Lo spirito della liturgia. I santi segni [Paperback ed.] 9788837216054


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Lo spirito della liturgia. I santi segni [Paperback ed.]
 9788837216054

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OPERE DI ROMANO GUARDINI

ROMANO GUARDINI

LO SPIRITO DELLA LITURGIA I SANTI SEGNI

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera: Vom Geist der Liturgie (1918) Von heiligen Zeichen (1922) © Matthias Grünewald Verlag - Mainz 1927 © Verlag Ferdinand Schöningh - Paderborn © Tutti i diritti d'autore sono della Katholische Akademie in Bayern

Traduzione di Mario Bendiscioli © 1930 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

Decima edizione: settembre 2005

www.morcelliana. it

ISBN 88-372-1605-X Tipografia Camuna S.p.A. - Filiale di Brescia, Via A. Soldini 25

Lo spirito della liturgia

PREFAZIONE ALLA Q U A R T A EDIZIONE ITALIANA

Quando nel 1919 venne pubblicato in Germania questo saggio di Guardini su lo Spirito della liturgia, il movimento liturgico stava pericolosamente attraversando la sua crisi di adolescenza secondo le grandi leggi della vita: la legge della crescita, della complessità, della lotta con l'ambiente. Le opposizioni provenivano da ogni direzione: dall'interno del mondo religioso e dall'esterno, dalla cultura, dalla pietà, dal mondo dell'azione. La natura e il serrarsi delle forze avverse indusse qualcuno a definire il movimento liturgico: primavera senza estate. Il contesto umano del primo ventennio del XX secolo concorreva fortemente a rendere più probabile simile profezia di sterilità e di morte. In realtà l'umanità stava generando nella pena un'epoca nuova nella quale l'uomo aveva cessato di guardare a Dio per concentrarsi esclusivamente sopra se stesso convinto di poter, in tal modo, meglio usufruire di tutte le sue possibilità in vista di un compimento del suo destino terrestre. L'uomo – non più Dio – diveniva il centro d'interesse della vita; ma – un uomo non più rassegnato e alienato nella propria indigenza metafisica, ma deciso a diventare: autocreatore e autoredentore. Questa la nota specifica della nuova epoca: l'uomo si spogliava del divino e quindi dell'eterno. Difatti una nuova dimensione si era fatta strada fino a divenire predominante: l'istante: un 9

tempo nel quale il passato non è definitivamente finito, né l'avvenire così incerto, né il presente così fluido. L 'istante divenne, nella febbre del vivere, un momento con valore e intensità esteme. In tale atmosfera invadente, quale senso e importanza poteva avere per l'ambita promozione dell'uomo, un mondo immobilista e crepuscolare di simboli e di riti? Quale comunicazione possibile tra un 'era specificata dalla velocità afferrante anime e corpi, e la liturgia gelosa non solo dell'immobilità del sacro, ma ancora della lingua, del gesto, del simbolo che lo esprimono? Tali interrogativi non provenivano da un mondo troppo radicato e deciso nella sua nuova esperienza laicizzatrice dell'universo, ma dallo stesso mondo credente dominato da un complesso d'inferiorità, ossessionato dalla statura e armatura del mondo contemporaneo – troppo dimentico della propria fionda e delle cinque bianchissime pietre che brillavano nel torrente. Allora due correnti si delineavano, due correnti intercomunicanti e integrative l'una dell'altra, perché l'una forniva il braccio al regno di Dio e l'altra la coscienza. L'una e l'altra possedevano verità e forze ma avulse dal tutto. L'una vide una nuova sacralizzazione del mondo mediante l'azione, cioè attraverso la compenetrazione graduale del mondo della potenza nei suoi vari settori: quello del denaro, della tecnica, del potere, del divertimento, della cultura – l'altra invece cercò forza e rifugio in nuove forme di spiritualità. Si è pensato: l'uomo che va in Chiesa trova nel culto un muro di nebbia: segni, parole, lingue del passato; e allora perché non cercare vie a Dio più semplici, più vicine alle umili esigenze dell'uomo della strada? Ne venne una germinazione spontanea di devozioni, di spiritualità, di paraliturgie, non tutte di eguale valore, né condannabili in sé perché espressione della inalienabile libertà delle anime nelle forme di accesso a Dio; ma tutte con-

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correvano ad allontanare dalla via maestra della liturgia, tutte si sovrapponevano a essa fino a soffocarla nel suo centro, nel suo ciclo, nel suo spirito, nei suoi insuperabili apporti di verità, di pietà, di efficacia, di bellezza. Spesso tale devozionismo si spinse e si spinge – secondo il rinnovato monito di Giovanni XXIII – a mettersi in contrasto proprio con i tre primi precetti del decalogo. Solamente il rinnovamento degli studi biblici, storici, patristici, ecclesiastici, indusse molti studiosi, nella seconda metà del secolo scorso, a riesaminare l'immenso patrimonio liturgico che le abbazie benedettine avevano non solo custodito, ma amorosamente tradotto in vita nel loro mirabile colloquio quotidiano con Dio. E di tale patrimonio si cominciò a precisare il nucleo essenziale iniziale, gli sviluppi logici e vitali, le sovrapposizioni e deformazioni di uomini e di tempi più intenti ad allargare il culto della personalità che il culto di Dio. Questo lavoro di indagine critica e di approfondimento della sapienza liturgica si incontrò con la grande ansia pastorale del XX secolo. L'azione non radicata nella rivelazione disperdeva pecore e agnelli – il devozionismo cresciuto fuori della grande tradizione orientale e occidentale creava un cristianesimo facile per il quale tutto diventa centro al di fuori del solo centro quod positum est – nel quale l'io porta tutte le sue impurità a danno della vita ecclesiale impoverita ed esangue. Di qui nacque l'interrogazione accorata dei pastori: perché il grande culto tradizionale che ha formato, nutrito, cresciuto generazioni eroiche oggi è arrivato a tal punto di estraneità e di opacità per gli uomini del XX secolo? Perché l'autentico mistero della Parola del Sangue di Cristo non realizza più la salvezza del mondo? La risposta venne dallo studio e dall'esperienza, dall'università e dalla parrocchia, dallo Spirito che non cessa di animare la Chiesa e dallo zelo per la casa di Dio che bruciava nel cuore 11

di pastori d'avanguardia: perché epoche di staticità e di stanchezza hanno rifiutato ogni fatica di adattamento del culto a un 'umanità che, pure restando identica a se stessa, non cessa di mutare e di evolversi secondo la legge del tutto – perché troppi rubricismi chiusi in se stessi hanno soffocato il culto in ispirito e verità quale venne profetato a Sicar e precisato a Corinto da Paolo: «Pregherò con lo spirito ma pregherò anche con l'intelligenza – canterò inni con lo spirito ma canterò pure con l'intelligenza». Così in ambiente turbato e polemico – tra archeologi immobilisti e innovatori ignari del punto di arrivo delle loro riforme – tra giocolieri e dilettanti del divino e spiriti sprezzanti e diffidenti d'ogni gesto esteriore – tra individualisti che guardano al divino solo per mezzificarlo al servizio del proprio egoismo, egregaristi solo assertori di un 'assemblea ove ogni slancio personale a Dio è eliminato, tra materialisti del rito e spiritualisti che non scoprono che impurità in ogni incarnazione – in tale ambiente problematico e arroventato appare quest'opera di Guardini. Ora, dopo quarantanni se ne può misurare la profondità e l'equilibrio, la preveggenza nel segnalare gli scogli del movimento liturgico, la sua capacità di centrare i problemi e di formulare nel linguaggio, e nelle inquadrature del nostro tempo. Guardini ha così efficacemente concorso ad attirare l'elemento colto verso la lingua scoprendo in essa non qualche cosa di marginale ma di essenziale nel cristianesimo. La liturgia introduce l'intera ampiezza della verità nella preghiera; anzi essa non è che dogma pregato, verità vissuta pregando. Quindi un ordine domina nella liturgia, ordine spesso violato e misconosciuto: il primato del Lògos sull'Ethos; non primato dell'estetico, ma del salvifico. La liturgia è vita divina per Cristo affluente negli uomini e vita umana per Cristo affluente al Padre. Tutto l'anno li12

turgico segna, per la liturgia, tale duplice meditazione ascendente e discendente del Cristo: «problema spietatamente serio della salute eterna». Ma tale salvezza viene realizzata mediante un continuo processo d'incarnazione e di espressione, cioè di passaggio al mondo invisibile attraverso la ricchezza del mondo visibile. Di qui la difficoltà, la delicatezza, il pericolo di ogni realizzazione liturgica: tutta la realtà divina deve tradursi in apparenza espressiva: «che sia detto tutto quanto deve essere detto e niente più; che siano impiegati tutti gli elementi formali che necessitano e solo questi; che nulla di inespressivo, morto, vuoto rimanga nella figura esteriore bensì tutto vi risulti animato e parlante, che ogni nota, ogni parola, ogni superficie, colore, movimento obbedisca a una esigenza interiore, contribuisca alla rivelazione del contenuto complessivo – e costituisca con gli altri un'unità matura e senza suture». Ora il movimento liturgico è entrato infuse di maturità: «segno di disposizioni provvidenziali di Dio per il nostro tempo e della presenza dello Spirito Santo nella Chiesa» (Pio XII). La sua maturità si misura dalla dimensione conferita alla liturgia nel Concilio Vaticano II in confronto ai precedenti concilii. Perché indagini ed esperienze hanno dimostrato il rapporto profondo tra liturgia e vita ecclesiale: la Chiesa si esprime nella sua liturgia che è il suo atto salvifico per eccellenza – ma soprattutto perché al movimento liturgico ha portato la sua adesione l'aristocrazia del mondo missionario. Nel grande congresso di studio della liturgia missionaria tenuto a Nimega nel '59 si è affermato: «Ciò che importa è di condurre il mondo a Dio: per conseguenza tutti gli sforzi devono essere orientati verso il culto del Padre che prende la sua forma concreta dalla Chiesa». Per questo il mondo missionario chiede una grande opera di adattamento che afferri non la superficie ma le profondi-

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tà dell'anima dei vari popoli. Per questo la liturgia è in cerca di vie di comunicazione tra Cristo e tutto ciò che vi è di autenticamente umano anche fuori della civiltà occidentale. Un altro segno dei tempi – uno dei più specifici dell'epoca contemporanea – mette in luce l'importanza della liturgia per la ripresa del colloquio degli uomini con Dio. Il nostro mondo è il mondo che ha sostituito l'immagine al ragionamento. Non si tratta qui di giudicare ma di constatare. Oggi la concezione della vita, la sua effettiva orientazione deriva dall'immagine. Forse dopo orge di astrazioni, l'uomo ha creduto questa la sola via per ritornare al reale. Così il cinema è divenuto il più formidabile strumento per la comunicazione universale delle idee, – per la sua tecnica meravigliosa che fonde visione, suono, colore, ritmo, parola, che, attraverso il doppiaggio, comunica con tutte le razze. Vera arte che ha saputo realizzare la sintesi più completa e accessibile alle mentalità più diverse. La sapienza liturgica ha preceduto da secoli quest'arte di sintesi, non per esprimere la storia della perdizione ma la storia della salvezza. Sono finite le sue divine e umane possibilità? Guardini, tra i primi, i più veggenti, non esita a rispondere: no; perché la liturgia è Cristo operante nel tempo e nello spazio, e dove è Cristo non vi è perdizione. Brescia, luglio 1961 Giulio Bevilacqua

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CAPITOLO PRIMO LA PREGHIERA LITURGICA

Un antico detto teologico afferma: «La natura e la grazia non fanno nulla indarno». La natura e la grazia hanno le loro regole. Vi sono, cioè, alcuni presupposti determinanti che condizionano la sanità, la crescita, la fioritura della vita spirituale sia naturale che soprannaturale. Queste leggi possono essere violate in casi particolari, quando lo giustificano ovvero lo scusano una veemente emozione, una grave necessità, una costituzione psichica singolare, un grande scopo o qualcosa di simile. Ma, a lungo durare, questo non avviene impunemente. Allo stesso modo che la vita del corpo intristisce ed entra in crisi quando le condizioni preliminari del suo sviluppo vengono a lungo trascurate, così avviene della vita dello spirito e della religione: essa intristisce, perde la sua freschezza, la sua forza, la sua unità. Questo vale poi specialmente nella vita religiosa di una comunità ordinata da una regola. Nella vita dei singoli l'eccezione ha ancora grande spazio per intervenire. Non appena, però, viene in questione l'attività d'una collettività di persone, non appena s'ha a che fare con concrete istituzioni, pratiche, preghiere, che disciplinano il complesso permanente degli atti di pietà comuni, allora assurge a problema d'esistenza 15

per la vita di questa comunità il fatto che le leggi fondamentali della sana vita naturale e soprannaturale vi vengano rispettate o no. Non sono più, infatti, in questione forme d'atteggiamento religioso, che devono soddisfare un bisogno religioso soltanto momentaneo, bensì istituzioni durature, che esercitano di continuo il loro influsso sull'atteggiamento religioso delle anime. Esse non devono tanto dar espressione a uno stato d'animo del tutto singolare, quanto soddisfare le esigenze della media vita religiosa quotidiana. Esse rappresentano la forma della vita spirituale non di una persona, che ha un determinato temperamento, bensì di una comunità in cui sono rappresentati i più vari temperamenti. Riesce pertanto chiaro che ogni errore costruttivo si farà sentire con inesorabile necessità. Da principio esso può ben essere nascosto dalle circostanze particolari, da emozioni, da esigenze speciali, che hanno suscitato la forma corrispettiva di atteggiamento religioso. Man mano, però, che queste vengono meno e si ristabilisce la condizione di spirito normale, anche quel difetto intrinseco emerge con forza progressiva, agendo, quale elemento perturbatore, in ampiezza e profondità. Quelle condizioni fondamentali appariranno nella maggiore limpidezza là dove la vita religiosa di una grande comunità potè svilupparsi in un lungo periodo di tempo. Qui le intime leggi della vita avranno quindi avuto il tempo necessario per potersi affermare pienamente. Nella vita comune di uomini dal temperamento più diverso, appartenenti a differenti ceti sociali, forse anche di nazionalità diversa, nel corso di epoche storicamente e culturalmente differenti, ciò ch'è casuale, ch'è singolare, sarà fino a un certo grado 16

venuto meno, e l'universale, il necessario sarà emerso: la forma adeguata dell'atteggiamento religioso si sarà oggettivata. L'espressione perfetta di una siffatta disciplina della vita religiosa, è offerta concretamente dalla liturgia della Chiesa cattolica. Essa si è potuta sviluppare katà toû ólou, cioè da ogni lato, secondo il tempo, il luogo e tutte le forme della civiltà. In tal caso essa viene a costituire pure la migliore guida per la vita ordinaria, per l'ordine essenziale della vita religiosa comune 1 . Il significato della liturgia deve pertanto essere meglio definito. E innanzitutto è da stabilire in quale rapporto esso stia con la vita religiosa non liturgica. Lo scopo prossimo e specifico della liturgia non è quello di dar espressione al culto individuale di Dio: essa non deve edificare il singolo come tale, suscitare ed educare la sua vita religiosa. Nella liturgia non è il singolo che agisce e che prega. E neppure il complesso di una molteplicità di persone, come potrebbe essere la riunione in una chiesa, di una «comunità», quale mera unità nel tempo, nello spazio, nei sentimenti. Il 1. Non è casuale che il «Papa religioso» abbia messo mano così decisamente al riordinamento della liturgia. Il rinnovamento religioso generale non farà passi in avanti fino a che la liturgia non avrà riavuto il posto che le spetta. Anche il movimento eucaristico potrà svolgere la sua auspicata efficacia solo se si manterrà in stretto contatto con la liturgia. Lo stesso Papa che ha emanato il decreto per la comunione frequente ha pure detto: «Voi non dovete pregare durante la Messa, voi dovete fare della Messa la vostra preghiera!». Solo quando la Comunione è intesa e praticata nello stesso modo in cui l'intende e la pratica la liturgia, essa può avere quell'efficacia che se ne riprometteva Pio X per il rinnovamento religioso del mondo. (Allo stesso modo che l'efficacia morale dell'Eucarestia può essere dispiegata pienamente solo quando essa sia messa in relazione con i compiti concreti della vita sociale e familiare, della carità cristiana e del proprio lavoro professionale.)

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soggetto, l'io, della liturgia è piuttosto l'unione della comunità credente come tale, è qualcosa che trascende la semplice somma dei singoli credenti, è insomma, la Chiesa. La liturgia è il culto ufficiale e legale della Chiesa e viene praticato e diretto da ministri da essa scelti e incaricati appositamente di ciò, i sacerdoti. In essa, Dio deve essere venerato dall'unità sociale religiosa come tale, e questa in tale venerazione e per tale venerazione deve essere «edificata». È assai importante intendere questo carattere essenziale e oggettivo della liturgia; qui infatti si distingue il concetto cattolico del culto comunitario dalla concezione protestante prevalentemente individualistica. Che poi il singolo credente, proprio dal suo immergersi in questa superiore unità, venga intimamente e specificamente liberato ed educato, questo ha il suo fondamento nella natura individuale e sociale insieme dell'uomo. Accanto alle forme di devozione strettamente rituali, del tutto oggettive, ve ne sono altre in cui il momento soggettivo si presenta con maggior forza. Queste sono le «devozioni popolari», ad esempio le preghiere pomeridiane dei libri di Chiesa, le devozioni per luoghi, tempi, circostanze determinate, ecc. Esse portano assai più l'impronta del tempo particolare e dell'ambiente, sono espressione immediata delle speciali caratteristiche della comunità. Per quanto in ogni caso più universali e oggettive che le preghiere affatto private dei singoli, tuttavia sono pure a loro volta più particolari, più «private» della preghiera della Chiesa, della liturgia. In essa perciò si fa sentire maggiormente il particolare bisogno di edificazione del singolo. Di conseguenza, le forme e leggi della vita 18

liturgica non possono senz'altro costituire regola per la preghiera extraliturgica. Mai si potrà pretendere che la liturgia costituisca la forma esclusiva della vita religiosa comune. Questo significherebbe misconoscere le esigenze religiose del popolo credente. Piuttosto vi saranno sempre, accanto alle forme liturgiche, quelle della pietà popolare variamente atteggiate in corrispondenza alle mutevoli condizioni storiche, nazionali, sociali, locali. Nulla sarebbe più errato del voler sopprimere, per amore della liturgia, sane e preziose forme di vita religiosa popolare; oppure anche solo del voler adattare queste ultime alla prima. Quantunque, però, la liturgia e la pietà popolare abbiano ambedue i propri presupposti e scopi legittimi, tuttavia il primato deve essere riconosciuto al culto liturgico. La liturgia è e rimane la Lex orandi. La preghiera non liturgica deve sempre svolgersi sulle direttive di essa, e in essa sempre rinnovarsi, se vuol rimanere vitale. Non si può certo dire che la liturgia stia di fronte alla preghiera popolare allo stesso modo che il dogma al ripensamento individuale della fede; ma una certa corrispondenza con quel rapporto normativo esiste. Mettendosi a confronto con la liturgia, ogni altra forma di pietà può sempre riconoscere nel modo più facile le proprie manchevolezze e rimettersi così sicuramente sulla via ordinaria. Le mutevoli esigenze dei luoghi, dei tempi, delle speciali circostanze si fanno sentire da sé nella vita religiosa popolare; ma di fronte a essa c'è la liturgia, da cui irraggiano chiaramente le leggi fondamentali, identiche sempre e dovunque, della sana e genuina devozione. In seguito verrà fatto il tentativo di ricavare dalla liturgia alcune di queste leggi. Solo un tentativo, però, 19

il quale nei suoi risultati non vuol essere né definitivo né completo. La liturgia mostra innanzitutto che la vita di preghiera della comunità dev'essere sostenuta dal pensiero. Le sue preghiere sono intieramente dominate e compenetrate efficacemente dal dogma. Chi non abbia ancora ben capito la preghiera liturgica, prende tali preci spesso come delle abili formulazioni teologiche, fino a che però egli avverte che queste proposizioni ben levigate e ben combinate traboccano d'interiore emozione. Tali sono innanzitutto i mirabili Oremus delle messe domenicali. Anche dove la corrente della preghiera si effonde più abbondante, essa è sempre diretta e padroneggiata dalla chiarezza del pensiero. Messa e Breviario sono intessuti di brani presi dalla S. Scrittura oppure dalle opere dei Padri della Chiesa e costringono così continuamente a pensare. Queste lezioni vengono spesso introdotte e concluse da brevi preghiere di carattere particolarmente meditativo (Responsori), nelle quali quanto è stato udito o letto ha modo di riecheggiare nel cuore e di penetrarvi in profondo 2 . La Lex orandi, la liturgia, secondo l'antico detto, è pure la Lex credendi, la legge della fede; è quindi tutta sostanziata del tesoro di verità della Rivelazione. Con ciò non deve essere certo detto che cuore e sentimento non abbiano alcuna importanza nella vita di preghiera. Pregare è certamente «un elevare 1 'animo a Dio». Ma l'animo deve essere diretto, sostenuto, rischia2.

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Vedi in proposito R. Guardini, Heilige Zeit, Mainz 1930.

rato dal pensiero. In casi particolari e per temperamenti determinati può essere possibile il preservare in un mero moto del cuore, che sorge spontaneamente oppure scaturisce da un felice impulso, e il trarne così anche un reale vantaggio religioso. Una preghiera invece, che si ripeta di frequente, deve adattarsi ai più diversi stati d'animo, giacché nessun giorno si eguaglia ai precedenti. Ora, se il contenuto di queste forme di preghiera è prevalentemente sentimentale, esso porterà in sé l'impronta d'una conformazione spirituale del tutto determinata poiché, tra tutti i processi psichici, il sentimento è quello che più tende verso l'individuale. Così, tale preghiera riuscirà sempre inadatta, quando la sua intonazione almeno in parte non si accordi con quella che domina nella persona che vuol pregare. Altrimenti essa riesce inutile oppure altera addirittura il sentimento. La stessa conclusione si raggiunge considerando che tale preghiera deve servire ai temperamenti più diversi. Se pertanto una preghiera comune deve effettivamente valere per il suo scopo, essa deve essere sostenuta e dominata da chiare e ricche idee dogmatiche. Solo allora le riesce possibile servire a una comunità che risulta di tipi diversi ed è agitata da sentimenti mutevoli. Solo il pensiero conserva sana anche la vita religiosa. Buona è solo quella preghiera che viene dalla verità. Il che non significa soltanto che essa non può procedere dall'errore, ma anche che deve scaturire dalla piena verità. La verità rende potente la preghiera, comunicandole quel vigore aspro, ma vivificante e preservatore senza del quale essa riesce debole e sdolcinata. Se questo vale per la preghiera dei singoli, vale ancor di più per quella del popolo che sotto certi 21

aspetti inclina alla sentimentalità. Il pensiero dogmatico ci scioglie dalla schiavitù del sentimento, dalla sua vaporosità e inerzia. Esso rende la preghiera chiara ed efficace sulla vita. Ma codesto pensiero dogmatico, se vuol effettivamente soddisfare al compito che gli spetta nei riguardi della comunità, deve introdurre nella preghiera la verità religiosa nella sua integrale pienezza. Le singole verità della Rivelazione mostrano una certa affinità elettiva con determinati atteggiamenti spirituali e con determinate condizioni della vita interiore. È facile osservare come persone dotate d'una certa natura e disposizione, mostrino un'accentuata preferenza per determinate verità della fede. Ciò si manifesta ad esempio per il concetto dogmatico, da cui nelle conversioni le anime furono dapprima colpite e convinte, oppure per quello dal quale ricevettero la spinta definitiva; ciò si palesa ancora per le verità che al sorgere del dubbio costituiscono il sostegno dell'intiero edificio della fede. E parimenti si può osservare che anche il dubbio non sorge a caso, bensì per lo più investe le verità di fede che sono più estranee ai temperamenti in questione. Se, pertanto, una preghiera desse valore esclusivo o anche solo eccessivo a una qualunque verità di fede, a lungo durare potrebbe riuscir adeguata solo alle nature che vi inclinano, e anche in queste susciterebbe col tempo il bisogno della verità integrale. Se, ad esempio, una preghiera si volesse occupare solo della misericordia perdonante di Dio, essa finirebbe col non soddisfare neppure un'anima incline alla tenerezza. Questa verità della misericordia fa appello a quella che ne è il completamento: la maestà e la giustizia di Dio. Così dunque l'integrale pienezza delle veri22

tà della fede deve dipingersi in quelle forme di preghiera che debbono soddisfare, a lungo andare, una comunità. Anche qui la liturgia è maestra. Essa introduce l'intera ampiezza della verità nella preghiera; anzi essa è null'altro che il dogma pregato, la verità rivissuta pregando. E invero sono le grandi verità fondamentali 3 quelle che innanzi tutto sostanziano la liturgia: Dio nella sua immensa realtà, pienezza e grandezza, l'Uno e Trino; la creazione, la provvidenza, la onnipresenza divina; il peccato, la giustizia, l'anelito alla redenzione; la redenzione; il Redentore e il suo regno; i novissimi. Soltanto una verità così ricca non stancherà mai; solo essa potrà essere realmente tutto a tutti e ogni giorno nuova. Una preghiera comune pertanto riuscirà feconda, a lungo andare, solo quando non si limiterà, con esclusione e con preferenza, a parti determinate della verità rivelata, bensì includerà, nel limite del possibile, l'intero contenuto dell'insegnamento divino. Questo ha particolare importanza nel popolo, che facilmente inclina a curare in modo unilaterale qualche verità preferita 4 . D'altra parte, come invece talvolta

3. Una nuova prova della sguardo acuto di Pio X l'abbiamo nel fatto che egli ha voluto valorizzare più energicamente quelle parti della liturgia che lasciano emergere le realtà fondamentali della fede: le domeniche, l'ufficiatura della settimana, in modo particolare anche le Messe dei giorni fenali della Quaresima. Sarebbe cosa deplorevole che il suo lavoro gradualmente venisse annullato. 4. Con il che non si vuol dire che i tempi determinati (ad esempio di guerra) oppure condizioni particolari (ad esempio gli speciali bisogni d'una popolazione di agricoltori o marinai e simili) non possano rendere di particolare attualità verità determinate. Qui si tratta di una regola generale che però è duttile e deve tener conto delle speciali circostanze.

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avviene, la preghiera non deve essere sovraccarica e costretta così a esprimere tutti i concetti possibili. Senza ampio respiro la vita religiosa intristisce: si fa gretta e meschina. «La verità vi farà liberi» dalla servitù dell'errore non soltanto, ma anche atti a penetrare l'infinita ampiezza del regno di Dio. E se il pensiero ha da essere messo in rilievo, ciò non deve avvenire fino all'eccesso di un freddo cerebralismo. Le forme della pietà richiedono piuttosto d'essere avvivate da una calda corrente di fervore. La liturgia anche a questo riguardo ha parecchio da dire. Sono pensieri vivi quelli che la pervadono, vale a dire pensieri che sgorgano da un cuore commosso e che a loro volta devono commuovere un cuore ben disposto. Il culto della Chiesa sovrabbonda di profonda sensibilità, d'una vita del sentimento vigorosa, anzi talvolta addirittura appassionata. Quanto di frequente e con che intensità, ad esempio, sono commossi i salmi! Con quale vigore s'esprime la nostalgia nel Salmo 41, la contrizione nel Miserere, il giubilo nei salmi di ringraziamento, lo sdegno per la giustizia offesa nei salmi di maledizione! Quale straordinaria intensità di emozione si manifesta tra la tragedia del venerdì santo e l'esultanza del mattino di Pasqua! Ma questa emotività liturgica è straordinariamente istruttiva. Essa possiede certo momenti di altissima tonalità in cui tutti i vincoli vengono spezzati, come nella traboccante esaltazione gioiosa dell'Exsultet, nella veglia pasquale. Di regola, però, essa è attutita. Il cuore parla forte; però, contemporaneamente s'afferma non meno vigoroso il pensiero; formule di preghiere sono riccamente articolate, contessute accuratamente nel rapporto delle parti. Così, nonostante la profonda sensibilità dei salmi, si ha un'intonazione 24

generale contenuta. La liturgia, come tale, non ama l'esuberanza del sentimento. Questo arde in essa, ma come in un vulcano, il cui vertice si leva limpido e chiaro nella fresca atmosfera. La liturgia è sentimento appieno dominato. E questo si percepisce particolarmente nella santa Messa, sia nelle parti fisse che nelle preghiere proprie dei singoli giorni; qui troviamo veri capolavori del più nobile atteggiamento spirituale. Questo riserbo della preghiera liturgica è talvolta così rilevato, che alla prima impressione sembra una fredda costruzione concettuale; fino a che, però, non si sia vissuti più a lungo in tale mondo e non si abbia avuto modo di constatare quale intensità di vita ferva nelle forme ben dominate. E come è necessaria questa disciplina! In certi momenti, in determinate occasioni il sentimento può effondersi più generoso. Però una preghiera che è destinata a ogni giorno e alla comunità deve rimanere misurata. Se invece si ammettono sentimenti assai tesi e non equilibrati, ci si espone a un doppio pericolo: o l'atteggiamento viene preso sul serio da chi prega, e allora può succedere ch'egli debba esercitare su di sé una coercizione interiore per provare sentimenti, che non ha mai avuto o che, almeno in codesto istante, non ha; e questo potrebbe rendere il suo sentimento religioso innaturale, insincero; oppure la natura si vendica; le frasi vengono accolte e ripetute freddamente, come formule indifferenti, e con ciò la parola viene depauperata del suo valore. La preghiera scritta deve certo anche educare, elevare dunque a una sensibilità religiosa più delicata. Ma la distanza dalla sensibilità della media dei fedeli non deve diventare troppo grande. Se una preghiera 25

deve riuscire efficace e feconda durevolmente e per una collettività, deve essere dominata da una tonalità di sentimento vigorosa, sì, e profonda, ma insieme anche calma e misurata. Tornano a proposito qui i mirabili versi d'un inno quasi intraducibili nella loro trasparente chiarezza: Laeti bibamus sobriam Ebrietatem Spiritus ...5.

Certo, non si può pretendere di fissare con precisione matematica al sentimento religioso la sua misura; ma dove basta l'espressione nuda e schietta, non si deve usare quella accesa, e la frase semplice è sempre da preferirsi a quella sovraccarica. La liturgia, poi, ci fa intendere come debbano essere le emozioni religiose perché riescano durevolmente efficaci a una collettività di persone. Non sentimenti troppo ricercati, che valorizzino speciali settori del patrimonio dogmatico, bensì sentimenti fondamentali, umani e religiosi, quali, ad esempio, i salmi tanto chiaramente esprimono: adorazione, anelito a Dio, ringraziamento, preghiera, timore, rimorso, amore, sacrificio, rassegnazione, fede, fiducia e via dicendo. Non emozioni troppo raffinate, troppo tenere, troppo sdilinquite, bensì forti, chiare, con la semplicità della natura. E proseguendo: la liturgia possiede un mirabile riserbo. Certo forme di abbandono essa le accenna appena, oppure le circonda e vela con tanta profusione di immagini che l'anima vi si sente quasi protetta e ce5. Breviario dell'ordine benedettino, Laudes cioè, preghiera del crepuscolo mattutino del martedì.

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lata. La preghiera della Chiesa non mette in pubblico i misteri del cuore. Essa si trattiene nella sfera del pensiero e del simbolo; suscita certamente profondissimi e delicatissimi moti e processi spirituali, ma li lascia, però, nello stesso tempo, nella loro segreta intimità. Certi sentimenti d'abbandono, certe parole che rivelano l'intimità più sacra, ben di frequente non possono essere espresse senza pericolo per il pudore dell'anima. La liturgia ha compiuto l'opera magistrale e ha reso possibile all'uomo di esprimere in essa la sua vita religiosa interiore nell'intera sua pienezza e profondità, pur conservando occulto il suo mistero: Secretum meum mihi. Egli può effondersi, può esprimersi, eppur non sente portato in pubblico nulla di ciò che deve rimanere nascosto 6 . Lo stesso vale per l'atteggiamento morale implicito nella preghiera. L'azione liturgica, la preghiera liturgica procedono da premesse morali: dall'anelito alla giustizia, dalla contrizione, dallo spirito di sacrificio ecc., e si concludono, spesso, a lor volta, in atti di carattere morale. Pure si può anche qui osservare delicatezza di tatto. La liturgia non richiede facilmente azioni morali di grande impegno, specialmente quelle che impli6. La liturgia compie qui nel campo religioso la stessa funzione che ha nella vita quotidiana la nobile forma della cortesia, creata attraverso una lunga tradizione da persone delicate di sentire. Questa rende possibile all'uomo la familiarità con altri, garantendolo però da ogni illegittima violazione del suo intimo; egli può essere cordiale senza perdere la propria dignità; ha un ponte verso il prossimo, senza perciò avvilirsi nella massa. In modo analogo la liturgia assicura all'anima la libertà dei movimenti religiosi mediante una mirabile combinazione di naturalezza e di raffinata delicatezza di tratto. Essa forma come urbanitas la più bella antitesi alla barbarie, perché la barbarie si presenta quando naturalezza e civiltà sono insieme andate perdute.

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chino una decisione interiore. Essa le esige là dove l'importanza della cosa lo giustifica realmente: ad esempio, l'abiura in occasione del Battesimo, il voto al ricevimento degli Ordini sacri. Quando però si tratta di esprimere nella preghiera quotidiana ordinaria i quotidiani propositi e sentimenti morali, la liturgia si mostra molto riservata. La liturgia non pronuncia facilmente una promessa solenne, un distacco assoluto e perpetuo dal peccato, una perpetua dedizione totale, una consacrazione che impegni tutto l'essere, un completo rinnegamento e una rinuncia al mondo, una promessa di amore esclusivo e simili. Tali pensieri certo si presentano, ma di regola nel senso che il credente prega per avere questi sentimenti, ovvero ne considera la nobiltà e bontà, oppure a essi è esortato. La liturgia evita di usare preghiere, in cui siano contenuti addirittura impegni morali di questo genere, quali forme di devozione da ripetersi frequentemente. E com'è giusto questo! Nelle ore dell'entusiasmo, in certi momenti decisivi, codeste espressioni possono essere giustificate, persino necessarie: ma appena si ha a che fare con la consueta vita spirituale d'una comunità, con la religiosità quotidiana, allora espressioni siffatte, spesso ripetute, mettono il credente di fronte a una scelta penosa. O egli prende la preghiera in questione sul serio e cerca di suscitare in sé il sentimento morale da essa espresso, ed ecco ch'egli esperimenta di poterla compiere, con interiore veracità, solo di rado, oppure mai addirittura, esponendosi così al pericolo di rendere insincera la sua vita interiore, di essere costretto a sentimenti e azioni che gli sono ancora troppo difficili, di abbassare alla ripetizione quotidiana processi morali, che di loro natura non si compiono di frequente. Oppure egli prende le 28

parole semplicemente come espressione d'una passeggera disposizione religiosa, e allora si affievolisce il significato morale di cui sono sostanziate quelle preghiere. Una formula siffatta può ben essere usata di frequente con interiore veracità; essa rimane però svalutata nella sua significazione morale. Anche qui vale la parola del Signore: «Il vostro dire sia: sì, sì; no, no»7. La liturgia ha risolto il problema di spronare costantemente alle più elevate mète morali e insieme di rimaner schietta e sincera non trascurando la realtà d'ogni giorno. Un altro aspetto del problema della preghiera comune è quello della sua forma. Lo si può all'incirca formulare così: quale forma di preghiera può suscitare una emozione religiosa in un gran numero di persone, assicurandone un'adeguata persistenza? Il tipo d'ogni preghiera comune ci è offerto dalla preghiera corale della Chiesa. Per essa ogni giorno numerose comunità si riuniscono a ore determinate. Se mai in qualche luogo, proprio qui veniva offerta la condizione preliminare perché le leggi formali della preghiera comune giungessero a espressione 8 . Soprattutto l'intera radunanza vi deve prendere parte viva. Se ad esempio, ci si limitasse ad ascoltare 7. Mt 5,37. 8. A questo riguardo non è da trascurare che la preghiera corale della Chiesa presuppone a sua volta speciali condizioni e circostanze, che non sono senz'altro implicate nella vita dei credenti; quali: un maggior agio che dia allo spirito il tempo di raccogliersi più profondamente, una speciale formone spirituale che dischiuda il segreto della ricchezza dei pensieri, e via dicendo.

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chi dirige la preghiera, il movimento degli animi presto s'arresterebbe. Tutti i presenti perciò vi debbono prendere parte. E invero non basta che la comunità risponda con parole sempre identiche a chi dirige la preghiera. Anche questa forma di preghiera è accolta dalla liturgia, ad esempio, nelle litanie. Essa ha la sua piena giustificazione, e sarebbe misconoscere le esigenze dell'anima umana il volerla respingere. Nelle litanie la comunità risponde ai diversi appelli di chi dirige l'orazione con un atto religioso identico, cioè con la supplica. In tal modo codesto atto deve ottenere ogni volta un nuovo contenuto e una nuova profondità. Nasce così una intensità progressiva, la quale è adatta come poche altre forme a esprimere una disposizione d'animo vigorosa, una dedizione a Dio che, per così dire, raccoglie d'ogni lato, e, incalzante, impegna tutte le sue forze. La liturgia però non usa molto di frequente queste forma di preghiera; si potrebbe anzi dire che se ne vale di rado, se si considera l'intero ambito del culto divino. E ha ragione poiché essa nasconde il pericolo di intorpidire il movimento dell'anima 9 . 9. Già da quello che si è detto più sopra delle litanie emerge con sufficiente chiarezza che forme di preghiera quali il rosario hanno una funzione necessaria e insostituibile nella vita religiosa. In esse si esprime in modo particolarmente acuto la differenza tra la preghiera liturgica e quella popolare. La liturgia ha per principio Ne bis idem (nulla dev'essere ripetuto): esige un costante procedere del pensiero, del tono spirituale, della volizione. La preghiera popolare invece ha una tendenza fortemente contemplativa e si compiace di persistere, senza rapidi mutamenti di pensiero, in alcune semplici immagini, idee o sentimenti religiosi. Per essa le forme della devozione sono spesso soltanto mezzi per stare dinanzi a Dio, presso Dio. Perciò essa ama la ripetizione. Le invocazioni sempre rinnovate del Pater noster, dell'Ave ecc. diventano per il popolo come vasi in cui si riversa l'esuberanza del suo cuore.

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La liturgia si vale piuttosto come di tipo fondamentale della preghiera comune, della forma drammatica. Essa divide i partecipanti in due cori e fa sì che la preghiera si dispieghi in un movimento di dialogo. Ciò attira la massa nella corrente e ve la mantiene, poiché ciascuno è obbligato a tener dietro per lo meno con una certa attenzione; ognuno sa che dipende da lui il procedere della comune recitazione della preghiera. Con ciò la liturgia accenna a una legge fondamentale del movimento dell'anima che non può essere trascurata impunemente 10 . Per quanto siano giustificate anche le forme di preghiera puramente responsoriali, la forma fondamentale della preghiera in comune è quella che si svolge drammaticamente: questo c'insegna la Lex orandi. E il problema oggi tanto sentito del come riguadagnare alla vita ecclesiale gli uomini adulti, è in strettissima relazione con quanto stiamo discutendo. Poiché proprio l'uomo esige movimento che vitalmente progredisca, attiva partecipazione. Ma la massa fluente di questo movimento di anime richiede una forma, una disciplina. Ci deve essere un direttore che fissi il principio, le parti e la fine

10. Più anticamente nella Chiesa fu preferita la cosiddetta forma responsoriale nella salmodia. L'antifonario recitava un verso dopo l'altro e il popolo rispondeva a ogni verso con la stessa formula integralmente o in parte ripetuta. Contemporaneamente si seguiva però anche un'altra forma: il popolo si divideva in due cori e recitava scambievolmente ciascuno un versetto del salmo. È pertanto molto significativo per la sicurezza del senso liturgico che la prima forma sia stata del tutto eclissata dalla seconda. Cfr. L. Einsenhofer, Handbuch der katholischen Liturgik, vol. I, Freiburg 1930, pp. 220 ss.

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e così organizzi anche esteriormente l'intero svolgimento dell'azione. Ed egli la deve anche ordinare interiormente; così, deve suggerire il pensiero direttivo, assumersi personalmente i brani più difficili affinché essi risultino espressi con sufficiente cura, dare un'espressione sintetica al sentimento comune in certi momenti culminanti della preghiera, procurare soste di riposo mediante intermezzi di meditazione o letture e così via. Questo è il compito del direttore del coro che deve aver ricevuto nella liturgia una formazione accurata e graduale. Fu detto più sopra come nella liturgia si dispieghi una vita di sentimento sempre vigorosa e ricca. Lo stesso si può dire delle due potenze fondamentali della esistenza umana: della natura e della cultura. Nella liturgia la voce della natura parla con forza. Basta solo leggere i salmi dove l'uomo intero emerge così com'è, senza attenuazioni. Qui l'anima si mostra coraggiosa e timida, lieta e triste, piena di nobili slanci, ma anche non ignara di conflitti interiori e di colpe, zelante per ogni cosa buona e, ancora, spossata e abbattuta. Oppure consideriamo le lezioni tolte dall'Antico Testamento. Come vi appare in piena luce la natura umana! Nulla è inorpellato o mitigato. E altrettanto nelle parole di consacrazione della Chiesa, nelle preghiere che accompagnano l'amministrazione dei Sacramenti. In tutte domina una naturalezza vivificante. Qui le cose vengono chiamate con il loro nome. L'uomo è pieno di difetti e debolezze e come tale è accolto dalla liturgia; la sua natura è intreccio di nobiltà e di miseria, di aspirazioni elevate e di sentimenti volgari, e così si presenta nelle preghiere della Chiesa. Non una figura d'uomo riveduta e corretta da cui sian stati can32

celiati prudentemente i tratti sconcertanti e men belli, bensì l'uomo qual è. D'altra parte, non meno ricco è il tesoro di cultura nella liturgia. Vi si avverte il lavoro di più secoli che vi hanno sedimentato quanto di meglio avevano. Riccamente elaborata la parola; riccamente sviluppato il mondo dei pensieri e dei concetti; suggestivamente combinate le forme della composizione, a cominciar dai corti versetti e dalla fine membratura degli Oremus fino all'artistica costruzione della giornata liturgica nell'«ufficio» oppure della santa Messa: il tutto culminante nell'opus complessivo dell'anno ecclesiastico. Forme drammatiche, epiche, liriche si combinano tra loro e tra loro reagiscono. Lo stile delle singole parti varia di continuo adeguandosi allo specifico contenuto: si ha così lo stile semplice e chiaro dell'ufficio proprio del tempo, quello denso di mistero dei giorni della Madonna, le officiature suggestivamente delicate delle vergini martiri del cristianesimo primitivo. A questo punto s'aggiungono la ricchezza degli atteggiamenti e dei gesti liturgici, i vasi, gli arredi, gli utensili, i paramenti, le opere dell'architettura, della scultura, della pittura, il canto e l'organo. In tutto ciò si nasconde un insegnamento assai importante per la vita spirituale. La religione si serve della cultura. Con questo termine noi intendiamo il complesso di ciò che di buono e di significativo l'umanità ci ha procurato, creando, dando forma, ordinando: la scienza, le opere d'arte, le istituzioni sociali, e via dicendo. La cultura ha qui il compito di dischiudere, mediante un continuo lavoro, il tesoro delle verità, istituzioni, atti di culto, che Dio, mediante la sua Rivelazione, ha trasmesso all'umanità, di svelarne il 33

contenuto e metterlo in relazione con la vita nella sua molteplicità. La cultura non può creare nessuna religione; le mette però a disposizione i mezzi opportuni affinché essa possa dispiegare appieno la sua efficacia benedetta. Questo è il senso dell'antico detto: Philosophia ancilla theologiae, la filosofia è ancella della teologia. Esso vale per l'intera cultura e a esso si è sempre attenuta la Chiesa. Così questa sapeva bene quello che faceva quando impose addirittura al generoso Ordine di S. Francesco, esuberante di forze e di impulsi religiosi, la cultura (la scienza, una certa distinzione nel contegno esteriore, un certo minimo di possesso, ecc.). La Chiesa ha assicurato con ciò all'Ordine francescano la condizione necessaria della sua vita ulteriore sana e feconda. L'uomo singolo o un breve periodo d'entusiasmo possono fare a meno della cultura fino a un limite anche assai notevole. Lo provano gli inizi degli ordini eremitici d'Egitto, gli inizi degli ordini mendicanti; lo provano sante persone in ogni tempo. Ma per la media e a lungo andare una certa misura non piccola di beni genuini della civiltà si rivela necessaria al fine di mantenere feconda la vita religiosa. Così essa si conserva vivace, limpida, generosa e aperta; così si premunisce da quanto non è sano, dall'esagerato, dall'unilaterale che può intaccarla. La cultura e la civiltà forniscono alla vita religiosa i mezzi per esprimersi, l'aiutano a rendersi sempre più consapevoli di se stessa, a distinguere l'importante dall'insignificante, il mezzo dallo scopo, la vita dalla mèta. La Chiesa ha sempre condannato ogni tentativo di intaccare la legittimità della scienza, dell'arte o della proprietà e simili. La stessa Chiesa che rivela tanto energicamente l'unum necessarium e, nella dottrina dei 34

consigli evangelici, insegna con la più grande insistenza che si deve essere pronti a sacrificare per la salute eterna, dunque per il bene religioso, ogni cosa, ha pure voluto che la vita religiosa fosse nutrita sempre del sale preservatore d'una cultura autentica e nobile. Allo stesso modo la vita spirituale abbisogna delle basi d'una natura sana e vigorosa: «La grazia presuppone la natura». Quel che pensa a questo riguardo, la Chiesa l'ha detto chiaramente nelle lotte gigantesche contro la gnosi e il manicheismo, contro catari e albigesi, contro i giansenisti e tutte le specie di fanatici. E questo lo ha fatto quella stessa Chiesa che così potentemente, contro Pelagio e Celestio, contro Gioviniano ed Elvidio e contro ogni esagerata esaltazione della natura, ha richiamato alla grazia e al soprannaturale e ha riaffermato che il cristiano deve vincere la natura. Il difetto di una ricca e nobile formazione culturale condannerebbe la vita religiosa all'irrigidimento e alla grettezza; se essa perdesse il fondo di una sana natura dovrebbe cadere nella sdolcinatura, nell'insincerità, nell'innaturalezza, nella sterilità. E se si trascurano i valori culturali della vita di preghiera, ecco il pensiero impoverirsi, la lingua imbarbarire, le immagini irrigidirsi, i sentimenti farsi grossolani e monotoni; come pure, quando la natura non la irrora più di sangue vivo e vigoroso, il pensiero si svuota, il sentimento s'impoverisce diventando artificioso; le similitudini e le metafore impallidiscono. Le due cose unite, il difetto di vigore naturale e la mancanza di schietta cultura, costituiscono ciò che si deve chiamare «barbarie»; la perfetta antitesi di quella Scientia vocis che si manifesta nella pre35

ghiera liturgica e dalla stessa liturgia è celebrata come lo splendido privilegio del santo Spirito creatore. Sana, semplice, vigorosa dev'essere, dunque, la vita di preghiera. Deve mantenere i contatti con la realtà e non temere di chiamar le cose col loro nome. L'uomo deve ritrovare nella preghiera tutta la sua vita. D'altra parte, essa deve essere ricca di pensieri e d'immagini efficaci, deve possedere una espressione matura e colta, ma insieme ben dominata, riuscir chiara e trasparente nella composizione, comprensibile all'uomo semplice, ricca di eccitamenti e di linfa vivificante per la persona colta. Deve essere compenetrata di una cultura che in nessun modo riesca importuna, bensì consista innanzitutto nell'ampiezza dell'orizzonte intellettuale, nell'interiore misura del pensiero e della dinamica della volontà e del sentimento.

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CAPITOLO SECONDO LA C O M U N I T À LITURGICA

La liturgia non dice «io», bensì «noi», salvo il caso in cui l'azione liturgica esiga espressamente il singolare (ad esempio quando si tratta di una dichiarazione di volontà personale, oppure in talune preghiere del vescovo, del sacerdote, e simili). La liturgia non è opera del singolo, bensì della totalità dei fedeli. Questa totalità non risulta soltanto dalla somma delle persone che si trovano in chiesa in un determinato momento, e non è neppure l'«assemblea» riunita. Essa si dilata piuttosto oltre i limiti di uno spazio determinato e abbraccia tutti i credenti della terra intera. E travalica anche i limiti del tempo, in quanto la comunità che prega sulla terra si sente una cosa sola anche con i beati, che vivono nell'eternità. Solo, la nota dell'universalità non esaurisce ancora il concetto della comunità liturgica. Il soggetto, che compie l'azione liturgica della preghiera, non è il semplice totale di tutti i singoli partecipi della stessa fede. È l'insieme dei fedeli, ma in quanto la loro unità ha un valore autonomo, prescindendo dalla quantità dei credenti che la formano: la Chiesa. Qui si presenta qualcosa di analogo a quello che costituisce la vita dello Stato. Lo Stato è qualcosa di più che somma dei cittadini, delle autorità, delle leggi e istituzioni e simili. I membri dello Stato non si sen37

tono solo parti di un numero più grande, bensì in un certo modo membri d'una vivente unità superiore. Qualcosa di corrispondente, in un ordine essenzialmente differente, nell'ordine soprannaturale, presenta la Chiesa. Essa è chiusa in sé come un sistema compiuto: come un complesso organico di manifestazioni di vita straordinariamente varie, di mezzi e di scopi, di uomini, istituzioni, leggi e simili. Essa è costituita di credenti; ma è qualcosa di più che la loro mera somma, nutrita dalle stesse convinzioni e abbracciata dagli stessi ordinamenti. I fedeli sono piuttosto stretti insieme da un reale principio comune di vita. Questa vita comune è il Cristo vivente: la sua vita è la nostra vita; noi siamo «incorporati» in Lui, siamo il «suo corpo», Corpus Christi mysticum1. Vi è una potenza reale che domina questa grande unità di vita, che incorpora in sé il singolo, lo fa partecipe della vita comune, ve lo mantiene: lo «Spirito di Cristo», lo Spirito Santo 2 . Ogni singolo credente è una cellula di questa unità vitale, un membro di questo corpo. In molteplici occasioni il credente si rende consapevole di questa unità che l'avvolge soprattutto nella liturgia. In essa egli scorge che non sta di fronte a Dio come individualità a sé stante, bensì come membro di questa unità. È la liturgia che parla a Dio, il fedele parla con essa e in essa. E da lui essa esige che sia consapevole d'essere suo membro e tale voglia essere. Nel rapporto liturgi-

1. Cfr. Rm 12,4 ss.; 1 Cor 12,4 ss.; Ef capp. 1-4; Col 1,15 ss. e altrove. 2. Cfr. 1 Cor 12, 4 ss.; M.J. Scheeben, Die Mysterien des Christentums (Freiburg 1912), pp. 814-508; cfr. tr. it. di I. Gorlani, Morcelliana, Brescia 1960 3 , pp. 359-604.

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co, il singolo sperimenta vitalmente la comunità ecclesiastica. Il credente – qualora voglia celebrare con partecipazione viva l'azione liturgica – deve rendersi consapevole che egli, come membro della Chiesa, e la Chiesa in lui, prega e agisce; deve sentirsi con tutti gli altri fedeli una cosa sola in questa unità superiore e con essi voler formare una sola cosa. Di qui scaturisce un problema assai delicato e assai avvertito, che si può ricondurre alla questione più generale dei rapporti tra il singolo e la totalità. La comunità religiosa, come ogni altra comunità, esige dal singolo due cose. In primo luogo un sacrificio: in quanto e finché è membro attivo della comunità, egli deve rinunciare a ciò che in lui vuol essere solo per sé ed escludere gli altri. Deve dimenticare sé per essere con gli altri, sacrificare alla comunità una parte della sua autonomia e indipendenza. In secondo luogo, un contributo positivo: si esige da lui che accolga come proprio un più ampio contenuto di vita e precisamente quello della comunità; che vi dispieghi le sue energie, che lo porti nella coscienza, vi consenta e lo valorizzi. L'esigenza può assumere aspetto diverso a seconda del temperamento spirituale del credente. Così può riferirsi particolarmente al contenuto oggettivo della vita religiosa della comunità: ai pensieri che permeano quest'ultima, all'ordine dei suoi mezzi e scopi, alle prescrizioni, regole, leggi stabilite; alle azioni da compiere, ai doveri e diritti e via dicendo. Rinuncia e contributo, come fu detto più sopra, assumono di conseguenza un carattere oggettivo. Il singolo deve rinunziare a pensar a modo proprio e a percorrere vie proprie, giacché deve perseguire fini e intenti e seguire pensieri e vie, che la litur39

gia gli propone. Deve rinunziare per essa a disporre di sé; deve pregare con gli altri anziché procedere per conto proprio; ascoltare, anziché riflettere tra sé e sé; attenersi alla norma, anziché muoversi secondo il proprio volere. Compito dell'individuo è inoltre di «realizzare» il mondo delle idee liturgiche; deve uscire dalla cerchia consueta dei suoi pensieri e appropriarsi un mondo spirituale più vasto e comprensivo; deve andar oltre i suoi scopi personali per accogliere le finalità formative della grande comunità liturgica umana. Così vien da sé che il credente debba partecipare a esercizi, che non corrispondono alle particolari esigenze da lui sentite in quel momento; ch'egli debba pregare per cose che immediatamente non lo toccano; accogliere ed esprimere a Dio nella preghiera istanze che gli sono estranee e che sono determinate dalle necessità della Chiesa universale, deve certo, infine, (e questo è inevitabile in un organismo tanto riccamente dotato di preghiere, azioni, simboli) talvolta anche seguire cerimonie che non comprende nel loro specifico significato oppure non intende interamente. Qui si presenta effettivamente un grave problema, doppiamente sentito dall'uomo d'oggi, che tanto difficilmente rinunzia alla propria indipendenza. Giacché questi è, sì, pronto a inserirsi nel sistema dei vincoli dello Stato e della vita economica; però tanto più suscettibilmente e appassionatamente rifiuta di regola la propria vita religiosa secondo norme, che non siano quelle delle esigenze più personali. Quanto la liturgia richiede si può pertanto esprimere con una sola parola: umiltà. Umiltà come rinuncia: cioè sacrificio della propria autorità e indipendenza. E insieme 40

umiltà come contributo: cioè accettazione di un contenuto di vita religiosa già dato, oltrepassante l'ambito di quella personale. L'esigenza sociale della liturgia assume un altro aspetto per quelle persone, che nella vita sociale vedono meno il lato oggettivo che quello personale o soggettivo: l'uomo vivo e operante. Il problema più grave della comunità per costoro non è già quello del come far proprio il contenuto spirituale oggettivo e universale della vita associata e inserirsi in essa. Più gravosa essi sentono l'esigenza della vita comune con altri uomini concreti, la necessità di dilatare l'intimità tutta personale del loro sentimento ammettendovi altre persone, condividendone i sentimenti e le aspirazioni, riconoscendosi e sentendosi tutt'uno con esse in un'unità superiore. L'unione invero, non con questo o con quello, oppure con una piccola cerchia di persone, a cui ci leghino uguali interessi o rapporti personali, bensì con tutti, anche con persone che ci riescano indifferenti, antipatiche o addirittura ostiche. L'esigenza qui è dunque di abbattere in certo qual modo i limiti, che proprio chi ha una sensibilità più delicata ha segnato tanto nettamente intorno alla sua vita religiosa, di uscire da essi, entrare nella folla, prender parte alla sua vita. Mentre nella forma di rapporto esaminata più sopra la comunità era sentita come un grande ordinamento oggettivo, qui invece essa è sentita come un vasto tessuto di rapporti personali, come un intreccio infinitamente vario di rapporti tra «io» e «tu». Là era richiesto il sacrificio della rinunzia all'autonomia personale nell'attività religiosa; qui il sacrificio del proprio isolamento, di quello «stare a sé» che compete alla vita personale. Là si trat41

tava di inserirsi oggettivamente in un ordine stabilito, qui di vivere insieme con altri uomini. Là si richiedeva umiltà, qui si esige carità, un generoso aprirsi agli altri. In quel primo caso occorreva far proprio il contenuto spirituale presentatoci dalla liturgia; in questo secondo occorre partecipare alla vita degli altri membri del corpo di Cristo, includere le loro preghiere nelle proprie, sentire i loro bisogni come propri. Nel primo caso il «noi» era espressione d'una oggettività dimentica di se stessa, in questo caso significa che colui che lo pronuncia estende agli altri il suo sentimento accogliendo insieme questi ultimi nella sua vita personale. Là bisognava vincere la superbia che vuol rimanere in se stessa, la grettezza del particolarismo, che inorridisce al pensiero di far proprio l'ampio mondo dei fini e delle concezioni della comunità; qui occorre superare l'avversione per la vita estranea, materiale, che si svolge attorno a noi, la ritrosia ad aprire la propria interiorità, il sentimento di «aristocrazia» spirituale, di chi vuol stare solo con coloro che personalmente ha scelto, a cui spontaneamente si è aperto. Un costante spirito di rinunzia è dunque qui richiesto all'anima, un permanente uscire da sé per gli altri, un amore grande che sia pronto a partecipare alla vita altrui, a farla propria. Tuttavia questo inserimento di se stessi è facilitato da una particolarità della vita della comunità liturgica. Essa forma l'antitesi che integra le peculiarità più sopra esposte. Chiamiamo individualistico, per fissar dei termini, l'atteggiamento spirituale da cui abbiamo preso le mosse. A esso si contrappone l'atteggiamento spirituale sociale che ovunque spinge alla comunità, che vive nel «noi», altrettanto spontaneamente che 42

quello nel chiuso «io». Quando agisca nel campo religioso, questo atteggiamento sociale cercherà d'istinto persone dello stesso sentire; e invero questa propensione per la comunità religiosa sarà caratterizzata da un impeto che alla liturgia è estraneo. Basta solo ricordare le forme dell'influsso religioso e lo spirito di conventicola di certe sètte. Qui i limiti tra le singole persone sono abbattuti al punto da violare e il riserbo intimo e talvolta anche quello esteriore. Questo indica naturalmente solo un estremo, che mostra però la tendenza inerente all'istinto sociale-religioso di siffatti temperamenti. Costoro, perciò, non si troveranno a loro agio nella liturgia; sentiranno nella comunità liturgica qualcosa di freddo e di compassato. Dal che segue che la socievolezza della liturgia, per quanto piena e sincera essa sia, è ben lontana dall'esigere l'illimitato sacrificio della propria personalità. La tendenza che porta alla comunità è, nella liturgia, investita da una vigorosa controcorrente che assicura l'inviolabilità di certi limiti. Il singolo è certamente membro del tutto, ma non solo membro: egli non vi si disperde completamente. Vi è inserito, ma in modo tale che egli tuttavia rimane quello che è, sussistente per sé, personalità che riposa su se stessa. Questo si manifesta particolarmente nel fatto che l'unione dei membri non ha luogo immediatamente tra uomo e uomo, bensì si compie nell'orientamento degli spiriti verso la stessa mèta, nel loro riposare nella stessa finalità ultima ch'è Dio, nella medesima professione di fede, nel medesimo sacrificio, nello stesso sacramento. Del tutto eccezionali sono nella liturgia i casi in cui il parlare e il rispondere, il gesto o l'azione sono immediatamente diretti da un membro della comunità liturgi43

ca all'altro 3 . E quando ciò ha luogo è molto istruttivo osservare quanto riserbati siano tali atti e da quali severe prescrizioni siano disciplinati. Il singolo non è mai tratto a contatti troppo famigliari col suo vicino. È sempre riserbata a lui la misura in cui ricercare la comunione spirituale in ciò che li unisce ambedue, vale a dire in Dio, che loro sovrasta. Questo è assai importante. Non è necessario descrivere ciò che avverrebbe se il sentimento della comunità liturgica si esprimesse immediatamente, senza regole, tra fedele e fedele. La storia delle sètte è, a questo riguardo, assai ricca di esempi istruttivi. Perciò nella liturgia sono fissati dei limiti rigorosi tra persona e persona, che diffondono sulla vita comune un sentimento sempre vigile di riserbo, e la moderano in un mutuo rispetto. Nonostante ogni comunanza, l'uno non può mai violare l'intimità dell'altro, ottenere influsso sulla sua preghiera e sul suo agire, imporgli le sue peculiarità e la sua sensibilità. La comunanza sta nei sentimenti, nei pensieri, nelle parole, nel dirigere gli occhi e il cuore alla stessa mèta; essa consiste nel credere tutti alla medesima verità, nell'offrire tutti il medesimo sacrificio, nel mangiare tutti dello stesso pane divino; nell'essere tutti stretti in una misteriosa unità da un unico Dio e Signore. Tra di loro, però, come personalità determinate e concrete, non si usurpano reciprocamente il campo della intimità. È unicamente questo atteggiamento, alla lunga, che rende possibile la comunità liturgica, la quale al3. Diversa è la questione nei riguardi delle relazioni tra i credenti e le persone costituite in autorità. In questo caso tale legame è costante e immediato.

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trimenti non sarebbe sopportabile. Per esso vien tenuto lontano dalla liturgia ciò che «fa volgari». Esso non fa sorgere mai nell'anima il sentimento d'essere stretti a forza con altre persone, d'essere minacciati nella propria autonomia e intimità spirituale. Se dunque si esige dal temperamento individualistico ch'esso accetti il sacrificio di stare con altri, così al temperamento socievole si chiede che si adatti al contenuto riserbo di questa vita collettiva veramente distinta. Mentre i primi debbono apprendere a frequentare gli uomini e a riconoscere che essi sono soltanto uomini tra uomini, i secondi imparino a comportarsi in quel modo distinto e contenuto, che si conviene nella casa dell'altissima Maestà divina.

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CAPITOLO TERZO L O STILE L I T U R G I C O

La parola stile può essere innanzitutto intesa in un senso generale. In tal caso essa indica la particolare caratteristica che ogni strutturazione genuina e significativa (opera d'arte, personalità, costituzione politica) come tale, porta in sé: l'aperto contrassegno del fatto che un elemento determinato della vita ha trovato la sua espressione verace ed esauriente. Ma questa piena manifestazione di sé deve aver tale carattere che l'essere particolare ottenga con essa e in essa anche un significato universale, oltrepassante la sua cerchia limitata. L'essere di ogni individuo include, infatti, in sé due elementi: uno singolare, peculiare, irriproducibile; l'altro universale, che sta in relazione con tutti gli altri individui della sua specie e perciò testimonia, nella sua costituzione ontologica, dei tratti che sono pure comuni ad altri. Una cosa particolare è tanto più significativa quanto più è originaria e ricca di energia spontanea e quanto più comprensivamente è in grado nello stesso tempo di esprimere l'essenza universale che è propria della sua specie 1 . Quando dunque una personalità, una creazione 1. L'essenza del geniale, della persona geniale e, in genere, della grande opera d'arte, sta nel fatto che essa possiede una originalità incommensurabile e tuttavia offre una interpretazione della vita umana di valore universale.

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dell'arte, una forma della vita sociale nel proprio essere e agire non solo esprimono persuasivamente come esse siano se stesse nella loro irripetibilità, ma insieme in questa loro peculiarità non rappresentino un arbitrario capriccio dell'essere, bensì abbiano relazioni con la vita nella sua universalità, allora possiamo dire ch'esse possiedono dello «stile». In questo senso la liturgia possiede certamente stile; né è necessario spendere molte parole per mostrarlo. Ma la parola può essere presa anche in un senso più ristretto. Perché mai percepiamo più vivamente la presenza dello stile dinanzi a un tempio greco che dinanzi a un duomo gotico? L'intima efficacia delle due creazioni ha la stessa forza di convinzione. Ognuna costituisce l'espressione perfetta d'una forma determinata nel senso dello spazio e delle masse. Ognuna rivela la peculiarità di un popolo e offre contemporaneamente una profonda visione dell'anima e, in senso assoluto, della realtà universale. Eppure noi sentiamo dinanzi al tempio di Segesta uno «stile» più vigoroso che dinanzi al duomo di Colonia oppure alla cattedrale di Reims. Perché? Per qual motivo alla persona di sensibilità non colta Giotto presenta uno stile più intenso a confronto di Grünewald, certo non meno potente, se non più grande? Oppure una statua di re egiziana a confronto delle mirabili figurazioni donatelliane di San Giovanni? La parola «stile» ha qui un significato particolare, giacché è intesa nel senso che nella figura considerata il singolare passa in seconda linea lasciando emergere l'universale. Ciò ch'è contingente, condizionato rispetto al tempo e allo spazio; quanto val solo per certi 48

uomini determinati, per certi esseri particolari, è respinto sullo sfondo da ciò ch'è necessario, o almeno è più necessario, da quanto vale per molte epoche, per molti luoghi e persone. L'individuale è così assorbito in notevole misura da ciò ch'è tipico. In un'opera di tale genere una complicata situazione spirituale, che potrebbe trovare la sua espressione solo in un confuso grido dell'anima oppure in un'azione irripetibile, viene semplificata e ricondotta alle potenze fondamentali dell'anima 2 . Perciò essa si è resa comprensibile a tutti; quel confuso ribollimento di emozioni è stato ridotto a una forma costante di motivazione psichica. E, divenuto così trasparente, può chiarire anche ad altri l'intreccio di cause ed effetti quale appare a ciascuno nella propria vita. Nell'avvenimento storico e singolare vien fatta emergere la significazione permanente e universale della vita. La personalità che s'è presentata in un momento unico del tempo e dello spazio assurge a personificazione di caratteristiche comuni alla specie. L'emozione irrequieta e arbitraria nei suoi sviluppi vien disciplinata ed equilibrata. Mentre, per l'innanzi, essa era legata totalmente a condizioni date, a un determinato temperamento, ora essa può fino a una certa misura essere rivissuta da ognuno 3 . Cose, arredi, utensili vengono spogliati dal loro aspetto casuale, liberati nelle forme essenziali, chiariti nella loro finalità pratica, potenziati nella loro capacità espressiva per determinati sentimenti o pensieri. In una parola: mentre l'una forma d'arte cerca di dar espressione

2. Cfr. ad esempio la psicologia di drammi moderni: Gli spettri con le tragedie antiche, per esempio l'Edipo. 3. Così sorgono le forme di cortesia.

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proprio all'individuale, l'altra mira invece a far risaltare ciò che ha un significato universale! La semplice realtà che si presenta sempre particolare è trasfigurata in modo da farne emergere il tipico, vale a dire, essa è sublimata nella forma, stilizzata. E noi percepiamo lo «stile», nello stretto senso della parola, là dove la confusa varietà della vita ha subito tale semplificazione, dove la sua normativa interiore è sottolineata e dove dal particolare è tratta una significazione universale. Certo, una linea non facile a tracciarsi separa lo «stile» dallo «schema». Se la trasvalutazione formale è spinta all'eccesso, se la concezione viene elaborata in base a concetti e regole anziché scaturire da una necessità interiore, se infine la forma non nasce dalla vivida intuizione ma è escogitata e calcolata, allora si ottiene una figura ch'è solo generica e perciò vuota e morta. Il vero stile, anche nelle sue forme più severe, conserva la forza suggestiva di un'espressione matura. Solo ciò ch'è vivente ha stile: il mero cerebralismo, il nudo schema non ne possiede affatto. La liturgia (almeno nella gran parte dell'ambito suo) possiede stile nel senso stretto. Essa non è l'espressione immediata di un atteggiamento spirituale determinato nei suoi pensieri e detti, e neppure nei suoi movimenti, nelle sue azioni, nei suoi arredi. Si confrontino gli Oremus delle Messe domenicali con le preghiere di un Anselmo di Canterbury ovvero di un Newman, il contegno del sacerdote all'altare con gli involontari movimenti di una persona in preghiera che si creda inosservata; si paragonino le prescrizioni della Chiesa sull'arredamento dell'altare, sugli oggetti di culto e i paramenti sacri col modo in cui il popolo adorna le sue Chiese oppure si abbiglia per sacre festi50

vita; il canto corale gregoriano con la canzone religiosa del popolo. Nell'ambito della liturgia la forma religiosa di espressione, si tratti di parole o di gesti, di colori e oggetti, è sempre spogliata, fino a una certa misura, della sua particolarità individuale, intensificata, composta, elevata a una significazione universale. A questo hanno contribuito molte cose. Innanzi tutto il lungo trascorrer del tempo, che ha sempre meglio smussato, limitato, adeguato le forme liturgiche. In secondo luogo deve essere tenuta in conto l'azione fortemente generalizzatrice del pensiero teologico. Infine, pure l'influsso dello spirito greco-latino, la sua specifica propensione allo stile nello stretto senso della parola, ebbe particolare importanza. Se ora si riflette che queste forze creatrici di stile si esplicarono non nell'espressione della vita religiosa di un singolo individuo, bensì in un'unità sociale della grandezza, compattezza e forza di coscienza sociale ch'è propria della Chiesa cattolica; se si considera che la vita tanto multiforme di quest'ultima era tutta protesa verso l'Al di là, che essa si mise con decisione sulla via che conduce oltre questo mondo alla sfera del Soprannaturale e perciò fin da principio si segnò del sigillo dell'eterno, del sublime, del sovrumano; se si afferra tutto ciò, si comprende come venissero poste e date in tal modo tutte le condizioni preliminari della creatività stilistica più possente. Necessariamente qui doveva maturare uno stile sublime di vita religiosa. E in realtà questo è avvenuto. Se poi si considera la liturgia nel suo complesso e nei suoi elementi essenziali – non invero nella forma trascurata in cui talora si presenta, ma così come dovrebbe essere – in momenti felici si potrà percepire la meraviglia di uno sti51

le addirittura grandioso. Si vedrà e sentirà come un mondo interiore di un'ampiezza e profondità immensa si è qui creato la sua espressione, una espressione così ricca, di tale pienezza e insieme di tanta chiarezza e universalità, quale mai altrove si è offerta. Stile è pertanto, nel senso specifico della parola, chiaro discorso, movimento misurato, disposizione severamente elaborata dello spazio, degli oggetti, dei colori, dei suoni; derivazione di tutto (pensieri, parole, gesti, immagini) dalle forze elementari della vita spirituale, così da assicurare all'espressione ricchezza, varietà e insieme trasparenza. E la severità di questo stile è ancor più accentuata dal fatto che la liturgia della parola in una lingua che è sottratta all'uso quotidiano; ed è anzi classica4. Da tutto ciò riesce evidente quale forza suggestiva possieda la forma liturgica d'espressione; come essa riesca, per il fedele che la comprende, una scuola di formazione religiosa e debba apparire anche all'esterno un prodotto culturale nobilissimo. Non si deve negare però, che queste proprietà della liturgia presentano a ogni uomo, specialmente a quello d'oggi, grandi difficoltà. Egli – specialmente quando ha un temperamento indipendente – vuole che la preghiera sia espressione immediata del suo stato d'animo. E invece egli deve accogliere un mondo di pensieri, preghiere, azioni religiose come espressione della sua vita interiore, espressione che nella sua universalità gli riesce troppo ampia, che perciò non gli si confà. La sente di conseguenza fredda, quasi vuota. E di questo ha particolare consapevolez-

4. Prima del Vaticano II (n.d.r.).

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za quando la confronta con una preghiera che erompe con freschezza sorgiva dell'animo. Le formule liturgiche non conquidono immediatamente, come farebbero le parole di una persona spiritualmente affine; gli atti liturgici non parlano così immediatamente come i movimenti irriflessi di commozione, in una persona dal temperamento simile al nostro; i moti del cuore nella liturgia non trovano una rispondenza così facile come uno slancio religioso, che sale spontaneo dall'anima. Specie all'uomo moderno che è così sensibile a tutto ciò che riguarda la vita individuale e che dovunque cerca il profumo della terra e in ogni cosa guarda al tono personale, – proprio all'uomo moderno – queste forme limpide susciteranno facilmente l'impressione del gelo. Costui facilmente troverà schematiche le parole e i gesti freddamente regolamentari. Può così avvenire di frequente che egli si rifugi in preghiere e pratiche devote, che rimangono molto inferiori in valore religioso alla liturgia, ma che, però, ai suoi occhi sembrano presentare un pregio: quello di scaturire dal proprio tempo, oppure dall'anima di persone spiritualmente affini. Chi vuol poi abbracciare questo problema in tutta la sua ampiezza, deve rilevare come la figura del Signore si presenti nella liturgia e come invece si presenti negli Evangeli. In questi tutto è vita individualizzata; il lettore respira il profumo della terra; avverte i segni di un determinato tempo, vede Gesù camminare per le strade, muoversi tra la folla; ascolta le sue parole inimitabili e così convincenti, le sente riversarsi da cuore a cuore. Tutto l'incanto di ciò che è storicamente vivo è diffuso intorno alla figura del Signore: Egli è veramente «uno di noi», una determinata persona, pro53

prio Gesù, «il figlio del falegname», che abitava a Nazareth, in quella determinata contrada, portava quel certo vestito, parlava così e così. E questo è proprio ciò di cui l'uomo moderno è assetato. Questo è ciò che lo allieta tanto profondamente: il fatto che in questa figura storica abita tuttavia la Divinità eterna e infinita in forma viva, personale, essenzialmente unita così che Egli è «vero Dio e vero uomo» nel senso più pieno della parola. Quanto diversamente ci parla nella liturgia la figura di Gesù! Qui Egli è il Mediatore pieno di maestà tra Dio e l'uomo, l'eterno supremo sacerdote, il Maestro divino, il giudice dei vivi e dei morti, Colui che è celato nel Sacramento, Colui che nel suo corpo stringe in modo misterioso tutti i fedeli nella grande comunità di vita nella Chiesa, il Dio-Uomo, la Parola che si è fatta carne. Così Egli si presenta nella Messa, così nelle preghiere liturgiche. L'umano – involontariamente vien sulle labbra l'espressione teologica – la natura umana è certamente del tutto salvaguardata; le lotte contro Eutiche non vennero combattute invano. Egli è vero e perfetto uomo, con anima e corpo, e realmente ha vissuto; ma del tutto trasfigurato in gloria dalla Divinità; investito dalla luce dell'eternità, sottratto alla storia, al di là del tempo e dello spazio. Egli è il Signore che «siede alla destra del Padre», il Cristo mistico, che continua a vivere nella sua Chiesa. Si obietterà che nei vangeli delle Messe si legge pure l'intera storia della vita di Gesù. Certamente. Se si cerca, però, di percepire con attenzione e di immedesimarsi nell'azione, questi racconti appaiono illuminati in una maniera particolare dal complesso in cui si trovano. Essi sono un brano della Messa, del My 54

sterium magnum, immersi nel sacro mistero, inseriti nel complesso della corrispondente officiatura domenicale del proprio tempo, nel grande sistema dell'anno liturgico, trascinati dal moto possente verso l'Al di là che pervade l'intera liturgia. Così ciò ch'essi contengono viene parimenti stilizzato; noi li udiamo nel linguaggio straniero e li sentiamo cantati in tono corale. Vien da sé di badare non tanto ai tratti particolari ch'essi contengono quanto al significato eterno, sovrastorico che hanno. Con il che, però, la liturgia non ha falsificato la figura evangelica di Cristo, come per esempio il protestantesimo rimprovera alla Chiesa. Con questo essa non ha posto in luogo del Gesù vivente una rigida immagine concettuale. Già gli Evangeli lasciano emergere, ciascuno secondo lo scopo particolare della propria narrazione, più vigorosamente, ora questo ora quell'aspetto della personalità e dell'azione di Gesù. E di fronte alla figura dei sinottici, che lo rappresentano a preferenza nella sua realtà umilmente umana, emerge già nelle lettere di San Paolo il Signore che misticamente continua a vivere nella sua Chiesa e nell'anima dei credenti. Il Vangelo di San Giovanni mostra «la Parola, che si è fatta Carne» e infine l'Apocalisse ci tratteggia il Signore nella sua gloria eterna. Ma neppur qui è esclusa la sua realtà umana e storica, bensì è sempre presupposta e abbastanza di frequente espressamente sottolineata 5 . La liturgia non ha dunque fatto nulla di diverso da quanto fece la stessa Sacra Scrittura. Essa, senza sacrificare neppure un 5. Così, ad esempio, sin dalle prime parole del prologo dell'Evangelo giovanneo e della prima lettera di San Giovanni.

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piccolo tratto del Cristo storico, per i suoi speciali intenti religiosi, ha messo in rilievo maggiormente il sovratemporale nella sua figura. Poiché la Liturgia non è una semplice commemorazione di quanto un giorno fu, bensì un vivo presente: è la vita permanente di Gesù Cristo in noi e dei credenti in Cristo, nel Cristo Uomo-Dio eternamente vivente. Ma appunto perciò perdura la difficoltà spirituale; ed è bene metterla in chiara luce. Specialmente l'uomo d'oggi la sente in modo acuto. Più di uno – ubbidendo al suo primo impulso – sacrificherebbe il più luminoso concetto teologico pur di vedere Gesù camminare per le strade, pur di percepire con quale accento si rivolgeva ai suoi discepoli. E rinuncerebbe alla più splendida preghiera liturgica, qualora potesse udire come Gesù gli rivolgerebbe il discorso e potesse dire allo stesso Gesù una parola dal profondo del cuore in un vivo colloquio diretto. Dove si trova il motivo che permette di superare queste difficoltà? Nella constatazione che non è affatto permesso contrapporre la vita religiosa individuale con tutta la sua personale determinatezza alla vita liturgica con la sua stilizzazione. Non si può imporre: questo o quest'altro, bensì l'uno e l'altro in viva collaborazione. Nella preghiera individuale noi ci eleviamo a Dio con le peculiarità del tutto singolari del nostro essere, e usiamo le parole che proprio le nostre disposizioni e le nostre esperienze ci suggeriscono. Questo è un nostro buon diritto che la Chiesa è l'ultima a volerci contestare. Qui noi viviamo la nostra propria vita, noi siamo, per così dire, soli con Dio. Qui Egli è proteso verso di noi così come verso nessun altro; qui vera56

mente Egli è per ciascuno proprio «il suo Dio»; poiché questo appunto costituisce la infinita ricchezza di Dio, che Egli può essere per ognuno il suo Dio, a ognuno nuovo, non appartenente all'uno allo stesso modo che all'altro. Il linguaggio che usiamo qui s'adatta perfettamente a noi, e molte delle sue parole verosimilmente valgono solo per noi. Le possiamo pronunziare tranquillamente perché Dio le comprende; e, all'infuori di Lui, non v'è persona alcuna, che debba comprenderle. Ma noi non siamo soltanto esseri individuali: facciamo parte anche di una comunità. Non siamo solo «storia»; bensì qualcosa di noi appartiene anche all'ordine intemporale. È a quest'ultima esigenza che provvede la liturgia. In essa noi preghiamo come membri della Chiesa; in essa ci eleviamo al regno eterno che è al di sopra dei singoli e, perciò, a tutti accessibile; a tutti i temperamenti, a tutte le età, a tutti i luoghi. Ma per quest'ordine di cose lo stile della liturgia, – oggettivo, limpido, accessibile a tutti –, è anche l'unico possibile. Ogni altra forma di preghiera che procedesse da una sensibilità speciale riuscirebbe di sicuro inaccessibile a chi possedesse una sensibilità diversa. Soltanto uno stile della vita e del pensiero che sia veramente cattolico, vale a dire universale, oggettivo, può essere accolto da ognuno senza sospetti di violenza spirituale. Non è certo con ciò escluso ogni sacrificio; ognuno deve farsi violenza, deve superarsi. Ma in tal modo egli non si perde, bensì al contrario si fa più libero, più ricco, più versatile. Ambedue le forme di preghiera devono svolgersi in mutua armonia, giacché stanno in vivo rapporto scambievole. L'una riceve fecondità e luce dall'altra. 57

Nella liturgia l'anima apprende a muoversi nell'ampio mondo delle realtà religiose oggettive: e qui essa acquista – se è lecito il paragone – quella libertà, quella contenuta nobiltà di atteggiamenti e movenze interiori che impara, nell'ambito delle relazioni puramente naturali, quando frequenta una società veramente distinta di persone, che si comportano secondo un'antica tradizione di correttezza sociale. Si educa a quella ampiezza di sensibilità e limpidezza di espressione spirituale che è il risultato di un intimo commercio con le grandi opere d'arte. In poche parole: l'anima nella liturgia acquista il grande stile della vita religiosa. Cosa questa che non si può mai apprezzare abbastanza. D'altra parte proprio la Chiesa non si stanca mai di ammonire – e lo mostra l'esempio dell'ordine vivente nella liturgia – che accanto alla vita liturgica deve esplicarsi non meno fervida la devozione privata, nella quale l'anima si abbandona tutta, così com'è, nelle sue disposizioni particolari. Il che col tempo conferisce anche alla sua vita liturgica calore e colorazione personale. Se la devozione personale mancasse, se la liturgia fosse l'unica forma della vita religiosa, questa rischierebbe facilmente di diventare un freddo sistema di cerimonie; ma se vien meno la liturgia, le conseguenze non devono essere meno fatali.

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CAPITOLO QUARTO

IL SIMBOLISMO L I T U R G I C O

Nella liturgia il credente incontra un mondo ricco di segni e immagini dense di contenuto: gesti, movimenti, azioni, oggetti, luoghi e tempi significativi e via dicendo. Dinanzi a essi sorge il problema: quale significato ha mai tutto questo nelle relazioni tra l'anima e Dio? Dio è al di là di ogni spazio; cosa ha Egli a che fare con minute prescrizioni riguardanti lo spazio? Dio è al di sopra di ogni tempo; che valore ha per le relazioni con Lui tutta la divisione e distribuzione del tempo, a cominciare dalle ore liturgiche fino all'anno ecclesiastico? Dio è assoluta semplicità: come lo possono riguardare movimenti, azioni, oggetti rituali? Ma rinunciando ad approfondire oltre la questione, e accontentandoci di riaffermare che Dio è Spirito, non possiamo elevare questo dubbio: può, in genere, quanto è materiale avere un significato nelle relazioni tra l'anima e Dio, puro spirito? Non è fatale che codesto elemento materiale falsi e abbassi tali relazioni? E, pur concedendo che l'uomo è costituito di anima e di corpo, ch'egli pertanto non essendo puro spirito, deve subire influssi da parte del corpo nella sua vita spirituale, non costituisce questo una deficienza, cui opporsi? Non deve essere compito del vero culto di elevarsi a una «adorazione di Dio in spirito e verità» e di tende59

re, per lo meno nei limiti del possibile, a eliminare il corporeo e il materiale? Anche tale problema conduce al cuore di ciò ch'è la liturgia. Che valore ha mai per noi l'elemento materiale come mezzo di ricezione e di traduzione di realtà spirituali, come mezzo di impressione ed espressione spirituale? Il nucleo più intimo della questione sta nel modo in cui l'io vive nell'ambito del proprio essere spirituale – materiale, nel rapporto tra anima e corpo. In una forma determinata di questa esperienza di sé «lo spirito» si presenta fortemente distinto dal «corporeo». Lo spirituale appare un mondo in sé chiuso, che si trova al di qua, o meglio, al di là del corporeo e con questo ha poco o nulla a che fare. Spirituale e corporeo sono sentiti come due ordini di realtà, che stanno l'uno accanto all'altro, fra i quali esiste, sì, un commercio, ma tale soltanto, che sembra più un passaggio o trasposizione dall'uno all'altro che una immediata collaborazione reciproca. È una concezione spiritualistica che ha ricevuto la sua espressione metafisica estrema per esempio nella monadologia di Leibniz e quella psicologica nella dottrina del parallelismo psicofisico. È chiaro che, su queste basi, all'elemento corporeo può essere attribuito solo un significato più o meno contingente nei riguardi dello spirito. Il corporeo è sì unito con lo spirituale, questo ha sì pure bisogno di quello, ma, per la specifica vita del secondo, il corporeo non deve assumere importanza. Lo spirito deve sentirlo come un impedimento e una contaminazione. Ciò che esso cerca – la verità, l'impulso morale, il bene religioso, Dio e il divino – esso si sforza di rag60

giungerlo per via meramente spirituale. E anche se non ignora che ciò gli è irraggiungibile, s'affatica tuttavia ad avvicinarsi alla pura spiritualità, almeno quanto è possibile. Il corporeo per un uomo siffatto è una tara, un'imperfezione che fatalmente trova in sé e cerca di eliminare. Nel caso migliore egli attribuisce al corporeo una certa importanza esteriore, lo accoglie quale mezzo di spiegazione dell'elemento spirituale, come «esempio», come allegoria; ma sempre con la piena consapevolezza di far propriamente una concessione inammissibile. E coerentemente il corpo non sarà per lo spirito neppure organo adatto a esprimere adeguatamente la sua vita interiore. Anzi, esso non avrà neppure l'esigenza di esprimere in forme sensibili il contenuto della sua vita spirituale, giacché per esso lo spirituale riposerà in se stesso, oppure s'esprimerà nella semplicità dell'atto morale o della nuda parola. La persona che ha tale disposizione deve incontrare grosse difficoltà nella liturgia. Essa inclina naturalmente a una pietà severamente spiritualistica che cerca di respingere il corporeo, di dare una forma al possibile semplice e nuda a ogni manifestazione dell'animo, e attribuisce il massimo valore alla mera parola come alla forma «spirituale» della comunicazione. A questo temperamento spirituale se ne contrappone un altro. Per questo spirituale e materiale si trovano intimamente uniti; anzi esso inclina a una fusione dei due domini. Se quello tende a separare il corporeo è lo spirituale, questo si sforza invece di ridurli all'unità. Per codesto tipo l'anima diventa facilmente il semplice aspetto interiore del corpo; il corpo l'aspetto esteriore, la condensazione, la sensibilizzazione dell'anima. Ogni realtà spirituale trapassa immediatamente e si traduce in condizioni o movimenti cor61

porei; ogni azione esterna è sentita immediatamente anche come qualcosa di spirituale. Questo sentimento dell'unità fondamentale di corpo e spirito può dilatarsi anche oltre l'ambito della propria personalità e accogliere in sé anche le cose esteriori. Allo stesso modo che queste vengono facilmente considerate quali rivelazioni di un contenuto spirituale, così possono anche essere valorizzate quale mezzo di espressione per la propria vita interiore. In tal maniera si possono vedere espresse negli oggetti, nelle vesti, nelle istituzioni sociali, nelle cose della natura, anzi nella realtà universale, condizioni, desideri, aspirazioni, lotte del proprio intimo essere. Una concezione spirituale di questo tipo sembra a prima vista avere relazioni più strette con la liturgia. Essa infatti sente assai più immediatamente la forza comunicativa del movimento e dell'azione liturgica come pure degli oggetti liturgici e riesce assieme con facilità a servirsi di questi fenomeni esteriori quali espressioni della propria vita interiore. Eppure anche a essa la liturgia presenta le sue difficoltà. Dove lo spirituale e il corporeo sono sentiti come qualcosa che trapassa l'uno nell'altro, che si presenta ora nell'una e nell'altra forma, riesce difficile legare la manifestazione del proprio intimo a forme d'espressione determinate, collegare certe forme, azioni, oggetti e significati espressivi nettamente definiti. La vita interiore è un perpetuo fluire, si muta a ogni istante. Codesta mentalità non può creare nessuna forma espressiva chiaramente e nettamente definita, giacché per essa manca una vera e propria separazione tra spirito e corpo. E non meno difficile riesce a una persona così orientata leggere in date forme di comunicazione sempre gli stessi contenuti; essa sente piuttosto il loro messaggio come cosa 62

sempre nuova e diversa, in dipendenza dalle proprie disposizioni del momento 1 . In altre parole: nonostante la stretta relazione in cui stanno, in questo tipo psichico, il corporeo e lo spirituale, a esso manca tuttavia la capacità di legare certi contenuti spirituali a forme esteriori determinate: si tratti di esprimere il proprio intimo o di accogliere e comprendere un pensiero o stato d'animo altrui che venga dal di fuori. Il che significa che a esso difetta un elemento necessario della potenza simbolizzatrice. Quel temperamento spirituale che abbiamo descritto per il primo (lo «spiritualistico») non sapeva raggiungere il simbolo, per la propria incapacità di cogliere l'intima relazione che stringe insieme lo spirituale e il materiale. Esso sapeva, sì, distinguere, delimitare, ma lo faceva in misura troppo grande, al punto che le relazioni andavano perdute. Il secondo tipo di sensibilità descritto possiede la capacità di questa relazione; giacché per esso l'interiore si riversa immediatamente nella forma esteriore. Gli manca, però, il senso della distinzione e della distanza. Invece, relazione e distinzione sono ambedue necessarie a creare un simbolo 2 .

1. Di qui la tendenza propria di siffatti temperamenti a evadere dalla Chiesa con le sue forme nettamente definite e a rifugiarsi nella natura, per cercarvi una espressione adeguata alla loro sensibilità indeterminata e cangiante e per trarre dalla natura quell'eccitamento di cui sentono l'esigenza. 2. Per tutta la questione cfr. R. Guardini, Liturgische Bildung, Rothenfels 1929 [tr. it. Formazione liturgica, OR, Milano 1988]. Su tutta l'analisi del simbolo presentata qui, debbo dire ora che essa rimane totalmente sul piano psicologico-razionale. La più recente indagine storica e sistematica sul simbolo offre importanti indicazioni per il lavoro da svolgere. Certo non si dovrebbe dimenticare che quest'ultimo tipo d'analisi è completamente naturalistico e non ha alcuna notizia né della persona autentica né dello pneuma. Il compito dovrebbe essere contemporaneamente critico e costruttivo.

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Un simbolo sorge quando qualcosa d'interiore, di spirituale, trova la sua espressione nell'esteriore, nel corporeo; non quando, come nell'allegoria, qualche realtà spirituale è arbitrariamente collegata dall'esteriore corrispondenza a qualcosa di materiale, come ad esempio «la giustizia» alla figura della bilancia. Ciò ch'è interiore deve piuttosto tradursi nell'esteriore vitalmente, con necessità che scaturisce dalla sua essenza. Così il corpo è il simbolo naturale dell'anima, così un movimento spontaneo è simbolo di un fatto psichico. Inoltre il simbolo nella pienezza del suo significato richiede d'essere chiaramente definito, così che la sua forma espressiva non possa valere anche per qualcosa d'altro. Esso deve parlare un linguaggio limpido e ben determinato e perciò tale che, presupposte le condizioni normali, riesca a tutti comprensibile. Il vero simbolo sorge quale espressione naturale di uno stato d'animo reale e specifico. Così, una volta configurato, possiede contemporaneamente una validità generale non di rado assai ampia, a tutti comprensibile e piena di significato ma insieme, come l'opera d'arte, deve innalzarsi al di sopra del puramente individuale. Deve esprimere non contenuti psichici unici e irripetibili, ma dire qualcosa sull'anima in universale, sulla vita dell'uomo in se stessa. Affinché sorga pertanto un simbolo genuino, debbono, al momento giusto, collaborare ambedue le complessioni psichiche che abbiamo più sopra descritte. L'accordo perfetto può risultare solo dal vitale intreccio dei due motivi: dello spirituale e del materiale. Contemporaneamente lo spirito deve dominare con sguardo vigile e chiaroveggente ogni linea della sua creazione, discernere con sicurezza, delimitare 64

con fine sensibilità, ponderare illuminatamente, affinché determinati contenuti spirituali ottengano la loro inequivocabile espressione sensibile. E questa figurazione simbolica ha tanto maggior valore e tanto più merita il suo nome, quanto più universalmente valida, pura, limpida, esauriente è riuscita la compenetrazione della forma sensibile da parte del rispettivo contenuto spirituale. Allora si svincola dalla creatura singola, da cui era scaturita dapprima, e diviene patrimonio della comunità; e ciò accade in tanto maggior misura, quanto più profonda è la vita da cui è sorta e quanto più chiara, per così dire, necessaria, è la forma che ha assunta. Questa forza simboleggiatrice si è manifestata ad esempio nella creazione delle forme fondamentali di tatto. In esse rientrano le maniere in cui l'uno manifesta all'altro la sua riverenza o simpatia, quelle con cui si esprime il mondo interiore della vita sociale e simili. Vengono poi – cosa particolarmente significativa per il nostro assunto – i gesti religiosi: il fatto, cioè, che l'uomo nell'emozione religiosa si inginocchia, si inchina, congiunge o stende le mani, allarga le braccia, si batte il petto, offre qualcosa, e via dicendo. Questi gesti elementari possono svilupparsi più riccamente oppure intrecciarsi e combinarsi l'un con l'altro. Sorgono così molteplici «gesti cultuali», ad esempio il bacio della pace o la benedizione. Oppure pensieri determinati trovano la loro espressione in movimenti adeguati, come la fede nel mistero della redenzione, nel segno della croce. Da ultimo un'intera serie di tali movimenti può combinarsi, dando luogo all'azione rituale, in cui una realtà spirituale riccamente sviluppata ottiene un'espressione concreta, plastica: per 65

esempio un sacrificio. Nell'atto, pertanto, in cui si compie quell'estensione del sentimento di sé alle cose che stanno fuori dell'ambito personale di cui già parlammo, emerge nel simbolo il momento materiale. Le cose intensificano la forza espressiva del corpo e dei suoi movimenti; sono, per così dire, un ampliamento dell'ambito del corpo oltre i suoi confini naturali. Così avviene quando in un'azione di offerta il dono è presentato non sulla semplice mano bensì sopra un piatto. La superficie del piatto accentua l'effetto espressivo della palma della mano, e ne risulta per così dire un piano dilatato e aperto verso l'alto, verso la Divinità, che spicca potentemente di contro alla linea verticale del braccio. Oppure si consideri la nuvola d'incenso che sale ondeggiando; essa accentua l'espressione del protendersi verso il cielo, che è insita nelle mani dei fedeli e nei loro sguardi drizzati verso l'alto. La colonna del cero che si drizza snella, verso la cima lievemente si assottiglia, sul cui vertice brilla la fiamma, e che bruciando si consuma, personifica il sentimento dell'offerta, presentata volontariamente con nobile disposizione dell'animo. A codesta creazione del simbolo hanno dunque parte ambedue i temperamenti considerati. L'uno, mediante il suo sentimento dell'affinità esistente tra spirituale e corporeo, offre, per così dire, la materia, quale prima condizione preliminare della creazione simbolica. L'altro vi contribuisce con la sua capacità di distinzione e la sua consapevolezza della distanza tra i due domini, assicurando chiarezza e determinazione formale. Pure ambedue incontrano nella liturgia difficoltà che contrastano con la loro natura. Ma poiché ambedue hanno collaborato alla creazione dei simbo66

li liturgici, essi possono anche superare queste difficoltà, appena il credente si sia convinto della dignità obbligante, almeno in certo modo, della liturgia. Per temperamenti della prima categoria si tratta di limitare una spiritualità esagerata, di riconoscere l'effettiva affinità del corporeo con lo spirituale, di aprire l'animo proprio alla ricchezza che si cela nei simboli liturgici. Essi devono uscire dal loro riserbo, vincere la ritrosia con cui si cautelano da ogni espressione dello spirituale nel materiale, accogliere infine realmente quest'ultimo quale organo capace di rivelare la vita interiore. Questo sacrificio assicurerà un arricchimento e un calore tutto nuovo alla loro sensibilità. I tipi dell'altra specie devono invece sforzarsi di arginare l'esuberanza della loro sensibilità, di contenere in limpide forme quanto v'è, in loro, d'indeterminato e di fluido. Per costoro, è assai importante riconoscere che la lingua nei suoi simboli è immune da ogni materialismo 3 , che le forme naturali spontanee nella liturgia appaiono tutte trasformate (si riveda quanto si disse più sopra intorno allo stile) in forme riflesse di cultura. Così per tali temperamenti il mondo di immagini proprio della liturgia assurge a una scuola di misura e di disciplina spirituale. Chi partecipa con vera dedizione alla liturgia può sperimentare che in genere il materiale, movimento e azione corporea, possiede effettivamente un grande 3. Come invece non accade nei culti naturalistici, le cui cerimonie si svolgono immediatamente nella stessa natura, nella foresta, sulla riva del mare, e via dicendo. La liturgia, al contrario si dispiega in edifici elevati dalla mano dell'uomo. Sarebbe compito di una ricerca particolare e assai interessante l'investigare come i suoni, le forme, le cose naturali siano assurti a elementi cultuali.

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significato. Esso ha grandi possibilità di suscitar impressioni, suggerir conoscenze, intensificare l'esperienza religiosa, rendere una verità più efficace e convincente della semplice parola. Possiede esso, quindi, anche un'efficacia liberatrice, in quanto permette alla vita interiore un'espressione più adeguata di quel che lo possa la mera parola 4 .

4. (La concreta applicazione di questi princìpi alle cose e ai riti della liturgia Guardini ce l'ha offerta nel breve saggio I santi segni, che segue in questo volume: essi sono lo sviluppo degli accenni ai «gesti cultuali» di cui più sopra a pp. 65-66.)

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CAPITOLO QUINTO

LA LITURGIA C O M E G I O C O

Certe nature gravi e serie, tutte rivolte alla ricerca e alla contemplazione della verità, che in ogni cosa vedono il compito morale e dovunque cercano il fine, incontrano facilmente nella liturgia una difficoltà singolare. La liturgia appare loro facilmente come qualcosa senza scopo, un cumulo superfluo di cose, una realtà inutilmente complicata, artificiosa. Costoro si scandalizzano che la liturgia fissi con tanta minuziosità ciò che si deve compiere prima e ciò che deve avvenire dopo, se a destra o a sinistra, ad alta voce o piano. A che scopo tutto ciò? L'essenziale nella Santa Messa, l'offerta e la consumazione del cibo divino, può essere compiuto così semplicemente: perché tale grande spiegamento di un rituale levitico? Le necessarie consacrazioni potrebbero essere fatte così semplicemente con poche parole, i sacramenti essere amministrati senza complicazioni rituali: a che pro' tutte quelle preghiere e cerimonie? La liturgia può avere per costoro un carattere di gioco e di teatralità. Questo problema si deve prendere sul serio. Esso non si presenta a tutti; ma non appena affiora, costituisce sempre la rivelazione di un temperamento spirituale inteso all'essenziale. Esso sembra aver stretta relazione con la questione dello scopo in assoluto. Scopo, in senso proprio, noi denominiamo quel principio d'ordine, per cui cose e azioni si subordinano le une alle altre, in modo che l'una serva all'altra, l'una si presen69

ti in funzione dell'altra. Ciò ch'è subordinato, il mezzo, ha significato solo in quanto è in grado di servire a ciò ch'è sopraordinato, allo scopo. Chi agisce non s'indugia spiritualmente in esso, giacché per lui costituisce solo un passaggio ad altro, via che conduce allo scopo, dove propriamente stanno la mèta e il riposo. Da questo punto di vista ogni mezzo deve saperci assicurare se e in che limiti è in grado di portarci allo scopo. Questo esame ha per intento di escludere tutto ciò che non appartiene alla cosa, ciò che è marginale, superfluo. Domina qui il principio economico di raggiungere il fine nel modo più perfetto possibile col minore impiego di forza, tempo e materia. Il corrispondente stato d'animo è caratterizzato da una certa febbrilità, da una tensione senza riguardo e da una rigida oggettività. Questo atteggiamento spirituale è legittimo e necessario nella totalità della vita. Le assicura serietà e salda direzione. Corrisponde anche alla struttura della realtà nella misura in cui ogni cosa in certo modo cade sotto il punto di vista dello scopo. Molti dati di fatto possono essere giustificati quasi totalmente dal punto di vista dello scopo, come ad esempio, la vita economica e i processi della tecnica; tutti poi possono esserlo almeno in parte e per qualche riguardo. Nessun fenomeno, però, cade esclusivamente sotto questo concetto; di molti, anzi, solo una piccola parte. Ovvero, per dir meglio: ciò che assicura alle cose, ai processi il diritto dell'esistenza e la giustificazione della loro peculiarità è, per talune, non solamente, per altre, non certo in prima linea, la loro attitudine a uno scopo. Le foglie e i fiori hanno uno scopo? Certamente, giacché sono organi delle piante; ma a tale scopo essi non devono assumere proprio quella forma, quel colore, quel profumo determinato. A che 70

scopo pertanto la prodigalità di forme, colori, profumi della natura? A che pro' la molteplicità delle specie? Le cose potrebbero andare anche con maggior semplicità. L'intera natura potrebbe essere piena di esseri, la cui riproduzione potrebbe essere ottenuta in una maniera assai più rapida e «funzionale». L'indiscriminata applicazione del finalismo alla natura non rimane per nulla immune da contestazioni. E per approfondire maggiormente il problema: quale scopo deve avere in genere l'esistenza di questa o quella pianta, di questo o quell'animale? Forse quello di servir da nutrimento ad altri? Certo no! Se noi applichiamo soltanto il criterio dell'esteriore funzionalità, troviamo che molte cose della natura sono funzionanti solo in parte, e nessuna è utile in tutto e per tutto. Molte cose anzi, alla luce di questo criterio, appaiono senza scopo. In una creazione della tecnica, sia una macchina o un ponte, tutto risponde a uno scopo: altrettanto in un'impresa commerciale, nella burocrazia d'uno Stato; eppure neanche per queste cose il concetto della finalità basta a risolvere tutti i problemi relativi al loro diritto di esistere 1 . Se, pertanto, vogliamo renderci pieno conto della cosa, dobbiamo assumere un angolo visuale più ampio. Il concetto di scopo pone il centro di gravità d'una cosa al di fuori e al di là di essa; tale concetto la considera quale tramite per un movimento che va oltre e precisamente si dirige alla mèta. Ogni cosa, pertanto, è anche – e taluna lo è quasi del tutto – un quid a sé stante, uno scopo a sé, nella misura in cui si può applicare ancora questo concetto in tale più ampia significazione, cui si adatta

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Cfr. R. Schwarz, Wegweisung der Technik, Potsdam 1929.

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meglio il concetto di senso. Tali cose non hanno scopo nella stretta accezione della parola; hanno però un senso. E questo senso è mostrato, non dal fatto ch'esse producono fuori di sé un effetto ovvero contribuiscono alla costituzione o alla modificazione di qualcosa d'altro, bensì il loro significato consiste nel loro essere quello che sono. Nella rigorosa accezione dei vocaboli, esse sono senza scopo, ma piene di senso. Scopo e senso sono i due modi di presentarsi del fatto che una cosa esistente ha motivo e diritto al proprio essere. Dal punto di vista dello scopo, una cosa si inserisce in un ordine che va oltre di essa; nei riguardi del senso, essa riposa in se stessa. Qual è ora il senso di ciò che è? D'esistere e d'essere un riflesso del Dio infinito. E qual è il senso di ciò che vive? Di vivere, esplicare l'intima essenza propria, di fiorire quale rivelazione naturale del Dio vivente. Questo non vale solo per la natura, ma anche per la vita dello spirito. La scienza ha forse uno scopo nel senso proprio della parola? No. Il pragmatismo vuol attribuirgliene uno: quello di incitar gli uomini a migliorarsi moralmente. Ma questo significa misconoscere la dignità sovrana della conoscenza. Essa non ha alcun scopo, ha però un senso, che riposa in se stesso: la verità. L'attività legislativa di un parlamento ad esempio ha uno scopo; essa intende far valere nella vita statale una direttiva nettamente determinata. La scienza del diritto invece non ne ha, mirando solo a conoscere la verità nelle questioni giuridiche. E così è di ogni autentica scienza, che è, in base alla sua essenza, conoscenza della verità, servizio della verità. Neppur l'arte ha uno scopo. Si dovrebbe altrimenti pensare che la sua ragione d'essere sia la necessità 72

dell'artista di procurarsi con essa di che nutrirsi e di che vestirsi. Oppure, come pensava l'illuminismo, che l'arte sia destinata a offrire esempi intuitivi della verità di ragione e a insegnare la virtù. L'opera d'arte non ha scopo, bensì ha un senso, e precisamente quello ut sit, d'essere concretamente, e che in essa l'essenza delle cose, la vita interiore dell'uomo-artista ottenga un'espressione sincera e pura. L'opera d'arte deve essere soltanto splendor veritatis. Quando la vita si sottrae al rigoroso ordine dei fini, allora diventa un gioco di dilettanti. Muore, però, anche quando la si vuol costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. I due elementi si integrano reciprocamente. Lo scopo è il fine dello sforzo, del lavoro, dell'ordine; il senso è il contenuto dell'esistenza, della vita che fiorisce e matura. I due poli dell'essere pertanto sono: scopo e senso, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinamento e creazione. Anche la vita della Chiesa universale si svolge tra queste due direzioni. Ecco la possente struttura degli scopi nel diritto canonico, nella costituzione e nell'amministrazione della Chiesa. Qui tutto è mezzo ordinato a un unico scopo, quello di mantenere in efficienza la grande macchina della amministrazione ecclesiastica. Decisivo qui è il criterio, se l'istituzione o l'ordinanza considerata risponda alla finalità generale, se essa la raggiunga col minor impegno di forze e tempo 2 . Lo spirito della pra2. Quantunque l'organismo della Chiesa debba essere considerato pure qui da un altro punto di vista, quale creazione di Dio. Cfr. F. Pilgram, Fisiologie der Kirche, nuova ed. a cura di W. Becker, Mainz 1932.

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ticità deve costituire la forza determinante in questa ampia organizzazione del lavoro. La Chiesa, però, ha pure un altro aspetto. La sua vita abbraccia un campo in cui essa rimane libera dallo scopo nel senso proprio della parola. Questo campo è la liturgia. Anche questa certo include un complesso di scopi, i quali costituiscono, per così dire, l'armatura che la sostiene; così i Sacramenti hanno il compito di comunicare determinati doni di grazia. Ma questa comunicazione, presupposte le condizioni richieste, può anche aver luogo in forma assai semplificata. L'amministrazione d'urgenza dei Sacramenti offre l'esempio di un'azione liturgica rigidamente limitata al suo mero scopo. Si può anche affermare che la liturgia, ogni sua azione e ogni sua preghiera, ha lo scopo di educare religiosamente. E questo è pur vero. Però essa non ha un piano d'educazione preordinato e voluto di proposito. Per comprendere la differenza, si confronti il discorso di una settimana dell'anno ecclesiastico con gli esercizi di Sant'Ignazio. In questi ultimi tutto è consapevolmente pesato, tutto organizzato allo scopo di raggiungere un determinato effetto pedagogico sulla vita spirituale; ogni esercizio, ogni preghiera, anzi le stesse ore di riposo sono indirizzate allo scopo fondamentale di determinare la conversione della volontà. Non così avviene nella liturgia: è già abbastanza significativo che la liturgia non abbia posto alcuno negli esercizi3. Anch'essa vuole formare, ma non attraverso un sistema di influssi educativi calcolato apposita3. I Benedettini, e anche i tentativi d'altri, ve lo assegnano, però vengono così a praticare manifestamente un altro tipo di esercizi spirituali, diverso da quello che si proponeva Sant'Ignazio.

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mente in vista del fine, bensì creando semplicemente una perfetta atmosfera religiosa in cui l'anima si dispieghi religiosamente. Vi è una differenza simile a quella che passa tra una palestra ginnica, dove ogni attrezzo, ogni esercizio è calcolato, e l'aperta campagna o la foresta. Là tutto è sviluppo consapevole delle forze, qui tutto è vita naturale, crescita delle intime energie nella natura e con la natura. La liturgia crea un ampio mondo esuberante di intensa vita spirituale e fa sì che l'anima vi si muova e vi si sviluppi. Questa ricchezza di preghiere, pensieri, azioni; questo intero ordinamento di tempi rimane incomprensibile, se lo si commisura all'unità lineare della funzionalità rigorosamente oggettiva. La liturgia non ha «scopo», o almeno non può essere ridotta soltanto sotto l'angolo visuale della sola finalità pratica. Essa non è un mezzo impiegato per raggiungere un determinato effetto, bensì – almeno in una certa misura – fine a sé. Essa, secondo le vedute della Chiesa, non è una tappa sulla via che conduce a una mèta che sta fuori di essa, bensì un mondo di realtà viventi che riposa in se stesso. Questo è l'importante: se lo si trascura, ci si sforza di trovare nella liturgia intenti pedagogici d'ogni specie, che possono in qualche modo esservi introdotti, ma che non vi occupano però un posto essenziale. La liturgia non può avere «scopo» alcuno anche per questo motivo: perché essa, presa in senso proprio, ha la sua ragione d'essere non nell'uomo, ma in Dio. Nella liturgia l'uomo non guarda a sé, bensì a Dio; verso di Lui è diretto lo sguardo. In essa l'uomo non deve tanto educarsi, quanto contemplare la gloria di Dio. Il senso della liturgia è pertanto questo: 75

che 1'a n i m a stia dinanzi a Dio, si effonda dinanzi a Lui, si inserisca nella Sua vita, nel m o n d o santo delle realtà, verità, misteri, segni divini, e così si assicuri la vera e reale vita sua propria 4 . Ci s o n o d u e passi m o l t o p r o f o n d i nella Sacra Scrittura che avviano alla soluzione definitiva di questo p r o b l e m a , p e r n o n dire che p r o n u n z i a n o la parola liberatrice. L ' u n o sta nella visione d'Ezechiele 5 . Questi fiammeggianti C h e r u b i n i «andavano diritti dove il vento li spingeva [...], né si voltavano nell'andare [...], andavano e venivano come la vampa della folgore [...], andavano [...] e stavano [...] e si alzavano dal suolo [...]; il fruscio delle loro ali assomigliava al murmure di molt'acqua [...], e quando si fermavano abbassavano nuovamente le ali...». C o m e s o n o «senza scopo» codeste creature! C o m e s o n o addirittura sconfortanti p e r u n o zelatore della funzionalità raziocinata! Essi sono «soltanto» m e r o m o v i m e n t o possente e maestoso che si dispiega c o m e lo spirito lo sollecita; che null'altro vuole se n o n esprim e r e l'intimo essere dello spirito, rivelarne esteriorm e n t e l'intimo fervore e l'impetuosa forza; ecco u n a viva i m m a g i n e della liturgia! E in un altro passo 6 parla l'Eterna Sapienza e dice: «Io stavo presso di Lui intenta ad ordinare le cose tutte, ed

4. È appunto in stretta relazione con questo il fatto che la liturgia «moralizza» così poco. In essa l'anima si forma; ma non attraverso una elaborata dottrina della virtù o un esercizio sistematico, bensì vivendo nella luce dell'eterna Verità, nell'ordine genuino naturalmente e soprannaturalmente sano. 5. Ez 1,4 ss., e specialmente i versetti 12, 17, 20, 24, e 10,9 ss. 6. Prv 8, 30-31.

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ero tutta compiacenza giorno per giorno, ricreandomi (ludens) in sua presenza ogni momento, ricreandomi sul globo terrestre ...».

Questa è la parola decisiva! Il Padre eterno si compiace che la Sapienza, il Figlio, la Pienezza assoluta d'ogni verità, dispieghi dinanzi a Lui in un'inesprimibile bellezza questo contenuto infinito senza alcuna «mira» – a che dovrebbe Egli «mirare»? –; ma nella pienezza più definitiva del senso, in mera e schietta gioiosità di vita: Egli «gioca» dinanzi a Lui. E questa è la vita degli esseri più elevati, degli Angeli; essi, senza scopo, come lo Spirito li sollecita, si muovono dinanzi a Dio in un senso misterioso, sono dinanzi a Lui un gioco e un canto vivente. Anche nell'ambito delle cose terrene vi sono due fenomeni che accennano alla stessa tendenza: il gioco del bambino e la creazione dell'artista. Nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcun scopo. Non mira ad altro che a esplicare le sue forze giovanili, a espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere, a diventar sempre più perfettamente se stesso. Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita; e il senso non è altro che questo: che essa si manifesti senza impedimenti, nei pensieri, nelle parole, nei movimenti, nelle azioni, si renda padrona dell'essere suo, sempliceniente esista. E giacché non mira a nulla di particolare, giacché si dispiega così spontaneamente e senza coercizioni, appunto perciò anche l'espressione riesce armonica, la forma limpida e suggestiva: il suo gesto si tramuta da sé in ritmo e immagine, in rima, melodia, canto.

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Questa è gioco: espandersi disinteressato della vita che prende possesso della propria pienezza, e ch'è piena di senso anche nella sua mera esistenza, ed è bella quando la si lascia a sé, quando non vi vengono introdotti intenti riflessi con precettistica mal illuminata pedagogizzante, rendendola in tal modo innaturale. Con l'avanzare degli anni, si presentano anche le lotte: la vita si sente agitata da conflitti e odiosa. L'uomo si pone dinanzi agli occhi ciò che egli vuole, ciò che egli deve, e cerca di realizzarlo nella sua vita e nell'essere suo. Ma qui esperimenta quante forze vi contrastino, e constata quanto di rado egli è veramente ciò che dovrebbe e vorrebbe essere. Questa contraddizione tra ciò ch'egli potrebbe essere e quello ch'è in realtà, cerca di superarla in un altro ordine di realtà, nel mondo irreale dell'immaginazione, nell'arte. Nell'arte l'uomo cerca di ristabilire l'unità tra ciò che vuole e ciò che ha; tra ciò che dev'essere e ciò che è; tra l'anima ch'è dentro di noi e la natura ch'è fuori di noi; tra il corpo e lo spirito. Tali sono le creazioni dell'arte. Non hanno dunque alcuno scopo istruttivo, non mirano a insegnare determinate verità o virtù. Nessun artista si è mai proposto questo. Nell'arte l'artista non mira ad altro che a risolvere questa tensione interiore, a dar espressione nel mondo dell'immaginazione a quella vita superiore a cui anela e che nella realtà raggiunge solo approssimativamente. L'artista non vuol altro se non dare una realtà esteriore al suo essere intimo e al suo anelito, assicurare alla verità interiore forma concreta. E anche chi contempla l'opera d'arte non deve proporsi null'altro che di soffermarsi in essa, respirarvi, muoversi liberamente, prendere consapevolezza della parte migliore del suo essere, anelare al compimento del78

la propria brama intima. Non deve perciò riflettere sopra con imbronciata critica «raziocinante» o cercarvi dottrina o savî ammonimenti. Ora la liturgia fa qualcosa di ancor più elevato. In essa viene offerta all'uomo l'occasione di realizzare, sostenuto dalla grazia, il senso più singolare e proprio del suo essere, d'essere quale egli dovrebbe e vorrebbe essere in conformità alla sua vocazione divina: un «figlio di Dio». Nella liturgia, dinanzi a Dio, egli deve «allietarsi della sua giovinezza». Questa è certamente una cosa del tutto soprannaturale, corrispondente però, nello stesso tempo, alla natura intima dell'uomo. E poiché questa vita è più elevata di quella a cui dà occasione ed espressione la realtà consueta, essa trae forme e immagini adeguate da quel dominio nel quale soltanto le può trovare, vale a dire nell'arte. Essa parla in ritmi e melodie; si muove con gesti solenni e misurati; si riveste di colori e paludamenti che non appartengono alla vita consueta; si svolge in luoghi e momenti che sono stabiliti e organizzati secondo leggi superiori. Diventa così, in un senso più elevato, una vita filiale e infantile in cui tutto è immagine, ritmo e canto 7 . Questo pertanto il fatto mirabile che si offre nella liturgia: arte e realtà diventano un'unica cosa nella condizione soprannaturale del figlio e fanciullo insieme, sotto lo sguardo di Dio. Ciò che altrimenti è dato solo nel regno dell'irreale, nell'immaginazione artistica, vale a dire le forme dell'arte come espressione della vita umana pienamente consapevole, qui è realtà. Le forme 7. Pur qui vale quanto s'è detto alla nota 2 del cap. Il simbolismo liturgico, p. 63. In realtà la liturgia non desume le sue forme dall'arte, ma è invece il culto che sta al principio e l'arte della nostra epoca moderna è una creazione culturale che si è staccata e isolata da esso.

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dell'arte diventano la traduzione espressiva di una vita reale, sia pur soprannaturale. E anche questa ha un elemento comune con quella del bambino e dell'artista: è libera da ogni scopo, e perciò appunto piena del senso più profondo. Non è lavoro, ma gioco. Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un'opera d'arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo. E solo chi sa prendere sul serio l'arte e il gioco può comprendere perché con tanta severità e accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, gli oggetti di culto. Hai tu veduto mai con quale serietà i bambini stabiliscono le regole nei loro giochi, in che modo deve svolgersi il loro girotondo, come tutti debbano tenere le mani, che significhi questo bastoncino o quell'albero? Tutto ciò appare sciocco solo a chi non avverte il suo significato o senso e sa vedere la giustificazione d'un atto soltanto negli scopi che se ne possono addurre. E non hai letto mai, oppure direttamente sperimentato, con quale spietata serietà l'artista stia al servizio dell'arte, come egli soffra sotto «la parola» che non si presenta adeguata all'idea, quale padrona esigente sia la forma? E tutto ciò per qualcosa che non ha scopo! No, l'arte non ha nulla a che fare con gli scopi. Qualcuno crede seriamente che l'artista si assoggetterebbe alle mille emozioni, alla febbre ardente della creazione, se con l'opera sua non mirasse ad altro che a dar ai lettori o agli spettatori un insegnamento che avrebbe potuto esprimere non meno bene in un paio di 80

frasi trovate senza fatica, oppure in qualche esempio tratto dalla storia, ovvero con alcune fotografie ben azzeccate? Certo no! Essere artista significa lottare per esprimere la vita profonda, affinché, espressa che sia, essa possa esistere. E null'altro: ma non è già molto questo? È niente di meno che un'imitazione della creatività divina, della quale si dice che abbia fatto le cose ut sint, perché semplicemente esistano. La stessa cosa fa la liturgia. Anch'essa ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressione in mille forme alla vita dell'anima, vita santa alimentata da Dio, mirando a null'altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere. Con severissime leggi essa ha regolato il santo gioco che l'anima svolge dinanzi a Dio. Se vogliamo attingere il nucleo intimo di questo mistero, dobbiamo riconoscere: è lo Spirito Santo, lo Spirito del fervore e della santa disciplina, «che ha potere sulla parola» 8 ; è esso che ha regolato il gioco, che l'eterna Saggezza dispiega dinanzi al Padre celeste nella Chiesa, il suo regno sulla terra. «E la sua delizia», pertanto, «sta nell'essere tra i figli degli uomini». Può comprendere la liturgia solo chi non si scandalizza di questo, come ha fatto innanzitutto ogni razionalismo. Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d'arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d'essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e «diventare come bambini»; rinunciando, una volta per

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Terza della Ufficiatura di Pentecoste, responsorio.

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sempre, a essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersi a giocare, come faceva Davide quando danzava dinanzi all'Arca dell'alleanza. Può certo avvenire che persone troppo assennate, le quali, con la piena maturità, hanno perduto la libertà e la freschezza dello spirito, non lo comprendano e ne facciano argomento di scherno. Ma anche Davide dovette sopportare che Michol ridesse di lui. Il compito, pertanto, della educazione liturgica comprende anche questo aspetto: l'anima deve apprendere a non vedere dovunque scopi, a non essere troppo sensibile ai motivi utilitari, troppo prudente, troppo «adulta», bensì deve sapere anche vivere semplicemente. Essa deve apprendere a liberarsi almeno nella preghiera dalla irrequietudine dell'attività utilitaria, imparare a essere prodiga di tempo per Dio; deve trovar parole e pensieri e gesti per il santo gioco, senza domandarsi a ogni momento: a che scopo e perché? Non voler far sempre qualche cosa, raggiungere qualche cosa, qualcosa produrre od ottenere di utile, bensì apprendere a fare in libertà, bellezza, santa letizia dinanzi a Dio il gioco da Lui regolato della liturgia. Da ultimo, anche la vita eterna non sarà che il compimento di questo gioco. E chi non comprende questo, potrà afferrare poi che il compimento celeste della nostra vita è «un cantico eterno di lode»? Non finirà costui per rientrare nella categoria delle persone attive, che trovano inutile e noiosa tale eternità?

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CAPITOLO SESTO LA SERIETÀ DELLA LITURGIA

La liturgia è arte divenuta vita. Quanto siano elaborate le sue forme, quanto proporzionati i suoi rapporti, quanto ricchi i suoi mezzi d'espressione, lo avverte chiaramente chiunque abbia un po' di sensibilità. Sorge così il pericolo che costui apprezzi il culto della Chiesa soltanto nei suoi valori estetici. Si può, infine, comprendere che la letteratura poetica colga della liturgia prevalentemente il lato artistico; più preoccupante riesce la cosa, se questo lato viene messo troppo in rilievo anche in scritti che si occupano in modo particolare del culto liturgico. Basti ricordare ad esempio libri di valore come Geist des Christentums (Spirito del cristianesimo) dello Staudenmaier, oppure L'oblat dell'Huysmans. L'autore, temendo che il suo libretto contro le sue intenzioni possa agire nella stessa direzione, si sente costretto a riprendere la questione nel presente capitolo. Anche il solo considerare esteticamente l'opera d'arte le fa torto. Ciò che essa significa dal punto di vista puramente estetico, può essere valutato pienamente solo se lo si mette in relazione con la vita intera. Il puro logico o il moralista riesce meno pericoloso all'opera d'arte, perché egli non ha nessun rapporto con essa in linea di principio. Realmente rovinoso le riesce invece proprio chi la vuol concepire solo esteticamente; l'«esteta», prendendo la parola e la cosa nel 83

significato estremo e deteriore che essa ha assunto da Oscar Wilde in poi. Questo vale ancora più quando s'ha a che fare non col mondo fantastico dell'opera d'arte, bensì con l'uomo reale, ovvero addirittura con quella possente unità a cui lo stesso Creatore-Artista, lo Spirito Santo, ha dato realtà di vita e forma d'arte, vale a dire l'Opus Dei della liturgia. Gli esteti sono dovunque dei cattivi ospiti, scrocconi che partecipano da parassiti alla vita; ma in nessun luogo suscitano maggior sdegno che nel santuario. L'uomo di ristretti orizzonti che nella messa cantata non vuol altro che compiere il debito servizio al suo Dio; la donna affaticata che viene in chiesa per alleggerirsi un poco del peso delle sue sofferenze; l'amusica moltitudine rozza che non percepisce nulla di tutta la bellezza che attorno le parla, le canta, le risplende, bensì cerca soltanto un po' di forza per la sua fatica quotidiana – tutti costoro comprendono la peculiare essenza della liturgia meglio del conoscitore, il quale «gusta» dopo la pienezza sonora di un Graduale la sobria bellezza del Prefazio. Tutto ciò conduce a formulare la questione specifica: cosa significa la bellezza nel complesso dell'Opus liturgico? Innanzitutto una breve digressione che, però, non è inutile. Si ebbe già occasione di rendere attenti sul fatto che la vita della Chiesa si svolge in due direzioni. In primo luogo essa costituisce una vita sociale operante, un possente tessuto di attività consapevolmente funzionali, che trovano la loro unità nella medesima costituzione ecclesiastica, avente sì molte membra, ma anche una struttura unitaria. 84

Tale unità presuppone potenza e rappresenta essa stessa una potenza. Il che a sua volta suscita la questione: che significa «potenza» nel campo religioso? La questione si presenta a ciascuno, a seconda del suo temperamento, in modo diverso. Per l'uno essa significa riconoscere che ogni comunità, quindi anche la comunità religiosa, abbisogna di potenza, se vuol vivere. Essa non tradisce l'idea, se, dietro l'insegnamento, l'esortazione, l'ordinamento, pone la potenza. Questa forza esteriore non può mettersi al posto della verità e del diritto, né voler coartare i sentimenti: ciò è indiscusso. Non appena, però, si tratta di una religione che non si limita alle idee e ai sentimenti, bensì mira a elevare la personalità reale e l'umanità reale al regno di Dio, pur esso reale, la religione deve aver anche della potenza. È questa che fa di una verità, di un ordinamento di vita religioso-morale, una forma concreta d'esperienza e convivenza sociale. Ma se si danno temperamenti che sopportano a fatica che cose quali il diritto e la potenza, vengano senz'altro nominate assieme con realtà così intime e spirituali come le convinzioni religiose o la vita religiosa, ve ne sono pure altri dal carattere tutto opposto. Un'immensità di potenza, qual è quella offerta dalla Chiesa cattolica, agisce su costoro con tale immediatezza che trascurano con facilità quello che a tutta codesta potenza dà il suo significato. Essa infatti è solo mezzo inteso allo scopo, strumento per elevare il mondo reale a vero regno di Dio, ancella della verità e della grazia divina. Se si volesse una comunità spirituale senza una disciplina dotata di potere, essa finirebbe per svanire in schemi e ombre. Se, però, uno elevasse l'ancella a signora, il mezzo a scopo, lo strumento a spirito determinante, allora la religione fini85

rebbe per soffocare nel meccanismo e nella servitù. Allo stesso modo che la potenza della Chiesa risiede nella sua vita attiva, la sua bellezza sta nella sua vita contemplativa. Questa non è soltanto una struttura funzionale per se stessa, bensì anche realtà, piena di senso, la quale diventa arte. Tale essa è quando prega: nella liturgia. Il capitolo precedente ha cercato di mostrare in che cosa consista codesto valore d'arte e di finalismo autonomo della liturgia. Solo un gretto cerebralismo può cercare la giustificazione di una forma di vita esclusivamente negli scopi di carattere istruttivo o pratico, che se ne possono addurre. A questo riguardo non si deve però dimenticare che il valore artistico, la bellezza, costituisce, per chi ne possiede una sensibilità particolare, un pericolo allo stesso modo che la potenza nel campo della vita sociale attiva. Il pericolo della potenza è superato solo da chi sa rendersi chiaro conto di ciò ch'essa è e dello scopo al quale serve. Allo stesso modo il fascino ingannatore della bellezza può essere spezzato soltanto da chi si sforza di coglierne il senso. Una cosa che sta a sé è quella donde un valore spirituale trae la sua validità, sia che l'abbia per sé sia che la debba a un'altra superiore, sopraordinata. Del tutto differente da questa è l'altra questione, in quale relazione, cioè, stia una validità riconosciuta come autonoma rispetto agli altri valori pure autonomamente validi. Il primo problema cerca di ricondurre un'idea all'altra, ad esempio la validità della giurisprudenza al diritto in sé. Il secondo si preoccupa di chiarire se tra valori, la cui forma di validità è uguale, esista un ordine determinato, che non possa essere sconvolto. 86

La verità vale in sé, perché è verità, il diritto perché è diritto, la bellezza perché è e nella misura in cui è bellezza. Nessuna cosa che rientri in questo ambito può ottenere la sua validità da una cosa che appartenga a un'altra cerchia, bensì non può averla che da se stessa. Il pensiero più profondo e vero non rende bella un'opera, e il migliore sentimento dello scultore ancor meno, se ciò ch'egli ha creato non ha inoltre preso corpo, non s'è fatto immagine, non ha vigoria di forma, vale a dire, non è bello. La bellezza, come tale, è valida per sé, indipendente da ogni verità e simili. Bella è un'opera d'arte oppure una cosa reale, se l'intima sua essenza e significazione risulta perfettamente espressa nelle sue fattezze esteriori. Il fatto della bellezza implica questo «essere espressi in modo perfetto». Che tutto l'essere della cosa o dell'azione, quindi anche la sua relazione con la realtà tutta e col mondo spirituale, al primo sguardo, assuma forma dai limiti intimi del suo essere, che questa struttura interiore sia entrata pure in un'apparenza, in un fenomeno dotato di forza espressiva e si sia chiusa in una compiuta unità plastica; che sia detto tutto quanto dev'essere detto e niente di più; che siano impiegati tutti gli elementi formali che necessitano e solo questi; che nulla di morto e di vuoto rimanga nella figura esteriore, bensì tutto vi risulti animato e parlante; che ogni nota, ogni parola, ogni superficie, colore, movimento ubbidisca a una esigenza interiore, contribuisca alla rivelazione del contenuto complessivo, s'articoli con gli altri a comporre un'unità matura e senza suture, questa espressione piena, limpida, necessaria della verità della vita interiore nell'apparenza esterna costituisce la bellezza. Pulchritudo est splendor veritatis 87

– est species boni, dice l'antica filosofia: la bellezza è lo splendore di perfezione nel rivelarsi dell'intima verità essenziale e della bontà dell'essere. Essa dunque è un valore a sé, non è né verità né bontà, e neppure può essere dedotta da queste. Tuttavia sta in uno strettissimo rapporto con codeste due cerchie di valori. Il che significa: deve esserci qualcosa che possa rivelarsi all'esterno, una verità essenziale che urga all'espressione, un fatto intimo che voglia tradursi in forme concrete, perché la bellezza possa aver luogo. Il primo dato perciò – non per dignità né per validità, bensì per ordine – è la verità, non la bellezza, per l'artista forse non senz'altro, sebbene nella profondità intima lo sia anche per lui; certamente lo è per la totalità della vita umana. «Il bello è lo splendore del vero», dice la scolastica. A noi uomini d'oggi questa affermazione sa di freddo intellettualismo. Se riflettiamo, però, che questa sentenza scaturisce dallo spirito di uomini, che furono architetti incomparabili di pensieri, che disciplinarono concetti, fissarono conclusioni, elevarono sistemi audaci come le loro cattedrali, tutto questo ci ammonisce a penetrar più addentro il significato di queste parole. «Verità» non significa arida precisione di concetti, bensì adeguato inserimento nell'essere, interiore validità vitale; significa la forza e pienezza integrale di un'esistenza ricca di contenuto. E la bellezza è il gioioso splendore che ne promana, quando la verità nascosta all'ora giusta può rivelarsi, quando l'apparenza esteriore in ogni suo particolare è la pura e piena espressione della realtà interiore. Dunque, perfezione espressiva e non solo in superficie, ma dall'inizio primo dell'attività formante: si può forse definire con maggior profondità e insieme brevità l'essenza del bello? 88

Al bello, pertanto, rende giustizia solo chi rispetta questo ordine e lo intende come lo splendore della verità ontologica perfettamente espressa. Ma si presenta un grande pericolo, tale da essere difficilmente evitabile per molte nature: il pericolo di invertire l'ordine stabilito, di anteporre la bellezza alla verità, oppure di rendere del tutto indipendente la prima dalla seconda: la perfezione formale dal contenuto, l'espressione dall'anima e dal senso. È appunto questo il pericolo della visione del mondo estetica, che finisce poi in snervato estetismo. Il suo rischio è di scivolare con maggior o minore rapidità dal quid dell'oggetto considerato al quomodo, dal contenuto al modo della sua rappresentazione, dal valore reale al valore formale, dalla verità nella sua serietà, dall'esigenza morale inflessibile, all'armonia dissolvente del bello. La qual cosa può avvenire con maggiore o minore consequenzialità, con maggior o minore consapevolezza; ma alla fine codeste nature concludono a un atteggiamento spirituale che ignora tanto la specifica verità del contenuto col suo rigoroso «Questo e non altro», quanto l'idea morale col suo incondizionato dilemma «O questo o quello»; bensì ricerca la pienezza del significato soltanto nella forma e nell'espressione. Il reale, si tratti di una cosa della natura o di un fatto della storia, d'un uomo, d'un dolore, d'una simpatia, di un lavoro, di questioni di diritto, di conoscenze, di idee – tutto fino alla realtà più elevata – riesce, come cosa concreta, insignificante. Ciò vale solo come presupposto del fatto espressivo 1 . 1. Le Intentions (1891) di Oscar Wilde parlano a questo riguardo in tutta la chiarezza desiderabile.

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Sorge cosi l'ombratile struttura della forma assoluta, un quomodo senza quid, uno splendore senza fiamma, un'azione in cui non pulsa alcun vigore 2 . A chi pensa così riesce inafferrabile la profondità dell'opera d'arte e il criterio per misurarne la vera grandezza. Egli non la concepisce più ormai quale essa è intrinsecamente: superamento e confessione. E non riuscirà neppure a render giustizia alla stessa forma alla quale soltanto egli è pure inteso, poiché il senso della forma sta nell'essere espressione di un contenuto, modo di esistere di un essere. L'anima della bellezza è la verità. Chi non guarda a questa luce, alla luce di ciò che realmente è e realmente vale, costui degrada il suo gioco gioioso e pure tanto profondamente serio a vano dilettantismo. In ogni creazione schietta e grande v'è qualcosa d'eroico, perché qui un fatto interiore si è conquistato, nonostante ogni resistenza, la sua espressione verace. Qui è stata combattuta una buona battaglia, qui un essere consapevole della sua parte migliore ha respinto da sé tutto ciò che di estraneo gli si era abbarbicato, ha ridotto in chiara disciplina tutti gli elementi confusi che vi turbinavano, si è sottomesso alla propria legge fondamentale. Un mondo interiore ha così dato testimonianza di ciò ch'esso era e doveva essere, e di ciò che in esso si celava quale sua verace missione e funzione essenziale. Ma tutto questo diventa per l'esteta vano divertimento (Spielerei). E c'è ancora dell'altro. L'estetismo, nel suo fondo, è senza pudore, mentre la vera bellezza è casta. Que2. Pure queste determinazioni e contrapposizioni sono troppo semplici; possono comunque servire sempre a un'ulteriore elaborazione.

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sta parola non deve essere presa in un senso superficiale. Essa non riguarda la questione se questa o quella cosa si possa fare, dire, rappresentare; bensì significa piuttosto quest'altro: ogni manifestazione del proprio intimo deve essere sostenuta da un imperativo interiore, giustificata da valori eterni, da essi permessa, anzi comandata. Ma il criterio di questa liceità e obbligatorietà si radica soltanto nella verità, nella verità oggettiva del contenuto ideale e in quella soggettiva della schietta esperienza interiore. Al contrario, una manifestazione di sé che cerchi il suo fondamento nel mero fatto di rivelarsi, nella stessa forma ed espressione, non ha più dignità. Siamo condotti ancor più oltre da queste riflessioni. Nonostante l'impulso più autentico e la giustificazione nella più schietta verità spirituale, ogni vera interiorità rifugge dal manifestarsi, proprio quando essa ridonda di ogni dote positiva. È anzi questa la dolorosa necessità di ogni vita interiore: di potersi liberare dall'oppressione del proprio mutismo solo esprimendosi, e, tuttavia, di ripugnare a codesto uscir da se stessa, per tema di perdere con ciò quanto di più nobile possiede. La pienezza di ogni vita interiore sta nell'attimo in cui essa, lievitando, si dischiude in forma adeguata al suo essere. Ma subito essa sente, come in un contraccolpo doloroso, che qualcosa di ineffabilmente prezioso s'è perduto irrimediabilmente. Questo fatto avviene in ogni creazione artistica genuina. Come un rossore per la parola certo pronunziata volentieri, a cui però segue, quale segreto rimprovero, un disagio spesso indefinibile, sorgente da lontananze mai conosciute fino a quel momento, come un rapido rinserrarsi delle labbra che vorrebbe91

ro riprendersi la confessione fatta. E chi intende davvero intravvede abissi ancora inespressi e ricchezze castamente serbate dietro a ciò che, abbandonandosi, ha preso forma. Proprio questo dare e possedere ancor altro, questo apparire e ritrarsi di luminose profondità, questo lottare per l'espressione, questo vittorioso e giubilante prorompere insieme con un rinchiudersi pudicamente doloroso – proprio tutto ciò costituisce il fascino più delicato del bello. Ma tutto questo, tutta la bellezza contenuta quasi gemma primaverile nella creazione genuina, va perduta per l'esteta senza reverenza, e riesce impercettibile agli occhi miopi di chi cerca la bellezza per la bellezza, l'espressione per l'espressione. Chi aspira a una «vita in bellezza», innanzi tutto non può voler null'altro che essere vero e buono. Se la sua vita è vera, essa riesce anche bella di per sé, allo stesso modo che la luce irraggia, non appena la fiamma è accesa. Ma se uno cerca per prima cosa il bello, in tal caso gli accade come a Edda Gabler, di rimanere, cioè, alla fine soprattutto nauseato. Allo stesso modo, per quanto strana possa suonare l'affermazione, neppure l'artista nell'atto di creare può cercar la bellezza come tale, quando almeno sotto il nome di bellezza intenda qualcosa di più profondo che una certa grazia delle forme esteriori o un orpello piacevole. Egli deve piuttosto impegnare tutte le forze dell'anima sua nel diventare vero e giusto, nel cogliere in schietta veracità e nel vivere personalmente quanto riempie il mondo interiore ed esteriore. E di conseguenza egli, nemico com'è di ogni effetto appariscente e di ogni verità deve esprimersi così come deve essere, senza neppure una linea di più. Allora 92

anche la sua opera, nel caso ch'egli sia veramente un artista, riesce bella, deve riuscire bella. Ma se l'artista cerca di evitare codesta via certamente faticosa della verità e vuol conquistare la forma partendo dalla forma, in tal caso il suo prodotto sarà un'opera vana capace solo di abbagliare. E chi vuol cogliere un uomo, o una creazione artistica nella sua bellezza, – non diciamo «gustare», parola antipatica, che pone la bellezza allo stesso livello di una leccornia e trae la sua origine da quel mondo senza dignità che combattiamo, – chi dunque vuol penetrare nel loro intimo segreto, deve partire dalla loro anima. Innanzitutto e in linea di principio, farà bene a non soffermarsi troppo sull'espressione e sull'armonia dei suoni e dei colori, bensì piuttosto a cercare di cogliere l'interiore verità di questo organismo vivente. Per questa via al momento giusto egli avvertirà come questo mondo si è tradotto nella sua forma, nel complesso e nei particolari, e sperimenterà il lieto prodigio di questa fioritura. In tal modo egli sarà penetrato nell'intimo nucleo della bellezza, forse senza riconoscerla – fosse pure soltanto perché gode la felicità di sentire un'esistenza piena e chiara. Chi invece persegue la bellezza per se stessa, se la vede sfuggire, e insieme sconvolge la propria vita e la propria opera, perché ha peccato contro l'ordine fondamentale dei valori. Quando invece uno non vuol che vivere sinceramente nella verità, esser cioè vero, e dire la verità, e a essa tiene aperta la propria anima, costui incontra la bellezza senza che la cerchi, insperatamente, come il luminoso evento di una vita ricca, casta, compiuta nella sua forma. Colleghiamo adesso quanto finora dicemmo alla 93

liturgia. Incombe il pericolo che anche qui si affermi l'estetismo, che la liturgia sia prima esaltata, poi apprezzata esteticamente, particolare per particolare, nelle sue preziosità, infine che la santa bellezza della casa di Dio venga gustata con raffinatezza da competenti, fino al punto da ridurre «la casa della preghiera», sia pur in modo nuovo, «a spelonca di ladroni». Ma questo non può essere e a motivo di Colui che abita in essa, e a motivo dell'anima nostra! Non per creare delle immagini, frasi armoniose, cerimonie suggestive e solenni la Chiesa ha edificato l'«Opus Dei» bensì – poiché non si prefiggeva altro scopo all'infuori dell'onore di Dio – per i bisogni più seri delle nostre anime. Qui s'è dovuto esprimere ciò che costituisce la vita intima dell'umanità cristiana: la vita divina, nella persona del Cristo, nell'atto in cui si inserisce nella creatura per opera dello Spirito Santo, la rinascita di questa creatura a un'esistenza nuova, realmente e veramente rinnovata nell'essere e nella vita; la crescita, lo sviluppo, il dispiegamento di questa vita nuova per virtù di Dio nel sacramento e nella grazia e per contributo dell'uomo nel sacrificio e nella preghiera; e tutto questo nel rinnovamento costante, misteriosamente reale della vita di Cristo nel decorso dell'anno ecclesiastico. Liturgia è appunto il fatto complesso per cui tutto ciò si compie, si manifesta, viene insegnato, comunicato, accolto in forme determinate della parola, del gesto, degli oggetti di culto, del simbolo. Di realtà, pertanto, dell'avvicinamento della creatura reale al Dio vero, della questione spietatamente seria della salute eterna – di questo si tratta qui anzitutto e soprattutto. Nessuna bellezza qui doveva essere rivelata, bensì l'umanità perduta del pec94

cato doveva trovare la sua salute. È della verità che qui si tratta, del destino delle anime, della vita vera, anzi, in ultima analisi, dell'unica vita reale. Questo doveva essere manifestato attraverso ogni mezzo e forma d'espressione. Ed ecco, che tutto ciò è assurto a bellezza3. Nessuna meraviglia giacché colui che qui ha agito è lo Spirito insieme della verità e della potenza espressiva. Ciò che dentro ferveva, si è espresso nella più schietta veracità; tutta la pienezza di vita qui si è tradotta adeguatamente; le profondità abissali sono emerse in limpide forme. Uno splendore di eccelsa maestà è così irradiato da questa nascita della verità: e non poteva essere altrimenti. Ma per noi la liturgia dev'essere innanzitutto questione di salvezza. La sua verità e il suo significato vitale devono occupare per noi il primo piano. Quando recitiamo le preghiere e i salmi, dobbiamo lodare Dio e pregarlo, e nulla più. Quando partecipiamo alla Santa Messa, dobbiamo saperci vicini alla fonte della grazia. Quando assistiamo a una consacrazione sacerdotale, non dobbiamo vedere nella cerimonia null'altro che un elemento dell'umanità investito dalla grazia di Dio. Non si tratta dunque per noi di riti intensamente espressivi e di parole possenti per stile, quasi stessimo dinanzi a un palcoscenico dello spirituale, bensì di avvicinarci un po' di più con la realtà della nostra anima 3. Giustamente perciò l'ab. Idelfons H e r w e g e n dice: «Io insisto, la liturgia è divenuta o p e r a d'arte, n o n è stata c o n s a p e v o l m e n t e foggiata dalla Chiesa c o m e opera d'arte. La liturgia portava in sé tanto dell'essenza del bello, c h e di per sé doveva maturare a opera d'arte. Il principio p e r ò c h e dall'interno dava forma e figura era l'essenza del cristianesimo». Cfr. Das Kunstprinzip der Liturgie, Paderborn 1916, p. 18.

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alla realta di Dio per esigenze nostre, spietatamente serie, che promanano dalla nostra intima personalità. Solo quando agiamo così, ci viene elargita anche la sua bellezza. Solo quando viviamo la realtà liturgica con la serietà della più intima partecipazione, ci si rende manifesto se, e come, e con quale perfezione questo contenuto di vita si sia espresso. Solo quando moviamo dalla verità della liturgia, ci si aprono gli occhi, così da permetterci di percepire quanto essa sia bella. Questo può avvenire in gradi diversi, a seconda della nostra sensibilità maggiore o minore per il mondo estetico. Forse è solo una sensazione di compiacenza – non per altro molto consapevole – per la profonda rispondenza di tutte le parole e dei riti alle esigenze del mondo interiore, il senso di una tranquilla naturalezza, la coscienza che tutto è in ordine ed è proprio come dovrebbe essere. Sopra e oltre questa coscienza indistinta, ecco rifulgerci un bel giorno un Offertorio che nella cerimonia è incastonato come un gioiello. La struttura di un Oremus diventa trasparente e noi sperimentiamo la preziosa meraviglia di una profondità assieme limpidissima e abissale. Oppure, una parte dopo l'altra, ci si rivela la possente successione delle alte cime della Santa Messa, come emergono dalla nebbia diradantesi e pareti e dossi e vette d'una montagna, pure e luminose, così che a noi sembra di vederle per la prima volta. Ci può accadere allora di lasciar cadere il libro e di indugiare in una lunga sosta, ravvivata di letizia, ma anche pervasa dal brivido della reverenza, quando intuiamo come le verità supreme che compiono tutte le nostre aspirazioni hanno trovato qui la loro parola. Ma codesti sono brevi momenti, che noi dobbia96

mo prendere, quando vengono, come trovati, come donati. Al contrario per la vita quotidiana vale anche in questo caso la regola: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia», «e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù»; tutto, quindi anche l'esperienza del bello.

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CAPITOLO SETTIMO IL P R I M A T O DEL LÒGOS SULL'ETHOS

La liturgia mostra un'altra caratteristica che la rende estranea ai temperamenti attivistici dalle disposizioni particolari alla gravità morale: la sua posizione particolare rispetto all'ordine morale. Anzitutto, codesti temperamenti sentono nella liturgia questa mancanza: che la sua etica non ha rapporti molto immediati con la vita reale di ogni giorno. Essa non offre allo sforzo e alla lotta quotidiana alcun impulso traducibile immediatamente in azione e neppure pensieri immediatamente valorizzagli. Le è proprio un certo riserbo, un certo distacco dalla vita concreta; essa si compie nell'ambito del santuario, solenne e sempre alquanto appartato dal mondo. C'è un contrasto tra lo studio, la fabbrica, l'officina dell'organizzazione scientifica odierna, tra le arene della vita politica e sociale e i santi luoghi consacrati al culto solenne di Dio; tra il robusto realismo d'oggi e il mondo di pensieri e d'intenti nobilmente misurato della liturgia, nelle sue forme limpide e distinte. Non si può tradurre senz'altro nell'azione quello che la liturgia presenta. Così saranno sempre necessarie delle forme di devozione, sorte da una relazione più stretta con l'attuale realtà esteriore della vita; devozioni popolari, in cui la Chiesa risponde ai bisogni particolari dell'esistenza d'oggi, con cui essa afferra 99

immediatamente l'anima contemporanea e la conduce a conclusioni pratiche. Alla liturgia spetta invece, prima di tutto, di suscitare i fondamentali sentimenti cristiani. Essa vuol condurre l'uomo a inserirsi nell'ordine esatto ed essenziale che s'accentra in Dio, a divenire intimamente «giusto» nell'adorare Dio e nel rendergli i dovuti omaggi, nella fede e nell'amore, nello spirito di penitenza e di sacrificio. Quando verrà posto nella condizione di agire, egli farà certamente ciò ch'è giusto, in conformità a quello stesso orientamento. La questione, però, conduce oltre. Che atteggiamento tiene in genere la liturgia di fronte all'ordine morale? In quale rapporto sta in essa il volere rispetto alla conoscenza, il valore di verità rispetto al valore di bontà? In che relazione, per formulare in due parole il problema, stanno in essa Lògos ed Ethos? Ci sia permesso, per rispondervi, di rifarci alquanto indietro. Il Medioevo, lo si può ben affermare, ha prevalentemente risolto la questione dei due valori fondamentali, ponendo, almeno teoricamente, la conoscenza al di sopra dell'azione. Per esso il Lògos aveva il primato sull'Ethos. Prova ne è il modo in cui certe questioni frequentemente discusse vennero risolte 1 , l'incondizionata superiorità riconosciuta alla vita contemplativa rispetto a quella attiva2; ciò emerge infine quale 1. Cfr. le discussioni sulla funzione della teologia, sul suo carattere di scienza «pura» ovvero orientata verso il miglioramento morale; sull'essenza dell'eterna beatitudine, se questa consista nella visione di Dio oppure nell'amore; sulla dipendenza della volontà dalla conoscenza e simili. 2. È significativo che gli ordini attivi femminili cominciarono a sorgere solo nel secolo XVII, e tra l'avversione universale. Istruttiva a questo riguardo è in particolare la storia dell'ordine della Visitazione.

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aspirazione fondamentale da tutta la mentalità medioevale orientata verso l'al di là. L'età moderna portò a questo riguardo una profonda mutazione. I grandi organismi politico-sociali: associazioni di ceto e di mestiere, comuni, impero, s'incrinarono. L'autorità ecclesiastica non ebbe più l'incondizionata validità, anche temporale, di prima. Dovunque emerse il singolo sempre più vigorosamente e si assicurò un'indipendenza sempre maggiore. Questo carattere individualistico generò innanzitutto la critica scientifica, e in modo particolare la critica alla stessa conoscenza. Il problema dell'essenza del conoscere, prima posto a preferenza in modo costruttivo, assunse ora, in conseguenza di profondi sconvolgimenti spirituali, la sua forma propriamente critica. Il conoscere divenne problematico, di conseguenza il punto di sostegno e il baricentro della vita spirituale passò poco alla volta nel volere. L'azione della persona, che si fondava su se stessa, divenne sempre più importante. Così la vita attiva venne anteponendosi a quella contemplativa, la volontà alla conoscenza. Nello stesso ambito dell'attività scientifica, che pure è essenzialmente impostata sul conoscere, venne attribuito alla volontà uno specifico significato. Dall'antica indagine intesa a penetrare la verità data come tale e sicura, si passò ora all'insonne investigazione della verità ignota e incerta. Al posto della rielaborazione ed esposizione scolastica si generalizzò sempre più l'educazione alla ricerca autonoma. L'intero mondo scientifico assunse un carattere di intrapresa e di conquista violenta. Esso divenne una possente comunità di lavoro, che crea senza posa. Questa caratteristica fondamentale attivistica fu 101

anche affermata dottrinalmente, come principio. E questo avvenne nel modo più rigorosamente logico da parte di Kant. Egli pose accanto al mondo della rappresentazione, della natura, il solo accessibile all'intelletto, il mondo della realtà, della libertà, in cui agisce il volere. Dai postulati della volontà egli fa scaturire un terzo mondo, il mondo noumenico di Dio e dell'anima contrapposto all'esperienza. E mentre l'intelletto per conto proprio non può affermare nulla intorno a questi ultimi oggetti, poiché esso è chiuso nell'ordine della natura, tuttavia, dalle esigenze della volontà, impotente a vivere e ad agire senza quelle realtà superiori, riceve la fede nella loro realtà e il supremo orientamento per la sua visione del mondo. Con ciò è data la giustificazione del «primato della volontà». La volontà – e con essa la gerarchia dei valori morali del bene che le appartiene – ha il primato sull'intelletto e sulla gerarchia dei valori che gli è propria: L'Ethos ha ottenuto il primato sul Logos. Il ghiaccio è rotto; ora tien dietro tutta quella linea d'evoluzione filosofica che, al posto del «puro volere», concepito da Kant logicamente, pone il volere psicologico e fa di questo l'unico padrone della vita; Fichte, Schopenhauer, von Hartmann, fino a che essa trova la sua estrema espressione in Nietzsche. Questi proclama la «volontà di potenza»: per lui è vero ciò che rende sana e nobile la vita, ciò che fa progredire l'umanità sulla via che conduce al «superuomo». In tal modo è pure dato il pragmatismo: la verità nel campo filosofico e religioso non costituisce un valore autonomo, bensì l'espressione concettuale del fatto che una proposizione o un modo di pensare promuove la vita attiva, nobilita il carattere, l'intero 102

atteggiamento della volontà 3 . La verità nella sua sostanza è un fatto morale. Questa preminenza del volere e dei suoi valori comunica all'epoca presente la sua peculiarità. Di qui la sua insonne spinta in avanti, la folle velocità del suo lavoro, la furia del suo godere; di qui la venerazione del successo, della forza, dell'azione; di qui la sua aspirazione alla potenza; di qui, in genere, lo spiccato senso per il valore del tempo e la tendenza a sfruttarlo attivamente fino all'ultimo. Da qui viene anche che istituzioni spirituali come gli antichi ordini contemplativi, già viste come qualcosa di ovvio nel complesso della vita religiosa, oggetto di predilezione per tutto il mondo credente, ora non trovano spesso comprensione neppure presso cattolici, e debbono essere di continuo difese dai loro amici dalla taccia di ozioso perditempo. E se questo atteggiamento spirituale è già tanto spiccato in Europa, la cui cultura ha profonde radici nel passato, nel nuovo mondo esso si manifesta completamente, senza attenuazioni né compromessi. Un accentuato attivismo domina tutto; l'Ethos ha la netta preminenza sul Lògos, l'aspetto attivo della vita su quello contemplativo. Che atteggiamento tiene la religione cattolica di fronte a questo sviluppo? Bisogna riaffermare subito il principio che il bene di ogni età e di ogni conformazione spirituale può trovare il suo compimento in quella religione, che sa essere veramente tutto a tutti. 3. Questa corrente ha avuto il suo influsso anche sul pensiero teologico cattolico. Qualche teoria modernista rappresenta il tentativo di far dipendere il dogma, la verità teologica, dalla vita cristiana e di cercare il suo significato non nel suo «valore di verità», bensì esclusivamente nel suo «valore di vita».

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Anche il possente dispiegamento di forze che caratterizza l'ultimo mezzo millennio ha potuto essere accolto dalla Chiesa e dalla vita cattolica, che ha così potuto manifestare nuovi aspetti della sua inesauribile pienezza. Occorrerebbe una lunga ricerca per mostrare quante significative personalità, istituzioni, fatti, dottrine siano state suscitate nella vita cattolica da questa tendenza del tempo. Deve essere anche detto, però, che questa spiccata preminenza della volontà sulla conoscenza, dell'Ethos sul Lògos, contraddice allo spirito del cattolicesimo. Il protestantesimo nelle sue forme diverse, dalla tendenza ortodossa all'estremo appiattimento della libera critica, rappresenta l'espressione più o meno religioso-cristiana di questo spirito; e con pieno diritto Kant è detto il suo filosofo. Questo spirito ha progressivamente sacrificato la salda verità religiosa, e ha fatto della convinzione religiosa, sempre più di giorno in giorno, un mero oggetto del giudizio, del sentimento, dell'esperienza personale. La verità scivolò così dal dominio dell'oggettivamente saldo a quello del soggettivamente fluttuante. In tal modo venne da sé che la volontà assumesse la funzione direttiva. Dal momento che il credente in fondo non aveva più una «vera fede», bensì solo un'esperienza della fede del tutto personale, l'unica cosa salda diveniva logicamente non più un contenuto di fede professabile e insegnabile, bensì la dimostrazione della rettitudine dello spirito mediante la rettitudine dell'azione. Qui non si può più parlare ormai di una cristiana affermazione dell'essere in senso proprio. Il credente si era radicato non più nell'eternità, ma nel tempo, e l'eternità prendeva figura ed entrava in relazione col tem104

po solo per la mediazione del sentimento, non in via immediata. In tal modo la religione prese un orientamento sempre più mondano (weltfreudig). Essa divenne sempre più la consacrazione dell'esistenza umana temporale nei suoi aspetti più vari, una santificazione dell'attività terrena: del lavoro professionale, della vita sociale, della famiglia e simili. Ma chiunque abbia considerato per un certo tempo queste cose, rileva quanto inadeguata sia questa spiritualità, quanto contraddica alle leggi supreme dell'esistenza e dell'anima. Essa è falsa e perciò innaturale nel più profondo significato di questa parola. Qui sta la fonte specifica dell'angustia dell'età nostra. Essa ha infatti invertito il santo ordine della natura. Goethe ha realmente toccato l'intimo nucleo della situazione quando fece scrivere al suo Faust, preso dal dubbio, le parole: «In principio era l'azione» al posto della frase: «In principio era il Verbo». Passando il centro di gravità della vita dalla conoscenza al volere, dal Lògos all'Ethos, la vita si fece sempre più instabile. Alla persona singola si richiese di reggersi su se stessa. Ma questo può farlo solo una volontà che sia realmente creativa nel senso più assoluto della parola; proprietà questa che è soltanto della volontà divina4. Si pretese dall'uomo un contegno che presuppone l'uomo essere Dio. E siccome egli non lo è, s'insinua nel suo essere una specie di convulsione 4. La stessa ragione anzi ci dice che Dio è assieme verità e bontà, non mera volontà assoluta; la Rivelazione ha suggellato anche questa come ogni conoscenza di realtà religiose, mostrandoci come il «primo» momento della vita trinitaria divina sia la generazione del Figlio dalla conoscenza del Padre, e come solo «secondo» sia il momento dello spirare dello Spirito Santo dall'amore d'entrambi.

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spirituale, un atteggiamento di violenza impotente che talvolta appare tragico, ma negli spiriti dalle piccole proporzioni riesce strano, anzi ridicolo. Su questa mentalità ricade la colpa del fatto che l'uomo d'oggidì assomiglia tanto spesso a un cieco che brancola nel buio; giacché la forza fondamentale su cui egli ha poggiato la sua vita, vale a dire il volere, è cieca. La volontà può volere, agire e creare, non, però, vedere. Di qui procede anche tutta quella irrequietudine che non trova riposo in nessun luogo. Nulla perdura, nulla rimane saldo, tutto si muta, e la vita è un perenne divenire, un anelare, un ricercare, un pellegrinare senza posa. La religione cattolica si oppone con tutta la sua forza a questa mentalità. La Chiesa perdona ogni altra mancanza più facilmente che un attentato alla verità. Essa sa bene che, se uno manca ma non intacca la verità, egli può ritrovarsi e riprendersi. Ma s'egli intacca il principio, in tal caso è lo stesso santo ordine della vita che è levato dai cardini. La Chiesa ha pure guardato sempre con profonda diffidenza a ogni concezione moralistica della verità, del dogma. Ogni tentativo infatti di fondare il valore di verità del dogma sul suo valore per la vita, è nel suo intimo, anticattolico. La Chiesa pone la verità, il dogma come un dato assoluto, riposante su se stesso, che non abbisogna di nessuna fondazione sulla base dell'ambito morale o pratico. La verità è verità, perché è la verità. È in sé e per sé indifferente ciò che la volontà le dice o se essa possa dare inizio con la verità a qualche intrapresa. Il volere non deve giustificare la verità, né essa ha bisogno di giustificarsi dinanzi a esso, bensì quello deve riconoscersi del tutto incompetente di fronte a questa. 106

Il volere non crea la verità, ma la trova; deve riconoscersi cieco e perciò bisognoso di luce, della guida, della potenza ordinatrice e formatrice della verità. Il volere deve fondamentalmente riconoscere il primato della conoscenza sulla volontà, del Lògos sull'Ethos5. Questo «primato» è stato frainteso. Non è questione qui di una preminenza di valore o di dignità, e neppur si vuol dire che il conoscere sia per la vita umana più importante che l'agire. E ancor meno si son volute dare indicazioni, se una cosa debba essere colta con il pensiero o con l'azione. L'uno ha tanto valore, dignità, importanza per la vita complessiva quanto l'altra. Dipende dalle disposizioni individuali il fatto che nella vita di una persona l'accento cada sul conoscere piuttosto che sull'agire; e una disposizione vale quanto l'altra. Si tratta qui piuttosto di una delle questioni supreme della filosofia della cultura e precisamente: a qual valore, nel complesso della civiltà e della vita umana, spetta la funzione direttiva? Si tratta dunque di un primato d'ordine, non di dignità, significato o frequenza d'uso. Se però si esamina più da vicino e più a lungo la questione, si avverte facilmente che la formula «primato del Lògos sull'Ethos» potrebbe anche non essere la decisiva e suprema. Forse si deve dire piuttosto: nell'ambito complessivo della vita il primato definitivo deve averlo non l'agire, bensì l'essere. In fondo non si tratta dell'agire, ma del divenire: non ciò che si 5. Si parla di conoscenza, non del concetto; del primato della vita conoscitiva sulla pratica, della contemplativa sulla attiva, nel senso in cui l'ha intesa il Medio Evo, sia pur senza le sue peculiarità storico-culturali. Dalla signoria del mero concetto invece, quale esso se l'è assicurata da un mezzo secolo, non possiamo mai svincolarci abbastanza radicalmente.

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fa, bensì ciò che è costituisce il valore supremo. E il valore definitivo non sta nella visione del mondo moralistica, ma in quella metafisica, non nel giudizio sul valore, ma in quello sull'essere, non nello sforzo, ma nell'adorazione. Questi pensieri però conducono fuori dell'ambito di questo libretto. La questione ulteriore, se non debba essere riconosciuto un supremo primato dell'amore, sembra rientrare in un'altra serie di considerazioni. La decisione relativa è forse tale che può ritrovarsi nelle possibilità esaminate più sopra. Ammesso infatti che la verità sia il valore decisivo, non è con ciò ancora stabilito se essa sia «la verità cercata nell'amore» oppure una fredda maestà; l'Ethos può essere un dovere della legge, come presso Kant, oppure un dovere che scaturisce dall'amore creativo. E anche rispetto all'essere rimane aperta la questione se esso ci stia dinanzi come alcunché di inesorabilmente incombente, in suprema istanza, oppure esso stesso costituisca l'amore che supera ogni misura, in cui anche l'impossibile diventa possibile, a cui la speranza può appellarsi contro ogni speranza. Tutto questo vuol significare il problema, se l'amore non sia la realtà più grande. E in verità lo è. Niente altro infatti che questo ci ha annunziato «la lieta novella». In questo senso dunque, per il primato della verità ma «nell'amore», deve essere risolta la questione della quale ci siamo occupati. Non appena questo primato venga ristabilito, si offre anche il fondamento della sanità spirituale. L'anima infatti abbisogna di un terreno assolutamente saldo su cui reggersi. Essa abbisogna di un appoggio da 108

cui possa spingersi oltre se stessa, di un punto sicuro fuori di essa, e questo punto non può essere che la verità. Il riconoscimento della verità oggettiva è il fatto fondamentale della liberazione spirituale: «la verità vi farà liberi»6. L'anima abbisogna di quella liberazione interiore in cui la concitazione del volere si placa, l'irrequietudine dell'anelito si calma, il grido della brama tace; e questo si verifica fondamentalmente e in prima linea nell'atto intenzionale in cui il pensiero riconosce la verità, lo spirito ammutolisce dinanzi alla maestà sovrana della verità. Il dogma, il fatto della verità incondizionata, che sussiste indipendentemente da ogni giustificazione d'utilizzabilità pratica, immobile ed eterna, è davvero qualcosa di ineffabilmente grande. E se esso in un'ora fortunata s'accosta un poco più da vicino allo spirito, quest'ultimo sente come di toccare la garanzia misteriosa della sanità del mondo, intuisce che il dogma è in certo modo il guardiano dell'essere tutto, che esso è veramente e realmente la roccia su cui tutto riposa. «In principio era il Verbo, il Lógos!». Perciò il tono di fondo della vita genuina e sana è contemplativo. L'energia della volontà, dell'azione, della ricerca, per quanto intensa possa diventare, deve riposare sopra una profondità che è calma, che s'affisa nelle immutabili verità eterne. Questo è il sentire che ha le sue radici nell'eternità. Esso ha la pace; possiede quella serenità immune da tensioni che rappresenta la vittoria sopra la vita. Non ha fretta, ha tempo: può pertanto attendere e lasciar crescere 7 . 6. Gv 8, 32. 7. Cfr. in proposito R. Guardini, Wille und Wahrheit (Esercizi spirituali), Mainz 1934; tr. it. Volontà e verità, Morcelliana, Brescia 1978.

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Questo atteggiamento spirituale è veramente cattolico. E se è pur vero che, per qualche riguardo, il cattolicesimo è «arretrato» rispetto alle altre confessioni, transeat! Esso non poteva partecipare alla furiosa caccia a cui si è abbandonata la volontà sciolta da ogni pastoia dopo aver spezzato le leggi eterne. Esso ha, però, conservato qualcosa di insostituibilmente prezioso: il primato del Logos sull'Ethos, e in tal modo l'accordo con le leggi immutabili d'ogni vita. Quantunque in tutto questo discorso non si sia ancora parlato della liturgia, tuttavia tutto fu detto per essa. Nella liturgia il Lògos ha la preminenza, che gli spetta, sulla volontà. Di qui la sua mirabile placidità, la sua calma profonda. Di qui s'intende com'essa sembri totalmente risolversi in contemplazione, adorazione, esaltazione della verità divina. Di qui la sua apparente indifferenza alle piccole miserie quotidiane. Di qui la sua scarsa preoccupazione di «educare» immediatamente e di insegnare la virtù. La liturgia ha in sé qualcosa che fa pensare alle stelle, al loro corso eternamente uguale, alle loro leggi inviolabili, al loro fondo silenzio, all'ampiezza infinita in cui si trovano. Sembra, però, soltanto che la liturgia si preoccupi così poco delle azioni e delle aspirazioni, e della condizione morale degli uomini. Poiché in realtà essa sa assai bene provvedervi: chi infatti vive realmente in essa, si assicura la verità, la sanità e la pace nell'intimo dell'essere.

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I santi segni

PREFAZIONE D E L L ' A U T O R E

I capitoletti di questo libro sono venuti alla luce nel corso di dieci anni e hanno voluto contribuire alla comprensione del mondo liturgico. Me li andava suggerendo la sensazione che tale risultato non si poteva ottenere chiarendo semplicemente in quale periodo storico e sotto quali influssi abbia avuto origine questo rito o quella preghiera. E neppure con un commento che spiegasse il significato dei diversi riti, attribuendo in tal modo alle cerimonie liturgiche un senso che può essere certo profondo ma non viene ricavato da esse direttamente e personalmente, bensì soltanto dedotto da un concetto didattico. Nella liturgia non si tratta precipuamente di concetti, bensì di realtà. E non di realtà passate bensì di realtà presenti, che si ripetono costantemente in noi e per noi; di realtà umane in figura e gesto. E a esse non ci si avvicina dicendo semplicemente: son sorte in quel certo tempo e si sono sviluppate così e così. E neppure attribuendo loro qualche occulto significato, bensì cercando di cogliere nella forma corporea l'elemento interiore: nel corpo l'anima, nel processo materiale la recondita forza spirituale. La liturgia è un mondo di vicende misteriose e sante divenute figura sensibile: ha perciò carattere soprannaturale. È dunque necessario innanzitutto apprendere l'atto di vita con cui il credente intende, riceve, compie i santi «segni visibili della grazia invisibile». Si tratta in primo luogo di «educazione liturgica», non di insegnamento liturgico che naturalmente non è da disgiungersi dalla prima: di un av113

viamento, o almeno di una sollecitazione a vedere e compiere, in pienezza di vita, i «santi segni». E a questo scopo mi parve giusto ed efficace prendere gli inizi dalle cose più semplici; dagli elementi da cui si svolgono poi le creazioni superiori della liturgia. Doveva essere scosso ciò che nell'uomo corrisponde a quei segni elementari. Doveva venir portato a consapevolezza dell'uomo che questi sono segni, simboli. Se siffatti segni venissero colti dalla viva forza espressiva con cui l'uomo attinge in modo sempre nuovo l'intimo delle figure che gli si presentano, ed esprime negli atteggiamenti della sua persona il proprio intimo; se essi si liberassero dalle forme convenzionali assurgendo nuovamente a simboli genuini: allora sì che ci sarebbe veramente da sperare che essi vengano pure intesi dalla coscienza cristiana quando dispiega o contempla le forme liturgiche. L'uomo infatti a cui esse si rivolgono, è battezzato nell'anima e nel corpo: in tal modo – e questo era l'intento – esse verrebbero intese quali simboli santi, quali elementi dei sacramenti e dei sacramentali. Quel che s'è tentato praticamente in questi brevi schizzi – senz'alcuna pretesa di compiutezza – ha ottenuto poi la sua più profonda giustificazione nello scritto dell'autore dal titolo: Liturgische Bildung (Magonza 1923)1. Ma è sempre una cosa di dubbia efficacia il ripresentare dopo qualche tempo ciò ch'è scaturito da motivi determinati ed è cresciuto col maturare della vita di determinate persone. E io so fin troppo bene quanto si potrebbe eliminare in questi saggi; come essi non siano abbastanza dominati dall'oggetto, ma piuttosto lirici e soggettivi; non abbastanza fondati sulla necessità logica, bensì impressionistici, casuali; a prescindere dalle loro deficienze letterarie. Rimane 1.

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Ed. it., R. Guardini, Formazione liturgica. Saggi, OR, Milano 1988.

giusto solo il loro concetto fondamentale. E, malgrado ogni lato discutibile, mi sembra che abbiano sempre il diritto di presentarsi al pubblico. Infatti anche se non raggiungono tutto il loro intento, accennano almeno a qualcosa che deve essere visto e ricercato; e, nell'attuale letteratura liturgica, non ho ancora incontrato nulla che veda e ricerchi questo in modo migliore. Io saprei bene chi potrebbe qui dir meglio e più giusto: una madre che, formata per proprio conto liturgicamente, insegnasse al suo bambino a fare bene il segno della santa Croce; a veder nella candela che arde una persona che apre il suo intimo sentire; a star nella casa del Padre con tutta la sua viva umanità ...; e tutto questo non mediante considerazioni estetiche, bensì proprio come un vedere, un fare: non quindi come un arido pensare e riflettere che contempli opere, gesti e atteggiamenti come figure appese tutt'all'intorno! Oppure un maestro che viva davvero con i suoi scolari; che li renda capaci di sentire e celebrare la domenica per quel che essa è; e così pure la festività, l'anno ecclesiastico con le sue partizioni; il portale e le campane, la Chiesa e le rogazioni... Gente siffatta potrebbe dire come si evocano a vita i santi segni... La via che conduce alla vita liturgica non si dispiega attraverso la mera istruzione teorica, bensì è offerta innanzitutto dalla pratica. Osservare e agire sono le due forze fondamentali in cui ha da essere radicato tutto il resto. Un osservare e agire illuminato da chiara dottrina e radicato nella tradizione cattolica mediante un adeguato insegnamento storico: questo certo. Ha da essere però un agire – e invero un «agire» reale è qualcosa di più d'un mero «esercitarsi» perché il gesto venga appreso direttamente! L'agire è qualcosa di elementare; qualcosa in cui l'uomo ha da ritrovarsi tutto con le proprie forze creative; un eseguire compenetrato di vita; un 'esperienza viva: cogliere, contemplare. 115

Quando finalmente educatori siffatti parlassero dei santi segni attingendo alla loro esperienza, questo libretto potrebbe sparire dalla circolazione. Fino a questo momento però ha il diritto e anche il dovere di parlare: come meglio può. Primavera 1927 ROMANO GUARDINI

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PREMESSA

Eccoti un libretto ben modesto nelle mani. Esso parla di cose che forse ti sembrano di poca importanza; eppure, quel che vuole propriamente dirti, è qualcosa di grande. Noi viviamo in un mondo di segni ma abbiamo perduto la realtà da essi significata. Non pensiamo più cose, bensì parole. Quando una persona dice «faggio», le sta veramente dinanzi agli occhi un nobile fusto grigio-argenteo, un ampio sviluppo di rami modellati con forza e insieme con delicatezza fin nelle ultime propaggini, delle foglie compatte e senza pieghe, soffuse alla luce solare di riflessi così delicati nelle loro iridescenze verdi-gialle? Forse! Ma per taluno «faggio» è proprio solo una parola; una parola con la quale intende quell'albero, allo stesso modo che una moneta gli fa pensare a un determinato valore numerico. Quando la pronunzia, forse gli guizza attraverso lo spirito un'immagine fuggevole, ricordo sbiadito di qualche gita in montagna, ma niente di più. Oppure uno dice «miseria». Ma la sua parola è davvero gravata dall'oscuro fardello che pesa sul cuore dell'uomo? Sente egli come una stretta al cuore l'amarezza che queste tre sillabe significano oppure queste sono per lui soltanto quasi fredda moneta ch'egli trasmette senza commozione, come un infermiere comunica all'altro il numero 117

d'una stanza, senza riflettere a quel che è chiuso in quello spazio contrassegnato da una morta piastrina di ottone? Cosa proviamo quando diciamo di aver meritato tante e tante lire? Sentiamo quale giudizio è implicito in questa parola «meritato»? Soddisfacimento tranquillamente consapevole, oppure un'ingiustizia che esige espiazione, ovvero addirittura una beffa crudele? E così per molte altre parole ... Parole, parole! Per questo il nostro pensiero ha sì poca importanza nei riguardi della realtà che non afferra affatto saldamente. Per questo la nostra parola è così pallida e fioca, esangue e priva di forza figurativa. Per questo ciò che udiamo non ci tocca l'anima. Altrimenti potremmo ascoltare e leggere ogni giorno tante cose? Se le parole fossero per noi qualcosa di più d'un suono che significa alcunché, d'una struttura sonora accompagnata da fugaci sensazioni e da immagini evanescenti, come potremmo leggere tanti giornali e prestare ascolto a tante novità? Pensa alla schiatta terribile dei luoghi comuni! Se vuoi percepire quanto sia vuoto il nostro discorrere pubblico, presta attenzione ai luoghi comuni. Rabbrividirai fin nelle intime fibre. Essi sono vuoti, irrispettosi e distruttori come soltanto il vuoto può esserlo. La cosa più bella è resa volgare. Se per avventura una parola sgorga dal fervore del cuore, tutta piena di sangue e di forza, in pochi giorni i giornali e le chiacchiere della gente ne prendono possesso, la sbiadiscono a luogo comune, la rendono scipita fino alla nausea. Oh, noi dovremmo apprendere a custodire le nostre parole più care, affinché la volgarità del pubblico chiacchierìo non le insozzi! E il nostro agire! Noi eseguiamo delle forme e non 118

delle azioni! Diciamo delle larve di parole; compiamo delle ombre di azioni. Siamo consapevoli di quello che facciamo quando stringiamo la destra a qualcuno? Ci è chiaro che noi gli diamo la nostra fiducia, la nostra anima? Se lo sapessimo, lo faremmo con minor frequenza. Ma così tale atto è una vera formalità, che solo di rado è compenetrata di realtà spirituale, al punto che possiamo dare la destra all'amico intimo come a chi ci è indifferente o, addirittura, spregevole. I saluti, gli auguri, i doni e la comunanza della tavola, le svariate forme della deferenza, hanno esse ancora un'anima? In caso diverso non potremmo scialarle con tanta facilità. Noi diciamo delle mere parole. Noi compiamo delle formalità. Viviamo in un mondo di segni, ma la realtà che essi significano l'abbiamo perduta. Fintanto che le cose rimangono così, non c'è da parlare di una nuova civiltà. Questo lo possiamo anzi fare, solo perché si tratta di mere parole, che, se con esse noi parlassimo di cose, sentiremmo subito quanto insignificanti esse siano. Solo attingendo il reale, la nostra vita potrà rinnovarsi. Solo rifacendosi all'infinità dell'essere, la nostra civiltà può ringiovanire. Fino a tanto però che non ci poniamo dinanzi al reale, alle cose, all'anima; fino a tanto che non ne percepiamo l'urto, donde ha mai da scaturire la realtà nuova? Sorgono nuove parole, godono per breve tempo una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine; ma presto sono ridotte a un paio di luoghi comuni e nulla più. Tutto rimane oratoria da comizio, articolume da giornale, fino a che non evadiamo dalla parvenza e riattingiamo l'essenza e la realtà. Immagini significative di cose, corpi sonori di fatti 119

spirituali: questo han da essere le parole. Le azioni devono essere compenetrate di realtà interiore e debbono a lor volta abbracciare realtà. E riconosciamo vera forza di rinnovamento là ove l'uomo è di nuovo sensibile all'urto dell'essere, vi si arresta dinanzi, ammira, interroga; dove questo urto, ripercuotendosi, gli foggia la parola e l'opera. E il significato più profondo del movimento giovanile, in quanto è movimento e non solo mera organizzazione, sta appunto in questo: nella sua volontà protesa al reale. Basta con le larve di parole: rimettiamoci dinanzi alle cose! Evadiamo dalle nebbie infide delle idee indeterminate e adusate e riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale! Deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte! Rioffriamo il petto all'impressione delle cose, di modo che esso, nello stupore, nel dolore, nella gioia, ne percepisca la potenza! Certo, al primo momento, questo sconcerterà e renderà muti. Le parole sembrano non più usabili, essendo state prostituite da un lungo abuso. Ricomincia una specie di balbettìo. Molte cose vengono scoperte di nuovo e in modo nuovo vissute; gli oggetti, visti e sentiti in una nuova maniera, debbono cercarsi il proprio corpo verbale: allora la parola acquista una potenza nuova, e la più semplice comincia a risplendere con la maggiore intensità. È così anche con le formalità. Via le maschere che non rivelano più i sentimenti, bensì li occultano! Via i formalismi che si frappongono tra cuori viventi e li ingannano! La gioventù ha da sperimentare di nuovo nel profondo ciò che vuol dare al prossimo, ciò che vuol essere per lui. Essa sente inoltre che nelle forme correnti non sopravvive molto di questa sincerità. Ne 120

rimane sconcertata. E la si rimprovera di sconvenienza perché non ne vuol più sapere ormai di questi cadaveri di azioni. C'è anche il disorientamento della ricerca che qui comincia; ma dopo qualche giravolta essa giunge di nuovo a vere forme. E per questa via essa scoprirà come forme nuove anche le vecchie, scaturite dalla stessa essenza umana: esse vivranno allora della vita di questo essere e la semplice stretta di mano, i doni, la comunanza della tavola riassurgeranno a verace espressione di realtà interiori. Tutto ciò ha da portare qualcosa di sconcertante, un cercare ed errare penoso. Chi lo esperimenta appare spesso scontroso, perché non può più scialare a chiunque ciò che per lui ha un significato così profondo; deve apparire come un originale, perché prende sul serio cose che nessuno più avverte; perché vede problemi che da tempo sono svaniti nella cecità di tutti gli occhi. Ma beata questa pena: da essa sta per scaturire una civiltà nuova vitale. Strano! Anni fa il Papa Pio X ha detto: «Ridate alle parole il loro senso!». Quanto profondamente ci penetra oggi nell'anima questa esortazione! Si, ridare alle parole il loro senso, e così pure alle forme e azioni della vita. Questo dovrà fare la gioventù. Perché ho parlato di tutto questo? Perché in nessun ambito la profanazione della parola, lo svuotamento dell'agire, la vanificazione del segno è così terribile quanto nella vita religiosa. Cosa deve succedere alla nostra anima, quando essa ha disimparato a soffermarsi dinanzi alle realtà della salvezza? Quando essa pronunzia sante parole che sono una vuota eco? Quando ha santi segni e 121

compie sante cerimonie senza più avvertire la realtà che vi è rinchiusa? Dillo tu stesso, che peso hanno per noi le parole: «Dio», «Cristo», «grazia»? Cos'è per noi fare il segno della croce? Il piegare le ginocchia? Rivelazione di una realtà soprannaturale? Oppure una figura d'ombra? Un'ascesa verso il cielo? O piuttosto un compiere delle formalità? Non è troppo spesso la seconda cosa? E tutto questo non perché in noi rigettiamo quelle verità, bensì perché in noi non v'è più quella viva coscienza della realtà di cui qui si tratta. Perché la nostra fede non ha più capacità di presa né forza visiva? La fede è coscienza di realtà soprannaturali. La fede è vita in un mondo di realtà invisibili. Abbiamo noi questa fede? Qui dobbiamo iniziare il rinnovamento. Non distruggere l'«invecchiato» e trovare il «nuovo». Le grandi parole e le grandi forme della Chiesa scaturiscono dalle profondità essenziali. Cosa mai deve essere qui mutato? Puoi forse modificare la struttura della ruota o quella del martello? Esse sono corrispondenti all'essenza; appena sono viste, sono anche foggiate, e rimangono. Oppure credi di poter mutare l'afferrar della mano, ovvero il modo in cui l'occhio si fissa sull'oggetto? Molte delle parole e delle forme della Chiesa sono di questo genere. Ci è possibile però un'altra cosa: «ridar loro il proprio senso». Cioè: vedere la realtà che dietro di esse giace. Rivivere ciò che si pronunzia. Allora le forme si svolgeranno dall'interiore pienezza. Questo libretto vorrebbe esser di sussidio a tale scopo. Vuol mostrare come si possa cogliere un senso 122

dietro le parole che diciamo ogni giorno; come si possano vivere i segni che ripetiamo di continuo. Vuol apprendere e avvertire il nucleo delle forme di cui è intessuta la nostra vita. Allora sperimenteremo davvero l'urto delle realtà che ci giganteggiano dinanzi nella Chiesa e nelle sue consuetudini. E queste consuetudini riprenderanno a vivere quasi fossero totalmente nuove. Non vuol essere però un libro didattico. Racconterò, come mi capita, ciò che mi è successo. E così come l'ho visto io, vedilo tu, meglio, più precisamente, più chiaramente; e buona fortuna.

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DEL S E G N O DELLA C R O C E

Quando fai il segno della croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare. No, un segno della croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Senti come esso ti abbraccia tutto? Raccogliti dunque bene; raccogli in questo segno tutti i pensieri e tutto l'animo tuo, mentre esso si dispiega dalla fronte al petto, da una spalla all'altra. Allora tu lo senti: ti avvolge tutto, corpo e anima, ti raccoglie, ti consacra, ti santifica. Perché? Perché è il segno della totalità ed è il segno della redenzione. Sulla croce nostro Signore ci ha redenti tutti. Mediante la croce Egli santifica l'uomo nella sua totalità, fin nelle ultime fibre del suo essere. Perciò lo facciamo prima della preghiera, affinché esso ci raccolga e ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera affinché rimanga qui in noi quello che Dio ci ha donato. Nella tentazione, perché ci irrobustisca. Nel pericolo, perché ci protegga. Nell'atto della benedizione, perché la pienezza della vita divina penetri nell'anima e vi renda feconda e consacri ogni cosa. Pensa quanto spesso fai il segno della croce. È il segno più santo che ci sia. Fallo bene: lento, ampio, consapevole. Allora esso abbraccia tutto l'essere tuo, cor125

pò e anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, e tutto diviene irrobustito, segnato, consacrato nella forza di Cristo, nel nome del Dio uno e trino.

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LA M A N O

L'intero corpo è strumento ed espressione dell'anima. Questa non è semplicemente nel corpo come una persona che siede nella propria casa, bensì risiede e agisce in ogni membro e in ogni fibra. Parla da ogni lineamento, da ogni forma e moto del corpo. Però, dell'anima, specialmente il viso e la mano sono strumento e specchio. Del viso ciò è senz'altro evidente. Ma osserva una persona – o anche te stesso – e nota come ogni moto dell'animo, – gioia, stupore, attesa – si manifestano contemporaneamente anche nella mano. Un repentino alzar della mano oppure una sua lieve morsa non dice spesso di più che la stessa parola? La parola espressa non appare talvolta grossolana accanto al linguaggio delicato e significativo della mano? Essa è, dopo il viso, la parte più spirituale del corpo, se così si può dire. È salda e vigorosa quale strumento del lavoro, quale arma di offesa e di difesa, ma pur tuttavia è anche una cosa finemente costruita, ben articolata, mobile, percorsa da nervi delicatamente sensibili. Quindi veramente uno strumento per cui l'uomo può rivelare la propria anima, e insieme accogliere l'anima altrui. Anche questo egli fa con la mano. Non è un accogliere l'anima altrui lo stringere le mani che uno ci tende? Con tutto quanto esse esprimono di fiducia, di gioia, di approvazione, di dolore? 127

Così non può non avvenire che la mano abbia il suo linguaggio anche là dove l'anima parla e riceve in modo tutto particolare; vale a dire dinanzi a Dio. Dove l'anima vuol dare se stessa e ricevere Dio; vale a dire nella preghiera. Quando uno si raccoglie tutto in se stesso ed è nella sua anima solo con Dio, allora la mano si stringe saldamente nell'altra, il dito s'incrocia col dito. Come se il flusso interiore che vorrebbe dilagare, dovesse venir condotto da una mano nell'altra e riportato nell'interno, affinché tutto rimanga dentro, un custodire il Dio nascosto. E così parla: «Dio è mio, e io sono suo, e noi siamo soli, l'uno con l'altro, in intimità». Altrettanto fa la mano quando un'interiore angustia, una necessità, un dolore, minaccia di erompere. La mano si stringe di nuovo nella mano, e l'anima dentro, lotta con se stessa fino a che si è dominata, placata. Ma se uno sta dinanzi a Dio in atteggiamento interiormente umile e reverente, allora la mano aperta aderisce pianamente all'altra, palmo a palmo. Il che parla di severa disciplina, di contenuta reverenza. Ed è un esprimere umile e, ben determinato la propria parola e un ascoltare il divino con attenzione. Oppure esprimiamo devozione, dedizione, quando si abbandonano, per così dire, le mani con cui ci difendiamo alla stretta delle mani di Dio. Avviene anche che l'anima si apra tutta dinanzi a Dio, in gran giubilo o ringraziamento. Sì che in essa, quasi in un organo, si aprano tutti i registri lasciando profluire la piena interiore. Oppure, anelante, essa 128

invoca: allora l'uomo apre bene le mani e le solleva a palme dispiegate affinché la piena dell'anima fluisca liberamente e l'anima possa compiutamente ricevere quanto brama. E infine può capitare che uno si raccolga in se stesso con tutto quanto esso è e possiede, per offrirsi in pura dedizione a Dio, conscio di accedere a un sacrificio. E allora stringe mani e braccia sul petto, nel segno della croce. Bello e grande è il linguaggio della mano. Di essa la Chiesa dice che ci è data affinché «vi portiamo l'anima». Perciò prendi sul serio la mano, questo santo linguaggio. Dio l'ascolta e tende l'orecchio a quanto essa Gli dice dell'intimo dell'anima. Essa può anche parlare di pigrizia di cuore, di dissipazione e d'altre cose poco belle. Tieni bene le mani e procura che l'intimo tuo spirito coincida davvero con questo atteggiamento esteriore! Cosa delicata quella di cui abbiamo qui parlato; di cose siffatte non si parla volentieri, ma quasi con avversione. Con tanta maggiore severità vogliamo rispettare queste esigenze nella realtà. Non farne cioè un gioco vano e affettato, bensì un linguaggio in cui il corpo, in schietta veracità, esprima a Dio quello che l'anima intende.

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DELL'INGINOCCHIARSI

Cosa fa una persona quando s'inorgoglisce? Si drizza, alza il capo, irrigidisce le spalle e l'intera figura. Tutto in essa dice: «Io sono più grande di te! Io sono da più di te!». Quando uno invece è di nobile sentimento e si sente piccolo, china il capo, la sua persona si rattrappisce: egli «si abbassa». Tanto più profondamente, quanto più grande è colui che gli sta dinanzi; quanto meno egli sente di valere agli stessi propri occhi. Ma quando mai percepiamo noi più chiaramente la nostra pochezza di quando stiamo dinanzi a Dio? Al grande Iddio che era ieri come è oggi, tra secoli e millenni! Al grande Iddio che riempie questa stanza e l'intera città e il vasto mondo e l'incommensurabile cielo stellato, dinanzi a cui tutto è come un granello di sabbia! Al Dio santo, puro, giusto, infinitamente sublime ... come è grande Lui... e come son piccolo io! Così piccolo che non posso neppure mettermi a confronto con Lui, che dinanzi a Lui sono un nulla! Non è vero – e vien con tutta evidenza da sé – che non si può stare da superbi dinanzi a Lui? Ci si «fa piccoli»; si vorrebbe impicciolire la propria persona, perché essa non si presenti così, con tanta presunzione: l'uomo s'inginocchia. E se al suo cuore questo non ba131

sta ancora, egli può inoltre prostrarsi. E la persona profondamente chinata dice: «Tu sei il Dio grande, mentre io sono un nulla!». Quando pieghi il ginocchio, non farlo né frettolosamente né sbadatamente. Dà all'atto tuo un'anima! Ma l'anima del tuo inginocchiarti sia che anche interiormente il cuore si pieghi dinanzi a Dio in profonda reverenza. Quando entri in chiesa o ne esci, oppure passi davanti all'altare, piega il tuo ginocchio profondamente, lentamente; che questo ha da significare: «Mio grande Iddio! ...». Ciò infatti è umiltà ed è verità e ogni volta farà bene all'anima tua.

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LO STARE IN PIEDI

Abbiamo detto che la reverenza al Dio infinito esige un contegno determinato. Egli è sì grande e noi così piccoli dinanzi a Lui che codesta coscienza si manifesta anche esteriormente: ci fa piccoli, ci impone di inginocchiarci. Il rispetto può però manifestarsi anche in altro modo. Immagina d'essere seduto, di riposare o di chiacchierare e che d'improvviso giunga una persona per cui hai rispetto e si diriga verso di te. Subito balzeresti in piedi e ascolteresti e risponderesti stando così ritto. Che cosa significa questo? Lo stare in piedi significa innanzitutto che ci raccogliamo. Anziché l'atteggiamento libero dello stare seduti, ne assumiamo uno dominato, rigido. Significa che siamo attenti. Nello stare in piedi infatti c'è qualche cosa di teso, di desto. E infine significa che siamo pronti; chi sta in piedi, infatti, può subito aprir la porta e uscirne, può senza indugio eseguire un incarico, o iniziare un lavoro, appena gli sia assegnato. Questo è l'altro aspetto della reverenza dinanzi a Dio. Nello stare in ginocchio si esprimeva quello di chi adora, di chi perdura nel riposo; qui invece si presenta l'atteggiamento desto, attivo. Tale reverenza, tutta propria del servo premuroso e del guerriero armato, si manifesta nello stare in piedi. Sorgiamo in piedi quando riecheggia la lieta novel133

la; all'Evangelo, nella Santa Messa. Stanno in piedi i padrini al Battesimo, quando pronunziano per il bambino il voto della fedeltà alla fede. Stanno in piedi i fanciulli, quando, alla loro prima Comunione, rinnovano questi voti battesimali. Stanno in piedi gli sposi, quando, dinanzi all'altare, mediante la parola della fedeltà, si uniscono in matrimonio. E così pure in diverse altre cerimonie. Anche per il singolo il pregare in piedi può essere talvolta un'espressione vigorosa del suo intimo. I primi Cristiani lo hanno fatto volentieri. Conosci certamente la figura dell'orante nelle catacombe, della persona stante, dalla veste ricadente in nobili pieghe e dalle braccia aperte. Essa sta libera, ma tutta dominata da schietta disciplina; tranquillamente intenta alla Parola divina e pronta all'agire gioioso. Talvolta non ci si può neppure inginocchiare bene; ci si sente impacciati. Allora è opportuno stare in piedi: ci si assicura il nostro agio. Che sia però uno stare in piedi per davvero! Su ambedue i piedi, senza appoggiarsi, a ginocchia tese, senza alcuna pigra rilassatezza. Ritti e composti. In quest'atteggiamento si irrigidisce anche la preghiera e insieme si libera in reverenza e prontezza d'azione.

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L'INCEDERE

Quanti sanno camminare con dignità, incedere? Non è affatto un affrettarsi e correre, bensì un movimento composto. Non un pigro trascinarsi innanzi, bensì un avanzare virile. Chi incede cammina con agile piede, non strascica; diritto, senza impacci, non curvo; non incerto, bensì in saldo equilibrio. È cosa piena di nobiltà un giusto incedere. Senza impacci eppur composto in distinto contegno. Lieve ed energico, diritto e vigoroso, senza sforzo, eppure pieno di forza protesa in avanti. Si tratti dell'incedere dell'uomo e della donna, in questa forza si presenta una nota di gravezza o di letizia: essa porta un peso esteriore oppure un mondo interiore di pace luminosa. E com'è bello quest'incedere quando è pio! Può assurgere a schietta liturgia. Quale semplice portarsi dinanzi a Dio in consapevolezza e reverenza, come quando si avanza in chiesa, nella casa dell'altissimo Signore e in speciale maniera sotto i Suoi occhi. Oppure assurge ad accompagnamento di Dio, come quando incediamo nelle processioni: il pensiero forse ti corre ai disordinati pigia-pigia, allo strascinarsi e curiosare annoiato di tante processioni. Potrebbe mai esservi cosa più festosa e lieta dei fedeli che accompagnano il Signore per le vie della città o per i campi, «sua proprietà», procedendo tutti con cuore orante, gli uomini con passo vigoroso, le donne nella loro di135

gnità materna, le fanciulle liete, nella loro giovinezza, di pura grazia, i giovani nella loro forza contenuta? ... Così una rogazione potrebbe assurgere a preghiera corporea! Coscienza del bisogno e della colpa fatta persona potrebb'essere, e tuttavia dominata dalla fiducia cristiana non ignara che, come nell'uomo v'è una forza sopra tutte le altre sue forze, il volere calmo e sicuro di se stesso, così v'è una potenza sovrastante a tutti i bisogni e a tutte le colpe: il Dio vivente. L'incedere non è un'espressione della nobiltà della natura umana? La figura diritta, signora di se stessa, che si porta da sola, calma e sicura, codesta figura rimane un privilegio riservato all'uomo. Camminare eretti significa essere uomini. Ma non siamo più soltanto uomini: siamo più che uomini. «Stirpe divina siete», dice la Scrittura. Rigenerati da Dio a una vita nuova. Cristo vive in noi, in maniera particolarmente profonda nel Sacramento dell'altare: il suo corpo viene a far parte del nostro corpo; il suo sangue circola nel nostro sangue. Poiché «chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui», Egli ha detto. Cristo cresce in noi e noi cresciamo in lui, in tutte le dimensioni, fino a che «abbiamo raggiunto la maturità di Gesù Cristo»; fino a che Egli «abbia preso forma in noi», e pertanto tutto l'essere e l'agire, «sia che mangiamo o che dormiamo o attendiamo a qualche altra cosa»,

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lavoro o gioco, gioia o lacrime, tutto sia divenuto vita in Cristo. La consapevolezza di questo mistero potrebbe in tal modo trovare un'espressione gioiosa, rilucente di bellezza e compenetrata di forza, nel giusto incedere. Potrebbe essere l'attuazione trasfigurata in profonda similitudine del comandamento: «Cammina dinanzi a me e sii perfetto». Ma in semplicità e veracità! Solo dalla verità, non dal vano volere, può fiorire la bellezza.

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DEL BATTERSI IL P E T T O

La santa Messa è cominciata. Il sacerdote sta ai piedi dell'altare. I fedeli, oppure i chierici in loro vece, pregano: «Io confesso a Dio Onnipotente [...] che ho molto peccato con pensieri, parole ed opere per mia colpa, mia colpa, per mia grandissima colpa». E quante volte pronunziano la parola «colpa», si battono il petto. Cosa significa dunque questo battersi il petto? Penetriamo bene questo senso. A tale scopo, dobbiamo compiere bene l'atto. Non toccarci appena le punte delle dita il vestito; il pugno chiuso deve colpire il petto. Forse hai visto già in vecchi quadri San Girolamo inginocchiato nel deserto, che, nella piena della commozione, si batte il petto con una pietra nella mano. È una percossa, non un gesto cerimonioso. Ha da attraversare le porte del nostro mondo interiore e scuoterlo. Allora comprendiamo cosa significa. Questo mondo ha da essere pieno di vita, pieno di luce, forza e attività vigorosa. Ma come si presenta esso in verità? Gravi esigenze ci si presentano, doveri, bisogni, inviti alla decisione, ma a stento taluna di esse ha un'eco dentro di noi. Così, siam magari gravati da qualche colpa, ma non ce ne preoccupiamo. «Nel fervore della vita siamo circondati dalla morte», 139

ma non vi pensiamo. Ma ecco una voce di Dio che ammonisce: «Destati! Guardati attorno! Rifletti con te stesso! Convertiti! Fa' penitenza!». Questo monito prende forma concreta nella percossa del petto. Questa ha da penetrare; ha da scuotere, intimorire il mondo interiore, affinché si desti, apra gli occhi, si converta a Dio. Si rende l'anima consapevole della sua condizione? In tal caso le salta all'occhio, come abbia sciupato in sciocchezze la vita, ch'è una cosa seria, come abbia trasgredito il comandamento del Signore, come abbia trascurato i suoi doveri, «per sua colpa». In questa colpa essa si trova incarcerata, e c'è solo una via per uscirne, e precisamente che riconosca senza riserve: «Ho peccato in pensieri, parole, opere ed omissioni contro il Santo Iddio e la comunione dei Santi». In tal modo si mette dalla parte di Dio e prende partito per Lui contro se stessa. Pensa di sé quel che pensa Dio. Si sdegna dei propri peccati e si colpisce nella percossa. Questo è dunque il significato del battersi il petto: l'uomo vi si desta. Desta il suo mondo interiore, affinché percepisca l'appello di Dio. Si mette dalla parte di Dio e si punisce. Riflessione pertanto, rimorso e conversione. Per questo sacerdote e popolo si battono il petto quando nell'Introito confessano i loro peccati. Lo facciamo pure quando, prima della Comunione, ci viene mostrato il corpo del Signore e diciamo: 140

«Signore, io non sono degno che Tu entri sotto il mio tetto» 1 ; q u a n d o nelle litanie ci confessiamo colpevoli e diciamo: «Noi peccatori, Ti supplichiamo, ascoltaci». Il significato dell'uso si è a n c h e a t t e n u a t o . Così i fedeli si b a t t o n o il p e t t o a n c h e all'elevazione dell'Ostia e del Calice. O p p u r e q u a n d o , c o n l'Angelus Domini diciamo: «Ed il Verbo si è fatto carne». Q u i il senso p r o p r i o e originario s'è p e r d u t o e il gesto è rimasto a n c o r a quale m e r a espressione generica di reverenza e umiltà. Ma gli d o v r e b b e essere conservata l'aspra severità d ' u n m o n i t o alla consapevolezza di sé e d ' u n a punizione che il c u o r e c o n t r i t o infligge a se stesso.

1.

Nella liturgia attuale: «di accostarmi alla tua mensa» (n.d.r.).

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I GRADINI

Noi abbiamo riflettuto su diverse cose: ti è riuscito chiaro quello che abbiamo fatto a questo riguardo? Si è sempre trattato di cose da lungo tempo conosciute; eppure ci sono apparse nuove. Erano cose viste mille volte; ma ora le abbiamo considerate nella giusta luce, ed esse si sono aperte e ci hanno rivelato genuina bellezza. Abbiamo prestato orecchio ed esse hanno incominciato a parlare. Di azioni che abbiamo compiuto già tante volte abbiamo penetrato il giusto senso, le abbiamo eseguite consapevolmente, ed ecco n'è emerso tutto quello che in esse si nasconde. Che grande scoperta è questa! Così dobbiamo conquistare quanto già da tempo possediamo, perché diventi realmente nostro. Dobbiamo apprendere a veder giusto, a udire giusto, a operare giustamente. Qui sta il grande imparare a vedere, il diventare sapiente. Finché questo non avviene, tutto ciò rimane muto e oscuro; ma se lo raggiungiamo, allora tutto si manifesta, rivela il suo intimo e da questa sua essenza l'aspetto esteriore riceve figura. Ne farai l'esperienza: proprio le cose più intuitive, le azioni d'ogni giorno, nascondono la realtà più profonda. Nelle cose più semplici si nasconde il più grande mistero. Ecco ad esempio i gradini. Li hai saliti infinite volte. Ma hai penetrato quello che, in quel mentre, avve143

niva in te? Avviene infatti qualcosa in noi quando ascendiamo. Soltanto, è cosa molto delicata e silenziosa, che si può facilmente lasciar perdere senza percepirla. Qui si manifesta un grande mistero. Uno di quei fenomeni che procedono dal fondamento della nostra essenza umana; enigmatico, non lo si può risolvere in concetti, eppure ognuno lo intende, perché è il nostro intimo che vi parla. Quando saliamo i gradini, non sale soltanto il piede, bensì anche tutto l'essere nostro. Anche spiritualmente noi saliamo. E se lo facciamo consapevolmente, presentiamo di ascendere a quell'altezza dove tutto è grande e compiuto; cioè al cielo in cui abita Dio. Tuttavia percepiamo egualmente il mistero. È dunque Dio lassù? Ma per Lui non c'è alto né basso! Ma a Dio giungiamo soltanto rendendoci più puri, più sinceri, migliori! E che cosa ha a che fare il diventare migliori con l'ascendere materiale? Che cosa ha a che fare «l'essere puro» con lo «stare in alto»? E invero qui non si può spiegare ulteriormente. È dall'essenza nostra che ci scaturisce il senso che il basso è similitudine del meschino, del pravo, l'alto similitudine del nobile e del buono, e che il salire ci parla dell'ascesa del nostro essere all'«Altissimo», a Dio. Non lo possiamo spiegare, però è così: lo percepiamo, lo intuiamo. Perciò dei gradini che conducono dalla strada alla chiesa; essi dicono: «Tu sali alla casa della preghiera, più vicino a Dio». E dalla navata della chiesa al coro nuovi gradini 2 , che dicono: 2.

144

Non sempre nelle chiese costruite ai nostri giorni (n.d.r.).

«Ora ti introduci presso l'Altissimo». E altri gradini portano su all'altare. A chi li ascende essi sussurrano quello che già ebbe a dire il Signore a Mosè sul monte Horeb: «Levati i calzari, perché questo terreno è sacro». L'altare è la soglia dell'eternità. Com'è grande questo! Salirai ora consapevolmente i gradini, sapendo di ascendere? E lascerai tutto il meschino in basso e salirai davvero «all'alto»? E questo ha da suggerirti molte cose. Che tu ne rimanga interiormente compreso; che «le ascese del Signore» si compiano in te; – questo è tutto.

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IL P O R T A L E

Spesso siamo entrati per esso in chiesa e ogni volta esso ci ha detto qualcosa. L'abbiamo invero percepito? A che scopo c'è il portale? Forse ti meravigli di questa domanda. «Perché si entri e se ne esca», pensi tu; la risposta non sarebbe invero difficile. Certo; ma per entrare e uscire non occorre alcun portale. Una apertura più ampia nella parete servirebbe pure allo scopo e un saldo assito di panconi e forti tavole basterebbe all'apertura e alla chiusura. La gente potrebbe entrare e uscire: sarebbe anche di minor costo e più rispondente allo scopo. Non sarebbe però un «portale». Questo intende a qualcosa di più che non sia il soddisfacimento di un mero scopo; esso parla. Presta attenzione quando lo varchi e sentirai: «Ora io lascio l'esterno: entro». Fuori c'è il mondo, bello, fervido di vita e di creazione possente. Frammezzo però vi è anche molto d'odioso, di basso. Esso ha in sé qualcosa del mercato; in esso ognuno corre attorno, tutto qui si fa largo. Non lo vogliamo chiamare non-santo; eppure qualcosa di questo il mondo tiene indubbiamente in sé. Attraverso il portale però entriamo in un interno, separato dal mercato, calmo e sacro: nel santuario. Certo, tutto è opera e dono di Dio. Dovunque Egli può muo147

verci incontro. Ogni cosa la dobbiamo ricevere dalle mani di Dio e santificarla con un sentimento di pietà. Pur tuttavia gli uomini fin dall'inizio hanno saputo che luoghi determinati sono in modo particolare consacrati, riserbati a Dio. Il portale sta tra l'esterno e l'interno; tra ciò che appartiene al mondo e ciò che è consacrato a Dio. E quando uno lo varca, il portale gli dice: «Lascia fuori quello che non appartiene all'interno, pensieri, desideri, preoccupazioni, curiosità, leggerezza. Tutto ciò che non è consacrato, lascialo fuori. Fatti puro, tu entri nel santuario». Non dovremmo varcare così frettolosamente, quasi di corsa, il portale! In raccolta lentezza dovremmo superarlo e aprire il nostro cuore perché avverta quello che il portale gli dice. Dovremmo, anzi, prima sostare un poco in raccoglimento perché il nostro avanzare sia un avanzare della purezza e del raccoglimento. Ma il portale dice ancora di più. Fai attenzione: quando entri, involontariamente alzi il capo e gli occhi. Lo sguardo si volge all'alto e abbraccia la vastità dell'ambiente; il petto si dilata e l'anima pure. L'ambiente vasto e alto della chiesa è similitudine dell'eternità infinita, del cielo in cui abita Dio. Certo, i monti sono ancora più elevati, e incommensurabile l'azzurra distesa. Però è tutta aperta, non ha limite né figura. Qui invece lo spazio è riservato per Dio. Lo sentiamo nei pilastri che si drizzano verso l'alto, nelle pareti ampie e robuste, nella volta elevata: sì, questa è la casa di Dio, l'abitazione di Dio in una maniera speciale, interiore. E il portale introduce l'uomo a questo mistero. Esso dice: 148

«Deponi ciò ch'è meschino. Liberati da quanto è gretto e angustiante. Scrolla quanto t'opprime. Dilata il petto. Alza gli occhi. Libera l'anima! Tempio di Dio è questo, e una similitudine di te stesso. Poiché tempio del Dio vivente sei proprio tu, il tuo corpo e la tua anima. Rendilo ampio, rendilo limpido ed elevato!». «Alzatevi, chiusure! Apritevi, o porte eterne, che il Re della gloria entri!», così s'invoca nella Sacra Scrittura. Presta ascolto a questo grido. A che ti giova la casa di legno e di pietra, se n o n sei tu stesso u n a casa vivente di Dio? A che ti giova che i portali alti s'incurvino e i pesanti battenti si schiudano, se in te n o n s'apre alcuna p o r t a e il Re della gloria n o n p u ò entrare?

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IL CERO

Come tutto è peculiare e caratteristico nell'anima nostra! Con tutte le cose del mondo succede allo spirito quello che capitò già al primo uomo quando Dio lo invitò a denominare gli animali: in nessuna parte trovò un compagno partecipe dello stesso suo essere. Dinanzi a ogni cosa l'anima sente: «Io sono diversa». Nessuna scienza del mondo le turba questa certezza e nessuna bassezza gliela spegne: «Io sono diversa da tutte le altre cose del mondo. Straniera a tutto, a Dio solo parente». Eppure l'anima possiede d'altro canto una certa parentela con tutte le cose. Presso ogni cosa si sente in certo qual modo a casa sua. Tutto le parla, ogni figura, ogni movimento, ogni lineamento. Ed essa cerca senza posa di esprimere in esse il proprio intimo, di elevarle a simbolo della propria vita. Dovunque incontra una forte figura, vi sente espresso qualcosa del proprio essere, vi sente come un ricordo di se stessa. Non è forse così? Qui sta il fondamento di ogni somiglianza. Troppo intimamente estranea a tutte le cose, l'anima dice a ognuna di esse: «Io non sono questo». Ma d'altra parte essendo con tutto misteriosamente in parentela, essa sente cose e avvenimenti quali immagini del proprio essere. 151

Vi è una similitudine, bella ed efficace a preferenza di molte: il cero. Non ti dico nulla di nuovo; l'hai certamente sentito tu pure non una volta sola. Vedi com'esso sta sul candelabro. Ampio e grave sta il piedistallo; sicuro si erge il fusto; e, saldamente stretto dal calice, dal piatto come ampio risalto, si drizza il cero. La sua figura leggermente si assottiglia, sempre però compatta per quanto in alto si spinga. Così essa sta nello spazio, snella, in una intatta purezza; eppure nel suo colore ha una calda accentuazione e si sottrae per la sua netta linea a ogni confusione. In alto è sospesa la fiamma e in essa il cero trasmuta il suo corpo immacolato, in luce calda e irraggiante. Non senti tu innanzi a essa il ridestarsi di qualcosa tutto nobile? Guarda come sta, salda e sicura al suo posto, drizzata verso l'alto, pura e dignitosa. Nota come tutto in essa proclami: «Io sono pronta!»; come essa stia dove merita stare, dinanzi a Dio. Nulla in essa fugge, nulla si sottrae: tutto è limpida prontezza. E si consuma nella sua vocazione, senza cessa, trasformandosi in luce e vampa. Tu dici forse: «Cosa ne sa il cero? Esso invero non possiede anima!». Così gliela dai tu! Fa' che assurga a espressione della tua anima. Ridesta dinanzi a esso ogni nobile prontezza: «Signore, sono qui!». Allora tu sentirai la sua figura snella e pura quale espressione del tuo proprio sentimento. Irrobustisci tutta la tua prontezza fino a renderla adeguata fedeltà. Allora sentirai: «Signore, in questo cero io sto dinanzi a Te!». 152

Non abbandonare la tua destinazione. Persistivi. Non chiedere di continuo intorno al perché e al dove. Il senso più profondo della vita sta nel consumarsi in verità e amore per Dio, come il cero in luce e vampa.

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L ' A C Q U A BENEDETTA

Misteriosa è l'acqua. Tutta pura e modesta, «casta» l'ha chiamata San Francesco. Senza pretese, come se non volesse significare nulla per se stessa. Per così dire ignara di sé, esistente solo per servire ad altri, per mondare e ristorare. Ma non hai mai guardato dove essa s'indugia a gran profondità e non ti ci sei mai immerso con anima sensitiva? Hai percepito come fosse misteriosa quella profondità? Come essa sembrasse tutta piena di meraviglie, attraente e insieme spaventevole? Oppure ti sei mai raccolto in ascolto quando l'acqua in fiumana trascorre a valle, senza posa fluendo e mormorando? Oppure quando i vortici disegnano i loro cerchi, e fan mulinelli e risucchi? Allora ne può sorgere una tale impressione di forza opprimente che il cuore dell'uomo le si deve sottrarre ... Misteriosa è l'acqua. Semplice, limpida, disinteressata; pronta a mondare ciò ch'è sordido, a ristorare ciò ch'è assetato. E nello stesso tempo profonda, insondabile, irrequieta, piena di enigmi e di forza. Immagine adeguata dei fecondi abissi da cui sorga la vita e immagine della vita stessa che sembra così chiara ed è così misteriosa. Ora comprendiamo bene come la Chiesa faccia dell'acqua il simbolo e il veicolo della vita divina, della grazia. 155

Dal Battesimo noi siamo usciti uomini nuovi, «rinati in virtù dell'acqua e dello Spirito Santo». E con l'«acqua santa», con l'acqua benedetta, noi bagnamo nel segno della Croce fronte e petto, spalla e spalla; con l'elemento originario, misterioso, limpido, semplice, fecondo, che è simbolo e strumento della vita soprannaturale, la grazia. Benedicendola, la Chiesa ha reso monda l'acqua: l'ha purificata dalle oscure forze che in essa sonnecchiano. E queste non sono parole vuote! Chi possiede un'anima sensibile ha già percepito l'incanto della forza naturale che può sprigionarsi dall'acqua. E questo è semplicemente potenza della natura? O non è qualcosa di oscuro, di extranaturale? Nella natura, in tutta la sua ricchezza e bellezza, vi è anche il male, il demoniaco. La città intontitrice delle anime ha reso l'uomo ottuso al punto ch'egli spesso non ha più senso per questo. La Chiesa però non lo ignora e «purifica» l'acqua da ogni elemento contrario a Dio, la «consacra» e prega Dio che la renda strumento della Sua grazia. Orbene, il cristiano, quando varca la soglia della casa del Signore, si inumidisce la fronte, il petto e le spalle, vale a dire tutto l'essere suo, con l'acqua pura e purificante, affinché l'anima sua diventi monda. Non è bello questo modo in cui vengono a incontrarsi la natura depurata dal peccato, la grazia e l'umanità anelante alla purezza, e tutto nel segno della Croce? Oppure la sera. «La notte non è amica dell'uomo», 156

dice il proverbio. C'è del vero in questo. Noi siamo creati per la luce. Appena l'uomo si abbandona alla potenza del sonno e dell'oscurità in cui si spengono la luce della coscienza e la luce del giorno, allora egli si fa il segno della Croce con l'acqua santa, simbolo della natura riscattata, liberata dal peccato: che Dio lo protegga da tutto ciò ch'è oscuro! E quando al mattino si ridesta dal sonno uscendo dall'oscurità e dall'incoscienza e ricomincia la sua vita, lo fa di nuovo. È come un lieve ricordo di quell'acqua santa per cui nel battesimo è uscito alla luce di Cristo. E bello è pure quest'uso. In esso s'incontrano l'anima redenta e la natura redenta nel segno della Croce.

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LA FIAMMA

A sera avanzata te ne vai un giorno di autunno per la campagna. Intorno a te è buio e freddo. L'anima si sente tutta sola nella morta distesa. Il suo anelito di vivente cerca tutt'attorno qualcosa a cui possa appoggiarsi; ma nulla risponde. L'albero nudo, il sentiero freddo, la pianura vuota – tutto morto! Essa è l'unico essere vivente nel deserto circostante. Ma ecco irraggia d'un tratto, a una svolta della strada, un lume ... Non ha esso chiamato? Quasi rispondendo al cercare ansioso dell'anima, come qualcosa di atteso, di famigliare? Oppure tu siedi sul tardi nella stanza buia. Le pareti stanno grigie e indifferenti, gli oggetti muti. Ecco si avanza un passo ben noto; un'abile mano accende la stufa, un crepitìo s'alza di dentro, la fiamma lingueggia, e dalla porticina aperta una rossa fiamma investe la stanzetta, un tepore ristorante ne esce: come tutto è mutato, nevvero? Tutto ha riavuto anima. Come quando in un viso esangue si accende d'un tratto la vita di un sorriso. Sì, il fuoco ha parentela con i viventi: è il simbolo più puro della nostra anima, è fervida vita. Immagine di tutto quello che noi vivendo sperimentiamo nel nostro intimo: caldo e luminoso, sempre in movimento, sempre proteso verso l'alto. Quando vediamo la fiamma senza posa lingueggiare, sensibile a ogni corrente 159

d'aria, ma tenace nel mantenere la sua direzione verso l'alto, radiante di luce e generosa di calore, non sentiamo una profonda parentela con quell'elemento che in noi pure arde senza interruzione ed è luce e tende all'alto, nonostante venga respinto in basso tutt'attorno dalle potenze avverse? E quando vediamo come la fiamma investe, anima, trasfigura tutto l'ambiente; come assurge subito a centro vivente di tutto – là dove arde – non costituisce essa un'immagine della luce misteriosa che in noi è accesa in questo mondo per trasfigurare tutto e dargli una Patria? Sì, è così! Quale simbolo della vita interiore, arde in noi la fiamma dell'Anelante, dell'Illuminante, del Forte, dello Spirito? Dove incontriamo la fiamma, sentiamo attraverso il suo tremolio e la sua vampa come un discorso che ci rivolga una persona vivente. E se vogliamo esprimere la nostra vita, lasciar in qualche modo parlare la nostra vita, suscitiamo una fiamma. Così comprendiamo anche perché essa debba ardere là ove noi dovremmo sempre essere, dinanzi all'altare. Là noi dovremmo trovarci sempre in vigile adorazione, concentrando tutte le nostre energie vitali, tutta l'intelligenza e forza nostra nella vicinanza misteriosa e santa. Dio rivolto a noi e noi rivolti a Dio. Così dovrebbe essere. E questo confessiamo accendendo là, all'altare, l'immagine e l'espressione della nostra vita, la fiamma. La fiamma là, nella lampada eterna – non ci hai ancora pensato? – Sei tu! Essa significa l'anima tua. Significa la tua anima ... dovrebbe significare l'anima tua! Per sé solo, il lume terreno non dice naturalmente nulla a Dio. Tu devi elevarlo a espressione della tua vita protesa a Dio. Il santuario della santa vicinanza 160

deve realmente essere il luogo in cui arde l'anima tua, dove essa è tutta vivente, tutta fiamma, tutta luce per Lui. Vi deve essere tanto a suo agio che la silenziosa fiamma, che si sprigiona là in alto dalla lampada, sia veramente espressione della tua vita intima. Dirigi i tuoi sforzi in questo senso. Non è cosa semplice. Ma se tu riesci ad approssimarti a tale mèta, ben puoi dopo siffatti istanti di luminosa calma, riprendere tranquillamente la tua vita tra gli uomini. Poiché la fiamma ritorna al luogo della santa vicinanza e tu puoi dire a Dio: «Signore, questa è la mia anima. Essa è sempre presso di te».

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LA CENERE

Al margine del bosco sorge un ranuncolo, un fior cappuccio. Netto il contorno delle foglie d'un verde scuro. Finemente pieghevole eppur vigoroso l'agile stelo. I fiori, come tagliati in spessa seta e d'un azzurro così luminoso di turchese, che tutta l'aria all'intorno ne riverbera. E ora che uno capiti lì, strappi il fiore e in seguito se ne infastidisca e lo getti nel fuoco ... pochi istanti e tutta quella fulgida pompa si riduce a un pizzico di grigia cenere. Quello però che il fuoco ha fatto qui in brevi istanti, la fa di continuo il tempo a ciò che è vivente: alla felce leggiadra, all'alto verbasco, alla quercia possente. Lo fa alla leggera farfalla come alla rondine veloce. All'agile scoiattolo e al grave toro. È sempre lo stesso destino, sia che si compia rapido oppur lento; può essere una ferita oppure una malattia, il fuoco o la fame o qualcosa d'altro: a un certo momento tutto quel fiorire di vita si riduce a cenere. La vigorosa figura si risolve in un mucchietto di polvere. I colori luminosi si spengono in una farina grigiastra. La vita, tutta fervore e sentimento, si riduce a terra povera e morta; a meno che terra: a cenere! Così succede anche di noi. Come rabbrividiamo, quando si figge lo sguardo in una tomba aperta e vi si vedono accanto ad alcune ossa pochi pugni di grigia cenere! 163

Pensaci, uomo; Sei polvere, Ed in polvere ritornerai®

Caducità: ecco cosa significa la cenere. La nostra caducità, non quella degli altri. La nostra; la mia! Essa mi parla del mio trapassare, quando il sacerdote al principio della quaresima, come la cenere dei rami un dì freschi e verdi della trascorsa domenica delle palme, mi disegna sulla fronte una croce: Memento homo Quia pulvis es, Et in pulverem reverteris!

Tutto diventa cenere. La mia casa, il mio abito, i miei arredi, il mio danaro; campi, prati, boschi. Il cane che mi accompagna, e il bestiame ch'è nella stalla. La mano con cui scrivo, l'occhio che legge, l'intero mio corpo. Le persone che ho amate; le persone che ho odiate; le persone che ho temute. Quello che mi è apparso grande sulla terra, quello che m'è sembrato piccolo, quello che stimai pregevole: tutto cenere, tutto ...

3. Attualmente, nel rito delle Ceneri, il sacerdote pronuncia la formula: «Convertitevi e credete al Vangelo» (n.d.r.).

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L'INCENSO

«Io vidi venire un angelo, e portava un incensiere d'oro e si presentava all'altare. E gli fu dato molto incenso. E la fragranza dell'incenso saliva dalle mani dell'angelo attraverso le preghiere dei santi su su fino a Dio». Così parla l'Apocalisse. Vi è t a n t a nobile bellezza in q u e s t o distribuire i granelli dal preciso c o n t o r n o sulla vampa, e in q u e s t o levarsi del fumo o d o r o s o dell'incensiere agitato. È c o m e u n a melodia fatta di m o v i m e n t o d o m i n a t o e di p r o f u m o . Senza alcun scopo, p u r a c o m e u n a canzon e . U n a bella prodigalità di cose preziose. A m o r e che d o n a , c h e elargisce tutto. C o m e un g i o r n o , q u a n d o il Signore sedeva in Befania, e Maria gli recò n a r d o prezioso e glielo versò sui santi piedi, e li asciugò c o n i suoi capelli e la fragranza riempiva l'intera casa. U n o spirito gretto mormorò: «A che scopo tanto dispendio?». Ma il Figlio di Dio a m m o n ì : «Lasciate fare, è per il giorno della mia sepoltura». V'era qui un mistero della m o r t e , dell'amore, della fragranza, dell'offerta. 165

E lo stesso è pure nell'incenso: un mistero della bellezza che ignora ogni scopo, ma sale libera; dell'amore che arde e si consuma e trapassa nella morte. E anche qui si presenta lo spirito arido che domanda: «A che scopo tutto questo?». Un'offerta della fragranza, lo dice la stessa Scrittura: ecco cosa sono le preghiere dei santi. Simbolo della preghiera è l'incenso, e proprio di quella preghiera che non mira ad alcuno scopo; che nulla vuole e sale come il Gloria dopo ogni salmo, che adora e vuol ringraziare Dio, «perché è così grande e magnifico». Certo in siffatto simbolo si può insinuare della vanità. Le nubi di profumo possono anche portare un tiepido sentimento del mistero, uno spasso religioso dei sensi. Se è così, ha piena ragione la coscienza cristiana di sollevar obiezioni e di richiamare «allo spirito e alla verità»; di raccomandare d'essere casti e onesti. Ma c'è anche nella religione un filisteismo che proviene da meschinità di sentire, da aridità di cuore, come la mormorazione di Giuda Iscariota. Qui la preghiera si riduce a utilità spirituale; e in tal senso ha certo da essere misurata e borghesemente ragionevole. Questa mentalità però ignora del tutto la pienezza regale della preghiera che vuol donare. Ignora appieno la profonda adorazione; ignora appieno l'anima della preghiera che non domanda nessun «perché» né «a che scopo», bensì sale perché è amore e fragranza e bellezza. E quanto più essa ama, tanto più è anche offerta, e la fragranza scaturisce da fuoco consumante.

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LUCE E CALORE

Noi aneliamo all'unione con Dio; vi siamo sospinti da un'intima necessità. Due vie ci mostra la nostra anima. Sono diverse ma sboccano però alla stessa mèta. La prima via dell'unione passa attraverso la conoscenza e l'amore. Conoscere è unirsi. Noi penetriamo le cose conoscendole e le attiriamo a noi. Diventano nostra proprietà: elementi della nostra vita. Anche l'amore è unione. Non una semplice brama, bensì è esso stesso di per sé unione. L'uomo intanto ama una cosa in quanto gli appartiene. Questo amore però ha una maniera particolare, che si esprime quando si dice di esso ch'è «spirituale». Però la parola non esprime con precisione il concetto; spirituale è anche un altro amore di cui si ha da parlare più avanti. L'amore di cui parliamo è questo: è l'amore che attua l'unione non nell'essere, bensì in un movimento; nella coscienza e nella vita affettiva. C'è pertanto una figurazione esterna per questo? Una similitudine? Certo, e magnifica: luce e calore. Qui v'è un cero: porta luminosa una fiammella. Il nostro occhio ne vede la luce e l'accoglie in sé, se ne compenetra diventando una cosa sola con essa; eppure non lo tocca. La fiamma rimane in sé e l'occhio pure; tuttavia ha luogo un'intima unificazione; un'unione pie167

na di reverenza e verecondia, si potrebbe dire, senz altro e senz'alcuna mescolanza, in mera visione. Profonda similitudine di quell'unione che si compie tra Dio e l'anima nella conoscenza. «Dio è la verità», dice la Sacra Scrittura. Chi conosce la verità, la possiede nello Spirito. Dio è presente nel pensiero che lo conosce rettamente. Dio vive nello spirito che pensa a Lui veramente. Perciò «conoscere Dio» vuol dire: unirsi con Lui, come l'occhio con la fiamma nella visione della luce. Con questa vi è anche un'unione mediante il calore. Lo avvertiamo sul viso, sulla mano. Notiamo com'esso ci compenetra riscaldandoci; eppure la fiamma sta, non tocca, in se stessa. E questo è pure l'amore: un compenetrarsi con la fiamma di Dio mediante il calore, senza toccarla per nulla. Perché Dio è buono e chi ama il bene se lo trova anche già vivente nello spirito. Il bene è mio non appena io l'amo; ed esso appartiene a me in quanto e per quel tanto ch'io lo amo; eppure io non lo tocco. «Dio è amore», ha detto San Giovanni, «e chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio è in lui». Conoscere Dio e amare Dio significa unirsi con Lui. Perciò la felicità eterna sarà un contemplare e amare. Il che non significa un bramoso stare innanzi a Dio, bensì una profondissima partecipazione all'intimità, compimento e soddisfacimento. Abbiamo già visto come la fiamma sia similitudine dell'anima. Ora riconosciamo in essa anche la similitudine del Dio vivente, «perché Dio è la luce e nessuna tenebra v'è in Lui». Come la fiamma emette luce, così Dio elargisce verità. E l'anima accoglie in sé la ve168

rità e si unisce in essa con Dio, allo stesso modo che il nostro occhio vede la luce e in essa si unifica con la fiamma. E la fiamma manda calore; così Dio profonde calda bontà. Ma chi ama Dio, diventa nella bontà una cosa sola con Lui, come la mano e il viso con la fiamma, quando ne percepiscono il calore. Ma la fiamma rimane in sé, intatta, pure, nobile. Come è stato detto di Dio, che «abita nella luce inaccessibile». Fiamma luminosa e ardente – tu sei immagine del Dio vivente! Come lo comprendiamo bene ora, quando nella consacrazione del sabato santo il cero pasquale diventa simbolo di Cristo! Quando il diacono saluta con giubilo la fiamma lumen Christi, e le luci della chiesa vengono accese, affinché dovunque illuminino e riscaldino la luce e il calore del Dio vivente!

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PANE E V I N O

Ma un'altra via ancora conduce a Dio: di essa non si potrebbe parlare se la stessa parola di Dio non vi accennasse e la liturgia non la percorresse con tanta fiducia. Non vi è solo l'unione della visione, dell'amore, della coscienza e del sentimento. Vi è anche l'unione dell'essere vivente con Dio. Non soltanto tende a Lui il nostro conoscere e il nostro volere, bensì l'intero nostro essere. «Il mio cuore e tutta la mia carne anelano al Dio vivente», dice il salmo, e noi sentiamo calmata la nostra sete solo quando siamo uniti con Lui anche nell'essere e nel vivere. Questo non significa mescolanza di essere né confusione di vita. Affermare cosa siffatta, sarebbe non soltanto temerario, ma insensato, perché nulla di creato può mischiarsi col divino. Eppure c'è un'unione diversa da quella del mero conoscere e amare: l'unione della vita reale. Noi vi tendiamo, dobbiamo tendervi e per questo anelito v'è un'espressione veramente profonda. La stessa Sacra Scrittura con la liturgia ce la mette sulle labbra: vorremmo essere uniti a Dio con la nostra vita personale come il nostro corpo con il cibo e con la bevanda. Noi siamo affamati e assetati di Dio. Non sol171

tanto lo vorremmo conoscere, non soltanto amare: lo vorremmo anche stringere a noi, trattenere, possedere – sì, diciamo fiduciosi – lo vorremmo mangiare, bere, tutto in noi, fino a che ne fossimo sazi, del tutto paghi, del tutto compenetrati. La liturgia della festa del Corpus Domini lo dice anzi con le parole del Signore: «Il Padre vivente Mi ha mandato. Come Io vivo nel Padre, così chi si ciba di Me, vive in Me». È questo, nevvero? Non oseremmo esigere una cosa siffatta come nostro diritto; dovremmo temere di contaminarci con un sacrilegio. Ma ora è Dio in persona che parla così, che dice al nostro intimo: «Così dev'essere!». E inoltre: nulla di irriverente deve essere con questo pensato. Nulla che faccia sorgere il sospetto che noi si voglia cancellare i confini separanti noi, creature, da Dio. Ma possiamo bene avvalerci di quello che Egli spesso ha posto come esigenza in noi. Possiamo allietarci di quanto la Sua bontà straordinariamente grande ci dona. È Cristo che parla: «La mia Carne è veramente un cibo ed il mio sangue veramente una bevanda [...] Chi mangia la mia Carne e beve il mio sangue, rimane in me ed io in lui [...] Come il Padre mi ha dato di avere la vita proprio in me, allo stesso modo chi mi mangia, avrà in me la vita». Mangiare la Sua Carne ... bere il Suo sangue, nutrirsi di Lui ... accogliere in noi l'Uomo-Dio vivente, ciò che esso è e possiede, non è più di quanto noi avremmo potuto desiderare per conto nostro? È tut172

tavia proprio tutto quello che il nostro intimo ha da desiderare? Questo mistero trova così limpida espressione appunto nelle figure del pane e del vino. Il pane è nutrimento, onesto, che realmente nutre. Sapido e vigoroso, da non annoiarci mai. Il pane è verace. E buono è pure: prendi la parola nel suo senso caldo e profondo. Ma nella figura del pane Dio diventa vitale nutrimento per noi uomini. Sant'Ignazio di Antiochia scrive ai fedeli di Efeso: «Spezziamo un pane: che esso ci sia pegno dell'immortalità». È un cibo che nutre tutto il nostro essere con il Dio vivente e fa sì che noi siamo in Lui ed Egli in noi. Il vino è bevanda. Anzi, per parlar rettamente, non soltanto bevanda che spegne la sete; questa è l'acqua propriamente. Il vino mira a qualcosa di più. «Esso rende lieto il cuore dell'uomo», dice la Scrittura. Senso del vino non è solo di spegnere la sete, bensì d'essere la bevanda della gioia, della pienezza, della esuberanza. «Com'è bella la mia coppa piena di ebbrezza!», dice il salmo. Comprendi cosa significa questo? Che qui ebbrezza ha un significato completamente diverso da eccesso? Bellezza scintillante è il vino, profumo e forza che tutto dilata e trasfigura. Ed è sotto la figura del vino che Cristo elargisce il suo Sangue divino. Non come bevanda ragionevolmente misurata, bensì come sovrabbondanza della prelibatezza divina. 173

«Sanguis Christi, inebria me – sangue di Cristo inebriami»,

pregava Sant'Ignazio di Loyola, l'uomo dal caldo sangue cavalleresco. E Agnese parla del Sangue di Cristo come d'un mistero d'amore e d'inesprimibile bellezza: «Miele e latte ho succhiato dalla Sua bocca, e il Suo Sangue ha reso amabili le mie guance»: così si dice nelle preghiere della sua festa. Cristo ci è divenuto pane e vino in un sacramento: cibo e bevanda. Noi Lo possiamo mangiare e bere. Il pane è fedeltà e salda costanza. Il vino è audacia, gioia oltre ogni misura terrena, profumo e bellezza, ampiezza di desiderio ed esaudimento senza limiti, ebbrezza della vita: possedere, prodigare ...

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L'ALTARE

Forze molteplici vi sono nell'uomo: conoscendole, egli può abbracciare tutt'intorno le cose, stelle e montagne, mari e fiumi, piante e animali e tutta l'umanità ch'è vicino a lui, e così arricchire il suo mondo interiore. Egli le può amare, le può odiare e respingere; può porsi contro di esse oppure tendervi e attirarle a sé. Può agire sul mondo circostante e modificarlo secondo il proprio volere. Un vario ondeggiare di gioia e di brama, di afflizione e d'amore, di calma e di eccitazione accompagna il ritmo del cuore. La sua forza più nobile è però questa: il riconoscere che v'è qualcosa di più alto sopra di lui; il venerare codesto qualcosa di più alto e inserirvisi. L'uomo può conoscere al di sopra di sé Dio, Lo può adorare e può offrire se stesso «affinché Dio sia glorificato». Questa è l'offerta: che la sublimità di Dio risplenda nello spirito; che l'uomo adori questa sublimità; non si attardi egoisticamente nei propri possessi, bensì li trascenda, impegni se stesso affinché l'eccelso Iddio venga glorificato. La forza più profonda dell'anima è la sua capacità di offerta. È nell'intimo dell'uomo che hanno sede la calma e la limpidezza donde sale l'offerta a Dio. Appunto di questo nucleo più intimo, calmo e forte, proprio dell'uomo, l'altare di pietra è il segno visi175

bile. Esso sta nella parte più santa della chiesa, elevato dai gradini sul resto dello spazio, che pure è distinto esteriormente dalle altre opere dell'uomo, distaccato come il santuario dell'anima. Saldamente eretto sullo zoccolo sicuro, come il volere verace dell'uomo che non ignora Dio ed è deciso a impegnarsi per Lui. E sullo zoccolo la «mensa», un luogo ben preparato su cui è presentata l'offerta. Nessuna angolosità, superficie tutta libera. Nessuna penombra né azione nell'oscurità, bensì aperta a tutti gli sguardi. Così, come l'offerta ha da aver luogo nel cuore. Tutta dispiegata dinanzi allo sguardo di Dio, senza riserve né secondi fini. Ma l'uno è in intima relazione con l'altro: l'altare esteriore con quello interiore. Quello è il cuore della chiesa; questo la realtà più profonda di un petto umano che palpiti, del tempio interiore, del quale l'esterno con le sue pareti e vòlte è espressione e similitudine.

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I LINI

Vengono spiegati sull'altare. Vi sono sull'altare dov'è distesa la tovaglia. Vi sono sotto il calice e l'ostia dove si dispiega il «corporale», la veste del Signore. N'è rivestito il sacerdote che, quando compie il sacro rito, indossa l'«alba», il camice. E n'è coperta pure la balaustra 4 , la tavola del Signore, da cui vien porto il pane divino ... Preziosi sono i veri lini; candidi, fini e robusti. Quando si dispiegano sì bianchi e freschi, io debbo pensare a un viottolo di bosco invernale. Mi sono d'un tratto portato sopra un versante tutto rivestito di neve da poco caduta e biancheggiante tra il nereggiare degli alberi. Non ho osato corrervi sopra con le mie scarpe pesanti; mi ci sono mosso tutto pieno di reverenza ... Allo stesso modo sono dispiegati i lini per il Santo. Innanzitutto non possono mancare sull'altare, dove è innalzata l'offerta divina. Abbiamo già parlato dell'altare: come esso se ne stia elevato quale luogo santissimo del santuario; come l'altare esteriore sia similitudine di quello interiore ch'è nell'anima. Anzi, più che similitudine: l'altare visibile non simboleggia

4. Prima della riforma liturgica, quando ci si accostava alla Comunione inginocchiati (n.d.r.).

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soltanto l'altare del cuore, dell'interiore disposizione all'offerta, bensì altare visibile e altare del cuore sono intimamente uniti. In maniera misteriosa formano una cosa sola. L'altare vero e proprio, quello cui si è offerto il sacrificio di Cristo, è l'unità vivente di ambedue. Perciò i lini parlano così efficacemente al cuore. Noi avvertiamo che a essi qualcosa ha da rispondere nel nostro intimo. Li sentiamo come un'ingiunzione, un rimprovero, un'aspirazione. Solo da cuor puro s'innalza la vera offerta, e i lini personificano appunto la purezza quale ha da essere nel cuore, affinché l'offerta riesca ben accetta a Dio. E ci dicono qualcosa sulla purezza. I veri lini sono fini e nobili. Una natura grossolana e violenta non costituisce per sé purezza alcuna; ma neppure essa ha a che fare con facce accigliate. La sua forza è la forza della finezza: la sua disciplina è nobile. Ma in essa vibra del vigore. I lini schietti sono robusti. Non leggeri tessuti che si sfilacciano a ogni soffio di vento. La vera purezza non è cosa da malati, non fugge dinanzi alla vita, non si avanza consumandosi in sogni equivoci o perseguendo ideali esagerati. La vera purezza ha le guance rosee della vita gioiosa e la mossa energica e sicura della lotta valorosa. E ancor una cosa suggeriscono i lini a chi ha sensi aperti e spirito riflessivo: essi non furono subito così fini e candidi come si presentano ora. Da principio erano rozzi, senza decoro: e si dovette lavarli spesso e lavorare perché ottenessero codesta freschezza odorosa. Neppur la purezza esiste fin da principio. Certo essa è grazia; certo vi sono degli uomini che la portano qual dono nelle loro anime, così che l'intera loro 178

n a t u r a possiede la vigorosa freschezza d ' u n ' i n t i m a castità naturale. Ciò invero che negli altri casi si chiama purezza è spesso u n a cosa m o l t o d u b b i a e significa che nessun t u r b i n e l'ha ancora investita. La vera purezza n o n sta all'inizio, bensì alla fine. Solo c o n lunga e i n d o m i t a fatica essa viene conquistata. I lini s t a n n o dispiegati sull'altare, candidi, fini, robusti; s o n o purezza, nobiltà di c u o r e , freschezza di forza. Nell'Apocalisse di San Giovanni si parla in un certo punto di «una grande schiera che nessuno avrebbe saputo numerare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Essa stava in piedi dinanzi al trono ed ognuno indossava una veste bianca», e uno domanda: «Quelli là che sono vestiti di bianco, chi sono e donde sono venuti?». E fu data risposta: «Sono coloro che vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato e purificato le loro vesti nel sangue dell'Agnello. Perciò stanno ora dinanzi al trono di Dio e Lo servono giorno e notte». «Avvolgimi in una bianca veste, o Signore», p r e g a il sacerdote, q u a n d o indossa il camice p e r il santo Sacrificio ...

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IL CALICE

Un giorno, sono passati molti anni ormai, ho appreso a conoscere il calice. Ne avevo già visti molti, ma di conoscerlo appieno m'è avvenuto soltanto a Beuron, allorché il monaco cortese, cui erano affidati gli arredi sacri, mi ebbe a mostrare i tesori della sacrestia. Esso si reggeva saldo sull'ampio piede, senza vacillare sul tavolo. Il fusto saliva energico, sottilissimo. Si sentiva quasi la forza saliente, compressa, portante. Alquanto sopra la metà, il capitello dalla modanatura profonda, e infine, il culmine del fusto, là dove un piccolo anello raccoglieva in un'ultima disciplina la nobile forza, spuntavano le foglie delicate e severe tra cui riposava il cuore del calice, la «coppa». Come ho sentito allora il santo mistero! Come il fusto portante si drizzi dalla base sicura e pesante, in uno slancio severamente contenuto, e da esso fiorisca quella figura che ha un solo significato: accogliere, custodire. O puro, o santo! Tu, arcano, tu, coppa, che nascondi nel fondo scintillante le gocce divine, l'inesprimibile mistero del Sangue tremendo e dolce ch'è puro fuoco, puro amore! E il pensiero correva ... No, non era un pensare; era piuttosto un intravvedere, un intuire: non sta forse qui il mondo? 181

La creazione che, in fondo, ha un unico senso? L'uomo, quello vivente, anima e corpo, dal cuore palpitante? ... Agostino non ha pronunziato la grande parola: l'intimo nucleo della mia umanità è costituito dal fatto che sono «capace di cogliere Dio»?

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LA PATENA

Era mattina. Ero salito sulla vetta e mi volgevo indietro. Sotto, al fondo, si raccoglieva il lago e tutt'attorno nella luce dell'alba sorgevano i monti, solenni e calmi. Tutto era così puro; lo spazio in alto e gli alberi con i loro rami dalle nobili forme così freschi; in me stesso tutto l'essere così pervaso da vigore schietto e gioioso, che mi pareva stillassero sorgenti invisibili, silenziose, e tutto si illuminasse dilatandosi. Compresi allora come a un uomo possa gonfiarsi il cuore, e come egli s'arresti, alzi il viso, apra le mani come una patena, sollevandole su verso l'infinitamente Buono, il Padre della luce, il Dio che è amore, offrendogli tutto quanto d'attorno e nel mondo cresce e risplende in calma strabocchevole. Per lui dev'essere come se dalla patena, che le sue mani sostengono, tutto salga terso e santo verso l'alto. Proprio come un giorno Cristo s'è portato sulla vetta dello spirito e ha offerto al Padre il suo amore, il respiro della sua vita quale sacrificio totale. Su quella vetta di cui era stato un gradino il monte Moria, sul quale Abramo aveva compiuto il suo sacrificio. E prima ancora il luogo in cui il Sacerdote regale aveva offerto la sua espiazione. E, risalendo ancora, quello dove nei tempi primitivi salì al cielo, tutto puro, il dono di Abele. 183

Q u e s t a altitudine s'eleva s e m p r e , e s e m p r e si prot e n d e la m a n o divina, e s e m p r e sale il d o n o , q u a n d o il sacerdote – n o n l ' u o m o , che, la persona, è invero s t r u m e n t o insignificante – è all'altare e leva in alto, a p e r t e le p a l m e , la p a t e n a su cui è disposto il bianco pane. «Accogli, o Padre santo, onnipotente ed eterno Dio, quest'offerta immacolata, che io, indegno tuo servo, presento a Te, mio Dio vivo e vero, per i miei innumerevoli peccati e le tante mie offese e negligenze; per tutti quelli che sono qui attorno, affinché e a me e a loro sia di profitto per la salvezza nella vita eterna».

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LA BENEDIZIONE

Benedire può soltanto chi possiede autorità. Benedire può solo chi sa creare. Benedire può soltanto Iddio. Dio, benedicendo, ferma lo sguardo sulla sua creatura: la chiama per nome. Il suo amore onnipotente si volge al cuore e all'intimo nucleo della creatura e dalla mano di Dio si effonde la forza che rende buoni: «Vi guarderò e vi farò crescere». Solo Dio può benedire. Perché benedire è disporre di quanto è e agisce. La benedizione è una parola di potenza che pronuncia il Signore della creazione: acconsentimento e promessa del Signore della Provvidenza. Benedizione è destino felice. Nietzsche ha pronunciato una parola di ribellione, quando ha detto: «Da supplici dobbiamo farci benedicenti». E sapeva bene quello che voleva dire. Solo Dio infatti può benedire, perché Egli è il Signore della vita. Noi invece siamo essenzialmente dei supplici. Il contrapposto della benedizione è la maledizione. Questa significa sentenza di morte, sigillo di perdizione. Anch'essa si dirige a un viso, a un cuore. E il 185

comando del Signore che serra le fonti della vita. Però, di questo potere di benedire e di maledire, Dio ha fatto partecipi tutti quelli che sono chiamati a suscitare la vita: i genitori – «la benedizione del padre edifica le case ai figli» – e i sacerdoti. Essi hanno da evocare la vita: la vita della natura i primi; quella della grazia i secondi. A questo sono destinati dalla loro natura e dal loro ufficio. E uno può pretendere la facoltà di benedire quando è tutto puro; quando non cerca più se stesso, bensì vuol essere in tutto servitore del vivente Iddio. Il potere però è sempre di Dio. Esso viene meno quando si pretende di possederlo per virtù propria. Per natura noi siamo dei supplici. Solo per grazia diveniamo benedicenti – allo stesso modo che solo per grazia divina abbiamo il potere di comandare efficacemente. E come per la prerogativa di benedire, così è per la facoltà di maledire: «La maledizione della madre abbatte le case ai figli»; le «case», la vita, la salute. Ciò che nella natura è prefigurato, trova il suo compimento nella grazia. Quello infatti che nella benedizione propriamente profluisce, - nella vera benedizione, in quella di cui tutta la realtà naturale è solo similitudine – è appunto la vita stessa di Dio. Iddio benedice con se stesso: vi elargisce se stesso, la sua benedizione è produzione di vita divina: «Partecipazione alla natura divina». E però grazia, puro dono elargitoci in Cristo. Tale è la benedizione in cui Dio si dona a noi nel segno della croce. Questa forza di benedizione divina Egli l'ha partecipata a quelli che fanno le sue veci: per il mistero del Matrimonio cristiano la possiede il pa186

dre, la possiede la madre. Per il mistero della Consacrazione presbiterale la tiene il sacerdote. Per il Battesimo e il sacerdozio regale della Cresima ne sono fatti partecipi quelli che «amano Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le loro forze». A tutti costoro Dio ha dato il potere di benedire con la Sua propria vita: a ciascuno in modo diverso, secondo la maniera della sua missione. La benedizione ha la sua espressione nella mano; il compimento nel gesto della medesima. Essa si posa sul capo nella Cresima e nella Consacrazione sacerdotale, affinché per essa si effonda quanto viene dall'Alto e sgorga dallo Spirito di Dio. Essa traccia il segno della Croce sulla fronte oppure sopra la persona, affinché vi si riversi la pienezza di Dio. La mano infatti è la forza elargitrice: essa crea, essa forma, essa dona. Ma la benedizione suprema si ha quando è impartita con Io stesso santissimo, con il Corpo di Cristo nel Sacramento dell'Altare. Ha, però, da compiersi in grande reverenza e nella disciplina del mistero.

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SANTO SPAZIO

Lo spazio naturale ha delle direzioni: le tre che conosciamo. Esse indicano ch'è spazio ordinato, non caos. Ordine del contiguo, del sovrapposto, del sottoposto. Tale spazio fa sì che la nostra vita possa crescere e muoversi in pienezza di senso; che possiamo edificare case, dar loro forma, abitarle. Anche lo spazio soprannaturale, lo spazio santo, ha un ordine: che è radicato nel divino mistero. La chiesa è orientata da Occidente a Oriente, verso il sorgere del sole. L'anelito alla luce solare la percorre e la vivifica. Essa ne ha da ricevere i primi e gli ultimi raggi. Cristo è infatti il sole del mondo sacro. La direzione della sua vita è l'ordine dello spazio santo, di ogni costruzione e di ogni figura che è ben indirizzata verso la vita eterna. Quando ha da essere letto il Vangelo, il messale viene portato a sinistra, vale a dire, verso Nord, giacché l'altare è vòlto a Oriente. La santa Parola viene dal Sud e va verso il Nord. Questo non richiama soltanto il fatto storico che tale parola mosse dal Mediterraneo: il Sud è inoltre pienezza della luce, similitudine della chiarità soprannaturale. Il Nord è simbolo del freddo e della tenebra. È dalla luce che muove la Parola di Dio: da Dio che è la luce del mondo e risplende nelle tenebre e penetra l'oscurità qualora venga accolta. Una terza direzione è quella dall'alto al basso. 189

Quando il sacerdote si appresta all'offerta, leva in alto la patena e il calice. Dio infatti è «lassù», «il Santo della sublimità». Il supplice volge verso l'alto lo sguardo e le mani; de profundis «alle sante altezze». E quando il vescovo benedice o il sacerdote consacra, essi abbassano le mani posandole sul capo del fedele inginocchiato, oppure sulle cose che loro stanno innanzi. Ogni creatura infatti è «in basso», e la benedizione proviene dall'altissimo. È la terza direzione dello spazio santo. La direzione dell'anima: dell'anelito, della preghiera e dell'offerta. La direzione di Dio: della grazia, della pienezza, del Sacramento. Tali sono le direzioni dello spazio santo: Verso il sole sorgente che è Cristo. Qui si dirige lo sguardo del credente; di qui penetra nel nostro cuore il raggio della luce divina. È la grande orientazione dell'anima e la linea della discesa di Dio. Da Nord a Sud, da dove la tenebra si volge alla luce che irradia dalla parola divina. E questa viene dall'ardenza del cuore per illuminare e per riscaldare. E infine dal basso verso l'alto: è il movimento dell'anima nell'anelito, nella preghiera, nell'offerta, dalle profondità della propria miseria al trono dell'altissimo Iddio. A esso risponde il compimento, che si dispiega nella grazia, nella benedizione, nel Sacramento.

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LE CAMPANE

Dentro, lo spazio della chiesa parla di Dio. Esso appartiene al Signore, è tutto compenetrato della sua santa presenza. È anzi casa di Dio, separata dal mondo da pareti e volte. Codesto spazio è vólto all'interno, al Nascosto, e parla del mistero di Dio. E lo spazio di fuori? La grande vastità sopra il piano che si distende all'infinito da tutti i lati? Che si dispiega fino alle cime, protesa nell'infinito? Che riempie in profondo riposo le valli recinte dalle montagne? Non è essa pure collegata con il santuario? O certo, anch'essa! Dalla casa di Dio il campanile si drizza nella libera atmosfera e ne prende per così dire possesso per conto di Dio. Sul campanile, incastellate, sono sospese le campane, gravi di bronzo. Esse oscillano nella vibrazione, e tutto il loro corpo dalla nitida forma oscilla e manda rintocchi su rintocchi lontano nella vastità dello spazio. Onde di note armoniche: limpide e rapide, gravi e piene, oppure profonde e nella loro lentezza quasi minacciose. Sciamano via, percorrono la vastità immensa e la riempiono dell'annuncio del santuario. Il messaggio della vastità; il messaggio di Dio senza limiti né confini; il messaggio dell'anelito e del suo infinito soddisfacimento. Esse chiamano l'«uomo dell'anelito»; l'uomo il cui cuore è aperto all'immensa vastità. 191

Sì, quando udiamo le campane, noi sentiamo la vastità! Quando esse oscillano dal campanile verso la pianura, in tutte le direzioni dell'infinito, anche l'anelito dispiega con esse le ali verso la lontananza, finché comprende che il soddisfacimento non si trova al margine della pianura evanescente nell'azzurrino, bensì dentro. Quando i rintocchi delle campane dalla chiesetta montana inondando la valle oppure salgono nell'azzurro del cielo, il petto si allarga e sente d'essere molto più ampio di quanto altrimenti credesse. Oppure i rintocchi giungono da lontano nel bosco attraverso la verde calma del crepuscolo, né sai di dove, lontano, lontano. Oh, come tutto si desta qui! Cose da lungo dimenticate riaffiorano, così che ci si arresta, si ascolta, ci si domanda: «Ma cos'è questo? ... Cosa? ... ». Qui si percepisce la vastità. Come essa sia un dilatarsi dell'anima, un ipertendersi, un rispondere all'invito lontano della infinità. «Così vasto il mondo», dicono le campane. «Così pieno di nostalgia ... Dio chiama ... In Lui solo è la pace ... ». O Signore, più vasta del mondo è la mia anima. Più profondo di tutte le valli è il suo sospiro e il suo anelito è più doloroso del rintocco che va perdendosi nelle lontananze. Tu, Signore, Tu solo lo puoi soddisfare, Tu solo ...

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TEMPO SANTIFICATO

O g n i o r a del g i o r n o ha u n a tonalità sua propria. S o n o p e r ò tre quelle che si p r e s e n t a n o c o n u n a fision o m i a p a r t i c o l a r m e n t e distinta: il m a t t i n o , la sera e, tra l'una e l'altra, il mezzodì. E tutte s o n o consacrate.

Il mattino Il volto del m a t t i n o risplende energico e l u m i n o s o più d'ogni altra ora. È un inizio: il mistero della nascita che si rinnova ogni mattina. Ci destiamo dal s o n n o in cui il nostro essere s'è ringiovanito e p e r c e p i a m o n e t t o e forte: «Io vivo, io sono!». E questo essere rivificato si fa preghiera: «Signore, Tu mi hai creato; io ti ringrazio della mia vita. Ti ringrazio per quello che possiedo e sono». E la vita rinnovata percepisce le sue forze e si p r o t e n d e all'azione: «Signore, io comincio la giornata nel Tuo nome e nella Tua forza. Essa vuole essere un operare per Te!». Q u e s t a è l'ora del mattino. La vita si ridesta. E, p r o f o n d a m e n t e consapevole di sé, p o r g e a Dio il p u r o ringraziamento della creatura. Sorge a n u o v e 193

creazioni e si applica all'opera quotidiana movendo da Dio e nella forza di Dio. Comprendi quanto dipende dalla prima ora del giorno? Essa è il suo inizio. Non lo si può incominciare senza un pensiero e un proposito. Altrimenti non è affatto una «giornata», bensì un brandello di tempo senza senso né volto. Una giornata è un'opera; esige perciò illuminato volere. Una giornata è la tua vita intera. E la tua vita è come la tua giornata: perciò questa ha da avere una fisionomia. Una volontà, dunque, una direzione, un volto affissato in Dio: tutto questo è opera del mattino. La sera Anch'essa ha il suo mistero: il mistero della morte. Il giorno volge al termine; l'uomo si appresta a comporsi nel silenzio del sonno. Il mattino era compenetrato d'un vigoroso sentimento di forza rinnovata; a sera la vita è stanca e cerca il riposo. E in essa echeggia il mistero della morte. Spesso non lo percepiamo affatto: il nostro spirito è ancora dominato dalle immagini e dai propositi del giorno che ha da seguire. Talvolta vi si fa sentire come un presentimento lontano. Ma ci sono anche delle sere in cui avvertiamo come la vita inclini verso la grande tenebra «dove nessuno può agire più». E tutto dipende dalla nostra maggiore o minore capacità di comprendere il mistero della morte. Morire non significa soltanto che la vita volge al termine. Morire è anche l'ultimo atto di questa vita: il suo atto 194

estremo, decisivo di tutto. Ciò che avviene nella vita, sia d'un individuo che d'un popolo, non è mai compiuto ed esaurito. Ha pur sempre importanza grande quello che l'individuo o il popolo ne fanno: quale atteggiamento prendono al riguardo; se dall'accaduto sanno trarre o meno qualcosa di nuovo, in bene o in male. Immagina che una grande disgrazia si sia abbattuta sopra un popolo. Certo essa è avvenuta; non è però ancora finita. Codesto popolo può abbandonarsi alla disperazione, ma può anche riprendersi, ricominciare. Solo in questo secondo momento si compie ciò che pur da tempo è accaduto. Così la morte, nelle sue profondità, significa questo: essa è l'ultima parola che una persona pronunzia sulla sua vita passata; il volto definitivo che essa le dà. La grande decisione dipende da una duplice alternativa: che la persona stringa un'ultima volta nelle mani l'intera sua vita; che il rimorso l'avverta di quanto fu manchevole e lo consumi col suo fervore; che per il bene fatto essa attribuisca a Dio, in spirito di gratitudine e umiltà, l'onore, e tutto abbandoni al Signore con generosità incondizionata; oppure che tal persona si sgomenti e la sua vita giunga al termine senza dignità né forza. In tal caso la vita non viene affatto ad avere un termine: essa viene semplicemente meno. Non ha né aspetto né decoro. Questa è l'«arte sublime di morire»: l'arte di far assurgere la vita passata a un unico atto di devozione a Dio. Ora bada: ogni sera deve costituire una esercitazione in quest'arte sublime di dare alla vita la conclusione reale che assicuri a tutto il passato un valore definitivo e un volto eterno. L'ora della sera è l'ora del compimento. Stiamo di195

nanzi a Dio prevedendo che ci troveremo un giorno dinanzi a Lui faccia a faccia, a rendere l'ultimo conto. Sentiamo quel che si nasconde nella parola: «È avvenuto»: il bene; il male; perdere e dilapidare. Ci poniamo dinanzi a Dio, a Quegli per «cui tutto vive», il passato come il futuro, e che può persino ridonare al cuore contrito i beni perduti. E dinanzi a Lui diamo al giorno trascorso il volto definitivo. Ciò che in esso non fu giusto, lo fissi il rimorso e lo «riveda»; ciò che vi fu di buono, il ringraziamento, umilmente sincero, lo spogli di ogni vanità. E tutto quanto è incerto, insoddisfacente, meschino e torbido, venga immerso dalla piena fiducia nell'onnipotente amore di Dio. L'ora del mezzodì Al mattino la vita risorge, sale, prima, rapida e gioiosa; poi, cumulandosi gli ostacoli, più lenta. Raggiunge alfine il culmine del mezzodì e riposa alquanto tempo. Accenna però presto alla curva discendente: s'affievolisce sempre più, finché, dopo una nuova breve ripresa, si compone nel silenzio della notte. Tra il sorgere e il tramontare però, al vertice del giorno, respira un attimo breve, meraviglioso: il mezzodì. Qui la vita non guarda all'avvenire perché non vi si protende. Non si volge ancora al passato, perché il discendere della parabola non s'è accennato ancora. Si arresta e sta; ma non è stanca: questa sosta è ancora vigorosa di tutto l'impeto della corsa. È una sosta nel mero presente. E il suo sguardo si spinge nell'immensità - no, non s'affisa affatto nello spazio o nel tempo: si spinge nell'eternità. 196

Com'è profondo l'attimo del mezzodì! Nella città non l'avverti, giacché qui tutto è rumore e non v'è silenzio né intimità. Ma va' fuori, per i seminati, oppure in un calmo boschetto, d'estate, quando il sole è allo zenith e la distesa è tutta una vampa – come ti riesce profondo tutto questo! Ti arresti e il tempo ti sfugge: l'eternità ti guarda faccia a faccia. L'eternità infatti parla sì ogni ora; a mezzodì però essa ci è vicina. Qui il tempo fa una sosta, quasi si apre. Il mezzodì è puro presente, la pienezza del giorno. Pienezza del giorno ... Vicinanza dell'eternità ... Sostare e aprirsi ... Da lontano squilla la campana dell'Angelus ... Proferisce nel meriggio silente la parola redentrice: «In principio era la Parola e la Parola era presso Dio e Dio era la Parola». «E la parola si è fatta carne. E ha preso abitazione tra noi». Si presentò una volta l'ora meridiana del giorno dell'umanità, la «pienezza dei tempi». Ed era persona umana quella in cui si presentò questa pienezza, sostandovi: Maria. Ella non ebbe fretta: non guardò né innanzi né indietro. La pienezza dei tempi si trovava in Lei, schietto presente, aperto all'eternità, e attendeva. E l'eternità si piegò a Maria, venne l'annunzio e la Parola eterna si fece carne nel suo purissimo grembo. La campana evoca questo mistero nella nostra giornata. Nel bel mezzo della giornata cristiana si ravviva sempre di nuovo il mistero del meriggio umano: in ogni tempo echeggia la pienezza dei tempi. La nostra vita intera dovrebbe essere vicina all'eternità. In noi dovrebbe esserci sempre la calma raccolta che è aperta all'Eterno e gli presta ascolto. 197

Ma la vita è rumorosa e soverchia la voce dell'eternità. Così, almeno nell'ora consacrata del mezzodì all'Angelus, abbiamo da raccoglierci, sgombrare l'animo da quanto ci sollecita, far silenzio e prestar orecchio al mistero in cui «la Parola eterna, quando tutto si fu composto in profondo silenzio, scese dal trono regale»; un dì nella concreta realtà storica; ora, in modo sempre nuovo, in ogni anima. E quanto profondamente ci si può sentire, in quest'attimo di raccoglimento, una cosa sola con gli altri di fuori, che stanno in eguale raccoglimento! Quale profonda comunione si può avere così; quale ampia comunità salutare e benedire fin lontano, lontano ...

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NEL NOME DI DIO

Noi uomini siamo divenuti grossolani. Di molte cose delicate e profonde non sappiamo più nulla, e la parola è una di queste. Pensiamo ch'essa sia qualcosa di esteriore, perché non avvertiamo più la sua realtà interiore. Pensiamo che sia qualcosa di labile, perché non ne sentiamo più la forza. Essa non urta più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e di timbro. Invece è un fine involucro per racchiudere alcunché di spirituale. L'essenza di una cosa, e la nota della nostra propria anima dinanzi a ogni cosa, s'incontrano nella parola e vi ottengono espressione. O meglio così dovrebbe essere. E certamente nel primo uomo era così. Nella prima pagina della Sacra Scrittura si legge che Dio «condusse innanzi all'uomo gli animali» perché li denominasse. L'uomo con aperti sensi e anima veggente spinse lo sguardo attraverso la figura nell'essenza, ed espresse quest'ultima nel nome. E la sua anima rispose alla creatura. Si sentì toccata in qualcosa che stava in particolare relazione con l'essenza di quella creatura, giacché nell'uomo si presenta la sintesi e l'unità della creazione intera. E questi due elementi: Vessenza della cosa, fuori e la risposta a quest'ultima nell'uomo, dentro – elementi ambedue vitalmente uniti – espresse egli nel nome. 199

Nel nome dunque si combinarono insieme un atomo del mondo e una nota dell'interiorità umana. E quando l'uomo pronunziò il nome, la fisonomia essenziale della cosa emerse nel suo spirito, e a questa intuizione corrispose nella voce quello ch'era stato risposto dal suo intimo. In tal modo il nome divenne un segno misterioso, per cui l'uomo prese possesso del mondo e di se stesso. Le parole sono nomi. E il parlare è l'arte sublime di usare dei nomi delle cose; di cogliere l'essenza delle cose e l'essenza della propria anima nella loro armonia da Dio voluta. Questa intima relazione però, col creato e col proprio Io, non fu durevole. L'uomo peccò, il vincolo fu spezzato. Le cose gli divennero estranee, anzi nemiche. Egli non le penetrò più con occhio puro, bensì cupidamente, da tiranno e insieme con lo sguardo malsicuro del colpevole. Esse però gli chiusero la loro essenza. E anche il fondo del proprio essere gli fuggì, perché aveva voluto attuarlo egoisticamente. Non visse più guardando infantilmente nella propria anima. Questa gli sfuggì ed egli divenne ignaro di se stesso e impotente di fronte a se stesso. La parola «nome» non stringe ormai più per lui, in un'unità vivente, l'essenza della cosa all'essenza dell'uomo. In tale parola non lo investe più ormai il pensiero divino della creazione ordinata nella pace. L'uomo vi vede solo una figura lacerata e sconvolta, vi percepisce come un motivo stonato, soffuso di cupi presentimenti e di aneliti oscuri. E quando per avventura ode in modo giusto la parola, allora si arresta, presta ascolto, riflette, e non ne trova più il senso. La parola rimane confusa, enigmatica, ed egli sente dolorosamente che il paradiso è perduto. 200

Ma neppure questo succede più. Noi uomini siamo divenuti così superficiali, che non proviamo più ormai il dolore per le parole distrutte. Abbiamo preso a pronunciare i nomi in modo sempre più rapido, più superficiale ed esteriore, pensando sempre meno alle essenze espressevi. Le abbiamo trasmesse ad altri, come si passa una moneta da una mano all'altra; non si sa che aspetto abbia, cosa ci sia sopra; si sa soltanto che per essa si riceve tanto. Così le parole sono corse celermente di bocca in bocca. Il loro intimo non ha parlato più; l'essenza della cosa non si è fatta più udire; l'anima non si è più rivelata in esse. Si ridussero ormai solo a parole-monete: indicarono la cosa, senza però rivelarla. Si ridussero a meri segni, che permettessero agli altri di intendere la propria volontà. Così il linguaggio coi suoi vocaboli, non è più un commercio pieno d'anelito con l'essenza delle cose, né un incontro di cose e anima. Non è più ormai nostalgia del paradiso perduto, bensì un frettoloso sonar delle parole-monete, quasi una macchina numeratrice che distribuisca le monete e nulla sappia di esse. Solo qualche volta ci scotiamo. Quando d'un tratto ci viene un richiamo da una parola tale che sembra echeggiare da abissi. L'essenza ci parla. Oppure la parola sta sulla carta, e dal segno nero s'accende come una luce. È il «nome» che si presenta, l'essenza, la risposta dell'anima. Qui riproviamo l'esperienza originaria da cui è scaturita la parola, l'esperienza in cui l'anima incontrò l'essenza della cosa. Proviamo la visione stupefacente, la stretta spirituale con cui l'uomo colse l'essenza del nuovo che gli sta dinanzi e lo coniò, attingendo al suo intimo, nella creazione del nome. Avanziamo in una distesa immensa, precipitiamo in 201

un abisso, ed ecco che la parola ci ridiventa quell'opera prima a cui Dio chiamò lo spirito umano. Certo, una parola logorata, immiserita. Eppure presto tutto si disperde di nuovo e la macchina numeratrice tintinna di nuovo ... Non lasciar perdere questi istanti. Forse il nome «Dio» ti si può presentare in modo siffatto. Quando riflettiamo a tutto questo, ben possiamo comprendere perché i fedeli dell'Antico Testamento non pronunciassero affatto il nome di Dio. A esso sostituivano il nome di «Signore». Infatti da questo è appunto costituita la particolare lezione del popolo ebraico: dal fatto che esso ha sentito più immediatamente degli altri popoli la realtà di Dio, la vicinanza di Dio. La sua grandezza, la sua sublimità e terribilità Israele l'ha sentita più fortemente di ogni altra nazione. Agli Ebrei Dio aveva manifestato attraverso Mosè il suo nome: «Colui che è, questo è il mio nome». «L'Esistente», che non ha bisogno di alcun altro, che riposa tutto in se stesso, sintesi e sostanza di tutto l'essere e di ogni forza. Il nome di Dio era per essi immagine della Sua essenza. Quest'essenza di Dio la vedevano irraggiare dal Suo nome. Il quale era per essi come Dio stesso, e li riempiva di timore come quando un giorno avevano temuto sul Sinai il Signore in persona. E invero Dio parla del suo nome come di se stesso: «Il mio nome ha da esser là»: Egli dice del Tempio. E nell'Apocalisse promette al fedele perseverante che «lo eleverà a colonna del tempio di Dio» e che 202

«scriverà il proprio nome su di lui». Lo vuol così consacrare e fargli dono di se stesso. Così comprendiamo il comandamento: «Non nominare invano il nome di Dio, tuo Signore». Comprendiamo perché il Salvatore ci insegni a pregare: «Venga santificato il tuo nome». E perché dobbiamo incominciare «nel nome di Dio» quanto facciamo. Misterioso è il nome di Dio, l'essenza dell'Infinito ne irradia; l'essenza di «Colui che è» in pienezza incommensurabile e in elevatezza infinita. E in questa parola vibrano anche le scaturigini più profonde della nostra anima. Il nostro essere più intimo risponde a Dio, poiché appartiene indissolubilmente a Lui. Creato da Lui e per Lui, non ha pace, fino a che non è unito con Lui. Il nostro Io anzi non ha altro senso che quello di restituirsi nella comunione d'amore con Dio. Tutto questo, tutta la nostra nobiltà, l'anima della nostra anima, si trova racchiusa nella parola «Dio» e «Mio Dio». La mia origine e il mio fine, inizio e termine del mio essere, adorazione, anelito, rimorso: tutto. Il nome di Dio è propriamente tutto. Così lo preghiamo che c'insegni a «non nominare invano il suo nome», bensì a «santificarlo». Lo preghiamo che il suo nome ci risplenda nella gloria. Tale nome non deve mai diventare per noi una moneta che passa 203

inerte da una mano all'altra: ci deve piuttosto restare infinitamente prezioso, tre volte santo. Onoreremo pertanto il Nome di Dio, come Dio stesso. E in esso onoreremo anche il santuario dell'anima nostra.

204

INDICE

Lo spirito della liturgia

Prefazione di Giulio Bevilacqua

9

CAPITOLO PRIMO La preghiera liturgica

15

CAPITOLO SECONDO La comunità liturgica

37

CAPITOLO TERZO Lo stile liturgico

47

CAPITOLO QUARTO Il simbolismo liturgico

59

CAPITOLO QUINTO La liturgia come gioco

69

CAPITOLO SESTO La serietà della liturgia

83

CAPITOLO SETTIMO Il primato del Lògos sull'Ethos

99

205

I santi segni Prefazione dell'Autore

113

Premessa

117

Del segno della Croce

125

La mano

127

Dell'inginocchiarsi

131

Lo stare in piedi

133

L'incedere

135

Del battersi il petto

139

I gradini

143

Ilportale

147

II cero

151

L'acqua benedetta

155

Lafiamma

159

La cenere

163

L'incenso

165

Luce e calore

167

Pane e vino

171

206

L'altare

175

I lini

177

Il calice

181

La patena

183

La benedizione

185

Santo spazio

189

Le campane

191

Tempo santificato

193

Il mattino, 193 - La sera, 194 - L'ora del mezzodì, 196.

Nel nome di Dio

199

207

Romano Guardini Opera Omnia VI.

Scritti politici, a cura di Michele Nicoletti

Opere Accettare se stessi, 3 ed. L'Angelo. Cinque meditazioni Ansia per l'uomo, 2 voli, (in ristampa) Appunti per un'autobiografia Contemplazione sotto gli alberi La conversione di S. Agostino, 2 ed. La coscienza. Il bene - Il raccoglimento, 3 ed. riv. Dante, 4 ed. Diario. Appunti e testi dal 1942 al 1964 Il diritto alla vita prima della nascita Dostojewskij. Il mondo religioso, 5 ed. Elogio del libro, 2 ed. L'esistenza e la fede (in ristampa) L'essenza del cristianesimo, 9 ed. Etica, a cura di M. Nicoletti e S. Zucal, 2 ed. Europa. Compito e destino, a cura di S. Zucal Fede - Religione - Esperienza. Saggi teologici, 2 ed. La figura di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, 4 ed. La fine dell'epoca moderna - Il potere, 10 ed. Hólderlin. Immagine del mondo e religiosità, 2 voll. Introduzione alla preghiera, 9 ed.

Lettere dal lago di Como. La tecnica e l'uomo, 3 ed. Lettere sull'autoformazione, 6 ed. Libertà - Grazia - Destino, 3 ed. Linguaggio - Poesia - Interpretazione, 3 ed. aumentata La Madre del Signore. Una lettera, 2 ed. 77 messaggio di San Giovanni. Meditazioni sui testi dei discorsi dell'addio e della prima lettera, 2 ed. Miracoli e segni, 2 ed. Mondo e persona. Saggio di antropologia cristiana, a cura di S. Zucal, 2 ed. La morte di Socrate. Interpretazione dei dialoghi platonici Eutifrone, Apologia, ditone e Fedone, 4 ed. Natale e Capodanno. Pensieri per far chiarezza, 2 ed. Natura - Cultura - Cristianesimo. Saggi filosofici L'opera d'arte, 2 ed. L'opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente Parabole Pascal, 5 ed. La Pasqua. Meditazioni Pensatori religiosi, 2 ed. Preghiera e verità. Meditazioni sul Padre Nostro, 3 ed. Preghiere teologiche, 6 ed. Rainer Maria Rilke. Le Elegie duinesi come interpretazione dell'esistenza, 2 ed. La realtà della Chiesa, 5 ed.

La realtà umana del Signore. Saggio sulla psicologia di Gesù (in ristampa) Ritratto della malinconia, 5 ed. La Rosa Bianca, a cura di M. Nicoletti, 8 ill. f.t., 2 ed. Il Rosario della Madonna, 5 ed. San Francesco, 2 ed. La Santa Notte. Dall'Avvento all'Epifania Sapienza dei Salmi (in ristampa) 77 senso della Chiesa (in ristampa) Lo spirito della liturgia -I santi segni, 10 ed. Tre interpretazioni scritturistiche. In principio era il Verbo - L'amore cristiano - L'attesa della creazione Tre scritti sull'università, a cura di M. Farina Virtù. Temi e prospettive della vita morale, 4 ed. La visione cattolica del mondo, a cura di S. Zucal, 2 ed. La vita della fede (in ristampa) Volontà e verità. Esercizi spirituali, 2 ed.

Lo spìrito della liturgia è u n a classica interpretazione della spiritualità liturgica, g e r m i n a t a da una straordinaria potenza d'intuizione e da u n a perspicacia anticipatrice dei movimenti storici, quale il Guardini ha s e m p r e testimoniate. Il volume, che uscì nel 1919 nella collezione «Ecclesia orans» p r o m o s s a dall'abate Ildefons H e r w e g e n di Maria Laach, nulla ha p e r d u t o a tutt'oggi della sua forza di penetrazione, del suo vigore di sintesi. L'essenza della liturgia, al di là dei rubricismi c o m e delle trascuratezze colpevoli, è intesa c o m e culto oggettivo, sottratto alle fluttuazioni del s e n t i m e n t o individuale, comunitario, q u i n d i tale da e s p r i m e r e e nello stesso t e m p o foggiare l'unità degli oranti. Ne I santi segni l'Autore avvia ad u n a calda comprensione della liturgia e del suo simbolismo. Gli si a p r e dinanzi così, intatta, la ricchezza di allusione e di appello religioso insita nel segno della croce, nell''inginocchiarsi, nel vario atteggiarsi della mano di chi prega, nell'incedere processionale, nel battersi il petto, nel cero, nell'acqua benedetta, nella fiamma sacra, nella cenere penitenziale, nell'incenso, nella luce, emblema della verità di Dio, nel pane e nel vino, nell'altare coi suoi lini, nel calice e nella patena, nella benedizione, nelle campane. Lo spazio nelle sue direzioni, il tempo con l'avvicendarsi dei ritmi quotidiani, rivelano, essi p u r e , un'arcana consacrazione liturgica. Profondità cristiana e sensibilità lirica si f o n d o n o a r m o n i c a m e n t e in queste pagine.

ROMANO GUARDINI (1885-1968) è stato una delle maggiori figure della storia culturale europea del sec. xx. Presso la Morcelliana è in corso di stampa l'Opera Omnia.