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Italian Pages 134 [156] Year 1976
MASSIMO MILA
MADERNA MUSICISTA EUROPEO
GIULIO EINAUDI EDITORE
LA RICERCA CRITICA
Le Arti 10.
Copyright © 1976 Giulio Einaudi editore s.p. a., Torino L’editore ringrazia la Rai - Radiotelevisione Italiana per avergli concesso di ripubblicare il ciclo di conversazioni realizzate per il Terzo programma
MASSIMO MILA
MADERNA MUSICISTA EUROPEO
Giulio Einaudi editore
Si pubblicano qui, per gentile concessione della Rai - Radiotelevisione Italiana, i testi di dodici con versazioni tenute sul Terzo Programma dal novem bre 1974 al febbraio 1975, allo scopo di presentare e introdurre quelle composizioni di cui fosse dispo nibile la registrazione su nastro. I testi vengono pub blicati tali quali, senza tentare di ritoccarli per farne un libro, considerandosi queste descrizioni niente piu che come una prima pietra del lavoro che la musico logia svolgerà in avvenire sull’arte di Bruno Mader na. Si sono soltanto apportate alcune aggiunte e in tegrazioni, a proposito di composizioni delle quali non s’era potuto allora avere conoscenza: principal mente Ausstrahlung, Solo, Serenata per un satellite e Ritratto di Erasmo. Delle composizioni importanti manca ancora, a chi scrive, ogni conoscenza di Biogramma e di Stele per Diotima. Al testo delle conver sazioni vien fatta seguire unaNo/zw biografica, quasi per intero redatta da Cristina Maderna, alla quale si rivolge qui un sentito ringraziamento per la collaborazione gentilmente prestata. Seguono infine un em brione di Bibliografia, auspicabilmente destinato ad assumere ben altre proporzioni, e un Catalogo delle composizioni di Bruno Maderna, catalogo che certa mente abbisogna di ulteriori ricerche, precisazioni e complementi. M.M.
MADERNA MUSICISTA EUROPEO
I.
Un maestro e i suoi maestri
Il 13 novembre 1973, a Darmstadt, moriva Bru no Maderna, in età di cinquantatre anni. Da qualche tempo sapeva di essere condannato. La sua reazione era stata di aumentare il ritmo, già forsennato, di la voro. Con la sua grossa voce, resa rauca dal male, diceva serenamente agli amici: - Resisterò ancora per parecchi mesi. Non prendo impegni oltre il ’74. La fine lo colse prima. Ma accanto all’attività del la direzione d’orchestra, coi suoi continui spostamen ti da un paese, da un continente all’altro, negli ultimi anni aveva intensificato la produzione di composito re: come se già sapesse di averne per poco, come se lo premesse l’ansia di dire tutto quello che aveva dentro, e di affidare la propria memoria a qualcosa di più duraturo che non l’effimero applauso tributato all’esecutore. A vedere la quantità di lavori impor tanti che sono fioriti negli ultimi quattro anni della sua esistenza, ci si domanda dove trovasse il tempo e il raccoglimento necessari alla composizione. Vivo lui, eravamo abituati a considerarlo come un grande compositore in potenza, e crollando il capo diceva mo sentenziosamente: - Peccato che debba talmente dissiparsi nella direzione d’orchestra -, Oggi che a distanza di un anno ci affacciamo sulla sua opera per ricordarlo, dobbiamo prima di tutto correggere quel l’opinione. La sua opera di compositore è enorme e, soprattutto, completa. Noi s’era abituati a pensare a
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Maderna come a un direttore d’orchestra che avreb be potuto essere un grande compositore. Fra cento anni si parlerà di Maderna come d’un grande compo sitore che faceva pure il direttore d’orchestra, guada gnandosi molti meriti nella diffusione della musica moderna, e ponendo la propria bacchetta a servizio di tutti i suoi amici e i suoi colleghi, d’ogni paese. Ma l’accento della Storia batterà sul compositore. Di pochi anni più anziano di Berio e di Nono, nel la terza generazione della nuova musica italiana ave va naturalmente assunto una posizione di guida, pa ragonabile a quella di Balakirev nel Gruppo dei Cin que. Era il fort-en-thème, il primo della classe che ai compagni ripassa la lezione. «Solo l’insegnamento di Bruno Maderna, direttamente o indirettamente, in duce nella musica italiana l’esperienza dell’Espressio nismo: egli esercitò una azione incomparabile sui gio vani, di cui non fu il primo ad avvantaggiarsi». Cosi si legge in quel prezioso vademecum dell’avanguar dia musicale che è Fase seconda, di Mario Bortolotto. Ma poi dell’arte e della musica di Maderna non vi si parla espressamente, lacuna tanto più sorprendente in un libro che in partenza era nato come una raccol ta di monografie sui protagonisti della novissima mu sica italiana. Il libro è del 1969, quando stava appe na per cominciare l’esplosione dell’ultimo Maderna, e rispecchia l’opinione che tutti avevamo allora di lui. Oggi dopo Quadrivium, dopo Aura, dopo la Grande Aulodia e il terzo Concerto per oboe, quella lacuna non sarebbe più possibile, e probabilmente cadrebbe anche quella riserva, ch’egli non sia stato il primo ad avvantaggiarsi della benefica influenza da lui esercita ta in Italia con la sua conoscenza della scuola schoenberghiana. Ma certo è un fatto ch’egli irradiava intorno a sé
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un’azione formativa. Lui così allegro, così sbarazzi no, aveva curiosamente la vocazione del maestro. La esplicò specialmente negli anni d’oro di Darmstadt, in quei leggendari Ferienkurse fondati da Wolfgang Steinecke subito dopo la guerra, che nel 1954 e se guenti riunivano sulla verde collinetta di Marienhóhe, al margine della Foresta Nera, Berio, Nono, Maderna, Stockhausen, Boulez e Pousseur, Gazzelloni e il pianista David Tudor, il favoloso batterista Christoph Caskel, tutti uniti - allora — nella ricerca d’un ideale comune di arte nuova e nell’entusiasmo di riconoscersi fratelli in terre diverse, provenienti da differenti culture e tradizioni. Poi quell’unità d’in tenti svanì. Si spezzò il fronte unico della musica nuo va, come già era accaduto per la generazione dell’Ot tanta, ognuno si ritirò nell’isolamento della propria personcina ed i fratelli, divenuti nemici, cominciaro no a beccarsi litigiosamente, dando spesso meschino spettacolo di sé. Maderna no. Era il più generoso, il più fraterno. Nessuno l’ha mai sentito sparlare di un collega. Lo addolorava la diàspora che aveva dissolto il sodalizio glorioso di Darmstadt. Lui allo spirito di Darmstadt era rimasto fedele, non perché si fosse fermato e que gli altri fossero andati avanti, ma perché il suo calore umano aveva detto no alla corruzione dell’età e del potere. Per questa fedeltà al comune ideale artistico della giovinezza rassomigliava a due musicisti della prima generazione di moderni: somigliava a Casella e a Milhaud. Agiva in lui - anche nel compositore - quello ch’io son sòlito chiamare il cattolicismo dell’esecutore. Chi fa mestiere d’interprete musicale non si rinserra nel l’esclusivismo fazioso ed individualistico del compo sitore puro, che disperatamente si arrocca nella cel-
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letta del proprio io, e chiude porte e finestre e nega irosamente il mondo esterno, per paura che gli con turbi e gli intralci la crescita della sua delicata pian ticella. Per forza l’interprete sposa, di volta in volta, le opere che eseguisce. Coniuga se stesso con le mul tiformi apparizioni della musica. Maderna direttore d’orchestra fu - come s’è detto — un benefattore e un patrono della musica moderna: eseguiva tutti i contemporanei, senza discriminazione di tendenze, sempre che fosse salvo il decoro d’un certo livello tecnico ed artistico. Ma dirigeva anche l’antico, il classico e il romantico. Tutta la musica gli era sem pre presente e ciò lo metteva al riparo dalle figure barbine di certi compositori anche sommi, che un giorno per caso, dall’alto della loro torre eburnea, scoprono i Quartetti di Beethoven o i Lieder di Hugo Wolf, Schubert o Gesualdo da Venosa, la Carmen o i poemi sinfonici di Respighi, e per un poco voglio no fare il mondo partecipe della loro scoperta, candi damente convinti che questi valori fossero universal mente ed ingiustamente ignorati, dal momento ch’essi stessi li ignoravano. Qui risiede il segreto della grandezza artistica di Maderna. Avere attraversato tutte le avventure del l’avanguardia senza perdere il contatto con la storia della nostra arte. Avere eseguito tutte le capriole piu spericolate della moda, vivendone in persona prima la logorante tensione, sempre conservando una salda ringhiera, una rete sotto il trapezio, intessuta di so lide corde che si chiamano Beethoven e Bach, Mo zart, Brahms, Mahler, Ockeghem e Monteverdi, Ga brieli, i virginalisti inglesi e i frottolisti italiani del Quattrocento, ch’egli aveva ricreato in amorose tra scrizioni. Questa presenza costante del passato, in seno alla
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più spregiudicata esplorazione dell’avvenire, gli vie ne talvolta rimproverata da quelli, fra i suoi coetanei o più giovani, che farneticano di ridicole «fratture» nel corso della storia e che presumono di saltare ol tre la propria ombra. A Royan l’esecuzione di quel capolavoro che è la Grande Aulodia aveva dato luogo a discussioni nei circoli d’avanguardia del dernier cri e tra le vittime di quelle che Boulez chiama le scar lattine semestrali della moda: — Non è musica d’og gi... È musica dell’altro ieri —. Sciocchezze. Sul piano del linguaggio musicale, dell’invenzione lessicale di vocaboli sonori, la fantasia di Maderna non teme con fronti e non arretra di fronte a qualsiasi audacia. An zi, sia detto subito, per buona norma dell’ascoltatore, che nel corso di queste trasmissioni non accadrà di sentirsi lusingare le orecchie da musica facile. Ma il fatto è che, tra i compositori d’avanguardia, Maderna è uno di quelli che i vocaboli nuovi usano non come fine a se stessi, per il gusto pionieristico d’inventarli, ma subordinandoli a un preciso intento di comunica zione, secondo un rapporto tra contenuti espressivi e mezzi tecnici che è praticamente quello tradizionale di ogni grande compositore del passato. E natural mente, del presente e dell’avvenire. «Non si sa più amare profondamente l’opera d’ar te compiuta, - aveva scritto Maderna a ventisei anni in un’autopresentazione per il programma del nono Festival di Musica Contemporanea della Biennale. Non si è più capaci di vedere dietro di essa l’uomo che l’ha creata». Queste parole scandalose gli vengono rimproverate da coloro che, per loro disgrazia, non hanno nessun uomo, nessuna, o meschinissima perso nalità da mostrare dietro l’opera d’arte, e l’arte inten dono come un gioco ozioso di perle di vetro da infila re con destrezza. V’è talvolta chi si stupisce gradevol-
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mente che un compositore d’estrema avanguardia co me Maderna non escludesse le categorie dell’affetto e dell’espressione dalla propria musica. Non ci deve stupire e rallegrare che queste categorie egli le affer masse, bensì che non le nominasse invano: che esse siano realmente presenti ed operanti nella parte mi gliore dell’opera sua e le garantiscano quella concre tezza di valore artistico che lo porrà fra i grandi di ogni tempo. Non che essere scarsa e stentata, come un tempo pensavamo, per le interferenze del mestiere di diret tore d’orchestra, la produzione musicale di Maderna è una selva foltissima, da perderci la testa, e richie derà un paziente lavoro di classificazione e di catalo gazione per vederci chiaro. In particolare i frequen ti rifacimenti d’una medesima opera, le nuove versio ni, gli impieghi di materiale precedente in nuovi con testi, pongono problemi che per molti anni daranno del filo da torcere agli studiosi e ai ricercatori. Di ta le lavoro qui non s’è potuto far nulla, e la rassegna di lavori di Maderna offerta nel corso di queste trasmis sioni presenta molte lacune: qualche volta intenzio nali, ma piu spesso dovute a cause di forza maggiore, cioè alla mancanza di registrazioni e perfino di parti ture. Ci saranno anche confusioni ed equivoci, di al cuni dei quali abbiamo noi stessi il sospetto e di cui avremo modo di dare esempio fin da questa prima tra smissione. Maderna era stato un bambino prodigio, sia come direttore d’orchestra che come compositore. Pare che esista tutta una folla di composizioni giovanili, for se infantili, precedenti alla sua, pur precoce, consacra zione pubblica. Ma non era rimasto prigioniero della mentalità da enfant prodige. Aveva fatto studi di mu
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sica regolari, a Roma, nel Conservatorio di Santa Ce cilia, e si era diplomato in composizione a vent’anni, sotto la guida di Alessandro Bustini, un maestro che ha dei buoni punti al suo attivo: per esempio Petrassi. Ma, veneziano, crebbe ovviamente a quella scuola non scolastica che fu, per tanti veneziani e veneti, la presenza di Malipiero. Con lui, dicono le biografie uf ficiali, si perfezionò in composizione e con Hermann Scherchen in direzione d’orchestra. Incontro decisi vo, quest’ultimo, e non soltanto per il direttore d’or chestra.
Il Concerto per 2 pianoforti e strumenti (1948). La sua prima apparizione di compositore, alme no in un quadro d’importanza internazionale, avven ne in un burrascoso concerto del primo Festival della Biennale veneziana dopo la guerra, 1946, con quella Serenata per 11 strumenti che nelle biografie e nei di zionari di musica si trova datata 1954 per effetto di una Neufassung, una delle tante revisioni a cui Maderna sottoponeva le sue opere, secondo la prati ca joyciana del work in progress, ossia dell’opera aperta, unica, in fondo, e mai finita, condivisa da mol ti compositori d’avanguardia. La Serenata per 11 strumenti segna il punto di partenza ufficiale dell’arte di Maderna, il suo stacco da un periodo scolastico di apprendistato e l’ingres so in una zona di cosciente responsabilità. Ma non potendo disporre della versione originaria, né di al cuni lavori precedenti, in parte pubblicati, come In troduzione e passacaglia per 11 strumenti, Composi zione n. 1 per orchestra e Composizione in tre tempi, Improvvisazione n. 1 e 2 per orchestra, allora è con
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sigliabile prendere il primo contatto con la musica di Maderna attraverso il Concerto per due pianoforti e strumenti, del 1948. Concerto per 2 pianoforti e strumenti, non per 2 pianoforti e orchestra. Gli strumenti sono infatti 2 ar pe, celesta, xilofono e vibrafono, piu una percussio ne ancora assai sobria. Col tempo Maderna diven terà uno dei più formidabili conoscitori d’ogni sorta di aggeggi escogitati in tutto il mondo per produrre rumori. Qui la percussione è composta solamente di timpani, piatto sospeso, tam-tam, tamburo piccolo con corde e tamburo senza corde. Può sembrare una quisquilia, quest’ultimo particolare, una ricercatezza, ma si faccia attenzione nella seconda metà del pezzo - che dura circa 12 minuti - al vistoso cambiamento di colore che si produce quando al rullo secco del tamburo con corde succede a un certo punto, sullo stesso ritmo cadenzato, il rullo più sordo ed opaco del tamburo senza corde. Di queste risorse Maderna fu precocissimo maestro: l’esperienza dell’orchestra ac quisita nella direzione gli alimentava la fantasia crea tiva, ed egli ne faceva parte liberalmente ad amici e colleghi. Anche intorno a questo Concerto le notizie non so no affatto sicure ed esso riserva del buon lavoro ai musicologi dell’avvenire. È lo stesso Concerto per 2 pianoforti, arpe e batteria che fu eseguito a Venezia nel 1948 da Gorini e Lorenzi — per i quali presumibil mente era stato concepito - sotto la direzione di Et tore Gracis? È verosimile, anzi è quasi certo. Ma al lora - a parte ch’io l’avevo sentito ed ora non lo rav viso più: ciò non vorrebbe dir niente, la memoria gioca ben altri scherzi — com’è che in questo Concerto quale ora lo sentirete, nella registrazione effettuata a Roma il 29 settembre 1966, sotto la direzione di Fer-
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ruccio Scaglia, non si riconosce per niente la descri zione, non firmata, che ne dava il programma della Biennale? Tanto per cominciare, il programma asse risce che in questo lavoro «Maderna afferma il suo rigoroso orientamento dodecafonico». Nel pezzo che ora sentirete non c’è neanche l’ombra di dodecafo nia. E pazienza. In quei tempi non avevamo idee mol to chiare in proposito e chiamavamo dodecafonica ogni musica che non fosse strettamente tonale, un po’ come ai tempi di Verdi c’era chi giudicava «wag neriano» V Otello, o magari il Don Carlo e perfino VAida. Ma poi il programma parla di una introduzio ne conclusa da una fuga, di un «adagio» seguito da un «andante tranquillo» in ritmo di siciliana, e infi ne d’un terzo tempo, di cui non si precisa il movimen to, che «si conclude con un esaltante scampanio». Il nostro Concerto si svolge senza interruzione, comin ciando con un «grave», che poi trascorre in un «an dante» in 6/8 (la «siciliana»?) e diventando quindi «scorrevole», sbocca attraverso una graduale anima zione in un «concitato», ancora in 6/8. Quindi si in staura, sempre senza interruzione, un «allegro» che dura fino alla fine. Giudicherà l’ascoltatore se questa si possa configurare come «un esaltante scampanio». L’inizio del Concerto è, per dirla con una parola che oggi va di moda, emblematico e lo designa in mo do particolare alla funzione d’aprire un ciclo di tra smissioni. Comincia infatti con una nota sola, isolata, e questa nota è - figurarsi! - un la, il la del diapason, 440 vibrazioni al minuto secondo, come dire l’alfa e l’omega della musica. Lo propone uno dei due piano forti, poi lo ripete tre volte dopo un silenzio, poi an cora una volta, poi quattro, e avanti cosi, subentran do ben presto anche il secondo pianoforte: questi la ripetuti con pause variamente interposte sembrano
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l’origine stessa della musica, VUr-Ton, o suono ori ginario da cui procede a poco a poco, per gemmazio ne, un discorso di contrappunto sempre più com plesso. È un inizio molto originale, tale da accreditare l’i potesi vantaggiosa che già allora Bruno impiegasse in teramente farina del suo sacco. Ma quando alle cir convoluzioni lente del «grave», dell’«andante» e del lo «scorrevole» subentra ad un tratto lo scatto del «concitato», allora - perbacco! - subito si fa una lu ce, anche retrospettiva: Bartók! la Sonata per 2 pia noforti e percussione. Alle spalle di Maderna non troviamo Schonberg né Webern, che ben presto lo prenderanno sotto tutela; né Strawinsky, al quale al lora sacrificavano tutti quelli che non fossero adepti della scuola viennese. Troviamo la terza via, Bartók, la via della libertà. Ascoltiamo per prova, e teniamo a mente l’inizio della Sonata per 2 pianoforti e percussione: lo ritro veremo nel nostro Concerto, non soltanto come ov vio modello di organico strumentale, ma anche, alme no in parte, nella struttura del pezzo, che si sviluppa da un germe quasi come un organismo biologico. L’inizio della Sonata di Bartók è pianissimo, con due p. Maderna i suoi la iniziali li vuole eseguiti con 5 p, sicché alla seconda pagina di partitura il lettore distratto può stupire imbattendosi nella prescrizione di «crescere insensibilmente fino al pianissimo». An che questo gusto di esplorare le regioni estreme della dinamica fa parte dell’incoercibile sensualità sonora di Maderna, della sua famelica avidità di esplorare il suono in tutte le sue manifestazioni, avidità che lo condurrà ben presto alla sperimentazione elettronica. In seguito il pezzo si sviluppa magistralmente, in una concatenazione serrata del discorso contrappuntisti-
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co ed attraverso episodi timbrici folgoranti, dove le arpe, la celesta e il vibrafono producono iridescenze inaudite intorno al duro scheletro della scrittura pia nistica.
Il Quartetto in due tempi (1955).
Gli inizi, contrariamente a quanto si crede, son sempre facili. Le opere 1 nascono sotto il crisma della felicità. Si dice quello che passa per la testa, senza porsi problemi di originalità stilistica. Nei sentieri già aperti si cammina molto più svelti che su terreno vergine. Maderna non aveva difficoltà a riconoscere i propri debiti: «Una volta - scrisse nella già citata au topresentazione - si aveva la più grande fiducia nella bontà dell’imitazione; oggi ognuno custodisce gelosa mente la propria sensibilità coccolata al riparo degli influssi». Queste cautele non erano per lui, che la pra tica della direzione d’orchestra esponeva ai quattro venti della musica presente e passata. Difficile non è cominciare, difficile è continuare. Le pene della creazione, les affres du style, gli affanni della consapevolezza stilistica cominciano con le ope re 2. Prendiamo ad esempio il Quartetto in due tem pi, un altro dei lavori giovanili di Maderna, insieme con la Serenata, che costituiscono un punto fermo, un riferimento essenziale. Qui si, siamo in piena dodecafonia. L’esaltante pa rentesi bartokiana è stata niente più che la scappata d’un puledro selvaggio, buttatosi fuori della pista. Il Concerto per due pianoforti sembra un frutto ma turo, ma quella maturità è finta, è stata raggiunta at traverso una scorciatoia, rinunciando all’originalità stilistica. L’autenticità del suo stile Maderna non la
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può trarre dall’esperienza isolata del geniale unghe rese. Deve entrare in quella che - piaccia o non piac cia — sta allora diventando la strada maestra della mu sica nuova: la dodecafonia nelle sue ultime formula zioni, quelle che, attraverso la lezione di Webern, portano al momento puntinista. Col Quartetto (e con la Serenata) Maderna trova il suo posto nel quadro della musica europea. Non definitivo, che Maderna non era tipo da restare l’epigone di nessuno, e anche la crisalide postweberniana, al momento giusto egli la farà saltare. Diciamo che ha trovato la sua strada, e comincia a percorrerla in umiltà, stringendo i denti e sopportando un duro basto. Nessun dubbio che il Quartetto è meno piacevole da sentire di quanto lo fosse il Concerto per 2 pianoforti, con l’euforia del suo dinamismo ritmico. Eppure è molto piu avanti. Non diciamo che sia piu vero, piu autentico. Neanche qui Maderna non è ancora lui. Ma è sulla strada giu sta per trovarsi. Attraverso quell’inizio cauto, esplo rante, del puntillistico primo movimento, attraverso le fiammate drammatiche del secondo tempo, con quegli incendi di tremoli, con gli accessi furiosi di sciabolate sonore alternate a smarrimenti quasi stati ci, si istituisce una bilancia tra Schonberg e Webern, ma fanno pure capolino gli estremi della personalità di Maderna, macerati in un’ascetica disciplina. C’è un’insistenza singolare sulla ripetizione d’un singolo suono, assunta quasi a funzione tematica, come un rifiuto a dis-correre, cioè a trascorrere via da una no ta all’altra. Accanto a questa mortificazione e accanto all’esasperato rigore seriale, l’altro aspetto della na tura di Maderna, la sua insaziabile golosità del feno meno acustico, si manifesta nell’interesse per i piu di versi attacchi del suono: il pizzicato, l’arco, gli armo nici, i colpetti battuti sulla cassa dello strumento.
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Magistrale nella scrittura seriale, che nel secondo tempo riproduce a specchio il primo, fedelmente, no ta per nota, il Quartetto può anche parere una tappa poco amena nell’itinerario stilistico di Maderna, qual cosa come una penitenza, un’autopunizione. Ma di lì bisognava passare, e fu un esempio, un modello per molti.
II.
Dalla musica greca all’elettronica
La Musica per orchestra (1952?) Attingiamo ancora nel serbatoio delle composizio ni giovanili, o quasi, di Bruno Maderna, per presenta re un lavoro poco noto che getta molta luce sul pe riodo della sua formazione: la Musica per orchestra n. 2, Salvo errore, non è nemmeno pubblicato, e non è stato possibile consultarne la partitura. Abbiamo motivo di ritenerlo molto piu vecchio della data 1957 che gli viene attribuita. Se non altro, perché risulte rebbe che la registrazione, sotto la direzione di Her mann Scherchen alla testa dell’orchestra Sinfonica della Rai di Torino, sarebbe avvenuta nel 1952. Po trebbe trattarsi d’una delle solite Neufassungen: re visioni o rifacimenti a cui Maderna sottoponeva i suoi lavori. Questo reca un inizio singolare, ancora reminiscente di ricordi scolastici: l’oboe solo intona l’Epitaffio di Sfcilo, cioè la piu valida, la più godibile tra le po che musiche pervenuteci dall’antica Grecia. La ma linconica monodia emerge come da una nebbia — la notte dei tempi? - e si ravvolge e si combina con se stessa, subentrando corno inglese clarinetti ed altri legni. Ciò dà luogo a un episodio di colore pastorale, tutto intriso di sontuose sonorità, quale avrebbe po tuto firmare un Respighi in gran forma. Trovo estre mamente indicativo del carattere di Bruno questo ini zio storicizzante, e quasi scolastico. Va ricollegato
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con l’inizio del Concerto per due pianoforti e stru menti ascoltato la settimana scorsa. Là si cominciava con il la del diapason, l’alfa e l’omega, l’ombelico fisi co della musica. Qui si comincia con l’Epitaffio di Sfcilo, il più antico esempio valido di musica dell’occi dente: l’ombelico storico della musica. C’era in Bru no il desiderio istintivo di risalire alle fonti, di comin ciare dalle origini: origini del suono, origini della mu sica. Cominciare dal principio, stabilire le premesse del gioco compositivo e dichiarare le carte della parti ta, cioè fare i conti col materiale di lavoro: materiale che non è soltanto di ordine fisico, acustico, ma con siste anche nella situazione storica in cui ci tocca ope rare. Ci sono artisti che la ignorano nel modo piu completo: anche artisti geniali, ma irrimediabilmen te ignoranti. Maderna, nonostante le sue apparenze spensierate, era un musicista coltissimo, un teorico non meno che un creatore, e della musica conosceva la storia come pochi. Chi potè seguire il corso libero di dodecafonia che tenne nel 1957-58 al Conservatorio di Milano, quando ne era direttore Ghedini, ri corderà come l’analisi serrata delle 'Variazioni op, 31 di Schonberg si alimentasse di continui riferimenti ai classici, specialmente a Mozart e al finale della ]upiter, e si svolgesse in una specie di contrappunto sto rico nel confronto col Choralis constantinus del quat trocentista Heinrich Isaac, quello che nella cerchia di Lorenzo il Magnifico veniva chiamato familiarmente Arrigo il Tedesco. Ma torniamo alla nostra misteriosa Musica per or chestra del 1957, o più probabilmente del 1952. Non disponendo della partitura, quanto se ne può dire è forzatamente impreciso ed approssimativo. Dopo l’e pisodio pastoral-respighiano dell’inizio, la composi-
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CAPITOLO SECONDO
zione prende tutta un’altra piega, mettendo a dura prova la coerenza stilistica dell’insieme, ma dando una viva immagine della situazione compositiva di Maderna in quegli anni. Attraverso un’intensa melo dia degli archi si entra infatti in un clima fortemente espressionistico. Siamo tra Mahler e Alban Berg: co lore grasso e bituminoso della densissima pasta or chestrale, il vibrato degli archi tirato ad un massimo quasi viscerale di espressione patetica; oppure pie gato in movenze mondane di quel gusto brillante ma pesante che si suol designare come «wienerisch», viennese. Questo trionfo d’espressionismo culmina in uno schianto, una rottura drammatica, seguita da un si lenzio improvviso. Dopo la grande pausa, la musica ricomincia a scorrere stentatamente, quasi sgoccio lando a note staccate dei legni, che si combinano a poco a poco fra loro: dopo lo stile «nuova musica italiana 1930», dopo l’espressionismo classico, Ma derna rifa il puntillismo postweberniano a modo suo, quasi come un grottesco, un balletto legnoso di ma rionette. Segue ancora un episodio misterioso, sottovoce e sfuggente, poi il pezzo, della durata di dieci minuti o poco piu, finisce smorendo sopra una percussione di timpani che si spegne fino al limite estremo della per cettibilità.
Honeyréves (1961). Maderna adorava Webern, e ne era finissimo ese cutore, ma forse non lo intendeva allo stesso modo dei suoi epigoni. Non si nascondeva i pericoli a cui andava incontro la tendenza alla serializzazione inte-
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graie propugnata dai postweberniani. «Anche We bern — scrisse una volta — con le sue minuziosissime indicazioni (dolce, dolcissimo, sparire, ecc.), con le sue note cariche una per una di un sacco di signifi cati, come si fa a considerarlo "astratto”? Si prenda Pop. 27: se la si esegue in una pienezza di sensibilità è un lavoro meraviglioso; se la si realizza seguendo il cosiddetto oggettivismo è una macchina idiota, con le serie che vanno avanti e tornano indietro...» Una volta fui testimone io stesso, a Darmstadt, dell’inve reconda irriverenza manifestata da Bruno verso la meccanicità seriale del Quintetto per strumenti a fia to di Schonberg, complice la pedanteria di un’esecu zione un po’ scolastica. Due fattori musicali concorsero negli anni Cin quanta a spingere Maderna oltre le posizioni dell’e spressionismo viennese e lo aiutarono ad evadere dal carcere del panserialismo, infrangendone le sbarre postweberniane. Furono l’elettronica e Gazzelloni. Non sembri eccessivo attribuire a un esecutore, sia pur grandissimo, una funzione determinante nell’e voluzione di Maderna e di altri compositori dell’avan guardia, come Berio e Nono. La storia dovrà stabili re un giorno quanto si debba, al flauto straordinario di Gazzelloni, di quella singolare tendenza alla sem plicità monodica, manifestata da compositori sempre tacciati di cerebralismo e maestri, in verità, delle piu astruse complicazioni. Perché questa ricerca dispera ta di melodia da parte di gente che concepiva la mu sica come una combinazione di calcoli seriali? Perché questa rinuncia a tutto l’enorme bagaglio di mezzi tecnici e di possibilità orchestrali accumulato dalla musica negli ultimi due secoli, per ridursi temeraria mente ad un filo belliniano di melodia? Dalle orge sinfoniche di Bruckner e Strauss, dai tumulti espres
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CAPITOLO SECONDO
sionistici del Wozzeck e di Lulu, al canto solitario d’uno strumento univoco come il flauto, sia pure pie gato alle piu inaudite sottigliezze ed acrobazie da un esecutore prodigioso. Per l’appunto, perché c’era Gazzelloni, non solo con la sua straordinaria bravu ra strumentale, ma soprattutto con quel suo intuito prodigioso dello stile musicale moderno, che gli per mette di farsi, lui cosi semplice, fresco e spontaneo, collaboratore dei più tortuosi e complicati composi tori. Di questa benefica influenza dell’esecutore sui com positori sono testimonianza le innumerevoli compo sizioni dedicate a Gazzelloni dai musicisti dell’avan guardia, e tra queste in particolare quell" Honey réves nel cui titolo Maderna rovesciò scherzosamente il no me di Severino, avendo l’aria di alludere a chissà qua li sogni d’oro, o piuttosto di miele. Qui il flauto non è solo, come accade in altre composizioni, ma accom pagnato tradizionalmente dal pianoforte. Un piano forte, però, suonato nella maniera meno tradizionale, andando spesso a pizzicare le corde nella pancia dello strumento, o pestandole in grossi pacchetti di «clus ters», grappoli di note pigiate tutte insieme, o anco ra accostando una bacchetta metallica alla corda dello strumento in vibrazione, allo scopo di turbarne od ar ricchirne il suono: sottigliezze acustiche che vanno oltre il limite della possibilità di percezione, almeno in sede di registrazione. Il flauto si esibisce in arabe schi e garbugli capricciosi, che paiono il ritratto di Gazzelloni, e alterna zufolate acutissime a ripiega menti meditativi nel registro grave. Nella seconda parte del pezzo, che dura meno di sei minuti, c’è un momento di frammentazione e rarefazione del suono fino alla soglia dell’udibilità: fin quasi alla morte del movimento per paralisi. Poi il pezzo si chiude su una
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nota del flauto lungamente tenuta, con la paradossale indicazione: «rallentando».
Notturno (1956).
Quanto all’elettronica, è facile immaginare come essa sia venuta incontro alla sensualità acustica di Maderna, alla sua fame del suono, alla sua brama di esplorarlo, sezionarlo, sapere com’è fatto, inven tarlo e crearlo di sana pianta aggiungendo una nuova dimensione al mestiere di compositore: non più in ventare soltanto delle idee musicali da esternare at traverso le risorse foniche della voce o degli strumen ti, bensì creare, insieme con l’idea, anche il suono in cui essa si estrinseca. C’erano tre musicisti che per la sensualità della loro immaginazione fonica andavano naturalmente incontro a questo miraggio della crea zione del suono. Il primo era Béla Bartók, che non giunse in tempo a conoscere i miracoli dell’elettroni ca. E forse (aggiungiamo) li avrebbe sdegnati, perché per lui era un punto d’onore creare il suono, nuovis simo, attraverso i mezzi strumentali più classici e tra dizionali, come il pianoforte o il quartetto d’archi. Però l’uso da lui fatto della percussione è una spia si gnificativa della sua inclinazione. La percussione è l’anticamera della musica concreta. Il secondo profe ta dell’elettronica fu Edgar Varèse, che giunse nei suoi ultimi anni a conoscere il mezzo che aveva pre sagito. Il terzo è Maderna (e con lui naturalmente Stockhausen e Berio). Quando con Luciano Berio e con l’aiuto insostitui bile del tecnico Marino Zuccheri, Maderna diede vi ta, nel 1955, allo Studio di Fonologia della Rai di Mi lano, egli aveva già dietro di sé le esperienze fatte al
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lo Studio di Colonia, alla scuola del grande MeyerEppler. Questo spiega perché certi lavori prodotti nello Studio di Milano dopo il 1955, come la Musica su due dimensioni per flauto e registrazione stereo fonica, si possano ricondurre attraverso stadi prece denti fino al 1951. Contrariamente a quanto fu talvolta asserito in quei tempi, non è affatto vero che Maderna si distin guesse da Berio e Stockhausen per un impiego esclu sivo del mezzo elettronico, come autosufficiente e fine a se stesso, mentre quelli avrebbero fin dal principio accolto la necessità di integrarlo con la voce e con gli strumenti tradizionali, come un mezzo della musica fra gli altri. Ma è vero che Maderna, pur provando fin da principio a maritare il suono elettronico con quello tradizionale, in particolare del flauto, continuò sempre a praticare anche il mezzo elettronico puro, fino ai recenti Le rire e Tempo libero, talvolta in una sperimentale ricerca di vocaboli sonori, come avvie ne in un pezzo dal titolo programmatico: Syntaxis, del 1957, ma spesso invece con una straordinaria atti tudine a liberare sensazioni poetiche ed emotive at traverso il mezzo elettronico. Si ascolti questo brevis simo Notturno, del 1956. Anche qui il titolo è pro grammatico e significativo, ma nel senso opposto, per designare un’ispirazione poetica ed espressiva. Non si avverte nessun diaframma, nessun faticoso lavoro di conquista del mezzo tecnico in questo artificiale fischiar di flauti nella nebbia, dilatato in spessore po lifonico di strati sovrapposti. Il pezzo fa uso di suono bianco filtrato in diversi spessori di banda e su diver se altezze di frequenza. L’effetto come di flauti è ot tenuto deliberatamente, per mezzo del minor spes sore di banda (2 Herz), e propone - per dichiarazione del compositore - un aspetto di continuità tra i corpi
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sonori naturali e i mezzi sonori della musica elettro nica.
Continuo (1958).
Del 1958 è Continuo, il cui magico inizio, quasi soffiato, e screziato di efflorescenze notturne, resta tuttora uno dei piu alti momenti di poesia che la mu sica elettronica abbia raggiunto. Si è tentati di pen sare che questa è la «musica della notte» che Bartók avrebbe creato, se avesse conosciuto il mezzo elettro nico. I timbri sono inventati e composti secondo una registrazione quasi organistica. In una presentazione discografica di questo pezzo fu scritto, forse da Abra ham Moles: «Il compositore si sente qui particolar mente vicino al pittore; attento ai suggerimenti della materia che zampilla, stabilisce con lei un vero e pro prio dialogo. La sua immaginazione provoca di con tinuo nuove efflorescenze sonore, e se ne ispira. Due tipi fondamentali di suoni si confrontano nell’opera: suoni estremamente lunghi, in svolgimento continuo (donde il titolo della composizione), e suoni brevis simi, talvolta inafferrabili uno per uno. La forma mu sicale è libera, con articolazioni vaste, e larghi svilup pi». Aggiungiamo a questo proposito che la forma, chiaramente ternaria, è determinata dalla dinamica: essa conferisce al pezzo una chiara linea evolutiva, che sostanzialmente si configura come una parabola, partendo dal pianissimo e facendovi ritorno attraver so un culmine centrale che lascia dopo di sé alcuni scoppi ritardati di violenza sonora.
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Dimensioni (1951, 1957, *963)• E veniamo infine a Dimensioni, ultima versione, nel 1963, d’un pezzo per flauto solo e registrazione stereofonica, che nella sua più lontana origine risale - come si è detto - al 1951, ed ebbe un’altra impor tante formulazione nella Musica su due dimensioni del 1957. Questa è Punica pubblicata, ed è anche di sponibile in un disco antologico di musica elettroni ca. Qui il lavoro consisteva di cinque pezzi per flauto (secondo e quarto per flauto solo, gli altri per flauto e nastro elettronico), congiunti da intermezzi elettro nici e variamente combinabili secondo un principio di composizione aleatoria che fa qui la sua apparizio ne nell’arte di Maderna e che lascia moltissimo spa zio all’iniziativa del solista: ripetizioni ad libitum, trasposizioni di gruppi sintattici, interpolazioni e al ternanze improvvisabili anche all’atto dell’esecuzione da parte del solista e del tecnico. Noi però preferia mo far sentire Dimensioni, del 1963, purtroppo non pubblicato, dove alcune sezioni del precedente lavo ro, e precisamente le tre centrali, sono riprese ed im merse in un quadro più vasto (il pezzo dura più di do dici minuti, contro i sette e mezzo della Musica su due dimensioni). Nel rapporto tra lo strumento solista e l’interpun zione elettronica, che vi si disposa con straordinaria congruenza, è forse già possibile scorgere in embrio ne l’idea che verrà poi esternata, apertis verbis, nel l’azione teatrale di Hyperion: l’uomo — o il poeta chiuso nel carcere della civiltà meccanica. Alcune delle sezioni per flauto, preservate dal la voro precedente, sono di grande bellezza ed eviden ziano i due momenti espressivi connessi da Maderna
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con l’uso del flauto solo: la vivacità ballettistica, qua si burattinesca, delle staffilate sibilanti, degli arabe schi contorti e rigirati su se stessi, delle note isolate acutissime; e la malinconia del registro grave. In uno degli episodi si riconosce a più riprese un curioso ghi rigoro cromatico, di piglio esotico e quasi Kitsch, una figura orecchiabile e seducente che gli asceti del postwebernismo avrebbero avuto in orrore come un sa crilegio. Maderna se n’infischiava della purezza e del rigore ascetico: la bizzarria e l’irriverenza dei suoi estri erano pari alla severità della sua disciplina mu sicale. Dopo una bellissima sezione grave del flauto, se guita da registrazione, il pezzo ha la consueta fine per disintegrazione, tipica di Maderna. Così come amava cominciare i pezzi ab ovoy dal diapason o dall’epitaf fio di Sitilo, ugualmente amava finire per dissoluzio ne, per graduale estinzione. Sentiva il pezzo di mu sica come un oggetto concreto, con un principio e una fine, o meglio ancora come una creatura, un organi smo vivente, che nasce, esiste e muore.
III.
Allegria di naufragi
Le Serenate di Maderna! Sono tante, che non è fa cile individuarle e catalogarle tutte. Sono tante, ma soprattutto costituiscono una categoria, non solo al l’interno della produzione di Maderna, ma in seno alla giovane musica italiana, all’avanguardia degli an ni Cinquanta. Luciano Berio, amico di Maderna e suo compagno di cammino artistico, autore pure lui d’una Serenata, per flauto e strumenti, nel 1957, ricor da: «Quella di Bruno e la mia sono le prime Serenate del dopoguerra: mi sembra che costituiscano i primi esempi di musica seriale che sorride un po’...» Ed infatti è singolare la fioritura di Serenate che contras segnò la musica italiana in quegli anni: Petrassi nel ’58, Fellegara nel ’59, Donatoni nel ’60, per dire i pri mi casi che vengono in mente, e senza far conto dei Divertimenti, altrettanto e forse piu numerosi. Il ritorno alla forma, o meglio al nome della sette centesca Serenata, sorella minore e spensierata del la Sinfonia, ha un significato storico ben preciso: se gna lo sganciamento della dodecafonia dall’espressio nismo, sganciamento operato dalla nuova generazio ne dei musicisti d’avanguardia. L’eredità schònberghiana e weberniana viene accettata con beneficio d’inventario: la dodecafonia viene assunta come una tecnica, un metodo di composizione con dodici suoni. In quanto tecnica, è ineluttabile: non si può non pas sare di lì. Anche Bruno Maderna che ha trescato da
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giovane con Bartók, se ne convince, e anzi diventa un dotto studioso, un maestro di dodecafonia e ne impartisce lezioni nel suo corso libero al Conservatorio di Milano. Ma la nuova generazione non è di sposta ad accettarne in blocco le premesse storiche: l’angoscia esistenziale, la seriosità implacabile della «grande» musica, la tetraggine del clima espressioni stico in cui era prosperata la dodecafonia classica. Maderna era stato l’alfiere di questa ribellione, an che se tanta della sua musica piu alta sia sostanziata di conoscenza del dolore. Abbiamo già sentito come anche l’esile tessuto puntillistico del Quartetto non ignorasse i tumulti, le lacerazioni e le subitanee fiam mate d’un espressionismo situato tra Schonberg e Al ban Berg. Ma la sua gioia di vivere, la sua ingordigia del suono in ogni manifestazione, lo predestinavano alla celebrazione del piacere di far musica. Nel set tembre 1946 il primo Festival veneziano di musica contemporanea dopo la guerra ospitava un «Concer to della giovane scuola italiana» diretto da Bruno Ma derna e introdotto nel programma da una cauta lette ra di Malipiero che esortava i giovani compositori ita liani a «scrutare più vasti orizzonti dopo tanti anni di reclusione e cinque di segregazione cellulare». Il concerto si apriva, programmaticamente, con una Se renata per 11 strumenti di Bruno Maderna.
La Serenata n. 2 (1957).
Millenovecentoquarantasei: era già la celebre Serenata, quella che si pone come atto di nascita del l’avanguardia musicale in Italia, ma con la data del 1954? Difficile stabilirlo. In certe biografie la Sere nata n. 2 per 11 strumenti del 1954 viene designata
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come una Neufassung, un rifacimento di quella del ’46. Rifacimento molto sostanziale, se dobbiamo pre star fede alla descrizione che ne dava allora il pro gramma veneziano. «L’autore - vi si affermava - in tende ricollegarsi alla tradizione barocca e classica dei concerti da camera e, nel caso specifico, ai divertimen ti, serenate, musiche da giardino. Liberamente flui scono nella stesura polifonica del testo ricordi secen teschi, atteggiamenti neoclassici, mai però parodiati o comunque piegati ad intenzioni umoristiche, ma confluenti in un tutto organico che alla composizione dà valore quasi di biografia». Quali ricordi secente schi, quali atteggiamenti neoclassici si potrebbero mai riscontrare nell’asciutto e frizzante puntillismo della Serenata che ora ascolteremo, e che del resto, nella partitura a stampa, è esplicitamente intitolata Sere nata n,2Q reca la data, non del 1954, bensì del 1957? Gli 11 strumenti sono 13: flauto, clarinetto, clari netto basso, tromba, corno, arpa, xilofono e vibrafo no, pianoforte e Glockenspiel, violino, viola e con trabbasso (a 5 corde). Infatti la composizione del 1957 si trova spesso indicata, in certi programmi, co me Serenata per 13 strumenti-, è la stessa cosa, se si considera che xilofono e vibrafono, affidati a uno stesso esecutore, non possono suonare contempora neamente, e lo stesso dicasi per il pianoforte e per l’argentino campanello del Glockenspiel, sacro alla memoria mozartiana di Papageno. A voler essere pi gnoli, gli strumenti sono addirittura 14, perché il flauto si alterna di continuo con l’ottavino; ma l’ese cutore è unico, mentre due se ne richiedono invece per clarinetto e clarinetto basso. In parole povere, mai più di 11 strumenti possono suonare contempo raneamente. La Serenata del 1946 constava, secondo il pro-
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gramma veneziano, di quattro tempi: allegro soste nuto, lento, andante, allegro energico. La Serenata del 1957 non presenta vere interruzioni tra gli epi sodi che la compongono. Comincia senza alcuna indi cazione di movimento, ma solo con una prescrizione di metronomo, cui è aggiunta, tra parentesi, l’avver tenza: «un poco liberamente». Poi passa attraverso uno «scherzando», segue un «allegro alla danza» e infine un «allegro». Il decorso unitario della compo sizione e l’assenza totale di modi neoclassici, baroc chi o secenteschi autorizzano a supporre che la Sere nata n. 2 del ’57, celebre punto di partenza dell’avan guardia musicale italiana, sia altra cosa dalla Serenata del 1946, forse rifatta nel 1954. Gli 11,013, strumenti lavorano sempre come voci reali, sicché, nonostante la leggerezza dello strumen tale, grande è la densità polifonica della scrittura. L’i nizio, per suoni isolati del flauto (e dell’ottavino), ha qualcosa di pastorale ed elegiaco, nel senso greco del la parola, secondo quel criterio aulodico di canto stru mentale puro, di melodia assoluta, che Maderna con netteva a strumenti univoci come il flauto e l’oboe. I suoni si combinano a poco a poco, subentrando il flauto all’ottavino ed integrandosi ad esso il violino, la viola e il violoncello. Qual è il decorso delle note? come si presenta il di scorso musicale di questi suoni ben presto ripartiti e divaricati sui diversi strumenti, secondo la tecnica del puntillismo? È un discorso seriale, dodecafonico, co me spesso si afferma? C’è in questo pezzo un partico lare ben curioso, che non mi sembra sia mai stato ri levato. L’inizio solitario dell’ottavino ha tutta l’aria di voler sgranare una serie dodecafonica: dieci note diverse si succedono, a partire dal do iniziale. Ma, al l’undicesima, ecco un altro do: la serie viene inter
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rotta, prima dell’esaurimento del totale cromatico. Che succede? Viene subito la curiosità di controllare quali note sono state omesse: sol e si bemolle. Si guarda innanzi, e il sol si trova quasi subito, nel cla rinetto. Il si bemolle no. Strano. Si continua a cercare più avanti: niente si bemolle in tutta la prima pagina di partitura, niente nella seconda. Si gira il foglio, pa gina 3, pagina 4: neanche l’ombra d’un si bemolle. Ormai la caccia al si bemolle si fa affannosa. Si scru tano le pagine: otto, dieci, venti pagine (la partitura ne conta in tutto 49): mai un si bemolle. Ogni volta che il discorso sembrerebbe portarvi, sempre all’ul timo momento svolta via e svicola in altra direzione, come quelle maledette palline che in certi giochi di pazienza bisognerebbe far cadere in un buco, agitan do ed oscillando una tavoletta. Ormai il fenomeno non può più essere casuale. Delle due l’una: o Mader na si è divertito a comporre un pezzo dove non ricor ra mai il si bemolle, come ci si potrebbe esercitare a scrivere una poesia o un romanzo senza far mai uso della lettera b, oppure se lo tiene in serbo per spen derlo al momento buono. In questo caso, chissà che momento emozionante sarà quello in cui la nota reni tente farà finalmente il suo ingresso nella composi zione! È vera questa seconda ipotesi: il si bemolle compa re dopo 28 pagine di partitura, quando, esaurito il ca priccioso «Allegro alla danza» col suo gioco ostinato ed umoristico di note ribattute, la composizione pren de un nuovo corso e si assesta nell’ultimo e definitivo movimento, «Allegro». Ciò avviene con una specie di schianto, una fiammata sonora tutta tremula e in candescente: si tratta semplicemente d’un accordo di note lungamente tenute, fra le quali il famoso si be molle, nel clarinetto basso, ma siccome l’idea stessa
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di accordo è incompatibile con l’estetica del puntilli smo che fin qui governava il lavoro, è ovvio che dopo tanti suoni isolati, staccati, puntigliosamente sepa rati l’uno dall’altro, l’esplosione prolungata d’un ac cordo quasi organistico prende un rilievo sensazio nale. Dopo questo turgido rigonfio sonoro, dove il fa moso si bemolle viene raccolto in un tremolo del pia noforte, la composizione si avvia verso la conclusione - «meno mosso», «ancora meno mosso» - attraverso il solito procedimento, caro a Maderna, che potrem mo chiamare della «fine per disintegrazione». Il tes suto sonoro si smaglia a poco a poco, si restaura la tec nica dei suoni isolati. Emerge spesso il violino solo con certi suoni acuti che paiono lamenti ed evocano reminiscenze vivaldiane («piange lo rosignolo»), ed alla fine sopravvive per ultimo all’estinzione graduale di tutti gli strumenti. Serenata, dunque: serenata come affermazione di ottimismo, di serenità, del piacere di far musica. Ma serenata malinconica. Non ci si aspetti uno sfoggio di buon umore rossiniano. Le Serenate di Maderna e dei suoi compagni furono, sì, l’affermazione d’una rina scente fiducia nella vita dopo le lugubri disperazioni dell’espressionismo. Ma è chiaro che si tratta di un’al legria di naufragi, per dirla con Ungaretti: l’allegria di cui può essere capace una generazione che ha avuto vent’anni quando il mondo andava a ferro e fuoco sotto i bombardamenti a tappeto, gli ebrei venivano sterminati nelle camere a gas e s’impiccavano i parti giani ai ganci delle macellerie. Questo non va mai di menticato.
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La Serenata n. 3 (1961).
Tutto quel complesso di coraggioso ottimismo, di fiducia, di allegria nonostante tutto, che Maderna compendiò nel concetto musicale dì Serenata, si fon dava soprattutto sul piacere di far musica, sulla gioia sensuale del suono, della meravigliosa realtà acustica che sottostà alla creazione musicale. Poiché questa realtà fisica del suono Maderna la stava esplorando scientificamente attraverso le esperienze elettroniche, è ovvio che gli venne il desiderio di congiungere i due elementi e di produrre una Serenata dove la gioia del suono non fosse elargita attraverso la sollecitazione di strumenti, ma allargata all’infinito fabbricando il suono stesso in laboratorio. Nacque cosi la Serenata n. 3, che è del 1961, prodotta nello Studio di Fono logia della Rai di Milano. Si presenta come un nucleo compatto intorno a una sola idea fondamentale: una specie di grandinata tamburellante di percussione esotica, avvolta in un alone atmosferico e a volte quasi d’acquario. Vien fatto di pensare, naturalmente, al gamelan giavanese. Una cascata di suoni metallici, come prodotti da ruo te dentate. L’ascoltatore può magari prorompere indignato nella solita protesta: - Ma questa non è musica! Certo, non è musica nel senso tradizionale, fatta con le sette note della scala diatonica o le dodici del la scala cromatica. Le scale non ritagliano che una pìc cola frazione dentro l’universo dei suoni. Oggi che esiste il mezzo tecnico per produrre ed elaborare ogni sorta di suoni, la musica ha voglia d’impadronirsene, e di allargare il proprio campo, fino a una specie di ge nerale arte acustica o arte dell’udito. Così potremmo
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chiamare la musica sperimentale, se vogliamo riser vare il nome di musica a quella fatta con le note, Il francese Pierre Schaeffer, fondatore della musica con creta, ha chiamato Tratte des objets sonores il suo li bro di teoria della musica attuata con mezzi elettroa custici. La formula si addice benissimo alla Serena ta III di Maderna. Non è musica nel senso stretto del la parola. È un piacevole oggetto sonoro, che sembra quasi di poter toccare, spostare, sollevare, nella sua concretissima compattezza di prodotto puramente elettronico.
Amanda (1966).
Il conto delle Serenate di Maderna si perde nella nebbia. Lo stabiliranno i musicologi del?avvenire. Abbiamo notizia di una Serenata IV, per strumenti e nastro magnetico, che sarebbe del 1964, ma non di sponiamo né di spartito né di registrazione. Nessuna traccia della Serenata V, che pure dovrebbe esistere, perché nel 1966 ci imbattiamo in una composizione strumentale chiamata Amanda, sul cui frontespizio, di pugno di Maderna, è scritto ben chiaro, tra paren tesi, Serenata VI. Di nuovo strumenti, dunque, e in formazione ben singolare. Niente strumenti a fiato, e invece 6 violini, 3 viole, 3 violoncelli e 3 contrabbassi, che suonano tutti distintamente, come 15 parti differenti e reali; pianoforte, celesta, due arpe, percussione e - vero as so nella manica per la creazione d’un clima di Sere nata - mandolino e chitarra. Delle tante Serenate di Maderna questa è forse la piu vicina al concetto - non allo stile, ma al concetto settecentesco di Serenata, come l’intendevano Haydn
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e Mozart. Nel senso che le due Serenate or ora ascol tate sono, per Serenate, di ben solida e compatta struttura. Quella elettronica, abbiam detto, è addirit tura un vero e proprio oggetto sonoro. Ma anche la Serenata per n strumenti, pur differenziandosi in al cuni episodi, li collega però strettamente in un discor so così continuo, che sarebbe difficile riconoscervi qualche separazione. La Serenata del Settecento non era così. Era un «assemblage», una raccolta di pezzi abbastanza eterogenei, tenuti insieme più che altro dal gioco delle tonalità e ordinati secondo un ovvio criterio alternativo dei movimenti e delle espressioni. Amanda — purtroppo non sono in grado di determi nare il significato del titolo, che nella partitura figura tra virgolette - si avvicina molto al criterio settecen tesco della Serenata come forma leggera, fatta di epi sodi liberamente accostati, in una capricciosa mute volezza di mezzi strumentali. L’inizio è denso, statico, come una fumata sonora di tutti gli strumenti. La parte degli archi è scritta con lunghe righe nere. Da questa somma indistinzione si passa alla somma articolazione di un discorso dove tutti gli strumenti partecipano con ghirigori fittissi mi, arpeggi, capriole: ognuno dei 15 archi svolge una parte, le arpe rimbombano senza tregua, e su tutto questo alone fonico emerge il timbro magro, secco, di mandolino e chitarra. Con l’aggiunta di xilofono e marimba questi due strumenti danno vita a un episo dio di inequivocabile sapore esotico: ancora una vol ta è la sonorità tintinnante e ruscellante del gamelan, che qui viene evocata con mezzi strumentali. Poi, co me avveniva nel Settecento, quando spesso la Sere nata racchiudeva nel suo seno un piccolo Concerto per violino, al plenum di sonorità succede un lungo episodio per violino solo: un violino che canta lirica
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mente in uno slancio irrefrenabile di melodia perfino appassionata, si libra ad altezze vertiginose, si sbiz zarrisce in passaggi di bravura, arpeggi, note doppie, armonici, suoni martellati. A un certo punto, mentre il violino solo sta eseguendo una delle sue capriole, impercettibilmente gli si associano un altro violino, una viola e un violoncello, e cosi di punto in bianco quello sfrenato capriccio per violino solo si trasforma in un quartetto, di nobile e classica sonorità. Poi, nel la stessa maniera impercettibile, alle quattro prime parti si aggiungono gli altri archi, e si ricostituisce pertanto un plenum di sonorità, come all’inizio, ma pianissimo, e senza le presenze pettegole di mandoli no, chitarra e xilofono. Per contro un prolungato alo ne di tam-tam resta a vibrare fino alla fine, la solita fine per estinzione graduale. Già sappiamo che ogni pezzo musicale di Maderna è un organismo che nasce, cioè vien fuori dal nulla, dal silenzio, si sviluppa e muore. Non fa eccezione nemmeno questa Serenata, pur cosi capricciosa e balzana, che nel corso della sua esistenza cambia pelle due o tre volte e si trasforma in un gamelan, in un concerto per violino solo, e in un nobile quartetto d’archi, prima di disintegrarsi a po co a poco e rientrare nel silenzio originario.
IV.
La melodia assoluta
Come nella musica d’ogni compositore, anche in quella di Maderna ci sono delle costanti: certi princi pi fissi, certe caratteristiche ricorrenti, che ne deter minano tutte insieme la fisionomia. Vere e proprie categorie musicali, come s’è detto la settimana scorsa, individuandone un esempio nel concetto, piu espres sivo che tecnico o formale, di Serenata. Un’altra ca tegoria è quella per cui soltanto più tardi, nella piena maturità artistica, Bruno troverà il nome, azzeccatissimo, di aulodìa. Cioè il canto di uno strumento a fiato, e pertanto univoco, incapace - in linea di mas sima - di produrre suoni simultanei, come accade in vece agli strumenti a corde. Melodia assoluta, dunque. Se n’è già accennato nella seconda trasmis sione, a proposito del flauto, e s’è detto quale sfida costituisca un simile criterio compositivo, nelle pre senti condizioni della musica, fattasi così complicata e difficile, e di tanto allontanata dal dono sorgivo del la melodia d’un Bellini o d’imo Schubert. Del resto, nel fatto stesso di sviluppare tale sforzo di melodia assoluta attraverso uno strumento, quando la voce umana parrebbe esserne il veicolo naturale, è impli cita una specie di contraddizione deliberatamente af frontata dai compositori d’oggi, quasi uno scotto con sapevole pagato alla condizione estraniata dei tempi moderni, che non consente più quello che era possi bile all’Ottocento. Anche Berio, amico fraterno di
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Maderna, ama provarsi in questo cimento della me lodia assoluta per uno strumento solo, ma secondo un’ottica leggermente diversa, che gli permette di de stinare le sue Sequenze non solo al flauto e all’oboe, come fa Maderna, o al trombone, o alla voce uma na, ma anche a strumenti polivoci come l’arpa, la vio la, il pianoforte. Ciò che affascina Berio non è tanto il canto in sé, come avviene per Maderna, quanto il meccanismo dell’esecuzione, di qualunque strumen to. Non tanto lontano da questa concezione si potreb bero porre i Tre pezzi per clarinetto solo di Strawin sky, ma con quel tanto di aneddotico, di folcloristico e di narrativo, che oggi persiste — per esempio — nei Cinque Pezzi per oboe solo di Britten, e che è agli antipodi dell’essenzialità strumentale osservata dai compositori dell’avanguardia. Si potrebbe anche ri cordare, nella precedente generazione della musica moderna, l’esperimento di Hindemith, che si propose di dotare ogni strumento dell’orchestra d’una Sonata in piena regola, con accompagnamento di pianoforte. Ricordarlo, questo esperimento, solo per rilevarne la differenza totale dalla melodia assoluta di Berio e so prattutto di Maderna: basta la presenza dell’accom pagnamento pianistico per stabilire tutta un’altra di mensione sonora, un criterio compositivo fondato sulle combinazioni complesse del contrappunto e del l’armonia, del tutto estraneo al disperato sforzo di melodia strumentale in cui si cimentano i composi tori dell’avanguardia. Già s’è detto quanta importanza abbia avuto, nel la determinazione di questo indirizzo, la presenza d’un interprete straordinario come il flautista Gazzelloni. Maderna fu il primo, salvo errore, a estendere gli esperimenti di melodia assoluta all’oboe, grazie all’incontro con quell’altro eccezionale suonatore che
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è l’oboista Lothar Faber. Questo passaggio accresce va, se possibile, le difficoltà e le contraddizioni insite nei moderni propositi di monodia strumentale. Il flauto - il più semplice, il più innocente degli stru menti a fiato — compie di per sé solo quel salto oltre l’Ottocento, che sembra tuttora condizione necessa ria, o per lo meno propizia all’affermazione della mu sica moderna. Invece la presenza della doppia ancia conferisce al suono dell’oboe una pasta più densa, più spessa, un timbro quasi viscerale che pesca più a fon do nella lava incandescente dei sentimenti e delle pas sioni. Per quanto largo ne fosse l’impiego nel Sette cento, l’oboe è strumento romantico. Berlioz diceva: «Potrebbesi dunque asserire che il flauto è uno stru mento pressoché mancante d’espressione». E trova va che i suoi timbri «si possono impiegare benissimo in melodie ed accenti di caratteri diversi, ma senza che possano uguagliare la gaiezza innocente dell’oboe, oppure la nobile tenerezza del clarinetto». Soltanto di gaiezza innocente sarebbe capace l’o boe? Berlioz lo dice «dotato d’un carattere agreste, pieno di tenerezza, direi anzi di timidità»; certamente questo gran sacerdote del Romanticismo resta al quanto ancorato a schemi settecenteschi quando af ferma che «agli accenti dell’oboe convengono a mera viglia il candore, la grazia innocente, la gioia tranquil la, oppure il dolore d’un essere debole». In verità, at traverso il suono nasale dell’oboe può sibilare benis simo anche la furia serpentina d’una Medea, e Berlioz è ben prudente quando consente che all’oboe «può convenire anche un certo grado di agitazione, ma con viene guardarsi dallo spingerla fino ai gridi della pas sione, fino al subito slancio dell’ira, della minaccia o dell’eroismo, poiché allora la sua piccola voce agro dolce diventa impotente ed assolutamente grotte
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sca». Un secolo di romanticismo e di espressionismo hanno caricato di ben altre responsabilità espressive il timbro nasale dell’oboe, strumento per eccellenza dionisiaco se, come si pensa, l’aulos greco, sacro ap punto a Dioniso e pertanto allo scatenamento degli istinti, non era un innocente flauto, come spesso vien tradotto malamente, bensì uno strumento ad ancia, forse ad ancia doppia come l’oboe.
I Pezzi per oboe solo (1962).
Tutto questo universo di nuovi contenuti si adden sa nell’uso solistico che Maderna fa dell’oboe. Nel contempo, grazie alla bravura di virtuosi come Lot har Faber, si allarga smisuratamente il campo delle possibilità esecutive, superando di molti gradi quel limite superiore del fa sopra il rigo, che Berlioz scon sigliava come pericoloso, e aggredendo tranquilla mente ogni sorta di trilli, compresi quelli che, per motivi di diteggiatura, Berlioz giudicava impossibili od almeno «assai difficili e di cattivo effetto». Il gran de romantico aveva un’opinione assai restrittiva sulle attitudini dell’oboe all’agilità, che invece — ed è ov vio — consentiva al flauto nella piu ampia misura. «È possibile — scriveva Berlioz — eseguire sull’oboe sen za troppa difficoltà i passi rapidi, cromatici o diato nici, ma non se ne ottiene che effetto sgarbato e qua si ridicolo: lo stesso dicasi degli arpeggi». Nous avons change tout cela, sarebbe il caso di dire, ascol tando le acrobazie spericolate a cui Maderna sospin ge l’abilità di Lothar Faber nella serie dei suoi lavori oboistici. I Pezzi per oboe solo sono come l’antipasto d’un lauto banchetto. Risalgono probabilmente al 1962,
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l’anno del primo Concerto per oboe, e forse ne costi tuiscono uno stadio preparatorio. Sono tre pezzi bre vissimi, quasi aforistici, come si suol dire, e si presen tano come un repertorio dei vocaboli strumentali che verranno impiegati nei tre Concerti per oboe e più tardi nelle due Aulodie-. la tavolozza dei colori con cui verranno poi dipinti i quadri. C’è il grido lanci nante di lunghi suoni acuti, deformati e calanti, e c’è l’agilità rimbalzante dei suoni staccati, dell’arpeg gio, di quel tipico trillo divaricato - cioè fra note non contigue - che Maderna assegna spesso anche al flau to. Il lamento e il capriccio: un’altalena continua fra questi due poli, con prevalenza ora dell’uno ora del l’altro: per esempio, del capriccio nel secondo Pezzo. E sempre l’ideale spavaldo, quasi anacronistico, della melodia assoluta: l’ideale del canto, paradossalmente affidato a uno strumento.
Il primo Concerto per oboe (1962).
Quale forma della musica è naturalmente predi sposta ad accogliere l’espansione cantabile di uno strumento solo? Il Concerto, si capisce. E Maderna fu un assiduo produttore di Concerti per strumento solista e orchestra, secondo quella sua mozartiana fra ternità con gli esecutori, quel suo schietto camerati smo con tutto il popolo di coloro che tirano l’arco, che pestano e volano sulla tastiera, che soffiano den tro tubi di varia foggia. Il piacere di far musica era la sua regola di vita. La musica non si fermava per lui sulla carta. Anzi, la scrittura era per lui uno stadio transitorio e imperfetto, e chi pretendesse di seguire sullo spartito, nota per nota, le esecuzioni di opere sue da lui dirette, spesso andrebbe incontro a sorpre
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se: la pagina scritta era per lui una specie di provvi sorio promemoria per costruire la realtà della musica nel suono. In questo senso, nessuno ha vissuto l’espe rienza dell’aleatorio con tanta tranquilla naturalezza, con tanta spontaneità come Maderna. Per lui la musi ca non era quello che i compaesani di Verdi chiama vano «i rampini», cioè quei segnetti neri che buttati giù rapidamente sulla carta a cinque righe, procura vano tanti quattrini all’antico contadinello delle Ron cole. Per Maderna la musica era subito suono. Lui si sarebbe trovato bene nella biblica famiglia di Jubal, che «fu il padre de’ suonatori di cetra e d’organo», e del figliol suo Tubalcain, che «lavorò di martello e fu artefice d’ogni sorta di lavori di rame e di ferro». In quella dimora di fabbri tutti picchiavano su sonanti metalli, e la produzione del suono era occupazione quotidiana. Maderna dunque scrisse molti Concerti. Pressapo co all’epoca di cui ci stiamo occupando — i960 — ri sale quello per pianoforte e orchestra, che purtroppo non saremo forse in grado di far sentire, ma che vuol essere almeno ricordato come un momento molto im portante della sua arte. E nel 1962 ecco il primo dei tre Concerti per oboe che gli furono ispirati dall’ami cizia col bravissimo Lothar Faber. Non posso fare a meno di connettere al Concerto per oboe un ricordo personale. Quando fu eseguito a Venezia nella prima vera del 1963, fu quella la prima volta che mi nacque il sospetto: ma forse Maderna è - o potrebbe essere - il più grande fra i compositori della sua generazio ne, il più naturalmente dotato di poesia, di freschezza sorgiva della melodia. Niente più che un sospetto, al lora, contrastato dall’apparente irregolarità e casua lità della sua produzione e, nel caso specifico, dalla la bile struttura del Concerto in questione: sei cadenze
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solistiche dell’oboe attraversate, qualche volta sor rette, più spesso contraddette da intermezzi orche strali, in alcuni dei quali ha grande parte la percus sione, nutritissima d’ogni sorta di strumenti esotici e spesso accreditata di sobrie oasi di libertà aleatoria. Il titolo esatto dell’opera non è Concerto per oboe e orchestra, bensì Konzert fiìr Oboe und Kammerensemble. Questo Ensemble ha infatti una composi zione cameristica per gli strumenti tradizionali, con quartetto d’archi più un contrabbasso, i principali strumenti a fiato in esemplare singolo, salvo i flauti che son due, e poi un esercito di 78 strumenti a per cussione, più due pianoforti che fanno ottanta! Il lavoro ha inizio con un’introduzione a carattere puntillistico, nella quale i suoni isolati dell’oboe d’a more si combinano come in un intarsio con quelli al trettanto isolati degli archi (in suoni reali e in suoni armonici), poi anche di pianoforte arpa e celesta. È la laboriosa enunciazione della serie - una serie, sal vo errore, alquanto libera e capricciosa — quasi un’e splorazione preliminare del terreno, una dichiarazio ne delle carte con cui si giocherà la partita. Ovvia mente questi inizi puntillistici suonano strani e sten tati alle orecchie del pubblico, perché li, nella presen tazione della serie, l’opera deve porre le basi stesse del linguaggio con cui vuole esprimersi, stabilire il proprio vocabolario: tale è la sorte a cui l’uomo mo derno è ridotto, secondo le inquietanti ipotesi di strutturalisti e filosofi del linguaggio, se vuole conser vare un’ultima possibilità di comunicazione. Dopo un intermezzo agitato dell’orchestra, di gu sto espressionistico, comincia la prima delle sei ca denze solistiche, che dànno fondo alle possibilità espressive di quel poetico strumento che è l’oboe, sa cro alla malinconia e alla solitudine. Vanno ascoltate
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in purezza e semplicità di spirito, persuadendosi che non c’è da venire a capo di nessuna astruseria, di nes suna complicazione cerebrale: questa è una musica d’avanguardia che si affida quasi unicamente ai va lori della commozione melodica e, subito dopo, alla suggestione del timbro. La prima cadenza, breve, su uno sfondo leggero di timpani e arpe, è per oboe d’amore, le cui note, na sali nel registro medio e grave, all’acuto raggiungono una purezza violinistica tale da illudere l’orecchio. Altre quattro cadenze sono per oboe vero e pro prio: la seconda, capricciosa e saltellante, è introdot ta da una piccola grandinata della percussione, che poi dialoga con la frastagliata vivacità melodica dello strumento solista, e quasi entra in gara con esso. Ver so la fine il Kammerensemble abbozza in secondo pia no una specie di misteriosa fanfaretta militare, di gu sto espressionistico e berghiano. Terza, quarta e quin ta cadenza, sempre per oboe, sono brevi e concatena te; piene di poetica malinconia la terza e la quinta. Nella sesta si libra il cante hondo del corno inglese, ora solo, ora su un fondo d’isolati schiaffi della per cussione e brusio risonante delle arpe; infine su un lungo, sordo pedale degli archi. Prima della fine infu ria una drammatica battaglia di timpani, nella quale si configura forse il tema preferito della fantasia di Maderna: gli intermezzi orchestrali, percussivi o elet tronici che punteggiano e aggrediscono il canto d’un solista sono «gli altri», il mondo esterno, la caotica e disumana realtà contemporanea che attraversa la vi ta del poeta. «L’enfer c’est les autres», come diceva Paul Valéry.
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Il secondo Concerto per oboe (1967).
Il secondo Concerto per oboe, dedicato anch’esso a Lothar Faber, è del 1967. Anche questa volta l’or chestra ha una composizione strana. Mancano flauti, fagotti, trombe e tromboni. Singolare la presenza di due oboi e corno inglese, nonostante che l’oboe sia lo strumento solista (del resto anche il Kammerensemble del primo Concerto prevedeva oboe e corno inglese). Tre clarinetti, un clarinetto basso e quattro corni determinano il colorito grave, quasi opaco, del l’orchestra. Sei violini, tre viole, tre violoncelli, tre contrabbassi, due chitarre, celesta e due arpe, niente pianoforte, ma la solita selva di strumenti a percus sione affidati a cinque esecutori. Il Concerto, breve e senza interruzioni, comincia con un oscuro rumorio grave, quasi un rombo sordo di rotative, che è prodotto da fasce sonore dei quat tro clarinetti e dei quattro comi. Su di esso spiccano a poco a poco i suoni staccati e provocanti della chi tarra e della chitarra elettrica, insieme col pizzicato dei violoncelli. Durante questa fase confusa di prepa razione l’ascoltatore di questa nostra registrazione, effettuata all’Aja il 9 settembre 1968, avvertirà il di sturbo di ripetuti accessi di tosse. Si tratta, ahimè! d’uno storico e commovente disturbo: quasi certa mente dovuto allo stesso Maderna, cui il male terri bile che doveva poi divenirgli fatale, procurava già allora quel respiro pesante che si percepiva tragica mente durante i «pianissimo» delle sue esecuzioni. Da questo sfondo sonoro d’introduzione emergo no ben presto le capriole, gli svolazzi e il chiacchieric cio pettegolo della musette, variante campagnola del l’oboe, affine alla cornamusa. A questo umile stru
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mento è affidata la più gran parte degli episodi soli stici, il primo dei quali è il più esteso e porta, dopo un crescendo dello sfondo di arpe celesta e chitarra, a un intermezzo di fitta scrittura orchestrale, dove primeggiano gli archi, a carattere marcatamente vien nese: quasi un abbozzo del ritmo di valzer, ma di val zer sbocconcellato, sfigurato e represso, come si può indovinare anche nel Concerto per violino di Alban Berg. La musette riprende ancora il discorso princi pale, e un nuovo intermezzo dell’orchestra reca uno straordinario episodio aleatorio, dove i violini, acu tissimi, interpolano liberamente, nel tessuto sonoro dei tam-tam e dei piatti sospesi, certi patterns, o sche mi, segnati in partitura entro sette rettangoli neri, mentre il gioco della batteria viene indicato con veri e propri disegni. Segue ancora un episodio di musette molto lirico e disteso, poi il solista assume l’oboe vero e proprio e ne dipana enigmatici arabeschi, figure di canto che si librano in volo come misteriosi uccelli nel cielo. In fine tocca all’oboe d’amore, il contralto della fami glia, esporre il soliloquio finale, ora balzano, ora me ditativo, sul lieve brusio di arpe e chitarre.
V.
Don Perlimplin (1961)
Il primo approccio di Maderna col teatro non av viene sul palcoscenico, ma tramite la mediazione del la radio, con l’opera radiofonica Don Perlimplin, ov vero il trionfo dell’amore e dell’immaginazione. Tale il sottotitolo della partitura, con l’ulteriore specifica zione: «ballata amorosa di Federico Garcia Lorca ». La deliziosa farsa, o favola dialogata del poeta spa gnolo, reca per titolo originale: L’amore di don Perlimplino con Belisa nel suo giardino, e per sottotito lo: Alleluia erotica in quattro quadri e un prologo. Garcia Lorca l’aveva scritta nel 1931 per il teatrino di marionette - «los Titeres de Cachiporra» - ch’egli si era installato in casa a Granada, ad imitazione di quelli ancora operanti allora nella regione andalusa e da lui ammirati come espressione autentica della fan tasia popolare. Un capitolo di storia che un giorno o l’altro qual cuno dovrà scrivere è quello dell’influenza esercitata dalla poesia di Garcia Lorca sulla musica nuova nel l’immediato dopoguerra. Specialmente il gruppo ve neziano di Nono e Maderna ne fu felicemente inve stito. Garcia Lorca fu per loro - ma anche per musi cisti assai piu anziani, come il dotto Wolfgang Fort ner o l’amabile Francis Poulenc - la voce della giovi nezza e dell’amore: qualcosa come un profumo di pri mavera, effimero ma inebriante, una stagione breve, appassionata e intensa.
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Don Perlimplin è appunto questo: un trionfo del l’amore e dell’immaginazione giovanile. Naturalmen te non è un’opera tradizionale, ma piuttosto una com media con musica. Di norma i personaggi non canta no, ma parlano. Soltanto Belisa la sentiamo due volte cantare, eccezionalmente. Parlano e non cantano mai la governante Marcolfa, i due folletti, e lo speaker in funzione di coro. E Perlimplin, il protagonista? Per limplin non parla né canta: suona, perché Perlimplin è - grazie all’aiuto del mezzo radiofonico — un flauto. Nella fattispecie, il flauto di Severino Gazzelloni. Lo sentiamo dialogare con Marcolfa, e soprattutto con Belisa, le quali parlano, e lui interpone le sue rispo ste, i suoi fraseggi, le sue interiezioni strumentali, ora appassionate, ora tenere, interrogative, dubitan ti. Nella partitura le parole di Perlimplino, sostituite dagli arabeschi, dalle capriole e dai mugolìi del flauto, sono messe tra parentesi quadre: la loro omissione è il principale dei pochi adattamenti apportati dal com positore alla classica traduzione di Vittorio Bodini e non reca sostanziale nocumento alla comprensione del testo teatrale, una volta che l’ascoltatore sia av vertito dell’identificazione tra lo strumento flauto e il personaggio Perlimplino. Qual è dunque la funzione della musica in quest’o pera dalla quale è escluso quasi del tutto il canto? La musica stabilisce l’aura incantata che è la prerogativa della poesia di Garcia Lorca, crea l’atmosfera in cui ottenga credibilità la vicenda fantastica di Don Per limplin, il maturo sposo di Belisa, che uccide il gio vane cavaliere dal mantello rosso, di lei innamorato e da lei riamato. Ma di Belisa, quel giovane, ama va solamente il corpo. Chi è il cavaliere dal mantello rosso che ha conquistato il cuore di Belisa? È Don Perlimplino, il mite Perlimplino, che uccide se stesso
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CAPITOLO QUINTO
- o forse la parte cattiva di sé — perché Belisa possa avere un’anima. Musica di sfondo, se vogliamo, nel senso migliore della parola, come quella che Maderna e Berio veni vano spesso producendo nello studio di Fonologia della Rai di Milano, a corredo di documentari, sce neggiati e trasmissioni drammatiche. Effetti sonori cui è demandata la funzione magica di ambientare una trama, di supplire alla carenza visiva del mezzo radiofonico e, sostituendo all’occhio l’orecchio, in staurare una realtà fantastica. La partitura di Don Perlimplin si articola in una Introduzione, un Prologo e tre quadri. Nell’Introdu zione vengono presentati i vocaboli strumentali che nel corso dell’opera verranno elaborati e interpolati, con una certa libertà aleatoria, da arpa, pianoforte, mandolino, chitarra elettrica, marimba, vibrafono, due violini, viola, violoncello e due contrabbassi. Spesso l’ascoltatore avrà l’impressione di sentire mu sica elettronica. Quasi sempre si tratta di un trompeVoreille, L’apparente suono elettronico è ottenuto con l’impiego, diabolicamente scaltro, della percus sione: timpani, piatto sospeso, cinque gong di diffe rente intonazione, tre bongos, un piccolo gong giap ponese e un sistro giapponese, i bastoncini caraibici detti claves, le campane tubolari (cui è affidata l’aerea chiusa dell’opera), marimba e vibrafono. Dell’orche stra fanno parte anche, oltre al flauto-protagonista, clarinetto, saxofoni, fagotto, corno, trombe e trom boni. Ma elettronici sono, naturalmente, i diversi montaggi dei vocaboli-base che sono stati esposti nel l’introduzione, e la sovrapposizione di parole e mu sica, ottenuta con ingegnose manipolazioni eseguite nello studio di Fonologia; in particolare lo è la can zone di Belisa, unico personaggio dell’opera che, ol
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tre a parlare, canti. Questa canzone, a tre voci, è otte nuta con la sovrapposizione elettronica di una voce sola a se stessa in una specie di lirico, poetico canone artificiale, combinato in studio. Molta parte della musica di Don Perlimplin testi monia dell’interesse di Maderna per il timbro e il rit mo del jazz. Un quartetto di saxofoni impersona, nel Prologo, la breve apparizione della suocera, cioè del la madre di Belisa, che fa complimenti e smancerie quando Marcolfa, la brusca governante di Don Per limplino, le propone, o piuttosto le impone di dare la figlia in sposa al suo padrone. Belisa si sente per la prima volta, sempre nel Prologo, intonare con eb brezza la parola «amore» su tempo di rag. E Don Perlimplino, soprattutto, dopo la lunga Introduzione dantistica e il Prologo, si manifesta in tre blues che sono i nuclei fondamentali della partitura. L’ultimo è quel Dark rapture crawl, del 1957, che figurava co me il primo dei tre pezzi contenuti nel Divertimento composto a quattro mani con Luciano Berio.
VI.
L’antico e il moderno
Il Concerto per pianoforte (i960).
Facciamo un passo indietro per ricuperare un’ope ra importante di Maderna, della cui registrazione sia mo venuti in possesso soltanto ora, grazie alla corte sia di Cristina, la vedova del musicista: il Concerto per pianoforte e orchestra, del i960, dedicato a Da vid Tudor, il pianista americano che negli anni rug genti di Darmstadt dischiuse nuove vie sulla tastiera alla fantasia dei compositori d’avanguardia. Qualche cosa come un GazzeUoni del pianoforte. Non aspettiamoci di trovare nel Concerto per pia noforte qualcosa di analogo a quanto abbiamo cono sciuto nel primo e nel secondo Concerto per oboe, cioè una sublimazione di quella categoria musicale che abbiamo chiamato la «melodia assoluta». Il pia noforte è strumento di tutt’altra natura che l’oboe e il flauto, con produzione percussiva del suono e con grande sviluppo meccanico. Perciò il Concerto di Ma derna non punta sull’innocenza della melodia, bensì sulla complessità della tecnica. Ne è uscito uno dei lavori più selvaggi e sperimentali di Maderna, dicia mo pure uno dei più aspri all’ascolto, dove si viene affermando l’emancipazione di Maderna, e della sua generazione, dalla disciplina seriale e dal puntillismo postweberniano: quest’ultimo non ancora interamen te debellato, e non è che la separazione non avvenga senza schianti. Un’antologia di tutti i modi più inediti e strani di
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trattare lo strumento: picchiare il pianoforte, pizzi carlo nella pancia, sbattere violentemente il coper chio, produrre oppure smorzare il suono direttamen te sulle corde, eseguirvi dei «glissando» tutti avvolti in un alone tintinnante, quasi assurdamente clavicem balistico. I clusters, o grappoli di note, quali aveva cominciato a praticare fin dal 1910 il solitario ame ricano Charles Ives, e che poi Alban Berg introdusse nella partitura dell’opera Lulu, trovano qui larghezza d’impiego quasi sistematico, con un avambraccio pre muto sui tasti bianchi e l’altro sui tasti neri. Cinque grandi pagine premesse alla partitura contengono le istruzioni, con relativa segnaletica, per questa novis sima Art das Clavier zu spielen, arte di trattare la ta stiera, secondo il titolo settecentesco del trattato di Carlo Filippo Emanuele Bach. Ma non tutto il Concerto per pianoforte è asprezza di tecnicismo e scatenata violenza sperimentale. C’è un episodio centrale in cui si placa la furia ingorda dell’avanguardia per lasciare emergere la faccia ele giaca della personalità di Maderna nella meditativa rarefazione del suono. Inutile chiedersi quale dei due Maderna fosse quello vero: se il Maderna dell’alle gria rumorosa, bruciante e turbolenta, o il Maderna ripiegato e malinconico, sofferente di un’eterna pe na per la solitudine dell’uomo, l’incomunicabilità, lo straniamento all’interno di un mondo ostile. Mader na era la somma di queste due posizioni, e nella sua musica l’esteriorità tumultuosa dell’avanguardia rive ste e protegge la sofferenza segreta, come in un frutto la scorza circonda e protegge il seme. Ma bisogna to gliere da questa metafora l’idea romantica che la vera realtà sia l’interno, il seme, la pena segreta, e l’ester no - la scorza — sia soltanto apparenza. No, Maderna era proprio la sintesi dei due elementi, e chi credesse
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di poter prescindere dall’uno o dall’altro, o di subor dinarne uno all’altro, si vieterebbe di capire che cosa furono l’arte e la personalità di Maderna.
L*Aulodìa (1965). Ora facciamo ritorno a una tipica espressione di «melodia assoluta», per lo strumento che forse Ma derna aveva più caro di tutti, con VAulodìa del 1965, per oboe e chitarra. Come già s’è detto nella quarta di queste trasmissioni, fu qui che Maderna azzeccò il nome opportuno per questa categoria del suo sentire musicale: aulodìa, dal nome dello strumento a fiato greco, aulòs, che non era un flauto, come traducono erroneamente i vocabolari scolastici, bensì uno stru mento ad ancia, come l’oboe. A voler sofisticare, ci sarebbe da osservare che i Greci antichi chiamavano aulodìa il canto della voce umana accompagnata, o piuttosto duplicata dall’aulòs; e chiamavano auletica la musica per lo strumento solo. Questa doveva presentare un carattere di spic cato virtuosismo strumentale, a giudicare da quanto si racconta dell’aulèta Sàcada di Argo, che nel 586 a. C. vinse i Giochi pìtici di Delfo col Nòmos pìtico: una grande composizione in 5 parti, che aveva per oggetto il duello di Apollo col pitone. Un poema sin fonico — oggi diremmo - per oboe solo. Sì suppone che la bravura del suonatore si esibisse in ogni sorta di guizzi, di raffiche, di ghirigori strumentali, per de scrivere - secondo quanto vien riferito da Strabene le varie fasi del duello, le brusche mosse dei conten denti, gli attacchi, le schivate, e il trionfo finale del dio. Invece Maderna non chiede all’oboe quegli estre
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mi di esasperato virtuosismo e di selvaggia violenta zione a cui abbiamo visto or ora sottoposto il pia noforte. Non gli impone nemmeno le acrobazie agi lissime e gli svolazzi che di solito sollecita al flauto. Per lui l’oboe è strumento eminentemente cantante, perciò l’eventuale improprietà del termine aulodìa è provvidenziale e significativa, designando proprio quella caratteristica canora ch’egli attribuisce allo strumento. Aulodìa: non canto accompagnato dalYaulòs, ma canto strumentale, per mezzo dell’aulòs. Quella categoria della musica di Maderna che abbia mo proposto di chiamare melodia assoluta. In un trattato musicale del Cinquecento, il Dodecachordon, dello svizzero Enrico Glareano, si fa una sottile distinzione tra due tipi di musicista: il phona scus e il symphoneta. Il phonascus è il puro invento re di melodie. Il symphoneta è il sapiente combina tore d’armonie. In modo sorprendente, per un’epoca come il Cinquecento, tutta votata alla grandiosità del la concezione polifonica, il Glareano attribuisce la palma del maggior pregio all’arte del phonascus, per ché quella del symphoneta — egli ha l’aria di dire - è tutta questione di sapienza e dottrina, e s’impara. Phonascus, invece, si nasce; e se no, non c’è niente da fare: non c’è scuola né studio che valgano. NeXPAulodia Maderna riconferma la sua schietta vocazione di phonascus nell’impresa disperata di can tare, cioè di affidare tutto a un filo solo di melodia strumentale, coi tempi che corrono, dopo Wagner, Strauss, Strawinsky e compagnia bella, dopo l’intos sicazione armonica e il tecnicismo da cui è governata la musica contemporanea. La malinconia dell’oboe e dell’oboe d’amore, suo cugino leggermente piu grave, si effonde in un di scorso melodico di mirabile continuità, che prende
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slancio da se stesso, librato come il volo d’un aliante, secondo il capriccioso sostegno delle correnti d’aria. La chitarra fornisce qualche breve sfondo rumoroso di accordi arpeggiati, o più spesso occasioni di sobrio dialogo a due voci. Il suo timbro spensierato evoca la lievità, la felicità dell’altra categoria musicale di Maderna: la serenata, e tempera un poco il patetico connesso col timbro nasale dell’oboe. In un episodio centrale il discorso dello strumento a fiato, accompagnato da percussioni della chitarra battuta sulla cassa, si fa un po’ frastagliato e capric cioso, quasi seguendo l’esempio della musica di flau to solo. Ma presto l’oboe fa ritorno alla sua natura malinconica e meditativa, che però in questa serena composizione non degenera mai nella tristezza.
Music of gaity (1969). Incoercibile allegria e serenità di Maderna, nono stante la sua sentita partecipazione alla crisi del mon do moderno, nonostante l’oscura minaccia da cui era minata la sua salute. Una delle sue composizioni elet troniche si chiama Le rire, ed è una specie di grosso scherzo combinato nello Studio di Fonologia, con la complicità del tecnico Marino Zuccheri. Un’esplosio ne di allegria è, negli ultimi anni, il Satyricon, rap presentato in Olanda e poi, ormai postumo, alla Pic cola Scala, buffonesca operina teatrale tutta intessuta su una grossa grana parodistica, all’insegna del «La sciatemi divertire». A un ideale di felicità rinviano titoli come Tempo libero o come Music of gaity, mu sica di gaiezza, di giocondità: così battezzò Maderna una trascrizione per orchestra di cinque pezzi del Titzwilliam Virginal Book, celebre raccolta di musiche in
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glesi per strumento a tastiera dell’epoca elisabettia na. L’ascolto di questa garbatissima suite ci permette dì gettare almeno uno sguardo sopra un altro aspetto della personalità musicale di Maderna. Questo cam pione della più spericolata avanguardia era un inna morato di musica antica. Le sue numerose trascri zioni, tra cui YOrfeo di Monteverdi, hanno lo scopo di richiamare in vita grandi musiche del passato e di rimetterle in circolazione, riscuotendole dal letargo degli archivi. Sono come il risveglio di tante belle ad dormentate nel bosco: il formidabile mottetto In Ec clesia di Giovanni Gabrieli, la deliziosa suite stru mentale composta con frottole quattrocentesche, trat te dalla raccolta Odecathon di Ottaviano Petrucci; VOrfeo dolente, opera quasi sconosciuta del musici sta mediceo Domenico Belli; oltre a sei Concerti dì Vivaldi e al salmo Reatus vir. Ma nonostante l’esplicito scopo di riattivazione at tuale, in tutte queste trascrizioni la genialità artisti ca si accompagna alla scrupolosa sobrietà dello stu dioso. Ne fanno fede la proprietà stilistica e la rigo rosa correttezza fonica con cui vengono trasferiti dal la tastiera del clavicembalo ad un’orchestra da came ra, con violino ed oboe solisti, i cinque pezzi inglesi, rispettivamente del grande polifonista William Byrd, di un Anonimo che potrebbe forse essere il malinco nico e dolente John Dowland, dell’elegante e monda no virginalista Giles Farnaby, cui segue un’ampia Ga llarda Passamelo dello sconosciuto Peter Philips, e infine, ancora di Giles Farnaby, uno di quei pezzi clavicembalistici ch’egli intitolava curiosamente Hu mours, umori: forse qualcosa di corrispondente a quello che Vivaldi soleva chiamare «estro».
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'Ritratto di Erasmo (1969). La più sorprendente testimonianza del gusto cul turale di Maderna per la musica del passato è costi tuita da un grosso lavoro drammatico, scritto proba bilmente per un Prix Italia della Rai, che invece non gli diede pubblicità, probabilmente per la libertà tuttavia ortodossa — delle tesi storico-religiose in es so agitate. Il Ritratto di Erasmo, datato Darmstadt giugno 1969, è un lavoro di circa un’ora, recitato in modo ec cellente da numerosi attori. In esso si affrontano, con interventi diretti collegati dal filo d’una narrazione, i massimi protagonisti della Riforma: Lutero, Era smo, Ulrico di Hutten, Calvino. I discorsi dei singoli personaggi sono verosimilmente desunti dalle loro opere, e si può immaginare quale lavoro sia stato per Bruno immergersi in quei testi ponderosi, di solito riservati a pochi specialisti. Non è escluso che la gran de siccità produttiva del 1968 sia dovuta principal mente allo studio accanitamente condotto sui testi della polemica intorno alla Riforma. Bruno vi prende energicamente posizione contro le colpe della Chiesa di Roma, il mercato delle indul genze, la sopraffazione economica e politica delle po polazioni tedesche. L’ideale dichiarato è l’equilibrio umanistico di Erasmo (di cui era ricorso pochi anni prima il quinto centenario, del resto incerto, della nascita). Ma sembra di avvertire che le sue simpatie profonde vanno all’impetuosa natura di Lutero, il cui «pecca fortiter» doveva essere dottrina a lui ben con geniale. Tra l’altro viene ricordata, e sottolineata con grassocce polifonie di strumenti a fiato, la celebre
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sbornia presa a Francoforte, dove il campione della Riforma non disdegnò esibirsi nel canto e nel suono del liuto. La massima antipatia va al rabbioso mora lismo calvinista. Che ci fa la musica in questo dramma storico e ideologico? Una pura funzione subordinata ed evoca tiva: qualche occasionale sbaffatura elettronica, sot tofondi di voci, schiamazzi, ma soprattutto un cor redo ricchissimo, sbalorditivo, di musiche arcaiche, strumentali e vocali, profane e sacre: in quest’ultimo caso, veri e propri mottetti cinquecenteschi, fratelli gemelli di quell’io Ecclesiis di Giovanni Gabrieli, che egli aveva egregiamente trascritto con affetto di musico veneziano. Sono autentiche, cioè sue, queste musiche, o sono trascrizioni? Sul dattiloscritto è detto chiaro, nel ti tolo: «radiodramma, testo, musiche e regia radiofo nica di Bruno Maderna». Certo, il trompe l’oreille è riuscito in modo cosi perfetto che ingannerebbe il piu dotto musicologo. E a vederli immersi nel contesto di questo grosso lavoro dove Maderna riversò molte delle sue credenze più profonde, della sua fede uma nistica nella ragione e nella vita, questi rifacimenti arcaici prendono un altro suono e un’altra dimensio ne: non soltanto compiacimento estetizzante di abile gusto erudito, ma qualche cosa che pesca più a fondo nella coscienza dell’artista. Non meno a fondo, certo, che il gusto per il jazz e per la musica sincopata, di cui sprecava tanti squisiti gioiellini nelle colonne so nore fabbricate all’istituto di Fonologia, spesso a quattro mani con Luciano Berio, per drammi radio fonici altrui, sceneggiati e altri prodotti vari di con sumo. Come quel Cavallo di Troia, che Ugo Libera tore e Gastone da Venezia trassero dal romanzo omo
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nimo dell’americano Christopher Morley (tradotto da Cesare Pavese), al quale Maderna aveva fornito un divertente sfondo musicale nello stile dei «roaring Twenties».
vn. Il mito di Iperione
Ripetutamente s’è accennato, nel corso di queste trasmissioni, a quella vera e propria categoria della musica di Maderna, che chiamiamo l’ideale della me lodia assoluta, e al suo carattere un poco paradossale, quasi provocatorio: perché ostinarsi tanto a far «can tare» uno strumento, flauto o oboe che sia, e non quel naturale veicolo del canto che è la voce umana? Può essere una delle tante contraddizioni e frustra zioni in cui s’impiglia la condizione dell’uomo mo derno, un segno della crisi esistenziale. Ma per tutto viene il suo momento, e nell’arte di Maderna venne anche il momento del canto a piena gola, con la su perba aria per soprano contenuta nell’opera Hype rion. Strana opera, questa che venne presentata in ima prima versione a Venezia il 6 settembre 1964, e poi gli rimase a lungo sul telaio come un work in pro gress, continuamente ritoccato e arricchito di nuovi pezzi musicali. Purtroppo non è qui possibile offrirne un ascolto completo, come si è fatto per Don Perlimplino. Proprio perché non è un’opera concepita in senso tradizionale, con una vicenda, personaggi e sce ne, non ne è possibile un ascolto cieco, né bastereb bero le spiegazioni d’uno speaker a riassumere una trama che non c’è, perché si esaurisce appunto nel l’atto dell’esecuzione musicale. A Venezia l’opera veniva definita in cartellone:
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«lirica in forma di spettacolo di Bruno Maderna e Virginio Puecher con un testo di Friedrich Holderlin e fonemi di Hans Helms». Ossia, Maderna fornì al cuni pezzi musicali e un’idea teatrale, affidando il tut to a Puecher perché ne cavasse uno spettacolo. Ecco come il regista parla della singolare esperienza: Quando Bruno Maderna mi parlò per la prima volta della sua opera, non potei trattenermi dal consegnargli tut ta intera la mia fiducia. Si sa che in musica, in pittura, in teatro, le parole e le spiegazioni sono parafrasi di pensieri piu profondi e spesso usiamo parole da bambini per signi ficare cose da uomini. Dal primo abbozzo che mi descrisse scaturì subito, urgente, determinante, la necessità che un altro che non fosse lui credesse nelle stesse cose, credesse innanzitutto nel valore di operare insieme in vista, ai mar gini, di un prodotto che ne fosse la conseguenza umana e artistica. È la prima volta che un’esperienza di questo ge nere viene messa in opera, Maderna prestandosi come un fornitore di musica, io come un fornitore di immagini. L’insieme che ne è risultato, l’opera, è qualcosa di prema turo, forse, di spigoloso, di schematico. Ma ha il valore per noi di un alfabeto nuovo, di cui saremmo orgogliosi di aver almeno inventato la lettera a.
Che cos’era per Maderna questo soggetto poetico che lo accompagnò per tanti anni della sua vita arti stica? Lo disse lui stesso: «È il Poeta, che vive in compreso nel mondo e che a sua volta non compren de il mondo circostante. Due mondi, pertanto, ognu no un caos, eppure ognuno con un alto tipo di orga nizzazione». Dunque, la tragedia della incomunicabi lità, quell’esperienza dello straniamento nel mondo, del rigetto d’una società stravolta, che muoveva Hol derlin a vagheggiare la Grecia antica come il mito di un paradiso perduto, e che lo chiuse nella tragica de menza degli ultimi trentasette anni di vita. Ricordiamo di passata che Hyperion, oder der Heremit in Griechenland - Iperione, o l’eremita in Gre-
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eia - non è, come talvolta si crede, un poema mitolo gico sul personaggio che per Omero era l’incarnazione del Sole, bensì un romanzo d’argomento allora at tualissimo, sia pure in prosa altamente poetica: un romanzo diaristico, una specie d’autobiografia inte riore, incentrata nella crisi d’un giovane generoso che accorre a combattere per la libertà della Grecia con tro i Turchi, e nella sconfitta, poi nella perdita dell’a more di Diotima, vede crollare intorno a sé le ragioni del vivere. Deluso di tutto, si rifugia nella terra tede sca, barbara ma salubre antitesi dell’ideale ellenico, dove forse il suo spirito ritroverà fiducia nel senti mento panteistico della Natura. Crisi, dunque, dell’uomo moderno. Di un uomo moderno che ha, oggi, duecento anni, e che nasce dal pensiero di quel secolo critico per eccellenza che fu il Settecento. Come portare sulla scena questa parabola d’una crisi tutta interiore? Prescindendo, com’è ov vio, da ogni criterio naturalistico di verosimiglianza narrativa. Tre elementi costituiscono il cardine della rappresentazione, quale almeno fu attuata a Venezia: il Poeta, la donna da lui amata, e il mondo ostile. Il Poeta, a Venezia, non era né un cantante né un atto re, ma - secondo le moderne concezioni del teatro ge stuale, dove gli atti stessi del far musica diventano oggetto della rappresentazione - il poeta era Severino Gazzelloni: in sontuoso abito da sera, andava e ve niva sulla scena con studiati indugi, disponendo su un tavolino il suo favoloso flauto d’oro, l’ottavino e il grave flauto in sol. La donna era il soprano Caro line Gayer, e il mondo ostile era uno strano coso, una macchina gigantesca ideata dal regista, che conteneva 18 danzatori in abiti spaziali. Ogni volta che Iperione vuole dar di piglio al suo flauto e comincia il so lito repertorio di arabeschi, guizzi, volatine, insom
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ma, quella che il critico Mario Bortolotto chiama «la ben nota e da lungo tempo apprezzata GazzelloniMusik», da quella arcigna macchina gli suonano in contro feroci suoni elettronici, inarticolati brandelli di singole vocali e consonanti, ossia il montaggio so noro di fonèmi e morfèmi studiosamente elaborati da Hans Helms sulla base di suoni che s’incontrano nelle lingue arabe, nel tedesco, danese, inglese, fran cese, greco, ebraico, italiano, giapponese, spagnolo, gallese e specialmente cecoslovacco. La solitudine dell’uomo moderno, che non riesce piu a dominare la civiltà tecnologica da lui stesso pro dotta: ecco il tema dell’arte di Maderna, tragico tema a cui egli reagiva con l’allegria comunicativa della sua irresistibile spinta vitale. Ma era un’allegria che cela va quest’amara consapevolezza. Hyperion, l’opera a cui Maderna non cessò mai di pensare e di lavorare, e che per questo forse non può dirsi finita, Hype rion è il lamento su questa solitudine, trapiantato dal clima della cultura settecentesca e visto - come scrive un critico tedesco - con occhi del xx secolo, «come l’utopia di una Babilonia tecnicizzata, che può far pensare all’ottica del film muto Metropolis, di Fritz Lang». Hyperion è forse un torso incompiuto, un’opera problematica o piuttosto una proposta di opera get tata all’iniziativa d’un regista creativo. Ma ben com piuto e perfetto è l’a solo di soprano che la chiude - o almeno, a Venezia la chiudeva — con suoni ultraterreni. «Una vasta aria da concerto - scrisse Mario Bortolotto - di schietto stampo viennese. Un richia mo irresistibile ha per Maderna il Vino berghiano, e a sua gran lode diremo che egli ritrova davvero qual cosa di quella straordinaria, e perenta, stagione mu sicale».
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Il richiamo all’aria da concerto Der Wein, di Al ban Berg, invita a mettere a fuoco la collocazione sto rica dell’arte di Maderna: da una parte, con la speri mentazione elettronica, di cui fu pioniere, e con ope re spregiudicate come la Serenata per 11 strumenti e il Concerto per pianoforte, egli stava in prima linea tra coloro che sbloccarono il linguaggio musicale con temporaneo dalla impasse dodecafonica; d’altra par te, nelle opere di vasto respiro, che diventarono la norma nei suoi ultimi anni, rifluiva in lui dal profon do il patos di un espressionismo per nulla affatto esaurito e perento, secondo le liquidazioni frettolose d’un costume artistico che presume di consumare gli stili in stagioni di moda sempre più brevi e ravvici nate; ma certo, un espressionismo rinnovato attra verso il vaglio della propria personalità e della pro pria formazione culturale, storicamente diversa da quella che aveva plasmato i viennesi dello SchònbergKreis. È quanto intese benissimo Petrassi, che così si espresse, a proposito dell’aria di Hyperion, in un’in tervista con Bortolotto: «Per mio conto, ci sono sem pre possibilità di recuperare comportamenti musicali lasciatici dalla tradizione. Il punto è sempre uno so lo: accettare la tradizione attiva e rifiutare quella pas siva. Ad esempio, l’arioso di Hyperion, di Bruno Ma derna, è evidentemente un recupero tradizionale, ma si presenta non come un ricalco, bensì come una riin venzione, mediata sia pure attraverso la scuola vien nese». Accostiamoci dunque a questa grande pagina vo cale, nella quale purtroppo è requisito indispensabile la percezione del testo tedesco, poiché la parola - si gnificato e suono - e l’immagine musicale si fondono inestricabilmente secondo la più alta tradizione del canto espressivo di tutti i tempi. Nell’impossibilità
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di recitare tutto il lungo testo, se ne ascolti almeno l’inizio, per potersi rendere conto del clima poetico in cui è germogliata l’invenzione musicale. Il passato mi stava dinnanzi come un immenso, spaven toso deserto e con accanimento feroce strappavo e distrug gevo ogni traccia di ciò che un tempo aveva lenito e innal zato il mio cuore. Poi mi rialzai con una feroce risata di derisione per me stesso e per tutto, ne ascoltai con gioia l’eco spaventosa, e l’ululato degli sciacalli, che attraverso la notte mi assaliva da ogni lato, fece veramente bene alla mia anima distrutta.
A questo punto un esteso intermezzo orchestrale prepara il clima dell’episodio che segue: «Una calma sorda, spaventosa seguì a queste ore strazianti, una calma di morte...» E la voce prosegue nella sua meravigliosa escursione, alternando tutti gli stili, dallo Sprechgesang al canto liricamente spiega to, e toccando le più vertiginose altezze quando s’In terroga «l’imperscrutabile Natura» e si evoca con no stalgia Diotima, la «celeste creatura non inaridita, perché portava ancora nel cuore il cielo e non aveva perduto se stessa». La conclusione suona: «Sta bene il mio cuore in questo crepuscolo. È esso forse il nostro elemen to, questo crepuscolo? » Maderna ebbe evidentemen te due idee per questa chiusa. Nell’esecuzione vene ziana la domanda viene recitata drammaticamente, con voce spenta, di sconsolata stanchezza. Nella par titura, invece, la chiusa dovrebbe essere cantata pia nissimo, sopra i suoni di tre flauti, che si estinguono in modo immateriale.
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Gli Intermezzi corali di Hyperion.
Come s’è detto, Hyperion fu il perenne work in progress di Maderna. Questa visione dolorosa dello scollamento tra l’uomo e la civiltà da lui prodotta lo accompagnò per molti anni, germogliando in sempre nuove invenzioni musicali, di cui è perfino difficile, al momento attuale, stabilire l’esatta configurazione. Nel catalogo delle opere di Maderna va sotto il tito lo di Hyperion una partitura duplice, composta delVAria per soprano, ora sentita, e di un pezzo per or chestra e flauto solista intitolato Dimensioni III. Un Hyperion II aggiunge ai due nuclei suddetti le Ca denze per flauto solo, inserite tra Dimensioni III e VAria. Infine come Hyperion III viene designato l’in sieme di Dimensioni III e Aria per soprano, senza le Cadenze per flauto, ma con l’aggiunta di Stele per Diotima, vasto lavoro sinfonico del 1965, della du rata di 25 minuti, per grande orchestra con una ca denza per quattro strumenti solisti: violino, clarinet to, clarinetto basso e corno. Nessuna di queste versioni prevede l’uso del coro. Invece siamo venuti in possesso, per gentile conces sione di Cristina Maderna, vedova del compositore, della registrazione d’un concerto diretto da Bruno con l’orchestra sinfonica della Radio di Berlino, il 13 maggio 1969: cinque anni dopo l’esecuzione venezia na di Hyperion. Questo concerto si chiudeva con l’Urauffiìhrung, prima esecuzione assoluta, d’una Suite aus der Oper Hyperion, nella quale spiccano due grandi e sorprendenti episodi corali. Sorprendenti, perché Maderna, a differenza di Nono, non praticò assiduamente la scrittura corale: l’orchestra era il suo regno e il suo campo di battaglia preferito. Perciò l’a
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scolto di questi due pezzi, che costituisce in Italia una primizia, riveste un interesse eccezionale, ponendo l’arte di Maderna in contatto con uno degli indiriz zi più validi della moderna musica italiana: quello del cosiddetto neomadrigalismo, ossia dell’espressio ne corale, con o senza concorso di strumenti. Il testo dei due episodi - di cui non è disponibile la partitura - si vale certamente di due poesie di Hol derlin, una delle quali non siamo riusciti a individua re, e la seconda è - o sorpresa! - quel Hyperions Schicksalslied, quel Canto del destino di Iperione che forni il testo d’una delle più nobili invenzioni sinfonico-corali di Brahms. È la rivendicazione del valore e del travaglio dell’uomo in antitesi alla pigra beati tudine dei celesti, che respirano lassù, nella luce del l’empireo, «senza destino, come lattante che dorma», sfiorati da molli brezze divine. «Ma a noi - cosi suo na l’ultima delle tre strofe nella traduzione di Gior gio Vigolo - a noi non è dato posare. In nessun luogo posare. Dileguano, cadono soffrendo gli uomini alla cieca, da un’ora all’altra, come acqua da scoglio a sco glio gettata, per anni nell’incerto giù». La scrittura corale risulta estremamente differen ziata, e va da estremi di suddivisione polifonica alla compattezza di momenti nei quali il testo viene silla bato secondo la tecnica del coro parlato, con iroso so stegno di percussione: la disperazione dell’uomo e il coraggio della sua sfida sembrano i poli espressivi della composizione. Non siamo poi tanto lontano dai toni dell’accorato stoicismo brahmsiano, ma in un clima di più scatenata violenza e provocazione so nora.
• BRYNLTU CSC
i-3. Il fanciullo prodigio e l’alpino.
4. Con Sirchler. (Foto Cera). 5. Con Amadeus Hart mann.
6-7 > Con Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen. (Foto Hans Kenner).
Con Fari Brown, il dottor Steinecke, Severino Gazzelloni c Pierre Bou lez. 9. Con Cristina e Luigi Nono. (Foto Cameraphoto). 8.
io. Con Emilio Vedova c Cristina. (Foto Cameraplioto).
u. Con Gianfrancesco Malipiero. (Foto Ferruzzi). 12. Con Gazzelloni, Anita Lupi, Eduardo De Filippo e Cristina, dopo la prima di Hyperion, Venezia 1964.
13-14. Il direttore. (Foto Pit Ludwig).
15. 16. 17.
Con Gyòrgy Ligethi. Con Jacques Parrcnin. (Foto Pii Ludwig). Con Maurice Bcjart, Paolo Grassi e Massimo Bogiankino, Scala 1972. (Foto E. Piccagliani).
18-19- In Olanda. In basso, con Luciano Berio. (Foto Gisela Bauknecht).
20. Con la moglie e i figli a Darmstadt. (Foto Pit Lud wig). 21. Conoscenza con Cristina, Darmstadt 1951.
22. Con Cristina, il giorno in cui fu conosciuta la diagnosi della malattia. (Foto Maria Austria).
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unseitw Honta leAn con
amicizia
25. Serenata per un satellite. (© 1970 G. Ricordi e C. s.p.a., Milano).
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24. Ultima pagina della partitura di Ausslrahlung. (© T975 G. Ricordi c C. s.p.a., Milano).
Familienbucl
Familienname v. d. Eheschl. Vornamen
Maderna
Bruno Professor,
Komponist und Dirigent
Beruf
21 .April 192O
Geburtstsg
Venedig - -------------------------------- ------ ---------- —
Geburtsort
V e ne d i g Teil II,Serie B,Nr.7Q/l9?O
Standesamt, Nr.
Hciraiseintraq
Grundlage der Einlragung
Italien laut italienischem ReisepaB^r. 2025045-P, ausgestellt am 14. Seb^mber
1965 von der Polizeibehorde in/V 28.4.1972. Der Standesbeamtev
8. lod _ jag, Ori, Siandesamt und Nr., lodeserklarung, Fcslslelluno der lode Scheldung, flulhebung. Michligkell, Feslslelluno des llchlbcslehens dei Ehemann" vers'tOi’ben am 13- November I973 inDarmstadt, St.Amt Darmstadt Nr. 1955/1973»I 26.11.1973. - Der Standesbeamte ----------i I • V. «.■ «-—(1t«1 una specie di doppio concerto per flauto e oboe con orchestra, nel quale Maderna riunì i due strumenti a fiato che lungo tutto il corso della sua esperienza artistica ave vano sollecitato la sua vena di phonascus, ossia di melodista assoluto. Nel 1970 Maderna compiva cinquant’anni e l’obo ista Lothar Faber pure; Gazzelloni li aveva compiuti l’anno prima. La Grande Aulodia è un poema del l’amicizia. Un giorno, in un’intervista francese, Ma derna ebbe a dire che l’arte, per fiorire, ha bisogno di libertà, come l’amore. La Grande Aulodia ne è il con seguimento definitivo. Libertà di che cosa? libertà da che cosa? Libertà del canto da ogni considerazione estranea alla comunicazione degli affetti espressivi. Il canto zampilla come un fenomeno naturale, affran cato da tutti gli ostacoli della materia strumentale e della tecnica compositiva, e soprattutto da ogni par tito preso di problematicità. Negli ultimi anni della sua carriera compositiva Maderna, instancabile spe rimentatore, curioso di tutti i fenomeni del suono, non fa piu parte degli artisti che cercano: appartiene
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alla categoria degli artisti che trovano. Naturalmen te e spontaneamente trovano. Di qui lo scandalo a ro vescio che - come s’è già ricordato nella prima di que ste trasmissioni — la Grande Aulodìa produsse al Fe stival di Royan del 1970, nell’ambiente di quegli ar tisti che cercano sempre e non trovano mai niente: «Non è musica d’oggi, è musica dell’altro ieri! » Pro vocava, e quasi offendeva la gradevolezza del risulta to sonoro di una partitura che all’apparenza ha le qua lità della più avanzata sperimentazione, e all’atto pra tico produce - come fu detto con finezza - una mu sica-sentimento, una musica-istinto, una musica-na tura. La pagina scritta può sembrare sconcertante, con le sue fratture, le sue divisioni in blocchi ripetibili, gli episodi della percussione spesso consegnati a dise gni gestuali, destinati cioè a suggerire il modo dell’e secuzione. In particolare emerge dalla scrittura quel la tecnica aleatoria che ormai Maderna, compositore ed esecutore di se stesso, aveva perfettamente messo a punto: l’alea, cioè la casualità, non riguarda l’inven zione delle note, ma soltanto i modi di esecuzione e soprattutto la varia distribuzione e combinazione di gruppi e frammenti orchestrali intorno al canto dei solisti. Ecco un’istruzione esecutiva, contenuta in una pa gina della Grande Aulodìa, che vai la pena di riferi re per dar l’idea di questa tecnica aleatoria che Ma derna potè mettere a punto grazie alla sua esperienza di direttore d’orchestra, e che ormai estesa presso tut ti i compositori d’avanguardia propone una nuova misura della musica, o per lo meno un nuovo rappor to tra la pagina scritta e il risultato. «Questa pagina può venire organizzata in modi diversi. Sempre a scel ta del direttore e dei solisti si può: 1 ) lasciar suonare
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il solo ottavino; 2) far suonare l’ottavino solista ac compagnato da uno o più strumenti» (precisiamo, a scanso di equivoci, che quello che questi strumenti debbano eventualmente suonare è scritto esattamen te in sezioni aleatorie ripetibili e combinabili a vo lontà). «3) Far suonare solo alcuni strumenti più gra vi (nella parte B) e poi ripetere con gli strumenti acu ti (nelle parti A, C, D)». Da un certo punto a un certo altro punto della partitura «si può suonare tut to staccato oppure legato, oppure misto, pianissimo fino a fortissimo. La durata è ad libitum e può prepa rare l’avvento delle sezioni prossime come far pezzo a sé. In questo caso si possono introdurre pause ge nerali o particolari ove si voglia. Si può inventare (da parte degli esecutori) uno stile parlato inventando un fraseggio facilmente suggeribile dal materiale a dispo sizione». Le scelte implicite in queste prescrizioni sono affi date alle decisioni estemporanee del direttore d’or chestra, e per quanto le istruzioni possano essere va lide a permettere nuove applicazioni da parte di di rettori particolarmente versati in questo genere, tut tavia il fatto che Maderna fosse il direttore della pro pria musica presta a questi nastri, che qui veniamo presentando, una pungente drammaticità e impone - vorrei qui suggerire - la loro accurata preservazio ne, trattandosi di documenti unici, destinati a far te sto contro la caducità della tradizione esecutiva. L’in sufficienza della notazione musicale rispetto al risul tato sonoro è un fatto incontrovertibile anche nel ca so d’una Suite di Bach o d’una Sinfonia di Beethoven. Figurarsi in questo tipo di musica dove si richiede espressamente l’iniziativa aleatoria dell’interprete!
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Serenata per un satellite (1969).
Un gustoso saggio della tecnica aleatoria di Ma derna è la piccola Serenata per un satellite. «Possono suonarla - cosi indica la partitura - violino, flauto (anche ottavino), oboe (anche oboe d’amore — an che musette), clarinetto (trasportando naturalmente la parte), marimba, arpa, chitarra e mandolino (suo nando quello che possono, tutti insieme o separati o a gruppi, improvvisando insomma, ma! con le note scritte». La composizione è dedicata al torinese Um berto Montalenti che nel 1969 dirigeva a Darmstadt il Centro Operativo Europeo di Ricerca Spaziale. Nel la sua vivacissima curiosità intellettuale, Maderna era sempre piu intrigato da quelle operazioni stregone sche, finché ne nacque questo progetto di composi zione: un reticolato di moduli musicali, notati sulla pagina per dritto e per traverso, incrociati, storti, ma con indicazioni esecutive di assoluta precisione, e af fidati alle combinazioni estemporanee, o pre-elaborate, degli interpreti. Un lavoro di questo genere di pende quindi interamente dall’estro d’una serata di vena, e quando l’esecuzione raduna i virtuosi che a Bruno furono artisticamente vicini, come Gazzelloni e Faber, ne esce un piccolo capolavoro di umorismo, una specie di Siegfried-Idyll spaziale per salutare la nascita del satellite, visto, o piuttosto sentito dall’in coercibile ottimismo del compositore come un picco lo coso buffo, una specie di gnomo bizzarro e bene fico.
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La Grande Aulodìa (1970).
Ma veniamo infine ad una breve descrizione e poi all’ascolto della Grande Aulodia. L’orchestra, vastis sima, posa sulla solita base, cara a Maderna, di tre orchestre d’archi manovrate con indipendenza (6 vio lini, 3 viole, 3 violoncelli, 3 contrabbassi per ciascu na). Sterminata, come al solito, la percussione, e ric ca di tutte le varietà possibili di arnesi da percuotere con bacchette o con martelli o con le mani, o da agi tare o da sbattere. La massa dei fiati, pur essa vistosis sima, comprende anche flauti ed oboi, cioè gli stru menti omologhi dei solisti, i quali a loro volta impie gano tutte le varietà possibili dei loro strumenti, e cioè: oltre al normale flauto in do, anche l’acutissimo e sibilante ottavino, e il grave flauto in sol; oltre al l’oboe, il corno inglese, l’oboe d’amore, e la musette, con le due diverse imboccature, la dolce e la dura, che ne modificano il timbro. Grosso modo, e sebbene non ci siano interruzioni né separazioni di parti distinte, sembra di poter indi viduare sette episodi concatenati nel corso dell’ampia composizione, della durata di circa 25 minuti. Una specie di prologo per i due solisti, senza or chestra, viene avviato dall’oboe, che tiene, il più a lungo possibile, l’Ur-Ton, cioè la nota originaria, il la naturale. Quando questo si spegne, viene assunto dal flauto, crescendo fino al fortissimo. Poi l’oboe sale d’un semitono, il flauto d’un tono, e così via: come animali appena ridesti, i due strumenti sembrano sti rarsi lentamente le membra, finché tocca all’oboe d’a more disciogliere un sinuoso discorso melodico, che si chiude con un trillo. Qui - episodio 2 - subentrano le tre orchestre
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d’archi, in un pezzo di ritmo ternario, contrassegnato come «wienerisch». Dire «wienerisch», in musica, non è la stessa cosa che dire viennese. L’aggettivo «wienerisch» evoca lo spirito godereccio della città del valzer, con un sottofondo di amarezza grasso e pa stoso, qualcosa che sa di birra e in fondo, con una cu riosa contraddizione geografica, è più bavarese che elegantemente viennese. È Vienna, insomma, ispessi ta attraverso la lente deformante di Richard Strauss, e poi coinvolta nella disperazione espressionistica: Al ban Berg, vecchio e mai smentito amore di Bruno, il Concerto per violino, quei ritmi di valzer pesante mente impastati nel grassume d’un’orchestra rauca e attaccaticcia, che evocano l’immagine di un angelo prigioniero nel fango. Tutto l’episodio degli archi viene ripetuto in sor dina, «pianissimo ma molto espressivo, e sempre wie nerisch», rallentando il tempo, molto rubato, a mi sura di valzer inglese o - come spiega Maderna - di hesitation. L’effetto è di malinconia struggente. Il ritmo viennese di 3 /8 persiste anche nell’episo dio seguente, che vede il flauto in mi bemolle e poi l’o boe d’amore dialogare curiosamente coi violoncelli, poi anche con le viole, delle tre orchestre d’archi. Il contrasto tra gli aerei «svolazzi dei due solisti e la pe santezza degli archi gravi conferisce a tale episodio chiara funzione di scherzo. La sua leggerezza viene in franta brutalmente da un’entrata violenta dei corni, tosto echeggiati dagli altri fiati e dalle orchestre d’ar chi. È l’inizio del quarto episodio, quasi militaresco, simile a una battaglia negli squilli aspri dei corni e nei durissimi colpi della percussione. Finisce, questo episodio, con un rallentando dei fagotti e clarinetti bassi, che strisciano serpeggiando, come grossi rettili. La quinta sezione, avviata da un
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preludietto di marimbe e xilofoni in stile di gamelan giavanese, consiste nelle cadenze dei solisti (l’ottavi no, poi flauto in sol, quindi la musette\ intrammezzate ad libitum da blocchi orchestrali che il direttore può distribuire come vuole, e che affrontando il canto dei solisti, quasi delimitandolo e contendendogli il terreno, richiamano forse lontanissime ascendenze strawinskyane (il Gioco delle città rivali nel Sacre du printemps). Si aggiungono anche fantasiosi intermez zi di percussione, fino a raggiungere quello che Ma derna chiama «un massimo di eterofonia», cioè di differenziazione sonora, diciamo pure di confusione. Ecco allora fiorire da questa il canto «suadente» e «galante» (sono aggettivi di Maderna) del flauto so lo, in una cadenza a cui, per quanto breve, vogliamo attribuire importanza di episodio autonomo. Dopo le estreme, capricciose piroette del flauto, l’orchestra, che aveva taciuto, subentra in una lunga fascia di no te tenute, sul cui sfondo i due solisti, ormai appaiati stabilmente, conducono il loro ultimo e lungo canto, simile ad un’ispirata diafonia, o «dialodia», secon do il titolo d’una delle ultime composizioni di Ma derna, per due flauti soli. È un esempio classico di quella «fine per evaporazione», che abbiamo cono sciuto, nel corso della scorsa trasmissione, in Qua drivium.
Il Giardino religioso (1972). Ovvie analogie d’organico strumentale vorrebbero che alla Grande Aulodia per flauto e oboe si accom pagnasse l’ascolto del terzo ed ultimo Concerto per oboe. Ma, a parte il fatto che questa è forse l’ultima composizione di Maderna, banali ragioni di minutag-
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gio e di equilibrio nella distribuzione dei programmi ci costringono invece a passare qui una composizione per orchestra, scritta nel 1972 e intitolata Giardino religioso. Sembra che la ragione di questo singolare titolo sia la seguente: il pezzo era stato ordinato a Maderna da un mecenate americano di nome Fromm, che in tedesco vuol dire «pio», «devoto». Maderna voleva intitolare il pezzo Yromm Garden. Avendo il personaggio declinato tale eccesso di pubblicità, Ma derna tradusse in italiano: Giardino religioso. Uno scherzo, dunque, nulla più che un gioco di pa role. E tuttavia il titolo sembra proiettare sul lavoro una luce di serenità, una specie d’innocenza dalla qua le sono banditi i ricordi dell’affanno espressionistico, cosi frequenti nell’arte di Maderna: niente di vien nese, niente Alban Berg. E d’altra parte non siamo nemmeno nella categoria della melodia assoluta, per ché qui non ci sono strumenti solisti: si tratta, se co si si può dire, d’un quadro sinfonico, sia pure per un’orchestra da camera, composta di io archi, 2 cor ni, 2 trombe, 2 arpe, 2 pianoforti, celesta e una mode rata sezione di percussione. La composizione dura poco più d’un quarto d’ora e consta di tre pannelli, due dei quali, quelli esterni, sono affidati alla tecnica d’improvvisazione control lata che Maderna porta qui ad un livello di suprema finezza; essi racchiudono un nucleo centrale, scritto invece in forma obbligata. Aprono la composizione gli archi, trattati separatamente come strumenti sin goli: uno alla volta i 6 violini, poi le 2 viole, il violon cello e da ultimo anche il contrabbasso cominciano a suonare certi frammenti tratteggiati nella partitura: chi fa un trillo, chi un tremolo, chi emette armonici, chi produce disegnini e scalette, interpolando pause a piacere. Nelle istruzioni per l’esecuzione Maderna
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spiega: «è come un risveglio di uccellini», e con que sta candida precisazione è stabilito il clima generale del lavoro. A un certo punto, a giudizio del direttore, entrano anche le due arpe, «suonando e risuonando a piacere le varie strutture» che sono a loro assegnate. È una vera e propria introduzione, simile a un brusìo diffuso, in cui entreranno da ultimo anche le due trombe con sordina, molto sommesse e mimetizzate nella sonorità complessiva. Con un colpo di triangolo il direttore dà il segnale di inizio alla improvvisazione dei due pianoforti, che esegui ranno i frammenti sparsi nella pagina in ordine qualsiasi; dapprima indipendenti uno dall’altro, poi via via rispon dendosi, imitandosi, contrastandosi. Nel frattempo il di rettore scenderà dal podio e si recherà a suonare (con le sole mani) le due congas poste davanti al suo leggìo. Dopo un certo tempo, come eccitati dalle congas, i due esecuto ri di timpani incominciano a rispondere, dapprima timidi, poi sempre più aggressivi.
La lunga didascalia di Maderna, che abbiamo qui citato, descrive esattamente il carattere di questa im provvisazione dei pianoforti, che partendo da frasi staccate s’ingarbuglia sempre piu, come un gomitolo di suoni, coinvolgendo sempre più intensamente la percussione, e da ultimo anche le trombe e i corni, che se ne escono in un’alta proclamazione. Si apre allora un nuovo episodio, che comincia con un liquido e delicato tintinnio di celesta, triangolo, campanelli, crotali e arpe, in funzione preludiante. Veri protagonisti del nuovo episodio sono gli archi, che entrano uno alla volta, quasi con timidezza, e pro ducono una fascia sonora sempre più spessa, di fred da e siderea serenità, tale da far pensare a certe atmo sfere ghediniane. Tutto ciò sullo sfondo persistente di arpe e percussione, che continuano la loro improv visazione quasi sgocciolando, sostituite poi da ricchi
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accordi dei due pianoforti in posizione acuta. Gli ar chi ripetono liberamente le loro figurazioni, «sem pre diminuendo, fino a sparire», e li sopra il direttore improvvisa la chiusa con le trombe e il contrabbasso, indicando con le dita i numeri dei frammenti facolta tivi assegnati a questi strumenti nell’ultima pagina della partitura. L’esecuzione che verrà ora trasmessa di Giardino religioso presenta un’interessante qualità, e cioè è sta ta realizzata da un gruppo strumentale autonomo, senza la partecipazione di Maderna, e senza che nem meno fosse stato possibile prendere conoscenza del la registrazione d’un’esecuzione sua: costituisce per ciò un confortante documento circa la possibilità di avvicinarsi alle intenzioni dell’autore attraverso i se gni della notazione aleatoria.
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Anarchia e allegria
La grande stagione creativa di Maderna si comple ta con due lavori che non siamo in grado di fare ascol tare: Ausstrahlung (cfr. sopra, pp. 79-82), scritta nel 1971 su testi di poeti persiani per voce femminile, flauto e oboe obbligati, grande orchestra e nastro ma gnetico, ed eseguita al Festival di Persepoli; e Biogrammo^ per grande orchestra, commissionato nel 1972 dall’Eastmann’s School of Music per il ^o° an niversario dell’Università di Rochester. Accanto a questi lavori di massimo impegno, Ma derna veniva continuando una sua vena che si po trebbe dire, piuttosto che minore, privata e scherzo sa. L’esempio piu importante è l’opera buffa Satyricon> eseguita per la prima volta in Olanda e poi - pur troppo già postuma - alla Piccola Scala nell’autunno del 1973. A questa vena ridanciana, impastata di pa rodia, si collega spesso la fedeltà di Maderna al mezzo elettronico, frequente occasione di grosse burle e di allegre combinazioni in studio, con la collaborazio ne dell’insostituibile tecnico Marino Zuccheri, vene to pure lui, al quale è dedicato il grosso pasticcio comico-elettronico intitolato Le rirey del 1964. Allo stesso genere appartiene un’altra composizione elet tronica del 1971, che porta il titolo significativo di Tempo libero. Tempo libero, cioè vacanza: l’ideale e il sogno di
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Maderna, che avrebbe voluto godere della vita come d’una lunga, spensierata vacanza, e invece di tempo libero non ne ebbe mai, e le vacanze non sapeva nem meno dove stessero di casa, sempre alle prese con gli orari delle ferrovie e degli aerei, con le prove d'or chestra, con gli spettacoli teatrali. Come quella volta a Milano che in una stessa sera diresse un concerto al Conservatorio e Didone ed Enea alla Piccola Scala, e in teatro - terminata la prima opera ch’era stata di retta da Berio - scrutavano ansiosamente nella ressa della strada l’arrivo del taxi col direttore in frac, la bacchetta in mano, già bell’e pronto per correre sul podio.
La Juilliard Serenade e Tempo libero II ( 1971 ).
Entrano in Tempo libero ogni sorta di suoni, schia mazzi, frasi pronunciate ad alta voce da Maderna stes so e dai suoi collaboratori, brandelli di vita privata appuntati lì, sul nastro magnetico, come certi pittori appiccicano in un quadro il biglietto del tram o le mu tandine della loro signora. Maderna si divertiva un mondo a combinare queste farse elettroniche, ed era candidamente convinto che fosse pari il divertimento dell’ascoltatore. Il lato sereno, scherzoso della sua ar te si era fin dal principio manifestato nella categoria della Serenata, ed infatti, sempre nell’anno 1971, ec co spuntare una Juilliard Serenade, per la famosa scuola di New York, vera fucina di musica nuova, tanto a livello esecutivo quanto a livello di composi zione. Dev’essere cosa graziosissima, questa Juilliard Se renade, nella sua audacia aleatoria di blocchi libera mente combinati, nella pungente precisione della sua
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orchestra da camera, fatta di strumenti singoli: un violino, una viola, un violoncello, un contrabbasso e via dicendo. Dico «dev’essere», perché, oltre ad es sere affidata all’iniziativa estemporanea del direttore, «il quale, durante il periodo di prova, dovrà sentire il desiderio e la necessità formale di accostare, so vrapporre, articolare il materiale sonoro a sua dispo sizione», la Juilliard Serenade può anche essere, fa coltativamente, accoppiata al nastro di Tempo libero, dando luogo a una terza composizione che si chiama Tempo libero II. Cosi la presentiamo ai nostri ascol tatori, i quali pertanto, insieme con le note della par titura - esitanti frasi di flauto, spavaldo piglio acro batico del violino acutissimo, gravi fanfare di fiati — sentiranno il consueto arsenale dell’umorismo elet tronico di Maderna: fragori catastrofici di demolizio ne, risatine e cachinni di streghe, parole in libertà, come: «cibernetica» o «fertility», una voce di bam bina che dice: «Non sono mica una bugiardina», e la grossa, buona voce di Maderna che dice: «MI mangio la torta e parto giovedì». Incidentalmente notiamo che il materiale elettronico di Tempo libero viene usa to dall’oboista Lothar Faber come sfondo dell’esecu zione di Solo, un pezzo per musette, oboe d’amore, oboe e corno inglese, naturalmente alternati, perciò un tipico saggio di «melodia assoluta», largamente aleatorio, e nel quale il corredo, non previsto né nel titolo né nella partitura a stampa, del nastro magne tico può agire come il consueto elemento di disturbo, di irruzione del mondo esterno nel canto solitario del poeta, rappresentato dallo strumento solista. Che ta le impiego del nastro di Tempo libero fosse da Ma derna previsto e prescritto, lo prova il testo del pro gramma di un’esecuzione francese di Solo. Vi si leg ge: «Solo è scritto per oboe e nastro magnetico. L’o
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boista propone una serie di strutture che contrastano con la registrazione elettronica. Quando ha terminato la sua parte, può improvvisare reagendo in rapporto al nastro, essendo questo da considerare come uno stimolatore». Martine Cadieu ebbe a scrivere, in oc casione di questa esecuzione: «Questo è quel che leggo nel programma. Sento a tutta prima quei canti così freschi, un po’ bucolici (che regnavano già nel Concerto per oboe), fantasiosi, liberi, e poi tutto a un tratto, nel bel mezzo d’una frase malinconica, smarrita, lo scoppio abbagliante di risa di bambini, di chiacchiere, di giochi. Una presenza inattesa, pie na di calore. Riconosco la voce dei bambini di Ma derna, la voce di sua moglie Cristina, e poi la sua, grossa, grave. Strauss aveva scritto una Sinfonia do mestica,.. Quella di Maderna fa sorridere e ridere il pubblico: un soffio di vita, irresistibile. Eppure è un riso che si raggrinza un poco... C’è talvolta un attimo di angoscia dove si sente che quest’allegria potrebbe naufragare, che l’assurdo, la crudeltà esistono. Ma la fiamma si ravviva, quella punta amara viene annegata in una felicità clamorosa! Bruno Maderna riscalda e ravviva tutto ciò che tocca». Ed è vero che in questa funzione di contrasto l’u morismo elettronico di Tempo libero agisce felice mente. Da solo, come un pezzo in sé compiuto, l’esito dell’ascolto può riuscire meno soddisfacente. So bene che questa notte Bruno verrà a tirarmi per i piedi sotto le lenzuola e mi dirà: «Cosa? no te piase Tem po libero? O critico de l’ostrega! e magari te piase el Quintetto de Schonberg o VIfigenia de Pizzetti! » Perdonami, caro Bruno, e non prendertela. Tu, che sapevi di latino, sai pure che non omnes omnia possumus. Non tutti possiamo capire tutto. A me le tue farse elettroniche - specie di primitive saturae, di
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atellane, di versi fescennini fabbricati con l’interven to della tecnica più evoluta - non mi riuscivano a di vertire a lungo. In queste cose, la festa è tutta per chi le fa. Chi ascolta solamente, si sente escluso. Ma bada che capisco perché le facevi, queste cose, e forse sono in grado di suggerire a te stesso qual è il loro signifi cato storico, quale la loro importanza. Senza saperlo, senza neanche immaginartelo, in questi tuoi strampa lati minestroni elettronici tu davi vita di suoni a una corrente, a una tendenza, chiamala come vuoi - il no stro amico Nono direbbe: un’ideologia - che oggi, piaccia o non piaccia, conta molto ed è uno dei tratti distintivi del nostro tempo: l’anarchia. Tu, caro Bru no, eri un anarchico che s’ignora, o meglio, non t’i gnoravi affatto, se in una delle tue interviste tedesche hai detto: «L’uomo - non come quantità, come mas sa — ma come singolo deve avere diritto alla vita, e noi dobbiamo lottare per un mondo ideale, dove ci sia posto anche per il veggente, anche per il precur sore, e poco importa se è un anarchico». E ora che ci penso, questo è il significato della tua presenza nella musica contemporanea: l’anarchia, la rivincita dell’a narchia dopo la ferrea disciplina della serializzazione integrale nel postwebernismo. Ma siccome nella Sto ria nulla va perduto, il tuo superamento del postwe bernismo ne è anche un’assimilazione definitiva e i tuoi grandi lavori — da Quadrivium ad Aura, da Iperione alla Grande Aulodia — mostrano il genio strut turale nell’apparente libertà di quell’alea controllata che tu avevi forgiata e messa a punto. È lì, in quei capolavori d’ingegneria musicale, ingegneria libera, spregiudicata, senza la pignoleria del Quintetto a fiati di Schonberg, del cui finale ci facevamo beffe insie me - ti ricordi? - a Darmstadt, è lì che il mio gusto sprovveduto di ascoltatore trova il suo pro. L’anar-
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chia a me non piace, cosa vuoi farci, ma a volte mi piacciono gli anarchici: certi anarchici, come te, gli anarchici-muratori, che sanno costruire. Tu sei quel lo che ha fabbricato quel prodigioso meccanismo del Quartetto in due movimenti, in cui il secondo è lo specchio esatto del primo, e tu sei quello che diceva in un’intervista: «La peggior cosa che ci sia nel mon do è la coerenza. Odio di essere coerente, perché è una cosa mortale».
Il Venetian Journal (1972).
Uno dei documenti più godibili del buonumore di Maderna è una curiosa composizione americana che si chiama Venetian Journal, di cui sarebbe interessan te conoscere in quali circostanze e da quali sollecita zioni sia nata. È una cantata, se così si può chiamare, per tenore, orchestra e nastro magnetico. Un tenore che, oltre a saper cantare, sappia anche fare amabil mente il buffone. Il testo, del commediografo Jonathan Levy, è un monologo messo in bocca a James Boswell, il lettera to e studioso inglese del Settecento che rimase cele bre per la sua Vita di Samuel Johnson. Boswell fece quello che allora si chiamava il Grand Tour, cioè il viaggio in Europa, e viene qui colto a Venezia, men tre si sforza di fissare le sue impressioni, sempre com battuto e tentennante tra le tentazioni d’ogni genere che l’Italia gli offre, e i propositi moralistici di can giar vita. Si è trattenuto a Venezia una settimana più di quanto voleva, «in parte per affari d’amore, in par te per vedere una grande opera che si deve eseguire domani». E a questo punto intona La biondina in gondoleta con accompagnamento roteante di arpa e
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interludi di corno. Poi va in sollucchero pensando a una certa Madame Micheli, definita «spiritosa» e «appetissante». Gli strumenti solisti che di volta in volta accompagnano lo sdolcinato soliloquio — vio loncello, viola e violino — recano rispettivamente le indicazioni di: «seducente», «persuasivo», «lusin ghevole». Burlesche citazioni classiche accompagna no le effusioni amorose del tenore, che ora rievoca la serata all’opera e nominando le «caramelle» si com piace con se stesso per i progressi che fa con «la bella lingua». Infatti in italiano ora intona - «andante can tabile e melodrammatico» - una patetica aria in sol minore, mescolandovi anche parole in dialetto: «o fradèi, pianse, de grassia, el stato mio». Alla fine dei suoi lamenti scatta l’allegro finale della Sinfonia in sol maggiore di Haydn. Ogni sorta di stili, antichi e moderni, vengono ti rati in ballo con mano leggera in questo divertimento per intenditori. Se la primissima frase del tenore, do po il preludio elettronico — «Here I Have stayed a week longer than I intended» - può far pensare a un’irriverente imitazione dello stile parlato nell’OJe a Napoleone di Schonberg, ora invece è il timbro te norile di Tom Rakewell, il Libertino di Strawinsky, che ci viene incontro quando il personaggio, termi nata la sua arietta settecentesca, si propone pensie roso di cangiar vita e di non litigare più: «no more jangling». Più avanti, di nuovo in vena di galanteria, intona una «romance à la frangaise», in puro stile di Ravel. Infine, dopo un turbinoso intermezzo stru mentale, attacca una dotta fuga sopra un suggestivo tramestìo di clavicembalo, dove affiorano frammenti della Biondina in gondoleta. Il nostro personaggio è ora in umore di contrizione: «In my black moments», dice, sopra il tema del Quam olìm Abrahae nel Re
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quiem di Mozart, «nei miei momenti neri, quando mi giudico sulPopinione degli altri, sento in verità che sono soltanto un libertino e un Ignoramus». Ma la piacevole realtà del viaggio in Italia mette in fuga le nuvole del moralismo quacchero: «tant pis and meno male - conclude il tenore dopo un breve intermezzo elettronico - tomorrow nous partons per roma! »
XII.
L’ultimo Concerto
^^(1972). Nel 1972 Maderna concorse al Premio Italia con un lavoro intitolato Ages (età, al plurale). Lo scritto re Giorgio Pressburger ne trasse lo spunto dal mo nologo di Jaques nella commedia As you like it, di Shakespeare, dove si descrive la vita come un fatto teatrale, ripartito in 7 atti, che sono le varie età del l’uomo. Eccone la traduzione: «Il mondo è tutto un palcoscenico, e tutti, uomini e donne, non sono altro che attori. Hanno le loro entrate e le loro uscite, e nella sua esistenza ogni uomo recita molte parti, e gli atti dello spettacolo sono sette età. Al primo atto il bambino, che miagola e vomita nelle braccia della ba lia. Poi lo scolaretto piagnucoloso, con la cartella e la faccia pulita del mattino, che come una lumaca si tra scina malvolentieri a scuola. E poi l’amante, che so spira come un mantice, rivolgendo una melanconica canzone al sopracciglio dell’amata. Poi il soldato, pie no di strane bestemmie e barbuto come un leopardo, geloso dell’onor suo, impetuoso e sempre pronto a li tigare, perseguendo la bolla di sapone della reputa zione perfino nella bocca del cannone. Vien poi il giu dice, con la sua bella pancia tonda, foderata di buon cappone, occhi severi, barba ben tagliata, pieno di saggi proverbi e di sentenze attuali: anche lui recita così la sua parte. La sesta età vacilla in pantaloni stri minziti e in pantofole, gli occhiali sul naso e la borsa
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al fianco. I suoi calzini, conservati dalla giovinezza, gli sono diventati enormi perché gli stinchi gli si sono raggrinziti, e la sua forte voce virile ritorna di nuovo verso infantili falsetti, di suono sibilante. Ultima sce na, che chiude questa strana storia avventurosa, è una seconda infanzia, di mero oblio, senza denti, senz’oc chi, senza gusto, senza niente». Strano argomento, per un uomo come Maderna che credeva nella vita con tutte le sue forze, e sem pre era vissuto in presa diretta, senza pensarci su. Ma lo interessava l’occasione di rappresentare fonicamen te i mutamenti dell’età. Proposito dichiarato del li brettista: «offrire materiale a un musicista con lo sco po di oltrepassare il limite dell’uso consueto della vo calità». Il lavoro si articola in 4 parti, piu un prologo elet tronico, precedente all’annuncio stesso del titolo e consistente in un lento sviluppo di fonèmi, separati ed organizzati in piccole strutture. Sono affidati a vo ci infantili, e vi si riconosce a poco a poco la parola «stage», palcoscenico. Anche la prima parte consiste in un montaggio elettronico di voci infantili, trattate con vari procedimenti di filtri e di echi e interpolate con occasionali supporti strumentali, tra cui si rico noscono specialmente flauti, pianoforte e trombe. La seconda parte reca la recitazione del testo shake speariano ad opera di una voce femminile, sopra un delicatissimo tessuto di flauti: corrisponde, nell’eco nomia generale del lavoro, a un tempo lento di So nata, mentre evidente carattere di Scherzo ha la terza parte, dove frammenti del testo vengono gridati da stentoree voci virili, con toni da mercato o da vendi tori ambulanti. Poi intervengono voci femminili con sussurri, sospiri, esclamazioni e risatine soffocate, in un tono d’intimità erotica: «quasi una chaconne d’a-
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mour», dice Maderna nel programma, riprendendo il titolo d’un celebre pezzo nel Thyl Claes di Wladimir Vogel. Sono, cioè, le voci dei due sessi nel fiore del l’età: tracotanza maschile e tenerezza della donna nei giochi dell’amore. «A poco a poco - continua Maderna nel program ma — vengono ad inserirsi voci vecchie e stanche, che Iterano tristemente lunghi frammenti del testo». In particolare ritorna con insistenza l’ultimo verso, la desolata descrizione della miseria senile, col suo stra no uso dell’avverbio francese «sans», invece dell’in glese «without»: «Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything». Si passa cosi alla quarta ed ultima parte, che con tiene il più importante pezzo musicale dell’opera: un coro a cappella di voci femminili. Insieme coi cori di Iperione, esso è uno dei pochi contributi di Mader na alla corrente del neomadrigalismo italiano con temporaneo. Le parole sono quelle iniziali di Shake speare: «All the world’s stage», tutto il mondo è un palcoscenico, e non è affatto escluso che Maderna avesse in mente la fuga finale del Falstaff, «Tutto nel mondo è burla», e che più o meno consapevolmente fosse mosso dall’idea di un omaggio alla vecchiaia prodigiosa di Verdi.
Il terzo Concerto per oboe (1973). Si ritorna alla grande linea della maturità creativa di Maderna col terzo Concerto per oboe: salvo erro re, è l’ultimo lavoro da lui condotto a termine, e reca la data «Darmstadt 1973». Ancora un Concerto per oboe! Che cosa poteva an cora trovare il compositore nel campo della melodia
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assoluta, dove aveva colto affermazioni definitive con la Grande Aulodìa e il secondo Concerto per oboe? L’aspetto piu commovente del terzo Concerto con siste proprio nella sua novità. Totale rinnovamento del materiale. I precedenti vocaboli dello stile aulodico di Maderna sono spazzati via. Tutto è diverso. Tanto per cominciare, dopo il lunghissimo mi del prologo orchestrale, l’oboe è sempre oboe dal princi pio alla fine del breve Concerto, e non subisce sosti tuzioni con strumenti affini, come la musette e il cor no inglese. Maderna ebbe a dire, in un’intervista, che l’oboe è uno strumento tremendamente difficile, e che ora per la prima volta si sentiva il coraggio di affrontarlo da solo, senza i suoi surrogati. Di corni inglesi ce n’è uno, ma in orchestra, ed appare alla fine del pezzo, in un dialogo straordinario con lo stru mento solista. Questo non indulge quasi mai al lan guore nasale e patetico che gli è generalmente con nesso, e che si accentua nella musette e nel corno in glese. Il suono dell’oboe nel terzo Concerto è preva lentemente secco, conciso, energetico. Quelle poche volte che si lascia andare a un discorso piu confiden ziale e fantasioso, il suo canto viene attraversato da brutali esplosioni di 5 trombe, simili a urla di scim mie dispettose. Altrimenti, un brusio sommesso di percussione, come la sonagliera d’un gamelan lonta no, fa da sfondo alle evoluzioni del solista, che dia loga talvolta con altri strumenti a fiato, specialmente tromboni, e da ultimo, come s’è detto, con l’affine corno inglese. I rapporti dell’oboe solista con l’orchestra sono aleatori. «Fra orchestra e solo - scrive Maderna in fondo alla partitura — devono stabilirsi molteplici rapporti espressivi: contrasti, proteste, acquiescen ze, accordi, integrazioni, affettuosità. In questo clima
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l’autore prevede e spera che solista e direttore tro vino un felice modo di terminare il pezzo». Nell’esecuzione che ora ascolterete il modo di ter minare il pezzo non potrebbe essere piu felice e sin tomatico: quasi presago che non si trattava soltanto di trovare una chiusa per un pezzo di musica, ma di concludere degnamente, e troppo presto, una vita d’artista. Nella sua pacatezza misteriosa la straordi naria conversazione finale di oboe e corno inglese schiude uno spiraglio su quello che sarebbe forse sta to un nuovo corso dell’arte di Maderna, assai lontano dalle sue origini espressionistiche, e se ne porta con sé l’acerbo segreto.
Appendice
Notizia biografica1
Bruno Maderna nacque a Venezia il 21 aprile 1920. Padre e madre non erano sposati, e la madre mori nel 1923. Il padre era pianista di musica leggera e conduceva vita errabonda, perciò il nonno paterno lo prese con sé, a quattro anni, e to sto ne riconobbe le doti musicali. Lo mise a scuola di violino a Chioggia, dodici ore al giorno d’esercizi, con un chiodo pian tato nell’impugnatura dello strumento, per obbligare la mano stanca a mantenere la buona posizione. Maderna stesso con siderava questo periodo come utile scuola per la sua ulterio re carriera, insegnamento prezioso per affrontarne tranquilla mente le future difficoltà. Una principessa e mecenate francese (Madame de Polignac) si avvide delle possibilità di Maderna e gli rese possibili i primi studi seri. Tra l’altro affittò per lui l’orchestra della Scala: a sette anni Bruno fece la sua prima apparizione in pubblico nel Concerto per violino di Max Bruch; a otto anni diresse alla Scala e all’Arena di Verona. Cominciò cosi una vera e propria carriera di enfant prodige^ festeggiato, in Ita lia e all’estero, come «Brunetto». Dopo che il padre venne privato dell’autorità paterna, Bruno venne istruito a spese dello stato. In un’intervista ri lasciata a Chicago nel 1970, interrogato su questi anni, di cui non amava di solito parlare, Maderna esitò a lungo e poi ri spose: «Sapete, mio nonno voleva che io diventassi violinista. Lui era convinto che uno può anche essere il peggiore dei gangsters, ma se suona il violino va sempre a finire in para diso». Lo stato di allora gli rese possibile l’istruzione e l’av viamento alla direzione d’orchestra, proprio quello stato, quella istituzione politica contro cui egli avrebbe poi combat tuto come partigiano, e che l’avrebbe tradotto in campo di concentramento.
1 Informazioni fornite da Cristina Maderna.
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APPENDICE
Quando aveva undici anni, uno dei suoi tutori lo prese con sé, ed egli trovò finalmente un focolare domestico pres so la signora Manfredi a Verona. Prosegui gli studi musicali nel Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano (1935), «Be nedetto Marcello» di Venezia (1939) e infine si diplomò in composizione e musicologia al Conservatorio «Santa Ceci lia» di Roma (1940). Suoi maestri Alessandro Bustini per la composizione e Antonio Guarnieri per la direzione d’orche stra; si perfezionò poi rispettivamente con Gianfrancesco Malipiero e con Hermann Scherchen. Guerra, campagna di Russia, Resistenza partigiàna e cam po di concentramento gli valsero alti riconoscimenti ma in terruppero definitivamente quella fase della sua esistenza. Subito dopo la fine della guerra fu per alcune settimane sin daco di Verona, e vi fondò subito un piccolo gruppo per una stabile organizzazione di concerti. Nel 1945 primo matrimo nio con Raffaella Tartaglia. Dal 1947 al 1950 Malipiero lo volle insegnante di composizione nel Conservatorio «Bene detto Marcello» di Venezia. Solo piu tardi, tuttavia, molto piu tardi Malipiero riconobbe i meriti di Maderna come com positore, ma fin dal principio l’aveva amato come infaticabile studioso di musica antica, e la ricerca di vecchie partiture continuò infatti a tenerli uniti fino agli ultimi anni. È di que gli anni a Venezia l’incontro con Luigi Nono, allora studente in legge, e che divenne suo allievo. Un grosso gruppo di musi cisti veneziani si venne formando intorno a Maderna. In que gli anni avvenne pure a Venezia il suo incontro con Hermann Scherchen, di cui divenne a sua volta allievo. Nel 1949, se parazione dalla prima moglie. Karl Amadeus Hartmann lo chiamò, primo direttore straniero, a un concerto della serie «Musica viva» a Monaco di Baviera (28 febbraio 1950). Eb be inizio di lì una faticosa ma incessante carriera. Nel 1951 primi contatti con le giornate musicali dell’istituto Kranichstein (Darmstadt), a cui il dottor Steinecke ora lo invitò ogni anno e per cui egli fondò il Kranichstein Musikensemble, divenuto così famoso. A Darmstadt importanti incontri con Boulez, Messiaen, Stockhausen, Cage e Pousseur e coi piu importanti interpreti della nuova musica, che diventarono la provocazione per tante delle composizioni nate a Darmstadt. Così per esempio egli scrisse per Severino Gazzelloni la Mu sica su due dimensioni^ primo lavoro in cui un compositore si servisse contemporaneamente di suoni elettronici e di uno
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strumento normale. A Darmstadt conobbe nel 1951 la sua seconda moglie, Beate Christine. Sebbene la musica moderna fosse il terreno di sua predi lezione, egli evitò sempre, come direttore d’orchestra, d’es sere tacciato d’unilateralità. Dirigeva antiche opere italiane, diresse Dido and Aeneas di Purcell, alla Piccola Scala, il Par sifal di Wagner alla Rai, Sinfonie classiche e romantiche, molto Debussy e Ravel, e spesso amava sottolineare di tro varsi a casa sua tanto nel jazz quanto nella letteratura operi stica e nella musica moderna. Con Luciano Berio fondò lo Studio di Fonologia presso la Rai di Milano (1955) ed insie me essi organizzarono, pure a Milano, i concerti e la rivista intitolati «Incontri musicali». Il 28 febbraio 1955 nacque la sua prima figlia, Caterina. Dirigeva ormai in tutto il mondo, ma la sua forte personalità, ed anche l’invidia dei colleghi, gli resero spesso difficile la carriera. Tuttavia anche questi ostacoli egli superava col suo incrollabile ottimismo e con la sua fede nella musica e negli uomini. Nel 1962 gli fu rilasciato il diploma di accademico dall’Accademia Filarmonica Romana. Onore che quasi gli die de piu dispetto che gioia, perché era stato negato al suo ama tissimo Mozart. Fu chiamato in questo periodo a tenere se minari di composizione alla Summer School of Music di Dartington, in Inghilterra, e nell’anno 1957-58 Ghedini, direttore del Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano, gli affidò un corso di tecnica dodecafonica. Nel i960 nascita della seconda figlia, Claudia. Nonostante i viaggi sempre piu estesi per la direzione d’orchestra, tro vava ancora tempo per le sue composizioni e per lavori musi cologici di revisione (nel 1967 istrumentò e rielaborò per il Festival d’Olanda l’Orfeo di Monteverdi). Nel 1970 gli fu conferita la cittadinanza onoraria della città di Darmstadt, ch’egli aveva scelto a sua seconda patria (ma non prese la cit tadinanza tedesca, contrariamente a quanto affermano la piu gran parte delle biografie, enciclopedie e dizionari). Nel 1966 gli era nato, a Darmstadt, il figlio Andrea. Dal 1967 al 1970 tenne corsi di direzione d’orchestra al Mozarteum di Sali sburgo. Nel 1971 e 1972 fu direttore del Berkshire Music Center di Tanglewood (Usa). Una felice e fertile attività alla Juilliard School di New York diede occasione alla composi zione della Juilliard Serenade. Le sue tournées di direttore lo portavano ormai in tutto il mondo, oggi a dirigere il Don Giovanni a New York, domani al centro d’un incontro inter
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nazionale di musica contemporanea. Per lui non c’erano limi ti temporali, ma solo quelli, inderogabili, della qualità. I suoi impegni si accumulavano, ed accadeva anche che dovesse fronteggiarne due in una sola sera. Così a Milano, il 6 mag gio 1963, diresse Didone ed Enea alla Piccola Scala ed un concerto alla Rai nella stessa sera. Nel 1967 era diventato in segnante al Conservatorio di Rotterdam. Nel 1971 la Rai lo chiamò alla direzione stabile dell’orchestra sinfonica di Mi lano. Un severo ed efficace lavoro d’insieme ed un’accurata programmazione condussero rapidamente questa orchestra a diventare un punto d’incontro culturale. Nel 1972 Maderna vinse il Premio Italia con la «inven zione radiofonica» Ages, in collaborazione con Giorgio Pressburger. All’estremismo dell’impegno politico era succeduta in lui una filosofica e riposata concezione della vita. La sua umanità gli faceva perdonare molte cose, molte gliene faceva comprendere la sua intelligenza. Amava la vita e la musica. Nell’aprile 1973, durante le prove della sua opera Satyricon ad Amsterdam, si manifestò per la prima volta un male in guaribile. Continuò a combattere; diresse fino a sei giorni pri ma della morte. «Va, va, - aveva risposto a Martine Cadieu nell’intervallo di un concerto a Amsterdam in luglio. - Va, lavoro, compongo. Solo quella piccola... cosa, sai, non è una piccola cosa... Ma sono fortissimo, guarda. Resisterò ancora parecchi mesi. Dopo morirò. Non prendo impegni che per il ’74. Ho finito Aura-, faremo la prima in autunno a Parigi». Il suo ultimo concerto fu una trasmissione in diretta per l’Europa della bbc, dalla Royal Festival Hall di Londra: Schonberg e Bartók. La sua ultima composizione, che esiste solo in progetto, era un Concerto per orchestra, violoncello, due pianoforti. «L’orchestra può suonare sola, oppure solo col pianoforte 0 solo col violoncello, così possono anche il violoncello e i pianoforti suonare solisticamente con l’orche stra, molte possibilità concertanti in un solo lavoro». Dieci minuti prima della sua morte correggeva e discuteva il lavoro di un suo allievo milanese che era venuto a Darmstadt per incontrarlo. Poi fece progetti col figlio per la prossima estate. Sul tavolo c’era l’orario delle prove e la partitura d’una delle sue opere predilette: Pelléas et Melisande di Debussy, di cui avrebbe dovuto cominciare le prove il giorno dopo ad Am sterdam. Era soddisfatto dei risultati conseguiti attraverso il rinnovato studio di quella partitura. Tracotante e quasi alle gro cantò con sua moglie pezzi dell’amatissimo Don Giovanni.
NOTIZIA BIOGRAFICA
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Morì alle 17 e 30 del 13 novembre 1973, all’ospedale di Darmstadt. In uno degli innumerevoli discorsi commemorativi fu det to: «Maderna morì certamente troppo presto. Ma dobbiamo considerare che la sua vita ha contato per tre vite».
Catalogo delle composizioni di Bruno Maderna
Di ogni composizione abbiamo dato di seguito il titolo, l’organi co orchestrale, la durata in minuti primi, la data e il luogo di com posizione, il luogo, la data e gli interpreti della prima esecuzione, l’editore della partitura e l’ente presso il quale è avvenuta l’eventua le registrazione della medesima. i. Serenata ) FI., ob., eh, fag., tr., 2 v., via, ve., cb. | 14* | 1946, Ve nezia | Venezia, settembre 1946. Festival di Musica contem poranea della Biennale. Orch, della Fenice. Dir. Maderna | -
2. Concerto per 2 pff. e strumenti | 2 pff. soli, vibr., xil., cel., 2 arpe, pere. (4 esec.) | 18' | 1948, Venezia | Venezia, settem bre 1948. Festival della Biennale. Palermo, aprile 1949. Simc. Colonia. Roma (Direttori: Gracis; Maderna; Giulini. Solisti Gorini-Lorenzi) | Suvini Zerboni, Milano | Nordwestdeutscher Rundfunk, Colonia. 3. Composizione n. z | 3 fi., 2 ob., c. i., cl. in mi bem., 2 cl., cl. b., 2 fag., cf., 4 cr., 4 tr., 3 tromb., 1 b. tuba, vibr., xil., cel., 2 arpe, pf., pere. (3 esec.), archi | 25' | 1949, Venezia | Torino, Orch. Sinfonica Rai. Dir. Sanzogno | Suvini Zerboni, Milano | Rai Torino. 4. Liriche greche | Sopr. solo e coro da camera. 5 fiati, pf., pere. (7 esec.) | 12' | 1949, Venezia | - | Ars viva (Schott, Magonza) 5. Fantasia | 2 pff. | 13' | 1949, Venezia | Darmstadt Ferienkurse, luglio 1949. Stadlen-Seemann. Dusseldorf 1952 | - | Darm stadt. 6. Studi per il «Processo» di Kafka | 3 fi., 2 ob., c. i., cl. in mi bem., 2 cl., cl. b., 2 fag., cf., 4 cr., 4 tr., 3 tromb., b. tuba, cel., xil., vibr., 2 arpe, pf., eh. elettr., pere. (6 esec.), archi. Recitante e Soprano solo | 25’ | 1950, Venezia [ Venezia, Fe stival della Biennale, 1950. (Dir. H. Scherchen) | Ars Viva (Schott, Magonza) | Rai. 7. Il mio cuore è nel Sud. Radiodramma di G. Patroni Griffi | FI., c. i., cl., cl. b., 4 sax. contralto, sax. ten., cr., tr., tromb., pere. (6 esec.), 3 vie, 3 ve., 3 cb., pf., vibr., xil. | 30' | 1950, Vene
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zia | Prix Italia 1950. Orch. e prosa Rai. (Dir. Maderna; regià A. G. Maiano). Radio Stoccolma 19511 - | Rai Roma. Composizione n. 2 | FI., ob., cl. in mi bem., cl. in si bem., cl. b.. 2 fag., 2 cr., 2 tr., 2 tromb., pere. (6 esec.), arpa, archi | 15' | 1950, Venezia | Darmstadt Ferienkurse 1950. Rai Torino 1952 (Dir. H. Scherchen) | Ars Viva (Schott, Magonza) | Darm stadt. Rai Roma. Improvvisazione n, 1 | 2 fi., 2 ob., c. i., cl. in mi bem., 2 cl., cl. b., 2 fag., cf., 4 cr., 3 tr., 3 tromb., b. tuba, pere. (8 esec.), arpa, pf., archi | 15' | 1951, Venezia | Nordwestdeutscher Rundfunk, Amburgo 1952 (Dir. Maderna) | Ars Viva (Schott, Magonza) | nwdr, Amburgo. Musica su due dimensioni | FI., piatti e nastro magnetico | 8' | 1952, Darmstadt | Darmstadt Ferienkurse 1952. Rio de Ja neiro 1953. Milano, Pomeriggi musicali, 21.3.1959 (solista Gazzelloni) | Suvini Zerboni, Milano | Darmstadt. Divertimento in 2 tempi | FI., pf. | 8' | 1953, Verona | - | - I -. Cantata da camera «4 lettere» per Kranichstein | FI., cl. e cl. b., cr., arpa, armonium, 2 pf., 2 quartetti d’archi, cb. So prano e Basso soli | 12' | 1953, Verona | Darmstadt Ferien kurse 1953 (dir. Maderna) ] Ars viva (Schott, Magonza) ] Darmstadt. Improvvisazione n. 2 | 2 fi., ob., c. i., cl. b., cl., cl. in mi bem., 2 fag., 2 cr., 2 tr., tromb., b. tuba, arpa, pere. (3 esec.), archi | ii' I 1953, Verona | Heidelberg, Musica viva 1953. Venezia, Festivi della Biennale, 17.9.1954 (dir. Sanzogno | - | Siiddeutscher Rundfunk, Heidelberg. Concerto per flauto | - | - | 1954 | Darmstadt 1954 (Orch. sinf. di Francoforte. Dir. E. Bour. Solista Gazzelloni) | - | -. Sequenze e strutture | Musica elettronica | 3' | 1954, Milano | f Suvini Zerboni, Milano | Istituto di Fonologia, Rai Milano. Notturno | Musica elettronica | 3'25" | 1955, Milano | -1 Suvini Zerboni, Milano | Istituto di Fonologia, Rai Milano. Quartetto | 2 v., via, ve. | 22' | 1955* I Darmstadt, 1.6.1955 (Quartetto Drolc) | Suvini Zerboni, Milano | -. Serenata n. 2 per 11 strumenti | FI., cl., cl. b., cr., tr., xil., vibr. (1 esec.), pf. e Glock. (1 esec.), arpa, v., via, cb. ] 12' | 1957 | -1 Suvini Zerboni, Milano [ Time Records, tlp-lp 58 002. Musica su 2 dimensioni | FI. e nastro magnetico ] ca. 11' (aleato rio) | 1957 | Milano, 21.3.1959 (Gazzelloni) | Suvini Zerboni, Milano [Istituto di Fonologia, Rai Milano. Elektron 3. Sugar Music esz3. Syntaxis | Musica elettronica [ nz | 1957 | - | Suvini Zerboni, Milano | Istituto di Fonologia, Rai Milano.
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21. Continuo | Musica elettronica | 8'30" | 1958 | Colonia, 19^8 | Suvini Zerboni, Milano | Nordwestdeutscher Rundfunk, Co lonia. Istituto di Fonologia, Rai Milano. Panorama des musiques expérimentales> Philips A. 00 563/61,. 22. Dark rapture crawl in: Divertimento di Berio e Maderna | 3 fi., cl. picc. in mi bem., 2 cl. in si bem., cl. b., c. i., 2 fag., cf., sax. sopr., 2 sax. contr., sax. ten., sax. b., 2 cr., 5 tr., 3 tromb., b. tuba, tp., pere. (4 esec.), xil., cel., Glock., vibr., marimbaph., arpa, pf., 3 vie, 3 ve., 3 cb. | 5'30" | 1959 | - | Suvini Zerboni, Milano | -. 23. Concerto per pf. | 3 sax., mar., xil., vibr., cel,, 2 arpe, pere. (4 esce.), archi | 18' | 1959 | Darmstadt, 2.9.1959 (David Tudor Maderna) | Suvini Zerboni, Milano | -. 24. Dimensioni n. 2. Invenzione su una voce | Musica elettronica e voce femm. su fonemi di H. G. Helms 116'45" 11960 | Darm stadt, 16.7.1960 | Suvini Zerboni, Milano | -. 25. Honeyréves | FI. e pf. | 5'35" | 1961 | Venezia, Festival della Biennale, 23.4.1962 (Gazzelloni, Rzewski) | Suvini Zerboni, Milano | Time Records, S/8008. 26. Don Perlimplin. Opera radiofonica in 1 atto dalla commedia di Federico Garcia Lorca tradotta da Vittorio Bodini. Adatta mento del testo di B. Maderna | 2.0.1.1.-1.3.3.0.-5 sax., tp., pere. (6 esec.), mar., vibr., mand., chit, eh, arpa, pf., archi. 3 recitanti, 1 fi. solista | 46' | 19611 Rai, 12.8.1962 (dir. Mader na) | Suvini Zerboni, Milano [ Rai. 27. Serenata n. 3 | Musica elettronica | 11'25" I 1962 | Venezia, Biennale 1962 | Suvini Zerboni, Milano | Istituto di Fonolo gia, Rai Milano. 28. Konzert fur Oboe und Kammerorchester | 2 fi., fi. in sol, ott., ob., c. i., cl., cl. b., fag., cr., tr., tromb., cel., 2 pf., arpa, 2 v., 1 via, 1 ve., 1 cb., pere. (4 esec.). Oboe solo, con ob. d’amore e c. i. | 16' | 1962 | Darmstadt 1962 (Ob. Lothar Faber. Dir. Maderna) | Bruzzichelli, Firenze ] -. 29. Dimensioni III per orch. e fi. solista | 3.3-4-3.-3.3.3.2.-tp., pere. (3 esec.), 2 arpe, 2 vibr., Glock., 2 pf., cel., xil., 2 mar., archi | aleatorio | 1963 | Radio Parigi, 12.12.1963 | Suvini Zerboni, Milano | -. 30. Aria da Hyperion, per soprano, fi. solista e orch. su testo di Fr. Holderlin | 5.2.4.3-3.3.3.0-2 pf., 3 arpe, tp., 2 vibr., 2 xil., 2 mar., Glock., cel., archi | 25' | 1964 ] Venezia, Biennale 6.9.1964 (C. Gayer, Gazzelloni. Dir. Maderna) | Suvini Zer boni, Milano. 3i. Hyperion. Lirica in forma di spettacolo di Bruno Maderna e Virginio Puecher, con un testo di F. Holderlin e fonemi di H. G. Helms | 4.3.4.3.-3.3.3.2.- tp., pere. (3 esec.), 3 arpe, 2 vibr.,
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xil., Glock., 2 pfcel., 2 mar., archi. Soprano solo, flauto solo, 18 mimi | 53' | 1964 | Venezia, Biennale 6.9,1964 (C. Gayer, Gazzelloni. Dir. Maderna) | Suvini Zerboni, Milano. (Hype rion = Dimensioni III + Aria da Hyperion). (Hyperion II « Dimensioni III + Cadenze [per fl. solo] + Aria da Hyperion). (Hyperion III = Hyperion + Stele per Diotima). 31 bis Hyperion = Dimensioni III + Aria da Hyperion. Hyperion II « Dimensioni III + Cadenze (per fl. solo) + Aria da Hype rion. Hyperion III = Hyperion + Stele per Diotima. 32. Le rire | Musica elettronica | - | 1964 | Venezia, Biennale | Su vini Zerboni, Milano | Istituto di Fonologia, Rai Milano. 33. Stele per Diotima, per orch. con una cadenza per soli: v., cl. in si bem., cl. b., cr. | 5.3.4«3.-3.3.3.2--3 arpe, 2 pf., cel., 2 tp., pere. (8 esec.), archi | 25' | 1965 | Colonia, 19.1.1966 (Dir. Maderna) | Suvini Zerboni, Milano | Nordwestdeutscher Rundfunk, Colonia. 33 bis Dimensioni IV = Dimensioni III + Stele per Diotima. 34. Aulodia per Lothar | Ob. d’amore e chit, ad libitum | 6' | 1965 | Venezia, Biennale, 9.9.1965 (Faber-Company) | Suvini Zerbo ni, Milano I -. 35- Amanda per orch. da camera | Mand., chit., 2 arpe, pf., cel., pere. (3 esec.), archi | 12' | 1966 | Napoli, Autunno musicale, 22.11.1966 (Dir. D. Paris) | Suvini Zerboni, Milano | 36. Widmung per violino solo | - | 10' | 1967 | - | Suvini Zerboni, Milano I -. 37* Concerto per ob. n. 2 | 0.3.4.0.-4.0.0.0.-2 chit., cel., 2 arpe, pere. (5 esec.), 6 v., 3 vie, 3 vc., 3 cb. | 17' | 1967 | Radio Colonia, 10.11.1967 (ob. L. Faber, dir. Maderna) | Suvini Zerboni, Mi lano I Nordwestdeutscher Rundfunk, Colonia. 38. Ritratto di Erasmo, radiodramma. Testo, musiche e regia radio fonica di B. M. | Voci recitanti, coro e orch. | 60' | 1969/70 | Prix Italia 1970 | -1 Rai. 39. Musiche di scena per l’opera televisiva From A to Z di R. Rass | Musica elettronica I43' | 1969 | Darmstadt, Landestheater, 22.2.1970 | Ricordi, Milano | -. 40. Music of gaity dal Fitzwilliam Virginal Book. Elaborazione per orch. da camera | 3.-2.- archi. V. e ob. soli | 18' | 1969 | - ( Ricordi, Milano | -. 41. Quadrivium per 4 esecutori di percussione e 4 gruppi d’orche stra | 3.3.5.4.-4.4.4.-2 xil., 2 vibr., 2 mar., 2 Glock., 2 camp, tub., 2 serie campanacci, pecoresco, guiro, raganella, frusta, 4 tamb. baschi, blocks cinesi, woodblocks, claves, tam-tam, gong, 4 piatti, 2 bongos, 2 tamb. senza corda, 2 tamb. con cor da, 2 tamb. militari, 2 grancasse, 6 tp., 2 congas, bambù, la strine vetro, sonagli piccoli grandi e indiani, crotali, 4 nacche
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re, 4 paia di piatti, cel., 3 arpe, archi (24 v., 8 vie, 8 ve., 8 cb.) I 23' T 1969 | Festival di Royan, 4.4.1969 (dir. Maderna) | Ri cordi, Milano | Concerto per v. e orch. | 2.3.4.3.-3.3.3.i.-Orch. d’archi, orch. d’archi «in eco» (6 v. + 3 vie + 3 ve.), 3 arpe, mand., xil., 2 mar. | 37' | 1969 | Venezia, Biennale, 12.9.1969 (viol. Theo Olof ; dir. Maderna) | Ricordi, Milano | -. Serenata per un satellite [ V., fi. (e ott.), ob. (e ob. d’amore e musette), cl., mar., arpa, chit., mand. | aleatorio, da 4' a i2z | Darmstadt 1969 | -1 Ricordi, Milano | Grande Aulodia per fi. e ob. soli con orch. | 4.4.4.3.-4.4.3.1., camp, tub., 2 mar., sonagli, 2 tam-tam, 4 gong, 3 piatti sospe si, grancassa, 2 tamb., 2 congas, 2 tom-tom, 2 bongos, tamb. basco, nacch., guiro, naruko, claves, cel., Glock., archi in 3 gruppi (ciascuno 6 v., 3 vie, 3 ve., 3 cb.) ( 35' | 1070 | Rai Ro ma, 7.2.1970(Gazzelloni,Faber; dir.Maderna) (Ricordi,Mi lano | Rai Roma. Von A bis Z | -1 - 11970 | Darmstadt | - | Juilliard Serenade | 3.2.3.1.-1.1.1.-XÌI., mar., cel., 2 pf., arpa, 1 v., 1 via, 1 ve, 1 cb. | 25' | 1071 | New York 1971 (Juilliard Ensemble) | Ricordi, Milano | Tempo libero I | Musica elettronica | 24' | 1971 | - | Ricordi, Milano | -. bis Juilliard Serenade + Tempo libero I - Tempo libero II. Viola | Viola o viola d’amore | aleatorio (fino a 20') | 1971 | - | Ricordi, Milano | -. Solo | Musette, ob., ob. d’amore, c. i. (1 esec.) | aleatorio (fino a 15') 119711 -1 Ricordi, Milano | ~. Pièce pour Ivry | Violino solo | aleatorio (fino a 27') | 1971 | | Ricordi, Milano | -. Ausstrahlung per voce femm., fi. e ob. obbligati, grande orch. e nastro magnetico | 4 (e 2 ott.) 4.7.3.-4.5.4.1 pere. (4 gong, 3 tp., 4 tam-tam, tamb. basco, 2 bongos, 2 tom-tom, 2 congas, frusta, 2 Holzkisten, 3 piatti), 2 xil., vibr., 2 mar., cel., Glock., 2 arpe, archi (24 v., 12 vie, io ve., 8 cb.) | 35' | 1971 | Persepoli, 4.9.1971 (dir. Maderna). Colonia, nwdr, 8.11.1975 (dir. Elgar Howarth) | Ricordi, Milano | Nordwestdeutscher Rund funk, Colonia. Dialodia | 2 fi., o 2 ob., o altri str. | 2'15" [ 1972 | - | Ricordi, Milano | -. Y después | Chitarra 112' | 1972 | - | Ricordi, Milano | -. Aura | 4.4.5.3.-4.5.4.0.-2 xil., 2 mar., vibr., Glock., cel., tp., pere., archi in 6 gruppi (24 v., 12 vie, io ve., 8 cb.) | 15' (
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1972 | Chicago, 24.3.1972 (dir. Maderna). Milano, Scala, 30.10.1974 (dir. Abbado) | Ricordi, Milano | 55. Venetian Journal (da Boswell), per ten., 22 strum, e nastro | 1.2.2.1.-i.i.i.o., pere., (2 esec.), cel., xil., mar., arpa, 1 v., 1 via, 1 ve., 1 cb. | - | 1972 | New York, Lincoln Center, 12.3.1972 (ten. Paul Sperry, dir. Maderna) | Ricordi, Milano
56. Biogramma (in tre sezioni) per grande orchestra 14.3.4.3.-4.4.4.1., tp., cel., vibr., 2 xil., pere. (Glock., 2 mar., camp, tub., piat ti, triangolo, sonagli, castagnette, claves, tom-tom, bongos), pf., 2 arpe, archi (24 v., 12 vie, 8 ve., 6 cb.) | 24' | 1972 | Ro chester, Eastmann School of Music, aprile 1972 (dir. Mader na) | Ricordi, Milano | 57. Giardino religioso per piccola orch. | 2 cr., 2 tromb., pere, (con gas, tp., 2 mar., crotali, triangolo, tam-tam, piatti), cel., 2 pf., 2 arpe, 6 v., 6 vie, 1 ve., 1 cb. 117' 11972 | Tanglewood (Festi val 1972) | Ricordi, Milano | -. 58. Ages, invenzione radiofonica di B. M. e Giorgio Pressburger, per voci, coro e orch. (da As you like it di Shakespeare) | - | ~ I 1972 I 240 Premio Italia, 1972 (Orch. Sinfonica e Coro di Milano della Rai). Elaboraz. elettronica effettuata allo Studio di Fonologia di Milano della Rai) | Rai, Radiotelevisione ita liana | Rai Milano. 58 bis All the world's a stage. Testo di Shakespeare elaborato da G. Pressburger | coro a cappella | 2'30" | 1972 | 240 Premio Italia 1972 (Coro di Milano della Rai) | Ricordi, Milano | -. 59. Satyricon, opera in 1 atto, da Petronio | 3 sopr., 2 ten., bar., b. | fi. (e ott.), ob. (e c. i.), 2 cl. (e cl. b.), fag., cr., tr., tromb., ar chi i.i.i.i.i) | 80' | Nederlandse Operastichting Amsterdam, 16 marzo 1973 (dir. Maderna). Piccola Scala Milano, 25 mar zo 1974 (dir. Lucas Vis) | Salabert, Parigi. 60. Terzo Concerto per oboe | 4.3.3.3.-4.5.4.1, Glock., xil., mar., vibr., 2 arpe, cel., 18 v., 9 vie, 6 ve., 6 cb. | da 15' in avanti (aleatorio) | Festival d’Olanda 1973 (sol. Hans de Vries, dir. Maderna) | Salabert, Parigi. Il presente elenco delle composizioni di Bruno Maderna è stato dedotto dai cataloghi delle tre maggiori case editrici della sua pro duzione, e precisamente, in ordine cronologico: Suvini Zerboni, Ri cordi e Salabert, con l’isolata eccezione della casa editrice Bruzzichelli (primo Concerto per oboe). Per le composizioni giovanili, in parte inedite, in parte accolte da Hermann Scherchen nella sua edi trice «Musica viva», appoggiata alla Schott, di Magonza, ci si è ser viti di un catalogo manoscritto, redatto verosimilmente dallo stesso Maderna, su tre fogli rigati e suddivisi in sezioni secondo le rubriche qui adottate. Le indicazioni in testa a ogni foglio sono stampate, in
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tedesco; il documento registra le composizioni comprese tra il n. 1 e il n. 13. A detta di Cristina Maderna, le carte lasciate dal compositore pullulano di composizioni inedite giovanili, e anche infantili. Una piccola prova se ne ha nella nota biografica preposta alla pubblica zione di Ages per il 24° Premio Italia, edita dalla Rai - Radiotelevi sione italiana (settembre 1972). La nota fu, secondo ogni probabili tà, redatta dallo stesso Maderna, o per lo meno fu da lui vista e ap provata. Essa contiene un diffuso elenco di opere, suddivise nelle ca tegorie: teatro, orchestra, strumenti solisti e orchestra, musica voca le, musica da camera, musica elettronica, trascrizioni. Vi si trova menzione di alcune composizioni che non risultano né nei cataloghi editoriali né in quello manoscritto, e precisamente: - una Composizione in tre tempi (1951), per orchestra, che po trebbe forse essere il n. 8 del nostro Catalogo', - un Concerto per flauto (1954); - un Requiem per soli, coro e orchestra, non datato; - una Introduzione e Passacàglia per n strumenti (1947); - una Komposition per oboe e strumenti (1962). Nella suddetta nota biografica sono menzionate distintamente una Serenata I per n strumenti (1954) e una Serenata II per 13 strumenti (1957). Nella breve nota biografica fornita per il program ma del IX Festival di Musica contemporanea della Biennale di Ve nezia (1946), Maderna si attribuiva quattro composizioni: il ricor dato Requiem e una Introduzione e Passacaglia, per orchestra (la stessa che piu tardi assegnava al 1947, per n strumenti?); un Con certo per pianoforte e un Quartetto d’archi, che non possono essere il n. 22 e il n. 16 del nostro Catalogo. Il «concerto della giovane scuola italiana», diretto da lui stesso il 21 settembre 1946, si apriva con la Serenata per n strumenti, datata 1946! (le altre composizio ni in programma erano di Riccardo Malipiero, Valentino Bucchi, Guido Turchi e Camillo Togni). Da notare che nel 1950, quando furono eseguiti al Festival della Biennale gli Studi per «Il processo» di Kafka, dalla piccola nota in formativa su Maderna contenuta nel programma erano scomparsi il Concerto per pianoforte e il Quartetto ricordati nel 1946.
Rrascrizioni Claudio Monteverdi, Orfeo, favola pastorale in due parti di Alessandro Striggio jr. Nuova realizzazione ed elaborazione a cura di Bruno Maderna (1967). Ed. Suvini Zerboni, Milano. Eseguito al Festival di Olanda, 17-25 giugno 1967 (Teatro Carré, Amsterdam), sotto la direzione di Maderna, regia di Raymond Rouleau. Domenico belli, Orfeo dolente, opera in 5 intermedi. Nuova realizzazione ed elaborazione. Ed. Ricordi, Milano. Eseguito a Bologna, Feste musicali, 1968.
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Giovanni Gabrieli, Canzone a tre cori a 12 voci per orchestra. Elaborazione (1972). Organico: 2.2.2.2.-2.2.2.0., arpa, archi (16.6.4.3). Ed. Ricordi, Milano. Nell’opera omnia di Antonio Vivaldi (ed. Ricordi, Milano, dire zione di G. F. Malipiero), si devono a Maderna: Beatus vir, in do maggiore. Salmo ni per soli (2 S., T.), 2 cori a 4 voci miste e orchestra. Organico: 2 ob., 2 org., archi. Du rata: 45'. Eseguito a Venezia, Festival della Biennale, 17 set tembre 1949 (Solisti: Ginevra Vivante, Tomaso Spataro. Dir.: Angelo Ephrikian. Maestro del coro: Sante Zanon). Concerto in do maggiore per v., archi e cemb. F. I n. 3 (Dura ta: io'). Concerto in do maggiore «in due cori» per v., archi e 2 cemb., «per la S.S. Assunzione di Maria Vergine» F. I n. 13 (12'). Concerto in re maggiore per v., archi e cemb. F. I n. 8 (6' "). Concerto in la maggiore per v., archi e cemb. F. I n. 5 (7'). Concerto in do minore per archi e cemb. F. XII n. 8 (6' 30"). Concerto in do minore per archi e cemb. F. XI n. 9 (6'). Oltre alle trascrizioni di virginalisti inglesi che costituiscono Mu sic of gaity (cfr. sopra, n. 40), Maderna trascrisse in maniera analo ga, per piccola orchestra, una serie di frottole del Quattrocento ita liano, tratte àdKOdecathon di Ottaviano Petrucci. Egli stesso le aveva dirette, alla Rai di Torino, nell’inverno 1963. La partitura è inedita, come pure inedita è la trascrizione del mottetto In ecclesiis di Giovanni Gabrieli.
Bibliografia G. Manzoni, Bruno Maderna, in «Die Reihe» (1958), n. 4, pp. 113-18. l. pinzatiti, A colloquio con Bruno Maderna, in «Nuova Rivi sta Musicale Italiana», vi (1972), pp. 545-52. chr. bitter, Bruno Maderna, Dirigent und Komponist, in Bru no Maderna. In memoriam, programma di sala del concerto «Musik der Zeit II», tenuto a Colonia 1’8 novembre 1975, nella sala grande di trasmissione del nwdr, Nordwestdeutscher Rundfunk. Il Groupe de Recherche della Ortf (Radiotelevisione francese) e la Radiotelevisione olandese hanno prodotto due cortometraggi te levisivi su Bruno Maderna. Nel primo egli è mostrato durante la concertazione d’uno dei suoi lavori con l’orchestra dell’Ortf. Il se condo contiene un’intervista, in tedesco, alla quale segue l’esecuzio ne integrale, sotto la sua direzione, del Terzo Concerto per oboe. M. M.
Una pagina di Bruno Maderna (1946) Dalle «Confessioni» di cinque compositori della Giovane Scuo la Italiana (IX Festival Internazionale di Musica Contempora nea, Biennale di Venezia 1946).
S’è fatto e tuttora si fa gran parlare di ricerca (ma gari «tormentata»), di personalità nella ricerca, di sensibilità, di moralità. È curioso che in un’epoca di si gravi rivolgimenti sociali ed economici, in un’epo ca che, appunto perché tali cataclismi contiene sa rebbe legittimo supporre satura di vitalità, la prassi dell’arte non abbia ancora saputo liberarsi dalle con seguenze di quell’analitico, ma distruttivo dogmati smo decadentista che suggeriva pitture tonali e con cezioni verticali della musica. Esiste un bisogno di indagine anziché di costru zione e, troppo spesso, di inventario, di statistica. Ci dicono che l’attività scientifica sia volta a sco prire con mezzi piu o meno razionali la natura e Dio, e che l’arte non è che una lirica intuizione dell’asso luto. Io non ho convinzioni scientifiche, ma per quan to riguarda la musica credo che non si tratti di sco prire ma di creare. Il celebre «io non cerco, trovo» di Picasso è incompleto qualora non si attribuisca a quel «trovo» il significato di «creo». E, d’altra parte, ba sta pensare alla subordinazione volontariamente ac cettata dell’artista a canoni estetici e formali nei pe riodi più fecondi della storia dell’arte per rendersi conto che nella realizzazione della propria opera an che l’artista, come lo scienziato, segue un processo che si potrebbe a ragione chiamare razionalmente costrut tivo.
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UNA PAGINA DI BRUNO MADERNA
Oggi che non abbiamo più scuole, convinzioni o poetiche in comune, e che l’artista non ha più un con trollo esterno all’eccellenza della propria opera, ci sottomettiamo pur sempre ad una critica soggettiva, ad una soggettiva idea del «bello». Ma abbiamo visto e vediamo i risultati e dell’e clettico quanto disorientato gusto del pubblico e del l’orgoglioso isolamento dei musicisti: «membra disiecta»: perduta l’unità di intenti e di sforzi che ani mava in successive generazioni i nostri maggiori per realizzare un ideale di ordinata bellezza. Una volta, ad esempio, si aveva la più grande fidu cia nella bontà dell’imitazione, oggi ognuno custodi sce gelosamente la propria sensibilità coccolata al ri paro degli influssi. Non si sa più amare profondamen te l’opera d’arte compiuta, non si è più capaci di ve dere dietro di essa l’uomo che l’ha creata e da lui imparare; va sempre più generalizzandosi una inca pacità quasi biologica ad afferrare ciò che sta sopra il mestiere o la superficie. Il saggl° Montaigne, invece, confessava di sentirsi «simile alle api che pur saccheggiando i fiori qua e là, dànno poi un miele che appartiene soltanto a loro». Certo non si può parlare di un ritorno «ab imis» come di rimedio all’eccessivo particolarismo della po sizione individualista di moda tra la maggior parte di musicisti e musicologi contemporanei, ma non v’è dubbio che un ben grave ostacolo sarà rimosso quan do ci porremo di fronte alla musica con la stessa mo destia e con lo stesso desiderio di essere semplici, comuni, possibilmente anonimi, che faceva nascere «tropi» e «antifone» proprio da quei monaci che te nevano in assoluto dispregio la fama e che quella mu sica scrivevano ad esclusiva e maggior gloria di Dio.
Indice
p. V
Premessa
Maderna musicista europeo 3 16 26 36 46
50
59 67 75 85 95 103
i. 11. in. iv. v. vi. vii. vili. ix. x. xi. xii.
Un maestro e i suoi maestri Dalla musica greca all’elettronica Allegria di naufragi La melodia assoluta Don Perlimplin (1961 ) L’antico e il moderno Il mito di Iperione La grande estate I capolavori sinfonici La tecnica aleatoria Anarchia e allegria L’ultimo Concerto
Appendice III
117 125
Notizia biografica Catalogo delle composizioni di Bruno Maderna Una pagina di Bruno Maderna (1946)
Finito di stampare il 17 aprile 1976 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso ^Officina Grafica Artigiana U. Panelli in Torino
c.l. 451-5
Nato a Venezia nel 1920, morto a Darmstadt nel 1973, Bruno Maderna si impose sin dagli anni ’50 come una delle piu originali personalità della musica con temporanea. Di rettore d’orchestra dall’età di otto anni, Maderna è stato unó dei piu seri e preparati concertatori e animatori musica li del dopoguerra. Ma, soprattutto negli ultimi anni, aveva intensificato di molto la produzione di compositore, assu mendo neH’ambito della terza generazione della nuova mu sica italiana (quella, per intenderci, di Luciano Berio e di Luigi Nono) una posizione di guida ed esercitando sui musi cisti piò giovani un’azione di stimolo e di esempio incompa rabile. Questo libro di Massimo Mila ricostruisce ed analizza per la prima volta in modo organico il lavoro di compositore di Maderna, sottolineando, Dell’analisi delle singole partiture, come il segreto della sua grandezza artistica consista nell’a vere attraversato tutte le avventure dell'avanguardia senza perdere il contatto con i maestri della tradizione musicale; nelFavere conciliato la piu spregiudicata esplorazione delTavvenire con la fedeltà costante al passato; nell*avete for giato strumenti espressivi nuovi non come fine a se stessi, per il semplice gusto pionieristico diventarli, ma subordi nandoli ad un preciso intento di comunicazione. Massimo Mila vive e lavora a ‘forino come critico musicale di quoti diani e periodici, è stato docente di storia della musica presso il con-ervntorio e l’ateneo di questa città. Ha pubblicato presso Einaudi , Lesperirr/za Musicale e Vcslctka IT9562, poi ristampato in edizione economica nel 1965) Je Cronache Musicali 1955 59 (1959) c la lìrct^ fioria della Musica ( 1963 ).