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L’Universo di Galileo, l’Universo oggi a cura di Vincenzo Cavasinni, Marco Maria Massai e Gloria Spandre
L’Universo di Galileo, l’Universo oggi / a cura di Vincenzo Cavasinni, Marco Maria Massai e Gloria Spandre. - Pisa : Plus-Pisa university press, c2010 523.1 (21.) 1. Universo – Teorie - Sec. 15.-16. 2. Universo – Scoperte scientifiche – Sec. 21. 3. Galilei, Galileo I. Cavasinni, Vincenzo II. Massai, Marco Maria III. Spandre, Gloria CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
In copertina: Elsheimer Adam (1574 ca.-1610): La fuga in Egitto. Monaco, Alte Pinakothek Muenchen, Bayerische Staatsgemaeldesammlungen. Dipinto su rame, cm 31 x 41. Inv.: 216. © 2010. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin
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ISBN 978-88-8492-757-6 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org
Indice
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Prefazione Vincenzo Cavasinni, Marco M. Massai, Gloria Spandre
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1609-2009: L’Universo di Galileo, l’Universo oggi Vincenzo Cavasinni, Marco M. Massai, Gloria Spandre
17 L’INFN e la Fisica del Cosmo Franco Bedeschi
PRIMA PARTE 21 L’Universo di Galileo Paolo Rossi 27 Le stelle di Galileo Francesco Palla 41 The novelty of Galileo’s scientific methodology Steven N. Shore 51 L’Universo oggi Giovanni F. Bignami
SECONDA PARTE 63 Il Sidereus Nuncius: gli argomenti, lo strumento, le scoperte Marco M. Massai, Gloria Spandre
TERZA PARTE 95 La gravitazione Giancarlo Cella
121 La frontiera delle osservazioni astronomiche da terra Antonio Stamerra 141 L’astronomia moderna e la ricerca delle leggi dell’Universo Luca Latronico 161 Macrocosmo e Microcosmo Vincenzo Cavasinni 177 Il documentario allegato al volume Elena Volterrani 179 Gli autori
Prefazione
Le motivazioni che ci hanno spinto a pubblicare questo volume sono molteplici. Innanzitutto, esso vuole essere una testimonianza durevole dell’evento che è stato organizzato a Pisa, presso la Facoltà di Scienze MFN, il 29 ottobre 2009, da Docenti e Ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e del Dipartimento di Fisica per ricordare i 400 anni passati da quando, nel 1609, Galileo Galilei fece le sue prime osservazioni astronomiche e raccolse i risultati nel Sidereus Nuncius, pubblicato il 12 marzo dell’anno successivo. Questo volume contiene saggi e articoli che riassumono i seminari e le conferenze presentate durante il Convegno; e tuttavia è un’opera che acquista una sua totale autonomia in quanto tutti i contributi sono rielaborazioni nuove e meditate delle presentazioni orali basate, come è ormai consuetudine, su tecnologie informatiche potenti ed efficaci, ma anche a volte effimere. Gli articoli si susseguono con sorprendente, voluta, disuniformità; uno perfino è stato lasciato nell’originale inglese; ma è proprio questa diversità un esempio di come la Ricerca presenta i propri risultati, siano essi novità sensazionali in campo strettamente tecnico, o analisi più ragionate di come una nuova conoscenza diventi gradualmente cultura condivisa. Siamo convinti che i lettori possano trovare, tra i tanti temi di questa raccolta, un argomento ed un livello di approfondimento tale da stimolare il proseguimento della lettura, anche oltre i confini delle propria formazione culturale. A tal fine, questi lettori curiosi potranno trovare molte indicazioni nella bibliografia segnalata da ogni Autore, ed anche nella webgrafia, come oggi taluni chiamano una lista di siti web. Ma non solo: dal sito del Convegno (http://glast.pi.infn.it/galileo2009/Galileo.html) potranno scaricare le registrazioni audio di ogni intervento e molti documenti originali presentati nella giornata del 29 ottobre; su questi, sarà possibile trovare tra l’altro le molte immagini che in un volume sull’universo ed i suoi misteri sono indispensabili per cogliere appieno la magia di una galassia a spirale, o la suggestione di un disegno fatto da Galileo. Il documentario su le comete allegato al volume completa efficacemente questa proposta editoriale. In conclusione, questo volume vuole rappresentare un collegamento tra diversi modi di affrontare, oggi, lo studio del cielo; ma, sempre, con consapevole riconoscenza nei confronti di Galileo Galilei, che 400 anni fa, seppe
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Prefazione
per primo superare i limiti naturali dei sensi e nello stesso tempo rompere le artificiali catene che l’Uomo aveva da secoli imposto al proprio sviluppo culturale. Vincenzo Cavasinni, Marco M. Massai, Gloria Spandre Pisa, ottobre 2010
Credits La pubblicazione di questo volume è stata possibile grazie all’assegnazione al Dipartimento di Fisica di Pisa di un fondo dedicato da parte del Comitato nazionale per le celebrazioni galileiane e al contributo dell’INFN di Pisa.
1609-2009: L’Universo di Galileo, l’Universo oggi Vincenzo Cavasinni, Marco M. Massai, Gloria Spandre
Introduzione Galileo Galilei, matematico pisano, è tornato nella sua Città, per un giorno, il 29 ottobre 2009, 400 anni dopo che, lanciando una sfida ai vecchi filosofi, costruito uno strumento rivoluzionario, lo usò per la prima volta per esplorare le profondità invisibili del cosmo aprendo così una nuova finestra sulla conoscenza del nostro universo. Da quel primo gesto, il cielo non fu più lo stesso ed ancora oggi assistiamo a continue scoperte e rivelazioni sui suoi misteri. Questo ritorno, questo ricordo, è stato festeggiato da Scienziati e Docenti, Ricercatori e Studenti, in una giornata dedicata alle scoperte che egli annunciò al mondo nel Sidereus Nuncius, pubblicato a Venezia il 12 marzo 1610. Ma è stato ricordato anche per le conseguenze che da esse derivarono nella concezione del Cosmo, e per lo straordinario orizzonte che egli aprì all’Umanità intera, mostrando che, con strumenti nuovi, le ‘sensate esperienze’ potevano estendere i limiti della conoscenza della Natura. In questa lunga giornata di ricordo e di celebrazioni, dove sono state comunicate anche scoperte recenti, non si è parlato solo di Galileo e del suo ‘Annuncio astronomico’. L’obiettivo degli organizzatori, Docenti e Ricercatori del Dipartimento di Fisica e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, era quello di mettere in evidenza il profondo legame che esiste tra le scoperte e l’insegnamento di Galileo, agli inizi del ’600, ed il lavoro che, oggi, dopo quattro secoli, centinaia e centinaia di ricercatori svolgono alla continua ricerca di nuove conoscenze sulla natura dell’Universo. Durante la mattina, i relatori hanno ricostruito l’ambiente storico e culturale nel quale Galileo ha vissuto e lavorato, ed hanno descritto alcune delle sue scoperte più sensazionali che furono annunciate nel Sidereus Nuncius; mentre nel pomeriggio sono stati presentati i più recenti risultati nel campo dell’Astrofisica osservativa ed è stata illustrata la possibilità di avere dal mondo microscopico, utilizzando i più moderni acceleratori di particelle, indicazioni fondamentali sulla costituzione e il funzionamento dell’universo. Le attività di ricerca in questi campi vedono scienziati pisani tra i più attivi in campo internazionale. Gradualmente, si è cominciato a delineare il debito che gli scienziati di oggi hanno nei confronti di Galileo: ogni volta che un astronomo punta
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il suo moderno telescopio super tecnologico verso il cielo, ogni volta che gli scienziati astroparticellari mettono in funzione un nuovo strumento per sondare l’universo profondo, ebbene, quei gesti ricordano quello compiuto per la prima volta da Galileo nell’autunno del 1609. Il coraggio di guardare avanti? Lo spirito di forte critica nei modelli che vengono dal passato? La fiducia nei propri mezzi, tecnici e culturali? Certamente tutto ciò è stato necessario a Galileo per rompere i vincoli che avevano impedito all’Uomo di superare i limiti dei propri sensi, ma anche di immaginare un mondo diverso da quello ricevuto in eredità. Un ritorno di Galileo in un’Aula della Città dove fu studente e Docente quindi, ma che non sarebbe stato pienamente realizzato senza un’accoglienza adeguata, come invece ha mostrato il pubblico partecipe ai vari momenti della giornata. Erano infatti oltre duecento, la mattina, i partecipanti alle conferenze a carattere divulgativo, che hanno mostrato curiosità e interesse per l’opera ed il pensiero di Galileo; mentre circa ottanta tra ricercatori e studenti hanno seguito nel pomeriggio i seminari di scienza tesi ad illustrare i più recenti risultati della Ricerca. La giornata iniziata alle 9 ha visto l’alternarsi di quattro lezioni e quattro seminari, e dopo un tentativo, ahimè fallito per il tempo beffardo, di ripetere le osservazioni galileiane di Giove e della Luna, ha avuto termine la sera, ben dopo le 11, con la proiezione del documentario “Le comete. Fantasmi nel cielo: storia e scienza”.
I saluti I saluti della Città sono stati portati dal Sindaco Marco Filippeschi il quale ha ricordato le numerose iniziative che Pisa ha dedicato al suo Cittadino più illustre nella ricorrenza dell’Anno Mondiale dell’Astronomia; ma ha potuto anche annunciare le future attività che trasformeranno le numerose, sporadiche iniziative nel campo dell’educazione scientifica in una struttura articolata e permanente, la Cittadella Galileiana. Questo progetto offrirà ai visitatori molti percorsi nel mondo della Scienza, sempre nel ricordo e nell’insegnamento dello scienziato Pisano che continua ad ispirare numerose iniziative di carattere storico-didattico-divulgativo. Il Prof. Umberto Mura, Preside della Facoltà di Scienze MFN che ha ospitato la manifestazione, ha messo in evidenza come qualunque argomento di scienza, e a Pisa in modo particolare, riporti la memoria all’opera di Galileo e come si possa far leva su questa tradizione per proporre ai giovani che si affacciano agli studi universitari una scelta tra i numerosi indirizzi offerti anche dalla Facoltà di Scienze MFN. Il Prof. Alberto Peruzzi, Presidente del Comitato Scientifico di ‘Pianeta Galileo’, iniziativa del Consiglio della Regione Toscana, ha ricordato il lega-
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me che intercorre tra tutte le iniziative che da anni, con metodo e sempre maggior successo, la Regione sta promuovendo nel campo della divulgazione della scienza, in modo capillare su tutto il territorio, con particolare attenzione al mondo della Scuola. Il Prof. Franco Bedeschi, Dirigente di Ricerca dell’INFN di Pisa, ha ricordato che questa manifestazione è stata sostenuta anche dalla Presidenza dell’Istituto, la cui attività è indirizzata alla ricerca delle leggi di Natura che determinano la struttura del mondo come lo percepiamo. Niente di più vicino al lavoro di Galileo: costruire strumenti e teorie per spiegare i misteri del mondo che sta intorno a noi, anche se invisibile ai nostri sensi, o perché troppo piccolo o perché troppo lontano. Infine, nel saluto affettuoso che è stato portato dalla Prof.ssa Lucia Tomasi Tongiorgi, Prorettore del nostro Ateneo, anche a nome del Rettore, si sono ripercorse le molte tappe che hanno distinto le celebrazioni in ricordo di Galileo Galilei tenute presso l’Università di Pisa, che lo ha avuto come Docente di Matematica dal 1589 al 1592.
Cronaca di una giornata speciale Galileo Galilei ha contribuito come pochi altri a cambiare la visione della Natura e delle sue leggi, dedicando il suo lavoro a questioni fondamentali, quali la natura del moto, enunciando per primo il principio di inerzia ed elaborando le leggi di trasformazione delle velocità in diversi sistemi di riferimento, questioni che con il lavoro di Newton si dimostreranno essere alla base della moderna Fisica. Ma lo ha fatto anche con l’introduzione di nuovi strumenti, alcuni vere e proprie rivoluzioni tecniche, e con il continuo sforzo di procedere mediante l’applicazione del metodo sperimentale, metodo che all’inizio era solo una bozza ancora non compiutamente elaborata, né forse completamente consapevole, di una moderna epistemologia, ma che oggi viene universalmente accettata come base necessaria di ogni passo nel progredire della Scienza. Si potrebbe affermare che l’idea di Scienza come motore del progresso comincia a formarsi proprio con Galileo, attraverso la sua proposta e applicazione sistematica di un metodo innovativo, ed anche con la costante opposizione a quelli che egli chiamava ‘Filosofi in libris’, portatori, diremmo meglio ripetitori, di un sapere statico, da contemplare piuttosto che da mettere in atto con costante impegno. Ritornando al 29 ottobre 2009, giovedì, va detto che nell’Aula Magna della Facoltà di Scienze MFN si è colto un intenso senso di partecipazione, di curiosità, di attenzione per i contributi dei vari relatori, tutti ricchi di spunti e di contenuti che, seppur con stili molto diversi, hanno scandito la giornata. I numerosi risultati di recenti osservazioni e di esperimenti di fisica presentati in questo convegno e riportati in questo testo, sono di estremo in-
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teresse e ancora in gran parte inspiegati. Tuttavia, ben difficilmente potranno introdurre cambiamenti così profondi quali furono quelli che Galileo annunciò, prima nel Sidereus Nuncius, e quindi con le scoperte degli anni successivi. Oggi, con gli strumenti di indagine assai raffinati di cui dispone, la Scienza riesce a ottenere risultati prodigiosi, ma spesso non pienamente compresi, perfino dagli addetti ai lavori. Questo è un altro motivo per cui giornate come quella che questo volume vuol ricordare vanno costruite e proposte ad un pubblico vasto, proprio per ‘ricordare’ e ‘spiegare’ le conquiste di ieri, che oggi costituiscono i fondamenti della nostra cultura, e le scoperte di oggi che probabilmente contribuiranno solo domani a modificare e forse a rivoluzionare le nostre conoscenze dello spazio, del tempo, della materia, e della natura dell’universo; o forse degli universi. La successiva proiezione del film “Fantasmi del cielo. Le comete: storia e scienza” (che viene distribuito in allegato al presente volume), del regista Stefano Nannipieri, pisano, realizzato per conto dell’Associazione La Limonaia-ScienzaViva e con la supervisione scientifica del Prof. Bruno Barsella e del Prof. Steve Shore, è stata seguita da una folta pattuglia di affezionati, sopravvissuti alle precedenti dieci ore! Gli elementi che rendono interessante il documentario sono il suo linguaggio spigliato, il rigore scientifico, la presenza di interviste a scienziati illustri, i quali hanno raccontato come queste strane ed errabonde apparizioni nei cieli dell’Umanità, in realtà rappresentino una fonte preziosa di informazioni sulla natura e sull’origine del Sistema Solare.
Ringraziamenti Alla fine di questo breve ricordo della Giornata del 29 ottobre 2009 alla quale è dedicato questo volume, un ringraziamento particolare va agli Studenti delle Scuole Superiori ed ai loro Docenti che hanno partecipato con grande serietà e continua attenzione; questo è stato certamente il compenso migliore per i componenti del Comitato Organizzatore, che qui ricordiamo: Carlo Bradaschia, Roberto Carosi, Vincenzo Cavasinni, Marco M. Massai, Umberto Penco, Steve Shore, Gloria Spandre, Claudia Tofani, Elena Volterrani. Erano infatti presenti intere classi provenienti dal Liceo scientifico XXV Aprile di Pontedera, dall’ITC di San Miniato, dal Liceo scientifico di Forte dei Marmi e dall’ITIS di Pisa. La presenza non certo meno gratificante, infine, è stata quella degli studenti del Corso di Laurea in Fisica, tra i quali si celano, possiamo esserne certi, molti futuri scienziati, sostenuti oggi nello studio quotidiano dall’amore per la scienza e dalla curiosità di svelare, forse, domani qualche vecchio o nuovo mistero della Natura.
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1609: l’universo di Galileo Richiederebbe ben altro spazio descrivere in maniera esauriente il complesso panorama storico-scientifico che caratterizzò il tempo di Galileo, con particolare riferimento all’astronomia ed alle osservazioni celesti. Tempi di cambiamento, gli anni a cavallo tra ’500 e ’600! La teoria di Copernico aveva forse già esaurito la sua formidabile spinta iniziata quasi settant’anni prima; Tycho Brahe aveva sviluppato il suo originale modello ibrido, con i pianeti orbitanti intorno al sole, e tutti insieme intorno alla Terra. E Keplero andava elaborando complicate costruzioni geometriche fatte di solidi regolari, sfere tangenti ed armonie ancora non completamente capite. E tuttavia, ogni nuova idea, ogni nuova proposta doveva ancora rispondere ad esigenze estranee alle pur concrete basi scientifiche costituite dalle migliaia di pagine coperte da precise annotazioni delle effemeridi di qualsiasi cosa si muovesse in cielo. La metafisica ancora permeava qualunque speculazione sull’universo e di conseguenza il rapporto con le cose del mondo era astratto, basato spesso sulle opinioni degli Antichi e su preconcetti inamovibili. Ma ormai l’alba del ’600, seppur illuminata dai sinistri bagliori del rogo sul quale bruciava Giordano Bruno, annunciava nuove conquiste e nuove rivoluzioni nella Scienza. In particolare, l’elaborazione astratta e la necessaria verifica sperimentale delle teorie concepite, cominciarono ad essere il fondamento del nuovo metodo scientifico, divenendo rapidamente la condizione dirimente per la corretta valutazione di un modello. Le basi matematiche della scienza saranno sviluppate da Cartesio prima e Newton in seguito, e avrebbero segnato tutto il secolo, fino agli inizi del ’700, quando un’altra rivoluzione stava aspettando, l’Illuminismo, che stavolta avrebbe gettato nuova luce su la Società intera. Questo, l’Universo di Galileo che verrà descritto nei capitoli successivi, dove sono raccolti i contributi di Paolo Rossi, Steve Shore, Francesco Palla e Giovanni Bignami. Il raccordo tra la prima e la seconda parte è costituito dal breve saggio sul Sidereus Nuncius e su l’opera di Galileo, di Marco M.Massai e Gloria Spandre, che vuol essere un piccolo omaggio ad una grande libro che ha cambiato la visione del mondo, visto con il nuovo, possente ‘occhiale’.
2009: l’Universo oggi La capacità di esplorazione della realtà fisica, sia a livello astronomico sia a livello delle strutture microscopiche della materia, ha avuto un enorme sviluppo negli ultimi 50 anni grazie anche al fortissimo sviluppo tecnologico che ha permesso la costruzione e messa in opera di strumenti di indagine sempre più potenti, sensibili e precisi. I grandi telescopi a terra e in orbita capaci di captare le più deboli emissioni di luce che ci arrivano dalle pro-
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fondità dello spazio, anche nelle frequenze non visibili dall’occhio umano, la scoperta che anche altri tipi di radiazione, oltre quella elettromagnetica, quali i raggi cosmici, i neutrini, e forse le onde gravitazionali ci daranno informazioni fondamentali sulla composizione e sulla evoluzione dell’universo. Gli esperimenti con potenti acceleratori di particelle ci consentono, d’altra parte, di ricostruire in laboratorio le condizioni che si ipotizza fossero presenti nell’universo primordiale indicandoci possibili soluzioni a problemi aperti sulla costituzione e l’evoluzione dell’universo di oggi. Le relazioni presentate nella seconda parte della giornata ci hanno offerto un quadro sintetico ma significativo sui grandi progressi compiuti in questi campi. Quella di Luca Latronico ci ha fornito un quadro sulle osservazioni compiute nello spazio, al di là delle perturbazioni introdotte dall’atmosfera, sui raggi gamma e sui lampi di radiazione elettromagnetica estremamente energetici osservati, detti GRB (Gamma Ray Burst). A terra, come illustrato da Antonio Stamerra, invece, si sfrutta anche l’atmosfera e l’acqua dei mari come immensi rivelatori delle particelle che vengono dal cosmo, raggi cosmici e neutrini. Uno dei rivelatori di onde gravitazionali più sensibili al mondo, Virgo, è situato a Cascina, proprio vicino a Pisa ed è stato progettato e costruito da Ricercatori pisani; ci sono fondate speranze, come ha spiegato Giancarlo Cella, che nei prossimi anni Virgo, insieme ai suoi omologhi negli Stati Uniti, in Germania, in Australia, e ad altri esperimenti di gravità nello spazio, possa aprire una nuova finestra osservativa. L’ultima relazione tenuta da Vincenzo Cavasinni ha mostrato come alcune scoperte possibili al nuovo collsionatore per protoni del CERN, oltre a sondare fenomeni che avvengono ad energie mai studiate prima, potranno forse risolvere anche enigmi sollevati negli ultimi anni dalle osservazioni astrofisiche.
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L’INFN e la Fisica del Cosmo Franco Bedeschi
L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è sorto all’inizio degli anni ’50 con lo scopo di proseguire e sviluppare la tradizione scientifica iniziata con le ricerche teoriche e sperimentali di Enrico Fermi, e con lo studio dei componenti fondamentali della materia, detti anche “particelle elementari”. Quest’attività è stata principalmente portata avanti realizzando complessi apparati sperimentali per studiare collisioni ad alta energia realizzate tramite acceleratori di particelle. Nel corso degli anni però è progressivamente cresciuta la consapevolezza dell’importante sinergia esistente tra la fisica del cosmo e quella delle particelle elementari. Dal momento della sua formazione il nostro universo ha infatti prodotto, e continua a produrre, collisioni tra particelle ad energie elevatissime, a volte molto più alte di quelle raggiungibili con gli attuali acceleratori. Il problema sperimentale posto dal tentativo di comprendere come avvengano questi processi cosmici è però formidabile. Solo in anni relativamente recenti, e grazie alla maggiore accessibilità di satelliti artificiali per esperimenti di scienze di base, ci si è accorti che i rivelatori di particelle, originariamente sviluppati per studi ad acceleratori, potevano dare un contributo fondamentale alla sua soluzione. Così come Galileo con l’invenzione e l’utilizzo del cannocchiale ha contribuito a cambiare la concezione dell’universo del tempo, l’utilizzo di questi nuovi strumenti d’indagine ha portato a notevoli nuove acquisizioni nella comprensione del cosmo e allo sviluppo di tutta una nuova branca della fisica delle particelle detta per l’appunto “astro-particellare”. Al momento alcune delle più importanti indicazioni dell’esistenza di fenomeni nuovi, non ancora pienamente compresi dai nostri modelli teorici, viene proprio dal lavoro svolto nella fisica astroparticellare. L’INFN in generale e la sua sezione di Pisa in particolare hanno fatto grossi investimenti sia nello studio della radiazione di origine cosmica a terra che in esperimenti su satelliti artificiali. Sono circa otto gli esperimenti di questo tipo attualmente in corso con contributi molto significativi dell’INFN di Pisa nell’ambito d’importanti collaborazioni internazionali. È interessante notare il trasferimento tecnologico avvenuto da esperimenti agli acceleratori a queste iniziative e viceversa. Farò solo alcuni esempi. L’esperimento GLAST/Fermi ha messo in orbita un raffinato sistema di rilevazione della traiettoria di particelle cariche che utilizza una tecnica di rivelatori a semiconduttore sviluppata da molti anni per misurare con estre-
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ma precisione i prodotti di collisioni di particelle in esperimenti presenti e passati alle più importanti macchine acceleratrici del mondo. L’esperimento AMS sta per mettere in orbita uno strumento detto “calorimetro elettromagnetico a fibre scintillanti”, che permette di misurare con estrema precisione l’energia di elettroni, positroni e fotoni; uno strumento molto simile era stato in precedenza progettato e realizzato per l’esperimento KLOE all’acceleratore dei Laboratori Nazionali di Frascati. Un esempio che va nell’altra direzione è quella dell’esperimento VIRGO, un gigantesco interferometro con bracci lunghi tre chilometri sviluppato per la rivelazione diretta di onde gravitazionali. Questo apparato sperimentale richiede un estremo isolamento degli specchi dal rumore sismico e alcune delle tecnologie sviluppate in questo ambito sono utilizzabili per la stabilizzazione di elementi acceleranti in futuri acceleratori di particelle di nuova concezione. Il futuro è carico di aspettative per la recente partenza della campagna di presa dati al nuovo acceleratore realizzato al CERN, il Large Hadron Collider, che fornisce in questo momento l’energia più alta al mondo. Al tempo stesso però ci sono anche preoccupazioni per un campo di ricerca i cui strumenti di base, gli acceleratori, diventano sempre più costosi all’aumentare dell’energia necessaria. Non è chiaro quando il prossimo grande acceleratore verrà costruito. L’universo al contrario è un magnifico acceleratore, anche se poco controllabile, e quindi una sorgente a basso costo di reazioni tra particelle molto difficili da realizzare in laboratorio. Ci aspettiamo quindi che questa complementarietà tra esperimenti agli acceleratori e quelli di astroparticelle continuerà anche negli anni futuri, e che l’INFN continuerà il suo forte supporto all’astrofisica italiana.
prima parte
L’Universo di Galileo Paolo Rossi
Non si può parlare dell’Universo di Galileo senza allargare lo sguardo al contesto storico e culturale nel quale si colloca il pensiero e l’opera del grande scienziato pisano. E per lanciare questo sguardo vorrei scegliere, tra le tante possibili date di riferimento, ognuna in qualche modo giustificabile ma anche ognuna in larga misura arbitraria, la data del 17 febbraio 1600. Quel giorno a Roma, nella piazza di Campo de’ Fiori, fu arso vivo all’età di 52 anni, per ordine dell’Inquisizione, in quanto colpevole di eresia, il filosofo e scrittore nolano fra’ Giordano Bruno, autore, tra le altre sue numerose opere, della Cena delle Ceneri, dei dialoghi De la causa, principio et uno e del saggio De l’infinito, universo e mondi1. La vicenda intellettuale e umana di Bruno s’intreccia in molti modi con quella di Galilei, anche se i due non ebbero l’occasione di incontrarsi, perché Bruno fu arrestato a Venezia il 23 maggio 1592 e dopo pochi mesi fu estradato a Roma, mentre Galileo mise piede nel territorio della Serenissima soltanto quando, il 26 settembre di quello stesso anno, prese possesso della cattedra di Matematica allo Studio padovano. Certamente il processo e l’atroce fine di Bruno costituiscono un’ombra che aleggia su buona parte del XVII secolo italiano. Oltre a contribuire in generale ad emarginare l’Italia, come ha ben osservato Nicola Badaloni2, da tutte le correnti più innovative della filosofia europea, la vicenda bruniana ha certamente spinto Galilei ed altri, per ragioni che non richiedono certo sottigliezze interpretative, a una cautela altrimenti esagerata nell’esposizione delle proprie dottrine, a tutto scapito dell’efficacia persuasiva e della forza di penetrazione in strati ampi della società. Ma Giordano Bruno si staglia anche, sullo sfondo degli opposti integralismi della Riforma e della Controriforma, come il primo spirito veramente libero che, sia pure sulla scia di Nicola Cusano, filosofo tedesco del XV secolo legato al recupero della tradizione platonica, e sia pure in nome di un pregiudizio filosofico sulla natura e gli attributi della Divinità, ha osato rivendicare la possibilità (o meglio, dal suo punto di vista, la necessità teoretica) di un Universo illimitato e infinito, privo di un centro e popolato di infiniti mondi tra i quali nessuna particolare proprietà o privilegio cosmogonico permette di isolare e differenziare la Terra, il Sole e il sistema dei pianeti solari. G. Bruno, Opere italiane, a cura di G. Gentile, Bari 1907. N. Badaloni, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze 1955.
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P. Rossi
Per Bruno quindi la validità del sistema copernicano, pure da lui rivendicata con forza, contro le interpretazioni che ne facevano una pura ipotesi matematica (a partire da quella di Osiander, autore della prefazione alla prima edizione del De revolutionibus orbium caelestium), è soltanto un primo e provvisorio passaggio verso il superamento non soltanto di una concezione tolemaica e geocentrica del Cosmo, ma anche di un’idea strettamente eliocentrica che si limiti a sostituire il Sole alla Terra in un sistema di sfere e di epicicli del quale il cielo delle stelle fisse rappresenterebbe comunque la finita e invalicabile frontiera. Se in Bruno, come già in Nicola Cusano, questa visione rischia, come ha osservato Koyré3, di condurre alla negazione della possibilità stessa di un’interpretazione matematica della natura, è però altrettanto vero che la rottura dello schema concettuale entro il quale si era dovuto (e voluto) muovere lo stesso Copernico fu avvertita come liberatoria dalle menti più brillanti del secolo di Galileo, da Keplero a Descartes, anche se poi nessuno di loro (e neppure lo stesso Galileo, come vedremo) riuscì a cogliere tutta la straordinaria valenza, anche sotto il profilo della formulazione matematica dei principi della fisica, del nuovo punto di vista. Eppure la Cena delle Ceneri (1584) contiene un esame e una confutazione delle classiche obiezioni al moto della Terra che lo stesso Koyré ha giudicato “la migliore refutazione che sia mai stata scritta prima di Galilei”4. E il richiamo alla tradizione democritea nella descrizione del vuoto infinito apre esplicitamente la via anche a un recupero della concezione atomistica della materia che (anch’essa osteggiata dalla speculazione teologica, che si avvaleva della nozione aristotelica di substantia nell’analisi del mistero eucaristico) richiederà ancora secoli prima di giungere a una definitiva affermazione. Non è quindi per caso che Tommaso Campanella (1568-1639), seppure inviso anch’egli alla gerarchia ecclesiastica e incarcerato fin dal 1599, ma comunque ben più desideroso di Bruno di evitare una rottura filosofica totale con l’insegnamento della Chiesa, nella sua appassionata Apologia pro Galilaeo5 (1616) insistette con forza sulla differenza profonda che intercorre tra l’ammettere l’esistenza di più mondi coordinati a formare un unico sistema e l’ipotizzare una pluralità disordinata di mondi sperduti in un universo infinito. Secondo Campanella (e non si può dargli del tutto torto, malgrado gli sviluppi successivi della scienza moderna), le affermazioni di Galileo non vanno confuse con quelle di Democrito e di Epicuro: “Ammettere più mondi non coordinati a costituirne uno solo… è errore di fede… A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano 1970. A. Koyré, op. cit., p. 38. 5 T. Campanella, Apologia di Galileo, a cura di L. Firpo, Torino 1968. 3 4
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Invece concepire molti sistemi minori in seno ad uno massimo… non è affatto contrario alla Scrittura, ma solo ad Aristotele”6. La tesi di Campanella, come del resto si addice a un’Apologia, è quindi in ultima analisi quella di una piena legittimità “teologica” delle idee galileiane, che sarebbe oscurata soltanto da una lettura troppo rigida (e in sostanza erronea, o comunque impropria) del testo biblico. “Copernico, Keplero, Tycho Brahe, Galilei (al di là delle differenze), mantengono invece ben salda l’immagine di un universo ordinato come un sistema unitario”7. E lo stesso Newton che, come vedremo, nella formulazione dei Principia non potrà in alcun modo prescindere da una definitiva rottura con ogni modello finitista della spazio, del tempo e dell’Universo, rivendicherà comunque l’esistenza di un Piano ordinatore, vedendone la manifestazione anche nell’immensa distanza che separa i sistemi stellari, evitando la loro caduta l’uno sull’altro per effetto della gravitazione universale. Tra i padri dell’astronomia moderna, prima di Galileo, merita particolare attenzione, anche per la straordinaria rilevanza scientifica dei suoi risultati, l’opera di Johannes Kepler (1571-1630) e quindi anche la concezione dell’universo ad essa sottesa. Kepler, allievo di Tycho ma decisamente copernicano, rifiuta tuttavia con forza le concezioni infinitiste di Bruno, ed è perfino in sostanza favorevole all’ipotesi che le stelle fisse siano collocate su un’unica sfera (certamente immensa) e quindi tutte equidistanti dal Sole: le nuove stelle scoperte da Galileo grazie al cannocchiale non sono più lontane delle altre, ma semplicemente troppo piccole per essere viste a occhio nudo, mentre il sistema solare è e resta un unicum la cui specificità non è messa in crisi dai satelliti di Giove, mentre lo sarebbe se fossero scoperti pianeti orbitanti intorno a una stella, come prevedono i seguaci della dottrina di Bruno, come Wackher von Wackhenfeltz, che peraltro di Kepler è amico e corrispondente. V’è in Kepler un residuo, ma forte, antropocentrismo, che lo spinge a produrre argomenti non più fisici, ma metafisici a suffragio di una sorta di “centralità” cosmica della Terra, e a introdurre, seppure in nuce, quello che diverrà noto come “paradosso di Olbers” (un numero infinito di astri simili al sole, comunque piccoli e lontani, produrrebbe un cielo uniformemente luminoso: si noti che la soluzione è relativamente recente, e deve fare appello alla legge di Hubble). Come si colloca Galileo in questo dibattito, e qual è la sua concezione dell’Universo? Certamente gli è estraneo l’antropocentrismo di Kepler, e non condivide le obiezioni basate sull’“inutilità” del grande spazio vuoto, T. Campanella, op. cit., pp. 50-51. P. Rossi, Storia della scienza moderna e contemporanea, vol. I, p. 326, Milano 2000.
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tra il cielo di Saturno e le stelle fisse, che l’assenza di effetti di parallasse nella osservazione delle stelle impone di postulare in un modello che assuma il moto della Terra: Grandissima mi par l’inezia di coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso che all’immensa, anzi infinita, sua potenza8. Ma Galileo non cita mai il nome di Giordano Bruno, e non partecipa al dibattito sulla finitezza o infinità dell’universo, dichiarando di non aver mai preso una decisione in proposito e di considerare la questione insolubile. Manifesta soltanto una lievissima propensione per l’ipotesi dell’infinitezza, ma con una motivazione strettamente metafisica: è più facile riferire l’incomprensibilità all’infinito che al finito, che in quanto tale dovrebbe essere comprensibile. Non molto lontano da quello di Galileo sarà, pochi anni più tardi, anche l’atteggiamento di Descartes, che respinge l’antropocentrismo insieme con il geocentrismo, ma preferisce non pronunciarsi sulla questione dell’infinità dell’universo. Ma c’è ancora una domanda alla quale sarebbe abbastanza importante cercare di offrire una risposta: in che misura quest’irrisolta ambiguità poté condizionare non soltanto le concezioni astronomiche di Galilei, ma anche la formazione degli stessi presupposti concettuali si cui si doveva fondare l’intera sua meccanica (e non solo quella celeste)? C’è un dibattito ancora aperto sulla supposta “inerzia circolare”, che secondo molti studiosi9 (ma non secondo Bellone10) avrebbe costituito per Galilei la giustificazione dinamica del moto dei pianeti (e anche il motivo della freddezza dello scienziato italiano nei confronti degli straordinari risultati fisico-matematici ottenuti da Kepler nella descrizione delle orbite, che erano però difficilmente conciliabili con l’idea che il moto “naturale” dei pianeti fosse quello circolare). Non ci sono tuttavia molti dubbi sul fatto che la nozione galileiana di inerzia, pure implicita nella sua analisi del moto parabolico dei proiettili, risultante dalla composizione del moto naturalmente accelerato lungo la verticale con un moto rettilineo e uniforme (e quindi inerziale), così come l’analisi galileiana della relatività, come emerge dal celebrato esempio della nave in moto in un mare calmo, non sono riportabili alla rigorosa definizione newtoniana in quanto fanno sempre riferimento a moti “orizzontali”, e quindi in ultima analisi curvilinei, G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi, in Opere, VII, pp. 393-397, Firenze 1890-1909. P. Rossi, op. cit., vol. I, pp. 215-217. 10 E. Bellone, Galileo, in I grandi della scienza, vol. I, p. 443, Novara 2005. 8 9
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perché obbligati a svolgersi seguendo la curvatura della superficie terrestre. Più che un effetto dell’inerzia, il mantenimento del moto “orizzontale”, e di quello orbitale dei pianeti, sono quindi il risultato di quella che in un linguaggio moderno chiameremmo la conservazione dell’energia (e non la conseguenza della conservazione della quantità di moto, che è invece la “vera” manifestazione del principio d’inerzia). Sarebbe antistorico giudicare “sbagliate” le idee di Galileo, che non arrivò mai a formulare una vera e propria dinamica, e quindi non poté mai analizzare fino in fondo tutte le implicazioni logiche delle proprie ipotesi. Ma non può nemmeno sfuggirci l’evidenza del fatto che soltanto nel contesto di un universo almeno matematicamente infinito, quale quello che sarebbe poi stato postulato da Newton, fu possibile formulare in modo logicamente coerente quelle leggi fondamentali che Galileo aveva certamente in qualche misura intuito, ma che soltanto con la sintesi newtoniana sarebbero state poste definitivamente alla base della fisica moderna.
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Introduzione È ben noto che lo scopo principale di Galileo nel pubblicare il Sidereus Nuncius fosse quello di comunicare le sensazionali scoperte sulla Luna e sui satelliti di Giove nel più breve tempo possibile e con una larga diffusione. Obiettivi entrambi raggiunti se si considera che le 550 copie del libro stampato a Venezia andarono esaurite nell’arco di poche settimane. Meno conosciuto è che il Sidereus Nuncius contiene un numero ristretto di pagine in cui Galileo riporta succintamente le sue osservazioni di stelle, costellazioni e nebulose, corredate da semplici illustrazioni che permettono di apprezzare la quantità e la distribuzione delle stelle invisibili ad occhio nudo, ma identificate con il cannocchiale. Pare che Galileo abbia aggiunto queste quattro pagine mentre il libro era in stampa, forse per essersi reso conto che in questo modo la copertura delle osservazioni sarebbe stata più completa e per garantirsi la paternità delle scoperte anche in questo campo. Questo contributo illustra brevemente la portata delle osservazioni delle stelle di Galileo descritte nel Sidereus Nuncius alla luce delle conoscenze attuali degli stessi oggetti studiati dal novello astronomo. Per farlo si avvale dei risultati di un progetto mirato a ricostruire una copia fedele del cannocchiale galileiano, dotato di apparecchiature per l’acquisizione di immagini digitali da confrontare con i disegni originali.
La replica del cannocchiale di Galileo Il progetto di ricostruire una copia fedele del cannocchiale di Galileo prende le mosse dall’idea del Prof. Paolo Galluzzi di utilizzare come sistema ottico la replica delle lenti originali custodite all’Istituto e Museo di Storia della Scienza (ora Museo Galileo) di Firenze. Le proprietà ottiche delle lenti originali sono state analizzate con metodi moderni dall’Istituto Nazionale di Ottica Applicata e dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Mandò et al., 2009). Si tratta di misure interferometriche senza contatto basate sull’interferenza della luce che hanno permesso di ricostruire la geometria delle lenti, mentre per la loro composizione ci si è avvalsi della fluorescenza a raggi X.
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Le due lenti clonate hanno lo stesso diametro, raggio di curvatura, lunghezza focale e spessore centrale di quelle originali (Del Santo et al., 2009). Come il telescopio originale, la replica è composta da due lenti: una convergente, detta obbiettivo, e una divergente, detta oculare. L’obbiettivo è una lente piano-convessa di 37 mm di diametro con la superficie piatta di fronte all’oculare e di lunghezza focale di circa 1 metro. L’oculare è una lente biconcava di 22 mm di diametro e 50 mm di lunghezza focale. Di conseguenza, l’ingrandimento dell’immagine, pari al rapporto delle lunghezze focali delle due lenti, è di 20x. La distanza fra le lenti è stata calcolata in modo da ottenere un campo di vista simile a quello del cannocchiale originale, così come uguale è la dimensione del diaframma di ingresso collocato di fronte all’obbiettivo (circa 15 mm). La struttura meccanica che fa da supporto al sistema ottico e che permette la regolazione della distanza delle lenti è stata realizzata con materiale semplice (tubi innocenti) da Paolo Stefanini presso l’officina meccanica dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri. La novità del progetto è stata quella di utilizzare un dispositivo digitale per la registrazione delle immagini al posto della consueta osservazione con l’occhio o con una lastra fotografica. Il CCD utilizzato nella replica del cannocchiale è composto da una matrice di 2300x3400 punti. Per le osservazioni più semplici (oggetti brillanti), quali la Luna e Saturno, il cannocchiale è stato dotato di una normale macchina digitale reflex montata su un treppiede, mentre per gli oggetti di cielo profondo che richiedono tempi di posa lunghi (da decine di secondi a diversi minuti) è stata utilizzata la camera CCD con il telescopio montato sul telescopio Amici dell’Osservatorio di Arcetri. La Figura 1 mostra la replica del cannocchiale di Galileo installata sull’Amici all’interno della cupola destinata alle osservazioni per il pubblico e da dove sono state acquisite da Paolo Stefanini e dall’autore le immagini descritte nel testo. Le prime osservazioni sono state eseguite a gennaio del 2009 e sono state dirette alla Luna e a Giove e i suoi satelliti. Superato il test dell’effettiva osservabilità dei quattro satelliti medicei, si è passati alla fase successiva dell’osservazione delle stelle e costellazioni pubblicate nel Sidereus Nuncius.
Le stelle all’epoca di Galileo Il sottotitolo del Sidereus Nuncius specifica che il testo “contiene e spiega osservazioni di recente condotte con l’aiuto di un nuovo occhiale sulla faccia della LUNA, sulla VIA LATTEA e le NEBULOSE, su INNUMEREVOLI STELLE FISSE, e su QUATTRO PIANETI detti astri medicei non mai finora veduti”. Stelle e nebulose dunque vengono menzionate addirittura prima degli astri medicei! Poche righe dopo infatti Galileo afferma “Grande cosa è certamente alla immensa moltitudine delle stelle fisse che fino ad oggi si potevano
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Figura 1. A sinistra la replica del cannocchiale di Galileo con la camera CCD. A destra la replica montata sul telescopio Amici (tubo verde). Il terzo strumento, in ottone, è il telescopio Steinheil di W. Tempel. Galileo, Amici e Tempel, in un’unica configurazione!
scorgere con la facoltà naturale, aggiungerne e farne manifeste all’occhio umano altre innumeri, prima non mai vedute e che il numero delle antiche e note superano più di dieci volte… Inoltre, non mi pare si debba stimare cosa da poco l’aver rimosso le controversie intorno alla Galassia, o Via Lattea, e aver manifestato al senso oltre che all’intelletto l’essenza sua; e inoltre il mostrare a dito che la sostanza degli astri fino ad oggi chiamati dagli astronomi nebulose è di gran lunga diversa da quel che si è fin qui creduto, sarà cosa grata e assai bella”. Ebbene, quali sono queste stelle fisse e nebulose che attirarono l’attenzione di Galileo e che furono osservate nelle notti di gennaio e febbraio 1610? Non è sorprendente che la risposta sia che si tratta degli oggetti più brillanti e significativi visibili in prima serata nel cielo invernale alla latitudine di Padova. Quindi, la costellazione di Orione, le Pleiadi e le stelle della Via Lattea, cui vennero aggiunte due nebulose: una chiamata Testa di Orione e l’altra Presepe. All’epoca di Galileo, l’opinione prevalente degli astronomi sulle stelle fisse era che si trattasse di grandi sfere composte di una qualche sostanza celeste unica e sconosciuta. Esse erano gli oggetti celesti più distanti, raccolte nei gruppi fissi delle costellazioni e collegate alla sfera più esterna
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dell’universo che ruotava da ovest a est in 24 ore. Con poche eccezioni, gli astronomi credevano che le stelle non brillassero di luce propria, ma, analogamente ai pianeti, fossero illuminate direttamente dal Sole. Tuttavia, la loro luminosità non era causata dalla sola riflessione della luce solare: trattandosi di oggetti traslucidi o trasparenti, si pensava che la luce solare le riempisse completamente e che da esse fosse poi riemessa in tutte le direzioni. Naturalmente, condizione indispensabile per il funzionamento di questo meccanismo era che la distanza delle stelle dal sole non fosse troppo grande. Ticho Brahe, uno dei più grandi astronomi dell’era pre-telescopica, stimò che la distanza delle stelle dal Sole fosse circa 14.000 volte maggiore del raggio della Terra, pari a circa 90 milioni di km (cioè, poco più della metà della reale distanza della Terra dal Sole). Un’altra idea comune sulle stelle era che si doveva trattarsi di oggetti di dimensioni diverse, dato che la luminosità di quelle visibili ad occhio nudo variava notevolmente (le famose 6 magnitudini stellari). Le più luminose dovevano essere anche le più grandi e, all’epoca, si stimava che stelle come Sirio e Vega fossero circa 100 volte più grandi della Terra. Al contrario, le meno luminose superavano le dimensioni della Terra di circa 10 volte. Infine, l’osservazione della Via Lattea aveva mostrato sin dai tempi di Tolomeo la presenza di zone di luminose ed estese affiancate a regioni più scure ed irregolari. Quelle brillanti vennero definite “nebulose” e così erano note a Galileo al momento delle sue osservazioni. È interessante notare che nelle pagine del Sidereus Nuncius Galileo non affronta il problema della natura, della distanza e della luminosità delle stelle osservate al cannocchiale. Egli si limita ad indicare schematicamente le proprietà morfologiche delle costellazioni e nebulose, insistendo su numero e vastità delle stelle più deboli invisibili all’occhio nudo. Forse per la fretta di andare in stampa rapidamente o nella consapevolezza che fosse comunque più saggio non entrare in discussioni più filosofiche che astronomiche, Galileo decise di non affrontare problemi speculativi e interpretativi legati alle sue scoperte che cambiavano, anche nel caso delle stelle, le opinioni correnti e radicate. Prima di passare alle osservazioni giova ricordare che parecchi anni dopo Galileo esprimerà le sue opinioni riguardo alla natura fisica delle stelle in alcuni passi del Dialogo sopra i Massimi Sistemi. Da questi si evince che egli riteneva che le stelle si trovano in realtà a enormi distanze dal Sole, molto di più di quanto stimato da Brahe, e che di conseguenza dovessero brillare di luce propria. Dunque, Galileo subito dopo le prime osservazioni della Luna punta il cannocchiale in direzione delle stelle e quello che vede è oggetto di una descrizione meravigliata. “Oltre alle stelle di sesta magnitudine si vedrà col cannocchiale un così gran numero di altre, invisibili alla vista naturale, che appena è credibile: se ne possono vedere infatti più di quanto ne com-
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prendano le altre sei diverse magnitudini; le maggiori di esse, che possiamo chiamare di settima magnitudine o prime delle invisibili, con l’aiuto del cannocchiale appaiono più grandi e più luminose che le stelle di seconda magnitudine viste ad occhio nudo”.
Le costellazioni: Orione È dunque l’enorme numero di stelle che Galileo sottolinea per poi proseguire: “E perché si abbia prova del loro inimmaginabile numero, volli inserire i disegni di due costellazioni affinché dal loro esempio ci si faccia un’idea delle altre. Nel primo avevo stabilito di raffigurare Orione, ma per il gran numero delle stelle e la mancanza di tempo rimandai ad altra occasione questa impresa: ve ne sono infatti, disseminate intorno a quelle già note, entro i limiti di uno o due gradi, più di cinquecento: per questo alle tre già prima note della Cintura e alle sei della Spada aggiungemmo ottanta viste di recente; e quanto più esattamente possibile abbiamo conservato le loro distanze: le note e antiche per distinguerle abbiamo disegnato più grandi e contornate da duplice linea; le altre, invisibili, minori e con una linea sola; conservammo anche, come ci fu possibile, le differenze di grandezza”. Colpisce il rigore scientifico dell’approccio osservativo di Galileo: riportare in maniera quanto più corretta possibile numero, distribuzione e luminosità delle stelle più deboli osservate nelle regioni vicine a quelle già note; impresa non facile per chi ha un pò di dimestichezza con le osservazioni al telescopio. Al contrario della Luna e dei pianeti, i campi stellari e le mutue distanze delle stelle della stessa costellazione sono così vaste da richiedere uno sforzo notevolissimo di precisione e acutezza visiva potendo disporre di un campo di vista limitato. La costellazione di Orione si estende per decine di gradi quadrati mentre il campo del cannocchiale è di soli 15 minuti d’arco! Come vedremo, Galileo riesce a superare anche questo non facile ostacolo. Al prezzo però di non rappresentare Orione nella sua estensione completa, ma di limitarsi ad una parte: quella immediatamente prossima alle stelle brillanti. La parte centrale della costellazione di Orione con le stelle della Cintura e della Spada è mostrata in Figura 2, dove vediamo sia lo schizzo originale di Galileo presente nel suo manoscritto che la versione finale andata in stampa. Nel disegno di Galileo ci sono 80 stelle: 3 della Cintura, 6 della Spada e 71 di campo. In realtà, nell’area della Cintura (Alnitak, 1.8 mag; Alnilam, 1.7 mag e Mintaka, 3.4 mag) è presente una quarta stella brillante (η Ori, 3.4), attribuita alla Spada. Questa è composta da 5 stelle brillanti (da N a S): c Ori (4.6), θ1 Ori A e C (5.1), ι Ori (2.8), HD 36960 (4.8). θ1 Ori A e C sono le stelle principali del quartetto del Trapezio, la cui intensa radiazione causa
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Figura 2. A sinistra: disegno di Galileo della costellazione di Orione dal manoscritto originale del Sidereus. Nella stessa pagina sono anche riportate le osservazioni dei satelliti di Giove. A destra: la costellazione di Orione (Cinguli et Ensis Asterismus) nella versione stampata del Sidereus. Il disegno copre un’area di cielo di circa 5 gradi. La freccia non fa parte del disegno originale e indica la posizione della nebulosa di Orione (v. testo).
Figura 3. La Cintura di Orione ripresa con la replica del cannocchiale.
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l’illuminazione della nebulosa. Nell’area delle Cintura non è invece rappresentata come stella brillante σ Ori (4.0), la stella a est di Alnitak e responsabile dell’illuminazione della famosa nebulosa Testa di Cavallo. Anche 31 Ori (4.7), a sud di Mintaka e a nord di η Ori, non è facilmente identificabile nel disegno originale. Le nostre immagini sono state prese in due aree: una centrata sulla Cintura e l’altra sulla Spada che contiene la nebulosa di Orione. In entrambi i campi la profondità delle immagini è simile, raggiungendo circa la magnitudine 9.4-9.5. Nell’area della Cintura, rispetto al disegno di Galileo, manca il campo centrato su η Ori, a sud-est di Mintaka. Inoltre, non è stata coperta l’area a sud di Alnitak che include σ Ori. L’area centrata sulla nebulosa comprende tutte le 5 stelle brillanti disegnate da Galileo e mostra anche la nebulosa M42. Il campo a sud di ι Ori e HD 36960 comprende poche stelle, alcune di magnitudine intorno a 6 fino a HD 37131 (8.3). Il campo a nord di c Ori si estende fino alle due serie di tre stelle Figura 4. Mosaico della regione della Spada di Orio- allineate N-S, facilmente riconoscibili in ne. La macchia al centro rappresenta la Nebulosa. immagini a grande campo (quella più brillante ha stelle di magnitudine 6.26.6, l’altra 7.5-7.7), ma non nel disegno di Galileo. Il gap tra le due aree è esteso e, come nel disegno di Galileo, relativamente privo di stelle cospicue. È interessante notare che Galileo non fa alcuna menzione sull’osservazione della Nebulosa di Orione. Sappiamo però che pochi anni dopo, per soddisfare le richieste del suo allievo Benedetto Castelli, egli tornerà a fare osservazioni dettagliate delle stelle del Trapezio, lasciandoci un prezioso disegno eseguito il 4 febbraio del 1617 a Bellosguardo. In esso sono fedelmente riportate le distanze relative delle stelle, misurate in 8-9 secondi d’arco. Queste distanze corrispondono alle misure attuali, un segno evidente della qualità ottica del cannocchiale e dell’accuratezza delle osservazioni.
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Dunque, il cannocchiale di Galileo funzionava molto bene, ma non era adatto a far risaltare oggetti di basso contrasto quale, appunto, la nebulosa di Orione che verrà osservata da Peiresc nel 1610 e indipendentemente da Cysat un anno dopo.
La costellazione delle Pleiadi Nel secondo esempio disegnammo sei stelle del Toro dette PLEIADI (dico sei, perché la settima non appare quasi mai), ma chiuse nel cielo entro strettissimi limiti, cui altre invisibili (più di quaranta) sono vicine; delle quali nessuna si allontana più d’un semigrado da una delle sei maggiori: di queste disegnammo soltanto trentasei: e, come per Orione, conservammo le loro distanze, le grandezze, e la distinzione tra vecchie e nuove. Nel disegno di Galileo ci sono in tutto 36 stelle, incluse le 6 stelle brillanti classificate da Tolomeo (da sin a dx): Atlas (27 Tau, 3.6), Alcyone (η Tau, 2.9), Merope (23 Tau, 4.2), Maia (20 Tau, 3.9), Taygeta (19 Tau, 4.3), Electra (17 Tau, 3.7). La settima stella brillante, Pleione (28 Tau, 5.1), che si trova poco sopra Atlas, non è stata indicata tra quelle visibili ad occhio nudo, anche se lo è in condizioni di buona visibilità. È interessante notare che Galileo adopera simboli (asterischi) di dimensione diversa per segnalare la diversa luminosità delle stelle da lui osservate per la prima volta. La nostra riproduzione è il risultato di un mosaico di 14 campi che coprono l’intera estensione della costellazione e includono stelle fino alla magnitudine 9.1-9.2. Nell’immagine sono anche presenti due stelle molto più deboli (di magnitudine 11). I limiti della nostra immagine sono più estesi a N-E e a E, includendo oggetti deboli e la stella brillante 18 Tau (5.6), la più a E in figura. In totale, sono presenti nel campo circa 80 stelle. Il confronto diretto tra il disegno e la nostra immagine rivela l’assoluta fedeltà della riproduzione galileiana alla realtà, sia nell’individuazione di tutte le stelle più deboli di quelle visibili ad occhio nudo, sia nella posizione relativa delle stelle. Tuttavia, è evidente una sensibile distorsione di scala. Il compito di Galileo è stato senz’altro facilitato dalla maggiore compattezza del gruppo delle Pleiadi rispetto alla costellazione di Orione. Il gruppo infatti copre soltanto 2 gradi circa di cielo, quasi quattro volte di più della Luna piena. Oggi sappiamo che le Pleiadi non sono una costellazione, ma le stelle più brillanti di un ammasso aperto distante circa 400 anni luce dal Sole e costituito da circa 1000 oggetti di debole luminosità, tenuti insieme dalla mutua attrazione gravitazionale. Da notare infine che alcune stelle indicate come singole da Galileo si rivelano sistemi doppi nella fotografia.
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Figura 5. La riproduzione del disegno di Galileo delle Pleiadi (in alto) confrontata con l’immagine ripresa con la replica de cannocchiale (in basso). Il campo della foto è leggermente più esteso di quello del disegno.
Le nebulose Cosa sono quegli addensamenti di candore latteo come di nube biancheggiante che costellano diverse aree delle Via Lattea e che erano state identificate e classificate già all’epoca di Tolomeo come “nebulose”? La curiosità di Galileo non sfugge a questa domanda e la risposta viene immediata: “E inoltre (meraviglia ancora maggiore) gli astri chiamati finora dagli astronomi NEBULOSE son raggruppamenti di piccole stelle disseminate in modo mirabile: e mentre ciascuna di esse, per la sua piccolezza e cioè per
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la grandissima distanza da noi, sfugge alla nostra vista, dall’intrecciarsi dei loro raggi risulta quel candore, che finora è stato creduto una parte più densa del cielo, atta a riflettere i raggi delle stelle e del Sole. Noi tra quelle ne osservammo alcune ed abbiam voluto aggiungere i disegni di due. Nel primo hai una NEBULOSA, chiamata Testa di Orione, nella quale contammo ventuna stelle. Il secondo rappresenta la NEBULOSA chiamata Presepe, la quale non è solo una stella, ma una congerie di più che quaranta stelle: noi, oltre agli Asinelli, ne notammo trentasei, disposte nell’ordine seguente”. In cielo la Testa di Orione presenta un allineamento N-S di 6 stelle brillanti di cui la principale, λ Ori (Meissa, 3.5), è la seconda da N. Nel disegno di Galileo (Figura 6 a sinistra), Meissa è la seconda stella da destra della fila più bassa di stelle, che appare dunque ruotata rispetto all’orientazione in cielo. Le quattro stelle a sinistra di Meissa sono: HD 36894 (7.6), HD 245203 (7.5), HD 36895 (6.7), φ1 Ori (4.4). La stella più a destra della serie comprendente Meissa è HD 36881 (5.6), non inclusa nella nostra immagine (v. Figura 7). Questa si estende molto più a E del campo rappresentato da Galileo, fino ad includere la stella HD 36914 (7.3). La stella più brillante del
Figura 6. Le “nebulose” riprodotte da Galileo nel Sidereus. A sinistra la Testa di Orione (Nebulosa Orionis) con 21 stelle; a destra il Presepe (Nebulosa Praesepe) con 38 stelle.
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campo è φ2 Ori (4.1). Naturalmente, il nostro campo è molto più ricco delle 21 stelle raffigurate da Galileo che non risultano facilmente riconoscibili nel confronto con l’immagine digitale. Passando al Presepe, questa è una regione diffusa ben visibile ad occhio nudo con cielo buio in direzione della costellazione del Cancro e nota sin dall’antichità. Il disegno di Galileo (Figura 6, a destra) contiene le 2 stelle brillanti visibili a occhio nudo, note come gli Asinelli: Asellum Borealis (γ Cnc, 4.7), Asellum Australis (δ Cnc, 3.9) - e 36 stelle di minore luminosità che costituiscono il gruppo del Presepe. La magnitudine limite delle stelle riprodotte è di 8.5, simile a quella delle Pleiadi. La nostra immagine in Figura 8 copre l’intera area compresa tra i due Asinelli. Il Presepe è il gruppo di stelle al centro dell’immagine che presenta un allineamento di stelle a forma di V inclinata. Il confronto con il disegno di Galileo rivela due profonde differenze: l’ammasso è spostato a E dell’asse congiungente i due Asinelli (mentre nel disegno appare allineato). Inoltre, il disegno di Galileo deve essere ruotato di 180 gradi per avere Asellum Australis a E di Borealis (come nella realtà) e l’allineamento corretto delle stelle dell’ammasso. L’ammasso vero e proprio del Presepe si trova a metà strada tra i due Asinelli, con una netta diminuzione della densità stellare nei loro dintorni. La rappresentazione di Galileo non riproduce esattamente questa distribuzione, mostrando invece una specie di collega-
Figura 7. Il campo contenente la Testa di Orione realizzato con la replica del cannocchiale. La stella principale, Meissa, è quella in basso a destra. Le dimensioni del campo sono di 1.5x1 grado.
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mento tra Asellum Australis e il corpo dell’ammasso. I nostri campi sono più profondi delle osservazioni di Galileo e contengono stelle deboli fino alla magnitudine 10.5.
La Via Lattea La parte stellare del Sidereus Nuncius si conclude con le osservazioni della Via Lattea e la scoperta della sua composizione che pone fine a secoli di speculazioni filosofiche. L’aspetto visuale della Via Lattea come una banda di luce tenue e diffusa che taglia in tutta la sua lunghezza la volta celeste è il risultato della presenza cumulativa di un numero enorme di stelle, indistinguibili a occhio nudo. Nelle parole di Galileo: “Quello che in terzo luogo osservammo è l’essenza o materia della Via LATTEA, la quale attraverso Figura 8. La regione del Presepe realizzata da un mosaico di 65 il cannocchiale si può vedere campi individuali. L’area copre una regione di circa 9x3 gradi. in modo così palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute. La Galassia infatti non è altro che una congerie di innumerevoli stelle disseminate a mucchi; ché in qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, subito si offre alla vista un grandissimo numero di Stelle, parecchie delle quali si vedono grandi e molto distinte, mentre la moltitudine delle più piccole è affatto inesplorabile”. Galileo non dà una rappresentazione simbolica delle stelle della Via Lattea: e come potrebbe? Troppo vasto è il campo di cielo che si dovrebbe coprire con il suo piccolissimo campo di vista. E poi, quale parte raffigurare che sia di significato universale? Oggi sappiamo che la Via Lattea è un sistema vastissimo e fortemente appiattito di centinaia di miliardi di stelle, una
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delle quali, il Sole, occupa una parte periferica all’interno di un braccio a forma di spirale. Galileo ignora il problema di visualizzare le stelle della galassia e passa al punto che gli sta più a cuore nel trattato “…e cioè rivelare e divulgare le notizie intorno a quattro PIANETI non mai dal principio del mondo fino ad oggi veduti…”.
L’eredità di Galileo Galileo ha lasciato un’eredità fondamentale: l’osservazione dei pianeti (che non abbiamo trattato in questo testo) e quella delle stelle. Oggi sappiamo che gli uni e le altre sono parte dello stesso processo che avviene al momento della nascita e delle prime fasi dell’evoluzione. I telescopi moderni che osservano a lunghezze d’onda infrarosse e radio regioni come la Nebulosa di Orione hanno rivelato che le stelle si formano da materiale solido e gassoso distribuito in un disco circumstellare. Ma non tutto il materiale si accumula sulla stella nascente: una parte minore ma essenziale si agglomera in strutture che diventeranno pianeti rocciosi o gassosi nell’arco di decine o centinaia di milioni di anni. Non è una sorpresa dunque che ad oggi (ottobre 2009) sono stati scoperti circa 400 pianeti in orbita intorno a stelle di tipo solare: il picco di un iceberg ancora tutto da esplorare. Le osservazioni della Via Lattea hanno permesso a Galileo di dimostrare che il numero di stelle che la compongono è incalcolabile. La stima attuale è di svariate centinaia di miliardi di stelle, la maggior parte delle quali ha massa minore di quella del Sole. Oggi sappiamo pure che la Galassia è una tra le centinaia di miliardi di galassie che popolano l’universo, i cui estremi confini sono stati scandagliati da potentissimi telescopi da Terra e dallo spazio. Dato che ogni galassia è un insieme di stelle (e un po’ di materia interstellare) tenute insieme dalla reciproca forza gravitazionale (e dalla materia oscura!), arriviamo alla conclusione logica che l’universo altro non è che una “macchina” formidabile per produrre stelle e pianeti, il fenomeno più comune nella storia del cosmo. Galileo con le sue accurate e pionieristiche osservazioni ha cominciato ad alzare il velo su questa complessa realtà.
Ringraziamenti La replica del cannocchiale è stata realizzata da Paolo Stefanini dell’Osservatorio di Arcetri. Il Prof. Galluzzi del Museo Galileo ha stimolato l’interesse per il progetto e fornito i cloni delle lenti originali. Si ringrazia S. Bianchi dell’Osservatorio di Arcetri per l’assistenza nella riduzione delle immagini digitali. S. Esposito, G. Strano e P. Del Santo hanno collaborato alla definizione del progetto e delle proprietà del cannocchiale. La traduzione dei brani riportati nel testo è quella prodotta dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana-Treccani 2006.
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F. Palla
Bibliografia Del Santo, P., Esposito, S., Strano, G., Vannoni, M. 2009, in Il Telescopio di Galileo, Fondazione Giunti, Firenze, pp. 87-102 Mandò, P.A., Mercatelli, L., Molesini, G., Cannoni, M., Verità, M. 2009, in Il Telescopio di Galileo, Fondazione Giunti, Firenze, pp. 63-86.
The novelty of Galileo’s scientific methodology
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Steven N. Shore
Introductory remarks Experimental science neither began with Galileo, nor in the 16th century. But his methods were fundamentally different and that is the point of this essay. In school you undoubtedly learned about “the scientific method”. This usually is stated as a sort of mantra, “hypothesis, experiment, verification or confutation, and new experiment”, a rather dry statement that seems more like an algorithm, a “procedure” that follows a sequence of predefined steps that lead to an answer or an iteration. Thus stated, the “method” was the English political philosopher Francis Bacon’s summing up of an “efficient” scheme for eliminating error and guiding investigations that would lead to practical, reliable results. Phenomenological in nature, it is in striking contrast to that of his Italian contemporary, the natural philosopher who is the subject of this essay. Perhaps the most novel aspect of Galileo’s empiricism is the wedding of the quantitative with the qualitative. His insistence on repeated checking of measurements and his technique of varying the experimental conditions are unique among his contemporaries. And he chose to express these measurements in terms of general laws, mathematical expressions rather than merely qualitative descriptions. His appreciation of the power of this passage was matched only, perhaps, by his other contemporary, Johannes Kepler (about whom Paolo Rossi has much to say in his chapter).
Astronomy and observation Because it represented his first public success and established his international reputation, I will begin with Galileo’s astronomical discoveries as an illustration of his methods in practice. First, consider the telescope, or rather the “cannocchiali” as Galileo called it. For understanding his methods it isn’t important whether Galileo Let me note at the outset that this essay is an overview and a personal view on the subject, not a “scholarly” appraisal. Some biographies, original texts, and studies are included at the end of the chapter for deeper study on the part of the interested reader. These barely scratch the surface of an enormous mass of works on Galileo, an virtual industry that has spanned the centuries since his death, but are among the most accessible and representative of the best in the literature.
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invented the instrument or merely replicated it. Instead, consider what he did with it. The telescope became in his hands something far more than a tool of commercial advantage that would give advance notice of the arrival of distant ships, the principal concern of the Venetian hierarchy. That the device performed well enough to produce reliable observations in a terrestrial setting served, instead, to calibrate its magnification and optical quality. That is, if you see a distant object and identify it as – for instance – a merchant vessel and it then arrives in port, you can check how well you succeeded in discerning its properties, how complete a description could be drawn from a single remote observation. In other words, the ship’s arrival is a verification of a “prediction”. If the same instrument were pointed at any celestial object, unless there were something magical and essentially different about the light coming from, say, the Moon and that reflected from the sea, the view must be real and intrinsic to the object observed and not the telescope. Thus, pointing it at the Moon, that optical tube transformed into an instrument of discovery, a means to explore without voyage the surface of a body that was known – for centuries – to not only be beyond the atmosphere but sixty Earth radii away. Thomas Herriot, in England, had the same basic idea at almost the same instant. He too observed the Moon with a telescope of his own manufacture and even produced a map of the features he observed with specific points differentiated and identified as fixed surface features, the first celestial atlas. But Herriot stopped there. Instead, Galileo not only continued his observations through the cycle of lunar phases and, far more a philosopher than a geographer, began hypothesizing. He noted that in the shadow zone, the terminator between the illuminated and dark part of the lunar disk, there were bright, isolated points of light. These unresolved points, in Galileo’s mind, recalled again terrestrial observations: the illuminated peaks of mountains when the valleys are in shadow. He recognized mountain ranges, craters, and variations of the surface brightness that resembled seas and, jumping to the picture that there must be an physical similarity between surfaces that are so apparently alike, concluded that the same surveyor’s geometrical techniques can be used to gauge the heights of the peaks with respect to the radius of the body. In other words, the Moon became another world. That amazing word, “world”. Remember that until that moment, the Moon was assumed to be a thing essentially distinct from anything on or of the Earth. It moved in unceasing circular motion among the stars, nothing terrestrial behaves that way. Yet here was the evidence that, intrinsically, it was the same as the Earth, the body that was at the center of the universe by dint of its weight, its material composition. I see this as the transitional moment that separates the history of the physical sciences into two distinct epochs. For all of the previous centuries of study, phenomenological representations of the
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motions of bodies of mysterious but distinct properties in the Eudoxian tradition fulfilled the requirements of astrological prediction and cosmological description even if inconsistent with the physical laws. But what had been two disparate worlds now became a single Universe, susceptible to physical investigation and extension of everyday experience. The philosophical significance of this simple observation were explosive and Galileo knew it. This single datum, the Moon as a “heavy” body obviously orbiting the Earth, was an undeniable contradiction to the most basic premise of cosmology. The next step, more subtle and of a different kind, happened on the night of 7 Jan. 1610 when, turning the telescope toward Jupiter, Galileo noticed a faint triplet of stars that were aligned with each other and centered on the disk of the planet. Over a matter of days their positions changed, always within fixed angular distances from the planetary center even as Jupiter moved with respect to the stars. We know it did not take him long to understand that this was periodic displacement and that this harmonic oscillation ahead and behind Jupiter is orbital motion. But what seemed a merely kinematic phenomenon had a far more stunning implication: this was a double motion of a celestial body. Nobody would deny that Jupiter is in orbit, that it moves. And here were bodies in orbit – bound motion – around a moving center. If these “stars” were, like the Moon, in orbit about Jupiter, then they were transported along with Jupiter in its motion. There could, consequently, be no objection that a celestial body could display compound motion and, therefore, no objection to having the Earth move while maintaining the Moon in orbit around it. Without exaggeration, this appears an almost dizzying leap of intuition. These “stars” – later, for publicity, named after the Medici (how like a modern grant proposal to a wealthy foundation) – were “moons”, and Jupiter were like the Earth and these bodies like the Earth’s satellite, the same argument against the compound motion of any celestial object must be violated by all of the planets. They are also “worlds” – celestial kinematics requires a celestial dynamics. The fixed stars remained, however, a challenge. Galileo’s telescopes were, of course, too small in aperture to resolve them individually but there were surprises nonetheless. Ptolemy, in his star catalog in the Almagest (and all subsequent renditions of it in various later works such as Al Sufi, Ulug Beg, and even Copernicus) had listed a number of “nebulous” stars. These appeared diffuse to naked eye observation. One, in particular, is λ Orionis, the star in the “head of Orion”. In Sidereus, Galileo shows that he had resolved this into an ensemble of fainter stars surrounding the principal visible one, similarly for other stars in Orion, and Praesepe in the constellation Cancer. For more on these observations I commend the reader to Francesco Palla’s chapter on Galileo’s astronomical drawings. Galileo quantified their relative
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brightness by their apparent size2 but realized this was an instrumental effect (again an example of Galileo’s understanding the effect of systematic errors in an observation). Wherever he pointed, however, he saw vastly more stars than were known without the aid of a telescope and realized that this implied a depth to their distribution, that the fainter stars must be farther and more numerous. Thus what had been a “surface”, the celestial sphere, transformed into a volume of unknown dimensions, perhaps limitless. There was no primum mobile – prime mover – situated beyond the planetary spheres to maintain the motion, the stars’ daily rotation were not the rotation of a spherical shell but the reflection of the Earth’s intrinsic rotation. His discovery of the rotation of the Sun, deduced by observations of sunspots over many months following the publication of Sidereus, and the variability of these features on the surface of a self-luminous celestial body, cemented this conclusion. Copernicus had opened the crack in the edifice of inherited cosmology with a hypothesis that simplified the construction of the world system but left its dynamics unexplained. Galileo tore it down. The scale of the universe was far greater than imagined. The via Latea (Milky Way) resolved into stars, leading to the conclusion that it too must be a vast ensemble with substructure everywhere. Cosmography had become physical cosmology. It is true, as Paolo Rossi writes in his chapter, that Galileo did not make the leap to a comprehensive cosmological hypothesis that Kepler made a bit later. There were no mechanical conclusions drawn from these discoveries that explained the origin of the motions. But there was a fundamental physical concept applied in the confrontation of the heliocentric and geocentric models in his Dialogues on the Two Great World Systems, which we now refer to as Galileian invariance. If the Earth is moving in orbit around the Sun, we are transported with it and being part of a moving system, we and everything around us on the planet appear to be at rest in a particular frame of reference. The possibly absolute frame of reference, the now very distant stars, merely kinematically reflect our motion and any ordinary physical measurement we make on Earth is insensitive to it.
Physics and experiment This now brings me to the second main area of Galileo’s investigations, mechanics. We know that Galileo’s interest in mechanical questions was sparked early in his studies of natural philosophy although the circumstances are he This is an effect of the brightness and atmospheric broadening of the point source that they should have been with his instruments’ optics. But the low surface brightness wings of the images are visible in the brighter stars so they would appear larger.
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arsay. Whatever the precise moment and observation was, during his time in Pisa, he noted that the oscillation period of a pendulum is – for small displacements from the vertical – independent of its initial height and symmetric about the lowest point of the arc. He also noticed that this was also independent of the mass of the bob. This is a constrained motion since the body moved along a curve whose radius is the length of the pendulum, and here too he understood that it is the length (hence the initial height) that determines the period. This contrasts with what was then the prevailing physical doctrine, that attributed to Aristotle (-300s) and those who followed throughout the Latin middle ages. This mechanics, previously largely unknown in the West, was “rediscovered” in the 11th and 12th centuries. Beginning with the translations, mainly from Arabic texts, of the surviving works of the Organon, the compilation of Aristotle’s principle works on all areas of human knowledge, the two that most concern Galileo were the Physica (On Nature) and de Caelo (On the Heavens). In these treatises Aristotle addressed the nature of space and time in a physical sense and the problem of motion and its extension to the construction of a consistent model for the heavens and the Earth. But along side this inheritance there was the quantitative, applied approach that was associated with Archimedes, also known principally through translations from Islamic survivals but also from the original Greek (by William or Morbecke in the 13th century). This mechanics concentrated on the problem of equilibrium, i.e. statics, and gave rise to a parallel – less philosophically-laden – literature that Galileo knew well from medieval and early renaissance commentaries. For example, Jordanus de Nemore, in the ‘200, following the Islamic discoveries on weights and levers, that two connected weights places on differently inclined surfaces balance at different points along the planes. This was positional gravity, and the first time the weight and mass of bodies were distinguished (although not in such terms). The pendulum exhibited this dynamically in the sense that when displaced from the vertical the body accelerated and fell along the arc with continually increasing speed. Since motion requires continual forcing that overcomes a resistance, in Aristotle’s mechanics the absence of a resistance was inconceivable, hence there could be no vacuum. Since the heavens execute a finite angular motion in a finite time (the Earth being stationary by virtue of its weight in the center of the world), and an infinite distance cannot be traversed in a finite time, the universe must be finite. Finally, since all motion requires something to maintain it, a force must always be present. So if a body falls it must be subject to some force that, for freely falling bodies is its weight. Hence heavier bodies should fall faster than lighter ones and, moreover, any falling motion should depend on the weight of the body. On moving to Padova, his continuing puzzlement regarding pendular motion led to Galileo’s experiments with inclined planes. With these he
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achieved his principal contribution to mechanics in particular, and physics in general. The quantity of motion gained by the body depends on only its initial height, hence the duration of its fall. If the body, instead, moves along a level surface perpendicular to the direction of the agent that is causing the acceleration – motion along a radial direction, toward the center of the Earth – the speed and direction of any mass is, in the limit of vanishing friction, unchanged. The body’s motion does not require a continual driver, it moves inertially in the absence of an acceleration. The greater the weight of the body, the greater its impact – or impulse – but the speed of all masses at the end of the fall is the same. Again, it is not certain that the famous demonstration from the Leaning Tower (Torre Pendente) was ever actually performed or, if it was, when it occurred and who might have witnessed it, but it was unnecessary. This too is an example of Galileo’s method. Having demonstrated the physical principle using model systems (those constructed in the laboratory), the scaling of the experiment up from meters to tens of meters would have been a simple thought experiment. Galileo was, by this point, idealizing the conditions from careful measurements of the environmental effects and details of the individual controlled manifestations of the dynamics and could say, by induction, that the disturbances produced by such effects as frictional drag on a falling body could be accounted for and, ultimately, ignored. The experiments with inclined planes were essentially quantitative and prototypical of his experimental, as distinct from observational, technique. While the aim is simple, to determine the acceleration of a body in constrained descent, the precise measurement becomes complicated when considering disturbing influences. The difference, for instance, between sliding (slip) and rolling motions is a standard exercise now, but for Galileo they were new considerations. Freefall is another example of this attention to the details of the physical process. It’s easy to simply drop two bodies simultaneously from the same height and see that they strike the ground at the same moment, and even to have a qualitative idea that the effect is different depending on the weight of the bodies. It is enough to see (or hear) the impact. But to consider that here is a difference in the reaction of the body to the medium in which the experiment is conducted, i.e. air, is hardly obvious and derives from Galileo’s intimate familiarity with Archimedian mechanical problems. Resistance – the air friction and dynamic pressure – experienced by the falling body depends on its density contrast, as he knew in analogy with floating bodies, and changes the time for the fall. The kinematics of accelerated motion was already quantified in the 14th centu-
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ry with the so-called Merton Rule3 that was well known at the start of the ‘600. The novelty of Galileian mechanics is the discovery that the motion is independent of the weight of the body; to say “mass” is to anticipate the physics of the end of that century. In statics, instead of slavishly applying weight and the principle of the lever as his predecessors had, Galileo generalized the effect of weight to presage the concept of stress and strain of solids. His example, in Two New Sciences, of the breaking of a beam pivoted on a fulcrum, significantly extends Achimedian reasoning. Instead of considering equilibrium as a stasis, he introduced the notion of structural failure of a body and showed how to apply scaling laws to understand the rupture of an equilibrium. Weight was enough to derive the essential results, no further concept of force as required, that would await the second half of the work. But he had already extended the lever to include the stress on the beam. How he applied this is perhaps best seen in his bio-mechanical parenthesis in the first book of Two New Sciences: as the weight of an animal increases, a simple extension of its bones will not suffice to support the beast unless there is also an increase in their width. But this cannot be continued without limit since the weight depends on the volume while the stress only decreases as the area, hence larger animals are only “stable” if the width increases disproportionately to the length. It is another characteristic of Galileo’s approach that such a general conclusion is derived from the simple application of a mechanical principle. The work on statics also contains a fundamental digression, on the role of the vacuum. Having eliminated, by inertial motion, need for a resistance by a surrounding medium for a force to produce a motion, Galileo was free to discuss the role of “nothing” in the structure of matter. His notion that a vacuum was a sort of unstable state that would, perforce, be refilled was applied to discussion of pressure and stress. The second part of the Two New Sciences, contains Galileo’s final contribution to physics, dynamics. Here, instead of postulating force laws that were in some way consistent with the exigencies of Aristotelian doctrine as had been done by virtually all previous commentators, Galileo set about to determine the laws of motion. To make a very long story short, by extending the pendulum and inclined plane to freely falling bodies, whose acceleration is independent of weight, he effectively separated mass and weight, identifying the former with inertia (the maintenance of a ‘state of motion”). The origin of weight, and its identification with a generalized This is the “mean value theorem”‘, that during an interval of time Δt the mean velocity is Vfinal/2, hence the distance traversed scales as (Δt)2. The quantity of motion, called difform, if uniformly altered by a constant acceleration (difform difform can be approximated by a linear relationship between the speed and time, so V is the final speed.
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concept of force, was finally realized in Newton’s Principia in 1686. But it was founded on the empirical-deductive methods introduced into physics by Galileo.
Publication, popularization, and propaganda Finally, there is Galileo’s literary effort, the most public part of his “method”. It is not enough to expound these results to a “learned” audience. Natural philosophy is a democratic activity. As he put it in his Assayer, nature is open to plain view, accessible to all who can understand how to synthesize its principles. Not by magic or incantations, not by code and secrets, but with geometry and number – mathematics. This is not quite the Platonic concept of the ideal grasped through geometric reasoning. The affirmation that there are systematics behind the phenomena that can be captured in geometric constructions does not deny that there are myriad accidental differences in things. The differences are real, not merely the result of our imperfect perceptions, caused by the same processes that express the physical laws. But if properly accounted for, we can see what – in the end – must be those laws in their purest forms. We can perceive, passing from experience to the abstraction of the conditions as ideal, what would be the fundamental behavior of the things. His choice of language for virtually all of his publications is indicative: Italian. Of his main works, published during his lifetime, only Sidereus remained in Latin (although he had always intended to produce an Italian version it was never realized)4. His choice of style was equally deliberate: the dialogue. This was known to his philosophical audience as a particularly Platonic form, a popular device employed in Renaissance “debates”, but with a flourish that allowed his interlocutors to evolve as they passed from one work to another. His Aristotelian sage, Simplicius, is not so naive by the time of the Two New Sciences as he appeared in the Two Great World Systems; instead of being dogmatic he becomes curious. Sagredo and Salviati also develop, reflecting the setting as the discussion moved from cosmology to material things. And Galileo himself becomes more of a pedagogical presence in the last work than he had ever been, a teacher whose notes were the source of discussion and elaborating demonstrations.
I’ll note that his work was quickly translated, it found an eager public abroad, and the translations show how his way of expressing his ideas was both clear and unambiguous. While forceful and compelling, his lack of ornament made it easy to express Galileo’s rhetoric. This is particularly evident in Thomas Salisbury’s translations of the principal works.
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Epilog No better summary can be provided of Galileo’s legacy than his own words from il Saggiatore: Philosophy is written in this enormous book which is continuously open before our eyes (I mean the universe), but it cannot be understood unless one first understands the language and recognizes the characters with which it is written.
Not by secrets, not by scholarly contemplation, but by experiment and quantification and inductive generalization.
I thank Enore Guadagnini, Francesco Palla, Paolo Rossi, and Roberto Vergara Caffarelli for discussions, the organizers of this volume for their invitation to contribute, and Gabriella Barabino for inspiration. This essay is dedicated to the fond memory of Nick Sanduleak.
Some suggested readings: texts and commentaries Bascelli, T. (Ed) and Shea, W. R. (Trans) 2009, Galileo’s Sidereus Nuncius or A Sidereal Message (NY: Science History Publ.) Battistini, A. (ed.) and Timpanaro Cardini, M. (trans) 1997, Sidereus Nuncius (Venezia: Marsillo) Camerota, M. 2004, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma (Roma: Salerno) Drake, S. (ed.) 1953, Galileo Galilei dialogue concerning the two chief world systems Ptolemaic & Copernican (Berkeley: Univ. Calif. Press) Drake, S. (ed.) 1957, The Discoveries and Opinions of Galileo (1610 Letter to the Grand Duchess Christina) (New York: Anchor) Drake, S. (ed.) 1960, Galileo’s Discourse on bodies in water, tran. Thomas Salisbury (Facsimile reprints in the history of science) (Urbana: Univ. Illinois Press) Drake, S. (ed.) 1974, Galileo: Two New Sciences (Madison: Univ. Wisconsin Press) Drake, S. (ed.) 1979, Galileo: Operations of the Geometric and Military Compass (Dibner Library Publ, No. 1) (Washington: DC: Smithsonian Books) Drake, S. 1998, Galileo. Una biografia scientifica (Bologna: Il Mulino) Favaro, A. (ed.) 1890-1909, Le Opere di Galileo Galilei, Edizione Nazionale (Firenze: Barbera) Galluzzi, P. (ed.) 2009, Galileo: Immagini dell’universo dall’antichità al telescopio (Firenze: Giunti) Koyre, A. 1955, Trans. Amer. Phil. Soc. (New Series), 45(4), 1: “A Documentary History of the Problem of Fall from Kepler to Newton” Petroski, H. 1994, Design Paradigms: Case Studies of Error and Judgment in Engineering (Cambridge: Cambridge Univ. Press)
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Shore, S.N. 2008, Forces in Physics: An Historical Perspective (Colorado: Greenwood Press) Sosio, L. (ed.) 2002, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Milano: Einaudi) Vergara Caffarelli, R. 2009, Galileo Galilei and motion. A reconstruction of 50 years of experiments and discoveries (SIF Ediz. Scientific) Electronic editions: Il Saggiatore: http://www.ildiogene.it/EncyPages/Opere/Galileo-Saggiatore.pdf Sidereus Nuncius: http://www.ildiogene.it/EncyPages/Opere/Galileo-Sidereus Nuncius.pdf
L’Universo oggi Giovanni F. Bignami
L’Astrofisica dei fotoni e lo spettro di tutto Per almeno quattro millenni, l’umanità ha studiato l’astronomia ad occhio nudo. I successi più importanti di questi 4000 anni, che vanno dai Sumeri ai primi anni del secolo XVII passando per Tolomeo, gli Arabi, ai Cinesi, sono stati ottenuti da Tycho Brahe, Nikolaus Kopernikus e Johannes Kepler. Kepler, in special modo, ha sintetizzato tutte le nozioni astronomiche dell’occidente per arrivare, prima del 1609, alla deduzione delle famose leggi sulla natura conica delle orbite planetarie. Sorprendentemente, tutto questo è stato fatto solo sulla base delle osservazioni ad occhio nudo dell’orbita di Marte, dopo aver capito che il pianeta non stava descrivendo una circonferenza. (se avesse deciso di studiare Venere o Giove, che hanno orbite meno ellittiche, Kepler non avrebbe scoperto le sue leggi e persino il grande Isaac Newton avrebbe avuto questi problemi…). 400 anni fa, nel 1609, Galileo Galilei, professore di matematica a Padova ed anche uno straordinario fisico sperimentale, decise che avrebbe costruito uno “specillum” migliore di tutti quelli che potevano fare nelle Fiandre; dopo tutto, a Venezia, c’era il miglior vetro del mondo. Galileo non usò il suo nuovo strumento (“l’occhiale”) solo come giocattolo o come strumento militare per migliorare la sua posizione all’interno della Serenissima Repubblica di Venezia, ma, cosa che gli fa onore, lo puntò verso il cielo. Da allora, gli astronomi utilizzano i telescopi con sempre più successo; è superfluo dire che le conoscenze astronomiche, accumulate duranti questi 400 anni, superano di gran lunga quelle accumulate nei 4000 precedenti. Da circa 40 anni (se consideriamo il 1969, l’anno dell’atterraggio sulla Luna, come data simbolica per il nostro primo approccio al cielo fatto al di fuori della Terra) stiamo studiando l’astronomia dallo spazio e ancora una volta, come vedremo, l’incremento delle conoscenze sull’Universo, ottenute dallo spazio, ha nettamente superato tutto quello che era stato accumulato nei precedenti 4400 anni. La crescita esponenziale (4000-400-40) delle conoscenze astronomiche rappresenta un esempio del rapido progresso della scienza. L’Europa, durante questi 40 anni di astronomia spaziale, non è rimasta a guardare. Gli astronomi dell’ESA, da soli o in collaborazione con la NASA, specialmente nel caso del Telescopio Spaziale Hubble, hanno contribuito significativamente ad un’incredibile “summa summarum” di tutto quello
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che conosciamo oggi sull’emissione elettromagnetica dell’Universo. Tutto è contenuto in un solo grafico che copre più di 15 ordini di grandezza nell’energia dei fotoni (Figura 1). Il picco del grafico, sulla sinistra, rappresenta il Fondo Cosmico a Microonde (CMB), ovvero ciò che resta del Big Bang, scoperto con uno strano radiotelescopio, nel 1965, da Arno Penzias e Bob Wilson. È stata una scoperta fortunata che ha confermato la cosmologia di un Universo in espansione, per la quale i due hanno condiviso il Premio Nobel per la fisica nel 1978. 30 anni dopo, nel 2006, anche George Smoot e John Mather hanno ricevuto il premio Nobel per la fisica per aver scoperto (stavolta dallo spazio) che nel CMB sta impressa la storia futura dell’Universo, scritta nelle sue piccole fluttuazioni e anisotropie. La missione Europea, dedicata a Max Planck, ha come scopo lo studio delle anisotropie angolari e le caratteristiche spettrali della radiazione cosmica del CMB con una precisione senza precedenti. È partito il 14 maggio 2009 a bordo di un razzo Ariane 5, che ha portato in orbita anche un altro osservatorio Europeo dedicato allo studio della regione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Questa seconda missione
Figura 1. Spettro di tutta la radiazione elettromagnetica misurata dall’Universo.
L’Universo oggi
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è dedicata ad un altro grande fisico e astronomo Europeo: l’Anglo-Tedesco William Herschel. Planck e Herschel rappresentano grandi potenzialità per l’astronomia Europea grazie alle loro capacità di osservare di tutto; dalle nuvole molecolari e stelle alle galassie vicine ma anche molto lontane, fino alla fine dell’Universo elettromagnetico. Dopo Planck e Herschel, la grande impresa spaziale per l’astronomia Europea è GAIA che sarà lanciata nel 2011. Questa missione si dedicherà allo studio dei primi gradini della scala delle distanze cosmiche, utilizzando l’astrometria con un’accuratezza senza precedenti, continuando la tradizione Europea iniziata con la missione Hipparcos, degli anni 1989-1993. GAIA realizzerà una mappa tridimensionale della nostra Galassia, misurandone la composizione ed evoluzione. Tutto questo sarà ottenuto misurando posizione e velocità radiale di circa un miliardo di stelle, l’un per cento di tutte le stelle della nostra Galassia. Oltre a scoprire decine di migliaia di pianeti extra solari, osserverà anche mezzo milione di quasar. Grazie a Gaia, assisteremo ad una vera rivoluzione in astronomia, le cui conseguenze non abbiamo ancora pienamente immaginato. Nel 2013 (si spera) l’ESA e la NASA condivideranno un’altra grande avventura a continuazione ideale del Telescopio Spaziale Hubble, ancora oggi operativo, dopo quasi due decenni in orbita. Infatti, un altro Ariane 5 porterà in orbita il Telescopio Spaziale James Webb, conosciuto anche come il New Generation Space Telescope. Questo telescopio, che prende il nome dal secondo Amministratore della NASA, avrà uno specchio sei volte più grande di quello di Hubble e sarà ottimizzato per lavorare nell’infrarosso. Questo permetterà di osservare, per la prima volta, la parte più antica dell’Universo, composta dalle prime stelle e dalle galassie appena nate, l’emissione delle quali è spostata verso il rosso. Le immagini di JWST ci porteranno indietro di 13 miliardi di anni, oltre al limite del Campo Ultra-Profondo di Hubble (HUDF). Fino ad ora, lo HUDF rappresenta la meta più lontana che l’umanità abbia mai raggiunto nell’astronomia, eppure ci mancano ancora i momenti cruciali della nascita delle prime stelle. Sarebbe bello vedere JWST riempire il vuoto che oggi esiste tra le immagini di Hubble e quella del CMB; è in quelle poche centinaia di milioni di anni che tutto è iniziato.
L’Astrofisica delle alte energie: una specialità italiana L’astrofisica delle alte energie, ovvero l’astronomia X e gamma, deve essere fatta nello spazio a causa della presenza della nostra atmosfera (fortunatamente per tutte le forme di vita terrestre). Tutto è iniziato nei primi anni sessanta, negli Stati Uniti, grazie a Riccardo Giacconi, Bruno Rossi e a tutta
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la loro equipe, ma l’Europa ha recuperato in fretta. L’idea di fare astronomia gamma, partita dallo MIT e dalla NASA GSFC, diventò realtà, nella Milano degli anni sessanta, grazie alla ESRO (European Space Research Organization, l’antenata della European Space Agency) ed in particolar modo a Beppo Occhialini. Dopo i primi difficili tentativi con i rivelatori gamma spaziali (S-88, ad esempio, costruito a Milano negli anni sessanta, e che fu il tema della mia tesi nel ’68), sul satellite ESRO TD-1, si formò, in Europa, una collaborazione tra Italia, Francia, Germania e Inghilterra per sviluppare un osservatorio gamma. Il risultato di questa collaborazione, con importante contributo Italiano, fu la nascita della missione COS-B. Lanciato nel 1975, COS-B fu il primo satellite dell’ESA e fu una missione piuttosto fortunata, non solo per aver scoperto la prima sorgente extragalattica di raggi gamma (il quasar 3C273) ma anche per aver trovato prove sull’esistenza di numerose sorgenti “puntiformi” galattiche. Grazie alla sua longevità, la missione COS-B (1975-1982) ha veramente aperto il cielo gamma per l’astronomia e le sue informazioni hanno portato finalmente alla comprensione di Geminga, il primo corpo celeste scoperto grazie alla sua emissione gamma. COS-B ha segnato l’inizio di una serie di missioni di astrofisica delle alte energie nelle quali l’Italia ha avuto (o ha) un ruolo importante, qualche volta il principale. I gruppi Italiani sono stati significativamente presenti nelle missioni dei primi satelliti gamma (COS-B 1975-1982) e X (EXOSAT 1983-1986) dell’ESA. In seguito, in meno di due decenni, l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) ha prodotto due missioni nazionali, BeppoSAX (dedicata a Occhialini), attiva dal 1996 al 2002 e AGILE (P.I. M. Tavani) lanciato nel 2007 e tuttora operativo. Inoltre, le missioni XMM/Newton (operativa dal 1999) e INTEGRAL (in orbita dal 2002), dedicate rispettivamente all’astronomia X e gamma, hanno avuto, per la prima volta nella storia dell’ESA, Principal Investigators italiani, sostenuti dall’ASI e dall’INAF. G.F. Bignami è stato Principal Investigator (1987-1997) dello strumento EPIC a bordo di XMM, che è attualmente lo strumento più produttivo in astronomia X. P. Ubertini è Principal Investigator dello strumento IBIS su INTEGRAL. Anche le due missioni gamma della NASA attualmente attive (Swift e Fermi, già noto come GLAST) hanno beneficiato di un importante contributo italiano che, grazie ad ASI, INAF e INFN, ha coperto sia la partecipazione alla costruzione degli strumenti da parte dell’industria spaziale italiana sia l’analisi scientifica dei dati raccolti. Per mostrare un’immagine completa di questa tradizione nel lavoro dell’astrofisica con l’alta energia ricordiamo alcuni risultati recenti.
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(XMM)Newton, i raggi X e la fisica delle stelle di neutroni EPIC, a bordo dell’osservatorio ESA XMM/Newton a raggi X è lo strumento perfetto per studiare le stelle di neutroni isolate (INSs). Studiare questa popolazione galattica rappresenta una grande sfida e richiede la combinazione di un’ampia area sensibile, un’eccellente risoluzione spettrale e temporale oltre a tanta immaginazione per capire la natura delle strutture scoperte attorno alle INSs. Uno dei risultati più spettacolari che abbiamo ottenuto sulle stelle a neutroni risale all’inizio della missione, quando studiavamo la sorgente 1E1207, una ISN vicino al centro di una recente (104 anni) SNR. La combinazione di rivelatori con le qualità prima descritte e degli specchi del telescopio XMM ha permesso di vedere, per la prima volta nell’astronomia X, delle chiare righe di assorbimento nello spettro 1E1207 (Figura 2). Lo spettro mostra chiaramente che i valori dell’energia intorno ai quali sono centrate queste righe di assorbimento sono distanziati in modo armonico (0.7, 1.4, 2.1 e 2.8 keV), svelando la natura ciclotronica dell’assorbimento (Bignami et al. 2003). Supponendo che le particelle in movimento nella magnetosfera della stella di neutroni (responsabili dell’emissione) siano elettroni o protoni ci sarebbero solo due valori possibili per un campo del genere: 8 x 1010 G or 1.6 x 1014 G. Il valore del campo più alto (necessario nel caso le particelle siano protoni) è escluso; abbiamo quindi la prima misurazione del cam-
Figura 2. Spettro X della sorgente 1E1207.4-5209 (Bignami et al., 2003).
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Figura 3. Le code di Geminga vanno sulla copertina di Physics World.
po magnetico di una stella a neutroni, ottenuta sul posto dall’osservatorio XMM/Newton. In seguito, XMM/Newton, sempre con EPIC, ha osservato Geminga, il prototipo di stella di neutroni che produce solo emissione X e gamma, scoprendo una struttura estesa che traccia il moto della stella nel mezzo interstellare (Figura 3). Tali strutture sono dovute all’emissione di sincrotrone da parte di elettroni con energia di 1014 eV, esattamente la massima energia raggiungibile dagli elettroni accelerati dalla magnetosfera della stella di neutroni secondo la teoria del dipolo rotante, che poi diffondono nel mezzo interstellare caratterizzato da un campo magnetico di circa 10 mG (Caraveo et al., 2003).
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Cogliere al volo i lampi gamma Lanciata nel novembre del 2004, con la promessa di rivoluzionare lo studio dei lampi gamma (GRB), la missione Swift della NASA sta superando anche le aspettative più ottimiste. Swift è un osservatorio versatile che lavora su molte lunghezze d’onda, combinando la tecnologia innovativa del Burst Alert Telescope (BAT), cui compito è coprire una vasta area di cielo alla ricerca di lampi gamma, con i telescopi X (XRT) e ottico-UV (UVOT), preposti allo studio dettagliato di ogni evento. Caratteristica principale di SWIFT è la capacità di ripuntamento autonomo: quando BAT rivela un lampo gamma, il satellite si riposiziona in modo da portare la posizione del lampo all’interno del campo di vista dei telescopi X e ottico. L’Italia è stata invitata a partecipare alla missione NASA, grazie all’esperienza accumulata nell’astrofisica delle alte energie ma soprattutto grazie agli spettacolari risultati ottenuti dal satellite Italo-Olandese, BeppoSAX, operativo dal 1996 al 2002. Dedicato all’astronomia X, il risultato di gran lunga più importante di BeppoSAX, è stato l’aver aperto la strada alla comprensione dei GRB, rimasti un mistero fino al 1997. BeppoSAX ha mostrato che, per identificare i GRB, bisognava servirsi della luminescenza residua X che viene prodotta per un breve tempo, dopo l’esplosione gamma. L’esistenza di una sorgente X permette di affinare la posizione del lampo gamma, in modo da rendere possibile le osservazioni ottiche per determinare, quando possibile, il redshift della galassia ospite. Utilizzando lo stesso metodo, Swift ha scoperto e studiato quasi 500 GRBs, facendo anche un lavoro di follow-up sui GRB rivelati da altri satelliti. Inoltre, ha eseguito un impressionante numero di osservazioni TOO (Target of Opportunity), registrando il comportamento di vari tipi di sorgenti variabili quali Novae, AGN, Supernovae, ma anche stelle e comete. La capacità di Swift di localizzare i GRB (sia lunghi sia corti) e di seguire l’evoluzione della loro emissione a lunghezze d’onda X ed ottiche ha migliorato significativamente le nostre conoscenze sulla natura dei lampi gamma. È stato dimostrato che l’attività del motore centrale continua per diverse ore dopo l’esplosione. Dopo avere stabilito la relazione tra i GRB lunghi e le supernove (quindi con il tasso di formazione stellare) nell’Universo locale, Swift ha trovato prove convincenti che i GRB possono essere utilizzati per identificare le prime generazioni di stelle dell’Universo più giovane. La scoperta di almeno un GRB lungo a z > 8 e di altri due con z > 6 è un risultato importantissimo. Grazie a Swift, i lampi gamma sono diventati gli oggetti più lontani rivelati direttamente dagli astronomi, superando i valori massimi di distanza misurati per le Galassie ed i QSO. Il legame tra i GRB lunghi e le SNe ci ha permesso di utilizzare lo spostamento verso il rosso dei GRB lunghi per dedurre l’evoluzione cosmica della formazione stellare.
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D’altra parte, la localizzazione precisa di alcuni GRB “corti” ha svelato la natura ellittica delle galassie ospiti, caratterizzate da un tasso di formazione stellare molto basso. I lampi corti hanno, in media, degli spostamenti verso il rosso 6 volte più piccoli rispetto ai lampi lunghi e le loro energie isotropiche sono di ~100 volte più piccole. Nessuno di essi è stato associato ad una supernova, quindi possiamo dedurre che le esplosioni corte avvengano in galassie con popolazioni stellari vecchie e abbiano origine nei sistemi binari compatti (cioè composti da due stelle di neutroni o da una stella di neutroni e un buco nero).
Finalmente, Agile Il 23 aprile del 2007 la missione dell’ASI AGILE è stata lanciata dalla base indiana di Sharinakota e posizionata perfettamente in un’orbita equatoriale bassa. Da allora, il satellite ed il suo carico stanno lavorando e la stazione ASI di Malindi, in Kenia, registra regolarmente ogni passaggio del satellite. Agile rappresenta un enorme successo per la scienza e la tecnologia italiana, grazie al suo strumento innovativo: il tracciatore di raggi gamma che rivela fotoni di alta energia tramite il processo di produzione di coppia e traccia le particelle prodotte (un elettrone ed un positrone) tramite diversi strati di rivelatori in silicio. Il rivelatore, che è direttamente ispirato agli strumenti degli acceleratori, permette un ottimo posizionamento dei fotoni all’interno con un campo di vista che copre circa 1/6 della volta celeste, tempi morti bassi ed una eccellente risoluzione temporale. Il carico scientifico di AGILE è stato ideato e costruito da INFN e INAF, in collaborazione con l’industria spaziale Italiana piccola e media, e comprende, oltre al tracciatore dei fotoni gamma, un rivelatore di raggi X ed un piccolo calorimetro, che sono anche degli efficaci rivelatori di lampi gamma. Dopo più di due anni in orbita, AGILE ci ha dato una nuova visione del cielo gamma. L’emissione dal piano galattico è ben evidente, così come sono immediatamente riconoscibili le brillanti sorgenti nel cielo extragalattico (le galassie attive) e nella Galassia (per la maggior parte pulsar radio). AGILE ha rivelato galassie estremamente variabili, ha osservato l’emissione di alta energia di qualche GRB e ha contribuito a chiarire alcuni enigmi che duravano da decenni sull’emissione gamma dei sistemi binari galattici. AGILE è veramente degno di attenzione, perché si tratta di un satellite piccolo ma altamente tecnologico, tutto italiano, che sta facendo una fisica nuova, unica, dallo spazio.
Fermi, un cielo popolato da stelle di neutroni simili a Geminga Il fratello più grande di AGILE, noto come GLAST, è stato lanciato l’11 giugno del 2008. Dopo il lancio e i primi test in orbita, secondo la tradizione
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della NASA, ha cambiato nome ed è diventato l’Osservatorio Enrico Fermi. Un nome adeguato per una missione statunitense che porta l’importante marchio delle idee e dell’industria spaziale italiana nel suo carico e che oggi è testimone di un’intera comunità di scienziati italiani che partecipano al suo utilizzo scientifico. Ancora una volta, la partecipazione dell’Italia alla missione GLAST/Fermi è stata possibile grazie all’ASI che ha finanziato e coordinato il progetto, mentre la scienza è nata da una collaborazione tra INFN e INAF, simile a quella di AGILE, e la costruzione dello strumento è stata realizzata grazie alla piccola e media industria spaziale italiana. Il lavoro fatto per la missione AGILE è stato essenziale per facilitare la partecipazione dell’Italia alla missione Fermi. Andando a guardare il Large Area Telescope (LAT), che è il cuore della missione Fermi, è abbastanza evidente che AGILE è stato il precursore di Fermi. Il LAT comprende 16 torri, ognuna di esse ha dimensioni e caratteristiche simili di quelle dell’intero AGILE: un insieme di rivelatori al silicio a coprire una superficie globale attiva di dimensioni senza precedenti. Dotato di un immenso (una tonnellata) calorimetro posizionato sotto i rivelatori per un’accurata misurazione dell’energia, il LAT di Fermi rappresenta la macchina a raggi gamma più potente mai costruita e messa in orbita. Fermi è in orbita da circa un anno e mezzo ed ha prodotto molti risultati spettacolari. Tra tutti, quello più stupefacente è la capacità di scoprire dei pulsar gamma anche in assenza di pulsazioni radio, cosa che nessun altro strumento era mai riuscito a fare, nemmeno lontanamente, in precedenza. Il primo pulsar radio quieto, scoperto da Fermi a poche settimane dall’attivazione in orbita, è stata la giovane stella di neutroni al centro del resto di supernova CTA1. Era facile immaginare che questa scoperta sarebbe presto stata seguita da altre (Bignami, 2008). E così è stato, con uno straordinario crescendo che ha portato a circa due dozzine le stelle di neutroni scoperte in pochi mesi in gamma senza nessun aiuto dall’astronomia radio. Oltre a porre affascinanti quesiti sulle diverse famiglie di stelle di neutroni, questi nuovi pulsar gamma spiegano i misteriosi UGO (Oggetti Gamma Non-identificati), un nome semiserio per indicare le sorgenti di raggi gamma per le quali non siamo in grado di proporre una identificazione con nessun tipo di oggetto celeste. Dalla loro scoperta negli anni settanta, grazie alla missione COS-B, e la loro conferma da parte dell’EGRET/Compton della NASA, negli anni novanta, gli UGO sono rimasti uno dei misteri dell’astrofisica delle alte energie. Fermi ci dice che potrebbero essere tutti simili a Geminga. La sensazione di aver ottenuto il primo esempio di una nuova popolazione galattica è sicuramente eccitante ma ci sono voluti venti anni di osservazioni (1973-1993) per inchiodare Geminga (Bignami e Caraveo, 1996) mentre le informazioni
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ottenute da Fermi in poche settimane sono state sufficienti per mostrare la natura delle sorgenti. È proprio quello che si chiama progresso nella scienza.
Referenze Bignami G.F. et al, Nature, 2003, 423, p. 725. Bignami G.F. Science, 2008, 322, p. 1193. Bignami G.F. & Caraveo P.A. 1996, A.R.A.A. 34, p. 331. Caraveo et al., Science, 2003, 301, p. 1345.
seconda parte
Il Sidereus Nuncius: gli argomenti, lo strumento, le scoperte Marco M. Massai, Gloria Spandre
Introduzione Sulla copertina di questo volume, come anche sul manifesto e nel sito web che hanno diffuso le informazioni del Convegno del 29 ottobre, compare la riproduzione di un quadro famoso di un pittore tedesco non molto noto: la Fuga dall’Egitto, di Adam Elsheimer (Figura 1). Quest’opera fu dipinta nell’autunno del 1609; e tuttavia ad uno sguardo attento, essa mostra alcuni particolari del cielo che non potevano ancora essere noti in quei mesi: solo di lì a poco, infatti, Galileo avrebbe descritto la Via Lattea come ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi; proprio come si vede nel cupo cielo notturno dipinto da Elsheimer. Lasciando agli storici dell’arte la spiegazione di questo curioso dilemma, possiamo partire da questa che è la prima rappresentazione del cielo moderno visto non più solo a occhio nudo, e provare a descrivere la profonda influenza che le novità annunciate da Galileo produssero agli inizi del Seicento, non soltanto in astronomia, ma anche in molti altri settori della vita culturale e sociale; vedremo come queste nuove osservazioni astronomiche diventarono rapidamente anche un fatto storico e di costume, oltre che di rivoluzionario valore scientifico.
Galileo e le prime osservazioni celesti Nel 1609 Galileo è ben conosciuto nella sua Toscana, a Roma e a Padova, dove insegna ormai da molti anni (1592) ma non ha ancora raggiunto una fama internazionale, pur avendo avuto molte occasioni per confrontarsi, attraverso scambi di lettere, con i suoi contemporanei in tutta Europa, compreso Keplero. Ha scritto già alcuni trattati e delle opere importanti, polemizzando spesso con alcuni colleghi su diverse questioni. In molte occasioni ha manifestato la sua preferenza per il sistema copernicano, ma anche un certo scetticismo nel modello ibrido proposto da Tycho Brahe. Nel 1604, in seguito alla comparsa della Supernova, poi detta di Keplero, si diffonde la sua presa di posizione a favore dell’ipotesi che colloca quella strabiliante apparizione oltre la sfera della Luna, a causa della mancata osservazione del fenomeno della parallasse. Questa ipotesi mette in discussione il modello di sfere celesti e in particolare l’immutabilità del cielo. Intense ed efficaci
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Figura 1. La fuga in Egitto, quadro di Adam Elsheimer, dipinto nel 1609.
furono le parole che egli pronunciò nella prima delle tre lezioni tenute a Padova sull’apparizione della Stella Nova; parole e concetti articolati in un solido schema logico su cui poggiano le molte argomentazioni portate a spiegazione di quel nuovo, improvviso prodigio che stava suscitando meraviglia e sconcerto in tutti gli astronomi. In molti era ancora vivo il ricordo della Stella apparsa nel 1572 nella costellazione del Serpentario (Figura 2). Lux quaedam peregrina, die decima mensis octobris anni huius millesimi sexcentesimiquarti, primum in sublimi conspecta est; a principio quidem mole exigua, mox, paucis interiectis diebus, magnopere eo exaucta, ut stellas omnes, tum fixas tum vagas, sola excepta Venere, vinceret; fulgentissima et admodum rutilans atque scintillans, ut in vibratione luminis pene extingui et statim accendi videaur; fixas omnes et canem ipsum rutilantia superans; colore luminis aureum Iovis nitorem et fulvum Martis imitans ignem. Una luce estranea, il dieci ottobre di questo milleseicentoquattro, per la prima volta fu vista in alto; inizialmente di debole consistenza, ma in seguito, passati pochi giorni, grandemente aumentata da superare tutte le stelle, sia le fisse sia
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le mobili, ad eccezione della sola Venere; luce splendidissima e interamente sfavillante, al punto da sembrare nel vibrare della luminosità quasi spegnersi e subito riaccendersi; luce che supera in splendore quello di tutte le stelle fisse, compreso lo stesso Cane; simile, per il colore della luce, allo splendore dorato di Giove e al rossastro colore di Marte.
Queste ultime parole sono ben giustificate dalla coincidenza, davvero singolare, della contemporanea congiunzione astronomica tra Marte e Giove, con Saturno non lontano, avvenuta in prossimità della nuova stella. Galileo ricorda che questa luce estranea, non ancora stella, è apparsa in sublimi, quindi in alto nel cielo; ma quanto in alto? La domanda pone la
Figura 2. Disegno originale di Keplero indicante con il simbolo N la supernova del 1604 nel piede del Serpentario.
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questione se la stella appartenga al mondo sublunare oppure sia una vera stella; ipotesi, quest’ultima che metterebbe in discussione il principio della immutabilità dei cieli. Ma ancora, come da millenni, il solo strumento di indagine è l’occhio dell’uomo, e ancora non è possibile dirimere molte delle questioni che l’effimera presenza nel cielo dell’ultima supernova visibile, lascia agli astronomi, e non solo a loro. E Galileo conclude così la sua lezione: Siete testimoni, giovani che qui siete accorsi numerosi per sentirmi trattare di questa apparizione degna di ammirazione; alcuni, spaventati e scossi da inconsistente superstizione, per capire se il prodigio portentoso annunci un cattivo augurio; altri chiedendosi se esista nei cieli una vera stella oppure un vapore bollente nelle vicinanze della terra; tutti, poi, cercando ansiosamente di conoscere con unanime interesse la sostanza, il moto, il luogo e il motivo di quella apparizione. Desiderio stupendo, perbacco, e degno delle vostre intelligenze!
In questo appello rivolto ai suoi giovani studenti dell’Ateneo di Padova, egli riesce a trasmettere un sincero entusiasmo per lo studio della Natura, per il superamento delle paure e dei dubbi che inevitabilmente accompagnano la formazione di un uomo di scienza.
Galileo nel 1609 Ma alla fine del 1609, nonostante non sia nuovo a dubitare delle conoscenze consolidate nel suo tempo, Galileo non è ancora persuaso della validità delle prove portate a sostegno del modello copernicano, nel quale tuttavia crede sempre. Non è neanche convinto delle tesi che Keplero enuncia nella sua ‘Astronomia Nova’, nella quale, partendo dallo studio dell’orbita di Marte, fortemente eccentrica, vengono proposte per la prima volta nuove leggi del moto dei pianeti. Lo stile pesante di Keplero e la sua visione mistica del cosmo sono un ostacolo che Galileo non vuol superare e questo sarà per lui una barriera che lo porterà a trascurare i contributi fondamentali portati dall’astronomo polacco all’affermazione delle nuove idee in astronomia. Sul piano più strettamente epistemologico, Galileo già da tempo ha espresso, e ripetutamente, la sua fiera opposizione a quelli che egli chiamava ‘Filosofi in libris’, accusati di riprodurre un sapere chiuso, sempre uguale a se stesso; come se una discussione su un tema di scienza o di filosofia potesse seguire la stessa procedura di una disputa in tribunale, fatta di dotte citazioni o forzate interpretazioni del pensiero dei Grandi del passato. Alla vigilia delle sue più importanti scoperte astronomiche egli è già convinto che il modo di far progredire la scienza risieda nelle ‘sensate esperienze e certe dimostrazioni matematiche’; oggi possiamo dire che il metodo
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scientifico si articola in due momenti fondamentali: osservativo-induttivo e ipotetico-deduttivo. A questa nuova visione della scienza Galileo contribuisce in modo determinante, costruendo e poi utilizzando nuovi strumenti: è difficile infatti fare nuove sensate esperienze sugli oggetti celesti avendo a disposizione da duemila anni sempre lo stesso strumento, e neanche troppo preciso, qual è l’occhio umano. Galileo ha mostrato sempre una perizia particolare, curata e sviluppata fin dai tempi nei quali era Docente a Pisa, per la costruzione di ‘apparecchi’ di misura di varia natura (orologio ad acqua, compasso militare). Anche per queste sue capacità è chiamato, giovane, dalla Repubblica di Venezia che ha bisogno di nuove idee che superino la scuola aristotelica che a Padova è ben consolidata. E Galileo, buon conoscitore delle opere di Archimede, in special modo sul galleggiamento e sulla tecnica di fortificazione, può dare un prezioso aiuto allo sviluppo della Repubblica. Proprio a Padova egli organizza presso il suo domicilio un laboratorio artigianale dove si oc-
Figura 3. Ritratto di Galileo quarantenne.
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cupa anche dei problemi più disparati: macchine per irrigazione, calamite e bussole, trapani per fare viti, orologi e lucerne, termoscopi, dedicandosi persino al problema di ridurre l’attrito dei remi delle galere. In quegli anni, in Galileo (Figura 3) cresce la consapevolezza di aver molto da dire sul piano metodologico, ed avverte grave il limite che gli deriva sia dall’ambiente non certo stimolante dell’Accademia padovana, sia dal gravoso, quotidiano carico didattico; ma anche dalla costante pressione affinché si occupi di questioni tecniche. “Magna longeque admirabilia apud me habeo” come scrive in una lettera a Belisario Vinta, Segretario di Stato del Granduca di Toscana. Presunzione? Consapevolezza delle proprie capacità? Desiderio di confrontarsi con i grandi del suo tempo? Forse tutto ciò. Certamente Galileo sente ormai il limite alla possibilità di sviluppare nuove conoscenze che gli viene dall’essere Docente a Padova.
Figura 4. Frontespizio del Sidereus Nuncius.
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Galileo aspira a le “…lode” dagli “studiosi della professione” che gli venissero dalla “maggiore e più universale e più diuturna utilità di quello che nel resto della vita apportar potesse”. Il ritorno nel Granducato di Toscana diviene per lui la speranza, la sola, di un profondo miglioramento della sua vita professionale. Questo è lo stato d’animo di Galileo nel 1609, anno cruciale, nel quale viene a conoscenza di uno strano strumento, quasi un giocattolo che permette di vedere le cose lontane come fossero molte volte più vicine.
La pubblicazione del Sidereus Nuncius Nell’inverno 1609-1610 Galileo è al lavoro: di notte fa le sue osservazioni con il cannocchiale, mentre di giorno, riprendendo gli appunti e i disegni notturni, scrive via via le pagine del Sidereus Nuncius (Figura 4). Riporta decine e decine di notti di osservazioni continue, al freddo dell’inverno veneto, e tuttavia limpido ed ideale per osservare il cielo. La struttura del libretto è asciutta ed essenziale, non certo simile alle molte opere contemporanee in stile barocco, che pure lo stesso Galileo, uomo del suo tempo, ha usato, ed userà perfino nell’introduzione dello stesso Sidereus Nuncius. Opera breve, dunque, ma profondamente innovativa, il cui stile si potrebbe paragonare ad un moderno resoconto scientifico, sia per le osservazioni che, numerose, sono elencate ordinatamente, sia per i continui cenni a possibili interpretazioni, tutte basate rigorosamente su logiche argomentazioni (‘certe dimostrazioni matematiche’) tratte dalle osservazioni (‘sensate esperienze’). Magna equidem in hac exigua tractatione singulis de natura speculantibus inspicienda contemplandaque propono. Magna, inquam, tum ob rei ipsius præstantiam, tum ob inauditam per ævum novitatem, tum etiam propter Organum, cuius beneficio eadem sensui nostro obviam sese fecerunt (Figura 5). Grandi cose per verità in questo breve trattato propongo all’osservazione e alla contemplazione di quanti studiano la natura. Grandi, dico, e per l’eccellenza della materia stessa, e per la novità non mai udita nei secoli, e infine per lo strumento mediante il quale queste cose stesse si sono palesate al nostro senso.
Così inizia uno dei libri più importanti nella Storia della Scienza, un libro dopo il quale non solo la visione dell’Universo cambierà, ma anche quella dell’Uomo in esso. Galileo sembra comprendere questo passaggio, ne ha consapevolezza, come si capirà avanti in molti passi. Qui, all’inizio dell’Opera alla quale affida il compito di farlo entrare nell’Olimpo dei Filosofi, egli coglie il momento per mettere le basi del metodo che accompa-
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gnerà d’ora in poi qualunque progresso scientifico: come si legge, infatti, pone sullo stesso piano (magna, grandi) sia l’argomento della trattazione, il Cielo, sia il valore delle scoperte che va ad annunciare, sia i meriti dello strumento, il cannocchiale, che, solo, può estendere la portata dei sensi. Ed il ritmato succedersi, nell’originale latino, dell’avverbio tum per ben tre volte, è un esempio di come anche alla qualità della prosa, Galileo affidi l’efficacia del messaggio che vuole trasmettere. Ma certo ha già colpito il lettore la contrapposizione iniziale tra magna, grandi cose, generico ma ancora per poco, ed exigua tractatione, onde avvertirlo che si prepari a continue sorprese nel proseguire la lettura di questo piccolo trattato. Il 12 marzo 1610 il Sidereus Nuncius viene pubblicato a Venezia, in 550 copie, andate rapidamente esaurite. La risonanza delle scoperte annuncia-
Figura 5. Incipit del SN.
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te e descritte, l’immediatezza con la quale queste novità vengono capite e le implicazioni che presto ne sarebbero scaturite, si propagano in tutto il mondo con una rapidità sorprendente, soprattutto se si pensa ai mezzi di comunicazione dell’epoca. L’ambasciatore inglese a Venezia, sir Walton, ne invia una copia al suo re, Giacomo I, sottolineando che le scoperte descritte sono la novità più grande mai udita sulla Terra, ma aggiungendo, ironicamente, che l’Autore “o sarà presto ‘straordinariamente famoso’ o ‘straordinariamente ridicolo’”. È vulgata non certa, la reazione di Keplero il quale, non appena gli furono annunciati i contenuti del SN, avrebbe cominciato a ‘ridere e a ballare’ dalla felicità nell’apprendere simili novità. Benedetto Castelli, che di Galileo era discepolo ed amico, la lesse dieci volte di seguito, “con somma meraviglia e dolcezza d’animo”. Solo due settimane dopo la pubblicazione, a Firenze ci si accaparrava le copie che si riusciva a trovare, non solo da parte dei dotti, ma anche di borghesi curiosi.
Il Sidereus Nuncius e la Chiesa Nell’ambiente della Chiesa, c’è iniziale attenzione ed interesse, anche perché i maggiori astronomi dell’epoca erano uomini di Chiesa; e tuttavia, gradualmente ma inesorabilmente, le cose andranno lentamente cambiando, anche se passeranno almeno 6 anni prima che si arrivi a porre a Galileo la questione di essere o meno all’interno dei dogmi della Chiesa. I problemi sul tappeto non erano di rilevanza secondaria: nel SN, infatti, si leggeva facilmente una esplicita adesione al sistema copernicano, ed era palese, grazie proprio al suo stile piano, una serie di affermazioni che mettevano in dubbio, ed in alcuni casi, contraddicevano apertamente, le tesi di Aristotele sulle quali si basava la teoria cosmologica accettata dalla Chiesa. E questa, che dopo il Concilio di Trento aveva dovuto prendere atto del fallito tentativo di ricomporre l’unità dei cristiani, assunse presto una posizione di assoluta intransigenza di fronte alle implicazioni delle nuove scoperte; forse anche per non ammettere ulteriori cedimenti di fronte alle aggressive eresie protestanti contro le quali ormai da alcuni decenni, la lotta era senza quartiere e ben più lo sarebbe stata, non solo sul piano teoretico e dogmatico, bensì anche sui campi di battaglia di tutta Europa. Come appare tangibile lo sgretolamento della quintessenza cristallina che doveva costituire le sfere celesti, così si indeboliscono secoli di certezze, sia nella conoscenza, sia nella metodologia: dalla mera osservazione, mediante uno strumento che moltiplica la potenza dei ‘sensi’ dell’uomo, si formulano, mediante il ragionamento, nuovi modelli cosmologici e si confermano avveniristiche ipotesi, da quasi un secolo, ormai, in attesa di ‘certe dimostrazioni’.
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L’apparizione della superficie lunare così diseguale, corrugata, piena di valli, anfratti, catene montuose e mari, quindi così terrestre, demolisce con poche settimane di osservazioni, millenni di convinzioni: la luna non è più il primo baluardo del mondo incorruttibile delle stelle, eterno ed immutabile, in contrasto con le corruttibili vicende terrestri. Inoltre, l’aver scoperto nella luce opalescente delle ‘nebulosae sidera’ (stelle nebbiose), centinaia e centinaia di stelle invisibili a occhio nudo, pone immediatamente il problema delle dimensioni dell’universo. Non più finito, con le stelle nella stessa sfera dalla creazione, immobili nella loro quotidiana rotazione, ma un cosmo che si dilata a dismisura sotto lo sguardo dell’uomo attraverso le sottili lenti di un cannocchiale. E che avesse ragione Giordano Bruno nell’immaginare un universo infinito? La risposta della Chiesa si era manifestata il 17 febbraio del 1600, a Roma, in piazza Campo de’ Fiori, illuminata dal rogo dove bruciava il corpo del filosofo di Nola (Figura 6).
Reazioni al Sidereus Nuncius Galileo, demolendo i presupposti del modello cosmologico accettato, rompe gli equilibri, scardina le semplici geometrie, anche di valori, che sono così chiaramente evidenti a chi osserva il cielo, senza strumenti, come da sempre ha fatto l’Umanità. Ma Galileo ancora non sostituisce un ordine antico con un nuovo ordinamento, ancora troppo cangianti appaiono le scoperte che si vanno annunciando. Di lì a poco, Venere, con le sue fasi, Saturno tricorporeo, e poi le macchie solari! Secondo lo storico della scienza Alexandre Koyrè, il colpo che Galileo infligge con il SN e le successive osservazioni arriva proprio al sistema di equilibri all’interno del quale l’uomo si muove e trova i suoi riferimenti stabili. Equilibri che adesso non ci sono più e mai più torneranno come prima. Non si tratta solamente di scegliere tra due modelli di Universo, tra Tolomeo e Copernico: è in discussione anche il metodo con il quale la Scienza progredisce. Per l’Umanità è in gioco, ancora inconsapevolmente, la possibilità di percorrere un lungo cammino di progresso, abbandonando gli schemi, rigidi e chiusi, della statica conoscenza aristotelica. Ma lo scompiglio che il Sidereus Nuncius va provocando, travalica il contesto della scienza del tempo. Sorprendentemente, le novità del SN vengono recepite con costernazione, con inquieta preoccupazione, anche dal variegato mondo degli astrologi e dei medici. Infatti, veder comparire nuovi pianeti scompagina le codificate, rigide regole alla base dell’astrologia che permette di leggere le vicende
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Figura 6. La Statua di Giordano Bruno in piazza Campo dei Fiori a Roma.
umane, passate e future, nella posizione degli astri. E questi astri adesso non sono più gli stessi. Non solo: anche la salute dell’uomo va letta nel cielo. E un cielo così ‘nuovo’ alimenta nuova confusione nel mondo dei medici (se così si possono chiamare…). Ma non vi è dubbio che il sommovimento più grande viene percepito nella visione del cielo: il cannocchiale moltiplica la potenza del senso che per antonomasia permette di conoscere il mondo esterno, la vista, ‘senso sopra gli altri, eminentissimo…’ (dal Saggiatore). Da questo momento in poi, si fa strada, prepotentemente, la consapevolezza che gli strumenti se ben realizzati e ben conosciuti, rappresentano la sola via per migliorare ‘le sensate esperienze’. Questa è un’altra non piccola rivoluzione che sarà, sempre più, portatrice di nuove conoscenze per l’uomo. che acquista quindi fiducia nei mezzi
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che egli stesso costruisce; un altro grande merito che deve essere riconosciuto apertamente a Galileo. Dirà il suo allievo Castelli: “…occhio privilegiato, che si può dire che abbia più visto lui di tutti gli uomini che lo hanno preceduto e che abbia al tempo aperto gli occhi di tutti gli uomini che verranno nei secoli a venire…”. Galileo ha costruito un cannocchiale (o meglio, alcuni esemplari) sulla base di uno scarno disegno e di incerte notizie che arrivano dall’Olanda, certo traendo grande aiuto dall’esperienza dei maestri vetrai di Venezia, ma soprattutto facendo conto sulla sua abilità nel costruire ottimi strumenti innovativi. Non si conoscevano allora le leggi dell’ottica, anzi l’ottica stessa non era ancora la scienza delle lenti o degli specchi, bensì la scienza della visione, basata su molte e contraddittorie osservazioni degli sperimentatori del ’400 e ’500. Quindi Galileo non inventa il cannocchiale quale strumento ‘per avvicinare’; ma senza esitazione si può affermare che è lui l’inventore del nuovo potente strumento di indagine astronomica.
Galileo illustra i contenuti del Sidereus Nuncius Bellissima cosa e mirabilmente piacevole, vedere il corpo della Luna, lontano da noi quasi sessanta raggi terrestri, così da vicino come distasse solo due di queste dimensioni; così che si mostrano il diametro stesso della Luna quasi trenta volte, la sua superficie quasi novecento, il volume quasi ventisettemila volte maggiori che quando si guardano a occhio nudo: e quindi con la certezza della sensata esperienza chiunque può comprendere che la Luna non è ricoperta da una superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e, proprio come la faccia della Terra, piena di grandi sporgenze, profonde cavità e anfratti (Figura 7). Inoltre non mi pare si debba stimar cosa da poco l’aver rimosso le controversie intorno alla Galassia, o Via Lattea, e aver manifestato al senso oltre che all’intelletto l’essenza sua; e inoltre il mostrare a dito che la sostanza degli astri fino a oggi chiamati dagli astronomi nebulose è di gran lunga diversa da quel che si è fin qui creduto, sarà cosa grata e assai bella. Ma quel che di gran lunga supera ogni meraviglia, e principalmente ci spinse a renderne avvertiti tutti gli astronomi e filosofi, è l’aver scoperto quattro astri erranti, da nessuno, prima di noi, conosciuti né osservati, che, a somiglianza di Venere e Mercurio intorno al Sole, hanno le loro rivoluzioni attorno a un certo astro cospicuo tra i conosciuti, ed ora lo precedono ora lo seguono, non mai allontanandosene oltre determinati limiti. E tutte queste cose furono scoperte e osservate pochi giorni or sono con l’aiuto d’un occhiale che io inventai dopo aver ricevuto l’illuminazione della grazia divina. Altre cose più mirabili forse da me e da altri si scopriranno in futuro con l’aiuto di questo strumento, della cui forma e struttura e dell’occasione d’inventarlo dirò prima brevemente, poi narrerò la storia delle osservazioni da me fatte.
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Figura 7. La Luna come appare nel Sidereus Nuncius, disegno originale di Galileo.
Galileo parla dell’invenzione del cannocchiale Galileo non si appropria dell’invenzione del cannocchiale, come afferma lui stesso: Circa dieci mesi fa ci giunse notizia che era stato costruito da un certo Fiammingo un occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur distanti assai dall’occhio di chi guarda, si vedevan distintamente come fossero vicini; e correvan voci su alcune esperienze di questo mirabile effetto, alle quali chi prestava fede, chi no. Questa stessa cosa mi venne confermata pochi giorni dopo per lettera dal nobile francese Iacopo Badovere, da Parigi.
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È impressionante come Galileo abbia perfezionato in poco tempo lo strumento del quale non conosceva neanche il principio di funzionamento (Figura 8). Il primo ‘occhiale’ ingrandisce tre volte, ed è poco utile, neanche in campo militare. Gira per l’Europa da un anno e nessuno ne ha capito ancora le potenzialità, tant’è che non sono stati apportati miglioramenti rispetto agli esemplari comparsi in Olanda nel settembre del 1608. Il primo strumento costruito da Galileo ingrandisce circa 7-8 volte, ma egli non è contento, in particolare della qualità del vetro. Ma a Venezia ci sono i migliori vetrai d’Europa; ed anche questo è un punto cruciale. Il vero salto di qualità viene realizzato con uno strumento che anche oggi appare incredibilmente potente. Prima venti, quindi trenta ingrandimenti è il risultato che raggiunge in poche settimane, e che è ampiamente sufficiente per dileguare il velo davanti al cielo, velo che dura da quando l’uomo ha rivolto il primo sguardo verso le stelle. Ma lasciate le terrestri, mi volsi alle speculazioni del cielo; e primamente vidi la Luna così vicina come distasse appena due raggi terrestri. Dopo questa, con incredibile godimento dell’animo, osservai più volte le stelle sia fisse che erranti; e poiché le vidi assai fitte, cominciai a studiare il modo con cui potessi misurare le loro distanze, e finalmente lo trovai. Su questo è bene siano avvertiti tutti coloro che vogliono darsi a simili osservazioni. In primo
Figura 8. Un cannocchiale galileiano (Archivio Fotografico - Museo Galileo, Firenze).
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luogo è necessario infatti che si preparino un cannocchiale esattissimo, il quale rappresenti gli oggetti chiari, distinti e non coperti d’alcuna caligine, e li ingrandisca almeno quattrocento volte, poiché allora li mostrerà venti volte più vicini: infatti, se lo strumento non sarà tale, invano si tenterà di vedere tutte le cose che da me furon viste in cielo, e che più avanti saranno enumerate.
Galileo è consapevole che le scoperte che sta per annunciare si basano su un solo elemento, forte e debole ad un tempo, il cannocchiale, e quindi sulla sua credibilità. Ecco che allora mette bene in chiaro sia i problemi che possono nascere da una errata scelta dei materiali, sia le caratteristiche che esso deve avere; non solo, ritiene anche opportuno suggerire un efficace metodo di taratura. per valutarne il potere di ingrandimento; a questo punto appaiono più credibili le misure che si appresta a fare (Figura 9). Questa è la sua prima preoccupazione: convincere il lettore delle potenzialità dello strumento, per poi passare a descrivere le scoperte con esso realizzate,
Figura 9. Una pagina del SN: il funzionamento del cannocchiale.
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pensando correttamente che la fiducia nell’oggetto da lui costruito sarebbe transitata nelle novità annunciate, ma anche che qualunque critica avrebbe avuto origine nel mettere in dubbio proprio il cannocchiale.
Le osservazioni della Luna Galileo adesso comincia con metodo e precisione la descrizione di ciò che ha visto, lui, primo tra tutti gli uomini (Figura 10). Ora verremo esponendo le osservazioni da noi fatte nei due mesi trascorsi, richiamando, agli esordi di così grandi contemplazioni, l’attenzione di tutti quanti amano la vera filosofia.
È polemico nei confronti dei peripatetici, più in generale dei filosofi ‘in libris’. È chiara la contrapposizione con una filosofia che Galileo considera ‘falsa’. In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie.
Figura 10. Pagina del SN: due immagini della luna.
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Queste macchie alquanto scure e abbastanza ampie, ad ognuno visibili, furono scorte in ogni tempo; e perciò le chiameremo grandi o antiche, a differenza di altre macchie minori per ampiezza ma pure così frequenti da coprire l’intera superficie lunare, soprattutto la parte più luminosa: e queste non furono viste da altri prima di noi.
Non ci sono dubbi che fin dalle prime immagini Galileo percepisce di essere sul punto di valicare un confine nella conoscenza stabilito dai limiti della natura, e che adesso lui riesce a superare. E Keplero poco tempo dopo, lo celebrerà quale novello Cristoforo Colombo, scopritore di nuovi mondi. Forse questo è il vero inizio dell’Era moderna. Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra, variata da catene di monti e profonde valli (Figura 11).
Figura 11. Pagina del SN: la luna.
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È la esplicita rivelazione delle analogie tra Terra e Luna, senza lasciare dubbi su possibili, diverse interpretazioni. Galileo è ben consapevole delle conseguenze di queste affermazioni e non ha esitazioni. Quindi prosegue con altre importanti osservazioni. …nella parte tenebrosa della Luna si mostrano moltissime cuspidi lucenti, completamente divise e avulse dalla parte illuminata e lontane da questa non piccolo tratto: che a poco a poco, dopo un certo tempo, aumentano di grandezza e luminosità…
Dall’apparizione di queste luci misteriose, Galileo deriva e propone un modello interpretativo che lo porterà a fare misure che, a loro volta, rinforzano questo modello. Sta scoprendo che sulla luna vi sono montagne delle quali riesce anche a stimare l’altezza. La Luna, a questo punto, non è solamente un corpo che ha molte rassomiglianze con la Terra, ma su di essa si possono fare misure, riconducendo il mondo lunare ad oggetto di osservazione e misura. …nella Luna dunque l’altezza AD, che designa un qualsiasi vertice elevato fino al raggio solare GCD e lontano dal confine C per la distanza CD, supera le 4 miglia italiane. Sulla Terra non vi son monti che giungano a un miglio di altezza perpendicolare: resta dunque evidente che le sopraelevazioni lunari sono più alte di quelle terrestri…
Prima di trarre un affrettato giudizio sui numeri riportati, bisogna valutare queste affermazioni nel contesto culturale e storico del ’600 italiano. Il miglio italiano era circa 1851 metri e certamente in Italia esistono monti alti fino a 2.5 miglia. Ma ai tempi di Galileo non si conosceva l’altezza delle montagne più alte, come il M. Bianco, il Cervino o il M. Rosa. Ma il motivo di questa così clamorosa discrepanza, sta nel fatto che si intendeva l’altezza di un monte come misurata a partire dal fondovalle, che nei casi di vette molto alte è posto già a 1.500-1.800 metri. Ecco che tutto ritorna in un quadro compatibile, anche con le attuali precise, misure delle vette lunari che raggiungono circa i 9.000 metri: Galileo riferisce di misure ‘oltre 4 miglia’, cioè oltre 7.500 metri! Anche questo a dimostrare la perizia di Galileo nel costruire strumenti e con essi fare misure (Figura 12). …e non mai ebbi dubbio che, guardato da lontano, il globo terrestre illuminato dal Sole, la superficie terrea si presenterebbe più chiara, più scura la parte acquea.
Con questa considerazione Galileo immagina addirittura di vedere la Terra da lontano. Oggi è facile emozionarsi nel ricordo della splendida
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Figura 12. Pagina del SN: la misura delle montagne lunari.
immagine della Terra, bianca di nubi ed azzurra di mari, che sorge sulla superficie grigia e scabra della Luna, immagine scattata dagli astronauti della missione Apollo 8 alla fine negli anni Sessanta (Figura 13). Sulla Luna Galileo fa altre scoperte cercando di inserirle logicamente nel quadro che gli si sta palesando: un mondo nuovo, o meglio, una immagine antica, costante nella storia dell’uomo, che si rivela per la prima volta nella sua vera natura. Ecco allora che dà una corretta spiegazione di una osservazione che potrebbe anche inficiare le altre: sui bordi della luna non si vedono picchi e catene di monti, ma invece un panorama uniforme e continuo, e ricorre ad una descrizione ad un tempo poetica e realistica. Così sulla Terra i gioghi di molti e fitti monti appaiono disposti su una stessa superficie piana se colui che guarda sta lontano e ad eguale altezza. Allo stesso modo i vertici delle onde di un mare tempestoso sembran distesi secondo uno stesso piano, quantunque tra i flutti sia assai grande frequenza di voragini
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Figura 13. Apollo 8: immagine della Terra, dall’orbita lunare (24 dicembre 1968).
e lacune, tanto profonde che tra esse si nascondono non solo le carene, ma le poppe, gli alberi e le vele di grandi navi.
Novità quindi nel mondo agli inizi del ’600, ma non per questo mai immaginati prima, se si torna per un istante al pensiero di alcuni filosofi greci. Parmenide riteneva che il Sole e la Luna fossero di natura ignea e che entrambi si fossero formati da materia staccatasi dalla Via Lattea. Anassagora paragonava le dimensioni della Luna al Peloponneso ed era convinto che l’aspetto della sua “faccia” derivasse dalla mescolanza di diverse sostanze. Ben diversa l’idea di Aristotele il quale sosteneva che la Luna era lucida e levigata, composta di etere ma, come la Terra, priva di luce propria. E va ricordato infine un’opera letta da Galileo in gioventù, nella quale si avanzano ipotesi quasi moderne: Plutarco nel ‘De facie quae in orbe lunae apparet’
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(“Intorno al volto che appare nel cerchio della Luna”), vedeva nel nostro satellite un’altra Terra, con avallamenti e depressioni, piene d’acqua e d’aria, dove la luce solare si riflette irregolarmente, dando luogo alle grandi macchie scure.
L’osservazione delle stelle Ma Galileo è solo all’inizio del suo racconto. Adesso passa a descrivere le novità che ha scoperto osservando le stelle (Figura 14). Scoperte che in realtà qui acquistano più il significato di una costruzione dell’intelletto che va a collegare osservazioni, ragionamenti, intuizioni partendo da vecchi modelli, portando ad essi critiche razionali, ma soprattutto immaginando schemi completamente nuovi. Dicemmo fin qui delle osservazioni fatte sul corpo della Luna: ora parleremo brevemente di quel che intorno alle stelle fisse fu veduto da noi finora. E in primo luogo è degno di attenzione il fatto che le stelle, sia fisse che erranti, quando si guardano con il cannocchiale, non si vedono ingrandite nella proporzione degli altri oggetti e della stessa Luna, ma l’aumento di grandezza per le stelle appare assai minore…
Figura 14. Pagina del SN: le nebulae.
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Questa è un’indicazione che le stelle sono molto più lontane di quanto si supponesse e che la loro natura non poteva essere ricondotta a qualche esperienza terrestre. Galileo accenna all’osservazione di ‘raggi fulgenti’. Sono fenomeni di diffrazione, ancora al di là di una possibile interpretazione per le conoscenze seicentesche. Degna di nota sembra anche la differenza tra l’aspetto dei pianeti e quello delle stelle fisse. I pianeti presentano i loro globi esattamente rotondi e definiti e, come piccole lune luminose perfuse ovunque di luce, appaiono circolari: le stelle fisse invece non si vedon mai terminate da un contorno circolare, ma come fulgori vibranti tutt’attorno i loro raggi e molto scintillanti.
Galileo è convinto di aver trovato una forte indicazione, se non una prova, della differenza tra stelle e pianeti. Già Giordano Bruno aveva supposto le stelle uguali a dei piccoli soli. E Keplero di lì a poco affermerà che le stelle emanano radiazione, i pianeti la riflettono solamente. Per adesso sono solamente ipotesi non dimostrabili, certamente; tuttavia, questo è un altro segno che il modo di guardare il cosmo sta cambiando e adesso, anche ipotesi rivoluzionarie che si poggiano su sensate esperienze possono venire prese in considerazione. Un nuovo metodo di indagine si sta affermando, metodo che, accanto alle promesse di una matematica sul punto di fornire nuovi, rivoluzionari strumenti, come la geometria analitica o il calcolo infinitesimale, potranno insieme rappresentare il nuovo, possente motore del progresso. Nel secondo esempio disegnammo sei stelle del Toro dette PLEIADI (dico sei, perché la settima non appare quasi mai), ma chiuse nel cielo entro strettissimi limiti, cui altre invisibili (più di quaranta) sono vicine; delle quali nessuna si allontana più d’un semigrado da una delle sei maggiori: di queste disegnammo soltanto trentasei: e, come per Orione, conservammo le loro distanze, le grandezze, e la distinzione tra vecchie e nuove.
Lo scienziato meticoloso è sempre all’opera, osservando e misurando, con ragionamenti e collegamenti tra le molte novità. Si sta consolidando una rete di nuove conoscenze, tenute insieme dalla logica, basate su misure quantitative, che non teme di scontrarsi con le numerose idee a priori, anche se consolidate da secoli di sterili, ripetitive enunciazioni.
La Via Lattea Ma adesso Galileo comincia a descrivere la Via Lattea e non teme di avanzare una nuova ipotesi sulla sua natura, idea semplice, ma prima inconcepibile.
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Quello che in terzo luogo osservammo è l’essenza o materia della Via LATTEA, la quale attraverso il cannocchiale si può vedere in modo così palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute. La GALASSIA infatti non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi.
Certo, ancora non è possibile immaginare che cosa si nasconda dietro le immense distanze che separano le stelle della Galassia. Ma il primo passo è segnato, e ci vorranno altri tre secoli per vedere che nelle numerose nuove nebulose scoperte negli anni con i nuovi strumenti, si celano altre innumerevoli galassie. E subito, Galileo annuncia una nuova scoperta, altrettanto clamorosa, sulla natura di quelle macchie opalescenti che si notano incerte nel cielo, le nebulae. Di nuovo contrappone le vecchie alle nuove spiegazioni che da adesso in poi, dovranno essere costruite su misure, osservazioni, non più sulle opinioni dei grandi del passato. E inoltre (meraviglia ancor maggiore) gli astri chiamati finora dagli astronomi NEBULOSE son raggruppamenti di piccole stelle disseminate in modo mirabile: e mentre ciascuna di esse, per la sua piccolezza e cioè per la grandissima distanza da noi, sfugge alla nostra vista, dall’intrecciarsi dei loro raggi risulta quel candore, che finora è stato creduto una parte più densa del cielo, atta a riflettere i raggi delle stelle e del Sole. Noi tra quelle ne osservammo alcune ed abbiam voluto aggiungere i disegni di due.
Ancora una volta in questo breve saggio, Galileo usa la sua abilità nel disegno per fornire al lettore un’immagine alla quale fissare le nuove idee perché non possano essere fraintese, offrendo con i numerosi schizzi e schemi che compaiono nel Sidereus Nuncius una rappresentazione comune a tutti i suoi lettori. In questo modo rimuove in un sol momento tutte le fantasiose idee che erano state nei secoli prospettate, spesso costruite su opinabili interpretazioni di parole, di frasi che vengono tradotte, copiate, e spesso inevitabilmente anche non capite. In effetti, alcune teorie proposte sulla natura delle nebulose erano perlomeno bizzarre, come quella che le immaginava pezzi di cielo più denso che riflettevano la luce di altre stelle. Certo, oggi è facile cogliere la singolarità del fatto che nella’accezione moderna di nebulosa, proprio di questo si tratta, immense nuvole di polvere e gas illuminate dalla luce irradiata da stelle vicine.
I pianeti medicei Galileo infine si accinge a descrivere quella che ritiene la scoperta più importante, i quattro ‘pianeti medicei’ che chiama ‘medicea sidera’ e che ha visto nelle vicinanze di Giove.
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Figura 15. Pagina del SN: i ‘pianeti medicei’.
Non è facile immaginare la sorpresa di chi vede nuove stelle, di piccola grandezza, che tuttavia non appaiono fisse, ma seguono da vicino Giove (Figura 15). Galileo si immagina subito lo scenario più ‘logico’: le quattro stelline orbitano intorno al pianeta, come Mercurio e Venere intorno al Sole. Certo il modello di Copernico è lì a rappresentare una spiegazione semplice di questo nuovo mondo, eppure proprio da qui nasceranno inesorabilmente le ostilità che porteranno la Chiesa, prima a mettere all’indice il libro dell’astronomo polacco, nel 1616, e quindi ancora molti anni dopo, a sostenere l’accusa a Galileo, e infine la condanna per eresia. Da queste osservazioni, infatti, e dalle sempre più numerose e precise misure che seguiranno negli anni successivi, il modello di Copernico non può rimanere solo un’elegante ipotesi matematica, artificio dialettico costruito per semplificarne la descrizione cinematica del moto dei pianeti. Appare sempre più chiaro che dietro ci devono essere questioni più profonde, nuovi principi che necessariamente risultano incompatibili con il modello di Aristotele e di Tolomeo. Le cose osservate finora intorno alla Luna, alle stelle fisse, alla Galassia esponemmo brevemente. Resta ora quello che ci sembra l’argomento più importante
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di questo trattato: e cioè rivelare e divulgare le notizie intorno a quattro PIANETI non mai dal principio del mondo fino ad oggi veduti, l’occasione della scoperta e dello studio, le loro posizioni, e le osservazioni condotte in questi due ultimi mesi sui loro mutamenti e giri, invitando tutti gli astronomi a studiare e definire i loro periodi, cosa che fino ad oggi non ci fu dato fare in alcun modo per ristrettezza di tempo.
Galileo lo afferma in modo esplicito: è lui che ha scoperto questi 4 nuovi pianeti, aggiungendo subito meticolosamente tutte le novità che ha osservato e registrato su di essi, come ci aspetteremo oggi da un resoconto tecnico e che diventerà presto il modello di comunicazione scientifica. Quasi a giustificare i limiti che solo lui può vedere nella sua opera, avverte il lettore che non ha ancora potuto misurare i periodi dei pianeti medicei, mettendo implicitamente in evidenza la fretta che ha avuto nel pubblicare il Sidereus Nuncius. È con orgoglio, e si capisce, che Galileo mette in guardia chi volesse emularlo, indicando agli astronomi le cose da fare. Posizione non certo modesta per chi non era astronomo di professione. Il giorno sette gennaio, dunque, dell’anno milleseicentodieci, a un’ora di notte, mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; poiché mi ero preparato uno strumento eccellente, vidi (e ciò prima non mi era accaduto per la debolezza dell’altro strumento) che intorno gli stavano tre stelle piccole ma luminosissime; e quantunque le credessi del numero delle fisse, mi destarono una certa meraviglia, perché apparivano disposte esattamente secondo una linea retta e parallela all’eclittica
Quest’ultima fondamentale osservazione è messa all’inizio del resoconto di oltre due mesi di osservazioni quotidiane allo scopo di impressionare, fornendo una importante informazione sulle nuove stelle; ma é certo il risultato di lunghe e profonde analisi, ragionamenti e deduzioni fatte durante le notti di osservazioni astronomiche. Non c’è oggetto osservabile nel cielo dell’inverno del 1610 che Galileo non osservi attentamente e del quale non dia una spiegazione nuova, originale; spiegazioni che, tutte insieme, danno un quadro compatto, coerente del nuovo universo. Abbiamo dunque un valido ed eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che, accettando tranquillamente nel sistema di Copernico la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono tanto turbati dal moto della sola Luna intorno alla Terra, mentre entrambi compiono ogni anno la loro rivoluzione attorno al Sole, da ritenere si debba rigettare come impossibile questa struttura dell’universo. Ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro, mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma la sensata esperienza ci mostra quattro stelle erranti attorno a Giove, così come la Luna
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Figura 16. Niccolò Copernico.
attorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, con periodo di dodici anni si volgono in ampia orbita attorno al Sole.
In questo passo, tra quelli conclusivi del SN, Galileo non si limita al racconto della sua avventura di astronomo, ma interpretando in modo completo il suo ruolo, mostrando che ambisce alla reputazione di ‘Filosofo’ e trae per primo le razionali conseguenze di ciò che ha osservato. Coglie quindi subito l’occasione per confutare una delle più forti obiezioni alla teoria di Copernico: l’anomalia che il moto della Luna avviene intorno alla Terra, e non intorno al Sole, appare evidente ad una semplice sostituzione del centro del cosmo. Ma la scoperta del sistema di Giove ha come immediata conseguenza che l’Universo appare di una complessità ben maggiore: non un
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solo centro del moto, bensì una pluralità. Sarà con Newton e la sua ipotesi di gravitazione universale che questo problema verrà superato, e finalmente, ma solo alla fine del ’700, Cavendish lo dimostrerà con la misura della forza che si esercita tra due masse. Ulterius progredi temporis angustia inhibet; plura de his brevi candidus Lector expectet. La ristrettezza del tempo ci impedisce di andare oltre: il benigno lettore aspetti fra breve una più ampia trattazione di questo argomento.
Galileo è quindi arrivato alla fine del suo resoconto. Egli si ripromette di dedicare un libro approfondito, meditato ed argomentato al tema della Cosmologia, ma non pubblicherà più un’opera simile al Sidereus Nuncius. Le successive osservazioni in campo astronomico saranno altrettanto fondamentali: la scoperta che Saturno ha una forma trilobata (Figura 17), le macchie solari ed il loro moto sulla superficie de sole, ed infine la cruciale analogia tra la Luna e Venere che mostrerà al suo cannocchiale un comportamento che solo il modello copernicano può quantitativamente spiegare. E tuttavia, sarà solamente nelle numerose lettere con le quali sempre più strettamente dialogherà a distanza con colleghi, allievi e oppositori, che darà notizia delle sue nuove scoperte. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che è la sua opera più profonda e rivoluzionaria, vedrà la luce dopo lunghe meditazioni, quando ormai egli ha lasciato il cannocchiale quale compagno di lavoro quotidiano. E ripensando alla data del 7 gennaio 1610, Galileo non potrà non ricordare che essa ha rappresentato per lui l’ingresso, trionfale, nella storia. Per l’Umanità intera, il 12 marzo di quell’anno mirabile, quando il Sidereus Nuncius esce presso la stamperia Baglioni a Venezia, rimarrà per sempre ad indicare lo spartiacque tra il vecchio ed il nuovo universo, tra un superato modo di filosofeggiare di scienza ed il nuovo metodo scientifico, che proprio alla scienza fornisce continuo alimento.
Conclusioni Alla fine di questa breve digressione sul Sidereus Nuncius non risulta difficile identificare in quest’opera la presenza di numerosi ‘cambiamenti di paradigma’, volendo seguire l’ipotesi interpretativa dello sviluppo del pensiero scientifico introdotta da Thomas Kuhn. Vediamoli in dettaglio uno per uno. Innanzitutto il mutamento sul piano metodologico legato all’uso di uno strumento, il cannocchiale, che ha permesso di sondare distanze mai immaginate prima e vedere ben oltre le possibilità naturali dei sensi.
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Figura 17. Lettera di Galileo a Belisario Vinta (Padova, luglio 1610) nella quale Galileo informa il Segretario di Stato del Granducato di Toscana di aver scoperto col cannocchiale che Saturno è composto di tre corpi. Si noti lo schizzo schematico dell’aspetto tricorporeo del pianeta al centro della missiva.
Quindi, la luna che appare profondamente diversa dal modello aristotelico di materia perfetta; anzi la sua somiglianza con la Terra trasferisce a quest’ultima una proprietà invece connaturata solo con la luna: il suo perenne moto nello spazio. E poi la scoperta della natura ‘vera’, come dice Galileo, delle Nebulae, che insieme alla rivelazione di altre innumerevoli stelle non visibili prima, non solo perché deboli ma anche perché molto lontane, moltiplica incredibilmente le possibili dimensioni del cosmo. Ed infine, i pianeti medicei che rappresentano la prova che è necessario abbandonare l’idea di un Universo con un unico centro per immaginarne uno policentrico.
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Ma per concludere questa rapida carrellata sui profondi cambiamenti che il Sidereus Nuncius suggerisce al pensiero filosofico, possiamo fare una considerazione ancora più generale che anche se non decisiva, può rappresentare una forte spinta all’abbandono del sistema tolemaico, o come direbbe Kuhn, alla crisi del modello. Il cielo si complica notevolmente allo sguardo con il cannocchiale e diventa sempre più arduo darne conto seguendo il vecchio Tolomeo. Invece, ecco che la semplificazione introdotta da Copernico, anche se è impellente l’aggiornamento portato da Keplero sulle orbite ellittiche, fa tornare tutto in una cornice di più semplice simmetria: i pianeti percorrono le loro orbite quasi circolari intorno al Sole, la Luna intorno alla Terra ed i pianeti medicei intorno al loro padrone Giove, mentre le stelle appaiono lontane, fredde, immobili. Tutto sembra molto più semplice di prima. Ma la causa, il perché avvenga tutto questo, è ancora lontano da immaginarsi. Sarà necessario sviluppare una nuova teoria del moto, del movimento di semplici oggetti sulla Terra, per descrivere in maniera completa anche il moto degli astri. Sarà necessario il genio di Newton per arrivare ad una ulteriore sintesi tra le leggi del cielo e quelle della terra. In conclusione, la lettura del Sidereus Nuncius, che si può tentare con soddisfazione anche nell’originale latino, può essere vista come un percorso nel quale avviene la sostituzione, tessera dopo tessera, del mosaico che costituisce il cielo antico, con un nuovo quadro che si svela un po’ alla volta. Ed anche se si avverte, annuncio dopo annuncio, scoperta dopo scoperta che qualcosa sta cambiando, solo alla fine ci si accorge che abbiamo davanti un disegno completamente nuovo e si percepisce, tutta insieme, la rivoluzionaria visione di un universo mai prima immaginato. Diventa allora stimolante per l’intelletto porsi nuove domande e cercare le altre e numerose tessere ancora celate alla nostra conoscenza.
Bibliografia G. Galilei, Sidereus Nuncius, Magna, Longeque Ad mirabilia…- Venetiis, apud Thomam Baglionum, 1610. Vedi copia anastatica sul sito: http://www.rarebookroom.org/Control/galsid/index.html e sul sito; http://www.lindahall.org/services/digital/ebooks/galileo_frankfurt/index.shtml G. Galilei, Sidereus Nuncius, edizione critica a cura di A. Battistini, Marsilio Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, a cura di Antonio Favaro, I Edizione limitata, 1890. Anche: Giunti Editore.
terza parte
La gravitazione Giancarlo Cella
La forza gravitazionale è di gran lunga la più debole tra quelle conosciute. Nonostante ciò svolge un ruolo dominante nella dinamica stellare e dell’universo in generale. La teoria attuale della gravitazione, la Relatività Generale, ha le sue radici nel principio di equivalenza e nel principio di relatività di Galileo. È stata definita la più elegante teoria fisica di cui disponiamo, ed è particolarmente significativo che sia stata formulata da Einstein per ragioni concettuali, senza che vi fosse una stringente necessità di spiegare osservazioni sperimentali. Ciò si spiega in parte per il fatto che la verifica dei molti, sottili e affascinanti fenomeni da essa previsti richiedono per la loro misura precisioni e tecnologie che solo recentemente hanno cominciato ad essere disponibili. Discuterò brevemente alcuni di questi fenomeni, e l’attività sperimentale presente e futura ad essi indirizzata.
Introduzione La nostra esperienza di tutti i giorni ci suggerisce l’idea che spazio e tempo siano entità assolute. Il luogo in cui viviamo, lavoriamo o studiamo, la fermata dell’autobus che prendiamo la mattina, corrispondono a posizioni nello spazio che ci viene naturale considerare come definiti in maniera non ambigua ed indiscutibile. Lo stesso si può dire per il momento della nostra nascita, l’ora nella quale ci siamo incontrati con un amico, l’inizio di un programma televisivo interessante. Questo concetto di spazio e di tempo assoluto è in effetti profondamente radicato nel senso comune, ed è naturale che sia stato il modello di riferimento per le prime teorie che cercavano di dare una spiegazione ai fenomeni fisici. Così, per Aristotele lo spazio aveva una struttura intrinseca piuttosto organizzata, con un centro ben definito e privilegiato, una nozione di “alto” e di “basso” ed una meccanica basata sulla tendenza degli elementi (terra, aria, acqua e fuoco) a raggiungere la loro posizione “naturale” nella gerarchia tra posizioni diverse così stabilita. Possiamo sorridere di questo tipo di modelli ritenendoli ingenui. Ma non dobbiamo dimenticare che, come ho detto, essi affondano le loro radici nelle realtà che sperimentiamo tutti i giorni, e forniscono un quadro di riferimento che può svolgere tranquillamente il compito (importante) di guidare la maggior parte delle azioni cui siamo interessati, ad esempio
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darsi un appuntamento al cinema. Viviamo in un ambiente fortemente strutturato, che ci fornisce in maniera naturale un sistema di coordinate, cioè una serie di “nomi” da assegnare ai diversi punti dello spazio. Scegliere un sistema di coordinate è certo inevitabile, se vogliamo studiare i fenomeni fisici in modo quantitativo. Ma la ricerca di teorie in grado di dare una spiegazione accurata ed economica dei fenomeni ha mostrato che l’idea di dare a queste “etichette” un carattere puramente convenzionale è estremamente fruttuosa. Liberarsi dalla nozione di spazio e tempo assoluti è operazione non semplice, che storicamente ha richiesto diversi balzi concettuali e continua a chiederli ancora a chiunque si avvicini ad uno studio della fisica moderna. Un primo passo in questa direzione può essere tentato confrontando la visione Aristotelica con quella Newtoniana. Come possiamo rappresentare la struttura causale dello spazio-tempo che caratterizza la fisica Newtoniana? L’idea di base è che esista un tempo assoluto, che può essere assegnato a qualsiasi evento in maniera indipendente dall’osservatore. Per evento qui e nel seguito intenderemo un fenomeno fisico sufficientemente limitato nello spazio e nel tempo, ad esempio lo scoppio di un petardo. Se esiste un tempo assoluto, è possibile classificare univocamente l’insieme di tutti i possibili eventi in classi di equivalenza. Useremo come relazione di equivalenza la contemporaneità: due eventi apparterranno alla stessa classe se accaduti allo stesso istante assoluto. Possiamo dare una rappresentazione grafica di tutto questo come nella Figura 1. Qui sono rappresentate, come piani orizzontali, tre delle infinite classi di equivalenza: due qualsiasi osservatori si troveranno d’accordo su tale classificazione. Considerato un evento Q nella classe t = t0 , avremo la possibilità di fare le seguenti affermazioni assolute, cioè indipendenti dal sistema di riferimento: 1. qualsiasi evento appartenente alla classe t = t0 (ad esempio P ) è contemporaneo a Q 2. qualsiasi evento nella classe t < t0 è precedente, potrà influenzare Q ma non essere da esso influenzato. In altre parole tutti gli eventi con t < t0 rappresentano il passato della classe t = t0 3. Similmente, l’insieme degli eventi con t > t0 rappresenteranno il futuro della classe t = t0 . Abbiamo dunque un ordinamento temporale delle classi di equivalenza, e possiamo misurare l’intervallo temporale τ tra due eventi qualsiasi A e B , τ ( A, B) = t ( B) − t ( A) . Esiste anche una struttura spaziale assoluta: possiamo misurare la distanza d ( P, Q ) tra due eventi contemporanei P , Q . Questa è rappresentata in Figura 1 dalla circonferenza disegnata attorno a Q : tale rappresentazione si basa sul fatto che scegliendo opportunamente delle coordinate spaziali ( x, y, z ) avremo
La Gravitazione
d ( P, Q) 2 = [ x( P) − x(Q)]2 + [ y ( P) − y (Q)]2 + [ z ( P) − z (Q)]2
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(1.1)
Non esiste invece la possibilità di dare una classificazione spaziale assoluta degli eventi. Se un osservatore vede un orologio appoggiato sul suo tavolo affermerà che gli eventi A , B , C in Figura 1 (gli avanzamenti della lancetta dei secondi) sono avvenuti nella stessa posizione, ma un osservatore non in quiete rispetto ad esso non sarà d’accordo. Già in questo senso la visione Newtoniana si discosta da quella Aristotelica, in una direzione che contiene in nuce una prima forma di relatività: solo le distanze relative tra gli eventi hanno un significato indipendente dall’osservatore. Va detto che Newton postula in realtà uno spazio assoluto, fornendo in appoggio a tale idea il famoso argomento del secchio rotante, che riassumiamo brevemente. Immaginiamo di far ruotare un secchio pieno d’acqua attorno al suo asse: dopo un certo tempo esso comunicherà il moto rotatorio al fluido, e la superficie di quest’ultimo si curverà. Immaginiamo adesso il secchio in quiete, ma il resto dell’universo in rotazione attorno ad esso. Non ci aspettiamo che la superficie del fluido si curvi in questo caso. D’altra parte se vogliamo negare l’esistenza di uno spazio assoluto dovremo anche riconoscere che le due situazioni sono in realtà completamente equivalenti.
Figura 1. Rappresentazione schematica della struttura dello spazio-tempo della meccanica Newtoniana. Ogni piano corrisponde a un ben definito tempo assoluto, indicato dall’orologio.
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Questo argomento è stato nel seguito variamente criticato, ed ha avuto un ruolo importante nello sviluppo delle idee di Mach. Questi, muovendo da una critica estrema del concetto di spazio assoluto, ha suggerito la necessità di una teoria nella quale tutte le proprietà dinamiche di un corpo, compresa l’inerzia, derivino dalla sua interazione con gli altri corpi presenti. Si tratta di idee che hanno influenzato profondamente Einstein nell’elaborazione della relatività generale, per quanto quest’ultima non si possa definire in accordo con il principio di Mach. Un’ultima struttura è imposta dalla prima legge di Newton, che seleziona la classe privilegiata degli osservatori inerziali, rappresentabili in Figura 1 come fasci di linee rette parallele (ad esempio il fascio delle rette parallele a O1 o a O2 ). Tali osservatori, che si possono pensare realizzati da particelle in moto in assenza di forze, sono collegati tra loro dalle trasformazioni che lasciano invariate le tre strutture assolute (cerchi, piani e fasci di rette parallele) introdotte, che formano il gruppo esteso di Galilei, ossia dalle traslazioni nel tempo, dalle traslazioni nello spazio, dalle rotazioni del sistema di riferimento e dal passaggio ad un nuovo sistema di riferimento in moto rettilineo ed uniforme rispetto a quello di partenza. In formule possiamo scrivere
t ′ = t + k r ′ = Rr + Vt + q
(1.2)
Dove k è una costante, Rr è il vettore r ruotato e V , q vettori costanti. Per essi la dinamica di un sistema di particelle è governata dalla semplice equazione
mI
d 2 (i ) r ( t ) = F (i ) ( t ) 2 dt
(1.3)
dove r ( i ) è la posizione della particella i -esima, ed F ( i ) la forza ad essa applicata. Nel caso gravitazionale quest’ultima è data da
( j) (i ) t ) − r (i ) ( t ) ( (i ) ( j) r F ( t ) = GmG ∑ mG 3 j ≠i r ( j ) ( t ) − r (i ) ( t )
(1.4)
Le costanti mI( i ) e mG( i ) rappresentano la massa inerziale e quella gravitazionale della particella i -esima, e la somma è su tutte le altre particelle presenti. Le Equazioni (1.3) e (1.4) mostrano chiaramente che la teoria della gravitazione Newtoniana è una teoria di azione a distanza: l’effetto dello spostamento di una particella si riflette istantaneamente sulla forza appli-
La Gravitazione
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Figura 2. Rappresentazione schematica della struttura dello spazio-tempo della relatività speciale.
cata ad un’altra. Per quanto perfettamente consistenti con la struttura generale della meccanica classica, teorie di questo tipo sono inconciliabili con le idee della relatività ristretta, che postulando l’esistenza di una velocità limite di propagazione dei segnali indipendente dall’osservatore modificano profondamente la struttura causale dello spazio-tempo. Abbiamo schematizzato in Figura 2 questa nuova struttura. Consideriamo l’emissione di un lampo luminoso in P . L’impulso luminoso si propagherà come un’onda sferica alla velocità della luce, che corrisponde nel diagramma alla parte del cono con vertice in P rivolto verso il basso. Dato che la velocità della luce è indipendente dall’osservatore, abbiamo determinato una struttura assoluta associata a P , il cono luce. Gli eventi al di sotto del cono luce potranno influenzare P ma non saranno da questo influenzati, viceversa quelli al di sopra potranno essere influenzati da P ma non lo influenzeranno. Gli eventi nella regione intermedia infine non potranno avere infine alcuna relazione causale con P . Ancora una volta avremo la classe privilegiata degli osservatori inerziali (fasci di rette parallele, ciascuna all’interno del cono luce originato in uno qualsiasi dei loro punti) e l’insieme delle trasformazioni che conserveranno le due strutture introdotte (coni, fasci di rette parallele). Queste ultime costituiscono il gruppo di Poincarè (trasformazioni di Lorentz, rotazioni e traslazioni
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spaziali e temporali), che possiamo anche vedere come il gruppo che mantiene invariato l’intervallo s 2 tra due eventi P e Q , definito da
s 2 ( P, Q) = −c 2 [t ( P ) − t (Q) ] + [ x( P ) − x(Q) ] + [ y ( P) − y (Q) ] + [ z ( P ) − z (Q) ] (1.5) 2
2
2
2
Einstein giunse all’elaborazione della relatività generale proprio a partire dall’esigenza di formulare una teoria della gravitazione che fosse consistente con le idee della relatività ristretta.
Il principio di equivalenza
Se introduciamo il potenziale gravitazionale U ( R, t ) possiamo riassumere la teoria di Newton nelle equazioni locali
∇ 2U (r , t ) = −4p G ρG (r , t )
(1.6)
d2 r (t ) = mG ∇U (r , t ) 2 dt
(1.7)
e
mI
La (1.6) permette di calcolare il potenziale gravitazionale generato da una data distribuzione di massa gravitazionale, descritta dalla densità ρG . Dalla (1.7) vediamo che il moto di una particella in un assegnato campo gravitazionale dipende solo dal rapporto tra la sue masse gravitazionali e inerziali. In linea di principio queste due quantità hanno origini completamente diverse, ma si osserva sperimentalmente che il loro rapporto è lo stesso per tutti i corpi (e quindi può essere posto uguale ad uno scegliendo opportunamente le unità di misura). Questo significa che l’accelerazione gravitazionale è indipendente dalle caratteristiche della particella, cosicché tutte si muoveranno nello stesso modo a parità di condizioni iniziali, almeno fino a quando sarà possibile trascurare effetti legati alle dimensioni finite di un corpo reale. Altre interazioni prevedono una dipendenza del moto da caratteristiche non universali delle particelle (ad esempio il rapporto tra carica e massa inerziale per le forze elettromagnetiche). Questa peculiarità della forza gravitazionale ha una fondamentale importanza concettuale ed è noto come principio di equivalenza debole. Una conveniente parametrizzazione di eventuali violazioni di questo principio è il “rapporto di Eötvös”
η =2
a1 − a2 a1 + a2
(1.8)
101
La Gravitazione
costruito a partire delle accelerazioni a1 , a2 di due corpi di diversa composizione. Questo può essere visto come una misura di differenze tra il contributo di una data forma di energia interna E A del corpo (elettromagnetica, debole, ecc.) a massa inerziale e gravitazionale,
mG = mI + ∑η A A
EA c2
(1.9)
A partire dalle esperienze di Galileo con il pendolo, che verificò l’indipendenza del periodo dalla composizione del corpo sospeso ottenendo η < 2 ×10−2 , la validità di tale principio è stata confermata con precisione sempre crescente con diversi esperimenti, riassunti schematicamente in Figura 3. Prototipi per questo tipo di verifiche sperimentali restano le esperienze con il pendolo di torsione svolti all’inizio del diciannovesimo secolo da Eötvös, successivamente perfezionati da altri gruppi. Al momento attuale i limiti più stringenti vengono dalle esperienze condotte all’Università di Washington (gruppo “Eöt-Wash”), che usano varianti molto sofisticate di bilance di torsione, e da misure laser del moto relativo della luna rispetto alla terra che permettono di verificare l’identità dell’accelerazione dei due corpi rispetto al sole. In entrambi i casi si ha η < 2 ×10−13 . Una discussione approfondita e aggiornata si può trovare in (Will, 2006).
Figura 3. Limiti sperimentali per la violazione del principio di equivalenza debole. Sono indicati i limiti superiori per il parametro η definito nell’Equazione (1.8), in termini degli esperimenti che li hanno determinati.
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G. Cella
Figura 4. Quattro masse all’interno di un ascensore in caduta libera nel campo gravitazionale terrestre. Tutte cadono verso il centro della terra, ma a causa della loro separazione sono sottoposte ad accelerazioni leggermente diverse (in verde) misurate da un osservatore esterno. Nel sistema di riferimento dell’ascensore le masse alla stessa altezza accelerano l’una verso l’altra, la più alta e la più bassa accelerano in direzioni opposte. Queste (in blu) sono le accelerazioni misurate da un osservatore solidale all’ascensore.
Se insieme alla validità del principio di equivalenza debole postuliamo che il risultato di un esperimento condotto in un laboratorio “abbastanza piccolo” in caduta libera non dipenda né dalla velocità del laboratorio, né dalla sua posizione, otteniamo il principio di equivalenza di Einstein (EEP). Cosa significa “abbastanza piccolo”? Consideriamo la posizione R (t ) di un ascensore in caduta libera in un campo gravitazionale g (r , t ) . Se indichiamo con δ (t ) la posizione ad esso relativa di un corpo di massa m al suo interno, soggetto a forze non gravitazionali F , potremo scrivere
d2 1 R + δ = g (R + δ , t) + F 2 dt m
(
)
(1.10)
che implica l’equazione del moto per δ
d 2 1 1 ∂2 g ≈ F + δ δ iδ j dt 2 m 2 ∂xi ∂x j
(1-11)
La Gravitazione
103
Il significato di questa equazione è illustrato in Figura 4. Vediamo che gli effetti del campo gravitazionale esterno saranno cancellati a meno di effetti del secondo ordine nel rapporto tra le dimensioni del laboratorio e la scala tipica di variazione di g (r , t ) . Occorre precisare che l’EEP esclude esplicitamente tutti i fenomeni nei quali l’interazione gravitazionale tra le parti dell’apparato sperimentale gioca un ruolo (si pensi ad esempio all’esperimento di Cavendish). Il principio di equivalenza di Einstein ci permette di costruire una rappresentazione di una nuova struttura dello spazio-tempo capace di incorporare la gravitazione. Consideriamo nuovamente a questo proposito in una regione l’emissione di diversi lampi luminosi. Nell’intorno di ciascuno di questi eventi sarà possibile scegliere un sistema di riferimento in caduta libera, ed in esso avremo nuovamente la struttura rappresentata, in Figura 2, dal cono luce e dalle rette corrispondenti ad osservatori privilegiati. La novità essenziale è che adesso queste strutture saranno valide solo localmente. In altre parole i sistemi di riferimento in caduta libera saranno diversi in generale
Figura 5. Rappresentazione schematica della struttura dello spazio-tempo in relatività generale. Localmente questa è indistinguibile da quella propria della relatività speciale. Il fatto che ciò non sia vero globalmente può condurre a fenomeni qualitativamente nuovi. Ad esempio un osservatore nella regione bianca in figura può inviare segnali ad un altro nella regione gialla, ma il viceversa non è possibile. In altre parole, la separazione tra regione bianca e regione gialla rappresenta un orizzonte che è possibile attraversare in un’unica direzione. Orizzonti di questo tipo caratterizzano i buchi neri.
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per ogni evento, e passare da uno all’altro richiederà una trasformazione di coordinate che non lascerà in generale invariante il cono luce, non essendo necessariamente una trasformazione di Lorentz. Un cambio di coordinate indurrà sul cono luce fissato ad un particolare evento una trasformazione lineare, otterremo quindi un cono “deformato”. Potremo tracciare adesso le linee di universo percorse dai raggi luminosi, che dovranno essere in ogni punto tangenti al cono luce: nella Figura 5 le abbiamo rappresentate come linee rosse tratteggiate. Possiamo analogamente tracciare le linee di universo di osservatori in caduta libera. Ve ne sono infinite che passano per un dato evento: siamo liberi di sceglierne una, che rappresenterà localmente una possibile scelta della coordinata temporale. Dato che abbiamo postulato che la fisica non dipenda dalla velocità del sistema in caduta libera, né dalla sua posizione, tutte le scelte saranno equivalenti: in Figura 5 ne abbiamo tracciate due (nera e verde) insieme al sistema di riferimento locale (stessi colori) ad esse associato all’evento P . Siamo liberi di eseguire una trasformazione di Lorentz e una rotazione, che potrà essere diversa ad ogni evento: rimarranno invariate le rappresentazioni dei coni luce, mentre cambieranno quelle degli assi di riferimento spaziali e temporali locali. Possiamo però anche applicare una trasformazione di coordinate del tutto generale, che deformerà la rappresentazione dei coni luce. Se riuscissimo con una trasformazione di questo tipo a renderli tutti uguali ed allineati, torneremmo alla struttura spazio-temporale propria della relatività speciale. Ne seguirebbe la possibilità di eliminare qualsiasi effetto fisico della gravità con una opportuna scelta del sistema di riferimento. Questo è possibile se il campo gravitazionale è costante, ma è chiaramente falso in generale. Possiamo concludere che • Lo spazio tempo non è in generale lo spazio di Minkowski, eventualmente “nascosto” da una scelta sbagliata di coordinate. Dato un evento, potremo però sempre rappresentare un suo intorno abbastanza piccolo come una porzione di R 4 . In termini più precisi abbiamo a che fare con una varietà differenziale. • La fisica è localmente descritta dalla relatività speciale. Cioè è possibile definire il cono luce di P in un suo intorno “abbastanza piccolo”. Geometricamente si tratterà di un cono deformato da una trasformazione di coordinate lineare arbitraria, matematicamente dell’insieme degli eventi Q che soddisfano
(
0 = g mn ( P) xQm − xPm
)( x
n Q
)
− xnP
(1.12)
La matrice g mn ( P) è la metrica all’evento P . Scegliendo delle opportune coordinate ξ Pm ( x) potremo eliminare la deformazione di questo cono
La Gravitazione
105
luce, in altre parole il secondo membro si ridurrà all’Equazione (1.5), ossia
0 = −(ξ P0 − ξQ0 ) 2 + (ξ P1 − ξQ1 ) 2 + (ξ P2 − ξQ2 ) 2 + (ξ P3 − ξQ3 ) 2 ≡ η mn (ξ Pm − ξQm )(ξ Pn − ξQn ) (1.13)
In altri termini g mn ( P ) si riduce alla metrica di Minkowsky η mn che risulta implicitamente definita dall’equazione precedente. • Effetti fisici saranno descritti dalle caratteristiche indipendenti dalle coordinate della varietà, ad esempio la sua curvatura. In altre parole gli effetti gravitazionali sono esclusivamente espressione delle caratteristiche geometriche dello spazio-tempo.
Relatività Generale Dimenticando per un momento l’interpretazione geometrica della gravità appena discussa, è interessante tornare all’equazione (1.6). Come già osservato essa permette di calcolare U conoscendo la densità di massa gravitazionale ρG , ed è del tutto analoga all’equazione che governa il potenziale elettrostatico. L’idea potrebbe essere quella di ottenere una corretta generalizzazione relativistica seguendo tale analogia. Per farlo, dobbiamo chiederci quali siano le quantità con ben definite proprietà di trasformazione rispetto al gruppo di Lorentz che si riducono nel limite di piccole velocità a U e ρG . Partiamo da ρG : nel caso elettrostatico l’analoga quantità è la densità di carica, cioè la densità di volume di una quantità scalare. Rispetto al gruppo di Lorentz essa trasforma come la componente temporale del quadrivettore J m . Nel caso gravitazionale troviamo una prima complicazione, perché ρG non è la densità di volume di uno scalare, bensì della componente temporale del quadrimpulso, e quindi non potrà essere la componente temporale di un quadrivettore. L’oggetto corretto da utilizzare sarà il tensore energiaimpulso T mn . Resta da capire cosa sostituire al potenziale U . Nel caso dell’elettromagnetismo la scelta corretta è interpretare quest’ultimo come componente temporale di un quadrivettore, e sostituire l’operatore di Laplace ∇ 2 con 1 ∂ l’operatore di d’Alembert ∇ − c ∂t (un quadriscalare). Nel caso gravitazionale si hanno diverse possibilità, ad esempio • U potrebbe essere un campo scalare, e la generalizzazione covariante della (1.6) sarebbe 2
2
2
2
2 1 ∂2 ∇ − 2 2 U = −4p GT c ∂t
106
G. Cella
( è la traccia del tensore energia impulso, uno scalare). Studiando in dettaglio questa teoria si trova che l’interazione gravitazionale è correttamente sempre attrattiva, ma altre predizioni sono in disaccordo con i risultati di alcuni test sperimentali classici. In particolare la precessione del perielio di mercurio è −1/ 6 del valore (corretto) previsto dalla relatività generale, e dato che il tensore energia impulso del campo elettromagnetico ha traccia nulla non si ha interazione tra quest’ultimo e la gravità, in particolare la luce non viene deflessa da un campo gravitazionale. essere la componente temporale di un campo quadrivet• U potrebbe m 0 toriale φ , U = φ . Se si prova a costruire una teoria basata sul campo m φ , in analogia con l’elettromagnetismo, si trova però una forza sempre repulsiva. essere la componente temporale di un campo tensoriale • Umn potrebbe 00 h , U = h . Senza andare nel dettaglio la generalizzazione della (1.6) sarebbe del tipo G mn = 1 kT mn , dove G mn è un tensore costruito con le deri2 vate seconde di h mn . In effetti, l’ultima opzione va nella direzione giusta, ma così come è presentata è inconsistente. Per capirne il motivo, osserviamo che lo stesso campo h mn deve contribuire alla densità di energia T mn (nel caso del campo elettromagnetico, che non essendo portatore di carica non contribuisce a J m , questo non accade). Se così non fosse, sarebbe impossibile per un corpo scambiare energia e quantità di moto con esso, non si avrebbe quindi alcuna forza gravitazionale. Si potrebbe obiettare che solo i corpi scambiano energia tra di loro, ma ciò conduce inevitabilmente alla azione a distanza che stiamo cercando di eliminare. Dovremo quindi introdurre degli opportuni termini correttivi riscrivendo l’equazione nella forma
k
(
)
(1.14) G mn = T mn + τ mn 2 Questo si può fare essenzialmente in un unico modo (Deser, Self-Interaction and Gauge Invariance, 1970), e si trova un risultato sorprendente: l’equazione (1.14) si può esprimere eliminando h mn in favore del nuovo mn campo g definito da
1
(1.15) − g g mn = η mn − h mn + η mn hλλ , g ≡ det( g mn ) 2 La metrica di Minkowsky scompare completamente e non gioca più alcun ruolo (diviene una specie di “etere” inosservabile). È possibile interpretare g mn come nuova metrica, e le equazioni ottenute sono quelle della relatività generale. Le scriviamo esplicitamente, soprattutto per confrontarle con la teoria Newtoniana. L’equazione che corrisponde alla (1.6) è
La Gravitazione
107
1 mn aβ (1.16) g R aβ = 8p GT mn 2 che lega il tensore di Riemann R mnρσ , l’oggetto (dipendente dalla metri-
Ramn a −
ca e dalle sue derivate prime e seconde) che misura la curvatura dello spazio tempo, alla densità di massa-energia presente. Si usa dire che “la materia dice allo spazio come curvarsi” (Wheeler, 1990). La generalizzazione della (1.7) è invece l’equazione delle geodetiche,
n ρ d 2 xm m dx dx + Γ = 0 nρ dτ 2 dτ dτ
(1.17)
m dipende ancora dalla metrica e dalla sua derivata prima. Essa Dove Γnρ determina la linea di universo di un osservatore, parametrizzata secondo il suo tempo proprio τ : “lo spazio dice alla materia come muoversi” (Wheeler, 1990).
Campi deboli: test sperimentali Le correzioni alla teoria Newtoniana sono significative nel regime relativistico, oppure in presenza di intensi campi gravitazionali, a causa della natura non lineare dell’equazione di Einstein (1.16). Darò un breve cenno ai tre test sperimentali “classici” della teoria, la verifica della predizione della precessione dell’orbita di mercurio, della deflessione gravitazionale dei raggi luminosi, dell’effetto Doppler gravitazionale. La teoria di Newton prevede orbite chiuse per il problema a due corpi puntiformi. Le osservazioni dell’orbita di Mercurio mostrano una precessione dell’orbita che effetti noti (precessione degli equinozi, interazione con altri pianeti) non spiegano quantitativamente. Per studiare il problema in relatività generale si cerca una soluzione della (1.16) nel vuoto ( T mn = 0 ) a simmetria sferica, e si studiano le sue geodetiche. La soluzione cercata è la metrica di Schwarzschild, e lo studio delle orbite è formalmente simile al problema Newtoniano, in presenza di un potenziale efficace
Veff (r ) = −
GM L2 GML2 + 2− 2 3 r cr 2r
(1.18)
Dove L è il momento angolare. Il potenziale (1.18) differisce da quello classico per l’ultimo termine correttivo, che come si vede è importante soprattutto a piccole distanze, e che spiega bene la precessione osservata. Sulla base di argomenti classici è possibile stimare la deflessione indot-
108
G. Cella
ta dalla luce da un campo gravitazionale. Il valore previsto dalla relatività generale risulta diverso di un fattore 2 , ed è stato confermato dagli esperimenti. Per quanto riguarda la verifica dello spostamento verso il rosso della luce indotto da un campo gravitazionale, la sua verifica conclusiva è avvenuta in tempi più recenti, quando fu possibile sfruttare l’effetto Mössbauer (Pound e Rebka Jr., 1959) per ottenere la precisione sufficiente in un esperimento su scala di laboratorio. Tentativi precedenti di verificare l’effetto con osservazioni astronomiche, verificando lo spostamento delle linee spettrali di emissione di atomi sulla superficie stellare, non riuscirono mai ad essere conclusivi a causa dell’errore sistematico legato allo spostamento Doppler legato ai moti convettivi della materia. In questo caso più che di una verifica della relatività generale si ha a che fare con un test del principio di equivalenza, che potrà essere messo alla prova in futuro da una serie di esperimenti spaziali di alta precisione. Il prototipo è STEP (Worden et al., 2000), una missione spaziale che si −17 propone di ottenere un limite superiore η < 10 . Lo schema concettuale è riportato in Figura 6: due masse campione di materiale diverso (cilindri coassiali, blu e verdi in figura) orbitano in caduta libera attorno alla terra all’interno di una navicella che viene mantenuta in assetto costante con controlli attivi e scherma le masse dalle influenze esterne. Il segnale che si vuole rivelare è un moto differenziale lungo l’asse dei dei due cilindri. Come si vede il segnale è modulato dal periodo orbitale, il progetto prevede un’orbita bassa, con T = 6000 s : questo è un vantaggio dal punto di vista sperimentale, perché permette di discriminare in modo efficace il segnale dal fondo, anche tenendo presente che la presa dati può essere in linea di principio prolungata a volontà migliorando la statistica. Ostacoli al raggiungimento della sensibilità progettata sono le interazioni gravitazionali “locali” tra le componenti dell’apparato, che vengono minimizzate con un disegno e un centraggio accurati, e sottili effetti che possono mimare violazioni del principio di equivalenza (Worden e Mester, 2009). Un esempio interessante è l’effetto radiometrico (Comandi, Catastini e Nobili, 1999), legato alla presenza di gradienti di temperatura. A causa della dipendenza della pressione locale dalla temperatura T un corpo sperimenterà una accelerazione
P a= ∇T 2 ρT
(1.19)
dipendente dalla densità del corpo ρ e quindi non universale (è questo l’aspetto problematico). Si può cercare di ridurre l’effetto lavorando a basse
La Gravitazione
109
Figura 6. Schematizzazione dell’esperimento STEP. Due cilindri coassiali (blu e verde) orbitano attorno alla terra con velocità angolare ωorb
pressioni, ma data l’elevata precisione richiesta questo non è sufficiente. Un’altra soluzione è la stabilizzazione criogenica, che però pone dei seri problemi di realizzabilità in una missione spaziale. Un’altro esperimento spaziale progettato in modo da ovviare in parte a questo tipo di problemi è GG (Nobili et al., 2009). In questo caso le masse test (sempre due cilindri coassiali) sono in rotazione (5 Hz) attorno al loro asse (lo schema del satellite è in Figura 7). Il segnale cercato è un moto differenziale ortogonale all’asse di rotazione, misurato con uno schema differenziale di sensori capacitivi. La rapida rotazione assiale aiuta a ridurre effetti legati a gradienti termici e modula il segnale di violazione. L’obiettivo anche in questo caso è la verifica del principio di equivalenza a livello di η < 10−17 . A questo livello di precisione si possono iniziare a ottenere indicazioni e vincoli restrittivi su possibili teorie alternative alla relatività generale, in particolare modelli effettivi di bassa energia motivati da teorie di stringa. Precedentemente ho accennato alle analogie e differenze tra gravitazione ed elettromagnetismo, notando in particolare che la gravitazione di Newton può essere vista come limite statico di una teoria completa. È in realtà possibile entro un certo limite portare oltre tale analogia nel regime in cui i campi sono deboli, ed introdurre gli analoghi gravitazionali del campo
110
G. Cella
elettrico e magnetico (Straumann, 2000). Se introduciamo per convenien1 za il campo φmn = hmn − 2 ηmn hλλ (confrontare con l’Equazione (1.15)) troviamo in approssimazione lineare, dopo aver imposto con un’opportuna scelta di mn coordinate la condizione ∂φ m = 0 , ∂x
2 1 ∂ 2 mn mn ∇ − 2 2 φ = −kT c ∂t
In situazioni quasi stazionarie solo φ moto di un corpo, che si riducono a
m0
(1.20)
da contributo alle equazioni del
d 2r = E + v ∧ BG 4 G dt 2
(1.21)
Dove EG è il campo gravitazionale Newtoniano e BG un contributo di tipo magnetico generato dalla densità della quantità di moto,
T (r ′ ) BG (r ) = G∇ ∧ ∫ 0′i d 3r ′ |r −r |
(1.22)
Una conseguenza immediata di queste considerazioni è l’effetto LenseThirring: in prossimità di un corpo rotante si deve osservare un moto di precessione dell’asse di un giroscopio, determinato dall’equazione del moto per il suo momento angolare L
dL = 2 L ∧ BG dt
(1.23)
L’esperimento spaziale Gravity Probe B (Keiser G.M. et al., 2009), lanciato nel 2004, si propone la misura diretta di questo effetto utilizzando quattro giroscopi meccanici in orbita polare attorno alla terra. Una espressione esplicita della velocità angolare di precessione prevista è data da
3GM ⊕ GI ⊕ 3R Ω = 2 3 R ∧ v + 2 3 2 (ω⊕ ·R ) − ω⊕ c R R 2c R
(1.24)
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Figura 7. Schema del satellite nell’esperimento GG. Le due masse libere sono cilindri coassiali (verde, azzurro) e il satellite ruota attorno al suo asse.
Dove R è il raggio dell’orbita, M ⊕ e I ⊕ la massa e il momento di inerzia della terra, ω⊕ la sua velocità angolare, v la velocità del satellite. In questa espressione si possono distinguere due tipi diversi di effetto, che sono anche schematizzati in Figura 8 insieme ai valori attesi. Il primo termine descrive una precessione nella direzione R ∧ v , il cosiddetto effetto geodetico o effetto de Sitter, che può essere visto come una misura diretta della curvatura dello spazio-tempo. Il secondo termine descrive il cosiddetto effetto di trascinamento (“Frame dragging effect”) o effetto Schiff. Si tratta di un aspetto “Machiano” della relatività generale: in prossimità di masse in movimento i coni luce
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Figura 8. Gravity probe B: precessione geodetica e di trascinamento.
tendono a deformarsi, come illustrato in Figura 9, che mostra la proiezione equatoriale della struttura spazio-temporale attorno ad un corpo rotante. Il cilindro rosso rappresenta una parte del “volume di universo” del corpo, cioè l’insieme delle linee di universo di tutte le sue parti. Attorno ad esso sono rappresentati (in blu) alcuni dei coni luce: lontano dal corpo i coni luce si allineano, e la struttura dello spazio è quella di Minkowski. Da questa costruzione possiamo ricavare un’idea intuitiva dell’origine del moto di precessione. Immaginiamo tre osservatori vicini tra loro ma posti a distanze diverse dall’asse di rotazione del corpo, O− (il più vicino), O0 (quello intermedio) e O+ (il più distante). Ad un certo istante O0 decide di lanciare un raggio luminoso in una certa direzione, ad esempio verso O+ . Sia O+ che O− sono equipaggiati con degli specchi e sono in grado di aggiustare la propria posizione in modo da riflettere il raggio luminoso verso O0 . In assenza di un corpo rotante la procedura è molto semplice: O+ e O− sono gli estremi di una cavità ottica in quiete, con O0 al centro. Ma a causa della deformazione dei coni luce indotta dal corpo in rotazione, la traiettoria percorsa da un fotone all’andata non coincide con una percorribile al ritorno. Allora gli osservatori O+ e O− dovranno aggiustare continuamente la propria posizione in modo da intercettare il raggio luminoso. In altre parole, la cavità costituita da O+ e O− subisce una rotazio-
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ne. Effetti di questo tipo, descritti quantitativamente dall’Equazione (1.23), sono in linea di principio rivelabili anche localmente. Allo stato attuale la via più promettente per farlo sembra essere l’effetto Sagnac. In presenza di deformazioni dei coni luce del tipo descritto un’onda elettromagnetica risuonerà in una cavità a frequenze che saranno diverse a seconda del verso di propagazione, e la misura di queste differenze può essere fatta mediante tecniche interferometriche con grande precisione. Tornando a Gravity Probe B, l’analisi dati ha fino ad ora confermato l’effetto geodetico previsto con una precisione dell’1%. La verifica dell’effetto di trascinamento è invece stata ostacolata dal effetti sistematici maggiori del previsto, in particolare accoppiamenti elettromagnetici generati da addensamenti locali di carica sulla superficie dei giroscopi. L’effetto addizionale di precessione è però stato stimato e sottratto, ottenendo una conferma dell’effetto Lense-Thirring entro il 15%. Un altro test dell’effetto Lense-Thirring utilizza due satelliti, LAGEOS e LAGEOS2 (Ciufolini, 2007), in orbita attorno alla terra. Si misura la precessione nodale delle loro orbite. I satelliti sono delle sfere massive di alluminio sulle quali sono montati dei retroriflettori. Grazie a questi possono venire tracciati da terra mediante laser con una precisione di pochi millimetri. L’esperimento ha confermato l’effetto Lense-Thirring con una precisione del 10%. Questo risultato dovrebbe essere migliorato di un fattore 10 dal satellite LARES (Iorio, 2009), attualmente in costruzione.
Figura 9. Struttura qualitativa dei coni luce attorno a un corpo rotante. Una dimensione spaziale è soppressa.
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Onde gravitazionali e campi intensi La (1.20), che è stata scritta nel regime di campi gravitazionali deboli ha chiaramente l’aspetto di un’equazione d’onda per il campo φmn . In altre parole sembra che perturbazioni del campo gravitazionale siano in grado di propagarsi alla velocità della luce. La predizione dell’esistenza delle onde gravitazionali fu fatta dallo stesso Einstein pochi mesi dopo la formulazione della relatività generale (Einstein, 1916). Nonostante ciò numerosi fisici ebbero seri dubbi sulla loro realtà fisica. Non è difficile comprenderne la ragione, dato che come si è visto la teoria è formulata in modo da essere indipendente dalla scelta delle coordinate. In questo senso può valere ancora l’analogia con l’elettromagnetismo: il quadripotenziale Am infatti non è direttamente osservabile, dal momento che ∂Λ è possibile eseguire una trasformazione di gauge Am → Am + ∂x m ( Λ è un capo scalare arbitrario) che non ne cambia il contenuto fisico. Allo stesso modo nella teoria linearizzata una trasformazione di coordinate x m → x m + ξ m ( x) agi∂ξ ∂ξ sce sul campo hmn della teoria linearizzata come hmn → hmn + ∂xnm + ∂xnm . Una dimostrazione che le onde gravitazionali trasportano energia e non possono quindi essere riassorbite da una ridefinizione delle coordinate fu data 40 anni dopo da Hermann Bondi (Bondi, 1957) con un esperimento concettuale. In esso si immaginavano due anelli liberi di strisciare su una barra rigida. In presenza di un’onda gravitazionale la separazione spaziale tra i due anelli e quella tra due elementi della barra sono governati da equazioni differenti, perché la seconda conterrà le forze di richiamo elastiche del materiale. Questo significa che gli anelli si muoveranno sulla barra, perdendo energia per attrito e aumentando la temperatura. Questa è la dimostrazione di un effetto osservabile di un’onda gravitazionale, di conseguenza anche la proposta per un possibile rivelatore, per quanto non molto pratico. I primi tentativi di rivelazione furono fatti negli anni 60 da J. Weber (Weber, 3 1961). L’idea era quella di usare una barra di alluminio ( ~ 2 × 10 kg ) come oscillatore armonico, e di misurare l’energia trasferita ad esso dalle forze di marea esercitate dall’onda gravitazionale. Weber annunciò l’avvenuta rivelazione alla fine degli anni 60, basandosi su un numero di eventi in coincidenza tra due barre più grande di quella attesa sulla base del livello di rumore. Nonostante diversi altri gruppi tentassero di confermare il risultato, non fu possibile ripetere l’esperimento con successo. Oggi abbiamo evidenza indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali, sulla base delle ben note osservazioni di un sistema binario di pulsar che ha fatto meritare a Hulse e Taylor il premio Nobel nel 1993 (Hulse e Taylor, 1975), mentre tentativi di rivelazione diretta sono rimasti ancora senza successo. Attualmente i rivelatori a barre risonanti tendono ad essere soppiantati da quelli di tipo interferometrico. In essi il tempo di volo di un fotone lun-
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Figura 10. Lo schema ottico semplificato di Virgo. Il blocco principale è evidenziato in azzurro, ed è costituito da due cavità risonanti, quella tra gli specchi WE-WI e quella tra gli specchi NE-NI. BS è il beam splitter, PR è uno specchio semiriflettente, detto di power recycling, che viene utilizzato per aumentare la potenza del laser all’interno della cavità. Al di fuori della zona azzurra si trovano banchi ottici ausiliari che vengono utilizzati per preparare opportunamente il fascio da iniettare (IB, injection bench) o per eliminare difetti dal fascio in uscita. Sono anche mostrati diversi fotodiodi (Bx, Qx). Questi servono sia per la misura del segnale principale, collegato alla differenza tra le lunghezze delle due cavità, sia per quella dei diversi segnali di controllo necessari a mantenere gli specchi sospesi nella posizione corretta mediante opportune retroazioni.
go due diversi cammini è paragonato mediante interferenza. In presenza di un’onda gravitazionale di opportuna direzione e polarizzazione la differenza tra i due tempi cambia e può essere rivelata. Uno schema semplificato della realizzazione di questo concetto è rappresentato in Figura 10. In questo caso i due cammini sono costituiti da numerose riflessioni all’interno di due cavità Fabry-Perot di un laser preventivamente separato in due rami dal beam splitter BS. Gli specchi di ciascuna cavità (WE-WI, NE-NI) possono essere visti come masse in caduta libera nella direzione ortogonale al sistema di sospensione, quindi possiamo vedere quello che accade come una misura della separazione tra geodetiche.
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Al momento attuale sono operativi diversi rivelatori interferometrici. I più sensibili sono i due interferometri da 4 km di LIGO (A. Abramovici et al., 1992), e quello da 3 km di VIRGO (B. Caron et al., 1997). Uno dei maggiori vantaggi di un rivelatore interferometrico è la sua grande finestra di sensibilità, come si può vedere in Figura 11. In essa è mostrata l’ampiezza spettrale del rumore di diversi rivelatori, normalizzata in modo da poter essere direttamente confrontate con l’ampiezza spettrale del segnale gravitazionale. Si deve tenere presente che in un rivelatore a barra risonante la tipica finestra di sensibilità è di qualche Hz. Un gran numero di diversi meccanismi è in linea di principio capace di generare una differenza di fase spuria tra i due cammini ottici che vengono confrontati. Nei rivelatori attuali i fattori che limitano la sensibilità sono essenzialmente tre. A bassa frequenza (sotto pochi Hz) il rumore dominante è quello sismico. Gli specchi dell’apparato non possono essere realmente masse libere, risultano quindi accoppiate al suolo, che è in continua vibrazione a un livello che sarebbe del tutto incompatibile con il livello di sensibilità richiesto. Per questa ragione gli specchi sono sospesi a dei sistemi di attenuazione, che possono essere sia passivi che attivi. In Virgo questi sistemi, detti superattenuatori, sono dispositivi meccanici sofisticati nel dettaglio che però si basano su un principio piuttosto semplice. Possono infatti essere visti come pendoli multipli a N stadi. Se immaginiamo di muovere orizzontalmente il punto di sospensione secondo la legge x0 = A sin(2p ft ) , avremo uno spostamento della massa più in basso data da
f xN = (−1) f N
2N
A sin ( 2p ft )
(1.25)
purché la frequenza f sia molto maggiore della tipica scala di frequenza
f dei modi di vibrazione interni. In questo modo con un numero di stadi
sufficientemente grande si ottiene il grande fattore di soppressione richiesto. A frequenze intermedie (fino a 200 Hz circa) la sensibilità è limitata dal rumore termico. In particolare, fino a 50 Hz circa l’agitazione termica delle sospensioni meccaniche è dominante, a frequenze maggiori diviene importante il moto interno degli specchi. Il teorema di fluttuazione-dissipazione ci dice che il livello di agitazione termica è proporzionale alle dissipazioni meccaniche dei materiali. Per questa ragione l’obiettivo è la minimizzazione dei meccanismi dissipativi in gioco, che si cerca di ottenere migliorando le caratteristiche meccaniche delle sospensioni e cercando materiali che permettano di aumentare il più possibile il fattore di qualità degli specchi.
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Nella regione ad alta frequenza infine la sensibilità è limitata dal rumore shot del laser, ossia la fluttuazione di fase connessa con la natura quantistica del campo elettromagnetico. Miglioramenti della sensibilità si possono qui ottenere in modo diretto aumentando l’intensità del laser. Questa soluzione però non è priva di problemi, ad esempio laser di potenza molto elevata depositano energia sugli specchi a un livello tale da deformarli, con una conseguente riduzione delle prestazioni dell’apparato. Approcci alternativi, attualmente allo studio, si basano sulla manipolazione dello stato quantistico del fascio laser. Si pensa in particolare di utilizzare luce “squeezed” che in condizioni opportune permette la riduzione del rumore quantistico senza rendere necessario un aumento della potenza. Come è evidente dalla figura la sensibilità tipica della generazione attuale di rivelatori interferometrici, espressa tramite una quantità direttamente confrontabile con l’ampiezza spettrale del campo hmn da rivelare, è dell’ordine di 10−22 attorno ai 100Hz. Vi sono diversi potenziali candidati alla rivelazione diretta, e non c’è spazio sufficiente in questa sede per una discussione dettagliata. Schematicamente possiamo classificarli in alcune categorie principali, a seconda delle caratteristiche del segnale atteso. • Segnali impulsivi possono essere generati da eventi violenti come esplosioni di supernove. La radiazione gravitazionale emessa è largamente dipendente dal grado di simmetria dell’esplosione (tanto maggiore la simmetria, tanto minore la radiazione). Il segnale atteso è un breve impulso (dell’ordine di qualche decina di millisecondi), di forma essenzialmente non nota. La tipica ampiezza caratteristica si può scrivere nella forma 1/2
1/2
1/2
−3 M 1kHz 10 s h ≈ 6 ×10 η M f τ −17
1/2
(1.26)
Dove è la frazione della massa a riposo della stella rilasciata come radiazione gravitazionale e la durata del collasso. Inizialmente si pensava che questo fosse uno dei più probabili candidati per una prima rivelazione. Recenti stime teoriche hanno però rivisto al ribasso il valore atteso per , stimando un valore probabile attorno a 10−9 (Dimmelmeier et al., 2002) • Sistemi binari composti da stelle di neutroni e/o buchi neri perdono energia ad una frequenza doppia di quella orbitale, che aumenta lentamente in tale processo. Nell’ultima fase della loro evoluzione il segnale entra nella finestra di sensibilità del rivelatore, e in qualche decina di secondi si arriva all’evento finale di coalescenza. La forma del segnale gravitazionale atteso può essere stimata accuratamente con metodi
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Figura 11. Curve di sensibilità per i rivelatori interferometrici di onde gravitazionali attualmente operativi. L’ampiezza spettrale del rumore, normalizzata allo strain gravitazionale h , è riportato in funzione della frequenza. Le curve “Virgo design” e “LIGO design” si riferiscono alle sensibilità di disegno, le altre alle sensibilità effettivamente raggiunte in diverse fasi del commissioning.
perturbativi (Blanchet, 2007), salvo che negli istanti finali dove effetti non lineari della relatività generale non possono più essere considerati piccole correzioni. Gli eventi che ci si attende di poter rivelare alle sensibilità attuali non sono molti, pochi in un anno secondo le stime più ottimistiche (Grishchuk et al., 2001). Un futuro aumento della sensibilità avrà un grande impatto su questo tipo di ricerca, dato che le sorgenti scalano con il cubo della distanza massima accessibile. • Stelle a neutroni rotanti possono generare un segnale gravitazionale se la simmetria assiale del corpo non è perfetta. Il segnale atteso è essenzialmente monocromatico, e può essere integrato per un tempo, in linea di principio, molto lungo. In realtà ciò che arriva al rivelatore è modulato dall’effetto Doppler connesso alla rivoluzione e alla rotazione della terra, che deve essere corretto. La tipica ampiezza attesa può essere scritta nella forma 2
10 kpc f GW I eò h ≈ 10−25 −6 45 3 2 10 10 g cm r 1kHz
(1.27)
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Dove I 3 è il momento di inerzia della stella. L’ampiezza della radiazione emessa è proporzionale alla violazione di simmetria assiale misurata dal parametro e, per il quale ci si attendono valori tipici dell’ordine di eò < 10−6 . • La sovrapposizione di un gran numero di eventi non risolvibili singolarmente può infine generare un fondo stocastico di onde gravitazionali (Maggiore, 2000). Sono stati proposti numerosi meccanismi di origine sia astrofisica che cosmologica capaci di produrre questo tipo di segnale. Nel caso cosmologico si ha una analogia con la radiazione di fondo di microonde, con la differenza che il disaccoppiamento tra gravitazione e materia avviene sin dai primi istanti dell’universo. In linea di principio un fondo stocastico cosmologico di onde gravitazionali contiene informazioni preziose sulla fisica fondamentale. Purtroppo le ampiezze attese sono piuttosto basse, anche se è già stato possibile stabilire dei limiti superiori e a porre vincoli su alcuni modelli cosmologici. Dato che il segnale atteso non è deterministico per rivelarlo è necessario correlare i dati di almeno un paio di rivelatori, sfruttando la parziale correlazione che ci si attende in due punti separati spazialmente. Il network di rivelatori attualmente operativo è stato già capace di porre dei vincoli su diversi parametri astrofisici e cosmologici. Una rivelazione diretta delle onde gravitazionali è ancora mancante, ma esiste la concreta possibilità di ottenerla già alle sensibilità attuali. Inoltre le collaborazioni internazionali che lavorano attorno ai rivelatori sono continuamente impegnate nel miglioramento della sensibilità. Si può avere fiducia in una probabile rivelazione nei prossimi anni, il passo successivo sarà quello di passare ad uno studio dei parametri delle sorgenti. In prospettiva esperimenti attualmente in fase di studio (LISA, un interferometro spaziale, Einstein Telescope, un interferometro terrestre con una sensibilità migliorata di ordini di grandezza) promettono, oltre alla certezza di rivelazione per certe classi di sorgenti, la possibilità di studiare con precisione regimi in cui il campo gravitazionale è intenso, dando la possibilità di testare la relatività generale anche in tali condizioni.
Conclusioni La fisica gravitazionale ha a che fare con effetti piccoli, che richiedono un’elevata sensibilità dell’apparato sperimentale e la possibilità di controllare un gran numero di effetti sistematici. Il principio di equivalenza è stato fino ad oggi un’idea guida che ha condotto all’elaborazione della relatività generale. Anche se non ci si aspetta che questa teoria sia “fondamentale”, ma più probabilmente una descrizio-
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ne efficace e valida a basse energie di qualche teoria unificata ancora non disponibile, l’idea base che non sia possibile, o utile, separare nettamente le forze dalla struttura geometrica dello spazio-tempo è destinata a rimanere a mio parere un cardine della comprensione della natura.
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La frontiera delle osservazioni astronomiche da terra Antonio Stamerra
L’approccio sperimentale introdotto da Galileo permette di verificare o falsificare la nostra visione del mondo e dell’Universo mediante l’uso di strumenti che mettono alla prova le previsioni di una teoria. L’introduzione di nuovi strumenti di misura apre nuovi scenari alla visione del mondo che conosciamo. La frontiera delle osservazioni astronomiche da terra è rappresentato dall’astronomia delle alte energie. Come il cannocchiale di Galileo le tecniche osservative introdotte stanno scoprendo un Universo inatteso. La rotta di avvicinamento che seguiremo per comprendere l’astronomia ad alta energia segue il percorso degli eventi e dei protagonisti che l’hanno sviluppata e ha inizio il 12 aprile 1912, durante un’eclisse di Sole, con una ascesa in pallone del ventottenne austriaco Victor Francis Hess (1). Questo evento ha segnato la nascita della fisica dei raggi cosmici.
1. I raggi cosmici Il fermento scientifico della fine dell’Ottocento condusse a scoperte fondamentali. Tra queste la radioattività individuata da Becquerel (1896). La radioattività prodotta da elementi instabili si misurava attraverso un elettroscopio a foglie carico; in presenza di elementi radioattivi l’elettroscopio si scarica, a dimostrazione che questi emettono particelle cariche che neutralizzano le cariche nell’elettroscopio. Il fenomeno di scarica spontanea degli elettroscopi dimostrava che esisteva una radioattività naturale dell’ambiente che ci circonda. Negli anni successivi si è cercato di comprendere l’origine di questa radioattività ambientale, attribuita dai più agli elementi instabili presenti nel suolo. In base a questa spiegazione il volo su pallone di Hess doveva misurare la diminuzione della radioattività naturale allontanandosi dal suolo. La sorpresa fu che l’elettroscopio si scaricava sempre più velocemente aumentando l’altezza: la radioattività aumentava invece di diminuire! Le particelle ionizzanti non potevano provenire dal suolo e Hess le attribuì “alla penetrazione nell’atmosfera terrestre dallo spazio esterno di una radiazione di grande capacità penetrante” (2). Questa radiazione era costituita da protoni e nuclei di energia estremamente elevata che, per una erronea interpretazione come radiazione neutra da parte di Compton, vennero chiamati raggi cosmici (RC).
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Come ogni trama che si rispetti, nel suo svolgersi incontra spesso deviazioni o percorsi paralleli interrotti o semplicemente dimenticati, perché meno eclatanti o forse meno fortunati. Nella nostra storia sui raggi cosmici ha avuto una sua parte anche un personaggio italiano, che come Hess avrebbe meritato la paternità sui raggi cosmici, Domenico Pacini (1878-1934). Pacini realizzò i suoi esperimenti dal 1908 al 1911 nelle acque antistanti Livorno. L’approccio era complementare a quello di Hess e voleva misurare la variazione della radioattività con la profondità in acqua. Le sue misure di radioattività evidenziavano, secondo le parole dello stesso Pacini, “che una parte non trascurabile della radiazione penetrante che si riscontra nell’aria, avesse origine indipendente dall’azione diretta delle sostanze attive contenute negli strati superiori della crosta terrestre” (3). Il Pacini non fece mancare le sue rimostranze verso Hess per non essere stato citato nei lavori di quest’ultimo (4). Nonostante questo nel 1936, due anni dopo la morte di Domenico Pacini, solo Victor Hess ricevette il premio Nobel per la scoperta dei raggi cosmici. Leggendo questa seppur affascinante sviluppo della fisica dei RC, chi non ha perso di vista il titolo di questo intervento si sarà sicuramente chiesto: qual è il legame con lo studio delle sorgenti astrofisiche?
2. Raggi cosmici e sorgenti astrofisiche La connessione è presto detta: i raggi cosmici sono prodotti dalle più potenti ed energetiche sorgenti astrofisiche dell’Universo. Ma andiamo per ordine. La conoscenza sui RC si può riassumere nello spettro, riportato in Figura 1. Lo spettro riporta il flusso delle particelle che costituiscono i raggi cosmici, in funzione della loro energia. Il flusso decresce rapidamente con l’energia. L’andamento è lineare nella scala bi-logaritmica della figura, ovvero la relazione che lega flusso ed energia e di tipo legge di potenza, che si può scrivere come:
(F: flusso, E: Energia, a: indice spettrale)
Il parametro a è l’indice dello spettro di potenza e regola la pendenza della curva. Si evidenziano due aspetti chiave sullo spettro dei raggi cosmici: • l’energia massima osservata dei RC è di circa 1021 elettronVolt (eV)1; L’elettronVolt è una unità di misura dell’energia, usata in fisica delle particelle. Equivale all’energia necessaria a spostare un elettrone attraverso una differenza di potenziale elettrico di 1 Volt. 1 eV = 1.602×10-19 J ( Joule). 1
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• lo spettro di potenza segue una pendenza a prima vista costante su tutto l’intervallo di energie. 1021 eV è un energia enorme. È paragonabile a quella di una pallina da tennis colpita da un campione al servizio, ma racchiusa in una sola particella subatomica! Per confronto le particelle radioattive emesse da una reazione nucleare raggiungono energie dell’ordine di 106 eV (MeV)2. Il Large Hadron Collider in funzione dal 2010 al CERN di Ginevra potrà accelerare particelle fino al massimo di 14x1012 eV (14 TeV) nel centro di massa; questa energia è indicata nella stessa Figura 1. Queste energie estreme sono state misurate solo negli ultimi decenni, ma già nei primi studi sui RC, in particolare da parte di Pierre Auger nel 1938 (6), si era compreso che i RC raggiungevano energie dell’ordine di 1015 eV. Quali processi possono accelerare particelle fino a queste energie? Le prime idee sui processi responsabili dell’accelerazione dei RC furono esposte da Enrico Fermi nel 1949 nel suo articolo “On the Origin of the Cosmic Radiation” (5). La sua teoria prevedeva che le particelle cariche intrappolate in campi magnetici turbolenti acquistassero energia dal movimento complessivo della regione. Una semplice formulazione permetteva di ricavare lo spettro di potenza con un indice molto simile a quello osservato. Queste idee sono state successivamente elaborate ed estese, ma vanno ancora sotto il nome di processi di accelerazione di Fermi. Da allora sono state studiate le possibili regioni che intrappolano le particelle cariche e fungono da acceleratori. Ad esempio gli shock che si producono dall’urto della materia espulsa dall’esplosione di una supernova con la materia interstellare. Parliamo quindi di regioni ben definite, intorno ad oggetti astrofisici che devono alimentare continuamente questa fucina di raggi cosmici per giustificare il flusso isotropo e costante che osserviamo oggi. Chi studia i RC si è presto reso conto che comprendere i processi di accelerazione vuol anche dire identificare le sorgenti astrofisiche dove questi processi si svolgono. Una semplice considerazione di fisica di base ci permette di capire le caratteristiche di queste sorgenti. Riprendendo l’idea di Fermi, consideriamo una particella intrappolata in un campo magnetico. Una particella carica segue una traiettoria circolare in un campo magnetico con un raggio che aumenta con l’energia, il raggio di Larmor. Oltre una certa energia la particella sfugge alla regione e il processo di accelerazione si interrompe. Ad esempio una regione di accelerazione di 1 parsec (1 pc = 3.26 anni luce = 3.08x1016 m), dimensione tipica del guscio di supernova, per contenere Per grandi numeri si usa la simbologia seguente: 103 = 1k; 106 = 1M (mega); 109 = 1G (giga) 1012 = 1T (tera); 1015 = 1P. Per i piccoli numeri: 10-3 = 1m (milli); 10-6 = 1m (micro); 10-9 = 1n (nano). 2
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Figura 1. Lo spettro dei raggi cosmici (RC) che riporta il flusso (in particelle per metro quadro per secondo per unità di energia) in funzione dell’energia, espressa in elettronVolt (eV). La scala è bi-logaritmica. Sono evidenziati i punti in cui si ha un cambio di pendenza: il ginocchio (Knee) e la caviglia (Anckle). Il taglio GZK si ha ad un’energia di 6x1019 eV, difficilmente evidenziabile in questa figura. Sono inoltre indicate le energie del centro di massa del Tevatron al Fermi National Laboratory di Chicago e di LCH al CERN di Ginevra.
un protone con energia pari a 1019 eV deve avere un campo magnetico di almeno 10 milliGauss (1 mG = 10-3 Gauss, il campo magnetico terrestre è di circa 1 Gauss). Ma i campi magnetici misurati nei resti di supernova non superano i 100 mG, 100 volte inferiori. Inoltre la particella, una volta sfuggita dalla regione di accelerazione, diffonderà nella galassia, dove risente dei campi magnetici galattici, nell’ordine di 3 mG. Il raggio di Larmor in questo
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caso è pari alle dimensioni della galassia che quindi non può contenere i protoni di questa energia. La conclusione è che le particelle al limite dello spettro devono provenire da altre galassie, e che le galassie che li hanno accelerati devono avere caratteristiche particolari: campi magnetici intensi, estese regioni di confinamento e un grosso motore che inietta continuamente particelle e energia per mantenere costante il flusso di RC che osserviamo. La sfida lanciata dalla fisica dei raggi cosmici all’astrofisica consiste nell’identificare queste sorgenti. Abbiamo finalmente raggiunto la frontiera dell’astronomia moderna; inizia la caccia agli acceleratori cosmici!
3. Messaggeri cosmici Nella nostra caccia agli acceleratori cosmici le tracce sono apparentemente abbondanti: i raggi cosmici che continuamente bombardano la nostra atmosfera. Purtroppo si tratta di tracce fuorvianti. Come si è visto le particelle cariche che costituiscono i RC sono deviate dai campi magnetici incontrati nel loro viaggio fino alla Terra. Le loro direzioni di arrivo sulla Terra sono isotrope, distribuite uniformemente nel cielo: l’informazione diretta sulla direzione della sorgente che li ha prodotti è perduta. Siamo costretti a ritornare sui nostri passi e a ripensare a nuove tracce, a messaggeri cosmici che ci portino l’informazione sulle sorgenti che producono i RC. Questi nuovi messaggeri devono essere neutri, non possedere carica elettrica, per poter puntare direttamente alla sorgente. E devono essere prodotti dall’interazione dei raggi cosmici accelerati dalla sorgente, per portare con sé il ricordo dei processi che li hanno originati. Lo scenario che si prospetta è quello indicato in Figura 2, dove è schematizzato l’inviluppo in espansione della materia espulsa da una supernova. Questo è solo uno dei possibili scenari; altri verranno esposti in seguito, ma non cambiano la sostanza. Il guscio in espansione trasporta l’energia liberata dall’esplosione e contiene le particelle energetiche, protoni, elettroni, nuclei, sotto forma di plasma. Il plasma è intrecciato al campo magnetico della stella originaria, come evidenziato da molte osservazioni astronomiche sugli spettri di supernova. Ecco il “brodo di coltura” dei nostri RC! L’amalgama di questi ingredienti è il processo di accelerazione di Fermi che aumenta l’energia delle particelle del plasma. Le particelle così accelerate interagiscono con l’ambiente circostante, il materiale interstellare e il campo magnetico, dando luogo a reazioni ben note nella fisica standard. In particolare protoni e nuclei possono interagire con la materia interstellare originando sciami di particelle: un vero e proprio urto tra particelle che si rompono per originarne altre che a loro volta interagiscono con la materia circostante. Un effetto a valanga
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Figura 2. I processi di emissione gamma che avvengono ad energie elevate. A sinistra sono indicati i processi leptonici che coinvolgono elettroni e positroni e i processi adronici, la sciame di particelle prodotto dall’interazione con atomi della materia interstellare (ISM). Nel Compton inverso l’elettrone energetico cede energia al fotone. A destra i processi di emissione gamma nel guscio di espansione di un resto di supernova.
che produce in particolare molti pioni, come osservato negli acceleratori di particelle sulla Terra. I pioni neutri, i p0, decadono immediatamente in una coppia di fotoni energetici: abbiamo trovato la nostra prima traccia neutra! I fotoni non hanno carica e non vengono deviati dai campi magnetici e portano così direttamente l’informazione su queste interazioni. I pioni carichi invece decadono in un muone e un neutrino; anche il neutrino, particella neutra molto elusiva, sfugge alla sorgente senza interagire. Abbiamo trovato il secondo messaggero cosmico, il neutrino. Il processo di interazione a cascata e le reazioni di decadimento sono indicate nella Figura 2. I fotoni energetici da una parte e i neutrini dall’altra sono i protagonisti dell’astronomia di frontiera di questi ultimi decenni, e stanno modificando radicalmente il modo di fare astronomia e la visione classica dell’astrofisica aperta da Galileo più di 400 anni fa.
4. L’universo invisibile L’astronomia classica fino agli inizi del ’900 ha studiato prevalentemente l’informazione raccolta con i telescopi ottici. La teoria dei campi elettroma-
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gnetici di Maxwell ha mostrato che la luce visibile è solo una piccola finestra del cosiddetto spettro elettromagnetico (vedi Figura 3). Esiste un Universo invisibile che resta in gran parte nascosto alle osservazioni da Terra. Nella Figura 3 si riporta la trasparenza dell’atmosfera alle diverse lunghezze d’onda della radiazione elettromagnetica. Oltre la nota finestra nel visibile, a lunghezze d’onda di circa 500 nm (nanometri, 10-9 m), corrispondenti ad una frequenza di 6x1014 Hz e ad un’energia di circa 1 eV3, esiste una finestra nel radio che ha permesso la nascita della radioastronomia. Invece la radiazione infrarossa, ultravioletta, X e gamma interagisce con l’atmosfera e non raggiunge il suolo. Ma quale radiazione, frequenza o energia, ci aspettiamo dai processi di interazione dei raggi cosmici descritti in precedenza? Nella collisione con la materia interstellare i protoni o nuclei con energie tra 1012 e 1020 eV, producono particelle di energia sicuramente inferiore ma dello stesso ordine di grandezza dell’energia della particella primaria che ha iniziato il processo. Quindi anche i fotoni del decadimento del p0 avranno energie comparabili. La conservazione dell’energia ci dice inoltre che i fotoni devono avere energia superiore a metà della massa del p0 che li ha prodotti, circa 100 MeV4. Vi sono poi processi che interessano elettroni e positroni importanti per la creazione di fotoni energetici nelle sorgenti astrofisiche. Questi processi sono detti leptonici per distinguerli dalla interazioni adroniche5 prodotte da protoni e nuclei. Si tratta dei processi di Bremsstrahlung e di sincrotrone che portano all’emissione di fotoni quando gli elettroni e positroni energetici si trovano immersi in un campo magnetico. L’energia dei fotoni prodotti dipende dall’energia dell’elettrone accelerato e dall’intensità del campo magnetico. Tramite un ulteriore urto fotone-elettrone, chiamato Compton inverso (Inverse Compton, IC), i fotoni possono raggiungere energie dell’ordine del MeV-GeV (106-109 eV) e superiori. Si veda la Figura 2 dove questi processi sono descritti schematicamente.
3 Secondo la teoria delle onde, ad una lunghezza d’onda corrisponde una frequenza legata alla velocità di propagazione (in questo caso la velocità della luce, c) secondo la relazione n = c/l. Il fotone, come quanto di luce della teoria quantistica, trasporta inoltre un’energia data dalla relazione di Planck E = hn. 4 La Massa delle particelle viene spesso espressa tramite la loro energia a riposo, secondo la famosa relazione di Einstein E = mc2. 5 Leptoni: la famiglia di particelle fondamentali composta da elettroni, muoni e tau e relative antiparticelle. Adroni: famiglia di particelle composte da coppie o tripletti di quark. Tra queste i protoni, neutroni (barioni) e i pioni (mesoni). I processi di emissione gamma, come bremsstrahlung e sincrotrone, sono legati all’accelerazione impressa alle particelle e quindi alla loro massa. Per questo sono molto più efficienti su elettroni e positroni, duemila volte più leggeri dei protoni.
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Figura 3. Lo spettro elettromagnetico e l’assorbimento atmosferico. Sono mostrate le altitudini fino a cui le varie frequenze emesse da sorgenti celesti riescono a penetrare nell’atmosfera terrestre; es., il radio e la luce visibile riescono a raggiungere il suolo, mentre raggi X e gamma, e larga parte dell’infrarosso sono fermati nell’alta atmosfera. I raggi gamma cosmici di altissime energie possono venire rivelati a terra in modo indiretto mediate la luce Cerenkov emessa dalla loro interazione con l’atmosfera terrestre.
Quindi il nostro messaggero cosmico appartiene alla cosiddetta radiazione gamma, con energia da qualche centinaio di MeV fino a diversi TeV (1 TeV = 1012 eV). Cosa accade al fotone prodotto nella fucina di raggi cosmici e sopravvissuto nel viaggio fino alla Terra? Nella Figura 3 si vede che un fotone gamma di questa energia interagisce con l’atmosfera ad altezze dell’ordine di qualche decina di km. A queste energie il fotone gamma, viaggiando nel mezzo circostante, l’aria, produce una coppia elettrone-positrone con un’energia pari alla metà dell’energia del fotone primario. Questo processo, denominato produzione di coppie, si replica quando l’elettrone o il positrone, risentendo dei campi elettromagnetici degli atomi, emette un nuovo fotone, di energia pari ad circa ¼ dell’energia del fotone primario. Le interazioni si succedono a valanga fino a quando l’energia dei fotoni e elettroni secondari si riduce al di sotto della soglia per produrre ulteriori fotoni e coppie e+/e-. L’intero processo è schematizzato in Figura 4 e richiama lo sviluppo a cascata iniziato dai protoni e nuclei nell’interazione con la materia interstel-
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Figura 4. Sinistra: schematizzazione di uno sciame elettromagnetico iniziato da un gamma. La scala tipica per le biforcazioni, corrispondente alla produzione di coppie o all’emissione gamma per Bremstrahlung, è la lunghezza di radiazione X0 (circa 300 m per l’aria al livello del mare). Destra: La tecnica di rivelazione dei telescopi Cherenkov, descritta nel paragrafo 6. Nel riquadro al centro è riportata una immagine dello sciame rivelato dal telescopio Cherenkov MAGIC.
lare. Anche i raggi cosmici carichi che sfuggono alle sorgenti e raggiungono l’atmosfera terrestre subiscono la stessa sorte e formano quello che si chiama sciame atmosferico esteso, EAS (Extended Air Shower). Lo studio dei raggi gamma energetici prodotti dalle nostre “prede” astrofisiche, così come lo studio da terra degli stessi raggi cosmici, è indiretto, ovvero si realizza con l’osservazione dei prodotti degli sciami estesi atmosferici. Vediamo quali di questi prodotti secondari ha permesso di identificare i fotoni gamma e la tecnica di rivelazione usata.
5. Astronomia Cherenkov Il 1989 ha decretato il primo successo dei cacciatori cosmici e rappresenta la data di inizio dell’astronomia Cherenkov. I tentativi di sfruttare la tecnica Cherenkov per tracciare le sorgenti di raggi gamma nel cielo risalgono a 40 anni prima, costellati da una serie di insuccessi seguiti da miglioramenti della strumentazione e nuove idee per superare le difficoltà incontrate. Nel 1934 in una pubblicazione dell’Accademia delle Scienze dell’URSS Pavel Alekseyevich Cherenkov comunicò di aver osservato della luce visi-
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bile bluastra proveniente da acqua irradiata da una sorgente radioattiva. Ulteriori studi indicavano che questa luce era emessa da particelle che viaggiano a velocità superiore a quella della luce nel mezzo6. L’effetto è prodotto dalla somma coerente delle perturbazioni prodotte sul mezzo dalla particella ed è molto simile all’onda sonora emessa da un aereo che si muove a velocità supersonica (vedi Figura 5). Questo “bang luminoso” si produce anche in atmosfera quando viene attraversata da una particella cosmica e dalle particelle secondarie prodotte dallo sciame atmosferico. Queste hanno energie molto elevate e quindi velocità che possono essere superiori alla velocità della luce in aria. I telescopi Cherenkov raccolgono la luce emessa dagli sciami atmosferici iniziati dai raggi cosmici, protoni e nuclei, nonché dai gamma che provengono dalle sorgenti astrofisiche (Figura 4). Il flash luminoso Cherenkov è estremamente debole e rapido: produce poche decine di fotoni per metro quadro in un intervallo temporale di pochi nanosecondi (1 ns = un miliardesimo di secondo). Si comprendono così le difficoltà che hanno accompagnato i tentativi di rivelazione di segnale gamma con questa tecnica. I primi telescopi Cherenkov costruiti in zone lontane da luci artificiali, erano costituiti da piccoli specchi che concentravano la luce su un singolo fotomoltiplicatore, un rivelatore particolarmente sensibile e veloce. Con i telescopi di “generazione 0” nel 1972 si è ottenuta solo una labile indicazione di segnale dalla Crab Nebula dopo ben 3 anni di osservazione (7). La difficoltà maggiore risiedeva nel predominante fondo prodotto dai raggi cosmici carichi che nascondeva il segnale dovuto al fotone gamma. La svolta è frutto degli studi condotti da Anthony Michael Hillas sulla luce Cherenkov prodotta dagli sciami e del corrispondente sviluppo tecnologico che ha portato Trevor C. Weeks e il suo gruppo dello Smithsonian Astrophysical Observatory in Arizona a montare sul fuoco del telescopio intitolato a Whipple, una camera con 37 fotomoltiplicatori. Con questo rivelatore è stato possibile ricostruire una immagine della luce Cherenkov dello sciame atmosferico. Gli studi di Hillas avevano dimostrato che le immagini prodotte da fotoni gamma e da raggi cosmici carichi sono diverse, ed è quindi possibile rigettare il fondo dei carichi e selezionare il segnale dovuto ai gamma. Dopo questa fondamentale svolta, che va sotto il nome di IACT (Imaging Air Cherenkov Technique, Figura 4), il telescopio Whipple nel 1989 ha identificato in maniera chiara un segnale dalla Crab Nebula dopo 50 ore di osservazione (8). Il segnale proveniva dai fotoni gamma con energia dell’ordine e superiori a 1 TeV (1012 eV) emessi dalla pulsar centrale sopravvissuta all’esplosione della supernova vista nel 1054. Da quel momento in poi la 6 La velocità della luce in un mezzo è inferiore alla velocità della luce nel vuoto ed è pari a c/n dove c: velocità della luce nel vuoto; n: indice di rifrazione del mezzo.
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Figura 5. Sinistra: Bang supersonico prodotto da un aereo che si muove ad una velocità superiore alla velocità del suono nell’aria. La compressione dell’onda sonora prodotta condensa il vapore d’acqua presente nell’aria rendendo visibile il fronte dell’onda sonora emessa, indicato dalle linee rosse. A destra: similmente la luce Cherenkov è assimilabile ad un bang luminoso che si produce quando la particella si muove ad una velocità v superiore a quella della luce nel mezzo, ovvero v > c/n, dove n è l’indice di rifrazione del mezzo. In questo caso le onde elettromagnetiche prodotte dalla perturbazione del mezzo nel passaggio della particella carica, si sommano coerentemente e formano un fronte d’onda unico che si propaga con un angolo ben definito. L’angolo massimo q è dato dalla formula cosq = 1/n. In aria la luce è emessa con un angolo rispetto la traiettoria della particella pari a circa un grado. Se invece la velocità è inferiore le onde elettromagnetiche della perturbazione non si sommano e non si ha effetto Cherenkov (destra in basso).
neonata astronomia Cherenkov ha inanellato un succeso dopo l’altro, individuando nuove sorgenti e costruendo nuovi telescopi e matrici di telescopi con superfici riflettenti più grandi e rivelatori più sensibili. L’attuale generazione di telescopi Cherenkov include telescopi con specchi della classe 10 metri, come il 17 metri del telescopio MAGIC (vedi foto in Figura 6), e rivelatori costituiti da centinaia di fotomoltiplicatori. Questi telescopi hanno identificato più di 100 sorgenti gamma con energie superiori a 100 GeV e rivelano il segnale dalla Crab in soli 2 minuti di osservazione. Tre osservatori dominano l’astronomia Cherenkov: i telescopi da 17 metri MAGIC (Florian Goebel Telescopes) (9), la matrice di 4 telescopi da 12 metri HESS (10) situati in Namibia nell’emisfero sud, e la matrice di 7 telescopi VERITAS in Arizona (11), che hanno raccolto l’eredità del telescopio Whipple. I risultati ottenuti da questi telescopi, operativi da poco più di 5 anni, stanno svelando l’Universo violento, i fenomeni più energetici che vi avvengono e forniscono importanti indizi sui possibili siti di produzione dei raggi cosmici.
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Figura 6. I due telescopi MAGIC a La Palma (Isole Canarie).
La tecnica IACT permette di ricostruire energia e direzione dei fotoni gamma rivelati. Con la direzione si identifica la sorgente che emette i gamma e, nel caso di sorgenti estese (> 0.1 gradi), come la nebula dei resti di supernova, si ottiene l’immagine gamma. L’energia misurata viene usata per costruire lo spettro della sorgente, il flusso in funzione dell’energia, come visto per i RC. Con lo spettro gamma e le misure effettuate ad altre lunghezze d’onda, dal radio all’X, si costruisce la SED (Spectral Energy Distribution) che dà un quadro completo dell’emissione elettromagnetica della sorgente. La SED è lo strumento diagnostico per la verifica dei modelli di emissione. La Figura 7 riporta la SED del Nucleo Galattico Attivo (AGN) Markarian 421, una galassia relativamente vicina, a circa 150 Mpc di distanza. Si ritiene che gli AGN (Active Galactic Nuclei) ospitino un buco nero massiccio che trasferisce l’energia gravitazionale del disco di accrescimento immettendo materia in due getti collimati e opposti (Figura 8). In scala molto più grande ritroviamo lo scenario indicato con la supernova. La materia emessa a velocità relativistiche nei getti, forma degli shock dove presumibilmente si accelerano le particelle cariche, protoni nuclei e elettroni, che nell’interazione con l’ambiente emettono raggi gamma. Con le SED di questo e altri AGN si verificano i modelli di emissione gamma. Nella SED in Figura 7 le regioni colorate indicano i flussi attesi dai modelli di emissione leptonica elencati in precedenza e che ben descrivono i dati sperimentali: l’emissione di sincrotrone alle energie più basse, dal radio all’X e il model-
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Figura 7. SED (Spectral Energy Distribution) multifrequenza dell’AGN Markarian 421. La SED rappresenta l’energia emessa da una sorgente sotto forma di onde elettromagnetiche, dal radio (circa 1010 Hz) alla regione gamma (circa 1027 Hz, pari a 4 TeV, secondo la relazione E = hn). Sono indicate le misure effettuate da più di 20 osservatori in una campagna osservativa nel 2009. Sono evidenti due diversi regimi di emissione, evidenziati dalle regioni colorate. Ad energia più bassa predomina l’emissione di sincrotrone. L’emissione a più alte energie si ritiene sia dovuta al Compton inverso. I punti sperimentali a più alte energie (in nero) sono stati misurati dal telescopio Cherenkov MAGIC.
lo di Compton inverso (IC) alle energie più alte. Sono indicate le misure effettuate dal telescopio MAGIC che coprono la regione di emissione IC. Queste misure hanno provato che negli AGN vengono accelerati elettroni e positroni ad energie superiori ai 100 TeV (1014 eV), e quindi presumibilmente anche protoni e nuclei. Una indicazione diretta di questi ultimi processi adronici ancora non esiste sugli AGN, mentre esistono oramai molti indizi sulle sorgenti galattiche, in particolare i resti di supernova. Grazie a queste misure sulle sorgenti galattiche ed extragalattiche sta emergendo un quadro dei processi di emissione e assorbimento dei raggi gamma e dei possibili meccanismi di produzione dei raggi cosmici. In generale sta aumentando la conoscenza di specifiche sorgenti o classi di sorgenti, come gli AGN, fino a pochi anni fa osservate solo in alcune lunghezze d’onda. La tecnica Cherenkov ha sancito definitivamente la possibilità di usare i fotoni energetici come messaggeri dei processi più energetici dell’Universo. Hanno provato l’esistenza di particelle con energia superiori a 100 TeV e
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Figura 8. Rappresentazione schematica di un AGN e in particolare dei processi che possono originare raggi gamma nei getti. Il motore centrale è il buco nero massiccio alimentato dall’energia gravitazionale della materia del disco di accrescimento che lo circonda. All’interno dei getti che si formano perpendicolarmente al disco di accrescimento, vengono iniettate particelle energetiche, secondo processi ancora non chiari, che producono degli schock nell’interazione con la materia presente nel getto. Le particelle cariche vengono così ulteriormente accelerate e possono produrre emissione gamma tramite interazioni leptoniche o adroniche.
stanno fornendo chiare indicazioni sui siti di produzione dei raggi cosmici, in particolare galattici, che si ritiene siano ospitati nel guscio in espansione della materia espulsa nelle esplosioni di supernove.
6. Telescopi per neutrini Il secondo messaggero cosmico neutro, il neutrino, a causa della sua elusività pone delle sfide ancora maggiori. Per comprendere le difficoltà della neutrino-astronomia ripercorriamo brevemente la storia della scoperta e rivelazione del neutrino.
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La prima indicazione dell’esistenza di una particella neutra, debolmente intereagente con la materia e di massa molto piccola è venuta nel 1933, suggerita da W. Pauli per spiegare un deficit di energia nel decadimento beta. La sua identificazione diretta è avvenuta solamente nel 1956 da parte di F. Reynes e C. Cowan, rivelando gli anti-neutrini prodotti da una centrale nucleare, con una contenitore con 400 litri di acqua. Pochi anni dopo R. Davis e J. Bahcall riuscirono a rivelare i primi neutrini attesi dalle reazioni termonucleari del sole. Il flusso di neutrini dal Sole è inferiore a quello proveniente da una centrale nucleare posta a pochi chilometri di distanza, e fu necessario un rivelatore con ben 400 mila litri di percloroetilene. Questo numero ci fa comprendere la difficoltà di rivelazione di neutrini di sorgenti astrofisiche poste a distanze di migliaia di parsec da noi. Un telescopio per neutrini necessita di un volume di rivelazione molto grande per aumentare la probabilità di interazione. La generazione attuale di rivelatori di neutrini è progettata per avere un volume di rivelazione dell’ordine del chilometro cubo. Questi rivelatori sono posti nel mare (ANTARES (12), in Francia, NEMO (13) davanti le coste siciliane) o nei ghiacci antartici (AMANDA e il suo erede, ICECUBE (14)). L’acqua e il ghiaccio fungono sia da materiale sensibile, dove il neutrino interagisce, che da schermo per assorbire le particelle cosmiche che potrebbero dare un segnale spurio e nascondere il segnale atteso dal neutrino. Il principio di funzionamento è illustrato in Figura 9. Quando, tra i miliardi di neutrini che attraversano il rivelatore in un secondo, uno di questi interagisce nel volume fiduciale, viene prodotto un muone energetico. L’energia del muone è tale da produrre luce Cherenkov che viene rivelata dai fotomoltiplicatori posti nell’acqua o nel ghiaccio. Il muone conserva le informazioni sul neutrino, in particolare l’energia e la direzione di arrivo. Queste vengono ricostruite analizzando i segnali dei sensori ottici e ricostruendo la traccia del muone, ovvero la traiettoria che ha seguito nell’acqua. Raccogliendo queste tracce è possibile capire se vi è un eccesso di neutrini da una qualche direzione del cielo coincidente con sorgenti astrofisiche note. I neutrini provenienti dalla sorgente astrofisica sono il prodotto del decadimento dei pioni carichi prodotti dall’interazione delle particelle cariche accelerate con l’ambiente circostante. Al contrario dei gamma non esistono altri processi, come quelli leptonici, che possono produrre neutrini: identificare neutrini da una sorgente equivale ad aver trovato un sito di accelerazione dei raggi cosmici che osserviamo sulla Terra. L’ambiguità ancora esistente nell’astrofisica gamma verrebbe risolta. Il flusso di neutrini osservato da ICECUBE, pochi neutrini l’anno, è compatibile con il fondo atteso. Ma la ricerca continua in attesa anche di un evento particolare, come un Gamma Ray-Burst (GRB) particolarmente vicino e intenso, o una supernova galattica, che illuminino il nostro cielo energetico.
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Figura 9. Schema di funzionamento di un telescopio per neutrini. I rivelatori sono disposti su colonne a formare una griglia che copre l’intero volume di rivelazione. I rivelatori registrano la luce Cherenkov prodotta dal muone che li attraversa e il segnale è trasferito al centro di raccolta dati sulla costa.
7. UHECR Molti tasselli sono stati ordinati nella ricerca dei siti dei RC, ma ancora molti aspetti vanno chiariti. Tra questi l’origine e natura dei RC di più alta energia, detti Ultra High Energy Cosmic Rays, UHECR. I rivelatori di neutrini ancora in costruzione potranno darci maggiori indicazioni sui siti di produzione, mentre i telescopi Cherenkov non hanno sensibilità sufficiente per raggiungere queste energie. Due considerazioni ci fanno ricredere sull’impossibilità di usare gli UHECR stessi come tracciatori delle sorgenti di produzione degli UHECR: • il processo di interazione responsabile del taglio GZK7 (vedi nota) limita a circa 100 Mpc la distanza delle sorgenti che producono i RC più energetici con E > 1019 eV; • per i RC con questa energia il campo magnetico intergalattico produce una deviazione dell’ordine del grado se la sorgente si trova a distanza inferiore a 100 Mpc. Ad energie superiori a 5x1019 eV Greisen, Zatsepin e Kusmin hanno previsto un’interazione della particella energetica con il fondo a microonde a 2.7 K. A queste energie è così attesa una riduzione del flusso, tanto maggiore quanto più grande è la distanza della sorgente di RC. La riduzione di flusso determina un taglio nello spettro che ha preso il loro nome, taglio GZK.
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Se quindi riveliamo particelle con energia superiore a 1019 eV e riusciamo a identificarne la direzione di provenienza possiamo determinare la sorgente di produzione! Abbiamo trovato un altro messaggero cosmico per fare astronomia UHERC. Vediamo allora come costruire un telescopio per UHERC. Lo spettro in Figura 1 permette di ricavare il flusso di queste particella sulla Terra: 1 particella per km2 ogni 100 anni! È evidente che per rivelare questi RC sia necessario disporre di un rivelatore di dimensioni enormi e… di molta pazienza! Ma penso sia oramai chiaro che questa branca della Fisica vede come attori ricercatori di particolare tenacia e caparbietà! Da questa tenacia e dallo sforzo congiunto di un grande numero di scienziati, nonché dall’esperienza acquisita on esperimenti costruiti in precedenza, a partire dal primo prototipo di Pierre Auger, è nato il più grande esperimento di raggi cosmici operativo attualmente: AUGER.
8. AUGER L’osservatorio Pierre AUGER (15) è un rivelatore ibrido che unisce le due tecniche di rivelazione utilizzate nei decenni passati per rivelare gli UHECR: la fluorescenza e la rivelazione delle particelle dello sciame (Figura 10). Consiste di 4 rivelatori a grande campo di vista, con una struttura a “occhio di mosca” (fly’s eye), che raccolgono la luce di fluorescenza ultravioletta emessa dagli atomi di azoto che vengono perturbati dalle particelle energetiche dello sciame atmosferico. Ad energie superiori a 1018 eV lo sciame atmosferico è costituito da diversi milioni di particelle che in parte raggiungono il suolo distribuendosi su un area di diversi chilometri. Per questa ragione i 1600 rivelatori sono distribuiti su un area di circa 40x40 km. Ogni rivelatore è costituito da un contenitore di 12000 litri di acqua dove le particelle energetiche che l’attraversano emettono la luce Cherenkov che viene raccolta da alcuni fotomoltiplicatori disposti internamente. Il numero di contenitori colpiti, la quantità di luce rivelata e l’eventuale coincidenza con gli eventi di fluorescenza osservati permettono di ricavare le caratteristiche della particella primaria che ha prodotto lo sciame, ovvero energia e direzione. Come si è detto se si selezionano gli eventi con energia superiore a circa 1019 eV la loro direzione di arrivo può puntare alla sorgente di produzione. È quello che la collaborazione AUGER ha fatto con i dati raccolti nei primi due anni di presa dati, ottenendo un risultato che è stato considerato da Science, la rivista che ha pubblicato i risultati (16), un “breakthrough in cosmic ray mistery”, affermando che “sono state identificate le sorgenti delle particelle che bombardano la Terra!”. Le direzioni dei primi UHERC, appena 27, sembrano in effetti correlarsi con la posizione nel cielo degli AGN più vicini e
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Figura 10. La rivelazione ibrida applicata da AUGER. I rivelatori “Fly’s eye” raccolgono la luce di fluorescenza emessa dall’aria nel passaggio delle particelle dello sciame atmosferico. I tank Cherenkov rivelano il segnale delle particelle che raggiungono il suolo.
suggerire che siano gli AGN i siti di produzione. I telescopi Cherenkov hanno confermato gli AGN come siti di produzione di particelle molto energetiche. Il risultato è provvisorio, suscettibile di interpretazioni diverse. Ma il numero di eventi crescerà nei prossimi anni e permetterà di confermare o modificare questo primo indizio. In ogni caso rappresenta il primo incoraggiante inizio dell’astronomia UHERC, la frontiera estrema nello studio dell’Universo energetico.
9. Conclusioni A conclusione del nostro viaggio nell’Universo energetico visto da terra, va evidenziato come questi osservatori, i telescopi Cherenkov, i rivelatori di neutrini e le strutture ibride come AUGER, siano il frutto del lavoro di un numero molto elevato di scienziati. Si passa da piccoli gruppi di ricerca,
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come nel telescopio Whipple, a collaborazioni più estese come AUGER o ICECUBE con quasi 300 collaboratori molti di loro giovani dottorandi o postdoc. La fisica astroparticellare, nata dal connubio tra fisica delle particelle e astrofisica si distingue dall’astronomia classica per il coinvolgimento di grosse collaborazioni nella costruzione e nel mantenimento di apparati e rivelatori tecnologicamente e scientificamente innovativi. Non a caso molte delle persone che vi lavorano provengono dal campo particellare e hanno prestato le loro competenze e conoscenze nella costruzione dello strumento e nello sviluppo di nuove tecniche di analisi. Quando le tecniche di costruzione e analisi si consolideranno, assisteremo alla trasformazione di questi esperimenti in osservatori, e alla condivisione dei dati raccolti a tutta la comunità astrofisica e magari anche a semplici appassionati. Come accaduto per i primi pioneristici strumenti del periodo di Galileo, trasformatisi nei complessi osservatori astronomici che dalla Terra e dallo spazio, con immagini e sorprendenti risultati, hanno reso più familiare l’Universo in cui viviamo.
Bibliografia 1 Victor Hess, 12 dec 1936, Nobel Lectures, Physics 1922-1941, Elsevier Publishing Company, Amsterdam, 1965 - http://nobelprize.org/nobel_prizes/physics/laureates/1936/ hess-lecture.html 2 V. F. Hess (1912). “Über Beobachtungen der durchdringenden Strahlung bei sieben Freiballonfahrt”. Physikalische Zeitschrift 13: 1084-1091. 3 D. Pacini, “La radiazione penetrante alla superficie ed in seno alle acque”, Il Nuovo Cimento, S.VI, T.III, (1912). 4 A. De Angelis et al., “Domenico Pacini, un pioniere dimenticato dello studio dei raggi cosmici”, Il Nuovo Saggiatore, vol. 24 (2008). 5 E. Fermi, “On the origin of Cosmic Radiation”, Physical Review, vol. 75 (1949). 6 P. Auger, “Extensive Cosmic-Ray Showers”, Rev. Mod. Phys., vol. 11 (1939). 7 G.G. Fazio et al., “Detection of High-Energy Gamma Rays from the Crab Nebula”, Astrophysical Journal vol. 175 (1972). 8 T.C. Weeks et al., “Observation of TeV gamma rays from the Crab nebula using the atmospheric Cerenkov imaging technique”, Astrophysical Journal, vol. 342 (1989). 9 MAGIC: http://wwwmagic.mppmu.mpg.de/ 10 HESS: http://www.mpi-hd.mpg.de/hfm/HESS/ 11 VERITAS: http://veritas.sao.arizona.edu/ 12 ANTARES: http://antares.in2p3.fr/ 13 NEMO: http://nemoweb.lns.infn.it/ 14 ICECUBE: http://icecube.wisc.edu/ 15 AUGER: http://www.auger.org/ 16 Collab. AUGER, “Correlation of the Highest-Energy Cosmic Rays with Nearby Extragalactic Objects”, Science vol. 318 (2007).
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Articoli di approfondimento specialistici ma comunque alla portata del buon studente di fisica. Fanno parte di una sezione speciale sulla fisica astroparticellare pubblicata da Science, vol. 315, 5 January 2007 E. Waxman, “Neutrino Astrophysics: a new Tool for Exploring the Universe”. F. Halzen, “Neutrino Astrophysics Experiments beneath the Sea and Ice”. A. V. Olinto, “Cosmic Rays: The Highest-Energy Messengers”. F. Aharonian, “The Very-High-Energy Gamma-Ray-Sky”. Articolo di review specialistico: J. Hinton, W. Hofmann, “Teraelectronvolt astronomy”, Ann. Rev. Astron. Astrophys. vol. 47 (2009).
L’astronomia moderna e la ricerca delle leggi dell’Universo Luca Latronico
La storia dell’astronomia nello spazio è estremamente ricca, e comprende molte diverse aree di ricerca spesso così specializzate da essere sostanzialmente disgiunte. La ricerca di pianeti extrasolari, ad esempio, utilizza avanzati telescopi capaci di scoprire altri pianeti intorno ad altre stelle alla ricerca di condizioni simili a quelle della Terra, ma è assolutamente distante dalla ricerca sulla radiazione cosmica qui trattata. Questa studia come le stelle e le galassie lontane producano radiazione e come questa giunga fino a noi, che la osserviamo cercando di comprendere le leggi fondamentali che regolano la materia del nostro Universo. È interessante in questo breve articolo concentrarsi su quegli aspetti più generali dell’astrofisica che riguardano tematiche fondamentali quali la nascita e l’evoluzione delle stesse, i meccanismi di generazione e trasporto di energia nelle galassie, l’origine dei raggi cosmici che investono la terra, la rivelazione ed indentificazione della materia oscura. Queste tematiche vengono oggi affrontate con un approccio multidisciplinare, basato su molteplici osservazioni astrofisiche a diverse lunghezze d’onda e con diversi messaggeri (fotoni, particelle cariche, neutrini, onde gravitazionali), e raccolgono l’interesse degli astrofisici e dei fisici delle particelle elementari in un campo di ricerca denominato fisica astro-particellare.
Astronomia da satellite. Perché? L’era spaziale nasce negli anni ’50, con la corsa tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica a dimostrare la propria supremazia tecnologica sulla Terra attraverso la conquista dello spazio. Nessun interesse scientifico quindi, ma una fortissima competizione geopolitica che pone le basi tecniche per consentire in pochi decenni di effettuare dallo spazio straordinarie osservazioni scientifiche. È significativo a questo proposito ricordare come i Gamma-Ray Burst, le più potenti esplosioni mai registrate nell’Universo dopo il Big Bang, che si pensa siano associate ad esplosioni di supernovae, siano stati scoperti dai satellite spia americani Vela, costruiti per cercare tracce di test nucleari nemici nello spazio.
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I programmi spaziali moderni, successivi a questa prima fase pionieristica, si arricchiscono di molteplici finalità scientifiche e commerciali, che sono oggi la principale attività delle maggiori agenzie spaziali mondiali. Tuttavia il fascino dell’esplorazione dello spazio è ancora un elemento forte nella moderna astronomia da satellite, e costituisce spesso un significativo complemento alla naturale curiosità degli scienziati per la scoperta dei principi della natura. Ancora oggi, avanzati programmi di ricerca scientifica vivono in simbiosi con coraggiosi progetti di esplorazione: la stazione spaziale internazionale è un esempio di come una struttura nata per studiare la permanenza dell’uomo nello spazio per tempi lunghi possa essere utilizzata per avanzati progetti di scienza fondamentale. Esiste naturalmente una motivazione intrinseca per effettuare osservazioni astronomiche da satellite, e che spiega anche perché l’astronomia classica era limitata allo studio della radiazione elettromagnetica nella sua componente visibile, la sola accessibile all’occhio umano sulla Terra. L’atmosfera del nostro pianeta è infatti opaca alla maggior parte della radiazione elettromagnetica proveniente dal cosmo, ad eccezione appunto della componente ottica, quella radio ed il vicino ultravioletto (Figura 1). Anche la luce visibile, seppure in grado di raggiungere i telescopi a Terra, subisce significative perturbazioni da parte dell’atmosfera, che limitano la risoluzione delle immagini ottenibili da Terra. Inoltre la luce del Sole e la luce artificiale prodotta dall’uomo sono sorgenti di disturbo molto intense che rappresentano una significativa limitazione alle osservazioni astronomiche da terra, rendendole di fatto possibili solo durante la notte ed in ambienti sufficientemente lontani da fonti di inquinamento luminoso. Vista quindi la dimostrata capacità di effettuare spettacolari viaggi oltre l’atmosfera terrestre con razzi, satelliti e stazioni spaziali, perché non approfittarne per migliorare la nostra capacità di osservare i fenomeni celesti con strumentazione avanzata?
Il programma Grandi Osservatori della NASA Il concetto moderno di astronomia multifrequenza è alla base del programma della NASA denominato Grandi Osservatori Spaziali. Delineato già a partire dalla metà degli anni ’70, questo programma ha visto la messa in orbita di quattro grandi telescopi spaziali, ognuno dei quali è stato ottimizzato per misurare con precisione una specifica porzione dello spettro elettromagnetico della radiazione proveniente dal cielo, rispettivamente: l’infrarosso (IR), l’ottico e l’ultravioletto (UV), la radiazione X e la radiazione gamma. Per garantire una copertura spettrale completa delle molteplici sorgenti celesti, i telescopi avrebbero dovuto funzionare contemporaneamente.
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Figura 1. Lo spettro elettromagnetico si estende su molti ordini di grandezza, e la luce visibile ne occupa meno di uno. L’atmosfera terrestre assorbe e riprocessa la maggior parte di questa radiazione, e solo la luce visibile e le emissioni radio arrivano a terra. L’astronomia moderna compie osservazioni multifrequenza su tutto lo spettro grazie ai telescopi installati sui satelliti, che possono superare l’assorbimento della radiazione da parte dell’atmosfera. http://mynasadata.larc.nasa.gov/images/EM_Spectrum3-new.jpg
I costi e le sfide tecnologiche del programma hanno di fatto allungato i tempi di costruzione dei telescopi, sfasato le missioni ed impedito la totale contemporaneità del funzionamento di questo grandi osservatori, seppure parzialmente ottenuta. Un aspetto particolarmente intrigante del programma era il requisito iniziale di progetto che prevedeva la possibilità di intervento su tutti i telescopi da parte di astronauti inviati a bordo dello Space Shuttle in missioni di servizio dedicate. Anche questo programma dunque, con scopi puramente scientifici, contiene un forte elemento di avventura legato all’esplorazione dello spazio. Come è noto, il progresso nei viaggi spaziali, e nei voli dello Space Shuttle, si è rivelato più complesso, ardito e costoso di quanto inizialmente sperato, e solo la missione Hubble, la prima del programma, ha goduto di missioni di servizio per la sostituzione ed il miglioramento degli equipaggiamenti di bordo. Gli altri telescopi hanno funzionato, e funzionano, egre-
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giamente, ma sono stati infine progettati per lavorare senza la possibilità di interventi umani dopo il lancio. Questo aspetto, che rende la progettazione di una missione spaziale estremamente complessa, poiché di fatto deve essere a prova di errore, è oggi comune a tutte le missioni spaziali, sia per scopi scientifici che per scopi commerciali. Le missioni degli astronauti sono invece poche e riservate principalmente allo sviluppo della tecnica stessa di volo e allo studio della sopravvivenza dell’uomo nello spazio, sebbene vengano poi sfruttate per ottenere anche risultati scientifici. Vediamo quindi qualche dettaglio specifico di questi grandi osservatori.
Hubble Hubble è il primo telescopio del programma, e certamente la missione di astrofisica spaziale più conosciuta al grande pubblico. Molti aspetti della vita e della gestione dell’osservatorio hanno contribuito a questo successo e sono diventati comuni agli altri Grandi Osservatori e a molti programmi spaziali scientifici. Il nome del telescopio, ad esempio, è un omaggio ad un grande scienziato, l’astronomo Edwin Hubble, che per primo misurò nel 1929 l’espansione dell’Universo. Egli osservò il fenomeno dello spostamento verso il rosso nelle righe dello spettro di alcune galassie e interpretò tale spostamento come un caso di effetto Doppler, cioè come il segnale di un allontanamento delle galassie dall’osservatore dimostrando anche che la velocità di tale allontanamento era direttamente proporzionale alla reciproca distanza tra le galassie (legge di Hubble). Durante la sua ormai ventennale carriera, il telescopio Hubble ha osservato moltissimi corpi celesti, pianeti, nebulose, galassie. I suoi quattro strumenti, posizionati al fuoco dello specchio che raccoglie la luce della regione osservata, riescono a ricostruire immagini con risoluzione di 0.04 secondi Tabella 1. Il telescopio spaziale Hubble. Hubble Lancio
1990 - Space Shuttle Discovery
Orbita
569 km - consente le missioni di servizio
Finestra osservativa
115-2500 nm
Strumenti
Wide Field Planetary Camera (WFPC); Space Telescope Imaging Spectrograph (STIS); Near Infrared Camera and Multi-Object Spectrometer (NICMOS); Cosmic Origin Spectrograph (COS)
Curiosità
Telescopio spaziale più longevo; 4 missioni di servizio
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Figura 2. Le sorgenti più rosse in questa immagine sono galassie lontanissime, vecchie fino a 13 miliardi di anni, che Hubble ha potuto osservare puntando la stessa regione di cielo per 3 mesi. Queste immagini ad alta definizione dell’Universo, ottenute con una tecnica inventata dal team di Hubble, contengono spesso fenomeni straordinari, come le lenti gravitazionali, in cui le immagini di galassie lontane sono distorte dalla presenza di altre galassie, interposte sulla linea di vista dell’osservatore, cosi’ massicce da “piegare” il percorso della luce. Hubble ha raccolto molte immagini di tipo Deep-Field in zone diverse del cielo, confermando che la composizione dell’Universo è sostanzialmente la stessa in ogni direzione. http://antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/ap040309.html
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d’arco (arcsec) (1000 volte migliore dell’occhio umano), misurare spettri e linee caratteristiche degli elementi presenti nelle sorgenti dall’ultravioletto al vicino infrarosso, catturare immagini ad alto contrasto di sorgenti molto deboli (Figura 2).
Figura 3. Pilastri della Creazione nella Nebulosa dell’Aquila. L’occhio del telescopio infrarosso Spitzer osserva la formazione di stelle attraverso le dense nubi di materiale interstellare. Le osservazioni di Hubble delle stesse regioni, effettuate nel 1995 e riportate nei riquadri in alto, mostravano già la genesi delle stelle, ma non l’elevato numero di stelle presenti all’interno di queste strutture giganti. http://gallery.spitzer.caltech.edu/Imagegallery/image.php?image_name=ssc2007-01d
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Ben quattro volte gli astronauti della NASA sono andati a riparare o sostituire parte della strumentazione di bordo di Hubble con missioni di servizio dedicate. La prima di queste missioni ha permesso di correggere un difetto nello specchio del telescopio che impediva una messa a fuoco ottimale delle immagini sui rivelatori, e restituito ad Hubble la risoluzione spaziale prevista dal progetto, iniziando una storia di straordinario successo. Attraverso le successive tre missioni di servizio, l’ultima delle quali nel 2009, sono state migliorate le capacità osservative del telescopio, ed è cresciuto l’interesse dell’opinione pubblica verso questo telescopio, i “suoi” astronauti e tutti gli scienziati impegnati nelle analisi dei suoi dati. L’eredità di Hubble è raccolta in un enorme database di immagini eccezionali, in continuo arricchimento. Alcune di queste sono divenute celebri, come le foto dell’impatto della cometa Shoemaker-Levy9 su Giove, o le immagini dei cosiddetti Pilastri della Creazione (Figura 3), enormi nubi di idrogeno molecolare e polveri, che si estendono per diversi anni luce e così dense da favorire la formazione di stelle per attrazione gravitazionale. Una tecnica particolarmente interessante ed innovativa utilizzata con Hubble è quella delle cosiddette osservazioni Deep-Field, cioè ad alta profondità di campo, con la quale, puntando una medesima regione del cielo per un lungo periodo è stato possibile ottenere le immagini delle galassie più lontane nell’Universo. Il telescopio Hubble è una missione internazionale supportata dalla NASA e dalla agenzia spaziale ESA, e costituisce quindi il primo grande esempio di osservatorio mondiale per l’astronomia da satellite. I dati ottenuti dal telescopio sono pubblici e le agenzie emettono bandi per assegnare tempo di osservazione e finanziamenti per progetti di ricerca. Questa modalità di funzionamento dei grandi osservatori spaziali, iniziata con Hubble, è comune agli altri grandi osservatori spaziali.
Spitzer Spitzer è l’osservatorio più recente del programma, ed è curioso che solo l’ultimo Grande Osservatorio porti il nome di Lyman Spitzer, astrofisico che per primo, già nel 1946, propose la costruzione di un telescopio spaziale, dando in effetti vita all’intero progetto dei Grandi Osservatori. Il telescopio Spitzer osserva la radiazione infrarossa generando mappe termiche del cielo; per questa ragione il calore intorno al telescopio deve essere ridotto al minimo. Spitzer è quindi dotato di un poderoso criostato ad elio liquido che raffredda l’apparato sperimentale a temperature vicine allo zero assoluto (-273°C). Inoltre, il telescopio è stato posizionato in un’orbita molto lontana dalla Terra per ridurre il calore trasmesso dalla nostra atmosfera, ed è orientato in modo da mantenere il telescopio schermato dalla radiazione solare di-
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Tabella 2. Il telescopio spaziale Spitzer. Spitzer Lancio
25 agosto 2003 - razzo Delta II
Orbita
Eliocentrica - aiuta a mantenere freddo il telescopio
Finestra osservativa
3-180 micron
Strumenti
Infrared Array Camera (IRAC); Infrared Spectrograph(IRS); Multiband Imaging Photometer for Spitzer (MIPS)
Curiosità
telescopio criogenico ad elio liquido superfluido
retta, che viene invece catturata dai pannelli solari per alimentare tutta la strumentazione di bordo. L’osservazione dell’infrarosso usa tecniche simili alle osservazioni ottiche, come specchi riflettenti e sensori CCD, garantendo risoluzioni angolari simili (~ 1 arcsec), ma aggiunge un tassello chiave per la studio delle sorgenti, in quando permette di osservare attraverso le grandi nubi di polvere che risultano opache all’osservazione ottica. La Figura 3 evidenzia appunto questa potenzialità delle osservazioni IR nella stessa zona dei Pilastri della Creazione già osservata da Hubble. La mappa di Spitzer mostra la radiazione infrarossa emessa dalle stelle, assorbita e riemessa dalle nubi di materiale interposte fra noi e la sorgente, confermando l’ipotesi che la formazione di stelle avvenga in queste regioni dove elevate densità di materiale favoriscono la formazione di stelle attraverso effetti di collasso gravitazionale. Le osservazioni di Hubble, mostrate nei riquadri in alto della stessa figura, avevano permesso di congetturare questa ipotesi sulla base delle osservazioni di stelle ai bordi dei pilastri, ma la possibilità offerta da Spitzer di osservare dentro le nubi conferma in maniera inequivocabile l’elevata densità di stelle in gestazione in queste enormi strutture che si estendono per diversi anni luce. Le osservazioni nell’infrarosso sono altresì importanti in quanto lo spettro della radiazione termica dell’Universo ha un picco di densità proprio in questa regione, che raccoglie quindi la maggior parte dell’energia emessa per processi termici. Inoltre lo spostamento verso il rosso degli spettri indotto dal movimento dei corpi celesti sposta le immagini ottiche ed ultraviolette delle stelle e delle galassie verso l’infrarosso. Per questo motivo l’astronomia infrarossa è ancora oggi ricca di osservatori spaziali, come il recente Hertschel, dell’agenzia spaziale europea, e il futuro James Webb Telescope, successore di Hubble.
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Chandra Quando la densità di materia e l’energia dei campi elettro-magnetici nelle stelle e nelle galassie diventano elevate, la radiazione emessa dai corpi celesti si discosta dallo spettro di corpo nero, cioè non è più “termica” ma diventa radiazione X o gamma. Questa radiazione di alta energia, da 1000 e fino a 1000 miliardi di volte superiore all’energia della luce visibile, è caratteristica dei fenomeni più estremi e violenti che avvengono nell’Universo, fenomeni tutt’altro che rari nel cielo ed invece piuttosto comuni. Gli strumenti per studiare questo tipo di radiazione sono ancora detti telescopi, ma sono ben diversi da quelli che siamo abituati a conoscere dall’astronomia tradizionale ottica. Nel caso della radiazione X, nell’intervallo di energia dei KeV (cioè mille elettron-volt) il telescopio per radiazione X necessita ancora di uno specchio per focalizzare la radiazione sui sensori, in modo da catturare quanto più segnale possibile da una zona di cielo, ma la radiazione non incide più perpendicolarmente alla sua superficie, come avviene per la luce visibile, bensì la si fa incidere ad un piccolo angolo, in maniera molto simile a quanto avviene per un proiettile di altissima velocità che sfiora un muro orientato quasi parallelamente alla sua traiettoria e cambia direzione. Lo sviluppo di queste ottiche, dette ad incidenza radente e con una geometria più simile ad un tubo invece che ad un disco, è stato determinante per la nascita dell’astronomia X da satellite. Il grado di planarità richiesta alla superficie riflettente è molto spinto. Chandra è un telescopio X che appartiene al programma Grandi Osservatori. Il suo specchio ha un grado di planarità così elevato che, se fosse grande quanto la superficie terrestre, la montagna più alta del Mondo risulterebbe avere un’altezza di 2 metri! Tabelle 3. Il telescopio spaziale Chandra. Chandra Lancio
23 luglio 2009 - Space Shuttle Columbia
Orbita
ellittica (10000-140000 km) - consente di stare lontano dalle fasce di Gould
Finestra osservativa
0.1-10 KeV
Strumenti
Advanced CCD Imaging Spectrometer (ACIS); High Resolution Camera (HRC); High Resolution Spectrometers - HETGS and LETGS
Curiosità
messo in orbita dalla prima missione di uno Shuttle comandata da una donna
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Figura 4. Nebulosa del Granchio, immagine ottica da Hubble (in rosso) sovrapposta alle osservazioni X di Chandra (in blu). La stella al centro è il residuo di una supernova, una stella massiccia esplosa nell’anno 1054 e collassata in una stella di neutroni di elevatissima densità che ruota vorticosamente su se stessa. Con più di 30 rivoluzioni al secondo, accelera particelle cariche (elettroni e protoni) ad altissime energie, generando i getti di radiazione X che sembrano uscire dalla stella. Gli anelli indicano invece la radiazione X generata nell’impatto delle particelle cariche con il materiale della nebulosa intorno alla stella, residuo dell’esplosione. http://antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/ap050326.html
Chandra e i telescopi X in generale, come l’analogo telescopio europeo XMM-Newton, catturano la radiazione emessa nei fenomeni più violenti dell’Universo come esplosioni di stelle o ammassi di galassie in formazione. La Figura 4 è un tipico esempio di questo Universo Violento. L’immagine mostra la mappa della radiazione X emessa dal gas ionizzato che si forma
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dall’interazione dei materiali espulsi nell’esplosione termonucleare di una stella massiccia con la materia circostante. Simili situazioni estreme si ritrovano in sistemi lontani dalla nostra galassia, come Nuclei di galassie attivi caratterizzati da densi buchi neri che si accrescono attirando una grande quantità di materia ed accelerano particelle ad energie enormi, generando radiazione X e gamma di altissima energia. Non è un caso che il nome del telescopio sia quello del fisico premio Nobel Subrahmanyan Chandrasekhar, che dimostrò l’esistenza di una massa limite per le stelle nane bianche, oggi noto come limite di Chandrasekhar, oltre il quale le stelle devono esplodere o trasformarsi in buchi neri, diventando le protagoniste di quell’Universo violento osservato dal telescopio a lui intitolato.
Compton Il Compton Gamma-Ray Observatory (CGRO) estende le osservazioni sull’Universo ad altissima energia, fino a miliardi di volte superiore alla luce visibile, dove la luce non obbedisce più alle leggi dell’ottica classica ma si comporta come un insieme di particelle elementari, chiamate fotoni. Arthur Compton, da cui l’osservatorio prende il nome, ha formulato la teoria dell’omonimo effetto, che descrive l’urto (scattering) di un fotone di alta energia con gli elettroni della materia in modo simile all’urto di palline in moto con velocità relativistiche: lo scattering Compton è una modalità di interazione tipica della radiazione X e gamma, quale quella studiata dagli strumenti a bordo di CGRO. Poiché non è possibile focalizzare la radiazione gamma, i rivelatori a bordo del CGRO funzionano senza specchi e la loro accettanza è sostanzialmente determinata dalla loro area geometrica. L’aspetto di Compton è
Tabella 4. Il telescopio spaziale Compton. Compton Lancio e rientro a terra
5 Aprile 1991 (Space Shuttle Atlantis) - 4 Giugno 2000
Orbita
450 km
Finestra osservativa
20 KeV - 10 GeV
Strumenti
Burst And Transient Source Experiment (BATSE) Oriented Scintillation Spectrometer Experiment (OSSE); Imaging Compton Telescope (COMPTEL); Energetic Gamma Ray Experiment Telescope (EGRET)
Curiosità
osservatorio astrofisica più pesante mai lanciato (17 tons)
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pertanto ben diverso dagli altri Grandi Osservatori, e molto più simile ad una bassa e larga piattaforma piuttosto che ad una torre allungata. Compton è l’osservatorio scientifico più massiccio mai lanciato (17 tonnellate), e l’unico del programma Grandi Osservatori non più in funzione, essendo stato de-orbitato dalla NASA nel giugno 2000 dopo la rottura di alcuni giroscopi necessari al mantenimento della sua orbita. CGRO, che ha volato dieci anni prima di Chandra, ha mostrato per primo un cielo che non ha l’aspetto tranquillo e riposante di un nero mantello punteggiato di stelle brillanti come ci appare nelle sere d’estate, ma è invece densamente popolato di buchi neri che accelerano elettroni e protoni ad energie elevatissime, di stelle super-massicce che subiscono violente esplosioni, di immense nubi di gas caldo ionizzato, ed è permeato da una radiazione diffusa prodotta dall’interazione dei raggi cosmici con la materia ed i campi magnetici interstellari. CGRO ha permesso di costruire la prima mappa completa del cielo gamma, rivelando poco meno di 300 sorgenti diverse. Molte di queste sono state identificate con sorgenti note, prevalentemente Nuclei attivi di galassie lontane con al centro buchi neri, pulsar, cioè stelle di neutroni di elevatissima densità ed in rapida rotazione su se stesse, sistemi binari di stelle. Più della metà delle sorgenti trovate da Compton non sono invece state associate a sorgenti note, spesso a causa di una scarsa risoluzione angolare che non permetteva di distinguere una singola sorgente tra le tante presenti all’interno della zona di emissione gamma presa in esame. L’identificazione di queste sorgenti o, meglio ancora, la scoperta di nuove tipologie di sorgenti, è un problema ancora aperto che il successore di Compton, il Fermi Gamma Ray Space Telescope, sta cercando di risolvere in questi anni. Un altro importante risultato di Compton è stata la dimostrazione che la direzione di provenienza dei Gamma-Ray Burst è uniformemente distribuita nel cielo, segno che questi eventi hanno un’origine cosmologica e non locale nella nostra Galassia. L’attenzione su questi straordinari eventi è quindi aumentata, favorita anche dalle osservazioni contemporanee in multifrequenza che permettono di disporre di quante più informazioni possibili sull’evento, inclusa la distanza (il redshift), che è determinante per la stima dell’energia associata all’esplosione e degli effetti di trasporto cosmologico della radiazione associata al GRB.
Il Telescopio per raggi gamma Fermi Sebbene non faccia parte del programma Grandi Osservatori, è a tutti gli effetti il successore di Compton. Lanciato nel giugno 2008 dalla NASA, queste telescopio orbitale osserva il cielo gamma con livelli di precisione e sensibilità mai raggiunti prima.
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Tabella 5. Il telescopio spaziale Fermi. Fermi Lancio
Giugno 2008 - razzo Delta II
Orbita
569 km
Finestra osservativa
8 KeV - > 300 GeV
Strumenti
Large Area Telescope (LAT); Gamma Burst Monitor (GBM)
Curiosità
Maggiore tracciatore al silicio mai operante in orbita (80 metri quadri, 880k canali)
Il telescopio prende il nome dal geniale fisico italiano Enrico Fermi, che per primo introdusse un modello per spiegare l’accelerazione dei raggi cosmici, che interagendo con il materiale e gli intensi campi magnetici interstellari generano i raggi gamma catturati dall’omonimo osservatorio. La scelta di questo nome, che evoca scoperte fondamentali per tutta la fisica nucleare del XIX secolo, come la teoria delle interazioni deboli e del decadimento beta, è un riconoscimento implicito alla proficua collaborazione tra le due comunità di scienziati che insieme hanno lavorato alla costruzione, messa a punto e sfruttamento dei dati scientifici di questo osservatorio di ultima generazione: gli astrofisici ed i fisici delle particelle elementari. Infine, la figura di Fermi richiama l’Italia, che ha fornito contributi di altissimo livello alla missione in tutte le sue fasi, dalla progettazione, alla realizzazione, all’analisi scientifica dei dati. L’osservatorio è dotato di due strumenti complementari: il Large Area Telescope (LAT), che è lo strumento principale e più avanzato, progettato per l’osservazione dei raggi gamma di alta energia, ed il Gamma Burst Monitor, che con un grande campo di vista è progettato per rivelare i lampi gamma (Gamma-Ray Burst, GRB) a più bassa energia che possono provenire in ogni istante da ogni angolo di cielo.
Il Fermi Large Area Telescope Il Fermi LAT registra la radiazione gamma di altissima energia (20 MeV - > 300 GeV) proveniente da sorgenti astronomiche quali pulsar, nuclei galattici attivi, resti di supernove, regioni ad alto tasso di formazione stellare o gamma-ray bursts, che rappresentano gli acceleratori di particelle più potenti esistenti in natura. Fermi osserva quindi una vasta classe di fenomeni in una regione di energia pressoché inesplorata, a cavallo tra le osservazioni dei satelliti X e gamma, come Chandra ed INTEGRAL, e quelle dei telescopi Cerenkov a terra, come MAGIC, HESS o VERITAS, nella zona dello spettro elettromagnetico di altissima energia (Very High Energy, VHE) (cfr.
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L. Latronico
articolo Stamerra). Per la prima volta con Fermi viene esplorata con elevata risoluzione spaziale e temporale la regione di energia tra 10 e 100 GeV, cruciale per la modellizzazione dei meccanismi di genesi e propagazione dei raggi cosmici. Il principio di funzionamento del LAT è simile a quello del telescopio EGRET a bordo dell’osservatorio Compton, in cui la rivelazione della radiazione gamma si bassa sull’effetto chiamato produzione di coppie. I fotoni di energia superiore a qualche decina di MeV (la massa di un elettrone è all’incirca 0.5 MeV), tipicamente si convertono nel materiale che attraversano in una coppia di particelle formata da un elettrone e un positrone. La rivelazione di questa coppia diventa quindi la segnatura fondamentale del passaggio di un fotone di alta energia nel rivelatore. Per intercettare i fotoni, il LAT usa strumenti molto simili a quelli sviluppati per gli esperimenti di fisica delle particelle elementari ai grandi acceleratori a terra costruiti dall’uomo (cfr. articolo Cavasinni). Il telescopio è infatti dotato di un apparato tracciatore a micro-strip di silicio, di passo circa 1/5 di mm, alternato a strati di materiale assorbitore in tungsteno. In questo apparato vengono ricostruite (ovvero tracciate) le traiettorie delle particelle originate dalla conversione del fotone gamma nell’assorbitore. Ad un secondo strumento, il calorimetro elettromagnetico, è affidata la misura dell’energia totale delle particelle prodotte nell’interazione. Questo strumento, strutturato in una matrice di cristalli di ioduro di Cesio, permette di ricostruire lo sviluppo della perdita di energia che in esso avviene in un cosiddetto sciame elettromagnetico1. In questa interazione ciascun elettrone (o positrone) che attraversi il calorimetro emette un fotone per radiazione di frenamento (bremsstrahlung), il quale a sua volta crea una coppia elettrone positrone che riemette fotoni di frenamento alimentando la cascata fino a quando l’energia delle particelle secondarie è molto degradata e la cascata si spegne disperdendo gran parte della sua energia nel calorimetro. Le informazioni del tracciatore e del calorimetro consentono insieme di risalire all’energia ed alla direzione di provenienza del fotone gamma incidente sul LAT, e quindi di localizzare nel cielo la sorgente che lo ha emesso. Il LAT è dotato di un terzo rivelatore che riveste l’insieme dei due apparati, tracciatore e calorimetro, e che serve ad identificare il passaggio delle particelle cariche presenti nello spazio, più abbondati dei fotoni anche fino 1 Il parametro caratteristico nella descrizione delle cascate elettromagnetiche è la cosiddetta lunghezza di radiazione, indicata con X0, che rappresenta la quantità di materiale attraversato da un elettrone di alta energia prima di ridurre la sua energia ad un valore 1/e della sua energia iniziale. Una particella che entra nel LAT con incidenza normale attraversa 1.5 lunghezze di radiazione nel tracciatore e 8.6 nel calorimetro.
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ad un milione di volte. Lo schermo di anticoincidenza (ACD) è costituito da una serie di scintillatori plastici, opportunamente segmentati, e permette di riconoscere se le particelle cariche presenti nel tracciatore sono state originate dall’interazione del raggio gamma o provengono dall’esterno del LAT. L’utilizzo di moderni rivelatori al silicio, sottili, veloci e privi di materiale di consumo, ha consentito di progettare il LAT con una superficie attiva molto grande (~1 m2 di area efficace2), un ampio campo di vista (2.4 steradianti) un intervallo tra eventi successivi (tempo morto) estremamente ridotto (≥ 26 microsec), ed una vita di progetto molto elevata (> 5 anni). La sensibilità raggiunta dal LAT è pertanto molto grande, maggiore di un fattore 30 rispetto a EGRET. Fermi mette a frutto queste sue caratteristiche con una strategia osservativa unica, in cui l’ampio occhio del satellite “spazza tutto il cielo” osservandone circa il 20% in ogni istante, invece che puntare una singola sorgente o regione. Così facendo, il tempo equivalente di osservazione di qualunque punto del cielo risulta essere di circa 30 minuti ogni 3 ore di volo. In questo modo Fermi è in grado di tenere sotto controllo l’intero cielo gamma e può quindi coglierne appieno la dinamicità registrando contemporaneamente dati da sorgenti fisse e fenomeni transitori, come GRB o brillamento di AGN.
Le scoperte di Fermi Catalogo delle sorgenti gamma e pulsar Nel primo anno di attività dell’osservatorio è stata ricostruita la mappa cielo con una grande accuratezza, catalogando circa 1500 sorgenti, più di cinque volte quelle identificate da EGRET con cinque anni di dati. Fermi ha considerevolmente aumentato il numero di AGN e pulsar conosciute, permettendo la costruzione di veri e propri cataloghi di classi di sorgenti diverse. Basti pensare che il numero di pulsar gamma identificate è ora superiore a 60, ben dieci volte di più delle sole 6 identificate da EGRET. Ma al di là dei puri numeri, il grande avanzamento di conoscenza che Fermi sta producendo in questo settore è determinato dall’aver identificato nuove classi di pulsar gamma. Circa un terzo delle pulsar di Fermi è infatti invisibile alle osservazioni radio, e rivelabile solo nella banda gamma (queste sorgenti sono dette radio-quiet). L’unica pulsar di questo tipo conosciuta prima di 2 L’area efficace tiene conto delle efficienze di conversione e selezione dei fotoni, ed è pertanto diversa dalla pura area geometrica del rivelatore, che nel caso del tracciatore è di ben 80 m2, essendo questo strutturato in 36 piani sovrapposti per ricostruire meglio le tracce delle particelle; possiamo considerare l’area efficace l’equivalente area geometrica di un rivelatore con efficienza di misura del segnale pari al 100%.
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L. Latronico
Figura 5. Mappa del cielo gamma costruita da Fermi con un anno di dati. La luminosità delle sorgenti gamma è molto ampia, e delle 1500 sorgenti catalogate da Fermi solo le più brillanti sono visibili ad occhio su questa rappresentazione. La sorgente più luminosa è il piano galattico al centro dell’immagine, che è sede di emissione diffusa prodotta dall’interazione dei raggi cosmici con il materiale interstellare. La radiazione gamma nei residui di supernovae, come quella mostrata per le quattro SNR più luminose osservate da Fermi, viene prodotta in maniera simile quando le particelle cariche incontrano le shell di materiale espulso nelle esplosioni di queste stelle massicce. http://www.nasa.gov/images/content/425974main_Fermi_SNRs_labeled.jpg
Fermi era Geminga, la cui scoperta ha richiesto circa 20 anni di osservazioni ed analisi complesse (cfr. articolo Bignami). Come si è già detto, diversamente dagli osservatori gamma che lo hanno preceduto, Fermi non deve inseguire una singola sorgente, e quindi dividere il suo tempo di osservazione tra studi diversi tra loro in competizione, ma può osservare molte sorgenti contemporaneamente, ed essendo dotato di elevata sensibilità e risoluzione temporale è particolarmente adatto alla ricerca di sorgenti gamma pulsanti. Fermi ha inoltre rivelato per la prima volta un’emissione di raggi gamma dalle cosiddette pulsar al millisecondo, una classe di stelle di neutroni con periodo di rotazione molto rapido, inferiore a 20 ms, e particolarmente stabile. La particolarità di queste pulsar di ruotare molto velocemente attorno al proprio asse è dovuta alla presenza di una stella compagna dalla quale
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la pulsar sottrae materia stellare aumentando il suo momento angolare. Grazie a Fermi sappiamo oggi che circa 1/3 delle pulsar gamma appartiene a questa categoria.
Raggi Cosmici e Meccanismi di emissione di radiazione gamma Le sorgenti gamma sono molte e varie, ma tutte caratterizzate dalla capacità di accelerare materia, per effetti gravitazionali o elettromagnetici, ad energie così elevate da generare radiazione gamma. Questa viene prodotta in diverse modalità, ad esempio quando le traiettorie delle particelle cariche vengono piegate da intensi campi magnetici (radiazione di sincrotrone), quando i fotoni ricevono un’enorme “spinta” da elettroni di altissimo impulso (scattering Compton inverso), o quando i protoni, urtando altri protoni, producono cascate di particelle secondarie delle quali alcune, chiamati mesoni pi neutri (p0), decadono in volo in coppie di fotoni (decadimento p0). Tutti questi meccanismi sono sicuramente in funzione nell’Universo, ma in alcune classi di sorgenti alcuni sono dominanti, e le osservazioni di Fermi mirano a determinare il contributo relativo dei diversi meccanismi. Fermi ha confermato con molteplici osservazioni che la radiazione gamma è prodotta nell’impatto dei raggi cosmici con il materiale interstellare. Questo meccanismo, pur con diverse implementazioni, è responsabile della radiazione gamma osservato nel piano della nostra Galassia (Figura 5), nella vicina galassia della Grande Nube di Magellano, dove la radiazione gamma è addensata in zone ad elevata concentrazione di stelle in formazione e di raggi cosmici, nei residui di supernovae (Figura 5) ed in altre galassie.
Emissione diffusa, elettroni, materia oscura Proprio lo studio della radiazione diffusa può fornire indicazioni sulla misteriosa materia oscura. Sappiamo infatti da molteplici osservazioni che solo il 4% del contenuto dell’Universo è costituito da materia a noi familiare, come gli atomi. Per spiegare gli effetti di gravitazione che osserviamo nel cielo, come la velocità di rotazione delle galassie, è necessario postulare l’esistenza di un altro 22% di materia di natura sconosciuta, chiamata materia oscura. Il restante 74% è una energia oscura, responsabile della costante espansione dell’Universo e predetta dalla teoria della relatività generale di Einstein. Catalogando tutte le sorgenti e le emissioni diffuse prodotte dai meccanismi di interazione della particelle note con il materiale ed i campi interstellari noti, possiamo sperare di rivelare il residuo di radiazione gamma eventualmente prodotto nelle annichilazioni o decadimenti della materia oscura. La Figura 6 mostra le misure di Fermi dello spettro della radiazione diffusa isotropa nel cielo, lontano dal piano galattico, ed il contributo massimo a questa radiazione riconducibile alle galassie attive (AGN) non ancora
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Figura 6. Spettro della radiazione gamma diffusa isotropa lontano dal piano galattico. Fino a poco tempo fa si pensava che il contributo dominante a questa emissione venisse dai getti delle galassie attive non risolte, ma le stime di Fermi indicano un contributo massimo di questa classe di sorgenti del 30%, ed implicano quindi che altre sorgenti, come ad esempio le galassie starburst, devono contribuire. http://www.nasa.gov/pdf/431677main_Fermi_dragon_chart.pdf
risolte perché sotto la soglia di sensibilità dell’osservatorio. La natura della differenza è al momento ignota, e pertanto è rappresentata suggestivamente con un dragone come quello che i cartografi medioevali mettevano nelle zone del globo ancora inesplorate. Non è tuttavia semplicemente possibile attribuire questa radiazione alla materia oscura, in quanto esistono sicuramente molte altre sorgenti di radiazione gamma diverse dagli AGN che possono contribuire. Utilizzando Fermi in maniera non convenzionale, cioè per rivelare particelle cariche invece di fotoni, è stata misurata anche la distribuzione del flusso degli elettroni che compongono i raggi cosmici in funzione della loro energia con una precisione senza precedenti ed è stato evidenziato un eccesso di elettroni di altissima energia rispetto a quanto previsto dai modelli più accreditati (Figura 7). Questo risultato richiede in particolare di modificare il modello convenzionale di origine e propagazione degli elettroni dei raggi cosmici ed è de-
L’astronomia moderna e la ricerca delle leggi dell’Universo
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Figura 7. Spettro degli elettroni primari di alta energia. Fermi ha misurato con precisione mai raggiunta prima lo spettro degli elettroni dei raggi cosmici, evidenziando una inattesa abbondanza di particelle di altissima energia rispetto ai modelli più convenzionali, che consente di porre limiti stringenti ai modelli di materia oscura quando si postula che questa sia la sorgente di questo eccesso. http://physics.aps.org/files/image_uploads/2614/medium_e2.png
stinato ad aprire nuove discussioni sulla nostra comprensione dell’universo. Tra le possibili, ma non certe, chiavi di lettura vi è pure l’associazione di questo eccesso a processi di annichilazione della elusiva materia oscura.
Conclusioni Con il suo cannocchiale Galileo ha saputo sfruttare una tecnologia rivoluzionaria per aprire gli occhi degli uomini curiosi ed aperti alla conoscenza su un intero mondo di nuovi interrogativi ed osservazioni sull’Universo in cui viviamo. Analogamente l’astronomia satellitare sfrutta le tecnologie dei viaggi nello spazio per accrescere le nostre conoscenze della natura attraverso l’osservazione dei molti e diversi fenomeni che avvengono nel cielo. L’astronomia moderna è oggi una scienza multidisciplinare capace di attrarre l’interesse e l’esperienza di scienziati di diverse comunità che insieme esplorano il mistero dell’Universo per scoprire le leggi della Natura.
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Referenze Le agenzie spaziali investono consistenti budget in programmi di divulgazione che spiegano al grande pubblico la tecnologia e le scoperte fondamentali associate alle osservazioni astronomiche nello spazio. Le principali missioni hanno siti dedicati con sezioni specifiche rivolte alla stampa e al pubblico. Basta pertanto digitare su un motore di ricerca il nome del proprio telescopio preferito per accedere a moltissime pagine informative, solitamente di altissimo livello. Segnalo alcuni siti da cui partire alla scoperta di questo viaggio, seguendo la propria curiosità. Siti agenzie http://nasascience.nasa.gov/missions http://sci.esa.int/ http://www.asi.it Siti delle missioni trattate in questo articolo http://hubblesite.org/ http://chandra.harvard.edu/ http://spitzer.caltech.edu/ http://heasarc.gsfc.nasa.gov/docs/cgro/index.html http://www.nasa.gov/fermi Siti di divulgazione http://apod.nasa.gov/apod/ Bibliografia di Fermi Le pubblicazioni scientifiche della collaborazione Fermi sono tutte raccolte nel sito seguente, ed in costante aggiornamento: https://www-glast.stanford.edu/cgi-bin/pubpub Tra queste segnalo il numero 325 (2009) della rivista Science, che contiene 3 articoli pubblicati da Fermi sulle scoperte delle pulsar radio-quiet e sulle pulsar al millisecondo, la cui copertina è dedicata a Fermi. Segnalo inoltre il numero 462 (2009) della rivista Nature, che contiene un’analisi di un GRB osservato da Fermi, grazie al quale la collaborazione ha potuto confermare la costanza della velocita della luce per i fotoni di diverse energie che partendo dal GRB hanno raggiunto il LAT dopo aver percorso 7 miliardi di anni luce. La rivista contiene anche un commento editoriale sull’importanza di questo risultato nella sezione News and Views.
Macrocosmo e Microcosmo Vincenzo Cavasinni
Introduzione L’universo, il macrocosmo, e la sua evoluzione dal momento iniziale, il Big Bang, fino alla sua struttura attuale sono descritti da una teoria fisica che è largamente basata sulle caratteristiche e sulle interazioni delle particelle elementari, il microcosmo, di cui esso è costituito. La descrizione che oggi siamo in grado di fornire dell’universo e della sua storia è sostanzialmente unitaria e ci permette quindi di disporre di un modello che spiega la realtà fisica sia nello spazio, dalle piccolissime distanze accessibili ai moderni acceleratori (quelle dei quark) fino alle dimensioni dell’universo, coprendo un intervallo spaziale di circa 45 ordini grandezza, sia nel tempo: dai primi istanti del big bang (~10-50 s) fino all’universo odierno che ha circa 14 miliardi di anni. Questo è stato reso possibile da una felice integrazione tra osservazioni astronomiche e astrofisiche, da una parte, e dallo studio della struttura e delle forze tra particelle a livello elementare, dall’altra. Le particelle elementari sono state prodotte e studiate negli ultimi 50 anni, in condizioni sperimentali controllate, ad acceleratori di energia via via crescente che hanno permesso l’indagine della struttura della materia a distanze sempre più piccole. La teoria che ne è scaturita, lo “Standard Model”, rappresenta un grande successo della fisica fondamentale che ha contribuito grandemente anche alla comprensione dell’intero universo e della sua evoluzione. Tuttavia, nuovi fenomeni sono apparsi recentemente all’osservazione sperimentale, sia a livello cosmico, la materia e l’energia oscura, sia a livello di particelle elementari, come ad esempio l’oscillazione dei neutrini; fenomeni che ci inducono a pensare che le particelle conosciute non siano le sole a costituire la materia dell’universo. Il nuovo acceleratore del CERN, LHC, ad un’energia mai sperimentata finora, ci permetterà di verificare l’esistenza di nuovi fenomeni fisici: extradimensioni, produzione di micro buchi neri e di nuove particelle e interazioni che potrebbero rivoluzionare le nostre conoscenze di fisica fondamentale e dare una risposta anche a problemi cosmologici. In questa presentazione discuterò due aspetti particolari della ricerca di nuova fisica che coinvolgono sia gli esperimenti a LHC che la fisica del cosmo: • il problema della materia oscura dell’universo e la possibilità di produrla e studiarla a LHC attraverso la scoperta delle particelle supersimmetriche;
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• i buchi neri nell’universo e la possibilità (assai speculativa) di produrli a livello microscopico a LHC.
Perché acceleratori di alta energia Perché costruiamo acceleratori di energia (e di costi) via via crescenti? La ragione risiede nel fatto che far interagire particelle ad alte energie equivale a esplorare porzioni di spazio e di materia sempre più piccole. Abbiamo tutti notato che entrando con la radio accesa in una galleria stradale dopo poco il segnale radio sparisce mentre, se il tunnel è diritto, continuiamo a vedere la luce al suo ingresso. Il segnale radio e la luce sono lo stesso fenomeno fisico, le onde elettromagnetiche; la differenza consiste nel fatto che le onde radio hanno lunghezze tipiche di oscillazioni (lunghezza d’onda) dell’ordine dei metri, mentre alla luce sono associate lunghezze d’onda molto più piccole, 10-7 m, così che le onde radio, incontrando un ostacolo (la sezione della galleria), più piccolo della loro lunghezza d’onda, vengono diffratte e assorbite, mentre le onde luminose, di lunghezza d’onda molto minore della dimensione della galleria, possono propagarsi lungo di essa pressoché imperturbate. Per lo stesso motivo, per le radiografie vengono usati i raggi X che hanno lunghezze d’onda circa 1000 volte più piccole delle onde elettromagnetiche visibili ma, appunto per questo, possono penetrare tra gli spazi intermolecolari e interatomici. Circa ottanta anni fa, Louis De Broglie formulò l’ipotesi, strettamente collegata alla nuova teoria quantistica della materia, che non solo alla luce fosse associata una lunghezza d’onda, ma a tutte le particelle, con o senza massa. La lunghezza d’onda l, associata alla particella, risulta essere inversamente proporzionale alla sua quantità di moto p: l = h/p, dove h è la costante di Planck, una delle costanti fondamentali della natura. Aumentare l’energia (e la quantità di moto) della particella vuol dire diminuirne la lunghezza l’onda e quindi, esattamente come per la luce, aumentarne il potere risolutivo, cioè la capacità di esplorare dettagli spaziali sempre più minuti. In Figura 1 viene illustrato come, in funzione della energia della particella, siano esplorabili livelli sempre più piccoli della struttura della materia. La natura stessa ci fornisce particelle anche di altissima energia: i raggi cosmici, in prevalenza protoni, che colpiscono continuamente la terra. La Figura 2 mostra il flusso di raggi cosmici, per centimetro quadro e per unità di angolo solido e tempo, che arrivano sulla terra. Sulla scala orizzontale, espressa in unità di elettron-volt (eV), con le frecce sono indicate anche le energie equivalenti ai vari acceleratori di particelle costruiti dall’uomo. Come si vede nella figura, il flusso di raggi cosmici decresce assai rapidamente con la loro energia e, sebbene quelli più energetici arrivino fino a circa 1020 eV, ben superiore anche all’energia del più potente acceleratore
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Figura 1. Dimensioni tipiche della struttura della materia e energia necessaria per esplorarle.
mai costruito, LHC, il loro flusso è molto piccolo: a 1020 eV arriva sulla terra circa una particella per km2 per anno. Questo scarso numero di particelle che fa sì che gli esperimenti che rivelano e misurano i raggi cosmici abbiano estensioni di centinaia di km2 come quello denominato “Auger” nella pampa argentina. Oggi però, la fisica fondamentale è alla ricerca di eventi fisici rari, come ad esempio quelli che producono la particella di Higgs, per cui ci si aspetta che circa solo 1 su 10 miliardi di interazioni possa generarla. Il numero di raggi cosmici disponibili è quindi del tutto insufficiente per la ricerca di questi eventi così rari. Dal dopoguerra fino ai giorni nostri sono stati via via costruiti e messi in opera acceleratori di energia e intensità (che determina il numero di interazioni prodotte) sempre più elevate. Il culmine di questo sviluppo di acceleratori è rappresentato da LHC al CERN di Ginevra, vedi Figura 3. Si tratta di un tunnel sotterraneo circolare di 27 km dentro cui sono istallati tubi a vuoto in cui circolano i protoni in entrambe le direzioni. Lungo i tubi a vuoto sono posizionati magneti superconduttori che costringono i protoni a un orbita circolare e un sistema di accelerazione per aumentarne l’energia. I protoni vengono fatti collidere in 4 incroci dei tubi a vuoto dove sono alloggiati i 4 maggiori esperimenti: ATLAS, CMS, ALICE, LHCB. LHC, appena partito nel dicembre 2009, farà scontrare due fasci di protoni l’uno contro l’altro, ciascuno di un’energia di 7 1012 eV (7 TeV). In questo modo si potranno effettuare, a differenza che con i raggi cosmici, gli esperimenti in condizioni controllate, conoscendo esattamente il tipo e l’energia delle particelle iniziali. L’alto numero di protoni in ciascun fascio, circa 1014, potrà produrre circa un miliardo di interazioni al secondo, e ciascuna interazione
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Figura 2. Flusso di raggi cosmici in funzione della loro energia.
produce a sua volta decine di particelle secondarie. La sfida che dovranno affrontare gli esperimenti sarà la ricerca, tra tutte queste interazioni, di quelle, molto più rare, che potrebbero provare l’esistenza di particelle e fenomeni nuovi. LHC e i suoi esperimenti rappresentano una sfida tecnologica avanzatissima sia per le caratteristiche dell’acceleratore: un enorme sistema criogenico a 2 gradi Kelvin per far funzionare i magneti superconduttori e un’intensità dei fasci di particelle collidenti mai raggiunta nel passato, sia per le prestazioni degli esperimenti che dovranno essere capaci di selezionare quei pochi eventi “interessanti” tra l’enorme numero di quelli prodotti per poi analizzarli con estrema precisione per estrarne le quantità fisiche rilevanti quali ad esempio la massa del bosone di Higgs o quella di nuove particelle prodotte. Va da sé che questo immane sforzo tecnologico, se pur diretto primariamente alla ricerca fondamentale, ha permesso sviluppi molto importanti anche in campi applicativi: basti ricordare la criogenia, l’elettronica analogica e digitale, l’informatica, con le sue applicazioni Web e GRID.
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Figura 3. Vista schematica di LHC e della posizione dei 4 esperimenti sotterranei che studiano le collisioni protoneprotone.
La nuova fisica a LHC Quali sono i capitoli di nuova fisica che potranno aprirsi a LHC con implicazioni fondamentali anche per la conoscenza dell’universo? Sicuramente la ricerca del bosone di Higgs rappresenta uno degli scopi primari di LHC. La dimostrazione dell’esistenza di questa particella proverebbe che le masse di tutte le altre, compresa quella del Higgs stesso, sarebbero generate dalla loro interazione con questo bosone. Con la sua scoperta troverebbe coronamento la teoria del modello standard che ha dimostrato con gli sviluppi teorici e sperimentali (i bosoni W/Z, i quark charm. beauty, top…) degli ultimi 30 anni, di fornire una descrizione accurata di gran parte dei fenomeni delle particelle elementari. L’Higgs, se esistesse, sarebbe presente anche in tutto l’universo e nella sua evoluzione con implicazioni oggi ancora difficili da valutare a livello cosmologico. Ci sono, tuttavia, fenomeni, sia a livello elementare che cosmologico, che non trovano spiegazione nelle predizioni del modello standard. Forse il più importante è quello della materia oscura. Abbiamo difatti evidenza dell’esistenza nell’universo di particelle con massa, e che quindi generano effetti gravitazionali, ma che non emettono radiazione osservabile. Un esempio di evidenza di questa materia oscura è fornito dall’osservazione del moto della materia visibile attorno al centro di alcune galassie. La Figura 4 mostra la
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velocità di rotazione misurata del gas attorno al centro luminoso della galassia M33 in funzione della distanza dal centro. Questa velocità è governata dalle leggi di Newton e dalla distribuzione di massa nella galassia: se tutta la massa fosse concentrata nel disco centrale visibile, la velocità dovrebbe decrescere in funzione della distanza. L’osservazione sperimentale, invece, ci dice che la velocità continua a crescere come se ci fosse massa addizionale, non visibile, attorno al centro, ma che determina, gravitazionalmente, il moto del gas periferico. Deve esistere dunque una materia “oscura” che viene valutata essere 5 volte più abbondante di quella luminosa presente nell’universo. La prima possibile spiegazione per questa materia oscura è stata che essa fosse dovuta alla massa dei neutrini residui del big bang. I neutrini, in modo simile per quello che è avvenuto per la radiazione elettromagnetica, potrebbero essere stati prodotti nei primi istanti dalla nascita dell’universo ma, dopo pochi secondi, si sarebbero “disaccoppiati” dalle altre particelle e, al pari dei fotoni, come un gas che si espande insieme con l’universo, si sarebbero “raffreddati”. I fotoni alla temperatura odierna di 2.7 K, e i neutrini a circa 2 K. La differenza tra fotoni e neutrini consiste nel fatto che mentre i primi non hanno massa, i neutrini sicuramente hanno una massa anche se dalle misure di laboratorio possiamo, attraverso lo studio della cosiddetta
Figura 4. Velocità di rotazione del gas periferico della galassia M33 in funzione della distanza dal disco luminoso centrale.
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“oscillazione di neutrini” (per la prima volta predetta da Bruno Pontecorvo), dedurre che esiste solo una differenza di massa tra alcune specie di neutrini. Con misure dirette della massa del neutrino elettronico (una delle tre specie esistenti) è stato ottenuto un limite di circa 1 milionesimo della massa della particella massiva più leggera conosciuta: l’elettrone. Sia i dati disponibili con lo studio dell’oscillazione di neutrini che quelli con la misura diretta puntano però a un valore di massa per i neutrini che è molto più bassa di quella necessaria a giustificare l’esistenza della materia oscura dell’universo. Inoltre la materia, quella luminosa e quella oscura, hanno determinato gravitazionalmente la creazione di strutture (galassie, ammassi di galassie…) e, anche se i neutrini avessero la massa richiesta, vista la loro velocità, che sarebbe in ogni caso prossima a quella della luce, non avrebbero permesso l’aggregazione di queste strutture. Come vedremo più in dettaglio nei prossimi capitoli, altri possibili candidati per la materia oscura potrebbero essere particelle primordiali, cioè create nei primi istanti di vita dell’universo e con una massa dell’ordine di 100-1000 volte più grande di quella del protone che ha una massa di circa 1 GeV. Queste particelle, neutre per la carica elettrica, interagiscono assai debolmente con la materia ordinaria se non attraverso la gravità e potrebbero essere così concentrate dove la massa è più abbondante: sul sole, nel centro galattico. Ricerche dirette di queste particella (i cosiddetti WIMP) che pervaderebbero, come un gas, tutto l’universo e sarebbero quindi presenti anche sulla terra, sono in corso con esperimenti raffinati che cercano di metterne in evidenza l’esistenza attraverso la misura del rinculo di nuclei atomici che potrebbe essere provocato dalla rara collisione dei WIMP con la materia ordinaria. Questi esperimenti, tuttavia, non hanno mostrato, almeno finora, risultati convincenti. La maniera più chiara per dimostrarne l’esistenza sarebbe quella di produrre i WIMP in laboratorio, ad un acceleratore di particelle, mimando così le condizioni dell’universo primordiale. L’energia disponibile all’acceleratore dovrebbe essere, però, almeno eguale alla massa dei WIMP, per poterli produrre. Il nuovo acceleratore del CERN, LHC, potrà disporre, nell’interazione tra due protoni, di un’energia pari a circa 10 volte la massa attesa dei WIMP e quindi, se questi esistono, dovrebbero essere facilmente prodotti e misurati a LHC. I candidati “materia oscura” avrebbero, nella loro classificazione tra le particelle elementari, anche il vantaggio di poter essere identificati con le cosiddette particelle supersimmetriche, previste da una teoria più completa del modello standard attuale, che, da una parte, risolve alcune sue incongruenze (cancellazione di infiniti), dall’altra, se vera, costituirebbe un passo decisivo verso una teoria fisica unificata di tutti i fenomeni e interazioni fondamentali, inclusa quella gravitazionale: la cosiddetta teoria delle “super-string”.
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La materia oscura e quella luminosa, da recenti misure astrofisiche sulla velocità di espansione dell’universo, insieme, non costituiscono che circa il 30% di tutta la materia/energia che riempie l’universo: vedi Figura 5. Il rimanente 70% è attribuito alla cosiddetta “energia oscura” che ancora sfugge a una interpretazione fisica convincente. Forse anche l’esistenza di quest’energia potrebbe essere dovuta alla presenza di un campo chiamato “quintessenza” (una particella con caratteristiche molto particolari) che, però, al momento attuale, non sembra poter essere producibile e misurabile agli acceleratori di particelle. L’interpretazione teorica credibile di questa energia oscura assieme alla sua determinazione sperimentale rimane la sfida più difficile, ma anche la più entusiasmante, per gli astrofisici e per i fisici delle particelle per i prossimi decenni. Un’altra possibile connessione tra astrofisica e fisica delle particelle riguarda i buchi neri. Dico subito che su questo fronte l’aspetto speculativo diventa ancora più rilevante che non nei casi precedenti. Infatti, mentre abbiamo già una fondata evidenza sperimentale dell’esistenza di buchi neri a livello astrofisico, la possibilità di crearne nell’interazione di particelle elementari, passa attraverso molte ipotesi quasi tutte da verificare. Concettualmente la situazione è molto semplice: se si crea una concentrazione di massa/energia al di sotto di una sfera di un particolare raggio (il raggio di Schwarzschild), la forza gravitazionale (che agisce proporzionalmente all’inverso del quadrato del raggio) diventa così intensa da non lasciar scappare alcuna particella al di fuori di tale raggio, nemmeno la luce, cioè i fotoni, che sono particelle senza massa. In linea di principio questo meccanismo può
Figura 5. Frazioni di tutta l’energia/materia dell’universo attribuite alla materia luminosa, a quella oscura e all’energia oscura.
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funzionare anche a livello elementare, su dimensioni dell’ordine del raggio del protone o meno, purché si concentri in questa regione una quantità sufficiente di massa/energia. Questa concentrazione di energia è proprio quello che si potrebbe verificare a LHC nello scontro tra due protoni. L’effetto gravitazionale è esaltato se, sempre a livello microscopico, si manifestassero extra-dimensioni (almeno 2 spaziali oltre le 4 abituali dello spazio/tempo). Queste extra-dimensioni sarebbero però confinate in spazi molto ristretti, a livello di quelli tipici delle particelle elementari: 1 decimillonesimo di miliardesimo di centimetro. La proposta dell’esistenza delle extra dimensioni deriva da un’esigenza di unificazione tra le forze fondamentali e in particolare della gravità. L’ipotesi suggerita è che la gravità sia così poco intensa rispetto alle altre forze, quella elettrodebole e quella forte, perché agisce in un universo con più di 4 dimensioni con il risultato che, a livello macroscopico, questa “diluizione” apparirebbe, nelle 4 dimensioni ordinarie, come una forte attenuazione della sua intensità. Una volta invece sperimentata a livello microscopico la gravità avrebbe un’intensità paragonabile con quella delle altre forze e quindi favorirebbe la creazione di buchi neri microscopici. Sarebbero pericolosi questi mini buchi neri? Questo problema ha agitato per qualche tempo l’opinione pubblica con aspetti spesso folcloristici. La risposta è no! Effettivamente, se LHC è un acceleratore artificiale di particelle, la natura ha già provveduto a fornirci particelle di alta energia, come viene mostrato nella Figura 2, che colpiscono la terra raramente, ma da miliardi di anni. In effetti, è come se durante la vita della terra la natura, con il suo bombardamento di raggi cosmici di alta energia, avesse effettuato già centomila programmi di ricerca all’energia di LHC: se siamo qui a parlarne se ne deduce che i mini buchi neri, eventualmente creati in questi miliardi di anni, non sono pericolosi! Inoltre la teoria dei buchi neri prevede che essi non siano veramente “buchi neri” ma emettano radiazione (la radiazione di Hawking) e questa radiazione è tanto più probabile quanto più il buco nero è piccolo. Come conseguenza i mini buchi neri, eventualmente creati a LHC, evaporerebbero (decadrebbero nel linguaggio delle particelle) quasi immediatamente e di loro potremmo misurare solo i prodotti di decadimento. Una simulazione dell’esperimento ATLAS del decadimento di un buco nero a LHC è mostrata nella Figura 6: le particelle nello stato finale sono molte e possono essere di vario tipo: quark (che osserviamo come pacchetti di particelle collimate denominati “jet”) elettroni, muoni, fotoni…
La misura delle particelle supersimmetriche a LHC Le particelle elementari, per come sono definite, non hanno ulteriore struttura e sono classificabili unicamente per i loro caratteri elementari, cioè una massa, una carica elettrica e un momento angolare intrinseco denominato
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Figura 6. Simulazione di un decadimento di un mini buco nero nell’esperimento ATLAS LHC. La vista è trasversale rispetto alla direzione dei fasci di protoni, che si scontrano nel centro della figura e mostra come il buco nero decada in molte particelle: jet (quark), elettroni, muoni, fotoni.
spin. Così l’elettrone è elementare con carica negativa unitaria, massa e spin quantizzato a ½ ħ. Il protone, invece, ha anch’esso massa, carica elettrica e spin ½ ħ, ma è provato sperimentalmente che non è elementare: ha una estensione finita (circa 1 fermi: 1/10000000000000 cm) ed è composto a sua volta da particelle elementari, i quark, dotati di massa, di spin ½ ħ e di carica elettrica frazionaria: 2/3 o -1/3. Le particelle elementari possono interagire tra loro attraverso 4 forze fondamentali: quella elettromagnetica, quella debole, quella forte e, molto meno intensa, quella gravitazionale. Dall’interazione delle particelle elementari si possono generare altre particelle, stati legati, radiazione. Ad esempio, con tre quark che interagiscono fortemente si può fare un protone o un neutrone, con un protone e un elettrone e la loro in-
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terazione elettromagnetica si costruisce l’atomo di idrogeno. L’interazione debole è, tra l’altro, responsabile del decadimento radioattivo (decadimento beta) del neutrone e svolge un ruolo fondamentale nella fisica del sole. La teoria quantistica dei campi prevede che la mediazione per ciascuna delle forze fondamentali sia determinata da campi (particelle) caratteristici di quella interazione. Così, ad esempio, il campo mediatore dell’interazione elettromagnetica si chiama fotone. I mediatori delle altre forze sono i bosoni carichi W e neutro Z per l’interazione debole, e il gluone per l’interazione forte. Questi mediatori hanno anch’essi caratteristiche di particelle e cioè una possibile massa, una possibile carica elettrica (0 o ± 1 cariche unitarie) e spin. Una caratteristica comune a tutti questi mediatori è di trasportare uno spin il cui valore è ħ (mentre le altre particelle hanno spin semintero: ½ ħ). In Figura 7 sono mostrate tutte le particelle elementari del modello standard: i quark che interagiscono nelle tre forme di interazione fondamentale e i cosiddetti leptoni che invece interagiscono solo in modo elettromagnetico e debole. La particella di Higgs e il gravitone, mediatore dell’interazione gravitazionale, pure previsti dal modello, non sono stati ancora osservati sperimentalmente.
Figura 7. Le particelle elementari conosciute: quark e leptoni a spin ½ ħ e i mediatori delle forze: fotone, gluone, W, Z a spin ħ. La particella di Higgs e il gravitone sono state ipotizzate per giustificare l’esistenza della massa e come mediatore della forza gravitazionale.
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Come abbiamo detto la natura, per le particelle che conosciamo, ha scelto di assegnare spin semintero ai costituenti (quark e leptoni) e spin intero ai mediatori delle forze tra i costituenti. Questa non è una scelta necessaria a priori e, in ottemperanza a una legge di più completa simmetria tra costituenti e mediatori (chiamata supersimmetria), possiamo ipotizzare che esistano corrispondentemente anche particelle costituenti (dette supersimmetriche) a spin intero (zero) e mediatori a spin semintero. In questo modo il numero delle particelle e dei mediatori raddoppierebbe. La Figura 8 mostra come sarebbero organizzate le nuove particelle. Le particelle supersimmetriche più pesanti, create nel’’interazione tra i protoni, a LHC, decadrebbero in quelle più leggere secondo un processo a cascata indicato nell’esempio di Figura 9. Durante il decadimento si conserverebbe la “qualità particella supersimmetrica” producendo però anche molte particelle ordinarie. L’ultima particella supersimmetrica della cascata, il neutralino, sarebbe stabile e sfuggirebbe alla rivelazione dell’apparato sperimentale. È proprio il neutralino, con una massa attesa di circa mille volte quella del protone, a essere il migliore candidato per la materia oscura: sarebbe stato creato nei primi istanti dell’universo e da allora, interagendo pochissimo con le altre particelle e perciò invisibile, contribuirebbe solo agli effetti gravitazionali.
Figura 8. Le particelle elementari supersimmetriche ipotizzate: squark e sleptoni a spin 0 e i mediatori delle forze: fotino, gluino, Wino, Zino a spin ħ/2. Anche per l’Higgs e il gravitone sono ipotizzate le corrispondenti particelle supersimmetriche.
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Figura 9. Esempio di decadimento a cascata di una coppia squark-gluino creata nell’interazione. L’ultima particella della cascata: il neutralino è stabile e sfugge alla rivelazione.
L’evidenza di produzione di particelle supersimmetriche a LHC sarebbe dimostrata dalla misura di eventi di interazione tra i protoni con una produzione di molti quark (jet), elettroni, muoni + energia mancante al bilancio globale di energia/impulso, derivante dalla mancata misura del neutralino. La Figura 10 mostra una simulazione della distribuzione di energia trasversa mancante per eventi con 4 jet nello stato finale nel caso di produzione di squark e gluino con massa 400 GeV (400 volte quella del protone). Come si vede nella figura l’evidenza di supersimmetria è rappresentato dall’eccesso di eventi con energia mancante dovuta alla presenza di particelle supersimmetriche rispetto a vari fondi di fisica standard. La Figura 11 mostra ancora un confronto tra eventi con particelle supersimmetriche e fondo stimato di eventi da fisica nota, utilizzando come parametro la “massa effettiva” dell’evento ottenuta sommando l’impulso di tutte le particelle (jet e leptoni) presenti nell’evento. Si stima che LHC sarà in grado di misurare le particelle supersimmetriche, se esistono, fino a una loro possibile massa di 3000 GeV.
La misura dei mini buchi neri a LHC La possibilità di produzione e misura di mini buchi neri a LHC, come già detto nell’introduzione, passa attraverso varie ipotesi tutte da verificare, la più significativa e speculativa di queste è l’esistenza di extradimensioni spaziali (almeno 2 in più) confinate però, a livello microscopico. Ad esempio con 6 dimensioni la scala di Planck di 1019 GeV (un’energia corrispondente a 1019 volte la massa del protone) il cui valore così grande è causa della debolezza della gravità, si ridurrebbe a circa 103 GeV (1 TeV) che è un’energia acces-
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Figura 10. Distribuzione di energia mancante in eventi con particelle supersimmetriche (cerchietti aperti) rispetto a quella di fondo dovuta a eventi di fisica standard (punti colorati).
Figura 11. Distribuzione di “massa effettiva” in eventi con particelle supersimmetriche (cerchietti aperti) rispetto a quella di fondo dovuta a eventi di fisica standard (punti colorati).
Macrocosmo e microcosmo
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sibile a LHC. A questa energia la gravità diventerebbe di intensità simile a quella delle altre forze e si potrebbero manifestare dunque effetti di creazione di buchi neri a livello microscopico su distanze di circa 10-17 cm, distanza che rappresenterebbe il valore di riferimento per il raggio di Schwarschild. Dopo tempi dell’ordine di 10-25s dalla formazione, il mini buco nero (BH) decadrebbe nelle particelle misurabili sperimentalmente: quark (jet), leptoni (elettroni, muoni). Una caratteristica del decadimento di buchi neri sta nel fatto che le particelle dello stato finale possono essere con eguale probabilità leptoni oppure quark (vedi Figura 12), mentre nel decadimento di altre particelle conosciute i leptoni sono molto più rari. Una volta selezionate le particelle di decadimento, si può costruire con i loro impulsi ed energie la quantità chiamata massa invariante che, se effettivamente queste particelle provenivano dal buco nero, dovrebbe risultare nella massa del buco nero stesso quindi con un accumulo di eventi attorno a tale valore di massa. La Figura 13 mostra, per l’esperimento ATLAS, una simulazione della distribuzione della massa invariante ricostruita di jet e leptoni nel caso di produzione di un buco nero di 5 TeV di massa. Nella Figura 13 di destra c’è l’ulteriore richiesta che il leptone abbia un’energia minima di 50 GeV. Come si vede, il segnale di produzione di buchi neri, in verde, sarebbe ben visibile sopra il fondo di eventi standard, anche solo dopo un anno di presa dati a buona intensità dei fasci (luminosità).
Figura 12. Esempio di possibile decadimento di un mini buco nero in quark (jet) e leptoni (e,m).
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V. Cavasinni
Figura 13. Distribuzione della massa invariante di jet e leptoni in eventi con buchi neri di 5 TeV di massa (in verde) rispetto alle distribuzioni attese per i fondi da eventi standard. A destra viene richiesta anche un’energia minima di 50 GeV per i leptoni.
Conclusioni Il collisionatore tra protoni LHC, appena partito, e i suoi esperimenti rappresentano il massimo sforzo tecnologico, umano, finanziario mai speso per una sperimentazione di fisica fondamentale. La speranza di piena comprensione di alcuni capitoli di fisica già conosciuti e di aprirne di nuovi, magari inattesi, è molto viva tra i fisici e i tecnici che partecipano a questo progetto, ma anche tra gli astrofisici e i cosmologi che potrebbero trarre dalle scoperte di LHC indicazioni preziose sulla struttura e sul funzionamento del nostro universo. Certo LHC è uno strumento molto, molto più complesso del “canocchiale” con cui Galileo osservò il cielo 400 anni fa, ma lo spirito, il desiderio di conoscenza e la passione dei ricercatori sono gli stessi e, speriamo, anche l’importanza delle scoperte che si potranno ottenere. Per adesso, tuttavia, le nuove teorie proposte, per quanto affascinanti, sono solo ipotesi e vale per tutti noi l’ammonimento di Galileo a preservare il rigore e la verificabilità che contraddistinguono la scienza rispetto ad altre attività dell’ingegno umano: “…è forza dire che gl’ingegni poetici sieno di due spezie: alcuni, destri ed atti ad inventar le favole ed altri, disposti ed accomodati a crederle” (dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo).
Bibliografia Informazioni per il pubblico sulle attività del CERN si possono trovare al seguente indirizzo WEB: http://public.web.cern.ch/public/ Per un’introduzione divulgativa alla fisica delle particelle elementari si veda: “The Particle Odyssey”, F. Close, M. Marten, C. Sutton; Oxford University Press 2002. Per un introduzione alla fisica di LHC si può consultare: “A Zeptospace Odyssey: A Journey into the Physics of the LHC”, Gian Francesco Giudice; Oxford University Press 2010. I dettagli tecnici e scientifici sugli esperimenti a LHC si possono trovare in: “At the leading edge: the ATLAS and CMS LHC experiments”, D. Green (ed.); World Scientific 2009.
Il documentario allegato al volume Elena Volterrani
“Fantasmi nel cielo. Le comete: storia e scienza”, che trovate in allegato a questo volume, è il titolo del documentario che è stato proiettato in occasione del convegno “L’universo di Galileo, l’universo oggi”, tema di questa pubblicazione, ed è l’ultimo realizzato da La Limonaia Scienza Viva. Il documentario, curato dal prof. Bruno Barsella dell’Università di Pisa, racconta come si è evoluta la nostra comprensione dei fenomeni celesti nei secoli a partire dalle comete, vere protagoniste del film, attraverso interviste a astronomi come Margherita Hack (Trieste), Steven Shore (Pisa), Francesco Palla (Arcetri), Giampaolo Tozzi e Johan R. Brucato (INAF). A raccontare la storia sono due giovani astronomi che, attraverso citazioni di Virgilio, Seneca, Shakespeare ci guidano, con un coinvolgimento appassionante, in uno stimolante viaggio alla scoperta delle comete, fornendo allo spettatore informazioni astronomiche sulle osservazioni del cielo, da quelle fatte con antichi strumenti a quelle effettuate dai più recenti telescopi, sia da terra che nello spazio iniziandoci anche alla conoscenza delle più affascinanti ipotesi cosmologiche. La narrazione ci dimostra come la nostra conoscenza dell’universo vada di pari passo con lo sviluppo degli strumenti di indagine sempre più perfezionati: si passa dal cannocchiale di Galileo che gli ha permesso di osservare i satelliti di Giove e le macchie solari, agli strumenti moderni, frutto di secoli di sviluppo scientifico-tecnologico con cui abbiamo accesso ai fenomeni più remoti che avvengono nell’universo. Il documentario è stato recensito dalla rivista di informazioni astronomiche e spaziali Orione. L’astronomia e l’astrofisica, rappresentano spunti di estremo interesse sia per gli addetti ai lavori che per il grande pubblico e la Limonaia Scienza Viva si propone di continuare su questo filone per esplorare con altri documentari, dopo quello sulle le comete, altri aspetti dell’universo. Tra le molte attività che La Limonaia Scienza Viva svolge (mostre, convegni, pubblicazioni, visite guidate ai laboratori di ricerca), una delle più importanti e qualificanti è proprio la produzione di documentari: ne sono stati realizzati su Enrico Fermi, Leonardo Fibonacci, Antonio Pacinotti, Bruno Pontecorvo (in coproduzione con Science Video di Mosca), Vito Volterra, Federigo Enriques e, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, con il CERN e con i Laboratori del Gran Sasso, è stato prodotto “A caccia di neutrini”.
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Alcuni di questi hanno avuto importanti riconoscimenti a festival nazionali ed internazionali dedicati alla scienza. Abbiamo potuto constatare come la comunicazione con il pubblico attraverso il mezzo cinematografico sia una delle più efficaci tra le metodologie per diffondere le conoscenze scientifiche. La proiezione dei documentario in ambienti scolastici, universitari ed in luoghi pubblici anche in occasione di incontri e convegni, preceduta dalla relazione introduttiva di un esperto, contribuisce a suscitare nei giovani e nel pubblico in generale, un più vivo interesse per la scienza. La multidisciplinarietà è un altro valore aggiunto ai nostri documentari: si parla di Scienza attraverso la Storia permeata dal Pensiero Filosofico, Economico e Religioso del tempo; si coniuga il rigore del linguaggio scientifico con le esigenze tecniche e artistiche del cinema, cogliendo immagini della scienza negli aspetti più spettacolari, avvalendosi di tecnologie multimediali avanzate. Per questo è necessario affidare il lavoro ad operatori cinematografici di grande capacità professionale che abbiano anche sensibilità, interessi e conoscenze culturali di vasto respiro. La Limonaia Scienza Viva è un’associazione fondata dalla Provincia di Pisa a e dalle tre Università pisane alla quale hanno aderito Comuni ed altre Province della Toscana con lo scopo di diffondere la cultura scientifica dalle università e dalle istituzioni Scientifiche al territorio. La Limonaia Scienza Viva, vicolo del Ruschi, 4 - Pisa tel. 050 97 08 28 http://www.lalimonaia.pisa.it/
Gli autori
Giovanni F. Bignami Istituto Universitario di Studi Superiori, Pavia IASF/INAF, Milano Fisico, allievo di Occhialini, dal 1970 si occupa di astrofisica. Ha contribuito alla nascita ed allo sviluppo della astronomia spaziale in Europa, prima in raggi gamma e poi in raggi X. Attualmente professore di astronomia allo IUSS di Pavia, è membro della Accademia dei Lincei e della Accademia di Francia. Nel 1993 è stato il primo italiano a ricevere il premio Rossi della American Astronomical Society per la scoperta di Geminga. Vincenzo Cavasinni Dipartimento di Fisica “E. Fermi”, INFN Pisa e CERN, Ginevra. Professore ordinario di fisica sperimentale presso l’Università di Pisa. Ha svolto ricerche nel campo della fisica delle particelle elementari al CERN a Ginevra soprattutto nello studio delle interazioni protone-protone e protone-antiprotone e della fisica dei neutrini. Attualmente è responsabile del gruppo di Pisa dell’esperimento ATLAS a LHC del CERN. Giancarlo Cella Nato a Pisa nel 1964, è Ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sez. Pisa. Fa parte di VIRGO, una collaborazione tra diversi laboratori europei che ha costruito e gestisce un rivelatore interferometrico di onde gravitazionali a Cascina. Si interessa di diverse problematiche legate alla rivelazione delle onde gravitazionali. In particolare alla fenomenologia dei background stocastici di origine cosmologica, tecniche di riduzione del rumore in rivelatori interferometrici, analisi dati. Luca Latronico Ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, lavora allo sviluppo di strumentazione avanzata per esperimenti di fisica fondamentale sia su acceleratori, sia nello spazio. Dal 2000 fa parte del Gruppo di Pisa che lavora all’osservatorio Fermi/ Glast della NASA, contribuendo al continuo miglioramento delle sue capacità osservative. Si interessa alla Fisica dei raggi cosmici e allo studio della materia oscura. Marco M. Massai Ricercatore del Dipartimento di Fisica “E. Fermi” e dell’INFN. Si è occupato di sviluppo e innovazione di rivelatori di radiazione ionizzante, in Fisica delle Particelle e in applicazioni biomediche. Fa parte del Gruppo di Pisa che ha costruito il LAT (Large Area Telescope), che equipaggia l’osservatorio orbitante della Nasa ‘Fermi/ Glast’, per lo studio della radiazione cosmica gamma.
È Docente di Laboratorio di Fisica I e di Storia della Fisica. Si interesse di Storia e di Storia della Scienza. Francesco Palla Romano d’origine, è attualmente Direttore dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, Firenze, parte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). I suoi principali campi d’interesse riguardano la formazione delle stelle e dei sistemi planetari, l’evoluzione stellare, le proprietà fisiche e chimiche della materia interstellare e la formazione delle prime stelle nell’Universo. È Chair della Commissione 34 dell’IAU su Formazione Stellare. È anche impegnato nell’attività di diffusione della cultura scientifica e astronomica, collaborando con le associazioni divulgative che operano a Firenze e in Toscana. Paolo Rossi Professore ordinario di Fisica Teorica, Dipartimento di Fisica “E. Fermi” - Università di Pisa. Attività di ricerca in teoria dei campi, meccanica statistica, storia della scienza, statistiche sociali. Attività didattica in meccanica classica e metodologie fisiche per le scienze umane. Interessi: applicazioni della fisica alle scienze sociali, storia dell’alto medioevo Steven N. Shore Dipartimento di Fisica “Enrico Fermi”, Università di Pisa, INFN Sezione di Pisa Steven Shore (1953, New York City) è professore ordinario d’astrofisica chiara fama in fisica a Pisa. È affiliatato con INFN ed INAF. Suoi libri recenti sono The Tapestry of Modern Astrophysics (Wiley, 2003), Astrophysical Hydrodynamics: An Introduction (Wiley, 2007), e Forces in Physics: An Historical Perspective (Greenwood Press, 2008) ed è attualmente uno degli associate editor di Astronomy & Astrophysics dal 2003 (anche di Astrophysical Journal dal 1995-2003). La sua ricerca include astrofisica, acustica, geofisica, e storia della scienze. Gloria Spandre Ricercatrice dell’INFN, sezione di Pisa. Con una grande esperienza nel campo della strumentazione e analisi dati per esperimenti di fisica particellare e astrofisica, dal 2000 fa parte della collaborazione internazionale Fermi, un osservatorio orbitale per lo studio dell’Universo ad alta energia. Attualmente partecipa alla costruzione dei rivelatori per polarimetria X delle missioni IXO e NHXM. È responsabile del servizio di Public Outreach della sez. INFN di Pisa. È Docente di Laboratorio di Fisica I. Antonio Stamerra Laureato in Fisica all’Università di Pisa nel 1998. Ha svolto il Dottorato di Ricerca all’Università di Torino nell’esperimento di raggi cosmici EAS-TOP diretto dal Prof. G. Navarra. Dal 2002 fa parte della collaborazione MAGIC dove coordina il gruppo di lavoro che osserva e analizza gli AGN. Dal 2010 è ricercatore a tempo determinato all’Università di Siena. Sito web: http://www.pi.infn.it/~stamerra/
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. - Pisa per conto di Edizioni Plus - Pisa University Press