). Essa non ha nessuno scopo cognitivo in quanto non spiega e dimostra nulla, non sostiene «tesi» o «teorie» filosofiche, non scopre alcuna verità, ma si limita solo alla chiarificazione del pensiero, che significa descrizione dei modi in cui funzionano i molteplici giochi linguistici messi in atto dall’umanità. Per fare un esempio, gli scacchi sono governati da regole la cui ignoranza porta l’inesperto a fare errori nelle mosse o a perdere la partita: conoscere le regole che governano tale gioco permette di effettuare le mosse giuste senza incorrere in errore; e le mosse sono errate solo in quanto non rispettano le regole del gioco. Compito della filosofia è quello di delucidare le regole dei giochi linguistici, che irriducibilmente eterogenei non sono accomunati da alcuna «essenza», semmai da una «somiglianza di famiglia». Ne deriva che «i risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto nonsenso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio» (Big Typescript, § 90, 13). Sulla scia dell’insegnamento di Wittgenstein i suoi allievi a Cambridge (J. Wisdom, M. Black, R. Rhees, G.H. von Wright, G.E.M. Anscombe, P. Geach, N. Malcom, St. Toulmin) muoveranno verso una radicalizzazione della concezione terapeutica della filosofia e della sua connessione con la psicanalisi di John Wisdom (1904-1993). Nell’altro centro della filosofia analitica, Oxford, John L. Austin e Gilbert Ryle, insieme a Peter Strawson (1909-2006) e Paul Grice (1913-1988), dedicandosi prevalentemente all’analisi del discorso ordinario o comune, hanno sottolineato, invece, l’importanza e la straordinaria ricchezza, per cui esso è anche deposito di opportunità teoriche che possono poi fruttificare nelle scienze specialistiche. Con gli analisti di Oxford-Cambridge, quindi, l’interesse non è più rivolto al linguaggio della scienza, bensì a quello ordinario; inoltre, la sua analisi non assume a proprio modello la logica formale, ma è piuttosto attenta a rivalutare l’esperienza vissuta espressa nel linguaggio ordinario, facendone emergere l’intrinseca e naturale saggezza e quindi facendolo diventare norma e misura di autentico significato. Ma ciò comporta anche la crisi della filosofia scientifica: la filosofia consiste solo in un’opera di chiarificazione concettuale la cui pietra di paragone è costituita dal linguaggio comune. Il divorzio consumato col neopositivismo tra scienza e filosofia a favore della sintassi logica del linguaggio scientifico (dando origine alla «filosofia analitica della scienza»), viene consumato nella filosofia analitica inglese del secondo dopoguerra a favore del linguaggio ordinario e di una filosofia intesa come terapia linguistica, deprivata di ogni potenzialità cognitiva. Il destino della filosofia analitica – Con la fine degli anni Sessanta si ha un tramonto dell’interesse per il linguaggio ordinario e una rinascita di interesse per la metafisica intesa come «descrizione» della struttura del nostro pensiero e del funzionamento dei nostri concetti, specie all’interno della tematica dei mondi possibili, dell’etica e della filosofia politica. Dagli anni Settanta in poi si ha anche un recuperato interesse per la fondazione delle scienze empiriche, che però non si limitano alla sola fisica, ma comprendono anche la biologia e la psicologia. Infine v’è chi ha dichiarato, come Richard Rorty in Philosophy and the Mirror of Nature (1979), la bancarotta della filosofia analitica, avendo essa mancato tutti i suoi obiettivi e in particolare quello di fornire i fondamenti ultimi della conoscenza e di costruire una filosofia scientifica priva di presupposti. In Rorty si manifesta anche il tentativo di ridurre la distanza tra la filosofia analitica e quella classica europea, sviluppata principalmente nel mondo tedesco e pertanto detta «conti-

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nentale». Per Rorty, infatti, la filosofia analitica può costituire quella disciplina rigorosa fondamentale in grado di affrontare in modo nuovo i problemi della filosofia tradizionale, che così diventano risolubili. In conclusione, la filosofia analitica è un indirizzo di pensiero ben distinto sia dalla filosofia scientifica sia dalla filosofia della scienza, avendo una sua precisa collocazione che la sottrae al destino di servire da passepartout qualora la si faccia solo coincidere con la filosofia che accetta la svolta linguistica o col metodo dell’analisi. Essa tuttavia recupera, con il tramonto dell’impostazione terapeutica di Oxford-Cambridge, la caratteristica più rilevante del programma della filosofia scientifica, ovvero la volontà di affrontare i problemi filosofici per cercare di risolverli, preservando così al pensiero filosofico un suo oggetto rispetto a quello scientifico: è insomma sopravvissuta la tesi che le proposizioni filosofiche sono portatrici di una loro specifica verità, anche se il «metodo analitico» è ormai l’espressione vaga di un’esigenza di chiarezza e precisione. Bibliografia essenziale – A. Antiseri, Filosofia analitica. L’analisi del linguaggio nella Cambridge-Oxford Philosophy, Città Nuova, Roma 1975; F. D’Agostini e N. Vassallo, a cura di, Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2002; M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica, il Mulino, Bologna 1990; P. Frank, La scienza moderna e la sua filosofia, il Mulino, Bologna 1973; A.P. Martinich and E. Sosa (eds.), A Companion to Analytic Philosophy, Blackwell, Oxford 2001; A. Pagnini, Filosofia analitica, in Paolo Rossi, a cura di La filosofia, vol. IV, Stili e modelli teorici del Novecento, UTET, Torino 1995, pp. 147-186; B. Russell, Esposizione critica della filosofia di Leibniz (1900), Longanesi, Milano 1971; B. Russell, Sul metodo scientifico in filosofia (1914), in Id., Misticismo e logica, Newton Compton, Roma 1971; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), Einaudi, Torino 1967; L. Wittgenstein, The Big Typescript (1932), Einaudi, Torino 2002.

Filosofia del linguaggio Francesco Coniglione Che cos’è la filosofia del linguaggio: definizioni – La filosofia del linguaggio (o filosofia linguistica) può essere intesa in due modi: come una particolare corrente filosofica, che si incarna in una serie di pensatori e ha delle tesi specifiche da sostenere (riserviamo a essa il nome di «filosofia linguistica»); o come un particolare settore della filosofia, che studia un aspetto peculiare ed essenziale dell’attività umana – il linguaggio – analogamente a come fanno l’epistemologia, l’estetica o la filosofia della scienza (denominiamo questa con la locuzione «filosofia del linguaggio»). La filosofia linguistica – La filosofia linguistica indica la prospettiva generale di quei filosofi che rivolgono la loro attenzione al linguaggio inteso come il luogo privilegiato in cui sono affrontati i problemi filosofici. Essa risale alla cosiddetta «svolta linguistica», la quale, secondo la definizione fornita da Richard Rorty, introduce «la concezione secondo cui i problemi filosofici sono problemi che possono essere risolti (o dissolti) o riformando il linguaggio, o ampliando la conoscenza del linguaggio che usiamo» (Difficoltà metafilosofiche). In tal modo il linguaggio diventa l’unico mezzo per affrontare ogni problema della filosofia e di conseguenza ogni aspetto della realtà, nella convinzione che l’attività filosofica sia essenzialmente un lavoro di secondo grado: «le proposizioni della filosofia non sono fattuali, ma hanno carattere linguistico – cioè, esse non descrivono il

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comportamento di oggetti fisici o mentali, ma esprimono definizioni o la conseguenze formali di definizioni» (Ayer, Language Truth and Logic). I linguaggi devono pertanto essere analizzati, dissezionati, parzialmente ricostruiti, o ricreati ex novo, allo scopo di chiarirli, purificarli e/o renderli immuni da ogni equivoco che ne possa inficiare la validità o possa trarci in inganno. La filosofia linguistica può prendere due diverse strade. Può essere intesa come tentativo di costruire un linguaggio ideale che abbia doti di chiarezza, mancanza di ambiguità ed esattezza, indispensabili a evitare la tradizionali confusioni filosofiche. In questo caso si procede di solito a creare veri e propri linguaggi artificiali che – diversamente da quelli naturali – siano costruiti in base a un vocabolario e a regole di formazione delle parole e delle frasi esattamente definite e che non lasciano alcuno spazio agli equivoci. Alla base di questa esigenza di costruire un linguaggio ideale v’è l’idea che i problemi filosofici sono generati dal linguaggio e una volta riformulati in modo adeguato e logicamente ineccepibile, essi vengono dissolti: la costruzione artificiale di un linguaggio ideale permette tale opera di purificazione linguistica della filosofia. Questa è la strada inaugurata dal pensiero del logico tedesco Gottlob Frege, quindi proseguita da Bertrand Russell in Inghilterra, approfondita da Ludwig Wittgenstein nella sua prima opera, il Tractatus logico-philosophicus (1921-1922), e infine fatta propria dai neopositivisti logici a Vienna, che la percorsero principalmente per l’analisi delle teorie scientifiche, per poi diffondersi nel mondo anglosassone, e non solo, col dopoguerra. Ma la filosofia linguistica può essere anche intesa come analisi descrittiva del significato delle parole e delle proposizioni contenute nel linguaggio comune, nella convinzione che i problemi filosofici possono essere risolti (e non dissolti) accertando quale sia il significato autentico da attribuire alle parole in esso impiegate. Tale indirizzo che ha origine nelle riflessioni del secondo Wittgenstein si è espresso in particolare nelle università di Cambridge e di Oxford, sicché si parla in genere di Oxford-Cambridge Philosophy. Sia nell’una che nell’altra variante, la filosofia linguistica è spesso assimilata alla filosofia analitica: vi sarebbe un unico movimento che ha inizio con la «svolta linguistica» nata, per Michael Dummett, con Frege e Wittgenstein, quando viene stabilito l’assioma centrale della filosofia analitica, ovvero «il principio per cui l’analisi del pensiero passa per l’analisi del linguaggio» (Alle origini della filosofia analitica). La filosofia analitica poi proseguirebbe col neopositivismo, per arrivare, dopo la filosofia del linguaggio del secondo Wittgenstein, ai nostri giorni. Tuttavia questa visione unitaria è stata di recente posta in discussione; si è constatato come «molte tesi filosofiche di fondo, che per alcuni filosofi linguistici valgono come ragioni per adottare metodi linguistici, vengono rigettate da altri filosofi linguistici che nondimeno persistono nell’usare gli stessi metodi» (Rorty, Difficoltà metafilosofiche). Inoltre, vi sono nel Novecento indirizzi filosofici molto impegnati sul piano del linguaggio che non possono essere classificati come analitici o appartenenti alla filosofia linguistica, come di solito la si è intesa (basti pensare a Jacques Derrida e all’ermeneutica o anche a Heidegger); e viceversa vi sono filosofi analitici, che tuttavia non sottoscriverebbero mai le tesi della filosofia linguistica (come Russell). Sembra pertanto più plausibile intendere la filosofia linguistica come l’orizzonte unitario all’interno del quale si colloca una molteplicità di indirizzi filosofici, come anche di discipline specialistiche: la filosofia analitica, il neopositivismo, l’epistemologia del Novecento, ma anche certi indirizzi teologici

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o storiografici, aventi tutti al loro centro il tema del linguaggio, inteso come luogo privilegiato di accesso ai problemi della filosofia. La filosofia del linguaggio – Lo studio filosofico del linguaggio (distinto da quello storico o filologico) ha una lunga storia, potendo la sua origine esser fatta risalire al pensiero greco, con il movimento sofista, per passare alle riflessioni di Platone nel Cratilo, alle concezioni di Aristotele e quindi a quelle medievali, per arrivare all’età moderna con i logici di Port-Royal, Leibniz, Locke, Humboldt, J.S. Mill, sino all’età contemporanea. La filosofia del linguaggio si interessa a tutta una serie di problemi e si suddivide di conseguenza in numerose subdiscipline. Ci si può infatti occupare delle parti del linguaggio, distinguendone la sintassi, la semantica e la pragmatica; può essere oggetto di analisi il problema del significato delle proposizioni e dei termini che entrano a far parte del linguaggio; si può analizzare il tipo di relazione che esiste tra il linguaggio e il mondo e l’uso che del linguaggio viene fatto dai parlanti; può essere esaminato il rapporto tra linguaggio e mente o pensiero; o ancora tra società e linguaggio, come anche problemi più specifici, come gli atti linguistici o la funzione retorica. Essa costituisce una vera e propria branca autonoma del pensiero filosofico, caratterizzata da prospettive diverse e spesso divaricate, il più delle volte legate a indirizzi filosofici di più ampio raggio, per cui esiste un approccio romantico al linguaggio, oppure positivista, idealista, neokantiano, fenomenologico e così via. Tuttavia tra i filosofi del linguaggio odierni si è consolidata la tradizione che risale alle riflessioni di coloro che vengono considerati i «classici della filosofia del linguaggio» e che abbiamo incontrato come ispiratori della «filosofia linguistica» nella sua prima accezione (costruzione del linguaggio ideale) – Frege, Russell e Wittgenstein. Le idee elaborate da costoro sono riprese dalla tradizione neopositivista, specialmente con Rudolf Carnap (1891-1970), e nelle riflessioni di molti altri pensatori collocati all’interno della cosiddetta «filosofia analitica del linguaggio». Questa, a sua volta, ha numerosi punti di contatto sia con la già ricordata «filosofia linguistica», sia con la «filosofia analitica», perché gli strumenti logico-linguistici elaborati dai padri fondatori della filosofia del linguaggio costituiscono un patrimonio comune diversamente utilizzato per differenti obiettivi. Tuttavia, mentre nella filosofia linguistica e nella filosofia analitica si mantiene l’idea originaria dei tre padri fondatori – i problemi filosofici sono essenzialmente problemi di linguaggio, che quindi possono essere o dissolti/risolti mediante una loro riscrittura in una lingua ideale oppure con l’analisi e la descrizione degli usi del linguaggio ordinario – invece gran parte dei filosofi del linguaggio della generazione successiva ha abbandonato tale visione. Questioni come quelle della «conoscenza», della «giustizia», della «verità», ecc. non possono essere affrontate solo mediante un approccio linguistico, ma indicano nessi problematici reali; si deve far sì uso del patrimonio logico-linguistico, ma garantendo la specificità e l’autonomia del pensiero filosofico rispetto alle altre discipline scientifiche. Si tratta, insomma, di riprendere l’ideale della «filosofia scientifica», restituendo al pensiero filosofico un compito che non è più quello di servire alla chiarificazione dei concetti scientifici, a illustrare la logica della scienza o di pura terapia del linguaggio: nella sostanza il progetto di Russell rivive in forme nuove, fortificato dalle acquisizioni tecniche maturate nel campo della logica e della filosofia linguistica, e i cui protagonisti sono nel corso degli anni Sessanta-Ottanta pensatori come W. v. O. Quine, M. Dummett, R. Montague e D. Davidson.

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Gli assunti fondamentali che stanno alla base della filosofia del linguaggio così intesa ruotano intorno al problema del significato e alla semantica degli enunciati complessi. In sostanza ci si concentra non sui singoli termini, né su enunciati che ad esempio esprimono un comando, ma sugli enunciati dichiarativi (che indicano uno stato di cose come «Parigi è la capitale della Francia»), il cui significato si identifica con le loro condizioni di verità. Queste ultime dipendono dallo stato di cose a cui gli enunciati corrispondono nel caso in cui sono veri, oppure dalle condizioni o procedure empiriche che portano alla loro verifica. Ne segue che il valore semantico di un enunciato complesso (formato da più enunciati semplici come «Parigi è la capitale della Francia e Roma è la capitale dell’Italia») dipende funzionalmente dai valori semantici degli enunciati semplici che lo costituiscono e dal modo in cui essi sono connessi, ovvero dalla loro sintassi (nell’esempio precedente, la connessione sintattica è assicurata dalla congiunzione «e»). Per la determinazione del valore semantico degli enunciati vengono esclusi tutti gli altri eventi o atti mentali che possono accompagnare l’enunciato: le rappresentazioni, i sentimenti o ogni altro evento mentale associabile alle espressioni linguistiche. È questa la conseguenza della distinzione fatta da Frege nel suo famoso saggio Senso e denotazione (1892), nel quale si distingue per ogni elemento linguistico (nomi propri, predicati, enunciati) il piano oggettivo della denotazione (Bedeutung, o «estensione» o «significato») da quello soggettivo del modo in cui una data denotazione viene concettualizzata dalla mente, ovvero il senso (Sinn, o «intensione»). Facciamo l’esempio di Frege: quando usiamo l’espressione «la stella del mattino» indichiamo un particolare oggetto, un determinato corpo celeste, ovvero il pianeta Venere; analogamente quando utilizziamo l’altra espressione «la stella della sera» denotiamo il medesimo oggetto, ovverossia sempre Venere. Possiamo pertanto affermare che le due espressioni hanno sensi diversi ma identica denotazione. Per cui ogni «segno» possiede un senso e una denotazione. In tal modo Frege espelle ogni contenuto mentale dalla definizione del significato degli enunciati, che pertanto viene riassorbito completamente nella dimensione conoscitiva: è il caratteristico antipsicologismo di gran parte del pensiero logico-epistemologico del Novecento. Bisogna tuttavia aggiungere che a partire dagli anni Settanta il paradigma freghiano è stato sottoposto a critiche sempre più decise, che vanno in una duplice direzione: una progressiva riduzione o addirittura eliminazione della nozione di senso per identificare il significato con la sola denotazione o riferimento (è la teoria del riferimento diretto sostenuta da Saul Kripke, che riprende un’originaria idea di Russell); oppure una rivalutazione della pertinenza per la teoria semantica dei processi esclusi dall’antipsicologismo freghiano, cioè tutti quelli legati al senso e alla rappresentazione soggettiva, senza i quali è impossibile pervenire a una comprensione del linguaggio effettivamente usato: indirizzano in questa direzione le scienze cognitive che hanno portato a una rivalutazione del mentalismo e dei processi cognitivi legati alle rappresentazioni presenti nel soggetto. Notiamo infine che la filosofia del linguaggio in anni più recenti ha spesso incrociato i suoi problemi e le sue soluzioni con la linguistica teorica o generale. Quest’ultima è una specifica disciplina che mette in atto lo studio «scientifico» del linguaggio inteso come facoltà di comunicare e di stabilire una relazione interpersonale, collegando segni linguistici e significati, con intento prevalentemente descrittivo e sistematico, allo scopo di individuare le regole e le leggi che governano in generale il linguaggio umano, come si è storicamente costituito. Dal

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linguaggio vengono distinte le lingue, ovvero le diverse attuazioni storiche che di tale potenzialità si sono avute nelle diverse comunità umane. La fondazione scientifica della linguistica si fa risalire all’opera dello svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913), con il suo Corso di linguistica generale (pubblicato postumo nel 1916), ma il linguista che più ha influenzato sia le scienze cognitive sia la ricerca dei filosofi del linguaggio è stato Noam Chomsky che si è proposto il compito di descrivere la grammatica universale che sta alla base di ogni lingua e che presenta principi e leggi invarianti, da cui derivano le singole lingue mediante una diversa specificazione dei suoi parametri. L’interesse cognitivo di tale approccio sta nel fatto che tale grammatica universale è da Chomsky strettamente relata alle caratteristiche fisiche del cervello e possiede pertanto carattere innato, in quanto esprimerebbe certe strutture neurologiche di base comuni in tutti gli esseri umani. Bibliografia essenziale – D. Antiseri, La filosofia del linguaggio. Metodi, problemi, teorie, Morcelliana, Brescia 1973; A.J. Ayer, Language, Truth and Logic (1936), Penguin Books, London et al. 1990; M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica (1988), il Mulino, Bologna 1990; D. Marconi, La filosofia del linguaggio, in Paolo Rossi, a cura di, La filosofia, vol. I, Le filosofie speciali, UTET, Torino 1995; C. Penco, Introduzione alla filosofia del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2005; R. Rorty, Difficoltà metafilosofiche della filosofia linguistica (1967), in Id., La svolta linguistica, Garzanti, Milano 1994; M. Santambrogio, a cura di, Filosofia analitica del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1992; R. Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari 1990.

Marxismo Giovanni Mari Che cos’è il marxismo – Il termine «marxismo» designa un indirizzo di pensiero che si ispira alla riflessione filosofica e teorica (politica ed economica) di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895). Si tratta di un indirizzo che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento ha avuto una grande influenza nella cultura europea e internazionale, anche per aver fornito le basi culturali e teoriche del movimento operaio, sorto dalla Rivoluzione industriale settecentesca, e dei partiti e sindacati socialisti e comunisti che tale movimento hanno rappresentato; oltreché per aver ispirato la Rivoluzione Bolscevica Russa del 1917, la successiva costituzione dell’URSS e quella di numerosi Stati nati sul modello sovietico. Gli avvenimenti storici e sociali hanno indissolubilmente intrecciato la recezione e l’interpretazione del marxismo alla politica, almeno fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino e della fine senza ritorno dell’esperienza degli Stati socialisti iniziata nel 1917. Tale intreccio ha indubbiamente favorito e ampliato la diffusione del marxismo, ma ne ha anche irrigidito e fortemente limitato la libera interpretazione e lo sviluppo teorico. Oggi, che l’ipoteca politica istituzionale e partitica sul marxismo si è praticamente dissolta, quando il pensiero di Marx appartiene prima di tutto ai grandi classici della storia del pensiero europeo, sorge l’esigenza di un bilancio di questo indirizzo e del significato che esso può ancora avere per noi. Sorge soprattutto la domanda, in un’ottica post-marxista del valore di Marx, del significato che può avere per noi il suo pensiero indipendentemente dalla storia del marxismo ufficiale. Una «frattura epistemologica» – Alla storia del marxismo appartengono idee, autori e fatti di grande rilievo, elementi che non possono essere scordati, se

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non altro perché di essi è profondamente intessuta la storia europea degli ultimi centocinquanta anni. Una storia in cui si intrecciano libertà, emancipazione e totalitarismo, e che occorre cercare di analizzare in maniera serena e oggettiva anche se si tratta di avvenimenti assai recenti. Si tratta di un patrimonio di cui si fanno ancora fortemente sentire effetti e risultati da cui è impossibile prescindere. Certi caratteri strutturali dell’Europa di oggi sarebbero incomprensibili senza tener conto di ciò che hanno significato per questa regione del mondo il movimento operaio e le istanze di democrazia, giustizia sociale ed emancipazione che esso ha inscritto nelle politiche sociali e istituzionali del continente. Culturalmente si può dire che nessuna disciplina o indirizzo teorico importante si è sottratta dal fare i conti col marxismo e non abbia cercato di definirsi o distinguersi anche nel confronto con esso. Sul piano sociale solo il cristianesimo ha avuto un’analoga importanza e ampiezza di influenza e diffusione molecolare, e sul piano culturale il parallelo va istituito con avvenimenti quali la rivoluzione scientifica dell’età moderna, l’illuminismo o il romanticismo, oppure la psicoanalisi. La filosofia, la teoria economica, la storiografia, la religione, la teoria politica, il diritto, l’arte, la psicologia, le scienze sociali e antropologiche, soprattutto, ma anche la scienza e la linguistica, almeno per certe loro implicazioni sociali, si sono confrontate col marxismo, dimostrando che esso non è solo un insieme di tesi e risultati, ma anche un modo di considerare le idee e gli eventi, un’impostazione se non un metodo di ricerca. Un’impostazione che considera lo sviluppo storico della società come il risultato di fattori sovraindividuali che le idee possono esprimere, interpretare, favorire o ostacolare, ma non determinare, giacché esso scaturisce dallo scontro dei bisogni e degli interessi materiali (economici) che presiedono alla riproduzione della vita e ai rapporti sociali di produzione, in cui storicamente tale riproduzione accade. Filosoficamente questo modo di considerare le idee si è rivelato rivoluzionario (una «frattura epistemologica», l’ha definito Althusser), perché la filosofia ha sempre rappresentato quel sapere che colloca le idee e la parola al primo posto, in quanto fattori da cui dipendono direttamente la vita collettiva e individuale, nonché il mondo – ridotto coerentemente al mondo conoscibile la cui esistenza e natura oggettiva sono affidate a una credenza piuttosto che a una spiegazione. In questo senso il marxismo costituisce una critica radicale di ogni filosofia tradizionalmente intesa: «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo», scrive Marx nelle Tesi su Feuerbach (1845), affidando così alla filosofia il compito di commisurare la critica e l’elaborazione delle idee al loro significato e alla loro efficacia sociale. Le fasi storiche del marxismo filosofico – La storia filosofica del marxismo è in gran parte una rilettura e una ridescrizione dei grandi temi della storia della filosofia e dei nuovi obiettivi indicati ad essa alla luce di questa «frattura epistemologica». Obiettivi non estranei a tale tradizione, ma, dopo Marx, non più affrontabili nella stessa maniera. La storia del marxismo, intesa come storia della rilettura dei temi tradizionali della filosofia, presenta alcune fasi peculiari: 1. un periodo iniziale – che potremo chiamare il periodo del marxismo filosofico della Seconda Internazionale e della costituzione della «concezione del mondo» (weltanschauung) marxista – aperto dalla sistemazione della dottrina contenuta nell’ Antidüring (1878) di F. Engels, fortemente influenzato dal positivismo ottocentesco, cui rea-

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giscono pensatori dell’idealismo come gli italiani Benedetto Croce e Giovanni Gentile; 2. un secondo periodo, il cui inizio risale alla pubblicazione di Storia e coscienza di classe (1923) di Georg Lukács (1885-1971) e di Marxismo e filosofia (sempre del 1923) di Karl Korsch (1886-1961), che hanno proposto una sorta di ‘hegelo-marxismo’ in polemica con il dogmatismo staliniano; a questa fase appartiene anche la composizione dei Quaderni del carcere (1929-1935) di Antonio Gramsci (1891-1937), che vede l’incontro del marxismo con le tematiche e i metodi tipici della filosofia continentale europea e che si distingue dal coevo marxismo di Lenin e dell’ortodossia della Terza internazionale; 3. il periodo, che inizia a cavallo della fine degli anni Sessanta e che arriva alla prima parte degli anni Ottanta del Novecento, caratterizzato da un ritorno ai testi di Marx, sottratti alla tradizione marxista, e da una nuova interpretazione in cui spicca il nome di Louis Althusser (1918-1990); 4. un’ultima fase, l’attuale, in cui la lettura di Marx e degli altri classici del marxismo non ha l’intenzione di costituire o prolungare una tradizione marxista e che fa parte della «fortuna» del classico Marx (una post-storia del marxismo). Sfide e rielaborazioni filosofiche del marxismo – In questa storia è possibile individuare alcune problematiche particolarmente sensibili sulle quali la filosofia è stata sfidata dal marxismo, cui, in molti casi, ha anche saputo rivolgere critiche efficaci. Mi limito a indicarne alcune di carattere più strettamente filosofico, tralasciando la teoria economica e quella politica in senso stretto, anche se queste due aree rappresentano il cuore della ricerca di Marx. a) La concezione della storia. Marx ha in comune con Hegel l’idea che esistano epoche storiche caratterizzate da un’unità di tutti i fenomeni materiali e spirituali che le caratterizzano; che la successione delle epoche costituisca un progresso che ha un senso, cioè che ha una direzione verso un fine; che il motore della storia sia ad essa intrinseco e abbia la forma della contraddizione che procede superandosi («dialettica della storia»). Diversamente da Hegel, Marx interpreta i termini della contraddizione come fatti della vita materiale (produzione e scambio di beni, interessi economici e di potere, rapporti sociali e giuridici di proprietà) orientati ed espressi dalle idee e dalle forme della cultura («materialismo storico»). Se per Hegel il fine della storia è la libertà, per Marx la storia che l’umanità moderna attraversa ha come fine il comunismo. La critica filosofica ha rilevato sia la fecondità dell’idea di una storia a base materiale (che ha profondamente rinnovato gli studi storiografici), sia l’insostenibilità del teleologismo unilineare e deterministico che Marx ha in comune con Hegel e col cristianesimo (K. Löwith, Significato e fine della storia,1949). b) La concezione dell’etica. Il marxismo tende a non interessarsi all’etica individuale e a interpretare quella collettiva come espressione degli interessi economici, sociali e politici delle classi. La filosofia, prima di tutto quella kantiana, ha reagito a questa visione semplificata elaborando all’inizio del Novecento un neokantismo di ispirazione marxista e un socialismo di impronta kantiana (K. Kautsky, M. Adler, H. Cohen, K. Vorländer, F. Staudinger, L. Woltmann, F. Mehring) che insistono sul momento autonomo dell’etica e della morale soggettiva, e sul peso degli ideali nell’azione pratica. Queste problematiche sono successivamente sfociate, a cavallo della seconda guerra mondiale, nell’elaborazione di un umanesimo marxista (A.

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Schaff, E. Fromm, H. Marcuse, L. Goldmann, L. Kołakowski) e in forme di esistenzialismo (J.-P. Sartre) e di ripresa della dimensione utopica (E. Bloch). c) La concezione della conoscenza. Il marxismo contiene, ancorché non compiutamente sviluppata, un’idea della conoscenza che Marx ha tracciato nella sua critica all’idealismo e al materialismo settecentesco, e che è presente nella presunta scientificità della propria concezione della storia. Una conoscenza per Marx è scientifica essenzialmente sotto due aspetti: per la sua capacità critica nei confronti dell’esistente, cioè per non essere ideologica, e per la sua efficacia pratica. Questi aspetti gnoseologici del marxismo sono stati discussi nella filosofia marxista italiana (in particolare negli anni Cinquanta: G. Preti, G. Della Volpe, L. Geymonat e successivamente L. Tagliagambe, C. Luporini), nella filosofia tedesca (anni Sessanta: J. Habermas, H.J. Krahl) e in quella francese (anni Settanta: M. Merleau-Ponty, L. Althusser e la sua scuola, L. Goldmann, A. Badiou). Si è trattato di discussioni assai vivaci e contrastanti, che comunque hanno ottenuto due importanti risultati. Da un lato, hanno moltiplicato le interpretazioni di Marx mettendo il marxismo a confronto con la più avanzata ricerca filosofica; dall’altro, hanno definitivamente sotterrato una certa idea della dialettica che Marx (e soprattutto Engels) aveva ereditato da Hegel, facendone lo schema logico di ogni ricerca razionale. Ciò ha riavvicinato il marxismo, sia alla ricerca scientifica e sperimentale moderna, sia alle filosofie della prassi (J. Dewey). d) Alcuni indirizzi particolari. L’incontro del marxismo con la tradizione filosofica e la ricerca teorica ha dato vita ad alcune esperienze assai rilevanti che si sono tradotte in veri e propri indirizzi di pensiero che hanno caratterizzato, per originalità e vivacità, il dibattito filosofico novecentesco a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Ne ricordo le più significative: la Scuola di Francoforte, facente capo all’Istituto per la ricerca sociale dell’Università di quella città, cui sono appartenuti e appartengono filosofi come M. Horkheimer, T. Adorno, H. Marcuse, J. Habermas, A. Honneth che ha fatto del marxismo la chiave teorica per una ricca analisi critica della moderna società capitalistica e delle sue espressioni culturali; l’esistenzialismo, soprattutto francese, che ha ripreso in chiave marxista i temi della libertà, della scelta morale e dell’impegno politico dell’intellettuale (A. Camus, J.-P. Sartre, S. de Beauvoir, P. Nizan); l’incontro tra marxismo e strutturalismo alla cui luce si è assistito a una rilettura in chiave scientifica e antiumanistica dei testi di Marx (L. Althusser, E. Balibar, N. Pulantzas) e allo sviluppo di tutta una serie di ricerca innovative nelle scienze sociali, umane e linguistiche (C. Lévi-Strauss, M. Godelier). Bibliografia essenziale – P. Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1977; Storia del marxismo contemporaneo, Feltrinelli, Milano 1973; Storia del marxismo, Einaudi, Torino 1978-1982; P. Vranicki, Storia del marxismo, Editori riuniti, Roma 1971.

Nichilismo Federico Vercellone Che cos’è il nichilismo – Il nichilismo non costituisce una dottrina filosofica se non in rarissimi casi. Esso è piuttosto una questione legata al sorgere della modernità quale età della crisi. E coinvolge la cultura nel suo insieme dalla reli-

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gione, alla filosofia, all’arte, alle scienze. Il nichilismo esprime, infatti, un’acuta sofferenza connessa al consapevole e travagliato trapasso alla modernità matura, quella che in tedesco viene definita Moderne, ovvero un’età «moderna» che è tale non per i posteri ma per i suoi stessi protagonisti. In altri termini, quando la modernità diviene un programma, lì si ritrova il nichilismo. Ne proponiamo qui tre modelli, quello romantico, quello dostoevskiano e quello nietzschiano per offrire una prospettiva che contempli in nuce tutte le altre opzioni ivi comprese quelle che si svilupperanno nel Novecento. Sostanzialmente infatti il nichilismo esprime tre chances teoriche rappresentate eminentemente dalle tre posizioni appena citate. Potremmo riassumerle in questo modo: 1. il nichilismo come estetizzazione del «mondo della vita»; 2. il cristianesimo quale motivo fondante della civiltà occidentale e della sua crisi; 3. la volontà di potenza come motivo di omologazione del mondo nell’ambito di un immane conflitto energetico e di prospettive. L’estetizzazione del «mondo della vita» – Il nichilismo viene avvertito al suo affacciarsi con il romanticismo tedesco come una rottura dell’ordo amoris, di quella mediazione trascendente che fa dell’universo cristiano un cosmo ordinato. È l’emergere prepotente della soggettività a produrre il nichilismo, laddove esso non deriva tanto dal suo improvviso agonistico potenziamento, ma da un’angosciosa perdita di mondo che causa, quasi per contraccolpo, una sorta di superfetazione egoica. È Fichte in prima battuta l’imputato di questa svolta dirompente. E a Fichte che si rivolge polemicamente Jacobi in Jacobi a Fichte, una lettera aperta del 1799 nel quale accusa la Dottrina della scienza di essere una sorta di invito al nichilismo. Agli occhi di Jacobi, Fichte riterrebbe infatti che nulla esiste al di fuori dei prodotti della nostra immaginazione. In questo quadro il nichilismo è un fenomeno derivante da un’esuberanza della soggettività che viene intesa dagli avversari dell’idealismo come creatrice di mondi fantasmatici. È quanto Jacobi afferma nella lettera aperta a Fichte: «Per il fatto che io risolvendo e smembrando sono giunto ad annullare tutto quello che è al di fuori dell’io, mi si è mostrato che ogni cosa era un bel nulla al di fuori della mia immaginazione libera ma ristretta entro certi limiti». Su questa base si congiungono i due piani che costituiscono l’asse portante di quasi tutta la riflessione successiva sul nichilismo: all’assenza di realtà viene a sommarsi la scomparsa di quel fondamento ultimo che tiene insieme platonicamente il vero, il bello e il buono. Allo svuotarsi della realtà si accompagna, così, lo svuotarsi degli orizzonti assiologici sino a produrre una sorta di crisi generale dei punti di riferimento. È questa la strada sulla quale si incamminerà il nichilismo romantico a partire dalla polemica tra Fichte e Jacobi i cui termini si ripercuoteranno su personalità intellettuali che non necessariamente sono influenzate l’una dall’altra: da Tieck a Kleist, a Clemens Brentano, a August Klingemann, a Jean Paul. Per altro verso, l’Io viene a prospettarsi come una prospettiva totalizzante al di fuori della quale nulla esiste. Dinanzi allo strapotere dell’Io decade infatti non solo Dio, non solo la realtà si svuota, ma verrà meno, infine, anche l’uomo inteso come correlato finito dell’infinità divina. Il nichilismo e il paradosso del Cristo – La crisi nichilistica viene a modificare i propri orizzonti per ritrovarsi in tutt’altro ambito, con altre fattezze, nella cultura russa in particolare con Dostoevskij. Sono in particolare i Fratelli Karamazov (1879-80) a farsi testimoni di questa peculiare intonazione del nichilismo. Parti-

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colarmente significativo – dando seguito all’interpretazione che magistralmente ne fornisce Luigi Pareyson – è il discorso del Grande Inquisitore proposto da Ivan al fratello Alëša. Secondo il Grande Inquisitore – dietro il quale si cela Ivan medesimo – gli uomini, che hanno assaggiato il frutto dell’albero del bene e del male, tendono a deporre questo dono, a metterlo nelle mani di chi ne sappia davvero disporre. La libertà è, a ben vedere, dono vero per pochi, soltanto per coloro che sanno levarsi alla perfezione della volontà, mentre per gli altri è un insostenibile tormento. In breve Cristo è accusato dall’Inquisitore di aver sopravvalutato gli uomini, e, con ciò, di averli condannati al dolore e all’infelicità. Il supremo dei compiti è dunque quello di servire la felicità umana, la felicità di tutti gli uomini, della maggioranza dei deboli e incapaci di reggere vittoriosamente alla vertigine della libertà. Si tratta dunque di riprendere dalle loro mani quel dono che si è rivelato un amaro insostenibile calice. Allontanato lo sguardo dall’abisso della libertà, si schiude la via di un progresso indefinito; esso rimuove il male, ne smentisce il carattere radicale, ne fa una questione sociale. Ma, dinanzi a una prospettiva di questa natura, si delinea un resto inconsumabile: questo resto è rappresentato dalla «sofferenza inutile», in particolare da quella dei fanciulli. Questo scandalo è così grande da mettere in questione l’equilibrio del creato e, infine, Dio stesso. Abbiamo a che fare con un controsenso inconsumabile; esso non chiede di essere capito, ma di non venire rimosso. La negazione di Dio da parte di Ivan e la prospettiva di un mondo totalmente amministrato, come si profila nel discorso del Grande Inquisitore, prendono le mosse da questo resto inconsumabile. Nella prospettiva del Grande Inquisitore a venire estirpata è propriamente la coscienza del male, o meglio: il male stesso in quanto evento insostituibile dinanzi al quale la coscienza deve prendere posizione. Quando il terzo dei fratelli, Dmitrij, decide di far propria una condanna ingiusta e di andare in Siberia, lo fa guidato da un sogno. Sogna di una madre che, in un villaggio distrutto, trattiene tra le braccia un bimbetto dalle braccia nude, dalle mani che si sono fatte livide per il freddo. Sempre nel sonno Dmitrij s’interroga sul perché di questo dolore, e avverte l’esigenza di ovviarvi subito, senza porre tempo in mezzo. Al risveglio Dmitrij si sente rigenerato e pronto ad accogliere l’ingiusta sentenza emessa contro di lui. Abbiamo a che fare con un procedere votato al paradosso: che rinuncia al piano, per così dire, «orizzontale» della logica rigorosa per votarsi alla paradossalità dell’imitatio Christi. Non si tratta solo di riconoscere l’incomparabilità del dolore umano rispetto a quello del Dio fattosi uomo; bisogna anche assumerlo su di sé, continuare il paradosso del Cristo e la sua logica antisacrificale. In questo modo Dio, che viene ripudiato sulla base della presunta e nichilistica logica della perfezione del creato, viene restituito a un senso rinnovato attraverso il modello cristologico. La volontà di potenza da Nietzsche a Heidegger – Il momento sicuramente di massima maturazione (quantomeno dal punto di vista delle sue ricadute filosofiche nel Novecento) della questione nichilistica è rappresentato da Nietzsche. Soprattutto nell’ultima fase del suo cammino filosofico egli si scaglia contro il cristianesimo quale motivo di decadenza della civiltà contemporanea. Il cristianesimo rappresenta – agli occhi di Nietzsche – anche un motivo di vera e propria degenerazione interna della religione stessa, la quale aveva sempre rappresentato – secondo quanto viene sostenuto nell’Anticristo – un motivo di autoglorificazione di un popolo attraverso i suoi dei: essa è invece diventata, proprio con il cristianesimo, l’autonegazione di ogni impulso di affermazione della vita. Il

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cristianesimo – e di questo è particolarmente responsabile l’insegnamento di S. Paolo – intende portare in primo piano i deboli e i sofferenti in contrasto con coloro i quali sanno esercitare una positiva affermazione della vita, che sono capaci di trasfigurare artisticamente l’esistenza secondo la loro volontà, che sono in grado di donare autonomamente senso alla vita. Il cristianesimo sviluppa così lo spirito di ressentiment dei deboli e dei sofferenti nei confronti della vita, mortifica quella capacità di trasfigurazione artistica della vita stessa che è un dono degli spiriti eletti. Ma si tratta, a ben vedere, di un inutile conato, che viene smentito dalla stessa storia della metafisica, nel cui procedere si è venuta negando via via ogni verità suprema con l’intento di sostituire a essa un’altra più adeguata, sino a che – secondo quanto Nietzsche afferma nel Crepuscolo degli idoli – della verità non ne è più nulla. Al culmine di questo cammino «il mondo vero è diventato favola». Al culmine di questo cammino si prospetta inoltre – per riprendere un testo antecedente di Nietzsche, l’aforisma 125 della Gaia scienza – la necessità di riconoscere che «Dio è morto!». Si ripropone qui in termini ben più maturi quella necessità – che già si era affacciata precedentemente con Max Stirner in L’unico e la sua proprietà (1845) – di superare insieme all’idea di Dio anche quella di uomo, quale correlato finito dell’Essere infinito. Si annuncia così l’idea di «oltreuomo». Questi è quell’essere il quale è in grado di produrre da solo il senso della propria esistenza rinunciando a ogni prospettiva trascendente. L’«oltreuomo» crea significati in assenza di qualsivoglia parametro che ne certifichi l’adeguatezza. Questo provoca – come si rivela in particolare nei Frammenti postumi degli anni Ottanta – una sorta di indefinita moltiplicazione delle prospettive di senso che entrano in conflitto le une con le altre. Si tratta di punti di forza, di sviluppi della volontà di potenza che s’incontrano conflittualmente ed emergono o soccombono obbedendo alla logica dell’autoaffermazione. Il mondo è così nichilisticamente e tragicamente affidato al conflitto delle interpretazioni che s’impongono o vengono meno a seconda del potere del quale sono dotate. Esse non possono far capo a una stabile struttura che sia in grado di fornire loro uno stabile equilibrio, una fondata certezza, che cioè non sia a sua volta un’interpretazione. È questa l’eredità più significativa del nichilismo nel Novecento, quell’eredità che si estenderà nei primi decenni del Novecento per esempio ad autori come Ludwig Klages per giungere sino a Martin Heidegger e al suo confronto con Ernst Jünger. In particolare, nei corsi su Nietzsche che Heidegger tenne tra il 1936 e il 1942, si assiste alla maestosa «classicizzazione» del pensiero nietzschiano. Grazie a Heidegger, Nietzsche – inteso quale compimento della metafisica – entra a pieno diritto nella tradizione filosofica come uno dei suoi massimi rappresentanti. Grazie a Heidegger l’«inquietudine» nichilistica diviene una questione che non riguarda più l’emergenza di una crisi più o meno contingente e sia pure grandiosa, come quella rappresentata dall’affacciarsi prepotente della soggettività moderna. Il nichilismo, quale «oblio dell’essere» e identificazione dell’essere con l’essere dell’ente, diviene invece il destino dell’intera tradizione della metafisica occidentale. È la tecnica ora ad aver assunto il vero volto del nichilismo. Essa costituisce il modello della «volontà di potenza» che ha assoggettato sotto il suo dominio il mondo nel suo complesso. Bibliografia essenziale – S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995; F. Vercellone, Introduzione a Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1992; V. Verra, Nichilismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. IV, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1979, pp. 778-789; F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996.

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Positivismo, neopositivismo, pragmatismo Francesco Coniglione Che cos’è il positivismo: significato e collocazione storica – Il movimento filosofico del positivismo trae origine in età moderna dalla crescente importanza che la scienza assume nel corso dell’Ottocento all’interno di una industrializzazione sempre più accentuata. La conoscenza scientifica perde il suo carattere di pura conquista della verità sul mondo, venendo implicata sempre più nel sistema produttivo e contribuendo così a trasformare la società. La conseguenza di questa crescente importanza della scienza nella vita della popolazione europea si traduce, sul piano filosofico, nella necessità di fare i conti con la scienza, per comprenderne la natura e di conseguenza ispirarsi a essa; lo scopo è operare una svolta nel pensiero filosofico, conferendogli quella «positività» che veniva riconosciuta alla scienza. La conoscenza autentica, cioè quella scientifica, deve partire da ciò che è dato, il «fatto positivo», concreto, fornito mediante l’esperienza e contrapposto all’astratto, al meramente congetturato, senza alcun fondamento nella realtà dei fatti. Il positivismo nasce nell’ambito della cultura francese ed è l’erede sia dell’illuminismo sia della tradizione cartesiana. Nella prima metà dell’Ottocento esso vuole rappresentare a un tempo il superamento della crisi epocale avviata con la Rivoluzione francese e una risposta ai tentativi di restaurazione romantica, mediante una visione progressiva e ottimistica dello sviluppo della società, che spesso si tingeva di prospettive utopistiche. Benché il termine «filosofia positiva» sia stato introdotto da Henri de Saint-Simon (1760-1825), è stato tuttavia Auguste Comte (1798-1857) a farne il cardine della propria filosofia, dando il vero e proprio inizio al positivismo con il Cours de philosophie positive (1830-1842). In seguito il pensiero positivista si diffuse in molte varianti anche negli altri paesi europei, ricevendo in ciascuno di essi una coloritura nazionale. V’è un positivismo inglese, che con John Stuart Mill (1806-1873) si integra assai bene con la tradizione empirista di quel paese, mentre in Herbert Spencer (1820-1903) risente dell’affermazione della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin (1809-1882), nel tentativo di elaborare una teoria generale del progresso umano e dell’evoluzione biologica e cosmica; un positivismo tedesco, che ha spesso una natura accentuatamente materialistica in molti scienziati e che conosce la sua migliore espressione nella nascita della psicologia sperimentale e scientifica con Wilhelm Wundt (1832-1920); infine un positivismo italiano, il cui maggior rappresentante è Roberto Ardigò (1828-1920) e che si è per lo più affermato nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, per poi entrare in crisi con l’affermazione del neoidealismo di Croce e Gentile. Il positivismo costituisce il comune orizzonte di una moltitudine di intellettuali – scienziati, filosofi, letterati, artisti – che hanno influenzato profondamente la società e la cultura di un intero secolo, impregnandola di spirito liberale, laico, qualche volta antireligioso e motivato da autentico afflato missionario in favore dell’educazione del popolo mediante la diffusione della cultura scientifica, vista come strumento di emancipazione dell’umanità e di realizzazione delle aspirazioni universalistiche dell’illuminismo. I concetti fondamentali del positivismo – Benché il positivismo abbia molteplici sfumature e sfaccettature è possibile delinearne alcune coordinate fondamentali.

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a) Il rapporto privilegiato con la scienza. Il positivismo – s’è detto – assume come punto di partenza imprescindibile della propria riflessione il dato di fatto costituito dall’esistenza della scienza, punto di accesso privilegiato per la conoscenza della realtà. A differenziare il moderno positivismo dall’empirismo del passato e dall’illuminismo è l’idea che la conoscenza deve essere studiata in concreto, ovvero nella scienza effettivamente esistente, che sempre più incideva nella vita associata e nella storia degli uomini. Non quindi partire – come aveva fatto Hume – da un’analisi dell’esperienza e del modo in cui l’intelletto tratta il materiale fornitoci dai sensi, bensì da un’analisi della scienza, di quel sapere positivo che si è affermato storicamente e ha rivoluzionato il mondo dell’uomo. Questo aspetto è particolarmente evidente nel padre fondatore del positivismo, Comte, per il quale della scienza bisogna studiare innanzi tutto il modo in cui si è storicamente costituita, i concetti che essa impiega e il modo in cui essa si articola nei diversi campi disciplinari. A tale fine è indispensabile un approccio storico allo scopo di pervenire a un’esatta determinazione di cosa sia il metodo scientifico: non si può comprendere la scienza se non a partire dalla storia che ne ha segnato il cammino e ciò perché, in generale, «una qualunque concezione non può essere conosciuta bene se non grazie alla sua storia» (Cours, I). Lo stretto rapporto che il positivismo stabilisce con la scienza si evidenzia poi nell’idea largamente condivisa che il suo metodo debba essere applicato anche a quei settori della conoscenza umana che sino ad allora ne erano stati estranei. È il caso della sociologia, della quale Comte è ritenuto il fondatore nella sua forma scientifica, intesa come studio della dinamica sociale e della statica sociale: in questo senso anch’essa è una «scienza positiva» come la fisica, la chimica o l’astronomia. L’idea dell’unità metodologica di tutto il sapere è una tipica tesi del positivismo – poi ripresa anche del neopositivismo – secondo la quale il metodo corretto per pervenire alla conoscenza in qualsiasi campo del reale non è altro che quello messo in atto dalle scienze della natura. Questo metodo viene per lo più individuato nell’induzione (le scienze naturali sono in quell’epoca spesso denominate «scienze induttive», per differenziarle da quella deduttive, come la logica e la matematica): è quanto sostiene con decisione Stuart Mill, per il quale si può rimediare allo stato arretrato delle scienze morali solo generalizzando e applicando loro i metodi della scienza fisica (Sistema., lib. VI, cap. I, § 1); metodi che per Ernest Renan (1823-1892) devono essere estesi anche allo studio della religione e della storia del cristianesimo e per Hippolyte Taine (1828-1893) alla letteratura. b) Una visione progressiva ed evolutiva del reale. La fiducia nella scienza porta con sé anche quella per il progresso, che investe tutti gli aspetti della vita umana. Questa idea è al centro della famosa legge dei tre stadi di Comte, secondo la quale l’umanità, come anche il pensiero umano, si sviluppa passando progressivamente dallo stadio religioso a quello metafisico per giungere infine a quello positivo, che costituisce lo stato normale in cui lo spirito umano rinunzia alla ricerca di conoscenze assolute e alle ipotesi di agenti soprannaturali (religione) o di entità sostanziali impersonali (le sostanze e le essenze postulate dalla metafisica). Esso giunge così allo «stato positivo», circoscrivendo i suoi sforzi nell’ambito dell’osservazione e attenendosi alla regola fondamentale, tipicamente humeana, per cui «ogni proposizione che non è strettamente riducibile alla semplice enunciazione di un fatto, particolare o generale, non può presentare nessun senso reale o intellegibile» (Discours sur l’esprit positif).

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È ancora più evidente tale visione nella filosofia di Spencer, che si richiama alla teoria dell’evoluzione di Darwin. Questi aveva rivoluzionato il modo di concepire la storia della specie umana e animale, rigettando l’ipotesi fissista – per la quale tutte le specie erano state create così come sono direttamente da Dio – e sostenendo la progressiva trasformazione di una specie nell’altra mediante il meccanismo delle variazioni genetiche casuali e della selezione naturale di quelle più adatte a sopravvivere all’ambiente. La concezione scientifica di Darwin diventa in Spencer una generale visione filosofica del mondo: il principio evolutivo costituisce la chiave per spiegare ogni aspetto del reale, da quello fisico a quello sociale a quello psicologico e morale. A reggere l’evoluzione è il principio del passaggio da stati omogenei a stati sempre più eterogenei, cioè dotati di maggiore complessità e differenziazione funzionale, realizzandosi così un progresso che va dalla confusione e dal caos all’ordine e all’organizzazione. In tale visione unitaria e onnicomprensiva di Comte e Spencer è stata vista una continuità con l’eredità romantica: comune sarebbe la tendenza a concepire la realtà e la storia in modo complessivo e totalizzante, anche se per il positivismo tale obiettivo si raggiunge mediante una sistematica connessione di fatti e leggi scientifiche e non grazie allo sviluppo di un’entità metafisica come lo spirito. c) Fenomenismo, nominalismo e lotta alla metafisica. I positivisti rifiutano in generale di effettuare una differenza tra quanto ci appare attraverso i sensi e un’essenza profonda che dovrebbe essere colta solo per mezzo della speculazione razionale: tutto ciò che abbiamo a disposizione è l’esperienza. Ciò non significa negare la realtà di cause non immediatamente osservabili, ma solo il rifiuto di postulare entità che in linea di principio si sottraggano a un controllo – diretto o indiretto – effettuato con i metodi empirici o sperimentali. Così, ad esempio, viene negata l’esistenza di uno «spirito» o di una «materia» che siano qualcosa di più dei fenomeni psichici osservabili e organizzabili in leggi della mente o delle qualità empiricamente percepibili nello spazio e nel tempo. Ne segue il rifiuto di postulare che ai termini generali corrisponda una qualche realtà al di fuori degli oggetti concreti e individuali. Non esistono enti generali aventi un’esistenza autonoma, che possono esser colti mediante i nostri concetti e designati dai termini che impieghiamo. In fisica è normale far ricorso a enti fittizi, ideali (come vuoto assoluto, corpo perfettamente elastico ecc.), che hanno solo la funzione di meglio permetterci di sintetizzare i dati empirici e descrivere in modo semplificato delle situazioni reali altrimenti non manipolabili matematicamente e scientificamente. Compito della scienza è dunque quello di ordinare i fatti singoli, organizzarli in leggi e rendere possibile la previsione, senza cercare di immaginare «fluidi chimerici» o «eteri immaginari» per spiegare la produzione di moti celesti, il calore, la luce o l’elettricità e il magnetismo, in quanto tutte queste ipotesi ed enti non sono suscettibili né di negazione né di affermazione. d) Irrilevanza cognitiva dei giudizi di valore. Se nella realtà esistono solo fatti – spesso esaltati al punto da farne, secondo alcuni critici, una nuova divinità metafisica – allora non v’è posto in essa per i valori, per ciò che noi designiamo come «bello», «nobile», «buono» ecc., né è possibile che quanto da noi giudicato per mezzo di tali termini possa ricevere una sua convalida empirica. In tal modo viene ripresa e radicalizzata la «legge di Hume»: non solo non si passa dai fatti ai valori, ma questi ultimi sono spiegabili solo come l’effetto delle condizioni in cui l’uomo vive o il frutto della sua evoluzione biologica e naturale; a essi non

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corrisponde alcuna realtà oggettiva, alcun mondo di valori autonomo e accessibile per mezzo di una qualche facoltà speciale dell’animo umano. L’unico giudizio di valore può concernere l’efficacia tecnica dei mezzi messi in atto per raggiungere un certo scopo, la cui scelta però può essere solo spiegabile empiricamente nella sua genesi e nella sua formazione. Dal positivismo al neopositivismo – Il neopositivismo, o anche neoempirismo, si ricollega esplicitamente al positivismo ottocentesco e all’empirismo classico, specie quello di Hume, riprendendone molti temi di fondo, ma rielaborandoli in modo del tutto nuovo. Esso si forma nel corso dei primi decenni del Novecento quale reazione, nel mondo germanico, alla filosofia speculativa classica tedesca e al tradizionalismo cattolico, nell’intenzione di pervenire a una filosofia adeguata alle nuove svolte che stavano avvenendo in fisica, come la teoria della relatività di Einstein e la nuova meccanica quantistica. Ma riveste una particolare importanza per definire il carattere peculiare del neopositivismo l’importanza della nuova logica matematica – simbolica e formale – rifondata da Boole e perfezionata da Frege, Russell, Whitehead e Wittgenstein: grazie ad essa è possibile anche tentare l’ambizioso progetto di una rifondazione della filosofia che la liberi dalle ipoteche speculative e le permetta di conquistare il crisma della scientificità: «La filosofia è malata, la sua unica cura è la logica», afferma il fondatore del neopositivismo, Moritz Schlick. Centro iniziale e principale di elaborazione del neopositivismo è il cosiddetto «Circolo di Vienna» che si costituisce nel 1928 intorno alla figura di Schlick (1882-1936) e che raccoglie principalmente studiosi di formazione scientifica, tra cui Otto Neurath (1882-1945), Rudolf Carnap (1891-1970), Philipp Frank (18851966), Hans Hahn (1879-1934), Friedrich Waismann (1896-1959). Molto vicini ad essi sono gli intellettuali che si riuniscono nel «Circolo di Berlino» – come Hans Reichenbach (1891-1953) e Carl Gustav Hempel (1905-1997) – e nella Scuola di Leopoli-Varsavia (Jan Łukasiewicz, Kazimierz Ajdukiewicz, Tadeusz Kotarbiński, Alfred Tarski). Tuttavia, il neopositivismo dimostra una capacità straordinaria di diffusione sia in Europa che negli Stati Uniti, dove si rifugiano molti suoi pensatori di punta, durante il periodo nazista e nell’immediato dopoguerra. Dalla fruttuosa interazione con il pragmatismo si radicherà così uno stile filosofico ancor oggi prevalente nella cultura d’oltreoceano. I concetti fondamentali nel neopositivismo – a) Le influenze culturali. Le matrici culturali del neopositivismo sono chiaramente indicate in quello che può essere considerato il suo «Manifesto», scritto nel 1929 da Hahn, Neurath e Carnap, la Wissenschaftliche Weltauffassung (La concezione scientifica del mondo). Essi sono innanzi tutto l’empirismo e il positivismo (con Hume, Comte e Mill), l’illuminismo e l’empiriocriticismo di Richard Avenarius (1843-1896) e Ernst Mach (1838-1916); quindi i maggiori scienziati dell’Ottocento che hanno dato un contributo alla riflessione sulla scienza (come Poincaré, Duhem, Boltzman ed Einstein) e i rifondatori della logica moderna come Peano, Frege, Russell, Whitehead; per finire tutti quei filosofi che hanno dato un contributo per un’etica su base sentimentale e per una sociologia scientifica (da Epicuro a Bentham, e poi Feuerbach, Marx, Spencer e Menger). Merita di essere sottolineata in particolare la lezione di Mach, che ha avuto il merito per i neopositivisti di «depurare la scienza empirica, soprattutto la fisica, da nozioni metafisiche» (La concezione scientifica del mondo): vengono ripresi e valorizzati in senso antimetafisico i temi classici del positivismo, all’interno

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di una visione della scienza intesa come trascrizione stenografica ed economica dei fenomeni della natura. Ma da un certo punto in poi si fa sentire, specie su Schlick, l’influenza dell’opera geniale e anticonformista di Ludwig Wittgenstein e del suo Tractatus logico-philosophicus (1922), al punto che, pur egli rifiutando il ruolo e contestando il loro scientismo, viene considerato come il grande ispiratore dei viennesi. Nella sostanza si può dire che l’influenza di Wittgenstein si condensa in tre tipiche dottrine del neopositivismo: la natura e funzione della logica, la dottrina delle proposizioni e il significato attribuito alla filosofia. b) La logica e il significato come verifica. Per quanto riguarda il primo aspetto, viene condivisa la tesi di Wittgenstein del carattere tautologico della logica: questa non ci permette di cogliere verità atemporali o di accedere a un mondo di enti ideali – come avevano sostenuto Frege e Russell – ma deve la sua validità solo alla struttura sintattica delle sue proposizioni, che non si riferiscono ad alcun ente esistente al di fuori dei loro simboli. Solo successivamente a essi viene fornito un riferimento al mondo dell’esperienza: i principi della logica «non esprimono alcuna conoscenza, ma sono regole per la trasformazione di una proposizione in un’altra» (Schlick, Forma e contenuto). Sicché «la verità delle asserzioni logiche è basata soltanto sulla loro struttura logica e sul significato dei termini; le asserzioni logiche sono vere sotto tutte le circostanze concepibili e cosí la loro verità è indipendente dai fatti contingenti del mondo» (Carnap, Autobiografia intellettuale). Associata a questa dottrina è la ripresa della tipica concezione empirista della distinzione tra giudizi analitici e sintetici: diventa un cardine della concezione neopositivistica l’idea che tutte le proposizioni ammissibili nella conoscenza siano empiriche, che descrivono i fatti e che quindi possono essere vere o false, o analitiche, sempre vere in virtù della loro forma logica. Non v’è alcuna via di mezzo tra le due e in particolare non esiste nessun giudizio sintetico a priori, con ciò rifiutando ogni forma di eredità da Kant. Da ciò discende un’altra tipica dottrina: se le proposizioni analitiche devono il loro significato alla loro struttura formale, quelle empiriche hanno un significato solo nella misura in cui sono riferibili a dati osservabili. È questa la celebre teoria verificazionista del significato, attribuita dai circolisti con qualche fondamento a Wittgenstein, ma da questi in parte rigettata. Secondo questa teoria il significato di una data proposizione consiste nel metodo utilizzato per la sua verifica. Alla sua base v’è l’esigenza di ancorare in qualche modo il significato al mondo reale, dandogli così una base intersoggettiva e condivisibile. c) Il destino della metafisica e il compito della filosofia. In base a questo principio, il destino della metafisica è segnato: essa non è dichiarata falsa – come faceva il vecchio positivismo – ma semplicemente senza alcun significato; ne potrà avere sì uno sentimentale, così come avviene anche col mito, ma il suo significato cognitivo è eguale allo zero. Per Carnap i metafisici non sono che «musicisti senza capacità musicali» inefficienti per la conoscenza, inadeguati per il sentimento. È questo un punto sul quale il dissenso con Wittgenstein sarà profondo, perché egli rigettava l’impianto scientista dei neopositivisti che voleva eliminare la dimensione dell’indicibile – per lui fondamentale – a favore di una visione del mondo in cui tutto sta in superficie e non esiste alcuna dimensione oltre quella dei fatti. Che funzione ha allora la filosofia in questo quadro? Essa non può ovviamente competere sul piano conoscitivo con la scienza, in quanto l’unica conoscenza valida e attendibile del mondo ci è fornita da questa. Deve piuttosto limitarsi alla

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funzione di chiarificazione del linguaggio. Secondo Schlick, infatti, le scienze trattano della verità degli enunciati, li verificano, mentre la filosofia rende perspicuo ciò che gli enunciati significano, ne determina il senso. In particolare, si afferma sempre più l’idea che tale opera di chiarificazione debba avvenire nei confronti del linguaggio scientifico, per cui la filosofia viene interpretata come analisi logica della scienza, «sintassi logica del linguaggio scientifico» (Carnap), ben lontana dalla riflessione filosofica tradizionale. In questa prospettiva essa abbandona quei caratteri totalizzanti che hanno associato il positivismo classico a una nuova forma di metafisica o a una concezione romantica della realtà, per diventare un esercizio di igiene linguistica o di analisi delle scienze costituite. La filosofia si pone come discorso di secondo ordine: non ha più il compito di darci un accesso privilegiato al mondo, ma di farci «conoscere la conoscenza», ovvero di essere una «filosofia di…» (della scienza, della fisica, della biologia ecc.). Ormai il lavoro filosofico si svolge sul piano del linguaggio, su cui si pone anche l’auspicata unificazione delle scienze (perseguita da Neurath col progetto della Enciclopedia delle scienze unificate): l’adozione del linguaggio della fisica (il cosiddetto fisicalismo, sostenuto da Carnap e Neurath) non esprime solo una scelta pragmatica dovuta alla sua maggiore diffusione, universalità e intersoggettività. Queste caratteristiche hanno fatto del neopositivismo, e dei molti studiosi che ne sono stati in qualche misura influenzati, il principale luogo di origine di tutte le discussioni sulla scienza del Novecento, forgiando così l’epistemologia e la filosofia della scienza che ha dominato la cultura filosofica dell’ultimo secolo e che, per certi aspetti, ancora ne costituisce un punto di riferimento. Il pragmatismo americano – Il pragmatismo è forse l’unica corrente filosofica che sia genuinamente americana. Il suo fondatore è Charles Sanders Peirce (18391914), la cui importanza sarà per lo più riconosciuta dopo la morte non solo per i suoi contributi al pragmatismo, ma in qualità di logico (sua è la teorizzazione del metodo abduttivo come strumento della scoperta scientifica) e per i contributi dati alla semiotica (o teoria dei segni). Il pragmatismo ha avuto la sua maggiore diffusione e notorietà con lo psicologo e filosofo William James (1842-1910), e poi con George Herbert Mead (1863-1931), John Dewey (1859-1952) e Clarence I. Lewis (1883-1964). Suo principale sostenitore in Europa è l’inglese Ferdinand C.S. Schiller (1864-1937); in Italia si richiamano al pragmatismo Giovanni Vailati (1863-1909) e Mario Calderoni (1879-1914), nel contesto della cultura positivista. A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale le concezioni pragmatiste iniziano a convergere con quelle del neopositivismo, importate dall’Europa, grazie anche all’opera di mediazione di Charles W. Morris (1903-1979). I confini tra neopositivismo e pragmatismo si faranno sempre più sfumati, cosicché nei filosofi americani contemporanei entrambe le eredità si ritroveranno variamente intrecciate. Da questa influenza combinata si produrranno talvolta prospettive molto originali, come nel caso di Willard V.O. Quine, Hilary Putnam e Richard Rorty. a) La verità come capacità di produrre azioni. L’idea centrale del pragmatismo è connessa alla necessità che il pensiero dimostri operativamente la sua efficacia e venga concepito come uno strumento di azione e non di contemplazione di una realtà data. Riprendendo le esigenze proprie dell’empirismo e del positivismo e collegandole a una loro interpretazione evolutiva e biologica, influenzata dall’evoluzionismo di Darwin, il pensiero viene visto come uno strumento di adattamento e di sviluppo armonico dell’uomo nella natura e quindi come una regola per l’azione.

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Per Peirce, ciò è possibile grazie al fissarsi delle «credenze», che costituiscono il luogo in cui si dissolve il dubbio e che fissano un’abitudine e una strategia di azione efficaci per superare gli ostacoli. Ciò porta alla conseguenza che il significato autentico di una credenza o di un evento è fornito solo dalle conseguenze cui esso dà luogo. Ne segue la regola fondamentale del pragmatismo: «considerare quali effetti, che potrebbero avere concepibilmente rilievo pratico, noi concepiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora, la nostra concezione di questi effetti è la totalità della nostra concezione dell’oggetto» (Scritti di filosofia). Questa impostazione nella sostanza riprende sul piano operativo e dell’azione quanto il neopositivismo aveva espresso con la propria teoria verificazionista del significato, giacché sul piano cognitivo i significati dei concetti finiscono per coincidere con tutti i fenomeni sperimentali che essi possono implicare. Come in seguito puntualizzerà Dewey, il modo corretto di intendere il pragmatismo «è di porre in luce la funzione dei risultati come verifiche della validità delle proposizioni, purché i risultati stessi siano operativamente stabiliti e risultino capaci di risolvere il problema specifico che ha provocato quelle operazioni» (Logica). Ciò si evince chiaramente anche nel modo in cui James presenta il metodo pragmatico: esso può appianare le questioni metafisiche indagando quali ne siano le conseguenze pratiche. E in merito al concetto di verità, che per James consiste nell’accordo con la realtà, egli si pone la domanda: cosa si intende per «accordo»? Non una statica e inerte relazione tra soggetto e oggetto, ma una relazione dinamica: «[…] il pragmatista si domanda: che differenza farà nella vita di ciascuno il fatto che un’idea sia vera? Quali differenze risulteranno diverse dal fatto che essa sia vera e non falsa? La risposta é: Vere sono quelle idee che possiamo assimilare, convalidare, corroborare e verificare. Le idee con cui non è possibile fare tutto questo sono false. Ecco qual è la differenza pratica che ci viene dall’avere idee vere. Ed ecco quindi il significato di “verità”, perché questo è tutto ciò che si conosce come verità […]. Un’idea diventa vera, è resa vera dagli eventi. La sua verità è infatti un evento, un processo: il processo cioè del suo stesso verificarsi, la sua veri-ficazione (veri-fication)» (Pragmatismo). A tale significato processuale riconduce la verità anche Peirce per il quale coincide con il punto di convergenza finale che sancisce l’accordo dei ricercatori. b) James e la «volontà di credere». Tuttavia a differenza di Peirce, che si limita a sottolineare la capacità della credenza a elaborare regole di condotta che abbiano riscontro nei fatti, James ha una particolare sensibilità verso la problematica religiosa, in cui vede la cosa più importante: la fede dà al credente la capacità di raggiungere equilibrio interno, calma e ottimismo. In tal modo James fa leva sulla «volontà di credere» per denunziare l’insufficienza di un universo meramente consegnato al dominio dei fatti e rivendicare l’importanza della fede come mezzo grazie al quale l’uomo riesce a decidere e agire laddove la valutazione razionale è insufficiente. Certo, la fede non ci consente di pervenire alla conoscenza della realtà metafisica né deve sostituire la decisione razionale nelle questioni che riguardano l’accertamento dei fatti, ma essa è indispensabile nel campo delle questioni morali sulle quali nulla ci può dire la scienza; essa ci permette di generare effetti pratici altrimenti non conseguibili, come un migliore adattamento al mondo o la capacità di superare difficoltà di fronte alle quali altrimenti ci saremmo arresi; ci permette addirittura di conseguire ciò a cui crediamo, creando la sua verificazione. Grazie

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a questa «volontà di credere» è possibile creare qualcosa di nuovo, dando così un significato al nostro sforzo morale, altrimenti vano in un mondo intellettualisticamente predeterminato: la realtà è aperta, ancora non determinata, incompleta, e sta all’uomo plasmarla con la sua «volontà di credere». Si tratta – come dice James – di sottolineare l’importanza delle passioni laddove la ragione ci abbandona e la necessità di effettuare una scelta, «navigare al sicuro tra gli opposti pericoli del credere troppo poco e del credere troppo» (The Will). In sostanza, anche alle diverse fedi religiose, tra le quali è benvenuta la discussione, si applica il principio evoluzionistico della sopravvivenza del migliore. c) Lo strumentalismo di Dewey e la rivalutazione del pragmatismo. Anche in Dewey ritroviamo gli elementi caratteristici del pragmatismo, a eccezione della rilevanza data alla dimensione religiosa da James: la sottolineatura naturalista dell’uomo, in rapporto con l’ambiente; il concetto di esperienza intesa come interazione attiva e dinamica tra un soggetto storicamente costituito e l’ambiente; la conoscenza vista come una serie di operazioni su cose e simboli; la verità intesa come «asseribilità garantita», ovvero frutto delle operazioni e delle «transazioni» che l’uomo effettua col mondo. La conoscenza è dunque uno strumento dell’azione, onde la denominazione di strumentalismo per la versione deweyana del pragmatismo. Infine non si deve trascurare l’importanza di Dewey in campo educativo e pedagogico, che si concreta in tre concetti fondamentali: il rispetto per lo sviluppo del fanciullo, la natura attiva e dinamica dell’apprendere e la finalità sociale dell’educazione. La nuova recente fortuna del pragmatismo è legata a pensatori provenienti dalla tradizione neopositivista e analitica. Putnam ha sottolineato l’attualità dell’olismo e del realismo di James in psicologia, cercando anche di difendere la sua concezione della verità da coloro che la interpretano in senso meramente utilitaristico e intendendola – come ha fatto anche Dewey – come «asseribilità garantita idealizzata»: il merito più significativo del pragmatismo è stato quello di essere a un tempo antiscettico e fallibilista. A sua volta Rorty rivaluta – diversamente da Putnam – la critica pragmatista del realismo metafisico, in quanto non esiste la «migliore spiegazione», ma solo «la spiegazione che meglio si addice allo scopo di qualche esplicatore»; e inoltre «dal punto di vista pragmatista, la razionalità […] è semplicemente un modo di essere aperti e curiosi e di affidarsi alla persuasione invece che alla forza» (Scritti). In tale modo si privilegia l’anima olista, «morbida», del pragmatismo che non fissa rigide di demarcazione tra discipline scientifiche e non scientifiche, alla luce della delegittimazione di una razionalità come appannaggio proprio della scienza. Tali rivalutazioni hanno liberato il pragmatismo dalle accuse mosse da epistemologi più tradizionali, che vi hanno visto una pericolosa abdicazione alla conoscenza in nome dell’efficienza e dell’utilità e una tipica espressione della società americana, consumista e pragmatica. Il nucleo concettuale del pragmatismo è il medesimo del positivismo e del neopositivismo: l’esigenza che la conoscenza sia in grado di «dar prova di sé» e che esistano metodi intersoggettivi e pubblici per accertarsi del suo realizzarsi, abbandonando le speculazioni soggettive e le eterne controversie delle contrapposte scuole metafisiche. Per cui l’affermazione che «è vero ciò che è utile» – analogamente a quella neopositivista che «il significato è il metodo della sua verifica» – sta a significare che l’utilità, l’efficacia o l’operatività empirica sono gli unici indizi che ci possano condurre al vero.

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Bibliografia essenziale – F. Barone, Il neopositivismo logico, Laterza, Roma-Bari 19772; R. Carnap, Sintassi logica del linguaggio (1936), Silva, Milano 1966; R. Carnap, Autobiografia intellettuale, in P.A. Schillpp, a cura di, La filosofia di Rudolf Carnap (1963), il Saggiatore, Milano 1974; A. Comte, Cours de philosophie positive, 6 voll., Bachelier, Paris 1830-1842; A. Comte, Discours sur l’esprit positif, Carilian-Goeury et V. Dalmont, Paris 1844; J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine (1938), Einaudi, Torino 1974; H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, La concezione scientifica del mondo (1929), Laterza, Roma-Bari 1979; W. James, Pragmatismo (1907), il Saggiatore, Milano 1994; W. James, The Will to Believe, and Other Essays in Popular Philosophy, Longman Green and Co., New York, London, Bombay 1897; V. Kraft, Il Circolo di Vienna, Peloritana, Messina 1969; J.S. Mill, Sistema di logica raziocinativa e induttiva, Ubaldini Editore, Roma 1968; C.S. Peirce, Scritti di filosofia, Fabbri Editori, Bergamo 2000; R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, Laterza, Roma-Bari 1994; S. Poggi, Il positivismo, Laterza, Bari-Roma 19993; M. Schlick, Forma e contenuto (1932), Boringhieri, Torino 1987; Carlo Sini, Il pragmatismo americano, Laterza, Bari, 1972.

Scuola di Francoforte Marco Solinas Che cos’è la Scuola di Francoforte – Con la nozione storiografica «Scuola di Francoforte», affermatasi sul finire degli anni Sessanta, si designa un movimento filosofico strettamente legato all’Istituto per la Ricerca Sociale fondato presso l’Università di Francoforte sul Meno. Nato sul finire degli anni Venti e consolidatosi nel corso degli anni Trenta e Quaranta, allorché l’Istituto si era ormai trasferito a New York, per esser poi riportato a Francoforte al termine della seconda guerra mondiale, il movimento, qualora lo si consideri come una tradizione di ricerca, è giunto, attraverso un duplice avvicendamento generazionale, fino ai nostri giorni. Dei molteplici caratteri che ne determinarono originariamente la fisionomia, particolarmente significativo è l’atteggiamento interdisciplinare volto a coniugare, nell’analisi delle società occidentali contemporanee, e soprattutto delle dinamiche di dominio ad esse immanenti, strumenti provenienti dai campi della filosofia, dell’economia, della sociologia e della psicoanalisi. Ancor più precipua, e altrettanto feconda, fu la prospettiva metodologica della «teoria critica», che valorizzò il carattere riflessivo dell’attività epistemica, e in particolare il rapporto peculiare tra teoria e realtà sociale, stante al quale il teorico critico contribuisce a trasformare la totalità sociale nel momento stesso in cui la analizza criticamente. Questi due elementi, insieme ad altri, hanno dato forma a quell’indirizzo filosofico che ha preso il nome di «Scuola di Francoforte», la cui spinta propulsiva sembra non essersi esaurita, e rispetto al quale i suoi esponenti contemporanei preferiscono riferirsi come alla tradizione di ricerca della «teoria critica». Gli esordi – L’indirizzo originario è impresso al movimento da Max Horkheimer (1895-1973). Affidatagli la neonata cattedra di Filosofia sociale, nel gennaio del 1931 assume ufficialmente la direzione dell’Istituto francofortese – aperto con fondi privati nel ’23 – svincolandone fin da subito il programma di ricerca dal determinismo economicistico fino ad allora predominante. Al centro dell’analisi sono soprattutto il capitalismo di Stato, messo in luce nei lavori di Friedrich Pollock (1894-1970), e la sempre più minacciosa affermazione dei fascismi. I due fenomeni pongono ai giovani intellettuali raccolti attorno ad Horkheimer

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una domanda di fondo: come spiegare il fatto che il proletariato non maturi una coscienza di classe e, di contro, si consolidino particolari sovrastrutture giuridiche e politiche che ne sanciscono, legittimano e inaspriscono sfruttamento e dominio? Muovendo da tale prospettiva viene approfondita e problematizzata l’intelaiatura concettuale, delineata da Karl Marx, del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura giuridico-politica e culturale, quindi le forme e le funzioni dell’ideologia. Cammino già dischiuso dal filosofo ungherese György Lukács (1885-1971) e non lontano da quello che, nelle carceri del Regno d’Italia, andava tracciando Antonio Gramsci. L’elemento più originale dell’analisi francofortese è dato dall’adozione degli strumenti e delle categorie che Sigmund Freud (1856-1939) va nel frattempo elaborando, recepiti immediatamente anche grazie alla collaborazione dello psicoanalista Erich Fromm (1900-1980): strutture pulsionali e dinamiche inconsce individuali e collettive vengono così a giocare un ruolo determinante nel quadro analitico complessivo. Si consolida in tal modo un atteggiamento eminentemente interdisciplinare volto a valorizzare le tre dimensioni – come si legge nel programma della nuova rivista dell’Istituto, varata nel ’32 – «di natura economica, psichica e sociale» che determinano le dinamiche della «vita associata». In esilio: la teoria critica e la «Dialettica dell’illuminismo» – Con la nomina a cancelliere di Hitler, il 30 gennaio del 1933, e il rapido affermarsi della dittatura, Horkheimer e collaboratori, marxisti perlopiù di origini ebraiche, sono costretti ad abbandonare la Germania. L’anno successivo il nucleo ristretto si ricompatta negli Stati Uniti: l’Istituto viene ospitato nei locali di West Street della Columbia University di New York. Vengono avviate ampie ricerche sociologiche di carattere empirico e procede l’elaborazione più eminentemente teorica. Vede così la luce, nel 1937, il lungo articolo Teoria tradizionale e teoria critica, destinato a divenire una pietra miliare del movimento. Sottolineando il carattere e la funzione sociale della scienza, in contrasto con la rappresentazione tradizionale dello status della teoria nelle scienze fisiche, di matrice cartesiana, ma in opposizione anche alla avalutatività della sociologia di Max Weber (1864-1920), Horkheimer traccia un modello epistemologico alternativo: «l’autoconoscenza dell’uomo nel presente non è la scienza naturale matematica che si presenta come logos eterno, bensì la teoria critica della società esistente dominata dall’interesse per condizioni razionali». Muovendo dalla «critica dialettica dell’economia politica» marxiana, nasce in tal modo la «teoria critica»: l’attività epistemica, in quanto «processo storico concreto» realizzato dal teorico critico, contribuisce a trasformare il suo stesso oggetto d’analisi, ovvero «la struttura sociale nella sua totalità». In termini più classici, la teoria critica diviene, in quanto tale, prassi, ed è consapevole di esserlo. Determinante per il destino del movimento è quindi il trasferimento a New York di Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), brillante filosofo e raffinato musicologo, profondamente influenzato dagli straordinari lavori dell’amico berlinese Walter Benjamin (1892-1940) che, dall’Europa, collabora sporadicamente con la rivista dell’Istituto. Vicino ad Horkheimer dai tempi della sua abilitazione in filosofia all’Università di Francoforte, Adorno nel ‘38 lascia Oxford e diviene membro ufficiale dell’Istituto. Dal loro sodalizio nasce il capolavoro Frammenti filosofici, iniziato nel ’42 sotto il sole californiano, quindi terminato e ciclostilato nel ’44, per esser infine stampato nel ’47, con modifiche e integrazioni, con il titolo Dialettica dell’illuminismo. La domanda di fondo dell’opera è: «perché l’umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofonda in un nuovo genere di

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barbarie», come si è costretti a evincere dalle atrocità nazifasciste? Per approntare una risposta, Horkheimer e Adorno lavorano sulla tesi dell’«autodistruzione incessante dell’illuminismo»: nella dialettica tra dominio ed emancipazione, libertà e asservimento immanenti al processo di civilizzazione, si va affermando il lato negativo; «il progresso si capovolge in regresso», l’illuminismo distrugge se stesso. Se il domino sulla natura mostra di riflettersi nel domino sull’uomo, e sul proprio sé, l’illuminismo non deve però essere rifiutato, al contrario: «deve prendere coscienza di sé», del suo «momento regressivo», sì da poter «realizzare le sue speranze». Tale passaggio però è ciò che non è storicamente dato: la barbarie, e gli stessi meccanismi delle democrazie a capitalismo avanzato, che albergano in sé il germe del dispotismo, testimoniano del processo di autodistruzione dell’illuminismo. Poste queste premesse, è dischiusa la via alle analisi dei processi di reificazione, paradossalmente esasperati dall’incremento delle capacità produttive e dallo sviluppo dell’industria culturale, attraverso cui «sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini». È questa la più feroce analisi della logica del dominio lasciata in eredità alle future generazioni di teorici critici. Dal dopoguerra ad oggi – Terminata la guerra Horkheimer e Adorno ristabiliscono i contatti con Francoforte e, riottenuta la cattedra per il primo e avviate le procedure per la riapertura dell’Istituto, vi si trasferiscono. Inaugurata formalmente la nuova sede dell’Istituto nel novembre del 1951, nei due decenni seguenti proseguono sia le ricerche sociologiche a carattere empirico sia quelle filosofiche. Per il destino di quella che di lì a poco verrà chiamata «Scuola di Francoforte» risultano però cruciali, in questo periodo, le opere di Herbert Marcuse (1898-1979). Assiduo e importante collaboratore dell’Istituto dal ‘32, il filosofo, restato negli USA, nel 1955 dà alle stampe Eros e civiltà, misurandosi con l’eredità freudiana e denunciando i meccanismi repressivi della civiltà occidentale. Il testo, insieme a L’uomo a una dimensione (1964), dedicato all’analisi delle forme di omologazione e dominio delle società democratiche industrialmente avanzate, diverrà uno dei manifesti del movimento del Sessantotto, contribuendo così a divulgare l’intera tradizione filosofica francofortese. Gli anni Sessanta segnano anche la nascita della «seconda generazione» della Scuola, in particolare registrano l’uscita dei primi significativi lavori di Jürgen Habermas (nato nel 1929), approdato a Francoforte nel 1956 per collaborare con Adorno. In questa prima fase, seppur problematizzandolo, Habermas prosegue lungo il cammino della teoria critica, suscitando peraltro il fastidio di un Horkheimer ormai lontano dalle prospettive neomarxiane giovanili, che perciò lo allontana dall’Istituto. Proseguite le sue ricerche tra Marburgo, Heidelberg, nuovamente Francoforte e quindi Starnberg, nel 1981 Habermas firma il suo capolavoro, la Teoria dell’agire comunicativo, che sancisce la svolta linguistica impressa a una teoria critica radicalmente rifondata. Da qui in poi, attraverso l’elaborazione di un articolatissimo sistema teorico, Habermas sviluppa una nuova teoria interdisciplinare della società, ma anche dell’etica, del diritto e della democrazia, allontanandosi sempre più, nonostante taluni innesti, dagli indirizzi originari. Sarà Axel Honneth (nato nel 1949), abilitatosi presso lo stesso Habermas, e che assumerà la cattedra francofortese di Filosofia sociale e poi la direzione dell’Istituto, a valorizzare nuovamente talune nevralgiche questioni poste dalla «prima generazione». Collocato al centro dell’analisi filosofico-sociale il tema hegeliano del reciproco riconoscimento, soprattutto in Lotta per il riconoscimento (1992), Honneth ha ripreso altresì la prospettiva volta

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essenzialmente a diagnosticare quelle patologie sociali, quali i processi di reificazione e autoreificazione che deformano le forme di vita dei cittadini occidentali, e più in generale le «dinamiche paradossali della modernizzazione capitalistica», alle quali i primi esponenti della teoria critica dedicarono le loro migliori risorse. Bibliografia essenziale – H. Brunkhorst, Habermas, Firenze University Press, Firenze 2009; E. Donaggio, a cura di, La Scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, Torino 2005; M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi 1997; S. Petrucciani, Introduzione a Adorno, Laterza, Roma-Bari 2007; R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

Spiritualismo Michele Lenoci Che cos’è lo spiritualismo – Il termine «spiritualismo» compare nell’Ottocento con Victor Cousin, che con esso definisce la propria posizione filosofica, e viene poi usato per indicare una corrente complessa e variegata, che si sviluppa soprattutto in Francia, tra Otto e Novecento, e si diffonderà anche in Italia, divenendo punto di approdo per molti tra quanti abbandoneranno l’immanentismo neoidealista di Giovanni Gentile. In primo luogo, viene criticata la pretesa, avanzata dal positivismo, di conseguire, attraverso alcune scienze, come la fisiologia e la psicologia, una comprensione adeguata dell’uomo, anche nella dimensione intellettuale e spirituale, che verrebbe così ridotta alle basi fisiche. Una simile concezione appare limitata, proprio perché dimentica aspetti ritenuti fondamentali, anche se eccedenti una mera considerazione naturalistica. Gli ispiratori dello spiritualismo vengono individuati in Platone, e nella sua difesa di un orizzonte sovrasensibile (il mondo delle idee), raggiungibile mediante l’intuizione intellettuale, ma soprattutto in Agostino e in Cartesio, i quali vedono nella coscienza e nell’autocoscienza il punto di avvio, immediato e certo, della ricerca filosofica. Lo spiritualismo sottolinea particolarmente la dimensione dell’interiorità (che la considerazione meramente scientifica non spiega), cioè il raccoglimento in se stessi, il luogo ove agostinianamente abita la verità, poiché solo tornando in se stessi ci si conosce pienamente e si diviene veramente liberi. Lo spirito, inoltre, diversamente dalla concezione di Aristotele e Tommaso, non è concepito come una sostanza, ma come attività originaria e cominciamento primo; per questo motivo, non può venir afferrato mediante concetti, perché sarebbe oggettivato e snaturato, ma solo attraverso un’esperienza interiore che accompagna l’atto spirituale nel suo attuarsi e, così facendo, diventa consapevole di sé. Questo tipo di esperienza risulta primario rispetto a quella su cui si fondano le scienze, limitate all’ambito meramente materiale e quantitativo. Lo spirito umano è sempre condizionato dal suo corpo e dal mondo degli oggetti, e aperto agli altri spiriti e a Dio, Spirito superiore e assoluto, che tutto sostiene e da cui tutto dipende: questi offre quella spiegazione ultima che l’uomo non trova in se stesso e non riesce a darsi da solo. Vengono, in tal modo, recuperate due verità fondamentali della concezione filosofica classica: la spiritualità dell’uomo e l’esistenza di Dio; inoltre, ci si collega alla tradizione francese di Cartesio e dei suoi continuatori (come Malebranche). Punto di avvio non è, allora, l’ente in

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generale o la nozione astratta di essere, ma l’anima, la coscienza, il cogito, e di qui si ascende a Dio, quale Assoluto trascendente. Si comprende bene come lo spiritualismo sottolinei fortemente l’importanza della dimensione religiosa, e cerchi di delineare una prospettiva in cui la compatibilità della fede e della ragione lasci spazio per una filosofia cristiana, in cui si ritroveranno facilmente anche pensatori provenienti da altre esperienze intellettuali o esistenziali. Tra azione e intuizione – Una delle componenti dello spiritualismo è offerta dalla «filosofia dell’azione» di Maurice Blondel (1861-1949), il quale ritiene che la filosofia abbia il compito di delineare le condizioni di pensabilità della religione: tra naturale e soprannaturale c’è un salto, il soprannaturale è qualcosa di gratuito, ma esso è anche qualcosa di plausibile. Concetto fondamentale della sua riflessione è l’azione, che caratterizza l’esistenza umana nella sua totalità, in quanto riassume e connette diversi momenti e attività: anima e corpo; essere, conoscenza e volontà; mondo della riflessione teoretica, dell’agire morale, della ricerca scientifica. L’azione implica un dinamismo interiore e una libera attività, che progressivamente si espande, portando il soggetto sempre fuori di sé, in un’intrascendibile e inevitabile tensione verso obiettivi continuamente trascesi, affrontando gli ostacoli che via via incontra. In tale esperienza la volontà constata un contrasto tra la volontà volente, intesa come la capacità dello spirito umano di tendere sempre oltre ogni realtà singola, e la volontà voluta, vista come il risultato effettivamente conseguito, sempre limitato e insoddisfacente. Tale sproporzione tra aspirazioni e realizzazioni spinge l’uomo a tentativi di ulteriore perfezionamento, che coinvolgono altre persone in strutture sempre più ampie, come famiglia, patria e umanità, e lo convince anche della sua strutturale inadeguatezza a raggiungere una piena perfezione. Questo porta ad aprirsi al soprannaturale, inteso come assoluto e necessario, fondamento di tutto quanto esiste; ma poiché esso è trascendente, non può essere raggiunto, con le sue sole forze, dall’uomo che, in tal modo si trova in una situazione conflittuale: l’azione non può fermarsi al solo ordine naturale, ma neppure può superare da sola l’ordine delle cose contingenti. Il soprannaturale, pur essendo gratuito e imprevedibile, trova nella volontà umana un’attesa e una disponibilità, per cui quanto l’uomo desidera di più profondo (la sua piena realizzazione) è conforme a quanto proposto dai dogmi cristiani. L’azione trova così l’aiuto per trapassare dal livello naturale a quello soprannaturale. Alcuni temi tipici dello spiritualismo, sono condivisi anche da Henri-Louis Bergson (1859-1941), il quale ritiene che tutta la realtà sia durata e che l’organo per afferrarla sia l’intuizione. A questi risultati perviene muovendo da una formazione positivistica e da un’adesione appassionata alla teoria dell’evoluzione; poi, approfondendo la riflessione sulla natura del tempo, si accorge che il tempo reale e vissuto non può essere colto dalla scienza, perché non è passibile di una misurazione quantitativa che suddivida l’unitario fluire temporale in una serie infinita di frammenti spaziali. Per affrontare meglio la questione, egli si dedica allo studio di tutti quei modi d’essere che sfuggono a una considerazione oggettivante e scientifica, cominciando dalla vita interiore della coscienza, di cui siamo immediatamente consapevoli: questa non vive di momenti distinti, fatti di sensazioni, rappresentazioni, sentimenti, ma è una corrente unitaria e fluente, una durata reale, nella quale ogni stato psichico conserva il processo da cui proviene ed è, insieme, proiettato verso il nuovo e il futuro, sicché i vari stati si compenetrano e danno vita a un complesso in continua evoluzione.

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La scienza non può afferrare la realtà nella sua natura più intima, giacché, attraverso l’intelletto, seziona il dato unitario in tanti concetti statici e giustapposti l’uno all’altro: l’attività intellettuale nasce da necessità pratiche, allo scopo di poter meglio trasformare il reale, e anche la metafisica tradizionale è vittima di questo intellettualismo. L’intuizione, invece, è in grado di immedesimarsi nella durata, senza frammentarne il flusso, ma rispettandone l’unitarietà e la compenetrazione dei diversi momenti (passato, presente e futuro), che non si danno, come tali, fuori della coscienza. Lo spirito si caratterizza per la memoria, in cui tutto il passato è conservato e l’identità è garantita nella continuità, mentre il corpo, con le sue percezioni, è lo strumento per agire sulle cose e si concentra sul presente e sui suoi stimoli. Ma la nozione di durata reale non caratterizza solo la coscienza; essa influenza anche la concezione dell’intero universo, inteso come uno slancio vitale, in una continua evoluzione, che però non segue né un modello meccanicistico, né un modello finalistico, giacché in entrambi i casi verrebbe negata la spontaneità e la novità del processo reale. Si tratta, invece, di uno slancio vitale, una forza immanente alla stessa materia, che è creatrice di forme sempre nuove (al pari di fuochi d’artificio), si ramifica e si biforca, dando vita alle piante, agli animale e agli uomini. Anche la società e la religione, a seconda che in esse prevalga una considerazione oggettivante, orientata all’azione utilitaria, o una conoscenza immediata e intuitiva della realtà in sé, si suddividono in società chiusa e religione statica oppure in società aperta e religione dinamica. In queste ultime regna una dimensione personalistica e sono all’opera il sentimento, l’amore e l’afflato mistico. La filosofia dello spirito – Con il nome di «Filosofia dello spirito» si inaugura nel 1934 una collana editoriale, a cura di Louis Lavelle (1883-1951) e René Le Senne (1882-1954), con un triplice intento teoretico: chiamare a raccolta pensatori che abbiano il gusto della filosofia pura, preoccupati non del trionfo della propria opinione, ma di salvaguardare la vita dello spirito e offrire all’umanità una luce capace di orientarla; combattere lo scientismo dominante che, riducendo ogni conoscenza a quella sperimentale, nega alla filosofia un contenuto specifico e toglie ogni valore all’interiorità dell’uomo; reagire anche alla proposta esistenzialistica, che propugna un soggettivismo radicale, parziale e limitato, e, soprattutto, incapace di trovare nell’Assoluto la sua norma e il suo valore. Gabriel Marcel (1889-1973), spesso avvicinato all’esistenzialismo, cui darebbe una curvatura teistica e cristiana, propone una «filosofia concreta», in cui il tema dell’incarnazione e l’attenzione alla corporeità consentono un’analisi accurata dell’esistenza, seguendo alcune disposizioni esistenziali che mettono in luce la creatività e la libertà proprie dell’impegno umano. L’interesse primario è però dichiaratamente ontologico: l’essere non appartiene alle cose che possono venir oggettivate, determinate e trasformate, non è mai un oggetto di un problema, ma, piuttosto, è un mistero e può venire riconosciuto, attraverso l’intuizione, come una trascendenza assoluta, che tutto sostiene. Si pone, allora, un’alternativa tra avere ed essere, tra chi risolve la propria vita nel mondo dell’oggettivazione, del possesso e della tecnica, e chi la vive nel mistero che coinvolge sia in un rapporto intimo con se stessi e con la propria corporeità, sia in un’apertura e comunione nei confronti degli altri e dell’Altro, resa possibile dalla fedeltà e dall’amore. Louis Lavelle intende riprendere esplicitamente una metafisica e un’ontologia, sollevandole dal discredito in cui sono cadute e destinandole a diventare scienza

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di quell’essere, che non sarà oggetto di dimostrazione, ma verrà colto, attraverso un’intuizione, nella propria intima esperienza spirituale. Se il pensiero coglie l’essere, questo è, nella sua radicale opposizione al nulla, atto e atto assoluto, che nulla ha fuori di sé e che crea tutto quanto esiste. L’Assoluto crea tutti gli esseri, e i singoli atti finiti, esistenti nello spazio e nel tempo, si scoprono nella partecipazione a questo unico atto, pur rimanendone ontologicamente distinti. René Le Senne, pur dedicando molta attenzione alla complessità dello spirito nelle sue molteplici operazioni e prendendo le distanze sia dal realismo oggettivante, sia dall’idealismo soggettivo, offre il suo maggiore contributo nell’analisi del valore e della dimensione etica. In particolare, egli pone l’accento sulla fondamentale esperienza umana in cui, da un lato, si constata la distanza tra un io empirico, limitato e parziale, e un orizzonte universale, che conferisce valore a tutti gli enti finiti ed è il Valore assoluto e incondizionato; dall’altro, a ogni livello si è di fronte a contraddizioni, conflitti e ostacoli apparentemente insuperabili. Questa opposizione tra ostacolo e valore costituisce una dialettica, che esige un continuo superamento e mette continuamente in azione la nostra libertà e il nostro impegno; inoltre, occorre evitare di confondere un valore determinato con l’Assoluto, cadendo così nel fanatismo: non esiste un unico modello di vita valido per tutti, giacché molteplici sono i valori, cioè le diverse prospettive attraverso cui il Valore, uno e trascendente, si mette in rapporto con noi. Tra spiritualismo e personalismo – Un autore che, in Francia, pur non appartenendo in senso stretto alla corrente spiritualista, ha affrontato tematiche affini da un analogo punto di vista e ha avuto largo influsso, anche a livello sociale e politico, è Emmanuel Mounier (1905-1950), il quale nel 1935 fonda il movimento personalista. Riflettendo sulla crisi mondiale del 1929, interpretata come una crisi di civiltà, egli polemizza sia contro l’individualismo e l’egoismo della società borghese, e la concezione antropologica che ne sta alla base, sia contro il materialismo e l’ateismo, propri del marxismo, e propugna una valorizzazione della persona non concentrata su di sé, ma strutturalmente aperta agli altri e a Dio. La persona non è uno spirito disincarnato, ma vive in intimo legame con un corpo, sicché non ha solo esigenze spirituali, ma anche essenziali bisogni materiali da soddisfare. In questa concretezza essa comunica con gli altri, si pone dal loro punto di vista, fino ad assumere su di sé il destino e la sofferenza degli altri: l’atto primo della persona è perciò quello di suscitare, insieme con altri, una società le cui strutture, costumi e istituzioni favoriscano la crescita di persone mature. Ma la persona ha anche un’intimità profonda, che sfugge alle descrizioni concettuali; una singolarità che comporta una vocazione, da scoprire, nel raccoglimento, al di là delle molteplici distrazioni. In Italia spiritualismo e personalismo hanno trovato riscontri ed espressioni originali: soprattutto, in polemica contro l’idealismo, rivendicano la concretezza dell’atto spirituale e la reale molteplicità degli spiriti, ontologicamente distinti, nel comune riferimento allo Spirito divino, creatore e trascendente. Si compie, così, un incontro con l’esperienza cristiana, ma ci si differenzia dall’altra corrente di ispirazione cristiana, che è la neoscolastica. Questa, sulla linea della tradizione di Aristotele e Tommaso, muove la sua riflessione dalla nozione di ente in generale, mentre gli spiritualisti privilegiano l’interiorità spirituale e l’atto riflessivo. Di qui, molti valorizzano la persona, come un io avente valore e dignità peculiari, nel suo rapporto con gli altri e con Dio. A questa corrente appartengono autori come Armando Carlini, Michele Federico Sciacca, Augusto Guzzo e Luigi Stefanini.

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Bibliografia essenziale– H. Bergson, Materia e memoria, Laterza, Bari 1996; H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Cortina, Milano 2002; M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica, La Scuola, Brescia 1970; R. Le Senne, Ostacolo e valore, Morcelliana, Brescia 1950; G. Marcel, Giornale metafisico, Abete, Roma 1966; G. Marcel, Essere e avere, Guanda, Modena 1943; E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica Editrice, Cassano (Bari), 1975; E. Mounier, Che cos’è il personalismo, Einaudi, Torino 1975.

Utilitarismo Eugenio Lecaldano Che cos’è l’utilitarismo – L’utilitarismo è una teoria che ha saputo essere al centro del dibattito filosofico negli ultimi tre secoli. Va subito chiarito, prima di ricostruirne la storia, che si tratta di una proposta normativa sulla condotta morale degli esseri umani. Non sempre in culture come quella italiana si riesce a capire pienamente questo punto e si confonde l’utilitarismo con posizioni molto diverse, che identificano le scelte degli esseri umani con soluzioni di tipo egoistico, quali ad esempio la ricerca della propria personale felicità o del proprio interesse. Ma l’utilitarismo, come corrente del pensiero occidentale dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri, non ha niente a che fare con tali tentativi di mettere da parte l’incidenza della moralità. Esso rappresenta invece un coerente tentativo d’esperienza di quella che è l’effettiva condotta umana con il riconoscimento della presenza, nella nostra specie, di motivazioni altruistiche e imparziali. Gli utilitaristi, al di là delle differenze tra i singoli pensatori, condividono l’impostazione fatta valere con chiarezza dal fondatore di questa linea di pensiero, Jeremy Bentham: le azioni giuste debbono essere identificate nelle situazioni concrete privilegiando quella condotta che, tra le diverse alternative che ci stanno di fronte, otterrà il massimo bene, ovvero la maggiore felicità generale. Secondo gli utilitaristi ciò che dobbiamo fare può essere scoperto attraverso una valutazione il più possibile precisa e pubblica delle conseguenze. Essi si sono dunque sempre impegnati nel proporre soluzioni ai problemi morali, giuridici e politici di volta in volta prevalenti, sulla base di un’effettiva esperienza delle condizioni esistenti: muovendo da queste, essi invitano esplicitamente a privilegiare le azioni più utili, ovvero quelle le cui conseguenze sono in grado di soddisfare gli interessi del maggior numero di persone coinvolte. Proprio per il fatto di presentarsi come un’etica dell’esperienza, l’utilitarismo risulta un movimento di pensiero che negli ultimi due secoli ha più volte proposto soluzioni normative innovative per le questioni morali divenute centrali nelle diverse epoche. Un movimento tuttora vivo malgrado i molti tentativi di decretarne la morte. La storia dell’utilitarismo – La storia dell’utilitarismo può essere fatta ricostruendo i diversi modi in cui esso, impegnandosi nella radicale trasformazione della morale tradizionale, ha contribuito al processo di revisione del costume nelle società occidentali dalla fine del Settecento ad oggi. Infatti, le principali svolte della storia dell’utilitarismo sono collegate non solo a revisioni di ordine teorico, ma anche alla necessità di questa dottrina normativa di mantenere ferma la capacità di influenzare le società su cui operava, rispettando la sua generale impostazione riformista.

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Bentham – Già ampia e approfondita è l’elaborazione che dell’utilitarismo ha fornito Jeremy Bentham (1748-1832). Bentham presentò la sua dottrina come componente di un movimento culturale radicale, impegnato a liberare la società inglese dai pregiudizi e dalle ingiustizie che mantenevano in vita un costume morale costruito per difendere gli interessi dei ceti aristocratici dominanti. Tale costume, in nome di presunte intuizioni morali universali e naturali, pretendeva di dare fondamento a un sistema politico e giuridico che garantiva i privilegi di pochi, causando ai più sofferenze e una generale infelicità. Particolarmente importante fu dunque il modo in cui Bentham nelle sue principali opere – Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Un frammento sul governo, Deontologia, Panottico – contestò le istituzioni del suo tempo: il funzionamento dei tribunali, l’amministrazione della giustizia penale e della carcerazione, i meccanismi di votazioni politiche, il ruolo delle costituzioni come limiti agli arbìtri dei governanti nei confronti delle minoranze. In tutte queste aree Bentham denunciò il tentativo di imporre soluzioni inique fatte passare come decreti assoluti che coincidevano o con i comandi divini o con le leggi naturali. Contro tali soluzioni Bentham propose di adottare l’uso del metodo utilitaristico. Esso, attraverso una discussione pubblica delle conseguenze delle varie opzioni disponibili sulle vite di tutti coloro che erano interessati, era in grado di suggerire riforme etico-politiche che miglioravano le condizioni della maggioranza. Con Bentham l’utilitarismo si presentava anche come un’etica alternativa all’impostazione razionalistica delle moralità tradizionali. Infatti, già con lui l’utilitarismo indicava che ciò che è al centro della condotta morale non è la considerazione della razionalità degli esseri coinvolti, ma piuttosto l’attenzione alle sofferenze e ai danni prodotti dalle diverse alternative su tutti gli esseri capaci di avere degli interessi. Una revisione su ciò che conta per la moralità che spingerà gli utilitaristi ad allargare anche agli animali il circolo di attenzione dell’etica, andando oltre l’egoismo di specie delle tradizionali moralità religiose o giusnaturalistiche. John Stuart Mill – L’utilitarismo viene sottoposto a una radicale riforma e ampliamento da John Stuart Mill (1806-1873). Nel caso di Mill l’obiettivo principale non era quello di trasformare le istituzioni giuridiche e politiche come aveva fatto Bentham. Si trattava piuttosto di operare per trasformare la società civile in modo tale da rendere possibile la piena libertà di tutti. È appunto questo tipo di obiettivo che Mill pone al centro del suo utilitarismo liberale, sviluppato in un’ampia mole di scritti, tra i quali sono da ricordare Sistema di logica deduttiva e induttiva, La Libertà, L’utilitarismo, L’asservimento delle donne, I principi di economia politica. Secondo Mill, l’obiettivo della moralità va sempre identificato alla luce del criterio utilitaristico e, dunque, il bene non può che consistere nella felicità generale degli esseri umani. Ma Mill ritiene poi che la felicità generale possa essere favorita non tanto modificando le istituzioni, quanto piuttosto liberando quelle parti dell’umanità che nella società inglese della seconda metà del XIX secolo venivano discriminate e mantenute in una condizione di esclusione e assoggettamento. La priorità etica era dunque quella di favorire la liberazione e conseguentemente l’autonoma crescita morale delle donne e degli operai. La felicità di tutti ne avrebbe guadagnato, secondo Mill, se tutte le persone adulte – indipendentemente dal sesso, dal tipo di lavoro e dalle convinzioni morali e religiose – fossero state messe in condizione di vivere liberamente, ovvero di realizzare in modo autonomo quella tendenza progressiva alla crescita e al perfezionamento, che sembra essere

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il tratto comune di tutti gli esseri umani. Anche in questo caso, l’utilitarismo non si limitava a criticare i pregiudizi in nome dei quali donne, operai o persone con diverse convinzioni etiche erano tenute in soggezione, ma suggeriva anche linee di condotta che, se universalmente diffuse, avrebbero accresciuto la felicità generale. Per Mill esse, diversamente da ciò che riteneva Bentham, non dovevano preoccuparsi solo di incrementare la quantità dei piaceri di tutti, ma dovevano mirare a forme di eccellenza e condotte virtuose – anche del tutto esclusive delle persone che le creavano – che avrebbero permesso un miglioramento qualitativo delle condizioni di vita di tutta l’umanità. Mill collegava così l’utilitarismo con obiettivi di crescita spirituale e intellettuale, che erano considerati un correlato indispensabile di una condotta guidata dalla sensibilità morale. Il Ventesimo secolo – L’esigenza di riformare e ampliare la concezione del bene dell’utilitarismo non riducendolo alla concezione edonistica di Bentham sembra caratterizzare la storia di questa concezione dalla fine del XIX secolo ad oggi. Così Henry Sidgwick (1838-1900) nei suoi Metodi dell’etica ha cercato di proporre un utilitarismo su base intuizionistica, che riconosce l’importanza delle regole della moralità di senso comune per realizzare la felicità generale. Una rinascita dell’utilitarismo si ha dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando vengono avanzate varie formulazioni etiche che identificano il bene e la felicità generale non più con piaceri oggettivi quanto piuttosto con il soddisfacimento delle preferenze e dei desideri individuali. Questa riformulazione della felicità è rintracciabile, ad esempio, in pensatori come Richard Booker Brandt (1910-1997) e John Harsanyi (1920-2000), che modificano anche la struttura del criterio utilitarista, ritenendo che esso si applichi non già alle conseguenze delle singole azioni, quanto piuttosto a ciò che comporta seguire determinate regole o norme. Queste revisioni teoriche cercano di fare i conti con le critiche di coloro che ritengono inapplicabile la procedura di comparazione tra gli esiti di diversi corsi di azione, sia per ragioni procedurali di tempo, sia per la difficoltà di un confronto interpersonale tra i piaceri e le soddisfazioni di diversi soggetti. L’ampliamento maggiore dell’utilitarismo è stato realizzato per renderlo capace di confrontarsi con le varie dimensioni dell’etica pratica e applicata sviluppatesi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. In questo senso la personalità più significativa è quella di Peter Singer (1946). Da una parte, Singer con Liberazione animale, muovendo dall’esigenza morale utilitarista di tenere nel debito conto anche le sofferenze degli animali, delinea la necessità di una completa revisione delle pratiche tradizionali a proposito dell’alimentazione e della sperimentazione. Dall’altra, con Etica pratica anticipa tutte le linee con cui i teorici dell’utilitarismo cercheranno di mettere a punto nuovi criteri di responsabilità morale nelle situazioni di nascita, cura e morte rese comuni per gli esseri umani con gli avanzamenti della ricerca biologica e della medicina. La bioetica, l’etica ambientale e il trattamento degli animali hanno fornito alla riflessioni utilitaristiche contesti in grado di sviluppare nuove elaborazioni della moralità umana. Bibliografia essenziale – F. Fagiani, L’utilitarismo classico: Bentham, Mill, Sidgwick, Liguori, Napoli 1999; Piergiorgio Donateli, Introduzione a John Stuart Mill, Laterza, RomaBari 2007; Eugenio Lecaldano, a cura di, L’utilitarismo: un’etica dell’esperienza, fascicolo speciale della «Rivista di Filosofia», CXIX, 2008, n.3 (con contributi di G. Pellegrino, F. Rosen, S. Bucchi, M. Renzo, G. Pontara, B. Hooker, T. Mulgan, J. Skorupski, E. Lecaldano, M. Mori).

sezione v Problemi

Antropologia filosofica Andrea Borsari Già Immanuel Kant affermava, nelle sue lezioni di logica (1800), che le tre domande filosofiche fondamentali «che cosa posso sapere?», «che cosa debbo fare?» e «che cosa mi è dato sperare?», con le relative discipline metafisica, morale e religione, possono essere ricondotte a una quarta domanda, «che cos’è l’uomo?» alla quale tutte fanno riferimento e, con essa, all’antropologia cui va riportato l’intero campo dell’interrogazione filosofica. Occorre tuttavia attendere il XX secolo perché l’antropologia filosofica si configuri in quanto sottodisciplina della filosofia, come riflessione sulla tradizione filosofica per ricostruire le diverse concezioni dell’uomo che in essa hanno operato e come elaborazione di un’immagine della condizione e della natura umana all’altezza del presente. In questa direzione e in ambito prevalentemente tedesco si è sviluppato un indirizzo di pensiero specifico, che si è proposto di integrare in una originale sintesi filosofica i risultati delle scienze naturali, anche sulla scorta del primo impetuoso sviluppo delle scienze della vita tra Otto e Novecento, con i risultati delle scienze storico-sociali. Dopo l’impulso iniziale fornitogli da Max Scheler, tale approccio ha trovato sviluppo soprattutto nell’opera di Helmuth Plessner e di Arnold Gehlen, per conoscere una parziale eclissi a partire dalla fine degli anni Sessanta, e ritrovare poi, nell’ultimo ventennio, un crescente e rinnovato interesse. Il progetto di antropologia filosofica di Max Scheler (1874-1928), rimasto incompiuto per la sua morte improvvisa e consegnato alla conferenza La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), riconsidera l’intera sfera del vivente a partire dalle continuità e discontinuità che in essa si dispiegano rispetto al suo culmine metafisico nell’uomo. Comune alle piante è infatti l’impulso affettivo, la tendenza alla crescita e alla riproduzione priva di rappresentazione; comuni agli animali sono gli istinti, gli atti di origine innata volti a mantenere in vita gli organismi; agli animali superiori la memoria associativa, il comportamento abitudinario che fissa per prove ed errori le associazioni funzionali, e l’intelligenza pratica, la capacità di far fronte a situazioni nuove e impreviste. Esclusivo invece dell’uomo è il principio dello spirito. Lo schema graduale scheleriano assegna a tutto il vivente una dimensione psichica, contrapponendosi alla separazione tra corpo e anima, salvo poi definire la peculiarità della posizione nel cosmo dell’uomo nella differenza qualitativa essenziale rispetto all’animale data dallo spirito come principio che si oppone alla vita in generale e che comprende la ragione, il pensiero ideativo, l’intuizione, gli atti emozionali e volitivi. Laddove il comportamento dell’animale è legato a un ambiente determinato, gli esseri umani sono in grado di prendere le distanze dalle coazioni della vita biologica aprendosi al mondo. Il che comporta la duplice conseguenza di dotare l’uomo della capacità di «de-realizzare» il mondo facendone l’«asceta della vita», «colui che sa dire di no», e di consentirgli di oggettivare il mondo, trasformando in oggetti e in simboli quei centri di resistenza che gli si oppongono. Ciò che tuttavia conferisce forza allo spirito, di suo privo di potenza, e lo mette in grado di ottenere risultati è la vita, di per sé cieca rispetto alle idee e ai valori spirituali. L’uomo in quanto spirito è «persona» che si apre illimitatamente al mondo e partecipa del «fondamento del mondo», non il dio delle religioni rivelate, ma la tensione permanente tra vita e spirito, in continuo divenire nel mondo e nell’uomo.

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Con Helmuth Plessner (1892-1985) il problema dell’unità del mondo organico si pone in maniera ancor più radicale. Nella sua «introduzione all’antropologia filosofica» del 1928, I gradi dell’organico e l’uomo, espone le modalità caratteristiche e irriducibili degli organismi posti nel divenire. Specifico della forma di vita vegetale è di essere aperta, priva di un centro che ne organizzi le funzioni e in stretta simbiosi con l’ambiente, mentre la forma di vita animale, e quella umana come sua ulteriore determinazione, si presenta come chiusa, separata dall’ambiente e dotata di un centro proprio. La vita dell’uomo, sebbene non possa spezzare la centratura, ne è al contempo proiettata al di là, e la sua posizionalità è pertanto «eccentrica». Si produce negli esseri umani una insopprimibile «duplicità d’aspetto» dell’esistenza che consiste nel trovarsi all’interno del proprio corpo e, grazie alla capacità di auto-osservazione e messa a distanza, al suo esterno ma, allo stesso tempo, nella frattura fra l’uno e l’altro. L’uomo vive al di qua e al di là di tale rottura, nell’essere corpo, nell’avere un corpo e nell’oscillazione tra i due. La condizione umana che così si viene a delineare risulta definita dalle tre leggi antropologiche fondamentali: l’artificialità naturale, il radicamento nella via indiretta della cultura, secondo la quale l’uomo, privo di «sicurezza istintuale», si trova costretto a vivere percorrendo diversioni attraverso le «cose artificiali» e, in quanto essere eccentrico, non in equilibrio, privo di luogo e di tempo, costitutivamente spaesato, deve «diventare qualcosa»; l’immediatezza mediata, l’impossibilità di permanere in e di fare a meno di uno dei due termini, nella quale l’elemento intermedio è necessario per garantire l’immediatezza della connessione, da cui deriva la coazione all’espressione, alla comunicazione e alla socialità; il luogo utopico, per cui l’essere umano sta dove sta e, insieme, dove non sta, è in grado di aprirsi all’intero universo ma, nello stesso tempo, è privo di una collocazione determinata in esso. Un netto rifiuto dello schema graduale è invece espresso da Arnold Gehlen (1904-1976) che, in L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), considera la specie umana come svincolata dall’adattamento a un ambiente specifico ed esposta alla massima apertura al mondo, priva della dotazione naturale, degli organi specializzati, della guida fornita dagli istinti e della sicurezza di comportamento che consentono agli animali di mantenersi in vita. L’uomo occupa perciò una posizione particolare rispetto al mondo animale, e in confronto a esso si può definire, secondo la formula di Herder, come «essere carente», sebbene egli sia, nella sua realtà organica, sottoposto alla «ricchezza» della pressione di stimoli molteplici e di un «eccesso pulsionale», che lo spinge ad attivare una serie di prestazioni di esonero dal contatto diretto e di azione a distanza come la coscienza, la fantasia e il linguaggio. Per capire come un essere equipaggiato in maniera così carente possa affrontare con successo i compiti della sopravvivenza occorre rilevare l’importanza che per lui riveste l’azione, la capacità di modificare la natura in vista dei propri obiettivi, la spinta ad agire che in lui provoca la stessa carenza istintuale, lo iato che si apre tra stimolo e risposta, spingendolo a rovesciare in opportunità i propri limiti. Al campo infinito di sorprese costituito dal mondo è perciò in grado di fare fronte con la plasticità delle sue reazioni che attraverso l’azione riducono il mondo stesso a oggetti e nomi manipolabili. Da tale inclinazione fondamentale discende anche il ruolo di semplificazione e di esonero svolto dalle istituzioni, il coagulo delle forme oggettivate in cui gli esseri umani vivono e lavorano che ne stabilizza e orienta i comportamenti, e dalla tecnica, che a partire

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dalla sfera corporea integra, sostituisce o supera le prestazioni organiche fino a produrre un mondo artificiale, a sua volta fonte di insicurezza e di un ulteriore impulso alla tecnicizzazione. All’universalizzazione della tecnica e al disagio che essa provoca, mettendo in luce il dislivello che si è prodotto tra le facoltà umane e il mondo artificiale degli oggetti tecnologici, ha dedicato la propria riflessione Günther Anders in L’uomo è antiquato (1956, 1980), uno degli esempi più rilevanti tra i pensatori che confluiscono nella odierna ripresa di attenzione per la antropologia filosofica, al di là della torsione sociologica che le impressero nel secondo dopoguerra Gehlen e Plessner e del suo successivo parziale oscuramento. Al cospetto delle grandi trasformazioni dell’ultimo ventennio che riservano un ruolo centrale alle scienze della vita e alle neuroscienze e che assegnano un peso crescente alla dimensione culturale nella vita individuale e sociale, l’antropologia filosofica si trova infatti nella posizione favorevole a intercettare le nuove domande di comprensione, guardando ai classici che l’hanno ispirata, ma rielaborando nella propria riflessione i risultati delle discipline scientifiche, umane e sociali. Bibliografia essenziale – A. Borsari, a cura di, Antropologia filosofica e pensiero tedesco contemporaneo, «Iride», 39, 2003, n. 39, pp. 254-360; A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), Feltrinelli, Milano 1983; H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica (1928), Bollati Boringhieri, Torino 2006.

Bioetica Michele Lenoci Derivato da due parole greche, che rinviano a vita e a etica, il termine «bioetica» designa un insieme di questioni teoriche, sollevate dagli sviluppi della ricerca scientifica e dalle loro possibili applicazioni alla vita umana. Si tratta di problemi che non coinvolgono solo la filosofia, ma anche la medicina, il diritto, l’economia, la politica, e che oggi sono molto avvertiti sul piano sociale e sollevano accesi ed appassionati dibattiti. Si fa risalire all’oncologo Van Rensselaer Potter l’iniziale uso del termine, allorché nel 1970 manifesta l’esigenza di una nuova saggezza, una scienza della sopravvivenza, che, unendo competenza biologica e attenzione ai valori umani, consenta di governare i progressi della ricerca scientifica. Successivamente il significato originario si è modificato, alterandosi e ampliandosi, e con «bioetica» si è inteso o una branca dell’etica (e, quindi, una disciplina eminentemente filosofica, sia pure in stretto dialogo con le scienze mediche e biologiche) oppure l’etica medica o l’etica clinica, attenta soprattutto alle molteplici, diversificate e controverse applicazioni pratiche. Oggi, in genere si pensa a un’etica filosofica applicata a studiare e valutare gli sviluppi e le applicazioni delle scienze biomediche: in questo senso, in tutto il mondo, sono sorti centri di ricerca a forte caratterizzazione interdisciplinare, società e associazioni; sono state fondate riviste scientifiche e di alta divulgazione; sono state istituite cattedre universitarie, cosicché la bioetica, con molte discipline a essa collegate, è divenuta uno degli insegnamenti oggi più diffusi. Inoltre, la sua importanza deriva anche dal fatto, facilmente constatabile, che nella società attuale sussistono differenti concezioni

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del bene, a loro volte diversamente fondate, le quali ipotecano pesantemente il dibattito bioetico e richiedono sempre maggior rigore nell’argomentare e giustificare le soluzioni proposte. Se si pensa, poi, alle conseguenze di natura politica, legislativa e sociale, ben si comprende perché oggi la bioetica costituisca un centro di interesse particolarmente vivace. Per quel che riguarda la struttura teorica, si possono individuare alcuni orientamenti fondamentali: prescindendo da chi considera la bioetica solo un crocevia di discipline diverse, senza possedere autonomia e unità contenutistica, si può notare che essa talora viene interpretata come l’applicazione di alcuni principi etici, apparentemente autonomi, molto generali e unanimemente condivisi, come quelli di autonomia, giustizia e beneficialità. Soprattutto in ambito anglosassone, per superare l’alternativa tra etiche fondate sul dover essere e su una legge morale (deontologiche) ed etiche basate sull’indicazione di un fine da perseguire (teleologiche), si è fatto ricorso a tale impostazione. Tuttavia, ci si è accorti che spesso, di fronte a conflitti etici, occorre bilanciare il peso di tali principi, indebolendone l’assolutezza, con il rischio di dover mettere in discussione le premesse forti da cui si era partiti, trovandosi quasi costretti ad accettare un’etica della situazione. Altre due impostazioni di bioetica filosofica, collegate a ben precise concezioni etiche, occupano, allora, il campo: l’una fa riferimento a un’antropologia personalista, in cui la persona possiede lo spessore ontologico di una sostanza (avente precisi caratteri essenziali, cioè una determinata natura), mentre l’altra, prevalentemente fondata su una prospettiva utilitaristica, mira a ottenere la massima felicità possibile per il più gran numero di persone e sottolinea, in modo particolare, il principio di autonomia nelle decisioni di ogni singola persona, circa le questioni riguardanti la propria esistenza, ove non si leda analogo diritto negli altri. A questo secondo indirizzo si collegano anche quanti, ritenendo che le proposizioni valutative non possano derivare da constatazioni di fatti empirici (cioè che dal semplice essere non si possa dedurre alcun dover essere) e che le valutazioni non possano essere vere o false, riservano alla bioetica un compito di chiarificazione linguistica e concettuale, tesa a mettere in luce le diverse premesse, soprattutto quelle implicite e sottaciute, per rendere l’argomentazione assolutamente trasparente e per precisare le contrapposte opzioni, soprattutto quando risultano irriducibili. Alla prima impostazione fanno riferimento studiosi come Elio Sgreccia, Adriano Pessina, Sandro Spinsanti, Francesco D’Agostino e Adriano Bompiani; mentre alla seconda si possono ricondurre, fra gli altri, filosofi come Eugenio Lecaldano, Maurizio Mori e Uberto Scarpelli. Alla posizione personalista, che a sua volta subisce varie sfumature e integrazioni, si collegano, senza confondersi, almeno in linea di principio, anche talune prospettive bioetiche fondate su una concezione religiosa o teologica: in particolare, il magistero della chiesa cattolica, ma anche gli orientamenti delle chiese evangeliche, ortodosse o le indicazioni della religione ebraica e mussulmana. La chiesa cattolica, soprattutto, è intervenuta con numerose prese di posizione su quasi tutte le questioni che interessano la bioetica, fondando sulle Sacre Scritture e sulla tradizione le sue tesi, che pure aspirano ad avere una plausibilità razionale universale. In ogni caso, la bioetica filosofica, anche quando di fatto perviene a risultati analoghi a quelli ispirati religiosamente, argomenta esclusivamente su basi razionali, che, come tali, devono essere accessibili a una

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pubblica discussione e possono essere condivise a livello universale. Da questo punto di vista, la distinzione tra una «bioetica laica» e una «bioetica cattolica», pur servendo, di fatto, a differenziare certe posizioni contenutistiche e certe impostazioni prevalenti, è, in linea di principio, impropria, giacché la bioetica, ove sia filosofica, si fonda solo su basi razionali (e non religiose o teologiche), anche qualora argomenti a favore di una metafisica e di un’ontologia, da cui poi deriverebbe un’etica: e sarà attraverso una discussione razionale, che quelle tesi andranno poi difese e adeguatamente giustificate, senza addurre il richiamo alle Scritture. Le sole differenze nei contenuti teorici non implicano ancora una differenza a livello metodologico. Fra quanti ritengono che la bioetica sia una disciplina relativamente autonoma, vanno ricordate tre correnti significative e influenti: quella che si richiama a Peter Singer ritiene necessario distinguere il concetto di persona da quello di essere umano e riformulare la nozione di persona, alla luce delle sue qualità e funzioni, più che in virtù di una presunta sostanza, in modo da includere in essa anche mammiferi non umani, ma capaci di forme di autonomia e di relazione. Hugo Tristram Engelhardt difende, invece, una bioetica intesa come nuova forma di etica pubblica, necessaria in una società, come l’attuale, in cui le molteplici e contrapposte concezioni del bene rendono stranieri morali quanti le professano, sicché occorre ritrovare procedure tendenzialmente formali, assai povere di contenuto, per consentire a comunità morali divergenti di convivere pacificamente e di collaborare. Infine, Hans Jonas, pur non occupandosi direttamente di bioetica, sviluppa numerose riflessioni sulla società tecnologica e sui problemi che essa pone alla sopravvivenza delle generazioni future e della specie umana e individua nel «principio responsabilità» la bussola per orientarsi in un momento in cui le etiche tradizionali sono entrate in crisi o hanno difficoltà a misurarsi con problemi nuovi e imprevisti. Gli interventi sui viventi, che la scienza consente, mediante trapianti o grazie all’ingegneria genetica, hanno trasformato la nostra esperienza quotidiana e pongono questioni riguardanti l’identità personale, le relazioni umane, il senso e la portata della responsabilità. Nel dibattito attuale, emerge chiaramente una prima questione preliminare allorché si riflette sul fatto che, in molti interventi resi possibili dalla scienza, diventa difficile distinguere tra la pura ricerca e l’applicazione della medesima, da una parte, e il considerare la prima neutrale e, quindi, eticamente lecita, la seconda, invece, suscettibile di una valutazione positiva o negativa, dall’altra. In tali casi, la sperimentazione richiede un’operazione che trasforma, modifica e, quindi, coincide già con un’applicazione. Sul piano dei contenuti, i problemi affrontati riguardano tutta l’esistenza umana, ma, in modo particolare, i momenti di inizio e di fine vita: se inizialmente si trattava di discutere della liceità o meno dell’aborto, ora, grazie all’ingegneria genetica, si pongono altre questioni, come quelle relative alle pratiche di fecondazione assistita o alla possibilità di interventi eugenetici, per prevenire malattie o acquisire determinati caratteri, oppure alla liceità dell’uso di cellule staminali embrionali, per condurre ricerche che potrebbero, forse, curare gravi malattie degenerative. Sorge allora la domanda su quale sia lo statuto dell’embrione, se esso sia già persona in atto o solo persona in potenza o soltanto un ammasso di cellule, che solo successivamente potrà evolvere come persona. Su un altro fronte, quello del fine vita, viene discussa la modalità di accertamento

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della morte, anche allo scopo di rendere possibile l’espianto degli organi e il relativo trapianto. Da qui seguono altre questioni. Se l’accanimento terapeutico va comunque evitato, quali sono i limiti entro cui esso si configura? Che cosa si intende allorché si parla di mezzi sproporzionati, che nei casi estremi, vanno abbandonati, e di mezzi proporzionati, che devono essere comunque garantiti (e l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono atti terapeutici, che possono essere sospesi, oppure no)? Infine, anche se apparentemente meno drammatiche, non sono meno urgenti questioni relative all’allocazione delle risorse in sanità, soprattutto allorché le disponibilità sono limitate, certe strutture sono molto costose e le decisioni al riguardo comportano scelte e, naturalmente, anche esclusioni. Restano poi da fissare i confini per la sperimentazione clinica, farmacologica e chirurgica: pur essendo questioni più specialistiche, esse implicano decisioni rilevanti per la salute e la vita di molti pazienti, e non sono eticamente indifferenti. Nell’approccio a tutti questi temi e nella proposta di soluzioni solitamente si fronteggiano, sul piano filosofico, due impostazioni, che fanno riferimento agli schemi concettuali in precedenza ricordati. Da un lato, chi vede nell’essere umano un individuo con una determinata natura e un fine da raggiungere in una meta ultraterrena (e cerca di argomentare queste tesi razionalmente), considera sacra la vita umana e degna di essere rispettata e difesa dal concepimento sino alla morte naturale, evitando nel corso dell’esistenza tutti gli interventi lesivi di quella intangibile dignità. D’altro lato, quanti distinguono l’essere umano dalla persona e ritengono che la persona si identifichi in una serie di funzioni, più che in una certa sostanza, sicché questa perde il suo carattere e la sua dignità ove non sia più capace di autocoscienza e di relazione: questi ultimi antepongono alla difesa della vita, il mantenimento di una «qualità della vita» accettabile e legittimano tutti gli interventi atti a salvaguardare una vita ritenuta dignitosa. Inoltre, poiché il principio dell’autonomia e dell’autodeterminazione, in questa prospettiva, è considerato fondamentale, ciascuno è legittimato a disporre della propria vita, decidendo quegli interventi ritenuti adatti a migliorarla, in una visione utilitaristica, o, al limite, accettando quelle pratiche necessarie per porvi fine, allorché non la si ritenesse più degna di essere vissuta. Come ben si comprende, tali questioni, che spesso danno luogo a dibattiti appassionati, coinvolgono, in maniera anche drammatica, l’esistenza concreta delle persone e configurano fattispecie che richiedono distinzioni sottili e implicano considerazioni di natura antropologica e ontologica, le quali vanno ben oltre la mera constatazione di quanto la scienza e la tecnica consentano di attuare: poiché non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche lecito, diventa sempre più urgente una pacata riflessione personale e pubblica, da cui dipende sia il nostro progresso, sia il futuro dell’umanità. Bibliografia – P. Cattorini, R. Mordacci, M. Reichlin, a cura di, Introduzione allo studio della bioetica, Europa Scienze Umane Editrice, Milano 1996; F. D’Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia 2007; H.T. Engelhardt Jr., Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999; E. Lecaldano, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Bari 1999; A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999; U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini & Castoldi, Milano 1998; S. Semplici, Undici tesi di bioetica, Morcelliana, Brescia 2009; E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 1999.

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Cinema e filosofia Mario Pezzella Per una riflessione sull’estetica e la filosofia del cinema, si può prendere come punto di partenza lo differenza di opinioni tra Theodor Adorno e Walter Benjamin sul destino della nuova arte. Secondo Adorno, il cinema – per il modo in cui nasce ed è prodotto – è inesorabilmente asservito all’industria culturale e incapace di vera creazione artistica; tanto meno è in grado di compiere una critica sociale e politica. Per Benjamin, al contrario, il cinema è l’arte espressiva più importante della modernità, perché l’unica in grado di riflettere i suoi modi di percezione e la vita delle metropoli e delle grandi masse. Per Benjamin, l’esperienza dell’uomo moderno nella grande città è divenuta discontinua e frammentaria, esposta a una serie continua di choc e al dominio della tecnologia, che condiziona anche le più piccole pieghe del quotidiano. Il cinema – nella sua produzione, nella sua tecnica produttiva, nell’arte della recitazione e perfino nella sua proiezione finale – è caratterizzato da una ricezione fondata sulla discontinuità delle immagini (inquadrature e fotogrammi) e sul prevalere degli strumenti tecnici rispetto alla presenza unica del corpo vivo (che invece è dominante nella prestazione teatrale dell’attore). L’arte tradizionale era caratterizzata dall’unicità e dall’originalità della sua produzione ed esposizione (com’è il caso per il «quadro d’autore» o l’attimo irripetibile della rappresentazione musicale o teatrale); il cinema porta invece all’estremo l’arte della riproducibilità, è ripetibile in copie molteplici, ed è assai difficile stabilire una differenza sostanziale tra la pellicola originale e le sue copie. Benjamin propose il concetto di «caduta dell’Aura», volendo così indicare che l’attenzione contemplativa rivolta all’arte tradizionale non è più oggi possibile, e abbiamo piuttosto a che fare con una ricezione distratta, continuamente interrotta (e in compenso sempre ripetibile). L’unico parallelo che si può fare con arti del passato è quello con l’architettura del Medioevo, quando i fedeli entravano nelle grandi cattedrali senza porre particolare attenzione alle opere d’arte pittorica che le decoravano; e tuttavia finivano per percepirle in modo distratto e ripetuto. Vero cinema è per Benjamin quello che esalta e mostra la discontinuità e la frammentarietà delle immagini, utilizzando un montaggio che esaspera il contrasto tra le singole inquadrature (come quello di Eisenstein), o una recitazione che evidenzia il carattere discontinuo ed espressivo dei gesti e della fisionomia umana (come quella di Chaplin). Tali frammenti vengono poi ricomposti dall’idea costruttiva del regista, dal «montaggio», che ha un significato non solo estetico, ma anche politico, e tende a far compiere un salto di qualità alla coscienza dello spettatore. Se riconsideriamo – a distanza di oltre mezzo secolo – il contrasto fra Benjamin e Adorno, potremo dire che entrambi hanno una parte di ragione. In effetti, nel corso dei decenni, l’industria culturale ha elaborato un modello di cinema spettacolare, in cui i caratteri critici che Benjamin attribuiva al cinema sono completamente scomparsi. Il cinema spettacolare tende a suscitare l’identificazione acritica e immediata dello spettatore con la storia narrata e i suoi personaggi, con gli stereotipi comportamentali degli attori e con i veri e propri miti dello «Starsystem»; l’effetto di realtà del film dev’essere tale da occultare ogni artificialità della sua produzione, da creare uno stato quasi ipnotico nello spettatore, e abbassare – invece che innalzare – le sue capacità critiche e riflessive. Il cinema spettacolare confina il cinema nello stato regressivo del sogno ad occhi aperti e, come ha fatto

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notare Christian Metz, riduce lo spettatore a una condizione infantile e passiva. D’altra parte, al cinema spettacolare si oppone un cinema critico-espressivo, che continua ad esistere, sia pure con caratteristiche in parte diverse da quelle individuate da Benjamin. Il maggior contributo all’estetica attuale del cinema è stato dato da Gilles Deleuze, con la sua riflessione sull’immagine-movimento (caratteristica del cinema classico e in particolare di quello hollywoodiano degli Venti e Trenta del Novecento) e sull’immagine-tempo (che caratterizza invece il nuovo cinema critico della seconda metà del secolo passato). Il cinema ha un elemento narrativo importante, che ne costituisce – per così dire – il contenuto reale: la trama, la storia, i personaggi. Ma il suo linguaggio articola la narrazione sul piano visivo, attraverso le inquadrature e il montaggio. Narrazione e visione sono dunque i due poli dialettici del discorso cinematografico, anche se si è potuto ipotizzare un cinema ipersperimentale, che facesse del tutto a meno dell’elemento narrativo (il cosìddetto «purovisibilismo»). Da un punto di vista più concettuale, ogni film costituisce un’articolazione specifica dello spazio e ci dà una particolare idea della successione del tempo (o anche del suo arrestarsi). Il significato del cinema critico-espressivo non risiede perciò tanto in quel che dicono i personaggi, nell’ideologia del regista, o nel modo in cui va a finire la trama; occorre piuttosto vedere in che modo un film espone le sue idee dello spazio e del tempo, e in essi colloca i materiali della vicenda. Per fare un esempio, nel cinema espressionista tedesco degli anni Venti del Novecento, lo spazio destabilizzato, ripreso obliquamente, tagliato dal contrasto della luce e dell’ombra, dà una sensazione opprimente di incertezza e mostra la precarietà dell’uomo, nel momento in cui sta per essere travolto dagli eventi tragici del nazismo e della guerra. Ciò non è espresso verbalmente o concettualmente, ma nella disposizione e nella rappresentazione dello spazio. Ogni film esprime anche un’idea del tempo. Nel cinema delle «immaginimovimento» o nelle forme classiche di montaggio, il tempo scorre in una successione lineare che accompagna il movimento narrativo delle inquadrature. Anche in questo caso, non è tanto importante ciò che avviene, quanto il ritmo e la scansione del tempo in cui accade. Così in un classico film western americano di «genere», assistiamo spesso a un movimento che ci porta da un’armonia iniziale alla rottura di essa ad opera del male (un pistolero, gli indiani, un politicante, ecc.), fino alla riconquista dell’armonia ad opera dell’eroe che sconfigge le forze del disordine. Questa struttura delinea un tempo progressivo lineare, che va da un punto A ad un punto B, e delinea una sorta di «progresso» dialettico, da cui l’eroe esce maturato e più forte. L’attraversamento del negativo lo ha portato a un livello umano e spirituale più alto. Il film esprime in questo caso l’idea di un tempo lineare e progressivo; in un film espressionista, come quelli di cui parlavamo prima, il tempo può invece mostrare una lacerazione senza sviluppo, un movimento che si consuma in una contraddizione sempre uguale; in un film sovietico, il contrasto e il salto qualitativo possono assumere un inedito rilievo e delineare un tempo che procede per discontinuità e aperture improvvise. In ogni caso, il modo in cui il regista esprime la sua epoca è strettamente legato al sentimento del tempo dei suoi personaggi e al modo in cui esso viene comunicato allo spettatore. In quale spazio siamo immersi? In quale forma del tempo si svolge la nostra vita? Queste sono le domande a cui un film critico-espressivo cerca di rispondere, dalla sua prospettiva particolare; in questo senso le sue immagini esprimono idee

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filosofiche fondamentali, le forme a priori entro cui avviene la nostra presentazione e ricezione del mondo, in un momento storico determinato. Nel cinema della seconda metà del Novecento si sviluppa – secondo Deleuze – una particolare forma di immagine-tempo, in cui l’espressività accentua l’importanza della singola inquadratura, la sua composizione simbolica e la sua costruzione, quasi il suo arrestarsi (anche se l’arresto effettivo è impossibile), per dar modo allo spettatore di percepire la sua struttura. Più che al ritmo delle azioni nel tempo, il significato è affidato ai gesti e agli oggetti che si compongono in un’inquadratura. Per fare solo un esempio, in un film di Antonioni tutti i personaggi si immobilizzano in un’inquadratura dilatata in cui appaiono come fantasmi entro la nebbia; e ciò esprime metaforicamente l’assenza di senso della loro vita, la mancanza di apertura verso il futuro e di memoria del passato, il vuoto della loro vita. Tale significato espressivo non è dato dalla narrazione e qui neanche dal montaggio delle loro azioni nel tempo – come avveniva nel cinema classico – ma dal rilievo simbolico intensivo, che acquista ogni particolare dell’inquadratura. Da quanto detto, si capisce che una vera estetica dal cinema non dovrebbe sovrapporre l’ideologia dell’interprete al linguaggio filmico, e neanche utilizzare i film come esempi banalizzati di una filosofia (come se ci fossero film «platonici» o «heideggeriani» o «lacaniani»); l’estetica deve piuttosto porre in rilievo l’idea del tempo e dello spazio che le immagini portano entro di sé. In senso stretto, come diceva Benjamin, quelle del cinema sono «immagini di pensiero», articolano cioè il pensiero entro la percezione e la ricezione dello spazio e del tempo, e non hanno alcun bisogno di vederselo imporre dall’esterno. Bibliografia essenziale – U. Curi, Ombre delle idee: filosofia del cinema da “American Beauty” a “Parla con lei”, Pendragon, Bologna 2002; M. Pezzella, Estetica del cinema, il Mulino, Bologna 2001; A. Sani, Il cinema tra storia e filosofia, Le Lettere, Firenze 2002.

Cognitivo/Cognitivismo Roberto Marchesini L’approccio cognitivo nell’interpretazione del comportamento prende corpo negli anni Sessanta del Novecento e può essere ricondotto a diverse fonti: a. l’implementazione della modellizzazione informatica nell’esplicazione dell’interfaccia soggetto-mondo; b. la nascita del pensiero della complessità e della valutazione sistemica degli insiemi organizzati e delle qualità dei sistemi; c. l’affermarsi della comparazione per omologia (comune progenitura) o per analogia (convergenza adattativa) nell’interpretazione delle performatività animali; d. l’emergere di un nuovo modo di fare ricerca etologica, attraverso prassi dialogiche e di socializzazione con gli etero specifici; e. lo sviluppo della neurobiologia e delle tecniche di neural imaging nell’indagine del rapporto cervello-comportamento e delle comparazioni tra le specie. La lettura cognitiva prende decisamente le distanze dalla proposta associazionista, propria di behaviorismo e psicoenergetica e corrente nell’etologia classica,

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rigettando quella visione meccanicista che trattava le dotazioni comportamentali come automatismi (gli istinti e i condizionamenti). Propone, al contrario, il modello di informazione-conoscenza quale fondamento sia della competenza operativa che della libertà o campo di espressione del soggetto. Secondo l’approccio cognitivo tanto in filogenesi, a opera della selezione naturale, quanto in ontogenesi, in virtù dell’apprendimento, si vengono a strutturare pacchetti di conoscenza a cui si fa ricondurre l’identità comportamentale del soggetto. A differenza degli istinti e dei condizionamenti, che hanno sul soggetto un’azione cogente, le conoscenze sono a disposizione del soggetto, sono cioè delle utilities: come una cartina topografica utile per compiere un itinerario, ma non imperativa nel definirlo, oppure un software necessario a scrivere un testo, ma non per indicare le caratteristiche del testo stesso. La rivoluzione informatica del secolo scorso ha reso disponibili dei modelli di interpretazione del comportamento basati sull’organizzazione sistemica delle dotazioni e sulla processazione interna degli input, vale a dire su un mondo elaborativo e posizionale in interfaccia elettiva e costruttiva rispetto alla realtà esterna. Questo sistema interno è deputato a ricostruire la realtà sulla base di focalizzazioni, emergenze, completamenti, attribuzioni di valore, funzioni logiche attraverso direttrici diacroniche riferite all’identità del sistema stesso, quali le evenienze passate, lo stato funzionale nel qui e ora, le aspettative future. Il concetto di mente trova così un nuovo significato che, evitando le pericolose chine dell’introspezione e della proiezione, si fonda su profili esplicativi replicabili, perché di fatto messi a punto sulle macchine informatiche. La modellizzazione informatica è fondata su sistemi che assumono profili funzionali diversi a seconda delle informazioni che possiedono e sono in grado di accumulare informazioni nel corso delle loro attività e quindi di sedimentare (presentare una traccia) le occorrenze trascorse; lavorano infine sulle informazioni che ricavano o ricevono dal mondo esterno. A differenza dei modelli non elaborativi – come quelli adottati dal comportamentismo e dalla psicoenergetica – i sistemi informatici danno luogo a nuovi concetti quali l’organizzazione gerarchica dei processi elaborativi (algoritmo), la chiave solutiva delle situazioni-problema attraverso ricette utili (euristica) e la definizione di connessioni a diverso valore produttrici di significato (schema o connessionismo). La prevalenza della modellizzazione informatica porta alcuni studiosi a estremizzare l’analogia cervello-computer – il cervello come hardware e la mente come software – dando luogo a un nuovo dualismo: la «res informatica» in luogo della «res cogitans» cartesiana. Tale proposta prende il nome di cognitivismo. Soprattutto nell’area etologica e neurobiologica tuttavia si tende a evitare questa posizione estrema. Si parla pertanto di una proposta neurobiologicacognitiva, dove una parte rilevante delle caratteristiche funzionali della mente viene assegnata non solo alla cablatura sinaptica, come suggerito dai teorici dell’analogia con le macchine informatiche (Marvin Minsky), bensì a tutta la fisiologia del corpo. A diverso titolo e con differente approccio, le proposte di Roger Penrose, Antonio Damasio, Gerald Edelman, Francisco Varela prendono le distanze dal cognitivismo per sottolineare l’importanza non solo dei processi elaborativi (schemi o rappresentazioni, funzioni logiche), ma altresì dei «marcatori somatici», ossia di quelle dotazioni della mente, quali le emozioni e le motivazioni, che posizionano il soggetto nel qui e ora e che trovano fondamento negli stati

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fisiologici del corpo. La mente diviene perciò un sistema in grado di dar luogo a composizioni di componenti elaborative – dove l’analogia con il computer è sostenibile – e componenti posizionali, cioè dotazioni che necessitano della presenza di un corpo. Lo stato funzionale della mente corrisponde in tal guisa a una precisa composizione caratterizzata: a. da quali componenti si trovano in attivazione nel qui e ora; b. dai rapporti che le componenti assumono nella composizione; c. dai processi evolutivi che la composizione implementa nel sistema. La visione composizionale rende esplicita la differenza tra un approccio cognitivo o sistemico e un approccio associazionista o analitico. Al riguardo un’altra fonte importante dell’approccio cognitivo è riconducibile al pensiero della complessità nelle sue direttrici riferibili all’importanza degli schemi strutturali – un aspetto derivato dalla psicologia della gestalt – alla valutazione delle qualità e delle dinamiche dei sistemi e alla presa in carico dei processi funzionali ed evolutivi dei sistemi in non-equilibrio. Le spiegazioni analitiche o per sommatoria dei processi percettivi e solutivi vengono infatti criticate dai teorici della forma attraverso l’individuazione di specifiche ricostruzioni gestaltiche nell’interfaccia con il mondo o attraverso «immagini di ricerca» e di sopravenienze solutive, inspiegabili attraverso il modello «tentativi ed errori», definite «insight» o pensiero produttivo. Anche la teoria dei sistemi contribuisce a rendere obsoleti i modelli analitici – nelle tre leggi di base: 1. le qualità del sistema sono maggiori/inferiori alla somma delle qualità delle singole parti; 2. il sistema presenta delle qualità emergenti ovvero che non sono presenti nelle singole parti; 3. il sistema è organizzato, per cui alcune qualità derivano dall’informazione che struttura il modo di organizzare le singole parti. La rete sinaptica e le sue funzionalità fasiche mediate dai neuromodulatori devono essere considerate un sistema che pertanto non può essere scomposto se non si vogliono perdere le sue inerenze performative. Infine, sulla scia degli studi su quella zona liminale che prende il nome di «margine del caos», la mente può esser definita un sistema che presenta parimenti stabilità ed evolvibilità: i modelli riferiti ai sistemi in non-equilibrio, ovvero posizionati ai margini del caos, sono esemplari per ricavare esplicazioni e simulazioni. Anche la piena affermazione del pensiero darwiniano e un nuovo modo di fare ricerca in campo etologico portano a rigettare la pretesa cartesiana, in qualche modo assunta dal behaviorismo e dalla psicoenergetica, di leggere il comportamento animale attraverso l’espediente del «meccanismo comportamentale». Darwin aveva suggerito che era errato paragonare l’animale a un automa e la valutazione doveva essere condotta lungo i tradizionali binari della comparazione biologica: negli universali, ossia in quelle somiglianze tra le specie riferibili al fatto che tutte si dovevano confrontare con medesimi problemi, quali la forza gravitazionale; nelle omologie, ossia in quelle somiglianze che derivano da una prossimità di progenitura; nelle analogie, ossia in quelle somiglianze che derivano da convergenza adattativa. Nella seconda metà del Novecento si è così abbandonato il modello meccanicistico modificando il modo stesso di approcciare lo studio del comportamento animale a partire da tre assunti. In primo luogo, per avere risposte adeguate dall’animale occorre porgli domande che tengano

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conto della sua prospettiva e dei suoi interessi. In secondo luogo, per capire il comportamento di una specie è indispensabile entrare nel suo mondo, nella sua quotidianità, nella complessità delle sue relazioni sociali. Infine, la relazione con l’animale studiato non è un impedimento ma è il pre-requisito per formulare ipotesi adeguate. È nata così una nuova etologia basata sulla relazione e su una epistemologia dialogica che prevede o l’integrazione dello studioso nella comunità animale (Jane Goodall e Dian Fossey) o l’adozione dell’animale (i coniugi SavageRumbaugh e Irene Pepperberg). Infine, non vanno dimenticati i contributi della neurobiologia, in particolare le ricerche sulla plasticità del sistema nervoso centrale rispetto alla costruzione identitaria (Jean-Pierre Changeux, Edelman, Rita Levi-Montalcini). A partire dagli anni Settanta questi studi tracciano una cesura netta rispetto alle tesi della psicoenergetica. Mentre per quest’ultima il sistema comportamentale è una struttura prefissata che si attiva quando l’energia accumulata raggiunge una particolare soglia, nella visione dei neurobiologi il cervello diviene una struttura plastica che si costruisce per esercitazione. La differenza è eclatante giacché l’espressione di un pattern comportamentale viene vista come campo evolutivo e non come evento consumatorio. L’attività cognitiva è pertanto non solo una funzione performativa, ma il modo attraverso cui la mente struttura se stessa dando luogo ai due eventi ontogenetici di base: la corrispondenza – ossia l’aderenza all’identità speciespecifica attraverso un apprendistato esperienziale, corrispondente all’apprendimento sociale – e la correlazione – ossia il rispecchiamento delle caratteristiche del contesto di vita. Lo sviluppo delle tecniche di neural imaging, quali la tomografia a emissioni di positroni e la risonanza magnetica funzionale, hanno poi permesso di visualizzare i percorsi neurali della cognitività e quindi di studiare fenomeni particolari come il sogno, il ricordo, l’anticipazione, la riflessione. Ecco allora che la mente smette di essere una black box ed è possibile formulare delle ipotesi su di lei falsificabili e quindi degne di entrare nel novero del metodo scientifico. Bibliografia essenziale – E. Carli, a cura di, Cervelli che parlano. Il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, Paravia – B. Mondadori, Milano 2000; R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli esistenziali, Bollati Boringhieri, Torino 2002; R. Marchesini, Intelligenze plurime. Manuale di scienze cognitive animali, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2008.

Complessità Gaspare Polizzi Le teorie sui sistemi complessi hanno sviluppato una rete di conoscenze che attraversa le discipline più diverse – dalla meteorologia all’economia, dalla fisica alla biologia, dalla matematica alla pedagogia, dalle scienze della comunicazione alla sociologia, dall’informatica alla psicologia – e hanno posto l’interrogativo epistemologico sull’esistenza di un «paradigma» della complessità. È innegabile che il concetto di «complessità» è divenuto uno tra i più diffusi in ambito filosofico e scientifico: esso si pone immediatamente in contrasto con quello di «semplicità», che ha caratterizzato lo sviluppo della scienza moderna a partire da

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Galilei. La consistenza della configurazione concettuale ricavabile dalle scienze del complesso – cibernetica, termodinamica del non equilibrio, teoria del caos deterministico – poggia su un senso comune della «complessità», attribuita alla trama dei fenomeni fisici, delle azioni individuali e sociali e degli eventi culturali propri delle società a elevata specializzazione comparse alla fine del Novecento. Le «scienze del complesso» hanno valorizzato l’esaltazione prospettica e costruttiva dei punti di vista, abbandonando gli ideali di certezza ed esaustività della modernità scientifica e filosofica. A seguito di alcune significative trasformazioni scientifiche appare radicalmente mutata la sintassi del discorso epistemologico: il linguaggio polarizzato e dialogico dell’interazione soggetto-oggetto e osservatore-osservato viene sostituito da una lingua dell’auto-organizzazione e della ricorsività, nella quale il punto di vista dell’osservatore è vincolo interno e ineliminabile, mentre il rapporto con l’osservato assume una rilevanza dinamica ed evolutiva. Guardando in particolare alle singole scienze del complesso, va ricordata innanzitutto la cibernetica (il termine, coniato da Norbert Wiener nel 1947, designa lo «studio del controllo e della comunicazione nell’animale e nella macchina»), che ha aperto una via privilegiata alle attuali teorie della complessità; il suo orizzonte si è quindi allargato agli studi sull’intelligenza artificiale e alla «scienza dell’informazione» o «informatica». Con la cibernetica si è sviluppata una ricerca per elaborare una teoria unificata dei sistemi complessi, a partire dai concetti di connessione olistica e di autoregolazione, che ha permesso di spiegare i caratteri dei sistemi a causalità circolare (o feedback), nei quali la comunicazione con l’ambiente esterno apporta una modifica strutturale del sistema stesso. La causalità circolare può essere intesa come un significativo elemento per la definizione della complessità di un sistema. In secondo luogo, va considerata la termodinamica del non equilibrio, che – soprattutto grazie al premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine – ha studiato i fenomeni irreversibili lontani dall’equilibrio, ritrovandovi la presenza di strutture dissipative, ovvero di strutture in continua fluttuazione che possono dare luogo a processi irreversibili attraverso imprevedibili biforcazioni, generatrici di rotture di simmetria nelle strutture stesse, come nel caso dei cambiamenti di stato fisicochimico. La termodinamica dei sistemi dissipativi spiega le configurazioni fisiche di sistemi naturali molto comuni (dalla struttura dinamica di una goccia d’acqua, all’ebollizione dei liquidi, a esempi tratti dalla scienza dei materiali, dalla biologia, dalla geofisica e anche dal comportamento sociale delle popolazioni umane e animali), nei quali prevale l’irregolarità caotica e complessa. La termodinamica del non equilibrio fornisce così la definizione di un importante concetto «complesso»: il principio di auto-organizzazione. Infine, la teoria del caos deterministico, legata allo studio fisico-matematico della dinamica dei sistemi non lineari avviato già da Henri Poincaré (1854-1912) agli inizi del Novecento, muove dal riconoscimento che nei sistemi dinamici non lineari un mutamento anche piccolo nella configurazione di partenza produrrà nel tempo differenze macroscopiche nello stato del sistema (tale conseguenza è nota con la denominazione di «effetto farfalla»). La dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali fa sì che l’evoluzione di un fenomeno retta da «leggi» deterministiche dia luogo a comportamenti imprevedibili ed irregolari al punto da renderla indistinguibile da un’evoluzione governata dal caso.

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Sul piano concettuale si può riconoscere nelle teorie ricordate un triplice convergente apporto all’epistemologia della complessità: il concetto di feedback, quello di auto-organizzazione e quello di instabilità delle condizioni iniziali. Ma il fenomeno più interessante in tale connessione tra teorie di diversa origine consiste nella centralità metodologica e operativa assunta dalla strumentazione informatica. Tutte e tre le teorie trattano i sistemi complessi tramite modelli prodotti con simulazioni all’elaboratore; in altri termini i sistemi naturali oggetto di studio sono resi omologhi a modelli virtuali sui quali si operano simulazioni interpretate estensivamente come esperimenti che confermano le teorie. Le simulazioni virtuali in tal modo sostituiscono gli esperimenti reali, moltiplicandoli in modo esponenziale, ma saltando ogni verifica particolare; si assiste a un uso «virtuale» della strumentazione, che produce un’estesa conoscenza integrale sostituendosi alla puntuale verifica empirica, nel segno di un passaggio dalle scienze sperimentali alle scienze «simulanti». L’importanza strutturale dell’elaboratore nello studio dei fenomeni complessi sta nell’approssimazione costitutiva del calcolo da esso proposto e nella capacità di calcolare un’enorme quantità di soluzioni numeriche alle equazioni che non hanno una soluzione analitica permettendo di osservarne l’andamento. La simulazione diventa così l’unico modo per studiare i sistemi non-lineari. A partire dai risultati conseguiti dalle teorie dei sistemi complessi si possono riconoscere schematicamente quattro caratteri costitutivi di un sistema complesso, individuandone così il grado di complessità. Esso: • è composto da molte parti (carattere non sufficiente, né necessario, in quanto vi possono essere sistemi composti con molte parti, ma rappresentabili con un semplice modello dinamico, e sistemi composti di un solo punto, ma soggetti a un’evoluzione complessa); • presenta una mutua interazione o correlazione tra le parti, ovvero risulta invariante per variazioni, indipendentemente dalle sue parti (questo carattere è proprio dei sistemi con stati caotici e imprevedibili); • esprime insieme eterogeneità e organizzazione, insiemi di strutture ordinate distribuite irregolarmente nel disordine, talché le sue proprietà globali emergenti sono irriducibili a regole o interazioni locali; • è correlato con l’ambiente con meccanismi di feedback che lo modificano strutturalmente. Questi attributi consentono di fornire una definizione scientifica di sistema complesso, pur nella variabilità dei vincoli relativi tra sistema e sistema. Ma il significato del concetto di «complessità» non consiste in una nozione scientifica formalizzata. Intorno al significato di complessità emerge un punto critico dell’epistemologia della complessità: il carattere duplice della complessità, proprietà osservabile e oggettiva, e caratteristica del processo di comprensione soggettiva, metodo espresso dal soggetto conoscente per la comprensione del reale, e oggetto sistemico, comporta un’ambiguità temuta dagli scienziati e di conseguenza incrina la possibilità di elaborare una teoria scientifica rigorosa, determinata e quantificabile. In definitiva, la portata filosofica della questione della complessità si può formulare in tal modo: «esiste il “complesso in sé”, come carattere intrinseco della realtà naturale, o invece è da considerare “complesso” ciò che non si può (ancora) comprendere?». In altre parole, si può asserire che i fenomeni naturali sono ontologicamente complessi, in modo tale da non poter essere sussunti nel quadro di

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leggi scientifiche semplici, o la complessità riguarda il nostro approccio conoscitivo, l’insieme delle procedure messe in atto per risolvere i rapporti tra fenomeni in leggi matematiche sempre più rigorose? In questo secondo caso la complessità diviene una scelta soggettiva di pertinenza delle rilevanze concettuali relative a una teoria scientifica. Dinanzi alla coppia interpretativa semplice/complicato, modello consolidato del sapere scientifico, il concetto di complessità si presenta come il risultato di una differente scelta di prospettiva. Non si tratta di sostituire un «reale complesso» a un «reale semplice», ma di valorizzare l’emergenza fisica dei sistemi complessi. In altri termini, non esistono fenomeni semplici che si contrappongono a fenomeni complessi, ma la complessità è una scoperta «storica» di problemi scientificamente rilevanti che abbandona la partizione disciplinare semplificatrice. Il «segno» della complessità funziona contro partizioni disciplinari e paradigmi, che azzerano le questioni legate alla pertinenza e alla scelta. La proliferazione di teorie sui sistemi complessi rappresenta una svolta di pensiero che concerne la pratica sociale e culturale della scienza, non la cogenza logica delle teorie scientifiche. Le descrizioni rigorose dei sistemi complessi costituiscono un dato nuovo della scienza contemporanea, ma proprio la loro novità, che fa tesoro della dimensione evolutiva e storica, suggerisce molta circospezione nel pretendere di rintracciare principi generali: scoprire le complessità che distinguono i sistemi complessi rimane l’esito metodologico più conseguente dello sviluppo delle teorie della complessità. Accanto alle teorie scientifiche sui sistemi complessi si assiste alla straordinaria diffusione di una «cultura della complessità», divenuta il «luogo comune» della visione dei problemi e delle azioni umane nelle società tardo-moderne, allo stesso modo in cui la «cultura dell’energia» è stata il «luogo comune» della visione dei problemi e delle azioni umane nelle società della rivoluzione industriale. Uno studio sociologico dei fenomeni culturali e delle nuove comunità scientifiche evidenzia il rilievo della frattura sociologica favorita dall’uso degli elaboratori e dalla generale insoddisfazione per la difficoltà di pervenire – dopo la crisi prodotta dalla meccanica quantistica – anche nelle «scienze dure» a sicuri «fondamenti» epistemologici. Bibliografia essenziale – G. Bocchi e M. Ceruti, a cura di, La sfida della complessità, B. Mondadori, Milano 1985; M. Ceruti e E. Laszlo, a cura di, “Physis”: abitare la terra, Feltrinelli, Milano 1988; La complessità: contributi di G. Polizzi, M. Mamone Capria, R. Marchesini, N. Addario, S. Tagliagambe, in «Iride», 41, 2004, pp. 79-148; E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993.

Ecologia Roberto Marchesini L’ecologia, dal greco òikos, casa o ambiente di vita, e lògos, discorso o studio, può essere considerata la disciplina che studia la biosfera: 1. nelle sue «caratteristiche sistemiche» di interazione globale tra gli organismi viventi e i substrati abiotici e 2. nelle sue «caratteristiche locali» di variabilità riferibili a macrosistemi, quali sono per l’appunto i biomi, o ai sistemi di base o ecosistemi. L’ecologia si sofferma ad analizzare, quindi, le dinamiche «funzionali» o di equilibrio, quali le reti trofiche o le simbiosi, e le dinamiche «evolutive» o di

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sviluppo degli ecosistemi, quali i diversi stadi di maturazione di un ambiente per arrivare allo stato di «climax». Le dinamiche funzionali ed evolutive vengono riferite sia alla vita interna dell’entità sistemica sia ai rapporti che questa instaura con altri ecosistemi. La «sinecologia» è lo studio delle strutture e dei processi sistemici, ovvero della rete d’interazioni che connettono gli organismi in strutture omeodinamiche più o meno stabili, e dei processi di sviluppo o di stadio evolutivo degli ecosistemi, con analisi differenziale e comparativa delle varie sistemiche. L’ecologia, è inoltre, interessata a studiare i rapporti tra la singola entità biologica – sia esso l’individuo ma soprattutto la popolazione e la specie – e l’ambiente che la ospita, intendendo con quest’ultimo non semplicemente il luogo fisico occupato, bensì il ruolo rivestito dall’entità in oggetto nella rete di relazioni che sostiene la sistemica. Tale ruolo è il frutto di un insieme composito di fattori: il tipo di alimentazione e il regime alimentare (livello energivoro); il ciclo nictemerale ovvero se diurno, notturno, crepuscolare; il ritmo stagionale in particolare se stanziale o migratorio, se va o meno in letargo; la posizione occupata nella catena trofica, ovvero quante altre specie dipendono dalla sua presenza; le interazioni biologiche con gli eterospecifici quali simbiosi, parassitismo, mutualismo, ecc.; il livello stratigrafico nell’ambiente fisico per esempio se ipogeo. Lo studio dei rapporti intrattenuti da una singola specie nella sua nicchia ecologica prende il nome di autoecologia; in tale ambito si prendono a disamina differenti fenomeni come le comunità biotiche o biocenosi, le dinamiche popolazionali, i flussi migratori, i rapporti trofici, simbiotici o parassitici tra le specie. Il termine «ecologia» fu coniato dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866 sulla falsariga darwiniana dell’approccio complessivo allo studio dei viventi quale esito di processi selettivi e correlativi, vale a dire in una logica di economia della natura. Antesignano dell’ecologia può essere considerato Alexander von Humboldt (1769-1859), che influenzerà lo stesso Darwin circa l’importanza del viaggio e della raccolta dei campioni. Egli, nella sua opera in 23 volumi Viaggio alle regioni equinoziali del nuovo continente pubblicata a partire dal 1805, evidenziò l’importanza della relazione tra le caratteristiche geografiche e climatiche e la distribuzione delle specie, proponendo di pensare la natura come un organismo unico, dove i diversi viventi sono regolati da un ordine naturale. Questa matrice sistemica dell’ecologia in qualche modo la contrappone a una visione analitica e riduzionistica dei fenomeni naturali tipica del rigido determinismo della meccanica classica. La visione della natura come «tutto in relazione», vale a dire come insieme che si struttura in equilibri dinamici ed evolutivi, dà luogo nell’ecologia a diverse impostazioni: 1. la propensione olistica, vale a dire la tendenza a privilegiare il tutto alle singole parti, con richiami alle religioni e alle filosofie orientali; 2. la lettura organicista, che instaura una relazione di identità tra il microcosmo del vivente e il macrocosmo dell’ecosistema; 3. l’interpretazione ecocentrica, che privilegia la relazione, ossia le strutture di interfaccia del vivente e gli eventi collaborativi piuttosto che la competizione adattativa; 4. la critica all’antropocentrismo in nome di una visione biocentrica che rifiuta il dominio incondizionato dell’uomo sul mondo e ne sottolinea l’azione perturbante;

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5. il rifiuto del riduzionismo in nome di una lettura sistemica, dove la connessione e l’informazione contenuta nella cablatura del sistema dà luogo a qualità che trascendono la sommatoria delle singole parti; 6. la messa in mora della meccanica newtoniana e della linearità dei processi, a favore del fattore temporale, dell’entropia e degli eventi ricorsivi. Si può peraltro operare una distinzione tra l’ecologia, come disciplina scientifica riguardante la biosfera e i rapporti tra gli organismi, e il pensiero ecologico, come visione filosofica del rapporto uomo-natura e prospettiva di ordine etico, politico, sociale, anche se ovviamente tra i due ambiti vi sono connessioni e reciproche influenze. Non vi è dubbio, infatti, che tra i pionieri dell’ecologia figurassero studiosi e scienziati, come il botanico Frederic Clements (1874-1945), che manifestavano una profonda sensibilità per la protezione degli equilibri naturali dall’azione devastatrice dell’uomo. Allo stesso tempo, una buona parte delle proposte avanzate dai teorici del pensiero ecologico, per esempio l’Ipotesi Gaia di James Lovelock alla fine degli anni Settanta, cercano fondamento nella scienza ecologica. Il pensiero ecologico presenta alcune tematiche centrali. Norman Myers e Rachel Carson, che hanno denunciato rispettivamente la scomparsa delle foreste tropicali e i danni dell’uso del DDT in agricoltura, o Niles Eldredge, per cui l’azione umana condurrà a una nuova estinzione di massa, si concentrano sulla distruzione degli habitat e delle specie animali. Altri discutono la rinegoziazione dello sviluppo umano: in termini di consumi (il «Club di Roma» del 1972 coordinato da Aurelio Peccei); di estensione demografica (Paul Ehrlic); d’impatto tecnologico (Lewis Mumford, che riprende Heidegger sull’imposizione della tecnica e Adorno e Horkheimer sull’idolatria della tecnica); di economie di scala e capitalistiche, sottolineando il rischio di produrre scarsità e degrado delle risorse (James O’Connor); di globalizzazione, promozione di realtà locali (bioregionalismo, localismo, movimenti no-global) e di realtà contenute (Fritz Schumacher). La dimensione etica del rapporto uomo-natura è al centro dei lavori di Hans Jonas e, prima, della cosiddetta «land ethic» formulata da Aldo Leopold, ripresa da John Callicott e dall’«ecologia profonda» di Arne Naess. Ralph Nader, Jeremy Rifkin, Vandana Shiva invece propongono la dimensione consumerista, criticando la rivoluzione verde, gli allevamenti intensivi, le monocolture e gli OGM. Infine alcuni insistono sul rischio per il futuro umano (gli studi sul buco dell’ozono di Mario Molina, le ricerche sul riscaldamento globale). Ecologia e pensiero ecologico hanno un debito nei confronti della termodinamica, evidente dagli Elements of Physical biology (1925) di Alfred Lotka fino alla sintesi Principi di ecologia (1953) di Eugene Odum. Su questa linea, a partire dagli anni Settanta si è imposto il paradigma del «pensiero della complessità», i cui teorici sono Edward Lorenz, Ilya Prigogine, Benoît Mandelbrot, René Thom, Stephen J. Gould. Essi hanno sottolineato il carattere ricorsivo dei sistemi complessi e la loro non linearità evolutiva, mentre importanti contributi sul carattere sistemico ed etero-riferito delle identità vengono dati da studiosi quali Gregory Bateson, in Verso un’ecologia della mente (1972) e Edgar Morin in Il paradigma perduto (1973). Non vi è dubbio che l’ecologia tragga origine e in un certo senso porti a convergenza due fonti di pensiero. Da una parte, c’è la matrice razionalista, orientata a studiare i fenomeni naturali in termini fisico-chimici, liberandoli da ogni influsso

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metafisico, attraverso le concezioni di sostrato, di sviluppo termodinamico, di fitness replicativa. Dall’altra, si trova la matrice spiritualista o post-romantica, che tende a leggere in modo olistico i rapporti tra i viventi, ma più spesso a interpretare gli equilibri della natura in opposizione all’attività dell’uomo, con derive talvolta tecnofobiche e conservatrici. Di questa tendenza è un esempio il concetto di «climax» coniato da Clements, che intende con esso una comunità biotica in equilibrio a un certo stadio evolutivo, per il quale la presenza e le attività dell’uomo sono intrusive e distruttive. Non possiamo peraltro dimenticare che la visione romantica della Naturphilosophie (G. White, W. Goethe, F. Schelling, H. Thoreau) ha alimentato il pensiero ecologico. Da qui deriva, una visione mitica e nostalgica della natura come equilibrio e armonia, vista come età dell’oro da cui l’uomo si è irrimediabilmente allontanato, in cui si può rinvenire la forte eredità dell’auspicato «ritorno alla natura», presente in Rousseau. D’altro canto, fin dall’inizio l’ecologia mira a essere prima di tutto una scienza, per cui alcuni autori – primo fra tutti lo stesso Odum – prendono decisamente le distanze da impostazioni vitaliste o da correnti spiritualiste come il trascendentalismo di Ralph Emerson. Tra i concetti importanti sviluppati dall’ecologia come disciplina scientifica ricordiamo: la «biocenosi», introdotto da Karl August Möbius nel 1877; l’«ecosistema», proposto da Arthur Tansley nel 1935; i «livelli trofici», introdotto da Raymond Lindeman nel 1942. Lo studio dei diversi ambienti ha messo in luce le caratteristiche di sostenibilità degli ecosistemi rispetto ai fattori abiotici limitanti e alle piramidi alimentari, e il carattere fluttuante delle diverse popolazioni, nonché le filiere evolutive che un ambiente tende ad assumere nel tempo. Proprio da queste ricerche sono scaturiti anche i caratteri di vulnerabilità degli ecosistemi rispetto a particolari picchi di fluttuazione popolazionale, a eccessi di polluenti o di materiale non metabolizzabile, a carenze o sottrazione di risorse, all’inserimento di nuovi elementi estranei a quell’ecosistema (xenobionti). Nasce così l’ecologia applicata volta al monitoraggio ambientale e all’utilizzo delle evidenze e delle metodologie ecologiche per la soluzione di particolari problemi come la riduzione dell’inquinamento, la cura del paesaggio e dell’ambiente urbano, la produttività in campo agro-zootecnico. Bibliografia essenziale – G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000; R. Della Seta e D. Guastini, Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai noglobal, Carocci, Roma 2007; A. von Humboldt, La geografia, i viaggi: antologia degli scritti, a cura di M. Milanesi e A. Visconti Viansson, FrancoAngeli, Milano 1975; H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990; E. Morin, Il paradigma perduto, Feltrinelli, Milano 1994; E. Odum, Principi di ecologia, Piccin Editore, Padova 1973.

Estetica Fabrizio Desideri Nei normali usi linguistici quotidiani usiamo o sentiamo usare spesso espressioni come: «da un punto di vista estetico …», «esteticamente l’oggetto x, anche se funzionale ed economico, non mi piace», «quel film era interessante per i suoi contenuti, ma se dovessi esprimere un giudizio estetico direi che non è ben fatto». Già da questa prima semplice constatazione possiamo concludere che

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termini come «estetico», «esteticamente», ecc. si riferiscono ad una dimensione specifica dell’esperienza umana. Esprimendo un giudizio estetico su qualcosa non ci preoccupiamo infatti della sua utilità o efficienza. Un’automobile, ad esempio, può essere valida dal punto di vista del funzionamento, ma poco gradevole ‘esteticamente’, anzi decisamente brutta; l’azione di un giocatore in una partita di calcio può d’altra parte essere considerata bella (e per questo salutata con ammirazione dai tifosi), senza per questo portare al risultato sperato. Da questi esempi capiamo anche che la dimensione ‘estetica’ dell’esperienza umana, vale a dire l’esercizio di un atteggiamento estetico nei confronti del mondo, si esplica per lo più in alcuni giudizi, pronunciando i quali riconosciamo a qualcosa o a una parte di qualcosa determinate qualità che possiamo dire «estetiche». Qualità che non ci lasciano indifferenti, anzi ci impegnano in prima persona in quanto producono in noi un sentimento di gradito stupore oppure di disgusto. Assumere un punto di vista estetico significa così giudicare un oggetto o una persona (oppure una parte di essi, ad esempio il fiore in una pianta o il volto in una persona) belli o brutti, graziosi o delicati, maestosi o affascinanti. Tutte qualità che contengono un apprezzamento da parte nostra e implicano una risposta emotiva. Un problema assai dibattuto oggi dai filosofi è quello di chiarire in che rapporto stanno le qualità estetiche di un oggetto (la sua bellezza, la sua grazia, la sua delicatezza…) con quelle che sono chiamate le sue proprietà di base, normalmente percepibili e oggettivamente descrivibili. Da una parte, si sottolinea il peso che ha la cultura, l’educazione, la storia e l’immaginazione di ognuno nell’attribuire una qualità estetica superlativa a un oggetto anziché a un altro; dall’altra, si sostiene che una qualità estetica, pur non essendo la mera somma delle caratteristiche oggettive di qualcosa (come la dimensione, la forma, il colore, ecc.), ha con queste caratteristiche un vincolo necessario. Quella rosa non è certo bella perché i suoi petali hanno quella tonalità di rosso, d’altra parte senza quei petali con quella particolare tonalità di rosso non sarebbe la rosa che percepiamo come bella. La via d’uscita dal dilemma sta forse nel sostenere che giudicare esteticamente qualcosa riconoscendogli determinate qualità è espressione di una relazione (una relazione estetica) in cui è coinvolta tanto la soggettività di ognuno e quindi anche la sua cultura, la sua educazione e la sua storia, quanto l’effettiva scoperta di una qualità dell’oggetto e più in generale del mondo che arricchisce la nostra vita di senso, coinvolgendo non solo la nostra intelligenza ma anche la sfera dei sentimenti e delle emozioni. Riflettendo, poi, sul fatto che i nostri giudizi estetici riguardano tanto gli oggetti (indifferentemente dal fatto che siano naturali o artificiali) quanto le persone, possiamo anche rilevare una sostanziale differenza tra le qualità estetiche e quelle etiche. Queste ultime infatti, a differenza delle prime, si riferiscono soltanto alle persone e più precisamente alle loro azioni o, più in generale, al loro modo di comportarsi nei confronti degli altri e dell’ambiente. In maniera correlata a questo, sono anche da distinguersi i giudizi estetici da quelli etici. Mentre i primi sono immediati e non possono essere smentiti (giudico bella quella tale cosa o persona, perché così la vedo effettivamente), i secondi anche quando sembrano pronunciati di getto (ad esempio quando il volto di qualcuno ci sembra onesto o buono) possono sempre venire smentiti dai fatti (un volto apparentemente onesto nascondeva una persona tutt’altro che onesta nel modo di agire). Nel caso dei giudizi etici, infatti, il giudizio è dato rapportando un’azione

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rispetto ad una norma secondo la quale si dovrebbe agire (come quella per cui non è giusto mentire agli altri) ed è conformandosi a tale norma che a un’azione e alla persona che la compie viene riconosciuto un valore. E per riconoscere valore etico a un’azione non basta che l’azione sia corretta (potrebbe esserlo celando uno scopo malvagio), ma deve essere espressione di una retta intenzione: l’intenzione di perseguire ciò che crediamo sia buono e giusto. Anche se non sempre ce ne rendiamo conto, ogni giudizio etico è sempre mediato da regole condivise con altri, se non addirittura da regole universali che riguardano l’agire di ogni uomo capace di intendere e volere ossia in una parola sola: responsabile delle proprie azioni. I giudizi estetici, invece, sono immediati in quanto espressione non solo dell’esperienza percettiva di qualcosa, ma anche dell’effetto positivo o negativo e dunque del sentimento che tale percezione suscita in noi. Il fatto che i giudizi estetici siano immediati e impegnino direttamente la nostra soggettività, con tutto il carico di aspettative e di desideri nei confronti del mondo (quanto diciamo bello, in quanto lo preferiamo ad altri oggetti dello stesso genere, è certamente qualcosa di desiderabile), non significa però che siano formulati in assenza di qualsiasi regola. Basta precisare infatti che si tratta di una regola molto particolare e vaga, in quanto il nostro sentimento e la nostra immaginazione vi giocano un ruolo decisivo. È quella che con il filosofo scozzese David Hume si potrebbe chiamare appunto una «regola del gusto». Come vide già Hume nel suo saggio del 1757, il gusto di ognuno è una capacità di giudicare dal punto di vista estetico che si forma nel tempo con le nostre esperienze e in rapporto con la società in cui viviamo. C’è così tanto una dimensione individuale quanto una dimensione sociale che caratterizza ogni nostro giudizio estetico o di gusto. Resta da vedere in che rapporto sta quella regola vaga e in ultima istanza soggettiva che è il gusto con quelle regole di tipo concettuale che organizzano la nostra esperienza del mondo dal punto di vista cognitivo. Normalmente la nostra vita percettiva è un’attività più complessa dell’avere sensazioni. Nel caso delle mere sensazioni (ad esempio la sensazione dolorosa di una puntura di cui ignoriamo la causa) è decisivo quanto sentiamo in una parte del corpo, mentre nel caso di una percezione noi discriminiamo anche la causa all’origine della sensazione, riconoscendo che si tratta di un’ape o di uno spillo restato impigliato nella camicia. In breve il nostro percepire qualcosa, ad esempio vedendo una Ferrari sfrecciare davanti a noi, implica una discriminazione cognitiva vale a dire un sapere relativo all’oggetto della percezione. Così, quando riconosciamo la qualità estetica di qualcosa, questo riconoscimento si accompagna il più delle volte a un qualche tipo di conoscenza. Dicendo che vedo una rosa e la giudico bella esprimo sia la mia capacità di riconoscerla, esercitando un atteggiamento cognitivo nei suoi confronti (è una rosa e non un tulipano, comunque è un fiore, un essere vegetale e non animale e così via …), sia la mia esperienza estetica di essa (il sentimento positivo e dunque di piacere che suscita in me vedendola appunto «come bella»). Il mio giudizio estetico della rosa non dipende, però, da quanto conosco e riconosco di essa. Può così anche darsi il caso che vediamo qualcosa come bello senza riuscire a sapere di cosa si tratti. Possiamo infatti riconoscere una qualità estetica a un’immagine senza sapere a cosa si riferisca e forse può anche non riferirsi a niente di reale. Da queste ultime osservazioni possiamo quindi trarre anche la conclusione che l’atteggiamento e il relativo giudizio estetico è irriducibile all’atteggiamento e al giudizio cognitivo.

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A sostenere per primo l’irriducibilità dei giudizi estetici a quelli di tipo etico e a quelli di tipo cognitivo è stato Immanuel Kant nella sua terza e ultima Critica: la Critica della facoltà di giudizio (1790). Anche se quest’opera kantiana ha rappresentato una svolta all’interno della storia del pensiero filosofico nel modo di affrontare i problemi estetici e un necessario punto di riferimento e di confronto per ogni altra riflessione filosofica sull’argomento, non è stato tuttavia Kant a tenere a battesimo la disciplina filosofica chiamata «Estetica». È stato un altro filosofo tedesco: Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), con un’opera del 1750 intitolata appunto con il nome latino di Aesthetica. Pensato in analogia con la Poetica di Aristotele il titolo di Baumgarten richiamava la parola greca àisthesis che possiamo tranquillamente tradurre con «percezione». Infatti Baumgarten riassumeva il senso dell’Estetica come nuova disciplina filosofica da affiancare alla logica e alla metafisica nel costituire essa una «scienza della conoscenza sensibile», intendendo così assegnare un valore cognitivo, seppur di ordine inferiore rispetto alla conoscenza razionale, alla conoscenza confusa e vaga implicata in sensazioni, percezioni e sentimenti. Baumgarten riconosceva in altri termini un valore relativamente autonomo alla sfera d’ora in poi detta «estetica» del sentire e del percepire, vedendo nel riconoscimento della bellezza la perfezione della conoscenza sensibile, con la quale essa raggiunge una certa chiarezza, pur senza acquisire la distinzione tipica della conoscenza razionale. Sulla base di questo breve accenno storico relativo alla nascita dell’Estetica con Baumgarten e alla sua piena legittimazione con Kant possiamo fare due ultime considerazioni. La prima riguarda il fatto che il nostro usare quotidianamente termini come «estetico» o «esteticamente» deriva dalla nascita, nel corso del Settecento, di una disciplina filosofica chiamata «Estetica». La seconda considerazione concerne il fatto che anche oggi l’alternativa rappresentata dalle posizioni di Baumgarten, per il quale quella estetica è comunque un tipo di conoscenza, e di Kant, per i quali i giudizi estetici sono irriducibili all’ambito del conoscere, è un’alternativa quanto mai attuale. Uno dei problemi maggiormente dibattuti tra i filosofi contemporanei che si occupano di estetica è, infatti, quello di chiarire se l’atteggiamento estetico nei confronti del mondo sia configurabile nei termini di un’attività cognitiva seppur sui generis. Questa è ad esempio la posizione del filosofo francese Jean-Marie Schaeffer, secondo il quale l’atteggiamento estetico è una costante antropologica che attraversa le diverse culture, configurandosi come l’esercizio di una discriminazione cognitiva a soddisfazione interna, visto il ruolo che vi svolge il piacere e più in generale la sfera soggettiva dei sentimenti. Oppure, ispirandosi a Kant, se non si debba definire piuttosto l’atteggiamento estetico come un primo modo di orientarsi nel mondo, che anticipa lo sviluppo sia dell’atteggiamento cognitivo vero e proprio sia di quello etico. Li anticipa nell’immediatezza di una percezione capace di rinnovare il nostro sguardo, così da accordare emozione ed intelligenza e facendoci intravedere la possibilità di una vita felice. Bibliografia essenziale – F. Desideri, Forme dell’estetica. Dall’esperienza del bello al problema dell’arte, Laterza, Roma-Bari 20062; E. Garroni, Estetica. Uno sguardoattraverso, Garzanti, Milano 1992; D. Hume, La regola del gusto e altri saggi, a cura di G. Preti con una nota di F. Minazzi, Abscondita, Milano 2006; I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999; J.-M. Schaeffer, Addio all’estetica, prefazione di G. Puglisi, tr. it. di M. Puleo, Sellerio, Palermo 2002.

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Etica Piergiorgio Donatelli L’etica filosofica si occupa dei problemi morali. Questi hanno un’ampiezza molto vasta, che va dagli scrupoli che nutriamo nelle relazioni personali, nelle amicizie e negli amori, agli ideali che guidano le nostre azioni, ai problemi della giustizia e ai grandi mali del mondo, alle discriminazioni, alla fame e alle guerre, fino ai nostri doveri nei confronti degli animali e del mondo naturale. La morale è una modalità della nostra esperienza, un’angolatura da cui sentiamo, vediamo e riflettiamo sulle cose. La possiamo quindi distinguere ma anche accostare ad altre «angolature», come il senso della bellezza, dell’ordine e dell’armonia che ravvisiamo nella natura o nelle creazioni umane, o la simpatia che nutriamo per gli altri e che è basata su attrazioni molto soggettive. Diversamente da queste altre angolature, la morale è fondata su una considerazione degli altri che ci domanda anche qualcosa: un rispetto per interessi e punti di vista che non sono i nostri. In questo senso, la morale ci richiede qualcosa, ci può domandare di fare qualcosa anche contro le nostre inclinazioni. Kant ha dato un’immagine netta a questa idea, contrapponendo i doveri alle inclinazioni, e facendo della morale una questione di costrizione e mai di attrazione. Ma anche se pensiamo che i doveri si sprigionano dalle nostre passioni, come sosteneva invece Hume, e che sono inclinazioni solide di un carattere virtuoso, esse stabiliscono comunque un contrasto con le altre inclinazioni, quelle che danno voce ai lati più egoistici o ottusi del carattere o semplicemente al desiderio di comodità. I problemi morali, inoltre, non sono mai esclusivamente problemi tecnici e in questo senso possiamo distinguere la morale da altre «arti», cioè ragionamenti pratici in vista di uno scopo, come la medicina o l’ingegneria. Nelle questioni tecniche lo scopo è dato, mentre nella morale la realtà degli altri non è mai del tutto compresa e fa parte dei compiti di una persona moralmente sensibile approfondire o rivedere la propria comprensione dei bisogni e del mondo interiore degli altri. Ma la morale è diversa anche da una sfera pratica come il diritto, che è egualmente rivolto a guidare la condotta e che ha di mira gli interessi degli altri. Sebbene il diritto abbia dei punti di contatto con la morale, come nel diritto costituzionale che stabilisce i principi più generali a fondamento della regolazione giuridica della convivenza pubblica, esso è un sistema di norme che ha bisogno di istituzioni, se non di una codificazione vera e propria, e di sanzioni esterne come la pena. La morale, invece, anche se può essere codificata e regolata da istituzioni per scopi particolari, come nei codici e nei comitati etici negli ospedali e nelle aziende, ha la sua fonte nell’interiorità e nelle pratiche diffuse in una comunità di persone. La morale ha una storia e sebbene la filosofia abbia spesso ricostruito la logica e i fondamenti delle nostre considerazioni morali in termini purificati dalle vite concrete e storiche degli esseri umani, la morale esprime e trova la sua fonte nei modi in cui gli esseri umani hanno convissuto, dando importanza ad alcuni aspetti delle loro esistenze e delle loro relazioni anziché ad altri. Fare la storia della morale non significa tuttavia riuscire a descrivere una rete di concetti che sta semplicemente là fuori, perché se siamo almeno in parte interni alla morale (ed è difficile essere del tutto estranei alla forza della morale, anche se molte persone

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ne sentono un influsso minimo e non stabiliscono connessioni tra un’area della propria vita e un’altra) allora ciò di cui facciamo la storia ci caratterizza dall’interno, siamo noi, è qualcosa da cui non possiamo sottrarci se non ricostruendo una nuova rete di concetti e un nuovo mondo in cui vivere. La morale che ci caratterizza ora è in larga parte il frutto dei processi di civilizzazione che hanno caratterizzato la modernità. Uno snodo centrale della nostra morale è la distinzione tra la sfera del privato o del personale e quella del pubblico. Società complesse come le nostre, che sono il frutto sia di riallocazioni delle culture ereditate (come lo spostamento dell’area della credenza religiosa dal luogo della sovranità all’interno dello spazio di libertà della coscienza e della condotta individuale) sia della riorganizzazione della società su una base liberaldemocratica secondo idee che hanno rappresentato una rottura radicale con il passato, hanno intrecciato la morale attorno a questa distinzione. C’è una tensione importante qui, che nelle nostre società ha trovato una soluzione liberale, anche se è sempre minacciata. Da una parte, infatti, la morale si estende lungo l’intero arco che va dal proprio mondo interiore e dalle scelte personali, e che trova espressione nel modo unico di vivere se stessi, sino alle convinzioni e agli obblighi che definiscono il senso della giustizia e dell’interesse generale. Dall’altra, questi due poli esprimono sfere diverse della morale che è importante mantenere distinte: la prima dà voce a orientamenti personali che rispettiamo perché danno forma alla vita di qualcuno, ma che possiamo sentire anche lontani ed estranei; la seconda sfera esprime invece principi e considerazioni che danno voce al senso di giustizia e all’interesse generale che tiene assieme la società come una comunità di persone. Quindi, il giudizio morale funziona riflettendo la natura diversa delle sfere in cui opera. Riusciamo a comprendere, ad apprezzare o persino ad ammirare, orientamenti e temperamenti diversi verso la vita, anche molto lontani tra di loro; ma al contempo ci aspettiamo che su alcune condotte il nostro giudizio esprima il punto di vista di tutti. Quando c’è un torto che qualcuno subisce, una discriminazione, quando l’interesse generale è leso a vantaggio di qualcuno, sentiamo che qui è la voce della morale condivisa da tutti che condanna queste azioni. Mentre sentiamo che la stessa voce della morale ci consente di apprezzare una varietà di modi di affrontare e vivere la propria vita. Possiamo elaborare questo punto in vari modi, attraverso la concezione liberale di John Stuart Mill o attraverso le rielaborazioni della tradizione kantiana come ha fatto un filosofo politico come John Rawls; si tratta di riconoscere da una parte un senso di obbligazione che esprime l’idea stessa di una comunità di persone che si rispettano e dall’altro una pluralità di concezioni del bene. L’idea della differenza tra gli esseri umani è importante quanto l’idea dell’eguaglianza. L’idea che vi siano diverse interpretazioni di ciò che è buono per le persone è uno snodo importante nella filosofia. Che cosa è buono? Non diremmo che una vita piena di sofferenze e di patimenti è una vita buona. La condizione di benessere fisico ed emotivo è certamente una base della nostra idea di bene. Eppure possiamo pensare a vite di sacrifici, vite difficili, di dedizioni agli altri, che sono viste come buone da un altro punto di vista. Le vediamo come buone perché realizzano ideali come la dedizione, l’amore per gli altri, la fedeltà. Quindi abbiamo qui un paradosso che non è facile sciogliere: non possiamo certo augurarci il dolore nostro e degli altri, ma talvolta il dolore e il disagio si intrecciano a vite

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piene di significato, vite di valore, così come, al contrario, talvolta una condizione di benessere fisico ed emotivo si accompagna a vite scialbe e vuote. Vi sono quindi almeno due dimensioni del valore, una più legata alle condizioni fisiche ed emotive, empiriche, che una teoria come l’utilitarismo ha messo al centro, e un’altra più legata a ideali e a modelli di vita da onorare, su cui hanno insistito concezioni come quella kantiana e aristotelica. I temi della bioetica offrono un esempio interessante di questa pluralità di concezioni del bene. Uno di questi è la morte. I modi di affrontare la morte sono molteplici e riguardano l’atteggiamento verso il dolore e il significato che si attribuisce al morire e alla vita stessa. Vi è chi rifiuta il degrado del corpo come lesivo del proprio senso di dignità e del proprio pudore, come ha scritto in modo lucido Indro Montanelli. Vi è invece chi è pronto ad affrontare un dolore devastante pur di rimanere attaccato a un barlume di speranza di vita (come racconta David Rieff sugli ultimi mesi di vita della madre, Susan Sontag). Orientamenti diversi verso la morte esprimono l’aspetto personale e unico che ha la vita per ciascuno di noi. La morale trova espressione nella nostra capacità di entrare con simpatia e con un interesse vivo in questi modi di sentire (il senso di sgomento e rispettoso della necessità della vita delle persone di cui parla Pasolini); ma la morale è espressa anche dal senso di rispetto delle scelte di ciascuno che ha la forma di una richiesta che vale a nome della società intera, come una questione di giustizia. Bibliografia essenziale – P. Donatelli, La filosofia morale, Laterza, Roma-Bari 2001; E. Lecaldano, Etica, UTET Libreria, Torino 1995; M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia, il Mulino, Bologna 2007.

Filosofia dell’educazione Franco Cambi Va sempre tenuto presente che quando parliamo di educazione ci riferiamo a una pratica sociale universale e fondativa in ogni cultura e civiltà. Da quelle arcaiche a quelle postmoderne. Ogni società si perpetua e si arricchisce rendendo le giovani generazioni partecipi della cultura di cui quella società è testimone e intorno a cui essa si identifica. Tale inculturazione è educazione, se pure ora realizzata in modo diffuso e spontaneo, ora in modo istituzionale e programmato, come avviene in famiglia, nei riti collettivi, nelle botteghe e poi anche nella scuola. Nel momento, però, in cui nasce – in Grecia, ai tempi di Platone – il sapere riflessivo (la filosofia) riflette su credenze, saperi, organizzazione sociale e politica, cosicché anche l’educazione ne viene investita: tale riflessione si manifesta come progettazione di nuovi modelli individuali e sociali di formazione. La svolta è compiuta con Socrate che, ad un tempo, risveglia la coscienza dei giovani per renderli protagonisti della loro avventura formativa e così critica anche l’educazione in atto nella pòlis, vista solo come conformazione e non come scelta personale e responsabile. Platone ridefinisce anche l’educazione sociale all’interno di una società ideale (ma giusta e sana) di cui fissa le coordinate di struttura: le diverse classi sociali, i loro diversi ruoli, i loro diversi percorsi educativi.

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Così è nata la filosofia dell’educazione che per più di duemila anni è stato il mezzo-principe per riflettere sull’educazione in atto nelle società storiche e per riprogettare modelli nuovi, pensati come più rigorosi e, insieme, più autentici. Per questo tutti i grandi filosofi parlano di educazione, disegnano la storia stessa della pedagogia come successione di modelli critici e progettuali, razionalmente fondati, e indicano le linee di progetti possibili e migliori. Lo ha fatto Aristotele, nella Politica soprattutto. Lo ha fatto S. Agostino nelle Confessioni e nel De Magistro. Lo hanno fatto Cartesio, che rinnova la visione della mente e la indica come compito formativo; Rousseau, che ha prodotto un rovesciamento dell’educazione, mettendo al centro il bambino, la sua natura e i suoi diritti; Kant, che guarda a una formazione dell’uomo universale, razionale e etico; Marx stesso, che nei suoi scritti giovanili indica il grande compito educativo della società socialista che è quello di fare di ogni soggetto un «uomo onnilaterale», e poi nella maturità indica anche la scuola più adatta a tale scopo, quella «politecnica»; fino a Gentile, che ripensa l’educazione sull’«atto puro» come centro della vita spirituale, dinamico e dialettico, e su tale modello riforma la stessa scuola italiana nel 1923, assegnandole ancora un ruolo selettivo – di formazione dei migliori – e un profilo culturale soprattutto legato alla cultura storico-letterario-filosofica. Fino quasi ai primi del Novecento la filosofia ha guidato la riflessione sull’educazione, dandole un carattere razionale e critico e dando corpo a modelli ideali di educazione e formazione, posti come fini da realizzare e come valori da non perdere di vista, anche nell’agire educativo, sia esso rivolto ai singoli, come pure ai gruppi sociali e alla società nel suo complesso. Poi nel corso del Novecento è intervenuta una radicale e complessa trasformazione, connotata da: 1. la nascita e l’affermazione sempre più cruciale delle scienze dell’educazione; 2. il caratterizzarsi della filosofia, sempre più, come sapere riflessivo, analitico e critico; 3. la crescita di un fascio articolato di modelli filosofici critici. Ciò ha prodotto un ripensamento della filosofia dell’educazione (non è più tutta la pedagogia) caratterizzato da specializzazione, da un lato, e da problematizzazione, dall’altro. È stato, cioè, riconfermato il ruolo della filosofia dell’educazione, ma la si è ridimensionata caratterizzandola al tempo stesso meglio. Le scienze dell’educazione riconoscono che oggi i saperi di riferimento dell’educazione sono le varie scienze (umane, ma anche biologiche o cognitive) le quali danno conoscenze per affrontare e risolvere i problemi educativi, anche se essi devono essere interpretati secondo un’ottica che implica riflessività, che tiene un forte legame con la filosofia, critica e teorico-interpretativa, che ripensa e rilancia nei vari problemi la dimensione educativa e/o formativa (dove educativo è più sociale; formativo più individuale/personale). Allora la filosofia come riflessività critica lavora dentro i problemi educativi, a fianco delle scienze, ma svolgendo un’opera di coordinamento pedagogico che implica, appunto, riflessività e interpretazione. E qui la filosofia dell’educazione si lega alla pedagogia generale, come sapere riflessivo e critico su tutti i problemi e su tutti gli ambiti della pedagogia. Questi ambiti sono molti e sempre più in crescita: quello teorico, quello storico, quello didattico, quello sperimentale e con tutte le loro articolazioni interne, le quali sono in continuo sviluppo sia per la crescita delle conoscenze sia per lo sviluppo

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stesso della società e della cultura. La filosofia è, possiamo dire, la forma mentis e la pratica discorsiva con cui si fa pedagogia generale, legando così la filosofia ai problemi, alle istanze, agli scopi della pedagogia come sapere-di-saperi, indirizzato a trattare l’educazione/formazione in tutti i suoi aspetti. Perciò la filosofia dell’educazione non scompare, ma si fa collaborativa con le scienze e si lega ai vari modelli di stile filosofico; modelli che sono cresciuti nel Novecento, accomunati però da una comune vocazione critica. Così la filosofia dell’educazione si è articolata secondo i grandi modelli filosofici del Novecento, secondo i vari «ismi»: dal positivismo all’idealismo, dall’esistenzialismo al marxismo, dal pragmatismo al personalismo e su su fino al neopositivismo e all’ermeneutica. E tale articolazione ha animato il dibattito pedagogico di vari e diversi punti-di-vista, arricchendolo e sofisticandolo. Già Dewey aveva elaborato, nella sua densa riflessione pedagogica, un tale modello di «scienza dell’educazione» e filosofica e scientifica al tempo stesso. Tale modello è rimasto al centro dei dibattiti teorici ed epistemologici della pedagogia internazionale contemporanea. Al tempo stesso, però, la filosofia dell’educazione è venuta, nel Novecento, anche a sofisticarsi e specializzarsi: si è legata al suo compito critico e interpretativo di comprensione e analisi del suo sapere, in relazione al suo tipo di discorso, alle sue regole logiche, alle sue caratteristiche cognitive. Ciò è avvenuto per tutti i saperi, che hanno prodotto epistemologie (o filosofie di…) ovvero riflessioni rigorose e organiche su logica e struttura e funzione dei vari saperi, caratterizzandone anche la specificità. E questo è avvenuto anche per la pedagogia, che si è sottoposta a un’indagine epistemologica che ne ha contrassegnato linguaggio, logica, congegno e anche la funzione sociale e culturale. Tutto questo – intenso e articolato – dibattito (che si è allineato ai modelli epistemologici in corso nella filosofia, da quello analitico – o neopositivista – a quello fenomenologico, a quello ermeneutico) ha sottolineato la ricchezza, varietà, complessità del sapere pedagogico, anzi la sua ipercomplessità, come si è detto e che va, allora, costantemente monitorato da questa riflessività critica ergo filosofica. Ma quel sapere è anche (come accade alla medicina o all’ingegneria) un sapere progettuale: per-la-prassi e che rimanda e/o implica prassi e individuali e sociali. Tale coinvolgimento pratico, operativo, trasformativo lo lega necessariamente a definire fini e a mezzi, i quali rimandano a valori. Allora la riflessività critica (= filosofica) della pedagogia deve toccare anche l’axiologia (o discorso sui valori) e declamare i valori e i fini qui e ora (o in generale) più propri della pedagogia. Anche su questo piano la filosofia dell’educazione resta attiva e centrale. Come riflessione critica sui valori e i fini; per criticarli e per sceglierli e indicarli come orientatori di fini. Riflessione che anche su questo piano fa tesoro dei vari «ismi» filosofici e con essi si confronta, per rendere razionale e più autentica (secondo la pedagogia, che ha i suoi specifici fini: oggi sono, detto molto in breve, la libertà e l’emancipazione) la scelta axiologica che si va a proporre e/o alla quale ci si ispira. Bibliografia essenziale – A. Baroni et al., La filosofia dell’educazione ed altri problemi pedagogici, G. Malipiero, Bologna 1961; F. Cambi, Manuale di filosofia dell’educazione, Laterza, Roma 2000; A. Mariani, Elementi di filosofia dell’educazione, Carocci, Roma 2006; G. Serafini, Questioni di filosofia dell’educazione: la ricerca italiana dal 1945 ad oggi, EUROMA, Roma 1988.

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Filosofia e politica Giacomo Marramao Il titolo prescelto richiede un chiarimento preliminare. Perché «filosofia e politica» e non «filosofia politica» o «filosofia della politica»? Perché un’endiadi, in luogo di un’espressione sintetica, rispondente a una disciplina largamente accreditata da una lunga tradizione, oltre che dall’ordine accademico degli studi? La ragione è presto detta, ma carica di implicazioni tutt’altro che secondarie ai fini di una corretta ricostruzione storica come di una genealogia concettualmente rigorosa del pensiero occidentale. La distinzione dei termini «filosofia» e «politica» intende segnalare il carattere a un tempo costitutivo e problematico del loro rapporto: il loro simultaneo atteggiarsi come coppia indissolubile e come campo di tensione costante. Ogni volta che adoperiamo i termini politica e filosofia parliamo greco. Di più: evochiamo due lemmi coevi nella loro genesi, situabile a cavallo tra il VI e il V secolo a.C.. È in quel periodo, storicamente e teoreticamente nevralgico, che si comincia a parlare di «politica» attraverso un processo – ben documentato dallo storico tedesco Christian Meier – di sostantivazione di un aggettivo inizialmente deputato a connotare il complesso delle questioni che investivano la vita della polis. Ed è nello stesso periodo che prende forma, con l’insegnamento socratico, il neologismo philosophía: anche la filosofia, come la politica, si presenta come una pratica nuova che ha il suo spazio proprio ed esclusivo nelle pratiche relazionali della polis. Se è vero che il termine affiora per la prima volta in ambito pitagorico e in un celebre frammento di Eraclito, è soltanto con Socrate che esso acquista quel significato di rottura che, strappandolo alla dimensione «sapienziale» e «iniziatica», lo consegna alle tecniche dialogico-argomentative approntate dalla grande sofistica. Difficile dar credito alla distinzione – attribuita da Diogene Laerzio a Pitagora – tra i filosofi, amanti della sapienza, e i sophói, i sapienti per antonomasia che sarebbero soltanto gli dèi: distinzione che con ogni probabilità risente dell’influenza della dottrina platonica mediata da Eraclide Pontico. D’altro canto, il frammento di Eraclito in cui si afferma chrè gàr eu mála pollòn hístoras philosóphous ándras éinai, «occorre che uomini filosofi [amanti-dellasapienza] siano indagatori di molte cose» (fr. DK B 35), non adombra la curiositas scientifica cui siamo abituati a partire dall’irruzione della modernità e dalle metodiche d’indagine approntate dalla philosophia naturalis, ma piuttosto il perseguimento della sophía in quanto légein, capacità di raccogliere la pluralità delle conoscenze nella veduta unitaria del lògos. Altra cosa era la filosofia per Socrate: non dimensione sapienziale ma pratica dialogica che, raccogliendo la sfida della sofistica, ne mutuava le tecniche (dialettica e retorica) al fine di giocare un gioco che si sarebbe rivelato oltremodo pericoloso, il gioco della verità. Con questa mossa, la prassi dialogica veniva ad assumere un carattere ben più drammatico di ciò che oggi comunemente s’intende per «dialogo», finendo per includere in sé il momento del conflitto, dell’antitesi, della polarizzazione tra tesi opposte: per Socrate, in altri termini, non c’è diàlogos senza pòlemos. Il socratico «sapere di non sapere» istituiva così un’attitudine ambivalente, di prossimità distante, rispetto ai linguaggi della polis, gettando un ponte con lo spazio proprio della politica. E tuttavia il gemellaggio tra filosofia e politica si sarebbe presto trasformato in diaspora a causa del trauma prodotto – secondo

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una celebre osservazione di Hannah Arendt – dal processo e dalla condanna a morte di Socrate da parte della democrazia ateniese. Da questa scena influente prende avvio una sorta di doppio movimento: per un verso, a partire da Platone, una tensione inconciliabile tra filosofia e politica (con il corollario di un’irriducibile riserva critico-polemica nei confronti della democrazia in quanto regno della dóxa, dell’opinione); per l’altro un’oscillazione costante, ravvisabile già in Aristotele, della pratica filosofica tra i due poli della paidèia e della «filosofia prima» (quella che verrà successivamente chiamata «metafisica»). È significativo, a tale proposito, che Aristotele ascriva a Socrate il merito di avere dischiuso alla riflessione filosofica la dimensione dell’etica, sottraendola al relativismo della sofistica: «Socrate si occupò delle virtù etiche e per primo tentò di dare di esse definizioni universali» (Metaph., M, 4, 1078b 17-19). Si tratta, con ogni evidenza, di una forzatura: dal momento che lo spazio del metaxý, dell’intermezzo o interludio tra sapienza e ignoranza, assegnato dallo stesso Socrate platonico alla filosofia per il tramite di Diotima (nel celebre passo del Simposio), alludeva a una prassi dialogica come approssimazione alla verità destinata a restare incessantemente aperta e a non concludersi mai con un’acquisizione stabile e definitiva. Malgrado ciò, è indubbio che Socrate – come ha osservato Mario Vegetti nel suo libro del 1989 L’etica degli antichi – abbia svolto un «ruolo di cerniera, di saldatura, fra la tradizione delle idee morali greche, dall’VIII al V secolo a.C., e la loro traduzione nei termini e nel linguaggio della teoria etica, che inizia non prima del IV secolo». Ed è altrettanto indubbio che il «momento socratico» acquisti oggi una rinnovata attualità. Per due ordini di ragioni. In primo luogo, per il rilievo che è venuto assumendo – a cavallo fra i due stili di pensiero dell’analitica e dell’ermeneutica – l’idea della filosofia non come ‘visione’ o Weltanschauung, «intuizione del mondo», ma come pratica dell’interrogare: nella consapevolezza che buona parte dei nostri problemi (anche esistenziali) derivi da questioni irrisolvibili, da domande mal poste. In secondo luogo, per il fatto che il metaxý filosofico viene oggi ad assumere, negli scenari della Cosmopolis o della Babele globale, una posizione analoga a quella che ne aveva segnato la genesi nella polis ateniese del V secolo: stretta allora in uno spazio mediano tra la visione sapienziale dell’arché propria dei «presocratici» e il relativismo etico-gnoseologico della sofistica, oggi in un precario interstizio tra i due opposti poli delle teorie cosmologiche del Tutto (o delle dottrine fondamentali, non solo religiose, della Verità assoluta) e il relativismo etico-culturale dei postmoderni. Per completare il quadro dei problemi occorrerebbe a questo punto chiamare in causa, accanto a filosofia e politica, un’altra decisiva parola-chiave del lessico occidentale: potere. Termine carico non solo di indeterminatezza, ma di contraddizioni e tensioni interne. Se «politica» è il risultato della sostantivazione di un aggettivo, «potere» è il risultato della sostantivazione di un verbo. Ma cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di potere? In cosa consiste il potere del potere? Che cosa può il Potere? La classica distinzione che viene introdotta a questo proposito è quella tra «potere-di» e «potere-su»: tra potere di disposizione sugli oggetti e potere come azione esercitata sui soggetti umani. Ma la tenuta di una tale distinzione diviene oltremodo problematica se consideriamo il carattere contraddittorio delle sue conseguenze: per un verso, il potere sulle persone è tale se è in grado di disporre di esse (Marx docet) alla stregua di «cose»; per l’altro, l’assoggettamento dei soggetti (quel processo che Michel Foucault denota con il

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termine «soggettivazione») può essere intanto contrassegno di potere in quanto si traduce in un dispositivo di controllo-disciplinamento di individui virtualmente liberi: ossia, potenzialmente dotati di «volontà», della capacità di agire altrimenti o antagonisticamente rispetto alla relazione di assoggettamento. Il paradosso del potere propriamente inteso consiste pertanto nel fatto che esso è tale solo se lo concepiamo non già come sostanza ma – appunto – come relazione con soggetti potenzialmente liberi: vale a dire, dotati del potere di agire in modo alternativo all’atto di subordinazione. Ma, stando a queste premesse, vediamo emergere un’implicazione radicale del paradosso del potere, messa genialmente in luce da Étienne de La Boétie nel suo breve e luminoso Discorso sulla servitù volontaria (composto, secondo la testimonianza di Montaigne, intorno alla metà del XVI secolo): potere e libertà sono co-originari, discendono dalla medesima fonte. Proprio in quanto negazione della libertà, il potere la presuppone: non sarebbe pensabile se i «soggetti» su cui esso si esercita non fossero originariamente e potenzialmente liberi. In parole povere: un potere esercitato su individui per natura non liberi non sarebbe propriamente potere, dal momento che ad esso verrebbe a mancare la fondamentale prerogativa della relazione. E un potere senza relazione non sarebbe più un potere-su, ma semplicemente un potere-di: mero potere di disposizione su oggetti. Per questa decisiva ragione il potere necessita dell’asservimento volontario dei soggetti, della rinuncia ad agire liberamente operata da individui potenzialmente attivi. La proverbiale passività dei «subalterni», su cui gli intellettuali del secolo scorso hanno versato fiumi d’inchiostro, non discende affatto da un’originaria illibertà o impotenza, ma al contrario dall’indeterminata potenza della libertà, intesa come possibilità di agire o non agire. Discendono di qui due conseguenze fondamentali: in primo luogo, l’irriducibilità del potere alla dimensione fattuale della forza; in secondo luogo, il disvelamento – lungo una traiettoria di pensiero che va da Machiavelli a Spinoza – della circostanza che la libertà originaria che sta a presupposto della relazione di potere è la potenza. Ma di qui si aprono nuovi scenari, che chiamano direttamente in causa i nodi nevralgici della ricerca filosofica dei nostri giorni. Bibliografia essenziale – H. Arendt, Che cos’è la politica?, Einaudi, Torino 2006; N. Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999; G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, nuova edizione, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Ch. Meier, La nascita della categoria del politico in Grecia, il Mulino, Bologna 1988.

Globalizzazione Danilo Zolo Con il termine «globalizzazione» (globalization, mondialisation, Globalisierung) si indica il processo che negli ultimi decenni del secolo scorso ha dato vita a una vera e propria rete mondiale di connessioni spaziali e di interdipendenze funzionali che lega fra loro gli individui, i popoli, gli Stati. Questa rete ha messo in contatto un numero crescente di attori sociali e ha strettamente collegato fra di loro eventi economici, politici, culturali e comunicativi. Un tempo questi attori e questi eventi erano disconnessi a causa delle distanze geografiche e delle barriere

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cognitive e sociali che dividevano i continenti. A partire da un nucleo originario di carattere economico, la deriva della globalizzazione ha coinvolto ampi settori della cultura, delle comunicazioni di massa, della politica internazionale, e ha inciso profondamente sul rapporto fra la specie umana e l’ambiente naturale. Ciò che ha favorito il processo di integrazione è stata l’imponente riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e delle comunicazioni, e l’abbattimento delle barriere artificiali della circolazione internazionale dei beni, dei servizi, dei capitali, delle conoscenze e, sia pure con gravi limiti, delle persone e della manodopera. In questo senso Zygmunt Bauman ha individuato nella «compressione dello spazio e del tempo» una delle human consequences più rilevanti dei processi di globalizzazione. Anche per Antony Giddens l’effetto generale della globalizzazione è stato quello di modificare la rappresentazione sociale della «distanza», di attenuare il rilievo dello spazio territoriale e della dimensione temporale, di ridisegnare i confini del mondo senza tuttavia abbatterli. Per quanto riguarda i suoi contenuti, Giddens ha sostenuto che la globalizzazione presenta le caratteristiche tipiche della modernità occidentale: lo sviluppo tecnologico e informatico, l’industrialismo, l’economia di mercato, la divisione del lavoro, il militarismo. La globalizzazione può essere dunque pensata come un’espansione della modernità dall’ambito occidentale al mondo intero: è la modernità su scala globale. Il sociologo italiano Luciano Gallino ha sostenuto, invece, che per «globalizzazione» si deve intendere anzitutto l’accelerazione e l’intensificazione del processo di formazione di un’economia mondiale che si sta configurando come un sistema unico, funzionante in tempo reale. In questo senso «globalizzazione» è sinonimo di «universalismo del mercato»: un fenomeno che investe in particolare alcune macroregioni del mondo come l’America settentrionale, l’Europa occidentale e il Giappone, con in più alcune aree sempre più estese della Cina, dell’India e dell’America latina. Pur non sottovalutando le sue implicazioni politiche e culturali, Gallino sostiene che la globalizzazione è un fenomeno «primariamente economico». Essa, a parte i suoi ovvi presupposti tecnologici, è il risultato di un disegno che soggetti collettivi hanno progettato e realizzano consapevolmente. È il prodotto di politiche decise dalle maggiori potenze del pianeta e dalle istituzioni internazionali da loro influenzate. Queste politiche sono ispirate a criteri come la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la riduzione in numerosi settori – la sanità, la previdenza, l’istruzione, ecc. – dell’intervento pubblico degli Stati nazionali. Retta da questi criteri, la globalizzazione ha un carattere implosivo: pur dando vita a una rete mondiale di connessioni economico-sociali essa produce nello stesso tempo effetti di restrizione spaziale e di discriminazione in termini funzionali e comunicativi. Ciò concorre a spiegare, sostiene Gallino, il suo carattere settoriale sotto il profilo geo-politico e geo-economico: l’intero continente africano è rimasto sinora sostanzialmente estraneo ai processi di integrazione globale e altrettanto vale per ampi settori dell’America Latina e dell’Asia. Nessuna di queste visioni della globalizzazione può essere considerata definitiva e universalmente condivisa. Nel corso dell’ultimo ventennio, attorno alla nozione di «globalizzazione» si è sviluppato nel mondo occidentale quello che è stato chiamato the great globalization debate e che ha coinvolto un gran numero di economisti, politologi, sociologi, massmediologi ed ecologisti. Si può dire, concisamente, che nel dibattito in corso si fronteggiano due posizioni opposte. Da una parte ci sono gli apologeti della globalizzazione, intesa come

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uno sviluppo coerente della rivoluzione industriale europea e della connessa «modernizzazione». Secondo questi autori, negli ultimi tre secoli industrialismo e modernità hanno dato ottima prova di sé in Occidente, promuovendo, oltre a un elevato livello di benessere economico, fenomeni come la secolarizzazione, la diffusione del liberalismo e dell’economia di mercato, la razionalizzazione burocratica delle attività amministrative, la rivoluzione tecnologico-informatica, la formalizzazione giuridica, la proclamazione dei diritti dell’uomo. Dalla parte opposta si schierano i critici radicali. Essi non negano tout court gli aspetti positivi che la globalizzazione presenta o potrebbe presentare, ma ne enfatizzano soprattutto gli aspetti negativi: la crescente polarizzazione della distribuzione della ricchezza, la persistente turbolenza dei mercati finanziari dominati da operazioni speculative imponenti e senza controllo, l’irrazionale utilizzazione delle risorse, l’occidentalizzazione degli stili di vita e dei modelli di consumo che distrugge il pluralismo delle culture e degli universi simbolici. Il sistema economico internazionale aggiunge ogni anno circa otto miliardi di dollari al debito dei paesi poveri verso le istituzioni economiche internazionali, controllate dalle massime potenze del pianeta, mentre milioni di persone, in Africa, in Asia meridionale, in America latina, sono costrette dalla povertà ad abbandonare i propri paesi e a migrare verso le aree più ricche del mondo. Come ha sottolineato John Galbraith, già nel 1998 il 20% della popolazione mondiale più ricca si accaparrava l’86% dei consumi mondiali, mentre il 20% più povero consumava l’1,3% di tutti i beni e i servizi prodotti. Nel frattempo, si sostiene, aumentano a livello globale, in drammatica sincronia, le spese militari, le vittime civili dei conflitti armati e le morti per denutrizione o a causa di malattie epidemiche. Nonostante l’attivismo dei fautori dei diritti dell’uomo e la retorica umanitaria con la quale le grandi potenze occidentali hanno in più occasioni giustificato il loro illegale ricorso all’uso della forza, in particolare nell’area dei Balcani, del Medio Oriente e dell’Asia centro-meridionale, nel mondo globalizzato un numero crescente di persone vengono imprigionate, torturate, assassinate, rapite o ridotte in schiavitù. Oltre a ciò, i processi di globalizzazione tendono a gerarchizzare ulteriormente i rapporti internazionali emarginando le istituzioni politiche internazionali – le Nazioni Unite, anzitutto – e ponendo al vertice della gerarchia del potere mondiale un direttorio di potenze industriali, egemonizzate dagli Stati Uniti d’America. Infine la denuncia cruciale riguarda il fatto che l’accelerazione globale dello sviluppo scientifico-tecnico-industriale sta portando l’umanità verso un dissesto ecologico di dimensioni planetarie, come dimostrano una dozzina di indicatori empirici, dall’effetto serra, all’alterazione chimica degli oceani, alla perdita della diversità biologica. Accanto a questi due schieramenti prevalenti si collocano alcune posizioni intermedie. Di particolare rilievo, in questo senso, è la posizione «neokeynesiana» del premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz. È vero, riconosce Stiglitz, che la globalizzazione ha sinora avuto effetti devastanti sui paesi in via di sviluppo e soprattutto sui poveri che vi abitano: essa penalizza milioni di persone povere e poverissime, produce un aumento della disoccupazione su scala mondiale, non opera a favore degli equilibri ecologici del pianeta e non garantisce la stabilità dell’economia internazionale. Le istituzioni economiche internazionali, in nome di una «concezione fondamentalista» dell’economia di mercato, hanno paradossalmente favorito e talora esasperato gli effetti di-

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scriminatori e destabilizzanti dei mercati, anziché correggerli e compensarli, contribuendo così all’aumento delle persone che vivono in povertà (100 milioni in più in dieci anni) e al costante flusso di denaro dai paesi poveri del sud del mondo ai paesi ricchi del nord (in media circa 21 miliardi di dollari all’anno). A tutto questo va aggiunta la liberalizzazione senza freni dei mercati finanziari. La deregulation finanziaria per un verso ha impresso un’eccezionale accelerazione alla circolazione del denaro, per un altro ha consentito a migliaia di operatori, in larghissima parte appartenenti alle aree più ricche del pianeta, di realizzare cospicui profitti servendosi del mercato elettronico dei capitali, che non ha alcuna relazione diretta con lo scambio di prodotti e di servizi reali. Un sistema economico produttore di una rendita parassitaria e costantemente minacciato da crisi locali o addirittura dalla prospettiva di un crollo generale, come è accaduto nel 1998 e come oggi, dopo dieci anni, sta accadendo in termini ancora più gravi. Abbandonare la globalizzazione sarebbe, tuttavia, non auspicabile e, comunque, un obiettivo ben difficilmente realizzabile. Essa, sostiene Stiglitz, ha portato anche grandi vantaggi: ha offerto inedite opportunità commerciali, ha consentito un più facile accesso ai mercati e alla tecnologia, ha migliorato in generale le condizioni di salute degli uomini e ha diffuso l’informazione. Da respingere non è la globalizzazione in se stessa, ma i metodi con cui viene governata. È l’attuale gestione dei rapporti economici internazionali a dover essere radicalmente cambiata. Essa è in larga parte condizionata dal Washington consensus, e cioè dallo stretto controllo esercitato dal Dipartimento del Tesoro statunitense sulle istituzioni economiche internazionali e in modo particolare sul Fondo Monetario Internazionale: gli Stati Uniti ne sono l’azionista di maggioranza, il solo con diritto di veto. Un riformismo globale è possibile – sostiene fiducioso Stiglitz – e può portare a una «buona globalizzazione», gestita con metodi democratici. Ma a questo fine occorrerebbe ricondurre le istituzioni economiche internazionali alla loro missione originaria, come era stata lucidamente pensata da John Keynes, sottraendole all’egemonia degli Stati Uniti e sottoponendole al controllo della comunità internazionale, dopo averne resi trasparenti i processi decisionali. Bibliografia essenziale – Z. Bauman, Dentro la globalizzazione (1998), Laterza, Roma-Bari 2001; L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2000; A. Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo (1990), il Mulino, Bologna 1994; J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2004.

Internet Giuseppe O. Longo Il frutto più opimo della tecnologia dell’informazione è Internet, una «rete globale» le cui fitte maglie innervano tutto il pianeta. La sua struttura materiale (elaboratori e linee di trasmissione) è indispensabile ma secondaria rispetto ai fenomeni che vi si svolgono: fenomeni – di natura concettuale, linguistica e culturale – così importanti che alcuni hanno parlato di «intelligenza collettiva»

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(o «connettiva») e di «nuovo stadio evolutivo della cognizione». La rete si rivela un proteiforme «(multi)medium» planetario che, sotto l’egida dell’interfaccia digitale, è di volta in volta archivio, enciclopedia, mercato, televisione, arena di discussione, bacheca pubblica, testo, autore di storie, ricercatore, portalettere: si pensi ai blog alle chat, alla e-mail. Si passeranno, dunque, qui in rassegna alcune delle caratteristiche concettuali (quasi direi ‘mentali’) della rete, tenendo presenti gli effetti che essa opera sulla nostra cultura, specie sull’attività dialogica e narrativa. Il veleggiatore che naviga il mare magnum della rete entra in un universo di segni fortemente omologato e insieme frammentario se non addirittura polverizzato. Strano navigare, il suo, soggetto alle deviazioni dettate dalla curiosità, ma allo stesso tempo retto dalla necessità: il pilota s’illude di libertà sconfinata quando invece la sua barca virtuale segue le inflessibili rotaie di percorsi prestabiliti. Non è un mare, è piuttosto un reticolo di binari e di scambi, poco evidenti ma non meno coercitivi. L’incalzare degli stimoli non lascia respiro e su ognuno di essi ci si può soffermare solo pochi istanti, travolti da una sorta di coazione a procedere. L’abbondanza dei dati può generare disagio, riluttanza, rifiuto. A volte, ascoltando le voci sussurranti senza freno e misura nel mare virtuale, il navigante ha l’impressione straniante di assistere al flusso di coscienza di una creatura sconfinata che si racconta una storia interminabile. E questa storia coincide con la creatura stessa, perché la rete è fatta di testi giustapposti, e i collegamenti, che diventano attuali solo quando il visitatore li attiva, formano una famiglia di ipertesti. Prima di essere destati dal marinaio questi ipertesti dormono nel seno gigantesco dell’«ipertesto totale» costituito da tutti i testi della rete, e il navigante acquista la sua individualità specifica attraverso la famiglia degli ipertesti che trasforma da potenziali in attuali lungo il suo itinerario. Dunque ogni viaggio è un racconto, e la rete è la totalità di questi racconti virtuali (qui virtuale ha il senso antico di «potenziale» ma anche il senso nuovo di «artificiale»: il veleggiatore entra in un mondo artificiale e, percorrendolo, rende attuali i suoi elementi o ipertesti potenziali). Del resto anche nel mondo reale si ravvisa questo passaggio dal potenziale all’attuale: dal brulicante sottofondo dei fenomeni possibili l’osservatore sceglie, in base a criteri di opportunità, i fenomeni da rendere attuali e dà loro un nome. Così il linguaggio contribuisce a formare il mondo. Anche nel mondo virtuale della rete il linguaggio ha un’importanza fondamentale, soprattutto da quando la distinzione tra reale e virtuale ha cominciato ad attenuarsi. Con l’avvento della virtualità, il concetto di reale è stato sottoposto a una critica stringente che ne ha di molto attenuato la forza e l’ovvietà originarie. Sulla scia di una tendenza postmodernista tutto viene considerato come rappresentazione o come testo. Attraverso la codifica digitale, la realtà virtuale fornisce di ogni oggetto una rappresentazione testuale o segnica, quindi nel mondo virtuale il problema se la realtà sia tutta linguistica viene superato, anzi ignorato: del resto il reale riflesso, cioè razionale, è sempre stato linguistico (resta aperto il problema se sia linguistico anche il reale che fa capo alla prontezza intelligente del corpo). Il paradigma postmodernista considera la realtà come una costruzione linguistica, frutto di narrazioni intrecciate: questa visione trova in Internet la sua attuazione perfetta. Nella rete il passaggio tra un testo e un altro avviene per contiguità associativa, attraverso i rimandi (link): ciò la rende simile a un mosaico, distribuito non

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nello spazio bensì nel campo semantico, in cui tutte le tessere sono interessanti ma nessuna è davvero fondamentale. È forse per questa sua natura dis-integrata che Internet si è sviluppata in modo così rigoglioso: perché rispecchia la cultura odierna, frantumata dai media di massa, cresciuta per aggregazioni associative, per assonanze, sotto la spinta di esigenze mercantili e divulgative momentanee più che per necessitante evoluzione sistematica e organica. Quindi la rete, oltre ad essere, uno strumento di ricerca, un repertorio di dati, un mercato universale e uno sconfinato ipertesto, è anche una grande ‘metafora’ della cultura: perciò agisce nei suoi confronti come un potente catalizzatore, ricevendone a sua volta impulso e slancio. In questa interazione, da sistematica e strutturata la cultura diviene pletorica e frammentaria: non più apprendere, dunque, ma documentarsi, non più studiare ma consultare, non più organizzare il sapere intorno a concetti e idee di fondo, ma accumulare dati relativi a parole chiave alimentando il mito dell’«enciclopedia universale», della biblioteca completa. Ma questa aspirazione a un sapere totale non può attuarsi, poiché ciò che ogni individuo può estrarre da qualunque repertorio è una quantità d’informazione che non supera le sue limitate capacità di sempre: la virtualità del sapere. Attraverso la rete, rinascono gli antichi miti legati alla conoscenza: la vastità dell’enciclopedia c’illude di onniscienza e, quindi, di onnipotenza, e attraverso questi attributi divini, benché inattingibili, si conferma il carattere invincibile di Internet. Per effetto delle perturbazioni, delle consultazioni, degli accumuli, degli aggiornamenti, Internet si riconfigura di continuo, assorbendo e integrando il «rumore» e trasformandolo in alimento per presentarsi sempre nuova e sempre uguale (si vedano sotto-universi come il mondo virtuale Second Life, le reti sociali tipo Facebook oppure Wikipedia, il repertorio asintoticamente totale e di prontissima consultazione che sta soppiantando tutti i libri, tutti i dizionari, tutte le enciclopedie di carta). Le categorie del mondo reale, il tempo, lo spazio, la causalità, vengono sovvertite, s’intrecciano e si contaminano per fornire categorie nuove o spariscono, generando un vuoto che viene riempito dall’accumulo sequenziale e ossessivo di dati, richiami, immagini, testi. Questo accumulo, prodotto, anzi evocato dal navigante nel suo procedere, ha ben poco della narrazione tradizionale o del ragionamento argomentativo. Anzi l’argomentazione è soffocata dall’accrezione caotica delle informazioni e scompare fra le quinte del tempo annullato. Le narrazioni che richiedono uno sviluppo cronologico tendono ad essere bandite: non si può più ragionare, sistemare, ordinare perché i nuovi dati incalzano, i collegamenti ammiccano invitanti, spingendo il visitatore sempre in altre zone del non-tempo. Anche la ricerca scientifica in rete risente di questo effetto di accelerazione e ha le caratteristiche di un surriscaldamento che prelude forse a una sua profonda trasformazione: in questo senso la rete non è un semplice strumento comunicativo, ma contribuisce alla formazione dei risultati come un ‘autore’ anonimo e nascosto, ma realissimo e ingombrante. Con Internet si è formato un nuovo «soggetto di conoscenza», che sa cose che nessuna sua componente, umana o elettronica, sa. La rete segna non soltanto una svolta nell’epistemologia del singolo, ma anche la nascita di un nuovo modo di conoscere e di acquisire conoscenze, forse di sognare e di ammalarsi. Il concetto di autore, un tempo così gelosamente rivendicato, si attenua: l’autore, o il gruppo di autori, che firmava un articolo, si diluisce, diviene un autore connettivo privo di firma (o meglio, rappresentato dall’unica firma autorizzata: «www»).

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Grande protesi, insomma, questa rete, forse non ancora per i sensi, ma certo per le varie attività mentali, fino a quella, intima e segreta, che chiamiamo «creatività». Vi è, nella creatività, una forte componente esplorativa, uno stimolo a sondare il nuovo, a cercare l’inedito, l’inaudito, che potrebbe trovare nella struttura reticolare di Internet un fertile terreno di crescita. Il vero problema riguarda ciò che, con un termine eloquente nella sua brutalità, si chiama il «consumo». Internet incita al consumo di scritti, immagini, musiche, video: i turisti della rete vogliono subito la notizia, il documento, i filmati, che vanno visitati in fretta, in fretta divorati e in fretta abbandonati per cercare altro. Esauriti rapidamente i giacimenti artistici e letterari della nostra tradizione; sfruttati i filoni orientali, centro e sudamericani, eschimesi e pigmei; ripetute all’infinito le scene di uccelli e leopardi sullo sfondo di sanguinosi tramonti africani: insomma, consumato il mondo che ci siamo trovati in eredità, bisogna crearne ogni giorno un altro da dare in pasto a spettatori famelici (o inappetenti?), vogliosi di nuove esperienze ad ogni clic. I cosiddetti creativi sono messi alla frusta, devono spremersi per titillare i nervi degli utenti con esperienze sempre più forti e raffinate e crudeli e stravaganti, perché secondo l’inquietante legge di Weber e Fechner per provocare un effetto costante l’intensità dello stimolo deve continuare a crescere: le scene di violenza sono sempre più violente, quelle di misticismo sempre più mistiche, quelle di sesso sempre più sessuali, altrimenti l’emozione si attenua e si sfilaccia. Lo spettro dell’assuefazione si aggira per la rete, e bisogna esorcizzarlo. Bibliografia essenziale – G.O. Longo, Homo Technologicus, Meltemi, Roma 2001 (2 ed., 2005); G.O. Longo, Il simbionte: prove di umanità futura, Meltemi, Roma 2003; G.O. Longo, Il senso e la narrazione, Springer Italia, Milano 2008.

Lavoro/ozio Giovanni Mari La filosofia si è frequentemente occupata del lavoro e dell’ozio. Tuttavia, mentre una teoria dell’ozio può essere fatta risalire a Platone e ad Aristotele, per una teoria del lavoro occorrerà aspettare la riflessione di Karl Marx. Nell’antichità l’idea di ozio viene proposta autonomamente da quella di lavoro; durante il Medioevo le due idee si riconnettono, ancorché facendo registrare un profondo cambiamento del significato di ozio; nella modernità l’ozio, che ormai ha perso ogni connotazione positiva, diviene subalterno dell’idea di lavoro, che tra i due concetti acquista il valore fondamentale. Solamente verso la fine dell’Ottocento, in connessione all’universale affermazione del lavoro e della società industriali, l’ozio viene riscoperto come un valore essenziale della vita umana (P. Lafargue, O. Wilde, R. Stevenson). Attualmente possiamo affermare che manca sia un’idea di lavoro all’altezza delle trasformazioni subite dal moderno lavoro industriale, sia un’idea di ozio. Ai fini di questa ricerca, il tempo non è trascorso invano. Se da una parte, appare difficile oggi riuscire a pensare l’ozio indipendentemente dal lavoro, dall’altra le trasformazioni subite da quest’ultimo, soprattutto a causa dei processi di informatizzazione e di globalizzazione, sembrano imporre la ricerca di un’idea di lavoro e di ozio che non siano più né reciprocamente autonome (antichità), né contrapposte (modernità).

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L’idea di ozio viene compiutamente elaborata da Aristotele e rappresenta una delle principali eredità che la cultura aristocratica, rappresentata dal filosofo ateniese, trasmette alla società occidentale. Scrive Aristotele: «Ora la vita tutta si divide in attività e ozio (scholé), in guerra e pace, e delle azioni talune sono necessarie e utili, altre belle […], la guerra dev’essere in vista della pace, l’attività in vista dell’ozio, le cose necessarie e utili in vista di quelle belle (kalà) […] bisogna sì poter svolgere un’attività e combattere, ma molto più starsene in pace e in ozio e così fare le cose necessarie e utili, ma molto più quelle belle» (Politica, VII, 1333a-b). L’ozio aristotelico non ha niente a che fare col gioco, o, come lo chiameremmo noi, col divertimento. È l’impiego del tempo di non lavoro o del tempo non impiegato nelle attività civili, nelle attività «belle», rivolte alla cura fisica del corpo, alla musica e, soprattutto, alla conoscenza speculativa. Il lavoro manuale, le cui forme più faticose e ripetitive vengono affidate agli schiavi, è visto come «tecnica», e la figura sociale che lo rappresenta compiutamente è l’artigiano che modifica e plasma la materia secondo un’idea degli oggetti da fabbricare in base a precise competenze di mestiere e di impiego degli strumenti. A questo tipo di attività non appartiene solo il lavoro degli artigiani, ma anche quello dei medici e degli artisti, ed in genere di tutti coloro che fabbricano manualmente qualcosa di sensibile e materiale secondo una determinata «arte». Il cristianesimo sovverte questo mondo diviso tra ozio e lavoro, tra lavoro manuale e attività spirituali, in cui il lavoro è svalutato. Nel monachesimo il lavoro manuale conosce una prima rivalutazione, cui però si associa un’idea negativa dell’ozio che viene sostituito, come attività spirituale elevata, dalla preghiera. Il luteranesimo, con cui si apre definitivamente la modernità, opererà un’ulteriore rivalutazione etica del lavoro, che nel calvinismo sarà svolto in nome della fede cui ciascuno è chiamato da Dio. Contemporaneamente l’ozio viene ulteriormente disprezzato e considerato alla stregua di un peccato. L’etica luterana, calvinista e puritana del lavoro sono una condanna senza appello dell’ozio. La rivoluzione scientifica seicentesca, lo sviluppo della tecnologia e la rivoluzione industriale pongono fine al lavoro manuale come l’umanità l’aveva conosciuto da sempre. La macchina riduce l’operaio al suo servizio e il tempo di lavoro, come dimostra Marx in pagine famose dei Manoscritti del 1844, de Il capitale e dei manoscritti coevi a quest’ultima opera (Grundrisse, 1857-58), è scandito dai ritmi della macchina. Il mestiere, a sua volta, cioè le capacità artigianali di una volta, la conoscenza che ogni artigiano aveva degli oggetti che fabbricava, della maniera di impiego degli strumenti e della materia che doveva trasformare, sono sempre di più concentrate nella macchina e il lavoro si riduce a una fatica senz’anima e sapere, che abbassa la persona ai più bassi livelli (A. Smith, G.W.F. Hegel, K. Marx). La rivoluzione fordista (dal costruttore di autoveicoli John Ford che organizza il lavoro nelle proprie fabbriche di Detroit sulla base della catena di montaggio) dell’inizio del Novecento approfondisce tutti questi elementi, e la catena di montaggio diviene l’emblema della trasformazione e frantumazione del lavoro in un insieme di atti meccanici e ripetitivi, in una fatica senza alcuna soddisfazione spirituale. In questo quadro l’ozio si trasforma definitivamente in tempo di riposo e di divertimento, in un consumo passivo di massa, come di massa è il lavoro di fabbrica. L’abbassamento spirituale del lavoro provoca un eguale abbassamento della qualità del tempo di non lavoro che ormai ha veramente assai poco o nulla da spartire con l’ozio di Aristotele.

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L’industria, dopo essere riuscita a controllare e finalizzare al proprio profitto tutto il tempo di lavoro, si impossessa anche del tempo di non lavoro come industria del divertimento e dello svago. A cominciare dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, inizialmente in Giappone e poi progressivamente in tutti i paesi industrialmente più sviluppati, il lavoro fordista, di cui il film Tempi moderni di Chaplin fornisce un immagine esemplare, entra in crisi. Una crisi coeva all’affermazione della «società dell’informazione» e all’economia fondata sulla conoscenza. Autori come J. Rifkin o U. Beck parlano di «fine del lavoro», espressione che indica la «fine» del lavoro uscito dalla rivoluzione industriale settecentesca e dalla seconda rivoluzione centrata sull’organizzazione fordista. Il lavoro parcellizzato (taylorista), nient’affatto scomparso, riguarda ancora centinaia di migliaia di operai, ma la ricchezza dei paesi più sviluppati non è più creata soprattutto dal lavoro manifatturiero della grande o media fabbrica fordista. La ricchezza prodotta dai servizi (settore «terziario») rappresenta la quota maggiore, e in questo settore le attività che producono e diffondono informazione e conoscenza (mass media, scuole e università, ricerca dell’industria, pubblicità, ecc.) tendono a divenire il settore maggioritario. A sua volta anche il lavoro dell’industria richiede conoscenza, ricerca e trasferimenti tecnologici in misura crescente, anche per la concorrenza tra imprese che obbliga a una continua innovazione e per la necessità di produrre beni e servizi sempre più qualificati per un consumatore che non si accontenta più di soli prodotti di serie. Il questo quadro le attività lavorative tendono di nuovo ad incorporare conoscenza, e il lavoro di fabbrica fordista non rappresenta più, come nell’Ottocento e nel Novecento, la forma trainante e più moderna del lavoro. Se la rivoluzione industriale aveva trasferito le abilità e le conoscenze del mestiere dall’uomo alla macchina, la rivoluzione informatica e la crisi del fordismo tendono a reintrodurre nell’uomo le competenze e le conoscenze indispensabili alla produzione della ricchezza, oltreché richiederne un continuo aggiornamento. Ciò ha, tra l’altro, reso la questione dell’educazione e della formazione una questione centrale per la crescita di ogni paese sviluppato. Questa nuova richiesta di impieghi qualificati, flessibili e continuamente aggiornati per le competenze professionali ripropone in termini nuovi anche la questione dell’ozio. Se l’operaio di fabbrica, abituato a un lavoro ripetitivo e di scarsa qualificazione professionale, tendeva ad acquisire atteggiamenti passivi e meramente consumistici che realizzava in un tempo libero attraverso consumi massificati analoghi alla massificazione del proprio tempo di lavoro, oggi le questioni si pongono in termini diversi. Il nuovo lavoro ha acquistato una maggiore libertà, creatività e iniziativa e il tempo libero ha esigenze di qualità che una volta erano riservate solo ai ceti che non lavoravano o svolgevano attività professionali ad elevata retribuzione. Questi ceti erano, e sono, in fondo, mutatis mutandis, i diretti eredi dell’ozio aristotelico. Ma quale tipo di ozio potranno richiedere i nuovi lavori? Non è ancora chiaro, come non è ancora chiaro quale sarà e quale diffusione avrà il nuovo lavoro che comunque ha già segnato una frattura nella storia del lavoro. L’idea che sembra affacciarsi è quella di un ozio che dovrà impossessarsi nuovamente dei prodotti più alti della cultura e che potrà farlo a livello di massa, costruendo un rapporto di corrispondenza tra un lavoro sempre più ricco di conoscenze e di libertà, ancorché non svincolato dalla necessità tipica di ogni lavoro, e un tempo di non lavoro e di ozio che costituisca un ulteriore arricchimento

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della persona già arricchita dai nuovi lavori, ponendo fine alla contrapposizione moderna tra ozio e lavoro. Bibliografia essenziale – G. Mari, L’ozio come libertà del lavoro, «Iride», 48, 2006; G. Mari, Il lavoro dopo la «fine del lavoro», «Iride», 54, 2008; M. Kranzberg e J. Gies, Breve storia del lavoro, Mondadori, Milano 1991; A. Zanini e U. Fadini, Lessico postfordista, Feltrinelli, Milano 2001.

Narrazione Sergio Givone Mỳthos e lògos sono forme del discorso. Potremmo dire: non sono se non forme del discorso. Dicono la stessa cosa. Semplicemente la dicono in modo diverso. Il mito racconta. Il logos argomenta e dimostra. Chiediamoci allora: che cos’è la «stessa cosa» che il mito e il logos dicono? I Greci la chiamavano tó ón, tutto ciò che è, insomma l’essere. In quanto totalità dell’esistente, l’essere altro non è che la natura. Non la natura come la concepiamo noi moderni: oggetto che sta di fronte a un soggetto. Ma la natura come phỳsis, come realtà che ha in sé il principio della propria generazione (la natura è autogenerantesi e perciò è eterna) e al tempo stesso realtà che comprende anche colui (il mortale) che si rivolge a essa per interrogarla e renderla intelligibile. Mito e logos sono forme della trasparenza della natura all’uomo. Da questo punto di vista appartengono entrambi alla natura prima ancora che all’uomo. Sgorgano dal seno stesso della natura. Esprimono l’anima, l’essenza della natura, prima ancora che l’anima dell’uomo. Eppure non sono intercambiabili. A volte serve l’uno, il mito, a volte l’altro, il logos. Diceva Platone: ci sono cose che si lasciano spiegare attraverso il logos e cose che per essere capite hanno bisogno del mito. Chi voglia risolvere un problema di geometria, deve ricorrere al logos. Invece, quando si ha che fare con le grandi questioni etiche, questioni che riguardano la nascita e la morte, e ciò che sta in mezzo, la vita umana, è inevitabile prestare ascolto al mito, al racconto, alla narrazione di storie. È una questione di sintonia, di corrispondenza. Il logos ‘corrisponde’ immediatamente alla struttura matematica dell’essere. Afferra la realtà in quanto màthesis e dunque in rapporto alla sua perfetta conoscibilità. Non esita a farla sua e a identificarsi con essa. Anche il mito ‘corrisponde’ alla realtà. Ma non già rispetto alla sua struttura matematica (che è realissima e oggettiva), bensì rispetto alla potenza generatrice (altrettanto reale) che identifica la natura con l’essere vivente e l’essere con la natura eternamente viva. Dunque, ci sono cose che per essere comprese esigono il racconto, la narrazione. Di conseguenza è al mito che Platone fa ricorso ogniqualvolta si trova ad affrontare i grandi temi «esistenziali», temi come la responsabilità e la libertà, l’amore, la condizione umana in generale, segnata com’è da ignoranza e desiderio di conoscenza. Il mito di Er, il mito dell’androgino, il mito della caverna… Chi non ne ha mai sentito parlare? Soffermiamoci brevemente su di essi. Il mito di Er racconta dell’anima che, prima della nascita, è chiamata a scegliere fra le vite possibili rimaste a disposizione. Fatta la scelta, la vita sarà poi quella. Quella e non altra: vita obbligata, vita ingabbiata in una situazione

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intrascendibile, vita a suo modo necessaria e non libera. Eppure alla radice di questa vita c’è una scelta. Questa vita, come ogni vita, anche se non sembra, sta nel segno della libertà. E dunque della responsabilità. Sono io, in ultima istanza, ad averla voluta e a volerla. Io ne devo rendere conto. Con il mito dell’androgino a essere indagato è eros. Nelle remote origini gli uomini erano creature del tutto autosufficienti, anche e soprattutto dal punto di vista sessuale. Nessuno aveva bisogno di nessun altro, in quanto ciascuno disponeva di due organi sessuali e quindi riuniva in una sola persona tutte le dualità o coppie possibili (due maschi, due femmine, un maschio e una femmina). Ciò produsse negli uomini sicumera e tracotanza. E Zeus, per punirli, li separò in due metà. Da allora essi non fanno che cercarsi, al fine di ricomporre l’unità perduta. E che cos’è amore, se non questa ricerca della parte di sé di cui si soffre la mancanza? Dove tende amore, se non alla guarigione d’una ferita immemoriale? Dal mito della caverna impariamo d’essere simili a dei prigionieri che, incatenati in un profondo carcere, prendono per vere le figure proiettate dalla luce solare sulla parete opposta all’uscita. Invece la verità, la realtà, è là fuori. Là va cercata, dopo essersi liberati dall’illusione. Ciò non toglie che siano proprio le ombre ad attivare il processo conoscitivo. Nelle ombre noi riconosciamo la luce delle idee. Non ci fosse dato di riconoscerla, le ombre non sarebbero ombre, ma caos, buio, pura inintelligibilità. Al contrario, le ombre sono la nostra via alla verità. Come si vede, per Platone il discorso del mito, ossia la narrazione, sta sullo stesso piano del discorso del logos. Ha lo stesso obiettivo. E lo raggiunge non diversamente da quello, anche se con modalità sue proprie e specifiche. Semplicemente, in certi ambiti dell’esperienza, anzi, in certe dimensioni dell’essere, la narrazione funziona meglio della deduzione o dell’induzione, è più adatta, più appropriata, così come altrove (in altri ambiti, in altre dimensioni) vale l’inverso. Ma ci sarà anche chi, per esempio Nietzsche, sosterrà in chiave anti-platonica che la narrazione in filosofia è un modello di conoscenza da preferire sempre e comunque, e questo per una ragione: la realtà, sia che la consideri in rapporto alla sua struttura sia che la si consideri in rapporto al principio che la fa essere, sostanzialmente è affabulazione, invenzione mitologica. Prendiamo la concezione nietzschiana che più di qualsiasi altra è rappresentativa del suo pensiero: l’eterno ritorno dell’eguale. È Nietzsche stesso a farci vedere come questa concezione filosofica, non appena sia cristallizzata in una tesi intellettualistica o dogmatica, perda tutto il suo valore. Quel valore che invece può essere conservato a patto di inserirla in una biografia e quindi trattandola alla stregua di un vissuto piuttosto che di un teorema. È quanto osserva Zarathustra. Il quale ascolta i suoi discepoli riaffermare, come se fosse una lezioncina imparata a memoria, la dottrina da lui insegnata, appunto quella dell’eterno ritorno. Il suo commento sprezzante è che si tratta di «una canzone da organetto». Ma che cosa accade se il discorso del logos e il discorso del mito vengono identificati? Che cosa, se il discorso filosofico altro non è che sviluppo narrativo del concetto o, viceversa, narrazione articolata concettualmente? E che cosa, se la sola storia vera è quella raccontata dalla filosofia e se la filosofia dice la verità raccontandola, esponendola come raccontando una storia? Accade quel che è accaduto dopo che Hegel ritenne, con la Fenomenologia dello spirito, di poter compiere quel passo scrivendo la storia della coscienza che diventa autocoscienza e s’installa sul trono del sapere assoluto, sapere che esclude da sé tutte le altre storie,

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tutte le altre forme di sapere presunto o non sapere. Accade cioè che da una parte la filosofia si configuri come storia concettuale che invera le storie svuotandole di quanto esse hanno di irriducibile e peculiare (Ricoeur) e dall’altra che le storie, le infinite storie degli uomini, si sostituiscano alla filosofia contestando anzitutto la sua pretesa veritativa (Rorty). Una biforcazione di strade, con prospettive ancora da esplorare fino in fondo. Ma siamo sicuri, intanto, che non esista una terza via? Bibliografia essenziale – S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz: filosofia e romanzo, Einaudi, Torino 2005; P. Ricoeur, Tempo e racconto, 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-1988; R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma 1989.

Neurobiologia Vanna Gessa Kurotschka Il Novecento è stato detto il «secolo del cervello». Dopo la scoperta del neurone, ad opera di Camillo Golgi (1873) e di Santiago Ramon y Cajal (premio Nobel per la Medicina nel 1906 con Golgi), la nostra conoscenza del cervello ha progredito senza interruzione. È stata però l’utilizzazione di tecniche di studio non invasive a dare una svolta decisiva all’incremento esponenziale delle ricerche. La tomografia assiale computerizzata (TAC), la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la visualizzazione a risonanza magnetica (NMR) hanno permesso di tracciare una cartografia funzionale del cervello nella quale sono indicate con grande precisione le aree cerebrali coinvolte nelle funzioni motorie, nella sensibilità, nell’emozione, nel linguaggio, nelle operazioni matematiche, nelle decisioni, nell’attenzione. Ma la localizzazione delle funzioni mentali non è stata la sola scoperta che ha rivoluzionato le neuroscienze. Altrettanto rilevanti sono stati gli studi che hanno condotto alla descrizione precisa degli stadi attraverso i quali avviene la formazione del cervello. Come afferma Alberto Oliverio, il cervello non è una macchina, ma un organo la cui formazione è regolata dall’interazione fra le informazioni genetiche ereditate e l’ambiente. L’ambiente in cui il cervello si forma è prima di tutto quello dell’organismo e, cioè, quello interno (tessuti, cellule, molecole, fattori di crescita). Con il proseguire della crescita, influirà sempre più l’ambiente esterno. Lo sviluppo del cervello può dirsi pienamente compiuto, quando intorno ai 20-22 anni, si saranno completati i circuiti che pongono in contatto la corteccia frontale, sede di complesse funzioni mentali, con le aree sottocorticali coinvolte nella vita emotiva. La lentezza della fase di formazione del cervello è una caratteristica, e rappresenta un vantaggio evolutivo, della specie umana il cui comportamento non dipende da una serie di istinti rigidamente regolati dai geni, ma dalla plasticità del cervello che continua ad apprendere e trasformarsi fino alla morte in relazione all’ambiente in cui l’organismo umano vive. Dopo che il cervello ha acquisito tutte le capacità che gli permettono di regolare il comportamento dell’organismo, sono i collegamenti fra i neuroni a continuare a modificarsi ininterrottamente per tutto il corso della vita. Le ricerche neuroscientifiche mettono, così, a disposizione della filosofia conoscenze sul funzionamento di capacità umane fondamentali, quali pensare, parlare, provare sentimenti ed emozioni, fare scelte, interagire sensatamente con gli altri, capacità che non possono essere definite se non vengono studiate nelle loro caratteristiche insieme mentali e fisiche.

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Già a partire dagli anni Settanta del Novecento, Gerald Edelman ha sostenuto che il cervello si forma attraverso due processi selettivi: la selezione naturale e la selezione somatica. Oltre che la selezione naturale e la selezione somatica, strettamente connessa all’esperienza, questa teoria, detta «darwinismo neurale», si fonda su un terzo principio definito «rientro», fondamentale in Edelman per spiegare la genesi della mente cosciente. Il «rientro» riguarda il modo in cui operano in maniera integrata gli eventi selettivi, descritti dai primi due principi; permette infatti di spiegare l’interazione fra le mappe cerebrali e la sincronizzazione dell’attività dei gruppi neuronali. Si tratta perciò del meccanismo che consente la coordinazione spazio-temporale dei diversi eventi sensoriali e motori. La selezione nel corso dello sviluppo e la selezione connessa all’esperienza, sono a fondamento della grande variabilità e differenziazione degli stati neurali. Il rientro permette l’integrazione di questi stati ed è la base fisiologica della coscienza. In questo modo, secondo Edelman, la mente umana, a differenza di un computer, assolve ai compiti che le vengono richiesti dalle esigenze della sopravvivenza, attraverso una forma di coscienza che permette di «costruire e collegare fra loro scene trascorse e future», ma anche grazie a «una forma superiore di coscienza che richiede lo sviluppo di capacità sintattiche e linguistiche». Secondo Edelman deve esistere una qualche propensione che regola il risultato della selezione esperienziale e in ogni specie tale propensione viene ereditata in forma di «sistemi di valore» presenti nel cervello per effetto della selezione naturale e della selezione somatica. Parallelamente a Edelman, anche Antonio Damasio ha descritto il modo in cui le emozioni orientano il comportamento. Le emozioni non decidono per noi ma ci forniscono «informazioni» che la ragione da sola o non riuscirebbe a raccogliere o impiegherebbe troppo tempo a mettere insieme ed elaborare. Il cervello è in grado di valutare segnali che giungono dal corpo e di simulare anticipatamente le reazioni conseguenti a un certo comportamento, una capacità che Damasio definisce «marcatore somatico». Joseph Le Doux e il gruppo di ricerca italiano coordinato da Giacomo Rizzolatti hanno arricchito ulteriormente la conoscenza della nostra vita sensoriale ed emotiva. Secondo le loro ricerche, la percezione funziona come una capacità preriflessiva di «interpretare» un oggetto nei termini di possibili movimenti e azioni che colui che percepisce potrebbe compiere in relazione ad esso. Ciò che conosciamo attraverso la percezione sensoriale non è una riproduzione passiva di una figura che non ha niente a che fare con noi. La capacità di percepire ci mette a disposizione una conoscenza complessa che permette di rispondere preriflessivamente a una serie di domande: come posso agire rispetto a un oggetto a partire dal fatto che il mio corpo è fatto in un determinato modo, che mi muovo nello spazio delimitato dal mio corpo (da ciò che il mio corpo può raggiungere) e che rispetto a tale oggetto provo una determinata emozione? Rizzolatti ha chiamato «neuroni specchio» quelli che si attivano quando percepiamo un oggetto come ipotesi d’azione. L’attivazione dei neuroni specchio ci permette anche di comprendere in maniera preriflessiva le intenzioni di qualcuno che vediamo compiere un’azione sulla base del vocabolario di intenzioni da noi memorizzato. Allo stesso modo, siamo in grado di interpretare le emozioni degli altri. La capacità preriflessiva di esperire in prima persona e di condividere le intenzioni ed emozioni degli altri ci permette di percepirli in quanto simili a noi e, dunque, prepara la condizione per il nascere di rapporti intersoggettivi di solidarietà, di condivisione e di reciproco riconoscimento.

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Le emozioni ci aiutano, così, ad orientarci e a trovare risposte appropriate a richieste dell’ambiente naturale e sociale. È però controintuitivo pensare di essere solo esseri che hanno ricche emozioni. Pensiamo, abbiamo un linguaggio e una cultura. Gli esiti delle ricerche neurobiologiche hanno permesso di criticare il mentalismo riduzionista e concezioni riduttivamente cognitiviste del linguaggio ed Edelman ha parlato di una «seconda natura» umana da intendersi come una capacità che esseri naturali quali noi siamo hanno sviluppato attraverso l’uso del linguaggio. La filosofia ci ha abituato a ritenere che tale mondo specificamente umano sia il risultato di scelte libere. Ma gli esiti delle ricerche neurobiologiche permettono che si continui a pensare che gli esseri umani sono liberi? Il problema è stato sollevato da Benjamin Libet negli anni Settanta del secolo scorso. In un saggio divenuto famoso, egli si è chiesto se possiamo dirci liberi cercando la risposta in un esperimento, che ha misurato il tempo che intercorre tra i mutamenti elettrici nel cervello, che precedono l’azione volontaria, e l’esecuzione di quest’ultima. La conclusione di Libet è che la decisione volontaria avviene senza l’apporto della coscienza, ma essa ne decide l’esito: «la coscienza può impedire l’effettuazione dell’azione volontaria attraverso un veto». L’esperimento di Libet ha fatto sorgere una lunga discussione che ha modificato una concezione troppo enfatica dell’azione libera. Per l’avvio e il controllo delle azioni volontarie è necessario che collaborino molteplici centri motori all’interno e all’esterno della corteccia cerebrale. All’attivazione del movimento devono collaborare inoltre anche i gangli basali collegati al sistema limbico. Se è vero che a far sorgere il desiderio e a spingere all’effettuazione dell’azione per soddisfarlo è la memoria emozionale, quella che possiamo chiamare la «memoria dei sensi», è anche vero che non tutte le nostre azioni sono reazioni immediate. Molte delle nostre azioni vengono compiute senza il controllo cosciente, mentre altre sono accompagnate dalla coscienza pur non essendo solamente il risultato del controllo e della pianificazione razionale (il piacere, il sesso, il cibo). In ogni caso, fra il sorgere del desiderio e l’effettuazione dell’azione trascorre un tempo più o meno lungo e in questo tempo avviene la riflessione cosciente che implica l’attivazione della corteccia frontale e, dunque, la capacità di dirigere le azioni attraverso il ragionamento. Un ambito molto recente di relazione fra neurobiologia e filosofia è quello cosiddetto della «neuroetica». Essa si occupa delle questioni etiche, sociali, legali, politiche e mediche che scaturiscono dall’applicazione delle scoperte scientifiche sul cervello alla pratica medica, alle interpretazioni della legge e alla politica sociale. Oggi si distingue fra la «neuroetica applicata» e la «neuroetica filosofica». Mentre la «neuroetica applicata» ha occupato uno spazio ben definito e diventerà con lo sviluppo delle ricerche sul cervello e delle loro applicazioni sempre più rilevante, la «neuroetica filosofica» ha uno statuto più problematico. Non pochi studiosi del cervello sostengono che potrebbe esistere un insieme universale di risposte biologiche a dilemmi di natura etica, una sorta di morale connaturata al nostro cervello. Ma vi sono molteplici argomenti che sconsigliano questo approccio. Non ultimo quello che ricorda ai neuroscienziati la rivedibilità degli esiti delle ricerche scientifiche, rivedibilità che, vincolata alle regole del metodo scientifico, impedisce di assegnare alle leggi di natura lo statuto di universalità. Ciò obbliga a prendere congedo dall’illusione che sia possibile sottrarre la giustificazione della validità delle regole morali alla ricerca condotta con responsabilità e con metodo attraverso il dialogo fra gli esseri umani.

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Bibliografia essenziale – G. Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Cortina, Milano 2007; G. Edelman e G. Tononi, Un universo di coscienza, Einaudi, Torino 2000; B. Libet, Do we have free will?, in «Journal of Consciousness Studies», 6, 1999, pp. 47-57; A. Oliverio, Prima lezione di neuroscienze, Laterza, Roma-Bari 2002; G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, So quel che fa. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.

Pratiche filosofiche Vanna Gessa Kurotschka e Giuseppe Cacciatore La «consulenza filosofica» è nata in Germania a opera di Gerd Achenbach nell’orizzonte di una forma particolare di filosofia post-nietzscheana. Per questo lo specifico carattere della «consulenza filosofica», nel modo in cui l’ha teorizzata e praticata Achenbach, è più facilmente comprensibile se si tiene conto del legame che sussiste fra essa e l’ermeneutica gadameriana e il neoaristotelismo tedesco del secondo Novecento. Rilevante è, da una parte, la critica di Gadamer alla pretesa della scienza moderna di possedere un metodo applicabile a ogni ambito del sapere; dall’altra il riferimento positivo dell’ermeneutica gadameriana alla «filosofia pratica» di Aristotele, che Gadamer identifica con la phrònesis. Tali aspetti sono particolarmente rilevanti perché è su di essi che oggi è necessario riflettere per chiedersi se l’ermeneutica mette a disposizione della consulenza filosofica una teoria che permette il suo ‘buon’ esercizio. La phrònesis, in quanto forma di sapere che tiene conto eminentemente del carattere specifico dell’oggetto che si deve conoscere, ha il vantaggio di essere una forma di razionalità prospettica, in grado, dunque, di prendere le mosse dalle particolari concezioni del bene degli individui per orientarle internamente. Se la morale di Kant metteva da parte le emozioni, i sentimenti e le particolari concezioni del bene dei singoli, interpretandoli come lati dell’umano eticamente non qualificati, per puntare sull’immediata adesione del singolo alla legge universale, il ragionamento etico che fa uso della phrònesis prende invece le mosse proprio da tale denso tessuto emotivo nell’ambito del quale l’agire umano si sviluppa. Nell’ermeneutica Achenbach trovava le categorie filosofiche che gli permettevano di contrapporsi sia al riduzionismo etico di stampo naturalistico sia al trascendentalismo universalistico che fonda il ragionamento etico sulla messa in mora delle particolari concezioni del bene degli agenti morali. La phrònesis non deduce ma valuta e orienta; e, nel valutare e orientare, non mette da parte, ma pone al centro dell’interesse la questione del bene umano, articolato a partire dalla prima persona singolare. Per questo, l’influenza dell’aristotelismo tedesco degli anni Sessanta e Settanta del Novecento porta in Achenbach a svalutare, nella formazione dei consulenti filosofici, le scienze della vita, le scienze cognitive, del linguaggio e della comunicazione e a una forte polemica nei confronti della filosofia accademica. La filosofia si deve risolvere nella consulenza filosofica. In questo aspetto della sua teoria è l’identificazione gadameriana di «filosofia pratica» e «saggezza» a dare i suoi frutti. Dopo Achenbach, che ancora opera in Germania a partire dalla sua Praxis di Colonia, la pratica filosofica si è diffusa con modalità differenti in ambiti pratici anche diversi da quelli della consulenza individuale. In Italia l’associazione Phronesis (prima presieduta da Umberto Galimberti e poi da Neri Pollastri)

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ha raccolto l’eredità di Achenbach, fondando anche una rivista omonima e una collana editoriale dedicata alle pratiche filosofiche dalla casa editrice Apogeo. E se Achenbach, soprattutto in un primo momento, aveva pensato la «consulenza filosofica» come una modalità sia di sostituzione della psicoterapia sia di sostituzione della filosofia accademica, oggi si tenta di differenziare il ruolo del filosofo pratico sia dal terapeuta sia dallo studioso universitario. Lo sviluppo più interessante è quello che vede il filosofo operare in ambiti istituzionali. L’ipotesi è che di «consulenza filosofica» necessitino individui che operano in ospedali, aziende pubbliche e private, centri interculturali, università, scuole, istituzioni penali, centri di riabilitazione per persone altrimenti abili. Piuttosto che arroccarsi in uno spazio lontano e diverso dai saperi sui quali la prassi di tali istituzioni si costituisce e funziona, la filosofia intende individuare ciò che in quella prassi ostacola e non favorisce la ‘fioritura umana’ di coloro che vi lavorano e di coloro che a esse si rivolgono per ottenerne un servizio. Tra i molti ambiti, in cui si va affermando l’uso pratico della filosofia, riteniamo utile soffermarci sul caso, particolarmente esemplificativo, delle aziende ospedaliere. Da dove sorge il bisogno della filosofia in ambito biomedico? Lo sviluppo imponente delle ricerche scientifiche nell’ambito della biomedicina nell’ultimo quarto di secolo e l’uso «curativo», nel senso della «medicina protettiva» che gli esiti di tali ricerche ha reso possibile, stanno trasformando radicalmente la vita umana. I confini della vita si sono allargati. La «nascita» e la «morte» non sono più solo eventi a cui gli esseri umani sono esposti. Le ricerche sulla procreazione mettono a nostra disposizione tecniche rivoluzionarie e rendono possibili pratiche riproduttive che fanno sorgere difficili questioni antropologiche di genere ed etiche. Se la riproduzione umana non è più necessariamente dipendente dal rapporto d’amore fra un uomo e una donna e se può accadere attraverso pratiche che non hanno più niente a che fare con il sesso, a quali trasformazioni antropologiche si sta avviando il nostro genere? Le ricerche genetiche rendono oggi possibile non solo un intervento farmacologico utile a riparare danni al DNA dei feti, ma anche un loro vero e proprio restyling (colori e forme possono essere decisi da genitori di buona volontà e indotti nei feti). Tali pratiche «protettive» e/o «trasformative», già ora disponibili sul mercato internazionale, sono anche consigliabili? E se se ne consigliasse l’uso, come dovrebbero essere gestite e regolamentate? Da chi e per quali scopi dovrebbero essere usate? La gestazione è a sua volta sotto il controllo di tecniche sempre più invasive e capaci di ‘proteggere’ anche nel caso di tempi di gestazione intrauterina molto corti. Se ancora fino a vent’anni fa era impensabile la sopravvivenza di un feto che non avesse avuto un periodo di gestazione di 27/28 settimane, adesso già si parla di «dovere» di rianimazione di feti dopo un periodo di gestazione di 22 settimane. Con quali possibilità di sana sopravvivenza? Anche la «morte» è divenuta un concetto che necessita di essere aggiornato in riferimento agli ultimi sviluppi delle ricerche biomediche. Poiché è tecnicamente possibile, dobbiamo mantenere in vita un corpo che è con certezza in stato vegetativo permanente? Come deve essere regolamentata la materia che per brevità diremo del «testamento biologico»? Come affrontare la questione del nostro desiderio di allungare sempre più la vita, il desiderio di essere immortali, in un mondo nel quale, se la vita umana dovesse durare a partire dalla prossima generazione 120 anni, molte cose dovrebbero cambiare? Si può parlare di un «dovere di morire» e, se si ritiene che se ne debba parlare,

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come deve essere articolato normativamente e come deve essere giuridicamente regolamentato tale dovere? Ma oggetto di controllo biomedico non sono solo l’inizio e la fine della vita (natalità e mortalità, ricordiamolo, sono i caratteri che fanno dell’essere umano quell’essere fragile che caratterizza più specificamente il «genere»); anche l’arco della vita, «il tempo della vita», in quanto nel suo corso siamo esposti alla malattia e, dunque, alla necessità di cure mediche, fa sorgere problemi che la sola medicina non riesce a risolvere. I protocolli delle cure che la medicina mette a punto sono costruiti su un’idea di essere umano molto astratta o generica. Bambini, donne, vecchi hanno caratteristiche speciali che richiedono una differenziazione di tali protocolli, un loro adattamento al caso concreto. In ultima analisi, ogni paziente è un caso speciale e il lavoro di adattare i protocolli ai casi particolari è la prestazione che è richiesta ad un buon medico nella pratica che deve condurre alla salute del malato. Medico e paziente dovrebbero collaborare in una pratica nella quale né il punto di partenza («malattia») né il punto di arrivo («salute») può essere fissato a priori e definito una volta per tutte nomologicamente e in maniera univoca. Se tale pratica avrà successo oppure fallirà dipenderà oltre che dalle capacità tecniche del medico anche da altre componenti che costituiscono intrinsecamente la pratica che dalla «malattia» conduce alla «salute». Tali componenti sono di tipo organizzativo (l’organizzazione sanitaria non sempre gioca a favore della pratica medica volta a produrre la salute e ne impedisce piuttosto il successo), di tipo comunicativo (la comprensione fra medico e paziente è spesso difficile a causa di molteplici fattori – linguaggio, tempo, disponibilità e apertura all’ascolto, ecc.) e di tipo cognitivo (la migliore disponibilità può a volte poco, a fronte dell’impreparazione di chi opera in ambito biomedico dinanzi a questioni nuove e complesse per i quali la soluzione ancora deve essere trovata e che i percorsi formativi non riescono a prevedere). Il filosofo si impegna in ognuno di tali campi. A livello organizzativo, cercando risposte nuove al problema dell’uso migliore delle risorse umane in ambito aziendale; a livello comunicativo, assolvendo un compito che è quello della traduzione dei molteplici linguaggi per produrre comprensione; a livello cognitivo contribuendo a colmare quel deficit di sapere che è soprattutto di natura filosofica ed etica. Sembra evidente che a fronte di tali compiti il tipo di filosofia, ermeneutica gadameriana e neoaristotelismo, a cui Achenbach faceva riferimento nel curriculum da lui proposto per la formazione dei «consulenti filosofici» non sia più sufficiente anche se certo ancora utile. È invece una filosofia in grado di instaurare un rapporto positivo, e senza complessi di inferiorità, con la scienza, una filosofia che, a partire da tale rapporto positivo, affronti filosoficamente le questioni antropologiche ed etiche che lo sviluppo della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche hanno fatto sorgere, una filosofia che non rinunci a compiti conoscitivi complessi e sia, piuttosto, accademicamente agguerrita, e capace semmai di rinnovarsi profondamente in relazione alle domande del nostro tempo, quella che è utile alla formazione del «consulente filosofico». Bibliografia essenziale – G. Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004; U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005; V. Gessa Kurotschka e G. Cacciatore, a cura di, I saperi umani e la consulenza filosofica, Meltemi, Roma 2007; N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007; P.A. Rovatti, La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Cortina, Milano 2006.

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Psicoanalisi Adriano Bugliani Nel contesto dei primi del Novecento, quando nacque, la psicoanalisi apparve soprattutto come una dimensione irrazionale, in conflitto con l’orientamento positivista e la morale collettiva. Dal punto di vista teorico, l’inconscio non trovava posto nelle categorie scientifiche, né in buona parte di quelle filosofiche (tuttavia aveva analoghi nel pensiero di Schopenhauer o di Nietzsche, per esempio). Da un punto di vista pratico, ovvero terapeutico, era sconvolgente che assumessero valore i sogni, le pulsioni sessuali, l’infanzia, i lapsus e più in generale un insieme di elementi che fino ad allora erano considerati insignificanti o ridicoli. La psicoanalisi riteneva importante, anzi decisivo, ciò che si era abituati a trascurare o disprezzare. A differenza di Nietzsche, però, un sovvertimento generale dei valori non era minimamente nelle intenzioni di Sigmund Freud (1856-1939): la psicoanalisi si limitava e si limita a mostrare un altro universo di senso e valori – l’inconscio appunto – accanto alla coscienza, e si occupa delle relazioni fra questi due mondi, gli «inferi» e la superficie, in vista di una loro «integrazione». Eppure fu sufficiente dare statuto al mondo dell’ombra perché si producesse uno shock sulle concezioni e la morale dell’epoca. Certo Freud si considerava uno scienziato (era un medico), e aveva fiducia che la psicoanalisi sarebbe divenuta scienza; non lo era al presente, ma lo sarebbe stata in un futuro non lontano. Certe formulazioni di Freud riguardo, per esempio, alle tripartizioni della psiche in Io-Es-Superio e Coscienza-Preconscio-Inconscio, e più in generale il suo approccio che vuole essere sistematico e il suo modo di esprimersi che cerca di essere il più chiaro possibile, hanno fatto ritenere che la psicoanalisi potesse considerarsi scienza, e questo ancora oggi. Ma ciò non impedì, accanto al notevole seguito culturale e terapeutico, una reazione negativa altrettanto diffusa, anche da parte della cultura filosofica. La psicoanalisi affermava una serie di assurdità, si diceva, che non erano sostenibili con alcuno dei mezzi di verifica riconosciuti. Per definizione l’inconscio è qualcosa di cui non si può avere la minima consapevolezza. Dunque su quali basi Freud ne affermava l’esistenza? E anche se, a suo dire, c’erano prove indirette di questa esistenza, altrettanto cogenti di prove dirette, la natura stessa dell’inconscio rimaneva intrinsecamente inaccettabile: non può esistere qualcosa di cui nessuno può fare esperienza (come aveva affermato Kant alla fine del Settecento, consolidando lo spartiacque con la precedente cultura «metafisica»). Anche il sogno, che è la manifestazione eminente dell’inconscio (Freud lo definì «la via regia per l’inconscio»), potrebbe essere considerato, al contrario, un fenomeno psichico bizzarro e privo d’importanza, e tutt’oggi ci sono psichiatri e anche psicologi che lo considerano tale: è soltanto in base a un’ipotesi, a un postulato, che il sogno viene considerato «un atto psichico pienamente valido», ovvero l’inconscio che parla attraverso immagini. A ben vedere si fa esperienza dei sogni, non dell’inconscio. Dal punto di vista epistemologico l’inconscio è una «x», un’entità fittizia introdotta per spiegare i sogni e dar loro significato. Ma se qualcuno si rifiuta di credere a questa «x», perché non ne vede la necessità o il senso, perché non concede che nei sogni si possa scoprire un significato, la psicoanalisi non può in alcun modo convincerlo in base a qualche evidenza, prova, o argomentazione. Ecco ciò che ritenevano i detrattori della psicoanalisi: che Freud avesse arbitrariamente visto un significato e un «sostrato» (l’inconscio) dove la

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cultura scientifica non vedeva che nonsenso e paradosso. Questa contrapposizione fra la fiducia nella psicoanalisi e nell’inconscio e, dall’altra parte, la diffidenza, l’incredulità o la critica radicale, si è protratta fino a oggi: c’è ancora chi ritiene che la psicoanalisi sia pura e semplice ciarlataneria. Del resto, fu chiaro a Freud quasi subito: la «prova» fondamentale a favore della psicoanalisi è di natura clinica, ovvero può credere nella psicoanalisi, e capire realmente di cosa si tratti, soprattutto chi ne abbia fatta esperienza diretta, come medico o paziente. Carl Gustav Jung (1875-1961) scriverà che «nella pratica della psicoterapia» l’inconscio e tutti i fenomeni psichici che gli sono connessi, «che generalmente sono così vaghi e così spesso degenerano in discorsi vuoti e ampollosi, escono dall’oscurità che li avvolge e diventano quasi tangibili». Non sono ipotesi campate in aria ma necessità cliniche; un intero universo di realtà psichiche si impone al medico se vuole essere d’aiuto ai pazienti – una volta che abbia adottato l’approccio psicoanalitico. «Noi medici dell’anima siamo costretti per esigenza professionale» a occuparci di problemi del genere, scrive sempre Jung. Ma anche in Freud si trova un punto di vista analogo, quando scrive, per esempio riguardo alle pulsioni: «la dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia. Le pulsioni sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza. Non possiamo prescinderne, nel nostro lavoro, un solo istante, e nel contempo non siamo mai sicuri di coglierle chiaramente». Non si sottolineerà mai abbastanza che la psicoanalisi non è nata come pura speculazione, ma come concezione e strumentario medico, e tale è rimasta. Dunque bisogna ricordare che la nozione fondamentale, l’inconscio, ha un’origine e significato prevalentemente terapeutici e, che svincolata dal contesto medico, perde gran parte di questo significato: non esiste una pura teoria psicoanalitica, come non esistono psicoanalisti puramente teorici. Naturalmente ci sono molte varianti della psicoanalisi. Alcune, come quella di Jung, sono più inclini a considerare l’inconscio un universo di significato decisamente irrazionale o perlomeno a-razionale, un mondo a sé che nel peggiore dei casi è in radicale contrasto con la coscienza, mentre nel migliore ne costituisce un complemento e anche un sostegno, senza tuttavia mai ridursi a essa. Secondo Jung, il mondo della luce e della superficie (l’io, la coscienza) e il mondo dell’oscurità o del «profondo psichico» (l’inconscio), come Freud stesso lo chiamava, sono due dimensioni a sé, di natura molto diversa. Questo tuttavia non impedisce che comunichino, seppure in forma paradossale, e anzi a suo parere la «salute» o equilibrio psicologico consiste proprio nel fatto che la comunicazione fra coscienza e inconscio non sia interrotta. Il pericolo, piuttosto, è che uno dei due mondi si sottometta all’altro: ossia il predominio dell’uno o dell’altro è una forma di patologia grave; dove domina l’inconscio si parla di psicosi e, all’altro estremo, dove «domina» la coscienza si parla di narcisismo (anche nel narcisismo domina l’inconscio, ma a prima vista c’è un eccesso di coscienza, di «io»). Altre concezioni sono più concrete, orientate alla vita di relazione e in particolare ai primi rapporti madre-bambino, le cosiddette «relazioni oggettuali», cioè le relazioni dell’infanzia con l’«oggetto» materno. Questi orientamenti sono radicati nella psicoanalisi anglosassone (in Gran Bretagna a partire dagli studi di A. Freud e M. Klein), e mettono in luce quanto l’equilibrio psicologico della persona dipenda dalle buone cure ricevute nella prima infanzia; si parla, in particolare, di madre «sufficientemente buona» (D. Winnicott). È una versione psicoanalitica più

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concreta e «razionale», perché indica degli antecedenti facilmente comprensibili all’origine dei disturbi psicologici. E, anche se si lavora sulle figurazioni interiori e inconsce di queste relazioni oggettuali, è inevitabile che, una volta indicate certe «cause», si pensi a prevenire i disturbi facendo qualcosa prima che si verifichino, per esempio educando buoni genitori. L’aspetto concreto di questi studi consisteva poi nel fatto che per la prima volta si osservavano direttamente i bambini. Al contrario, Sigmund Freud lavorava con pazienti adulti e riteneva che non esistessero cause dirette e concrete del disagio psichico: a suo parere l’equilibrio psicologico umano è intrinsecamente precario, per cui non è strano che in alcuni individui entri in crisi. Secondo Freud le «cause» della patologia risiedono nel profondo e nei suoi rapporti con la coscienza, il che esclude una comprensione chiara e univoca, e pone la psicoterapia in posizione ricostruttiva e retrospettiva, piuttosto che profilattica. Tutto sommato la psicoanalisi attuale è più frutto dell’orientamento anglosassone, che dell’iniziale psicologia del profondo. Inoltre c’è stata un’enorme crescita istituzionale (scuole, associazioni) della psicoterapia in generale. Tutto ciò ha messo in ombra l’aspetto irrazionale che, tuttavia, permane: oggi la psicoanalisi è fondata sull’inconscio esattamente come agli inizi. Ed è per questo che rimane immutata l’ambivalenza di fondo nei suoi confronti: perché è ambivalente tutto ciò che è inconscio o che si relaziona con l’inconscio. Bibliografia essenziale – S. Freud, Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1961-1989; S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Id., Opere, vol. 8; S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in Id., Opere, vol. 11; C.G. Jung, Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1973-2002; S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano 2007.

Storia Remo Bodei Gli uomini hanno sempre cercato di dare un senso alla miriade di eventi, individuali e collettivi, che si svolgono durante la loro esistenza e a quelli che precedendoli la condizionano e hanno anche tentato di immaginare in quale prevedibile direzione potessero andare. I miti, le leggende, le fedi religiose, le interpretazioni dall’alto offerte o imposte da sacerdoti, indovini, stregoni e sovrani hanno stabilito, con il crisma del carisma o dell’ufficialità, il significato di ciò che accadde, sta accadendo o accadrà. Ma già nell’India del secondo millennio e soprattutto nella Grecia del V secolo a.C. non ci si contenta più di verità non empiricamente o razionalmente provate, che si basano sull’autorità della tradizione o sui poteri religiosi e politici dominanti. A partire da Erodoto e da Tucidide, la storia (historía dalla radice indoeuropea * wid-, + weid, ossia «vedere») nasce in Occidente per lo più come resoconto di un’indagine e testimonianza di ciò che si è visto o di ciò che si è sentito raccontare da testimoni diretti. Essa è quindi sostanzialmente narrazione del presente o di quel passato che rimane ancora vivo in chi lo ha esperito. Non riguarda cioè, originariamente, il passato vero e proprio, immemoriale, tanto che il primo libro delle Storie di Tucidide, relativo agli eventi dell’Attica prima della Guerra del Peloponneso, si chiama Archaiologia. Controllo diretto dei fatti e metodo razionale svolgono anche una funzione etica: quella di sottrarre la storia alle interpretazioni

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interessate e manipolate. Implicano, se non un’irraggiungibile oggettività (perché il punto di vista di chi racconta è ineliminabile), certamente l’onestà e la confutabilità delle narrazioni e delle tesi sostenute. Quando la storia si allarga anche al passato, si pone il problema di individuare delle spiegazioni più generali degli eventi, per evitare che diventino un pulviscolo capricciosamente mosso dal vento. Nascono le «storie universali», che contengono implicitamente le prime «filosofie della storia» (l’espressione è recente e rimanda all’omonimo libro di Voltaire del 1765, ma il valore non cambia di molto, in quanto si tratta di trovare una logica interna a ciò che accade). Il cammino è lungo e costellato da frequenti e molteplici cambiamenti, ma esiste un discrimine abbastanza netto, tra chi attribuisce agli eventi un significato esclusivamente umano e chi vi vede la realizzazione di un disegno divino, la mano della Provvidenza. In entrambi i casi, tuttavia, gli individui agenti perseguono i loro fini, ma la storia astutamente li gioca producendo effetti inaspettati al di là delle loro intenzioni oppure – come dirà Lessing – «gli uomini scrivono i numeri, ma è la Provvidenza che tira le somme». Polibio nel II secolo a.C. e Agostino nei primi decenni del V d.C. sono gli esponenti più illustri di queste posizioni. Secondo il primo – che servirà da modello a Machiavelli, a Hegel e ispirerà gli storici dell’Ottocento – è la politica dei grandi imperi, come quello di Roma, a unificare i destini degli uomini e a farli convergere, con una sorta di inerzia di movimento, verso determinati fini; anche se l’impero romano non è eterno ed è sottoposto alla medesima rotazione ciclica (anakỳklosis) di tutte le forme politiche, che crescono, si corrompono e ritornano poi indefinitamente alle origini. Con Agostino si passa da concezioni incentrate sulla missione di un impero universale terreno, mirante all’unificazione dei popoli sotto la sfera politico-giuridica, a una filosofia della storia che per la prima volta si fonda sull’idea dell’intera umanità, concepita come una carovana (civitas Dei peregrinans) in viaggio dal tempo all’eternità, dalla Città terrena alla Città di Dio. La storia è questo pellegrinaggio di apolidi, di estranei allo Stato, che scelgono o rifiutano la grazia di Dio. Non possiamo qui seguire le vicende della storiografia e delle filosofie della storia in Vico, Kant, Hegel, Droysen o Croce e le interpretazioni su base ermeneutica (Gadamer), narrativa (Ricoeur) o quelle che assimilano la storia alla scienza (Hempel). Ci concentreremo sulle questioni più salienti che incidono sulla comprensione del nostro tempo. Sino al Settecento sono mancati seri tentativi di spiegazione più precisa dello sviluppo storico complessivo secondo una dinamica propria. Le ragioni sono diverse. La prima dipende dalla netta percezione che (con il virtuale completamento delle scoperte geografiche) la storia abbia effettivamente raggiunto una dimensione planetaria, in cui gli uomini si considerano finalmente protagonisti. Nessun popolo resta ormai isolato e i processi di globalizzazione si mostrano sempre più inarrestabili su grande e piccola scala, specie oggi grazie alla diffusione di notizie, ai collegamenti «in tempo reale» via satellite, computer o cellulare e alla nascita di un «folklore mondiale», che omogeneizza l’immaginario e le abitudini dei diversi popoli. Le culture della Terra non sono affatto unificate e si direbbe, anzi, che le differenze reciproche, i «particolarismi», appaiono attualmente in crescita. È vero però che i «piccoli mondi» sono stati travolti e integrati in contesti più vasti, che un avvenimento che si svolge in una zona qualsiasi della superficie del pianeta, della biosfera o, in prospettiva, addirittura nello spazio siderale può diventare l’epicentro o il punto di irradiazione di mutamenti e di turbolenze che si propagano velocemente in ogni direzione. Da qui scaturisce la consapevolezza

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più o meno lucida, da parte di molti, di appartenere al proprio tempo, di essere suoi figli, piuttosto che di Dio o della natura; e da qui la tendenza al mantenersi al passo della storia, la volontà di trovarsi sul suo fronte più avanzato e in movimento, di inserirsi in una marcia dell’umanità verso uno scopo condiviso e desiderabile. La progressiva accelerazione della storia, che caratterizza la modernità, ma ancora di più l’età contemporanea, disorienta però le persone, che, avendo perso il sostegno della tradizione, riescono con difficoltà a elaborare un’esperienza sensata e a progettare un futuro attendibile. Sta perciò drasticamente diminuendo la capacità di pensare a un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private. La storia appare quindi a molti orfana di quella logica intrinseca che, – tra Ottocento e Novecento – si credeva dovesse indirizzarla verso un determinato obiettivo: il progresso, il regno della libertà o la società senza classi. A lungo, infatti, siamo stati abituati a ritenere che l’intervento umano consapevole fosse in grado di abbreviare il tempo necessario al prodursi dell’inevitabile, di «accelerare le doglie del parto». Caduta, senza essere stata confutata, l’idea di un’unica Storia orientata, il senso del nostro vivere nel tempo sembra, ora più che mai, disperdersi in una pluralità di storie (con la s minuscola) non coordinate, in destini personali blandamente connessi alle vicende comuni. Svanita è soprattutto la fiducia nel progresso e nel futuro, assieme alla credenza che il negativo e il male nella storia possano diventare il lievito del bene e che le fasi di estrema sofferenza dei popoli siano semplici parentesi dello sviluppo. Gli strumenti che garantivano le forme classiche di presenza della ragione nella storia si sono logorati: la «mano invisibile» dell’economia politica si è rattrappita, mentre l’«eterogenesi dei fini» funziona sin troppo bene, al punto che non si capisce verso dove ci si diriga. L’esaurirsi delle grandi attese collettive, che sino a una ventina di anni fa (quando il mondo era ancora diviso in due blocchi) orientavano, seppur ideologicamente, miliardi di uomini, porta oggi tendenzialmente al discredito delle filosofie della storia, a una «privatizzazione del futuro» e alla fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa. Gli ideali di abolizione delle disuguaglianze che colpiscono l’«intera umanità» o di espansione della libertà al maggior numero di individui, con la parallela promessa di un avvenire aperto all’iniziativa di ciascuno, finisce – soprattutto in Occidente – per diffondere le frustrazioni. Le società tradizionali possedevano, infatti, strumenti abbastanza efficaci sia per compensare gli uomini degli eventuali svantaggi della loro condizione, sia per giustificare le gerarchie. L’accettazione dei limiti e delle privazioni della vita trovava il proprio risarcimento nella prospettiva religiosa di una ricompensa in cielo. Le ideologie dominanti facevano sì che di rado venisse in mente ai più sfavoriti di aspirare ai livelli alti della scala sociale. Le società democratico-egualitarie moderne hanno invece aperto una falla nel dispositivo di inibizione delle aspettative, collaudato da millenni. Proclamando solennemente il diritto di tutti gli uomini all’effettiva eguaglianza e all’eliminazione di tutti gli ostacoli che potrebbero frenarla, legittimano le aspirazioni di ciascuno a superare la soglia della propria condizione di partenza per innalzarsi ai vertici della piramide sociale. Di fronte al presagibile naufragio dei molti che non riusciranno mai a far collimare i propri ideali con la realtà, tali società hanno dovuto elaborare molteplici tecniche per gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le loro promesse non possono essere per principio esaudite. I progetti di donazione di un senso collettivo alla storia costituivano, appunto, una delle forme di compensazione e di risarcimento differito per le attese individuali inappagate. Rinviando la realizzazione di una

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società perfetta alle future generazioni, legittimando il sacrificio delle generazioni presenti, mettendo la ragione al servizio di programmi epocali, a lungo termine, essi riempivano di senso la vita degli individui. Oggi questo transfert, questo meccanismo di dilazione non funziona più. Non si deve certo rimpiangere il passato e ignorare i preponderanti benefici del diffondersi dell’eguaglianza, ma rendersi conto di quali nuovi problemi ponga l’accorciamento dei piani di vita dei singoli e il ridursi della forza di proiezione in avanti delle istituzioni. Che fare? Siamo tutti emigranti nel tempo: ci spostiamo dal presente noto verso un comune futuro ignoto. Ogni istante serve da ponte e, insieme, da cesura rispetto al successivo. Abbiamo bisogno della memoria del passato come esperienza e dell’attenzione del presente teso a defuturizzare l’avvenire. Ma anche, e indissolubilmente, dell’apertura a pensare il nuovo e il possibile, cui si accede a partire dalla discontinuità rispetto a quel che eravamo e pensavamo. Non tutto, quindi, è perduto, se siamo capaci di saldare il nostro passato a nostri attivi progetti di futuri non remoti. Bibliografia essenziale – R. Bodei, Se la storia ha un senso, Moretti e Vitali, Bergamo 20073; H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983; R. Koselleck, Futuro passato, Marietti, Genova 1986; P. Ricoeur, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 1986-1988.

Strutturalismo/Post-strutturalismo Ubaldo Fadini Lo strutturalismo si afferma, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, come una delle correnti di pensiero più complesse e stimolanti, in grado di interagire produttivamente con molti ambiti del sapere, dal linguistico all’antropologico e allo psicoanalitico. Non è appunto un caso che alcuni dei suoi maggiori esponenti appartengano a contesti di ricerca soltanto indirettamente riferibili alla filosofia: Claude Lévy-Strauss è un antropologo impegnato a individuare le strutture che invariabilmente stanno alla base di ogni formazione culturale; Jacques Lacan (1901-1981) è uno dei più importanti psicoanalisti, di matrice freudiana, che tenta una riforma della teoria dell’inconscio nel senso di un’identificazione della struttura di quest’ultimo con la dimensione del linguaggio; Louis Althusser è un interprete radicale dell’opera di Marx, di cui sottolinea la componente scientifica, riassumibile, tra l’altro, nella critica della centralità ideologica del soggetto; Roland Barthes (1915-1980) è un critico acuto delle «mitologie del presente» e utilizza con creatività le tesi del linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913) per proporre analisi strutturali del testo letterario. Ciò che accomuna queste figure di riferimento del particolare approccio strutturalista è il netto ridimensionamento, per non dire la denuncia piena, del primato/protagonismo del soggetto, dotato di un’indiscutibile e integrale consapevolezza di sé: la coscienza non è infatti da ritenersi come la causa della presenza di strutture attive nel reale, ma va compresa come l’effetto, il prodotto, di queste ultime. Lo strutturalismo sposta decisamente l’attenzione dal soggetto alle strutture, all’interno delle quali il soggetto stesso si trova variamente collocato. La struttura – concetto «cardine» dello strutturalismo – è da considerarsi infatti come un insieme di relazioni all’interno del quale trova la sua precisa posizione

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ciò che viene analizzato, in modo tale cioè che questo indica il suo valore/valere soltanto sulla base della sua collocazione all’interno di precisi/specifici rapporti strutturali. Gli esempi più ovvi di tale sensibilità teorica sono quelli del gioco, da cogliersi appunto come una struttura di relazioni regolate, e dell’istituzione, da vedersi come uno schema dell’agire umano in grado di determinarlo e orientarlo positivamente. I bersagli polemici dello strutturalismo, all’interno della discussione teorica internazionale, sono stati indubbiamente la fenomenologia e l’esistenzialismo, con la loro affermazione del carattere primario del vissuto del soggetto e della coscienza, oltre allo storicismo, con la sua idea della realtà come articolazione nel tempo; ma anche quelle posizioni che puntano a cogliere, in una prospettiva compiutamente atomistica i cosiddetti elementi ultimi della realtà, che devono invece essere compresi nella loro concreta interdipendenza. Nel caso del già richiamato Lévy-Strauss, appare così decisiva la rilevazione – all’interno delle Strutture elementari della parentela (1949) – della dinamica complessa dei rapporti parentali, disegnata dal «tabù dell’incesto», al fine di afferrare quella logica di scambio che sta alla base della relazione/comunicazione tra differenti gruppi familiari. In Althusser (soprattutto in Per Marx, del 1965) si insiste sulla possibilità di passare, seguendo il dettato originale del marxismo, da una concezione ideologica della realtà dell’essere umano ad un’altra che ne sottolinea la qualificazione sociale, ribadendo così il protagonismo della struttura economica, da cogliere scientificamente nel momento in cui derivano da esso le relazioni, filtrate ideologicamente, tra l’uomo e il mondo, la realtà. Con la ricerca complessiva di Michel Foucault si disegna un contesto d’analisi che contiene senz’altro elementi peculiari della sensibilità teorica di matrice strutturalista, accompagnati però da un ulteriore investimento critico che apre in direzione del cosiddetto post-strutturalismo. Nelle sue opere più significative, da La storia della follia nell’età classica (1961) a Le parole e le cose (1966), da Sorvegliare e punire (1975) a La volontà di sapere (1976), Foucault indica: a. le dinamiche specifiche della razionalità moderna (originariamente ben espressa dall’affermazione del primato del cogito cartesiano), con l’esclusione, a mo’ di conferma di ciò che è proprio «altro» dalla «ragione», di tutto quello che viene appunto identificato come qualcosa di folle; b. le modalità di produzione dei discorsi, delle pratiche discorsive, riferibili, nella loro varietà, ai diversi periodi storici nei quali trovano le condizioni indispensabili per la loro realizzazione/articolazione; c. la presenza, alla base della formazione e della circolazione dei discorsi, di una volontà di verità, già criticamente compresa da Nietzsche, che si pone come la forma attraverso cui il potere concretizza quegli ordini di discorso che garantiscono della sua durata e vitalità. È proprio l’attenzione all’azione del potere, comunque delineata, a caratterizzare in modo sempre più esplicito la ricerca foucaultiana, soprattutto nell’ultimo periodo della sua elaborazione, concentrato sull’analisi del binomio potere-sapere. Emerge infatti con nettezza un’idea, assai sofisticata, di un potere sempre più invasivo, in grado di afferrare e penetrare la dimensione del vivente umano, fino quasi a confondersi con essa: si tratta di un potere che «fa vivere», di un «biopotere», che restituisce una caratterizzazione storica del «fatto di vivere» come

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qualcosa che è ormai in buona parte passato «nel campo di controllo del sapere e d’intervento del potere», come si legge in La volontà di sapere. È dall’interno di tale costellazione concettuale, dai temi e dai problemi dello strutturalismo, che si sviluppa, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una sensibilità critica, definita in seguito come pensiero post-strutturalista o della differenza, nei confronti della stessa affermazione del primato della struttura. Quest’ultima nozione viene sostituita da un’idea della realtà come flusso di energie, incessante composizione/scomposizione di forze, rispetto alla quale pare opportuno riprendere, tra l’altro, gli schemi interpretativi dei grandi «maestri del sospetto», come li ha definiti Ricoeur: Marx, Nietzsche, Freud. È anche sulla base della loro straordinaria ‘lezione’ complessiva che i filosofi della differenza – in modo particolare Derrida e Deleuze – sviluppano una radicale critica dell’ontologia e di tutti i dispositivi di ordine metafisico rivolti alla spiegazione «definitiva» del reale, nelle sue differenti articolazioni. In La scrittura e la differenza, del 1967 (accanto a Della grammatologia, dello stesso anno), Derrida coglie la trama metafisica del pensiero occidentale proprio laddove quest’ultimo si fonda su coppie oppositive: soggetto/oggetto, sensibile/intelligibile, essere/divenire ecc. Queste coppie si dispongono nella loro capacità di ordinamento della realtà in ragione di una gerarchia concettuale, di valori, che appunto le rendono operative. Il compito critico – ciò che successivamente verrà indicato come pratica della decostruzione – consiste allora nel sovvertire la gerarchia di concetti sulla quale si è edificata la costruzione metafisica. L’esempio più noto di tale realizzazione è il cosiddetto «logocentrismo», vale a dire quel rapporto gerarchico tra pensiero e linguaggio che assegna un valore fondamentale al primo termine della relazione, facendo discendere così il valore del linguaggio da quello del pensiero, con l’effetto ulteriore e decisivo di non comprendere meglio il valore della scrittura (e la sua «originarietà») e del segno (come «traccia»). Non si tratta però semplicemente di rovesciare un determinato ordine, ma di individuare un terzo elemento che non sia risolvibile nella coppia di opposti: tale elemento è quello della differenza, da intendersi come una sorta di spazio mobile, di movimento effettivamente differenziante che produce e distingue i termini delle diverse opposizioni basate sulla gerarchia di valori. È proprio la differenza ciò che non appare risolvibile negli ordini concettuali della tradizione metafisica: essa appare come l’elemento che mette in tensione, che impone delle urgenze, facendo così mancare al dispositivo gerarchico il raggiungimento dello scopo desiderato della rassicurazione e della tranquillità secondo ordini determinati una volta per tutte. L’impresa teorica di Deleuze, non distante da quella di Derrida, appare contraddistinta da uno sforzo di revisione dell’idea di differenza. Attraverso una ricerca anche di carattere storico-filosofico, sia pure declinata in maniera assai originale e che investe filosofi come Hume, Bergson, Nietzsche, Kant, Spinoza, Leibniz, egli propone – in Logica del senso (1968) e Differenza e ripetizione (1968) – una nuova immagine della differenza, tesa a rivalutare il valore in sé del movimento di differenziazione, senza pensare di risolverlo, come fa la dialettica quando lo qualifica sotto veste di momento della negazione, in una sintesi conciliativa di ordine superiore rispetto a quello della presentazione degli opposti e delle contraddizioni. La ricerca deleuziana si muove in seguito verso un’ idea dell’inconscio come spazio di produzione (e non di semplice «rappresentazione») della molteplicità inesauribile dei piani di realtà, della filosofia come pratica di

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creazione di concetti (L’Anti-Edipo, 1972, Mille piani, 1980, Che cos’è la filosofia?,1991, scritti in collaborazione con lo psichiatra Felix Guattari). Alle tesi del pensiero post-strutturalista possono essere anche riferite le considerazioni articolate da Jean François Lyotard nel corso della sua ricerca, soprattutto quella svolta negli anni Settanta, laddove si insiste sul valore di una filosofia capace ancora di interrogarsi su quelle istanze corporali e pulsionali che attraversano la sfera della soggettività umana. Importante è poi il celebre rapporto su La condizione postmoderna, del 1979, in cui Lyotard legge la contemporaneità come età indubbiamente «post-moderna», caratterizzata dall’abbandono delle «grandi narrazioni», delle ideologie che pretendono di spiegare tutto, a favore dell’affermazione di saperi «pragmatici», «performativi», in grado di incidere sulla realtà, di assicurare il funzionamento il più possibile «ottimale» dei sistemi economici, sociali, politici e culturali all’interno dei quali trascorre l’esistenza degli uomini. Bibliografia essenziale – G. Deleuze, Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in F. Chatelet, a cura di, Storia della filosofia. La filosofia del XX secolo, Rizzoli, Milano 1975; U. Fadini, Le mappe del possibile. Per un’estetica della salute, Clinamen, Firenze 2007; M. Iofrida, Per una storia della filosofia francese contemporanea. Da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty, Mucchi, Modena 2007; A. Sartini, L’esperienza del fuori. Linee di filosofia del Novecento, Clinamen, Firenze 2009.

manuali Biomedica

Branchi R., Le impronte nel paziente totalmente edentulo Rossetti R., Manuale di batteriologia clinica. Dalla teoria alla pratica in laboratorio Rucci L., Testo Atlante di embriologia clinica della Laringe. La chirurgia conservativa compartimentale della regione glottica

Scienze

Scienze Tecnologiche

Borri C., Pastò S., Lezioni di ingegneria del vento Borri C., Betti M., Marino E., Lectures on Solid Mechanics Gulli R., Struttura e costruzione / Structure and Construction Policicchio F., Lineamenti di infrastrutture ferroviarie

Umanistica

Bertini F., Risorse, conflitti, continenti e Bart J.C.J., Polymer Additive Analytics. nazioni. Dalla rivoluzione industriale Industrial Practice and Case Studies alle guerre irachene, dal RisorgimenCaramelli D., Antropologia molecolare. to alla conferma della Costituzione Manuale di base repubblicana Scialpi A., Mengoni A. (a cura di), La Bombi A.S., Pinto G., Cannoni E., PicPCR e le sue varianti. Quaderno di torial Assessment of Interpersonal laboratorio Relationships (PAIR). An analytic system for understanding children’s Simonetta M.A., Short history of Biology drawings from the Origins to the 20th Century Borello E., Mannori S., Teoria e tecnica Spinicci R., Elementi di chimica delle comunicazioni di massa Spinicci R., Elementi di chimica (nuova Brandi L., Salvadori B., Dal suono alla edizione) parola. Percezione e produzione del linguaggio tra neurolinguistica e Scienze Sociali psicolinguistica Ciampi F., Fondamenti di economia e geConiglione F., Lenoci M., Mari G., Polizstione delle imprese zi G., Manuale di base di storia della Giovannini P. (a cura di), Teorie sociolofilosofia giche alla prova Marcialis N., Introduzione alla lingua Maggino F., L’analisi dei dati nell’indapaleoslava gine statistica. Volume 1. La realizzazione dell’indagine e l’analisi prelimi- Michelazzo F., Nuovi itinerari alla scoperta del greco antico. Le strutture nare dei dati fondamentali della lingua greca: foMaggino F., L’analisi dei dati nell’indanetica, morfologia, sintassi, semantigine statistica. Volume 2. L’esploca, pragmatica razione dei dati e la validazione dei Peruzzi A., Il significato inesistente. Lerisultati zioni sulla semantica Magliulo A., Elementi di economia del Peruzzi A., Modelli della spiegazione turismo scientifica Visentini L., Bertoldi, M., Conoscere le Sandrini M.G., Filosofia dei metodi inorganizzazioni. Una guida alle produttivi e logica della ricerca spettive analitiche e alle pratiche Trisciuzzi L., Zappaterra T., Bichi L., Tegestionali nersi per mano. Disabilità e formazione del sé nell’autobiografia

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f. coniglione, m. lenoci, g. mari, g. polizzi

manuale di base di storia della filosofia

Il Manuale di base, attraverso una struttura innovativa e una scrittura snella e di facile comprensione, si propone come testo fondamentale per coloro che si avvicinano per la prima volta alla storia della filosofia. La prima parte presenta gli autori della filosofia classica, cristiana e moderna che ogni studente deve conoscere. L’esposizione del contesto e l’analisi delle opere principali è pensata in modo da consentire l’individuazione dei nuclei principali della riflessione filosofica e far entrare il lettore a diretto contatto con i testi. La seconda parte è dedicata invece agli indirizzi e ai problemi più rilevanti della filosofia contemporanea, ordinati entrambi per lemma, dall’epistemologia all’utilitarismo, dalla bioetica alla globalizzazione, alla neurobiologia. Un’introduzione aggiornata alla filosofia che si avvale del contributo di alcuni tra i più importanti esponenti del panorama filosofico italiano.

f rancesco c oniglione , m ichele l enoci , g iovanni m ari , g aspare p olizzi

Francesco Coniglione è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Scienze della formazione e Direttore del Dipartimento di Processi formativi dell’Università di Catania, dove coordina anche il Dottorato internazionale in Scienze Umane. Michele Lenoci è professore di Storia della filosofia contemporanea e Preside della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Fa parte del Comitato scientifico di «Rivista di filosofia neoscolastica» e di «Brentano Studien». Giovanni Mari, professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze, è direttore di «Iride. Filosofia e discussione pubblica» e di «Iris». Gaspare Polizzi, docente di storia della filosofia presso la IUL-Università di Firenze, è studioso di storia del pensiero filosofico e scientifico moderno e contemporaneo.

18,50 €

ISBN 978-88-8453-953-3

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contributi di R.Bodei, A. Borsari, A. Bugliani, G. Cacciatore, F. Cambi, F. Desideri, P. Donatelli, U. Fadini, V. Gessa Kurotschka, S. Givone, E. Lecaldano, G.O. Longo, R. Marchesini, G. Marramao, M. Pezzella, M. Solinas, G. Vattimo, F. Vercellone, D. Zolo

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