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Italian Pages 72 Year 2016
Università degli Studi di Padova Dipartimento dei Beni Culturali: Archeologia, Storia dell’arte, del cinema e della musica
Corso di Laurea Triennale in Archeologia
LUDI CIRCENSES E VENATIONES IN EPOCA TARDOANTICA: I DITTICI EBURNEI COME TESTIMONIANZA ICONOGRAFICA
Relatore: prof.ssa Monica Salvadori
Laureanda: Alessia Rizzato Matr. 1054764
Anno Accademico 2015/2016
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INDICE INTRODUZIONE
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CAPITOLO 1: I DITTICI EBURNEI DI EPOCA TARDOANTICA
pag. 7
1.1 DEFINIZIONE DI DITTICO, PRINCIPALI TIPOLOGIE E UTILIZZI.
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1.2 LE VIE DELL’AVORIO: LE PRINCIPALI ROTTE E VIE COMMERCIALI TRA ORIENTE E OCCIDENTE.
pag. 13
1.3 LA FABBRICAZIONE DEI DITTICI: DALL’AVORIO GREZZO AL PRODOTTO FINITO.
pag. 17
CAPITOLO 2: STORIA E SVILUPPO DELLE VENATIONES E DEI LUDI CIRCENSES
pag. 27
2.1 GLI SPETTACOLI NEL MONDO ROMANO E LA LORO EVOLUZIONE IN EPOCA TARDOANTICA.
pag. 27
2.2 LE VENATIONES.
pag. 34
2.3 I LUDI CIRCENSES.
pag. 39
CAPITOLO 3: LA TESTIMONIANZA DELLE VENATIONES E DEI LUDI CIRCENSES NEI DITTICI EBURNEI DI EPOCA TARDOANTICA
pag. 45
3.1 I DITTICI DI AREOBINDO.
pag. 45
3.2 IL DITTICO DEI LAMPADI.
pag. 50
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
pag. 65
BIBLIOGRAFIA
pag. 67
CONTRIBUTI PER LE IMMAGINI
pag. 69
INDICE DEI PASSI COMMENTATI O CITATI
pag. 71
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INTRODUZIONE
Questo lavoro di tesi avrà come oggetto principale la riprova della persistenza in epoca tardoantica dei giochi e degli spettacoli tradizionali del mondo romano e, più specificatamente, dei ludi circenses e delle venationes. Per farlo ci si concentrerà sull’analisi di quella particolare categoria di manufatti artistici rappresentata dai dittici eburnei da parata, oggetti di fattura pregiata, costituiti da due tavolette pieghevoli in avorio (definite valve) e diffusisi proprio a partire dal IV secolo d.C. quali doni di prestigio regalati da un magistrato a amici o parenti, in occasione dell’assunzione di una carica politica. Tenendo presente che la decorazione a rilievo che contraddistingue le facce esterne delle valve, venne spesso sfruttata dagli esponenti più importanti della società come strumento visivo privilegiato per riaffermare credenze condivise o per scopi di propaganda politica, personale o gentilizia, si può chiaramente comprendere quanto essa possa in effetti costituire una fonte inestimabile di informazioni, utili quali testimonianza non solo della persistenza, ma anche delle modalità attraverso le quali giochi e spettacoli venivano realizzati in epoca tardoantica. Nel primo capitolo, verranno esaminati alcuni aspetti preliminari fondamentali per un primo approccio al tema in esame. Dopo aver fatto maggior chiarezza sull’origine e sul concetto espresso dal termine “diptychum”, sarà possibile procedere a una classificazione delle principali tipologie di questa particolare categoria di manufatti pregiati, su base sia iconografica che funzionale, e approfondire alcuni aspetti legati alla produzione degli stessi, quali le principali rotte commerciali che consentivano ai romani di entrare in possesso dell’avorio (materiale ornamentale proveniente, sotto forma di zanne, dalle lontane terre dell’India, dell’Africa orientale e sahariana), e la sua successiva fase di lavorazione da parte di artigiani specializzati (eborarii). Nel secondo capitolo sarà poi dato spazio a un’analisi più specifica sul significato assunto dagli spettacoli circensi e di venatio all’interno del mondo romano, soprattutto in relazione alla classe sociale dominante, e la progressiva evoluzione che essi subirono in epoca tardoantica. Tutto ciò ai fini di comprendere quanto la consuetudine di organizzare giochi e spettacoli di vasta portata, configuratasi fin dall’età repubblicana come uno strumento essenziale nelle mani dei magistrati attraverso il quale accrescere la propria popolarità e ottenere il cosiddetto “favor populi”, si fosse conservata e radicata nel corso nel tempo negli usi e nella tradizione della società romana, trovando continuità, seppur con qualche sostanziale differenza, sino a questo specifico periodo storico. Proprio per dare maggior credito a quest’ultimo aspetto, nell’ultimo capitolo si prenderanno più
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specificatamente in esame alcuni esemplari di dittici eburnei prodotti in epoca tardoantica della tipologia con tribunal, in cui la rappresentazione che caratterizza le facce esterne delle valve si articola su due registri, presentando, partendo dall’alto, il magistrato seduto sulla sella curulis al centro del tribunal e i ludi di cui sarebbe stato editore. In relazione alle venationes, l’analisi si focalizzerà sui tre dittici legati alla figura del console Areobindo, prodotti in occasione della sua nomina al consolato nel 506 d.C, nei quali la grande varietà di scene ludiche rappresentate nel registro inferiore delle valve, consente di ricostruire i cambiamenti che investirono questa particolare tipologia di spettacoli in età tardoantica e le principali modalità attraverso le quali essi venivano attuati. Per quello che concerne i ludi circenses invece, considerando che all’interno della vasta produzione di dittici in avorio conservatisi sino all’epoca attuale soltanto due rappresentano vere e proprie scene di corse coi carri, la scelta è ricaduta quasi obbligatoriamente sul cosiddetto dittico dei Lampadi, databile tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Tale manufatto, seppur oggetto di numerose controversie relative all’occasione e alla figura per la quale esso sarebbe stato realizzato, costituisce tuttavia una fonte iconografica di estrema importanza, chiara testimonianza di quanto il carattere sacro originario dei ludi circenses e la ricca simbologia ad essi legata, fosse ancora ben radicato soprattutto all’interno delle famiglie più importanti dell’alta aristocrazia romana, nonostante la sempre maggiore diffusione dei nuovi valori cristiani all’interno della società.
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CAPITOLO 1 I DITTICI EBURNEI DI EPOCA TARDOANTICA
1.1 DEFINIZIONE DI DITTICO, PRINCIPALI TIPOLOGIE E UTILIZZI. Prima di procedere a un’analisi più dettagliata del tema in esame, occorre innanzitutto definire i caratteri morfologici fondamentali di questa particolare classe di manufatti e accennare alcune osservazioni preliminari da un punto di vista lessicale1. Generalmente con il termine dittico si fa riferimento a un oggetto costituito da due tavolette pieghevoli in legno, pietra, avorio o altro materiale pregiato, definite valve e tenute insieme da legacci o cerniere. Le facce interne di tali valve, se usate come supporto scrittorio, risultano leggermente incavate e con i bordi rialzati, per ospitare e proteggere uno strato di cera su cui veniva redatto un breve testo scritto. È bene tenere presente tuttavia che il termine latino diptychum, compare nelle fonti solo a partire dal IV secolo quando, diffusasi la moda dei grandi dittici eburnei da parata, il vocabolo sarà utilizzato sistematicamente proprio per indicare questa particolare categoria di manufatti artistici2. Tale sostantivo deriva dal termine greco δίπ υχος (formato da δίς «due volte» e la radice del verbo π ύ ω «piegare»), che in origine veniva utilizzato all’interno di un ambito molto vasto, soprattutto come aggettivo, per trasmettere l’idea della duplicità sia di cose che di persone, che non erano semplicemente due, ma appunto doppie, quasi speculari, sottolineando quindi la presenza di un legame che poteva essere non solo di tipo materiale, ma anche affettivo o concettuale3. Tenendo presente dunque il significato con cui 1
Per le informazioni riportate in questo paragrafo si veda il significativo apporto di: M. Abbatepaolo (ABBATEPAOLO 2012); R. Delbruek (DELBRUEK 2009).; F. Citti, «Diptycha ex ebore»: osservazioni per uno studio lessicale, in M. David (DAVID 2007). 2 In seguito si diffonderà ampiamente anche in ambito cristiano per indicare quei dittici liturgici in avorio contenenti le liste con i nomi dei vivi e dei morti da recitare durante la liturgia. 3 Questo utilizzo del vocabolo si riscontra già in Omero, dove esso compare col significato di «doppio» o «ripiegato in due», per indicare per esempio il mantello di Atena o il grasso, steso a doppio strato, sulle cosce di una giovenca offerta in dono alle divinità (v. rispettivamente Hom. Od. 13, 221-224; Hom. Il. 1, 458-461). Anche Euripide in quasi tutte le sue tragedie sottolinea l’idea di duplicità attraverso il termine δίπ υχος. Ciò si riscontra per esempio nelle Troiane, dove il vocabolo viene utilizzato per descrivere la lingua biforcuta, capace di tessere inganni, di Odisseo (v. Eur. Tro. 278-287). In altre opere invece l’autore si avvale del termine proprio per evidenziare quel legame affettivo che unisce in maniera indissolubile due fratelli o amici particolarmente intimi. Quest’uso specifico si riscontra per esempio nell’ Elettra, dove con δίπτυχοι sono descritti i Dioscuri Castore e Polluce (v. Eur. El. 1238-1240), oppure dell’Ifigenia Taurica, dove compare in relazione ai due giovani Pilade e Oreste, legati tra loro da un affetto così sincero da essere scambiati per fratelli (v. Eur. Iph.Tau. 241-245).
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il vocabolo veniva concepito da principio nel mondo greco, si può capire perché esso venne in seguito scelto dai romani come il termine più adatto per indicare quella nuova classe di oggetti in avorio, unici ma speculari, costituiti da due valve praticamente identiche e ripiegabili l’una sull’altra, simili per aspetto e funzione alle tavolette scrittorie delle quali i dittici rappresentano sostanzialmente una versione di lusso. Prima del IV secolo nel mondo romano infatti, i termini con cui si designavano le tavolette scrittorie erano molteplici e variavano a seconda della funzione (pubblica o privata), del destinatario e della tipologia del materiale impiegato (legno, pietra, bronzo, avorio, etc.). Tra i vocaboli più utilizzati si riscontra in primo luogo tabula, con cui generalmente venivano chiamate le tavolette scrittorie di tipo pubblico o privato4. Il diminutivo tabella invece, se in età repubblicana veniva usato alternativamente a altri termini (quali pugillares o codicilli) per indicare i supporti scrittori adibiti all’otium litterarium, a partire dall’età imperiale risulterà il vocabolo privilegiato per alludere alle tavolette scrittorie dei poeti5. Nell’uso quotidiano le tavole non ufficiali, utilizzate dunque all’interno di una sfera più privata e informale, venivano comunemente definite pugillares. Il termine si ritrova frequentemente in ambito epistolare, dove veniva inizialmente utilizzato in concorrenza con altri vocaboli (es. codicilli), per designare quelle tavolette lignee impiegate per redigere lettere, messaggi brevi, inviti o notizie di carattere informale indirizzate a amici intimi. In età imperiale, il lessico utilizzato per indicare le tavolette scrittorie si ampliò ulteriormente e in particolare si diffuse l’uso del termine codicilli, non più in relazione a brevi messaggi di carattere privato, ma per indicare i supporti scrittori recanti decreti imperiali o le epistole inviate dall’imperatore per attribuire le cariche politiche più importanti. Oltre ai termini fin qui riportati, ampiamente diffuso nel mondo latino era poi il vocabolo codex («codice»), che tuttavia subì nel corso del tempo un’evoluzione a livello semantico. Se inizialmente con codex si fa riferimento a un supporto scrittorio costituito da più tavolette lignee6, generalmente utilizzato per i registri relativi alla gestione del patrimonio pubblico o
Questa definizione di tipo generico poteva poi essere completata con l’aggiunta di specificazioni che ne sottolineassero l’uso, il materiale o il destinatario (es. tabulae lapideis, roboreae, marmorae, ceratae etc.). Nelle fonti di età imperiale in particolare, il termine viene utilizzato soprattutto per designare i supporti scrittori contenenti: gli avvisi, le comunicazioni ai cittadini e le proposte di legge effimere che, svolta la loro funzione informativa, venivano poi cancellate (tabulae dealbate ovvero “imbiancate”); gli scritti pubblici contenenti degli elenchi, come per esempio le liste con i nomi e i dati anagrafici dei cittadini redatte dai censori (tabulae censorie); i testamenti (tabulae testamenti); i contratti matrimoniali (tabulae nuptialis) o quelli contenenti l’indicazione della dote(tabulae dotis). 5 Dall’analisi delle fonti letterarie pare che i poeti si avvalessero di tabellae ceratae sulle quali componevano una sorta di “bozza” della propria opera che, una volta completata in maniera definitiva, veniva poi ricopiata su papiro o pergamena. 6 Varrone in proposito afferma: «antiqui pluris tabulas coniuctas codices dicebat» (Varro, fr. 99R.) 4
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ai conti inerenti all’amministrazione del denaro privato7, con la diffusione del papiro e della pergamena a partire dalla tarda età repubblicana, il termine subisce un cambio di significato, andando a indicare i rotoli realizzati in tali materiali (mentre per le tavolette in legno continua l’uso di tabulae e tabellae). Accanto alle tavolette scrittorie in legno, anche l’utilizzo di tavolette doppie in avorio è attestato già prima del IV secolo. Tali manufatti tuttavia, pur essendo molto simili per forma e struttura ai dittici eburnei tardoantichi, non vennero mai chiamati diptycha e soprattutto venivano adoperati per scopi differenti. A livello letterario una testimonianza di ciò può essere offerta da Ovidio e da Svetonio, che ne sottolineano la struttura bivalve attraverso l’aggettivo duplices8, o ancora da Marziale, che nel quattordicesimo libro degli Epigrammi fa riferimento a dei pugillares eborei, che si presentano come piccole tavolette scrittorie in avorio donate dall’ospite ai convitati durante un banchetto9. Queste tavolette in avorio altro non sono che gli archetipi di quei dittici eburnei da parata che, diffusisi in epoca tardoantica, verranno definiti con il sostantivo più specifico di diptychum. Da questo momento in poi il termine si inserisce all’interno della lingua latina come il vocabolo privilegiato per designare, non quelle tavolette scrittorie bivalve già esistenti, ma questa nuova classe di manufatti, anch’essi a due valve e in avorio, donati però a amici o parenti in occasione dei giochi e del banchetto pubblico allestiti da un magistrato per celebrare l’assunzione di una carica politica e non durante un banchetto qualunque. In sintesi è possibile affermare che tra III e IV secolo, all’interno della produzione dei dittici in avorio, si assiste a una sorta di periodo di transizione, durante il quale il dittico si trasforma da oggetto di uso privato, a manufatto di lusso con funzione pubblica e politica. Non deve dunque sorprendere il fatto che il vocabolo diptychum sia attestato per la prima volta in relazione a due testi riguardanti le spese e l’organizzazione dei giochi pubblici da parte di un magistrato, ovvero il Codex Theodosianus e l’epistolario del retore romano Quinto Aurelio Simmaco. Per quello che riguarda il Codice Teodosiano, si tratta di un testo di carattere legislativo promulgato nel 384 d.C. e indirizzato al senato di Eraclea (sul Mar Nero). In esso si stabiliva che, al fine di ridurre le eccessive spese legate al cursus honorum, soltanto ai consoli ordinari sarebbe stato concesso di distribuire donativi in oro e dittici eburnei, viceversa ai magistrati 7
Si tratta per esempio dei codices accepti et expensi (codici delle entrate e delle uscite), attestati dalla seconda metà del III sec. a.C. (v. Plaut., Curc., 345-348). 8 Ov., Rem. 667: «Manibus duplices cecidere tabellae»; Svet., Aug. 27,4: «Quintum Gallium praetorem, in officio salutationis tabellas duplices veste tecta tenentem […]» 9 Cfr. Mart., Epigram. , 14,3.
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di rango inferiore, era consentito celebrare l’assunzione della propria carica pubblica unicamente tramite monete d’argento e dittici realizzati in materiale diverso, meno pregiato10. Tutto ciò mette in evidenza come in questo periodo i giochi pubblici, compresi quelli organizzati per l’assunzione delle magistrature minori, dovessero aver raggiunto un livello eccessivo di munificenza, tanto da rendere necessari appositi decreti che limitassero la pratica del dono dei dittici eburnei soltanto alle edizioni dei giochi consolari11. Se tale legge trovò subito applicazione in Oriente, non si può dire altrettanto per l’Occidente. Nella parte occidentale dell’impero infatti, nonostante il malcontento dei senatori che rivestivano cariche minori (questura e pretura), le spese relative al cursus honorum rimasero elevate, come dimostrato a livello archeologico dal ritrovamento di dittici in avorio non solo consolari, ma anche di magistrati minori o semplici patrizi. Questo riscontro lascia supporre che la legge presente nel Codex, configurandosi come un editto ad senatum Heracleae (ovvero indirizzato al senato della città di Eraclea), fosse ritenuta valida e applicabile non in tutto l’impero ma solo nella sua pars orientalis12. A rimarcare ulteriormente quanto in occidente fosse ancora molto radicata l’usanza di distribuire doni e dittici anche per le magistrature minori, è il già citato Epistolario di Quinto Aurelio Simmaco. Nell’opera frequenti sono i riferimenti ai donativi e agli eburnea diptycha realizzati per celebrare la questura e la pretura del figlio Memmio (rispettivamente nel 393 e 401 d.C.) e offerti a amici, parenti, e tutti coloro che avevano contribuito all’allestimento dei giochi in suo onore13. Poste queste premesse è possibile procedere a una classificazione delle principali tipologie dei dittici eburnei di epoca tardoantica. Una delle caratteristiche più originali di questa particolare categoria di manufatti, risulta la decorazione a rilievo che contraddistingue le facce esterne delle valve, utilizzata nel mondo romano come strumento visivo privilegiato per riaffermare credenze condivise o per scopi di propaganda politica, personale o gentilizia. L’analisi sistematica di questo repertorio
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Cfr. Cod.Theod. 15,9,1. Ciò può essere confermato da un’ulteriore decreto del Codice attraverso il quale venne aumentato il numero di pretori, ma allo stesso tempo si stabilirono dei limiti alle spese per i giochi da loro organizzati (cfr. Cod.Theod. 6,4,25). 12 La questione dei rapporti legislativi tra Oriente e Occidente nel Tardo Impero romano risulta ancora ampiamente discussa. Coloro che sostengono la tesi del separatismo legislativo delle due parti dell’Impero, ritengono che a partire dal IV secolo ciascun imperatore fosse in grado di emanare leggi in maniera indipendente. In questo senso un decreto emanato da un imperatore, valeva per entrambe le parti dell’impero solo se veniva condiviso dal suo collega tramite l’emanazione di una legge simile, ma rivolta più specificatamente ai territori posti sotto il suo controllo diretto. 13 Cfr. Symm., Epist. 2,81; 5,56; 7,76. 11
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iconografico, ha consentito di raggruppare i dittici in più tipologie sulla base degli elementi figurativi presenti sulle tavolette14. Una prima categoria è costituita dai dittici disadorni. Privi di decorazione, essi presentano unicamente un’iscrizione che ne indica il possessore. A tal proposito è bene tenere presente che, fatta eccezione per quei dittici che subirono un riuso cristiano (cosa che spesso ha determinato la modifica o la cancellazione delle iscrizioni), tutti quelli utilizzati per celebrare cariche politiche sono caratterizzati da epigrafi, che in genere riportano al nominativo il nome e gli attributi del magistrato che li offre come dono. Quello del destinatario invece, se indicato, è al dativo15. Una seconda categoria è costituita dai dittici con medaglione. In questo caso la decorazione delle valve presenta uno o più medaglioni recanti l’iscrizione o l’immagine clipeata del console, arricchita da volute floreali (Fig.1.a). Vi sono poi i dittici a grandi figure, generalmente costituiti da un personaggio principale rappresentato in piedi, identificabile dall’iscrizione posta sulla sommità della tavoletta e inserito all’interno di un ambiente ben definito (Fig.1.b). Simili a questi sono i dittici con tribunal. In questo caso però il personaggio raffigurato non è più stante, ma siede sulla sella curulis (simbolo del proprio potere giudiziario), collocata nel tribunal (Fig.1.c). Infine una maggiore complessità a livello compositivo presentano i dittici imperiali, raffiguranti l’imperatore e generalmente composti da cinque pannelli (Fig.1.d). Un’ulteriore classificazione dei dittici può essere attuata su base funzionale. Da questo punto di vista una prima categoria è costituita dai dittici codicillari, recanti i codicilli, ovvero i decreti con cui l’imperatore attribuiva le varie nomine (quali quelle di comes, tribunus, notarius, etc.). Vi erano poi i dittici di carica, donati dai magistrati al momento dell’assunzione di una carica, tra cui si configurano per esempio quelli consolari (offerti come dono dal console neoeletto all’imperatore o a esponenti del senato16), quelli dei questori o dei Vicarii Urbis Romae. Una terza tipologia era costituita poi dai dittici sacerdotali, regalati probabilmente in occasione dell’investitura a una carica religiosa (sacerdoti di divinità e imperiali). Infine due ulteriori categorie sono costituite dai dittici
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La classificazione riportata si rifà a quella proposta da R.Delbrueck (DELBRUEK 2009). In rari casi è attestato anche l’uso del genitivo di possesso per indicare il proprietario dell’oggetto (es. Dittico di Gallieno Concesso). Per quello che riguarda invece i dittici non consolari, se presentano un’iscrizione, in genere essa riporta al genitivo il nome della gens che li ha commissionati (es. Symmachorum/Nicomachorum sulle valve esterne del dittico dei Nicomachi e dei Simmachi). 16 Nella classificazione schematica dei dittici consolari proposta da Delbrueck, egli ipotizza che quelli più semplici fossero destinati ai privati cittadini, quelli con medaglione ai senatori e quelli a grandi figure o con tribunal ai funzionari d’alto rango (cfr. DAVID 2007).
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privati e da quelli per documenti, questi ultimi utilizzati generalmente per ufficiali particolarmente importanti17. Rimanendo nell’ambito funzionale dei dittici eburnei tardoantichi, una questione più complessa coinvolge le facce interne delle valve e l’eventuale testo scritto su di esse. Considerate le analogie a livello strutturale tra i dittici in avorio e gli antichi pugillares, per molto tempo si è ritenuto che la loro funzione dovesse essere simile a quella di questi ultimi, ovvero che la faccia interna delle valve venisse ricoperta con uno strato di cera su cui veniva redatto un breve messaggio. Sul contenuto di queste comunicazioni sono state avanzate molteplici ipotesi: alcuni hanno pensato a un invito legato alle feste organizzate in occasione dell’inaugurazione consolare o, nel caso dei dittici sacerdotali, alle festività sacre; altri invece hanno supposto che i rovesci delle valve contenessero l’annuncio dell’assunzione di una carica da parte di un magistrato, un testo di ringraziamento o ancora i fasti consolari, ovvero quelle liste dei consoli in carica, anno per anno, essenziali per l’organizzazione del calendario romano. Indagini successive tuttavia, basandosi soprattutto sull’analisi materiale di tali manufatti, hanno messo in discussione l’ipotesi secondo la quale l’interno dei dittici fosse rivestito di cera18. Ciò deriva principalmente dalla costatazione che, rispetto ai pugillares di epoca precedente, la profondità del campo grafico delle facce interne delle valve dei dittici risulta notevolmente inferiore19 e dunque insufficiente per ospitare uno strato di cera. Se pertanto non è possibile affermare con certezza la presenza di comunicazioni o messaggi all’interno dei dittici tardoantichi, ne consegue che la loro funzione primaria dovette essere di tipo iconografico. Tale costatazione consente di rafforzare ulteriormente quell’idea di dittico inteso come mezzo privilegiato di comunicazione visiva piuttosto che verbale.
1.2 LE VIE DELL’AVORIO: LE PRINCIPALI ROTTE E VIE COMMERCIALI TRA ORIENTE E OCCIDENTE. Fin dall’antichità l’avorio è stato considerato un materiale ornamentale di tipo pregiato, impiegato nella produzione di diverse tipologie di oggetti che puntavano a soddisfare le 17
Una categoria a parte è costituita dai dittici di origine pagana riutilizzati poi dal mondo cristiano o realizzati ex novo dalla Chiesa o dai fedeli. Tali manufatti, recanti sul rovescio delle valve le liste coi nomi di persone appartenenti alla comunità cristiana vive o defunte (vescovi, sacerdoti, benefattori, etc.), si ritiene avessero probabilmente una funzione liturgica. 18 L’ipotesi riportata in seguito si rifà soprattutto alle analisi condotte da A Cutler (CUTLER 1993, p. 167190). 19 3 mm circa contro 5-10 mm attestati nei pugillares.
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esigenze di ricchezza e di lusso delle sfere più elevate20. Tenendo sempre presente che l’avorio è un materiale di origine biologica, ricavato dalle zanne di determinate specie di mammiferi presenti in specifiche aree geografiche, si capisce bene perché il mondo romano sentì la necessità di instaurare tutta una serie di rapporti commerciali con le zone in cui tale materiale era reperibile con maggiore facilità. In particolare, in epoca imperiale, tre erano le regioni legate all’esportazione dell’avorio: India, Africa orientale e Africa sahariana21. Per quello che riguarda l’India, i rapporti commerciali con il mondo romano riguardavano principalmente lo scambio di beni di lusso quali spezie, seta e ovviamente avorio22. È interessante notare come la ricchezza di tale materiale in questa regione, può essere testimoniata non solo a livello letterario, da autori quali Plinio il Vecchio23 e Dione Crisostomo24, ma anche a livello iconografico. Ne forniscono un chiaro esempio la Tabula Peutingeriana25, che nella rappresentazione cartografica dell’India e dell’Asia pone ai piedi della catena dell’Himalaya l’indicazione “in his locis elephanti nascuntur” (Fig.2), e la personificazione dell’India nel mosaico della “Grande Caccia” nella villa di Piazza Armerina. La donna raffigurata infatti, tiene poggiata sul braccio sinistro una lunga zanna d’avorio che si ripresenta anche su alcune rocce alle sue spalle, mentre dal lato opposto, un elefante domina in primo piano26 (Fig.3). Tuttavia, nel tentativo di ricostruire in maniera più precisa le rotte commerciali e i porti attivi sull’oceano indiano, opera fondamentale a cui è possibile fare riferimento è il cosiddetto “Periplous Maris Erythraei”, un vero e proprio racconto di viaggio scritto da un anonimo di I sec. d.C.27. Tra i molteplici porti indiani citati, l’autore sottolinea come tre siano quelli strettamente legati al commercio dell’avorio: Barigaza (nel nord-ovest dell’India), grande centro di scambio in cui convogliano merci 20
Nell'ambito del Mediterraneo antico, basti pensare agli avori prodotti già dalla civiltà minoica, tra cui un posto per eccellenza viene rivestito dalle statuette in avorio provenienti dal Palazzo di Cnosso, impreziosite da incrostazioni auree (v. L’Acrobata). All'epoca classica risalgono i colossi “crisoelefantini” in avorio e oro di Fidia (v. lo Zeus di Olimpia; l'Atena del Partenone), a cui probabilmente si ispirò in epoca successiva Pasitele per la realizzazione a Roma della statua crisoelefantina di Giove nel tempio di Metello. Al di là della grande statuaria, nel mondo greco-romano l’avorio era impiegato in svariati modi: Le donne greche e romane usavano collane, bracciali, pettini, spille, fermacapelli in avorio, ma tale materiale era presente anche nelle decorazioni degli interni delle case e nelle navi da parata (cfr. R.W. Hutchinson, Torino 1976; C. Piglione - L. Castelfranchi Vegas, Milano 2000, vol.24, p.97). 21 Per le informazioni riportate in questo paragrafo si veda il significativo apporto di: L. Chrzanovski, Le vie dell’avorio, in DAVID 2007. 22 Cfr. V. BEGLEY 1991. 23 v. Nat. Hist. liber VIII 1,1 «L’animale più grande è l’elefante e il più vicino alla sensibilità umana, invero capisce il linguaggio del luogo nativo, obbedisce ai comandi, tiene a mente i doveri appresi, ha desiderio d’amore e gloria, e certamente possiede assennatezza, giustizia, doti rare anche nell’uomo, e addirittura rispetto verso le stelle»; idem liber VIII 1,31 ; 1,4-8. 24 Dio Chrys., Orat., 79,4 25 Cfr. BOSIO 1983 26 Cfr. CANTAMESSA 2013 27 Cfr. HUNTINGFORD 1980.
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romane, greche, arabe, e che tra i molti prodotti rivende anche l’avorio; la città di Limurike (nel sud-ovest)28 e di Derasene (sulla costa orientale) che risultava uno dei principali centri di smistamento dell’avorio nel nord-est della regione29 (fig.4). A tali centri è opportuno aggiungere quello di Muziris che pur non essendo citato nel Periplo, doveva anch’esso essere coinvolto nel commercio dell’avorio, come dimostrato da un documento mercantile greco ritrovato in situ, che nel riportare le merci presenti su una nave in partenza per Alessandria, fa menzione a tutta una serie di prodotti pregiati tra cui ben 2132 chili di avorio. Per quello che riguarda invece la costa orientale e il suo entroterra, il Periplo si rivela piuttosto vago. È tuttavia possibile integrare le informazioni riportate da tale fonte con i racconti dei viaggiatori e dei mercanti cinesi, tenendo presente che questa specifica zona dell’India risultava strettamente legata a livello commerciale anche con l’impero cinese30. Per completare il quadro dei commerci con il mondo asiatico, non bisogna poi dimenticare l’isola di Taprobane (Sri-Lanka), di cui non solo le fonti cinesi ma anche autori quali Cosma Indicopleuste31, sottolineano l’importanza in epoca tardoantica. L’intensità e la continuità dei rapporti commerciali tra i centri sopra citati e il mondo romano sono confermate anche a livello archeologico, come dimostra la presenza in questi luoghi di anfore, sigillate e monete romane. In particolare, il ritrovamento di monete sia di epoca giulio-claudia che di ripostigli monetali più tardi, ha permesso di confermare la continuità dei rapporti commerciali anche in epoca tardoantica e bizantina. Il “Periplous Maris Erythraei” torna a giocare un ruolo determinante nel momento in cui si tentano di ricostruire i traffici mercantili e i principali centri attivi lungo le coste del Mar Rosso. Per quello che riguarda il Mar Rosso occidentale, esso costituiva il principale punto d’approdo delle merci provenienti sia dall’India che dall’Africa orientale. Regione di grande importanza da un punto di vista strategico e commerciale fin dall’epoca dei Tolomei, essa era attraversata da tutta una serie di arterie di scambio che furono in seguito sfruttate e rafforzate dai romani (fig.6). Durante il regno di Tiberio venne costruito il porto di Berenice, la cui importanza a livello economico e militare è sottolineata dal fatto che venne creata appositamente una nuova carica, il “praefectus praesidiorum et montis Berenicidis”, affidata a un ufficiale imperiale che aveva il compito di governare il porto e il territorio circostante32.
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Idem, 56 Idem, 62 30 Tra questi viaggiatori un posto di riguardo spetta al monaco Fa-hsien che raccontò le tappe del suo viaggio in India compiutosi tra 399-414 d.C (cfr. GILES 1956). 31 Cfr. Cos.Indic., libro XI, 1-2, 13 32 Tale prefetto non era inoltre sottoposto alla giurisdizione civile dell’Egitto ma dipendeva esclusivamente da Roma (cfr. SIDEBOTHAM 1986). 29
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Nello stesso periodo venne promossa la costruzione di molti “praesidia et mansiones” fortificati lungo i principali itinerari commerciali, a loro volta posti sotto il controllo di un prefetto incaricato in primo luogo di assicurare la sicurezza dei viaggiatori. Nell’entroterra, a poca distanza da Berenice, centro di grande attività mercantile era Coptos che riceveva l’avorio africano proveniente dalle città interne di Axum e Meroe (collegate al vicino porto di Ptolemais Theron), e quello indiano attraverso i porti di Berenice e Myos Hormos. Meroe, ma soprattutto Axum, costituivano i due centri principali dell’Africa orientale, fuori dai confini dell’Impero, per lo scambio e lo smistamento dell’avorio, e pertanto risultavano a stretto contatto col mondo romano come dimostrato dai numerosi reperti romani ritrovati in situ. L’importanza di Axum in particolare, viene evidenziata non solo dal Periplo33 ma anche da altre fonti letterarie quali Plinio, Cosma Indicopleuste e Fozio34, i quali sottolineano la presenza di grandi riserve di caccia ricche di pachidermi. Ad Axum giungeva poi, passando per l’emporio di Aualites, anche l’avorio proveniente dalla regione del Corno d’Africa, dove la presenza di molti branchi di elefanti emerge dal nome di alcune tribù locali, chiamate dalle fonti Elephantophagoi35, e soprattutto da una zona costiera detta “Elephas oros” (vicino Capo Guardafui). A questa molteplicità di itinerari commerciali lungo le coste occidentali del Mar Rosso, corrispondeva però una destinazione finale comune, ovvero Alessandria, città in cui non solo confluivano grandi quantità d’avorio ma anche dove venivano imbarcati, sulle navi dirette verso i porti di Roma, elefanti e altri animali esotici per i grandi giochi dell’anfiteatro. Sulla sponda orientale del Mar Rosso invece, i traffici e i commerci dei prodotti orientali, passando per i porti di Okelis e Mouza (a stretto contatto anche con il porto di Aualites sul lato opposto dello stretto di Aden), e di Leuke Kome, avevano come capolinea la città di Petra e il porto di Gaza. Un momento di svolta si ebbe però nel III sec. A partire da questo periodo i persiani Sasanidi avviarono un progressivo processo di conquista che culminò nel VI sec quando essi riuscirono a portare sotto il proprio controllo tutta la zona del Mar Arabico sino alle coste dell’India, quella del Golfo Persico (dove giungeva una rotta secondaria che consentiva ai prodotti di lusso orientali di raggiungere, risalendo il corso dell’Eufrate, le città di Palmira e Antiochia) e gran parte del Mar Rosso. Nonostante i molteplici tentativi da parte di imperatori quali Giustino (518-527) e Giustiniano (527-565) di mantenere dei contatti commerciali diretti con l’India, la riconquista dello Yemen da parte Periplous, 4, «[…] la metropoli chiamata Axomite (Axum), nella quale viene portato tutto l’avorio dal territorio sottostante il Nilo.» 34 Per Axum e relative fonti letterarie cfr. Y.M. Kobishchanov, UniversityPark and London 1978. 35 Strabone, Geogr. , XVI, 771-5. 33
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dei Sasanidi nel 570 segnò la fine di ogni eventuale progetto bizantino per il controllo degli scambi con tale regione. Per completare il quadro generale dei principali centri coinvolti nel commercio dell’avorio è opportuno tenere in considerazione anche l’Africa occidentale romana, facendo riferimento in particolare a quelle zone vicino all’Atlante in Marocco, la Mauretania e il Sud della Libia, che costituirono le più importanti fonti d’avorio per grandi città quali Cartagine, Sabratha, Leptis Magna e Oea (l’attuale Tripoli). In questi luoghi la presenza di numerosi branchi di elefanti, il commercio e la lavorazione dell’avorio, sono chiaramente attestati dalle fonti antiche, che sottolineano non solo l’esistenza di molti artigiani specializzati nella lavorazione di tale materiale36, ma anche di commercianti specializzati invece nel trasporto di elefanti e altri animali esotici verso i porti di Roma, dove venivano esibiti nei giochi e negli spettacoli dell’anfiteatro37. Tuttavia è opportuno sottolineare come spesso tali fonti non forniscano informazioni specifiche sugli itinerari utilizzati per il trasporto dell’avorio da tali centri verso le grandi città sulla costa. Ciò non toglie che il commercio di questo materiale dovesse essere sicuramente presente. Non essendo infatti attestata nel periodo romano la presenza di elefanti nella zona della Tripolitania, è necessario supporre che esistessero delle vie commerciali che permettessero ai pachidermi e all’avorio della Libia del Sud di raggiungere le coste settentrionali del continente e che probabilmente sfruttavano delle vie carovaniere già battute da alcune tribù locali, quale per esempio quella dei Garamanti. Spedizioni a sud della Tripolitania furono poi sicuramente condotte da parte dei romani, sia a scopo militare che commerciale. Tra queste rivestì una certa importanza quella promossa da Giulio Materno durante il regno di Diocleziano che, partito da Leptis Magna per prestare aiuto al re dei Garamanti contro alcune tribù etiopi, spingendosi molto a sud scoprì una zona ricca d’avorio caratterizzata dalla presenza non solo di elefanti ma anche di rinoceronti 38. In sintesi è possibile affermare che la vastità dei circuiti commerciali fin qui delineati, attraverso i quali il mondo romano entrava in possesso dell’avorio, sottolinea l’importanza di tale materiale pregiato per le élite delle città e non solo. L’avorio infatti, pur essendo un bene di lusso proveniente da regioni lontane dal “cuore” dell’impero, veniva venduto nei
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Soprattutto per quello che riguarda la produzione di pregiati tavolini in legno di cedro o di limone con piedi eburnei (cfr. Mart., Epigram., IX, 22, 5; Giov., Sat., XI, 125 ; Pl., Nat. Hist., XIII, 91-93). 37 La richiesta di animali esotici per gli spettacoli risultava talmente elevata che fin dall’epoca flavia si decise di istituire quello che Giovenale chiama “Caesaris armentum in Laurentum”, ovvero un centro specifico nella città laziale di Laurento, dove confluivano tali animali provenienti dall’Africa (Cfr. Giov., XII, 102-106). 38 L’episodio può essere testimoniato anche a livello numismatico. A partire da questo periodo infatti (IV sec), sulle monete emesse da Diocleziano compare per la prima volta l’impronta del rinoceronte a due corna, animale tipico delle regioni subsahariane.
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mercati romani a un prezzo non eccessivamente elevato39, tanto da essere accessibile anche alla classe medio-alta. Si spiega così perché nel complesso, al fine di un maggiore guadagno a livello economico, il mondo romano decise di privilegiare gli scambi commerciali con l’India e l’Africa orientale, dove l’avorio viaggiava assieme a altre merci di lusso molto più costose (es. seta e spezie), piuttosto che quelli con l’Africa occidentale, dove avorio e animali esotici costituivano i principali prodotti legati all’esportazione, e che dunque risultavano meno redditizi.
1.3 LA FABBRICAZIONE DEI DITTICI: DALL’AVORIO GREZZO AL PRODOTTO FINITO. Prima di procedere alla ricostruzione delle varie tappe e tecniche di lavorazione che consentivano la trasformazione dell’avorio grezzo in oggetti di tipo pregiato quali i dittici eburnei di epoca tardoantica, occorre mettere in evidenza alcuni aspetti preliminari40. In primo luogo con il termine Avorio si indica generalmente un materiale di origine biologica, ricavabile dalle zanne di determinate specie di mammiferi che includono non solo l’elefante ma anche il rinoceronte, l’ippopotamo, il facocero, il leone marino e alcuni cervi41. Pur essendo dunque presenti diversi tipi di avorio, tale progetto di tesi si concentrerà unicamente sulla lavorazione dell’avorio proveniente dalla zanna di elefante, tenendo presente che esso risultava la tipologia più ricercata per la produzione di oggetti d’uso e manufatti dove l’aspetto ornamentale rivestiva una certa importanza42. In secondo luogo è necessario sottolineare alcune problematiche relative all’organizzazione delle botteghe nelle quali l’avorio veniva lavorato in età romana. Non essendo presenti fonti antiche che trattino in maniera specifica l’argomento e considerando le difficoltà insite nella
Nell’Editto dei prezzi massimi di Diocleziano (301), venne stabilito che una libbra d’avorio equivaleva a 150 denari, che corrispondeva allo stipendio giornaliero del più caro tra gli operai imperiali ovvero il pittore di rappresentazioni figurate (v. Edictum de pretiis Rerum Venalium, 16, 10-14). 40 Per le informazioni riportate in tale paragrafo in relazione alla fabbricazione dei dittici, si veda il significativo apporto di: C. Bianchi, Strumenti e tecniche di lavorazione dell’avorio e dell’osso, in M. David (DAVID 2007); B.Schlinder (SHINDLER 2007); C.Piglione - L. Castelfranchi (PIGLIONE-CASTELFRANCHI 2000). 41 Nel caso specifico dei cervi, per “zanne” si intendono alcuni denti particolarmente prominenti, quali i canini, che risultano caratterizzati da un colore bruno che aumenta progressivamente di gradazione a mano a mano che l’animale invecchia. In questo senso il materiale ricavato da tali denti viene considerato tanto più pregiato quanto più bella si presenta la tinta bruna. 42 Oltre ai dittici si possono infatti annoverare: elementi d’arredo e da gioco (dadi e scacchi); suppellettili domestiche (manici di coltelli) o oggetti legati alla toilette personale (specchi e pettini). (Cfr. SHLINDER 2007). 39
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sola analisi dei ritrovamenti di scarti e abbozzi di lavorazione43, le fonti a cui è possibile fare riferimento sono principalmente di carattere epigrafico. Tali testimonianze, seppur scarse e lacunose, sono in grado di fornire alcune informazioni relative all’organizzazione di quella classe specifica di artigiani addetta alla lavorazione dell’avorio, ovvero gli eborarii. Tra queste è possibile fare riferimento ad alcune epigrafi funerarie ritrovate a Roma, in cui il nome dell’artigiano viene affiancato dall’indicazione dell’attività svolta. Nella maggior parte dei casi viene utilizzata una definizione di tipo generale, ovvero eboris faber o faber eborarius, in altri tuttavia è possibile riscontrare l’indicazione di una attività più specifica quale per esempio quella del politor eborarius (addetto alla levigatura dell’avorio). Da ciò è possibile supporre che, all’interno delle botteghe adibite alla produzione di manufatti eburnei, esistesse una sorta di suddivisione del lavoro che prevedeva la presenza di più artigiani, ciascuno dei quali era specializzato in una determinata fase della lavorazione. Tale ipotesi può essere ulteriormente rafforzata da una lastra marmorea di età adrianea ritrovata nel 1886 a Trastevere (Roma), che costituisce una delle più importanti fonti epigrafiche grazie alla quale è stato possibile fare maggiore chiarezza sull’attività degli eborari. In questo documento infatti, non solo viene testimoniata l’esistenza nella città di un collegium di negotiatores eborarii e citrarii, ma vengono fornite anche alcune informazioni di carattere generale relative alla sua organizzazione44. Se i citrarii costituivano quegli artigiani specializzati nella produzione di manufatti in legno pregiato di citrus libidico, il termine eborarius negotiator mette invece in evidenza l’esistenza (accanto al faber eborarius e al politor), di un’altra figura professionale legata al processo di lavorazione dell’avorio. Si trattava con ogni probabilità di un commerciante incaricato di gestire gli scambi che coinvolgevano questo bene pregiato. La carenza di fonti a riguardo non consente tuttavia di affermare con sicurezza se tale figura trattasse lo scambio d’avorio sotto forma di materia grezza (zanne) o di prodotto finito, così come non è allo stesso modo possibile stabilire con certezza se in questa corporazione fossero ammessi solo i commercianti o anche gli stessi artigiani. Al di là di queste problematiche, l’aspetto più interessante sottolineato dalla fonte epigrafica è la presenza di un unico collegium che, sotto un’unica corporazione, radunava quelle personalità legate però alla lavorazione di materiali differenti. Ciò è giustificato non solo dal fatto che avorio e legno presentavano tecniche e strumenti di lavorazione simili, ma anche dalla costatazione che molto spesso, nelle botteghe in cui l’avorio veniva lavorato, Si tenga presente infatti che molto spesso il ritrovamento di scarti e abbozzi derivati dall’intaglio, non consente di localizzare l’area specifica di lavorazione ma un area di scarico. 44 Le informazioni riportate riguardano soprattutto: Il luogo di raduno (una schola e un tetrastylum); le festività celebrate dal collegio; le quote da pagare da parte dei membri e le regole per la distribuzione dei fondi comuni (cfr. L. Borsari, Roma, 1887, XV, 3-7, tav. I.). 43
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erano trattati anche altri materiali quali legno e osso45, che fusi tra loro consentivano la produzione di manufatti originali e di alto pregio46. Si può pertanto facilmente supporre che esistesse una sorta di rete di collaborazione tra più botteghe vicine, specializzate in lavorazioni differenti, oppure che artigiani con competenze diverse cooperassero in un’unica bottega. Poste queste premesse, si può ora procedere a un’analisi più dettagliata delle varie fasi e tecniche di lavorazione dell’avorio che consentirono, in età tardoantica, la produzione dei dittici eburnei, tenendo sempre presente però che esse non furono esclusive di quest’epoca ma si rifacevano a una tradizione ben più antica, sviluppata e perfezionata nel corso del tempo dalle botteghe artigianali di epoca precedente47. L’avorio, giunto alle botteghe di lavorazione sotto forma di zanna intera48, prima di essere intagliato veniva fatto essiccare subendo così, in questa prima fase, un naturale processo di restringimento necessario per evitare che l’oggetto, una volta plasmato, subisse modifiche troppo consistenti. La fase successiva prevedeva il sezionamento della zanna da parte degli artigiani che, tramite scalpelli, seghe, tagli longitudinali e trasversali, selezionavano le parti più adatte alla realizzazione di prodotti differenti. Per comprendere con maggiore chiarezza questo stadio della lavorazione, è bene tenere presente alcune caratteristiche strutturali delle zanne d’elefante. Considerando che la crescita avviene per strati, dalla zona più esterna verso l’interno dove è presente il canale della polpa, il materiale più vicino alla cavità, essendo più giovane, risulta maggiormente molle e poco adatto alla lavorazione, viceversa la zona prossima alla superficie, più vecchia e secca, può presentarsi fragile e di scarsa qualità a causa del logorio. Da ciò consegue non solo che l’avorio di maggior pregio può essere ricavato solo nella zona intermedia, compresa tra la scorza esterna e la cavità della polpa, ma anche che una delle operazioni prioritarie durante la fase si sezionamento fosse la rimozione della materia ritenuta inutilizzabile e in particolare dello strato superficiale di avorio più vecchio.
Anche l’osso presentava una lavorazione molto simile a quella dell’avorio. Esso godeva però del vantaggio di essere più economico e maggiormente disponibile a livello locale, tanto che fu ampiamente utilizzato per la produzione di svariate tipologie di oggetti (letti, pissidi, spilloni etc.). 46 È il caso per esempio di quei tavolini in legno di citrus libidico con piedi in avorio indiano citati da Plinio e Marziale (v. Pl. , Nat. Hist. , XIII, 29; Mart., II, 43,9), o dei coltelli in ferro con manici in osso e avorio. 47 Discorso analogo riguarda gli strumenti utilizzati dagli artigiani. L’analisi dei segni lasciati su scarti e abbozzi di lavorazione durante la fase di intaglio e gli scarsi ritrovamenti di tali utensili, lasciano supporre che si trattasse di oggetti piuttosto semplici in ferro e legno (quali scalpelli, raspe, lime, coltelli etc.), già ampiamente attestati nelle epoche precedenti. 48 Pur essendo attestato in misura minore anche il commercio di zanne già sezionate, nella maggior parte dei casi la materia prima veniva lasciata intera, di modo che fosse lo stesso intagliatore a valutarne le caratteristiche e a sceglierne le parti più adatte all’oggetto che voleva produrre.
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L’analisi dell’avorio utilizzato per produrre dittici e altri manufatti, ha consentito poi agli studiosi di avanzare alcune ipotesi che associano a ciascuna parte della zanna, la produzione di una categoria specifica di oggetti. In particolare si è supposto che per quello che riguarda le lastre di maggiore dimensione, utilizzabili per esempio per la produzione dei dittici, esse potevano essere ottenute a partire dalla zona piena della zanna che dalla fine della cavità della polpa prosegue verso la punta; la parte della punta invece forniva l’avorio per oggetti più piccoli (pettini, pedine, statuette a tutto tondo etc.), mentre la cavità e la forma tubolare della base della zanna veniva probabilmente sfruttata per la produzione di preziosi contenitori cilindrici quali le pissidi (Fig.5). Una volta selezionate dalla medesima zanna le lastre che sarebbero andate a costituire le due valve del dittico (in modo da ottenere una maggiore uniformità nelle caratteristiche e nel colore dell’avorio), si poteva procedere alla modellatura e all’intaglio dell’oggetto. Per quello che riguarda la ricostruzione delle procedure che scandivano questa fase della lavorazione, è opportuno tenere presente che, a differenza di quanto avviene per gli oggetti di uso comune, nelle lastre di materiali ricercati quali i dittici eburnei, non sono più visibili i segni lasciati dagli strumenti impiegati. Essi infatti venivano accuratamente rimossi durante la successiva fase di politura al fine di ottenere un manufatto di alto pregio. Nonostante questo, l’analisi sistematica dei tipi di intaglio riscontrati nei dittici conservatisi sino ad oggi, ha consentito di ricostruire le modalità principali attraverso le quali venivano incise le figure a rilievo che spesso caratterizzano la decorazione esterna delle valve. Il primo passaggio consisteva nell’incidere sulla superficie di lavorazione delle linee-guida del progetto decorativo che si intendeva eseguire e nello stabilire la profondità del rilievo, ovvero la distanza massima tra il piano di fondo e gli elementi più aggettanti verso l’esterno. Si procedeva quindi all’intaglio che generalmente prevedeva la rimozione (attraverso l’uso di scalpelli, lime o coltelli), di materiale sul fianco e sul retro della figura, facendo tuttavia in modo che essa rimanesse collegata nella parte retrostante al piano di fondo, dando solo l’impressione di essere staccata da quest’ultimo. In altri casi invece, veniva creato un vero e proprio passaggio vuoto dietro ad alcuni particolari che risultavano pertanto veramente staccati dal piano di fondo, al quale rimanevano collegati solo in alcuni punti alle estremità. Terminato l’intaglio, seguiva la fase finale di levigatura e politura dell’oggetto. Quest’ultimo passaggio permetteva non solo di eliminare dalla superficie del manufatto le tracce lasciate dagli utensili durante la lavorazione, ma anche di creare diversi gradi di lucentezza in grado di dare maggiore o minore risalto alla decorazione. L’operazione poteva avvenire tramite
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l’impiego di lime (che tuttavia garantivano solo una rifinitura grossolana), oppure attraverso tecniche più particolari che prevedevano l’utilizzo di pelli o erbe ruvide, e pietra pomice49. A questo punto era possibile assemblare il prodotto finito. Le due valve del dittico venivano collegate tra loro attraverso un sistema di cerniere metalliche costituite da piccoli cardini dotati di una bandella, che veniva inserita in una fessura ricavata sul bordo esterno della cornice e in seguito fissata tramite perni o chiodi. I punti in cui venivano inserite le bandelle nelle cerniere erano generalmente zone di maggiore debolezza, soggette più facilmente a fratture, pertanto in tali punti era preferibile che l’avorio mantenesse un certo spessore. Non è raro dunque riscontrare dittici in cui, in corrispondenza delle cerniere, sono presenti leggeri rigonfiamenti, oppure (come spesso si nota nei dittici consolari), di alcuni particolari decorativi quali colonne, pilastri o tende, poste in modo strategico in prossimità dei margini proprio per rinforzare lo spessore della lastra in questi punti critici. Per completare il quadro generale relativo alla produzione dei dittici eburnei di epoca tardoantica, è bene fare un breve accenno a una delle tematiche più discusse nell’ambito della lavorazione di tali manufatti, ovvero l’applicazione o meno del colore come ulteriore elemento decorativo delle valve. L’ipotesi secondo la quale in origine le lastre dei dittici dovessero essere caratterizzate da un rivestimento policromo, già sostenuta da R. Delbrueck50, è stata recentemente ripresa grazie a nuove indagini condotte al microscopio e attraverso foto eseguite con luce ultravioletta. Nella maggior parte dei campioni analizzati, si sono riscontrate tracce di coloritura che generalmente prevedevano la stesura di una tinta rossa di base, a cui venivano poi sovrapposti altri colori e applicazioni in oro. In questo modo è stato possibile avanzare delle ipotesi sull’aspetto originario dei dittici tardoantichi, ipotesi che tuttavia devono essere considerate sempre con molta prudenza dal momento che non si possono escludere ridipinture di epoca successiva.
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A tal proposito risulta interessante la testimonianza offerta da Plinio in un passo del Naturalis Historia dove l’autore riporta la pratica di strofinare la superficie dell’avorio con la pelle di razze o pescecani, che essendo dotata di minuscoli dentelli consentiva la levigatura dell’oggetto (Pl. Nat. Hist., IX, 40). 50 Lo studioso riteneva che in origine i dittici fossero rivestiti da uno strato di porpora su cui poi veniva applicata la doratura. Dall’analisi sistematica di tali manufatti egli aveva inoltre evidenziato la presenza, a livello microscopico, di pigmenti di colori quali porpora, nero, rosso, verde e blu (cfr. DELBRUEK 2009).
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Fig.1 - Esempi delle principali tipologie di dittici di epoca tardoantica: a) dittico con medaglione (dittico di Sividio, 488 d.C); b) dittico a grandi figure (dittico di Felice, 428 d.C); c) dittico con tribunal (dittico di Areobindo, 506 d.C); d) dittico imperiale (Avorio Barberini, prima metà VI secolo).
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Fig.2 - L’India nella Tabula Peutingeriana.
Fig.3 - La personificazione nell’India nel mosaico della “Grande caccia”.
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Fig.4 - Rappresentazione dell’India nella carta di Abram τrtelius (1527-1599), con l’indicazione delle località citate nel Periplo.
Fig.5 - Indicazione delle varie parti costitutive della zanna d’elefante associate a specifiche categorie di manufatti.
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Fig.6 - Le principali rotte commerciali sul Mar Rosso.
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CAPITOLO 2 STORIA E SVILUPPO DELLE VENATIONES E DEI LUDI CIRCENSES
2.1 GLI SPETTACOLI NEL MONDO ROMANO E LA LORO EVOLUZIONE IN EPOCA TARDOANTICA. Per comprendere il valore dei dittici eburnei quali testimonianza iconografica dei ludi circenses e delle venationes organizzate in epoca tardoantica dai magistrati in occasione dell’assunzione della propria carica, è necessario altresì comprendere il significato che tali spettacoli rivestivano nel mondo romano e la progressiva evoluzione che essi subirono in questo specifico periodo storico51. Fin dall’età repubblicana i ludi publici rappresentarono un elemento essenziale nella vita della città antica. Celebrati con regolarità in corrispondenza delle feste religiose previste dal calendario romano, molteplici erano poi le occasioni per organizzare nuovi spettacoli, quali il funerale di un personaggio particolarmente importante della società, la candidatura o l’assunzione di una carica pubblica, l’inaugurazione di un edificio sacro, o ancora la celebrazione di una vittoria o di un trionfo. Essi consistevano soprattutto in rappresentazioni teatrali (ludi scaenici), combattimenti gladiatori (munera), cacce con animali selvaggi e esotici (venationes) e corse di carri (ludi circenses). È bene tenere presente però che nell’ideologia del mondo romano, tali giochi non si configurarono mai come un semplice svago, ma costituivano un momento irrinunciabile della vita sociale e politica di ciascun cittadino che nel parteciparvi percepiva in maniera tangibile la propria appartenenza alla comunità civica e la propria identità. In età repubblicana in particolare, la partecipazione in prima persona dei magistrati nell’allestimento dei grandi spettacoli pubblici, si afferma in relazione all’importanza assunta dall’evergetismo all’interno della classe dominante. È opportuno sottolineare infatti che in questa specifica fase della storia romana, l’organizzazione dei ludi pubblici in realtà non era affidata dallo Stato a una singola personalità, ma all’intero collegio degli edili o dei pretori, i quali ricevevano una determinata
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Per le informazioni riportate in tale paragrafo si veda il contributo significativo di: N. Savarese (SAVARESE 2015); P. Arena (ARENA 2010); A. Fraschetti (FRASCHETTI 1989); A. Fraschetti (FRASCHETTI 2005); A. CIA, Gli stadi anfiteatri nel mondo provinciale romano. Origini, sviluppo, ideologia. Tesi di laurea discussa alla Facoltà di Scienze dell’antichità: letterature, storia e archeologia, Università Ca’ Foscari di Venezia, A.A. 2012/2013; M. Abbatepaolo (ABBATEPAOLO 2012); I. Tantillo, I munera in età tardoantica, in S. Ensoli E. La Rocca (ENSOLI-LAROCCA 2000); L. Fezzi (FEZZI 2008).
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quota dell’erario riservata proprio al finanziamento di tali spettacoli. Pur stando così le cose, soprattutto in occasione delle elezioni politiche, un magistrato poteva decidere di intervenire personalmente nell’organizzazione di tali eventi, sacrificando cospicue somme del proprio patrimonio al fine di accrescere la sua popolarità e ottenere il cosiddetto “favor populi” (favore popolare), un elemento ritenuto essenziale per chiunque desiderasse acquisire potere e prestigio. Questo valore attribuito ai giochi permane e si rafforza in età tardo repubblicana, trovando la massima esplicazione nella figura di Giulio Cesare che se ne avvalse quale strumento privilegiato per ottenere il consenso popolare e promuovere la sua ascesa alle più alte cariche pubbliche del cursus honorum. La grande attività di Cesare in materia di spettacoli e il suo interesse per i giochi, sono difatti due elementi che trovano testimonianza nelle opere di molti autori antichi, primo fra tutti Svetonio che nel De vita Caesarum52 dedica un intero libro a colui che si configurò come uno dei personaggi più importanti e influenti della storia del mondo romano. A tal proposito risulta particolarmente interessante uno dei primi passi dell’opera, in cui l’autore sottolinea la politica di munificenza adottata da Cesare già a partire dal 65 a.C, anno in cui assunse la carica di edile:
«Quando era edile adornò non solo il comizio, ma anche il foro e le basiliche di portici provvisori per esporvi una parte delle molte opere d'arte che possedeva. Organizzò, battute di caccia e giochi; […] Per di più Cesare offrì anche un combattimento di gladiatori, tuttavia meno grandioso di quello che aveva progettato. La verità era che i suoi nemici si erano preoccupati perché aveva raccolto da ogni parte una enorme quantità di gladiatori: per questo si stabilì che a nessun cittadino fosse lecito possederne in Roma più di un certo numero.»53
Al di là dei numerosi interventi in campo edilizio, dei combattimenti, dei giochi e degli spettacoli realizzati con lo scopo primario di ottenere le simpatie e l’appoggio del popolo romano, il passo citato consente tuttavia di mettere in evidenza un ulteriore aspetto della Roma tardo repubblicana. Nel corso del I secolo a.C. infatti, accanto a Cesare, un numero sempre maggiore di uomini politici che avevano deciso di farsi portavoce della causa dei populares e degli interessi dei ceti inferiori, incominciò ad avvalersi sistematicamente della pratica delle elargizioni al popolo sotto forma di spettacoli. Questo fatto non poté non
Si tratta di un’opera realizzata all’epoca dell’imperatore Adriano e suddivisa in otto libri nei quali vengono riportati, in ordine cronologico, le biografie degli imperatori romani che si susseguirono al potere da Cesare a Domiziano. 53 Svet. , De vita caesarum, Divus Iulius liber I, 10.
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suscitare la preoccupazione dell’oligarchia senatoriale che, al fine di mantenere i propri privilegi e contrastare l’ascesa politica di queste nuove personalità, promosse tutta una serie di leggi che puntavano in primo luogo a regolare e limitare la loro possibilità di attuare donazioni al popolo in forma di spettacoli. Tale preoccupazione, che come riportato da Svetonio si manifesta già nel 65 a.C. con l’emanazione di una legge che fissava il numero massimo di gladiatori di cui ciascun uomo politico poteva disporre nei giochi da lui organizzati, trova ulteriore conferma nella lex Tullia de ambitu, approvata qualche anno dopo (63 a.C.) da Cicerone che, in qualità di console, proibiva a tutti coloro che desideravano assumere una qualsiasi carica politica, di promuovere spettacoli nel biennio precedente alla loro candidatura54. Tali leggi tuttavia non trovarono mai una seria applicazione nel mondo romano, dovendo scontrarsi non solo con l’importanza fondamentale che i giochi ormai avevano assunto a livello politico, quali strumento per eccellenza per acquisire potere e prestigio, ma anche con l’intera collettività urbana, che proprio in occasione dei giochi e degli spettacoli aveva modo di far sentire la propria voce. Una testimonianza di ciò si può riscontrare in un ulteriore passo della già citata opera di Svetonio, in cui l’autore mette in evidenza la grandiosità e la grande varietà di giochi offerti da Cesare nel 46 a.C., in occasione dei quattro trionfi riportati dal dittatore in Gallia, Egitto, Ponto e Africa:
«Offrì spettacoli di vario genere: combattimenti di gladiatori, rappresentazioni teatrali, allestite in tutti i quartieri della città e per di più con attori che parlavano tutte le lingue, giochi ginnici nel circo e battaglie navali. […] Per i giochi del circo si ingrandì l'arena da una parte e dall'altra e vi si condusse intorno un fossato: giovani della più alta nobiltà guidarono bighe, quadrighe e cavalli da corsa. […] Cinque giorni furono dedicati alla caccia e, alla fine tutto si risolse con una battaglia tra due schiere che comprendevano ciascuna cinquecento fanti, venti elefanti e trenta cavalieri. […] Alcuni atleti lottarono per tre giorni in uno stadio appositamente costruito per la circostanza nel quartiere del Campo di Marte. Per la battaglia navale si scavò nella piccola Codeta un bacino dove si scontrarono, con grande numero di combattenti, biremi, triremi e quadriremi, raggruppate in due flotte, una siriana e l'altra egiziana. Tutti questi spettacoli determinarono un afflusso di gente, venuta da ogni parte […]»55.
In età imperiale, l’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo determinò una grande svolta all’interno della vita politica della capitale. In questo nuovo contesto infatti, uno degli elementi fondamentali che fin da principio caratterizzò l’azione politica condotta
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Cic. , In Vatinium oratio, 37. Svet. , De vita Caesarum, Divus Iulius liber I, 39.
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da Ottaviano, fu la volontà di porre un freno alla grande libertà di cui godevano i magistrati romani soprattutto in materia di elargizioni al popolo. Riservando unicamente a sé e alla propria famiglia il diritto di promuovere la costruzione di nuovi edifici pubblici e di offrire al popolo giochi straordinari, il nuovo princeps si appropriò delle principali forme di propaganda all’interno della città, relegando ai privati cittadini il compito di organizzare soltanto i ludi ordinari e preoccupandosi altresì di regolarne e contenerne le spese e la munificenza tramite l’emanazione di specifici provvedimenti. In questo stesso periodo inoltre, si nota un progressivo aumento all’interno del calendario romano, dei giorni dedicati ai giochi. Questo fenomeno risulta strettamente collegato al carattere sacro assunto dalla figura dell’imperatore, sancito ufficialmente nel 27 a.C, quando il senato riconobbe a Ottaviano il titolo di Augustus, che nell’accezione di uomo “benedetto dagli dei”, vedeva legittimato il suo ruolo a capo della monarchia universale in quanto espressione della volontà dagli dei protettori di Roma. Alle feste tradizionali dell’età repubblicana, si aggiunsero così in età imperiale nuove celebrazioni legate al culto dell’imperatore e alla sua famiglia, quali i giochi annuali organizzati per commemorare la nascita del princeps (gli Augustalia), la sua nomina ad imperatore, le vittorie militari, la nascita di eredi, le adozioni, i matrimoni etc. Entrambi gli aspetti fin qui delineati (limitazione dell’ambitus dei magistrati e aumento dei giorni dedicati ai giochi), consentono di comprendere quanto il monopolio di giochi e spettacoli avesse assunto un’importanza fondamentale nella politica del nuovo princeps quale strumento privilegiato per l’ottenimento del consenso. Tale aspetto può trovare un’ulteriore conferma nelle parole spese da Svetonio in relazione alla sua figura: «Per numero, varietà e magnificenza di spettacoli superò tutti i suoi predecessori. Egli stesso dice che, a suo nome, celebrò giochi pubblici quattro volte e ventitré volte per altri magistrati che erano assenti o mancavano di mezzi. Qualche volta ne celebrò anche nei differenti quartieri, con numerose scene, servendosi di attori che parlavano tutte le lingue; diede spettacoli non solo nel foro e nell'anfiteatro, ma anche nel circo e nei recinti per le elezioni e talvolta si trattava di battute di caccia; organizzò anche incontri di lotta fra atleti nel Campo di Marte, dove furono disposte panche di legno, e una battaglia navale, per la quale fece scavare il terreno nei pressi del Tevere, dove ora si trova il bosco dei Cesari.»56
Tale processo di appropriazione imperiale degli spettacoli, inaugurato da Ottaviano, si completa e si consolida in epoca successiva. Gli imperatori che gli susseguirono infatti, rimasero a Roma gli unici effettivi padroni di questo strumento propagandistico,
56
Svet., De vita Caesarum, Divus Augustus liber II, 43.
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confermandone il valore non solo quale mezzo privilegiato per accrescere la propria popolarità o quale “diversivo utilizzato dal potere per ammansire un popolo riottoso, drogarlo e distrarlo da più seri e pericolosi impegni”57, ma anche come occasione di incontro tra il sovrano e il suo popolo. Per la plebe urbana in particolare, tali manifestazioni si configurarono sempre più come un momento irrinunciabile del vivere cittadino, nel quale essa, riunita nella sua collettività, aveva la possibilità di esprimersi liberamente e avanzare le proprie rivendicazioni. Questa libertà di espressione del pubblico durante gli spettacoli, pur generando talvolta veri e propri disordini, consentiva tuttavia all’imperatore di comprendere in maniera diretta e immediata quali fossero i problemi più sentiti all’interno dello Stato e dunque quale fosse “l’umore” del popolo e la sua opinione in merito, per esempio, alla politica condotta da lui e dai suoi funzionari. In epoca tardoantica, nonostante il progressivo diffondersi del cristianesimo all’interno del mondo romano, giochi e spettacoli di derivazione pagana continuarono a rivestire un posto di riguardo nello scandire i ritmi della vita cittadina, raggiungendo nel IV secolo il massimo del loro fulgore. Una chiara testimonianza di ciò, può essere offerta a tal proposito dal cosiddetto Cronografo del 354 o Calendario di Filocalo. L’opera, redatta dall’omonimo calligrafo, sottolinea come nella Roma di IV secolo vi fossero ben 177 giorni di festa, contro i 77 previsti nell’età augustea. Di questi 177 giorni, accanto alle feste tradizionali legate alla religione pagana, più della metà risultano invece collegate a quelle celebrazioni imperiali connesse alla figura o all’attività degli imperatori, sia del passato che del presente (quali anniversari della nascita o dell’incoronazione, vittorie militari, nozze di famiglia etc.), che divengono ulteriori occasioni per indire nuovi ludi straordinari. Quanto riportato da Filocalo, consente dunque di affermare che, in questo particolare periodo della storia romana, gli imperatori si configurano ancora come i più importanti evergeti di riferimento all’interno della città. Allo stesso tempo però, in connessione alle trasformazioni politiche che proprio in questi secoli investirono lo Stato romano, si assiste a una ripresa di importanza dell’aristocrazia senatoria nella vita ludica della città. Già a partire dal III secolo, le riforme politiche e amministrative promosse da Diocleziano, quali la trasformazione della carica imperiale da unica a collegiale, la conseguente suddivisione dell’Impero in pars occidentis e orientis, e la provincializzazione dell’Impero stesso, determinarono per Roma la fine del suo ruolo centrale quale capitale e residenza imperiale. In particolare la moltiplicazione dei palatia (sede non solo del princeps ma anche della corte imperiale),
57
Cfr. TANTILLO 2000.
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fondati nel corso del IV secolo in vari luoghi dell’Impero58, comportò un’apparizione sempre più rara e sporadica dei sovrani all’interno della città. In questo contesto il praefectus urbis assunse a Roma il ruolo di principale responsabile di ogni aspetto relativo all’organizzazione di qualsiasi tipo di spettacoli, fossero essi imperiali (ovvero promossi dall’Imperatore stesso), o allestiti e finanziati direttamente dai magistrati. Tuttavia è bene tenere presente che rispetto al passato, l’ormai consolidata pratica di indire grandiosi giochi pubblici in occasione dell’assunzione delle antiche magistrature repubblicane, non si configura più come un atto spontaneo di evergetismo, ma come un vero e proprio obbligo sancito ufficialmente dalla legislazione imperiale. Questo aspetto peculiare del mondo tardoantico, viene chiaramente messo in evidenza dalle numerose leggi riportate dal Codice Teodosiano, emanate a partire dall’epoca di Costantino e relative soprattutto alle sanzioni previste per quei magistrati definiti “assenteisti”. Si trattava generalmente di senatori che, essendo dotati di una limitata disponibilità economica, non potevano né competere con gli editori più ricchi, né far fronte alle sempre maggiori spese che ormai comportava l’organizzazione degli spettacoli59. Secondo quanto stabilito da Costantino, al rifiuto da parte di tali magistrati di celebrare i loro giochi nell’Urbe, corrispondeva il pagamento alla città di un’ammenda pari a cinquantamila modii di grano60. In aggiunta a questo, essi avrebbero dovuto poi rimborsare ai funzionari del fisco (i censuales), le spese di cui si erano fatti carico per garantire comunque la celebrazione dei giochi61. Anche se l’atteggiamento assenteistico manifestato da alcuni senatori consente di presumere la presenza di un certo malcontento per il grande onere finanziario che tale obbligo comportava, in occidente le spese relative all’organizzazione di giochi e spettacoli rimasero molto elevate, anche da parte di coloro che rivestivano cariche minori quali la questura e la pretura. Ne sono una prova, per esempio, i grandiosi giochi organizzati da Quinto Aurelio Simmaco per la questura e la pretura del figlio Memmio, rispettivamente nel 393 d.C. e nel 401 d.C., di cui egli stesso ci offre una testimonianza:
A tal proposito accanto a Costantinopoli, che a partire dal 330 assunse il ruolo di capitale dell’Impero romano d’oriente configurandosi come una sorta di “nuova Roma”, tra le città più importanti che divennero sede della corte imperiale si annoverano anche Treviri (dal IV secolo), Milano (dal 285 al 402 circa) e Ravenna (dal 402 al 476). 59 Si tenga presente in proposito che i ludi dei pretori si svolgevano come quelli consolari per sette giorni all’inizio dell’anno. Tuttavia se i primi venivano celebrati nella città in cui risiedeva la corte imperiale, i secondi si tenevano nell’Urbe quando era presente almeno uno dei due consoli in carica. Costantino, in particolare, stabilì che le spese relative all’organizzazione dei giochi da parte di queste personalità dovevano implicare anche alcune “spese supplementari” quali doni agli aurighi, agli attori, distribuzioni di denaro alla plebe e di oggetti preziosi all’aristocrazia. 60 Cod. Theod. 4,11. Tale multa sarà poi confermata sia da Costanzo nel 354 d.C. (Cod.Theod. 4,7), sia da Valentiniano e Valente nel 365 d.C. (Cod.Theod. 6,4). 61 Cod. Theod. 6,4,6. 58
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«Lo splendore delle mie due precedenti edizioni [ovvero gli spettacoli da lui organizzati per il proprio consolato e per la questura del figlio] ci ha procurato una fama universale, perciò credo sia nostro dovere soddisfare l’attesa che è cresciuta con i precedenti esempi»62
Il passo citato consente inoltre di cogliere fino in fondo, uno degli aspetti più importanti in grado di spiegare perché giochi e spettacoli, nonostante l’onere finanziario da essi assunto, continuassero ad essere ampiamente celebrati. L’ottenimento di quella che Simmaco definisce “fama universale”, sembra essere, dal suo punto di vista, strettamente collegato alla spesa sostenuta per le editiones. Fu pertanto inevitabile che si generasse, all’interno dell’aristocrazia senatoria, un forte spirito di competizione che spinse i vari magistrati a organizzare di volta in volta giochi e spettacoli che superassero in termini di munificenza quelli dei loro predecessori, al fine di garantire a sé e alla propria famiglia il favore popolare. L’investimento di ingenti quantità di denaro nella celebrazione dei ludi si configura dunque, nell’ottica delle famiglie più in vista della società, come strumento privilegiato non solo per esibire la propria ricchezza, ma anche per ottenere visibilità e prestigio nella cittadinanza, e affermare così la propria posizione politica e sociale. Se dunque i magistrati al momento dell’assunzione della propria carica consideravano l’allestimento dei giochi come un momento imprescindibile attraverso il quale ottenere il consenso popolare, non sorprende che le scene salienti di tali spettacoli diventino uno dei soggetti privilegiati nella decorazione delle valve esterne di quei dittici consolari regalati, all’inizio dell’anno, dai consoli stessi all’imperatore o agli esponenti del senato al momento del loro insediamento. Nei paragrafi successivi pertanto, si prenderanno in esame alcuni esemplari di questa specifica categoria di manufatti attraverso i quali il nuovo console annunciava ai destinatari la propria nomina e i ludi di cui sarebbe stato editore. Questa doppia funzionalità dei dittici consolari, trova ulteriore sostegno nello schema compositivo che generalmente caratterizza le valve esterne di quei dittici con tribunal che, secondo quanto ipotizzato da Delbrük, dovevano essere destinati ai funzionari di alto rango. Tali tavolette in avorio infatti, presentano solitamente una decorazione che si articola su due livelli. Al livello superiore il protagonista dell’evento viene rappresentato, secondo uno schema ricorrente, seduto sulla sella curulis al centro del tribunal, talvolta affiancato da accompagnatori, sottolineando in questo modo la sua posizione politica e sociale. Al livello inferiore invece trovano posto scene minori, che completano il messaggio di quella principale e che 62
Symm. Epist. 4, 58, 2.
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raffigurano i giochi solenni da lui organizzati in occasione della sua apparizione in pubblico, sottolineando ulteriormente quanto l’importanza rivestita da giochi e spettacoli fin dall’età repubblicana, si fosse conservata e radicata nel corso del tempo negli usi e nella tradizione del mondo romano, trovando continuità sino all’epoca tardoantica.
2.2 LE VENATIONES All’interno della vasta produzione dei dittici in avorio prodotti in epoca tardoantica e conservatisi sino ai giorni nostri, sono individuabili circa ventitré immagini relative ai ludi. Fatta eccezione per due soli casi, in cui i soggetti rappresentati fanno riferimento alle corse di carri, la maggior parte delle scene raffigurate vedono come protagoniste le venationes o i giochi di destrezza con gli animali63. Il termine venationes, seppur comunemente tradotto nell’accezione di “cacce ad animali da parte di uomini”, in realtà veniva utilizzato nel mondo romano con un significato più ampio, stando ad indicare non solo quegli spettacoli che prevedevano combattimenti cruenti tra animali o tra questi ultimi e i gladiatori, ma anche più semplicemente la loro messa in mostra in esibizioni o sfilate. Introdotte per la prima volta a Roma nel 186 a.C. da Marco Fulvio Nobiliore64, esse inizialmente, come i giochi gladiatori, si svolgevano nel foro. La successiva evoluzione dell’architettura romana a partire dalla tarda età repubblicana e lo sviluppo di nuovi edifici monumentali con caratteristiche diverse e funzionali ai vari tipi di spettacolo, determina il trasferimento di entrambe queste tipologie di giochi ludici all’interno dell’anfiteatro.
Ed è proprio in epoca tardo
repubblicana, ma ancor più nella prima età imperiale, che il genere delle venationes raggiunse l’apice della sua popolarità come elemento essenziale dell’intrattenimento pubblico. Tale successo è ben comprensibile se si prendono in considerazione due elementi fondamentali che, proprio in questo periodo, incominciarono a manifestarsi all’interno del mondo romano. Un primo elemento è costituito dalla pratica sempre più frequente, di abbinare lo spettacolo della venatio ai combattimenti gladiatorii. I combattimenti tra
63 Per le informazioni riportate in tale paragrafo in relazione alle venationes, si veda il significativo apporto di: N. Savarese (SAVARESE 2015); C. Vismara, La giornata di spettacoli, in A. La Regina (LA REGINA 2001); V. Mariotti, Gli spettacoli in epoca tardoantica. I dittici come fonte iconografica, in M. David (DAVID 2007); C. Lo Giudice (LO GIUDICE 2008); S. Ensoli - E. La Rocca (ENSOLI-LA ROCCA 2000); R. Delbruek (DELBRUEK 2009). 64 M. F. Nobiliore venne eletto console di Roma nel 189 a.C. Secondo quanto testimoniato da Tito Livio, in occasione delle sue vittorie militari in Grecia, che lo portarono a conquistare la capitale etolica di Ambracia, egli organizzò grandiosi ludi nella città che prevedevano, tra i vari spettacoli, anche una caccia di leoni e pantere (cfr. Liv., Ab urbe condita, liber XXXIX, 22).
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gladiatori, detti munera65, fecero la loro prima comparsa a Roma già nel lontano III secolo a.C., in relazione alle cerimonie funebri organizzate alla morte di un esponente particolarmente importante della società da parte dei suoi familiari. In breve tempo tuttavia, questa particolare forma di spettacolo assunse un ruolo sempre più importante nella vita cittadina, svincolandosi dall’ambito puramente religioso e inserendosi nella dimensione politica. Si assiste dunque in questo periodo, a una progressiva evoluzione del significato attribuito ai giochi gladiatorii, che da semplici ludi funerari si trasformano in munus, ovvero in un dono offerto al popolo dai magistrati o dai privato cittadini, attraverso il quale ottenere prestigio e popolarità. Questo processo di desacralizzazione dei munera, unito alla necessità di organizzare spettacoli di portata sempre maggiore, tali da stupire e meravigliare il popolo e ottenerne il consenso, favorì l’abbinamento dei combattimenti gladiatorii con le venationes. Nonostante l’accorpamento di queste due tipologie distinte di ludi, è opportuno tuttavia sottolineare che sia in età repubblicana che durante l’Impero, la venatio si configurò sempre come una sorta di “integrazione” ai giochi gladiatori, che rimasero invece gli spettacoli più attesi e più ambiti dal pubblico, espressione di quella forza virile e di quelle virtù militari che, fin dalle origini, stavano alla base dell’ideologia del mondo romano 66. Ciò risulta ancor più evidente se si considera che, all’interno delle numerose leggi emanate a partire dal I secolo a.C., volte soprattutto a limitare l’ambitus dei magistrati in relazione alla loro possibilità di attuare donazioni al popolo sotto forma di spettacoli, le restrizioni a cui furono soggette le venationes appaiono molto più indulgenti rispetto a quelle fissate per i munera (v. infra 2.1). Un secondo elemento che consente di spiegare la popolarità di cui godette questa particolare forma di spettacolo a partire dall’epoca tardo repubblicana, risulta invece strettamente legato al grande processo espansionistico che venne intrapreso proprio in questo periodo dal mondo romano. Le numerose guerre di conquista infatti, permisero ai Romani non solo di entrare in contatto con popoli di differente cultura e tradizione, ma anche di rapportarsi con nuovi contesti ambientali e faunistici. In questo modo, accanto agli animali di provenienza locale o importati dal vicino Nord Europa (quali orsi, cinghiali, tori, bufali, asini selvatici, cervi e stambecchi), le venationes si arricchirono sempre più di nuove varietà di animali esotici mai visti prima, importati via mare dall’Asia e dall’Africa (quali leoni,
Si tenga presente in proposito che il termine “munera” subisce nel corso del tempo delle variazioni a livello semantico. Se in origine esso indicava gli obblighi e i sacrifici che spettavano agli eredi di un defunto, in seguito si legò sempre di più alle incombenze previste per i magistrati che desideravano candidarsi alle elezioni, al punto che, nel IV sec, tale termine sarà impiegato per indicare più generalmente, tutti i giochi che i magistrati dovevano necessariamente organizzare per raggiungere le successive cariche del cursus honorum (Cfr. SAVARESE 2015). 66 Per informazioni più approfondite sugli spettacoli gladiatori si veda C. Vismara (VISMARA 2001).
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pantere, elefanti, struzzi, giraffe, ippopotami etc.), e si caricarono di un forte significato a livello simbolico. L’esibizione e l’uccisione nell’arena di specie provenienti dalle terre più remote in cui il potere romano aveva esteso la proprio influenza, veniva concepita infatti come chiaro simbolo del dominio di Roma sul mondo sino allora conosciuto e come riproduzione emblematica della vittoria riportata in quelle terre. A tal proposito, una testimonianza della grande varietà di animali esotici presenti negli spettacoli di venatio, è offerta da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia. Nell’opera l’autore non solo offre una descrizione estremamente accurata delle specie al tempo conosciute, analizzandone sia il luogo di provenienza che le caratteristiche esteriori, ma si preoccupa anche di riportare l’anno esatto in cui esse fecero la loro prima comparsa nell’Urbe e i tipi di spettacoli in cui potevano essere utilizzate. Grazie alle informazioni da lui riferite, sappiamo che nel 58 a.C. per esempio, in occasione dei giochi offerti dall’edile M. Emilio Scauro, venne esibito il primo ippopotamo assieme a cinque coccodrilli67, mentre nel 55 a.C. durante gli spettacoli previsti per l’inaugurazione del teatro di Pompeo Magno, accanto a leoni, elefanti, pantere e un raro esemplare di rinoceronte indiano, comparvero per la prima e unica volta a Roma scimmie provenienti dall’Etiopia e una fiera particolare importata dalla Gallia, identificabile probabilmente con una lince68. Fu Cesare invece, durante i grandi spettacoli allestiti in occasione dei suoi quattro trionfi nel 46 a.C. (v. infra 2.1), a far sfilare per la prima volta sotto gli occhi del popolo romano, animali esotici mai visti prima tra cui una giraffa69. Con l’avvento della prima età imperiale, il numero e la varietà di specie offerte durante le pubbliche esibizioni raggiunsero livelli inediti. Ne sono un chiaro indizio le ventisei venationes organizzate da Augusto, che comportarono l’impiego e l’uccisione di circa 3500 esemplari di animali provenienti dall’Africa, o ancora gli eccezionali giochi offerti da Tito nel 80 d.C. per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio in cui, stando a quanto riportato dalle fonti70, vennero uccise in un solo giorno 5000 belve feroci e 4000 erbivori. Gli aspetti fin qui delineati consentono pertanto di affermare che la sempre maggiore popolarità di cui godettero le venationes in questo periodo della storia di Roma, risulta strettamente collegata non solo a quel carattere violento e cruento che accumunava tali esibizioni ai giochi gladiatorii, ma anche allo stupore e alla meraviglia che si generava tra 67
Plin., Nat. His., liber VIII, 96. Ivi, 70: «I giochi di Pompeo Magno mostrarono per la prima volta il chama, che i Galli chiamano rufio, con l’aspetto di un lupo e le macchie dei leopardi. Gli stessi giochi mostrarono dall’ Etiopia quelli che chiamano cepi, le cui zampe posteriori furono simili a piedi e gambe umane, le anteriori alle mani. Questo animale non appare più poi a Roma.» 69 Ivi, 182. 70 Per ulteriori informazioni sugli spettacoli inaugurali del Colosseo vd. Svet., Tit., VII, 7; Cass. Dio., LXVI, 25.
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gli spettatori alla visione di animali esotici mai visti prima. Uno stupore che gli editori dei ludi seppero sapientemente incrementare nel corso del tempo tramite l’introduzione di accorgimenti particolari, quali sistemi di ascensori e di piani inclinati manovrati nei sotterranei, o l’allestimento di grandiose scenografie naturali caratterizzate da colline, piante, boschi e corsi d’acqua che, riproducendo l’ambiente originario da cui gli animali provenivano, estraniavano il pubblico, portandolo alla scoperta di un mondo a lui sconosciuto. A partire dall’età tardo imperiale, incominciarono tuttavia a manifestarsi i primi segni di un cambiamento all’interno dell’edizione dei giochi e l’inizio di quel graduale processo che determinerà, nell’arco di qualche secolo, la fine degli spettacoli cruenti e in particolar modo della gladiatura. Proprio in questo periodo infatti, parallelamente al progressivo diffondersi della dottrina cristiana all’interno dell’Impero, si assiste al lento declino dei giochi gladiatorii. Pur essendo oggetto di aspre critiche non solo da parte degli apologisti cristiani, che ne disapprovavano l’aspetto violento e sanguinario fortemente in contrasto con i principi alla base della propria fede, ma anche da parte dei moralisti pagani di cultura ellenica, che ne criticavano soprattutto il furor71, in realtà la fine di questo genere ludico risulta più strettamente connessa al cambiamento morale che si manifestò in tutto il popolo romano col diffondersi dei nuovi valori proposti dal cristianesimo72. In questo senso si potrebbe dire che fu il pubblico stesso a non riconoscersi più in quegli ideali, legati fortemente al mondo pagano, che la gladiatura rappresentava. Se in origine infatti il gladiatore veniva concepito come colui che in virtù della sua forza virile e delle proprie abilità belliche poteva sperare di riottenere la libertà grazie al favore popolare, il nuovo popolo cristiano comprende che la salvezza da lui concessa al gladiatore può essere esclusivamente terrena, dal momento che l’effettiva salvezza, ovvero quella spirituale, spetta soltanto al giudizio di Dio. Un chiaro indizio di questa progressiva perdita di importanza da parte dei munera in epoca tardoantica, viene offerto dal già citato calendario di Filocalo del 354 d.C. (v. infra 2.1), in cui dei 177 giorni all’anno riservati ludi, 101 erano dedicati ai giochi scenici, 66 a quelli circensi e solo 10 a quelli gladiatori. Sarebbe tuttavia errato concepire la fine di tali spettacoli quale l’esito di cause prettamente religiose e culturali. Ad esse infatti si dovettero aggiungere anche altre motivazioni sia di tipo economico, legate principalmente ai costi sempre più elevati previsti dalla legislazione imperiale per l’edizione dei munera73, sia di tipo giuridico, Il termine “furor” viene usato generalmente per indicare quello stato di grande eccitazione che si generava tra gli spettatori in occasione di questo tipo di spettacoli. Tale frenesia, unita alla totale indifferenza difronte alla morte, venne concepita dagli intellettuali pagani come la principale fonte di corruzione dell’animo umano. 72 Cfr. MARIOTTI 2007. 73 Per i costi supplementari previsti per i munera cfr. V. Mariotti (MARIOTTI 2007).
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come dimostrato dalle numerose leggi emanate a partire da Costantino allo scopo di abolire tali giochi dal mondo romano. Tutti questi fattori determinarono, agli inizi del V sec., la fine definitiva degli spettacoli gladiatorii all’interno della capitale. In questo contesto, anche la venatio non poté non essere toccata dalla condanna morale avanzata dagli apologeti cristiani; una condanna che tuttavia si abbatté su tali giochi in forma meno drastica, tale da consentirne una più lunga sopravvivenza nel mondo romano. Il significato simbolico delle lotte tra uomini e bestie feroci venne infatti interpolato dalla nuova realtà cristiana, per la quale le venationes non si configuravano più come l’affermazione del dominio di Roma sul mondo, ma come la rappresentazione simbolica della lotta tra il bene e il male. Tuttavia, come avvenne per i giochi gladiatorii, anche le cacce subirono in epoca tardoantica profondi mutamenti determinati dalla concorrenza di molteplici fattori. Dopo la crisi del III secolo e la successiva divisione dell’Impero, i costi sempre più elevati che l’organizzazione di questo tipo di spettacoli richiedeva, uniti alla sempre maggiore difficoltà di entrare in possesso di fiere e animali esotici, determinarono la fine delle grandiose cacce anfiteatrali di epoca precedente e dunque una riduzione sia in termini quantitativi che qualitativi della portata di tali eventi74. L’ultima venatio, di cui si ha notizia, si tenne a Roma nel 523 durante il regno di Teodorico, che concesse al console A. Massimo il permesso di organizzare lo spettacolo nel Colosseo. Tale evento viene testimoniato da Cassiodoro, magistrato romano al servizio del re, nella sua celebre opera intitolata le Variae75. Le informazioni riportate dall’autore, si rivelano di estrema utilità per comprendere fino in fondo i radicali cambiamenti che si registrarono proprio in questo periodo soprattutto nell’ambito degli spettacoli venatorii. In particolare, nella descrizione dei vari tipi di spettacoli con animali che godevano di maggiore popolarità ai suoi tempi76, Cassiodoro fa riferimento a un nuovo genere di “giochi pericolosi”, di cui sono protagonisti uomini-acrobati dediti non tanto ad affrontare le fiere, quanto a sfuggirgli con abilità e destrezza tramite l’utilizzo di strumenti particolari. Tra questi si possono citare: la cochlea, ovvero un recinto girevole fissato a un perno centrale, in grado di aizzare e disorientare l’animale, e dietro al quale l’acrobata si nascondeva; l’ericius, che consisteva in una sorta di gabbia ovale in cui l’uomo poteva rifugiarsi per proteggersi dalle fiere; semplici 74
A tal proposto pare, stando a quanto riportato da alcune fonti, che negli spettacoli di caccia organizzati a partire dai Giordani in poi, le belve feroci fossero praticamente assenti mentre la maggior parte degli animali esibiti doveva essere costituita dai meno costosi erbivori provenienti soprattutto dai territori locali (Cfr. Hist.Aug., Gordianus tertius, 3, 33). 75 Si tratta di una raccolta di lettere e documenti, redatti dai sovrani in un arco di tempo compreso tra il 507 e il 537 d.C., la cui analisi sistematica ha consentito agli studiosi di fare sempre maggior chiarezza sulle istituzioni, le condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti che dei Romani dell'Italia del tempo. 76 Cfr. Cassiod., Variae, liber V, 42.
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aste per eseguire il cosiddetto contomonobolon, ovvero il rischioso salto sopra alla belva, o ancora il sistema della giostra, costituito da un alto palo verticale girevole su cui venivano fissate due ceste per gli acrobati e che probabilmente venivano fatte salire e scendere all’ultimo momento in modo da tenere il pubblico col fiato sospeso77. Se dunque nella prima età imperiale erano chiamati venatores soltanto coloro che affrontavano e uccidevano in combattimenti sanguinari le belve nell’arena, l’utilizzo di tale termine da parte di Cassiodoro, per indicare anche questi uomini-acrobati che abilmente tentavano di sfuggire agli animali feroci, consente di supporre che in epoca tardoantica, i veri e propri spettacoli cruenti di venatio si fossero notevolmente ridotti, lasciando sempre più spazio ai più pacati, ma altrettanto pericolosi, spettacoli di destrezza.
2.3 I LUDI CIRCENSES All’interno della grande varietà di giochi e spettacoli che scandivano i ritmi della vita cittadina del mondo romano, i ludi circenses occuparono, sin dalle origini, un posto di riguardo tra quelli più attesi e ambiti dal pubblico78. Secondo quanto riportato da Livio nell’opera Ab urbe condita, tali giochi avrebbero fatto la loro prima comparsa nell’ Urbe già a partire dall’epoca di Romolo, in relazione a quell’evento leggendario tradizionalmente conosciuto come il Ratto delle Sabine. L’autore, rifacendosi alla storia delle origini tramandata dalla tradizione romana nel corso del tempo, si fa portavoce dell’ingegnosa astuzia architettata dal mitico fondatore di Roma per ripopolare la nuova città:
«Roma era ormai così potente che poteva permettersi di competere militarmente con qualunque popolo dei dintorni. Ma per la penuria di donne questa grandezza era destinata a durare una sola generazione […]. Allora, su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per favorire la celebrazione di matrimoni […]. All'ambasceria non dette ascolto nessuno […]. La gioventù romana non la prese di buon grado e la cosa cominciò a scivolare inevitabilmente verso la soluzione di forza. Per conferire a essa tempi e luoghi appropriati, Romolo, dissimulando il proprio risentimento,
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Cfr. DELBRUEK 2009; LO GIUDICE 2008. Per le informazioni riportate in questo paragrafo in relazione ai ludi circenses, si veda l’essenziale contributo di: V.Mariotti, Gli spettacoli in epoca tardoantica. I dittici come fonte iconografica, in M. David (DAVID 2007); S. Ensoli - E. La Rocca (ENSOLI-LA ROCCA 2000); A. Fraschetti (FRASCHETTI 1989); A. Lo Monaco, In processione al circo, in E. La Rocca-S. Tortorella (LA ROCCA- TORTORELLA 2008); N. Savarese (SAVARESE 2015); G. Vespignani (VESPIGNANI 1994). 78
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allestisce apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno Equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare allo spettacolo i popoli vicini […]. Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all'impazzata per rapire le ragazze.»79
Nell’impossibilità di stabilire con certezza la veridicità del fatto narrato, è preferibile tuttavia considerare la storia e l’evoluzione dei giochi equestri all’interno del mondo romano, a partire dalla prima metà del VI secolo a.C. quando, sul finire dell’età regia, Tarquinio Prisco promosse la costruzione del Circo Massimo, una struttura che in breve tempo divenne la sede privilegiata in cui allestire questa particolare tipologia di spettacolo. All’epoca di Tarquinio Prisco, il Circo Massimo doveva configurarsi ancora come una costruzione piuttosto semplice in legno e le corse che in essa si tenevano, erano principalmente concepite come parte integrante di quelle cerimonie funebri e religiose, organizzate alla morte di un esponente particolarmente importante della società da parte dei suoi familiari. Questo carattere sacro rivestito inizialmente dai ludi circenses, trova conferma non solo nella valenza religiosa dell’area situata tra i colli Palatino ed Aventino in cui il Circo venne eretto80, ma anche nel repertorio mitologico del paganesimo romano che, come testimonia Tertulliano nella sua celebre opera intitolata De spettaculis, poneva all’origine stessa di tali spettacoli una divinità:
« il Circo è dedicato in principal modo al Sole; in mezzo infatti vi è un tempietto a quello dedicato e nella parte più alta di esso se ne vede l'immagine […]. Coloro che sostengono che si debba far risalire a Circe il primo spettacolo, affermano che sia stato dedicato appunto al Sole, che fu il padre suo e quindi ricollegano a Circe la denominazione di Circo.»81
Nel corso del tempo tuttavia, come avvenne per i munera gladiatoria (v. infra 2.2), anche questa particolare forma di spettacolo assunse un ruolo sempre più importante nella vita cittadina, svincolandosi dall’ambito puramente religioso e acquistando sempre maggior importanza quale strumento politico a disposizione dei magistrati, per ottenere il tanto ambito favor populi. In età repubblicana infatti, come sottolineato nei paragrafi precedenti
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Liv., Ab urbe cond., liber I, 9. Il Circo Massimo sorgeva infatti presso la Vallis Murcia, un luogo in cui si concentrarono, nel corso del tempo, tutta una serie di templi legati ai culti pagani, tra cui si possono citare: un tempio dedicato a Mercurio; quelli consacrati a Ceres Liber e Libera, e a Consus (legati al culto della fertilità); una aedes Solis et Lunae etc. (cfr. VESPIGNANI 1994.). 81 Tert., De spect., VIII. 80
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(v. infra 2.1), lo Stato, pur affidando l’organizzazione dei ludi pubblici all’intero collegio degli edili o dei pretori, consentiva allo stesso tempo ai singoli magistrati di intervenire personalmente nell’allestimento dei giochi tramite l’impiego delle risorse provenienti dal proprio patrimonio. Per quello che riguarda i ludi circenses, coloro che si assumevano l’onere di finanziare tali spettacoli, non dovevano semplicemente provvedere al corretto svolgimento delle semplici corse coi carri, ma dovevano anche preoccuparsi dell’allestimento di quella processione cerimoniale, detta pompa circensis, durante la quale venivano trasportate le statue degli dèi dal colle Capitolino al Circo Massimo, di modo che i giochi si svolgessero alla presenza e sotto la protezione delle stesse divinità. Tale corteo, concepito come premessa fondamentale ai ludi, veniva guidato dal magistrato organizzatore dell’evento e prevedeva la partecipazione dell’intera comunità, che si disponeva dietro di lui in ordine gerarchico, suddivisa nelle sue varie componenti sociali. Tale aspetto della pompa circense, viene ampiamente descritto dallo storico greco Dionigi di Alicarnasso, che dichiara di essersi attenuto a quanto riportato dagli Annales di Quinto Fabio Pittore:
«Aprivano la processione i figli dei Romani prossimi alla pubertà, che avevano l'età per prendere parte alle processioni; a cavallo quelli i cui padri avevano il censo del rango equestre, a piedi quelli che erano destinati a prestare servizio nella fanteria […] lo scopo era quello di far vedere agli stranieri quale fosse il fior fiore della gioventù romana[…].Questi erano seguiti da aurighi, che guidavano quadrighe, bighe o cavalli non aggiogati; dopo di loro venivano i candidati delle gare di atletica leggera e pesante. Dopo gli atleti, venivano molte schiere di danzatori, suddivisi in tre gruppi; il primo era formato da uomini adulti, il secondo da giovani imberbi, il terzo da bambini, ai quali facevano seguito dei flautisti […]facevano seguito i danzatori travestiti da Satiri, […] dopo di loro, coloro che portavano i turiboli, nei quali ardevano profumi ed incensi, per tutto il percorso, e coloro che portavano le suppellettili sacre per le processioni, fatte d'oro e d'argento […]Per ultime venivano, portate a spalla, le immagini degli dèi […] »82
Il testo prosegue con la descrizione del momento conclusivo della processione in cui, poste le immagini degli dei nella tribuna rialzata del pulvinar e celebrato un sacrificio, veniva dato inizio ai giochi. Proprio questa ritualità espressa dalla pompa circense, consente di mettere in evidenza quanto i giochi equestri, seppur inseritisi nella dimensione politica, non avessero perso il loro carattere sacro originario. Una sacralità che d’altra parte, trova ulteriore conferma nella complessa simbologia che caratterizzava ogni singolo elemento costitutivo del Circo Massimo. La spina, ovvero quella lunga e stretta barriera in muratura che posta al
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Dion. Hal., VII, 72-73.
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centro dell’arena la suddivideva in due corsie, si concludeva alle estremità con due basamenti semicilindrici, detti metae, sui quali poggiavano tre coni. Ciascuno di essi presentava sulla sommità un uovo di marmo che richiamava non solo i Dioscuri Castore e Polluce protettori dei giochi del Circo83, ma anche l’uovo orfico, metafora del cosmo diviso nelle sue metà84. Le uova costituivano inoltre uno strumento essenziale durante lo svolgimento delle corse quali “contagiri”. Sette, come i pianeti sino ad allora conosciuti e come i giri che i carri dovevano compiere attorno alla spina, esse erano poste lungo tale basamento e aggiornate di volta in volta da un apposito addetto. Analoghi per posizione, numero e funzione erano poi i delfini, chiara allusione non solo a Nettuno, dio protettore dei cavalli, ma anche, col loro nuoto circolare, all’itinerario ellittico che i carri dovevano percorrere. Nel corso del tempo la spina si arricchì ulteriormente di nuovi elementi di valenza simbolica quali tempietti, edicole e gruppi di statue marmoree rappresentanti le divinità. In particolare, come sottolineato in precedenza (v. infra 2.1), nel 46 a.C., in occasione dei quattro trionfi riportati da Cesare in Gallia, Egitto, Ponto e Africa, il dittatore fece realizzare attorno all’arena un fossato, detto euripos, al fine di separare distintamente lo spazio dove sedevano gli spettatori, da quello in cui si svolgevano i giochi85. In seguito anche Augusto contribuì all’arricchimento della barriera, facendovi porre al centro l’obelisco di Ramses II proveniente dall’Egitto, che divenne simbolo non solo del sole allo zenit, ma anche della vittoria riportata dall’Impero in quelle lontane terre dove esso era riuscito a espandersi. Il Circo, rappresentava dunque l’immagine del mondo: l’arena era come la terra circondata dall’oceano, ovvero l’euripos, e le due metae all’estremità della spina, dominata dallo zenitobelisco, divenivano il simbolo dell’Oriente e dell’Occidente. I carri che percorrevano questo universo in miniatura, al segnale del magistrato, partivano dai carceres, dodici come i mesi dell’anno, e giravano attorno alla spina per sette volte, richiamando in questo modo, col loro moto circolare, il corso del sole. All’interno di questo contesto in sostanza, ogni cosa aveva il suo preciso significato, compresi i colori delle quattro squadre (factiones) in cui venivano suddivisi gli aurighi partecipanti alle gare: il bianco (factio alba), era dedicato all’inverno e consacrato agli Zeffiri; il rosso (factio russata), era simbolo dell’estate e posto sotto la protezione di Marte;
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Secondo la mitologia romana infatti, essi sarebbero nati da un uovo, frutto degli amori tra Leda e Giove (cfr. VESPIGNANI 1994, p. 13). 84 Il rosso del tuorlo e il bianco dell’albume rappresentavano rispettivamente il giorno e la notte (cfr. VESPIGNANI 1994, p.12). 85 In seguito, quando tale fossato verrà eliminato, il termine andò a indicare più generalmente i bacini d'acqua che ornavano la spina.
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il verde (factio prasina), dedicato alla primavera e alla Madre Terra; e infine l’azzurro (factio veneta), rappresentante l’autunno e consacrato a Nettuno. A partire dall’età imperiale tuttavia, incominciano a manifestarsi i primi segni di un cambiamento all’interno dell’edizione dei giochi circensi. Un primo aspetto risulta strettamente collegato al graduale processo di sacralizzazione della figura dell’imperatore che si registra proprio in questo periodo. Se in origine il pulvinar rappresentava quello spazio sopraelevato del circo in cui venivano poste le statue delle divinità dopo la processione, in età imperiale esso divenne il luogo privilegiato da cui il princeps, nuovo dio in terra, assisteva agli spettacoli, legittimando in questo modo la propria posizione all’interno della sfera politica, sociale e religiosa del mondo romano. Un secondo aspetto riguarda invece la sempre maggiore popolarità rivestita dai ludi circenses all’interno della vita cittadina. L’intera comunità, radunatasi nel circo, schierandosi dalla parte dell’una o dell’altra squadra, assisteva alle gare con grande ardore e partecipazione. Si trattava tuttavia, di un entusiasmo talvolta eccessivo, che non di rado sfociava in veri e propri contrasti tra le tifoserie. Tenendo presente che ciascuna factio poteva ricevere l’appoggio e il sostegno da parte di diversi funzionari statali, che investivano ingenti somme del proprio patrimonio per fornire tutto ciò che era necessario allo svolgimento delle corse e ottenere così maggiore visibilità all’interno della cittadinanza, inevitabilmente tali contrasti finirono per configurarsi come veri e propri scontri tra fazioni politiche o tra le famiglie aristocratiche più importanti di Roma, che si contendevano il potere. Il circo dunque, non fu soltanto un luogo ludico, ma anche un ambiente di scontri sociali legati a motivazioni sia politiche che religiose. Questo aspetto dei ludi circenses si enfatizzerà ancora di più in epoca tardoantica, trovando la sua massima espressione nell’ippodromo di Costantinopoli, dove le fazioni dei Verdi e degli Azzurri si fecero chiara espressione delle differenti correnti di pensiero presenti all’interno città. In particolare pare che, all’epoca di Giustiniano, i Verdi fossero supportati da coloro che, dal punto di vista politico e religioso, difendevano gli interessi della borghesia cittadina e l'eresia monofisita; viceversa gli Azzurri rappresentavano gli interessi della popolazione rurale e delle classi meno agiate, e professavano il cattolicesimo ortodosso. In età tardoantica, il numero dei giorni che all’interno del calendario romano erano contrassegnati dalla celebrazione dei ludi circenses, subì un ulteriore incremento. Tale fenomeno risulta strettamente collegato a quanto già detto sulla trasformazione che, proprio in questo periodo, investì il mondo romano e il sistema di valori su cui esso si basava (v. infra 2.2). L’ aspra critica condotta dagli apologisti cristiani e dai moralisti pagani di cultura ellenica nei confronti del carattere violento e sanguinario dei munera, unita alla sempre più
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difficile possibilità di reperire animali esotici per le venationes e al cambiamento morale della società stessa, che non si riconosceva più in quegli ideali che la gladiatura rappresentava, favorirono per contro, una sostanziale presa di importanza dei giochi equestri e dell’edificio nel quale essi avevano luogo. Tale aspetto risulta chiaramente testimoniato da Ammiano Marcellino, storico ed ex ufficiale dell’Impero romano d’oriente, che nell’offrire un ritratto degli abitanti di Roma del suo tempo afferma:
«Tutto il tempo che gli è concesso di vivere, lo consumano tra il vino, i dadi, le crapule, i divertimenti e gli spettacoli; il Circo Massimo è insieme il loro tempio, la loro dimora, la loro assemblea e il centro delle loro smaniose speranze.»86
Il passo citato, pur lasciando trasparire una certa disapprovazione dell’autore nei confronti dell’atteggiamento assunto dal popolo dell’Urbe, consente tuttavia di sottolineare l’importante ruolo rivestito in questo periodo dal Circo Massimo quale “cuore” della vita ludica della città. In effetti, proprio a partire dal V secolo d.C, il programma previsto per i giochi circensi si fece più ricco e vario, prevedendo, accanto alle tradizionali corse coi carri, altri spettacoli di vario genere, quali giochi di destrezza con gli animali e i cosiddetti ludi molles, ovvero esibizioni di canto e di danza, che precedevano o accompagnavano le varie fasi del momento ludico. Alla fine tuttavia, nemmeno i ludi circenses riuscirono a sottrarsi a quella condanna morale avanzata dai portavoce della cultura cristiana. Il circo, gli spettacoli in esso rappresentati e la stessa pompa circense, con il loro carattere fortemente simbolico e la loro ricchezza di rituali e cerimonie, si configurarono infatti agli occhi degli apologeti cristiani come “un’emanazione diabolica del demonio”87. Tali critiche, divenute via a via sempre più frequenti, determineranno, entro la metà del VI secolo, la fine definitiva dei ludi circenses.
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Amm. Marcel. 28,4. Tertul., De spect., XXVII.
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CAPITOLO 3 LA TESTIMONIANZA DELLE VENATIONES E DEI LUDI CIRCENSES NEI DITTICI EBURNEI DI EPOCA TARDOANTICA
3.1 I DITTICI DI AREOBINDO Come sottolineato in precedenza, all’interno della vasta produzione di dittici in avorio realizzati in epoca tardoantica, si possono riscontrare circa ventitré immagini relative ai ludi in cui, ad eccezione di due soli casi, i soggetti rappresentati vedono come protagoniste principali le venationes o i giochi di destrezza con gli animali. A questo proposito, una fonte inestimabile di informazioni, utili quali testimonianza non solo della persistenza, ma anche delle modalità attraverso le quali tali spettacoli venivano attuati in epoca tardoantica, è rappresentata dai dittici di produzione orientale legati alla figura del console Areobindo 88. Flavio Areobindo Dagalaifo Areobindo, fu uno dei personaggi politici più autorevoli dell’Impero romano d’Oriente. Figlio di Dagalaifo, console e generale romano di origine germanica, ottenne intorno al 500 d.C il titolo di magister militum per Orientem, ponendosi a capo dell’esercito imperiale nelle guerre sempre più frequenti con i Persiani Sasanidi. In occasione della sua nomina al consolato nel 506 d.C., Areobindo, seguendo gli usi e i costumi propri del suo tempo, si preoccupò di far realizzare tutta una serie di dittici in avorio da offrire come dono a amici, parenti, funzionari d’alto rango e senatori, classificabili in tre principali tipologie sulla base degli elementi figurativi che caratterizzano la decorazione esterna delle valve89. Una prima tipologia è costituita dai dittici con medaglione, in cui l’immagine clipeata del console, posta al centro delle valve, viene arricchita da volute floreali e racemi che si dipartono dal medaglione stesso (Fig.7). Vi sono poi i dittici con cornucopia probabilmente destinati a quei beneficiari che, non avendo potuto partecipare alle feste e ai banchetti organizzati dal console in tale occasione, ricevevano simbolicamente la propria sportula90(Fig.8). Infine un’ultima tipologia è costituita dai dittici con tribunal,
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Per le informazioni riportate in tale paragrafo in relazione ai dittici di Areobindo, si veda il significativo apporto di: R Delbruek (DELBRUEK 2009), p. 199-209; V. Mariotti, Gli spettacoli in epoca tardoantica. I dittici come fonte iconografica, in M. David (DAVID 2007). 89 Le classificazione di seguito riportata si rifà a quella proposta da R.Delbruek (DELBRUEK 2009). 90 In questo caso il termine viene utilizzato nel suo significato originario di “piccolo cesto” carico di frutta e altri generi alimentari, che i romani usavano durante i banchetti. In epoca tardoantica tuttavia, la parola sportula risulta principalmente impiegata per indicare un donativo, costituito da un cesto di viveri o più frequenemente da una piccola somma di denaro, che i personaggi più importanti della società concedevano ai loro clienti o
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nei quali la decorazione si articola su due livelli, presentando, partendo dall’alto, il console seduto sulla sella curulis al centro del tribunal e i ludi di cui sarebbe stato editore. Ai fini di comprendere l’importanza rivestita dalle venationes, la loro persistenza e l’evoluzione che esse subirono in epoca tardoantica, ci si concentrerà principalmente sull’analisi di quest’ultima particolare classe di manufatti. Dei dittici in avorio con tribunal attribuiti al console Areobindo, sono giunti sino ai nostri tempi tre esemplari, per un totale di cinque valve in tutto: le due valve del dittico conservato a Zurigo al Landesmuseum (Fig. 9); quella di Besançon (Fig. 10) e le due valve appartenenti a uno stesso dittico, conservate tuttavia separatamente a Parigi, nel Musée de Cluny (Fig. 11.a) e a San Pietroburgo, al museo dell’Ermitage (Fig. 11.b). Osservando tali esemplari, un elemento che appare fin da subito evidente è la presenza di un medesimo schema compositivo di riferimento, basato su una decorazione che si articola su due livelli. Per quello che concerne il registro superiore, il soggetto raffigurato occupa circa i 2/3 dell’altezza complessiva e si ripresenta costantemente con le stesse caratteristiche in tutte e cinque le valve. Partendo dalla sommità, subito sotto la cornice, viene posta la tabula ansata con un’iscrizione recante sulla valva del verso, il nome del console (Flavius AREOBindus DAGAlaifus AREOBINDVUS Vir Inlustribus), mentre su quella del recto, i suoi titoli (EX Comite SACri STAbuli ET Magister Militum Per Orientem EX Consule Consul ORdinario). Al centro della composizione viene raffigurato il console Areobindo, seduto su una sella curulis con zampe e protomi leonine en face con anelli pendenti dalle fauci, affiancata da due Vittorie stanti, che reggono, sopra le loro teste, dei clipei con il ritratto del console stesso91. Il magistrato poggia i piedi su una sorta di suppedaneo di forma squadrata e reca inoltre le insegne consolari simbolo del proprio potere, tra cui spicca lo scettro, tenuto saldamente nella mano sinistra. Tale scettro si presenta leggermente rastremato verso il basso, dotato di un pomello nella parte inferiore e di un capitello corinzio all’estremità opposta, sopra il quale è collocata un’aquila inserita in una corona d’alloro. È interessante tuttavia notare che, sulla sommità di tale oggetto, la statuetta loricata dell’Imperatore con lancia e scudo, viene sostituita unicamente nella valva conservata al museo dell’Ermitage con un gruppo rappresentante la consegna dei codicilli al console da parte dell’imperatore.
collaboratori per ricompensarli del loro sostegno (Cfr. Enciclopedia italiana Treccani, Ist. Enciclopedia Italiana, 2009). 91 A tal proposito, l’analisi comparata dei dittici consolari di epoca tardoantica, ha messo in evidenza come generalmente le Vittorie compaiono quando il dittico fa riferimento a un generale. Ecco quindi spiegata la loro presenza nei dittici di Areobindo, detentore non solo della carica di console, ma anche di magister militum (cfr. DELBRUEK 2009).
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Alle spalle del personaggio principale, in posizione leggermente più arretrata, si scorgono due giovani vestiti con la clamide92, che sono stati interpretati come semplici funzionari minori o parenti del console. Tali figure si inseriscono all’interno di un ambiente ben definito costituito dal tribunal, delimitato in alto dalla tabula ansata, ai lati da due colonne con capitelli corinzi, di cui vengono messe in evidenza tre foglie d’acanto sporgenti, e in basso dalla sezione semicircolare dell’arena in cui i giochi avrebbero avuto luogo, bordata dal parapetto degli spalti da cui si affacciano i busti di alcuni spettatori. Al di là di queste analogie, è possibile tuttavia notare che, se i registri superiori dei dittici conservati a Zurigo e a Besançon presentano uno stile pressoché identico (Fig. 12.A), le valve di Parigi e di San Pietroburgo (Fig. 12. B e C), mostrano una maggiore cura e attenzione nella resa dei dettagli, tale da consentire di ipotizzare la presenza di due eborarii distinti. Tali differenze a livello stilistico si notano soprattutto in relazione: al suppedaneo della sella curulis, che può presentarsi liscio, a linee trasversali o con una decorazione di gemme preziose; all’ambiente in cui le figure si inseriscono, che risulta più minuziosamente definito negli esemplari di Parigi e di San Pietroburgo, dove la nicchia del tribunal viene delimitata ai lati da due colonne tortili collegate tra loro da un primo arco, che riprende l’andamento curvilineo del capo del console, e poggianti su un secondo arco, sotto il quale si colloca l’ingresso dell’arena; infine ulteriori differenze si riscontrano nel motivo decorativo che caratterizza la tunica del magistrato, che pur presentando in tutti e tre gli esemplari alcuni elementi comuni (quali fiori clipeati o inseriti in rettangoli e rombi), non fa riferimento a uno schema ornamentale prestabilito ma viene realizzata a seconda del gusto dell’artista. A questa sorta di “standardizzazione” che si riscontra nei registri superiori, corrisponde invece una grande varietà delle scene rappresentate in quelli inferiori, la cui analisi ha consentito di ricostruire, quasi per intero, il programma dei giochi previsti dal console per l’occasione. Si procederà pertanto a un esame più dettagliato dei singoli dittici citati, in modo da metterne ancor più in evidenza il loro valore quali testimonianza delle venationes di epoca tardoantica. Per quello riguarda l’esemplare conservato a Zurigo, il registro inferiore della valva del recto (Fig. 13. A), offre una chiara testimonianza di quei “giochi pericolosi” di destrezza con gli animali che, come sottolineato nei paragrafi precedenti, vengono menzionati da Cassiodoro nelle Variae tra gli spettacoli più popolari del suo tempo (v. infra 2.2). Posti su due diversi livelli, si dispongono un totale di sei uomini-acrobati e tre orsi, racchiusi in uno spazio 92
La clamide era una sorta di corto mantello di lana leggera che gli antichi romani portavano come indumento sia civile sia militare sopra la tunica e che si allacciava su una spalla con una fibbia, lasciando scoperto un fianco e un braccio.
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delimitato in basso dalla cornice del supporto scrittorio, in alto dal parapetto degli spalti e ai lati dalle porte massicce e leggermente aperte verso l’esterno delle gabbie da cui uscivano gli animali. Al livello inferiore, partendo da sinistra, un primo acrobata tenta di sfuggire invano con un salto a un orso che si appresta ad azzannarlo. Un secondo viene raffigurato nell’atto di agitare un cerchio, forse nella speranza di distrarre la belva che, all’estrema destra, afferra il polpaccio di un terzo acrobata, rappresentato nel vano tentativo di proteggersi dietro la cochlea93. La raffigurazione presente al livello superiore, consente invece di mettere in evidenza altri due espedienti impiegati frequentemente dai venatores per proteggersi dall’attacco delle fiere. Alle spalle di un acrobata sospeso a mezzaria e azzannato per un piede da un orso, si nota infatti un muro di conci in pietra, identificabile con il toichobates94, su cui gli uomini potevano arrampicarsi per mettersi in salvo. Ai lati di tale struttura, sulla sinistra, trovano inoltre testimonianza iconografica quegli oggetti definiti dal Delbruek quali “spauracchi dei gladiatori”95. Si trattava di una sorta di spaventapasseri in paglia, dotati di corazza e elmo sferico con visiera, dietro ai quali potevano nascondersi gli acrobati. Negli spazi tra le figure, si possono distinguere infine piccoli piatti rotondi o rettangolari da interpretare come i doni riservati ai vincitori dei giochi. Il registro inferiore della valva del verso (Fig. 13. B) presenta invece una tradizionale scena di venatio, in cui, su due livelli distinti, quattro venatores dotati di lancia combattono nell’arena con altrettanti leoni. L’analisi comparata di tali figure con quelle della valva precedentemente descritta, consente di mettere in evidenza alcune sostanziali differenze, relative soprattutto all’abbigliamento tipico di coloro che prendevano parte a questo genere di spettacoli. Se generalmente gli uomini-acrobati protagonisti dei giochi di destrezza con gli animali indossano la cosiddetta “tunica degli artisti”, non cinta in vita e senza maniche, in modo da essere più agevolati nei movimenti, i veri e propri venatores presentano invece una lorica di cuoio, a manica lunga da un lato e aperta dalla spalla in giù dall’altro, e delle fasce di protezione per le ginocchia (fasce crurales). L’uomo che nella registro inferiore della valva del verso viene rappresentato alle spalle dei combattenti con una lunga tunica manicata, non rifacendosi a nessuna di queste due tipologie, è stato interpretato probabilmente come un guardiano di animali proveniente dalla classe servile. Ad ogni modo anche in questo caso, come nella valva del recto, sono chiaramente visibili, ai lati della composizione, le porte semiaperte delle gabbie, il parapetto degli spalti, che tuttavia si
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Per la definizione di cochlea v. infra 2.2. Un’attestazione di questo particolare espediente può essere offerta da Claudiano (cfr. Claud., Pr. Manilio Theod. Consuli, v. 309-311). 95 DELBRUEK 2009, p. 159. 94
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contraddistingue per una resa più accurata dei montanti e delle assicelle oblique incrociate che lo compongo, e un dono per i vincitori dei giochi. Per quello che riguarda l’esemplare di Besançon, nel registro inferiore dell’unica valva conservatasi sino all’epoca attuale (Fig.14), viene invece rappresentata la scena della distribuzione dei premi ai venatores vincitori. L’episodio ha luogo nell’arena, come si comprende dalla presenza delle porte laterali semiaperte delle gabbie e dalla sua collocazione sotto il parapetto degli spalti. In primo piano, a partire da sinistra, il giudice dei giochi stringe con una mano uno scettro dotato di pomello all’estremità, mentre con l’altra si accinge a incoronare un venator inginocchiato. In secondo piano, all’estremità di destra, un combattente armato di giavellotto attende il proprio turno, mentre sul lato opposto uno dei vincitori, già ottenuta la corona d’alloro, attende a sua volta pazientemente la fine della celebrazione. Tra queste due figure, si inserisce un terzo venator che, come il personaggio in basso a destra, si rivolge direttamente agli spettatori, ostentando la vittoria conseguita salutando e mandando baci al pubblico. Tra le figure si inseriscono ancora una volta, ma in numero nettamente superiore rispetto alle raffigurazioni analizzate in precedenza, i premi per i vincitori dei giochi, tra cui si riescono a distinguere: foglie di palma; ciotole rotonde e piatti circolari o rettangolari, da intendersi in argento, con croci. Le ultime due valve dei dittici pervenutici e attribuiti al console Areobindo, risultano le più affollate. Nel registro inferiore della valva del recto, conservata a Parigi al Musée de Cluny (fig.15), i giochi di destrezza con gli animali si fondono a scene di vera e propria venatio, rappresentata nelle sue molteplici varianti: sulla destra, sia in primo che in secondo piano, trovano posto i combattimenti tra animali, che vedono come protagonisti rispettivamente un leone che azzanna un bovino e un asino selvatico che calcia con le zampe posteriori un orso. Sul lato opposto invece, un venator trafigge un leone avvalendosi di un arma fissata saldamente alla lorica di cuoio, mentre tutt’attorno uomini-acrobati tentano di aizzare le belve feroci lanciando dei piccoli cerchi, o di proteggersi da quest’ultime tramite l’impiego di diversi stratagemmi. Tra questi, oltre al già citato “spauracchio del gladiatore”, visibile nell’angolo in basso a destra, al vertice della composizione del registro inferiore della valva, viene offerta l’unica testimonianza iconografica sin ora attestata dell’espediente definito da Cassiodoro ericius96, costituito da gabbia ovale di canne elastiche, dentro la quale uno dei venatores tenta di proteggersi dall’attacco di un orso. Infine, per quello che concerne il registro inferiore della valva del verso, conservata a San Pietroburgo al Museo dell’Ermitage (Fig. 16), in essa tornano ad essere protagonisti i “giochi 96
V. infra 2.2.
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pericolosi” di destrezza con animali. Tale valva in particolare, per la varietà di soggetti raffigurati, consente di ricostruire quasi per intero il vasto repertorio di accorgimenti utilizzati dai venatores-acrobati durante questo tipo di spettacoli. Disposti su due piani distinti, il dittico presenta un totale di nove acrobati, raffigurati nell’atto di proteggersi o di sfuggire con abilità a quattro belve feroci. Tra questi spicca, dominando il centro della composizione in secondo piano, l’atleta che con un’innaturale torsione del corpo esegue il contomonobolon, ovvero il pericoloso salto sopra la belva tramite un’asta. Alla sua sinistra compare, come nell’esemplare di Zurigo, un personaggio nascosto dietro a quel recinto girevole fissato a un perno centrale, che come sottolineato in precedenza prende il nome di cochlea. In primo piano invece, il dittico offre una testimonianza iconografica di due ulteriori espedienti frequentemente utilizzati durante tali giochi di destrezza. Si tratta del pons, ovvero una sorta di bassa impalcatura sopra la quale si rifugia uno dei venator, e della giostra, costituita da un palo verticale centrale e due laterali, su cui trovano posto due ceste mobili occupate da altrettanti acrobati che, proprio tramite questo particolare accorgimento, si sollevano da terra, scampando all’ultimo minuto dalla belva sottostante. In sintesi è possibile affermare che, dall’analisi complessiva degli spettacoli venatorii rappresentati nei tre esemplari di dittici relativi alla figura del console Areobindo, trova conferma quell’immagine che Cassiodoro aveva offerto di tali spettacoli nelle Variae (v.infra 2.2). La testimonianza iconografica offerta da questi manufatti, consente dunque di supportare l’ipotesi a sostegno dell’idea che, in epoca tardoantica, i veri e propri spettacoli cruenti di venatio si fossero notevolmente ridotti, lasciando uno spazio sempre maggiore ai giochi di destrezza con gli animali, veri e indiscussi protagonisti della decorazione figurata dei dittici del console.
3.2 IL DITTICO DEI LAMPADI Tra i numerosi esemplari di dittici in avorio prodotti in epoca tardoantica e conservatisi sino all’epoca attuale, soltanto due rappresentano vere e proprie scene di corse coi carri. Uno di questi è il dittico dei Lampadi, di cui attualmente si possiede unicamente la valva del recto, conservata al Museo di S. Giulia a Brescia.97 Dal punto di vista cronologico, l’analisi a Per le informazioni di seguito riportate in relazione al Dittico dei Lampadi si veda l’essenziale contributo di: C.Stella, Valva del dittico dei Lampadi, in G. Sena Chiesa – M..Lavizzarri Pedrazzini (G. SENA CHIESA-M. LAVIZZARRI PEDRAZZINI 1990), p.339-340; R. Delbruek (DELBRUEK 2009), p. 341-344; K.S. Painter, La valva del dittico dei Lampadi, in S.Ensoli - E. La Rocca (S.ENSOLI- E. LA ROCCA 2000), p. 445-447. 97
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livello stilistico e il confronto tra tale dittico e altri esemplari prodotti in ambito Occidentale98, hanno consentito di datare il manufatto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Più complessa risulta invece la questione relativa all’occasione e alla figura per la quale il dittico sarebbe stato realizzato; una difficoltà ulteriormente incentivata dal fatto che, essendo andata perduta la valva del verso, non è possibile completare l’iscrizione che corre sulla sommità della rappresentazione. Nella valva superstite, essa riporta il termine [L]AMPADIORVM, elemento che consente quanto meno di collegare il manufatto alla gens dei Lampadii, che si configurò, proprio a partire dalla seconda metà del IV secolo, come una tra le famiglie più importanti dell’alta aristocrazia romana. Alcuni studiosi, considerando proprio il fatto che tale scritta non presenta il nome di un magistrato specifico, ma più generalmente quello della gens di appartenenza al genitivo plurale, hanno avanzato l’ipotesi che il dittico in questione non sarebbe di tipo consolare bensì di carattere privato, realizzato forse in occasione di un matrimonio.99 Tale supposizione sembrò trovare conferma quando, all’interno dell’inventario della cattedrale di Novara, si ritrovò una testimonianza relativa al pannello andato perduto, nella quale si registrava la presenza di un’iscrizione recante il nome di una seconda famiglia tra le più importanti dell’aristocrazia senatoria romana del tempo, ovvero quella dei Rufii. Al di là di questa particolare interpretazione, la maggior parte degli studiosi sembra concorde nel classificare l’opera quale dittico consolare, basandosi soprattutto sull’evidenza che il personaggio protagonista della composizione, presenta tutte quelle insegne proprie di tale carica. Se fu soltanto un membro della famiglia dei Lampadi a rivestire la carica effettiva di console ordinario nel 530 d.C, allora l’unica personalità collegabile al manufatto risulta Postumio Lampadio, nominato consul suffectus100 tra 390401. In questo senso, la presenza sulla sommità delle valve del nome delle famiglie dei Lapadi e dei Rufi, indicherebbe la gens di appartenenza dei due magistrati che rivestirono in questo periodo la carica di console suffetto, mentre i giochi raffigurati rappresenterebbero gli spettacoli da essi organizzati in occasione dello scadere del loro mandato. Travalicando queste incertezze, il dittico dei Lampadi si rifà chiaramente a quella tipologia di dittici con tribunal, nei quali la decorazione si articola su due livelli. Per quello che concerne il registro superiore, partendo dall’alto, come detto in precedenza, il primo elemento che si riscontra è l’iscrizione, mutila alle estremità, recante il nome della gens di
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Tra questi si possono citare: il dittico dei Nicomachi e dei Simmachi (400 d.C); il dittico di Probo (406 d.C) e quello di Felice (428 d.C). 99 STELLA 1990. 100 Nel mondo romano se un console moriva prima di aver terminato il proprio mandato, veniva eletto un sostituto provvisorio, detto console suffetto, che subentrava in carica fino al completamento del mandato stesso.
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appartenenza del console. Considerando che tra l’ultima lettera del appellativo familiare e l’ipotetico margine della cornice del supporto vi sarebbe uno spazio eccessivamente ampio, è possibile supporre che anche in questo caso, come per i dittici di Areobindo, essa fosse contenuta all’interno di una tabula ansata. A dominare il centro della composizione è la figura del magistrato che presiede i giochi, la cui importanza viene sottolineata non solo da quell’impostazione gerarchica tipica dell’arte di questo periodo, ma anche dalla presenza delle insegne consolari simbolo del proprio potere: la caratteristica trabea trionfale, decorata con un semplice motivo di cerchi, rombi e ellissi; la mappa, tenuta saldamente con la mano destra e con la quale ha appena dato inizio alla gara; infine lo scettro, stretto nella mano sinistra, leggermente rastremato verso il basso e costituito nella parte superiore da una sorta di pomello, che reca sulla sommità due figure a mezzo busto di dimensioni diverse. Ai suoi lati trovano posto due funzionari minori, uno più anziano vestito con la trabea di vir consularis, e uno più giovane con la toga di senatore. Tali figure si inseriscono all’interno dello spazio ben definito del tribunal, costituito da tre colonne a fusto liscio con capitelli corinzi, sormontate da un architrave riccamente decorato con un fregio continuo di ovoli e perline. Dagli intercolumni e dall’arco centrale mediano, pendono inoltre ghirlande d’alloro stilizzate. La parte frontale del tribunal è costituita invece da una balaustra ornamentale suddivisa in tre riquadri, incorniciati da listelli dentellati e separati tra loro da quattro pilastrini coronati al vertice da piccole teste101. Alla pacata atmosfera del registro superiore, corrisponde per contro la concitata dinamicità di quello inferiore. In esso viene rappresentata una tipica scena di corsa nel circo in cui quattro quadrighe, secondo quanto previsto da questo tipo di spettacolo, ruotano attorno alla spina obliqua posta al centro dell’arena. Tale barriera ripropone tutti quegli elementi di forte valenza simbolica analizzati in precedenza (v. infra 2.3): l’alto obelisco simbolo dello zenit, posto al centro della spina e ricoperto da geroglifici, privi tuttavia di senso compiuto; le due metae semicilindriche sormontate dai tre coni con le uova e i due trofei con armature, elmi, scudi rotondi, spade e una coppia di prigionieri barbari seduti su sgabelli, che si inseriscono tra questi due elementi principali quali decorazione della spina stessa. Uno degli elementi più originali dell’opera, è rappresentato dell’estrema accuratezza che si riscontra nella resa dei dettagli e che consente di ricostruire, quasi interamente, quale fosse l’equipaggiamento tipico di coloro che prendevano parte a questo genere di spettacoli. Gli aurighi indossano una corta tunica manicata sopra la quale, tramite una serie di cinture intrecciate, viene fissata
Secondo l’interpretazione offerta da R. Delbrueck, si tratterebbe di “teste di germani sbarbati” (cfr. DELBRUEK 2009, p. 342). 101
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al torace una seconda tunica senza maniche che probabilmente aveva il colore della corrispettiva fazione. Sul capo portano un casco, probabilmente di metallo, e se con una mano tengono saldamente le briglie della quadriga, con l’altra reggono una frusta, rappresentata come un semplice bastone terminante con una cinghia avvolta a spirale. I carri invece, sono costituiti da piccole ruote a sei raggi e da un timone al quale sono fissate le cinghie della bardatura dei cavalli. Questi ultimi presentano inoltre sulle cosce posteriori, piccoli segni con caratteristiche diverse tra loro che sono stati interpretati come il marchio della scuderia o dell’allevamento da cui provenivano. Ad ogni modo, la scelta da parte di Lampadio di rappresentare, nel dittico da lui commissionato, non solo una scena di semplice corsa ai carri, ma anche tutta la complessa e ricca simbologia ad essa legata, chiara allusione al mondo pagano, mette in evidenza un certo desiderio di perpetuare i vecchi culti tradizionali nonostante il progressivo diffondersi della nuova cultura cristiana all’interno della società. In un clima di continui cambiamenti e trasformazioni a livello politico, economico, sociale e culturale, quale fu quello di epoca tardoantica, è evidente che dietro questo attaccamento alla tradizione manifestato non solo dalla gens dei Lampadi, ma anche da altre famiglie di rilievo dell’alta nobiltà romana, si celava in realtà il disperato tentativo di difendere la vecchia aristocrazia senatoria e il suo potere che ormai si avviava verso un lento declino.
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Fig.7-Tipologia con medaglione dei dittici consolari in avorio di Areobindo, Costantinopoli, 506 d.C. (Parigi, Museo del Louvre).
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Fig.8 - Tipologia con cornucopia dei dittici consolari di Areobindo, Costantinopoli 506 d.C. (Lucca).
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Fig. 9 - Dittico di Areobindo, Costantinopoli 506 d.C. (Zurigo).
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Fig.10 - Dittico di Areobindo, Costantinopoli 506 d.C. (Besançon).
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a
b
Fig.11 - Dittico di Areobindo, Costantinopoli 506 d.C.: a) Recto, conservato a Parigi nel Musée de Cluny; b) Verso, conservato a San Pietroburgo, nel museo dell’Ermitage.
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A
B
C Fig.12 – Registri superiori dei dittici consolari di Areobindo: A) Verso dittico di Zurigo; B) Recto dittico di Parigi; C) Verso dittico dell’Ermitage. 60
A
B Fig. 13 – Registri inferiori del dittico di Areobindo conservato a Zurigo: A) Valva del recto; B) Valva del verso.
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Fig.14 – Registro inferiore del dittico di Areobindo conservato al Museo di Besançon.
Fig.15 – Registro inferiore della valva del recto del dittico di Areobindo conservato al Musée di Cluny.
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Fig.16 - Registro inferiore della valva del verso del dittico di Areobindo conservato al museo dell’Ermitage.
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Fig.17 - Dittico dei lampadi, Roma 425 d.C. (Brescia). 64
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Dall’analisi del vasto repertorio iconografico offerto dalle rappresentazioni che caratterizzano le facce esterne delle valve dei dittici eburnei di epoca tardoantica, appare evidente quanto gli usi e i costumi tradizionali del mondo romano fossero ancora fortemente radicati all’interno dell’ideologia dell’antica aristocrazia senatoria. In particolare, l’aumento progressivo che si registra, proprio in questo periodo, nel numero di giorni all’interno del calendario romano contrassegnati dalla celebrazione di giochi e spettacoli, sottolinea quanto essi si fossero ulteriormente consolidati, nell’ottica delle famiglie più in vista della società, come un elemento irrinunciabile per ottenere visibilità e prestigio nella cittadinanza e affermare così la propria posizione politica e sociale. Al di là della testimonianza offerta dai dittici eburnei, questo specifico valore attribuito ai ludi trova conferma anche nella produzione artistica privata dell’epoca e in particolare nelle decorazioni pavimentali e parietali delle domus e delle ville, utilizzate a loro volta come strumento fondamentale per esprimere l’identità culturale e il sistema di valori su cui si basava la classe dirigente dell’Impero102. In esse infatti, trovano posto con frequenza sia scene di caccia ( nella duplice accezione di passatempo aristocratico e di allusione all’attività evergetica del proprietario), sia scene relative alle corse coi carri nel circo. Queste stesse immagini ludiche, possono altresì trovare riscontro in ulteriori manufatti di diverse tipologie, quali le semplici suppellettili da mensa, abitualmente utilizzate anche per i banchetti all’aperto103 , o ancora i cosiddetti “contorniati”, degli oggetti in bronzo a forma di moneta, prodotti in un arco di tempo compreso tra IV-V sec. e che generalmente presentano sulla faccia del verso la rappresentazione di episodi leggendari, personificazioni, grandi monumenti pubblici o scene di giochi circensi104. Allo stesso tempo anche per la plebe urbana tali manifestazioni si configurarono sempre più come un momento imprescindibile del vivere cittadino, travalicando il semplice significato di “svago” e assumendo un’importanza fondamentale quali occasioni in cui essa stessa, riunita nella sua collettività, non solo percipiva in maniera
Per un’analisi più approfondita sulle raffigurazioni caratterizzanti domus e ville tardoantiche si veda F. Guidetti (GUIDETTI 2013) e S. Trombetta (TROMBETTA 2008). 103 In proposito un esempio può essere costituito da un piatto in argento del tesoro del Seuso, databile tra IVV sec., nel cui medaglione centrale trovano posto scene di caccia e banchetto ( cfr. BUSATTO 2004). 104 Proprio la frequente ricorrenza di temi ludici, ha consentito di ipotizzare che tali manufatti potessero essere utilizzati come: premi per i vincitori dei giochi; tessere di ingresso per gli spettacoli; amuleti legati al contesto circense o ancora come una sorta di pedine per i giochi da tavolo. Per informazioni più specifiche sull’interpretazione e il significato dei contorniati, si veda il significativo contributo di S. Mazzarino (MAZZARINO 1959, p. 784-791).
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tangibile la propria appartenenza alla comunità civica e dunque la sua identità, ma aveva anche la possibilità di esprimersi liberamente e avanzare le proprie rivendicazioni. Se dunque si potrebbe affermare che vi sia una sorta di continuità in termini di peso politico tra i ludi tardoantichi e quelli di epoca precedente, gli spettacoli del tardo impero, da un punto di vista qualitativo, devono tuttavia intendersi come profondamente mutati rispetto alle origini. Dopo la crisi del III secolo, la successiva divisione dell’Impero, i costi sempre più elevati previsti dalla legislazione imperiale per l’edizione dei munera, uniti alla sempre maggiore difficoltà di entrare in possesso di fiere e animali esotici, determinarono, per esempio, la fine delle grandi cacce anfiteatrali del passato e la loro sempre più frequente sostituzione con i più pacati, ma altrettanto pericolosi, spettacoli di destrezza. A tali fattori di tipo politico e economico, se ne aggiunsero tuttavia altri di tipo religioso e culturale, legati più strettamente al grande cambiamento morale che si manifestò in tutto il popolo romano con la progressiva diffusione dei nuovi valori proposti dal cristianesimo. Al di là delle aspre critiche di cui i ludi furono oggetto non solo da parte degli apologisti cristiani, ma anche da parte dei moralisti pagani di cultura ellenica, fu il pubblico stesso, avvicinatosi ai principi della nuova dottrina cristiana, a non riconoscersi più in quegli ideali, legati fortemente al mondo pagano, che tali giochi rappresentavano. La coesione di tutti questi elementi, si rivelerà quel fattore decisivo che, entro la metà del VI secolo, determinerà la fine di tutte quelle forme di spettacolo che per secoli avevano scandito i ritmi della vita cittadina del popolo romano.
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CONTRIBUTI PER LE IMMAGINI Fig.1 - Esempi delle principali tipologie di dittici di epoca tardoantica. a) Dittico di Sividio. M. David 2007, Eburnea diptycha. I dittici d’avorio tra antichità e Medioevo, Bari: b) Dittico di Felice. http://www1.unipa.it/dipstdir/pub/purpura/barletta/11.html; c) Dittico di Areobindo. https://it.wikipedia.org/wiki/Areobindo_Dagalaifo_Areobindo; d) Avorio Barberini. https://it.wikipedia.org/wiki/Avorio_Barberini; Fig.2 - L’india nella tabula peutingeriana. https://blogs.law.harvard.edu/cqtwo/2009/03/14/cranganore-is-indias-edessa/; Fig.3 - La personificazione nell’India nel mosaico della “Grande caccia”. http://www.italia.it/siti-unesco/villa-romana-del-casale-piazza-armerina.html; Fig.4 - Rappresentazione dell’India nella carta di Abram τrtelius (1527-1599), con l’indicazione delle località citate nel Periplo. https://it.wikipedia.org/wiki/Periplus_Maris_Erythraei; Fig.7 - Tipologia con medaglione dei dittici consolari di Areobindo. https://it.wikipedia.org/wiki/Imago_clipeata; Fig.8 - Tipologia con cornucopia dei dittici consolari di Areobindo. http://www.comune.lucca.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/7481; Fig.9 - Dittico di Areobindo (Zurigo, “Landesmuseum”). R. Delbruek 2009, Dittici consolari tardoantichi, M. Abbatepaolo (a cura di), Bari, tav. 9, pag. 477; Fig.10 - Dittico di Areobindo (Besançon). R. Delbruek 2009, Dittici consolari tardoantichi, M. Abbatepaolo (a cura di), Bari, tav. 10, pag. 478; Fig.11 - Dittico di Areobindo, Costantinopoli 506 d.C. a) Dittico di Areobindo (Parigi, “Cluny”). https://it.wikipedia.org/wiki/Areobindo_Dagalaifo_Areobindo; b) Dittico di Areobindo ( San Pietroburgo, “Ermitage”). https://www.hermitagemuseum.org; Fig. 12 - Registri superiori dei dittici consolari di Areobindo.
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A) Verso dittico di Zurigo. R. Delbruek 2009, Dittici consolari tardoantichi, M. Abbatepaolo (a cura di), Bari, tav. 9, pag. 477; B) Recto dittico di Parigi. https://it.wikipedia.org/wiki/Areobindo_Dagalaifo_Areobindo; C) Verso dittico dell’Ermitage. https://www.hermitagemuseum.org; Fig. 13 Registri inferiori del dittico di Anastasio conservato a Zurigo. A) Valva del recto. ; B) Valva del verso. R. Delbruek 2009, Dittici consolari tardoantichi, M. Abbatepaolo (a cura di), Bari, tav. 9, pag. 477; Fig.14 Registro inferiore del dittico di Areobindo conservato al Museo di Besançon. R. Delbruek 2009, Dittici consolari tardoantichi, M. Abbatepaolo (a cura di), Bari, tav. 10, pag. 478; Fig.15 Registro inferiore della valva del recto del dittico di Areobindo conservato al Musée di Cluny. https://it.wikipedia.org/wiki/Areobindo_Dagalaifo_Areobindo; Fig. 16 Registro inferiore della valva del verso del dittico di Areobindo conservato al museo dell’Ermitage. https://www.hermitagemuseum.org; Fig. 17 Dittico dei Lampadi, Roma 425 d.C. (Brescia). https://it.wikipedia.org/wiki/Dittico_dei_Lampadi.
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INDICE DEI PASSI COMMENTATI O CITATI Ammiano Marcellino (Amm. Marcel.) 28,4 Cassio Dione (Dio Cass.) LXVI, 24. Cassiodoro (Cass.) Variae V, 42. Cicerone (Cic.) In Vatinium oratio, 37. Claudiano (Claud.) Pr. Manilio Theod. Consuli 309-311. Codice Teodosiano (Cod. Theod.) 4,7; 6,4,6; 6,4,25; 15,9,1. Cosma Indicopleuste (Cos. Indic.) XI, 1-2; 13. Dione Crisostomo (Dio. Chrys) Orat. 79,4. Dionigi di Alicarnasso (Dion. Hal.) VII, 72-73. Editto dei prezzi massimi (Edictum de pretiis rerum venalium) 16, 10-12.
Euripide (Eur.) Tro. 278-287. El. 1238- 1240. Iph. Tau. 241-245.
Giovenale (Iuv.) XII, 102- 108. Livio (Liv.) Ab urbe condita I, 9; XXXIX, 22. Marziale (Mart.) Ep. 14, 3; 22, 5; 43,9.
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Omero (Hom.) Od. 13, 221-224. Il. 1, 458-461 Ovidio (Ov.) Rem. 667. Periplo del Mare Eritreo ( Periplous Maris Erythraei) 4. Plauto (Plaut.) Curc. 345-348 Plinio il Vecchio (Plin.) Nat. Hist. VIII, 1, 1; VIII 1, 4-8; VIII 1,31; IX, 40; XIII, 29. Simmaco (Symm.) Epist. 2,81; 4,58; 5,56 ; 7,76. Strabone (Strab.) Greogr. XVI, 771-5. Svetonio (Svet.) Iul. 10; 39. Aug. 27, 4; 43. Tit. 7. Tertulliano (Tert.) De Spect. VIII; IX; XXVII.
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