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Italian Pages 192 [202] Year 2022
Dall’occhio tagliato che apre Un chien andalou (1929) all’esplosione che chiude Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977), Luis Buñuel ha esplorato le regioni misteriose dell’inconscio e del sogno, del desiderio e delle pulsioni, e ha irriso i miti della società borghese. Il suo cinema, sovversivo ed enigmatico, visionario e politico ma sempre refrattario agli eccessi incontrollati, ha vissuto l’esperienza surrealista, la guerra civile spagnola, il lungo sodalizio con il mélo messicano, il ritorno alle produzioni europee e alla radicalità sperimentale degli esordi, senza mai perdere la sua coerenza e il suo anticonformismo. Con uno stile spesso venato di ironia, sempre segnato dal dubbio e dal paradosso, l’opera di Buñuel ha attraversato e raccontato il Novecento. insegna Cinema e comunicazione audiovisiva e Storia e analisi del film presso l’Università di Torino. Tra i suoi volumi: Wong Kar-wai (2010), L’occhio sensibile (2013), Giovanni Pastrone (2015) e La scuola dove si vede (2016). Per Marsilio ha curato JeanLuc Godard (2018). SILVIO ALOVISIO
Luis Buñuel a cura di Silvio Alovisio Marsilio
in copertina fotogramma tratto da Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974) di Luis Buñuel © 2022 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2022 ISBN 978-88-297-1611-1 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Indice Presentazione di Paolo Bertetto La libertà del fantasma. Appunti sulla vita e il cinema di Luis Buñuel di Silvio Alovisio, Paolo Bertetto Il risveglio di Buñuel Dai tamburi di Calanda alla Residencia di Madrid Parigi, il surrealismo e gli esordi nel cinema La guerra civile e l’esilio Gli anni messicani L’ultimo periodo francese Figure: dall’evidenza al simulacro Narrazioni: cinque modelli di configurazione morfosimbolica
Un chien andalou e L’âge d’or di Paolo Bertetto «Un chien andalou» (1929) «L’âge d’or» (1930)
Él di Giorgio Tinazzi Un film cardine Indicazioni emergenti Lo stile
L’angelo sterminatore di Ivelise Perniola
Le fessure della realtà Un disordine ordinato Parabola o allegoria: alcune possibili interpretazioni
Il fascino discreto della borghesia di Rosamaria Salvatore Luis Buñuel, abile tessitore di narrazioni Ripetizione e desideri incompiuti Incipit del film Atto mancato quale effetto di verità Sogni narrati Il sogno nel sogno Immagine finale, ripetizione e variazione
Quell’oscuro oggetto del desiderio di Maria Tortajada Il quadro prima del film Un’incorporazione di dispositivi
Gli altri film di Bruno Surace
Guida alla lettura Susana, Viridiana, Tristana e le altre Nazarin, Simón, Arcibaldo e gli altri Sogni, incubi, allucinazioni Insetti, galline, serpenti Romanzi, racconti, realtà
Note al testo Filmografia a cura di Giulia Beccaria, Silvio Alovisio Bibliografia essenziale a cura di Silvio Alovisio
Presentazione Un doppio movimento simbolico caratterizza il cinema di Buñuel, unito a un differente e opposto contromovimento. La rivelazione dell’inconscio attraversa tutto il tessuto visivo dei suoi film grazie a molteplici e variate irruzioni di immagini oniriche deliranti fantasmatiche. La disgregazione della narratività – che peraltro non è mai eliminata – avviene mediante l’emergenza di una dimensione figurale che inscrive con tecniche diverse il desiderio nelle immagini. Questo percorso incrina o a volte distrugge le relazioni di coerenza rappresentativa, narrativa e spaziale e trasforma l’ordine del film in un flusso di intensità oscure, rivelatrici della profondità della psiche. Questo vettore si intreccia con una volontà di aggressione ai valori tradizionali, di violenza verso le strutture religiose e ideologiche della società repressiva che frenano l’emergenza del desiderio. Le immagini sono spesso scelte per la loro forza di trasgressione, per la capacità di provocare, di irridere e di andare contro l’ordine delle cose. Buñuel in fondo non punta a salvaguardare nessuna regola morale e afferma il diritto dei repressi di ribellarsi alle chiusure della società formata. Ma questo movimento, che tocca i suoi momenti più forti nei primi film legati al surrealismo, non diventa mai critica ideologica, ma sempre invenzione di immagini, di figure, di scene che negano l’equilibrio esistente per affermare la forza dell’inconscio e del desiderio. Questi due movimenti dinamici inventivi e distruttivi incontrano tuttavia una sorta di contromovimento o, se si preferisce, una dimensione ulteriore, in cui il mondo tradizionale ma a volte anche le figure trasgressive vengono investiti da uno sguardo distanziante, ironico, umoristico, che coglie l’assurdo nelle molteplici manifestazioni della vita e anche all’interno delle istanze più alternative e (apparentemente?) liberatorie. La componente ironica, che probabilmente trova la sua radice nel modello avanguardistico della greguería di
Gómez de la Serna, attraversa tutto il suo cinema e aumenta anche il piacere della visione. Questi meccanismi segnano tutto il suo cinema – che ovviamente è lontanissimo dal realismo – ma si affermano poi in particolare nelle opere più libere. E il movimento di oggettivazione delle profondità della psiche si manifesta nei primi film con una forza assolutamente anomala, prodotto da un regime esplosivo dell’inconscio, favorito anche dall’inventività delirante di Dalí. Invece, in alcuni film surreali del periodo intermedio e nei film della maturità il rapporto con i meccanismi dell’Io opera in modo meno diretto e diversamente complesso (ma non più complesso), realizzando forme innovative e sorprendenti, che riflettono una configurazione implosiva dell’inconscio. Negli ultimi film, e segnatamente nelle scene legate all’eros, attraverso l’ironia Buñuel opera un distanziamento, introduce una differenza sottile verso l’immediatezza del mondo e sembra trasformare le immagini e gli eventi dall’orizzonte del fantasma a quello del simulacro. PAOLO BERTETTO
La libertà del fantasma. Appunti sulla vita e il cinema di Luis Buñuel di Silvio Alovisio, Paolo Bertetto IL RISVEGLIO DI BUÑUEL
«Spagnolo e internazionale, borghese e sovversivo, anarchico e disciplinato, brutale e tenero, semplice nella sua esteriorità e complesso nei suoi desideri, artista e nemico dell’arte […], assegna sempre all’immaginazione il ruolo più importante ma al tempo stesso lavora su sceneggiature elaborate, costruite, minuziose»1. Così lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière prova a ritrarre Luis Buñuel, di cui fu stretto collaboratore per vent’anni. Queste parole si possono leggere in un libro intenso e toccante che Carrière pubblicò nel 2011, Le réveil de Buñuel, nel quale l’autore immagina di conversare con l’amico e maestro ritornato provvisoriamente dall’aldilà. Questo ritratto così controverso del grande regista rivela almeno due cose. La prima è che dalla morte di Buñuel, nel 1983, è cresciuta in modo costante la necessità di ritornare a interrogarsi sulla sua vita e la sua opera. Lo hanno fatto in molti, non solo, naturalmente, studiosi e studiose di alto livello (basta dare una lettura anche rapida alla bibliografia essenziale che chiude questo volume per rendersene conto) ma anche collaboratori, parenti, amici, scrittori. Alcuni registi hanno persino fatto di Buñuel un personaggio, proprio come Carrière nel suo libro: si vedano, per esempio, Buñuel e la tavola di re Salomone (Buñuel y la mesa del rey Salomón, 2001) di Carlos Saura, il recente film di animazione sul tournage di Las Hurdes (1933), Buñuel - Nel labirinto delle tartarughe (Buñuel en el laberinto de las tortugas, 2018) di Salvador Simó, a sua volta ispirato da una graphic novel2, o il divertente omaggio di Woody Allen nel suo Midnight in Paris (id., 2011). In questi ultimi decenni si è scavato con rigore negli archivi, scoprendo e valorizzando nuove fonti3, si sono moltiplicati e aggiornati i modi e i metodi di approccio al
cinema di Buñuel e alla sua biografia, così profondamente legata, come vedremo tra poco, alla storia del Novecento (e ai suoi incubi), eppure, e qui arriviamo al secondo aspetto rivelato dal ritratto citato in apertura, Buñuel resta sempre un regista enigmatico che sfida, proprio in quella complessa e feconda tramatura di apparenti contraddizioni appena solo evocata dalle parole di Carrière, i tentativi, anche i più raffinati, documentati e colti, di studio ed esegesi, sfuggendo a qualsiasi dimensione interpretativa univoca e conclusa. Questo volume non ha certamente l’ambizione di porsi sulla scia di tali tentativi ma, più modestamente, si propone di offrire un’introduzione alla personalità e all’opera buñueliane destinata in primo luogo a coloro che conoscono poco questo straordinario regista. Il presente saggio di apertura si struttura in due sezioni distinte ma strettamente complementari: nella prima parte cercheremo di ricostruire, anche sulla base degli studi biografici più recenti4, il lungo e affascinante percorso intellettuale e artistico di Buñuel, quasi coincidente con il secolo scorso (il regista, com’è noto, nasce nel 1900 e muore nel 1983), mentre nella seconda parte proveremo a riflettere su alcuni aspetti particolari e peculiari del suo cinema, indagando in particolare, da un lato, le varie modalità di oggettivazione visiva dell’inconscio (realizzate soprattutto attraverso l’elaborazione di diverse tipologie di figure), dall’altro, le principali modalità di organizzazione morfosimbolica delle configurazioni narrative. I contributi successivi di Paolo Bertetto, Giorgio Tinazzi, Ivelise Perniola, Rosamaria Salvatore e Maria Tortajada, invece, proporranno alcuni affondi di analisi testuale, dedicati non a quelli che riteniamo i suoi film migliori, perché in tal caso la scelta sarebbe stata molto più inclusiva (e più difficile), ma circoscritti a sei titoli che consideriamo rappresentativi delle diverse fasi del suo cinema (dall’avanguardia surrealista al periodo messicano fino all’ultima fase francese), così come dei suoi temi ricorrenti (Buñuel avrebbe preferito il termine “ossessioni”) e, soprattutto, delle sue forme e del suo stile. Il contributo di Bruno Surace, infine, dedicato ai
restanti venitsei titoli della filmografia buñueliana svolge il difficile compito di restituire almeno in termini essenziali l’idea complessiva di un’opera (trentadue film realizzati tra il 1929 e il 1977) che non solo comprende altri titoli di eccezionale rilievo (da I figli della violenza, Los olvidados, 1950, a Nazarin, Nazarín, 1959, da Viridiana, id., 1961, a Bella di giorno, Belle de jour, 1967) ma presenta anche nella sua interezza una profonda coerenza isotopica. DAI TAMBURI DI CALANDA ALLA RESIDENCIA DI MADRID
Luis, primo di sette figli, nasce dall’unione tra Leonardo Buñuel González (1854-1923), maturo e facoltoso redditiere, e la giovane moglie María Portolés Cerezuela (1881-1969), il 22 febbraio 1900 a Calanda, un piccolo paese della bassa Aragona, nella provincia di Teruel. La vita semifeudale di questo villaggio scorreva immutabile da secoli regolata dal suono delle campane ma scossa anche dai ritmi dei tamburi che ancora oggi, ogni anno, tra il Venerdì e il Sabato della Passione, rullano per ventiquattro ore di fila, percossi senza sosta dalla folla, a sostanziare un rito «straordinario, potente, cosmico», per usare le parole dello stesso Buñuel5. Il padre ha accumulato un consistente patrimonio facendo affari a Cuba, e può così garantire a tutti i suoi familiari un’agiata esistenza borghese. Nello stesso anno in cui nasce Luis, i Buñuel si trasferiscono a Saragozza, anche se Calanda resterà per il futuro regista il luogo delle vacanze estive, e sarà quindi associato per sempre all’infanzia e alle radici. La prima parte della sua educazione, dalla scuola elementare al liceo, si compie in severi e repressivi ambienti cattolici, prima il Colegio Corazonista e poi, per sette anni, il collegio gesuita del Salvador. Proprio in questa fase dell’adolescenza, molto inquieta, la sua fede entra in crisi in modo definitivo, destabilizzata anche da alcune letture eterodosse per la sua educazione cattolica (da Spencer a Rousseau, da Darwin a Marx). Ben più piacevoli e intensi sono i successivi sette anni di formazione universitaria che Buñuel trascorre a Madrid,
decisivi non tanto per gli studi travagliati, non sempre brillanti e segnati da continui cambiamenti (prima agraria, poi ingegneria, quindi scienze naturali e infine filosofia) quanto per il soggiorno nella leggendaria Residencia de Estudiantes, un campus moderno, attrezzato e innovativo, aperto al dialogo tra discipline e al confronto con la più avanzata ricerca internazionale. In questa straordinaria sede, ma anche nei caffè madrileni, Buñuel conosce innumerevoli intellettuali, artisti e scrittori. Alcuni di essi, più maturi, sono esponenti della cosiddetta generazione del ’98 o di quella successiva (da Eugenio d’Ors a José Ortega y Gasset, da Ramón María del Valle-Inclán a Ramón Gómez de la Serna), altri invece sono suoi coetanei, in piena formazione come lui, e molti di questi (da Salvador Dalí a Federico García Lorca, da Rafael Alberti a Pepín Bello) diventeranno ben presto i suoi migliori amici. Fino alla prima metà degli anni venti il cinema, pur amato e frequentato da Buñuel sin da bambino6, è per lui sopratutto uno svago. Le sue energie creative si concentrano piuttosto sulla letteratura, come attestato nel corso del decennio da alcune sporadiche pubblicazioni e da una più consistente serie di scritti inediti7. Le prime prove letterarie di Buñuel, dallo stile essenziale e incisivo, refrattario a qualsiasi cedimento estetizzante, rivelano comunque un talento innovativo e appaiono su prestigiose riviste culturali spagnole come «Alfar», «Horizonte» e «Ultra». Quest’ultima testata, in particolare, è il punto di riferimento di una corrente d’avanguardia emersa in Spagna alla fine degli anni dieci, chiamata appunto ultraismo, che esercita una notevole influenza sugli esordi letterari di Buñuel. Gli ultraisti sperimentano una scrittura poetica antiretorica e metaforica, libera dai vincoli di una metrica rigida, priva di sentimentalismi e aperta alle interazioni con le arti visive. A influenzare ancora più profondamente il giovane Buñuel, tuttavia, è senza dubbio il già ricordato Ramón Gómez de la Serna, uno dei maggiori scrittori spagnoli del Novecento nonché inventore di una forma di scrittura particolarmente amata da Buñuel, la greguería,
ossia una sorta di sintetica gag letteraria, un breve aforisma capace di unire metafore insolite e umorismo8. PARIGI, IL SURREALISMO E GLI ESORDI NEL CINEMA
Nel 1925, terminati gli studi e desideroso di lasciare Madrid, Buñuel si propone come segretario a Eugenio d’Ors, chiamato a rappresentare la Spagna in una costituenda agenzia di promozione della cooperazione intellettuale patrocinata dalla Società delle Nazioni e con sede a Parigi. La candidatura, per quanto un po’ fumosa, viene accolta, e il futuro regista si trasferisce nella capitale francese, luogo che segnerà due svolte complementari e parimenti epocali nella sua parabola artistica: da un lato la scelta di dedicarsi al cinema, dall’altro l’ingresso nel gruppo surrealista. Parigi, con la sua miriade di sale cinematografiche di tutti i tipi, offre al giovane aragonese la possibilità di vedere moltissimi film, anche tre al giorno. In particolare, l’assidua frequentazione dei primi templi della cinefilia d’autore (il Vieux-Colombier di Jean Tedesco e lo Studio des Ursulines)9, gli consente di conoscere il cinema di Eisenstein, Lang, Pabst, Murnau e molti altri. La crescente passione per il cinema artistico lo porta a scrivere alcuni interessanti articoli su «La Gaceta Literaria» e sui «Cahiers d’Art», nei quali plaude a Griffith, Keaton, Stroheim, Dreyer, biasimando invece sia il cinema astratto sperimentale sia i «germi melodrammatici» che affliggono non solo il cinema hollywoodiano ma anche film europei come Metropolis di Lang (1927), pur notevole sul piano «plasticofotogenico»10. Accanto alla riflessione critica e persino teorica11, cresce nel giovane Buñuel il desiderio di imparare concretamente il mestiere della regia. Questa opportunità si concretizza nel 1926, grazie all’apprendistato sul set del film Mauprat, realizzato da uno dei più innovativi registi francesi del periodo, Jean Epstein. L’assistentato si rafforza poi in un successivo importante film realizzato dal grande regista francese, La caduta della casa Usher (La chute de la maison Usher, 1928). Dopo l’improvvisa rottura della collaborazione
con Epstein, imputabile al carattere intransigente e poco diplomatico del giovane assistente, Buñuel continua a trovare occupazioni occasionali sui set francesi, ma soprattutto s’impegna per esordire nella regia. Dopo aver scritto, in occasione del centenario della morte di Goya, una sceneggiatura sulla vita dell’artista, mai realizzata per mancanza di fondi12, Buñuel lavora a un secondo scenario, basato su alcuni racconti di Ramón Gómez de la Serna, ma il progetto viene poi abbandonato13. Deluso da questo duplice fallimento, Buñuel propone all’amico Salvador Dalí di scrivere insieme un film dichiaratamente surrealista. Dalí accetta con entusiasmo e da questo felice sodalizio nasce la sceneggiatura per un cortometraggio che prenderà poi il titolo di Un chien andalou (1929)14. Questa volta, però, grazie al sostegno finanziario della madre del regista, il progetto si concretizza. L’uscita del primo film di Buñuel consacra il suo ingresso nel gruppo dei surrealisti francesi: il sodalizio con André Breton, Louis Aragon, Max Ernst, Man Ray, Magritte, Benjamin Péret, Pierre Unik, Georges Sadoul e molti altri, tuttavia, non rappresenta nell’itinerario creativo buñueliano tanto una svolta inattesa quanto un approdo quasi naturale, ma anche una sua maturazione – questa sì determinante – di quella poetica fondata sulla centralità dell’irrazionale, sull’emersione dei fantasmi interiori, sulla crisi del soggetto e la rivolta degli oggetti, sull’umorismo spiazzante e su una sperimentazione del linguaggio con effetti di forte straniamento che già si poteva cogliere con evidenza negli scritti buñueliani antecedenti. La conferma di ciò sta nella coerenza che Buñuel manterrà rispetto alle istanze fondative del surrealismo anche dopo la sua fuoriuscita dal gruppo, nel 1932. Ancora poco tempo prima di morire, nella sua bellissima autobiografia, il regista, pur riconoscendo la sconfitta storica del progetto surrealista, affermerà con orgoglio i numerosi meriti di quella straordinaria stagione, primo fra tutti la scoperta dell’esistenza di una morale nuova, aggressiva ma coerente, irriducibile e ostile alla morale comune, che gli ha quasi sempre, consentito di resistere contro «l’egoismo, la vanità, la cupidigia, l’esibizionismo, la faciloneria»15.
L’assidua frequentazione del gruppo surrealista parigino, comunque, è per l’artista in formazione un’esperienza fondamentale, decisiva nel consolidare in lui la certezza che la creazione artistica, sempre scandalosa e refrattaria a qualsiasi compromesso, debba essere un’arma insolente, giocosa e rivoluzionaria per aggredire i fondamenti della società borghese (la religione, la patria, la famiglia, l’esercito) e per liberare, invece, quello che lo stesso Buñuel definisce «il richiamo degli abissi»16, ossia le pulsioni più profonde, gli oscuri misteri della passione e del desiderio, i territori potenzialmente sconfinati e incensurabili dell’immaginazione. «Il vero scopo del Surrealismo», egli osserverà, ancora una volta a posteriori, «non era creare un nuovo movimento letterario, o pittorico, oppure filosofico, ma far esplodere la società, cambiare la vita»17. Forte del successo della sua opera d’esordio presso gli ambienti più illuminati dell’intellettualità parigina e gratificato dal pieno sostegno del gruppo surrealista, Buñuel inizia a progettare un secondo film, scevro come il precedente da qualsiasi logica commerciale. Grazie al decisivo sostegno finanziario dei visconti de Noailles, una coppia di facoltosi collezionisti d’arte e colti mecenati amanti delle avanguardie che aveva apprezzato moltissimo Un chien andalou, Buñuel si mette nuovamente al lavoro con Dalí ma questa volta tra i due non si ricrea la profonda intesa che aveva ispirato il film d’esordio. L’irreversibile deteriorarsi della loro amicizia, tuttavia, non compromette la conclusione del progetto. Il secondo film del regista, che solo poco prima delle riprese prenderà il titolo definitivo di L’âge d’or (1930), è molto più lungo del precedente (dura circa 60 minuti) ed è sonorizzato, con musiche di repertorio, rumori e battute di dialogo. Alla sua uscita, pur raccogliendo un certo consenso (come testimoniato dal sold out dei primi sei giorni di proiezione allo Studio 28 di Parigi), scatena l’indignazione di ampi settori dell’alta borghesia e della Chiesa, in particolare per la raffigurazione di Cristo nei panni del Duca di Blengis (il più crudele dei protagonisti delle 120 giornate di Sodoma del marchese de Sade18) e per l’immagine finale degli scalpi femminili inchiodati
alla croce. L’estrema destra francese organizza proteste violente contro il film, offrendo così al prefetto un pretesto per proibirne sine die la proiezione (il divieto resterà in vigore sino al 1981). Lo scandalo provocato da L’âge d’or, tuttavia, non coinvolge in prima persona Buñuel. Alcune settimane prima che si scateni la tempesta, infatti, il regista coglie al volo un’invitante opportunità: una delle più potenti case di produzione nordamericane, la Metro Goldwyn Mayer gli offre, probabilmente anche grazie a una raccomandazione di Marie-Laure de Noailles, un contratto di sei mesi per conoscere meglio la tecnica e i modi di produzione di Hollywood. Il 28 ottobre 1931, dunque, il regista parte per gli Stati Uniti. Il suo primo soggiorno a Hollywood è in buona parte infruttuoso, ma gli consente di conoscere molte personalità di rilievo (da Chaplin, di cui diviene amico, a Josef von Sternberg) e di studiare in profondità le logiche combinatorie che regolano la meccanica narrativa dei film di genere hollywoodiani19. Dopo il rientro in Europa, Buñuel vive tra Parigi e Madrid. Sono anni difficili, segnati da non poche difficoltà economiche alle quali il regista cerca di far fronte lavorando molto, in particolare come supervisore del doppiaggio in spagnolo dei film hollywoodiani, prima a Joinville per la Paramount e poi, dal 1934, a Madrid per la Warner. Con lo scandalo di L’âge d’or ancora incandescente alle sue spalle, per Buñuel non è semplice ritornare dietro la macchina da presa, ma dopo il fallimento di alcuni progetti (tra cui uno in collaborazione con André Gide), nell’aprile 1932, grazie anche a un risolutivo sostegno finanziario degli anarchici spagnoli, il regista inizia a realizzare il suo terzo film, girato interamente in Spagna. Il luogo delle riprese, Las Hurdes, una regione montagnosa molto povera dell’Estremadura, è anche il soggetto del film, nonché il suo titolo spagnolo: si tratta infatti di un documentario, l’unico dell’intera filmografia buñueliana, che vuole denunciare, con uno sguardo a tratti persino crudele e morboso, le dure e miserabili condizioni di vita della popolazione locale, analfabeta, denutrita, afflitta dalla malaria e dall’endogamia. Las Hurdes, accusato
dalle autorità politiche spagnole di ledere l’immagine della nazione, per decenni non poté essere proiettato pubblicamente in Spagna. Nel giugno del 1934 Buñuel decide finalmente di sposare Jeanne Rucar, con la quale era fidanzato da alcuni anni, e dall’unione nasce, nel novembre di quello stesso anno, il loro primogenito (e futuro regista) Juan Luis. La necessità di sostenere la sua nuova famiglia è una delle ragioni che portano Buñuel a intraprendere una strada cinematografica del tutto nuova, lontana dall’intransigente radicalismo delle sue prime regie. Da alcuni anni l’amico Ricardo Urgoiti, impresario e ingegnere del suono, era a capo della Filmófono, una società cinematografica madrilena molto attiva nel campo dell’esercizio e soprattutto della distribuzione di film, in particolare sovietici e francesi, sul territorio nazionale20. Nel 1935, la Filmófono estende le sue attività alla produzione in serie di film sonori di genere (in prevalenza melodrammi con canzoni). L’ambizione è quella di reagire all’egemonia dei film hollywoodiani girati in castigliano, proponendo film popolari d’ispirazione progressista, confezionati con professionalità, interpretati da attori e cantanti spagnoli di un certo rilievo e con storie un po’ diverse (in verità più nelle intenzioni che nei fatti) rispetto alle solite españoladas (film folcloristici, conformisti se non addirittura retrivi e pieni di stereotipi). Forte anche di un cospicuo capitale offerto dalla madre, Buñuel entra nella società svolgendovi il ruolo fondamentale del produttore esecutivo. In questa veste, assunta con seria convinzione, Buñuel mette a profitto ciò che aveva appreso nei pochi mesi trascorsi a Hollywood, quando aveva osservato e per certi versi ammirato i modi di produzione e di organizzazione del lavoro negli studios della Metro. Pur non volendo, almeno pubblicamente, associare il suo nome a un cinema commerciale che liquiderà in seguito con l’aggettivo «nefando», egli si rivela infatti un organizzatore severo ed efficiente, attento nel seguire e controllare passo per passo l’intero processo di lavorazione, dalla sceneggiatura al montaggio, a imporre la disciplina di un metodo di lavoro professionale, anche perfezionando con le sue competenze le eventuali
incertezze tecniche delle troupe e intervenendo persino dietro la macchina da presa, quando necessario. Prima che il drammatico deflagrare, a partire dall’estate 1936, del sanguinoso conflitto tra i sostenitori del legittimo governo repubblicano e i golpisti della destra nazionalista e fascista ponga fine agli ambiziosi progetti della società, la Filmófono riesce a editare quattro film, Don Quintín el amargao (t.l. Don Quintin l’amaro, 1935), drammone sull’onore e la paranoia maschile di cui lo stesso Buñuel dirigerà un remake in Messico, nel 1951 (La hija del engaño, t.l. La figlia dell’inganno), La hija de Juan Simón (t.l. La figlia di Juan Simon, 1935), da una pièce a sua volta ispirata a una celebre milonga degli anni venti nella quale si raccontava l’infelice destino della figlia di un becchino, ¿Quién me quiere a mí? (t.l. Chi mi ama?, 1936), una commedia sentimentale con riferimenti sul divorzio (legalizzato in Spagna già nel 1932) che tenta di lanciare, senza successo, una bambina prodigio, presentata come la risposta spagnola alla celebre piccola star hollwoodiana Shirley Temple, e infine ¡Centinela, alerta! (t.l. Sentinella, in guardia!, 1937), una parodia-musical del mondo militare con alcune sequenze girate dallo stesso Buñuel. LA GUERRA CIVILE E L’ESILIO
Se già la censura contro L’âge d’or e Las Hurdes, le difficoltà tecniche conseguite dalla nascita del cinema sonoro, la crescente urgenza di provvedere alla sua nuova famiglia e il clima politico sempre più conflittuale che stava portando la Spagna verso la catastrofe erano stati tutti fattori che avevano allontanato il regista dal cinema sperimentale e intransigente degli esordi, i tragici eventi della guerra civile spagnola, iniziata nel luglio 1936 a seguito di un tentativo di colpo di stato militare contro il legittimo governo del Frente Popular e conclusasi solo tre anni dopo, nella primavera del 1939, con la vittoria dei golpisti, aggravano ulteriormente tale lontananza. Quelli della guerra civile sono anche per Buñuel anni difficili e dolorosi (il 19 agosto 1936 gli arriva la tragica notizia della morte del suo amico
fraterno Federico García Lorca, ucciso dai golpisti), dedicati pressoché interamente alla causa repubblicana. Il regista è chiamato dal governo a svolgere un’intensa attività di missioni, alcune anche segrete, con base principale a Parigi e incessanti trasferte (non solo in Spagna ma anche a Ginevra, Londra, Stoccolma ecc.). Il suo compito principale è quello di promuovere la propaganda repubblicana, soprattutto cinematografica, all’estero (un ruolo che lo porta, tra l’altro, a supervisionare il montaggio del documentario España 1936 (1937), di cui alcune fonti gli attribuiscono erroneamente la regia). Nell’estate 1938 le sorti della repubblica sono ormai segnate (Madrid cadrà poi nelle mani dei franchisti alla fine di marzo dell’anno seguente) e la stessa Francia non è più un posto sicuro. Buñuel, temendo per l’incolumità sua e della famiglia, progetta di lasciare l’Europa per Los Angeles. A Hollywood si girano o si progettano numerosi film sulla guerra di Spagna (anche se ne usciranno poi solo due), spesso infarciti di errori e stereotipi: forse, come suggerisce a Buñuel il funzionario della Metro Frank Davis, conosciuto in occasione della sua prima trasferta oltreoceano, potrebbe essere utile una sua consulenza. Il 16 settembre 1938, quindi, Buñuel parte con la moglie e il figlio per affrontare il suo secondo periodo americano21, ben sapendo che durerà molto di più del precedente (ritornerà per la prima volta in Europa solo nel 1954, per incontrare la madre). Inizia così per il regista un periodo molto sofferto, segnato dal dolore per la fine della repubblica e soprattutto dalle gravi difficoltà economiche. Dopo avere constatato l’indifferenza di Hollywood, il regista si trasferisce a New York, in quegli anni di guerra rifugio molto più ospitale di Los Angeles per innumerevoli artisti e intellettuali europei (tra questi non pochi amici degli anni parigini, come André Breton, Max Ernst, Yves Tanguy). Qui, grazie a conoscenze comuni, entra in contatto con l’inglese Iris Barry, eccentrica conservatrice della cineteca del Museum of Modern Art (MoMA), la quale gli offre di lavorare nel prestigioso museo newyorchese per un progetto di diffusione e produzione dei documentari di propaganda in America Latina. Dal gennaio 1941 Buñuel sembra aver
finalmente trovato un’occupazione dignitosa e stabile, indispensabile per sostenere la sua famiglia (proprio a New York, nel 1940, era nato il suo secondo figlio, Rafael). Solo due anni mezzo dopo, però, nell’estate del 1943 è costretto a dimettersi, sulla scia di una campagna stampa denigratoria innescata dall’autobiografia di Dalí22, uscita l’anno prima. In essa il pittore catalano, ricordando le immagini, a suo avviso sacrileghe, di L’âge d’or, denunciava pubblicamente il suo ex amico come ateo («il che», come osserva Buñuel nelle sue memorie, «era quasi più grave di un’accusa di comunismo»23). Di nuovo in serie difficoltà economiche, Buñuel ritorna a Hollywood e riprende la ben poco gratificante occupazione di consulente per i film hollywoodiani doppiati in spagnolo. Il suo desiderio di fare cinema però non si è esaurito, anche se la sua ultima regia risale ormai a più di dieci anni prima e Hollywood mostra ancora una volta di non gradire le sue idee. GLI ANNI MESSICANI
Un’insperata opportunità per ritornare dietro la cinepresa gli si presenta, quasi casualmente, nel 1946, quando Oscar Dancigers, un abile produttore cinematografico indipendente di origine russa che Buñuel aveva conosciuto molti anni prima a Parigi, rifugiatosi in Messico durante la guerra, gli propone di trasferirsi a Città del Messico e di lavorare come regista per la sua società. Buñuel, pur non particolarmente attirato da quel paese, accetta l’invito, anche per allontanarsi dal clima sempre più ostile verso gli artisti di sinistra che sta maturando a Hollywood. Dopo sette anni negli Stati Uniti, del tutto infecondi sul piano artistico, inizia così una nuova e lunga fase nella parabola creativa di Buñuel, il cosiddetto “periodo messicano”. In questo paese Buñuel girerà ventuno dei trentadue film complessivi da lui realizzati. Se dal punto di vista artistico, come si vedrà, il periodo messicano si conclude nel 1965 con la produzione incompiuta di Simon del deserto (Simón del desierto), il regista in realtà, cittadino messicano dal 1949, vivrà a Città del
Messico sino alla sua morte nel 1983, limitando le sue trasferte in Europa solo per il tempo necessario alle riprese di alcuni film. Quando Buñuel inizia a lavorare con Dancigers, il cinema messicano sta vivendo la sua epoca d’oro, incoraggiato anche dal sostegno statunitense. La sua esportabilità, soprattutto nel mercato latino-americano, e la sua visibilità nei festival internazionali appaiono in costante crescita. I produttori possono contare su studi attrezzati, elevati livelli di professionalità, una collaudata politica di generi (dal melodramma rurale e, ancora più spesso, urbano alla commedia, sovente ibridata con il musical) e su uno star system apprezzato in tutto il continente. In questo contesto così dinamico, Dancigers occupa una posizione tutto sommato marginale, il suo standard produttivo è quello del piccolo film di genere a basso budget (in buona parte usato per pagare la star di turno) possibilmente esportabile, da girare in un paio di settimane. Buñuel sa bene che dovrà misurarsi con questa formula, accettando anche progetti poco esaltanti e attori mediocri o fuori parte, ma questo scenario non lo preoccupa, e non rappresenta nemmeno una novità, vista la sua precedente esperienza come produttore esecutivo della Filmófono. La sua capacità di lavorare con altalenante creatività su generi diversi lo porta a misurarsi senza soggezione con la commedia (El gran calavera, t.l. Il grande scapestrato, 1949, Subida al cielo, t.l. Salita al cielo, 1952, La ilusión viaja en tranvía, t.l. L’illusione viaggia in tram, 1954), anche musicale (Gran Casino, t.l. Gran Casinò, 1947), il dramma sociale (I figli della violenza, Violenza per una giovane, La joven - The Young One, 1960), il film d’avventura a sfondo esotico (Le avventure di Robinson Crusoe, Robinson Crusoe, 1954, La selva dei dannati, La mort en ce jardin, 1956), il melodramma passionale (Adolescenza torbida, Susana, 1951, La hija del engaño, Una mujer sin amor, t.l. Una donna senza amore, 1952, El bruto, t.l. Il bruto, 1953, Abismos de pasión - Cumbres borrascosas, t.l. Abissi di passione - Cime tempestose, 1953). Senza entrare nel merito dei singoli titoli (per i quali si rimanda al contributo di Bruno Surace pubblicato in
questo volume), va osservato come dopo le incertezze tecniche e organizzative sperimentate con il primo film messicano (Gran Casino), Buñuel metta a punto gradualmente un metodo di lavoro molto preciso, tutto improntato al risparmio e fondato su una meticolosa pianificazione preventiva delle riprese, con pochissimi ciak ripetuti. Questo modo di lavorare, via via sempre più professionale, non sempre garantisce ovviamente la realizzazione di film di successo (alcuni, come lo stesso Gran Casino, sono anzi degli autentici flop) ma gli consente di conquistarsi la piena fiducia prima di Dancigers e in seguito anche di altri produttori messicani come Manuel Barbachano Ponce e Gustavo Alatriste. Grazie alla sua affidabilità, Buñuel ha così la possibilità di realizzare non solo film apertamente commerciali ma anche progetti più personali come I figli della violenza, il film sui ragazzi di strada di Città del Messico che dopo quasi vent’anni riporta il suo nome al centro dell’attenzione internazionale, Él (1953), Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen, 1955), Nazarin, Viridiana (girato in Spagna ma prodotto da Alatriste), L’angelo sterminatore (El ángel exterminador, 1962). Sarebbe scorretto, tuttavia, distinguere nella filmografia messicana del regista aragonese le cosiddette opere d’autore dalle produzioni più “alimentari”: non esistono, infatti, due Buñuel, ma un solo regista, da un lato sempre coinvolto in toto e con assoluta professionalità nel progetto cinematografico del momento, dall’altro sempre attento, in nome della sua antica e incrollabile etica surrealista, a non tradire la sua coerenza e i suoi valori. Ecco perché, allora, tutti i film messicani di Buñuel sono, sia pure in modi e gradi molto diversi, organici a un modo di produzione e ai codici narrativi dei generi ma anche, al tempo stesso, assolutamente personali. Nella sua autobiografia il regista prova a immaginare quali film avrebbe realizzato se avesse avuto la reale possibilità di lavorare a Hollywood, come avevano fatto «tanti altri europei immigrati»24. I suoi possibili film hollywoodiani, stretti nei vincoli del «sistema americano», sarebbero stati sicuramente «diversi», scrive il regista. Nel suo lungo periodo messicano, Buñuel può seguire nei dettagli
l’intero processo di lavorazione di tutti i suoi film, dal più alimentare al più personale, intervenendo anche nella fase di scrittura (tranne che per i primi due film, Gran Casino e El gran calavera) nonché in postproduzione, supervisionando il montaggio. Nessuna casa di produzione americana gli avrebbe concesso tanto spazio di manovra. Così come le diffuse pratiche auto-censorie in vigore a Hollywood a difesa dei valori costitutivi della società borghese e capitalista, decisamente inasprite dall’immediato dopoguerra, avrebbero posto all’intransigente Buñuel problemi di gran lunga superiori rispetto a quelli che il regista incontrò in Messico. Nella sterminata bibliografia su Buñuel, il periodo messicano, per lungo tempo conosciuto solo in minima parte, è da alcuni decenni oggetto di profonde e sistematiche rivalutazioni25. Non sono pochi gli studi che s’impegnano a rintracciare nelle produzioni messicane del regista, in particolare in quelle più criticate dallo stesso Buñuel, una sorta di pura quanto isolata vena aurifera, ovvero gli indizi dispersi e le sparute conferme (una sequenza, una battuta di dialogo, un personaggio) capaci di assicurare l’esistenza di una poetica buñueliana malgré tout sempre integra e riconoscibile. Si tratta di un impegno senza dubbio lodevole che non di rado offre anche risultati interessanti, ma alla sua base si coglie una visione idealistica e precostituita di tale poetica. La peculiarità dell’esperienza messicana di Buñuel si comprende non tanto esaltando la capacità del regista di restare un artista malgrado tutto quanto considerando la singolarità di quel tutto, ossia la vera e propria osmosi che stratifica e unisce, mescolandoli spesso fino all’eccesso incandescente, il progressivo configurarsi di figure e ossessioni buñueliane alle narrazioni, riplasmate, provenienti dalle più diverse tradizioni letterarie così come agli stereotipi codificati dai grandi generi popolari, primo fra tutti il melodramma. Dalla seconda metà degli anni cinquanta, Buñuel, che pur amando il paese che l’ha accolto non si è mai sentito un regista messicano, inizia ad attirare il crescente interesse dei produttori stranieri. Nascono così le prime coproduzioni internazionali: franco-italiane per Gli
amanti di domani (Cela s’appelle l’aurore, 1956), film girato tra la Corsica e i dintorni di Nizza e per Il diario di una cameriera (Le journal d’une femme de chambre, 1964), girato tra Parigi e alcuni villaggi dell’Essonne; franco-messicane per La selva dei dannati e L’isola che scotta (La fièvre monte à El Pao, 1959), film però girati in Messico, come accade altresì per Violenza per una giovane, una coproduzione statunitense e messicana in lingua inglese. La coproduzione buñueliana più importante del periodo, tuttavia, è quella che nel 1961 unisce il facoltoso messicano Gustavo Alatriste, interessato a produrre film interpretati dalla moglie Silvia Pinal, a due società spagnole, la Unici e la Films 59, per la realizzazione di Viridiana, opera che avrebbe dovuto segnare il ritorno ufficiale di Buñuel nel suo paese d’origine dopo oltre vent’anni di esilio. Nel 1961 Viridiana, interpretato oltre che dalla Pinal anche da Fernando Rey (che reciterà poi in altri tre film importanti di Buñuel, diventando quasi il suo attore feticcio), rappresenta la Spagna al festival di Cannes, dove ottiene la Palma d’oro, ma poco dopo il film viene accusato di blasfemia dall’«Osservatore romano», l’influente organo di stampa del Vaticano che in particolare non gradisce il pugnale a forma di crocefisso tenuto in mano dalla protagonista e il riferimento all’Ultima Cena di Leonardo con i mendicanti al posto di Gesù e degli apostoli. L’indignazione della Chiesa mette in imbarazzo il regime franchista che vieta la distribuzione del film nel paese (gli spagnoli potranno vederlo solo nel 1977, dopo la morte del dittatore Francisco Franco). In Italia il film, distribuito solo nel gennaio 1963, sarà subito sequestrato su ordine della procura di Milano con l’accusa – poi archiviata – di vilipendio della religione di Stato. L’ULTIMO PERIODO FRANCESE
Tra la seconda metà degli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta, il cinema di Buñuel tende così a smarcarsi gradualmente dai forti legami con la produzione di genere che l’avevano sino ad allora
strettamente unito a un contesto produttivo come quello messicano, entrato peraltro da alcuni anni in una fase declinante. Come vedremo, dopo il 1965 il paese di riferimento per la produzione o la coproduzione di tutti i film del regista non sarà più il Messico (che resterà però sempre, fino alla morte, la sua residenza) ma la Francia26. Sarebbe semplicistico, tuttavia, separare rigidamente, nella parabola artistica buñueliana, un periodo messicano condizionato dai vincoli tipici delle produzioni commerciali di genere e un periodo francese alleviato dalla conquista della piena autonomia artistica: film come Nazarin, Viridiana, L’angelo sterminatore e Simon del deserto (rimasto incompiuto a metà per problemi finanziari) dimostrano come già nell’ultima fase del periodo messicano, anche grazie a un produttore anomalo come Gustavo Alatriste, il regista godesse ormai di una libertà creativa pressoché assoluta, limitata solo dalle censure di Stato. Ci si può chiedere, inoltre, in quale altro contesto produttivo nazionale, Buñuel avrebbe potuto realizzare, ancora prima dei titoli citati, film come I figli della violenza o Él. Buñuel inoltre, sin dai tempi della Filmófono, aveva sempre accettato di lavorare dentro gli apparati del cinema industriale, finanziato da produttori capitalisti e destinato al pubblico delle sale commerciali. «Sono molto cosciente del fatto», scrive nella sua autobiografia, «che sono stati investiti dei soldi nel film, che c’è il lavoro di molta altra gente, e questo mi dà una certa responsabilità»27. Vi è insomma sempre, nel regista, la consapevolezza che i suoi film debbano essere destinati a un mercato. Nel 1964, prima del suo ultimo film messicano (Simon del deserto), Buñuel realizza in Francia il già ricordato Il diario di una cameriera, dal romanzo omonimo di Octave Mirbeau, già portato sullo schermo nel 1946 da Jean Renoir. Il film, accolto con una certa delusione dalla critica dell’epoca, segna per il regista l’incontro con due personalità che svolgeranno un ruolo fondamentale nel successivo periodo francese (inaugurato con Bella di giorno): si tratta di Serge Silberman, produttore indipendente e innovativo che aveva già lavorato con Jean-Pierre Melville e Jacques Becker, e di Jean-Claude
Carrière, scrittore e sceneggiatore alle prime armi. Silberman consentirà a Buñuel di realizzare in assoluta libertà i suoi capolavori della maturità (La via lattea, La voie lactée, 1969, Il fascino discreto della borghesia, Le charme discret de la bourgeoisie, 1972, Il fantasma della libertà, Le fantôme de la liberté, 1974, Quell’oscuro oggetto del desiderio, Cet obscur objet du désir, 1977), mentre Carrière si rivelerà per il regista un partner di scrittura ideale. Buñuel, che soffriva, a suo dire, di un’agrafia aggravatasi negli anni, aveva sempre sceneggiato i suoi film con altri, il più delle volte con l’amico spagnolo Luis Alcoriza, anche lui esule in Messico, e con Julio Alejandro. Il rapporto con Carrière, tuttavia, andò ben al di là della semplice collaborazione, fu un vero e proprio sodalizio creativo e umano. Il primo titolo del periodo francese, prodotto non da Silberman ma dai fratelli Hakim, è Bella di giorno, tratto da un modesto romanzo di Joseph Kessel che all’epoca fece scandalo perché raccontava la doppia vita di una donna borghese (moglie repressa e prostituta in una casa di appuntamenti). Il film, vincitore nel 1967 del Leone d’oro al festival di Venezia, non è accolto benissimo dalla critica ma rappresenta il più grande successo di pubblico nella carriera del regista. Nel 1968, mentre prima la Francia e poi il mondo intero sono scossi da proteste giovanili alle quali Buñuel guarda con simpatia, il regista gira La via lattea, un viaggio picaresco nello spazio e nel tempo lungo le principali eresie nella storia della cristianità. Il film immagina, tra le altre cose, anche la fucilazione del papa da parte degli anarchici. La Chiesa però, inaspettatamente, non lancia anatemi, anzi, esprime il suo interesse verso il film, una posizione che facilita il ritorno del regista su un set spagnolo dopo il caso Viridiana. A Oviedo, Buñuel può quindi realizzare finalmente un suo vecchio progetto, Tristana, dal romanzo di Benito Pérez Galdós (autore realista molto apprezzato dal regista, nel 1958 aveva già adattato il romanzo Nazarin28). Se Tristana e Quell’oscuro oggetto del desiderio (l’ultimo film del regista, come si dirà meglio a breve) sviluppano due racconti tutto sommato lineari e incentrati su una sola coppia di personaggi
(Tristana/Don Lope nel primo film e Conchita/Mathieu nel secondo), Il fascino discreto della borghesia, premiato nel 1972 con l’Oscar per il miglior film straniero, e Il fantasma della libertà riprendono invece la struttura polifonica, episodica e solo in apparenza frammentaria della Via lattea, ricollegandosi alle sperimentazioni radicali dei primi due film surrealisti del regista. Nel Fascino discreto della borghesia, l’elemento di coesione è dato dal ripetuto quanto sempre vano tentativo da parte di un gruppo di borghesi di consumare un pasto, mentre Il fantasma della libertà è una costruzione a catena dove in ogni nuovo episodio si conferisce rilievo primario a un elemento (il più delle volte un personaggio) che nell’episodio precedente era invece secondario. Nel 1977 esce il già citato, Quell’oscuro oggetto del desiderio, tratto, molto liberamente, dal romanzo La femme et le pantin (1898) di Pierre Louÿs, già portato più volte sullo schermo (tra gli altri anche da Josef von Sternberg in Capriccio spagnolo, The Devil Is Woman, 1935). Il film, ulteriore e complessa variazione sul desiderio come frustrazione e atto mancato, propone, tra l’altro, un’ultima singolare invenzione buñueliana, ossia la scelta di far interpretare lo stesso ruolo (quello della protagonista Conchita) a due attrici molto diverse fra loro (Carole Bouquet e Angela Molina). Malgrado una progressiva forma di sordità che lo affligge ormai da molti anni e, soprattutto, l’insorgere di crescenti problemi di salute legati al diabete e a un tumore, Buñuel si impegna ancora in nuovi progetti cinematografici, primo fra tutti Agón, una sceneggiatura scritta nell’estate del 1978 con Carrière, per un film persino più sperimentale e libero degli ultimi realizzati, una parabola apocalittica incentrata su un gruppo terroristico che vuole far saltare in aria il Louvre29. Il regista, poco dopo, scrive, sempre con la decisiva collaborazione di Carrière, la sua autobiografia30, mentre grazie alla determinazione di Agustín Sánchez Vidal, curatore del progetto editoriale, collabora attivamente all’edizione dei suoi scritti letterari e cinematografici31. Purtroppo però il progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute vanificheranno la realizzazione di nuovi film: la sua ultima opera cinematografica resterà
Quell’oscuro oggetto del desiderio. Luis Buñuel, assistito fino all’ultimo istante dalla moglie Jeanne, muore la mattina del 29 luglio 1983, in una stanza dell’Ospedale inglese di Città del Messico, dov’era stato da poco ricoverato. FIGURE: DALL’EVIDENZA AL SIMULACRO
Una delle più originali peculiarità del cinema di Buñuel è il suo ricorrente caratterizzarsi per figure, ossia per oggettivazioni epifaniche e concrezioni visive di particolare forza rivelativa, legate a dinamiche, istanze ed energie intrapsichiche spesso inconsce o preconsce, particolarmente complesse ed eterogenee. I primi due film di Buñuel (Un chien andalou e L’âge d’or), realizzati, come si è detto, in collaborazione con Salvador Dalí, rappresentano forse l’intensificazione più radicale di tali figure, arrivando a proporre forme di espressione diretta del figurale32, pratiche di irruzione non mediata di immagini fantasmatiche prossime a scardinare l’orizzonte del visibile e a disgregare l’ordine del simbolico. I fantasmi deliranti e inconsci, emersi quasi con violenza nel processo di scrittura e poi riconfigurati attraverso il filtro critico-razionale del metodo paranoico-critico elaborato da Dalí, si dispiegano nei due film con particolare forza produttiva, articolando un tessuto testuale disseminato da fissazioni apparentemente irrelate ma in realtà filtrate da una sorvegliata strategia compositiva33. Anche se il cinema successivo di Buñuel non esprimerà una forza figurale distruttrice di analoga sovversione, l’intensità figurale e morfosimbolica di Un chien andalou e L’âge d’or costituirà comunque un continuo punto di riferimento ispirativo per il regista, come a indicare il grado più incandescente di una pluridecennale sperimentazione di figure e strutture che, soprattutto negli ultimi film del periodo francese, ritornerà ad avvicinarsi, sia pure in forme diverse, alla radicalità delle prime due opere. Le figure più diffuse dell’immaginario buñueliano – come ha dimostrato in particolare Linda Williams34 –
sono legate al desiderio, alla sua frustrazione (paura della castrazione, rimozione, autorepressione, atto mancato, mutilazione, mancanza ecc.) o alle sue devianze più o meno perverse. Tali figure del desiderio si presentano con tipologie, configurazioni e intensità differenti. In particolare, le ricorrenti scene del desiderio anomalo o deviato (feticismo, necrofilia, voyeurismo, esibizionismo ecc.) si propongono spesso come figure dell’evidenza, sono cioè elementi diegetici e scenici che tendono a inscriversi nel tessuto filmico con una certa chiarezza, presentandosi ora come scene articolate ora come immagini improvvise, e assumendo a seconda dei casi la dimensione della sequenza, dell’inquadratura o della singolarità specifica interna a una o più inquadrature. Altre figure, invece, tendono a presentare l’oggettivazione dei processi inconsci in modo meno referenziale, meno palese ma in compenso più ambiguo e latente, provando a configurare un visibile delle profondità intrapsichiche fondato su immagini fantasmatiche, memoriali, oniriche e allucinatorie. Altre figure, infine, come per esempio le scene legate all’Edipo e alla castrazione, si propongono in configurazioni strutturali più complesse dalla latenza più o meno forte, palesando l’inconscio in modo più indiretto, attraverso dinamiche sottotestuali. In questi casi le modalità di inscrizione della figura si collocano all’interno di un sistema testuale più ampio, ed è il sistema stesso a trasformarsi in figura. Queste figure sottotestuali riflettono una processualità in cui l’inconscio non emerge tanto in immagini singolari e anomale ma sembra presiedere anche alla struttura generale del testo, impregnandola dei propri meccanismi di funzionamento. Proprio per questa loro dimensione ritmico-processuale, le figure sottotestuali chiamano in causa direttamente le configurazioni narrative, e per questo motivo saranno considerate nel paragrafo successivo, dedicato proprio alle articolazioni morfosimboliche delle narrazioni buñueliane. Iniziamo qui, invece, a considerare la prima tipologia, le figure dell’evidenza. In esse i contenuti psichici sono oggettivati come elemento di una scena rappresentata.
Le figure dell’evidenza, in altri termini, sono scene che perfezionano i temi dell’immaginario presentandosi come determinazioni psichiche rilavorate nel contesto diegetico e dislocate in tutto o in modo prevalente nell’orizzonte del fenomenico. Esse non solo non alterano la logica della rappresentazione e del racconto, ma anzi la consolidano, intensificandone alcuni passaggi con la forza della particolarità. Un interessante esempio di figura dell’evidenza è la celebre sequenza di Bella di giorno in cui un corpulento cliente asiatico della casa di appuntamenti mostra alle prostitute l’interno di una misteriosa scatola. La visione del contenuto di quest’ultima è riservata solo a loro, mentre il pubblico, ogni volta che l’asiatico apre il cofanetto, può solo udire un singolare ronzio di insetti. L’unica a non restare disgustata dal contenuto della scatola e ad accettare di avere un rapporto sessuale con questo strano cliente che fa tintinnare con le mani dei campanelli (lo stesso suono, in quel caso però non fenomenico ma fantasmatico, che accompagnava la sequenza di apertura della carrozza) è proprio Séverine. Come ha osservato Cesarman, l’asiatico rappresenta «la pulsione sessuale in tutta la sua brutalità ma senza componenti sadiche; i campanelli e il ronzio della scatola paiono artifici destinati ad aumentare il piacere e rappresentano l’intensità della pulsione, come se questa scatola avesse conservato le formiche di Un chien andalou o l’ape salvata da Don Jaime in Viridiana»35. L’identità orientale del cliente e il suo linguaggio incomprensibile non fanno che accentuare la dimensione profondamente altra di questa pulsione. Una pulsione, si potrebbe aggiungere, che Séverine accetta di “guardare” all’interno, ma che al tempo stesso, non rivelandosi all’esterno il contenuto della scatola, si esplicita nel suo statuto enigmatico e inconoscibile. Nelle figure dell’evidenza, le sollecitazioni ossessive dell’inconscio, i percorsi di devianza o di sublimazione del desiderio si presentano come elementi governabili dalla psiche, riarticolati dentro il flusso del simbolico. In queste figure, allora, la forza di designazione della devianza e dell’anomalia, sia pure intensa, riporta la
devianza stessa nell’orizzonte rappresentativo, allargando la pertinenza della rappresentazione e la sua possibilità di assorbire e simbolizzare alcune forme di determinazioni inconsce. Come si è anticipato, però, non tutte le figure oggettivano i processi dell’inconscio restituendone con evidenza l’integrità all’interno di equilibrate logiche di simbolizzazione. Vi sono altri tipi di figure, infatti, che possono generare immagini dallo statuto più complesso, più o meno ambiguamente radicato nell’orizzonte esistenziale e intrapsichico. In questi casi, allora, prendono forma figure che potremmo definire a regime misto o sincretico, al tempo stesso palesi e latenti, che inscrivono nel visibile processi inconsci, preconsci e onirici configurandoli in immagini ambigue e polisemiche. Sono figure in cui l’immaginario prevale sul simbolico e la pulsionalità si esprime in scene a figurazione complessa, analoghe al sogno, all’allucinazione paranoica, alle immagini memoriali, con frequenti reciproche ibridazioni. Sono immagini in cui il figurale trova una sua oggettivazione visiva, pur senza scardinare il tessuto simbolico. Queste figure allucinatorie e oniriche possono anche attestarsi come fissazioni psichiche della devianza. Le anomale immagini di apertura di Bella di giorno, per esempio, con Séverine legata e frustata dai cocchieri della carrozza su ordine del marito, nel loro successivo rivelarsi come un sogno a occhi aperti della protagonista, oggettivano un’evidente fantasia autopunitiva della protagonista, proponendosi come la traccia scenica di un desiderio non solo di espiazione ma anche di un superamento dell’interdetto, di un allargamento dell’esperienza del piacere che proclami la sovranità dell’erotismo contro le costrizioni della morale diffusa36. Sin da questa prima figura che disloca una profonda fissazione psichica nell’orizzonte del rappresentato, quindi, la protagonista, attraverso la propria immagine speculare fantasmatizzata, inizia a scoprire una nuova variante della propria psiche e si costituisce come una nuova soggettività, percorsa selvaggiamente dalle avventure di un eros masochistico.
La sequenza appena descritta dimostra come le figure buñueliane svolgano spesso una funzione di sublimazione eterodossa della libido e si configurino come scene devianti sostitutive dell’appagamento del desiderio. Tale aspetto è molto evidente, per esempio, anche nella sequenza finale di Abismos de pasión Cumbres borrascosas, quando Alejandro raggiunge la tomba dell’amata e la scoperchia per vedere ancora la donna e abbracciarla e baciarla. Questa figura esalta in primo luogo l’amour fou, condizione desiderante talmente eccedente da determinare nel soggetto l’insorgere di processi deliranti e allucinatori (Alejandro vede il fantasma dell’amata al posto dell’uomo, il fratello di lei, che sta per ucciderlo). Il protagonista, stravolto dall’energia pulsionale, sperimenta il dissolversi del senso di realtà e la perdita di sé. Nel suo intrecciare in modo palese, con un certo gusto necrofilo, eros e morte (un intreccio amplificato anche dal brano scelto per il commento musicale, il Liebestod da Tristan und Isolde di Wagner già utilizzato per Un chien andalou e L’âge d’or)37, la scena finale del film attesta come l’esaltazione pulsionale sia profondamente correlata a una dimensione (auto)distruttiva del soggetto: la libido mostra di essere radicalmente collegata alla pulsione di morte, come se si trattasse di due forze interne alla soggettività e inestricabilmente legate. Ancora più complesse, e non più riferibili soltanto a un inconscio individuale, sono le figure sincretiche progressivamente disseminate in Il fascino discreto della borghesia. Qui, come si vedrà più in dettaglio nel paragrafo successivo dedicato alle configurazioni narrative, l’irruzione progressiva delle scene oniriche, programmata con una chiarezza insieme assoluta e ambigua, arriva a innervare l’intero orizzonte testuale del film, proponendo differenti modalità di integrazione del sogno (o dell’allucinazione) nella struttura narrativa, e differenti forme di messa in scena. Nel terzo e nel quarto episodio del film, per esempio, due personaggi marginali raccontano rispettivamente un ricordo d’infanzia (che riprende il titolo del famoso saggio di Freud su Leonardo)38 e un sogno che vengono annunciati e
presentati come tali. Il ricordo d’infanzia tuttavia propone una madre morta che parla e spinge il figlio all’omicidio del presunto padre: è un segmento visivo che si presenta dunque con caratteristiche allucinatorie od oniriche piuttosto che memoriali e smentisce con la concretezza delle immagini l’enunciato iniziale. Il sogno narrato dal sergente, poi, non solo evoca uno spazio oscuro e rivela un legame madre-figlio che sembra un rapporto sentimentale, ma introduce di fatto una discrepanza, una frattura tra l’enunciato verbale e l’immagine. Mentre il narratore parla di una strada con molti negozi lo spettatore vede uno spazio buio e vuoto, e successivamente la hall poco illuminata di una casa. La madre incontrata è poi una giovane donna con la quale il protagonista pare avere un rapporto dagli accenti intimi e sentimentali. Questo iato tra la voce over narrante e il visibile costituisce evidentemente un elemento enigmatico, ancorché non particolarmente sottolineato. Sia il segmento onirico, sia il segmento allucinatorio sono d’altronde messi in scena con una prevalenza di immagini oscure, immerse nel buio o nella penombra, e poco leggibili. Le componenti di singolarità che caratterizzano i due segmenti, oltre ai contenuti specifici del materiale onirico e fantasmatico, ne sottolineano il carattere di figure dall’evidente connotazione edipica, legate anche al nesso eros/thanatos. E nelle forme stesse dell’inconscio oggettivato l’istanza edipica sembra giocare un supplementare ruolo figurale, che altera la regolarità del simbolico. Nel quinto e nel sesto episodio invece lo spettatore scopre soltanto a posteriori di avere visto due sogni e non due eventi nell’ordine dei fenomeni. Ma alla fine del sesto episodio lo spettatore comprende ancora di aver visto un sogno dentro un altro sogno e cioè un meccanismo di oggettivazione dell’inconscio di un personaggio che ha prodotto anche l’apparente sogno di un altro personaggio. Questo processo di produzione di un sogno dentro un altro sogno introduce di fatto una sorta di scissione potenziale all’interno dell’inconscio del personaggio che sogna. Si tratta in questo caso di una figura complessa che rivela la dimensione fittizia e simulacrale dei ruoli e delle
funzioni, delle abitudini e dei riti sociali: è quindi una figura simulacrale intensiva che si oggettiva dentro il raddoppiamento del sogno sognato. Il carattere di simulacro, di copia senza originale delle funzioni e dei riti sociali è infatti mostrato dentro il sogno sognato, cioè nel sogno-copia senza originale39. Le figure simulacrali intensive sono anch’esse concrezioni spazio-temporali caratterizzate da una particolare forza rivelativa. Nel cinema di Buñuel sono di due tipi: sono innanzitutto forme raddoppiate, fittizie di simulazione del desiderio deviato; sono in secondo luogo forme di simulazione della simulazione sociale e mondana (come si può vedere in film come L’angelo sterminatore o Il fascino discreto della borghesia). Anche quando trasformano le rappresentazioni del desiderio in simulacro, le figure simulacrali riflettono in ogni modo un’altra logica. La figura simulacro è infatti il risultato di un processo di sublimazione in cui l’immagine del sé per oggettivarsi deve scindersi e raddoppiarsi, deve apparire come altro per diventare riconoscibile. Questo processo di oggettivazione dell’immagine è un processo in cui l’Io riconosce la propria immagine solo attraverso l’oggettivazione, il raddoppiamento, la costituzione del doppio. È un processo che la psicoanalisi e Lacan in particolare hanno individuato e interpretato come un passaggio fondamentale nella costituzione della soggettività. Nella figura simulacrale si realizza quindi un processo semiotico e filmico che, nell’oggettivare il meccanismo di raddoppiamento, allude alla struttura stessa della costituzione dell’Io. La figura simulacro dunque introduce nella gamma delle figure buñueliane una figura che riflette uno statuto simbolico diverso e che allarga l’orizzonte della pertinenza della figura su un piano di interazione diversa tra immaginario e simbolico. Un’intensa determinazione simulacrale delle immagini è attestata, ad esempio, in due tra le più celebri sequenze di Viridiana. Il protagonista di entrambe è Don Jaime (Fernando Rey), ossessionato – com’è noto – dal desiderio irrealizzato per Elvira, la moglie, morta improvvisamente durante la prima notte di nozze, senza
mai – si presume – avere consumato con lo sposo un atto sessuale. Nella prima sequenza vediamo Don Jaime che, nel cuore della notte e protetto dall’intimità della sua stanza, s’infila la scarpa nuziale appartenuta alla moglie e poi prova a indossare, davanti allo specchio, un corsetto femminile. La seconda sequenza invece, ambientata nella notte successiva, mette in scena il corpo narcotizzato di Viridiana disteso, quasi come un cadavere, sul letto di Don Jaime. La donna è vestita con l’abito da sposa che Elvira indossava al momento della morte. Don Jaime sta per abusare di lei ma poi, sopraffatto da uno scrupolo morale, finisce per desistere. In entrambe le situazioni l’ossessione desiderante di Don Jaime per la moglie morta prematuramente è oggettivata attraverso il motivo del corpo assente, attivato con due modalità differenti ma accomunate dal fatto di evocare entrambe la dimensione del simulacro. Nella prima sequenza, l’assenza di Elvira è presentificata attraverso i suoi capi nuziali indossati da Don Jaime, evidenti simulacri feticisti, mentre nella seconda sequenza appare con turbativa chiarezza lo statuto simulacrale del corpo addormentato di Viridiana, copia differenziale del soggetto assente. Queste rappresentazioni simulacrali del desiderio deviato sono spesso realizzate da Buñuel attraverso una sorta di raddoppiamento del senso della scena: quest’ultima si propone al tempo stesso come registrazione e come leggera eccedenza del fenomenico, come segmento del mondo visibile e sua estensione simulacrale. È come se le immagini della devianza fossero sdoppiate, è come se Buñuel volesse proporre l’anomalia come un elemento fenomenico indiscutibile e allo stesso tempo scegliesse di prendere da essa le distanze, sottolineando, del comportamento anomalo descritto, il carattere di scena legittima ma miserevole e forse anche risibile. Ciò può accadere introducendo una distanza straniante rispetto all’azione delineata, o ancora sottolineando aspetti particolari del comportamento dei personaggi, rendendo leggermente sopra le righe l’interpretazione della devianza pulsionale. Quest’ultima, allora, è descritta ma anche presentata nella sua natura,
per così dire, microscenica e microteatrale, per palesarne quindi il carattere fittizio. È proprio questo doppio regime delle figure dell’evidenza a rendere la rappresentazione buñueliana del desiderio meno scontata e più e sofisticata. Tale procedimento, ad esempio, si può cogliere con chiarezza in due sequenze, la prima tratta da Il fantasma della libertà, la seconda da Bella di giorno. Si tratta di sequenze molto diverse, accomunate però dal loro riferirsi entrambe a una fissazione erotica deviata come la necrofilia. Nel prologo di Il fantasma della libertà, un ufficiale napoleonico si appresta a violare il cadavere di una defunta, dona Elvira. In questa evocazione del desiderio necrofilo, Buñuel introduce due componenti di distanziamento. Il primo è costituito dalla presenza di una voce over che legge un testo letterario non privo di una retorica un po’ sopra le righe. La voce over distanzia il visibile, dando l’impressione che esso sia il prodotto di una narrazione letteraria, per di più enfatica. Un secondo e più forte effetto di distanziamento è prodotto dalla rivelazione, inattesa, che il volto di dona Elvira nella bara è rimasto intatto: un particolare che pone l’evocazione rappresentativa sotto il segno dell’irrazionalità, cancellandone la verosimiglianza e affermando il carattere di singolarità e di sostanziale allucinazione dell’immagine stessa. Su un piano figurale più complesso si colloca invece la sequenza dedicata al tema necrofilo di Bella di giorno. Proprio al centro del film, Séverine, invitata in un castello, è collocata all’interno di una bara in un rito funerario che si conclude con un presumibile atto onanistico del suo raffinato proprietario, il duca. Qui l’evocazione necrofila, raffinata e complessa, è subito attraversata da determinazioni visive che rimandano al già ricordato segmento onirico-fantasmatico di apertura del film: la carrozza con i cocchieri che indossano abiti ottocenteschi e i miagolii misteriosi di gatti invisibili sono segni qualificanti di una sequenza probabilmente onirica. Questa ripresa di elementi visivi e sonori legati all’orizzonte del sogno costituisce evidentemente una modalità specifica di ripianificazione semantica della
rappresentazione della devianza. Il risultato è un’ambiguazione profonda della sequenza, il cui regime non definito (onirico, allucinatorio, fenomenico?) costituisce un elemento di straniamento delle immagini. Ma c’è di più: questo incontro erotico così anomalo si configura di fatto come una solenne cerimonia, come una liturgia para-religiosa legata al culto dei morti. Tale indubbia componente di cerimonialità sottolinea il carattere di scena abitualmente assunto dalla devianza nel cinema di Buñuel40. Il desiderio deviato si oggettiva quindi non come pulsione irresistibile, ma come microsituazione messa in scena. La ritualità scenica appare come la condizione di esistenza della devianza stessa: è solo perché c’è scena che la devianza supera la dimensione virtuale e si inscrive nel mondo fenomenico. Questa dinamica si palesa con evidenza in due altri momenti del cinema di Buñuel, tratti, nuovamente, da Bella di giorno e dal Fantasma della libertà, e accomunati dal riferirsi entrambi al desiderio deviante masochistico. La sequenza del cliente masochista che, in Bella di giorno, desidera essere punito e frustato è costruita dal cliente stesso come una scena nella scena: l’uomo travestito da maggiordomo è dapprima sgridato e poi punito dalla (finta) padrona sadica. Il cliente pianifica un percorso di presunte colpe commesse per autorizzare la punizione da parte della donna. La rappresentazione buñueliana esplicita i caratteri fondamentali del masochismo: il bisogno di punizione e il senso di colpa legittimano la ricerca masochistica del piacere attraverso l’umiliazione subita, con un’evidente esibizione della funzione repressiva di una donna che incarna la madre giusta e punitiva. Proprio la scelta dei caratteri essenziali del masochismo e il ricorso a una doppia messa in scena rendono la rappresentazione buñueliana eccessiva nella sua canonicità quasi da manuale illustrato. E l’evidente eccesso nella simulazione della simulazione garantisce il distanziamento. D’altronde la scena nella scena predisposta da Buñuel introduce una serie di altri slittamenti di devianza in devianza. L’esercizio del masochismo è infatti da un lato legato al travestitismo e
dall’altro connesso all’esercizio del voyeurismo da parte di Séverine, che spia e scopre attraverso un buco nel muro una pratica da manuale di masochismo. Ma quello che vede Séverine dallo spioncino non è soltanto il masochismo da vulgata del cliente travestito, ma l’oggettivazione stessa, attraverso un rappresentante sostitutivo, del fantasma masochistico da cui Séverine è affetta. Se la simulazione nella simulazione produce il distanziamento ironico della rappresentazione, lo slittamento del masochismo da un soggetto all’altro, dall’oggetto al soggetto della visione voyeuristica, attribuisce un’altra rilevanza al visibile, integrando a un’immagine tutta leggibile una relazione nascosta ben più significativa e incandescente. Anche la rappresentazione dell’episodio di masochismo esplicito in Il fantasma della libertà riprende gli elementi essenziali della messa in scena appena descritta in Bella di giorno, aggiungendo però alcune determinazioni e sottraendone altre. Innanzitutto Buñuel sottolinea il momento della preparazione della messa in scena, mostrando i due protagonisti dell’episodio masochistico mentre indossano indumenti adeguati. In questo modo Buñuel costruisce un’anticipazione del gioco masochistico e prepara lo spettatore alla visione. Insieme introduce una componente di esplicito esibizionismo come elemento essenziale per la piena realizzazione del rito masochistico. Un’invocazione del masochista introduce poi nel film un aspetto palesemente ironico che distanzia ulteriormente la rappresentazione della perversione ed evidenzia l’humour noir, uno dei tratti distintivi del cinema di Buñuel41. L’umorismo, in questo caso così come – più estensivamente – in tutto l’episodio della serata nella locanda con i frati, risulta capace di evidenziare la natura relativa e fittizia dell’evento oggettivato, così da sottolineare il carattere di copia eccessiva, di ripetizione grottesca di un microfenomeno, cioè, ancora, il suo carattere di figura simulacrale. Ciò che avvicina le due sequenze masochistiche, pur così diverse, di Bella di giorno e del Fantasma della libertà, è il loro costituirsi in immagini che appaiono raddoppiate
o citate, ossia esibite come un’illustrazione ironica del masochismo in generale e quindi di un originale che invero non c’è, perché a monte vi è solo una vulgata da manuale del masochismo, una sua generica immagine mediatica. In questi casi dunque l’immagine è una forma visiva costituita da una citazione, dalla ripresa di qualcosa che a rigore non c’è ma è presente nell’immaginario diffuso, cioè – per l’appunto – un simulacro, che nell’accezione buñueliana ha sempre una componente distanziante grottesca, irrealistica e ironica. NARRAZIONI: CINQUE MODELLI DI CONFIGURAZIONE MORFOSIMBOLICA
Come si è anticipato, le figure buñueliane, non solo quelle dell’inconscio e del desiderio, possono proporsi come invenzioni puntuali ed evidenti ma anche come configurazioni strutturali complesse e a volte latenti, in grado di inscriversi più estensivamente nel sistema-film, e dunque anche, e soprattutto, nei processi di narrazione. Al centro di questo paragrafo si porrà quindi una riflessione sulle strutture narrative del cinema buñueliano, interpretate nel loro rapporto con il dispiegarsi di figure sottotestuali non di rado ambigue e contraddittorie. Tutto il cinema di Buñuel, d’altronde, è attraversato da una costante vocazione al racconto. Quest’affermazione vale non solo, come può sembrare ovvio, per i film del periodo messicano, impegnati in un deliberato confronto con i modelli narrativi del cinema di genere, in primo luogo del melodramma, ma anche per gli ultimi film del periodo francese, inclini alla sperimentazione di strutture narrative sempre più eterogenee ed enigmatiche, e persino per Un chien andalou e L’âge d’or, opere nelle quali è possibile trovare una micronarrazione anomala e tuttavia operante42. Quest’adesione del cinema buñueliano alla narratività è profondamente correlata alla centralità che vi assume al suo interno l’inconscio. L’ipotesi di un’eventuale verità latente dell’inconscio, ai limiti dell’inesprimibile eppure
celata nell’espressione, implica infatti, per definizione, l’istituzione di un enigma, e quest’ultimo si dispiega elettivamente proprio nelle spirali configuranti del racconto. Nel film senza narrazione, cioè senza un contesto logico di riferimento, senza strutture spaziotemporali coordinate, non ci sarebbe infatti la possibilità di creare un enigma. L’enigma è l’affermarsi di una condizione di irresoluzione logica di un insieme di elementi strutturati: e nel cinema di Buñuel la garanzia di struttura è assicurata proprio dal racconto. Per avviare una riflessione interpretativa sulle strutture narrative del cinema buñueliano può essere utile riferirsi alla nozione ricoeuriana di configurazione43, un concetto che implica allo stesso tempo l’idea di figurazione e l’idea di composizione dei materiali e sottolinea efficacemente il carattere di composizione con figure o di figure che caratterizza i racconti filmici di Buñuel. La configurazione narrativa, d’altra parte, si attua non solo con la costruzione dell’intrigo ma anche nella messa in forma di tutti gli elementi, nel caso del cinema buñueliano sempre molto eterogenei, che costituiscono il testo narrativo. La configurazione narrativa sistema, rioridina, temporalizza, correla e dà senso ai materiali impiegati, riconducendoli a una molteplicità di sensi coerente, in un disegno unitario. Se l’azione «può essere raccontata, vuol dire che essa è […] sempre mediata simbolicamente»44, ne consegue che il riconoscimento dell’importanza della configurazione del racconto nel testo filmico dev’essere correlato alla considerazione delle modalità specifiche, simboliche e quindi linguistiche e formali attraverso cui le configurazioni diventano testo. Il concetto di configurazione pone dunque l’accento sulle forme simboliche dell’oggettivazione degli eventi e dell’immaginario. Se studiata da questa prospettiva morfo-simbolica, allora, la filmografia buñueliana può rivelare almeno cinque differenti modalità di configurazione delle strutture narrative, condizionate anche dal posizionamento, dall’intensità e dalla ricorsività delle figure che operano diffusamente al loro interno.
Un primo modello è rappresentato dai film in cui le dinamiche narrative sono in parte orientate da una certa istanza ideologica, sostanziata in una severa accusa contro le diseguaglianze sociali, le classi dominanti e i valori tradizionali. Queste dinamiche narrative sono più che evidenti in un film come I figli della violenza, nato dall’intenzione di raccontare storie di emarginazione e criminalità aventi per protagonisti i ragazzi delle periferie sottosviluppate di Città del Messico. Elementi di rappresentazione critica del presente sono ravvisabili tuttavia anche in altri racconti buñueliani, come Nazarin (dove la critica ai fondamenti della società autoritaria, ossia esercito, clero e padroni, si intreccia con la critica all’utopia messianica, non solo inutile ma dannosa, e con un pessimistico scetticismo verso l’umanità intera), Violenza per una giovane (sobrio atto di denuncia antirazzista la cui struttura «mescola con grande cura del dosaggio ideologia e racconto»45) o persino Viridiana. In quest’ultimo film, l’analisi del mondo arretrato e immobile della Spagna tradizionale e delle classi dominanti è efficacemente collegata alla critica della religione e della morale cristiana, oscurantista, repressiva e mortifera. L’ignavia e l’antistoricità di Don Jaime, l’inutilità delle pratiche religiose, la doppiezza e la falsità dei personaggi che si dicono cristiani, si intrecciano con la rappresentazione della funzionalità operativa delle nuove classi sociali, personificate da Jorge, che hanno un atteggiamento attivo verso la vita. Buñuel giustappone, in una scena di indubbia forza, Viridiana e i mendicanti che pregano a Jorge e agli operai che lavorano con strumenti efficaci e funzionali. Ma certo il regista non vuole esaltare un comportamento rispetto a un altro. Il suo sguardo entomologico investe radicalmente tutto l’orizzonte sociale e i personaggi descritti, mostrando insieme la vanità improduttiva e autodistruttiva del misterioso Don Jaime, l’irrealizzabilità del progetto cristiano di Viridiana e la mediocrità della prospettiva pragmatica rappresentata da Jorge. Il mondo spagnolo appare come una sorta di regno della morte46.
Anche se parzialmente condizionate da componenti ideologiche, le strutture narrative di questi film non procedono comunque mai per tesi precostituite né propongono semplificazioni assiologiche fondate su facili contrapposizioni tra personaggi positivi e negativi o calcolati coinvolgimenti patemici. Un secondo modello di organizzazione delle strutture narrative buñueliane è costituito da racconti dall’andamento prevalentemente lineare con intense ma isolate emergenze di figure inconsce oniriche o desideranti. A questa tipologia morfosimbolica si possono ricondurre numerosi film, in particolare del periodo messicano; tra questi Subida al cielo (si pensi all’elaborato sogno di Oliveiro con la corriera che si trasforma in un bosco tropicale), Le avventure di Robinson Crusoe (dove la solitudine del protagonista è compensata da fantasticherie, allucinazioni, sogni), Él (con le fissazioni erotiche e paranoiche di Francisco, culminanti nel delirio allucinatorio nella cattedrale), Simon del deserto (in cui il protagonista, eremita su una colonna, oggettiva le proprie ossessioni fantasmatiche tra erotismo e fede nelle apparizioni conturbanti e tentatrici di un attraente diavolo femminile), Il diario di una cameriera (si vedano in particolare il compulsivo feticismo di Rabour e la sua morte, ulteriore variante sul nesso eros/thanatos). Il terzo modello di articolazione narrativa si distingue dal precedente perché, pur mantenendo una certa linearità di racconto – sia pure sempre più compromessa –, presenta una più diffusa e sistematica presenza di figure inconsce oniriche e desideranti. L’eterogeneità e l’intensità di queste figure trovano un senso grazie al riordino configurante della narrazione. È proprio il confronto con la logica del racconto e le sue leggi che accresce la vibrazione semantica espressa da fantasticherie, allucinazioni, sogni e (falsi) ricordi. Questa configurazione narrativa che informa film come L’angelo sterminatore, Bella di giorno, Tristana e Quell’oscuro oggetto del desiderio, può operare intenzionalmente su più livelli. La composita struttura testuale di Bella di giorno, per esempio, offre un primo
livello di lettura, decisamente di superficie, che illustra le forme più banali del desiderio e della devianza. Si tratta, in particolare, dei comportamenti dei clienti della casa di appuntamenti, che Buñuel descrive, come si è visto nel paragrafo precedente, con distacco leggermente ironico nei passaggi meno personali del film. Sono rappresentazioni del desiderio, più che figure, in quanto prive di quella intensità rivelativa, di quella forza intrinseca che caratterizzano le concrezioni figurali. A questo primo livello di lettura se ne aggiunge un altro, più profondo, intessuto di irruzioni inconsce, di formazioni figurali micropsichiche, che destabilizza la linearità narrativo-rappresentativa e delinea un sottotesto complesso, caratterizzato da un’intenzionale sistematica ambiguazione figurale forse non pienamente comprensibile. Nel film infatti diventa difficile capire quale orizzonte visivo sia radicato nel sogno, quale nella fantasticheria o nell’allucinazione e quale invece nella realtà (all’interno ovviamente dell’universo diegetico del film). Le sequenze finali in particolare sembrano moltiplicare l’ambiguità. Dopo il tentativo di omicidio di Pierre da parte di Marcel, il segmento finale è segnato insieme dalla ripetizione e dalla contraddizione. Lo spettatore fatica a capire, di questo episodio conclusivo, se si tratta di un racconto che mescola il reale e l’immaginario, o di un racconto radicato nell’immaginario o nell’inconscio, che si oppone ad altri segmenti del film affondati nel fenomenico. Sono ipotesi di interpretazione diverse che anche l’analista dipana con difficoltà. Buñuel infatti sembra aver costruito un sottotesto segreto che si rivela alla fine insondabile. Vale la pena ricordare brevemente, allora, che cosa avviene in questo segmento finale. Séverine lascia temporaneamente il soggiorno, dove sta accudendo Pierre, immobilizzato su una poltrona e incapace di parlare, per incontrare Husson. Questi le comunica la sua intenzione di raccontare al marito la doppia vita della donna. Mentre Husson parla con il marito, Séverine attende con ansia e poi rientra in soggiorno. Si siede sul divano a cucire. Pierre si toglie gli occhiali e ricomincia a parlare normalmente. D’improvviso l’uomo non è più immobilizzato. I due si abbracciano. Dallo sguardo
sorridente di Séverine il sonoro assume un carattere fantasmatico ed è irrazionalmente invaso dal rumore della carrozza con i relativi campanelli, integrato dai misteriosi miagolii di gatti, già ascoltati nell’episodio necrofilo del duca. Poi Séverine va al balcone per guardare fuori. Sullo sfondo si vedono alberi verdi e rigogliosi. Riappare la carrozza iniziale con i due cocchieri, ma senza passeggeri: la carrozza avanza nel bosco, già visto all’inizio, mentre il sonoro ossessivo con i rumori metallici dei campanelli e i miagolii dei gatti continua. Il segmento propone figure intimamente contraddittorie e illogiche, che evidenziano la complessità dell’inconscio, e mostrano apertamente quanto sia impalpabile la separazione tra immagini fantasmatiche e immagini fenomeniche, tra realtà e inconscio all’interno del film. L’impalpabilità del passaggio tra due regimi diversi del visibile è infatti così radicale che non avviene con la cesura del montaggio, ma all’interno di una medesima inquadratura (Séverine ripresa in oggettiva mentre guarda fuori dal balcone), come se tutto il visibile dipendesse soltanto dall’attività mentale della protagonista. Altre figure, tuttavia, intervengono a complicare la situazione. Da un lato gli alberi appaiono ora verdi e rigogliosi di foglie, ora secchi e con le foglie gialle. Dall’altro le immagini che si susseguono, paiono avere una consequenzialità relativa o addirittura nulla. L’alloggio di Séverine sembra ad esempio dapprima all’interno di Parigi, ma nell’ultima inquadratura pare permettere la visione diretta della carrozza nel bosco. È evidente che sia le inquadrature iniziali della carrozza, sia quelle finali hanno una natura assolutamente immaginaria e forse tutto il film si configura quindi come un’avventura all’interno dell’immaginario e del mondo onirico o fantasmatico di Séverine. Bella di giorno risulta quindi un film intessuto di elementi fortemente ambigui dislocati in piani di significazione diversi, di figure rappresentative o figurali, che alla fine appaiono irriducibili a una struttura coerente. Così la figura sottotestuale del film appare
infine segnata dall’oscurità contraddittoria, dall’enigma47. Nel quarto modello di organizzazione morfosimbolica delle dinamiche di racconto, questa dimensione enigmatica e contraddittoria delle strutture testuali e sottotestuali risulta ancora più complessa e organizzata. In questo caso infatti si ha a che fare con racconti incentrati su vere e proprie narrazioni autres (disgregate o disseminate), costruite ad esempio su modelli interni anomali, riti, ripetizioni o slittamenti irragionevoli (la ripetizione del rito del pranzo in Il fascino discreto della borghesia), su una struttura narrativa che da un episodio all’altro segue un personaggio secondario (Il fantasma della libertà) o su un sistema narrativo che prevede variazioni interne a un universo simbolico forte (La via lattea). Un film come Il fascino discreto della borghesia, ad esempio, si propone come un meccanismo a incastro di particolare sofisticazione, costruito com’è sulla base di due figure già conosciute e assolutamente rilevanti nel cinema di Buñuel, la ripetizione e l’atto mancato48. La ripetizione sottolinea il carattere rituale dei comportamenti sociali descritti e allude indirettamente al meccanismo inconscio della coazione a ripetere, legato al principio del piacere, ma anche alla pulsione di morte. La ripetizione, in ogni modo, è strettamente collegata all’atto mancato: segna non soltanto una costante comportamentale, ma anche il ripetersi di una irrealizzazione e di una frustrazione. L’iterazione di un atto mancato costituisce dunque la prima forma evidente di sottotesto del racconto filmico e rinvia a meccanismi radicati nella profondità dell’inconscio dell’autore. L’orizzonte testuale del film è in ogni modo fortemente segnato, come si è già osservato nel paragrafo precedente, dalla funzione che vi svolge il sogno. Nell’ultimo blocco di pranzi mancati, in particolare, il meccanismo di oggettivazione dell’onirico presenta aspetti di grande complessità. Non solo la rivelazione della natura di sogno delle immagini si colloca sempre alla fine del sogno medesimo, ma il sistema del sogno nel sogno si ripete in un’accezione più articolata. L’episodio del brigadiere insanguinato viene infatti prospettato
inizialmente attraverso il racconto di un gendarme interno al sogno del commissario di polizia che alla fine si attesterà a sua volta interno al sogno di Don Rafael. È un meccanismo di narrazione a cassetti o a scatole cinesi, in cui il soggetto narrante si rivela interno al testo e a volte anche ad alcuni microracconti interni. La tecnica di imbricazione tra i segmenti del film si presenta di fatto come un sottotesto strutturale che garantisce la coerenza interiore del film. La rivelazione nel penultimo segmento del sogno di Don Rafael e il suo spuntino notturno, d’altronde, potrebbero forse suggerire il carattere onirico di tutto il film, visualizzazione particolare di un lungo e articolato sogno ossessivo di Don Rafael, legato in primo luogo alla sua occasionale fame notturna. Il film, d’altra parte, inizia con un viaggio in auto nella notte, che potrebbe anche alludere a una dimensione onirica; d’altra parte le incongruenze tra le enunciazioni verbali del racconto d’infanzia e del sogno del sergente e le relative visualizzazioni sembrano attestare un regime illogico e fantasmatico delle immagini. Va ricordato, inoltre, come lo sviluppo narrativo del film sia interrotto da tre inserti di immagini dedicate al gruppo dei sei personaggi principali che camminano senza parlare lungo una strada di campagna da mezzogiorno al tramonto. Sono tre inserti collocati rispettivamente tra il secondo e il terzo pranzo, tra il sesto e il settimo e alla fine del film. Le immagini dei sei personaggi, forse in cerca del proprio destino, compaiono dunque come conclusione effettiva del percorso simbolico del film. Proprio la collocazione degli inserti della camminata tra i pranzi mancati e alla fine del film sembrerebbe escludere l’ipotesi che tutto il film, sino al risveglio di Don Rafael, si configuri come un unico sogno: l’ultimo inserto è infatti posteriore al risveglio e allo spuntino di Rafael, ed è evidentemente in relazione con le altre immagini della camminata. Questa contraddittorietà dei sogni e delle figure diffuse nel film rende Il fascino discreto della borghesia come una struttura narrativa dalla valenza enigmatica, ma delinea anche una figura sottotestuale che si articola come una dinamica centripeta fondata sulla ripetizione.
Essa quindi risulta concentrata e strutturata verso l’interno. Al contrario il film successivo, Il fantasma della libertà, propone una logica interiore fondata su un’opposta struttura centrifuga del tutto particolare, un’architettura in cui lo slittamento di episodio in episodio, di tema in tema, si intreccia con un meccanismo di rovesciamento del verosimile, di inversione delle convinzioni diffuse e dei sistemi di attese. La struttura del film infatti non presenta un tema o un evento narrativo centrale, ma è caratterizzata da un sistematico scivolamento da un episodio a un altro realizzato attraverso il collegamento di un personaggio generalmente secondario. È indubbio che mentre Il fascino discreto della borghesia è concepito e strutturato secondo il modello (onirico) della condensazione e della ripetizione ossessiva, Il fantasma della libertà al contrario è pensato e organizzato secondo il modello (onirico) dello spostamento e della dislocazione, del passaggio attraverso analogie e slittamenti segreti. Le strutture dei due film rifletterebbero dunque al livello del sottotesto modelli legati al lavoro del sogno e all’inconscio. Nei racconti buñueliani riconducibili a questo quarto modello, d’altronde, l’inconscio non appare tanto attraverso rappresentazioni di fissazioni devianti, quanto come un insieme di determinazioni contraddittorie, un sistema di incoerenze, una struttura che resta misteriosa. Il sottotesto strutturale è qui un meccanismo illogico, complesso, che non può essere coerentemente interpretato e che mantiene un residuo di incomprensibilità. Il sistema filmico può soltanto oggettivare e tematizzare l’enigmaticità dell’inconscio, non può rivelarne e interpretarne tutti i contenuti. E l’inconscio più che un insieme di pulsioni, di desideri, devianti e non devianti, di scene rimosse, si rivela come una struttura di enigmaticità, un insieme in cui l’illeggibilità e il mistero si rivelano prioritari rispetto alla forza pulsionale e desiderante e alle configurazioni sceniche rimosse. In altre parole, Buñuel cerca di cogliere l’inconscio come sistema e non come insieme singolare di contenuti particolari e finisce per rilevarne l’incomprensibilità, l’irriducibilità all’interpretazione verbale o alla sua trasformazione in racconti coerenti.
Questa concezione dell’inconscio come sistema illeggibile e quindi come enigma residuale modifica il trattamento del materiale dell’inconscio da parte di Buñuel e determina nuove strutture narrative e nuove articolazioni sceniche nell’infinito gioco di corrispondenze che l’illogicità dell’inconscio attiva. Forse Buñuel è influenzato in questo nuovo modello operativo anche dal suo co-sceneggiatore Jean-Claude Carrière, impregnato della cultura parigina degli anni sessanta e settanta, ma questa influenza è sicuramente minore della precedente influenza di Dalí per Un chien andalou e L’âge d’or. Proprio questi ultimi due film delineano un quinto e ultimo modello di organizzazione morfosimbolica, interamente strutturato su figure inconsce oniriche fantasmatiche e paranoico-critiche, estranee al racconto lineare ma che delineano segmenti o tracce o linee di sviluppo narrativo più o meno nascosto. In questo modello l’istanza inconscia non solo emerge e si definisce nell’orizzonte dell’immaginario, ma ne disarticola anche il funzionamento. Il figurale irrompe dal profondo, disgrega l’ordine del simbolico e i possibili pattern narrativi per imporre la forza dirompente dell’“altra scena” – per citare la formula a volte usata per parlare dell’inconscio da Freud nella prima fase della sua attività teorica. Questa proposta di distinzione, all’interno del cinema buñueliano, tra cinque modalità di configurazione morfosimbolica dei processi di racconto non va intesa ovviamente in modo troppo rigido; i casi di intreccio tra modelli diversi sono infatti molto frequenti. Los olvidados, per esempio, pur presentando, come si è detto, una forte attenzione alla realtà sociale (primo modello) non è di certo un film neorealista e offre una delle più significative scene oniriche (tipiche del secondo modello) di tutto il cinema di Buñuel. Un chien andalou e L’âge d’or, pur appartenendo, nella loro assoluta singolarità testuale, al quinto modello, presentano articolazioni strutturali leggermente diverse. Mentre Un chien andalou, infatti, è un film totalmente d’avanguardia, anche se delinea la formazione di un
soggetto sessuale attraverso immagini fantasmatiche, L’âge d’or è un film d’avanguardia che però all’interno dei singoli episodi mantiene uno sviluppo narrativo anomalo e variamente interrotto ed esploso (tranne nel quarto segmento): per queste sue peculiarità quindi può essere a un tempo collocato accanto a Un chien andalou e avvicinato a un film – indubbiamente surrealista – come Il fantasma della libertà. Estasi di un delitto, poi, è da un lato un esempio di narrazione autre (quarto modello) e dall’altro un’emergenza di figure inconsce e mnestiche (terzo modello), come anche L’angelo sterminatore, che ha insieme l’irrazionalità forte di un sogno e al proprio interno tutta una serie di figure fantasmatiche e deliranti. A parte resta evidentemente Las Hurdes, un esempio di documentario anomalo, che non va confuso con i film surrealisti, ma presenta, secondo Buñuel, lo stesso spirito di ribellione.
Un chien andalou e L’âge d’or di Paolo Bertetto «UN CHIEN ANDALOU» (1929)
In un importante contributo scritto in spagnolo e pubblicato negli Stati Uniti nel volume Art in Cinema (1947), Buñuel precisa le modalità di invenzione di Un chien andalou, delineando un intreccio di procedimenti e attitudini mentali, al contempo preciso e ai limiti della contraddizione. Secondo Buñuel il film «è il risultato di un automatismo psichico COSCIENTE, e […] non si presenta come il resoconto di un sogno, ma utilizza meccanismi analoghi a quelli del sogno»1. Più avanti aggiunge: «NULLA nel film SIMBOLIZZA QUALCOSA. L’unico metodo di investigazione dei simboli potrebbe essere, forse, la psicoanalisi»2. Si tratta di due affermazioni estremamente lucide che richiedono tuttavia un’interpretazione particolare. Da un lato Buñuel sottolinea il legame con l’automatismo psichico e quindi con un metodo creativo fondato sulla produzione incontrollata dell’inconscio, ma precisa come l’attività compositiva per Un chien andalou implichi anche una dimensione conscia. Poiché non è possibile ipotizzare un automatismo psichico che si configuri come espressione inconscia e cosciente al tempo stesso, l’affermazione buñueliana fa probabilmente riferimento a due fasi diverse del processo creativo, caratterizzate dalla produzione di immagini inconsce, in un primo momento, e dal controllo e dalla rielaborazione cosciente di quelle immagini, in un secondo momento. L’automatismo psichico – a differenza, ad esempio, di quanto era avvenuto nella creazione di Les champs magnétiques di Breton e Soupault3 –, risulterebbe quindi corretto da una seconda fase di intervento cosciente, finalizzato a un’espressione coordinata e coerente delle fissazioni fantasmatiche. Un processo compositivo di tal fatta è efficacemente delineato nelle conversazioni di Buñuel con Max Aub. Ricorda Buñuel, rievocando il suo lavoro con Dalí:
Non si trattava di unire un’immagine all’altra in base alla coerenza o all’incoerenza, volevamo unicamente una continuità che appagasse il nostro inconscio senza ferire il cosciente, e che, a sua volta, non avesse un legame diretto con il razionale. […] Semplicemente è un film surrealista in cui le immagini, le sequenze procedono secondo un ordine logico, la cui espressione dipende dall’inconscio, che, naturalmente segue il proprio ordine. Fa’ bene attenzione: inconscio, ragione, logica, ordine […]. Usammo i nostri sogni – non è una novità – per esprimere qualcosa, non per presentare un guazzabuglio. Un chien andalou non ha di assurdo che il titolo e non è neanche – come, e perché? – un disperato appello all’assassinio, come avvenne dopo, con Gala, quando si progettò L’âge d’or. Neppure si rapporta a Lautréamont. Sì, invece, e molto, con il Dalí di un tempo e con me, con il nostro modo di essere, con i nostri sogni4.
Al di là della diversa incidenza dell’inventività di Dalí e Buñuel, si tratta forse dell’affermazione più chiara relativa alla composizione di Un chien andalou, e attesta apertamente il carattere complesso dell’invenzione del film, segnata dall’irruzione dell’onirico e dell’inconscio, da un lato, e dal riordino logico dello stesso materiale, dall’altro. Il film risulta quindi fortemente costruito e non affidato alla casuale connessione di immagini e di sequenze, come invece alcuni critici hanno ipotizzato. Questo procedimento – anche se Buñuel nel 1947, in un momento di scontro frontale con Dalí, non vuole ammetterlo – è un modo di composizione fortemente influenzato da quanto il pittore surrealista dalla fine degli anni venti sperimenta direttamente e teorizza nell’orizzonte dell’attività e del metodo paranoico-critico. Scrive Dalí ne L’âne pourri, elaborato nel 1929 e pubblicato nel 1930: «Attraverso un processo di carattere paranoico e attivo del pensiero sarà possibile (in concomitanza con l’automatismo e altri stati passivi) sistematizzare la confusione e contribuire al discredito totale del mondo della realtà». E aggiunge: «I nuovi simulacri che il pensiero paranoico può improvvisamente fare apparire, non soltanto avranno origine nell’inconscio, ma al servizio dell’inconscio saranno poste le energie del potere paranoico»5. La scrittura automatica teorizzata da Breton e il metodo paranoico-critico si configurano quindi come progetti e tecniche di rivelazione dell’inconscio e quindi di oggettivazione delle sue figure e dei suoi meccanismi. Ma mentre Breton pensa a una mera registrazione
dell’attività produttiva dell’inconscio, trascritta automaticamente senza mediazioni «grammaticali, logiche o morali»6, Dalí teorizza non solo la fissazione automatica senza mediazione dell’attività inconscia, ma anche lo sviluppo di un’istanza interpretativo-critica, capace di filtrare la produttività inconscia alla luce di un’esigenza conoscitiva dotata di una logica irrazionale. In un saggio del 1935, La conquête de l’irrationnel, Dalí definisce in modo più articolato l’attività paranoicocritica come un «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale fondato sull’associazione interpretativocritica dei fenomeni deliranti»7. Materiali inconsci e irrazionali fissazioni paranoiche sono così organizzati secondo un metodo interpretativo, ossia secondo la loro valenza conoscitiva, la loro capacità di essere non solo inconscio dispiegato, ma anche oggettivazione interpretativa dell’inconscio. Ma in Notes on the Making of Un chien andalou c’è anche un’altra affermazione importante: secondo il regista spagnolo, infatti, il film usa «meccanismi analoghi a quelli del sogno»8. È il riconoscimento di una modalità di produzione e di strutturazione delle figure all’interno del film, che si rapporta al metodo e alla pragmatica del sogno. Secondo Freud, com’è noto, il lavoro del sogno si articola in quattro processi fondamentali: condensazione, spostamento, considerazione della raffigurabilità e revisione secondaria9. Il film attuerebbe quindi processi di condensazione di figure fantasmatiche, spostamenti e slittamenti da una figura a un’altra, e revisioni, cioè riordino e rielaborazione degli elementi figurali prodotti, in relazione alla considerazione di raffigurabilità e all’opportunità di una micro-organizzazione del senso. In quest’ottica può essere anche interpretata l’affermazione di Buñuel secondo cui nel suo film nulla è simbolizzato, ma la psicoanalisi può eventualmente scoprire simboli grazie al proprio metodo investigativo. D’altronde in uno scritto autobiografico pubblicato nel 1969 ma redatto nel 1939, Buñuel scrive esplicitamente che nel film c’è «un’amalgama di estetica surrealista e di scoperte di Freud»10. È
È in fondo un riconoscimento della psicoanalisi freudiana come terreno privilegiato di interpretazione del film e come orizzonte di riferimento, che l’analista può condividere legittimamente con gli autori stessi: un’affermazione che sembra non solo accettare, ma quasi stimolare la possibilità di un’interpretazione psicoanalitica che si ricolleghi anche alla psicoanalisi freudiana conosciuta da Buñuel e Dalí fin dal 1924. La scrittura automatica e il metodo paranoico-critico, dunque, si configurano come progetti e come tecniche a un tempo di rivelazione dell’inconscio e di oggettivazione dei meccanismi e dei contenuti specifici dell’inconscio. A differenza di Breton, Dalí pensa non solo alla registrazione dell’attività delirante e delle fissazioni paranoiche, ma anche allo sviluppo di un’istanza interpretativo-critica, capace di filtrare la produzione inconscia alla luce di un’esigenza di conoscenza irrazionale. Dalí insiste sulla funzione interpretativocritica del metodo e quindi sulla capacità di operare uno sdoppiamento nell’operazione creativa, da un lato lasciando dispiegarsi l’inconscio in forme irrazionali e deliranti, dall’altro introducendo un ulteriore elemento produttivo, caratterizzato dall’interpretazione (che come tale può essere razionale, ma anche irrazionale). E le immagini dei film scritti da Dalí e da Buñuel, infatti, sono insieme figure inconsce e forme interpretative, variazioni automatiche e frammenti di interpretazione del profondo, deliri in atto e brandelli di lettura del delirio, che sembrano avviare già il percorso del processo di decodificazione. Un’immagine come quella dei cadaveri degli asini putrefatti sui pianoforti a coda, che frenano il desiderio del protagonista, è troppo complessa ed elaborata per essere una mera emergenza onirica e pare piuttosto il risultato di una sintesi di immagini deliranti montate per una interpretazione particolare. In quest’ottica l’integrazione metodica della produzione di figure deliranti e inconsce con il filtro conoscitivo e interpretativo, prospettata da Dalí, sembra riflettere adeguatamente i caratteri e le esigenze di quella che è stata l’esperienza di invenzione di Un chien andalou e
L’âge d’or, due film in cui le figure, le ossessioni e i meccanismi dell’inconscio e del delirio risultano alla fine filtrati in un complesso e fondamentalmente coerente sistema di discorso dell’inconscio. In Un chien andalou Buñuel e Dalí costruiscono un percorso di attraversamento e di organizzazione visiva di ossessioni, figure, miti e configurazioni dell’inconscio, raccolti attorno alle strutture essenziali dell’Io: da un lato la produzione desiderante dell’Es nel suo difficile rapporto con le istanze del Super Io, dall’altro gli slittamenti sistematici di identità legati ai fantasmi e alla struttura edipica. Al di là delle ripetizioni e delle contraddizioni, dei segmenti o dei brandelli ad andamento narrativo, come al di là del ritorno di immagini ossessive o di improvvisi rovesciamenti semantici, Un chien andalou sembra infatti ruotare – come un meccanismo irrazionale ma di singolare pregnanza – attorno ad alcuni nodi essenziali legati appunto alle logiche e alle contraddittorietà del desiderio, nonché ai processi non lineari di formazione dell’identità sessuale. Esterno a una logica rappresentativa e impegnato invece nella realizzazione di complicati meccanismi di integrazione di ossessioni, di figure e di punti di vista anche contrastanti, Un chien andalou è in primo luogo un film deliberatamente concentrato sull’Io nascosto, sul dentro, sul dedans, ossia sull’interno (come conferma, per antifrasi, il titolo proposto e poi scartato da Buñuel stesso: Dangereux de se pencher au-dedans). Buñuel propone quindi un cinema in cui si esercita qualcosa che è proibito e si parla di un argomento profondamente autentico e abitualmente rimosso. C’è dunque nello stesso momento un’opzione di verità e una volontà di trasgressione, una vocazione interpretativa e conoscitiva e una pratica provocatoria e aggressiva. La verità nascosta è la verità dell’inconscio, la sua scena enigmatica in cui la libido, il desiderio coatto tentano costantemente di espandersi, diventando una forza potenzialmente sovversiva, che punta a distruggere tutti
gli ostacoli, mentali e sociali, che si frappongono al suo sviluppo. L’apertura del film si presenta subito come una sequenza dall’alta implicazione eidetica e metaforica, che non solo parla del film e del modo di vedere, ma anche del cinema, della sua verità e del rapporto con le convenzioni mentali e con lo spettatore11. Com’è noto il prologo mostra sullo schermo un uomo intento ad affilare un rasoio, che poi usa per sezionare l’occhio di una donna, mentre, in evidente analogia visiva, una nuvola lunga e stretta sembra tagliare la luna. L’uomo che esercita la violenza è Buñuel stesso, mentre la donna che la subisce è la protagonista femminile del film, Simone Mareuil. Nella sua forza singolare il taglio dell’occhio afferma l’avanguardia come creazione di gesti altamente simbolici, teoria-prassi dell’atto anomalo-aggressivo, assolutamente irregolare e potenzialmente eversivo: un esercizio acrobatico-intensivo senza rete di protezione, in cui l’innovazione nel linguaggio è innervata alla violenza di un pugno. Come prima di Buñuel e di Dalí hanno mostrato Marinetti e Duchamp, Picabia. Malevič ed Ejzenstejn. Il segmento – che ha goduto di molteplici e svariate interpretazioni – presenta sicuramente almeno una doppia valenza semantica, un doppio regime di significazione. In primo luogo tematizza l’aggressività del desiderio e la violenza implicita nel rapporto uomodonna, dominato dalla mera espansione incondizionata della libido maschile. Non irrilevante è poi il fatto che l’azione sadica sia svolta direttamente da Buñuel, che anche nel tournage di Las Hurdes (1933) non sarà estraneo a funzioni sadiche. In secondo luogo la sequenza assume una valenza metacinematografica e diventa una sorta di epigrafe, di dichiarazione d’intenti, di manifesto di poetica di tutto il cinema di Buñuel, direttamente realizzato nel tessuto visivo del film. La presenza del regista stesso assicura infatti che si sta parlando non solo del film, ma di cinema, non solo degli eventi del film, ma dello stesso
atteggiamento dell’autore, non solo dei personaggi, ma della stessa struttura interiore di Un chien andalou. Come scriveva Jean Vigo, interprete attento del film: «Si tratterà di vedere con un occhio diverso dal normale»12. Per Buñuel è necessario trasformare radicalmente il modo di vedere mediante un’aggressione all’occhio cristallizzato nelle vecchie abitudini. Ma questa trasformazione del modo di vedere deve in un certo senso riguardare non solo lo spettatore ma anche il personaggio, non solo il cinema ma anche il film, non solo l’autore ma anche la macchina da presa. Deve essere cioè una trasformazione che investe tutte le accezioni dello sguardo del cinema e quindi del punto di vista dell’autore, dell’immaginario mostrato e della percezione dello spettatore. L’immagine di Un chien andalou, tuttavia, propone un’alterazione dello sguardo della donna. È dunque la donna che vede nel film, è della donna il punto di vista all’opera, il centro di focalizzazione del visibile? È la donna che vede per tutti noi e rivela l’orizzonte interiore, le dinamiche del desiderio e le sue frustrazioni? Invero la forza delle figure visive, i punti di vista assunti nella maggior parte delle inquadrature, o più banalmente la quantità di immagini dedicate al personaggio maschile, interpretato da Pierre Batcheff, sembrano attestare una prevalenza e una centralità dell’uomo e dei suoi dinamismi psichici e desideranti all’interno del film. Le immagini dello schermo vanno quindi considerate come un prodotto dell’inconscio organizzato attorno al personaggio maschile che focalizza il visibile filmico oggettivando i propri fantasmi di desiderio e di frustrazione. Dalí e Buñuel, e Dalí più di Buñuel, attribuiscono al personaggio maschile figure e ossessioni del proprio inconscio. E quindi all’interno del film ci sono segmenti in cui il personaggio maschile stesso sembra diventare il centro di ocularizzazione del visibile, cioè il soggetto che percepisce e che orienta lo stesso vedere della macchina da presa. E allora si può dire che il sistema della visione e della focalizzazione in Un chien andalou sia un sistema dominato dal punto di vista
dell’uomo, con qualche segmento in cui la donna pare svolgere una funzione centrale (ad esempio all’inizio quando la donna prepara sul letto un’immagine androgina in assenza del corpo con gli indumenti del ciclista). D’altronde lo stesso carattere non narrativo del film, il suo procedere per ossessioni e fantasmi implica una logica della visione diversa da quella del cinema narrativo e più condizionata dall’irrazionalità, dall’enigmaticità e dall’ossessività dell’inconscio. Un chien andalou è dunque un’avventura costituita da figure fantasmatiche, che mostra sinteticamente il percorso di costituzione di una soggettività maschile attraverso la progressiva definizione dell’identità sessuale, in relazione ai modi e allo sviluppo contraddittorio del desiderio. Questa configurazione è delineata al di là della rappresentazione e del discorso e si propone nei modi del figurale. Per Lyotard il figurale è forza, non struttura, fantasma connesso al desiderio, non concetto, disgregazione dell’ordine del discorso e affermazione della produttività inconscia13. E il figurale realizza tre modi di connivenza con il desiderio: trasgressione dell’oggetto, trasgressione della forma, trasgressione dello spazio: è la descrizione di un processo analogo a quello che si realizza in Un chien andalou. A questo punto è opportuno illustrare analiticamente il flusso delle immagini e il processo di costituzione del soggetto come soggetto sessuale che il film oggettiva. Innanzitutto dopo il prologo la prima tappa dello sviluppo sessuale del personaggio mostra un individuo dall’identità ancora indefinita, che presenta nelle sue fattezze, nell’abbigliamento e nel comportamento caratteri ambigui e anche contraddittori. La prima sequenza lo presenta in bicicletta, in un percorso urbano, vestito con giacca e cravatta, ma con un piccolo martello, un gonnellino di tela bianca nonché una cuffia in testa. A tracolla porta poi una scatola rettangolare, che comparirà ancora nel film come un oggetto misterioso, carico di sedimentazioni segrete. Lo sviluppo del film dimostrerà come il possesso della scatola implichi una
relativa autonomia e una impossibilità di realizzazione dei desideri. La donna che lo vede dalla finestra e lo soccorre dopo una caduta presenta aperte caratteristiche materne e sviluppa nei suoi confronti un atteggiamento protettivo e affettuoso. Poi nella propria camera, la donna costruisce sul letto vuoto il corpo invisibile del personaggio attraverso la disposizione degli indumenti del giovane. È una fantasmatizzazione del soggetto, la creazione di un corpo assente, che riprende l’androginia del ciclista e la configura in rapporto all’atteggiamento della donnamadre: è come se la donna-madre volesse fissare e prolungare lo stadio infantile e non chiaramente sessuato del personaggio, qui configurato come una sorta di figlio. Ma accanto al corpo assente androgino disegnato dalla madre, appare una mano invasa dalle formiche. L’immagine, apertamente riconosciuta da Buñuel come un prodotto onirico di Dalí, ha infatti il carattere di un’ossessione figurale che ritorna nei disegni del giovane Dalí, come La mano cortada, presente anche nella sequenza dell’androgina. E l’immagine dell’uomo che si guarda la mano rinvia a un quadro di Magritte. Paradossalmente, quindi, mentre Dalí è essenziale nell’invenzione dell’immaginario, Buñuel nella messa in scena guarda più ad alcune immagini di Magritte che ai quadri di Dalí. Subito dopo, ancora dalla finestra, la donna e il giovane guardano nella strada una donna dai caratteri androgini, che muove con un bastone una mano di legno tagliata e abbandonata sul selciato. Ma l’androginia presente dapprima nel soggetto stesso, poi in un personaggio che diventa in una sola sequenza oggetto di desiderio, viene successivamente eliminata dall’orizzonte fantasmatico mediante un incidente d’auto che travolge la giovane donna ambigua. In fondo sembra che il protagonista voglia cancellare la propria androginia, proiettandola nel personaggio femminile e distruggendola attraverso quella figura. L’autoeliminazione della propria androginia è quindi realizzata attraverso la distruzione
simbolica dell’androginia di un altro personaggio. Il segmento, ambiguo per i processi contraddittori di identificazione che attiva, presenta anche un esempio di metamorfosi visiva che riflette le immagini daliniane a valenza multipla sviluppate dal pittore negli anni trenta: il pelo dell’ascella della donna si tramuta in un riccio di mare e poi nell’immagine di un cerchio di persone attorno a una mano tagliata. Alla vista dell’uccisione della donna androgina il protagonista, come svincolato dalla immaturità e dalle inibizioni che caratterizzano la prima fase di sviluppo della sua identità, lascia che il suo desiderio si espanda e si scateni e inizia con la donna protagonista una lunga dinamica di seduzione e di aggressione, che traccia la linea complessa e differenziata della libido maschile in azione: è la seconda tappa della formazione di un’identità sessuale. La donna è trasformata in puro oggetto di desiderio, perde ogni connotazione di tipo materno o forse attrae il protagonista proprio per la sua precedente funzione materna, nella figurazione appena nascosta di un impulso edipico. Ma il desiderio del protagonista da un lato si esalta nella manipolazione del corpo della donna, ma ben presto è respinto e apertamente frustrato. L’esplosione del desiderio altera l’uomo, lo rende bestiale, e al tempo stesso sembra avvicinarlo alla morte. Il suo viso è sconvolto, gli occhi quasi chiusi e dalle labbra scende un filo di sangue. Il desiderio dell’uomo appare qui come una palese richiesta di reciprocità, è un vettore psichico che travalica la mera pulsionalità e cerca il desiderio dell’altro. Nella figura delineata da Dalí e Buñuel il desiderio appare come richiesta di riconoscimento da parte del desiderio dell’altro (dell’altra). E sotto questo aspetto va oltre Freud e anticipa la concezione di Lacan del desiderio come «desiderio dell’altro»14. La donna sembra dapprima cedere, ma poi rigetta la richiesta di riconoscimento del desiderio del giovane e comincia a fuggire e a difendersi, opponendo alla seduzione dell’uomo una serie variata di rifiuti. In una
delle sequenze più note del film, l’aggressione di Batcheff costringe Simone Mareuil in un angolo. Ma mentre la donna afferra una racchetta da tennis per difendersi, l’uomo d’improvviso si ferma e rivolge l’attenzione su sé medesimo, riflettendo sugli ostacoli che lo trattengono nell’oggettivazione del desiderio. Raccoglie da terra due grosse corde e trascina faticosamente un insieme eteroclito costituito da due frati maristi e due pianoforti a coda su cui sono adagiate due carogne d’asino. Alcuni piani ravvicinati del muso dell’asino con gli occhi crepati e riempiti di pece, collocato sopra la tastiera del piano, assumono una forza visiva particolare. Qui Buñuel e Dalí inventano una sorta di fantasmatizzazione visiva di una scena inconscia, in cui Es e Super Io si fronteggiano e si oppongono. Evidentemente la cultura, la buona educazione e la religione, simbolizzate dal piano e dai frati, giocano un ruolo di palese inibizione nella realizzazione del desiderio. La religione e la cultura sono carogne di asino, sono putrefactos, come Dalí e Buñuel scrivono in occasioni diverse15. E l’invenzione di un’immagine così complessa e così ricca di concrezioni semantiche costituisce un’apertura radicale sulla scena dell’inconscio, che fa di Un chien andalou una delle prime avventure, oscura e dissennata nelle profondità contraddittorie, conflittuali e metamorfiche della psiche. (Prima del film surrealista il cinema tedesco aveva realizzato un film apertamente psicoanalitico, scritto con la consulenza di due noti freudiani come Abraham e Sachs, I misteri di un’anima, Geheimnisse einer Seele, 1926, di Pabst). Il fallimento dell’incontro erotico con la donna determina nel protagonista una regressione che si manifesta in due modi. Innanzitutto con la riemersione dell’immagine della mano il cui cavo è pieno di formiche che fanno pensare, anche attraverso la mediazione di Freud, a un grande quadro di Dalí intitolato Le grand masturbateur (1929). Subito dopo il protagonista appare di nuovo steso sul letto con indosso gli abiti iniziali, insieme maschili e femminili. Il rifiuto della donna insomma mette in crisi la maturazione del protagonista
che regredisce prima a una fase onanistica e poi a un’immatura androginia. Ed è poi sostanzialmente una figura di doppio, che presumibilmente costituisce una specie di immagine paterna, a strappare il protagonista dalla passività androgina. Inscritto nuovamente in un percorso di formazione il giovane trasforma i libri in pistole e uccide la figura paterna, che muore scivolando con la mano sulla schiena nuda di una donna: come se la figura paterna fosse sacrificata sull’altare del desiderio eterosessuale. Poi nel segmento che precede la fine del film il protagonista reitera la seduzione della donna, ma viene respinto, perde la bocca, coperta dal pelo dell’ascella della donna, e la facoltà fàtica, e viene lasciato dalla donna che gli preferisce un altro uomo con cui, nel piano successivo, passeggia romanticamente in riva al mare. La sconfitta del protagonista è in fondo simbolizzata dall’evocazione del nesso eros/thanatos, che è visualizzato esemplarmente nell’immagine di una farfalla con un teschio delineato sul dorso, inscritta tra le inquadrature dell’uomo e della donna. Ma, come il prologo aveva prospettato metaforicamente la violenza erotica e metafilmica, così l’epilogo sancisce ulteriormente il nesso amore/morte e presenta in un’unica inquadratura, sormontata dall’iscrizione «Au printemps», i due protagonisti interrati nella sabbia fino al petto, con uno sciame di insetti che volano attorno ai due corpi. L’itinerario di maturazione sessuale dell’individuo si conclude con un’immagine di morte. La scena inconscia dell’eros è una scena di desideri e di rimozioni, di ambiguità e di frustrazioni, di contraddizioni e di enigmaticità, insidiata, forse dominata, dalla morte. «L’ÂGE D’OR» (1930)
L’âge d’or si presenta insieme come la continuazione di Un chien andalou e come una svolta. Il titolo inizialmente previsto, La bête andalouse – riportato in francese sul découpage originale in spagnolo conservato dal visconte de Noailles e ora depositato presso il Musée
national d’art moderne - Centre Pompidou, sottolinea un rapporto di continuità palese con Un chien andalou, che era stato tra l’altro un notevole successo di pubblico nell’ambito del cinema sperimentale. E l’esplicita tematica del desiderio e dell’eros che, seppure in modo disomogeneo, attraversa il film, richiama ancora Un chien andalou. Ma L’âge d’or si presenta anche con caratteri strutturali differenti. Innanzitutto è un film di 62 minuti che non gioca solo sui rapporti tra due personaggi con poche comparse, ma articola più situazioni, spazi, personaggi e comparse e si sviluppa in vari e anomali segmenti narrativi e figurali. Al contempo è un film in cui la dimensione narrativa, pur mostrandosi con caratteri atipici, svolge una funzione più precisa che in Un chien andalou. Inoltre, pur ricorrendo talvolta a didascalie, è un film sonoro, che elabora una gestione dell’universo audiovisivo singolare e di grande interesse, con effetti particolari di interazione tra la banda sonora e quella visiva. Si tratta quindi di un film che propone sia una forma interiore differente che una qualificazione diversa dell’immagine, in una relazione più articolata con il mondo dei fantasmi. Sin dall’apertura, con le immagini inconsuete di alcuni scorpioni, L’âge d’or appare come un film anomalo, che rivela gradualmente una molteplicità di immagini caratterizzate da differenti tipologie di segno. Ancora, gli spazi della messa in scena si presentano chiaramente come spazi eterogenei, talvolta correlati attraverso personaggi comuni, altre volte svincolati dal contesto e apparentemente irrelati e quasi arbitrari. Mentre in Un chien andalou tutto si rivela stranamente coordinato grazie alla presenza di almeno uno dei protagonisti – l’episodio dell’androgina è correlato allo sguardo del protagonista e quello del parco alla morte del padre/alter ego provocata dal giovane – ne L’âge d’or è più difficile e meno evidente la forma interiore del film, così come la congruità complessiva degli episodi e delle macrosequenze. La prima impressione è infatti quella di un insieme di situazioni eterogenee, le cui dinamiche di senso restano parzialmente irrelate e la cui forma sembra
ambigua se non palesemente indifferente. Mentre in Un chien andalou l’immaginario costruito si rivela segnato da una logica profonda, sicuramente atipica, ma interna ai processi dell’inconscio/preconscio, ne L’âge d’or lo spettatore resta incerto se ricondurre tutte le componenti a un orizzonte dell’immaginario e a una logica compositiva coerenti, o se accettare l’ipotesi di una costruzione a catena, a slittamenti, dove si passa da una situazione all’altra con un rapporto d’implicazione relativamente fragile. Il film è articolato in sei episodi di diversa ampiezza che presentano tali differenze da imporsi come segmenti fortemente indipendenti e pienamente riconoscibili nella loro autonomia. Forse meno evidente è la separazione fra il quarto e il quinto episodio, poiché nel quarto si mescolano le inquadrature riservate alla presunta Roma e ad alcuni “aspetti pittoreschi” della sua vita quotidiana, con quelle dedicate al personaggio maschile in esterni e al personaggio femminile nella sua villa. Il quinto episodio, la macrosequenza della festa elegante nella villa dei marchesi di X, si presenta come la somma di tre grandi segmenti, relativi il primo alla festa vera e propria, il secondo all’incontro tra gli amanti nel giardino e il terzo alla furia distruttiva del protagonista maschile nella camera della donna. Nonostante queste particolarità e articolazioni interne, gli episodi sono identificabili come segmenti diversi nell’architettura del film, anche se alcuni studiosi importanti, ad esempio Linda Williams16, preferiscono considerarli un episodio unico. Secondo l’ipotesi di lettura più persuasiva, il film risulta in ogni modo strutturato in sei episodi di diversa ampiezza: – 1° episodio: documentario sugli scorpioni; – 2° episodio: i banditi; – 3° episodio: la fondazione dell’imperiale Roma; – 4° episodio: aspetti pittoreschi della grande città; e gli amanti lontani; – 5° episodio: la festa nella villa dei marchesi di X;
– 6° episodio: evocazione de Les cent vingt journées de Sodome. L’architettura complessiva del film si presenta dunque con un’evidente differenza di forma in rapporto a Un chien andalou, in quanto propone sicuramente all’interno dei singoli episodi una continuità narrativa magari anomala ma indubbiamente forte, mentre è caratterizzata da una discontinuità particolare tra episodio ed episodio. Al contrario Un chien andalou prevede una continuità tra i segmenti e all’interno dei singoli episodi con un’evidente catena di irruzioni figurali. L’âge d’or sembra quindi passare da un episodio all’altro attraverso uno slittamento anomalo che implica una svolta, una modificazione. È una sorta di percorso per stazioni, articolato attraverso slittamenti di luoghi, a volte di personaggi e cambiamenti significativi. In una tarda intervista rilasciata a de la Colina e Pérez Turrent, Buñuel ha segnalato un’analogia tra L’âge d’or e Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté). Nel film del 1974, secondo il regista, vi è un meccanismo cui avevo già fatto cenno ne L’âge d’or in cui si iniziava con gli scorpioni, per poi andare avanti con i banditi, poi con la fondazione della città, poi con gli amanti e la festa del salone, per finire con i personaggi de Le 120 giornate di Sodoma. La differenza è che ne Il fantasma della libertà gli episodi sono più collegati tra di loro, contrastano meno l’uno con l’altro: scorrono naturalmente17.
Il riconoscimento della maggiore fluidità inerente alla forma de Il fantasma della libertà non è tuttavia irrilevante. Qui c’è un concatenamento formale più forte, poiché la logica di sviluppo della narrazione si fonda sul meccanismo evidente di correlare gli episodi, seguendo dall’uno all’altro lo spostamento diegetico di un personaggio secondario. Anche se L’âge d’or presenta alcune analogie con Il fantasma della libertà, è evidente che la struttura esattamente definita del meccanismo narrativo di quest’ultimo è diversa dal meccanismo del passaggio non codificato e sostanzialmente illogico da un episodio all’altro del film surrealista. Perché invece della logica narrativa anomala ma forte del film del 1974, ne L’âge d’or ci sono non solo uno sviluppo per slittamenti e svolte, per contrasti e disomogeneità, ma ancora di più
una correlazione segnata dall’anomalia e dall’oscurità, se non dall’arbitrarietà. E forse nella proposta da parte di Buñuel del parallelo tra L’âge d’or e Il fantasma della libertà c’è anche la volontà di staccare da Dalí l’elaborazione del film surrealista. Il ruolo di Dalí nello sviluppo della sceneggiatura del film è rilevante, come attestano le sue lettere e come afferma nella presentazione del film allo Studio 28: «Scrivendo con Buñuel lo scenario de L’âge d’or, la mia idea fondamentale era presentare la linea di condotta dritta e pura di un uomo che persegue l’amore al di là degli ignobili ideali umanitari e patriottici e dei meccanismi miserabili della realtà»18. Com’è noto il film suscita uno scandalo: all’anteprima le tout-Paris è scioccato dalle scene blasfeme, poi la sala di proiezione viene attaccata da un commando di estrema destra e subito dopo la pellicola è sequestrata dalla polizia parigina su ordine del prefetto Chiappe. I surrealisti intervengono a favore, elaborando un Manifeste des Surréalistes à propos de L’âge d’or19, che costituisce anche un’interpretazione del film e una dichiarazione di poetica. Il testo dei surrealisti è diventato una sorta di riferimento obbligato per tutte le letture successive del film, con risultati non positivi. Lo scritto infatti, nonostante introduca analiticamente non pochi aspetti interessanti e persuasivi («l’istinto sessuale e l’istinto di morte», «l’amore e lo spaesamento», «gli elementi sovversivi»), insiste soprattutto sul tema dell’amour fou come nucleo essenziale del film. Ma a una visione attenta e non preconcetta il film non appare proprio l’illustrazione dell’amour fou, e cioè di un sentimento sublime e sovversivo, forte e liberatorio, ma piuttosto un’evocazione della contraddittorietà, della violenza e anche della fragilità insite nell’eros, e cioè nei meccanismi del desiderio. Il film allora non è nemmeno «una descrizione dell’amore che rende folli», come suggerisce uno studioso acuto, Maurice Drouzy20, ma una visualizzazione delle dinamiche del desiderio in un contesto di relazioni interpersonali e storico-sociali più complesse. All’orizzonte dell’inconscio che costituisce lo
scenario di Un Chien andalou, subentra uno scenario più ampio e articolato, che è poi il quadro storico-materiale in cui si esercita il desiderio. E se il primo film è la visualizzazione dei meccanismi inconsci di formazione del soggetto come soggetto sessuale e quindi desiderante, L’âge d’or è la visualizzazione dell’itinerario di socializzazione dell’eros e della sua potenzazialità eversiva, come della contraddittorietà e della debolezza intrinseca. E insieme L’âge d’or è un’evocazione di un orizzonte di violenza che si contrappone al desiderio e ne organizza la repressione. Oltre al carattere parzialmente irrelato dei segmenti, L’âge d’or introduce, rispetto al film precedente, una serie di novità. Innanzitutto presenta all’interno degli episodi un’articolazione narrativa più continua anche se sistematicamente aperta alla irrazionalità. In secondo luogo il film comincia a elaborare una struttura che Buñuel riprenderà e varietà in forme molteplici in alcuni film degli anni sessanta e settanta e che consiste nell’introdurre con metodo e con apparente illogicità, in un tessuto a prima vista narrativo-rappresentativo, una serie di immagini anomale ed eterogenee, che fanno esplodere il senso e rinviano a un orizzonte assolutamente diverso. Infine il film assume una deliberata carica trasgressiva ed eversiva e sviluppa una intenzionale e sistematica critica dei valori ufficiali, che a volte ha anche toni provocatori e particolarmente aggressivi soprattutto contro la religione. Il nesso logico tra i segmenti e tra i vari elementi che compaiono nel testo è ora preciso, ora assolutamente inesistente, ora ambiguo o celato. Lo spettatore è naturalmente chiamato a un lavoro interpretativo particolare ed è impegnato a individuare sia implicazioni legate alla dinamica dell’inconscio, sia connessioni mascherate e rese più ambigue. Qual è infatti il tessuto logico del film, quale la sua struttura nascosta, al di là del tema individuato? E perché il testo è continuamente attraversato da irrazionalità, da anomalie, da sorprese e da greguerías, cioè da figure che costituiscono un equivalente nel
cinema delle figure inventate da uno dei padri dell’avanguardia spagnola, Ramón Gómez de la Serna, e proposte come metafore+umorismo?21 Dopo Un chien andalou, Buñuel sembra impegnarsi a costruire tessuti narrativi fittizi per meglio introdurre l’inatteso, l’illogico. La sua opzione pare quella di elaborare orizzonti di riconoscibilità per inserire più efficacemente gli elementi di rottura. Sono disgregazioni che possono investire piani differenti, da quello narrativo, a quello razionale, dell’omogeneità spaziale e temporale, al terreno dell’immaginario. Ma si tratta di elementi che generalmente potenziano la dimensione visiva e introducono aspetti di origine inconscia, allucinatoria o delirante. Possiamo definirli anomalie deliranti o eterogeneità figurali, perché sono sempre caratterizzati dalla differenza rispetto al contesto in cui sono improvvisamente inseriti, dall’origine inconscia e dalla forte impronta visiva. Sono produzioni di delirio, legate presumibilmente al metodo paranoico-critico. Sono concrezioni figurali che dislocano improvvisamente l’inconscio dentro il tessuto narrativo, scene che distruggono la rappresentazione, alterano la narrazione e costruiscono un senso anomalo e differente. Sono ad esempio l’immagine dei cardinali sulle rocce e quella successiva degli scheletri con gli abiti e i paramenti sacri; i discorsi del capo dei banditi e poi della massima autorità dei maiorchini, esempi di automatismo verbale senza senso; il protagonista che irragionevolmente prende a calci un cane o spinge un cieco a terra; il passante e la statua con la pietra sulla testa; l’apparizione di una vacca sul letto di Lya Lys; la donna con il dito fasciato; il giardiniere che spara al bambino che gli ha preso la sigaretta; le mosche sul volto del marchese; il frate marista che saltella sul ponte; il pantalone con il bottone in evidenza; il ministro attaccato al soffitto; Modot che batte la testa contro un vaso dopo essere stato lasciato da Lya Lys, e poi lancia da una finestra un vescovo e una giraffa. Gli interventi di Buñuel vanno dalle gag, generalmente assurde, alle greguerías, dalle figure oniriche alle vere e proprie concrezioni simboliche, e creano immagini irrazionali,
insensate, che interrompono l’ordine rappresentativo e contribuiscono «al discredito totale del mondo della realtà»22. Sono forse l’aspetto di più precisa impronta buñueliana, la connotazione che più specificamente rimanda alla cifra stilistica e immaginativa di Buñuel. E sono elementi che compaiono in tutti i film di Buñuel con diversa frequenza e diversa intensità e non costituiscono solo una variabile secondaria, ma una componente strutturale essenziale. Ne L’âge d’or le eterogeneità figurali sono disseminate metodicamente in tutto il film sino a costituire lo stesso asse linguistico fondamentale. Non solo rompono il piano rappresentativo qua e là apparentemente delineato, ma costituiscono l’articolazione sistematica ed essenziale del testo, investendo sia la struttura sia la logica dei vari episodi, sia il tessuto degli episodi stessi. Il film, infatti, è composto di sei segmenti, illogici magari, ma spazialmente omogenei (tranne il quarto), che sembrano in fondo delineare una sorta di avventura del desiderio e della violenza in fasi diverse della storia del mondo, dallo stato di natura alla civiltà avanzata. Mentre in Un chien andalou il mondo era la vita di un personaggio maschile e di uno femminile, in L’âge d’or il mondo è l’universo storico, il cosmo nell’evoluzione delle epoche. Questa interpretazione non deve essere presa in modo univoco, ma è certo uno dei sensi che le immagini propongono. Dopo il documentario entomologico sulla vita degli scorpioni, con cui si apre il film, il secondo episodio è costituito da una narrazione della vita di stenti di un gruppo di briganti ai margini della civiltà su un’isola assolata. Poi, nella stessa isola arrivano i maiorchini per procedere alla cerimonia ufficiale di fondazione di una città, alla presenza delle autorità riconosciute, civili, religiose e militari. Ma la cerimonia caratterizzata da un discorso delirante di un ridicolo sindaco vestito in tight, è disturbata dalle effusioni erotiche di due partecipanti, i protagonisti della seconda parte del film, che si abbracciano a terra e sono poi separati dalla polizia.
Un quarto segmento è dedicato alla descrizione frammentaria della vita nella città fondata, che è, illogicamente, “l’imperiale Roma”, e in particolare all’arresto del protagonista, correlato alla visualizzazione delle sue fantasie, che si incontrano con quelle della donna amata, impegnata anche lei, nella sua stanza, a evocare con trasporto l’amato lontano. L’ampia narrazione di una festa elegante nella villa del marchese di X, costituisce poi la sequenza più lunga e complessa del film, e mostra in particolare, ma non solo, l’incontro tra i due protagonisti che si abbandonano nel giardino ancora a scene d’amore, segnate tuttavia in questo caso da una discontinuità del desiderio. Finché la donna insoddisfatta lascia l’uomo per il vecchio direttore d’orchestra. Il prologo e l’epilogo, come in Un chien andalou, svolgono una funzione particolare. Il prologo si presenta non solo come l’illustrazione di un mondo dominato dalla violenza allo stato naturale, ma anche come un discorso sul film, una micro-visualizzazione metafilmica. Le didascalie che accompagnano le immagini di un documentario sugli scorpioni della Linguadoca, oltre a enunciare l’aggressività genetica dell’insetto, sottolineano alcuni aspetti della coda: «Les pinces rappellent les grosses pattes de l’écrevisse, sont des organes de bataille et d’information». Gli altri intertitoli precisano che «la code peut former cinq articulations prismatiques». E: «La queue se termine par un sixième article vésiculaire réservoir au venin». Cinque articolazioni della coda e una sesta al veleno: sembra una descrizione della struttura del film che finisce con l’episodio più aggressivo e velenoso. E, non di meno, l’evocazione di organi di battaglia e di informazione sembra alludere agli stessi caratteri del film che ha appunto una funzione informativa e una intenzione di aggressività e di battaglia contro i valori tradizionali e il cinéma de papa, come si diceva in Francia. L’epilogo infatti contiene l’aspetto di massima provocazione, confermando l’opzione buñueliana per la tecnica dell’in cauda venenum: ed è un epilogo
apertamente blasfemo, che connette nelle forme più estreme (e anche criminali) eros e violenza. La rievocazione del castello di Selligny (Selling invero nel libro) e della violenza degli scellerati assassini esercitata su giovinetti e giovinette è infatti mostrata con l’attribuzione al duca di Blangis delle fattezze di Cristo. È un oltraggio duro al cristianesimo che è ulteriormente sancito dall’immagine finale del film: una croce cui sono appesi scalpi di vittime innocenti. Gli episodi centrali di L’âge d’or invece narrano l’eros in rapporto alle istituzioni civili e allo sviluppo storico, mostrando da un lato i conflitti prodotti dalla repressione della libido e dall’altro l’eros come forza eversiva, di opposizione alla società formata. Ma al tempo stesso, Buñuel delinea con il filtro dell’ironia alcune manifestazioni dell’eros e mentre descrive le potenzialità alternative del desiderio ne sottolinea anche con varie greguerías la debolezza e la contraddittorietà interna. E insieme, la critica ai valori e alle maniere della società ufficiale e delle classi dominanti non si costituisce tanto in un’opzione sovversiva ideologica, ma diventa soprattutto un modo per rafforzare le articolazioni di un immaginario trasgressivo. Nonostante le affermazioni di Dalí e del Manifesto dei surrealisti l’oggettivazione dell’eros non è affatto lineare e dirompente, ma è attraversata da una debolezza interna e si risolve con un fallimento, attestato ovviamente dalla rabbia distruttiva di Modot lasciato da Lya Lys. E le figure visive connesse al circuito erosviolenza sono semmai legate da un lato all’orizzonte della morte e dall’altro a figurazioni deliranti, correlate al mondo di Sade: tra tutte, nel terzo episodio, l’evocazione dei fantasmi d’eros montate con immagini di lava e di escrementi, che rinvia alla pagine più fosche delle 120 giornate di Sodoma23. Il pessimismo, la rivelazione della fragilità dell’eros e della violenza della repressione portano Buñuel ad aggredire e a smontare o a distruggere tutte le concrezioni interpersonali e tutti i valori. Nell’universo nero del delirio creativo di Buñuel (e di Dalí) non c’è
spazio per soluzioni positive: il desiderio è connesso all’ostacolo e alla mancanza e non implica un’effettiva possibilità di soddisfazione, ma piuttosto un circuito contraddittorio di forza e di insufficienza via via intrecciate. Dalí e Buñuel invero mostrano nei due film surrealisti una concezione del desiderio quanto mai lucida e profonda, che da un lato riprende il discorso freudiano e dall’altro sembra addirittura anticipare, nelle figure e nelle situazioni messe in scena, quella che sarà la successiva analisi di Lacan. In L’âge d’or, palesemente, il desiderio è legato alla volontà di trasgressione e alla mancanza e ha un forte carattere fantasmatico che si attiva nell’assenza. L’esplosione improvvisa di un urlo di piacere di una donna che interrompe la cerimonia della fondazione dell’“imperiale Roma” è la prima grande irruzione dell’eros nell’orizzonte del film. Un uomo e una donna, infatti, si abbracciano nel fango, travolti dalla passione e incuranti della presenza della folla, mentre quest’ultima continua a gridare per l’eccitazione. L’intrusione della passione erotica nel bel mezzo della cerimonia ufficiale si configura, quindi, non solo come radicale rovesciamento della cerimonialità, insidiata dalla forza dirompente del desiderio, ma anche come trasgressione esplicita che aggredisce le regole dei rituali sociali e morali, per contrapporre una radicalità assolutamente eterogenea. Non solo l’uomo e la donna sono in preda a un raptus erotico e si abbracciano impetuosamente durante una cerimonia ufficiale, senza neppure cercare di nascondersi, ma i due personaggi si abbracciano in una pozza di fango, che evidentemente hanno liberamente eletto ad alcova. I due amanti, rapidamente scoperti e poi divisi dal pubblico della cerimonia, appaiono coperti di fango, con i vestiti e il volto insozzato. La loro immagine ha una prima palese qualificazione negativa e costituisce, al tempo stesso una figuralità forte, perché collega l’eros agli aspetti deteriori della materialità. La scelta dei due amanti di abbracciarsi nella mota pare assumere non solo una componente di provocazione e di trasgressione
ulteriore verso le regole e i valori sociali, ma si arricchisce di un elemento ancora più ambiguo: sotto le immagini del fango che sporca il volto dell’uomo sembra apparire anche una sorta di desiderio di autodegradazione sociale e simbolica del personaggio. L’esplosione dell’eros, che, a differenza della sequenza nel giardino, qui appare in tutta la sua forza travolgente, non è certo delineata nei termini dell’idealismo tardoromantico di Breton, ma è piuttosto connotata da determinazioni sadiane che anticipano il materialismo e l’erotismo impuro di Bataille. La configurazione successiva del desiderio degli amanti è molto diversa ed è potenziata dalla lontananza forzata. Modot, arrestato da due poliziotti pensa a Lya Lys e la sua immaginazione si incontra con quella della donna, che è nella sua villa davanti a uno specchio. La sequenza allo specchio non solo è un’evocazione originale e metaforica dell’inconscio femminile, ma sembra anticipare un’importante riflessione lacaniana sulla formazione del soggetto, quella relativa allo stadio dello specchio, scritta dapprima nel 1936 – quindi in un momento non lontano dal film – e rielaborata successivamente. La sequenza allo specchio è un sintagma alternato tra due serie di immagini, le inquadrature di Lya Lys alla propria toilette e davanti allo specchio e le inquadrature di Modot prigioniero di due poliziotti davanti a un cancello con un cane che abbaia furiosamente. Il sonoro lega le due serie di piani, mescolando e sovrapponendo suoni diversamente dislocati. L’immagine allo specchio risente certamente della suggestione di un quadro di Dalí, Piaceri illuminati, e di alcuni quadri di Magritte (che Buñuel stesso riconosce come ispiratore di varie immagini dei due film surrealisti): La riproduzione vietata, Il falso specchio e soprattutto L’immagine perfetta. Lya Lys in primo piano appare investita da un vento forte nei capelli, sul volto, mentre è seduta accanto alla toilette nella sua stanza. Il vento che la investe è ovviamente non solo un’oggettivazione dell’immaginario, ma un’immagine speculare dell’irruzione del desiderio
nell’inconscio. Quello che noi vediamo sullo schermo è quindi una proiezione, un doppio dell’irruzione del desiderio nella psiche, è l’immagine della tempesta dell’eros che investe e quasi travolge il soggetto femminile. La donna appare quindi dapprima in una configurazione metaforica, investita dal vento della passione. Poi, nell’inquadratura successiva, lo specchio non solo si sostituisce all’immagine della donna, ma ne diventa il rappresentante immaginario sostitutivo, e ci mostra l’immagine speculare di un cielo nuvoloso, che raccoglie il turbamento psichico della donna. Nell’immagine speculare esplicita la donna non è visibile, sebbene sia seduta accanto allo specchio, ma il vento continua a soffiare, agita i fiori disposti sul piano della toilette e investe il volto e i capelli della donna stessa. Nell’immagine allo specchio la donna è assente, sostituita dal cielo nuvoloso che ne costituisce una sorta di doppio o di estensione speculare della figura dell’inconscio. Il cielo nuvoloso che compare nello specchio in luogo della donna riflessa è la tempesta pulsionale che si è scatenata nella psiche. Il soggetto appare superato, sostituito dal suo inconscio scatenato, dalla sua irruzione. Al posto del visibile si accampa quindi nello specchio-schermo una figura fantasmatica profonda che attesta lo status particolare dell’Io. Il cielo si mostra quindi sia come un’estensione dell’animo della donna, sia come un contrasto visivo in cui l’inconscio trova una sua oggettivazione speculare semplificativa, dove la natura è data in sostituzione della soggettività civilizzata e culturalizzata. Ma nell’immagine successiva la donna appare davanti allo specchio mentre nasconde parzialmente il campo visivo, e si rivela ancora come un non visibile, una dimensione immaginaria che travalica lo specchio e si dà nella sua irriducibilità, nella sua alterità profonda. Il visibile immediato del soggetto non è raddoppiabile nello specchio dell’inconscio. Lì è solo l’inconscio che può accamparsi, sostituendosi al soggetto trasformato in un equivalente dell’assenza. L’immagine che riguarda il soggetto non è dunque l’immagine fenomenica, raddoppiata nello specchio, ma l’immagine forzatamente metaforica del suo inconscio. E
non è una figura del desiderio che viene infatti presentata, né un ricordo erotico legato magari all’incontro nella pozza di fango o a un altro incontro fantasticato, ma l’immagine della tempesta psichica metaforica, proposta in modo suggestivo e singolare. Il mancato riflettersi della donna è il segno del dominio nel soggetto della forza desiderante dell’inconscio e della dinamica della fantasticheria che giungono a cancellare la configurazione fenomenica della donna, è il segno della superiorità dell’inconscio sul mero aspetto esteriore. Sembra che Buñuel e Dalí vogliano così sottolineare come il soggetto sia soprattutto il suo inconscio e abbia fuori del suo inconscio una sostanziale inconsistenza. Se nel 1931 Freud, nella sua conferenza La sessualità femminile24, aveva presentato la donna come enigma, geroglifico misterioso, Buñuel la presenta come inconscio, e semmai enigma dell’inconscio, che implica l’assenza (o l’irrilevanza) della coscienza e del corpo. E l’immagine allo specchio in cui il soggetto fenomenico appare sopravanzato e sostituito da altro, è un’immagine che può avere suggestionato il Lacan attento al discorso sulla paranoia di Dalí e teorico della costituzione del soggetto attraverso l’immagine speculare dell’altro25. In rapporto all’immagine metaforica della forza del desiderio femminile, le immagini della macro-sequenza nel giardino sono molto diverse e mostrano il desiderio come mancanza. Infatti nel parco, quando gli amanti non hanno più ostacoli e possono abbandonarsi all’eros, il meccanismo del desiderio si inceppa: la presenza dell’amata, la facilità del rapporto erotico tolgono forza al desiderio, quasi lo azzerano. I due protagonisti si spostano in continuazione, cercando altre posizioni sul terreno o su due poltrone di vimini, in un’inquietudine prossemica ripetuta: si contano diciannove posizioni diverse degli amanti, che spesso diventano gag ironiche e distanzianti. I protagonisti interrompono più volte l’amplesso per un’improvvisa distrazione dell’uomo che prova evidentemente una diminuzione del desiderio. Il protagonista è stranamente sorpreso e attratto dalla statua che vede nel giardino e in
particolare dal piede di marmo e smette di baciare la donna. Più avanti l’uomo e la donna spostano l’incontro erotico sul piano fantasmatico immaginando addirittura di eliminare i bambini spinti dal delirio sessuale (non ci sono bambini e non c’è sesso tra i due, solo fantasticheria). E infine l’uomo trasforma la donna ancora fantasmaticamente, in una figura materna, e il rapporto erotico in una comunanza affettiva. Ma questa negazione di fatto del desiderio come pulsione sessuale, provoca poi il distacco di Lya Lys, che lascia Modot per andare ad abbracciare il vecchio direttore d’orchestra. Dunque le incertezze e le deviazioni del desiderio nell’orizzonte fantasmatico prodotte dall’uomo segnano di fatto l’insufficienza e la fragilità del desiderio maschile che è legato alla trasgressione o alla mancanza oppure non è. La concezione del desiderio come mancanza rinvia ovviamente a Freud ma prefigure anche la teoria di Lacan che considera il desiderio come «la metonimia della mancanza a essere»26. Così i due film surrealisti mostrano un’estrema ricchezza e complessità simbolica e affermano come il cinema non sappia creare soltanto intensità immaginarie e figure del profondo ma insegni anche al pensiero.
Él di Giorgio Tinazzi Él fu presentato al Festival di Cannes nel 1953; non fu accolto bene. Ci furono anche delle stroncature, la più nota è forse quella di Jean Cocteau che giudicò il film una «lamentevole pellicola commerciale», concludendo con un perentorio «spaventoso»1 (qualche tempo dopo cambiò opinione). Di contro il sodale Georges Sadoul, in una lettera a Buñuel, vede nel film «una straordinaria fedeltà ai temi dell’Âge d’or, con la rabbia di uno humour graffiante e distruttivo»2. In generale, comunque, prevalsero le perplessità o riserve non marginali. La “rottura” che il film proponeva lasciava evidentemente impreparati. Si può forse aggiungere un altro fattore: due anni prima, sempre a Cannes, era stato proiettato I figli della violenza (Los olvidados, 1950), opera di ben altra cifra stilistica, e il paragone sembrava stridente. Va notato inoltre che il cinema buñueliano era poco conosciuto, anche per gli addetti ai lavori, per una deficitaria distribuzione e le avversità del mercato. Tra le due opere, per esempio (I figli della violenza ed Él), erano stati girati altri sei film, e sarebbe stato opportuno prenderli in considerazione. Il film suscitò comunque presto interesse per il caso patologico descritto: «il film mi soddisfa soprattutto perché rappresenta un documento veritiero sopra un caso patologico. Però tutta l’esposizione minuziosa, dettagliata, documentata del progresso psicopatico del personaggio risultò inverosimile nei confronti del grande pubblico che rise frequentemente durante la proiezione del film»3, sono parole dell’autore. Comunque la diversità stilistica di Él rispetto a I figli della violenza indusse qualche critico a una sorta di escamotage interpretativo, avanzando l’ipotesi di una di “doppia anima” buñueliana. Da un lato, per esemplificare, una vena “realistica” (Las Hurdes, 1933, I figli della violenza, Nazarin, Nazarín, 1959, per intenderci), dall’altro, una più copiosa vena ad andamento “immaginifico”. Schema critico improduttivo (e oggi ancora non del tutto superato) perché, pur nella diversità di molte opere, le
interferenze si possono avvertire, così come richiami o infiltrazioni o personaggi e situazioni per molti versi tipici. Si è andata dunque affermando l’idea che in molti casi le interferenze costituiscano uno dei fattori di originalità di molte opere. Lo schema critico cui si è fatto cenno è stato più volte applicato alle opere del cosiddetto “periodo messicano”, con l’aggiunta magari della categoria dei prodotti “minori”; categoria labile e infondata. Prima di tutto perché si sarebbe dovuto cercare, se non altro, di circoscrivere quel periodo, dal momento che dei trentadue film girati dal regista ben ventuno sono di produzione o co-produzione messicana. In secondo luogo perché la disomogeneità della loro resa estetica non esclude punti di contatto: è vero infatti che ci sono opere condizionate da strette ragioni produttive (tempi di lavorazione, attori spesso imposti, contenimento dei costi) e quindi lacunose e magari fragili, ma è altrettanto vero che si rinvengono motivi o richiami assai significativi. In ogni caso non ci sono mai cedimenti di un’etica personale ben delineata. E poi, va sottolineato, ci sono opere originali e alcuni capolavori. Con la consueta attitudine autocritica, persino eccessiva, Buñuel, in una lettera a chi scrive, afferma: «Quanto ai miei film messicani la maggior parte sarebbe bene sparissero. Ecco i soli che penso possano avere un interesse: I figli della violenza, Adolescenza torbida (Susana, 1951), Él, Le avventure di Robinson Crusoe (Robinson Crusoe, 1954), Estasi di un delitto (Ensayo de un crimen, 1955), L’angelo sterminatore (El ángel exterminador, 1962), Nazarin, Simon del deserto (Simón del desierto, 1965), Violenza per una giovane (La joven - The Young One, 1960). Se ho realizzato gli altri è perché bisognava che lavorassi per la sussistenza. Sono stati realizzati ciascuno in venti giorni e senza grandi mezzi tecnici»4. UN FILM CARDINE
In questo contesto si colloca Él, girato in tre settimane nel 1952. È una sorta di opera-cardine (o cerniera, se si
preferisce) che ripropone indicazioni di film precedenti e anticipa centri di interesse ricorrenti nella produzione seguente. È la storia di un’ossessione per una donna su cui si innesta un’altra idea fissa, quella di volersi riprendere un’eredità di cui il protagonista si sente defraudato e che lo spinge a continue azioni legali. Passione per un corpo e passione per il denaro: sono infiltrazioni che Buñuel tratta anche in altri film, ma su questa connivenza torneremo più avanti. Il racconto percorre la crescita di tali ossessioni attraverso tappe e capitoli, con un’apparente conclusione “liberatoria”. Apparente perché l’inquadratura finale, l’oscillazione nevrotica di Francisco sui propri passi, ci fa capire che il cambiamento rimane in superficie, suggerito soltanto dalla veste indossata (ancora un’apparenza), basta un colpo di coda ironico di Buñuel per rimettere in discussione le fragili sicurezze fornite allo spettatore. Il cambiamento è solo dichiarato. Ha avuto ragione François Truffaut nel definire il regista un «pessimista allegro»5. L’inversione di rotta del finale di Él richiama il finale di Estasi di un delitto; anche in questo caso il protagonista sembra essersi lasciato alle spalle un reale/immaginato di pulsione di morte; ma, considerato quasi “libero”, non resiste alla tentazione di uccidere con un bastone un insetto. L’itinerario di Francisco conosce degli “eccessi”, culminanti nel tentativo (solo immaginato?) di uccidere Gloria dall’alto della torre in cui l’aveva condotta; d’altronde poco prima aveva impaurito Gloria fino a farla cadere svenuta sparandole con una pistola caricata a salve; più tardi tenterà di aggredirla nel sonno con una corda a nodo scorsoio. E nel finale, all’inseguimento di Gloria che l’ha abbandonato, entrerà in una chiesa armato di pistola. I comportamenti di Francisco inducono a due riferimenti. Da un lato c’è un richiamo, non azzardato, a Il perturbante di Freud (che si ha ragione di credere che Buñuel conoscesse). Leggiamo i fatti: Risollevatosi da una lunga, grave malattia, Nathaniel sembra finalmente guarito. Ha intenzione di sposare la sua fidanzata, che ha ritrovata. Un
giorno attraversano la città: l’alta torre del palazzo comunale getta un’ombra gigantesca sulla piazza del mercato. La ragazza propone al fidanzato di salire sulla torre, mentre il fratello di lei, che accompagna la coppia, resta in strada. Giunti in cima alla torre, l’attenzione di Clara è attratta da qualcosa di strano che si muove sulla strada […] Nathaniel è preso di nuovo dalla sua follia e, gridando: “bambolina di legno, gira” vuol gettare la ragazza nel vuoto6.
Dall’altro lato, c’è un richiamo “interno” a un film molto posteriore di Buñuel. La grande campana che domina l’episodio della torre richiama infatti la scena di Tristana (id., 1970) in cui la protagonista immagina la morte di Don Lope, prima del matrimonio, proprio con una campana dominante con il batacchio a forma della testa di lui. Se queste sono quasi delle citazioni, in altri casi si tratta di richiami o suggestioni o residui di lettura. In una sequenza Francisco raccoglie in un panno alcuni oggetti (una lametta, ago e filo, cotone, una forbice e una corda) che porta nella camera di lei. Alcuni critici hanno visto qui un’ulteriore citazione, ricordando Sade (cucire il sesso femminile?); ma torneremo meglio sull’argomento. Ci si muove tra immaginazione e pensiero. Buñuel però allude, non conclude; anzi, come avremo modo di vedere, i personaggi buñueliani non portano a conclusione l’azione, secondo la propensione del regista a descrivere atti mancati. Accanto a questo Francisco “privato” c’è il Francisco della messa in scena sociale (compare tra i co-officianti della cerimonia) attento alla facciata propria di una società basata sull’apparenza, sui riti mondani; il prete lo cita come modello: «può servire da esempio come cristiano e come uomo». E i risvolti narcisistici sono inevitabili: «la felicità degli altri mi dà fastidio» afferma il protagonista, «l’egoismo è una caratteristica degli uomini nobili»; «credo che ci siano pochi che tengono il concetto e il sentimento di giustizia che tengo io». L’ambiguità, si sa, sarà la caratteristica di molti personaggi buñueliani. INDICAZIONI EMERGENTI
Questi atteggiamenti si mescolano con atteggiamenti particolari, come il feticismo rappresentato dai piedi, sin dall’inizio, con il lavaggio effettuato nella chiesa. Più tardi, guardando al ristorante sotto il tavolo e vedendo gli stivaletti della moglie, sarà preso da un raptus erotico. Sono meccanismi sostitutivi del desiderio, ma si potrebbe anche, per altro verso, dar retta a Freud (che Buñuel conosceva abbastanza bene) che vedeva nei comportamenti feticisti un’archetipica paura di castrazione. Il regista vi tornerà in altre occasioni, basti pensare a Viridiana (id., 1961). Il prologo a Él (la cerimonia in chiesa), come spesso in Buñuel, sembra quasi condensare elementi che verranno in seguito sviluppati; in questo caso pare richiamare indicazioni “forti”: l’ambiente, il rito, lo sguardo. L’ambiente è lo spazio chiuso della chiesa: «faccio sempre in modo di costringere i miei personaggi in una stanza, una villa, in un luogo dove possa sorvegliarli, averli a portata di mano»7 e ancora: «gli spazi aperti mi spaventano […] trovo subito la maniera di rinchiudere i miei personaggi»8. Si pensi, per Él, alla casa, allo scompartimento del treno, alla stanza dell’albergo e naturalmente alla chiesa. Nella chiesa si svolgono i riti, a cominciare da quello del lavaggio; ogni rito (soprattutto se ammantato di religiosità) per il suo carattere ripetitivo fornisce una garanzia, se non altro sul movimento del tempo; manifesta una coazione a ripetere, come speranza di ricominciamento/reinizio, libera il corpo (il lavaggio) ma nel contempo ne neutralizza le possibilità di disturbo. Il corpo, dunque, visto in una sua parzialità, come amavano i surrealisti: basti pensare, per quel che riguarda Buñuel, a Estasi di un delitto o a Tristana. Il rito ha inoltre una sua teatralità, quindi un aspetto finzionale. Ma è soprattutto lo sguardo a interessare in questo prologo, per quel che ci dice dei personaggi e per le implicazioni che comporta. È guardando la scena iniziale che in Francisco nasce l’interesse per Gloria, che sapremo più tardi essere promessa sposa del suo amico Raul; questo interesse diventerà presto “pensiero fisso” con tutte le sue diramazioni (a partire dal rapporto
corpo-feticcio, i piedi di lei). Il protagonista manifesta in pubblico la sua adesione ai valori tradizionali, in una vera e propria “maschera sociale”; «può servire da esempio come cristiano e come uomo» afferma il prete. Maschera sociale perché quei valori manifestati sono quelli di una società, la borghesia terriera messicana, di cui Francisco diventa il tipico rappresentante nella sua doppiezza. In questo senso sono due figure importanti quella del prete («si tratta di un vero gentiluomo, da portare ad esempio»; e aggiunge poi con paternalismo cattolico «non ha mai avuto una donna prima di te») e quella della madre («devi essere gentile») conniventi con il comportamento del protagonista. Ancor più significativa la figura del maggiordomo, tipica presenza buñueliana, e del suo rapporto con il padrone di casa; questi lo sorprende mentre importuna la cameriera, «voglio che venga riconosciuto il rispetto che il luogo esige», ma licenzia la cameriera; più tardi andrà a confidarsi con lui per i suoi problemi di coppia; il servitore entrerà poi nella “stanza proibita” su cui avremo modo di tornare. Sono esempi della capacità buñueliana di investire personaggi “secondari” di significati non occasionali. Questa messa in scena esige spazi idonei, i luoghi non sono mai inerti o solo sfondo alle azioni, stanno a significare, qui come altrove in Buñuel; basti pensare, in prima lettura, a come tanti significati siano affidati a luoghi ricorrenti: l’esterno di ville e palazzi, i campanili, le gallerie, gli interni con saloni e scale (da El gran calavera, 1949, a Bella di giorno, Belle de jour, 1967, a Tristana per citare qualche esempio), corridoi (da quello alla fine del quale cade la suora in Estasi di un delitto a quello di Abismos de pasión - Cumbres borrascosas, 1953, o di Quell’oscuro oggetto del desiderio, Cet obscur objet du désir, 1977). La casa è un luogo da ostentare (la casa di Alessandro in Estasi di un delitto viene mostrata ai turisti), idonea ai riti che vi si svolgono, come il ballo e il ricevimento in Él. Richiamano un passato da avallare e un presente da vedere; «ogni volta che vedo questo scalone mi chiedo come un architetto abbia potuto concepire tanta fantasia […] qui dentro c’è tutto, dalla
ragione al sentimento, dall’emozione all’istinto» afferma Raul nel film in esame. E come non dare risalto alla chiesa all’inizio, luogo di incontro, di potere e di celebrazione? Anche gli oggetti hanno un ruolo, basti pensare al candelabro come prima immagine del film; magari sono una presenza straniante come la bicicletta nella camera del maggiordomo (un omaggio o una strizzata d’occhio a Duchamp o a Dalí?). Un oggetto chiarisce uno dei lati oscuri di Francisco: da un lato lo spillone infilato nella toppa della porta interna alla camera matrimoniale, nel timore di essere spiato, dall’altro il già citato piccolo assemblaggio di oggetti “offensivi” che sembra preludere a un gesto culminante (“tentazione” e atto mancato). L’ironia, però, del regista, attenua, qui come in tutta la sua opera, ogni sovraccarico simbolico. Per quel che riguarda in particolare gli oggetti con cui Francisco tenta (immagina?) di agire sul corpo di Gloria alcuni critici (per esempio Sánchez Vidal9) hanno visto una diretta citazione di un brano della Filosofia nel boudoir: verso la fine del libro, la Signora di Saint-Ange, intendendo introdurre la madre nel giro delle oscene riunioni erotiche, afferma «Che trovata eccellente! Su, forza, degli aghi, del filo!… Divaricate le cosce, mamma, che vi cucio in modo che non mi diate più né fratelli né sorelle»10. Sono propenso a credere però che non si tratti di una vera citazione ma, casomai, di quello che abbiamo definito un residuo di lettura, oltretutto più che mitigato nel film da una particolare ironia, del tutto assente in Sade. Sembra superfluo sottolineare, per altro verso, la capacità buñueliana di “giocare” con simboli e/o metafore. Negli spazi aperti i personaggi tendono a rivelare la loro tensione interna, dall’alto della torre da cui si vede tutta la città, il protagonista afferma: «da qui puoi vedere cosa sono, vermi che strisciano sul suolo», riferendosi ai passanti; la loro supposta felicità (la felicità degli stolti) gli «dà fastidio». E poi aggiunge: «questo è puro egoismo, e con ciò? L’egoismo è l’essenza di un animo nobile. Io disprezzo gli uomini». Spiare, quindi, significa anche guardare per denotare un egotismo narcisistico.
I luoghi sono sempre, in Buñuel, portatori del loro senso sociale. Gli esempi possono essere numerosissimi: le sale da pranzo (il cibo, il rito collettivo), il sovrasenso (lo studio del proprietario del Diario di una cameriera, Le journal d’une femme de chambre, 1964), o il pesante sapore di vecchio (Viridiana); lo spazio è inoltre sintomo privilegiato della teatralizzazione e della messa in scena, dai drappeggi del salone in Él fino ai veri e propri sipari dell’Angelo sterminatore11. Spesso sono indici di atteggiamenti “di classe”: lo studio dove Francisco coltiva la sua ossessione per l’eredità è un luogo soffocante. Della chiesa abbiamo già detto. È utile poi ricordare l’ingresso casuale del maggiordomo nella “stanza proibita” ricoperta di polvere. Vi si può leggere una duplice allusione al presente inerte che domina quella casa oppure – di più – a un aspetto rimosso di Francisco che non può manifestarsi e che si è andato depositando. Lo spazio, non lo si dimentichi, per Buñuel è, come si è già detto, anche spazio dello sguardo di chi vede, o cessa di vedere, che domina o riduce. Credo non serva richiamare la presenza esplicita e metaforica dell’occhio in questo cinema (e prima ancora negli scritti letterari)12. Come non ricordare l’immagine dell’occhio tagliato in Un chien andalou (1929), diventato un’immagine icona? Quell’invito a guardare diversamente (secondo il suggerimento di Jean Vigo) ha – come è noto – molti risvolti. Si tratta di alzare il coperchio, di svelare le consuetudini, di togliere l’apparenza ai riti. E quasi a constatare un singolare richiamo, si può ricordare la sequenza finale di Quell’oscuro oggetto del desiderio, nella quale si coglie una sorta di circolarità significativa con il primo film: il protagonista invita Conchita (una delle due immagini del doppio femminile) a guardare una vetrina, luogo per lo sguardo, con un “vieni a vedere” che è l’ultima frase che si sente pronunciare in un film buñueliano13. Ma c’è poi, fortemente presente, lo sguardo dei personaggi. Proprio Él ne è una conferma. L’inizio della storia, la nascita dell’ossessione, avviene nello spazio
chiuso di una chiesa durante una cerimonia. Un’ossessione particolare, il lavaggio dei piedi da parte dell’officiante, provoca uno spostamento di interesse ai piedi di Gloria, con uno straniante avvicinamento. Il primo sguardo insistito tra i due protagonisti avviene durante l’uscita dalla chiesa. D’altronde in seguito la lunga osservazione dei piedi di Gloria da parte di Francisco lo porta a un’inaspettata spinta erotica, dando luogo a un inquietante accostamento tra feticcio (le scarpe) e eros. Ritroviamo lo sguardo in molti altri momenti di Él. All’inizio del film avevamo visto Francisco spiare Gloria e Raul seduti in un bar, e spiare è “cercar di cogliere in flagrante”; ma è anche paura di essere spiati, come dimostra la famosa citata sequenza dello spillone infilato nel buco della serratura. Ma sarà ancora un atto mancato. Il regista sembra ricordarsi di questa traumatica lesione in La selva dei dannati (La mort en ce jardin, 1956): l’occhio bucato al prete per fuggire dalla prigione. La scena iniziale di Un chien andalou ha lasciato traccia. Come già accennato, Francisco è un tipico rappresentante della borghesia terriera messicana (ma non solo naturalmente…) e dei suoi “ideali” (il conclamato “senso di giustizia”). I pilastri di questi ideali sono la patria, la famiglia, la religione, triade contro la quale, come è noto, si batterono i surrealisti. Le connessioni si allargano, la sua ossessione si manifesta anche nella continua vertenza legale per riavere alcune sue proprietà; tra corpo-sesso (la gelosia) e proprietàdenaro si stabiliscono connivenze significative, vicinati inattesi (a proposito di surrealismo…). La proprietà, il passato non sono solo una collocazione ma anche una sanzione; il finale – come si notava – sembra dirci che il processo di liberazione di Francisco è solo dichiarato. I collegamenti, i vicinati di cui si parlava, si insinuano anche attraverso lo sguardo, motore iniziale della storia e presenza costante. Non si dimentichi comunque la propensione ironica, «allegra», per riprendere Truffaut, sempre presente in tutto il cinema di Buñuel.
Film-cerniera, si diceva, ma se nei film anteriori del periodo messicano non è facile trovare anticipazioni (che pure andrebbero studiate), un precedente c’è, ed è stato più volte richiamato. Perché anche quello di Francisco è un amour fou e si sa quanto i surrealisti abbiano fatto di questa spinta inquietante uno dei temi decisivi della loro poetica. Ma questa nostalgia, che lo stesso Buñuel ha preso in considerazione, lascia spazio alle differenze, soprattutto se si considera l’ambiente, perché lì, tra i seguaci di Breton quell’empito era uno slancio eversivo. Qui in Él è invece una trasgressione tutta interna alle regole, accettate sia pure per violarle, in una sorta di vizio privato; più una caricatura che una ripresa. E poi c’è lo stile diverso. LO STILE
Lo stile dunque si fa avvertire in pieno e questo serve a mettere da parte definitivamente un equivoco montato per tempo dai critici. Il caso clinico descritto è stato a lungo al centro delle analisi critiche, quasi si trattasse di un resoconto “obiettivo” di un comportamento mentale. Certo, la documentazione c’è, e non è marginale. Ma presto, nel procedere del film, ci si accorge che la chiave stilistica è altra, è una storia raccontata, quindi finzionale. Non è però quindi solo sul piano dei significati che Él manifesta il suo carattere; non a caso lo stesso autore ha scritto che «dopo Robinson Crusoe è uno dei miei film preferiti»14. Ci sono presenze stilistiche forti. Il film inizia con la ricordata ripresa insistita – la cerimonia in chiesa – che proietta le sue implicazioni su tutta la narrazione; avevamo già trovato in film precedenti, e troveremo in seguito, questa sorta di prologo condizionante. Per altro verso c’è l’utilizzazione degli spazi come una delle forme della teatralizzazione dei comportamenti. Ancor più significativo è l’andamento del racconto: discontinuo, con digressioni, con studiate presenze di flashback15 (i racconti di Gloria a Raul). Alcune figure stranianti della narrazione si avvertono in modo evidente; penso per esempio all’uso dell’ellissi, con
due casi di singolare importanza, l’abbandono di Raul da parte di Gloria e il loro successivo matrimonio che si deduce nel finale, e il ritiro in un convento di Francisco. Lo spessore stilistico e la dimensione formale si possono notare nella costruzione delle sequenze finali. Francisco, in preda alla sua paranoia, insegue Gloria (ritorno del topos dello sguardo) e crede di vederla, con una figura maschile, all’ingresso di una chiesa, luogo che è inizio e fine della storia. Ma si tratta di un equivoco, è una coppia qualsiasi. A questo punto la paranoia esplode: Francisco immagina che tutti i fedeli, con visi deformati e occhi accusatori, lo deridano; anche il prete officiante, suo amico, non si sottrae a questa sorta di processo collettivo. Colto in flagrante nella sua ossessione, Francisco aggredisce il prete (fig. 1) («lo sapevi, perché non me l’hai detto?»), che invita i presenti a non trattenerlo («sta diventando matto»). Si tratta di una lunga sequenza caratterizzata da un montaggio rapido e da immagini sovratono, di un vago sapore espressionista. A questo punto uno stacco improvviso introduce in spazi aperti e a piena luce, in netto contrasto con l’andamento precedente. Entra in campo un’automobile, da cui scende una coppia con un bambino (fig. 2); capiremo presto che si tratta di Raul e Gloria che hanno ripreso il vecchio rapporto; si avviano verso il torrione di un vecchio edificio. Tutti i riferimenti al cambiamento sono però affidati all’interpretazione-immaginazione dello spettatore. Si tratta di una lunga ellissi, di un voluto vuoto narrativo. Lo spazio è quello aperto del chiostro di un convento, dove si presume che Francisco si sia ritirato per “liberarsi” della sua ossessione («la fede è la difesa contro il suo passato, ora qui ha trovato la pace dell’anima» dice il frate a Raoul e Gloria, fig. 3). La coppia, sposata, lo guarda da lontano attraverso un vetro, i due preferiscono non incontrarlo; ma Francisco li ha intravisti e chiede allo stesso frate se il bambino è il loro figlio. I casati mantengono la memoria anche attraverso i nomi, a sancire una continuità (il bambino si chiama Francisco). Quello sguardo ha reintrodotto un momento della memoria («per me il passato è morto» aveva detto prima); l’oscillamento nel camminare, un
equilibrio incerto, riporta indietro, al passato appunto (fig. 4). Il regista suggerisce, come si è già detto, con una sola immagine, sta allo spettatore di costruire la conclusione. Buñuel o dell’“opera aperta”.
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L’angelo sterminatore di Ivelise Perniola Avrei voluto che scoppiasse un’epidemia e la gente non potesse più uscire di casa. LUIS BUÑUEL1
LE FESSURE DELLA REALTÀ
Il grande cinema è sempre rivelatore ed escatologico. L’opera conclusa di un autore viene superata nel momento in cui essa sospende i nostri rapporti consueti con il mondo e ci apre a una nuova prospettiva, costantemente relazionata al nostro presente di interpreti e spettatori. Non ci si può esimere dal collegare quanto esperiamo a quanto viviamo. La frase in esergo, oggi come oggi, ci fa trasalire, così come le immagini conclusive de L’angelo sterminatore (El ángel exterminador) di Luis Buñuel, realizzato nel 1962, in Messico, dopo la parentesi spagnola di Viridiana (id., 1961), hanno fatto saltare sulla sedia i messicani della fine degli anni sessanta, che hanno visto nello spaventoso finale del film un’inquietante prefigurazione della giornata del 2 ottobre 1968, quando la polizia, per ordine del segretario del governo Luis Echeverría, fece strage di studenti, manifestanti pacifici, nella Plaza de las Tres Culturas a Città del Messico. Il legame tra l’opera e il presente è sempre un legame fertile, che ci permette di trovare nuove interpretazioni, dimostrando come la vera arte sia sempre cangiante, aperta alla lettura collettiva e individuale e sempre foriera di nuove prospettive e chiavi di lettura sul mondo. L’angelo sterminatore è sicuramente una di queste opere. Il rapporto tra la pandemia e il film è evidente: un gruppo di borghesi in un interno, al ritorno da una serata all’opera, non riesce più a uscire dall’abitazione del loro ospite, Nobile, pur non avendo nessun impedimento fisico. Dopo vari giorni e varie notti di inspiegabile reclusione, la ripetizione delle azioni che hanno innescato la prigionia scioglie miracolosamente l’impedimento, mentre, nel frattempo, coloro che sono
all’esterno, vedono i prigionieri come malati, appestati, affetti da una malattia gravemente contagiosa e quindi da isolare (la bandiera gialla che indica la presenza di malati, appesa sulla facciata esterna dell’abitazione e poi davanti alla chiesa ne è un simbolo incontrovertibile). Il gruppo di borghesi, tuttavia, dopo la risoluzione del mistero e l’auto-liberazione, si reca in chiesa per ringraziare Dio della grazia ricevuta e si ritrova, durante il Te Deum, nuovamente bloccata, insieme al clero e ad altri fedeli di estrazione borghese, mentre fuori infuria la rivolta e la repressione violenta. Lo snodo attuale del confinamento dei borghesi ritratti da Buñuel risiede nella continua differita di desiderio e realtà: quello che desiderano è sempre fuori campo e continuamente differito, così come accade in Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie, 1972), considerato da molti critici come un vero e proprio remake de L’angelo sterminatore, dove a essere differito e desiderato è il pasto che il gruppo di agiati amici vorrebbe consumare insieme. La mancanza di prospettive certe, l’indeterminatezza del tempo, mettono in crisi le sicurezze di un mondo conosciuto nel quale non ci si riconosce più: «Il tempo passa, ma è come se regredisse, tornando indietro verso l’ignoto, e il confinamento cieco diventa insopportabile»2. Ventiquattresimo titolo nella prolifica filmografia del regista spagnolo, L’angelo sterminatore è il primo film messicano autenticamente libero dal punto di vista produttivo, grazie all’intervento risolutore del mecenateproduttore Gustavo Alatriste (un’ulteriore parte della produzione fu affidata alla Film 59 di Madrid), marito di una delle interpreti del film, Silvia Pinal (Leticia alias la Valchiria), che lascia carta bianca al maestro spagnolo, permettendogli tutte quelle libertà surrealiste che i precedenti produttori messicani avevano rigettato o contenuto. Il film ha preso forma piuttosto lentamente: la principale idea narrativa era già presente in un sintetico abbozzo che il regista aveva scritto, insieme ad altri brevi soggetti d’ispirazione surrealista, all’inizio degli anni quaranta, durante il suo soggiorno a New York, come possibili spunti per futuri progetti
cinematografici. Alcuni anni dopo, nel 1952, Buñuel, riprendendo l’idea con l’amico Luis Alcoriza, suo cosceneggiatore di fiducia3, elabora un soggetto dal titolo I naufraghi di via della Provvidenza, poi riveduto nel 1957. Soltanto nel 19624, tuttavia, dopo ulteriori rimaneggiamenti e il cambiamento del titolo verso il più suggestivo e misterioso L’angelo sterminatore (preso a prestito da un’idea dell’amico scrittore José Bergamín per il possibile titolo di una sua pièce che poi non scriverà mai), il film vedrà la luce: «Una volta in più, l’ostinazione di Buñuel ha avuto la meglio su ostacoli di natura finanziaria»5. Il titolo, come spesso accade nella filmografia del maestro spagnolo, è quanto mai enigmatico, difficile trovare riferimenti diretti all’angelo biblico all’interno del film, se non attraverso le suggestioni iconografiche ravvisabili nelle immagini angeliche dipinte sulle ante degli armadi della grande sala da pranzo, che diventano latrine, alcove, obitori a seconda della necessità del momento. L’angelo armato appartiene all’iconografia barocca andina, in particolare alla prolifica scuola di Cuzco, che ebbe una certa influenza anche sull’arte messicana contemporanea, all’interno della quale alcuni artisti, suggestionati dal modello barocco di provenienza spagnola, rielaborano le immagini religiose, dando forma a una curiosa commistione figurativa di arcangeli, caratterizzati da una colorazione molto accesa, che impugnano armi da fuoco; sicuramente questa suggestione, che unisce religiosità onirica e armi da fuoco, delle quali Buñuel era un grande appassionato, avrà indirizzato la scelta del regista spagnolo verso questo apparentemente criptico titolo. Nel labirintico complesso della filmografia buñueliana, L’angelo sterminatore, viene messo in relazione con un prima e con un dopo, ovvero L’âge d’or (1930) e Il fascino discreto della borghesia. Con il primo condivide il gusto surrealista per l’immagine criptica e umoristica oltre alla presenza di un direttore d’orchestra barbuto, con il secondo la struttura differita e dialetticamente evidente tra desiderio e realtà; in entrambi i titoli vi sono al centro della narrazione borghesi impegnati nell’espletamento rituale della loro vita sociale.
Nel gioco delle citazioni e dei legami ramificanti che ogni grande opera intrattiene con il proprio tempo e con quello futuro, non è passata inosservata, anche ai critici dell’epoca, la vicinanza tra l’opera teatrale di Jean-Paul Sartre, Huis clos (A porte chiuse, 1944) e L’angelo sterminatore. Nel testo di Sartre, tre persone, un uomo e due donne, si ritrovano chiusi in un luogo dal quale credono di non poter uscire, prima di scoprire nel finale che le porte sono aperte e che nessuno gli impedisce di uscire; questo luogo è presumibilmente l’inferno e in questa connotazione spaziale ripetuta e precisa risiede, secondo lo stesso Buñuel, la maggiore differenza: «Nell’opera di Sartre si parla di individui senza corpo, anime condannate all’inferno. Non sono esseri umani reali»6. Tuttavia, alla fine della pièce sartriana, il protagonista maschile, Garcin, si ritrova avviluppato in un meccanismo di ripetizione e la chiusa dell’opera con la frase: «Ricominciamo» innesca lo stesso principio di coazione a ripetere che riporta i borghesi di Buñuel a rinchiudersi nuovamente all’interno della chiesa. Del resto, la famosa sentenza sartriana, «L’inferno sono gli altri», ben si addice al progressivo inferocirsi degli ospiti di Nobile, sempre più violenti e aggressivi gli uni con gli altri, man mano che la prospettiva di una liberazione imminente si fa via via più remota. In un recente film di Woody Allen, Midnight in Paris (2011), uno stralunato Owen Wilson incontra Luis Buñuel in uno dei suoi viaggi nel tempo nella Parigi delle avanguardie e gli suggerisce il soggetto de L’angelo sterminatore (film molto amato da Allen e sul quale ritorna con una gustosa parodia anche nell’ultimo Rifkin’s Festival del 2020); Buñuel sembra non cogliere il senso dell’opera e il protagonista del film gli suggerisce che si tratta di una parabola che mostra come gli esseri umani quando si trovano in una situazione di coabitazione forzata perdono qualsiasi traccia di residua civiltà e diventano bestie: l’inferno sono gli altri, nuovamente, ma su questo punto avremo modo di tornare, dal momento che tra le numerose letture critiche del film la più ricorrente è proprio la metafora dell’abbrutimento.
UN DISORDINE ORDINATO
L’angelo sterminatore presenta una struttura narrativa di chiara matrice artistotelica, in cui i protagonisti vengono messi in difficoltà da un evento avverso che poi riescono a superare, tuttavia la presa di coscienza del problema non è risolutiva ma puramente temporanea, dal momento che il principio formale che struttura la vicenda di Nobile e dei suoi amici si gioca tutto sulla ripetizione e quindi nel finale i protagonisti si ritrovano esattamente al punto di partenza. Il film consta di 298 inquadrature7, articolate in un prologo (inqq. 1-6), sei sequenze (inqq. 7-292) e un epilogo (inqq. 293-298). La prima e la quarta sequenza hanno un numero maggiore di inquadrature rispetto alle altre: prima sequenza (inqq. 7-71, 65 inquadrature), seconda sequenza (inqq. 72-90, 18 inquadrature), terza sequenza (inqq. 91-119, 28 inquadrature), quarta sequenza (inqq. 120-198, 78 inquadrature), quinta sequenza (inqq. 199-245, 46 inquadrature), sesta sequenza (inqq. 246-277, 31 inquadrature), mentre il prologo e l’epilogo con sei inquadrature ciascuno mantengono chiaramente una funzione di introduzione e conclusione. La suddivisione sequenziale viene facilitata dall’inserimento tra una sequenza e l’altra di un gruppo di inquadrature che ritraggono gli esterni della villa di Nobile, facendo assumere alle persone che si radunano all’esterno e che per la stessa forza misteriosa non riescono a entrare nella casa una funzione corale, di osservazione e commento passivo alla tragedia che si sta svolgendo negli interni. Drouzy8 nella sua attenta analisi del film propone una suddivisione in sei atti, più prologo ed epilogo e che riprende la struttura narrativa della tragedia classica: primo atto (expositio), secondo atto e terzo atto (complicatio), quarto e quinto atto (climax), sesto atto (catarsi). I titoli di testa scorrono sulla facciata di una cattedrale mentre in colonna sonora si ascolta un Te Deum. L’azione si svolge in calle de la Providencia, luogo simbolico che rimanda al primo titolo pensato da Buñuel e poi scartato perché ritenuto troppo illustrativo. Nel primo atto ci vengono presentati i personaggi principali (una ventina di borghesi di rientro da una serata
all’opera) mentre la servitù comincia ad abbandonare repentinamente la ricca dimora borghese (inqq. 3-6), e incomincia a innestarsi il principio della ripetizione (l’arrivo degli ospiti nel vestibolo dopo la serata all’opera viene ripetuto per due volte; inq. 10 e inq. 12), così come il momento del brindisi di Nobile all’interpretazione di Silvia (Rosa Elena Durgel; inq. 18 e inq. 23) e la presentazione tra alcuni degli ospiti, del resto, proprio grazie alla ripetizione del gesto iniziale i prigionieri riacquisiscono la libertà e per una medesima ripetizione la perdono immediatamente dopo. Le ripetizioni nella prima sequenza, che vennero accolte inizialmente dai collaboratori di Buñuel come un errore di montaggio e che per la medesima ragione vennero espunte dalla prima versione italiana del film, hanno una doppia funzione, sono un modo: «per alludere alla coazione a ripetere quale meccanismo che regola le dinamiche della classe sociale dominante, ma anche uno strumento efficace, nelle mani di Buñuel, per esercitare un effetto ipnotico sullo spettatore»9. Il montaggio diventa quindi uno strumento formale in mano al regista per veicolare un senso di estraneità allo spettatore, di spaesamento spaziale (ma come? siamo ancora nello stesso posto?) e temporale (ma come? non l’abbiamo già visto?), secondo una modalità mai utilizzata prima, a tal punto che lo spettatore stesso perde, di fronte al film, tutti gli strumenti di orientamento linguistico che regolano la comprensione di un testo, abbandonandosi presto (già dalla seconda sequenza) a un universo narrativo nebuloso, oscuro e ambiguamente onirico, nel quale il meccanismo della ripetizione gioca un ruolo primario. Conoscendo l’attenzione sospettosa di Buñuel nei confronti della psicoanalisi non possiamo non mettere in relazione la ripetizione estetica che si rende manifesta attraverso il montaggio con le riflessioni di Jacques Lacan che considera la ripetizione uno dei quattro concetti fondamentali della psicoanalisi10. La ripetizione non è mai un reiterarsi dell’identico, ma piuttosto una dislocazione del desiderio verso un qualcosa che si manifesta sempre con un margine di differenza (le inquadrature ripetute nella seconda sequenza sono uguali ma non identiche); molto spesso la coazione a
ripetere una determinata situazione si manifesta come necessità intrinseca a un determinato soggetto, il quale nella ripetizione torna a occupare gli stessi «luoghi simbolici» che occuperà nel corso della sua esistenza. Non c’è scampo alla ripetizione e la libertà di agire diversamente, di sfuggire al meccanismo reiterativo consustanziale al nostro ruolo nel mondo, può essere solo un fantasma, impossibile da afferrare; del resto non è un caso che i borghesi rimangano alla fine imprigionati in una chiesa, laddove il rituale della messa si ripete sempre uguale, inglobando il concetto stesso di ripetizione nella formula “ora e per sempre”, e che ritrovino la loro momentanea liberazione solo nella riproposizione di una situazione iniziale: «Buñuel trasforma la ripetizione, nel momento in cui diventa appannaggio della borghesia, in un puro rituale, in un insieme di comportamenti codificati che trasmessi di generazione in generazione sono diventati l’essenza più autentica del loro modo di vivere»11. Nella terza e quarta sequenza si mette in atto la complicatio: gli ospiti prendono atto della situazione in cui si trovano, accettandola inizialmente con rassegnata pazienza. L’apparenza borghese comincia progressivamente a sgretolarsi e quello che diventa via via più evidente è l’esistenza di un corpo nascosto sotto gli abiti eleganti e che manifesta necessità e stati che il rigido rituale borghese vuole allontanare e rimuovere. I borghesi si sgretolano e quello che rimane è un corpo animale. La macchina da presa si muove tra i corpi in una maniera che sembra casuale, ma che in realtà disegna precise traiettorie spaziali, evitando inquadrature leziose e formalistiche, come evidenzia Raymond Durgnat: «Lo stile si mette in disparte, Buñuel dà rilievo estensivo al campo medio, che gli americani preferiscono perché, sgraziato com’è, permette il flusso più veloce possibile d’azione e reazione dentro una sola scena, mentre quella scena si costituisce come unità nella mente dello spettatore»12. I borghesi cominciano a essere osservati come in un acquario (inq. 197, fig. 1), mentre il punto di vista si fa più nebuloso e meno chiaro, il narratore extradiegetico sembra incarnare lo sguardo
degli angeli sterminatori che fanno breccia sulle ante degli armadi, con le armi in pugno (con la macchina da presa che è un’arma tra le più letali) e con lo sguardo enigmatico. La quinta e la sesta sequenza coincidono con il climax: le tensioni deflagrano, la decomposizione del corpo sociale diventa decomposizione fisica e morale, gli inserti onirici si mescolano ambiguamente con la percezione del reale, i morti si affastellano negli armadi e fanno uscire il loro sangue inquisitore attraverso le fessure (inq. 217, fig. 2), non c’è più nessuna parvenza di civiltà, i borghesi si sono trasformati in bestie fameliche alla ricerca di un colpevole da sacrificare, a nulla valgono gli appigli della religione, del settarismo, della superstizione, non c’è più scampo e prima di arrivare al cannibalismo (prospettiva che, riflettendo su L’angelo sterminatore, il Buñuel maturo avrebbe, con il senno di poi, preso anche in considerazione13) si deve verificare una catarsi che non può che giocarsi sotto il segno della ripetizione. La catarsi, sempre nel linguaggio psicoanalitico, fa proprio riferimento a un momento di liberazione da uno stato di ansia o di conflitto che viene superato attraverso una rievocazione, quindi implicitamente una ripetizione, del trauma che ha innescato il conflitto interiore. La catarsi porta allo stato cosciente quello che è nascosto nella profondità dell’inconscio. Tuttavia la liberazione è temporanea e Buñuel innesca sul lieto fine un altro finale, un epilogo che mette in contraddizione il processo di liberazione al quale abbiamo appena assistito. La libertà è un fantasma e la coazione a ripetere, come abbiamo visto, è troppo forte e vincolante. Il finale de L’angelo sterminatore riporta alla mente alcuni finali spiazzanti del cinema di Buster Keaton, del quale il regista spagnolo era un grande ammiratore: «Liberato dalla tradizione, il nostro sguardo si ricrea nel mondo giovanile e temperato di Buster, grande specialista contrario a qualunque tipo di infezione sentimentale»14. Keaton, freddo, moderno e anti-sentimentale si contrappone anche a livello formale al romanticismo un po’ melenso di Chaplin, che ricatta regolarmente il proprio affezionato pubblico con gli strumenti retorici del romanzesco, giocando con il finale contraddittorio in grado di mettere in crisi all’interno
della commedia l’auspicato happy end. Le ultime inquadrature (inqq. 293-298) de L’angelo sterminatore sono un concentrato di “significanza” nell’accezione lacaniana del termine, come scrisse Roland Barthes15, a proposito del film. Immagini ambigue, plurisignificanti, difficili da cogliere in tutta la loro enigmatica complessità: un carrello all’indietro ci mostra il portone della cattedrale e la piccola piazza antistante; dissolvenza, primo piano delle campane che suonano, movimento di panoramica a inquadrare la bandiera dell’epidemia sul cancello del chiostro della cattedrale. Fuori campo si odono degli spari, campo medio sulla piazza della città: la polizia spara su alcuni manifestanti, alcuni di essi cadono a terra, si sentono grida, confusione generale. Panoramica destra-sinistra su di un gregge che avanza verso la cattedrale, in off permangono le grida e gli spari che si mescolano allo scampanio della chiesa, mentre entrano le prime pecore all’interno si vede la parola «Fine». Nella versione italiana compare una scritta, liberamente ispirata al libro XX dell’Apocalisse di Giovanni, dai chiari connotati escatologici: «Poi l’Agnello di Dio salirà all’altare. E l’ultimo giudizio, la gabbia che imprigiona il peccato si chiuderà per l’ultima volta e sarà per l’eternità…», cartello che tenta di guidare lo spettatore verso una lettura religiosa dell’opera, una parabola sul declino e la sorte ineluttabile della borghesia. La struttura episodica del film viene intervallata, con una cadenza regolare da un gruppo di inquadrature ripetute che riguardano l’esterno, al di là del prologo e dell’epilogo, a volte concentrate ellitticamente in un unico piano sequenza (inq. 72, inq. 91) a volte più estese ma mai superiori alle otto inquadrature complessive (inqq. 199-206), evidenziando così la funzione corale dell’esterno, di scansione e separazione dei singoli macro-episodi che si sviluppano all’interno della villa. La scrittura del film è intessuta di elementi biografici, aneddoti, episodi accaduti al regista, come ad esempio il fastidio provato da Francisco mentre Blanca si pettina, oppure le immagini surreali che alcune ospiti riportano dopo essere uscite dall’armadio-latrina e che Buñuel ricorda di aver visto in una toilette pubblica abbarbicata sul cucuzzolo di una montagna nei pressi di
Cuenca16. I personaggi sono espressione, senza particolari approfondimenti psicologici, della classe alla quale appartengono, manifestando più i vizi che le virtù solitamente ascritti alla borghesia: mancanza di valori, superficialità, attenzione alle apparenze, mancanza di sostanza, conformismo, edonismo, una mancanza di umanità che sconfina facilmente nel suo opposto ovvero una bestialità latente e malcelata. I borghesi de L’angelo sterminatore appartengono all’élite messicana, laddove la fascinazione costumbrista per la vita popolare e le urgenze del capitalismo nascente si mescolano, dando origine a una società che aspira ai fasti delle classi agiate europee senza sentirsene pienamente parte. I borghesi del film messicano sono perennemente in scena e la focalizzazione sulla dimensione teatrale dell’opera, ricorrente nel cinema di Buñuel, è stata giustamente evidenziata da Giorgio Tinazzi: «l’unità di luogo e l’atmosfera da huis clos permettono l’esplosione della sostanza sotto le apparenze (l’Angelo), una mancanza di contatti che provoca la chiarificazione dei rapporti»17. Del resto il continuo rovesciamento tra palcoscenico e platea si evidenzia molteplici volte nel film, basti citare l’inquadratura in cui Nobile e Leticia, braccati dal desiderio di vendetta dei loro ospiti, aprono, con gesto teatrale, le tende del salone pronti all’estremo sacrificio (fig. 3), oppure la dimensione spettacolare della messa in cui la liberazione ottenuta diventa nuovamente castrante rappresentazione di una nuova forma di prigionia, inoltre gli ospiti sono reduci da uno spettacolo teatrale e immediatamente dopo l’esibizione al piano di Blanca inizia “l’incantesimo” che solo un’altra esibizione sarà in grado di sciogliere. Sull’elemento musicale occorre soffermarsi, dal momento che, a seguito di una sonata di Paradisi, eseguita per l’appunto da Blanca, il tempo e lo spazio si chiudono sui protagonisti e nuovamente tutto si ripeterà durante l’ascolto del Te Deum in occasione della liturgia finale. Buñuel rifiuta sin dai suoi primi film un cinema che guidi in maniera troppo surrettizia lo spettatore verso determinate emozioni e verso la contemplazione puramente estetica di determinate immagini, rifiutando così in un blocco solo sia l’estetismo fotografico che l’incantatoria musica
d’accompagnamento: «Questo rifiuto della deviazione estetizzante, della bella immagine, è la conseguenza di un partito preso di ordine morale: il rifiuto di uno spettatore fascinato»18. Posizione chiaramente di matrice surrealista, Buñuel condivide con l’antropologo Lévi-Strauss, che per altro si espresse in maniera alquanto scettica sul film del regista spagnolo19, le perplessità nei confronti di una musica seduttiva e ammaliante: «[la musica, ndr] si sostituisce all’esperienza e produce la piacevole illusione che le contraddizioni possono essere superate e le difficoltà risolte»20. Nell’Angelo sterminatore, invece, le contraddizioni e le difficoltà sono consustanziali alla condizione umana e quindi irrisolvibili, anzi, attraverso la musica, vuoto rituale borghese, le difficoltà si attivano e si cancellano con estrema facilità, ma la musica non arriva mai a rappresentare un elemento di effettiva liberazione esistenziale. L’arte non è una via d’uscita e coloro che la maneggiano sono spesso peggiori degli altri, pensiamo alla deviata rapacità del direttore d’orchestra che aizza il gruppo contro il padrone di casa e che si aggira nottetempo a molestare le donne addormentate. La musica viene mortificata (un violoncello viene gettato nel fuoco per farne legna da ardere), come tutte le arti nel cinema di Buñuel, dissacratore anarchico e surrealista: «La musica è degradata dalla società, che la relega nella migliore delle ipotesi a essere piacevole sottofondo (L’angelo sterminatore) privandola delle sue potenzialità»21, delle quali, occorre aggiungere, il regista stesso era il primo a dubitare. PARABOLA O ALLEGORIA: ALCUNE POSSIBILI INTERPRETAZIONI
L’edizione francese de L’angelo sterminatore reca il seguente cartello introduttivo: «Se il film che state per vedere vi sembra enigmatico, o incongruo, anche la vita lo è. È ripetitivo come la vita, e, come essa, soggetto a molte interpretazioni. L’autore dichiara che non ha voluto giocare su dei simboli, almeno coscientemente. Forse la migliore spiegazione per L’Angelo sterminatore
è che, ragionevolmente, non ne ha alcuna». La didascalia, voluta da Buñuel, per scoraggiare interpretazioni simboliste e troppo arzigogolate, ha spesso frenato le letture interpretative del film, che peraltro sono state numerose, anche se leggendo proprio tra le righe dell’indicazione buñueliana ci rendiamo conto che, il film, come la vita, non è privo di senso, ma piuttosto soggetto a numerose interpretazioni. Le letture più ricorrenti de L’angelo sterminatore sono state quelle surrealiste, religiose, politico-sociali, psicoanalitiche. L’ottica surrealista viene inaugurata dagli scritti di Ado Kyrou, autore dell’imprescindibile saggio Le surréalisme au cinéma (1953), amico di Buñuel e curatore di una delle prime monografie dedicate al regista spagnolo. Kirou evidenzia il percorso nichilista del regista spagnolo verso una descrizione di una società in cui non si trova scampo, in cui tutte le forme di credenza si ritrovano sotto la stessa chiesa, votate allo scacco, e in cui: «Tutti i rituali, tutte le buffonate religiose, tutti gli idealismi si rivelano impotenti. La bandiera gialla è l’unico vessillo ingiurioso che si addice a tutti gli schiavi»22, anche l’amour fou, appiglio della poetica surrealista, viene rinchiuso in un armadio (Beatriz ed Eduardo) e costretto a perire di morte volontaria, perché tra naufraghi l’amour fou non è una possibilità contemplata. I borghesi sono i nuovi hurdanos ridotti a bestie fameliche prive di dignità, il maggiordomo, terra di mezzo tra la borghesia e il popolo, dopo una prima notte trascorsa sulla soglia, finisce nella sponda sbagliata e affonda con i padroni. Il linguaggio utilizzato dagli ospiti di Nobile scivola verso il nonsense alla Benjamin Peret (pensiamo ai dialoghi delle signore appena uscite dalla toilette o ai sospiri mortiferi di Beatriz ed Eduardo chiusi nell’armadio o ai riferimenti papali e tricologici) e la scrittura surrealista scivola rapidamente nell’allegoria. Se il riferimento ai capelli allontana il linguaggio dalla parola “morte”, allora le immagini che Buñuel offre allo spettatore, mettendole al mondo e facendocele percepire come reali anche nella loro evidente surrealtà (pensiamo alla mano tagliata, vera ossessione surrealista del regista spagnolo dai tempi di Un chien andalou, 1929), sono immagini allegoriche, nelle quali il significato emerge
all’interno di un contesto completamente realistico, come sottolineò Alberto Moravia: «Nell’Angelo sterminatore Buñuel ha fatto un’allegoria, con un significato per niente oscuro da una parte e una rappresentazione del più normale realismo dall’altra»23. La grande allegoria religiosa è apparsa evidente a molti esegeti del film, con connotazioni esplicitamente leggibili: l’angelo cui il titolo fa riferimento sarebbe l’angelo biblico, il quale alla vigilia della Pasqua si reca in visita agli ebrei che nelle loro case consumano l’agnello pasquale; coloro che hanno seguito il rituale e quindi sparso del sangue dell’agnello sacrificato sullo stipite della porta (il riferimento è al sangue di Beatriz ed Eduardo che fuoriesce dal lato inferiore della porta dell’armadio) saranno salvi. Gli ebrei, allora, si chiudono nelle loro abitazioni, in attesa del passaggio dell’angelo divino, percependo se stessi come “popolo eletto” e quindi separato dagli altri, prigionieri dei loro miti e dei loro rituali, si installano nei “ghetti”, trasformando la salvezza in una prigione, in una clausura. Se nella parabola biblica la separazione rappresentava l’affermazione del popolo eletto, il suo primato rispetto agli altri, nel film di Buñuel viene a rappresentare l’autoesclusione dal processo storico della borghesia, incancrenita dal conformismo e definitivamente votata alla morte e alla distruzione. Per rimettere in moto il tempo si rendono necessari una serie di passaggi come il sacrificio di Cristo (l’agnello sacrificato nel film), l’alleanza della Vergine con lo Spirito (il rapporto sessuale alluso tra Nobile e la Valchiria, quindi il sacrificio della Vergine), mentre nel mondo di fuori i bambini evangelici (inqq. 199-206) vengono mandati avanti sperando che alla loro innocenza si dischiuda la porta dei cieli, tuttavia la liberazione è apparente e una nuova clausura li attende: «quella dei cristiani nella loro chiesa sotto il controllo dei loro preti. Coloro che non fanno parte della setta, coloro che credono non in Dio, ma nell’uomo, lavorano fuori per un mondo migliore, mettendo in moto le rivoluzioni»24. Emerge con forza lo scetticismo di Buñuel nei confronti del messaggio cristiano e di chi se ne fa veicolo: «l’analisi si chiude nella definizione dell’assoluta insufficienza della proposta
evangelica, che non può operare una ristabilizzazione della giustizia; viene inoltre chiaramente denunciata la commistione degli interessi dell’autorità ecclesiastica con gli obiettivi del potere politico»25. Buñuel avrà modo ne Il fascino discreto della borghesia di ironizzare sui preti operai e sui vescovi giardinieri, ipocritamente impegnati nel mantenimento del loro dominio sociale, sotto ogni travestimento. Religione e politica sono strettamente correlati, le forze della rivoluzione si oppongono alla forza centripeta della reazione e si assumono il compito dell’azione rinnovatrice. Buñuel ha spesso ironizzato sulla lettura politica piatta e contestuale, facendo piazza pulita delle letture antisemite e antisovietiche del film (c’è chi ha visto nell’orso che si aggira per la villa una metafora dell’Unione Sovietica), lasciando invece più aperta una lettura marxista, in cui la lotta di classe diventa espressione di una condizione metastorica e, per l’appunto, tristemente ripetitiva. I domestici di Nobile abbandonano la casa borghese spinti da una forza ignota ma potente, il regno sulla terra sarà degli umili e di coloro che rifiutano la mortifera sclerosi del cambiare tutto per non cambiare nulla di gattopardiana memoria e di cui i vanesi costumbristas buñueliani sono evidente rappresentazione; rimane sulla soglia il maggiordomo Julio, il quale, cresciuto dai gesuiti, impara a mangiare la carta per tenersi in vita, manifestazione di un legame con il popolo e con la materia che i borghesi non sanno più manipolare e che però non sarà abbastanza forte da salvarlo. Il rapporto con il cibo è, infatti, uno snodo essenziale nella gestione della materia da parte della borghesia, incapace di ovviare autonomamente al proprio sostentamento e dipendente dalla servitù per ogni bisogno materiale (significativa in tal senso l’apertura della cena con il menù rovesciato e il cameriere che cade in terra con la pietanza). Buñuel, fedele allo spirito antiborghese di matrice surrealista, mette alla berlina i suoi naufraghi, trasformandoli in espressioni viventi di una storia cristallizzata in un’eterna ripetizione: «La borghesia arretrata e spiritualistica di una paese sottosviluppato come il Messico opta per una cristallizzazione della storia [ndr corsivo degli autori]: poiché ha perduto qualsiasi
funzione progressiva si oppone al cambiamento in quanto tale»26; anche questa lettura ci parla dell’oggi, considerando che dal settembre 2020 al maggio 2021 in Messico sono stati brutalmente assassinati 88 politici in vista delle elezioni del 6 giugno 2021 e il 90% di costoro sfidava un avversario al potere. Il potere drogato, narcostizzato (gira droga anche in casa di Nobile), asserragliato nelle ville di lusso, manda i suoi sgherri a colpire duro, e in più sulle case la bandiera gialla della pandemia, ricorda qualcosa? Il celeberrimo saggio di Freud sul perturbante ha inaugurato una serie di interessanti letture di natura psicoanalitica, soprattutto tra coloro che hanno ravvisato nello scarto tra il realismo della rappresentazione e il sottotesto onirico un’espressione della sensazione di disagio, di straniamento prodotto dal ravvisare, sotto le familiari apparenze del reale, fantasmi, spettrali comparse, inquietanti rumori e voci che turbano la vita di chi vi si imbatte. Il superamento della lettura freudiana giunge attraverso una recente riflessione di Marc Ripley, il quale ritiene che il perturbante freudiano sia insufficiente a spiegare la condizione da esiliati percepita dai borghesi rinchiusi in una casa vissuta come luogo di prigionia e non di accoglienza, rovesciando così la massima di Bachelard: «a casa ovunque e prigionieri in nessun luogo» in «a casa in nessun luogo e prigionieri ovunque»27 e collegando in tal modo Freud con la lettura heidegerriana del perturbante teorizzato da quest’ultimo come l’ansia che divora l’individuo ogni qual volta percepisce di “essere per la morte”. In tal senso è l’illuminante l’inquadratura 218 (fig. 4) in cui il gruppo degli ospiti si affaccia a guardare i cadaveri di Eduardo e Beatriz all’interno dell’armadio; si vedono i loro volti terrorizzati, senza controcampo, senza che Buñuel ci mostri i corpi morti. Lo sguardo degli ospiti è lo sguardo del crollo di ogni certezza, è la percezione lampante e inaccettabile della propria condizione umana e della propria ineluttabile finitudine. In questa prospettiva non c’è più lotta di classe, stato e chiesa, reazionari e rivoluzionari, ma solo l’espressione più evidente della condizione umana, per la quale la prigionia diventa
ontologicamente legata al proprio essere nel mondo, dal momento che: «Nessuno può uscire da se stesso»28 e nessun sortilegio, nessuna ideologia, nessuna fede o credenza potrà far fronte alla mancanza di senso che caratterizza la vita.
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Il fascino discreto della borghesia di Rosamaria Salvatore LUIS BUÑUEL, ABILE TESSITORE DI NARRAZIONI
In una foto di scena dell’ultimo film girato da Luis Buñuel (Quell’oscuro oggetto del desiderio, Cet obscur objet du désir, 1977) vediamo il regista con ago e filo in mano cucire la trama di un lembo di stoffa bianca1. Forse simulazione di come avrebbe voluto fosse interpretato dall’attrice quel medesimo gesto che scandisce la parte finale dell’opera con cui ci ha lasciati. Eppure in quella semplice posa ci sembra di poter cogliere una delle modalità di costruzione del suo cinema: nella tessitura precisa e al contempo complessa risiede uno dei punti di forza di Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoise, 1972). Al fine di rispettare un’economia della forma che non si compiaccia di ricorrere a spettacolari acrobazie visive e gli consenta di economizzare la fase delle riprese, Buñuel, insieme al fedele sceneggiatore Jean-Claude Carrière, compone il tessuto del racconto con un’ingegnosa architettura, mantenendo una stabile continuità volta a seguire senza strappi i passaggi dal «filo della storia» al racconto di sogni, e alla messa in scena di sogni che si inanellano l’uno nell’altro. Con François Truffaut riteniamo che «troppi commentatori parlano […] di Buñuel come di un poeta onirico che segue i capricci di un’immaginazione fantasiosa, mentre nella realtà è un grandissimo sceneggiatore e un asso della costruzione drammatica»2. E se nel Fascino discreto della borghesia, rispetto ad altre sue opere, assistiamo a una maggiore mobilità interna all’inquadratura, a un numero più esteso di movimenti di macchina e di zoom per seguire gesti, movimenti, inquietudini notturne dei sei personaggi che animano il racconto, lo sguardo del regista esplora lo stato psichico, gli inabissamenti onirici delle singole figure, senza mai abbandonare quella cura per il
dettaglio che traccia il passaggio a sfere dell’inconscio e del mistero, rendendolo sottilmente reale e credibile. Conosciamo dalle parole impresse del cineasta nella sua autobiografia, Dei miei sospiri estremi, la genesi del soggetto, creato a partire dal racconto di un evento accaduto a Serge Silberman, produttore a lui legato da stretta amicizia. «Aveva invitato a pranzo delle persone, […] dimenticando di dirlo alla moglie e dimenticando che quel martedì doveva andare fuori a pranzo lui stesso. Gli invitati arrivarono verso le nove pieni di fiori. Silberman non c’era. Trovarono sua moglie in vestaglia, all’oscuro di tutto, che aveva già mangiato e stava per andare a letto. Questa scena diventò la prima del Fascino discreto della borghesia»3. A partire da quell’imprevedibile evento viene costruita l’ossatura del film che vede il regista e Carrière comporre cinque diverse sceneggiature fino a giungere a intrecciare con accurata perfezione i sottili legami tra realtà diegetica e sogno, volti a tradurre l’inquietudine visionaria nei variegati incastri narrativi e visivi. Molteplici brani sono costruiti secondo uno schema che affianca alla ripetizione della situazione proposta per ben otto volte, ovvero l’impossibilità di soddisfare il desiderio di mangiare, una variazione rappresentata da accidentali inciampi che ostacolano il compimento del rito conviviale. Nella complessa articolazione del film due sezioni contengono singole narrazioni che, dopo un breve incipit da parte del narratore, confluiscono nella messa in scena dei rispettivi racconti: nella prima un tenente riferisce un evento della sua infanzia dai forti toni onirici e allucinatori, nella seconda un sergente dà testimonianza di un proprio sogno. In entrambi i casi il racconto rivela la forma autoriflessiva di una narrazione rivolta agli astanti che fungono da spettatori. Il passaggio dall’enunciazione dei due personaggi alla rappresentazione visiva ci conduce sottilmente al clima perturbante da cui sono investite le immagini, su cui mi soffermerò in seguito.
In altre sezioni si affonda direttamente in brani onirici interni a singoli episodi narrativi, svelati nel loro statuto psichico solo in un momento successivo. Una particolare strategia compositiva, costruita similmente al meccanismo delle scatole cinesi, configura la mappa delle sequenze oniriche: nel sesto episodio si assiste alla messa in scena di un sogno attribuito a un personaggio per scoprire successivamente che questo fa parte di un altro sogno realizzato da un altro personaggio. Il mistero e l’ambiguità delle immagini coabitano con improvvisi squarci che procedono per svelamenti progressivi. Il medesimo meccanismo del sogno nel sogno viene riproposto in una sezione successiva del film, con un’ulteriore variante: la presenza nel brano onirico di un flashback. Tre sequenze dai toni enigmatici in cui vediamo i sei protagonisti procedere lungo una strada vuota in mezzo al nulla, in una campagna deserta, puntellano infine differenti momenti del flusso visivo, perpetuando l’orizzonte di ambiguità e indecifrabilità interno alla pellicola. RIPETIZIONE E DESIDERI INCOMPIUTI
La ripetizione, congegno espansivo di plurime traiettorie, articola da sempre schemi narrativi nel cinema del regista, riaffermando la sua precisa cifra stilistica, si pensi a titolo di esempio a L’angelo sterminatore (El ángel exterminador, 1962), vicino per temi e struttura al Fascino discreto della borghesia4. In quest’ultimo film Buñuel ha dato ancora più ampio respiro e forma a una sua misteriosa attrazione, confessata nell’autobiografia: «Nella vita come nei film sono stato sempre attirato dalle cose che si ripetono. Non so perché e non cerco di spiegarmelo»5. Per Gilles Deleuze caratteristica espressiva del regista, proposta in forme diverse, è introdurre «la potenza della ripetizione nell’immagine cinematografica»6. Pure il tema di un impossibile a cui è condannato il desiderio appartiene all’universo estetico del cineasta (si pensi tra gli altri a L’âge d’or, 1930, a Estasi di un delitto,
Ensayo de un crimen, 1955, o a Quell’oscuro oggetto del desiderio). Desiderio che, come vedremo nel corso dell’analisi, si presenta nel film esposto a molteplici valenze e interpretazioni, non ultime il forte legame che intrattiene con la pulsione e con il registro lacaniano del “reale”. Tracce narrative ed espressive possono allora essere poste in tensione con porzioni del pensiero psicoanalitico al fine di esplorare composizioni figurative perturbate dagli atti mancati che non cessano di marcare una permanente insoddisfazione. I sei protagonisti appartengono all’alta borghesia, a cui Buñuel non risparmia irriverenti e ironiche stoccate mostrandone, dietro il paravento dell’eleganza e del savoir-faire, le esistenze bloccate in una latente immobilità. Il film, secondo Alberto Farassino, non è comunque riducibile alla satira di una classe sociale, è piuttosto «un pellegrinaggio dentro di essa, dentro i suoi riti e le sue contraddizioni, ben sapendo che anche qui alla fine non si troverà nessun santo da venerare»7. Raphael, ambasciatore dello stato sudamericano di Miranda, Henri Sénéchal e la consorte Alice, i coniugi François e Simone Thévenot, la giovane Florence sorella di Simone e il vescovo-giardiniere8 appaiono infatti cristallizzati in canoni recitativi ripetitivi, segno allusivo dei falsi sembianti a cui sono identificati. Buñuel si diverte a osservarli nel tormento provocato dalla impossibilità di soddisfare il desiderio, esponendoli alla reiterazione di una privazione. Non riuscire a completare il rito di un pasto insieme, da evento banale, assurge a metafora di uno scacco, dal momento che la loro vita sembra votata quasi esclusivamente a consumare, senza un limite che argini la loro avida individualità. Come si vedrà nel corso dello svolgersi del racconto, pure il rito conviviale appare lontano da un vero legame sociale, dal momento che anche la conversazione tra i protagonisti è ancorata a canoni modulati dall’ipocrisia e dall’obbedienza a convenzioni. Come sottolineato da Maurice Drouzy i sei protagonisti partecipano a una liturgia senza coglierne il senso profondo, preoccupati solo di esibire misura e moderazione e di consumare il pasto. Alla loro conversazione prevalentemente piatta fa
unica eccezione la giovane Florence9. Figuranti asettici all’interno di un scena, maschere vuote di un’autorappresentazione cristallizzata, nutrono la propria pulsione orale nel decantare la raffinatezza di singole pietanze e bevande, ergendosi a detentori di una superiorità culturale, là dove in realtà, nel corso del film, non li vediamo mai leggere, partecipare a concerti o a spettacoli teatrali. Godono nell’umiliare l’autista che guida l’elegante vettura di rappresentanza dell’ambasciatore invitandolo ipocritamente a bere un Martini dry per provare un compiacimento autoreferenziale, dopo avere assistito a un’esibizione di Thévenot volta a esporre la propria conoscenza sulla esatta preparazione della bevanda. La prova maldestra dell’autista, catturato nella loro trappola, irridente gag offerta da Buñuel, amplifica il siparietto di esistenze votate a cercare di coprire con tali azioni l’assenza di fondamento che nutre vite spese a costruire false narrazioni di sé. Pure in questo caso Buñuel sembra divertirsi a inserire nella tessitura visiva brani estratti dalla sua vita. In Dei miei sospiri estremi alcune riflessioni sono dedicate ai cocktail da lui preferiti; al Martini dry, e alla descrizione della sua preparazione il regista dedica una sorta di inno, ritenendolo fonte generativa di fantasticherie che troveranno forma nei suoi film10. Altri personaggi compongono i fili di un racconto la cui forza drammaturgica vede nella borghesia, nell’esercito e nella Chiesa, l’intersecarsi di molteplici tracciati, tutti però specularmente accomunati da conflitti, da mancanze, da desideri a volte incompiuti. A un tenente e a un sergente è affidato il compito di narrare i propri vissuti personali in cui si addensano segni di morte, Inés (Milena Vukotic) – domestica di casa Sénéchal – è spettatrice silenziosa della ronde dei diversi incontri mancati, il colonnello di cavalleria (Claude Piéplu) è l’ennesimo esponente di una parola appiattita alla convenzione e a protocolli cerimoniali vuoti di senso. Infine protagonista di una sezione narrativa è un commissario di polizia (François Maistre) che, compiuta la propria azione, ovvero arrestare i protagonisti per i
loro commerci di droga, dovrà annullarla e liberare i prigionieri per sottostare ai dettati di un ministro che risponde alle leggi di un’arrogante ipocrisia di Stato. Anche in questo caso l’ironia con cui Buñuel costruisce il dialogo telefonico tra il ministro e il commissario è accentuata dal ricorso a un procedimento caro al regista: nel momento in cui l’altezzoso rappresentante del governo, interpretato da Michel Piccoli, spiega le ragioni dell’ordine impartito, il rombo di un aereo copre le sue parole; anche in questo frangente assistiamo al reiterarsi di una privazione che provoca frustrazione: l’assenza della presa di un senso. INCIPIT DEL FILM
Il fascino discreto della borghesia si apre con immagini che, sin da subito, ci fanno sprofondare in una situazione opaca, non ben chiara. Con una ripresa in soggettiva, nella prima inquadratura vediamo una vettura percorrere strade notturne tempestate dalla pioggia per infine raggiungere la villa dei coniugi Sénéchal11. Capiremo solo alla fine di questa sezione che lo sguardo da cui è orientato il percorso apparteneva probabilmente all’autista della lussuosa automobile dell’ambasciatore di Miranda. I fari di altri veicoli, il buio e la pioggia contribuiscono a ostacolare una visione nitida. È come se già da questo primo accesso al film il regista volesse introdurci a un vedere che sfugge a linee definite; Buñuel sembra richiamarci a un altro sguardo, uno sguardo volto a lacerare le apparenze, oltre l’illusione di un lineare possesso della realtà percettiva per aprire ad altre prospettive, a un universo impastato anche da quell’“altra scena” inaugurata dal pensiero di Sigmund Freud. E veniamo al primo episodio che apre la mappa degli atti mancati. L’ambasciatore, i coniugi Thévenot e Florence si recano presso la villa dei Sénéchal per condividere il rito conviviale del pasto, ma una volta giunti si spalanca improvvisamente un inatteso. Alice Sénéchal, all’oscuro dell’invito da parte del marito, li accoglie spaesata per l’equivoco sorto. Il dialogo tra le varie figure mantiene un
tono che riafferma il teatrino di eleganza e misura che ognuno di loro attribuisce al proprio stare al mondo. Solo Florence, figura che si stacca per una certa singolarità nei modi e nelle parole rispetto al resto del gruppo, quando comprende che non si terrà la cena, afferra il mazzo di fiori che avevano portato per onorare la padrona di casa, preso precedentemente in consegna da Inés, la domestica. Gesto che rompe momentaneamente la superficie levigata dei rituali volti a mettere in luce i loro sembianti. La cura precisa di Buñuel per un dettaglio intorno a un gesto apparentemente insignificante pare suggerire l’intento volto a incrinare il siparietto delle autorappresentazioni. La fluidità con cui la macchina da presa segue i movimenti e i gesti dei personaggi fa da contrappunto alla situazione mostrata. Vediamo allora i cinque personaggi recarsi in una trattoria per consumare il rito della cena. E pure in quel luogo, parlano a lungo delle pietanze esposte nel menu e, mentre la conversazione procede nei soliti toni, accade qualcosa che li getta imprevedibilmente nel confronto con un reale inassimilabile. Ma procediamo per gradi inoltrandoci nell’analisi della sezione aiutati da riflessioni appartenenti alla sfera psicoanalitica. ATTO MANCATO QUALE EFFETTO DI VERITÀ
Per la psicoanalisi di matrice lacaniana l’atto mancato che, come abbiamo visto in questa prima parte, si palesa nella forma di uno spiacevole equivoco, è sempre un effetto di verità. Una verità che attiene alla sfera più intima dell’inconscio. Per Jacques Lacan «Nell’atto, qualunque esso sia, è ciò che gli sfugge a essere importante. Ed è proprio il passo fatto dall’analisi, quando essa produce all’atto mancato come tale, che dopotutto è il solo di cui sappiamo a colpo sicuro che è sempre riuscito»12. Di quale verità si tratti Buñuel sembra suggerirlo nel momento in cui i protagonisti, richiamati dal suono del
pianto di alcune donne, si recano nella sala contigua scoprendo la salma del proprietario del locale, morto improvvisamente poche ore prima. Con gli occhi sbarrati le tre donne sostano sulla soglia dell’interno (fig. 1), soglia tra la vita e la morte, e colpite da quella inquietante visione decidono repentinamente di abbandonare il locale, nonostante le rassicurazioni del cameriere. Si profila in questo improvviso capovolgimento l’irruzione di una dimensione di orrore, non assimilabile da figure come le loro, appese costantemente alla superficie della vita. Non manifestano alcuna pietà o vicinanza con il dolore degli astanti, piuttosto palesano con urgenza la necessità di fuggire da quella realtà insopportabile. Il sipario si è aperto su quel grumo enigmatico e insostenibile che nel vocabolario lacaniano prende il nome di registro del reale. Registro complesso, enigmatico, straniante e parimenti più prossimo alla parte più intima di se stessi. Resistente a qualsiasi operazione di simbolizzazione, non traducibile in parola, l’esperienza del reale indica il sorgere improvviso dell’angoscia, l’accadere di un qualcosa di oscuro, di non penetrabile. È quell’attimo dell’esistenza che il soggetto non può condividere con altri dal momento che il reale è fuori senso, è una sorta di buco del senso. Direttamente in rapporto con la pulsione si manifesta nella forma di inciampo, di intoppo, di rottura omogenea del proprio presente; incontro con un resto oscuro e al tempo stesso inattingibile, quindi, sostiene Lacan, incontro sempre mancato. E parimenti esso non cessa di iscriversi, «ritorna sempre allo stesso posto»13, ripetendosi con una fissità e una forza non scalfibile, anche se «si riproduce come per caso»14. Il confronto traumatico con l’immagine della morte impone ai protagonisti, in particolare ad Alice Sénéchal che oppone strenua resistenza a fermarsi e dare avvio alla cena, il raffronto con una finitezza, quale quella iscritta nella condizione umana, per lei e per i suoi amici insostenibile. La smorfia oscena della morte è lì a fissarli, a strappare le loro maschere tese a velare, ad
addomesticare la presenza nociva di una voragine. Le cene e i pranzi rituali che i protagonisti non riescono mai a portare a compimento paiono allora metafora dell’illusorio tentativo di padroneggiare, di addomesticare tale potenza nociva, ma il reale permane lì a ricondurli al proprio e singolare abisso, all’angoscia di morte da loro vanamente denegata, che li rende incapaci di tradurre in forza l’impotenza determinata dalle scosse dell’esistere. Appare allora forse superfluo ricordare come per Freud, a partire da Al di là del principio di piacere (1920), la ripetizione sia strutturalmente legata alla pulsione di morte. SOGNI NARRATI
I segni di morte si addensano anche nelle due narrazioni proposte dal tenente e dal sergente, oltre a propagarsi nei molteplici incubi. Il primo racconto si inserisce all’interno dell’ennesima cornice di privazione di un desiderio: Simone, Florence e Alice Sénéchal, riunitesi in un elegante locale, ordinano del tè per scoprire poco dopo che è terminato, nonostante il luogo sia destinato a offrire quel tipo di bevanda. Meravigliate della situazione ripiegano su un caffè. Si avvicina a loro un tenente e, una volta presentatosi, dichiara la volontà di raccontare un ricordo appartenente alla sua infanzia, periodo della propria vita da lui definito tragico. Parla con lo sguardo fisso rivolto verso un altrove, concentrato nel far emergere le immagini di lui bambino. Le figurazioni che danno seguito alla ricostruzione del passato sembrano appartenere a un registro fantasmatico, poco aderente alle affermazioni con cui, al termine del racconto, dirà di essere partito per il collegio militare, dove l’avrebbe atteso una vita appassionante. Il giovane uomo narra che ancora in tenera età, dopo aver perso la madre, ammaliato dalla voce del fantasma di lei, ha seguito le sue istruzioni e ha avvelenato l’usurpatore, ovvero colui che aveva preso il posto dell’uomo da lei amato, dopo aver assassinato il rivale. In questa sezione gli interni sono avvolti in una penombra soffocante, la voce del fantasma della madre, al pari di un fascium, lo cattura
istantaneamente, interrompendolo mentre era intento a scrivere sulla superficie di uno specchio: «MAMAN, JE T’…». Ora immobile fissa le mani di lei che si sporgono in avanti e una volta uscita dall’armadio al cui interno si celava, il viso della donna appare pallidissimo; indossa una lunga tunica bianca e rivolgendosi al figlio rivela la verità sull’uomo da lei sposato. Continuiamo a udire la sua voce provenire da un altrove, nonostante la bocca appaia serrata. L’oscurità della camera, l’inquadratura del suo volto e di quello del suo primo compagno con un occhio sanguinante a causa dell’uccisione, entrambi immobili mentre assistono all’agonia dell’usurpatore, accentuano lo statuto allucinatorio che si insinua in tale racconto. Le falde di memoria proposte dal tenente paiono filtrate da un contatto molto prossimo con un’esperienza di reale impossibile da padroneggiare. Il reale del resto, si è osservato, sfuggendo alla regolazione del simbolico, può essere accostato solo per lembi, per frammenti. Si tratta allora di rivestirlo con gli abiti del fantasma, di trasferirlo in una cornice così da delimitarne la portata traumatica. Le composizioni visionarie a cui abbiamo assistito possono dunque essere lette quale realizzazione del fantasma soggettivo del narratore. Per la psicoanalisi il fantasma è riconducibile alla costruzione di una scena che consente al singolo di inquadrare la realtà così da circoscrivere in una cornice i suoi effetti perturbanti, quando non traducibili in una dimensione simbolica. Parimenti esso funge da dispositivo volto a schermare il soggetto da ciò che lo tocca più radicalmente. Al di là di un incerto statuto di aderenza rispetto a ciò che è avvenuto nel passato del tenente, Buñuel esplora lo scenario fantasmatico da lui costruito, lasciando in noi e nelle spettatrici convocate nel film la densità di una verità soggettiva non necessariamente fedele alla realtà fattuale. Simone, Florence e Alice, dopo aver ascoltato immobili, in silenzio il racconto, apprendono dal cameriere che dovranno rinunciare anche al caffè e accontentarsi solo di acqua. Ennesima variazione della ripetizione.
Pure nel sogno riportato dal sergente presso la dimora dei Sénéchal ritorna insistentemente il tema della morte, sempre associato a una percezione di perdita legata al fantasma del materno. La strada deserta e buia percorsa dal protagonista, pallido in volto, i ripetuti incontri con personaggi le cui ombre rimandano a una vita che si è spenta prematuramente, il rintocco delle campane a morto, l’immagine di un corpo avvolto in un sudario con una croce sul petto e su cui viene gettata della terra, le ragnatele che coprono porzioni di un interno scuro, un brusio di voci che udiamo ma di cui non percepiamo l’origine, contribuiscono ad alimentare anche in questo caso un orizzonte spaesante. Compare una giovane donna che indossa una tunica bianca simile a quella precedentemente rappresentata nel racconto del tenente; la conversazione tra i due accentua l’ambiguità della scena. L’incontro in questo caso è un incontro mancato: se in un primo momento vediamo la giovane e il sergente ritrovarsi con commozione, nel momento in cui lui si allontana chiedendole di attenderlo, al suo repentino ritorno, egli troverà la strada deserta (fig. 2). Davanti al vuoto che si spalanca di fronte a sé, alla scomparsa della donna, il sergente con le lacrime agli occhi si chiede senza risposta «Dove sei, mamma? Io ti cerco in mezzo alle ombre… Mamma!…». Entrambi i segmenti narrativi citati, come sottolineato da Paolo Bertetto, sono animati da figure dalla evidente connotazione edipica alimentata dal legame di eros e thanatos15. Lo iato tra la voce over del protagonista che segnala la presenza di molti negozi, mentre le inquadrature fanno vedere una strada buia priva di commerci, e la giovane età della donna verso cui il sergente mostra un intenso legame sentimentale accrescono per Bertetto il senso di enigma rimandato dalle immagini16. Il confronto con la morte in questo caso può indicare ulteriori direzioni di analisi. Possiamo leggere questo brano quale segno della perdita, della dolorosa e insanabile percezione di una mancanza che non può essere colmata se non, come segnala la psicoanalisi, attraverso il passaggio a quell’impegnativo lavoro del lutto indicato da Freud. La privazione viene
allora tradotta in immagine onirica squarciando un presente inerte. Buñuel anche in questo caso non si astiene dall’esplorazione chirurgica della freddezza degli astanti che non sono toccati dalla drammatizzazione dello stato psichico dell’autore del sogno. Rimangono solo qualche secondo in silenzio. I Sénéchal, i Thévenot, Raphael, Florence, il colonnello e il battaglione delle truppe appaiono figuranti passivi e indifferenti, preoccupati di tenere un tono adeguato al rito della cena a cui stanno per apprestarsi senza, anche in questo caso, riuscire a concluderlo. Solo il vescovo interviene commentando in maniera scettica «quando Lazzaro tornò dal regno dei morti, non aveva ricordi». L’unica figura che sembra provare in silenzio un’emozione è Inés: isolata dal gruppo la sua espressione manifesta una vicinanza con lo smarrimento testimoniato dal soldato. IL SOGNO NEL SOGNO
Nel caso della diretta messa in scena dei sogni permane una certa enigmaticità che, come sottolineato da Bertetto, più che rimandare al contenuto di essi e a un orizzonte volto a decriptare i singoli segni mantiene le proprie basi compositive su una struttura ripetutamente volta a «tematizzare l’enigmaticità dell’inconscio»17. Del resto lo stesso Freud ha teorizzato un «ombelico del sogno»18. Ovvero il punto in cui le interpretazioni convergono, si mescolano e aprono a un orizzonte indefinito. Una parte opaca del sogno dunque, che «affonda nell’ignoto»19, sfuggendo alla sua elaborazione. Nel Fascino discreto della borghesia, mediante lo slittamento continuo tra realtà e sogno, le immagini sembrano cercare di velare, di addomesticare la potenza nociva del reale, ma ai singoli essa si ripresenta riconducendoli a quell’abisso soggettivo, a quell’angoscia di morte, da loro vanamente denegati. E una sequenza onirica più di altre li espone alla dissimulazione del loro essere che, al pari dei protagonisti dell’Angelo sterminatore, è appiattito a una maschera fittizia, a
un’apparente padronanza di un mondo in cui la parola è quella della convenzione, ascrivibile a protocolli cerimoniali vuoti di senso20. Invitati a cena dal colonnello si ritrovano in un interno decorato con mobili e arredi antichi da cui emana una penetrante sensazione di falso. Il colonnello e la moglie non sono presenti. Dopo essersi intrattenuti a scherzare con un cappello attribuito a Napoleone, e avere sorseggiato, convinti di bere del whisky, una bevanda che sa di «quasi-cola», i protagonisti si siedono per dare inizio alla cena. Un maggiordomo si muove attorno al tavolo portando un vassoio su cui troneggiano due polli. Come già in L’angelo sterminatore, l’uomo, inciampando, procura la caduta per terra del cibo, ma diversamente dal film citato, prontamente solleva le due portate che, una volta servite a tavola, si rivelano finte. Lo stupore invade il gruppo quando improvvisamente risuonano tre colpi distinti e la macchina da presa si concentra su una tenda rossa alle loro spalle che, aprendosi, rivela la reale configurazione del luogo in cui si trovano (fig. 3). Sono su un palcoscenico di un teatro affollato da spettatori, con un suggeritore che ripete alcune battute del Don Juan Tenorio21. I protagonisti impietriti dalla situazione, dopo lo smarrimento iniziale, fuggono. Resta solo per poco tempo in scena Monsieur Sénéchal a tentare di ripetere, come una sorta di automa meccanico, le parole pronunciate dal suggeritore, dopo che il vescovo ha in un primo momento accennato una risposta. E, successivamente a un tentativo fallito, inquadrato in primo piano, con il volto visibilmente in preda allo spaesamento, replica: «Dio mio, ma che ci faccio qui, io…». Per dopo aggiungere, udendo le proteste degli spettatori in sala: «Io non conosco la parte». Il risveglio di Sénéchal, a seguito dell’incubo, nella propria ricca villa, è un altro inganno orchestrato da Buñuel: scopriremo infatti nel prosieguo del film che la sezione appena mostrata fa parte di un sogno all’interno di un altro sogno compiuto da Monsieur Thénevot. Per Paolo Bertetto «questo processo di produzione di un sogno dentro un altro sogno introduce di fatto una sorta di
scissione potenziale all’interno dell’inconscio del personaggio che sogna»22. E al contempo realizza la fantasia di Buñuel volta a manifestare, attraverso i particolari mezzi espressivi del cinema, la possibilità che un sogno possa appartenere a più sognatori. Una breve annotazione del cineasta rende ancora più complesso il gioco intertestuale presente in questo brano narrativo. Nella sua autobiografia, egli confessa il sogno ricorrente di trovarsi in un teatro e di dover recitare una parte di cui non ricorda la prima parola23. Nel Fascino discreto della borghesia il reale traumatico fa irruzione nel teatro del sogno palesando la finzione scenica di singole esistenze costruite su sembianti fittizi, su maschere ambigue, su parole vuote coperte da rituali tesi a velare l’assenza di fondamento, volte a cercare il consenso dello sguardo dell’altro, all’interno di una classe ormai “putrefatta” dalla reiterata ripetizione di un sempre uguale, rispettoso delle convenienze. I sei protagonisti perpetuano una chiusura all’interno di un mondo nutrito dall’assenza di un senso, dominato da un godimento che li rende manichini congelati in una perpetua ricerca della soddisfazione, proprio perché individualmente privi della capacità di attraversare un senso profondo del loro esistere. Pure le sequenze oniriche che si susseguono nel corso della narrazione rispondono al medesimo principio, assurgendo a scena visionaria di una falsa normalità, squarciata improvvisamente da atti di violenza che paiono riflesso neanche troppo celato dei propri fantasmi di possesso. Nell’ultima sezione onirica Raphael, nascosto sotto la tavola imbandita, a seguito dell’irruzione di banditi che hanno sterminato i suoi amici, viene scoperto nell’atto di mordere una fetta del cosciotto preparato da Madame Sénéchal. Risvegliatosi dall’incubo, dopo aver allontanato il proprio segretario, accorso a seguito delle urla dell’ambasciatore durante il sonno, si reca in cucina e divora una porzione di arrosto estratto dal frigorifero. Assistiamo così a un ultimo sguardo irridente di Buñuel: il protagonista appare
imprigionato nella reiterazione di un godimento che, serrandosi in se stesso, figurativizza l’illusorio tentativo di avida presa del proprio oggetto pulsionale. Per Lacan l’incubo può assolvere la funzione di un risveglio, un risveglio dalle proprie fissazioni immaginarie, dal tentativo di chiudere gli occhi sulle molteplici défaillances della vita. Così sembra non avvenire per i sei protagonisti che per ben tre volte nel corso della narrazione vediamo percorrere una strada vuota e deserta, prigionieri del loro medesimo movimento centripeto. IMMAGINE FINALE, RIPETIZIONE E VARIAZIONE
L’immagine su cui chiude il film, senza la parola fine impressa sullo schermo, è quella di loro che, in silenzio, con abiti indossati nel corso del film, avanzano su una strada deserta circondata solo da campi coltivati, senza alcuna indicazione intorno alla meta da raggiungere (fig. 4). La composizione visiva della medesima situazione è stata riproposta ogni singola volta con la variante di un mutamento della luce, come a suggerire il trascorrere del tempo fino a un imbrunire che non conduce ad alcuna notte. Al contempo le tre sequenze sono prive di un legame diretto con le sezioni narrative antecedenti e successive. Nel Fascino discreto… la chiusura nella ripetizione, segno della pulsione di morte da cui i personaggi sono governati, è forse metaforicamente suggerita da uno spazio aperto proiettato nel nulla. La reiterazione del loro movimento verso il vuoto è, a mio parere, forse l’immagine più cruda e tagliente nel cinema del grande maestro. Ma, diversamente dalle figure mostrate sullo schermo, mi sembra di poter dire che Buñuel abbia costruito la propria personale via, attraverso la creazione, per lavorare intorno all’abisso del reale e alla forza distruttrice del godimento, trasformandola in ricchezza espressiva. In Dei miei sospiri estremi egli racconta un episodio in cui da bambino vide la carogna di un animale in stato di putrefazione. Lo spettacolo lo attirò e al contempo lo respinse. «Rimasi come affascinato da
quella visione, intuendo, al di là della materia decomposta, un vago significato metafisico»24. Ci piace pensare che i resti non assimilati di quella esperienza, mediante l’arte cinematografica, abbiano preso forma all’interno di un visibile aperto a una pluralità stratificata di senso.
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Quell’oscuro oggetto del desiderio1 di Maria Tortajada Sull’interpretazione del celebre finale di Quell’oscuro oggetto del desiderio, Luis Buñuel così si esprime alla fine degli anni settanta: «È stato fatto male, non è chiaro. Avrei potuto inserire alcune frasi pronunciate da lei, qualcosa tipo: “Vai al diavolo! Non sono venuta a letto con te, né penso di farlo mai”»2. Ma allora, gli chiede José de la Colina, «se lei non voleva suggerire l’idea che fossero andati a letto, perché quell’immagine della tela rammendata?». «Non lo so» risponde Buñuel, «forse mi sembrò che dovessero vedere nella vetrina una scena casalinga, una donna che cuce tranquillamente. Porta fuori strada, e fu una mia cattiva idea, la macchia di sangue. Lo riconosco. Una cattiva idea»3. E tuttavia… La questione messa in gioco è la risposta di Conchita immaginata da Buñuel: «Vai al diavolo!». Il film segue il romanzo di Pierre Louÿs, La femme et le pantin (1898), di cui è un adattamento? La donna è andata a letto con il protagonista, come nel romanzo? «Non è chiaro» afferma Buñuel, facendo autocritica. I suoi film ci hanno forse abituato a messaggi così privi di ambiguità da farci prendere alla lettera una simile affermazione? Certo che no. Del resto, è chiaro che Buñuel si diverte a seminare il dubbio sopra qualsiasi interpretazione si possa dare delle sue scelte4, sempre che di scelte si possa ancora parlare, visto che il caso è così spesso chiamato in causa per spiegarle. C’è ironia, ovviamente, perché il regista gioca con i suoi interlocutori, con il lettore e lo spettatore. Questa sequenza finale è infatti molto costruita, e lo è, soprattutto, in riferimento al quadro di Vermeer di cui è una citazione. L’immagine della merlettaia, senza dubbio – come suggerito da Agustín Sánchez Vidal5 – il momento più importante del film, è ciò che unisce, come in una sorta di linea di forza, quest’ultimo film realizzato nel 1977 e il primo, Un chien andalou, del 1929.
Divenuto il simbolo, per così dire, del cinema surrealista, il celebre cortometraggio mostra una riproduzione del quadro inserendolo nella sua logica di produzione immaginaria e di associazioni oniriche. Ma Quell’oscuro oggetto del desiderio fa di quella donna concentrata sul proprio lavoro tutta un’altra cosa. Siamo distanti dalla logica che dominava quando Dalí introdusse questo riferimento nel primo film nato dalla loro collaborazione. Il rapporto di Buñuel con la pittura adesso si orienta decisamente verso un radicale approfondimento del quadro di Vermeer, sino a offrirne una “lettura” molto acuta. Dell’intenzionalità dell’artista qui poco ci importa. L’analisi comparativa delle due opere, quella di Vermeer e la sua, la dice lunga sulla forza del legame che le unisce. Questo «Non è chiaro» pone la questione essenziale del film, che coinvolge più livelli: a non essere chiaro, a essere oscuro, è il desiderio, ma anche, paradossalmente, la rappresentazione di una «donna che cuce tranquillamente» in una vetrina. Buñuel, come Vermeer, ci invita a contemplare un quadro di donna. Ma ciò che egli ci dà a vedere con la massima chiarezza è visibile senza passare attraverso una forma di oscurità? Questo interrogativo che investe la natura della rappresentazione si collega ai dispositivi di visione messi in gioco nella sequenza perché tali dispositivi incorporati – come oggetto o come modo di rappresentazione – riflettono una peculiare esperienza dello sguardo. In tal senso si comprende il riferimento a Vermeer6, grande maestro di giochi di rappresentazione che problematizzano la visione, in quel XVII secolo nel quale l’ottica si sta sviluppando non solo a livello tecnico ma anche nella sua funzione scientifica e filosofica. La camera obscura ne è uno dei principi fondamentali. Il film gioca su effetti di ironia e di distanziamento ma propone una rappresentazione realistica, generando così una costante tensione tra questi due poli. Ecco la storia, in due parole, come trasposta da La femme et le pantin: un uomo desidera una donna, che non cessa mai di attirarlo a sé e di rifiutarsi a lui. È la storia di un desiderio insoddisfatto. È anche una storia sulla violenza e sull’esercizio del potere: il potere in gioco nella
relazione di desiderio, ma anche la violenza del denaro, i rapporti di classe, la violenza terroristica. Una serie di attentati, esplosioni, aggressioni scandisce il racconto, spesso accompagnati da commenti giornalisticoradiofonici che producono un effetto comico e ironico. La sequenza finale, su cui ci concentreremo, si ricollega all’inizio del film, che invece si sviluppa come una narrazione retrospettiva del protagonista. Tornato a Parigi dopo innumerevoli disillusioni, Mathieu passeggia con Conchita. I due percorrono insieme uno degli storici passages parigini (il passage Choiseul), quando il loro sguardo viene catturato da una vetrina. Una donna si è appena posizionata di fronte ai passanti che a breve potranno contemplare il suo lavoro. Da un sacco un po’ rustico estrae un sottile tessuto bianco e inizia il suo delicato lavoro di rammendo. La sequenza si conclude con un’esplosione, senza dubbio conseguenza di quell’escalation di violenza terrorista a cui il film, come si è detto, fa spesso riferimento. Si è parlato molto dell’importanza del doppio in questo film; due attrici interpretano lo stesso ruolo della donna desiderata: Carole Bouquet e Angela Molina si alternano nelle inquadrature senza però che ciò comporti un cambiamento psicologico7. Ci si è anche interrogati sulla funzione del sacco di iuta, la cui apparizione a più riprese e in maniera più o meno inverosimile, struttura il film8. Una battuta misogina del maggiordomo di Mathieu suggerisce con evidenza la possibilità che questo sacco abbia a che fare con la femminilità: «ho un amico a cui piacciono molto le donne» dice al suo padrone, «ma che comunque sostiene che siano sacchi di escrementi». Quando, nella sequenza finale, la merlettaia estrae la biancheria delicata e immacolata da un sacco di iuta e la espone, il film produce ovviamente un effetto di rovesciamento rispetto a questa affermazione, anche se il tessuto che la donna sta per rammendare è sporco. Ma questa macchia è ovviamente qualcos’altro. Il nucleo della sequenza, per molti aspetti simmetrica rispetto all’inizio del film, è il lavoro, il merletto. Questo fine tessuto di biancheria fa parte di una serie di capi intimi femminili inaugurata all’inizio del film con le
culotte di Conchita9, proseguita con i pantaloncini legati alla sua pelle in modo così stretto da trasformarli in una sorta di cintura di castità. Nella vetrina, cioè nel cuore di un dispositivo della visione, sta la donna intenta a rammendare un merletto. «Vieni a vedere», dice Mathieu, mentre avvicina Conchita alla scena. Tutta la sequenza è costruita per portare lo spettatore a vedere il più da vicino possibile l’istante in cui l’ultimo punto chiude lo strappo del tessuto teso dal cerchietto del telaio nelle mani della merlettaia: è una progressione verso il primo piano, un momento intenso, spaventoso, ma anche affascinante (fig. 1). Nel contesto di questa storia, e se teniamo conto da un lato dell’onnipresenza del bianco nel film, da riferirsi alla verginità, e dall’altro della macchia di sangue, che riecheggia la seconda sequenza, quando Conchita fugge lasciando dietro di sé la sua biancheria intima, diventa evidente come la sequenza finale evochi il funzionamento del desiderio tra i due personaggi, Conchita e Mathieu: il ritorno alla verginità dopo la deflorazione, scriveva Freddy Buache nel 1977, all’epoca dell’uscita del film10. Possiamo dire, più violentemente, la chiusura del sesso della donna: la sua otturazione. Si tratta infatti di una rappresentazione del sesso femminile che viene mostrata per metafora, ma senza maschere: lo scopo del film sembra essere quello di mettere in luce, di dare massima visibilità al momento della sutura. La sequenza finale sviluppa un’interpretazione molto particolare del motivo ripreso da Vermeer, interpretazione che è invece assente in Un chien andalou11. La riproduzione del quadro nel film surrealista si spiega sia come compromissione parodistica della cultura classica sia come integrazione del motivo vermeeriano nell’intertesto surrealista. Il processo è stato commentato in modo molto preciso da Michael Iampolski12. Invece di interpretare l’ultimo film di Buñuel nella prospettiva della genealogia surrealista, meglio riconsiderare, allora, il Buñuel messicano. La questione della sutura e soprattutto dell’atto di cucire il sesso femminile è al centro di Él, uno dei film fondamentali di Buñuel, uscito nel 195313. Il
protagonista, che nello sviluppo del racconto si rivelerà essere un totale paranoico e un inguaribile geloso, insegue l’ossessione di appropriarsi di sua moglie proprio con questa modalità. Vari elementi formali che costruiscono le crisi del personaggio e della coppia si riferiscono al cucito attraverso sia il suono che l’immagine. Si veda, per esempio, l’ultima inquadratura del film, quando il protagonista, rinchiuso in un monastero e apparentemente pacificato, si allontana verso la profondità di campo dove emerge la cavità di una grotta: il personaggio segue un percorso tortuoso, come per ricucirne i bordi con un punto a zig zag. La merlettaia, alla fine di Quell’oscuro oggetto del desiderio, rievoca proprio questo14. C’è un cambio di direzione, senza dubbio. Ma il discorso del film, come si vedrà, si chiarisce proprio con questa svolta rispetto al riferimento che lo ossessiona. IL QUADRO PRIMA DEL FILM
Ciò che colpisce nel quadro di Vermeer, tanto più dopo aver visto la sequenza di Buñuel, è che, come si è anticipato, lo spettatore non può vedere l’opera della donna15: il merletto in lavorazione è posto su una struttura specifica. Il telaio per merletti è costituito da un sottile cuscino azzurro, sul quale si nota al centro una fascia arancione: la guida del merletto dove è disegnato il motivo. Questo morbido cuscino è posto su una piccola scatola di legno probabilmente destinata ai fuselli. In basso, un pannello verticale in legno nasconde in parte le gonne della ricamatrice. Si possono vedere gli aghi che trattengono i fili nel punto in cui le mani lavorano, ma non si vede alcun motivo. Il nostro sguardo è attirato da questo punto in cui le mani muovono i fili. Ciò accade, come gli studi su Vermeer non hanno mancato di sottolineare16, grazie a diversi fattori. Innanzitutto grazie allo sguardo concentrato della merlettaia che ignora lo spettatore e che, in questo, appare come una figura della concentrazione, come fanno notare molti commentatori. C’è come una chiusura che sembra richiedere uno sguardo compensatore, e
questo aspetto si ritroverà anche nel film. Se la metà superiore del quadro, il volto, il corpo vestito di giallo e bianco su fondo leggermente ocra sono immersi in una luce abbagliante, la metà inferiore del quadro invece è scura: i toni verdi della tovaglia si mescolano al blu intenso, blu che ritroviamo nel cuscino per cucire e che riprende quello della gonna. L’intero primo piano scuro sembra essere lì per nascondere parte della giovane donna allo sguardo dello spettatore. La si nasconde, senza dubbio, per inquadrare meglio le mani all’opera. Poiché il cuscino copre il gomito destro e la mano sinistra appare senza nemmeno poterne vedere il polso, le mani sembrano diventare autonome, guadagnando quindi in ulteriore visibilità. Le mani, come vedremo, sono anche al centro della rappresentazione nel film. C’è poi un altro modo di orientare lo sguardo dello spettatore, come spiega Daniel Arasse nell’analisi di questo quadro17: lo spettatore non vede quello che sta facendo la donna, ma vede come lei. Paragonando la precisione della linea del filo da ricamo ai fili posti in primo piano a sinistra, dipinti in modo impreciso, con delle colature, Arasse mostra che il ricamo è il luogo dove lo spettatore, si potrebbe dire, “fa il punto”: esso è designato come l’oggetto da guardare. Georges DidiHuberman, dal canto suo, fa della macchia pittorica di questi imprecisi fili bianchi e rossi l’essenziale, il riferimento alla pittura pura data nella sua matericità18. Senza dubbio, non bisogna rinunciare né all’uno né all’altro aspetto: ci sono i fuselli che tendono e lavorano i fili, e c’è il rosso, che come una macchia, come un gocciolamento, si impone allo spettatore. C’è tuttavia un terzo elemento che si impone al nostro sguardo e che la composizione del quadro rende evidente. Non ci sono, dunque, soltanto lo spazio luminoso che si contrappone allo spazio inferiore scuro della tela e lo spazio in primo piano dove sono accatastati gli oggetti, che maschera in parte il secondo piano dove si trova la giovane donna. Un terzo spazio degno di nota è costituito dalla parte inferiore del tavolo da lavoro, molto meno carico, rivelando allo spettatore solo il blu intenso della gonna, dietro il pannello e la gamba prominente del tavolo. La
posizione del punto di vista dello spettatore, in leggera angolazione dal basso, consente ovviamente di innalzare il luogo del ricamo come su una sorta di espositore; ma allo stesso tempo ci costringe a guardare sotto il tavolo. Ora, a colpire è il fatto che questo pannello di legno presenti un piccolo foro rettangolare nell’unica parte esposta alla luce. Ma come comprendere la funzione di tale pannello? Come decifrare la sua forma, di cui possiamo intravedere solo un piede smerlato19? John Nash ha rimarcato l’ambiguità compositiva di questo quadro, in cui i diversi oggetti e strumenti non si distinguono interamente nel gioco di luci e di ombre. Per poter ricostruire ciò che il più piccolo quadro di Vermeer vuole mostrare, lo spettatore deve impegnarsi in un’attività di decifrazione20. Nash sottolinea, in particolare, l’incongruenza del tavolo. Walter Liedtke ha dimostrato con chiarezza come ciò che completa la struttura del tavolo sia proprio un “semplice” pannello21. Ma, come suggerisce Nash, la composizione può far pensare a una scatola che estende il cassetto dei merletti verso il basso. Anche qui si riscontra una certa indiscernibilità che, aggiunta alle altre, fa sistema22. Nel quadro, peraltro, le scatole non mancano: oltre a questa sorta di pannello-scatola che sfida l’interpretazione e oltre alla piccola scatola con il fuso su cui è posto il merletto, c’è infatti anche il cuscino da cucito, dal quale sembrano scorrere dei fili bianchi e rossi che tanto hanno attirato l’attenzione degli storici – e spesso la fattura di questi fili è stata accostata agli effetti ottici prodotti dalla camera obscura. Nash, dal canto suo, si propone di approfondire il significato del quadro esplicitando una metafora fondata su una lettura storica. Nelle rappresentazioni tradizionali i lavori di cucito come i ricami e i pizzi sono associati all’educazione della Vergine; nella pittura olandese del XVII secolo, in particolare, essi risultano praticati dalle fanciulle virtuose23. Ma qual è il senso, allora, di quel cuscino scuro che s’impone allo sguardo per le sue striature rosse e bianche? La risposta di Nash è appassionante per ciò che più ci interessa in questa sede:
La scatola da lavoro era conosciuta ai tempi di Vermeer come naaikussen che significa, letteralmente, “cuscino per aghi”. Ma naaien significa, volgarmente e metaforicamente, “copulare”, e sebbene il sostantivo kussen significhi “cuscino”, il verbo kussen vuol dire “baciare”. I fili che sgorgano dall’apertura in questo gonfio naaikussen evocano il sangue rosso e il latte bianco che fuoriescono dal seno e dal grembo materni prima della nascita di un bambino24.
La metafora al contempo virginale e sessuale unita alla procreazione, allora, definisce questa donna il cui atto essenziale è la realizzazione del motivo traforato che solo lei può contemplare. Ma la metafora deve essere completata proprio con la lettura della parte inferiore del quadro, alquanto trascurata dalla critica, il che è paradossale se si considera che la scelta compositiva di Vermeer prescrive allo sguardo dello spettatore e della spettatrice l’obbligo di indirizzarsi sotto il tavolo. All’altezza del ventre della giovane donna, il legno del pannello è provvisto di questa perforazione, che significa il corpo femminile, senza maschere, nella massima visibilità: questa apertura sembra sostituirsi in quanto tale allo sguardo chiuso, perché con le palpebre abbassate, della merlettaia. Se l’essenziale resta molto difficile da vedere, il quadro – al posto della femminilità, al posto del sesso femminile – installa, come in uno scrigno, qualcosa che ha a che fare con lo sguardo. Davanti alla Merlettaia si è presi in un sistema di tensioni la cui sede è il corpo della giovane donna, figurato o metaforizzato che sia; un sistema la cui posta in gioco è lo sguardo, a un tempo enfatizzato ed eluso: il collegamento tra le palpebre abbassate, chiuse per lo spettatore, e l’apertura nella zona bassa dell’immagine; la tensione tra la scatola chiusa da cui fuoriescono i fili in uno spazio sovraccaricato di oggetti e l’apparente semplicità della parte inferiore del tavolo la cui apertura è paradossalmente offerta allo sguardo. Tutto questo viene mostrato allo spettatore attraverso una serie di ostacoli e ambiguità della rappresentazione che lo costringono, come si è detto, a impegnarsi in un lavoro di decifrazione. Gli storici dell’arte e della tecnologia hanno da tempo dimostrato l’importanza dell’ottica e della questione dello sguardo nell’opera di Vermeer. Ancora oggi è in
corso un colto dibattito sul possibile utilizzo della camera obscura da parte del pittore, con una divisione tra chi vede in questo dispositivo storico il mezzo utilizzato da Vermeer per tracciare “direttamente” il contorno dei suoi dipinti, per coglierne la prospettiva in un processo di riproduzione, e chi invece preferisce sottolineare la funzione ispiratrice che la camera obscura ha saputo svolgere per imitarne e al tempo stesso deviarne gli effetti25. A ogni modo, c’è accordo sull’importanza che questo apparecchio assume nel XVII secolo. Le camere portatili erano a quel tempo già note, come riportato nell’opera, sempre citata al riguardo, di Johann Zahn, Oculus artificialis teledioptricus (16851686)26. Un gioco di specchi permetteva di proiettare la luce su una carta oleata, che l’osservatore poteva vedere in trasparenza sulla parte superiore della scatola stessa. Si sa che la camera obscura non è solo uno strumento che gli artisti potevano usare, ma un modello di visione che attraversa tutto il Seicento. Prima Keplero e poi Cartesio, che scrisse la sua Dioptrique nei Paesi Bassi, individuano nella camera obscura un modello di funzionamento dell’occhio utile per comprendere la percezione27. Tuttavia, la pratica di Vermeer, come dimostra la sua opera, è un mezzo per esplorare le possibilità della visione, una forma di sperimentazione e di gioco delle tecniche della rappresentazione, con tutti gli effetti che tale mezzo comporta28. Ci sembra che siano proprio questi aspetti a venire colti dalla metafora “filata” proposta dalla Merlettaia, all’interno di una rappresentazione che racchiude nel piccolissimo spazio immaginario del quadro, il corpo e le mani della giovane donna, i diversi oggetti e il pannello che scende davanti alle ginocchia. Questa, come si è detto, non è l’unica scatola, ma nel modo ambiguo di disporre il pannello sotto il tavolo, con il piccolo foro illuminato dalla luce, la composizione può suggerire che dietro il pannello si trovi un al di là oscuro che può essere solo il corpo stesso della giovane donna. Le camere portatili che Zhan disegna potrebbero invece ispirare senza dubbio una metafora fallica, con il loro lungo obiettivo29. Ma la camera obscura funziona anche senza quest’ultimo, è sufficiente
una semplice lente posizionata al posto del foro. La reale efficacia di un simile dispositivo per un pittore del XVII secolo è qui irrilevante. Ciò che conta è il concetto che la camera obscura suggerisce, la metafora che essa rende più complessa. Il dispositivo di visione della camera obscura è nel quadro sia occhio che sesso, contraltare di uno sguardo e di un corpo femminili. Questa rappresentazione non può non richiamare oggi il tema surrealista dell’occhio-sesso, rappresentato ad esempio da Victor Brauner (L’œil-sexe, 1927), motivo che si ritrova in Bataille, in particolare nell’Histoire de l’œil30. Potremmo senz’altro applicare a questo dipinto la lettura lacaniana del famosissimo Seminario XI31, e considerare che il sesso femminile vi si pone come oggetto del desiderio, oggetto che letteralmente “ci guarda”, guarda noi spettatori: quello sguardo non è certo uno sguardo del mondo dell’ottica, ma dello spazio della pulsione e del desiderio. Non c’è alcun bisogno, comunque, di sottolineare tali collegamenti, che senza dubbio agiscono nella rilettura da parte di Buñuel. Tuttavia, è interessante notare come nel caso di Vermeer sia proprio lo strumento per eccellenza dell’ottica classica a prendere il posto del sesso femminile. Se ci atteniamo a questa dimensione che Lacan rifiuta, se cerchiamo di seguire ciò che il quadro conosce particolarmente bene, vale a dire i dispositivi stessi di visione, possiamo imparare qualcosa sull’oggetto del desiderio come sguardo, qui il sesso femminile, la donna. Ciò accade perché, di fatto, l’ottica costituisce la donna in quanto soggetto: soggetto della rappresentazione; poiché è a partire da lei che si costruisce la rappresentazione. È lei che tira i fili, che esercita la sua maestria con le mani, utilizzando un dispositivo tecnico, il telaio da lavoro, come metafora della camera obscura. Definisce, in cambio, la natura della sua femminilità, tra delicatezza (del merletto) e potenza (della creazione). UN’INCORPORAZIONE DI DISPOSITIVI
La merlettaia di Buñuel non racconta di certo la stessa storia nello stesso contesto ma, colta nel suo rifarsi al romanzo di Louÿs, fa funzionare nello stesso modo la tensione tra la verginità e la procreazione – “riproduzione”, come suggerito da un’insegna del passage Choiseul alla fine del film –: la macchia rossa e il sangue, la verginità, il lavoro manuale e il dispositivo di visione. Dal punto di vista del rappresentato, il film di Buñuel, come abbiamo detto, accetta la scommessa di mettere in evidenza il merletto per mostrare ciò che non c’è in Vermeer: l’idea sconvolgente e distruttiva della sutura del sesso femminile. La merlettaia qui è una rammendatrice. Siamo nell’ambito della rappresentazione buñueliana di una forma di perversione del desiderio. Si tratta di un altro universo. Esponendo allo sguardo dello spettatore il cerchietto del telaio che tende il sottile tessuto, il film fa riferimento a un altro quadro di Vermeer, La lattaia (1658-1660): la donna versa di fronte all’osservatore il latte contenuto in una brocca, rivelando il cerchio perfettamente disegnato del collo del recipiente. È interessante notare che éclisse, equivalente francese del termine “stecca” (nel nostro caso circolare), designa sia il tondo di vimini su cui viene fatto colare il latte cagliato, sia il telaio circolare utilizzato dalla merlettaia, sia una parte del sesso femminile. Di fatto, con lo strumento circolare della ricamatrice, il film si inserisce nella serie di metamorfosi formali intorno al cerchio proposte dai surrealisti: in un gioco di parentele, l’occhio viene avvicinato al cerchio, alla luna (cfr. Un chien andalou), alla perla, all’uovo, da collegare soprattutto all’attività erotica e allo spazio pulsionale, anche a costo di separarlo da ciò che costruisce lo sguardo nell’ottica classica, ossia il vedere: come nel caso dell’occhio tagliato dal rasoio o con l’Autoportrait (1931) di Victor Brauner, con l’occhio enucleato. Nella lettura psicoanalitica sono ovviamente figure di castrazione, ma c’è letteralmente l’idea di annientare la visione. Allo stesso modo, la sutura del sesso femminile funge da otturatore dello sguardo, che
forse non fa che confermare allo spettatore gli occhi chiusi della merlettaia. Sebbene il titolo del film Quell’oscuro oggetto del desiderio incoraggi ad avvicinare il sesso femminile al dispositivo ottico chiamato camera obscura, la sequenza finale sembra allontanarsene: giocando piuttosto sulla massima chiarezza, sull’esplicita ed evidente esibizione dell’occhio-sesso-cerchietto, e installando la merlettaia in quel dispositivo di visione che è la vetrina. Sembra che qui non ci sia camera obscura come in Vermeer. Questo significa forse che la rappresentazione della merlettaia offerta dal film cancelli ogni sguardo? Che si accontenti dello sguardo chiuso della ricamatrice mantenendola nella posizione di oggetto esibito, esposto? Anche il film risponde attraverso il complesso dispositivo di visione in cui è inscritto l’occhio-sesso circolare. Riassumo qui le caratteristiche principali della sequenza. Dal primo piano, nel passage Choiseul, la macchina da presa inquadra la coppia vista di spalle: sono visibili delle insegne, in particolare le iscrizioni «photocopies circulaires», applicata su un supporto lampeggiante, e «reprographie». Da subito viene quindi posta, ovviamente, l’idea di “riproduzione”, il tema del doppio. La merlettaia entra in campo e si siede dietro la vetrina per iniziare il suo lavoro, poi la macchina da presa cattura la coppia che si avvicina e si riflette sul vetro come prefigurato dalla parola «reprographie». La coppia occupa quindi al tempo stesso la posizione spettatoriale e di oggetto della rappresentazione (fig. 2); la merlettaia ora è davanti alla coppia, il suo corpo si sovrappone parzialmente al riflesso di Mathieu (fig. 3). La macchina da presa quindi si avvicina fino a ottenere un’inquadratura abbastanza simile a quella di Vermeer sulla merlettaia e che in qualche modo ricorda un quadro – la ripresa dal basso non è necessaria per mettere in evidenza il cerchietto del telaio (fig. 4). Il film insiste sulla dimensione fortemente autoreferenziale della sequenza, incentrata sui processi di rappresentazione e di sguardo, oltre che sull’idea di coppia.
La merlettaia è catturata in un dispositivo specifico, la vetrina, che impone agli spettatori un luogo e un certo modo di comportarsi, e fa della donna al lavoro l’oggetto della rappresentazione. Si insiste sul vetro come medium, nella sua duplice funzione: al tempo stesso necessariamente trasparente, per il corretto funzionamento di questa cornice espositiva, e superficie riflettente, supporto per una delle due rappresentazioni della coppia. La vetrina è di per sé un complesso dispositivo di visione nel film e uno spazio in cui viene costruita la rappresentazione. Tuttavia, come abbiamo visto, paradossalmente, la sutura funge da chiusura, come un otturatore che si chiude. Potrebbe essere un buon modo per concludere la storia mettere in scena la scomparsa della rappresentazione – ed è ciò che fa l’ultimo fotogramma del film, con l’esplosione e le sue volute di fumo che nascondono tutto. Tuttavia prima c’è ancora qualcosa da vedere. Il film installa lo sguardo dello spettatore all’interno della vetrina per mostrare la coppia da un punto di vista molto particolare; un punto di vista collocato il più vicino possibile, non agli occhi della merlettaia, alla quale i capelli peraltro mascherano persino il viso, ma al suo lavoro, e in particolare alle sue mani, che saranno il “filo” conduttore dei raccordi tra le inquadrature successive (fig. 5). Questo passaggio della macchina da presa dietro al vetro è fondamentale, perché è attraverso di esso che l’occhio-sesso-cerchietto si costituisce in quanto dispositivo di visione, con un punto di vista che cattura una rappresentazione, la coppia dietro il vetro. Senza questo passaggio della macchina da presa, l’occhio-sessocerchietto non vedrebbe nulla. E invece vede e costruisce la rappresentazione. Perché questo sguardo incrocia il movimento delle mani della merlettaia che incessantemente muovono l’ago. Lo sguardo che parte da questo luogo altamente femminile deve passare attraverso il corpo della donna che confeziona il merletto. La posta in gioco non è solo lo sguardo, ma anche il luogo a partire dal quale si produce la rappresentazione. E in questo senso si può dire che il film, con i suoi due dispositivi di visione incastonati l’uno
nell’altro, la vetrina e l’occhio-sesso-macchina da presa, propone un equivalente della camera obscura del dipinto di Vermeer. Se la merlettaia di Vermeer non ci consente di vedere che cosa sta creando, il film, nel mostrare la coppia dalla vetrina, esibisce una rappresentazione di cui il cerchietto del telaio – il sesso femminile – è all’origine. Dall’interno della vetrina, noi vediamo allora una scena di intensa emozione per il personaggio maschile, ulteriormente enfatizzata dalla musica e dalle parole del canto di Siegmund e Sieglinde, i due gemelli rapiti da un amore incestuoso alla fine del primo atto della Valchiria di Wagner32. È una musica di intensa emozione e di superamento di sé, come si addice all’estetica wagneriana e a ciò che sembra vivere Mathieu. Senza dubbio si capisce che egli sta assistendo allo svelamento di ciò che non ha mai smesso di cercare e non è riuscito a ottenere: il sesso di Conchita. Questo è probabilmente vero, ma c’è qualcosa di molto più affascinante in gioco e sono le mani a indicarcelo. Quel primo piano della coppia ripreso dall’interno della vetrina, che inquadra dapprima la mano della rammendatrice in movimento, è quello in cui Mathieu tende simultaneamente la sua mano verso quella di Conchita e comincia a giocare con le sue dita, come per intrecciarle alle sue (fig. 6). Qui si raggiunge il limite di ciò che è catturabile con le immagini fisse perché la sequenza intende evidenziare un duplice movimento, quello delle mani della merlettaia e quello delle mani di Mathieu. Il film proclama una relazione di analogia attraverso questa coincidenza del movimento delle mani. Mathieu si serve della mano della donna come di quella che ha accesso al sesso femminile e che opera la sutura. Di fatto, è lui la merlettaia. È il suo doppio, come già indica la sovrapposizione del suo riflesso sul corpo della donna nella vetrina. Il principio di riproduzione e il gioco dei doppi trascinano Mathieu in un’ambiguità dell’identità sessuale tale da fare attribuire la responsabilità della sutura al personaggio maschile almeno tanto quanto a Conchita. Questo è ciò che è stato costruito quando il film ci mostra, dopo due campi e controcampi, il primo piano sul cerchietto del telaio e le
mani all’opera (fig. 1). In questo senso Mathieu si avvicina per certi versi al folle personaggio di Él. Eppure, nonostante Wagner, nonostante la messa in scena dell’emozione, lo spettatore del film rimane a una giocosa distanza dal personaggio di Mathieu, visto sempre dietro il vetro. Si tratta solo di una pura rappresentazione, ed è quello che ci racconta il film mostrandoci la sua costruzione. La distanza ironica è data anche dalla voce fuori campo dello speaker radiofonico che introduce il momento chiave della sequenza dicendo: «et maintenant pour nous changer un peu les idées, cédons la place à la musique»33. Bisognerebbe ovviamente sottolineare tutti gli effetti comici nel discorso della voce dello speaker. Basti dire però che il film mette a distanza l’emozione erotica, il che completa in modo molto forte la rappresentazione esibita del desiderio del personaggio maschile. Mathieu, nella coppia che forma con Conchita, è un semplice oggetto della rappresentazione, e ci viene mostrato in quanto tale, un oggetto di cui non si sentono più nemmeno le parole dietro il vetro. Lo spettatore, invece, può condividere il potere del sesso femminile che è quello di costruire, fabbricare e dare visibilità alla rappresentazione, di essere in qualche modo il soggetto al centro di un dispositivo di visione. La merlettaia è la figura chiaroscurale di questa messa in atto della potenza femminile. Il suo lato giubilatorio si trova in Viridiana (1961), con il sesso femminile messo in esplicita relazione con la macchina fotografica. Ma questa è un’altra storia.
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Gli altri film di Bruno Surace «Non ho nessuna voglia di passare in rivista tutti i miei film e dire cosa ne penso – non spetta a me farlo»1. In questo passo dell’autobiografia di Luis Buñuel è racchiusa tutta la schiettezza di uno straordinario e prolifico cineasta. Si tratta di una franchezza che, in qualche modo, caratterizza anche il suo stile, asciutto e diretto. Ed è da qui che si potrebbe cominciare, per fornire una panoramica ragionata sugli “altri” film del regista aragonese, ossia su quei titoli (ventisei sui trentadue complessivi) che in questo volume non sono oggetto di un’analisi specifica. Surrealista, certo, visionario, e senz’altro capace di trasudare una forte tensione morale, il cinema di Buñuel – dai film cosiddetti “alimentari” alle opere più mature2 – è anzitutto una fine operazione di storytelling. Al di là infatti di casi rarissimi – come per Las Hurdes (1933) – i film di Buñuel raccontano sempre delle storie e lo fanno con chiarezza, nello spazio e nel tempo che meglio a queste si attagliano. Sono storie semplici, crude, di serrata immediatezza, eppure capaci di catturare l’occhio di chi guarda, poiché in fondo nella loro linearità si dispiegano i conflitti più profondi su cui ancora oggi si basano le narrazioni complesse della contemporaneità3. Invero Buñuel è interessato al bene, al male, e soprattutto allo spettro grigio che fra questi due poli ideali costituisce la zona di movimento interiore ed esteriore dei suoi personaggi. È senz’altro interessato al giusto e all’ingiusto. All’amore e all’odio. Costruisce un cinema che procede per grandi temi, con un’agilità sorprendente, e senza mai, tuttavia, scadere in forme di manicheismo reazionario. L’epos buñueliano è animato da pulsioni contraddittorie, e le trame esili – che aumentano di complessità man mano che i film avanzano – servono quasi sempre a fornire il terreno fertile di sviluppo di psicologie poliedriche, che non di rado sfociano in exploit violenti e irreversibili4. Tutto, sempre, nel “giusto spazio” che va, al di là dei
cortometraggi e mediometraggi che scandiscono le primissime fasi della sua produzione, dai 90 ai 100 minuti (poco di più nelle ultime opere). Senza fronzoli, se si ha qualcosa da dire un minutaggio del genere è più che sufficiente per rappresentare gli intrighi torbidi di amori fedifraghi, o i delitti oscuri di donne e uomini dannati, così come per costruire una simbologia che innerva per intero la produzione del regista, composta attorno a una serie di isotopie che in questo capitolo proveremo a mettere a sistema. Non prima di muovere, tuttavia, alcune premesse basilari, utili alle lettrici e ai lettori di queste pagine. La prima riguarda il perimetro filmografico della trattazione, delimitato a tutti i titoli realizzati con l’eccezione di Un chien andalou (1929), L’âge d’or (1930), Él (1953), L’angelo sterminatore (El ángel exterminador, 1962), Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie, 1972), Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir, 1977). Questi sei film, che comprendono l’opera prima e l’ultimo film del regista, vantano già capitoli dedicati nel volume, e pertanto ci limiteremo a menzionarli quando sarà necessario. Non però senza l’avvertenza che essi partecipano come gli altri alle isotopie buñueliane che man mano rileveremo. La seconda premessa riguarda la strutturazione di queste pagine. Sul cinema di Buñuel vi è in effetti a oggi una fitta bibliografia, che spesso ha proceduto secondo criteri più filmografici che non tematici. Di tali lavori questo capitolo è senz’altro debitore. Accanto a questi e ad altri volumi di simile taglio, che raccolgono e analizzano cronologicamente la filmografia dell’autore, si stagliano poi moltitudini di fonti critiche che quasi entomologicamente (la metafora sarebbe piaciuta a Buñuel, appassionato di insetti e ammiratore di Jean-Henri Fabre)5 sezionano l’opera del regista e ne propongono le più svariate esegesi. Questo capitolo dunque, consapevole di entrambe le possibilità, si muoverà in una sorta di ibridazione fra i due approcci, ma con l’obiettivo primario di procedere mettendo in primo piano i film.
Da un lato infatti, come si è anticipato, mireremo a fornire una panoramica intesa a valorizzare i numerosi film che, inevitabilmente, non possono essere oggetto di un’analisi specifica in questo volume. Dall’altro lato, però, non saremo enumerativi, né strettamente cronologici, ma lavoreremo per comunanze e discordanze, per temi comuni, per stilemi e per simbologie. GUIDA ALLA LETTURA
La lettrice o il lettore che si trovino di fronte a queste pagine sono già stati avvertiti; esse non presentano una scansione filmografica cronologica, in cui ogni film viene analizzato con apposita scheda. Va però rilevato che per tutti i film del regista, dal primo periodo surrealista al secondo periodo francese, passando per la lunga fase messicana6, esiste collocazione in questa trattazione, e spesso più d’una. I cinque paragrafi che seguono propongono, ognuno, un percorso a tema, che naturalmente apprezza, mediante specifici affondi, alcune opere della produzione buñueliana, maggiormente esemplificative rispetto al criterio di pertinenza adottato. Il primo paragrafo, Susana, Viridiana, Tristana e le altre, è dedicato all’universo femminile che costituisce la spina dorsale del cinema di Buñuel; qui l’attenzione è rivolta soprattutto a film come Adolescenza torbida (Susana, 1951), La hija del engaño (1951), Subida al cielo (1952), Una mujer sin amor (1952), El bruto (1953), Gli amanti di domani (Cela s’appelle l’aurore, 1956), Viridiana (id., 1961), Bella di giorno (Belle de jour, 1967), Tristana (id., 1970). Così a seguire il secondo paragrafo, Nazarin, Simón, Arcibaldo e gli altri, si sviluppa come sorta di ideale contraltare al primo, attorno ad alcuni dei personaggi maschili più significativi nell’opera del regista, proprio in forza delle tensioni che essi sviluppano con il mondo femminile; verranno quindi qui affrontati con maggiore attenzione I figli della violenza (Los olvidados, 1950), Nazarin (1958), Estasi di
un delitto (Ensayo de un crimen, 1955), La selva dei dannati (La mort en ce jardin, 1956). Il terzo paragrafo, Sogni, incubi, allucinazioni, indugia sulle componenti più oniriche e ipnagogiche, concentrandosi e fornendo una ricca carrellata di esempi delle visioni che hanno contribuito a definire Buñuel come un regista in grado di descrivere mondi interiori, alle volte addirittura allucinati, come accade, fra gli altri, in Gran Casino (1947), El gran calavera (1949), Le avventure di Robinson Crusoe (Robinson Crusoe, 1954), L’isola che scotta (La fièvre monte à El Pao, 1959), Violenza per una giovane (La joven - The Young One, 1960), Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974). Il quarto paragrafo, Insetti, galline, serpenti, rende conto della potenza figurativa e simbolica conferita dal regista agli animali, che popolano la sua filmografia trasformandola in un vero e proprio bestiario cinematico. Sarà qui che verranno stabilite alcune coordinate per interpretare quest’abbondanza zoologica, senz’altro curiosa, alla luce della poetica di Buñuel7, anche indugiando su opere come Abismos de pasión Cumbres borrascosas (1953), La ilusión viaja en tranvía (1954), Il fascino discreto della borghesia. Il quinto e ultimo paragrafo, Romanzi, racconti, realtà, sarà infine dedicato a tracciare la doppia anima di Buñuel, da un lato avido lettore, che da una moltitudine di fonti di finzione ha attinto per sviluppare le proprie storie e renderle magnetiche, dall’altro crudo osservatore e rappresentatore di una realtà contraddittoria, si pensi a El río y la muerte (1954) fatta di divari e diseguaglianze, che più volte ha ripreso configurandosi a tutti gli effetti come un cineasta di denuncia, come nell’opera giovanile Las Hurdes, con cui chiuderemo il nostro itinerario. Dal momento che l’opera di Buñuel gode, come vedremo, di una certa organicità, per cui alcuni temi ritornano anche dopo molto tempo, e altre convinzioni sembrano non esaurirsi mai del tutto, è evidente che anche in una ripartizione come quella proposta capiterà che un titolo compaia in un paragrafo e poi venga richiamato altrove,
per essere letto sotto una luce diversa, data la polisemia su cui si impernia la filmografia del regista. Anche per questo motivo si è scelto in ogni caso di fornire delle chiavi di lettura, funzionali a un orientamento nella galassia buñueliana. SUSANA, VIRIDIANA, TRISTANA E LE ALTRE
Le narrazioni di Buñuel si dipartono sempre da un qualche tipo di tensione. Da un lato c’è l’ordine costituito, quello imposto dalla società, dai benpensanti, dai ricchi e dai borghesi. Dall’altro c’è la pulsione, il desiderio di riscatto o di vendetta, l’aspirazione per qualcosa di meglio o, anche solo, la brama di ciò che non si ha e, più spesso, non si può avere8. Il cinema del regista insomma edifica uno spettro retto sulla moralità come una specie di vestimento della società, simulacrale, che viene messo in discussione. Così è per una serie di tematiche, ma soprattutto per quanto riguarda i rapporti fra uomo e donna, che vedono quest’ultima spesso capace di riscattarsi dalle vessazioni di società retrograde e conquistare uno spazio narrativo e simbolico preminente. Il tema della femminilità impernia il cinema del regista in così tante opere da farne un’isotopia assolutamente portante. Le donne di Buñuel sono sempre donne inserite in contesti vetustamente patriarcali, e che pure non si limitano a subire la situazione ma assumono con coraggio posizioni sovversive, manifestando e maneggiando un potere inedito – quello della femminilità stessa – e ribaltando una sorta di “naturale” status quo nelle comunità spesso reazionarie messe in scena. In El bruto ad esempio il nerboruto Pedro, uomo di poco intelletto assoldato da Don Andrés per riportare l’ordine nel quartiere malmenando alcuni umili lavoratori che si sono permessi di protestare, è nell’aspetto e nella possanza assolutamente temibile, ma viene soggiogato da un doppio amore, quello per Meche, figlia proprio dell’uomo che il Bruto ha ucciso in un pestaggio, e quello per Paloma, moglie dello stesso Don Andrés. Si tratta di due donne agli antipodi, a rafforzare
ulteriormente il clima di tensione: Meche è giovane, candida e ingenua, Paloma è matura, carnale e subdola. Sarà in effetti quest’ultima che in un impeto di gelosia causerà la morte di Pedro, configurandosi come una femme fatale in piena regola, come molte altre se ne vedranno nel cinema di Buñuel. Le donne rappresentate, come dicevamo, sono spesso bistrattate dalle società maschiocentriche che abitano, eppure di fronte all’aggressività maschile si rivelano in grado di muovere con destrezza i destini dei personaggi. Quasi vent’anni dopo El bruto il regista gira infatti Tristana, in cui la protagonista, interpretata da una giovane Catherine Deneuve, abusata dal suo tutore Don Lope (l’attore Fernando Rey, feticcio del regista) che a piacimento la tratta da padre oppure da amante, alla fine ne causerà la morte. O Adolescenza torbida, in cui una giovane e avvenente ragazza, fuggita da un carcere in una notte tempestosa, sembra incarnare il diavolo in persona e arriva a seminare profonde discordie nella cascina del ricco possidente Don Guadalupe, che con generosità le aveva concesso un rifugio, fino a tentare di assassinarlo di propria mano venendo fermata giusto in tempo dai provvidi gendarmi. O ancora Séverine – detta “Bella di giorno” – in Bella di giorno, in cui di nuovo Catherine Deneuve rimescola le carte di un ruolo precostituito, quello della introversa moglie di un brillante medico, soffocata dalla sua prestabilita “secondità”, e quello invece di focosa prostituta, che nel sesso con gli estranei esperisce la propria liberazione, e che di nuovo mediante questa sua catartica riscoperta di sé causerà al marito un colpo di pallottola9. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma è già chiaro che fra i grandi schemi buñueliani ne emerge uno dominante: amore e morte, eros e thanatos, sono forse il primo grande prisma attraverso cui l’opera del regista si rifrange. Il passaggio dall’amore alla morte è tale di frequente per l’ottusità del personaggio maschile, che preso dai propri piani, dai propri denari e dalle proprie liaisons, ignora o sottostima la presenza femminile; questa, a sua volta, rifiuta di subire o di occupare una posizione indifferente, e spariglia fatalmente le carte.
Dall’altro lato è invece una sorta di invisibile egemonia della forza, spesso mortifera, del desiderio, a ghermire le sorti dei personaggi facendole collidere nella pulsione generata da amore e morte, come nel finale di Abismos de pasión, che vede prima Catalina morire di parto e poi Ricardo, suo fratello, ucciderne l’amato Alejandro. Accanto a tali donne mortali si staglia poi tutta una serie di personaggi femminili che, anche senza causare la dipartita dei personaggi maschili, gioca fieramente a destabilizzarli. In Subida al cielo ad esempio il giovane sposino Oliverio, che ancora deve consumare la sua prima notte di nozze, intraprende un lungo e faticoso viaggio in autobus alla ricerca di un notaio. Su questo mezzo, che Buñuel sfrutta per rappresentare un campionario di variegata umanità un po’ come farà, un anno dopo, con La ilusión viaja en tranvía, vi è anche Raquel, vecchia amica del protagonista che gioca a sedurlo, fin quando ci riesce. Lui le si concede, per una notte di passione, e il giorno dopo lei, ottenuto il suo scopo, cambia completamente atteggiamento non curandosene più. In Una mujer sin amor Rosario tradisce il marito Carlos, colpevole di cafoneria e disinteresse, e dal suo amore illegittimo di cui il marito non saprà mai nulla nasce il figlio Miguel. È questo il racconto di un amore modernissimo, di cui Rosario non si pente nemmeno sull’amaro finale, ma che anzi rivendica con orgoglio. E ancora il tema dell’amore fedifrago compare in La hija del engaño, tutto giocato sulla presunta illegittimità di Martha, che Don Quintín disconosce dopo aver scoperto la moglie a letto con un suo amico. Così come in Gli amanti di domani dove Valerio, questa volta il personaggio maschile, medico in servizio nella selvaggia Corsica, tradisce la moglie con la dolce Clara, l’unica in grado di capire il suo sentimento di abnegazione. In questo panorama di donne la cui forza d’animo rovescia la crudeltà o l’ottusità degli uomini è d’uopo ancora menzionare Céléstine, nel più maturo Il diario di una cameriera (Le journal d’une femme de chambre, 1964), che pur dovendo assecondare le perversioni della famiglia borghese in cui va a servire, riesce con astuzia a
salvarsi, proprio grazie alla sua femminilità, ma anche Viridiana. Costei è una sorta di contraltare di Tristana (il film è di nove anni precedente). Segnata da una simile sorte, la violenza (nel caso di Viridiana più psicologica che carnale) di un “padre-padrone”, l’animo di Tristana avvizzirà sempre di più, mentre quello di Viridiana manterrà una sorta di illibata purezza, contrassegnata da una cieca fiducia nei confronti del prossimo che purtroppo verrà amaramente tradita, segnando una fase nuova per la protagonista: essa si scioglierà i capelli come a liberarsi di una tensione che la costringeva nei panni della buona samaritana10. Il cinema di Buñuel ha dunque una spina dorsale femminile, che lo attraversa e lo tiene in piedi, e le cui costole sono uomini spesso infingardi, ma alcune volte anche di nobile cuore. NAZARIN, SIMÓN, ARCIBALDO E GLI ALTRI
In quella tensione quasi atavica che sussiste nel cinema buñueliano fra donna e uomo, quest’ultimo occupa una posizione di rilievo perché a sua volta è costantemente preso in una morsa morale. Non mancano nell’opera del regista manigoldi di ogni ordine e grado, come il Jaibo di I figli della violenza, ragazzo ribelle risucchiato da un vortice di violenza e immoralità che trascina con sé anche il povero Pedro, bulletto di strada forse recuperabile, desideroso di ravvedersi ma sconfitto da uno stigma che la società sembra avergli cucito addosso11. E tuttavia dall’altro lato Buñuel immagina anche uomini di una purezza candida, come Nazarin12, che, nonostante sia calunniato, picchiato e vituperato da chiunque, persegue con massima convinzione (tranne che in un comprensibile vacillamento sul finale) la sua opera di predicazione, o come il protagonista di Simon del deserto (Simón del desierto, 1965), che alla stregua di san Simeone Stilita vive la sua vita in cima a una colonna, privandosi di tutto, mangiando un gambo di sedano alla settimana, e combattendo contro le ingiurie e le tentazioni di Satana, che gli si presenta innanzi nelle più svariate forme. Entrambi soffrono portando sulle
spalle la croce di Cristo e contribuendo a definire un ulteriore elemento di spicco nel cinema buñueliano: la feroce critica alla religione cattolica13. Uomini buoni e uomini corrotti dunque. Ma se fosse solo così allora la cinematografia del regista sarebbe didascalica. Al contrario la tensione morale, che si estrinseca in conflitti di classe, amorosi, sessuali, è il luogo in cui i poli etici su cui sono costruiti i personaggi si mettono in discussione14. D’altronde il Fernando Rey sia di Tristana che di Viridiana è, come abbiamo già accennato, un uomo chiaramente viscido, che approfitta di una certa autorevolezza paterna per adescare le sue figliocce, ma è anche patetico, conflittuale, non del tutto consapevole delle proprie orrende nefandezze. Come intrappolato in una specie di pulsante sortilegio del desiderio. Così come lo scombiccherato insieme di fuggiaschi in La selva dei dannati, composto da un avventuriero di dubbia moralità, un vecchio cercatore con una pudica figlia sordomuta e innamorato di una sordida prostituta, quest’ultima, e un missionario. In questo caso i ruoli che sembrano essere nettamente definiti all’inizio del film vengono in parte ribaltati e in parte confermati, e il sentore finale però, lo stesso in qualche modo di Nazarin, di Il diario di una cameriera e di molti altri, è quello di un’umanità che difficilmente rinuncia ai propri piccoli ma definitivi egoismi. I protagonisti del film infatti, dispersi nella giungla per via di un rocambolesco tentativo di espatrio in Brasile, quando sono in pericolo di vita sembrano ritrovare una sorta di spirito comune, ma non appena invece intravedono una possibilità di salvezza recuperano i loro interessi. Per una sorta di contrappasso proprio il più buono, il vecchio cercatore, divenuto pazzo, sterminerà allo stesso tempo la prostituta, che aveva confermato il suo individualismo, e il prete, che invece non aveva mai abbandonato la via della moralità; e si salveranno solo la sordomuta, emblema di un’illibatezza impossibile (come lo era a suo modo Viridiana), e l’avventuriero, suo esatto contrario, ambiguo, rodato, ma in fondo forse ancora con una scintilla di nobiltà nell’animo. La morte del prete poi, causata anzitutto dalla sua pietà e dalla sua fiducia
nella bontà dell’uomo, ci ricorda Nazarin e Simon, e ci fa capire come ancora una volta sia bene mettere le mani avanti e problematizzare l’anticlericalismo di Buñuel. È vero, il regista non risparmia accuse anche gravi alla Chiesa, rappresentando ora la fucilazione del papa, in La via lattea (La voie lactée, 1969), ora un gruppo di frati poco raccomandabili, che fumano e si giocano a poker scapolari e icone sacre in Il fantasma della libertà15. La sua è però chiaramente una critica all’istituzione. Buñuel è un ateo convinto, e tuttavia sono forti nel suo cinema idee di giustizia e di bene, incarnate da personaggi spesso votati al martirio, la cui dignità sta tutta nel combattimento morale che li vede protagonisti. In questo coacervo di contrasti si innesta perfettamente anche Arcibaldo de la Cruz di Estasi di un delitto. Egli ci è mostrato nel film in due età diverse. Prima è un bambino viziato, figlio di nobili messicani noncuranti dei problemi del popolo, proprio mentre il popolo stesso addirittura fuori dalle finestre fa una rivoluzione per reclamare i propri diritti. Il modello genitoriale di Arcibaldo è quindi non dei più educativi, considerato che la madre, seccata per l’occasione mancata di andare a teatro per via dei disordini provocati in città dalle rivolte, non si fa problemi ad auspicare stizzita davanti a lui l’impiccagione della plebe. E tuttavia è anche un bambino dalla vivace immaginazione, tanto da convincersi che la tragica morte della sua tutrice, colpita alla finestra da un proiettile vagante, sia avvenuta per sua magia, grazie a uno speciale carillon. Nella seconda parte del film lo vediamo cresciuto, come un elegante rampollo, sedotto dal ritrovamento del carillon suddetto che innesca in lui, attraverso una sorta di ritorno di fiamma mnemonica, la convinzione di essere un assassino di donne. Donne che effettivamente muoiono in conseguenza delle sue azioni, ma mai per sua diretta mano. Alla fine Arcibaldo viene assolto dal commissario a cui ha di buon grado confessato i suoi “delitti”, perché questi delitti non sono, de facto, mai avvenuti (le donne sono morte per tragiche coincidenze), e perché nessuno si sarebbe sognato di processarlo per le sue intenzioni, così concedendogli quell’espiazione che forse ha sempre
ricercato e che gli consente di gettare il carillon in fondo al lago, esorcizzandone il presunto potere, e di dedicarsi alla bella Lavinia, di cui è invaghito. È dunque Arcibaldo un personaggio buono o cattivo? È forse un terribile misogino, che impossibilitato a uccidere una delle donne che ha adescato si accontenta di bruciare il manichino con le sue sembianze? O è invece figlio di modelli borghesi – metafore del potere schiacciante delle classi alte su quelle basse – che in qualche modo ne sanciscono la condanna, e di cui riesce a liberarsi? O, ancora, è un uomo le cui pulsioni sono fuori dal proprio controllo, un po’ come il Francisco Galvan de Montemayor in Él?16 Forse, ecco la complessità buñueliana, è tutte queste cose messe assieme, una psiche complessa e naturalmente contraddittoria, regolata da forze maggiori ma anche spinta da onesti slanci personali. Che nello spazio dei sogni o dell’immaginazione può sbrigliarsi senza remore di giudizi o condanne. SOGNI, INCUBI, ALLUCINAZIONI
Quando si sente parlare comunemente di Buñuel, di solito due parole emergono: “surrealismo” e “sogno”. La sua filmografia è in effetti popolata di opere che sono riconosciute come molto vicine al surrealismo, o addirittura interne ad esso, come L’âge d’or, ufficialmente approvato dal gruppo guidato da Breton, e altre comunque fortemente influenzate da una “moralità” surrealista, che il regista dichiara in più occasioni di non avere mai perduto17, come L’angelo sterminatore, e gli ultimi film del periodo francese sceneggiati con Jean-Claude Carrière: La via lattea, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà e Quell’oscuro oggetto del desiderio. Il surrealismo tuttavia permea non solo le summenzionate opere, ove i temi dell’inconscio e del mentale sono esplicitati in termini narrativi (e che spesso si tende a identificare come surrealiste solo in virtù di una loro cripticità diegetica o fantasiosità visiva), ma
attraversa l’intera opera del regista spesso declinandosi non solo sull’asse narrativo, ma anche su quello formale come vero e proprio programma estetico18. C’è ad esempio una sequenza straordinaria di Viridiana, seconda solo al grandguignolesco e blasfemo finale in cui i poveri riproducono volontariamente le geometrie dell’Ultima Cena di Leonardo e poi deturpano i locali domestici dei gentili borghesi che li ospitano19. In questa sequenza la giovane cattolica, suora mancata, recita l’Angelus con i suoi accuditi, e la preghiera è inframezzata, grazie a un fine esercizio di montaggio alternato, con immagini di lavoro. Alberi tagliati, pietre spezzate, ci vengono mostrati mentre l’Ave Maria e il Padre Nostro sono recitati come una sorta di nenia. Già oltre vent’anni prima il regista operava una soluzione consimile. Nel tragicomico finale de El gran calavera, il suo secondo film messicano, la scena del matrimonio fra Virginia e un impostore è resa surrealisticamente comica dal montaggio sonoro degli annunci pubblicitari lanciati dall’automobile di Pablo, suo reale innamorato, che intervallano con la tecnica del collage sonoro à la Max Ernst il rito dello sposalizio con la réclame di un prosciutto20. Così come per Viridiana, emerge la verve anticlericale, qui ancora un po’ acerba. Due orizzonti ideologici antitetici vengono dunque mediante il montaggio messi a discorso, tramite un’operazione che è formalmente surrealista, e cioè una sorta di découpage di elementi eterocliti e apparentemente non comunicanti, ma incastonata in storie del tutto intelligibili. Da un punto di vista interpretativo, è il racconto filmico della contraddizione umana. Da un punto di vista analitico, ci aiuta a capire che per Buñuel il surrealismo non è il fine, ma un mezzo. Ed è un mezzo che spesso si innesta in un preciso décalage ontologico: il passaggio dalla dimensione della veglia a quella del sonno, del sogno, dell’incubo, dell’allucinazione, dello spaesamento21. Stiamo parlando di un cinema popolato di straniamenti, a volte, anche se di rado, veicolati attraverso il ricorso a grammatiche consolidate, come nel caso di Gran Casino, primo dei suoi film messicani. Qui, nel contesto di un melodramma – come tanti il regista ne scriverà e girerà
in seguito – fatto di intrighi e tradimenti ambientati nel contesto degli anni trenta in Messico, fase in cui il petrolio è ancora privatizzato, il film si declina come una sorta di strampalato musical. Di punto in bianco, anche se spesso con una sorta di diegesi “compiacente” (cioè con consoni agganci narrativi), si canta. Naturalmente Buñuel, che non manca di dire quando ritiene che un suo film, come questo, sia un fallimento, ma che nemmeno rimpiange di aver girato film commerciali e anzi considera ciò un’opportunità, volge il suo sguardo esteticamente a una certa Hollywood, attingendo da modelli di successo del cinema classico statunitense22. Nondimeno l’effetto è stridente, i momenti musicali non suggellano con armonia le vicende ma hanno una qualche inquietante eco, e il risultato è, appunto straniante, anche se ancora non onirico. Di lì in avanti però l’enfasi per una certa dimensione mentale, quasi sonnambolica, cui la macchina cinematografica ha accesso, medium specifico privilegiato, si fa dominante. È infatti nel mondo che non c’è del sogno o dell’incubo che è possibile ispessire le semplici storie che accadono durante la veglia, conferendogli una certa densità. I figli della violenza, come abbiamo già accennato, è la storia crudele di ragazzi di strada nella Città del Messico del 1950. Non c’è pietà per loro, abbandonati alla crudezza della metropoli e destinati alle vie che il caso predisporrà. Il piccolo Pedro è un ragazzaccio come tanti, ma vorrebbe ravvedersi. E però l’ormai irrecuperabile Jaibo lo renderà testimone del brutale omicidio a sassate di un loro coetaneo, “reo” di aver trovato un lavoro e di essersi messo sulla buona strada. Tutto il film è così costruito sul tentativo di Pedro di fare pace con il proprio senso di colpa, che si manifesta con tutta la sua veemenza in una sequenza centrale del film, in cui il ragazzino sogna. La sequenza comincia con Pedro che dorme e la sua versione onirica che, in semitrasparenza, si alza. Il cambio musicale è drastico: un’inquietante nenia e il suono di galli in sottofondo. Il Pedro onirico, guidato da una gallina che cade, si alza e sotto il letto vede il corpo sanguinante del coetaneo ucciso, che ride tetramente. La
madre intanto gli parla, telepaticamente, in un terrificante ralenti e con un’espressione obliqua. Dopodiché si allontana dal ragazzo, con movimenti lenti e quasi fantasmatici, e infine minacciosamente si gira verso di lui, con un sorriso perturbante, mentre rombi di tuono iniziano a prorompere. Gli passa un pezzo di carne cruda, sorridendo in maniera macabra, e intanto compare la mano di Jaibo che minacciosamente gli ruba ancora una volta il cibo, mentre la mamma (con cui Pedro nella veglia ha un rapporto estremamente problematico), nella sua vestaglia bianca, si allontana noncurante. L’impatto generale della sequenza è fortissimo, e innesta un vero e proprio segmento horror all’interno di una pellicola coraggiosa poiché, è bene ricordarlo, girata nel 1950. Anche in Tristana è presente un sogno orrorifico, questa volta non come unicum ma come elemento che scandisce l’evoluzione psicologica della protagonista da giovane e innocente ragazza a donna cinica e incattivita dalle miserie che la vita le ha riservato. Quest’ultima, nel corso del film, più volte suona i rintocchi della campana, oggetto che la incuriosisce fin dalla tenera età e dalle amichevoli conversazioni intraprese con il campanaro della chiesa vicino a dove abita. Nondimeno la campana che sogna al posto del batacchio ha la testa mozzata di Don Lope, il tutore che abusa di lei e che lei, inizialmente, rispetta, sebbene inconsciamente già lo immagini come decapitato con truculenza. Il puntello onirico di Buñuel è tale da sancire il passaggio dalla prima alla seconda metà del film, generando una sorta di interpunzione notturna, che de facto il regista continuerà a mettere a punto nella sua opera. Nel già ricordato Subida al cielo, film di tutt’altro tenore girato solo un paio di anni dopo, non è il sogno horror a espletare una sorta di catarsi del personaggio, ma quello erotico, che vede Oliverio trovare un luogo protetto ove dare sfogo alle sue pulsioni nei confronti della provocante Raquel. In questo caso siamo a bordo di un autobus e il protagonista fa letteralmente un sogno a occhi aperti. La cinepresa si avvicina velocemente al suo viso e una dissolvenza sancisce il trasferimento alla
dimensione mentale: l’autobus ora è vuoto, solo lui e Raquel al suo interno. Lei si fa spogliare e un raccordo sull’asse inquadra l’autobus in profondità di campo (tecnica che il regista sviluppa con grande finezza nelle sue opere), mostrandolo ricoperto di flora selvatica. È evidente la carica simbolica di questa variazione scenografica: da un lato l’autobus è luogo della cultura, dell’inibizione, della repressione; dall’altro la vegetazione fitta è spazio di libertà, di selvaticità, di estasi naturale. In effetti Buñuel spesso colloca l’esplorazione delle pulsioni umane nella natura incontaminata e selvaggia, come accade in La selva dei dannati, naturalmente, Le avventure di Robinson Crusoe, L’isola che scotta, Violenza per una giovane. La sequenza così prosegue in una sorta di corteggiamento, coadiuvato da un gruppo di suonatori che accentano l’atto d’amore che si consuma, in montaggio alternato con immagini di sapore surrealista, che in qualche modo distraggono Oliverio dai suoi impulsi e sono chiaramente rappresentazioni del senso di colpa del personaggio: la sua sposa che lo attende a casa, una vecchia che nell’atto di sbucciare un frutto lo trascina a sé per la bocca, un branco di pecorelle. Immediatamente Oliverio torna nella realtà, il bus è di nuovo ripopolato. Ora il protagonista tiene in mano una delle pecore che bela simpaticamente. La scosta bruscamente. È il sogno, il desiderio, che prorompe nella realtà a tal punto da “contaminarla”, così come avverrà nella celebre sequenza de La via lattea, in cui un pellegrino trasognante immagina la fucilazione del papa, e una persona vicina a lui sente i colpi degli spari (che erano però solo stati immaginati)23. In effetti il sogno o l’allucinazione che contaminano in maniera grottesca o drammatica la realtà, generando cortocircuiti ontologici, sono un vero e proprio topos buñueliano. Il protagonista di Simon del deserto è costretto a vedersela con le visioni più conturbanti, una seducente diavolessa vestita da scolaretta o con il seno scoperto, o perturbanti, una bara che sfreccia velocemente fra le dune per arrivare ai piedi della sua colonna. E, alla fine, in una specie di cronosisma, si vede trasportato dal suo casto medioevo in una
contemporanea New York, all’interno di una discoteca dove giovani attraenti si abbandonano a danze sfrenate. Séverine in Bella di giorno si immagina tanto all’inizio quanto alla fine del film, così come in alcune sequenze intermedie, variamente legata, frustata, stuprata, in bucolici e borghesi contesti dove un’elegante carrozza la conduce. Questi momenti, che siano sogni, allucinazioni o stati di trance autoindotta, sono montati in modo da non essere immediatamente intelligibili come tali dallo spettatore. In effetti il film stesso inizia con un sogno a occhi aperti, e solo dopo diversi minuti comprendiamo che era tutto frutto dell’immaginazione della protagonista, e nel finale, quasi ciclicamente, accade qualcosa di analogo. Simile strategia è adottata dal regista nell’incipit de Il fantasma della libertà, che ci mostra l’invasione di Toledo e ci introduce al tema portante del film, il rapporto fra libertà e catene (il popolo grida “viva le catene”), per poi a un certo punto trasportarci in uno spazio-tempo completamente diverso: tutta la sequenza altro non era che il racconto di una signora, seduta su una panchina al parco. Se lì la libertà è quella del popolo, in Estasi di un delitto è quella che a fatica ritrova Arcibaldo dopo le “ipnosi” indottegli dal suono del carillon. Una menzione di rilievo merita, infine, il protagonista di Le avventure di Robinson Crusoe. Nell’adattamento cinematografico del romanzo di Daniel Defoe, Buñuel sembra infatti a un primo sguardo privilegiare la componente avventurosa, ma in realtà dissemina il film di pieghe intime, di deliri alcolici che provocano discorsi con personaggi immaginari, e di un momento apicale in cui il sogno-incubo rivela i traumi del naufrago. Quest’ultimo infatti sogna il padre, che lo accusa – con una flemma inquietante e in qualche modo punitiva – di averlo abbandonato. La conversazione avviene in un contesto assurdo, il padre fuma, rifiuta di dare dell’acqua al figlio, blatera discorsi su «ceto medio e aristocrazia», è ripreso in montaggio alternato in piedi oppure sdraiato nell’acqua e a volte immerso. Infine maledice il figlio e se ne va ridacchiando, con una terribile nonchalance. Tutto ciò, naturalmente, mentre lava con gran cura un maiale.
INSETTI, GALLINE, SERPENTI
Il padre di Robinson Crusoe, nell’incubo stravagante del naufrago, striglia un maiale, e la cosa non ci stupisce. Un ruolo centrale nel cinema di Buñuel è infatti ricoperto dalla presenza animale, anzitutto ornitologica (galline e galli in primis, ma pure colombe e, perché no, struzzi, come nel finale de Il fantasma della libertà) ed entomologica (ragni e insetti di ogni tipo). Più qualche serpente, cani e gatti, ippopotami. Per il regista in effetti gli animali sprigionano tanto una potenza icastica, capace di suggellare la venatura surrealista che impregna il suo cinema, quanto una carica simbolica, intenzionalmente non sempre comprensibile. In L’angelo sterminatore è evidente che l’orso e le pecore che pascolano nel sontuoso palazzo, in cui i convitati si trovano loro malgrado bloccati, fungono da contraltare animalesco alla boria dei commensali alto borghesi e anche come anticipazione che prelude a una sorta di primordialità degli ospiti una volta resisi conto della loro condizione di prigionia. In altri casi invero gli animali sono meno “invadenti”, cioè si innestano in contesti rurali e a loro consoni, o comunque dichiarano una funzione di contorno24. Tuttavia limitarci a leggerli come esclusivi orpelli, più o meno esotici, che limitano la loro funzione a popolare l’immagine filmica di un movimento non umano, non rende onore alla poetica zoologica di Buñuel. In El bruto ad esempio, così come in I figli della violenza, non colpisce la presenza sporadica di galline, galli e pollame vario, dal momento che entrambi i film sono ambientati in spazi e tempi (il Messico urbano e rurale dei primi anni cinquanta) in cui l’allevamento di questo tipo di bestiame era comune. E però anche in questo caso la loro presenza non solo suggerisce certe atmosfere, ma è ancora una volta straordinariamente polisemica. Nel finale di El bruto ad esempio vediamo Paloma causare la morte di Pedro, colpevole anzitutto della propria ottusità (egli uccide, ma è solo uno strumento nelle mani dei potenti), e allontanarsi a passi lenti in uno stato di quiete dopo aver sfogato la propria
ira. Il suo sguardo è assente, e mentre abbandona il casolare in cui il finale violento si è verificato, incrocia un gallo nero, su di un trespolo, fieramente eretto. Si ferma e lo guarda con un attimo di terrore, che coincide probabilmente con la presa di coscienza, con la raggiunta autoconsapevolezza di essere stata la mandante dell’omicidio di un uomo. Il gallo, in controcampo, è impassibile. Dopodiché Paloma se ne va. Questa è di fatto l’ultima inquadratura del film. All’animale è associato un ruolo essenziale: il gallo è anzitutto scuro, in linea con le poche luci che dominano la messa in scena notturna. C’è sicuramente una precisa volontà dietro questa scelta cromatica e luministica. Ma soprattutto al gallo è simbolicamente associata una serie di caratteristiche maschili: esso è simbolo di potenza, di virilità, di controllo nel pollaio, di fecondità. Il gallo sembra insomma essere l’alter ego del Bruto, uomo forte che macella le carni, almeno nella prima metà del film. E però è la seconda metà del film a ribaltare i ruoli. Paloma guarda negli occhi il gallo e il suo sguardo fulmineo suggerisce che anche lei ora ha compreso di essere diventata, senza chiaramente saperlo, il gallo a sua volta. In I figli della violenza il piccolo Pedro – che condivide, ironia della sorte, il nome con il Bruto – accusato di un furto che non ha commesso e costretto in riformatorio, in un impeto di violenza uccide a bastonate una gallina. È l’umano, colto dall’ira, che si scaglia contro la nuda vita che ha di fronte e che lo fa in un momento in cui è posseduto da una sorta di transfert (Jaibo aveva ucciso di fronte ai suoi occhi un loro coetaneo con lo stesso metodo, percuotendolo, questa volta con un sasso). La gallina inerte non può difendersi; gli altri bambini, in una sorta di parossistico teatro degli orrori, lo incitano a compiere questa inusitata violenza, godendone per interposta persona. Buñuel in questo caso non opta per il fuori campo, ma mostra la sorte della gallina in campo totale, nel momento in cui viene tramortita da Pedro, poi ripreso con una vorticosa angolazione dal basso in alto nel momento della sua implacabile ira. Anche in questo caso l’episodio non è solo funzionale all’introspezione psicologica del personaggio, descritto nella sua profonda
crisi, ma anche a interpretare una società crudele da un lato (Pedro non è colpevole, ma è stigmatizzato), e a suggerire una certa violenza, pronta a esplodere e figlia del disagio (ricordiamo che Pedro già aveva sognato una gallina), insita nell’essere umano dall’altro. Animali e umani insomma non sono per Buñuel mai enti separati, ma sempre legati a più mandate, sia diegetiche che simboliche. La giovane e bella protagonista di Adolescenza torbida, ragazza malefica, scappa dal carcere minorile in una notte buia e tempestosa dopo una crisi isterica nella sua umida cella. Di fronte a lei si parano un pipistrello e dei ratti. Poi una tarantola, simile ai ragni che con gran cura studia uno dei protagonisti degli episodi de Il fantasma della libertà. Riuscita a scappare raggiunge un cascinale dove viene accolta da una nobile famiglia. Felisa, la domestica, sostiene che il temporale di quella notte è segno di un male metafisico, e adduce a prova il fatto che la gatta l’abbia graffiata. Alberto, figlio del padrone Don Guadalupe, studia entomologia. Si parla di vipere e vengono inquadrate falene nei dettagli. Il miglior cavallo della stalla si ammala, proprio all’arrivo della ragazza, tanto che il padrone di casa, a malincuore è deciso ad abbatterlo. E miracolosamente solo alla fine del film, quando Susana rivela il suo piano, quello di seminare discordia e morte, e viene catturata e allontanata dai gendarmi, il cavallo guarisce del tutto. Questo melodramma, su cui aleggia un velo di paranormalità, si configura così, come buona parte dei primi film del regista, come una storia semplice, utile a edificare un complesso di suggestioni simboliche che sono attraversate da un bestiario variegato. Susana è incarcerata in mezzo a topi, pipistrelli e ragni, animali tutti universalmente associati al disgusto. La famiglia nobile invece si cura di cavalli di pregiato pedigree, e tratta gli insetti entomologicamente, mettendoli nelle teche, preservandoli nella forma ma uccidendone la sostanza. L’arrivo dell’estranea nella casa sconvolge tutto: il cavallo migliore è a un passo dalla morte e gli insetti nella teca sembrano proprio i vari membri della famiglia, che più passa il tempo più si vedono svuotati
della loro consapevolezza e ridotti a burattini agli ordini della mefistofelica ospite. Se non ci si sforza di fare un salto interpretativo di questo tipo, allora il film rimane nel suo statuto di opera essenzialmente commerciale, e gli animali vengono derubricati ad attrazioni visive, in una sorta di zoo cinematico. Al contrario Buñuel dimostra sin dagli esordi un’attenzione profonda nei confronti non solo delle altre specie, cui vengono dedicate inquadrature intere, ma soprattutto dei rapporti delle altre specie con quella umana. L’animale è metafora perfetta dell’alterità. In Simon del deserto un rospo esplode, in Abismos de pasión - Cumbres borrascosas, ispirato al romanzo di Emily Brontë, una rana viene offerta in sacrificio sui carboni ardenti, e un uccellino è sinonimo di presentimento. In Violenza per una giovane compaiono ragni, tassi, galline, ma pure una cerbiatta, sorta di speculare zoologico della giovane Ewie, quattordicenne indifesa e violentata. In La selva dei dannati la speranza degli sventurati protagonisti di sopravvivere in mezzo alla giungla è affidata alla provvidenziale cattura di un pitone, ma non basta il tempo di accendere un fuoco che un’inquadratura ce lo mostra del tutto guastato da migliaia di fameliche formiche (analogamente migliaia di api avevano ucciso un asino in Las Hurdes), come se la natura giocasse con la fame degli avventurieri (e non può che ritornare in mente la mano invasa di formiche in Un chien andalou). In Nazarin come in Adolescenza torbida, oltre a buoi e altro bestiame, il pellegrino in viaggio con le sue devote incontra un ronzino morente, segno di grande sventura e morte come tanti altri nel faticoso e interminabile viaggio che dovrà affrontare. In Gli amanti di domani per un momento il regista indugia su una tartaruga rovesciata sul guscio che fatica a ritornare nella sua naturale posizione, producendo un’efficace immagine del ribaltamento che perfettamente descrive il rapporto cedevole fra Valerio e sua moglie, sovvertito dall’entrata in scena di Clara. In Viridiana vi è invece l’enfasi su un’ape che faticosamente si divincola nell’acqua, come preambolo della vita complicata della protagonista, quasi abusata da suo zio Don Jaime,
costretta ad abbandonare il suo desiderio di prendere i voti, tradita infine da un gruppo di senzatetto a cui ha generosamente offerto vitto, alloggio e fiducia. In Il fantasma della libertà il finale è ambientato in uno zoo in cui gli animali sono minacciati dal popolo in rivolta, ma è pure presente l’episodio di un assurdo sogno (che è anche un po’ realtà, come il film ci farà capire poco dopo) in cui il tempo scorre velocissimo e fra le varie visioni compaiono prima un gallo e poi un emù. Il film si chiuderà con il primo piano di uno struzzo. La sequenza, magistrale, è ambientata in uno zoo, in cui sono scoppiate delle agitazioni che hanno assunto tratti piuttosto violenti; si odono infatti spari e urla. Il comandante della polizia in tutta risposta ordina ai suoi agenti di caricare e «picchiare sodo», prima di accendersi una sigaretta. Una vertiginosa panoramica a 360°, ripetuta velocemente più e più volte, sposta lo sguardo sul volatile, a cui il montaggio dedica tre inquadrature, sancite da una sorta di jump cut. Continuano e si fanno più fragorosi i rumori della sommossa e dei colpi di armi da fuoco che tentano di soffocarla, e in questo caos umano, su cui gravi rintoccano anche le campane, il primo piano ci mostra un animale dallo sguardo vacuo, che si osserva intorno un po’ spaesato, noncurante delle violenze, in una tetra impassibilità. L’assurdità del conflitto è così denunciata dalla dignitosa compostezza di uno struzzo, che infine si disperde con la perdita della messa a fuoco mentre cominciano i titoli di coda, di rosso acceso, mentre imperversano imperterriti gli orrendi rumori della repressione poliziesca, che evidentemente prevaricano la pacifica esistenza dell’animale. La finezza di questo montaggio sonoro, che sacrifica lo struzzo ma mantiene i rumori di fondo, e la scelta di terminare proprio con l’immagine straniante di tale animale fanno del finale del film una delle più raffinate e crude denunce della brutalità umana della storia del cinema. Si dipinge così un’umanità impietosa, nei confronti di se stessa e di ogni forma di alterità, come peraltro accade sottilmente anche in Il fascino discreto della borghesia, dove il personaggio di Acosta spara, come fosse un attentato, a un cagnolino giocattolo da una finestra.
Violenza umana e violenza selvaggia si incontrano e si scontrano costantemente nel cinema di Buñuel. Gli animali sono la topologia entro cui inscrivere questo tipo di relazioni. Menzioniamo infine due casi rilevanti di non-animali: il primo è tratto da La ilusión viaja en tranvía. In questo singolare film, raro caso di commedia buñueliana25, effettivamente abbiamo la consueta presenza zoologica, ma il vero altro rispetto agli umani è un tram, il numero 133 che Juan e Tobías, onesti lavoratori della compagnia di trasposto pubblico, conducono – liberandolo dalla sua “gabbia” (il deposito) – per un’ultima corsa notturna prima dello smantellamento. Qui il tram è sia contenitore, in quanto espediente per raccontare – attraverso i passeggeri che raccoglie – una serie di microstorie che dipingono con grazia la varietà umana di Città del Messico, sia contenuto. Come a un’animale il film conferisce al mezzo di trasporto una sorta di vita propria, gli dedica inquadrature, lo considera parte di una storia e personaggio con una propria dignità. La poetica degli animali travalica in una poetica degli oggetti animati, che in effetti continuerà a innervare il cinema del regista. L’altro caso è quello della misteriosa scatolina di Bella di giorno, su cui in moltissimi si sono interrogati. Nell’episodio in questione un avventore si presenta alla casa di appuntamenti in cui Séverine, dopo la rinuncia alla propria “severità” (nomen omen), esercita la sua attività di prostituzione. È un corpulento uomo asiatico che si presenta con una misteriosa scatolina che una volta aperta emette un ronzio simile a quello di qualche insetto, e soprattutto che sdegna fino al turbamento alcune delle donne a cui viene mostrata. Ciò non vale per la Belle de jour, che pur non capendo nulla di quanto il cliente le dice osserva con un certo sbigottimento il contenuto della scatola ma poi con grande serenità la richiude e si dà all’amore. L’alterità animale, suggerita dal ronzio e acuita dalle sembianze, dalla lingua e dal comportamento dell’avventore, è tutta racchiusa in questo contenitore, il cui contenuto effettivo rimarrà un mistero, ma che è in effetti l’ignoto verso cui la protagonista si rivolge con coraggio, liberandosi dalle proprie catene.
ROMANZI, RACCONTI, REALTÀ
Non è un caso che Séverine voglia liberarsi dalle proprie catene. Un’ultima fondamentale coordinata per comprendere il cinema di Buñuel ha a che fare con il suo orientamento sociale. Nonostante surrealismo e onirismo, si tratta di un cinema spesso radicato nel fenomenico, e talora di coraggiosa denuncia. Delle prese di posizione anticlericali abbiamo già detto, così come è oramai chiaro lo sberleffo, se non la vera e propria denuncia, verso le bassezze classiste della borghesia. A corollario, il cinema del regista è disseminato di proteste, rivolte, ingiustizie, carceri, da un lato. Dall’altro, quasi a voler fissare saldamente i propri temi, a dichiarare che non sono solamente passatempi cinematografici, un certo piglio etnografico si fonde con una radice letteraria in buona parte della sua opera. È noto che il co-sceneggiatore di fiducia di Buñuel, nell’ultima fase francese, fosse Jean-Claude Carrière. Meno noto – eccezion fatta per gli evidenti Abismos de pasión e Le avventure di Robinson Crusoe – è invece il grande numero di soggetti letterari che ispirano le sue opere, anche le più antiche. Gran Casino, il primo lungometraggio, è ad esempio tratto dal racconto El rugido del paraíso di Michel Veber. El gran calavera a Le Grand Noceur di Rodolfo Torrado. La hija del engaño ricalca la pièce Don Quintín, el amargao di Carlos Arniches, Una mujer sin amor traduce intersemioticamente e molto liberamente Pierre et Jean di Guy de Maupassant. El río y la muerte – forse il film più ripudiato dal regista per la sua fin troppo manifesta pedagogia sociale – riprende Muro blanco en roca negra di Miguel Álvarez Acosta. Estasi di un delitto si ispira al romanzo noir Ensayo de un crimen di Rodolfo Usigli, così come Gli amanti di domani a un romanzo di Emmanuel Roblès. La selva dei dannati rievoca le atmosfere del romanzo d’avventura di José André Lacour. Tanto Nazarin quanto Tristana ripropongono i racconti realisti di Benito Pérez Galdós. L’isola che scotta riprende un romanzo a tesi di Henri Castillou, Violenza per una giovane un racconto di Peter Mathiessen. Il
diario di una cameriera viene da Octave Mirbeau, Simon del deserto dal volume agiografico del XIII secolo La légende dorée, Bella di giorno da un romanzo di Joseph Kessel, Quell’oscuro oggetto del desiderio da La femme et le pantin di Pierre Louÿs. La massiccia presenza di soggetti di ispirazione letteraria ci dà senz’altro l’idea della formazione intellettuale del regista, ma anche delinea il suo cinema come fortemente radicato nella dimensione del racconto, spesso di finzione. D’altro canto la scelta dei soggetti e la loro sceneggiatura rispondono a un’esigenza primaria: quella di rappresentare, secondo la propria visione, conflitti sociali profondi. Prima di entrare nel merito di Las Hurdes, vero e proprio programma etico del regista, consideriamo come in numerosi film del periodo messicano l’incipit sia affidato a immagini panoramiche, che introducono i luoghi dei film, e a voci narranti che quasi sembrano aprire la strada a dei documentari più che a delle storie di finzione. Il sentore generale è quello di una dichiarazione politica: state per vedere un film divertente o trascinante, una storia sanguinosa o sentimentale, ma non dimenticate che questa è legata profondamente alla realtà, che i personaggi che vedete potreste essere proprio voi. A Buñuel, insomma, non manca il senso del contesto, che è introdotto con sapienza in I figli della violenza, dove dopo un incipit in cui ci vengono mostrate grandi città del pianeta (da New York a Londra) la voce narrante si premura di introdurre lo spettatore a Città del Messico dichiarando che «questo film è basato sull’esperienza della vita reale», che «non è un film ottimista», e che si auspica che il problema – cioè la povertà che genera dolore nelle periferie delle grandi metropoli – sia risolto dal progresso umano. Nell’incipit di Salita al cielo il paesino di San Jeronimito è introdotto con un piglio etnografico peculiare, che descrive usanze e tradizioni del popolo che lì risiede. Lo stesso accade per Santa Bibiana in El río y la muerte o per l’isola di Ojeda in L’isola che scotta, emblema di certe dittature sudamericane. A corollario: la filmografia del regista è tempestata di isole, di carceri, di paeselli diroccati, come
se la chiusura fosse un’utile proprietà per veicolare i propri racconti, oltre che un’idea di micromondi stagni in cui egoismi e pulsioni possano liberamente espletarsi. Quand’anche manchi l’incipit documentario, il cinema di Buñuel comunque racconta di conflitti personali il cui innesco è sociopolitico. Al di là della trilogia finale, in cui il j’accuse è portato alle sue estreme conseguenze, già in film come El bruto, Gli amanti di domani, La selva dei dannati, Nazarin, Estasi di un delitto, Violenza per una giovane (rara riflessione sul tema del razzismo), è evidente come al di là dei singoli racconti sia il divario fra classi agiate e poveri, che abitano la stessa terra ma non sempre hanno uguale accesso al pane, a costituire il terreno di germinazione dei disagi rappresentati. E in effetti è proprio Las Hurdes la traduzione dell’unico, effettivo e completo documentario del regista, che se in termini di genere costituisce quindi un hapax legomenon nella sua produzione, in realtà predispone il contraltare dei due film che lo hanno preceduto e il filo diretto che aiuta a leggere per intero la parabola buñueliana fino a Quell’oscuro oggetto del desiderio. Las Hurdes è il terzo film del regista26, e si distacca dai precedenti (Un chien andalou e L’âge d’or) perché si configura dunque come documentario in piena regola, di taglio fortemente realista27. Buñuel passa due mesi a Las Hurdes, comarca spagnola situata in terre inospitali e abitate da popoli estremamente poveri. Il regista ritrae la natura, le architetture, le persone del luogo28. La voce narrante collega i fili della storia di queste terre. L’enfasi è sulle condizioni di vita durissime, sulle malattie (il gozzo, la malaria, il cretinismo derivato presumibilmente dall’accoppiamento di consanguinei), sul grande fil rouge buñueliano della morte (vengono ripresi un bambino deceduto, il cui corpo inizia a essere funestato dalle mosche, e la lunga traversata a piedi con la piccola bara per portarlo a degna sepoltura). Il ritratto di Buñuel costituisce a tutti gli effetti un’etnografia cinematografica («un saggio di geografia umana» ci dice il film), mirata a raccontare le condizioni di vita impietose cui questa popolazione è oramai abituata. Che un surrealista faccia una scelta di questo genere è, al di là delle contingenze (il
film fu finanziato da un amico del regista che aveva vinto la lotteria), cosa apparentemente strana. Perché non continuare a giocare con i sogni? Perché puntare l’obiettivo su tanto misere situazioni? Perché Luis Buñuel, come dimostra la sua opera letta come un corpus intero, è un estroso, un visionario, un surrealista, uno storyteller, un incendiario, forse un folle, ma lo è sotto il comune denominatore di una convocazione. Luis Buñuel si sente convocato, e il suo cinema è il riflesso di questa simbolica chiamata. Un cinema della convocazione, con al contempo tutta la solennità di un approccio engagé, resa – come scelta politica – mediante l’infantile, genuina giocosità di un bambino che osserva le mosche volare: «Nella mia fantasia, la vita umana vale quanto la vita di una mosca. In pratica rispetto qualsiasi vita, anche quella della mosca, creatura enigmatica e ammirevole quanto una fata»29.
Note al testo Silvio Alovisio, Paolo Bertetto La libertà del fantasma. Appunti sulla vita e il cinema di Luis Buñuel J.-C. Carrière, Le réveil de Buñuel, Paris, Odile Jacob, 2011, p. 102 (trad. S. Alovisio). 1
Cfr. F. Solís, Buñuel dans le labyrinthe des tortues, Paris, Rackham, 2011: sul film di Simó cfr. J.-L. Bourget, Don Luis dans le labyrinthe, in «Positif», n. 700, 2019, p. 56. 2
Tra gli esiti più recenti e rilevanti di questa crescente attenzione verso le fonti archivistiche variamente legate a Buñuel si vedano L. Buñuel, Los olvidados: guión y documentos, a cura di C. Peña-Ardid, V.M. Lahuerta Guillén, Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 2007; F.G. Martín Rodríguez, El ermitaño errante. Buñuel en Estados Unidos, Murcia, Tres Fronteras, 2010; I. Gibson, Luis Buñuel. La forja de una cineasta universal. 1900-1938, Madrid, Aguilar, 2013; J. Herrera, Luis Buñuel en su archivo. De Los olvidados a Viridiana, Madrid, Fondo de Cultura Económica de España, 2015; L. Buñuel, Correspondencia escogida, a cura di J. Evans e B. Viejo, Madrid, Cátedra, 2018 (ed. ing. A Life in Letters, New York, Bloomsbury Academic, 2019); M. Aub, Buñuel: todas las conversaciones, 2 voll., a cura di J. Xifra, Zaragoza, Prensas de la Universidad de Zaragoza, 2020. 3
Cfr. in particolare R. Gubern, P. Hammond, Los años rojos de Luis Buñuel (1929-1939), Madrid, Cátedra, 2009; Martín Rodríguez, El ermitaño errante, cit.; Gibson, Luis Buñuel. La forja de una cineasta universal, cit. 4
5
L. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Milano, Rizzoli, 1983, p. 23.
Nella sua autobiografia, Buñuel ricorda di avere scoperto il cinema a otto anni (cfr. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., pp. 33-35). 6
Cfr. L. Buñuel, Scritti letterari e cinematografici, a cura di A. Sánchez Vidal, Venezia, Marsilio, 1984 (poi in ed. tascabile: Un tradimento inqualificabile. Scritti letterari e cinematografici, Venezia, Marsilio, 1996). 7
Sull’influenza di Gómez de la Serna sul primo Buñuel, cfr. R. Gubern, El primer Buñuel: Ramón Gómez de la Serna y la Residencia de Estudiantes, in A. Castro (a cura di), Obsesión Buñuel, Madrid, Ocho y Medio, 2001, pp. 89-96; G. Roof, Gómez de la Serna as Literary Mentor: Ramonian Aesthetics in the Early Work of Luis Buñuel, in «Revista Hispánica Moderna», n. 2, 1994, pp. 353-366.
8
Cfr. C. Gauthier, La passion du cinéma: cinéphiles, ciné-clubs et salles spécialisées à Paris de 1920 à 1929, Paris, École Nationale des Chartes, 1999. 9
10
Buñuel, Un tradimento inqualificabile, cit., p. 140.
Si leggano in particolare due articoli pubblicati su «La Gaceta Literaria», Sull’inquadratura fotogenica (1927) e “Découpage” o segmentazione cinegrafica (1928), ora in Buñuel, Un tradimento inqualficabile, cit., pp. 135139 e 155-159. 11
Cfr. L. Buñuel, Goya 1926. Il pittore e la duchessa, a cura di A. Bernardi, Venezia, Marsilio, 1994. 12
Cfr. A. García-Aguilar, Cifras: Ramón Gómez de la Serna como guionista, in «Castilla. Estudios de Literatura», n. 10, 2019, pp. 251-271. Si 13
veda anche R. Gubern, Proyector de luna. La generación del 27 y el cine, Madrid, Anagrama, 1999. Per un’approfondita analisi del film si rimanda al saggio di Bertetto pubblicato in questo volume. 14 15
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 122.
16
Ibid., p. 105
17
Ibid.
Buñuel, come i surrealisti, ama Sade in maniera particolare. Sade appare anche ne La via lattea, come pensatore libero che afferma la non esistenza di Dio, ma anche come carnefice di una giovane donna. A. Sánchez Vidal, in El mundo de Buñuel (Zaragoza, Caja de Ahorros de la Inmaculada, 1993), dedica un capitolo al rapporto Buñuel-Sade e riconosce presenze sadiane significative in film come Le avventure di Robinson Crusoe e Abismos de pasion - Cumbres borrascosas, Él e Simon del deserto, I figli della violenza e L’isola che scotta, Viridiana e Tristana. Si veda anche M. López Villegas, Sade y Buñuel, Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 1998; A. Brodesco, Sguardo, corpo, violenza: Sade e il cinema, MilanoUdine, Mimesis, 2014. 18
Per un dettagliato approfondimento sul primo soggiorno hollywodiano di Buñuel cfr. Martín Rodríguez, El ermitaño errante, cit., pp. 39-107. 19
Su Urgoiti e i suoi rapporti con Buñuel, si veda L.F. Colorado, J. Cerdán, Ricardo Urgoiti: los trabajos y los días, Madrid, Filmoteca Española, 2007. Sull’esperienza produttiva della Filmófono cfr. R. Gubern, P. Hammond, Luis Buñuel: The Red Years, 1929-1939, Madison, The University of Wisconsin Press, 2012, pp. 200-239. 20
21
Cfr. Martín Rodríguez, El ermitaño errante, cit., pp. 111-728.
22
Cfr. S. Dalí, Vita segreta di Salvador Dalí, Milano, Longanesi, 1949.
23
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 179.
24
Ibid., p. 186.
Si vedano in particolare V. Fuentes, Buñuel en México: iluminaciones sobre una pantalla pobre, Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 1993; I.H. Avila Dueñas, El cine méxicano de Luis Buñuel, Ciudad de México, Instituto Mexicano de Cinematografía, 1994; G. Lillo, Género y transgresión. El cine mexicano de Luis Buñuel, Montpellier, Centre d’études et de recherches sociocritiques, 1994; T. Pérez Turrent (a cura di), El ojo. Buñuel, México y el surrealismo, Ciudad de México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1996; A. Bernardi (a cura di), Luis Buñuel cittadino messicano, ciudadano mexicano, Recco, Le Mani, 1999; E.R. AcevedoMuñoz, Buñuel and Mexico: The Crisis of National Cinema, Berkeley, University of California Press, 2003; M. Ripley, A Search for Belonging: The Mexican Cinema of Luis Buñuel, New York, Columbia University Press, 2017.
25
Per un’introduzione al cinema buñueliano dell’ultimo periodo francese si veda A. Duprat, Le dernier Buñuel, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2011. 26
27
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 168.
Sulla presenza di Galdós nel cinema buñueliano si vedano V. Galeota, Galdós e Buñuel. Romanzo, film, narratività in Nazarín e in Tristana, Napoli, 28
Istituto universitario orientale, 1988; A. Bikandi-Mejias, Galaxia textual. Cine y literatura. Tristana, Galdós y Buñuel, Madrid, Pliegos, 1997; A.A. Carballeira, Buñuel, lector de Galdós, Las Palmas de Gran Canaria, Cabildo de Gran Canaria, 2006; J.C. Vela Bueno, Degradación y vanguardia en las películas Galdósianas de Buñuel, Madrid, Editorial Manuscritos, 2011. Cfr. L. Buñuel, J.-C. Carrière, Agón. El canto del cisne. Haz la guerra y no el amor. Una ceremonia suntuosa. Una ceremonia secreta. Guerra si: amor tampoco, Teruel, Instituto de Estudios Turolenses, 1995. 29
30
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit.
L. Buñuel, Obra literaria, a cura di A. Sánchez Vidal, Zaragoza, Ediciones de Heraldo de Aragón, 1982. 31
Sulla nozione di figurale si veda in particolare J.F. Lyotard, Discours, figure, Paris, Klincksieck, 1971 (trad. it. Discorso, figura, Milano-Udine, Mimesis, 2008). Sul concetto di figura si veda oltre a Lyotard, anche E. Auerbach, Scenes of the Drama of European Literature, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1984, e G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, Paris, Éditions de la Différence, 1981 (trad. it. Id., Francis Bacon. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet, 1999). Sulla figura e il figurale nel cinema cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, pp. 182-201. 32
Per un approfondita introduzione ai primi due film di Buñuel si veda il contributo di Paolo Bertetto pubblicato in questo volume. 33
L. Williams, Figures of Desire. A Theory and Analysis of Surrealist Film, Urbana, University of Illinois Press, 1981. La centralità della psicoanalisi nella formazione culturale di Buñuel è d’altronde sistematicamente riconosciuta dal regista stesso, che afferma di avere cominciato a leggere Freud nel 1923. Si vedano in ogni modo, in particolare, M. Aub, Buñuel. Il romanzo, Palermo, Sellerio, 1992, pp. 186 e ss., e l’autobiografia, Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 224. 34
F. Cesarman, L’œil de Buñuel, Paris, Éditions du Dauphin, 1982, p. 195. Sulla sequenza del cliente asiatico si veda anche A. Sabbadini, Of Boxes, Peepholes and Other Perverse Objects: A Psychoanalytic Look at Luis Buñuel’s Belle de jour, in P.W. Evans, I. Santaolalla (a cura di), Luis Buñuel. New Readings, London, BFI, 2004, pp. 117-127.
35
Per un approfondimento si veda P. Bertetto, Bella di giorno. L’immaginario, l’enigma, in V. Cordelli, L. De Giusti (a cura di), L’occhio anarchico del cinema. Luis Buñuel, Milano, Il Castoro, 2001, pp. 160-179. 36
Cfr. T. Sangild, Buñuel’s Liebestod. Wagner’s Tristan in Luis Buñuel’s Early Films: Un Chien Andalou and L’âge d’or, in «JMM: The Journal of Music and Meaning», v. 13, 2014-2015, pp. 20-59. 37
Cfr. S. Freud, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1910), Milano, Skira, 2010. 38
Sul concetto di simulacro si veda in particolare G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Bologna, il Mulino, 1972, p. 20; M. Foucault, Saggi letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 91; J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Milano, Feltrinelli, 1979. Sull’immagine-simulacro nel cinema cfr. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 11-50. 39
Sull’importanza del nesso tra liturgia (spesso religiosa) e perversione nel cinema buñueliano si veda V. Sánchez-Biosca, Scene di liturgia e perversione nell’opera di Buñuel, in Cordelli, De Giusti (a cura di), L’occhio anarchico del cinema, cit., pp. 114-129. 40
Sull’umorismo nel cinema di Buñuel si vedano G. Cremonini, Una vita da deridere. Il pensiero comico nel cinema di Buñuel, in Cordelli, De Giusti (a cura di), L’occhio anarchico del cinema, cit., pp. 146-153, e M.G. Boronat, Running Bombs. El gag visual, Buñuel y los límites de la narración, in «L’atalante», n. 15, 2013, pp. 58-65. 41
Cfr. P. Bertetto, Avanguardia e racconto: Un chien andalou e L’âge d’or, in F. Borin, R. Ellero (a cura di), Sul racconto cinematografico 1, Venezia, Ufficio attività cinematografiche del Comune, 1995 («Circuito Cinema», n. 52), pp. 22-35 42
Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto II. La configurazione nel racconto di finzione, Milano, Jaca Book, 1987. 43 44
P. Ricoeur, Tempo e racconto I, Milano, Jaca Book, 1986, p. 98.
45 A. Farassino, Tutto il cinema di Buñuel, Milano, Baldini & Castoldi, 2000, p. 237.
Cfr. A. Martínez Herranz, La España de Viridiana, Zaragoza, Prensas Universitarias de Zaragoza, 2013. 46
Sotto un certo profilo situazioni di ambiguità e di contraddittorietà siffatte potrebbero essere ricondotte alla nozione bretoniana di surrealtà. Scrive Breton nel Secondo Manifesto del Surrealismo (1930): «Tutto porta a credere che esiste un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti come contraddittori» (A. Breton. Manifesti del surrealismo, Torino, Einaudi, 1966). Tuttavia, anche se la lezione surrealista di integrazione sistematica di fantastico e reale è pienamente operante per Buñuel, situazioni dell’immaginario come quelle evocate da Bella di giorno, da Il fascino discreto della borghesia o da Il fantasma della libertà sembrano introdurre una dimensione di mistero e di illeggibilità palese dell’inconscio e delle sue produzioni, che vanno oltre l’utopia della surrealtà. 47
Per un’analisi del film si rimanda al saggio di Rosamaria Salvatore pubblicato in questo volume. 48
Paolo Bertetto Un chien andalou e L’âge d’or 1 L. Buñuel, Notes on the Making of Un chien andalou, in F. Stauffacher (a cura di), Art in Cinema, San Francisco, Museum of Art, 1947, p. 29 (trad. P. Bertetto). Va invero rammentato che in una lettera del 1929 Buñuel riconosce a Dalí il suo ruolo fondamentale nell’invenzione del film. Prima della proposta di Dalí, Buñuel intendeva fare un film tratto da un’idea di Ramón Gómez de la Serna e dedicato ai fatti di cronaca raccontati in un giornale. Sui temi affrontati nelle analisi si veda in ogni modo il volume P. Bertetto, L’enigma del desiderio. Buñuel, Un chien andalou e L’âge d’or, Roma, Fondazione Scuola nazionale di cinema, 2001, e il capitolo BuñuelDalí-Lacan e le figure del desiderio, in Id., Microfilosofia del cinema, Venezia, Marsilio, 2014. 2
Ibid., p. 30.
Cfr. A. Breton, P. Soupault, Les champs magnétiques, Paris, Au Sans Pareil, 1920. 3 4
M. Aub, Buñuel. Il romanzo, Palermo, Sellerio, 1992, p. 69.
S. Dalí, L’âne pourri, in «Le Surréalisme au service de la Révolution», 1, 1930, ora in Id., Oui, Paris, Denoël Gonthier, 1971, trad. it. Id., Sì, Milano, Rizzoli, 1980, p. 9. Sul metodo paranoico-critico e sui rapporti Dalí-Lacan si veda l’Introduzione di P. Schmidt al volume citato. II primo libro di J. Lacan è De la psychose paranoïaque dans ses rapports avec la personnalité, Paris, Le François, 1932. Cfr. anche A. Sánchez Vidal, Buñuel, Lorca, Dalí. El enigma sin fin, Barcelona, Planeta, 1988.
5
A. Breton, Manifeste du surréalisme, Paris, Kra, 1924, trad. it. Id., Manifesti del surrealismo, Torino, Einaudi, 1966. Breton definisce nel 1924 il surrealismo come un «automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato di pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale». 6
S. Dalí, La conquête de l’irrationnel, Paris, Éditions Surréalistes, 1935, ora in Id., Sì, cit., p. 265. 7
Buñuel, Notes on the Making of Un chien andalou, cit., p. 29 (trad. P. Bertetto). 8
S. Freud. L’interpretazione del sogni, in Id., Opere, 1899, Torino, Boringhieri, 1966. La sezione del capitolo sul lavoro del sogno dedicata alla rappresentazione mediante i simboli è aggiunta soltanto nel 1914. La nozione di «simbolica» è invece già presente nell’edizione del 1900.
9
Pubblicato in F. Aranda, Luis Buñuel. Biografía critica, Barcelona, Lumen, 1969 (trad. P. Bertetto). Si vedano anche il volume L. Buñuel, Scritti letterari e cinematografici, a cura di A. Sánchez Vidal, Venezia, Marsilio, 1984, e l’autobiografia L. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Milano, Rizzoli, 1983.
10
Sui due film la bibliografia è molto ampia. Si vedano in particolare M. Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, Paris, Lherminier, 1978; A. Sánchez Vidal, Luis Buñuel. Obra cinematográfica, Madrid, Ediciones J.C., 1984; L. Williams, Figures of Desire. A Theory and Analysis of Surrealist Film, Urbana, University of Illinois Press, 1981; J. Talens, L’occhio aperto (1986), Bari, Giuseppe Laterza, 2009; J.M. Bouhours, N. Schoeller (a cura di), L’âge d’or. Correspondance Luis Buñuel-Charles de Noailles: lettres et documents (1929-1976), Paris, Centre Pompidou, 1993; P. Hammond, L’âge d’or, London, British Film Institute, 1997; A. Castro (cura di), Obsesiones Buñuel, Madrid, Ocho y Medio, 2001; J. González Requena, Amor loco en el jardín. La diosa que habita el cine de Luis Buñuel, Madrid, Abada, 2008; Bertetto, L’enigma del desiderio, cit. 11
12
J. Vigo, Œuvre de cinéma, Paris, Lherminier, 1990.
Cfr. J.F. Lyotard, Discorso figura (1971), Milano, Unicopli, 1989, in part. pp. 271, 279 e ss. 13
J. Lacan, Il Seminario. Libro III. Le psicosi (1981), Torino, Einaudi, 2010, p. 47. 14
Scrive Dalí nel 1929: «Mi piace ricordare che nel 1927 senza avere il minimo contatto, tre personaggi, da tempo lontani uno dall’altro, hanno 15
pensato all’asino putrefatto». Ora in Id., Sì, cit. p. 132. I tre personaggi sono Dalí, Buñuel e Pepín Bello, un amico della Residencia de Estudiantes. 16
Cfr. Williams, Figures of Desire, cit.
J. de la Colina, T. Pérez Turrent, Buñuel secondo Buñuel, Milano, Ubulibri, 1993, p. 206. 17
18
S. Dalí, L’âge d’or, programma di sala, 1930 (trad. P. Bertetto).
Manifeste des Surréalistes à propos de L’âge d’or, Paris, Éditions surréalistes, Paris, 1930, trad. it. in P. Bertetto (a cura di), Il cinema d’avanguardia 1910-1930, Venezia, Marsilio, 1983, pp. 340-347. Tra gli interventi degli anni trenta sul film, uno dei più intelligenti è quello di Henry Miller, The Golden Age, in Id., Max and the White Phagocytes, Paris, Obelisk Press, 1938 (trad. it. Id., Max e i fagociti bianchi, Milano, Il Saggiatore, 1968). 19
20
Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, cit., pp. 58-81.
21 Su Ramón Gómez de la Serna e Buñuel cfr. R. Gubern, Proyector de luna. La generación del 27 y el cine, Madrid, Anagrama, 1999. 22
Dalí, Oui, cit., p. 29.
Buñuel e Dalí mostrano un interesse particolare per Sade, non diversamente dai surrealisti. Buñuel lo considera un maestro di libertà e trasgressione e Dalí un eversore e addirittura un educatore. E il visconte di Noailles, mecenate produttore del film, aveva acquistato il manoscritto delle Cent vingt journées de Sodome. Nel film sono evocate le parti più estreme del libro più celebre di Sade, quelle dedicate al «girone della merda». Dalí in un quadro del 1929, Il gioco lugubre, aveva già dipinto degli escrementi e Bataille ne aveva parlato su «Documents», 7, 1929. Va rammentato in ogni modo che L’âge d’or anticipa alcuni degli aspetti trasgressivi dei romanzi proibiti di Bataille, scritti negli anni trenta e firmati con uno pseudonimo. 23
S. Freud, La sessualità femminile, 1931, trad. it. in Id., Opere 1930-38, t. XI, Torino, Bollati Boringhieri, 1979.
24
J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, (1936, 1949), trad. it. in Id., Scritti, Torino, Einaudi, 1974. 25
26
Lacan, La direzione della cura, in Scritti, cit.
Giorgio Tinazzi Él Il severo giudizio di Cocteau è riferito a Buñuel da Georges Sadoul in una lettera del 14 maggio 1953 (cfr. L. Buñuel, Correspondencia escogida, a cura di J. Evans e B. Viejo, Madrid, Cátedra, 2018, p. 348) (trad. S. Alovisio). 1
2
Ibid., p. 349.
A. Sánchez Vidal, Luis Buñuel. Obra cinematográfica, Madrid, Ediciones J.C., l984, p. 167. 3
Lettera di Buñuel a Giorgio Tinazzi, 11 giugno 1975, ora in G. Tinazzi, Sentieri del cinematografo. Sguardi teorici e percorsi nella pratica, Venezia, Marsilio, 2017, p. 139. 4
5
F. Truffaut, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1978, p. 203.
S. Freud, Il perturbante (1919), in Id., Opere, vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 91.
6
7
M. Aub, Buñuel. Il romanzo, Palermo, Sellerio, 1992, p. 188.
8
Ibid., p. 144.
9
Cfr. Sánchez Vidal, Luis Buñuel. Obra cinematográfica, cit., p. 176.
D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir. Dialoghi per l’educazione delle fanciulle (1795), Milano, Rizzoli, 2016, p. 203. 10
Nel film gli invitati vengono da teatro, decompongono i loro rapporti in un luogo che lo richiama da vicino e nella chiesa ricompongono il tessuto relazionale. 11
«Mi sentivo le mie dieci dita molli, senza ossa. I miei occhi, anche i miei occhi, mi spiavano da lontano, più grandi che mai, grigi per sempre, con la ferocia di tutti gli altri occhi» (L. Buñuel, Diluvio, ora in Id., Scritti letterari e cinematografici, a cura di A. Sánchez Vidal, Venezia, Marsilio, 1984, p. 63). 12
13
Cfr. il saggio di Maria Tortajada pubblicato in questo volume.
14
Sánchez Vidal, Luis Buñuel. Obra cinematográfica, cit., p. 167.
«Lubitsch e Buñuel sono i re del flashback invisibile, il flashback che interviene senza interrompere il filo della storia, ma al contrario per riprenderne il collegamento al momento in cui si sarebbe indebolito» (F. Truffaut, Buñuel il costruttore (1971), ora in Id., I film della mia vita, cit., p. 210). 15
Ivelise Perniola L’angelo sterminatore 1
M. Aub, Buñuel. Il romanzo, Palermo, Sellerio, 1992, p. 154.
P. Samson, Le confinement selon Buñuel. Sur L’ange exterminateur (1962), in «Positif», 711, mai 2020, p. 67 (trad. I. Perniola).
2
Luis Alcoriza collabora alle sceneggiature di dieci film di Buñuel, da El gran calavera (1949) a L’angelo sterminatore (1962). 3
Le riprese del film iniziano nei teatri di posa di Churobusco, in Messico, il 29 gennaio 1962 e soltanto a quattro mesi di distanza, l’8 maggio dello stesso anno, avviene la prima proiezione per il pubblico messicano, comprovando la “leggenda” di un Buñuel molto veloce sia in fase di riprese che in fase di montaggio. 4
M. Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, Paris, Lherminer, 1978, p. 109 (trad. I. Perniola). 5
J. de la Colina, T. Pérez Turrent, Buñuel por Buñuel, Madrid, Plot Ediciones, 1986 (trad. it. Iid., Buñuel secondo Buñuel, Milano, Ubulibri, 1993, p. 158). 6
L’analisi che abbiamo condotto si basa sull’edizione italiana in DVD del film edito da Sinister Film nel 2020 restaurata in HD. Per quanto riguarda il découpage abbiamo fatto riferimento direttamente all’edizione spagnola pubblicata nel 1964: El ángel exterminador de Luis Buñuel, Barcelona, Aymá S.A. Editora, 1964. 7
8
Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, cit., p. 109.
D. Bruni, L’angelo “sterminato” di Buñuel. I tagli della versione italiana, in «Bianco e Nero», n. 3, 2000, p. 71.
9
Cfr. J. Lacan, Le séminaire, livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Paris, Seuil, 1973 (trad. it. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, Torino, Einaudi, 2003). 10
G. Edwards, A Companion to Luis Buñuel, Woodbridge, Tamesis, 2005, p. 95 (trad. I. Perniola). 11
R. Durgnat, Luis Buñuel, London, Studio Vista, 1967, p. 129 (trad. I. Perniola).
12
13
Pérez Turrent, de la Colina, Buñuel secondo Buñuel, cit., p. 155.
L. Buñuel, “Tuo per sempre” di Buster Keaton, in Id., Scritti letterari e cinematografici, a cura di A. Sánchez Vidal, Venezia, Marsilio, 1984, p. 150. 14
Cfr. R. Barthes, Sul cinema, a cura di S. Toffetti, Genova, Il Melangolo, 1994, p. 87. 15
16
Pérez Turrent, de la Colina, Buñuel secondo Buñuel, cit., p. 159.
17
G. Tinazzi, Il cinema di Luis Buñuel, Palermo, Palumbo, 1973, p. 66.
S. Rollet, Buñuel au Mexique. L’art de la subversion, in «Positif», 391, septembre 1993, p. 80 (trad. I. Perniola). 18
M. Delahaye, J. Rivette, Entretien avec Claude Lévi-Strauss, in «Cahiers du cinéma», 156, 1964, pp. 19-29.
19
C. Lévi-Strauss, Bolero de Maurice Ravel, in «L’Homme», n. 11, 2, 1971, p. 5. 20
R. Calabretto, La musica mortificata. La colonna sonora nel cinema di Buñuel, in V. Cordelli, L. De Giusti (a cura di), L’occhio anarchico del cinema. Luis Buñuel, Milano, Il Castoro, 2001, p. 211. 21
22
A. Kyrou, Luis Buñuel, Paris, Seghers, 1962, p. 90.
A. Moravia, Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Milano, Bompiani, 1975, p. 27.
23
24
Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, cit., p. 114 (trad. I. Perniola).
G. Gabutti, Luis Buñuel. L’utopia della libertà, Roma, Edizioni Paoline, 1981, p. 100. 25
P. Arlorio, P. Bertetto, La frusta dei filistei, in «Ombre rosse», n. 7, aprile 1969, p. 35. Da citare tra le letture più politiche del film anche F. Buache, Luis Buñuel, Lausanne-Paris, L’Âge d’Homme, 1990. 26
M. Ripley, Housed Nowhere and Everywhere Shut In: Uncanny Dwelling in Luis Buñuel’s El ángel exterminador, «Bulletin of Spanish Studies, 93, 2016, p. 685. Il riferimento è al testo di G. Bachelard, La poétique de l’espace (1957), trad. it. Id. La poetica dello spazio, Bari, Dedalo,1975 e successive edizioni. 27
28
Aub, Buñuel. Il romanzo, cit., p. 163.
Rosamaria Salvatore Il fascino discreto della borghesia La fotografia è consultabile nel volume di M. Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, Paris, Lherminier, 1978, p. 35. 1 2
F. Truffaut, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 1978, p. 177.
3
L. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Milano, Rizzoli, 1983, p. 243.
Si veda, per un approfondimento, il saggio di Ivelise Perniola pubblicato in questo volume. 4 5
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 234.
6
G. Deleuze, L’immagine-movimento, Milano, Ubulibri, 1984, p. 159.
A. Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Milano, Baldini & Castoldi, 2000, p. 292. 7
Al servizio di rimandi continui interni al film, ritengo non sia un caso che il vescovo scelga di impiegare il proprio tempo nell’attività del giardinaggio, là dove, in un episodio, lo vedremo, dopo aver dato l’estrema unzione, uccidere un giardiniere moribondo, colpevole di avere assassinato i suoi genitori quando era ancora bambino. 8
9
Cfr. Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, cit., pp. 213-236.
10
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 46.
Per una lettura approfondita dell’incipit del film rimando al testo di C. Bragaglia, Il fascino discreto della borghesia: l’incipit, in V. Cordelli e L. de Giusti (a cura di), L’occhio anarchico del cinema. Luis Buñuel, Milano, Il Castoro, 2001. 11
J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 19691970, Torino, Einaudi, 2001, p. 66. 12
J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, Torino, Einaudi, 2003, p. 48. 13 14
Ibid., p. 53.
P. Bertetto, Figure. Immagini dell’inconscio nel cinema di Buñuel, in «La valle dell’Eden», n. 3, 1999, p. 119.
15
16
Ibid.
17
Ibid., p. 111.
S. Freud, Il risveglio per mezzo del sogno. La funzione del sogno. Il sogno d’angoscia, in Id., L’interpretazione dei sogni 1889, vol. III, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 479-480. 18
19
Ibid., p. 480.
Per una lettura più ampia sul reale nel cinema di Luis Buñuel mi permetto di rimandare al mio saggio Naufraghi privi di zattera: il reale nel cinema di Buñuel, in «Fata Morgana», n. 21, 2013, pp. 193-204. 20
Don Juan Tenorio di José Zorilla è stato messo in scena più volte da Buñuel. Riporto alcune note di Alberto Cattini sul testo drammaturgico scelto, con grande intelligenza “derisoria”, dal cineasta. «Dalla buca un suggeritore dice: “E per dimostrare il vostro valore, avete invitato a cena il fantasma del Commendatore”. La battuta è ripresa meccanicamente dal vescovo che, dopo “cena”, aggiunge “con voi” e sopprime il resto della frase. Mentre il suggeritore continua: “E per credere che aveva assistito a questo banchetto ci avete addormentati con un sonnifero”, Henri esclama: “Io non conosco la parte”. L’affermazione di Sénéchal è doppiamente significativa, sia per il suo ruolo sociale sia per quello che dovrebbe svolgere nel sesto atto […]». Cattini prosegue l’analisi notando che Don Juan, prima di trovare la morte in duello con il capitano Centellas (ruolo evocato nel film dal vescovo), recita la frase rivolta all’ombra di donna Inés: «E se mi ami davvero, fa’ che io possa distinguere la realtà dall’illusione» 21
(A. Cattini, Luis Buñuel, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 112). Sempre in Dei miei sospiri estremi, Buñuel ricorda di aver recitato la parte di Don Juan da giovane in varie versioni della messa in scena del testo drammaturgico di Zorilla, durante la permanenza presso la Residencia de Estudiantes. Cfr. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 66. 22
Bertetto, Figure. Immagini dell’inconscio, cit., p. 118.
23
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 92.
24
Ibid., p. 14.
Maria Tortajada Quell’oscuro oggetto del desiderio 1
Traduzione dal francese di Silvio Alovisio e Giulia Beccaria.
J. de la Colina, T. Pérez Turrent, Buñuel secondo Buñuel, Milano, Ubulibri, 1993, p. 216.
2
3
Ibid.
Cfr. C. Tesson, Préface. La séduisante énigme de la causalité, in T. Pérez Turrent, J. de la Colina (a cura di), Conversations avec Buñuel. Il est dangereux de se pencher au-dedans, Paris, Cahiers du cinéma, 2008, pp. 5-11.
4
5
A. Sánchez Vidal, Luis Buñuel, Madrid, Cátedra, 1991, p. 306.
Raul Grisolia sottolinea l’importanza dei riferimenti pittorici nel lavoro del regista ma stranamente, a proposito di Quell’oscuro oggetto del desiderio, scrive che l’autore «sceglie di dimenticare l’immagine pittorica» (R. Grisolia, Le metamorfosi dello sguardo. Cinema e pittura nei film di Luis Buñuel, Roma, Fondazione Scuola nazionale di cinema, 2002, p. 192). 6
Buñuel stesso spiega questa particolare scelta in de la Colina, Pérez Turrent, Buñuel secondo Buñuel, cit., pp. 213-215. 7
Il sacco appare all’inizio del film, poi torna in spalla a una comparsa al Palais Royal. Più avanti, viene preso direttamente da Mathieu, che lo trova su una panchina pubblica senza che nessuno sappia perché sia lì. 8
Quando Mathieu e il suo maggiordomo trovano gli effetti personali di Conchita dopo una scena di cui possiamo sospettare la violenza, il maggiordomo dice: «Belle mutandine, signore». Risponde Mathieu: «Nel fuoco!». Il maggiordomo: «Un po’ bagnate. Deve avere avuto paura». Il maggiordomo poco prima teneva in mano un cuscino macchiato di sangue. 9
10
F. Buache, Buñuel, Lausanne-Paris, L’Âge d’Homme, 1980, p. 197.
Nella sceneggiatura, la scena si presenta così: «essa legge attentamente un libro. D’un tratto trasale, ascolta con curiosità e getta il libro su un divano vicino. Il libro resta aperto. Su una delle pagine si vede una figura di La dentellière di Vermeer» (L. Buñuel, S. Dalí. Un chien andalou, in «La Révolution surréaliste», n. 12, 15 décembre 1929, p. 35; trad. it. in «Bianco e Nero», n. 10, 1938, p. 118).Sul contributo di Dalí al riferimento a La merlettaia, cfr. J.M. Minguet Batllori, Salvador Dalí, cine y surrealismo(s), Barcelona, Parsifal, 2003. 11
M. Iampolski, Intertext against Intertext, in Id., The Memory of Tiresias, Berkeley, University of California Press, 1998, pp. 162-190. 12 13
Cfr. il saggio di Giorgio Tinazzi pubblicato in questo volume.
S. Velasco, Buñuel Goes Medieval. From Sewing to Cervantes and the Vagina Dentata, in R. Stone, J. Daniel Gutierrez-Albilla (a cura di), A Companion to Luis Buñuel, Malden, Wiley-Blackwell, 2013. 14
Sull’iconografia della merlettaia in relazione al quadro di Vermeer, cfr. il sito web di Jonathan Janson e Adelheid Rech, «The Essential Vermeer» (http://www.essentialvermeer.com/… (ultima consultazione: 12 agosto 2021). 15
La professione della merlettaia e la lavorazione del merletto sono descritte in J. Janson, A. Rech, Making Lace with Vermeer, «The Essential Vermeer», http://www.essentialvermeer.com/… Making. Cfr. anche W. Liedtke, Vermeer. The Complete Paintings, Antwerp, Ludion, 2008, p. 153. 16
17
D. Arasse, L’ambition Vermeer, Paris, Adam Biro, 1993, p. 153.
Cfr. G. Didi-Hubermann, Appendice. Question de détail, question de pan, in Id., Devant l’image, Paris, Minuit, 1990, pp. 298-302. 18
«Il pannello di legno sotto il piano di lavoro presenta fori quadrati e un piede smerlato, o un ripiano, nella parte inferiore. È evidentemente parte del supporto, e probabilmente era regolabile, ma il suo scopo preciso oggi non è chiaro» (Liedtke, Vermeer. The Complete Paintings, cit. [trad. S. Alovisio]). 19
«Tutti questi oggetti sono rappresentati non solo con meticolosa precisione, ma anche con un’obliquità che supera la più oscura delle altre invenzioni di Vermeer. […] i dispositivi sono sviluppati in modo più stravagante che in qualsiasi altro suo lavoro […]. La forma di ogni oggetto è presentata da un angolo obliquo e inconsueto» (J. Nash, Vermeer, Amsterdam, Rijksmuseum Foundation, Scala Books, 1991, p. 110 [trad. S. Alovisio]). 20
21
Cfr. Liedtke, Vermeer. The Complete Paintings, cit.
E interessante osservare come le due fotografie di questo tipo di tavolo di lavoro scelte per accompagnare la citazione dello studio di Liedtke nella sezione del sito The Essential Vermeer dedicata a La merlettaia (http://www.essentialvermeer.com/…, figg. 6-7) presentino entrambe, nello stesso punto, ciò che inizialmente potrebbe anche sembrare una scatola. A uno sguardo più ravvicinato, tuttavia, questa “scatola” potrebbe anche essere un pannello che termina con una mensola o un bordo orizzontale, utile per consentire alla donna al lavoro di poggiare la struttura sulle proprie cosce. 22
23
Nash, Vermeer, cit., p. 113.
24
Ibid. (trad. S. Alovisio).
Walter Liedtke contesta l’interpretazione di John Nash, che fa della camera obscura una sorta «di strumento di registrazione». 25
Cfr. In particolare N. Wenczel, The Optical Camera Obscura II. Images and Texts, in W. Lefèvre (a cura di), Inside the Camera Obscura. Optics and Art under the Spell of the Projected Image, Berlin, Max Planck Institute for the History of Science 2007, pp. 15-18. 26
G. Simon, Archéologie de la vision. L’optique, le corps, la peinture, Paris, Seuil, 2003, pp. 203-241.
27
Come osserva Laura J. Snyder, Vermeer, nell’utilizzare la camera obscura, «non stava semplicemente riproducendo la natura, ma evocava il 28
modo in cui la natura si manifestava alla percezione visiva dell’uomo. Stava esplorando sperimentalmente il concetto di visione» (L.J. Snyder, Eye of the Beholder. Johannes Vermeer, Antoni Van Leeuwenhoek, and the Reinvention of Seeing, New York, W.W. Norton & Company, 2015, p. 157 [trad. S. Alovisio]). Si veda, per esempio, la camera obscura di J.F. Brander, risalente al XVIII secolo (cfr. in part. Wenczel, The Optical Camera Obscura II, cit., p. 18). 29
30
G. Bataille, Storia dell’occhio (1928), Milano, SE, 2008.
J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964, Torino, Einaudi, 2003. 31
Charles Tesson sviluppa una dettagliata analisi della sequenza, mettendola in relazione, per quanto riguarda la musica, con le parole di Nietzsche su Wagner (C. Tesson, Luis Buñuel, Paris, Cahiers du cinéma, 1995, pp. 277-279). Sulla musica nel cinema di Buñuel, cfr. T. Fellner, Subervion und Stille, in «Neue Zürcher Zeitung», 6 April 2013 (https://www.nzz.ch/subversion-und-stille-1.18058726#register, ultima consultazione 3 maggio 2015). Un grande ringraziamento a Monika e André Carruso per il loro aiuto. 32
Il doppiaggio italiano propone una traduzione molto infedele («ora vogliate ascoltare un programma di musica lirica») che elude qualsiasi effetto ironico. 33
Bruno Surace Gli altri film L. Buñuel, Dei miei sospiri estremi, Milano, Rizzoli, 1983, p. 194. Per ulteriori approfondimenti biografici cfr. M. Aub, Buñuel. Il romanzo, Palermo, Sellerio, 1992. 1
Per una periodizzazione della produzione buñueliana cfr. il saggio di Alovisio e Bertetto che apre questo volume. 2
Per un approfondimento sulle dinamiche narrative nel cinema buñueliano si rimanda nuovamente al saggio di Alovisio e Bertetto che apre questo volume. 3
Per orientarsi ulteriormente sugli interessi, e a tratti le ossessioni buñueliane, cfr. G. Edwards, A Companion to Luis Buñuel, Woodbridge, Tamesis, 2005; R. Stone, J.D. Gutiérrez-Albilla (a cura di), A Companion to Luis Buñuel, Malden, Wiley-Blackwell, 2013. 4
Il riferimento primario è chiaramente quello a J.H. Fabre, Ricordi di un entomologo: studi sull’istinto e i costumi degli insetti, Torino, Einaudi, 1972. 5
Sul rapporto fra il regista e il Messico cfr. in E.R. Acevedo-Muñoz, Buñuel and Mexico: The Crisis of National Cinema, Berkeley, University of California Press, 2003; T.P. Turrent, ¿Existe un cine mexicano de Luis Buñuel?, in «Cinémas d’Amérique Latine», 5, 1997, pp. 135-144. 6
Notabile il fatto che alcuni studiosi considerino effettivamente il regista come una sorta di “poeta visivo”, come affermato in Luis Buñuel. El cine, instrumento de poesía, a cura di C. Peña, Zaragoza, Universidad de Zaragoza, 1999. Sull’attività letteraria del cineasta cfr. anche L. Buñuel, Obra literaria, a cura di A. Sánchez Vidal, Zaragoza, Ediciones de Heraldo 7
de Aragón, 1982 (trad. it. Id., Un tradimento inqualificabile. Scritti letterari e cinematografici, Venezia, Marsilio, 1996). Una lettura di un corpus selezionato di film di Buñuel, attraverso la lente del tema del desiderio, è già stata proposta in diversi autorevoli studi, fra i quali P. Bertetto, Figure. Immagini dell’inconscio nel cinema di Buñuel, in «La valle dell’Eden», n. 3, 1999, pp. 99-134; P. Bertetto, L’enigma del desiderio. Buñuel, Un chien andalou e L’âge d’or, Roma, Fondazione Scuola nazionale di cinema, 2001; L. Williams, Figures of Desire. A Theory and Analysis of Surrealist Film, Urbana, University of Illinois Press, 1981; P.W. Evans, The Films of Luis Buñuel. Subjectivity and Desire, Oxford, Clarendon Press, 1995. Si veda anche: J. Halpern, Desire and Mask in Le Journal d’une femme de chambre, in «Kentucky Romance Quarterly», v. 27, n. 3, 1980, pp. 313-326. 8
Cfr. G.H. Wood, Las armas de Luis Buñuel, Zaragoza, Prensa de la Universidad de Zaragoza, 2020. Particolarmente rilevante anche l’analisi di Belle de jour proposta da Paolo Bertetto nel suo Il cinema e l’estetica dell’intensità, Milano-Udine, Mimesis, 2016. 9
Una lettura femminista del film in B. Miller, La Tristana feminista de Buñuel, in «Diálogos: Artes, Letras, Ciencias Humanas», v. 10, n. 6, 1974, pp. 16-20. 10
Cfr. J. Amiot-Guillouet, “Los olvidados” ou la déconstruction de quelques clichés fondateurs du cinéma mexicain Classique, in «L’Avant-scène Cinéma», h.s., n. 1, 2011, pp. 13-20. 11
Cfr. E. Rodgers, Apurando la Lección: Luis Buñuel and Galdos’s Nazarin, in «Romance Studies», v. 13, n. 2, 1995, pp. 51-59. 12
Al rapporto fra religione e cinema spagnolo, con una sezione interamente incentrata su Buñuel, è dedicato E. Scarlett, Religion and Spanish Film. Luis Buñuel, the Franco Era, and Contemporary Directors, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2014. 13
È invero anche possibile proporre una lettura psicoanalitica della sessualità nell’opera buñueliana. Cfr. Williams, Figures of Desire, cit.; F. Cesarman, El ojo de Buñuel, Barcelona, Anagrama, 1976; M. Drouzy, Luis Buñuel, architecte du rêve, Paris, Lherminier, 1978; J.D. Gutiérrez-Albilla, Queering Buñuel. Sexual Dissidence and Psychoanalysis in his Mexican and Spanish Cinema, London-New York, Tauris, 2008. 14
Una lettura lacaniana del film è in R. Humphries, Lacan and the Ostrich: Desire and Narration in Buñuel’s “Le Fantôme de la Liberté”, in «American Imago», v. 52, n. 2, 1995, pp. 191-203. 15
Studi approfonditi del film in T.R. Hage, BuñuEL, Santa Cruz de Tenerife, Excmo, 2001; C. Tesson, Él. Luis Buñuel. Étude critique, Paris, Nathan, 1996. Si veda anche A. Salatino, Lui di Buñuel: il coup de cloche o la catastrofe del Reale, in «Fata Morgana», a. 7, n. 21, 2003, pp. 231-235. 16
Per un approfondimento sui rapporti fra il regista e il gruppo surrealista cfr. G. Edwards, Lorca, Buñuel, Dalí. Forbidden Pleasures and Connected Lives, London, Tauris, 2009; A. Sánchez Vidal, Buñuel, Lorca, Dalí. El enigma sin fin, Barcelona, Planeta, 1988. 17
Una disamina approfondita del surrealismo nel cinema del regista in Bertetto, L’enigma del desiderio, cit. 18
Su quest’ultimo punto cfr. anzitutto R. Grisolia, Le metamorfosi dello sguardo. Cinema e pittura nei film di Luis Buñuel, Roma, Fondazione Scuola nazionale di cinema, 2002. Si veda anche J. Terrasa, Les citations picturales dans Viridiana, de Luis Buñuel, in «Cahiers d’études romanes», n. 2, 1999, pp. 171-192. 19
Su una potenziale componente comica nel cinema del regista cfr. M.G. Boronat, Running Bombs. El gag visual, Buñuel y los límites de la narración, in «L’atalante», 2013, pp. 58-65. 20
Si tratta dunque di un cinema dell’interiorità, come espresso in J. Gorostiza, Los espacios interiores de Luis Buñuel, in «Archivos de la Filmoteca», n. 37, 2001, pp. 21-33. 21
Anche per questo motivo risultano particolarmente proficue operazioni comparatistiche fra il cinema buñueliano, specie quello più “di genere” della fase messicana, e l’opera di registi del cinema classico hollywoodiano, come in J. González Requena, Escenas fantasmáticas. Un diálogo secreto entre Alfred Hitchcock y Luis Buñuel, Granada, Diputación de Granada, 2011. 22
Una complessa analisi del film si trova in R. Durgnat, The Milky Way, in «Film Comment», v. 10, n. 4, 1974, pp. 37-42. Una riflessione analitica “a caldo”, concomitante all’uscita del film, è inoltre in M.-C. Wuilleumier, La structure déjouée, in «Esprit», n. 9, 1969, pp. 362-367. 23
24 Sul film cfr. J. Ramey, Buñuel’s Social Close-Up: An Entomological Gaze on El ángel exterminador/The Exterminating Angel (1962), in «Studies in Spanish & Latin American Cinemas», v. 13, n. 3, 2016, pp. 319-337. 25 Un’analisi puntuale in A. Fernández Hoya, G. Fernández Hoya, Comedia y metaficción para un cuento mexicano. La ilusión viaja en tranvía (Luis Buñuel, 1953), in F. García Serrano (a cura di), Luis Buñuel (1900-1983): suspiros y películas, Madrid, Universidad Complutense de Madrid, 2009, pp. 1-18.
Al film è dedicato J.D.M. Marcos, La producción geosimbólica de Las Hurdes. Teoría, historia y práctica de un territorio imaginario, tesi di dottorato, Universidad de Extremadura, 2016. 26
Sulla prima produzione del regista, nel decennio 1929-1939, si veda R. Gubern, P. Hammond, Luis Buñuel: The Red Years, 1929-1939, Madison, The University of Wisconsin Press, 2012. 27
Per un’analisi sulla messinscena degli spazi e delle architetture nel cinema del regista cfr. J.E. Diez, La concepción del espacio arquitectónico en el cine de Luis Buñuel, in «Camón Aznar de Ibercaja - Boletín», XCV, 2005, pp. 265-288. 28
29
Buñuel, Dei miei sospiri estremi, cit., p. 248.
Filmografia a cura di Giulia Beccaria, Silvio Alovisio REGIE
1929 Un chien andalou (t.l. Un cane andaluso) Regia: Luis Buñuel; soggetto e sceneggiatura: Luis Buñuel e Salvador Dalí; aiuto-regia: Pierre Batcheff; montaggio: Luis Buñuel; fotografia (b/n, 35 mm): Albert Duverger; musica: Richard Wagner e tanghi argentini; scenografia: Pierre Schildtnecht; interpreti principali: Pierre Batcheff (l’uomo), Simone Mareuil (la ragazza), Fano Messan (l’androgino), Jaume Miravitlles, Marval, Salvador Dalí (preti), Luis Buñuel (l’uomo del rasoio); produzione: Luis Buñuel, Parigi; origine: Francia; durata: 24’.
1930 L’âge d’or (t.l. L’età dell’oro) Regia: Luis Buñuel; soggetto: Luis Buñuel e Salvador Dalí; sceneggiatura e montaggio: Luis Buñuel; fotografia (b/n, 35 mm): Albert Duverger; musica: Georges van Parys, Felix Mendelssohn, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, Claude Debussy, Richard Wagner, Franz Schubert, tamburi di Calanda; scenografia: Pierre Schildtnecht e Serge Pimenoff; interpreti principali: Lya Lys (la donna), Gaston Modot (l’uomo), Germaine Noizet (la marchesa), Max Ernst (capo bandito), Pierre Prévert (il bandito Péman); produzione: Charles de Noailles, Parigi; origine: Francia; durata: 62’.
1933 Las Hurdes Regia e montaggio: Luis Buñuel; fotografia (b/n, 35 mm): Eli Lotar; commento: Luis Buñuel, Pierre Unik e Ramón Acín, basato sullo studio Las Hurdes (1927) di Maurice Legendre; voce dell’edizione francese: Abel Jaquin; voce dell’edizione restaurata spagnola (1996): Francisco Rabal; musica: Johannes Brahms; produzione: Luis Buñuel e Ramón Acín; origine: Spagna; durata: 30’.
1947 Gran Casino (t.l. Gran Casinò) Regia: Luis Buñuel; soggetto: da un racconto di Michel Veber; sceneggiatura: Mauricio Magdaleno; fotografia (b/n, 35 mm): Jack Draper; musica: Manuel Esperón; montaggio: Gloria Schoemann; scenografia: Javier Torres Torija; interpreti principali: Libertad Lamarque (Mercedes Irigoyen), Jorge Negrete (Gerardo Ramírez), Mercedes Barba (Camelia),
Agustín Isunza (Heriberto); produzione: Películas Anahuac; origine: Messico; durata: 95’.
1949 El gran calavera (t.l. Il grande scapestrato) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dalla commedia El gran calavera di Adolfo Torrado; sceneggiatura: Luis Alcoriza, Raquel Rojas (secondo altre fonti Janet Alcoriza); fotografia (b/n, 35 mm): Ezequiel Carrasco; suono: Jesús González Gancy; musica: Manuel Esperón; montaggio: Carlos Savage; scenografia: Luis Moya, Dario Cabañas; interpreti principali: Fernando Soler (Don Ramiro), Rosario Granados (Virginia), Rubén Rojo (Pablo), Andrés Soler (Ladislao); produzione: Ultramar Films; origine: Messico; durata: 92’.
1950 Los olvidados (I figli della violenza) Regia: Luis Buñuel; soggetto e sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza con la collaborazione di Max Aub e Pedro de Urdimalas; fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; suono: José B. Carles e Jesús González Gancy; musica: Rodolfo Halffter su temi di Gustavo Pittaluga; montaggio: Carlos Savage; scenografia: Edward Fitzgerald; interpreti principali: Miguel Inclán (il cieco), Alfonso Mejía (Pedro), Estela Inda (la madre), Roberto Cobo (Jaibo); produzione: Ultramar Films; origine: Messico; durata: 80’.
1951 Susana (Adolescenza torbida) Regia: Luis Buñuel; soggetto: da un racconto di Manuel Reachi; sceneggiatura: Jaime Salvador, Luis Buñuel; dialoghi: Rodolfo Usigli; fotografia (b/n, 35 mm): José Ortíz Ramos; suono: Nicolás de la Rosa; musica: Raúl Lavista; montaggio: Jorge Bustos; scenografia: Gunther Gerzso; interpreti principali: Fernando Soler (Don Guadalupe), Rosita Quintana (Susana), Victor Manuel Mendoza (Jesús), Matilde Palau (Doña Carmen), Luis López Somosa (Alberto); produzione: Internacional Cinemátografica; origine: Messico; durata: 86’. La hija del engaño (t.l. La figlia dell’inganno) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dalla pièce Don Quintín, el amargao di Carlos Arniches e José Estremera; sceneggiatura: Luis Alcoriza, Janet Alcoriza, Juan de la Cabada; fotografia (b/n, 35 mm): José Ortíz Ramos; suono: Jesús González Gancy; musica: Manuel Esperón; montaggio: Carlos Savage; scenografia: Edward Fitzgerald; interpreti principali: Fernando Soler (Don Quintín), Rubén Rojo (Paco), Alicia Caro (Marta), Nacho Contla (Jonrón), Fernando Soto “Mantequilla” (Angelito); produzione: Ultramar Films; origine: Messico; durata: 78’.
1952
Una mujer sin amor (t.l. Una donna senz’amore) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Pierre et Jean di Guy de Maupassant; sceneggiatura: Jaime Salvador e Luis Buñuel; fotografia (b/n, 35 mm): Raúl Martínez Solares; suono: Rodolfo Benitez; musica: Raúl Lavista; montaggio: Jorge Bustos; scenografia: Gunther Gerzso; interpreti principali: Elda Peralta (Luisa), Julio Villareal (Don Carlos Montero), Rosario Granados (Rosario), Tito Junco (Julio Mistral), Xavier Loyá (Miguel), Joaquín Cordero (Carlos); produzione: Internacional Cinematográfica; origine: Messico; durata: 85’. Subida al cielo (t.l. Salita al cielo) Regia: Luis Buñuel; soggetto: Manuel Altolaguirre: sceneggiatura: Luis Buñuel, Juan de la Cabada, Manuel Reachi; fotografia (b/n, 35 mm): Alex Philips; suono: Eduardo Arjona e Jesús González Gancy; scenografia: Edward Fitzgerald; montaggio: Rafael Portillo; musica: Gustavo Pittaluga; interpreti principali: Lilia Prado (Raquel), Esteban Márquez (Oliverio), Carmen González (Albina), Leonor Gómez (Doña Linda), Luis Aceves Castañeda (Silvestre), Roberto Cobo (Juan), Pedro Elviro “Pitouto” (lo zoppo); produzione: Producciones Cinematográficas Isla; origine: Messico; durata: 85’.
1953 El bruto (t.l. Il bruto) Regia: Luis Buñuel; soggetto e sceneggiatura: Luis Alcoriza, Luis Buñuel; fotografia (b/n, 35 mm): Agustin Jiménez; suono: James L. Fields; musica: Raúl Lavista; montaggio: Jorge Bustos; scenografia: Gunther Gerzso; interpreti principali: Katy Jurado (Paloma), Pedro Armendáriz (Pedro), Andrés Soler (Cabrera), Rosita Arenas (Meche); produzione: Internacional Cinematográfica: origine: Messico; durata: 81’. Él (t.l. Lui) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Él di Mercedes Pinto; sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza; fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; suono: José Pérez, Jesús González Gancy; musica: Luis Hernández Bretón; scenografia: Edward Fitzgerald, Pablo Galván; montaggio: Carlos Savage; interpreti principali: Arturo de Córdova (Francisco Galván de Montemayor), Delia Garcés (Gloria), Luis Beristáin (Raúl Conde), Manuel Dondé (Pablo); produzione: Producciones Tepeyac; origine: Messico; durata: 100’. Abismos de pasión - Cumbres borrascosas (t.l. Abissi di passione - Cime tempestose) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Wuthering Heights di Emily Brontë; sceneggiatura: Luis Buñuel, Julio Alejandro, Arduino Maiuri; fotografia (b/n, 35 mm): Agustín Jiménez, Sergio Vejar; scenografia: Edward Fitzgerald; montaggio: Carlos Savage; musica: Richard Wagner; interpreti principali: Jorge Mistral (Alejandro), Irasema Dilian (Catalina), Lilia Prado (Isabel), Ernesto Alonso (Eduardo), Luis Aceves Castañeda
(Ricardo), Francisco Reiguera (José), Hortensia Santoveña (María); produzione: Producciones Tepeyac; origine: Messico; durata: 91’.
1954 Robinson Crusoe (Le avventure di Robinson Crusoe) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Robinson Crusoe di Daniel Defoe; sceneggiatura: Luis Buñuel, Philip Ansell Rol (Hugo Butler); fotografia (col., 35 mm): Alex Philips; suono: Javier Mateos, Jesús González Gancy; musica: Anthony Collins, Luis Hernández Bretón; montaggio: Carlos Savage, Alberto Valenzuela; scenografia: Edward Fitzgerald; interpreti principali: Dan O’Herlihy (Robinson), Jaime Fernández (Venerdì), Felipe de Alba (capitano Oberzo); produzione: Producciones Tepeyac e United Artists; origine: Messico - Stati Uniti; durata: 89’. La ilusión viaja en tranvía (t.l. L’illusione viaggia in tram) Regia: Luis Buñuel; soggetto: da un racconto di Mauricio de la Serna; sceneggiatura: Luis Buñuel, José Revueltas, Luis Alcoriza; fotografia (b/n, 35 mm): Raúl Martínez Solares; suono: José D. Perez; musica: Luis Hernández Bretón; montaggio: Jorge Bustos; scenografia: Edward Fitzgerald; interpreti principali: Lilia Prado (Lupita), Carlos Navarro (Caireles), Fernando Soto “Mantequilla” (Tobías Fernández “Tarrajas”), Augustín Isunza (papá Pinillos); produzione: Clasa Films Mundiales: origine: Messico; durata: 82’. El río y la muerte (t.l. Il fiume e la morte) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Muro bianco en roca negra di Miguel Álvarez Acosta; sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza; fotografia (b/n, 35 mm): Raúl Martínez Solares; suono: José D. Pérez; scenografia: Gunther Gerzso; musica: Raúl Lavista; montaggio: Jorge Bustos; interpreti principali: Columba Domínguez (Mercedes), Miguel Torruco (Felipe Anguiano), Joaquín Cordero (Gerardo Anguiano), Jaime Fernández (Rómulo Menchaca); produzione: Clasa Films Mundiales; origine: Messico; durata: 91’.
1955 Ensayo de un crimen (Estasi di un delitto) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Ensayo de un crimen di Rodolfo Usigli; sceneggiatura: Luis Buñuel, Eduardo Ugarte; fotografia (b/n, 35 mm): Agustin Jiménez; suono: Rodolfo Benitez; musica: Jorge Pérez Herrera; montaggio: Jorge Bustos; scenografia: Jesús Bracho Herrera; interpreti principali: Ernesto Alonso (Archibaldo de la Cruz), Miroslava Stern (Lavinia), Rita Macedo (Patricia), Ariadna Welter (Carlota); produzione: Alianza Cinematográfica; origine: Messico; durata: 90’.
1956
Cela s’appelle l’aurore (Gli amanti di domani) Regia: Luis Buñuel; soggetto: Emmanuel Roblès; sceneggiatura: Luis Buñuel e Jean Ferry; fotografia (b/n, 35 mm): Robert Lefebvre; suono: Antoine Petitjean; musica: Joseph Kosma; montaggio: Marguerite Renoir; scenografia: Max Douy; interpreti principali: Lucia Bosè (Clara), Georges Marchal (Valerio), Giani Esposito (Sandro), Nelly Borgeaud (Angela), Henri Nassiet (padre di Angela), Julien Bertheau (commissario Fasaro), JeanJacques Delbo (Gorzone); produzione: Les Films Marceau, Letitia Film; origine: Francia/Italia; durata: 102’. La mort en ce jardin (La selva dei dannati) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo breve La mort en ce jardin di José-André Lacour; sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza, Raymond Queneau, Gabriel Arout; fotografia (col., 35 mm): Jorge Stahl Jr.; suono: José D. Pérez, Maurice Laroche; scenografia: Edward Fitzgerald; musica: Paul Misraki; montaggio: Denise Charvein, Marguerite Renoir; interpreti principali: Simone Signoret (Gin), Georges Marchal (Chark), Charles Vanel (Castin), Michel Piccoli (padre Lizzardi), Michèle Girardon (Maria), Tito Junco (Chenko), Luis Aceves Castañeda (Alberto); produzione: Producciones Tepeyac, Dismage; origine: Messico/Francia; durata: 104’.
1959 Nazarín (Nazarin) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Nazarín di Benito Pérez Galdós; sceneggiatura: Luis Buñuel, Julio Alejandro, Emilio Carballido; fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; scenografia: Edward Fitzgerald; montaggio: Carlos Savage; suono: José Pérez, James L. Fields; musica: Macedio Alcalà, tamburi della Settimana Santa di Calanda; interpreti principali: Francisco Rabal (padre Nazario), Marga López (Beatríz), Rita Macedo (Andara), Jesús Fernández (il nano); produzione: Manuel Barbachano Ponce; origine: Messico; durata: 95’. La fièvre monte à El Pao (L’isola che scotta) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo La fièvre monte à El Pao di Henri Castillou; sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza, Charles Dorat, Louis Sapin, Henri Castillou; fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; suono: Rodolfo Benitez, Roberto Camacho; musica: Paul Misraki; montaggio: James Cuenet (vers. francese), Rafael Lopez Ceballos (vers. messicana); scenografia: Jorge Fernández; interpreti principali: Gérard Philipe (Ramón Vasquez), María Félix (Inés Vargas), Jean Servais (Alejandro Gual), Raúl Dantés (García); produzione: Films Borderie, Groupe des Quatre (Cité Film, Cormoran Film, Indus Film, Terra Film), Filmex; origine: Francia/Messico; durata: 100’.
1960 La Joven - The Young One (Violenza per una giovane)
Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Travellin’ Man di Peter Matthiessen; sceneggiatura: Luis Buñuel, H.B. Addis (Hugo Butler); fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; suono: James L. Fields, José B. Carles, Galdino Samperio; musica: Jesús Zarzosa; scenografia: Jesús Bracho; montaggio: Carlos Savage; interpreti principali: Zachary Scott (Miller), Key Meersman (Ewie), Bernie Hamilton (Travers), Claudio Brook (padre Fleetwood); produzione: Olmeca Films e Columbia Pictures; origine: Messico/Stati Uniti; durata: 95’.
1961 Viridiana (Viridiana) Regia e soggetto: Luis Buñuel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Julio Alejandro; fotografia (b/n, 35 mm): José F. Aguayo; suono: Aurelio García Tijearas; musica: Georg Friedrich Haendel, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven (selezione di Gustavo Pittaluga); scenografia: Francisco Canet; montaggio: Pedro del Rey; interpreti principali: Silvia Pinal (Viridiana), Fernando Rey (Don Jaime), Francisco Rabal (Jorge), Margarita Lozano (Ramona); produzione: Uninci, Films 59 e Producciónes Alatriste; origine: Spagna/Messico; durata: 90’.
1962 El ángel exterminador (L’angelo sterminatore) Regia: Luis Buñuel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza; fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; suono: José B. Carles; scenografia: Jesús Bracho; montaggio: Carlos Savage; musica: Raúl Lavista, con estratti di Domenico Scarlatti, Pietro Domenico Paradisi, Fryderyk Chopin, Ludwig van Beethoven, canti gregoriani; interpreti principali: Silvia Pinal (Leticia, detta La Walkiria), Enrique Rambal (Edmundo Nobile), Lucy Gallardo (Lucía Nobile), Enrique García Alvarez (Alberto Roc), Jacqueline Andere (Alicia Roc); produzione: Alatriste Producciónes, Uninci, Films 59; origine: Messico/Spagna; durata: 93’.
1964 Le journal d’une femme de chambre (Il diario di una cameriera) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo omonimo di Octave Mirbeau; sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fotografia (b/n, 35 mm): Roger Fellous; suono: Antoine Petitjean; scenografia: Georges Wakhévitch; montaggio: Louisette Hautecoeur; interpreti principali: Jeanne Moreau (Célestine), Georges Géret (Joseph), Michel Piccoli (Monteil), Françoise Lugagne (Madame Monteil); produzione: Speva Films, Ciné-Alliance, Filmsonor e Dear Film; origine: Francia/Italia; durata: 98’.
1965 Simón del desierto (Simon del deserto)
Regia e soggetto: Luis Buñuel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Julio Alejandro; fotografia (b/n, 35 mm): Gabriel Figueroa; musica: Raúl Lavista, tamburi della Settimana Santa di Calanda; montaggio: Carlos Savage; suono: James L. Fields; scenografia: Jesús Bracho; interpreti principali: Claudio Brook (Simón), Silvia Pinal (il demonio), Hortensia Santoveña (la madre), Jesús Fernández (il pastore nano); produzione: Producciónes Alatriste; origine: Messico; durata: 45’. Il film fu distribuito in Italia nel 1975, insieme a un altro mediometraggio (Dutchman, Il treno fantasma, 1966, di Anthony Harvey), con il titolo unico Intolleranza.
1967 Belle de jour (Bella di giorno) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Belle de jour di Joseph Kessel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fotografia (col., 35 mm): Sacha Vierny; suono: René Longuet; scenografia: Robert Clavel; montaggio: Louisette Hautecoeur; interpreti principali: Catherine Deneuve (Séverine), Michel Piccoli (Henri Husson), Jean Sorel (Pierre), Francisco Rabal (Hyppolite), Pierre Clémenti (Marcel); produzione: Paris Film Productions e Five Film; origine: Francia/Italia; durata: 101’.
1969 La voie lactée (La via lattea) Regia: Luis Buñuel; soggetto e sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fotografia (col., 35 mm): Christian Matras; suono: Jacques Gallois; montaggio: Louisette Hautecoeur; scenografia: Pierre Guffroy; interpreti principali: Paul Frankeur (Pierre), Laurent Terzieff (Jean), Alain Cuny (l’uomo con il mantello), Bernard Verley (Gesù); produzione: Greenwich Films e Fraia Film: origine: Francia/Italia; durata: 98’.
1970 Tristana (Tristana) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo Tristana di Benito Pérez Galdós; sceneggiatura: Luis Buñuel, Julio Alejandro; fotografia (col., 35 mm): José F. Aguayo; suono: José Nogueira, Dino Fronzetti; musica: Fryderyk Chopin; montaggio: Pedro del Rey; scenografia: Enrique Alarcón; interpreti principali: Catherine Deneuve (Tristana), Fernando Rey (Don Lope), Franco Nero (Horacio), Lola Gaos (Saturna); produzione: Epoca Films, Talia S.A., Selenia Cinematografica, Les Films Corona; origine: Spagna/Italia/Francia; durata: 99’.
1972 Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia) Regia e soggetto: Luis Buñuel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fotografia (col., 35 mm): Edmond Richard; suono: Guy Villette; montaggio: Hélène Plemiannikov; scenografia: Pierre Guffroy; interpreti
principali: Fernando Rey (Don Rafael), Paul Frankeur (François Thévenot), Delphine Seyrig (Simone Thévenot), Jean-Pierre Cassel (Henri Sénéchal), Stéphane Audran (Alice Sénéchal), Bulle Ogier (Florence), Julien Bertheau (vescovo); produzione: Greenwich Films; origine: Francia; durata: 102’.
1974 Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà) Regia e soggetto: Luis Buñuel; sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fotografia (col., 35 mm): Edmond Richard; suono: Guy Villette; musica: Johannes Brahms; scenografia: Pierre Guffroy; montaggio: Hélène Plemiannikov; interpreti principali: Bernard Verley (capitano dei dragoni), Jean-Claude Brialy (Monsiuer Foucauld), Monica Vitti (Madame Foucauld), Milena Vukotic (infermiera), Paul Frankeur (albergatore), Paul Le Person (padre Gabriel), Marcel Pérés e Guy Montagné (frati); produzione: Greenwich Films; origine: Francia; durata: 104’.
1977 Cet obscur objet du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio) Regia: Luis Buñuel; soggetto: dal romanzo La femme et le pantin di Pierre Louÿs; sceneggiatura: Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; fotografia (col., 35 mm): Edmond Richard; suono: Guy Villette; montaggio: Hélène Plemiannikov; scenografia: Pierre Guffroy; interpreti principali: Fernando Rey (Matthieu), Carole Bouquet e Ángela Molina (Conchita), Julien Bertheau (il cugino Edouard), Milena Vukotic (viaggiatrice), Valérie Blanco (sua figlia), Jacques Debarry (magistrato), Piéral (psicologo); produzione: Greenwich Film Productions, Les Films Galaxie, In-Cine Compania Industrial Cinematografica; origine: Francia/Spagna; durata: 103’. COLLABORAZIONI VARIE Assistente Mauprat (1926) di Jean Epstein. La sirène des Tropiques (t.l. La sirena dei Tropici, 1927) di Henri Étiévant e Mario Nalpas. La chute de la maison Usher (t.l. La caduta di casa Usher, 1928) di Jean Epstein. Produttore esecutivo La hija de Juan Simón (La figlia di Juan Simon, 1935) di José Luis Sáenz de Heredia. Don Quintín el amargao (t.l. Don Quintin l’amaro, 1935) di Luis Marquina. ¿Quién me quiere a mí? (t.l. Chi mi ama?, 1936) di José Luis Sáenz de Heredia.
¡Centinela, alerta! (t.l. Sentinella, in guardia!, 1937) di Jean Grémillon. Supervisore Espagne 1936 (t.l. Spagna 1936, 1937). Espagne 1937 (Spagna leale in armi, 1938). Sceneggiatore per film di altri registi Si usted no puede, yo sí (t.l. Se tu non puoi, io sì, 1951) di Julián Soler. Le moine (Il monaco, 1972) di Ado Kyrou. Interprete Llanto por un bandido (I cavalieri della vendetta, 1964) di Carlos Saura. En este pueblo no hay ladrones (t.l. In questo paese non ci sono ladri, 1964) di Albert Isaac. La chute d’un corps (Psicosessione, 1973) di Michel Polac. Buñuel inoltre appare anche in alcuni suoi film (Un chien andalou, Gli amanti di domani, Bella di giorno, Il fantasma della libertà).
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Su Luis Buñuel esiste una bibliografia di proporzioni sterminate di cui è impossibile rendere conto, anche solo parzialmente. Si è quindi ritenuto di includere in questa nota bibliografica essenziale soltanto le sceneggiature pubblicate, gli scritti e le lettere di Luis Buñuel in volume, le monografie, i numeri speciali di rivista e una ristretta selezione di interviste e di saggi dedicati all’intera filmografia del regista o all’analisi di un suo film, unitamente a una scelta di testimonianze sul regista firmate da amici e collaboratori, limitando però in tutti i casi la scelta dei titoli alle pubblicazioni in lingua italiana, francese e inglese. 1