Lo spirito del dono 9788833914336, 883391433X


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Italian Pages 314 [274] Year 2002

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Lo spirito del dono
 9788833914336, 883391433X

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Jacques T. Godbout in collaborazione con Alain Caillé

LO SPIRITO DEL DONO Bollati Boringhieri Traduzione di Alfredo Salsano

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Bollati Boringhieri Torino, prima edizione ottobre 1993 Titolo originale: "L'Esprit du don" Copyright Editions La Découverte, Parigi 1992 Copyright Editions du Boréal, Montréal 1992



NOTA SULL'AUTORE Jacques T. Godbout è professore-ricercatore all'Institut national de la recherche scientifique presso l'Università del Québec, a Montréal. Attivo nell'ambito dell'Institut Karl Polanyi d'économie politique di Montréal e del Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales (MAUSS) di Parigi, è autore tra l'altro di "La Démocratie des usagers". Alain Caillé, professore all'Università di Caen e direttore della «Revue du MAUSS», è autore tra l'altro di due libri tradotti nelle nostre collane: "Mitologia delle scienze sociali" e "Critica della ragione utilitaria".

INDICE Prefazione e ringraziamenti INTRODUZIONE. IL DONO ESISTE (ANCORA)? Il dono non esiste. Il dono è ovunque; Pericoli e rifiuto del dono; Quando il dono costituisce sistema; I beni al servizio dei legami. PARTE PRIMA. I LUOGHI DEL DONO 1. Tre forme del legame sociale. 2. Il legame interpersonale: Gli amici; La famiglia; Il ruolo della donna; I figli: dono od oggetto; Babbo Natale; Ereditare; La famiglia: un sistema di debiti. 3. Quando lo Stato sostituisce il dono: Il dono del sangue; La perversione del dono ad opera dello Stato; L'imposta non è il dono; Il dono agli sconosciuti. 4. Il dono tra estranei: I gruppi di aiuto reciproco: gli Alcolisti anonimi; Il volontariato; Un dono moderno. 5. Il dono e la merce: Il dono al servizio degli affari; Il mercato dell'arte; Il dono di organi. 6. Il dono nella società liberale: Dono e reciprocità. Le forme di restituzione del dono; La spontaneità, la libertà, il non-calcolo; Il mezzo è il fine. PARTE SECONDA. DAL DONO ARCAICO AL DONO MODERNO 7. Il dono arcaico: le lezioni dell'etnologia: Tre esempi di dono arcaico; Sulla natura della moneta nelle società selvagge.

8. Le interpretazioni classiche del dono arcaico: L'interpretazione economica; L'interpretazione «indigena»; L'interpretazione scambistastrutturalista; L'economicismo delle interpretazioni classiche. 9. Dono arcaico e dono moderno: Dono arcaico e mercato; La spirale del dono; Lo strano principio di alternanza; La sistematicità del dono arcaico; Riproduzione, dono, persona e socialità primaria; La socialità arcaica; La socialità moderna. 10. Il passaggio al dono moderno: L'estraneo arcaico e l'estraneo feudale; Prima rottura: il mercato; Seconda rottura: lo Stato; La libertà di produrre di più; La dissociazione dell'utilitario e del gratuito; Resistenze e contromovimenti. PARTE TERZA. LO STRANO ANELLO DEL DONO 11. Dono, mercato, gratuità: Il valore di legame; La gratuità: esistono doni gratuiti....; La regola dell'implicito; E la libertà mercantile?; Dono e modelli deterministici. 12. Abbozzo per un modello del rapporto di dono: I due approcci dell'intelligenza artificiale; Lo Stato e il mercato; Il dono; Dono e sistemi intelligenti; Un anello di più o un anello di troppo? Conclusione. Sotto gli scambi, il dono: Un ultimo elogio del mercato; E la violenza?; La libertà del dono; Una metafora: il dono è un attrattore strano; Dono e Occidente; Loro e noi; A chi appartiene il mondo attuale? Note. Riferimenti bibliografici.

PREFAZIONE E RINGRAZIAMENTI C'è l'uso, specialmente nelle opere di scienze umane e sociali, di nominare le persone, sempre numerose, verso le quali ci si sente debitori di una idea, di una critica, di una informazione, di una osservazione o ancora di un aiuto materiale o affettivo. Basta questo per attestare l'importanza dei rapporti di dono e di gratitudine allo studio dei quali è dedicato il presente libro. Stranamente, però, il fatto di avere scritto sul dono non rende più perspicaci per quel che riguarda l'identificazione delle persone alle quali si deve qualcosa e non facilita l'elaborazione della gratitudine. Tutto ciò diventa particolarmente difficile quando il libro è il risultato di una collaborazione. Chi ha dato che cosa a chi? Chi è l'autore primo e autentico di questa o quella idea? Se la risposta a tali domande è delicata, è proprio perché la possibilità che le idee nascano e si scambino presuppone che la loro appropriazione sia messa tra «parentesi». Ma in fin dei conti, e con il suo accordo, credo che spetti a me ringraziare Alain Caillé della collaborazione che ci ha legati. Questa in realtà ha avuto inizio ben prima che facessimo conoscenza. Alain Caillé aveva già cominciato a riflettere sul dono e a richiamare l'attenzione sulla sua importanza nel quadro del «Bulletin», poi della «Revue du MAUSS» (Mouvement antiutilitairiste dans les sciences sociales), di cui è il fondatore-direttore. Nel corso dell'anno in cui, a Parigi, redigevo la prima versione di questa opera, abbiamo discusso regolarmente della problematica generale e ci siamo scambiati i nostri punti di vista sulla quasi totalità dei temi qui affrontati. Abbiamo scritto insieme l'introduzione e suoi sono i capitoli 7 e 8, nonché la maggior parte del capitolo 9. Poiché io sono l'unico redattore del resto, tocca a me assumere la responsabilità delle insufficienze e approssimazioni che vi si trovano. Di questo debito non potevo fare a meno di dar conto in primo luogo. Ma voglio ricordare anche i miei incontri periodici, con Anne Gotman, che mi hanno sorretto per tutto quell'anno sabbatico a Parigi. La sua

sensibilità, la sua generosità e la sua intelligenza avevano regolarmente la meglio sulle mie angosce e sulle mie incertezze. Devo molto anche a tutti coloro che mi hanno fatto comprendere l'importanza del dono, con la loro conversazione, con le loro storie di dono, ma anche e soprattutto con i loro gesti, il loro atteggiamento, la loro saggezza quotidiana. Tra loro voglio nominare mio fratello Guy, morto in un naufragio nel momento in cui giungeva a termine il lavoro di redazione. A lui dedico questo libro, come pure a tutta quella «gente senza importanza» con la quale, come dice il poeta, si sta così bene e senza la quale non si è più niente. Jacques T. Godbout

INTRODUZIONE. IL DONO ESISTE (ANCORA)? (1) «I tempi sono duri ma moderni», dice una espressione italiana riportata da Sloterdijk (1983). L'individuo moderno accetta che gli si rimproverino molte cose, ma non certo di essere ingenuo. Anzi sarebbe tutto meno che questo. Sa bene, lui, che cosa si nasconde dietro le storie di dèi, dietro i miti, dietro le belle e grandi narrazioni di tutti i paesi e di tutti i tempi. L'individuo moderno è realista. Sa dunque anche che cosa si nasconde dietro il dono. Godendo del triste ma moderno privilegio di guardare la realtà in faccia e di non farsi ingannare dalle apparenze, sa bene che quel che motiva la produzione e lo scambio dei beni non è l'altruismo o la generosità, ma l'interesse materiale; che la politica non è affare d'ideali ma di potere e di violenza, e che gli affetti non sono comandati dai sentimenti ma in primo luogo dal sesso. Più in generale, l'uomo moderno intende obbedire soltanto al principio di realtà, e questo recita che soltanto la materia e il corpo esistono realmente. Il resto non è altro che invenzione della mente! Allora, per quel che riguarda il dono, questa simulazione o affettazione dell'ineffabile, si ha sempre il diritto di sognarne nella intimità o nella oscurità di una sala cinematografica; ma è escluso preoccuparsene nell'analisi della dura realtà. Se si è capito questo, si è capito tutto. E se si afferma qualcosa di diverso è perché non si è stati capaci di vedere quel che si nasconde sotto le apparenze. Dopo Marx, Freud, Lévi-Strauss o Bourdieu, pensa l'uomo moderno colto, l'innocenza non è più possibile, salvo «con ironia». Vale a dire per l'appunto, precisa Umberto Eco, in modo «non innocente». «L'uomo pensa, Dio ride», aggiunge Kundera. Certo, la ricerca di una nuova chiave per comprendere il mondo, di un nuovo schema di lettura della modernità, è attraente, lodevole e simpatica. L'utilitarismo, il marxismo, lo strutturalismo sono ben tristi e «portatori di disincanto». Forse siamo tutti ingannati dalla modernità, ma le cose stanno così:

l'innocenza è perduta per sempre. Bisogna adeguarsi, non soccombere a nostalgie passatiste, essere un bravo moderno. Ora, farsi carico della modernità (o della postmodernità) significa innanzi tutto professare l'inesistenza o l'inconsistenza del dono. «Tu crederai solo alla dura realtà, ti guarderai dal soccombere ai miraggi e alle tentazioni del dono»: questo potrebbe essere il primo comandamento di un piccolo catechismo ad uso dei moderni. - IL DONO NON ESISTE. IL DONO È OVUNQUE Si capiscono meglio allora le straordinarie reazioni alterne e contraddittorie suscitate dal progetto di scrivere un libro sul dono. Il fatto è che, per i nostri interlocutori, nello stesso tempo il dono non esiste, poiché solo il corpo e l'interesse sono reali, ed esiste ancora troppo. Ascoltiamo queste reazioni per poi tentare una prima formulazione delle nostre ipotesi: prendendo in parola lo spirito moderno, rifiuteremo di crederlo senz'altro ed estenderemo il sospetto al sospetto stesso, chiedendoci che cosa si nasconda dietro questa insistenza a negare l'esistenza del dono. Il dono non esiste (più) - «Il dono, ma non è serio. Vuoi studiare la carità, la beneficenza? Oppure la generosità? Questo sì che è un buon argomento! Ma non esiste quasi più, purtroppo». O per fortuna, pensiamo quasi tutti. Che il dono abbia fatto posto allo scambio mercantile e al calcolo, si può ancora far finta di deplorarlo in nome del rimpianto o della speranza di un mondo più caloroso, umano e fraterno. Ma nessuno si lagna del fatto che la giustizia abbia sostituito la carità e che i diritti all'assistenza, garantiti dallo Stato-provvidenza, si siano sostituiti alla elemosina. In questi campi, se il dono non esiste più, tanto meglio. Anche la generosità è scomparsa; è stata sostituita dal calcolo egoistico, si dice inoltre. Egoismo è il termine chiave delle prime reazioni spontanee. «La gente è talmente egoista!» Allora, oltre alla carità e ai riferimenti religiosi viene in mente il «dono di sé». Spontaneamente si collega l'idea di dono a quella di dono di sé; e ciò sembra tanto strampalato e superato... «Un libro sul dono? Fammi un esempio». Dopo qualche istante di riflessione, ecco che viene in mente: «Ti ho appena offerto l'aperitivo. Tu mi hai detto: D'accordo, ma allora io pago il vino. Perché questa

contropartita? Tratteremo proprio di questioni del genere». Di solito a questo tipo di discorso segue un momento di disagio, che non sorprenderà chi ha familiarità con la letteratura teorica sul dono: una delle conclusioni principali cui essa giunge è che, a differenza di quello del mercato, l'universo del dono richiede l'implicito e il non detto. La magia del dono può operare soltanto se le sue regole restano inespresse. Non appena esse sono enunciate, la carrozza ridiventa una zucca, il re si rivela nudo e il dono equivalenza. Così, dopo qualche istante di silenzio e di riflessione, il nostro interlocutore si riprende e ribatte: «Ma, appunto, non è un dono, poiché io pagherò il vino». Al che si può rispondere: «Ma è davvero la stessa cosa che se avessimo diviso il conto dell'aperitivo e del vino, anche supposto che il bilancio contabile sia lo stesso? E se è la stessa cosa, perché complicarsi così la vita?» In certo modo, il problema è tutto qui. Se il dono e il controdono sono ineguali, allora c'è un vincente e un perdente, e probabilmente sfruttamento e inganno. Se, al contrario, sono equivalenti, allora evidentemente non c'è differenza tra il dono e lo scambio mercantile interessato e razionale. In breve, il dono appare sia illegittimo sia inesistente o illusorio. Questa è la convinzione moderna espressa dall'interlocutore: convinzione secondo la quale ogni tentativo di negare la legge dell'equivalenza contabile sia quanto meno sospetta o derisoria. Dovremo chiederci al contrario se la formazione del legame sociale non obbedisca a regole che ci sfuggono e che hanno con la logica economica soltanto rapporti strani e paradossali. Per quanto tempo Robinson e Venerdì sarebbero sopravvissuti nella loro isola se avessero avuto tra loro soltanto rapporti di affari, ad esclusione di qualsiasi altro legame? Forse il vino equivale all'aperitivo, ma se i due convitati non avessero avuto in testa altre motivazioni che la divisione del conto, non si sarebbero nemmeno incontrati e la questione dell'equivalenza semplicemente non si sarebbe posta. Se si parla di un progetto di libro sul dono, la prima reazione spontanea è dunque quella della negazione. Il dono non esiste più; oppure è soltanto un modo di fare complimenti e di simulare la gratuità e il disinteresse là dove, come dappertutto, regnano soltanto l'interesse e l'equivalenza. La seconda reazione spontanea è fatta d'imbarazzo o di diffidenza. Come se, nel corso di una serata, uno sconosciuto si mettesse inopinatamente a farvi domande sulla vostra vita sessuale o a informarsi dell'ammontare esatto del vostro reddito. «Di che cosa s'impiccia?» sarete propensi a pensare. Probabilmente tenterete di eludere la domanda con qualche battuta, ma resterete a disagio. Sono gli stessi riflessi di difesa che suscita la tematica del dono, che non cessa d'incuriosire. Un tempo, le

«cose nascoste» erano il denaro e il sesso. Le scienze umane ne hanno dedotto che, in quanto nascoste, tali cose dovevano costituire la realtà ultima, il luogo della verità per eccellenza. Ora, per uno strano capovolgimento, il dono, un tempo argomento dei discorsi edificanti, è diventato più osceno della oscenità stessa. Diventa quasi obbligatorio parlare delle proprie conquiste finanziarie o sessuali. Il dono, invece, è ormai tabù, non se ne può parlare. Quanto meno, come la religione, è una faccenda privata che non interessa nessuno. Ecco quel che spinge a proseguire l'indagine nella speranza di trovare qualcosa di nascosto... sotto il dono. Il dono è ovunque - Dopo qualche spiegazione, le prime reazioni fanno posto a un interesse crescente. Spesso addirittura l'«ammissione» sostituisce l'indifferenza e il disagio. E allora il dono, che non era da nessuna parte, compare dappertutto. Chi aveva affermato che «il mondo attuale non è altro che egoismo» si rivela particolarmente generoso, a credere ai suoi amici: «Mi stupisco che abbia reagito così. Robert è tanto generoso; dà molto. Mi ha addirittura offerto di pagare la scuola di mia figlia perché sa che attraverso un momento difficile dal punto di vista finanziario». O ancora si apprende per bocca di coloro che in un primo tempo avevano negato l'esistenza o l'importanza del dono: • Che un funzionario in pensione, ateo e razionalista, laico convinto, svolge attività volontaria presso i Petits frères des pauvres: «Sai, io ricevo più di quanto non dia», precisa subito, come per giustificarsi di fronte al tribunale della ragione utilitaristica del fatto di lasciarsi andare a comportamenti del genere. «Spesso non dico niente, è la persona che visito che parla da sola». Il messaggio è evidente, e finché egli riceve più di quanto non dia, va tutto bene, è in regola con le esigenze della libertà moderna. Notiamo per inciso un elemento che potrebbe essere più sorprendente: parlare è considerato un dono. Il primo, forse. • Che un professore universitario dall'umore cinico svolge attività volontaria presso dei malati di aids. Commento di un'amica: «Ha un cuore così generoso, eppure è sempre distante con i suoi migliori amici; ma lavora con i malati di aids; nessuno lo sa». • Che una delle sue amiche svolge attività volontaria a Tél-Aide, un servizio di aiuto telefonico personale. Prima ancora di aver cominciato, ella afferma di ricevere già molto dalla formazione che le si impartisce.

«Voglio restituire un po' di quello che mi è stato dato nella vita - dice -. Ho ricevuto molto». • Che la madre di un'amica «è stata letteralmente salvata dagli Alcolisti anonimi», gruppo basato interamente sul principio del dono: «E' trasformata da quando è negli Alcolisti anonimi». Per certi aspetti, queste illustrazioni della realtà del dono sono quasi troppo belle. Del dono esse mostrano una faccia troppo pura e pacificata. Non che ci sia ragione di mettere in dubbio la sincerità dei gesti. Anche i moderni più caustici ammettono che esistano «brave persone», come dimostra la sfumatura vagamente spregiativa che assume l'aggettivo. Quel che imbarazza negli esempi di cui sopra è la loro eccessiva, disarmante semplicità. In effetti, essi mettono in scena una simmetria troppo perfetta con la negazione del dono che viene spontaneamente in mente ai moderni. «Il dono non esiste, tutto è egoismo», suggerisce lo spirito dell'epoca. «Il dono esiste davvero, e così pure l'altruismo», sembrano dimostrare i casi citati; e molti altri lo potrebbero confermare. Lo spirito moderno può sempre accontentarsi di vedere in questo altruismo un modo come un altro per far piacere a se stessi. Ma quanto meno questo egoismo, la cui soddisfazione passa per l'altruismo, è molto diverso dall'egoismo rozzo e primitivo di cui la modernità postula l'universalità. Così la discussione risulterebbe un circolo vizioso senza fine, il che dimostra a sufficienza che le carte sono truccate. Se la modernità rifiuta di credere all'esistenza del dono, è perché essa se lo rappresenta come l'immagine rovesciata dell'interesse materiale egoista. Ai suoi occhi, il «vero» dono può essere soltanto gratuito; e poiché la gratuità è impossibile, ("There is no such thing as a free lunch", e non si raderà mai gratis) anche il dono, il vero dono sarà impossibile. Di qui, viceversa, l'insistenza con cui coloro che praticano davvero la dedizione protestano che vi trovano il loro vantaggio. Da una parte, come si è detto, ciò permette loro di sacrificare al moralismo egoistico dell'epoca; più profondamente, però, negando la gratuità delle loro motivazioni, essi attestano la realtà del dono. In effetti, come dimostra Mary Douglas (1989), il dono gratuito non esiste; oppure esiste in maniera asintotica rispetto all'asocialità. Poiché il dono serve innanzi tutto a stringere rapporti; e un rapporto senza speranza di restituzione (da parte di colui al quale si dà o di un altro che si sostituisca a lui), un rapporto a senso unico, gratuito in questo senso e immotivato, non sarebbe tale. Al di là o al di qua dei momenti astratti dell'egoismo e dell'altruismo, dell'antitesi bloccata tra un momento supposto reale dell'interesse materiale calcolato e un momento supposto ideale ma inaccessibile del disinteresse radicale,

bisogna pensare il dono non come una serie di atti unilaterali e discontinui, ma come rapporto. Più ancora del capitale secondo Marx, il dono non è una cosa ma un rapporto sociale. Costituisce anzi il rapporto sociale per eccellenza, rapporto tanto più temibile in quanto è desiderabile. L'idea che il dono sarebbe sempre interessato e quella che dovrebbe sempre essere gratuito hanno in comune il fatto di fornire del dono una rappresentazione asettica; e di impedire di comprendere che se esso è a tal punto scongiurato e negato dai moderni, è perché è pericoloso. - PERICOLI E RIFIUTO DEL DONO «Ho rifiutato il regalo che mi faceva il padrone - dice una segretaria -. Non merita che accetti i suoi regali. Ciò presupporrebbe un tipo di rapporti che non voglio». Si sa che i greci sono temibili quando sono portatori di doni: "Timeo Danaos et dona ferentes". Marcel Mauss ha rilevato che, nelle lingue germaniche, la parola "gift" designa al tempo stesso il dono e il veleno. Semplice caso? E' poco probabile, poiché si ritrova lo stesso doppio significato nel greco "dosis", da dove viene il nostro "dose", in particolare dose di prodotto tossico. Come che sia, è chiaro che i regali sono particolarmente sgraditi quando il loro donatore è noioso: «Un amico ha regalato a me e a molti altri un libro che ha pubblicato a sue spese. Nessuno l'ha letto, tutti hanno rifiutato. E' molto offeso, ma il suo libro è illeggibile; bisogna consultare il dizionario dieci volte per pagina: è un vero regalo avvelenato! In fondo, tutti si rendono conto del fatto che il suo libro è piuttosto una richiesta di riconoscimento in tutti i sensi del termine: che si riconosca il suo valore e che si manifesti riconoscenza, stima, penando per leggere il suo libro, per accettare il suo regalo e dimostrare così che lo si ama». In realtà questo dono è indirettamente una richiesta di controdono. Ma questo non è nelle regole del dono e gli amici oppongono resistenza a un regalo così esigente e «obbligante». Per il suo compleanno, Nadine ha regalato delle marmellate fatte in casa a Jérome, dal quale si è separata recentemente. E' irritata per la reazione di lui: «Non ha fatto alcun commento. Ho finito per chiedergli se gli erano piaciute. Mi ha risposto soltanto che avevo toccato la sua corda sensibile. Nemmeno una parola di ringraziamento!» Il donatario esce da un rapporto difficile con la donatrice, un rapporto che lo ha minacciato nella sua integrità. Teme che il dono possa essere un gesto di riconquista, e pertanto è incapace di dire "merci": ciò equivarrebbe a dire «accetto di

nuovo di essere alla tua mercé». Le spiega anche che ella tocca la sua corda sensibile, cioè il legame vincolante. Ci troviamo qui di fronte a una ottima illustrazione della forza espressiva del vocabolario corrente, per quanto anodino esso sembri a prima vista. E' come se espressioni come "merci" e "s'il vous plaît", nella loro evoluzione sociale verso livelli superficiali, formali fossero neutralizzati soltanto in apparenza e conservassero sempre la loro forza espressiva originaria, legata al senso dei rapporti che hanno presieduto alla loro nascita. Si può considerare la parola "merci" come una sorta di ellissi per dire che il fatto di ricevere un regalo può rendere in qualche modo dipendente, può metterci alla mercé del donatore. Il percorso storico della parola fino alla formula di cortesia e alla sua apparente superficialità non le impediscono di conservare la sua forza, che si manifesta quando la parola stessa per così dire, «fa centro». Questo esempio è anche una notevole illustrazione del fatto che il regalo è un bene al servizio del legame sociale; il che certo non toglie nulla alla bontà delle marmellate. Del resto è proprio perché sono deliziose e fatte dalla donatrice stessa, cristallizzando qualcosa della sua persona, dunque perché è di alta qualità che il bene può in tal modo mettersi al servizio del legame. Proprio così in effetti esso contiene necessariamente il legame, lo racchiude e diventa pericoloso per il donatario, del quale «tocca la corda sensibile». Di qui la difficoltà di dire "merci": la parola resta in gola a chi riceve. A una considerazione superficiale gli esempi di cui sopra potrebbero sembrare privi di mistero. Ogni volta il dono è rifiutato o non è riconosciuto come dono, perché accettarlo significherebbe riconoscere l'istituzione di un rapporto personale che per l'appunto non si vuole o non si vuole più. Ma una simile spiegazione non spiega niente poiché considera come ovvio proprio quel che costituisce problema. Considera evidente che il dono è simbolo e, in qualche modo, «performatore» dei rapporti interpersonali, catalizzatore e marcatore delle affinità elettive. Soprattutto, essa considera evidente che il dono obbliga e che non può essere restituito. Ecco qualcosa di molto strano da un punto di vista razionale. Perché non accettare il libro noioso e dire che si vuol bene al suo autore ma che quel tipo di letteratura non piace? Perché non accettare le marmellate e dire che sono buone, ma che quel che è finito è finito? Certo, nei casi presentati, si possono ravvisare delle rappresaglie affettive; ma esaminando i due casi seguenti non si può fare a meno di stupirsi della forza con cui si manifesta l'obbligo di restituire, proprio quando non si può ravvisare sanzione di sorta e il donatario non deve nemmeno temere

l'instaurazione di un rapporto che rischierebbe di essere noioso o privo d'interesse. Di ritorno da Haiti Albert si dice colpito dalla specie di necessità che esiste nel Québec di non dover niente a nessuno, mentre ad Haiti è il contrario. (Il che pone evidentemente problemi di altro ordine). Fa l'esempio seguente: «Mia figlia ha appena ricevuto la pagella. Per premiarla mia moglie e io siamo andati a comprarle qualche ghiottoneria nel negozio sotto casa. Vi abbiamo incontrato uno dei suoi compagni e ne abbiamo regalato anche a lui. Dieci minuti dopo viene da noi con un dollaro che suo padre gli aveva detto di portarmi». E che dire dell'esempio seguente: «Un uomo bussa alla mia porta. La sua auto è in panne davanti a casa mia ed egli vorrebbe telefonare. Mi chiede anche dell'acqua. Nell'andarsene tira fuori 20 dollari e me li porge. Io rifiuto. Allora mi dà la sua carta da visita dicendomi: «Spero proprio di poterla ricambiare un giorno... il più presto possibile». Il punto di vista utilitaristico oggi dominante avrebbe dovuto indurre l'automobilista a pensare: «Tanto di guadagnato». Ora, è proprio come se i debiti, anche derisori, fossero intrinsecamente pericolosi e intollerabili. A meno che non si provi semplicemente un certo piacere nel restituire. Di fronte ai pericoli inerenti a ogni dono, il denaro e il ricorso a una logica mercantile sono gli antidoti per eccellenza, al tempo stesso controdoni e controveleni. Françoise racconta: «Ho avuto tanti problemi con un regalo recentemente. Una persona mi aveva fatto un bellissimo regalo per il mio compleanno. Ricorreva ora il suo e, normalmente, avrei dovuto regalargli qualcosa di equivalente. Ma non ne avevo veramente voglia, non ne ero capace, ero bloccata. Poiché il nostro rapporto non lo meritava, non andava bene. Non riuscivo a decidermi tra il fatto che gli dovevo in un certo senso un regalo equivalente ma che d'altra parte un simile regalo avrebbe significato qualcosa che non esisteva più, o appena. Non potevo fare a meno di tener conto del nostro rapporto nel fare il regalo: le due cose sono legate. Alla fine gli ho regalato qualcosa di un valore abbastanza grande ma neutro, qualcosa che chiunque avrebbe potuto regalargli; non era personale». Questa persona ha trovato la soluzione del problema giocando sul doppio sistema di riferimento: il sistema di mercato, dove le cose valgono soltanto tra loro, e il sistema del dono, dove le cose valgono quel che vale il rapporto, e lo alimentano. Françoise non voleva che il bene alimentasse il rapporto; dunque ha scelto un oggetto avente un valore commerciale equivalente a quello del regalo che aveva ricevuto, ma un oggetto neutro, che chiunque avrebbe potuto regalare. Nella nostra

società questo gioco è frequente. E' possibile per esempio servirsi del rapporto quasi mercantile per interrompere una catena di doni. Così una coppia invitata a cena porta un regalo così importante (due bottiglie di vino eccellente) che ciò è interpretato dagli ospiti come volontà di non restituire l'invito. Risulterà poi che hanno ragione. Stranamente, limitandoci a seguire l'ordine delle reazioni dei nostri interlocutori quando si parla di dono, abbiamo compiuto lo stesso percorso che segue il dono effettivo. All'inizio esistono soltanto individui separati che, in quanto tali, seguono solo il loro proprio interesse. Poi compare il dono, quasi troppo bello, clamoroso, oppure modesto e insidioso; che però crea un senso di obbligo. O l'obbligo di restituire è accolto, e allora si stabilisce un circuito di rapporti interpersonali. Oppure è rifiutato grazie a un controdono monetario immediato, e ci si ritrova al punto di partenza. Con la differenza che lo stato iniziale di separazione degli individui egoisti e calcolatori, che sembrava del tutto naturale e originario, appare ormai come quello che anche è: come il risultato di un rifiuto di rapporti, punto di arrivo come punto di partenza, conseguenza ed effetto tanto quanto causa prima. Disponiamo ormai di un numero sufficiente d'indizi della persistenza del dono, delle sue seduzioni e dei suoi pericoli nella società moderna, per tentare una prima generalizzazione e arrischiare qualche ipotesi. - QUANDO IL DONO COSTITUISCE SISTEMA Ad ascoltare le prime reazioni all'idea di un libro sul dono, si provano sensazioni senza dubbio non troppo lontane da quelle che dovette conoscere Marcel Mauss quando riuniva i materiali, tratti dalla etnografia e dalla storia delle religioni, che presenta nel celebre "Essai sur le don" (1923-24), probabilmente il più grande libro dell'antropologia moderna. In molte civiltà arcaiche, egli scrive all'inizio dell'"Essai", «gli scambi e i contratti vengono effettuati sotto forma di donativi, in teoria volontari, in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente» (1950, p. 147 [trad. it., p. 157]). "La perennità del dono nella società moderna" - Nonostante la prudenza della formulazione iniziale e il divieto che, in mancanza di materiali sufficienti, egli imponeva a se stesso di generalizzare all'insieme delle società arcaiche, quel che Mauss scopriva,

al di là della molteplicità delle testimonianze e degli esempi, non era altro che l'universalità del dono nelle società arcaiche. Universalità che conviene d'altronde intendere in un duplice senso: il dono riguarda tutte le società, e riguarda la totalità di ciascuna di esse. Là dove gli specialisti non riuscivano a far altro che descrivere esempi particolari, Marcel Mauss comincia a scoprire i contorni di una forma generale e a intuirne l'importanza generale. Allo stesso modo, una volta superato il momento delle negazioni iniziali, le reazioni dei nostri interlocutori inducono a pensare che ancor oggi, nonostante tutte le buone ragioni che ci sarebbero di credere alla sua scomparsa definitiva e ineluttabile, il dono è ovunque. Se così stanno le cose, e se si vuole cominciare a descrivere e a pensare questa ubiquità, bisogna superare un secondo riflesso di prudenza scientifica di Marcel Mauss. Nonostante il suo desiderio di far rivivere lo spirito del dono per farne la base sulla quale potrebbe essere edificata una società solidale, a eguale distanza dall'egoismo di un liberalismo desocializzante e dalle violenze di un socialismo burocratico, Mauss sembra aver trovato difficoltà a riconoscere che il dono esiste ancor oggi altrimenti che come una sorta di sopravvivenza, illustrata dagli esempi, tutto sommato marginali, dei regali di compleanno o di Capodanno. Allo stesso modo, per illustrare il concetto di reciprocità, Claude Lévi-Strauss (1967, p.p. 68 seg. [trad. it., p.p. 108 seg.]) descrive la pratica dello scambio di bottiglie di vino nei piccoli ristoranti della Francia meridionale. L'esempio è simpatico ed eloquente, è vero; ma se il dono si manifestasse ormai soltanto sotto questi aspetti minori e marginali non servirebbe a nulla preoccuparsene, tranne che per nostalgia o per gusto degli studi folclorici. Ora, l'idea che ci si è imposta a poco a poco è che il dono è tanto moderno e contemporaneo quanto caratteristico delle società arcaiche; che esso non concerne soltanto momenti isolati e discontinui dell'esistenza sociale ma la sua stessa totalità. Ancor oggi non è possibile avviare o intraprendere alcunché, niente può crescere e funzionare se non nutrito dal dono. A cominciare dall'inizio, cioè dalla vita stessa, almeno ancora per qualche tempo, né acquistata né conquistata, ma propriamente «donata» e donata in genere in seno a una famiglia, legittima o illegittima. E tutto fa credere, checché ne dicano i sociologi dell'interesse e del potere, che le famiglie si dissolverebbero all'istante se, ripudiando le esigenze del dono e del controdono, finissero con il somigliare soltanto a una impresa o a un campo di battaglia. Lo stesso vale per i rapporti di amicizia, di cameratismo o di vicinato che neanch'essi si acquistano né s'impongono con la forza né vengono decretati, ma presuppongono reciprocità e

fiducia. Ed è chiaro, per finire, provvisoriamente, e per non allungare troppo un elenco che rischierebbe di essere interminabile, che le imprese, la pubblica amministrazione o lo Stato tutti vacillerebbero se dei salariati non dessero più di quel che frutta il loro salario, se dei funzionari non dessero prova di un qualche senso del servizio pubblico e se un numero sufficiente di cittadini non fossero pronti a morire per la patria. Che lungi dall'essere morto o moribondo il dono sia ancora ben vivo, ecco quel che ora deve sembrare plausibile. Ma senza dubbio conviene andare oltre la semplice constatazione e avanzare l'ipotesi che questa perennità non è soltanto e negativamente il risultato della necessità universale d'introdurre un supplemento di anima nelle sole logiche saldamente costituite che sarebbero quelle dell'interesse mercantile e del potere statale, ma che essa attesta il fatto che anche il dono, come il mercato e lo Stato, per l'appunto, costituisce un sistema. L'indizio migliore di questa sistematicità è senza dubbio quello fornito da una rapida riflessione sullo statuto e sulla funzione della parola. Per illustrare l'importanza del dono abbiamo fatto esempi di scambi di beni e servizi; ma sono in primo luogo delle parole delle frasi e dei discorsi che il soggetto umano produce e scambia con gli altri. Certo accade, e sempre più spesso, che si parli soltanto per comunicare informazioni o per dare ordini; ma prima d'informare o di mirare a far sì che gli altri si conformino ai nostri scopi, la parola è soprattutto destinata all'altro in quanto altro. Come i beni preziosi arcaici, essa può circolare soltanto se tra l'uno e l'altro, tra gli uni e gli altri, è stato preliminarmente creato e simboleggiato proprio quel rapporto che autorizza la parola - quello che permette di essere in "speaking terms" - e di essa si nutre. E' così che si «dà» la parola a qualcuno o che, se si rifiuta di darla, la si «prende». E poi la si riprende non senza aver detto "pardon", "merci", "gracias", "grazie", "thanks", dal momento che bisogna tanto ringraziare l'altro del dono che vi fa parlandovi quanto significare che parlando ci si mette alla mercé dell'altro, e che proprio così ci si espone tanto a «obbligarlo» quanto a diventare il suo «obbligato», "muito obrigado". Per poter scambiare beni e servizi, bisogna instaurare con l'altro una fiducia minima, che implica in genere che «si dia la propria parola» e che non la si possa «riprendere» senza motivo grave. L'arte della conversazione deve permettere a ciascuno di parlare. Dunque deve concedere a ciascuno il piacere di dare quel che, anche se apparentemente non costa nulla, non per questo è meno prezioso: parole, parole semplici, argute o grossolane, idee ricercate, formule ben tornite che possano restare nella mente degli interlocutori. La regola è che nessuno monopolizzi la parola e che, se la si

conserva per un certo tempo, ciò sia in vista di accrescerne ancora il valore quando essa sarà restituita. Risulta così che la conversazione, presso i moderni, funziona esattamente come il "kula", lo scambio cerimoniale dei trobriandesi, lungamente descritto da Bronislaw Malinowski (1922). Proprio come i "vaygu'a", beni preziosi dei trobriandesi, le parole che circolano non hanno in primo luogo un valore utilitario. Osservare che il tempo è bello o brutto non insegna niente a nessuno. La prima funzione della parola è quella di circolare, di essere data e restituita, di andare e venire. Come sarebbe infamante per un trobriandese - spiega Malinowski - che si dica di lui che ha confuso il registro dello scambio cerimoniale con quello del baratto, così niente sarebbe più sconveniente che ridurre la conversazione a un semplice scambio d'informazioni utilitarie. E persino nell'ambito del campo più utilitario, quello degli affari, si combina di più parlando di altro nelle colazioni di lavoro che non nelle riunioni di esperti ridotte al puro e semplice trattamento dell'informazione. Si pone così una questione, a prima vista strana, quella di sapere se c'è un rapporto tra il dono della vita, l'arte della conversazione, l'amore familiare o patriottico, il gusto del lavoro ben fatto, lo spirito di gruppo, il dono del sangue e le colazioni di lavoro. "Sotto il mercato e lo Stato, il sistema invisibile del dono" - L'esame delle prime reazioni suscitate dalla tematica del dono potrebbe concludersi con una constatazione empirica priva di conseguenze importanti: che esistono ancor oggi periodi consacrati allo scambio di regali, che sussistono occasioni in cui essere caritatevoli, offrire da bere, sentirsi in debito, «essere da meno» o al contrario liberarsi di debiti simbolici vincolanti ricorrendo alla merce e al denaro. Ma queste occasioni possono sembrare sparse, isole lontane su un mare di calcoli utilitari. E' proprio questa ipotesi di una semplice sopravvivenza occasionale e discontinua del dono che le nostre ultime osservazioni non consentono più di sostenere. Bisogna piuttosto concepire il dono come un sistema, e questo sistema non è altro che il sistema sociale in quanto tale. Il dono costituisce il sistema dei rapporti propriamente sociali in quanto questi sono irriducibili ai rapporti d'interesse economico o di potere. Ciò che impedisce di scorgere questa quasi-evidenza, è il modo in cui la tradizione di pensiero dell'utilitarismo, dalla quale dipendiamo tutti, porta a formulare le questioni. Ricordiamo che per essa il dono non esiste perché solo il dono veramente disinteressato sarebbe un vero dono, e il

disinteresse è impossibile. O ancora, il dono autentico presuppone un vero altruismo. Ora, questo è inconcepibile perché l'altruista deve ben avere un interesse egoistico a essere altruista. Queste tautologie dicotomiche, che escludono l'esistenza di un terzo termine, confondono tutto. Di ritorno da Mosca un giornalista della rivista «Time» affermava nel luglio 1989: «Il problema del comunismo è che non funziona. E' una nobile idea, ma l'individuo è egoista. Poiché non siamo dei santi, spesso facciamo il meno possibile». Ecco come, in generale, si giudica il fallimento attuale del comunismo, cioè in base alla sola alternativa tra santità ed egoismo, la cui traduzione in termini sociali concreti è lavorare per la burocrazia o per il mercato. Ma, dopo aver scritto il suo articolo, nel tornare a casa, il giornalista sente in macchina una canzone d'amore che lo commuove molto. Giunto a casa, abbraccia la moglie e i figli ai quali dedica la maggior parte del reddito una volta detratta l'imposta dovuta alla collettività. In altri termini, la vita del giornalista contraddice quel che ha appena scritto. Egli lavora pochissimo per sé ma molto per gli altri: per la moglie e i figli, perché suo padre sia fiero di lui, e anche per lo Stato! Ma continuerà a scrivere sull'Europa orientale vedendo in essa, in piena buona fede, soltanto l'opposizione tra la burocrazia e il mercato. La disintegrazione della vita comunitaria ha comportato questa incapacità di pensare il modo in cui s'incontrano e si fondono concretamente in ogni società l'individuale e il collettivo. Non si vede che è soltanto di fronte a una solidarietà "che non ha voluto", che gli è imposta dall'esterno, che l'individuo diventa necessariamente egoista, ed è confinato esclusivamente nello spazio del mercato. Tra una collettivizzazione forzata dei rapporti umani e il mercato, tra un'autorità esterna ai "suoi" legami «comunitari» e il mercato, certo egli preferirà sempre il mercato. Ma questo non gli basta: ai margini del mercato o della burocrazia centralizzata, egli continua peraltro a vivere, soffrire e amare, a lavorare per gli amici e per i figli. Continua a vivere la società, la comunità e le reti sociali che sono un misto di egoismo e di altruismo. Le scienze sociali ci hanno abituati a interpretare la storia e il gioco sociale come i prodotti delle strategie di attori razionali che cercano di massimizzare la soddisfazione dei loro interessi materiali. Questa è la visione «utilitaristica» e ottimistica dominante, appena controbilanciata dalla visione più nera, complementare, d'ispirazione insieme machiavellica e nietzcheana che riduce tutto alla ricerca del potere. La combinazione di queste due tradizioni di pensiero porta a considerare che esistano due grandi sistemi di azione sociale, e due soltanto: il sistema del mercato in cui si affrontano e si armonizzano gli interessi individuali, e il

sistema politico, strutturato dal monopolio del potere legittimo (Max Weber) (2). Ora è evidente che nessuno vive in primo luogo e soprattutto del mercato e dello Stato, nel mercato o nello Stato. Mercato e Stato rappresentano i luoghi di quel che si può chiamare una "socialità secondaria", quella che lega statuti e ruoli più o meno definiti istituzionalmente. Dire che la socialità mercantile e politica è secondaria non implica affatto che la si possa considerare inessenziale o sovrastrutturale. Significa soltanto ricordare che prima ancora di potere assolvere funzioni economiche, politiche o amministrative, i soggetti umani devono essere stati costituiti in persone, cioè non come somme più o meno eterogenee di ruoli o di funzioni particolari, ma come unità autonome dotate di un minimo di coerenza loro propria. E questa costituzione degli individui biologici in persone sociali non avviene in primo luogo nella sfera più o meno astratta del mercato e dello Stato, anche se questa vi contribuisce a suo modo, ma nel registro della "socialità primaria": quello in cui nella famiglia, nei rapporti di vicinato, di cameratismo, di amicizia si stringono, per l'appunto, rapporti interpersonali. Due economisti eterodossi, François Perroux (1963) e SergeChristophe Kolm (1984) hanno saputo ben distinguere tre sistemi economici complementari: quello del mercato, retto dall'interesse; quello della pianificazione, retto dalla costrizione, e quello del dono. Il limite di questa distinzione, dalla quale nemmeno Marcel Mauss si è liberato abbastanza, dipende dal fatto che si considera ancora il dono un sistema "economico". Non si stabilisce con sufficiente chiarezza che il sistema del dono non è in primo luogo un sistema economico, ma il sistema sociale dei rapporti interpersonali. Non è il complemento del mercato o del piano, ma quello dell'economia e dello Stato. Ed è ancor più fondamentale, più primario rispetto a entrambi, come dimostra il caso dei paesi disorganizzati. Là a Est o nel Terzo mondo, dove il mercato e lo Stato non riescono o non riescono più a organizzarsi, sussiste ancora, ultima difesa, la rete dei rapporti interpersonali cementata dal dono e dall'aiuto reciproco che, soli, permettono di sopravvivere in un mondo impazzito. Il dono? Quel che resta quando si ha tutto dimenticato e prima che si abbia tutto appreso? "Su alcune ragioni dell'occultamento del dono" - Se queste affermazioni non sono troppo lontane dalla verità e se, anche nelle società moderne, apparentemente individualistiche e

materialistiche, il dono forma sistema e costituisce la trama dei rapporti sociali interpersonali, si pone il problema di sapere perché un fatto così massiccio e importante non sia più visibile e meglio riconosciuto. Perché i sociologi e gli economisti ragionano soltanto in termini d'interesse e di potere, o di cultura, o di tradizioni ereditarie, ma mai in termini di dono? Perché anche gli uomini e le donne non edotti nelle scienze sociali pensano se stessi come individui separati e di rado come donatori o donatari? E' possibile individuare tre ragioni principali di questo occultamento della realtà del dono. La prima è già stata segnalata nelle pagine che precedono, ma è così importante che è necessario tornarci sopra rapidamente. Proprio questa ragione infatti fa sembrare incomprensibile il progetto stesso di una riflessione sul dono oggi. «Ti imbarchi in qualcosa d'impossibile, di troppo grosso, di troppo difficile. E' troppo delicato - dicono alcuni interlocutori -. Bisogna lasciare ciò ai poeti, agli artisti, ai cantanti, a tutti coloro che parlano sempre d'amore, scrivono e descrivono sentimenti che sono i motori del dono». E se si risponde loro che il dono non è l'amore ma una forma di scambio, esclamano: «Ma allora tu neghi la generosità, la gratuità. Se è uno scambio, non è più un dono. Un dono dev'essere unilaterale, senza aspettativa di restituzione». Abbiamo già osservato che questa immagine del dono, che oggi viene spontanea a tutti, rappresenta l'esatto corrispondente e il complemento dell'immaginario utilitaristico dominante e legittimo. Al dono è assegnato il compito impossibile d'incarnare la speranza assente da un mondo senza speranza, l'anima introvabile di un mondo senz'anima. Un mondo di cui, dalla Riforma, la grazia è stata espulsa per essere respinta nell'esteriorità radicale della trascendenza. Solo Dio può dare veramente la sua grazia gratuitamente, essere pieno di grazia e generoso. Dunque il dono non può essere di questo mondo: e qui la concezione utilitaristica del dono si confonde con la sua interpretazione religiosa, almeno quella che prevale dalla Riforma e dalla Controriforma. Certo, gli uomini devono sforzarsi d'imitare il Cristo, ma è chiaro che non possono pretendere di eguagliarlo. Bisognerà giungere a una concezione più realistica del dono, che sfugge tanto alla sua imputazione a una trascendenza ineffabile e fuori dal mondo quanto alla sua riduzione agli interessi profani, troppo profani, pensandolo come sistema di scambio sociale piuttosto che come una serie di atti unilaterali e discontinui. A tal fine, bisognerà rompere tanto con le spiegazioni della pratica umana proposte dall'utilitarismo - "alias" l'individualismo metodologico o la teoria delle scelte razionali - quanto con le diverse varianti del

nietzscheismo; con quelle che presentano il soggetto umano come un egoista naturale, e con quelle che vogliono vedere in lui, almeno nella sua variante occidentale moderna, un assetato di potere. Non che queste teorie manchino assolutamente di pertinenza, se non altro del resto perché sono in gran parte tautologiche. In effetti non si vede come gli individui potrebbero agire deliberatamente contro i loro interessi o senza «buone ragioni»; ma teorie del genere, per il semplice fatto di concentrare sistematicamente l'azione sull'individuo isolato, su «ego» (a meno che al contrario non la imputino agli «apparati di potere» di cui è costituita la socialità secondaria), necessariamente si lasciano sfuggire il dono, poiché questo è per definizione un rapporto. Anzi, si sarebbe tentati di dire, un rapporto sociale sintetico a priori, che è vano voler ridurre agli elementi ch'esso collega. Si avverte tuttavia il pericolo di quest'ultima formulazione, che potrebbe farci accusare di tendenze olistiche discutibili, nonché di oblio della libertà e dell'autonomia degli individui. Il discorso non è affatto questo, come sarà chiarito dalla terza ragione dell'oblio del dono da parte della modernità. Basteranno poche parole. Le società arcaiche e tradizionali hanno pensato se stesse nel linguaggio del dono. E' attraverso le parole di quest'ultimo che hanno dato un nome al loro essere-al-mondo, ai loro particolarismi, fatti di vari modi di predominio della socialità primaria, al loro rifiuto di cadere nella storicità radicale. E' dunque nello spazio immaginario e a volte propriamente ideologico del dono che esse hanno vissuto e pensato tanto la comunità degli umani e la loro eguaglianza, quanto l'autorità, la legge, la gerarchia, lo sfruttamento, il dominio e il potere. Poiché la modernità si definisce in primo luogo per il suo rifiuto assoluto della tradizione, è naturale che essa abbia creduto di potersene affrancare sbarazzandosi del linguaggio che sembrava coestensivo alla tradizione, il linguaggio del dono, e che non abbia avuto parole abbastanza dure né sarcasmi abbastanza pungenti per screditare e circoscrivere le esigenze della generosità o della nobiltà, nonché quelle dell'amore cristiano. Si può discutere a lungo delle cause storiche dello sviluppo dell'economia di mercato e degli Stati nazionali burocratici moderni; ma non c'è dubbio che esse hanno molto, se non tutto, a che fare con l'orrore crescente dei moderni per le comunità chiuse, saldate dai doni obbligatori che rafforzavano le gerarchie tradizionali. In questo senso, il mercato e lo Stato di diritto moderno, burocratico, sono innanzi tutto, in quanto macchine per distruggere le tradizioni e i particolarismi, dei dispositivi antidono. Se questa distruzione sia stata una buona cosa o no, al limite

non vale più la pena di discuterne: essa è stata indissociabile dal movimento, descritto da Tocqueville, dell'egualizzazione delle condizioni, dal quale sono nate le democrazie moderne; e questo movimento è irreversibile, salvo cadere nell'orrore. In quanto moderni, neanche noi abbiamo il minimo dubbio circa le virtù liberatrici del mercato e dello Stato; quanto meno li giudicheremo sempre preferibili a un ordine comunitario non scelto o a obblighi di dono imposti. Dunque nelle pagine che seguono non si sospetti alcuna nostalgia del passato, né alcuna apologia discreta di un presunto mondo idilliaco, in ogni caso scomparso. I tentativi d'istituire di nuovo le società moderne nell'ordine di una socialità primaria fantasticata si chiamano totalitarismo. Viceversa, però, è il caso di osservare che nessuna società può funzionare sul solo registro della socialità secondaria né dissolvere il sistema del dono in quelli del mercato e dello Stato, a meno di cadere in quel dispotismo che Tocqueville temeva di veder spuntare all'orizzonte della democrazia. L'errore della modernità non è certo quello di mirare all'autonomia degli individui e all'universalismo; potrebbe essere quello di credere che il sistema del dono sia intrinsecamente legato alle società tradizionali e arcaiche, e che dunque ce lo si potrebbe risparmiare, mentre il dono non è altro che il sistema dei rapporti sociali tra le persone. Cosicché, a volerlo sradicare, si rischia di produrre una società radicalmente desocializzata e delle democrazie nel migliore dei casi vuote di senso. Ma qui tocchiamo le implicazioni etiche, filosofiche e politiche di una riflessione sul dono nelle società moderne di cui importa ora fissare e riunire le ipotesi e i presupposti principali prima di proseguire il cammino. - I BENI AL SERVIZIO DEI LEGAMI In un certo senso il presente libro non è altro che un tentativo di prendere sul serio l'"Essai sur le don" di Marcel Mauss. Sarebbe interessante chiedersi perché un libro di tale importanza non ha avuto una vera posterità, nonostante i molteplici omaggi che gli sono stati resi. Innumerevoli sono infatti al suo seguito le monografie o analisi etnologiche consacrate allo studio del dono presso questa o quella popolazione. In tali studi, per la maggior parte anglosassoni, si fa appena il nome di Mauss; ed è naturale, perché egli non fornisce uno schema particolare di analisi empirica. Il suo apporto consiste nella luce che getta su un materiale molto disparato e nei problemi che pone. Questi sono

ripresi soltanto da coloro che mirano a una teoria antropologica generale: Georges Bataille, Claude Lévi-Strauss, Karl Polanyi, Marshall Sahlins, per esempio. Senza dubbio non sarebbe troppo difficile dimostrare che ciascuno di questi autori a suo modo si è rivelato largamente infedele alle lezioni dell'"Essai sur le don". Ma tale osservazione lascia aperta la questione di sapere quel che ha reso possibile l'infedeltà. Buona parte della risposta dipende senza dubbio dalle esitazioni e incertezze dello stesso Marcel Mauss, per cui è rimasto troppo timido su due punti essenziali che avrebbe dovuto affrontare direttamente per conferire all'"Essai" tutta la sua portata. In particolare per permettergli di assolvere il compito che di fatto gli assegnava Mauss: quello di abbozzare un'alternativa scientifica e filosofica all'utilitarismo, e di trovare una soluzione pratica e non solo speculativa ai problemi agitati dalla filosofia morale e politica da 2500 anni, toccando la «sostanza», quella della «morale eterna (...) comune alle società più evolute, a quelle del prossimo futuro e alle società meno elevate che sia dato immaginare» (1950, p.p. 263 seg. [trad. it., p. 275]). Per tentare di avanzare nella realizzazione di un tale progetto bisogna per cominciare superare la prima timidezza di Marcel Mauss e, come abbiamo suggerito, formulare l'ipotesi che il dono non riguardi soltanto le società arcaiche ma altrettanto, benché sotto una forma trasposta che resta da analizzare, la società contemporanea. Oppure, per dire le cose altrimenti, che il dono debba interessare il sociologo quanto, se non più, i soli etnologi o specialisti di storia antica. Se effettivamente la logica del dono è duratura allora essa non deve illuminare solo il passato ma anche il presente e il futuro. La seconda timidezza di Mauss da superare riguarda la teoria del soggetto e dell'azione umana. Anche qui Mauss ha formulato l'essenziale, per esempio, osservando che la nozione che ispira tutti gli atti economici dei trobriandesi «non è né quella della prestazione puramente libera e puramente gratuita, né quella della produzione e dello scambio puramente interessati all'utile, ma una specie di ibrido» (p. 267 [trad. it., p. 279]) o che «interesse e disinteresse spiegano ugualmente questa forma della circolazione» (p. 269 [trad. it., p. 280]). Bisogna però trarre tutte le implicazioni di una simile formulazione. Se il dono è visto come un ciclo e non come un atto isolato. come un ciclo che si scompone in tre momenti (dare, ricevere e ricambiare) allora risulta evidente qual è la pecca dell'utilitarismo dominante: esso isola astrattamente il momento del ricevere e concepisce gli individui come mossi soltanto dall'attesa di questo momento, rendendo così incomprensibili tanto il dono quanto la

sua restituzione, il momento della creazione e dell'iniziativa come quello dell'obbligo e del debito. L'idea centrale che ispira il presente libro deve ormai risultare abbastanza semplice. Essa si riassume nell'ipotesi secondo la quale il desiderio ("drive") di dare è altrettanto importante per comprendere la specie umana quanto quello di ricevere. Che dare, trasmettere, restituire, che la compassione e la generosità sono altrettanto essenziali quanto prendere, appropriarsi o conservare, quanto il desiderio o l'egoismo; o ancora, che «l'attrattiva del dono» è altrettanto o più forte dell'attrattiva del guadagno, e che dunque è altrettanto essenziale delucidarne le regole quanto conoscere le leggi del mercato o della burocrazia per comprendere la società moderna. La società sarà qui considerata come composta d'insiemi d'individui che tentano in continuazione di sedursi e di addomesticarsi a vicenda rompendo e ristabilendo dei legami. Addomesticare «è creare dei legami», dice la volpe al Piccolo principe. E' rendere qualcuno unico. Niente di più banale, certo; ma sta diventando sempre più raro. Infatti il tempo manca, e creare legami richiede tempo. Per questo gli uomini acquistano cose belle e fatte al mercato, e affidano la loro ricerca di una «soluzione unica» alla solidarietà del grande numero, allo Stato-provvidenza... o agli psicoanalisti. Questo libro è un saggio che si chiede se sia possibile a un adulto prendere sul serio "Le Petit Prince" e al sociologo dare effettivamente la priorità ai legami sociali nei suoi schemi esplicativi. Noi tenteremo di comprendere perché questa società che afferma più di qualsiasi altra che ogni persona è unica tende sistematicamente a sopprimere i legami sociali primari nei quali le persone affermano e creano la loro unicità, a profitto dei legami astratti e secondari che, almeno in teoria, rendono gli individui intercambiabili e anonimi, salvo poi produrre industrialmente e burocraticamente una personalizzazione fittizia. Ma tenteremo anche, anzi soprattutto, di mostrare come le persone reagiscono a questo tentativo mantenendo e facendo vivere reti rette dal dono che si inseriscono ovunque negli interstizi dei sistemi «ufficiali» secondari e formalmente razionalizzati del mercato e dello Stato. E questo perché solo il dono può superare praticamente - e non soltanto nell'immaginario e nell'ideologia - l'opposizione tra l'individuo e il collettivo, ponendo le persone come membri di un insieme concreto più vasto. La sola ipotesi che ci si deve concedere a questo punto è che esista nella società moderna, come nella società arcaica o tradizionale un modo di circolazione dei beni intrinsecamente diverso da quello analizzato dagli economisti. «Ho ritrovato a casa di amici il regalo che avevo fatto a

François per il suo compleanno quando stavamo insieme. Anzi glielo ha venduto. E' disgustoso!» dice una delle intervistate. Per capire questo disgusto basta pensare che, nel dono, il bene circola al servizio del legame. Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone. Ci proponiamo di vedere in che modo il dono, così caratterizzato come modo di circolazione dei beni al servizio del legame sociale, costituisce un elemento essenziale per ogni società. Nella parte prima il lettore è invitato a familiarizzarsi con le forme molteplici che assume il dono nelle diverse sfere della società liberale moderna. Viene poi una presentazione del dono nelle società arcaiche, presentazione che porta a una riflessione sullo strano obbligo di essere spontaneo, seguita da una riflessione sulle conseguenze dell'organizzazione del mercato nella società occidentale. La parte terza è dedicata a una riflessione generale, in particolare a partire dalla nozione di gratuità. Vi è trattato anche il paradosso della libertà e dell'obbligo, e ci si chiede come sia possibile elaborare una teoria di un fenomeno che per definizione sfugge a ogni formalizzazione. A proposito del dono bisogna accontentarsi della metafora, come l'allegoria delle tre Grazie che, dall'Antichità (3), ha costituito per l'Occidente una figura emblematica dei tre momenti del dono: dare, ricevere, ricambiare?

PARTE PRIMA I LUOGHI DEL DONO

CAPITOLO 1 TRE FORME DEL LEGAME SOCIALE In questa parte vorremmo passare in rassegna e discutere le principali acquisizioni delle ricerche e riflessioni sul dono nelle nostre società, riprendendo così, molto modestamente, l'impresa di Marcel Mauss al punto in cui egli si è fermato: alle soglie della modernità. A tal fine adotteremo la distinzione comoda e corrente tra la sfera del "mercato", la sfera dello "Stato" e la sfera "domestica" (1), o privata, luogo dei rapporti interpersonali, dell'amicizia, della famiglia eccetera. Ai nostri fini la celebre distinzione concettuale di Hirschman (1970) tra "exit, voice and loyalty" è pienamente adatta a caratterizzare queste tre sfere. Mentre il principio che definisce la sfera mercantile è la possibilità e la facilità di uscire dal rapporto sociale ("exit", defezione) di cui un agente non è soddisfatto, la sfera politica è retta piuttosto dalla discussione e dal dibattito ("voice"). Ed è la «lealtà» che costituisce il principio basilare della sfera domestica. Quest'ultima sfera è generalmente considerata come il luogo naturale del dono nella società moderna. Le dedicheremo un capitolo. Dopo essere penetrati in questo luogo dove il dono è di casa, ci chiederemo che ne è del dono nelle altre sfere, la cui importanza caratterizza la società moderna. Infatti, anche se questi settori funzionano sulla base di princìpi diversi dal dono, anche quest'ultimo vi è presente a vario titolo, al punto che certi autori hanno creduto di vedere nella coesistenza del dono con lo Stato e con il mercato la forma specifica del dono nelle società moderne. Esamineremo successivamente questi diversi luoghi nei quali è possibile riconoscere il dono. In che modo affrontare questo esame? Abbiamo l'imbarazzo della scelta: regali, servizi resi, volontariato, inviti di ogni sorta, dono di un rene, del sangue, eredità, ospitalità, dono della vita, rapporti con i figli... Queste forme di scambio sociale oggi non sono residuali né quantitativamente (vista la loro frequenza nella vita

quotidiana) né qualitativamente (data l'importanza del loro significato, illustrata dal dono di organi). Ci si apre davanti un vasto campo di ricerca empirica già esplorato da altri autori, ma di solito in un quadro diverso, nella maggior parte dei casi mercantile. Gli ingressi possibili sono molteplici, e si distinguono in base alla importanza relativa attribuita sia alla cosa che circola sia alle caratteristiche del legame. In proposito, la distinzione tra i rapporti sociali primari e secondari, introdotta dai sociologi della scuola di Chicago, resta pertinente. Essa si situa anzi al cuore del fenomeno del dono poiché la differenza essenziale tra i due tipi di rapporto consiste nel fatto che il legame primario è voluto per se stesso, mentre al contrario il rapporto secondario è considerato come un mezzo per conseguire un fine. Un sociologo come Wirth (2) riteneva che il fenomeno dell'urbanizzazione consistesse essenzialmente in questo passaggio dai legami primari ai legami secondari. Le interpretazioni, classificazioni e tipologie del dono sono numerose, soprattutto a proposito delle società arcaiche (3). Discuteremo in seguito tali tipologie: qui limitiamoci a osservare che per la maggior parte degli autori esse consistono nell'esaminare ciò che circola chiedendosi essenzialmente, ovvero esclusivamente, quale sia l'importanza quantitativa del fenomeno secondo criteri mercantili. Per questo ci si accontenta spesso di calcolare l'equivalenza monetaria di quel che è scambiato, ed è soltanto in base a questo metro monetario che si valuta l'importanza di ciò che circola, identificando «vincitori» e «perdenti» (Roberge, 1985). In tal modo si trascura quanto meno la valutazione della qualità; ma, più profondamente, si lasciano nell'ombra la natura e le caratteristiche dei legami attraverso i quali circolano le cose e i servizi, mentre sono queste caratteristiche che danno senso a ciò che circola. Dal nostro punto di vista, al contrario, è essenziale non isolare mai ciò che circola, non accontentarsi mai di osservarlo in sé, indipendentemente dal legame. Procedere altrimenti equivale in pratica a negare il fenomeno del dono e ad applicargli il modello mercantile. Esempio: quando una nonna custodisce i nipotini, basta attribuirle il salario di una sorvegliante per comparare le due condizioni? Il valore di legame di una nonna, incomparabile con quello di una sorvegliante estranea, non è incorporato nel prezzo, è gratuito! Più in generale, uno stesso oggetto o servizio non ha assolutamente lo stesso senso a seconda che sia dato o reso al proprio figlio o a un estraneo. Nessuno si sognerà di trovare anormale o anche strana la mancanza di restituzione da parte del figlio; meno ancora si penserà a fare il calcolo di quel che gli si dà. L'atteggiamento opposto

sarebbe considerato anormale, ovvero «snaturato». Ma una volontaria che renda un servizio al figlio di qualcun altro sarà considerata in modo del tutto diverso. E' dunque essenziale fondare ogni eventuale tipologia del dono sulle caratteristiche dei legami, senza pertanto trascurare ciò che viene scambiato. Sono possibili vari approcci: ma tutti devono tenere insieme le caratteristiche del legame e il loro rapporto con ciò che circola; devono inscrivere ciò che viene osservato nel ciclo «dare, ricevere, ricambiare», essendo inteso che dare e ricambiare sono spesso una sola e unica cosa e che la parola «ricambiare» esprime già una caratteristica del rapporto tra le cose che circolano. Si ha sempre l'impressione al tempo stesso di dare e di ricambiare, salvo nel momento dell'apertura di un ciclo o della sua fine. Quasi sempre, il dono è inserito in una sequenza di dono. Raramente la varietà delle forme di dono nella società occidentale è stata presentata in questo modo. Nello stesso tempo si deve riconoscere l'importanza degli altri due sistemi di scambio esistenti in questa società, lo Stato e il mercato, e analizzare il ruolo del dono. Bisognerà anche mostrare come la presenza del mercato e dello Stato modifichi il dono stesso, in particolare per influsso della liberalizzazione dei rapporti sociali introdotta dal mercato. Lo studio della sfera domestica sarà oggetto del capitolo che segue. I legami di parentela ne costituiscono l'illustrazione più corrente e più importante. In questa sfera i partners non sono scelti. La possibilità di rompere con loro, che pure esiste, è molto più difficile e drammatica che altrove, e a volte nulla. L'obbligo vi è più presente. E' la forma che più si avvicina al dono tradizionale analizzato dagli etnologi. Negli altri capitoli della parte prima sarà presentato il volto più moderno del dono, cioè il modo in cui il dono si manifesta al di fuori della sfera domestica, all'interno stesso dei sistemi mercantile o statale. Ciò ci porterà a riconoscere l'esistenza di una sfera specifica del dono moderno, il dono agli estranei, al quale sarà dedicato un capitolo.

CAPITOLO 2 IL LEGAME INTERPERSONALE E' nell'universo dei rapporti personali che l'uomo moderno si permette di «dare senza contare» e che regnerebbe quella che è stata chiamata l'economia del dono (Cheal, 1988). Ma per l'appunto, si tratta di una economia? Che cos'è che circola oggi in questa sfera dei rapporti privati? Affetto, amore, sicurezza, certamente. Ma soltanto questo? E' la tesi che ha a lungo prevalso in sociologia. Il mercato e soprattutto lo Stato hanno liberato l'individuo moderno di gran parte dei suoi obblighi «privati». Con il suo lavoro, posto al di fuori dei rapporti privati, l'individuo assolve i suoi obblighi nei confronti della società in cambio di un salario. Una parte di questo reddito è ceduta allo Stato perché quest'ultimo si occupi, sempre tramite persone che lo fanno in cambio di un salario, dei bisogni di cui non si incarica il mercato. Sicché a poco a poco la sfera privata si sbarazza di tutti i compiti concreti di produzione di beni o di servizi alle persone per diventare il regno esclusivo delle manifestazioni libere dell'affettività positiva o negativa. Questa visione classica non è più sostenibile. Consideriamo qualche fatto. I due terzi della popolazione canadese affermano di aver fatto del «volontariato non organizzato» (visita a un amico all'ospedale eccetera) nel corso dell'anno precedente. Per quel che concerne le persone anziane, «tutti gli studi americani, canadesi o quebecchesi confermano che tra il 70 e l'80 per cento delle cure e dei servizi personali è assicurato dalla famiglia», afferma un rapporto governativo (1). In Francia, le donazioni tra viventi sono raddoppiate dal 1945 secondo Anne Gotman (1985); un terzo dei bambini di età inferiore a un anno sono custoditi dalla nonna (Cuturello, 1988, p. 152) (2). E' solo la punta dell'iceberg di quella rete complicata di obblighi che ci assegniamo verso i nostri amici, i nostri vicini, i nostri parenti e il cui cuore si situa sempre, probabilmente ancora per molto tempo, nelle reti

familiari e di parentela. Questi obblighi sono tuttavia sempre più volontari, sempre meno obbligatori, poiché la società moderna permette a chiunque lo scelga di vivere da solo, senza figli, senza rapporti familiari, senza amici, «nutrito» esclusivamente o quasi dal mercato e dallo Stato, dalle retribuzioni che gli valgono i suoi contributi come lavoratore. Pochi lo fanno, certo, almeno volontariamente, ma importa insistere su questa possibilità che costituisce l'orizzonte del rapporto sociale moderno (che non è altro che quello dell'"homo oeconomicus": Robinson e Venerdì che si accontentano di fare affari da soli nella loro isola), per mostrare che, anche se questi doni sono obbligati rispetto ai doni più liberi esaminati finora, sempre meno si può parlare di costrizione a loro proposito. Spesso gli obblighi che abbiamo verso i nostri figli li abbiamo dapprima voluti, come abbiamo voluto i nostri figli. E anche se in questi rapporti resta un certo numero di costrizioni di tipo contrattuale, queste ne costituiscono un aspetto sempre più secondario, sicché si può affermare che questi rapporti tendono a formare dei sistemi di dono moderni, nel senso di dono liberamente consentito. Esamineremo brevemente, in questa prospettiva, come funziona il dono all'interno della sfera domestica: prima tra amici, poi nella famiglia in generale, poi più specificamente nel rapporto con il figlio e nel fenomeno di trasmissione dell'eredità. Ciò permetterà anche di sottolineare il ruolo particolare della donna nel rapporto di dono. - GLI AMICI Si scelgono gli amici, non i parenti. Le reti di amicizia sono dunque più libere da questo punto di vista. Contrariamente a quanto accade nella famiglia, l'"exit" è possibile, spesso anzi facile. E' vero che si può anche cessare ogni rapporto con un membro della famiglia; ma non gli si può dire: «Non sei più mio fratello». Invece si può dire a qualcuno: «Non sei più mio amico». Del resto, i bambini vivono molto precocemente questa esperienza di libertà nei confronti dei legami di amicizia. Quel che circola tra amici rientra evidentemente nel sistema del dono. Lo si può illustrare brevemente servendosi della ricerca effettuata da Florence Weber (1989, capitolo 2) in un villaggio operaio francese. La Weber oppone il sistema di cooperazione informale che esiste in tale villaggio alle regole del lavoro ufficiale. Questo sistema ha le principali caratteristiche seguenti:

• C'è reciprocità, ma differita nel tempo: «L'obbligo di dare in cambio vi è mascherato ("sic") da un'affermazione di gratuità» (p. 74) - L'autrice afferma più volte l'importanza della spontaneità e la necessità di lasciare che la generosità si manifesti. In questo modo ella spiega la constatazione che la gente del villaggio evita il più possibile ogni circolazione monetaria. «Una delle ragioni di questa convenzione consiste nella finzione di gratuità necessaria alla reciprocità differita» (p. 83). In altri termini, in questo sistema, il denaro è un rivelatore brutale di una equivalenza mercantile che il dono mal sopporta. • Il dono, anche una volta restituito, non finisce lì. Fa parte di una catena ininterrotta. E' soltanto una «sequenza arbitrariamente ritagliata da me (...) nella massa di servizi resi (...) che intessono buoni rapporti (...)» (p. 76). In altri termini, ciò che circola è al servizio del legame, come noterà del resto più volte la Weber. • La sequenza non è chiusa, contrariamente a quanto avviene nello scambio mercantile, il quale non dà luogo a ciò che l'autrice chiama felicemente «una spirale di generosità». In altri termini, l'equivalenza mercantile tende a essere sostituita da una certa propensione a restituire di più di quel che si è ricevuto. • La sequenza non impegna soltanto i due individui immediatamente interessati, ma le rispettive famiglie. Gli individui sono in una rete di legami dai quali non si isolano, a differenza di quel che si osserva in una transazione mercantile. • Infine, l'autrice nota il piacere del dono. Nell'universo degli amici, dei vicini, degli incontri di bistrot eccetera grande importanza è attribuita alla reciprocità connessa con le cose che circolano. Ciò non impedisce che quel che circola sia preso nel legame. Le cose sono spesso al servizio del legame, anche in casi di reciprocità simili all'equivalenza mercantile. Così, a proposito del fenomeno corrente delle "tournées" nei bistrots, Florence Weber afferma che «questa spirale è al limite dell'assurdo: alla fine ciascuno ha pagato, in teoria, quel che ha consumato, poiché ci sono tante "tournées" quante sono le persone presenti». Ma aggiunge immediatamente: «Il fatto è che il rapporto instaurato è più importante di ciò che ne è stata l'occasione» (p. 81). L'equivalenza mercantile in questo caso è estranea a quel che circola. L'autrice ritrova il complesso delle caratteristiche abituali dei sistemi di dono del fenomeno osservato, anche se quest'ultimo è più centrato sulla reciprocità che non altre reti sociali, come la famiglia, che ora esamineremo.

- LA FAMIGLIA Nel senso comune, il dono non si applica alla famiglia, ai rapporti abituali tra genitori e figli, tranne che per i regali, questo supplemento, questo eccedente, questa eccezione rispetto agli scambi quotidiani. Spesso l'individuo moderno utilizza spontaneamente il termine dono solo per i rapporti tra estranei, quali esistevano per esempio nell'elemosina, nell'aiuto al Terzo mondo, nel volontariato. Per la maggioranza il dono designa spesso questo stato intermedio tra il mercato e la comunità: esiste in seno ai rapporti non mercantili, certo, ma che non sono intimi come nella famiglia. Questa posizione è condivisa da molti studiosi che ritengono che il dono presupponga in primo luogo la costituzione di agenti autonomi e indipendenti (Cheal, 1988). In questa prospettiva, il legame tra i membri di una famiglia è considerato come talmente stretto e intenso che quel che circola tra loro rientra piuttosto nella spartizione che nel dono, risulta come immerso nella corrente creata dal legame affettivo e non riesce a manifestarsi in modo autonomo; non abbastanza in ogni caso perché si possa fare la distinzione tra il legame e quel che circola. La spartizione costituirebbe dunque un altro modo di circolazione, accanto allo Stato, al mercato e al dono propriamente detto. Così Jean-Luc Boilleau (1991) esclude dal dono la spartizione e, all'altro estremo, il dono caritatevole, che assimila all'abbandono. Viceversa, Alvin Gouldner (1960) conclude il suo celebre testo sulla reciprocità evocando la famiglia, campo in cui, egli dice, si passa dalla reciprocità al dono propriamente detto. Certo, queste distinzioni tra dono, abbandono, spartizione, sono molto importanti; ma distinguono davvero tipi di dono o forme di circolazione diverse dal dono? Per rispondere a tale domanda ci sembra necessario conoscere meglio come funzionano questi modi di circolazione delle cose. Per prima cosa è indispensabile fare l'inventario di tutto quel che circola al di fuori del mercato e nello Stato, e analizzarne le caratteristiche comuni e le differenze prima di pronunciarsi sulla questione di sapere se, all'interno di questo universo, il modo di circolazione è abbastanza diverso per restringere il concetto di dono soltanto a certi scambi, o se tutto ciò non costituisce altro che modalità diverse del dono.

In questo senso, noi riteniamo che la famiglia sia il luogo fondamentale del dono in ogni società, il luogo in cui è vissuto con maggiore intensità, quello in cui se ne fa l'apprendistato. Il figlio, di fronte alla sua porzione di torta, dice alla madre: «La prendo, è la mia porzione, ne ho il diritto, mi spetta». La madre risponde: «Hai ragione, ne hai il diritto. Ti chiedo soltanto di dividere la tua porzione con il tuo amico che è appena arrivato. Lo farai se vuoi, perché hai il diritto di tenerla tutta per te». In questo esempio si vede emergere la differenza tra l'apprendistato dei diritti e l'apprendistato del dono, questo «surplus necessario» al di là del diritto e nello stesso tempo condizione dei diritti. Del resto, è l'apprendistato più importante per «riuscire» nella vita: apprendere a dare senza rimetterci. Si può anzi pensare che ciò sia più importante del successo scolastico e di tutte le altre realizzazioni solo strumentali eppure oggetto dell'attenzione quasi esclusiva degli utilitaristi... e di molti genitori che non capiscono come mai il loro figlio sia «così scontento dopo tutto quel che ha avuto»! Del resto la famiglia stessa è fondata su un dono, sulla creazione di un legame di dono: l'unione di due estranei per formare il nucleo di quello che sarà il luogo meno estraneo, il luogo della definizione stessa di ciò che non è estraneo: la famiglia. «Non è esagerato dire che [la legge dell'esogamia] costituisce l'archetipo di tutte le altre manifestazioni a base di reciprocità» (Lévi-Strauss, 1967, p. 551 [trad. it., p. 616]). Questo incontro tra due estranei che produce il nucleo della famiglia è il «focolare» insormontabile del rapporto di dono, il punto in cui esplode ogni tipologia, l'impensato del legame sociale, il punto cieco, il luogo della trasmutazione, il luogo di «nascita», di comparsa del legame sociale, e non solo biologico, come nel legame tra genitore e figlio. La trasmutazione di un estraneo in familiare è il fenomeno basilare del dono, che rende possibile in seguito la reciprocità e il mercato, ma permette in primo luogo alla società di perpetuarsi come società (e non solo come famiglia), di rinnovarsi rinnovando l'alleanza a ogni «generazione». Si trova dunque l'estraneo là dove meno ce lo si aspettava: nel cuore dei rapporti personali, come fondamento della stessa sfera domestica. "L'interpretazione utilitaristica" - Se certi autori escludono il dono dalla famiglia in nome della spartizione, altri, al contrario, tentano di ridurre i diversi fenomeni di circolazione nelle reti familiari all'utilitarismo applicando loro la teoria dell'equilibrio dell'economia neoclassica. Dalla formazione delle coppie ("matching") al divorzio (Mortensen, 1988) passando per i conti familiari,

numerosi sono coloro che tentano oggi di ridurre la famiglia a un sistema di scambio utilitaristico. Si stabiliscono con grande minuzia i conti familiari (de Singly, 1987), il che è pienamente legittimo; ma nello stesso tempo si afferma che la coppia funziona su questa base, che è la dinamica che spiega quel che circola nella coppia e più in generale in seno alla famiglia e alla parentela. Il ragionamento è il seguente: 1) E' vero che, di solito, non sembra che i membri della coppia calcolino troppo, né facciano conti, almeno non in modo esplicito. 2) Tuttavia, quando le cose vanno male, e soprattutto in caso di divorzio, ci si mette a calcolare, si cerca di ottenere il massimo eccetera. 3) Dunque, quando tutto va bene, la coppia si nasconde il fatto che calcola sempre. Non osa confessarlo, ma è quel che fa. La conclusione di questo ragionamento è del tutto illegittima. Anche se si ammettono le premesse, la sola conclusione che se ne può trarre è che quando una coppia non funziona più, essa applica il sistema utilitaristico. E prima di considerare che tale sistema in precedenza era nascosto, occorre cominciare col chiedersi se non si trattasse semplicemente di un altro sistema, e se non si passi al sistema mercantile proprio perché l'altro sistema di scambio e di circolazione delle cose è fallito. L'ipotesi giusta è dunque la seguente: dopo aver spesso «dato senza contare», si regolano i conti, spesso non senza difficoltà, e non senza l'aiuto di un avvocato che trasforma l'operazione in un «regolamento di conti». Una intervistata racconta: «Quando ho divorziato, non sono riuscita a passare di colpo alle questioni di denaro, come se il nostro matrimonio non fosse stato altro che un affare. Dopo qualche anno, quando non c'era più il sentimento, ho potuto farlo. Non capisco quelli che ci riescono subito». Gli ex coniugi ci riescono grazie ai rispettivi avvocati. Si tratta di un bel caso di trasformazione del dono in mercato per effetto dell'entrata in scena di uno specialista il cui ruolo principale consiste nell'attribuire l'intenzione mercantile all'altro partner, il che trascina i due membri della coppia nella logica mercantile (3). E' la condizione preliminare del suo intervento, senza la quale si farebbe a meno di lui. Questo tipo d'intermediario per essere utile deve procedere per prima cosa alla trasformazione del rapporto, alla trasmutazione preliminare del sistema in un rapporto mercantile, o in un caso giudiziario (Boltanski, 1990). Aver bisogno di fare i conti è già l'indizio che si esce dal sistema di dono, è l'indizio di una degradazione del rapporto e non il segno che il sistema del dono è fondato sul calcolo. Niente autorizza una simile interpretazione che contrasta con il modo in cui le coppie lo vivono, compresi gli studiosi utilitaristici che dedicano il libro alla moglie «senza

la quale questo libro non sarebbe mai esistito»... Il dono è un accordo spontaneo, il che non vuol dire esente da oscillazioni. L'onere della prova spetta alla tesi utilitaristica: poiché in essa si afferma che il modello è nascosto, esso va svelato altrimenti che dimostrando che il modello utilitaristico funziona proprio quando la coppia non funziona più! Ma non è fornita mai alcuna dimostrazione: è come se si applicasse un assioma. Ci si può almeno concedere l'ipotesi inversa. Essa non è facilmente verificabile allo stato attuale delle ricerche, che per la maggior parte si limitano al calcolo delle equivalenze monetarie. Tuttavia alcune ricerche recenti sembrano suffragare la nostra ipotesi (4). Che cosa si constata? In primo luogo, le ricerche di Kellerhals e altri (1988) già da qualche anno dimostrano che gli scambi familiari giocano su molteplici registri. Non è facile stabilire la «norma dello scambio»; a differenza dell'equivalenza mercantile essa tiene conto delle caratteristiche delle persone. Questi autori conservano tuttavia, sia pure in modo sfumato, il postulato dell'equivalenza come regola fondamentale degli scambi. Altri studiosi esploreranno l'ipotesi del rapporto di debito come fondamento del rapporto di coppia. Quali sono le conclusioni di queste ricerche? E' interessante constatare che vi si ritrovano le principali caratteristiche dei sistemi di dono. • In primo luogo la spontaneità. Quando Jean-Claude Kaufmann chiede come si è stabilita la ripartizione attuale dei compiti della coppia, la risposta più frequente è: «E' venuta da sola!» (1990, p. 91). La stessa risposta si ritrova nell'inchiesta di Françoise Bloch e altri: «Le cose sono venute da sole» (1989, p. 77). Ciò non significa che non ci sia sistema, né che questo sistema sia inconscio; ma esso è implicito. • Questo sistema non tocca soltanto la coppia, ma anche l'insieme della famiglia, compresi i genitori, la filiazione. L'insieme è visto come un tutto più grande delle parti, comprensivo del processo di trasmissione di generazione in generazione. • Bloch e altri (1989) vanno ancor oltre. La famiglia è vista da loro come «un universo sociale fondato sull'inversione della legge fondamentale del mondo economico» (p. 13). Mentre quest'ultimo funziona sulla base dell'equivalenza, il dono funziona sulla base del debito (p. 22). Rientra piuttosto nelle «nozioni di reversibilità e di concatenazione che di reciprocità». «Lo scambio matrimoniale (...) mantiene una asimmetria di posizione tra gli attori dello scambio. Quel che mantiene lo scambio sociale (...) è il fatto che ciascuno pensa di dare all'altro più di quanto non riceve» (p. 21).

Il grande risultato di questa ricerca consiste nel porre lo stato di debito come normale in un rapporto di dono. Ma le interviste ci portano a credere che gli autori si fermino a metà strada e che un rapporto familiare riuscito sarebbe quello in cui il debito è rovesciato rispetto alla loro ipotesi: un rapporto in cui ciascuno crede di ricevere più di quanto non dia, in cui ciascuno si senta in debito verso l'altro, piuttosto che considerare che l'altro sia in debito verso di lui. «Gli devo tanto» è una frase che abbiamo sentito spesso da entrambi i partners. Questa considerazione è fatta anche da Arlie R. Hochschild (1989) nella sua analisi dei rapporti di coppia. Più precisamente, non si tratta di negare la presenza della norma di equivalenza nel campo del rapporto. L'equivalenza non è assente da un tale rapporto di dono; ma essa ne è soltanto un elemento che non può essere centrale. L'equivalenza è al tempo stesso presente e assente nel senso che: • non ce ne si può allontanare troppo senza considerare che invece di dare «ci si rimette»; • ma non ce ne si può nemmeno avvicinare troppo, sdebitarsi senza por fine al rapporto. Quando ci si avvicina troppo all'equivalenza, uno dei partners compie un gesto che la fa saltare, fa una follia, qualcosa di troppo che li allontana di nuovo dall'equilibrio. Il campo del debito si situa tra questi due poli, e lo stato di debito reciproco mantenuto deliberatamente ne sarebbe lo stato normale. Inoltre, l'equivalenza stessa è di tipo diverso dall'equivalenza mercantile, perché tiene conto delle caratteristiche personali degli agenti, del loro livello di reddito, dei loro bisogni eccetera. Evidentemente, soltanto una ricerca empirica permetterà di verificare questa ipotesi, che si può enunciare come segue: più il rapporto è considerato riuscito dai partners, più esisterà questo stato di debito. La stessa ipotesi può essere applicata al rapporto tra genitore e figlio: anche se il figlio riceve «oggettivamente» molto di più, è facile che i genitori dicano che essi ne ricevono ancora di più. «Gli devo tanto» è ancora l'espressione che descrive nel modo migliore quello stato del sistema che Hochschild chiama «economia della gratitudine». Queste ricerche permettono di andare ancora più lontano di quelle che adottano il modello dell'equivalenza mercantile, a proposito del quale ci si può accontentare di ricordare che quando il legame sociale è in crisi gli agenti passano effettivamente a un modello mercantile, alla reciprocità immediata. Essi «regolano i conti». Che cosa di più banale e perché trarre la conclusione che lo fanno sempre, anche quando non è visibile, cioè

quando «scientificamente» si osserva il contrario? Citiamo René Girard: «Gli scambi matrimoniali oppure gli scambi di beni di consumo non sono affatto visibili in quanto scambi. Viceversa, quando la società è in crisi, le scadenze si avvicinano e s'installa una reciprocità più rapida» (1982, p. 23). Come mettere alla base di un rapporto una regola della quale si constata la comparsa soltanto quando il rapporto non funziona più? Perché questa riduzione retroattiva del legame al ciclo corto e binario del sistema mercantile, il che presuppone l'affermazione mai giustificata e inspiegata della sua invisibilità? Il postulato implicito di Girard è che l'equivalenza esiste, anche se è invisibile. Sicché crediamo tutti alle cose invisibili, ove l'invisibile del moderno è l'estensione a ogni legame sociale della mano invisibile del mercato. La nostra ipotesi esplicita è che, quando un rapporto matrimoniale è caratterizzato dalla ricerca dell'equivalenza mercantile, quando una coppia cerca continuamente di fare i conti, ciò sta a indicare un cattivo funzionamento, e la vita a due finisce con un «regolamento di conti». Il dono ha orrore dell'eguaglianza; ricerca l'ineguaglianza alterna. "Famiglia e libertà" - Il legame familiare presuppone un limite importante alla libertà rispetto agli altri luoghi del dono moderno: il fatto di non scegliere i propri genitori, fratelli e sorelle, di non scegliere i membri di questa rete. Per alcuni si tratta di un vero e proprio crimine di lesa modernità, per cui dicono: «Gli amici sono meglio della famiglia, perché li si sceglie». Questa frase illustra tutto il problema degli obblighi sociali e d'altra parte illustra il problema della libertà, dal momento che una delle caratteristiche principali sulle quali si soffermano le persone cui si chiede perché per loro la famiglia è attualmente importante, che cosa ha di particolare il legame familiare, è l'incondizionalità. Ora, l'incondizionalità include l'assenza di scelta. Se si può scegliere, si può sempre scegliere di non scegliere più. Un rapporto libero non è un rapporto incondizionato e allora, definito in questo modo, un rapporto amichevole non può sostituire la famiglia. Il problema degli obblighi nasce dal fatto che non si cerca soltanto la libertà, ma anche la sicurezza. Ora, più si è liberi in un rapporto, meno da esso si riceve la sicurezza, poiché il rapporto stesso è allora libero di scomparire. La libertà moderna implica il rischio di abbandono. (I giovani vivono spesso l'abbandono di uno dei genitori, e la riproduzione di questa perdita nel loro primo amore infelice. Ciò è strettamente connesso al

suicidio dei giovani, alla delinquenza e alla tossicomania. Ogni società deve insegnare ai suoi membri ad abbandonarsi e a saperne sopportare le conseguenze). Questa proprietà (la libertà) non si applica soltanto agli individui nel rapporto; si estende al rapporto stesso. Il richiamo di queste verità elementari è necessario perché la modernità valorizza una certa libertà a spese delle altre necessità, come la sicurezza. La famiglia, dunque, fa parte di quelle istituzioni che procurano la sicurezza a scapito, almeno tradizionalmente, della libertà, come non hanno cessato di ripeterci i "family haters" (Gotman, 1988, p. 5). Del resto, anche il nucleo fondatore della famiglia - la coppia - stabiliva un rapporto incondizionato: «Nel bene e nel male»; oggi (nelle nostre società) i suoi membri intrattengono un rapporto liberamente scelto, cioè di tipo amichevole... Il rapporto di dono implica un aspetto incondizionato impensabile nella modernità ma la cui articolazione costituiva la base della famiglia. Per questo il divorzio è probabilmente la rivoluzione sociale più importante dell'epoca moderna. Il carattere incondizionato degli altri rapporti familiari (fratelli, sorelle...) sopravviverà alla fine del carattere incondizionato della coppia? Il carattere incondizionato dei legami familiari non scelti sopravviverà alla rottura del solo rapporto che era liberamente scelto in questo ambito relazionale? Si apre qui tutto un campo di ricerca fondamentale sui legami familiari nelle famiglie separate, «ricostituite» (Le Gall e Martin, 1990). E' in questione il dispositivo fondamentale di ogni società: l'incontro a ogni generazione dell'affinità e della filiazione. Nelle piccole comunità (società arcaiche), questo legame doveva essere indissolubile a causa dell'unione che stabiliva a monte tra due gruppi. Nella società moderna, questo ruolo era quasi scomparso, ma il legame era pur sempre indissolubile per via di ciò che comportava, stavolta a valle: i figli e la responsabilità unica attribuita ai genitori (quasi inesistente nelle piccole comunità dove la cura dei figli è più collettiva). E' strano che questa società abbia nello stesso tempo affidato tale responsabilità alla coppia e permesso così facilmente la dissoluzione di quest'ultima. Come si spiega una simile contraddizione? Senza la coppia si manterrà il carattere incondizionato della comunità familiare? Oppure esso si ricostituirà al di fuori, in altro modo, eventualmente attraverso il ritorno a certe forme di piccole comunità forti, primarie, sola alternativa logica alla «decomunitarizzazione» della famiglia? Oppure ancora la specie umana può fare a meno di questo tipo di sicurezza comunitaria se dispone in cambio della sicurezza sociale statale e dell'abbondanza mercantile? Sono queste le domande poste dall'affermazione che ogni

legame può essere sciolto, che i beni sono più importanti dei legami e che questi ultimi, a termine, servono soltanto ad assicurare la circolazione dei primi secondo la modalità utilitaristica. Robinson e Venerdì non hanno bisogno di altri legami che quelli necessari al perseguimento dei loro interessi, dice James Buchanan, premio Nobel di economia e fondatore della scuola del "public choice": ancor meno essi hanno bisogno di legami incondizionati o indissolubili... In quell'universo ciò semplicemente non esiste. Ci si può chiedere in che modo, in tali condizioni, una società potrebbe assicurare il suo rinnovamento. E' sempre a causa di questa mancanza di scelta che si ritrova nelle reti familiari il paradosso seguente: mentre in generale la famiglia è considerata come l'istituzione sociale più chiusa su se stessa, nelle nostre società è spesso e anche talvolta soltanto nelle famiglie che s'intrattengono rapporti con le persone più diverse in termini di reddito, di classe sociale, di professione, d'interesse... I rapporti familiari attraversano le classi sociali, gli ambienti professionali, le regioni eccetera. Se avessimo dovuto scegliere questi legami, non l'avremmo fatto, non foss'altro perché probabilmente non avremmo mai incontrato quelle persone! Per Lévi-Strauss, era necessario che esplodesse la famiglia perché esista la società: «Se ogni famiglia biologica formasse un mondo chiuso e si riproducesse da sola, la società non potrebbe esistere» (5). Ora, è forse in parte grazie alle reti familiari che la società attuale, in virtù di un incredibile ricorso storico, non esplode in conflitti professionali corporativi di tipo clanico. Grazie alle feste di Natale e, in generale, alle «feste di famiglia». Negli anni ottanta, nel Québec, all'epoca dei maggiori conflitti sindacali del settore pubblico, era proprio nel corso di queste riunioni di famiglia che i lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato si incontravano e «si spiegavano»! - Il ruolo della donna. Al centro della sfera domestica si trova la donna. In ogni tempo ella è stata un simbolo del dono. Nella mitologia greca, la prima donna si chiama Pandora, che significa «colei che dona tutto» (Vernant, 1985, p. 266 [trad. it., p. 276]). Si dice della donna (ma non dell'uomo) che ella «si dà» quando fa l'amore. Lo si dice anche di una prostituta: il "Petit Robert" la definisce come una donna che «si dà in cambio di denaro». Quando l'artista si vende, si dice che si prostituisce: ma la donna, anche quando si vende, «si dà»... Prostituirsi vuol dire assoggettare un dono al sistema mercantile. La donna è «data in sposa» nella maggior parte delle società conosciute della storia dell'umanità. Non solo allora ella riceve e dà dei regali, ma è a sua volta considerata come un regalo nella letteratura antropologica sui sistemi di parentela. Questo è strano; e si può per lo

meno sospettare che si tratti di qualcosa di più complicato della «donna oggetto». Evidentemente, esiste qualcosa di particolare, un legame speciale tra la donna e il dono, comune a tutte le società, di cui del resto certe femministe vorrebbero molto sbarazzarsi. Ma esiste anche un legame particolare tra il dono e la donna nella società moderna. Con il sopraggiungere dei sistemi mercantile e statale è come se la donna si definisse come la depositaria, il nucleo della resistenza all'invasione di tali sistemi. L'affermazione dei sistemi mercantile e statale è sembrata seguire una frontiera sessuale notevole sotto tutti i punti di vista. Che cosa c'insegna la donna sul dono moderno? E' questo un argomento «delicato». Noi ci atterremo il più possibile ai «fatti», senza chiederci se sono di origine culturale, naturale o... soprannaturale (come lo stato di grazia della donna sposata). I fatti, evidentemente, dicono che l'universo del dono, forse più che mai nelle nostre società, è la specialità, rientra nelle competenze delle donne. E' spesso la segretaria che sceglie il regalo di Natale della moglie del principale! In tutto il settore del volontariato, anche se la proporzione di uomini è in aumento, le donne restano largamente maggioritarie. E le donne sono al cuore del dono nella sfera domestica. Tutti i lavori su questo argomento lo constatano, spesso per deplorarlo, vedendovi una forma di sfruttamento. Le donne si incaricano dei regali e sono a loro agio in questo universo (Fischer e Arnold, 1990; Caplow, 1982; Cheal, 1988). Gli uomini sono goffi, imbarazzati, spesso ridicoli, non capiscono bene le regole del gioco, mancano di finezza, fanno gaffes... Spesso anzi, ai rituali di dono tra donne corrispondono tra gli uomini riti contrassegnati dalla violenza. Così, nell'America settentrionale, il contrasto tra il rituale dello "shower" e quello dell'addio alla vita da celibe è particolarmente eloquente. Mentre le amiche della fidanzata organizzano per lei una festa che le dà l'occasione di ricevere ed esibire magnifici regali di nozze, gli amici dell'uomo organizzano una festa che ne mette in scena la castrazione, nel corso della quale è messo in ridicolo e spesso maltrattato. I due riti sono riti di passaggio, l'uno che segna la nascita a una nuova vita, l'altro la morte e la celebrazione della vita presente; l'uno l'ingresso in un nuovo gruppo sociale, quello delle donne sposate, l'altro l'espulsione violenta dal gruppo attuale. Tutto ciò per celebrare la stessa unione tra due persone. David Cheal ha osservato lo "shower" a Winnipeg, dove si pratica ancora su larga scala. Importanti doni in natura e in denaro vengono fatti alla sposa. Essi sono «presentati» ai numerosi partecipanti (oltre cento) con un sistema di altoparlanti. Cheal afferma che il successo dello "shower" procura prestigio e "social standing" alle donne che lo organizzano (Cheal, 1988 e 1989, p. 105) (6).

Infine, la competenza della donna in questo campo si afferma nel rito più importante che accompagna lo scambio moderno di regali: la loro confezione, quel supplemento del tutto gratuito (nel senso che è inutile) ma essenziale a ogni regalo, simbolo dello spirito del dono, al tempo stesso perché nasconde quel che circola per dimostrare che l'importante non è l'oggetto nascosto ma il gesto, sottolineato dalla bellezza della confezione e poi dalla sua distruzione nel momento stesso del ricevimento del dono. La confezione assicura quel minimo di dilapidazione connessa al regalo, dilapidazione che serve a significare che non è tanto l'aspetto utilitario della cosa donata che conta, quanto il gesto, il legame, la gratuità. Quel che si è messo tanto tempo a preparare è strappato e buttato via. La confezione è un rito che comprende tutto lo spirito del dono. Questa operazione è ovunque lasciata alle donne. D'altra parte nel sistema mercantile esiste la tendenza ad avvolgere ogni bene di consumo nella plastica. Ciò ha un senso completamente opposto: mira a separare il produttore e il consumatore, ad assicurarsi che niente della persona del produttore sia «trasmesso» al consumatore, nemmeno dei virus! D'altra parte, questa confezione non cerca di nascondere, anzi spesso è trasparente. La generalizzazione di questo universo del mercato in cui non ci si fanno regali (niente sentimentalismi negli affari eccetera) ha approfondito e radicalizzato la divisione sessuale dei compiti, per cui l'universo del dono è diventato proprio delle donne al punto che, per un uomo, il fatto d'impegnarsi nel mondo dei regali è spesso considerato sospetto: segno di debolezza, di femminilità, di non virilità. Eppure, da alcuni decenni, il mondo del lavoro è sempre più investito dalle donne. In quale misura la «cultura mercantile» nel senso di Gouldner ne risulta trasformata? Sarebbe interessante studiare in questa prospettiva i cambiamenti di pratiche che hanno accompagnato la mascolinizzazione o, viceversa, la femminilizzazione di una professione: lavoro sociale nel primo caso, medicina nel secondo. Perché la cultura mercantile fino a tempi recenti è penetrata così poco nell'universo delle donne? Perché il dono si è rifugiato tra le donne, anche dopo che queste ultime hanno a loro volta invaso il settore mercantile e statale in quanto produttrici e non più soltanto consumatrici o clienti? Il fenomeno può essere spiegato tanto con il dominio degli uomini quanto con la resistenza delle donne all'affermazione del mercato. Il movimento femminista tende ad accogliere soltanto la prima ipotesi. In funzione dei suoi princìpi e dei suoi valori che lo portano a rimettere in discussione il mondo degli uomini, ci si potrebbe aspettare che esso miri a reintrodurre

il dono tra gli uomini, a rafforzare un movimento di resistenza alla generalizzazione della cultura mercantile. Ora, esso sembra spesso auspicare il contrario: trasformare ogni attività femminile in rapporto mercantile monetario utilitaristico, dal momento che ogni rapporto non salariale sarebbe sinonimo di lavoro gratuito, e dunque di sfruttamento mercantile. Per una parte del movimento femminista, questa competenza unica delle donne nel sistema del dono in realtà è soltanto svalutante, ovvero fonte di servitù per le donne, prova dello sfruttamento e della dominazione di cui esse sono oggetto. Questa posizione si basa sul postulato che è impossibile donare senza rimetterci. Certo, ciò è vero nella misura in cui si condivide l'ideologia utilitaristica degli uomini e si auspica che tutti i settori della società siano retti dalle regole del mercato. In questo ambito di pensiero, funzionare nel sistema del dono equivale effettivamente a rimetterci sempre. Si tratta di una profonda ambiguità del movimento femminista: mentre da una parte respinge il sistema di valori attribuito agli uomini, dall'altra ne auspica la generalizzazione alla metà dell'umanità e tende a condannare le donne che aderiscono a un altro modello che non quello del calcolo e della razionalità utilitaristica: per esempio, che decidono che per loro è più importante occuparsi dei figli piuttosto che fare carriera. Così, essere puericultrice nel settore pubblico, dunque occuparsi dei figli degli altri, è un'attività valorizzata; ma accontentarsi di allevare i propri figli significa che si è alienata e dominata. La differenza consiste nel fatto che in un caso le donne assolvono il compito nel quadro di un rapporto salariale e nell'altro attraverso una rete di dono. Nel comparare i due sistemi, alcune femministe tendono a sottolineare soltanto i vantaggi del primo (liberazione eccetera) e a generalizzare gli inconvenienti del secondo (costrizioni, dominazione, sfruttamento, come se le donne salariate non fossero sfruttate). Esse manifestano un pregiudizio favorevole al mercato e si comportano allora come tutti i neofiti del rapporto mercantile. Quest'ultimo mette sempre in evidenza la liberazione dei legami sociali per far accettare l'impoverimento dei rapporti sociali che rappresenta. Non si tiene conto della degradazione della qualità del legame sociale che si instaura. Scegliendo di restare nella rete familiare le donne si voterebbero a una situazione d'inferiorità perché a questo ruolo non è riconosciuto il suo giusto valore in società controllate dagli uomini. Ciò è esatto nel quadro della cultura mercantile dominante che trasforma in permanenza i legami sociali in rapporti tra estranei. Ma le donne vogliono per l'appunto

cambiare i valori dominanti della società moderna. E' forse cominciando con l'aderire ai valori che si vogliono cambiare che si raggiungerà lo scopo? Una tale strategia è per lo meno strana! Ed essa allontana dal movimento numerose donne che concretamente fanno il contrario. Così la presidentessa di un centro caritatevole che, dopo aver allevato quattro figli, preferisce fare del volontariato piuttosto che tornare sul mercato del lavoro, ci dice: «Noi ci priviamo di un altro reddito, viaggiamo meno, ma mio marito è d'accordo, e io preferisco fare quello che mi piace piuttosto che dipendere da un padrone. Mi sento più libera». Rifiutando un certo tipo di consumo, questa coppia non rimette forse in questione il modello economico e culturale dominante in modo molto più fondamentale che se la donna accettasse un impiego remunerato? Evidentemente non si tratta qui di negare il diritto delle donne a un accesso al mercato del lavoro pari a quello degli uomini. E' in questione soltanto l'affermazione per cui solo il rapporto salariale permetterebbe il pieno sviluppo dell'individuo, uomo o donna che sia. - I FIGLI: DONO OD OGGETTO Nella stessa settimana di marzo 1988 a Montréal si potevano leggere due notizie sui giornali: • In un ospedale un bebé ha l'aids. Centinaia di persone si offrono per adottarlo. • Una coppia ha adottato un bebé coreano qualche anno fa. Ora vuole «restituirlo» perché il bambino ha un cattivo carattere. La merce non va bene. Soddisfatti o rimborsati: si applica la regola del mercato al rapporto parentale perché, all'inizio, si è pagato, il bene non ci è stato donato. Coloro i quali affermano: «La mia vera famiglia sono gli amici, perché li ho scelti» dovrebbero riflettere sulla mostruosità di una società in cui si potrebbe scegliere tutto senza obbligo, senza costrizione, senza «garanzia» salvo quella della qualità della merce, senza considerazione del carattere incondizionato del legame, in breve una società mercantile. Che ne sarebbe di coloro che nessuno sceglierebbe? In che modo si rinnoverebbe tale società? Il rapporto con il figlio è necessariamente un rapporto di dono e in esso è compreso un certo senso dell'obbligo. Queste due notizie illustrano l'ambiguità del rapporto con il bambino nella società attuale. Vediamo i due aspetti di questo rapporto.

"Il dono per eccellenza" - All'interno della famiglia, il dono che resta ancora meno libero è quello dei rapporti con il figlio, il dono della vita, dono per eccellenza in un certo senso, ma carico di obblighi consentiti, ragion d'essere della famiglia. Può sembrare sorprendente che si faccia del rapporto con il figlio il prototipo del rapporto di dono; eppure lo è in molti modi. In primo luogo, la nascita è un dono. Dono di sé per eccellenza, dono della vita, dono originario, che fonda il rapporto di dono e l'inscrizione nella condizione di debito per tutti, debito di cui il mercato e certi psicoanalisti vogliono liberarci. Nella società attuale, questo rapporto dura più a lungo che in qualsiasi altra. L'inizio della catena del dono si situa proprio qui, e ogni individuo può assumere il debito soltanto dando la vita a sua volta, il che stabilisce il carattere fondamentalmente diadico, non simmetrico, del dono. La nascita pone lo stato di debito come ciò che definisce la condizione umana. Certo, questo stato può assumere un carattere nevrotico. La psicoanalisi ci ricorda a ragione che non c'è niente di peggio di una madre che vuol dare «tutto» al figlio. Ma lo stato di debito in se stesso non è una nevrosi e lo scopo non è quello di liberarsene ma di imparare a donare a propria volta, a «giocare» in questo sistema senza rimetterci. Rimetterci non significa dare più di quanto si riceva, ma non rispettare certe regole che giocano su più registri, di cui l'equilibrio tra le cose che circolano costituisce soltanto un elemento, come si è visto spesso secondario. La riconoscenza, il piacere di dare sono anch'essi degli elementi essenziali. Un'educazione riuscita consiste nell'imparare a dare, e a ricevere, senza rimetterci. In effetti ci si può rimettere nel donare se il donatario non riceve il dono come un dono ma come qualcosa di dovuto; ma ci si può anche rimettere nel ricevere, per via del peso del debito contratto verso il donatore. Contrariamente a quel che si pensa, il bambino comincia sin da molto piccolo a provar piacere nel trasmettere quel che ha ricevuto. Così degli psicologi dediti all'osservazione dei bambini constatano sin dall'età di 18 mesi la comparsa dell'offerta e di quel che chiamano l'imitazione dell'offerta: un giocattolo regalato a B da A viene poi offerto da B a C per una sorta d'imitazione. Si rileva inoltre che i bambini più portati a regalare tendono in seguito a diventare leaders: sono i più «attrattivi» e i più socievoli; gli autori li distinguono dai «dominatori» aggressivi e solitari (7). Si ha qui in germe il potlàc, il mercato, la democrazia, la dittatura, il fondamento del legame sociale, della logica non sacrificale.

Il piacere che si prova a «fare la catena» viene di là. Questo modo di fare simboleggia ogni sistema di dono: dare, ricevere, ricambiare; in una parola trasmettere, essere canale piuttosto che fonte (Darms e Laloup, 1983). Dando a sua volta il bambino fa la catena. La catena di produzione moderna è l'estremo opposto di questa situazione: essa esclude la persona dal circuito della circolazione, la rende spettatrice e subordinata, la lascia in balia di una catena di oggetti che si organizzano tra loro, la assoggetta al ritmo degli oggetti. La catena di produzione è l'immagine perfetta del mercato. L'espulsione del dono comincia con l'introduzione del mercante e si compie con la catena di montaggio, alla quale l'artista resiste. Infine, il bambino è l'essere al quale si deve dare tutto. Non solo gli si è data la vita, ma inoltre è il solo essere per il quale si afferma spontaneamente che si sarebbe pronti a dare la propria. Forse mai è esistito tra degli esseri, al centro di una società, un rapporto asimmetrico la cui intensità e durata nel tempo siano così costanti. Un figlio è attualmente in rapporto di dono quasi unilaterale spesso per più di vent'anni. Il dono al figlio è forse la forma più specifica del dono moderno e il debito contratto il più difficile da assumere. Il figlio è la sola persona cui la società moderna permette di dare senza contare. E' il dio della modernità, il re, colui per il quale si può sacrificare tutto. Con qualsiasi altra categoria di persone, dar troppo diventa ben presto ambiguo, bizzarro, anormale. Il bambino è la sola trascendenza superstite. "Il pericolo del dono per il bambino" - Ciò comporta indubbiamente numerosi problemi per il bambino. Solo un dio può ricevere senza dover mai restituire; e non c'è nulla che sia più difficile da assumere di un dono del genere. Nelle altre società, il figlio comincia molto presto a restituire producendo e procreando a sua volta. Bisogna essere particolarmente forte per assumere il ruolo del bambino moderno. Ora, il bambino è debole per definizione. Nelle altre società, solo i figli dei re e dei principi hanno avuto un tale statuto, il che d'altronde comportava costrizioni assimilabili a una forma di reclusione. E la situazione è abbastanza simile per il bambino moderno, come risulta comparandolo con i bambini del Terzo mondo. Abbiamo avuto l'occasione di farlo in un villaggio messicano, osservando i bambini del villaggio e quelli della coppia proprietaria dell'albergo. Questi ultimi erano rinchiusi, non potevano fare da soli il bagno al mare, non sapevano nuotare, erano ignoranti e ritardati rispetto agli altri bambini; restavano soli, guardando

gli altri correre e ridere, ma anche lavorare; e mentre guardavano gli altri con invidia, loro erano istruiti, imparavano il necessario per «riuscire» più tardi. L'utilizzazione psicologica dei bambini nelle separazioni (per «regolare dei conti» con il coniuge) è forse meno grave del fatto di utilizzarli facendoli lavorare in campagna o dare il loro contributo al reddito familiare, pratica oggi denunciata dalle organizzazioni internazionali? La formazione e l'acquisizione di conoscenze utili alla mobilità sociale è il valore primo trasmesso ai bambini attuali, primo rispetto all'amicizia, per esempio. Non si esiterà a far cambiare scuola a un bambino e a separarlo dai suoi amici se la nuova scuola ha una reputazione migliore. Ogni decisione di questo tipo trasmette al bambino un messaggio che definisce i valori che «contano». I legami sono sacrificati ai beni, o più precisamente i legami affettivi sono subordinati ai legami utilitari, ai rapporti utili per il futuro. Nell'attuale rapporto tra genitori e figli c'è una perversione del dono che rischia di rovesciare tale rapporto. A forza di volere dei figli perfetti e di cercare i mezzi per ottenerli, noi finiremo col fare della nascita non più un dono, ma un prodotto non più vincolante di qualsiasi altro. Con i progressi delle tecniche di riproduzione e la finalità individualistica e utilitaristica che si applica loro, questa predizione non è più fantascienza, come dimostra l'esempio già menzionato, in cui dei genitori vogliono «rispedire al mittente» un bambino da loro adottato. Il dono non si basa sulla dualità ma sulla continuità, il legame, la filiazione. La differenza tra un bambino adottato e uno «vero» consiste nella filiazione. Un figlio «naturale» non ci appartiene, ci è dato da Dio o dalla natura. Al contrario, il figlio adottivo (o più ancora quello «prodotto» in laboratorio specificandone in anticipo le caratteristiche) viene da qualche parte, da un luogo noto, è il frutto dei nostri sforzi, dei nostri passi amministrativi, dell'acquiescenza di un funzionario e di tecnici; dunque ci appartiene in un certo modo, abbiamo su di lui diritti di proprietà che possono andare fino al diritto di non averlo più, al diritto di venderlo, che fanno parte dei diritti fondamentali di ogni proprietario. Il bambino, nella società moderna, è in una situazione unica: da una parte, non è mai stato così ben visto, ma neanche è mai stato così minacciato di trasformarsi in oggetto. E' quel che esprime il doppio esempio citato all'inizio di questo paragrafo. Mai un tale rapporto di dono totale è stato così vicino a capovolgersi in rapporto mercantile e giuridico, mai questo legame è stato così minacciato dai diritti degli adulti - a cominciare da quello di far uso del proprio corpo senza obbligo nei

confronti degli altri - e dal trasferimento a specialisti, in un rapporto mercantile o statale, di un complesso di responsabilità in precedenza assunte dai genitori. I due movimenti esistono: il bambino-dio, solo essere umano al quale si può dare tutto senza essere considerato con sospetto nella società attuale; il bambino-oggetto di cui si potrebbe disporre a volontà (un po' come lo si fa per gli animali domestici), al quale si potrebbe anche dare molto, ma del quale ci si potrebbe altrettanto facilmente sbarazzare senza obbligo. - BABBO NATALE Nutrite dal mito del massimo dono possibile (un Dio che nasce per dare la sua vita agli uomini), le festività natalizie sono il periodo dell'anno nel corso del quale l'universo del dono, abitualmente collocato negli interstizi della società moderna, viene in primo piano. Per questo in esso si osservano in modo molto più chiaro del solito i vantaggi e gli inconvenienti di avere obblighi e legami sociali. I poveri o le vittime dei rapporti sociali detestano questo periodo e ne rifuggono. Aspettano con impazienza il ritorno degli scambi freddi, neutri, questo grande regalo della società mercantile, dove si paga tutto e dove non si deve niente a nessuno, dove si può essere solo senza essere (troppo) infelice, senza sentire la mancanza di rapporti. E' meno facile dimenticare la solitudine tra il 24 dicembre e il primo gennaio, perché il mercato stesso cessa di essere neutro e si mette a nutrire ostentatamente le reti sociali. Per questo le persone sole o che hanno rotto i legami vanno a Sud, al sole: il viaggio nel Sud è il regalo di Natale del mercato, per coloro che possono pagarselo, naturalmente. Vista l'importanza del bambino nell'universo moderno del dono, nessuno si stupirà di constatare che egli è il personaggio centrale di questo periodo festivo: il dono ai bambini è il rapporto di dono più soggetto ai legami. Il che non impedisce uno dei fenomeni più stupefacenti del dono moderno: il fatto che i donatori reali siano mascherati, come se volessero sottrarsi a ogni gratitudine introducendo un personaggio mitico, strano ed evanescente, Babbo Natale. Questo fenomeno è in espansione: in vari paesi le poste organizzano un servizio speciale di risposta alle lettere indirizzate a Babbo Natale. In questa circostanza si vede come un apparato statale si metta al servizio del dono, il che non manca di stupire in un universo fondato sulla razionalità. Ma notiamo che il servizio postale fa appello a dei volontari per rispondere ai bambini. In

Canada, nel 1989, i Babbi Natale volontari hanno risposto a oltre 700 mila lettere. Perché gli adulti giudicano tanto necessario che i bambini credano a Babbo Natale, al punto che molti bambini fanno finta di crederci per far loro piacere? Perché questo essere che ha una sola funzione, donare, e una esistenza effimera? Perché questo dispositivo grazie al quale i bambini possono credere che i regali non vengano dai genitori? Perché dopo essersi indebitati o addirittura rovinati in questo potlàc (8) sempre crescente dei regali di Natale che si accumulano sotto l'albero illuminato, i genitori si sforzano di negare che il dono venga da loro, di far credere ai figli che lo ricevono che loro non c'entrano niente e di attribuire il gesto a un personaggio che non ha altro merito che quello di portare i regali, compiendo il gesto gratuito per eccellenza? Perché una simile abnegazione che ha qualcosa del sacrificio, del dono agli dei, e non impedisce ai genitori di rallegrarsi del piacere provato dal bambino che apre i pacchi dei regali... datigli da un altro? Come se i genitori cercassero di dimostrare a se stessi che non si aspettano alcuna riconoscenza da quel dono, che non sono i «veri» donatori, in ogni caso non i soli; che per loro conta soltanto il piacere provato dal bambino; che donano soltanto per piacere, nemmeno per la riconoscenza, accettando e anzi facendo in modo che la riconoscenza vada a un altro, tuttavia irreale. Infatti la manifestazione di piacere del donatore è essenziale; ma essa è dissociata, mediante Babbo Natale, dalla riconoscenza nei confronti del vero donatore. Perché uno spirito moderno invoca una figura così primitiva, una concezione così profondamente religiosa (9) del dono? Perché il dono diventa anonimo, o quasi, e in ogni caso proviene da uno sconosciuto, all'interno dei legami sociali primari più intensi? Come nel rapporto di coppia si profila qui la presenza dell'estraneo, là dove meno ce la si aspetterebbe. Forse si tratta di liberare il bambino dal debito così pesante che ha verso i genitori, di liberarlo dal pericolo del dono totale che costituisce il rapporto attuale genitori-figli. Per distinguere un dono speciale dai doni ordinari, quotidiani, permanenti che i genitori fanno al figlio e che vanno da sé? Per permettere al bambino l'apprendistato del dono, della gratuità, della catena di trasmissione; per permettergli di vivere l'esperienza di uno sconosciuto che dà senza ragione (nemmeno perché si è stati buoni, motivo oggi quasi scomparso...). Ma che sacrificio è questo, «oggettivamente» (ma non soggettivamente, poiché i genitori non lo vivono come tale), quando si sa che, soprattutto per un bambino, dare e

ricevere dei regali è «il segno più chiaro e meno equivoco dell'amore» (10). Tutte queste ragioni probabilmente non sono infondate. Senza escluderle, le caratteristiche del personaggio permettono di avanzare una ipotesi più precisa: quella dell'inscrizione del dono nella filiazione. Il nome del personaggio già lo indica: è un padre. Babbo Natale ha una gran barba, ride con voce grave e prende i bambini sulle ginocchia. Babbo Natale assomiglia a un nonno. Babbo Natale è un antenato. Egli ristabilisce la filiazione, il legame con gli antenati che la modernità rompe costantemente, il sistema di riferimento dal quale ci siamo tagliati fuori. Il dono è una catena temporale, il mercato una catena spaziale. I morti oggi non sono più degli antenati: sono dei cadaveri. Nel momento di quella grande festa annuale dei bambini che è oggi Natale, gli antenati ritornano, e sono loro che danno i regali ai bambini. I regali di Natale sono i primi oggetti che un bambino riceve dai genitori, nella sua vita, come un dono. Gli ultimi che riceverà saranno l'eredità, alla morte dei genitori, quando costoro andranno a raggiungere gli antenati. Così il primo e l'ultimo dono provengono dagli antenati: sono entrambi delle eredità. Così, i genitori effettivamente non sono i soli a donare. Babbo Natale apre l'universo chiuso della famiglia moderna, ristabilisce un legame con il passato, nel tempo, ma unisce anche i bambini al resto dell'universo, nello spazio. Fa uscire i bambini dal loro piccolo mondo, apre la rete stretta nella quale essi abitualmente si situano. Babbo Natale li collega al mondo: è per questo che viene da così lontano, dal Polo nord. Babbo Natale collega il bambino a tutto l'universo e al passato; porta i regali dall'universo e con la sua presenza autorizza i genitori a essere anch'essi dei figli, a ridiventare bambini per un momento; infine, egli autorizza il padre a essere un vero padre, se si ammette con Legendre «che si può pensare un padre solo sotto l'egida del padre mitico» (1989, p. 142). Per verificare questa ipotesi, evidentemente sarebbe necessario fare una ricerca sulla storia di Babbo Natale, ricerca che a nostra conoscenza non esiste, e intervistare genitori e figli. Ma si sa che nella sua forma attuale, Babbo Natale viene dagli Stati Uniti, società che, secondo LéviStrauss, «spesso sembra cercar di reintegrare nella civiltà moderna atteggiamenti e procedimenti molto diffusi delle culture primitive» (1967, p. 65 [trad. it., p. 105]). Sarà perché questa società è quella che ha più radicalmente respinto gli antenati, dal momento che si dice autofondatrice? Anche qui, si vede come il dono si inserisca nella filiazione, stabilendo un legame con il passato, invece di fare "tabula rasa" del tempo, come si vedrà con il mercato e con lo Stato.

- EREDITARE All'interno della rete familiare, un altro dono è evidentemente fondato sulla filiazione: l'eredità. L'eredità è simile al dono in generale: come esso è stata molto poco studiata nelle società moderne, salvo che in un quadro mercantile o di redistribuzione statale. Il grande dibattito verte sulle imposte di successione al fine di ridurre le ineguaglianze, e riguarda soprattutto le grandi eredità: quelle che hanno un valore economico importante e in tal caso rientrano almeno altrettanto nel sistema mercantile e redistributivo (il che ci rimanda alla problematica statale delle ineguaglianze) quanto nel sistema del dono. All'altro estremo sono stati studiati anche, stavolta in una prospettiva etnologica, i sistemi di trasmissione delle terre, dono anch'esso inserito in un sistema di costrizioni materiali esterne molto pesanti. Ma il grandissimo numero di piccoli eredi urbani, degli «eredi medi» che predominano attualmente è stato raramente oggetto dell'attenzione dei ricercatori. Per fortuna, Anne Gotman (1988) ha studiato questo fenomeno in modo molto approfondito, realizzando una serie d'interviste con degli eredi. Rispetto alla trasmissione delle terre e dei grandi patrimoni dove si tratta di far fruttare il capitale, l'uso della piccola eredità è libero. In qualche modo, il fine non è dato all'erede insieme all'eredità. Che cosa si apprende osservando questo universo della trasmissione libera, soprattutto per quel che concerne l'uso dell'eredità? Che uso fa l'erede di una eredità libera? Al limite, dare, ricevere, ricambiare possono essere contenuti nello stesso gesto, poiché un certo numero di eredi utilizza l'eredità soltanto in funzione dei figli. Si limitano a trasmettere, ricambiando direttamente e immediatamente il dono ricevuto a qualcun altro (mediante l'acquisto di un appartamento per i figli, per esempio). Gotman parla addirittura di «staffetta»: «La generazione che eredita funge da generazione-testimone tra la generazione precedente e la seguente» (p. 220). E' un puro canale di trasmissione. Ciò presuppone evidentemente che anche qui ci si allontani dalla reciprocità, poiché questa simultaneità delle tre sequenze del ciclo significherebbe allora una sorta di rinvio al mittente, un rifiuto, come dice Gotman a proposito dei genitori che affermano che ad ogni modo, quel che danno loro i figli, essi lo riavranno un giorno (p. 164). L'eredità è una figura esemplare del sistema di dono nella sintesi che realizza dei tre momenti del ciclo. «Sono attaccati all'eredità (...) non coloro che la ricevono, ma coloro che la trasmettono»,

scrive Marc Augé nella prefazione del libro. «E' degno di nota - aggiunge - che quelli stessi che non si sono mai considerati degli eredi possano essere i primi a preoccuparsi di trasmettere, come se l'eredità ricevuta si affermasse in quanto tale soltanto con il suo passaggio alla generazione seguente». Gotman precisa: «Il prelievo di una somma forfettaria sull'ammontare liquido dell'eredità perché sia distribuita a ciascuno dei figli è quasi una costante della sua appropriazione. Come dice molto bene una erede, è un "riflesso"» (1989, p. 147). Si ritrova qui l'elemento di spontaneità presente anche in tutte le forme di dono. Si constata dunque il primato concesso al «dare» rispetto al «ricevere», l'importanza della circolazione, la sottomissione del bene al legame. Quest'ultimo punto si manifesta in molti modi: nel fatto che alcuni trasmettono immediatamente il bene a loro volta; ma anche in tutti gli altri usi dell'eredità, che sono al di fuori delle spese ordinarie: si rispetta lo spirito di colui che ha donato, o si pensa ad acquisire qualcosa che potrà «restare» nella famiglia in seguito eccetera. Quasi nessuno fa «quel che vuole» di una eredità, nel senso di spenderla senza essere influenzato dal legame con la persona deceduta e con la famiglia. Il valore di legame dell'oggetto determina il suo valore d'uso. L'eredità finisce il più delle volte per essere trasmessa a sua volta e spesso l'erede cerca di lasciare più di quanto abbia ricevuto. In un certo senso, si pone dunque al servizio del dono ricevuto, invece di appropriarsene. Si tratta proprio di un sistema di dono. Ciò implica una nozione di chiusura all'interno del sistema di trasmissione, che si traduce nell'importanza attribuita al fatto che le cose «non escono» dalla famiglia, soprattutto quelle più intime. A proposito di coloro che donano subito ai figli, Gotman afferma che «donare di nuovo significa allontanare da sé pur conservando nella famiglia (...), passare la mano e fare la catena» (1989, p. 148). E' donare senza perdere completamente. L'eredità fa parte dei sistemi di dono non circolari, ma è un modo di rendere quel che si è ricevuto, anche se non mediante un ritorno alla fonte, alla stessa persona. E' la specificità di ciò che circola sotto forma di trasmissione. Ma anche fare dei bambini significa restituire quel che si è ricevuto dai genitori, ed è anche il dono più bello che si possa fare ai propri genitori: «renderli» nonni! Ciò non costituisce dunque veramente una eccezione alla regola della circolarità del dono, per cui ogni dono tende a ritornare prima o poi al suo luogo d'origine ("original homeland") (Hyde, 1983, p. 147). Donare ai propri figli e alla propria famiglia, donare a monte e a valle, è in un certo senso equivalente, simmetrico. Questa «circolarità rettilinea» non può essere rappresentata graficamente, ma è nondimeno reale.

"E la dilapidazione?" (11) - Naturalmente, ci sono coloro i quali dilapidano l'eredità, l'eccezione che conferma la regola, poiché dilapidare significa uscire dal sistema. Il dilapidatore e la dilapidazione sono realtà che esistono con riferimento al sistema di trasmissione familiare o mercantile. Si dilapida un capitale. Si smette di farlo fruttare. Se situiamo questo gesto o questo comportamento nel contesto del dono, in altri termini del ciclo «dare, ricevere e ricambiare», il dilapidatore è qualcuno che si blocca sul secondo termine. Ha ricevuto troppo, soffre di una sorta d'indigestione del ricevere (dunque «rimette»...) e risulta incapace di fare quel che va fatto normalmente in un contesto mercantile - cioè continuare a ricevere sempre di più, in altri termini investire il suo capitale, farlo fruttificare - oppure in un contesto familiare: dare a sua volta, trasmettere. Allora non dà l'eredità a nessuno, la fa uscire dal circuito, le toglie ogni valore: valore di scambio, d'uso, di legame. Il dilapidatore, come il suo contrario, l'avaro, è incapace di far circolare le cose nel loro circuito «normale», cioè nel circuito in cui le ha ricevute. L'avaro le trattiene, il dilapidatore le espelle dal circuito in cui si trova e nel cui ambito esse dovrebbero circolare. L'avaro trattiene il denaro, solo elemento del sistema mercantile che abbia la funzione di circolare sempre, senza consumo finale, che è la fine di tutto ciò che circola nel circuito mercantile mentre, nel sistema di dono, le cose circolano eternamente, in particolare nella trasmissione. Ciò permette di ricordare che spesso un po' di dilapidazione accompagna il dono, un po' di eccesso, di follia, un di più che significa prendere le distanze rispetto all'uso o al valore di scambio dell'oggetto. E' l'eccesso che significa che la cosa circola come dono, come illustra ottimamente la confezione dei regali. Nel contesto del dono, la distruzione non si chiama dilapidazione, rappresenta il supplemento che accompagna ogni dono e costituisce l'alimento specifico del rapporto; su questo punto essa è simile al potlàc che è dilapidazione soltanto per gli occidentali, i quali analizzano il fenomeno attraverso il modello mercantile. Il potlàc consisteva nell'espellere le cose dal loro circuito mercantile, ragion per cui è stato proibito dal governo canadese: «Il potlàc è stato considerato dalle autorità canadesi come uno spreco, distruttivo dell'iniziativa economica e della morale; in altri termini, esso sbarrava la strada allo sviluppo e alla modernizzazione» (Belshaw, 1965, p. 21). Non c'è dilapidazione nel potlàc perché le cose restano nel circuito, hanno un senso nella rete cui appartengono, anche in quanto esse

vengono distrutte. Ma quando la dilapidazione si presenta da sola, allora essa è in qualche modo un dono fatto a nessuno, un dono che cerca un donatario, e manifesta forse una incapacità di entrare in una rete di dono, un dono deviato dalla sua rete d'origine, un modo di «disinserirsi» da una rete. Dilapidare il proprio capitale, significa anche rovesciare il destino normale di un capitale che è quello di fruttificare, di accrescersi, di sprofondare il detentore nel secondo termine del ciclo: ricevere sempre di più, senza fine, senza dare né ricambiare. Per venirne fuori, si dilapida, si dà a «nessuno» o al caso (gioco) e così si fa saltare la logica chiusa del «ricevere». Oppure si dilapida per dimostrare che è il legame che conta, non il bene. Esistono vari casi ma ad ogni modo, la dilapidazione probabilmente è una perversione della gratuità (12). Quando si domanda a un dilapidatore perché si considera tale, egli ricorda sempre doni da lui fatti per i quali non ha avuto riconoscenza, gratificazione come avrebbe potuto aspettarsi. Non si tratta di reciprocità ma di riconoscenza. Sia che abbia dato in modo più o meno obbligato, senza che il gesto venisse davvero da lui, sia che abbia cercato di «comprare» delle amicizie o semplicemente della «compagnia», sia che abbia dato a qualcuno che non lo «meritava» eccetera. In altri termini, la dilapidazione è un dono perduto, anche come dono. - LA FAMIGLIA: UN SISTEMA DI DEBITI La tesi secondo la quale il legame familiare - così come la sfera dei rapporti personali in generale - si ridurrebbe sempre più agli scambi affettivi, perdendo le sue altre funzioni di scambio, è oggi contestata e smentita da tutte le ricerche sulla famiglia. In una famiglia e nella parentela circola ben altro che dell'affetto. L'utile, il necessario, il gratuito, il rituale vi si mescolano allegramente (o drammaticamente) in una rete di legami inestricabili che costituisce un sistema di debiti che non si può epurare dei suoi aspetti utilitari né ridurre a questi ultimi. All'altro estremo, qui si può vedere solo la spartizione, residuo di una concezione comunitaria nella quale gli individui non sono autonomi. La famiglia attuale è composta d'individui e, in questo contesto, la spartizione appare come una modalità del dono nel senso che c'è abbandono volontario degli oggetti: esperienza fenomenologica fondamentale del dono, anche se tale esperienza assume forme diverse. E' il cuore del dono moderno. I valori monetari vi sono irrimediabilmente immersi nel valore di legame, in una esperienza in cui la pena che ci si è dati assume un valore. Entrano qui in

«linea di conto» valore di scambio, talvolta; valore d'uso, spesso; valore di legame, sempre. Poiché la famiglia è al cuore del dono, non stupisce che proprio in essa si ritrovino gli usi più negativi, ovvero più perversi del dono, che essa sia anche il regno del dono avvelenato. Ci si può anche chiedere se la maggior parte dei problemi psicologici non si traducano nei comportamenti di dono. La psicoanalisi ha rivolto un'attenzione particolare a questi doni perversi, e la letteratura fornisce numerose illustrazioni di questi doni, in particolare tra genitori e figli, doni che mirano a impedire la conquista dell'autonomia, a legare i figli alla madre eccetera (13). Poiché il dono tocca quel che c'è di più essenziale nel legame sociale, sarà necessariamente influenzato dallo stato dei rapporti tra le persone. Pur riconoscendo l'importanza di questi problemi, in questa sede non ci siamo interessati di questo aspetto del dono nella famiglia. Non ci siamo chiesti in che modo il dono venga utilizzato in un rapporto nevrotico, ma piuttosto come operi in un rapporto «normale» e abituale, e quale ruolo vi svolga. D'altronde ci si può chiedere se, a forza di trattare casi «contorti», una certa letteratura psicoanalitica non introduca, nei confronti del dono, una tendenza che porta ad auspicare che ogni persona si liberi del dono, dal momento che la liberazione dal debito nei confronti dei genitori è considerata come l'equivalente dell'accesso all'autonomia. Per una via completamente diversa, questo approccio psicoanalitico converge con la concezione mercantile del dono, che lo vede nella prospettiva del debito di cui bisogna sdebitarsi per essere libero. A partire dall'analisi dei soli casi patologici, è facile elaborare una concezione errata del funzionamento normale del dono; così fanno i sociologi utilitaristi che generalizzano a tutta la vita anteriore della coppia la situazione di «regolamento di conti» che accompagna spesso la rottura. Certi psicologi hanno tentato di elaborare una terapia familiare una delle basi della quale è il ripristino di rapporti di dono «normali», dedicando un'attenzione particolare ai doni e giocando su questo registro. Così, secondo Ivan Boszormenyi-Nagy (1991) (14), si deve tutto al bambino appena nato ma progressivamente il rapporto di debito s'inverte, e questo rapporto è inscritto nel «gran libro» dei conti di ogni famiglia. Questo approccio porta a una terapia che attribuisce un ruolo primordiale alla rete familiare (terapia contestuale) e ai valori etici; ma essa resta fondata sull'idea di bilancio e di debito di cui ci si deve sdebitare. Noi crediamo al contrario che se lo sdebitamento costituisce davvero una via importante di liberazione, come nota Salem (1990, p. 64),

non è la sola. Ci si può impegnare anche in un processo di liberazione nei confronti dello stato di debito stesso, e giungere a uno stato di debito volontariamente mantenuto, non senza crisi, non senza riferimento al bilancio, ma senza che quest'ultimo ne sia l'elemento essenziale. Come suggeriva già negli anni quaranta lo psicoanalista svizzero Charles Odier, bisogna «sottrarre al bilancio» i rapporti individuali (citato da Salem, p. 68). In altri termini, esiste una sorta di stato superiore del dono che è uno stato di debito rovesciato rispetto all'ossessione del bilancio. In tale stato i partners o gli agenti ritengono tutti di dovere molto agli altri, il che all'evidenza è matematicamente impossibile. Ciò non esclude il ricorso episodico al bilancio contabile, sempre presente all'orizzonte. La circolazione del dono nella sfera domestica costituisce un campo di ricerca immenso, di cui speriamo di aver dato un'idea in questo capitolo. Si possono distinguere quattro livelli per l'analisi della circolazione del dono in questo settore: 1) Alla base, l'universo degli scambi e supporti affettivi. E' il fondamento che regge il resto dell'edificio, ma che non bisogna isolare come un gioiello liberato delle scorie dell'utilitario. 2) I servizi resi, gli aiuti, gli innumerevoli gesti quotidiani compiuti dai membri della rete a favore di un altro membro a sua richiesta o no. 3) I doni di trasmissione che legano tra loro le generazioni, doni inscritti in una catena senza fine, che mette in evidenza il carattere fondamentalmente non reciproco del dono. 4) I doni rituali: i regali e tutti gli eccessi, le follie al di là di ciò che è dovuto, al di là di ciò che è utile, al di là delle regole del rituale stesso. In effetti, quest'ultimo tende costantemente a includere tali comportamenti in una sorta di procedura, a fare in modo che siano attesi, mentre la sorpresa ne è un elemento essenziale, di modo che si gioca continuamente con il rituale pur rispettandolo.

CAPITOLO 3 QUANDO LO STATO SOSTITUISCE IL DONO La merce non ha mai preteso di avere connivenze con il dono. In base al postulato per cui ogni attore entra in rapporto con l'altro al solo scopo di massimizzare i propri interessi materiali, l'ideologia mercantile valorizza la possibilità di abbandonare una relazione senz'altra forma di processo quando il bene che se ne ricava non è soddisfacente. Messa in evidenza da Hirschman (1970), questa possibilità di "exit" (o defezione), di uscita silenziosa, senza parole, costituisce il modello al quale si conforma la quasi totalità dei consumatori. A stare a un sondaggio della U.S. Education Foundation, il 96 per cento dei clienti insoddisfatti non dice niente, cioè non ricorre alla parola, ma il 90 per cento opta per la defezione: non tornano (1). Non così nella sfera statale, per eccellenza universo della parola, il cui statuto storico rispetto al dono è ben diverso da quello del mercato. Si potrebbe aggiungere addirittura che qui la questione è capovolta. Lo sviluppo dello Stato-provvidenza è stato visto spesso come un felice sostituto del dono, sostituto che riduce l'ingiustizia e restituisce la dignità, in contrasto con i sistemi di redistribuzione precedenti fondati sulla carità. Lo Stato non nega l'altruismo, come il mercato; ripartisce, organizza, distribuisce nel nome della solidarietà tra i membri di una società, solidarietà più estesa di quella delle reti primarie e più giusta di quella delle reti di carità private. Nella società moderna, una proporzione importante delle cose e dei servizi che circolano passa per questo circuito dello Stato, per la sfera pubblica. In che cosa consiste questo modo di circolazione statale rispetto al circuito del dono? Quali sono i suoi rapporti con il dono? Numerosi servizi che in precedenza imboccavano i circuiti delle reti di carità o dei legami personali tra parenti sono ora accessibili tramite lo Stato e il suo apparato di redistribuzione. Certi autori, e non dei minori, giungono addirittura a

pensare che questo apparato possa sostituire il dono nella società moderna, dal momento che le forme tradizionali del dono sono sempre più residuali. A cominciare da Mauss stesso, il quale, pur riconoscendo l'importanza del dono in ogni società, considera che nella società occidentale il dono assume soprattutto la forma della redistribuzione statale, che la previdenza sociale è in qualche modo il prolungamento moderno del dono arcaico e che le altre manifestazioni di dono, al di fuori di questo contesto, sono destinate a essere sostituite da forme miste di circolazione in cui il dono tradizionale sarà legato in un modo o nell'altro all'azione dello Stato. La redistribuzione statale rappresenterebbe in tal caso la forma compiuta e specifica che assume oggi il dono, nonché il suo futuro. L'imposta sostituisce il dono. D'altronde è quel che noi tutti pensiamo quando, a una organizzazione che sollecita il nostro contributo per una causa qualsiasi, rispondiamo: «Non credete che con le tasse io dia già abbastanza?» Sviluppando la riflessione di Mauss, Richard Titmuss (1971) in un libro sul dono del sangue, riprendeva questa idea nel difendere la tesi che l'intervento dello Stato stimolasse l'altruismo dei cittadini facendo appello alla solidarietà tra estranei tra loro sconosciuti, forma superiore del dono, inesistente nelle società arcaiche. Il dono del sangue gli serve per illustrare e dimostrare questa tesi. Senza negare l'importanza di queste forme miste, intendiamo sostenere l'idea che: • anche se lo Stato intrattiene spesso stretti rapporti con il dono, non fa parte dello stesso universo, ma di una sfera che si basa su princìpi diversi; • non soltanto lo Stato non appartiene a questo settore, ma può anche avere, e spesso ha, effetti negativi sul dono. Per abbozzare l'analisi dei rapporti tra il dono e lo Stato, partiremo dalla tesi di Titmuss sul dono del sangue. - IL DONO DEL SANGUE Il punto di partenza di Titmuss è il rapporto con degli sconosciuti che egli analizza attraverso il dono di sangue. Dono attuale, se ce n'è uno, poiché, come il dono degli organi, non esisteva ancora all'epoca in cui Mauss scriveva il suo "Essai"! Attuale anche, più seriamente, perché, a differenza del dono di organi, il dono di sangue è in parte commercializzato in numerose società. Tuttavia, per questo nuovo «prodotto», vari paesi optano per il dono piuttosto che per il mercato; e

allora il passaggio da chi dona a chi riceve è gestito dallo Stato, in collaborazione con la Croce rossa. Non soltanto questo dono è fatto a sconosciuti, ma si può pensare anche che spesso, se si conoscessero, «tanto chi dona quanto chi riceve forse rifiuterebbero di partecipare al procedimento, per motivi religiosi, etnici, politici o altri» (Titmuss, 1971, p. 74). In Francia questo carattere anonimo è stato ulteriormente accentuato, perché l'anonimato è legalmente obbligatorio e costituisce uno dei tre princìpi fondamentali del sistema francese, dove gli altri due sono il volontariato e l'assenza di profitto. E' dunque proibito ai genitori donare il sangue ai figli, nonché ai membri della famiglia, il che provoca d'altronde numerose controversie nel contesto dei pericoli di contaminazione con il virus dell'aids. Si è dunque lungi da un rapporto di tipo comunitario poiché è al contrario spesso grazie all'anonimato che il dono può essere ricevuto. E' l'artificio dell'ignoranza che rende possibile la circolazione tra chi dona e chi riceve: si può immaginare un dispositivo più lontano dal legame primario ritenuto essenziale al fenomeno del dono dalla maggior parte degli autori? O più lontano dalle descrizioni abituali del dono nelle società arcaiche, come sottolinea del resto Titmuss: "A differenza del dono delle società tradizionali, il dono gratuito di sangue a sconosciuti non comporta né obbligo consuetudinario o legale né determinismo sociale, né potere arbitrario, dominazione, costrizione o coercizione, né vergogna o senso di colpa, né imperativo di gratitudine o di penitenza?" (p. 239). Il dono del sangue ha il «dono» di rimettere in discussione i rapporti generalmente stabiliti tra dono e legami sociali, come il fatto, sottolineato in particolare da Hyde (1983) e Sahlins (1976), che il dono circola su legami comunitari, che presuppone la prossimità sociale, la socialità primaria eccetera. Il dono di sangue è unilaterale, senza restituzione e dunque, secondo Sahlins, appartiene al tipo di dono fatto soltanto a parenti, a familiari. Ora, esso viene fatto ad estranei: questa constatazione è alla base della riflessione di Titmuss. Andiamo avanti. Come il dono di organi, il dono di sangue è gestito da un sistema d'intermediari retribuiti appartenenti all'apparato pubblico, e il sangue perviene al destinatario grazie a questa organizzazione, assimilandosi così a tutti gli altri prodotti ricevuti dal malato ed entrando a far parte delle cure, come il siero. Per chi lo riceve il sangue fa parte di un sistema anonimo di circolazione tra estranei: questa almeno è l'ipotesi che si può fare, perché Titmuss tace su questo punto. Egli tratta chi riceve soltanto come lo farebbe un economista, cioè astrattamente (la «domanda» di sangue, stimata in numero di litri eccetera), benché abbia

intitolato il suo libro "The Gift Relationship". Egli nota tuttavia che in un tale contesto, non esistono gratitudine né manifestazioni di altri sentimenti da parte di chi riceve (p. 74). Il sangue non è ricevuto come un dono, ma come una merce, o come una cosa alla quale si ha diritto come cittadino. Non c'è riconoscenza. In definitiva, soltanto l'ambiente immediato del donatore, il primo intermediario al quale egli dona, rientra in parte nel dono: la Croce rossa vive di doni, è un organismo né statale né mercantile composto in gran parte di volontari. Che il sangue sia raccolto da un tale organismo è senza dubbio essenziale al mantenimento di una dose minima di dono in questo sistema. In un certo senso, il dono del sangue è un dono che non è ricevuto. Rispetto al ciclo «normale» del dare, ricevere e ricambiare, nel caso del dono di sangue esiste solo il primo momento. Infatti se il sangue non è ricevuto come dono, nemmeno è restituito, o in piccola misura, e in ogni caso non lo si dona in primo luogo perché sia restituito. Le motivazioni del donatore sono soprattutto di ordine morale (p. 239). Anzi egli spera di non aver mai bisogno di ricevere; ma ha fiducia che altri farebbero come lui se un giorno egli dovesse averne bisogno. E' essenziale tuttavia che il donatore sappia che il sangue che egli dona è donato, e non venduto a chi lo riceve, anche se può essere oggetto di transazioni commerciali presso gli intermediari, cioè anche se la circolazione intermedia non rientra nel sistema del dono. Certe imprese sfruttano questa situazione integrando il dono in un sistema misto di dubbia moralità. Così in Brasile una impresa raccoglie il sangue per curare gratuitamente gli emofiliaci; o almeno è quel che proclama; ed è anche quel che fa... in parte. Infatti la quantità di sangue raccolta è così grande che una percentuale importante - il surplus - è venduta ad altri fini. Il sistema crollerebbe se i donatori lo sapessero. Il dono di sangue è il dono unilaterale per eccellenza; e a ragione, si è tentati di aggiungere, perché questo dono è pericoloso. Trasmette malattie. Il dono avvelenato è presente per eccellenza in questo gesto. All'inizio era frequente che si contraesse una epatite B in seguito a una trasfusione sanguinea; oggi è l'aids che terrorizza sempre più. Negli Stati Uniti il numero d'individui che si «autodonano» il sangue, messo in riserva presso una banca di sangue personalizzata, aumenta costantemente. Si tratta dunque di un caso limite e ci si può anzi chiedere perché qualificare dono tale gesto. Se applicassero rigorosamente le loro definizioni né Mauss (non c'è obbligo di restituzione, punto di partenza

della sua riflessione), né Hyde, né Sahlins potrebbero includerlo nel dono. Infatti resta un solo criterio: il gesto volontario e «gratuito» del donatore che lo vive non già come un obbligo statale, né come un affare, ma come un dono. Una volta fatto il dono, una volta che sia stato ricevuto dalla Croce rossa, il sangue diventa un prodotto come tutti gli altri. Eppure quella piccola differenza iniziale basta perché Titmuss constati una differenza importante tra questo sistema e i sistemi mercantili basati sul sangue pagato. E' la grande conclusione della sua opera, dopo un confronto tra il sistema di dono inglese e il sistema commerciale americano: quale che sia il criterio economico o amministrativo utilizzato, il sistema in cui l'offerta proviene da un donatore piuttosto che da un venditore è superiore, egli scrive. Il pericolo di trasmissione di malattie infettive è minore se il sangue è donato, secondo Titmuss. Il sistema è dunque più sicuro per chi riceve; ma lo è anche per chi dona a causa degli abusi che si verificano quando il sangue è pagato. Citiamo ancora Titmuss che conclude, dopo un confronto sistematico tra i due sistemi (quantità di sangue, qualità, perdite e sprechi durante le numerose manipolazioni amministrative e professionali, costi): «Quale che sia il criterio adottato - efficienza economica o amministrativa, costo unitario per il malato, purezza, qualità, sicurezza - il mercato è colto in fallo» (p. 205). Così, quando si introduce un sistema di remunerazione del sangue, ciò ha l'effetto di diminuire la quantità complessiva di sangue disponibile perché numerosi ex donatori, considerandosi ingannati, smettono di dare il loro contributo e il numero di donatori che cessano di donare è superiore a quello dei nuovi venditori. Il «consumatore» è dunque perdente secondo tutti i criteri economici abituali, compresa la libertà di scelta tra sangue donato e sangue venduto, poiché la quantità di sangue donato diminuisce (3). Questa differenza iniziale infima tra i due sistemi - il gesto del donatore verso una organizzazione volontaria all'inizio della catena - provoca dunque trasformazioni che si ripercuotono su tutta la catena, anche se la coscienza del dono non esiste più in alcuno dei partecipanti; in altri termini, anche se il sangue circola in un circuito e in tipi di legame dai quali il dono è assente. E' come se lo spirito del dono infuso all'inizio riuscisse a circolare anche dopo essere scomparso in tutti gli altri partecipanti, compreso chi riceve alla fine. Ora, questo spirito del dono non sempre circola nel sistema: è il meno che si possa dire esaminando vent'anni dopo lo studio di Titmuss, l'"affaire du sang" in Francia. In un libro che reca questo titolo Anne-Marie Casteret mostra come lo spirito del donatore, presente all'inizio della

catena, sia pervertito dagli intermediari statali e come, in questo caso, il sistema di dono si riveli meno efficiente del sistema mercantile. Se Titmuss riprendesse oggi la sua analisi comparando il sistema americano non più con quello inglese ma con il sistema francese degli anni ottanta, le sue conclusioni sarebbero opposte: il sistema francese, fondato sul dono e sull'assenza di profitto, pur essendo molto caro, ha contribuito, come sapevano i responsabili, a rendere sieropositivi centinaia di emofiliaci distribuendo loro prodotti contaminati, mentre «le ditte private, per paura dei processi, non hanno aspettato una direttiva ufficiale per applicare misure di prevenzione» (Casteret, 1992, p. 229), e distruggere scorte importanti di prodotti sospetti. Che conclusioni trae Titmuss dall'analisi di quel dono moderno che è il dono del sangue? Da una parte, che un sistema fondato sul dono è superiore al mercato, conclusione che occorre oggi relativizzare; dall'altra, che questo sistema è anche fondamentalmente diverso dal dono arcaico perché è un dono volontario, senza obbligo di restituzione, a un estraneo. Titmuss aggiunge che questi tratti sono caratteristici di ciò che circola nella sfera pubblica; che il sistema pubblico, a differenza del mercato, avrebbe la proprietà di diffondere nella società lo spirito di dono; che solidarietà statale e dono si amplificano e si alimentano a vicenda. Comparando gli Stati Uniti e l'Inghilterra, dove il dono di sangue è interamente controllato da un sistema misto dono-sistema pubblico, egli giunge alla conclusione che l'esistenza del National Health Service vi stimola la dimensione altruistica degli esseri umani, mentre il sistema americano la riduce. Introducendo il dono agli «estranei», lo Stato incoraggia il resto della società a seguire il suo esempio (p.p. 225 seg.). Ragion per cui, secondo Titmuss, più aumenterà il livello di vita della società, più si passerà dalla vendita del sangue al dono come forma dominante di circolazione. Mentre in generale si pretende che il dono sia una forma arcaica e che il mercato rappresenti il futuro per il sangue, Titmuss capovolge il ragionamento abituale. Perché? Perché quel che gli importa soprattutto è che, nel caso del sangue, si dona a sconosciuti. «Quando il dono giunge a comprendere gli sconosciuti, comporta un cambiamento di valori che rafforza la dimensione altruistica del rapporto di dono». Questa possibilità di donare agli estranei è una caratteristica del dono moderno e sarebbe stimolata dallo Stato, mediante l'assunzione pubblica del dono del sangue che permette «alla gente comune di considerare il gesto del dono come un valore morale anche se si situa all'esterno delle loro reti familiari e dei loro rapporti interpersonali» (p. 226).

Titmuss ammette che questa teoria è in parte contraddetta da ciò che accade nei paesi industrializzati. Infatti là dove il ruolo sociale dello Stato è più importante, come in Svezia, si tende piuttosto a vendere il sangue (p.p. 186 seg.). Ciò porta a chiedersi che cos'è che rende il dono del sangue così diverso dal mercato e in quale misura, come afferma Titmuss, la differenza dei risultati dipende dalla presenza dello Stato. Tanto più che lo studio delle realizzazioni dello Stato-provvidenza da qualche decennio non va affatto nel senso delle conclusioni di Titmuss, come dimostra drammaticamente l'"affaire" del sangue contaminato in Francia. E' quel che bisogna ora prendere in esame prima di rispondere alla domanda. - LA PERVERSIONE DEL DONO AD OPERA DELLO STATO Il dono di sangue è un atto individuale il cui «prodotto» è gestito dallo Stato o da una organizzazione professionale perché sia trasmesso a chi riceve. La conclusione di Titmuss si basa sull'analisi di questo atto. Ora, questo dispositivo non è il modo abituale in cui il sistema pubblico entra in rapporto con il dono. In realtà, lo Stato è portato a collaborare molto più spesso - quasi in continuazione - non già con donatori isolati che si rivolgono a lui e gli chiedono di far pervenire il proprio dono fino a chi riceve, come nel dono del sangue, bensì con reti d'individui uniti da legami personali, o con volontari, con i quali collabora a beneficio di terzi. In quest'ultimo caso, lo Stato può sia fare direttamente appello a questi volontari, sia passare attraverso associazioni con le quali collabora. E' questo il caso nel settore sociale e sanitario, e nella maggior parte delle funzioni di redistribuzione dell'apparato statale che implica ben altro che un puro e semplice trasferimento finanziario. Secondo una espressione diventata corrente negli Stati Uniti, lo Stato e questi organismi sono «coproduttori» di servizi per cittadini, malati, «beneficiari». In quel paese, «a tutti i livelli di governo, il volontariato nella fornitura di servizi è molto diffuso» (Brudney, 1990, p. 4). E contrariamente a quel che si sarebbe potuto credere fino a non molto tempo fa, le inchieste dimostrano una forte crescita della partecipazione di volontari durante lo scorso decennio. Per quel che riguarda i rapporti tra il settore pubblico e le reti primarie come la famiglia, essi sono costanti. Anche se i servizi resi in precedenza attraverso il canale dei legami personali sono ora in parte dispensati dallo Stato, i legami personali sono evidentemente lungi dall'essere scomparsi: lo voglia o no, spesso anzi senza che ce ne si renda conto, lo Stato collabora con un sistema di dono (che passa attraverso l'aiuto familiare

intra e intergenerazionale, il vicinato, l'amicizia e innumerevoli e molteplici pratiche di aiuto e aiuto reciproco in tutti i campi) quasi ogni volta che dispensa direttamente servizi ai cittadini; almeno al di fuori dei luoghi istituzionali separati dalla società. E anche in tali istituzioni, si ritrovano organizzazioni di volontari spesso molto attive ed efficienti (in particolare in quei centri da poco istituiti per malati in fase terminale). Inoltre, ci si rende conto sempre più che anche all'interno di tali istituzioni, i valori altruistici sono indispensabili al funzionamento dell'organizzazione. Il dono vi svolge un ruolo importante per numerosi impiegati, almeno quelli che sono a contatto diretto con la clientela, cioè quelli che si situano alla fine della catena d'intermediari avviata dai ricevitori delle imposte. Anche se i servizi sono dispensati nel quadro di un diritto dei cittadini da impiegati retribuiti a tal fine, molti di questi ultimi finiscono con l'aggiungere il dono a questo diritto. E' un processo inverso rispetto a quello del dono di sangue, in quanto il dono non si ritrova all'inizio ma alla fine della catena, nel momento in cui il denaro, prelevato attraverso l'imposta, si trasforma in servizi. Bisogna ricordare che a lungo, prima della professionalizzazione, l'altruismo era lo stato d'animo dominante presso questi impiegati del settore pubblico. Aline Charles (1990; confronta in particolare p.p. 139 e seguenti) descrive bene il confronto tra i due modelli nel caso di un ospedale per bambini di Montréal. Il volontariato era all'inizio l'ideale e i volontari definivano gli obiettivi che tutti dovevano realizzare, anche i salariati. Con l'ascesa del professionalismo, avviene un capovolgimento: il volontariato diventa segno d'incompetenza ed è assoggettato, alla fine, ai bisogni dei professionisti e più in generale, dei salariati. Come dimostra Charles, questa evoluzione si colloca nel quadro di un più ampio contesto di svalutazione della competenza domestica della donna a vantaggio della competenza uscita dai diplomi. Ora, il servizio ben dispensato presuppone quasi sempre un supplemento non previsto, che rientra nella logica del dono. Il servizio infatti non è un prodotto (Gadrey, 1991). Tocchiamo qui un limite importante dell'approccio professionale basato sempre più su un sapere tecnico e dei protocolli burocratici. E' per questo che la nozione di servizio pubblico resta essenziale al buon funzionamento del sistema; ed essa è «risvegliata», «attivata» dal contatto con gli organismi comunitari. La coabitazione dei due modelli non è facile, poiché lo spirito del dono entra in contraddizione con il principio di uguaglianza che svolge lo stesso ruolo, nel sistema statale, di quello di equivalenza per il mercato. Ora, il dono si basa su un principio diverso:

esso rifugge dal calcolo, il che lo contrappone tanto al principio pubblico di eguaglianza quanto al principio mercantile di equivalenza. Negli anni del trionfo dello Stato-provvidenza, l'apparato statale ha avuto la tendenza a negare questa realtà del dono o a considerarla residuale e destinata a scomparire. Lo Stato credeva che avrebbe sostituito «progressivamente» (ed era per definizione un progresso!) tutte le forme tradizionali di servizi. Nel Québec, documenti governativi prevedevano che nel 2000 le istituzioni si sarebbero fatte carico di tutte le persone anziane, nello stesso tempo obiettivo da raggiungere e situazione ideale! La crisi ha riportato lo Stato-provvidenza a una moderazione e a una modestia molto maggiori, non solo per quel che riguarda la vastità del ruolo, ma anche per quel che riguarda la qualità relativa degli interventi e la loro desiderabilità, sicché oggi si ammette facilmente di aver bisogno di tutte quelle reti che si chiamano «informali». Questo bisogno d'altronde non è soltanto di ordine finanziario, non si tratta semplicemente di «fare economia», come ci si compiace di dire. E' legato anche alla qualità rispettiva dei servizi dispensati dallo Stato e dei servizi resi dalle reti di cooperazione di ogni sorta. Ma anche se lo Stato riconosce oggi l'apporto del settore associativo, e anche se si constata la presenza del dono all'interno del suo apparato, ciò non significa che il suo intervento segua la stessa logica di quella delle reti sociali con le quali collabora. L'osservazione di questa collaborazione dimostra in effetti in modo evidente che i due sistemi non funzionano a partire dagli stessi princìpi. Per esempio, si constata spesso la difficoltà provata dall'associazione volontaria di mantenere con i suoi «clienti» i legami abituali quando essa collabora con il settore pubblico. Così, una istituzione pubblica locale chiede a un'associazione di aiuto alle persone anziane (visite, accompagnamento eccetera) di collaborare con lei nella fornitura dei servizi. L'istituzione pubblica fornisce all'associazione una lista dei suoi clienti e le chiede di fornire a questi ultimi servizi come l'accompagnamento eccetera. Dopo qualche tentativo, la Presidentessa dell'associazione rifiuta di continuare: «Si occupino dei loro clienti; noi abbiamo i nostri vecchi - dice -. Non lavorerò per i loro clienti; ma per i membri della mia associazione farò di tutto; sono come miei figli». E' come se il fatto che una persona anziana sia raccomandata dall'istituzione pubblica, che essa passi per questo canale per ottenere un servizio dall'associazione, impedisse che si stabilisca un certo legame. Certo, ciò non accade sempre, ma le testimonianze sono abbastanza frequenti per mettere in evidenza il fenomeno, che consideriamo rivelatore dell'esistenza di due modelli diversi. Il fatto stesso di essere stato

identificato come un cliente da una istituzione pubblica e di essere presentato a questo titolo all'associazione rende più difficile lo stabilirsi di rapporti di dono e la messa tra parentesi dei rapporti di diritto. Si osserva un fenomeno analogo quando una istituzione pubblica, per avvicinarsi a un ambiente, impiega persone che ne provengono. Invece di ottenere l'effetto di ravvicinamento auspicato tra l'istituzione pubblica e l'ambiente, accade che quelle persone finiscano per essere considerate come degli estranei dall'ambiente stesso dal quale provengono, che la comunità non le riconosca più come sue, almeno nel loro ruolo d'impiegati. Infine, l'"affaire" del sangue contaminato in Francia è una illustrazione spettacolare del fatto che il sistema pubblico possa giungere a trascurare gli interessi della clientela più gravemente di quanto non faccia il mercato. - L'IMPOSTA NON È IL DONO L'intervento dello Stato tenderà sempre a trasformare l'atto gratuito di qualcuno in lavoro non pagato, a cambiarne così il senso, e a effettuare la decostruzione sociale del dono inserendolo in un modello di equivalenza monetaria. Contrariamente a quel che lascia intendere Titmuss, l'assunzione dei programmi sociali da parte dello Stato - che evidentemente resta auspicabile per altre ragioni, come la giustizia - non ha necessariamente un effetto di trascinamento, non stimola necessariamente le «disposizioni altruistiche» dell'individuo. Essa può al contrario rompere delle reti di dono e stimolare comportamenti individualistici o tecnocratici, come dimostra l'"affaire" del sangue contaminato, nei quali il gesto di dono originario è pervertito dagli intermediari. Il meno che si possa dire è che il sistema statale non è un sistema di dono. Inoltre, contrariamente a quel che tendono a credere Mauss e soprattutto Titmuss, sistema statale e sistema di dono non sono «naturalmente» complementari. Ricordiamo che lo Stato adempie il suo ruolo di redistributore in due modi molto diversi: • Lo assolve mediante trasferimenti monetari diretti o indiretti. In tal caso svolge da solo questo ruolo nel cui ambito appare come un intermediario anonimo, altrettanto anonimo quanto il denaro, interamente estraneo ai rapporti sociali. • Ma lo Stato fornisce anche direttamente un numero crescente di servizi: servizi sociali, servizi sanitari, aiuti diversi, sostituendo sistemi di

legami personali di dono o di reciprocità (familiari, di vicinato eccetera). Diventa così dispensatore non di denaro, ma di servizi. In un primo tempo, certo, lo Stato libera il dono. Grazie ai trasferimenti monetari si assume delle responsabilità che liberano i membri delle reti primarie dai loro obblighi. Ma questo effetto positivo può trasformarsi rapidamente nel suo contrario quando lo Stato va oltre la funzione di trasferimento per assumere il ruolo di fornitore di servizi. Cerca allora spesso sia di sostituirsi alle reti, sia di utilizzarle per adempiere la propria missione statale. Non dobbiamo dimenticare infatti che, contrariamente al mercato, lo Stato è detentore di una legittimità per definire i bisogni collettivi; ma per lui è molto più difficile che per il mercato conoscere le preferenze individuali. C'è dunque una duplice «buona» ragione di tendere in permanenza a definire i «veri» bisogni delle persone... al loro posto. Ragion per cui molte organizzazioni fondate sul dono scelgono di avere rapporti minimi con lo Stato. Possiamo ora tornare alla conclusione di Titmuss che presenta lo Stato come il campione del dono alla fine della sua analisi del dono del sangue. Abbiamo visto che tutte le caratteristiche che distinguono il sistema di dono gratuito del sangue rispetto al sistema della vendita si spiegano con il gesto iniziale: il dono libero e gratuito del proprio sangue da parte di una persona. Ora, lo Stato si caratterizza esattamente come il contrario. La genesi dello Stato moderno è consistita nel passare «dal dono all'imposta», per riprendere la frase di Alain Guéry (1983). Ma un dono «imposto» non è un dono; e lo Stato-provvidenza ha prolungato questa tendenza sostituendo sistemi di dono (doni di carità o doni personali) con la previdenza sociale, passando da un sistema di dono a un sistema di diritti. Tutte le risorse che entrano nel circuito statale vi giungono in seguito a una imposizione, a una costrizione (in parte liberamente consentita nel caso dei regimi democratici, dove la rappresentanza precede la tassazione, per riprendere la formula celebre); è esattamente il contrario di un dono volontario. Il dono di sangue non illustra dunque il modo abituale di funzionamento dello Stato, ma una caratteristica particolare situata al di fuori del sistema statale. E' grazie al dono fatto a una organizzazione senza scopo di lucro, la Croce rossa, che questo sistema può avere caratteristiche superiori a quelle del sistema di distribuzione del sangue commercializzato; e non a causa dello Stato. In proposito, non è privo d'interesse notare il cambiamento di vocabolario intervenuto nei servizi pubblici. Questi hanno a poco a poco smesso di dire che essi «rendevano» dei servizi, preferendo affermare che li «dispensavano», mostrando così di tagliare il legame con il circuito del

dono: se non li rendono più è perché sono usciti dalla catena dare, ricevere, ricambiare. Non li hanno ricevuti, li dispensano, e i loro agenti «ricevono» in cambio un salario e non un controdono. Il fatto di aver rotto con questo vocabolario indica il ritiro dai tre momenti entro i quali s'inscrive ogni catena di dono: dare, ricevere, ricambiare. Proprio per questo va mantenuta l'idea fondamentale di Titmuss del dono agli sconosciuti come specifico del dono moderno. Ma l'attribuzione di questo gesto allo Stato sembra inesatta: lo Stato crea rapporti tra estranei, certo diversi dal mercato, ma diversi anche dal dono. Senza contraddire in quanto tale l'idea di Titmuss secondo la quale il dono agli sconosciuti è una innovazione sociale della modernità, questi fatti costringono a introdurre delle sfumature e a porre la questione dei limiti dell'intervento dello Stato-provvidenza in questo processo, limiti oltre i quali il processo si capovolgerebbe. La diffusione del rapporto tra estranei a partire dallo Stato può facilmente produrre effetti perversi se non è accompagnata dalle reti sociali e non è «in fase» con esse. E' quel che ci ha insegnato la crisi dello Stato-provvidenza: la solidarietà statale ha dei limiti che si spiegano con il fatto che lo Stato instaura un diverso tipo di circolazione, caratterizzato dalla ipertrofia dell'intermediario: posto al di fuori del sistema del dono, questi tende a diffondere il suo proprio sistema, i suoi propri valori. D'altra parte ci si può chiedere se il dono di sangue non sia un caso limite dei rapporti tra sconosciuti. Così, le organizzazioni non governative (ONG) nei loro rapporti con il Terzo mondo, dunque con degli estranei, cercano piuttosto di ridurre il numero d'intermediari e di subordinare il loro ruolo a un legame diretto tra chi dona e chi riceve, di avvicinare i donatori di aiuto al Terzo mondo ai beneficiari, di personalizzare il rapporto tra loro prendendo così esplicitamente le distanze rispetto alla «solidarietà delegata» che caratterizza lo Stato. E' questa forse la ragione principale del loro successo. Il donatore sa (4) che il suo dono perverrà a chi ne ha bisogno, che non sarà accaparrato dagli intermediari né intaccato dagli sprechi e dagli alti salari della burocrazia o dalle distrazioni della corruzione. In certi casi si incoraggia il pubblico a donare a un bambino identificandolo, «adottandolo» eccetera. Si ristabilisce così un legame forte tra donatario e donatore, tagliando fuori gli intermediari. Si tratta proprio di rapporti tra estranei, e nello stesso tempo si constata una tendenza a personalizzare il rapporto, almeno simbolicamente, a rendere l'estraneo il meno sconosciuto possibile, il che costituisce una logica opposta a quella dello Stato. Quest'ultimo tende viceversa a prendere decisioni indipendenti dai rapporti e dalle caratteristiche

personali, in funzione di criteri astratti che derivano dai diritti di ciascuno. In tal modo, è l'intermediario che impone la sua logica al donatore e al donatario, i quali si trasformano in «contribuente» da una parte, in «amministrato» o cliente dall'altra, ciascuno dotato di diritti precisi. Tra i due, una serie d'intermediari non guidati dal principio del dono. Al contrario le organizzazioni fondate sul dono creano il legame tra donatori e donatari; tendono a ridurre il numero degli intermediari e a fare in modo che il loro ruolo sia il più possibile affidato ai donatori stessi, cooperanti, organizzazioni senza scopo di lucro eccetera. Riassumiamo le ragioni per le quali la circolazione statale non può essere considerata come un sistema di dono. Il dono è un sistema libero, mentre lo Stato effettua dei prelevamenti obbligatori automatici sui cittadini - l'imposta, come dice la parola stessa - e agisce con i cittadini in virtù di leggi, regolamenti e norme prestabilite, avendo come obiettivo e ideale quello di trattare ogni amministrato nello stesso modo. Lo Stato ha orrore della differenza, fonte potenziale d'ineguaglianze e preferenze soggettive. Viceversa, il dono vive solo di questo: affinità, legami privilegiati, personalizzati, che non solo caratterizzano per definizione i rapporti personali ma sono anche alla base delle organizzazioni il cui funzionamento si basa sul principio del dono. Anche quando si applica agli estranei, il dono è un sistema di circolazione delle cose immanente ai legami sociali stessi, mentre la circolazione statale avviene in un sistema posto al di fuori dei cittadini e dei loro rapporti. D'altronde si ritrovano i cittadini solo all'inizio, a titolo di contribuenti, e alla fine, a titolo di beneficiari, sbarazzati il più possibile delle loro caratteristiche personali, dal momento che lo Stato incontra grandissima difficoltà a «trattare» le differenze personali: ne è disturbato, mentre esse costituiscono al contrario la fonte del dinamismo del sistema di dono. Nella sua analisi del dono del sangue Titmuss ha confuso sistema di dono e sistema statale. Come Mauss (5), egli ha creduto di vedere nella previdenza sociale moderna l'equivalente dei sistemi di dono arcaico. Ora, se è vero che questi sistemi collettivi di assicurazione, pubblici o privati, adempiono funzioni assunte dal dono in altre società, non se ne può dedurre che i due sistemi si basino sugli stessi princìpi, né che siano naturalmente complementari. Passando dal dono all'imposta o all'assicurazione, si è lasciato sfuggire il gesto del donatore, il rischio di un'azione la cui restituzione non è mai garantita.

IL DONO AGLI SCONOSCIUTI Non tutti i rapporti tra estranei assumono la forma del mercato: esiste una categoria di doni che avvengono anche tra estranei, ovvero tra sconosciuti (6). E' questo il caso del dono del sangue, come si è appena visto, ma anche degli scambi retti da quelle che si chiamano le leggi dell'ospitalità, dei doni effettuati dal pubblico in occasione di catastrofi naturali o di certi avvenimenti politici, dei doni di carità, di certe forme di volontariato eccetera. Tutte queste forme di circolazione di beni e di servizi tra estranei funzionano al di fuori del mercato, e d'altra parte senza prendere la strada della redistribuzione statale, sono cioè del tutto volontari, spontanei. Si può addirittura pensare che abbiano una tale importanza nella società attuale - importanza crescente del resto - che diventano una caratteristica propria di questa società: la quantità di beni e di servizi che circola tra estranei su base interamente volontaria, lungi dall'essere un residuo delle società tradizionali, è una caratteristica moderna. Tenuto conto dell'importanza e delle caratteristiche specifiche del settore, noi riteniamo che si tratti di una quarta sfera perché bisogna riconoscere con Titmuss che si tratta proprio di rapporti tra sconosciuti, e dunque non appartenenti nemmeno alla sfera domestica. Né al mercato, né allo Stato, né alla sfera domestica. Il dono agli sconosciuti è in effetti una specificità moderna, un quarto settore tra lo Stato e la sfera privata, che obbedisce almeno in parte ai princìpi del dono e permette d'altronde alla «gente comune di manifestare un altruismo che va al di là della sfera dei rapporti personali», come afferma Titmuss. All'epoca in cui scriveva, cioè prima del consolidamento dello Stato-provvidenza, questo autore non poteva vedere che la solidarietà statale forma un sistema diverso, accanto al dono e al mercato. Paragonando il dono soltanto al mercato, egli poteva credere che la previdenza sociale, meccanismo di circolazione diverso dal mercato, poteva essere un sostituto del dono arcaico e rappresentare la forma specificamente moderna del dono. Proprio così si pensava in Occidente durante i «trent'anni gloriosi», periodo in cui si andava verso la sostituzione di ogni sistema di dono con istituzioni pubbliche simboleggianti il progresso. Ora, senza negare qualsiasi rapporto tra la redistribuzione statale e il dono, importa affermare per prima cosa che sono due sistemi diversi, che lo Stato ha anche una grande complicità con il mercato, e che il sistema statale spesso distrugge i sistemi di dono; pur non facendolo allo stesso modo, lo fa con la stessa efficacia del mercato.

Polanyi è uno dei pochi ad aver colto, sin dal 1944, in "The Great Transformation", questa differenza tra dono e sistema statale. Certo, egli esamina soprattutto gli effetti del mercato e della libertà di contratto sui legami primari: "In pratica questo [l'applicazione della libertà di contratto] significava che le organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della professione e della religione dovevano essere liquidate poiché richiedevano l'obbedienza dell'individuo limitandone così la libertà" (1944 [trad. it p. 210]). Ma Polanyi mette anche in guardia contro le conseguenze negative di una sostituzione completa delle solidarietà con lo Stato-provvidenza quando, nel porre il problema della «libertà in una società complessa», scrive che «la scoperta della società è l'ancora della libertà» [ibid., p. 320]. Non dover niente a nessuno: poter abbandonare un legame sociale e liberarsi di un obbligo come si cambia di commerciante quando non si è soddisfatto. Questa capacità di "exit", analizzata da Hirschman, è la definizione della libertà moderna rappresentata dal mercato e prolungata dallo Stato-provvidenza. Lo Stato presenta almeno altrettante affinità con il mercato che con il dono. Anche se, come riconosce Polanyi, ha assolto funzioni che rientravano in precedenza nelle competenze dei sistemi di dono, lo Stato, non obbedisce alla stessa logica e costituisce veramente un terzo sistema. Riprendendo nello stesso tempo elementi del dono e del mercato, esso si situa quasi a eguale distanza dall'uno e dall'altro; ma la sua azione si svolge tra estranei e attribuisce un ruolo essenziale agli intermediari. Simmel ha descritto a lungo questo sistema che «crea rapporti tra gli uomini, ma lascia gli uomini al di fuori di essi» (1987, p. 373 [trad. it., p. 436]). Questo tipo di legame è la negazione stessa del sistema del dono, ma è caratteristico dello scambio monetario e dei rapporti burocratici. «Quando ci si colloca al livello dello Stato - scrive Hyde - i legami affettivi in grado di bonificare la volontà della persona non esistono più» (1983, p. 267). Lo Stato, pur essendo necessario, non è il futuro del dono moderno. Questo futuro è altrove. Dove? Polanyi distingueva tre sistemi di circolazione delle cose: il mercato, la redistribuzione, la reciprocità. Questo era anche il nostro punto di partenza; ma constatiamo che queste tre categorie sono insufficienti, che un'altra sfera, propria delle società moderne - il dono agli estranei - non fa parte né del mercato, né dello Stato, né della sfera domestica. A un estremo, essa si avvicina allo Stato (vi si trovano organizzazioni con impiegati eccetera) e finisce d'altronde spesso per integrarvisi; all'altro, essa si avvicina alla sfera domestica senza veramente appartenervi (è il caso dei gruppi di aiuto reciproco).

Prima di presentare la sfera mercantile, esaminiamo più da vicino le caratteristiche di questa sfera del dono tra estranei.

CAPITOLO 4 IL DONO TRA ESTRANEI Affrontiamo ora direttamente la sfera propria del dono moderno. I suoi limiti non sono chiari. A un estremo essa sconfina nello Stato: la funzione redistributrice dello Stato ha tratto costantemente alimento da questo settore e dalla sfera domestica, per costituire lo Stato-provvidenza nei ruoli che non siano quelli del trasferimento monetario. All'altro polo, questa sfera del dono moderno si confonde con i rapporti personali e con la sfera domestica. D'altronde essa non è sempre del tutto autonoma e indipendente dal mercato o dallo Stato. Le organizzazioni che la compongono sono spesso, ma non sempre, finanziate in tutto o in parte dallo Stato o dal settore mercantile; ma se ne distinguono per il fatto che il dono in esse è al centro del sistema di circolazione delle cose e dei servizi. Liberati da una parte dei loro obblighi dal mercato e dallo Stato, questo settore e le istituzioni che lo compongono non per questo sono scomparsi, come era stato spesso predetto. Profittando di questo «tempo liberato», le istituzioni come le Chiese hanno modificato le loro pratiche. Altre associazioni, come i sindacati, sono state create per combattere le conseguenze negative del mercato o dello Stato. Quella che viene chiamata la «vita associativa» costituisce un settore estremamente ricco e variato. E' un mondo colorito, in movimento, spesso discreto, anche se è sempre più visibile da qualche anno. E' un mondo di donne, anche se vi si trovano sempre più spesso degli uomini. Secondo tutti gli indici, la sua importanza va crescendo. Negli Stati Uniti, nel 1988, circa 80 milioni di persone hanno dato il loro tempo a una organizzazione, tempo stimato come equivalente a 8,8 milioni di occupati a tempo pieno (Brudney, 1990, p. 2). In Canada, nel 1987, il 27 per cento della popolazione afferma di aver svolto «attività volontaria organizzata», cioè nell'ambito di organizzazioni riconosciute. Queste associazioni assicurano una parte importante dei servizi personali,

in un ambito delimitato dallo Stato da un lato, dalle reti sociali familiari, di vicinato e amichevoli dall'altro. Questo universo tende generalmente ad avvicinarsi allo spirito del dono nella misura in cui la nascita delle associazioni è un atto libero e i loro membri non mirano al profitto. Ma molte di esse si allontanano rapidamente da questo spirito e si avvicinano allo Stato e al mercato nel loro modo di funzionamento. Esse diventano istituzioni che obbediscono alla logica del rapporto salariale e alla «legge ferrea dell'oligarchia» descritta da Robert Michels (1914) nella sua celebre opera sul partito socialdemocratico tedesco. Tali organizzazioni non si basano sul dono e pertanto non costituiscono l'oggetto principale di questo capitolo che s'interessa soprattutto alle associazioni fondate sul principio del dono, raggruppando approssimativamente quel che nell'America settentrionale si designa con l'espressione «organizzazioni comunitarie». Di che cosa si tratta? Nell'ambito di questo insieme molto ampio, la nostra attenzione si volge alle associazioni i cui servizi sono resi da persone non retribuite (a tal fine). Questa definizione non esclude l'impiego, limitato, di personale per i compiti amministrativi; ma il ruolo del personale non comprende la prestazione del servizio in quanto tale. Questo criterio è certo discutibile. Anche certe associazioni di persone retribuite, il più delle volte scarsamente, appartengono a questo universo. Ma questo elemento resta il migliore criterio di discriminazione quando si vogliano separare le organizzazioni che funzionano sulla base di un sistema di dono e quelle che si avvicinano maggiormente a un sistema mercantile o statale nel quale del resto, come si è visto, finiscono spesso per integrarsi. Beninteso, la stessa associazione può assumere forme diverse nel corso della sua storia, e molte associazioni che hanno iniziato come sistema di dono hanno subìto una evoluzione verso un sistema mercantile o statale. Molte organizzazioni caritatevoli sono in realtà delle organizzazioni professionali che operano nella nuova industria del dono. E' impossibile negare che una parte di tali attività è recuperato dal sistema mercantile e professionale, da quel che Guy Nicolas chiama il mercato caritatevole od oblativo, che «fornisce una via di espansione al nuovo ceto manageriale» (1991); ma ciò non è affatto ineluttabile, come si vedrà del resto con l'esempio degli Alcolisti anonimi. Si pone un problema: avendo escluso le associazioni fondate su un rapporto salariale, bisogna tener conto di tutte le organizzazioni il cui servizio è assicurato dai membri, il che porterebbe a comprendere per esempio innumerevoli associazioni per il tempo libero, come quelle di caccia e pesca, i clubs sportivi eccetera? Il solo criterio della non

retribuzione dei membri non è sufficiente. Nel tentativo di far chiarezza, vari autori (1) hanno elaborato tipologie classificando le associazioni secondo le dimensioni, gli obiettivi, il modo di funzionamento eccetera. Una distinzione corrente sarà utile in questa sede: quella che oppone il tipo strumentale e il tipo espressivo. Nel primo caso, l'associazione tende a un obiettivo esterno ad essa; si assegna funzioni sociali, è aperta sull'esterno. Viceversa, le associazioni di tipo «espressivo» mirano soltanto alla soddisfazione dei loro membri e hanno un carattere chiuso. Questa tipologia permette di distinguere tra le organizzazioni fondate soltanto sulla reciprocità e le organizzazioni fondate sul dono. I clubs sportivi fanno parte della prima categoria, i gruppi di aiuto reciproco della seconda. Le associazioni dei due tipi hanno in comune il fatto di essere autonome, libere, di darsi le loro proprie regole e norme, di non essere rette dalla separazione tra produttore e utente che compare con il lavoro salariato. Ma esse si distinguono per il loro obiettivo che influenza il modo in cui funzionano. Bisogna dunque aggiungere un secondo criterio a quello della non retribuzione delle persone che dispensano il servizio: l'associazione deve manifestare anche nei suoi obiettivi un'apertura verso persone che non siano i suoi membri, o il nucleo principale; dev'essere aperta. Così, gli Alcolisti anonimi sono retti dal principio di reciprocità, ma aperti all'alterità. Quando sono «guariti», i membri devono trasmettere ad altri quel che hanno ricevuto, aiutare un alcolista, collocarsi insomma in una catena di dono, il che contrasta con il carattere binario o simmetrico che definisce correntemente la parola reciprocità. Gli Alcolisti anonimi appartengono dunque alle organizzazioni di tipo «strumentale» piuttosto che a quelle di tipo «espressivo». A partire da questi due criteri, è possibile distinguere due categorie, due modelli diversi: • Le organizzazioni fondate sul "volontariato", che rendono liberamente un servizio senza reciprocità; il termine francese è "bénévolat", che significa la stessa cosa: le due parole contengono la nozione di volere ("bon vouloir"), di atto libero, volontario e in fin dei conti gratuito, il che è un modo di definire le modalità di funzionamento di queste organizzazioni rispetto al mercato. • Le organizzazioni di aiuto reciproco, fondate appunto sulla reciprocità, non ristretta, ma generalizzata, aperta, il che esclude le associazioni chiuse su se stesse. In entrambi i casi il servizio è fornito direttamente dai membri, e non da personale impiegato, e si osserva un'apertura sull'esterno, anche se la reciprocità è essenziale nel secondo caso.

Questi due tipi di organizzazioni costituiscono circa un terzo delle associazioni menzionate più sopra (d'altronde è certo che un gran numero di associazioni non è inventariato). Che ruolo svolge il dono in tali associazioni? Quali differenze le distinguono dallo Stato e dal mercato? Una inchiesta condotta nel Québec presso un insieme di organizzazioni di questo tipo operanti nel settore della sanità e dei servizi sociali, ha fatto emergere certi tratti. Prima di descrivere le organizzazioni volontarie presenteremo una organizzazione di aiuto reciproco specifica. - I GRUPPI DI AIUTO RECIPROCO: GLI ALCOLISTI ANONIMI I gruppi di aiuto reciproco sono in genere poco visibili e vengono trascurati dagli altri attori. Lo Stato s'interessa molto di più al volontariato che non ai gruppi di aiuto reciproco, spesso per ragioni contingenti. Così, il governo canadese che ha portato a termine nel 1987 una grande inchiesta sul settore associativo, ha trascurato i gruppi di aiuto reciproco. I media parlano raramente di essi, non essendone sollecitati per raccolte di fondi o per appoggiare richieste di sovvenzioni governative. Quanto alle altre associazioni comunitarie, soprattutto quelle che si allontanano dal sistema di dono e adottano un funzionamento fondato sugli intermediari, esse tendono a diffidare dei gruppi di aiuto reciproco. Infine, anche i ricercatori tendono a dimenticarli nelle loro tipologie delle associazioni senza scopo di lucro (Malenfant, 1990). Eppure la loro importanza è grande e il loro funzionamento degno d'interesse. Non disponiamo di stime globali del numero di persone che hanno aderito a gruppi di aiuto reciproco. Una inchiesta condotta qualche anno fa negli Stati Uniti permetteva di concludere che le dieci principali organizzazioni di aiuto reciproco riunissero circa un milione di persone. Questi gruppi intervengono nei problemi sociali più gravi della società attuale: alcolismo e tossicomanie, depressioni, violenza, situazioni di crisi, fase terminale delle malattie, problemi di esclusione dalla società (aids...). Così, in Francia, la metà dei tossicomani che superano la dipendenza lo farebbero grazie ad associazioni di aiuto reciproco. E sono queste ultime che difendono e apportano effettivamente sollievo e conforto alle persone ammalate di aids (Defert, 1992). Esse costituiscono spesso reti molto vaste in numerosi paesi, ma senza moltiplicare gli intermediari. A differenza di certe associazioni per il tempo libero, esse sono, come affermano Brault e St-Jean, «strumentali piuttosto che espressive» (1990, p. 11). In altri termini, i gruppi di aiuto reciproco mirano alla soluzione di

un problema piuttosto che al piacere del legame. Ma è spesso nel legame stesso che si trova la soluzione del problema. Uno dei princìpi fondamentali dei gruppi di aiuto reciproco è in effetti che l'aiuto è terapeutico, in altri termini che nel gesto stesso di aiutare gli altri si può trovare una soluzione ai propri problemi. Dare e ricevere si confondono. L'azione di questi gruppi si basa sul rifiuto della separazione tra produttore e utente. Essi compaiono spesso a causa dell'insufficienza dei servizi pubblici e della dipendenza creata da questi ultimi verso i professionisti e le istituzioni. Presentiamo i gruppi di aiuto reciproco esaminando più da vicino uno di essi: gli Alcolisti anonimi. Perché proprio questo? Per varie ragioni: • In primo luogo, gli Alcolisti anonimi sono considerati i pionieri, il primo e il modello dei gruppi di aiuto reciproco. Fondati negli Stati Uniti nel 1935, e da allora in crescita continua, essi non si sono mai trasformati in una organizzazione basata sul salariato. Contano oggi circa due milioni di membri in tutto il mondo (Brault e St-Jean, 1990, p. 9). • Questa crescita non si accompagna a strutture burocratiche. Al contrario: il numero d'impiegati per gruppo locale degli Alcolisti anonimi è sempre stato molto basso e tende a diminuire costantemente, essendo passato da 1 per 98 gruppi nel 1945 a 1 per 391 gruppi nel 1961 (secondo "Le Manuel de services des AA", p. 15). Ragion per cui, piuttosto che parlare di crescita come per una organizzazione tentacolare, sarebbe più giusto dire che gli Alcolisti anonimi si moltiplicano o si diffondono, come le cellule... • Gli Alcolisti anonimi sono fonte d'ispirazione per la maggior parte dei gruppi di aiuto reciproco di più recente formazione, anche se questi ultimi non conservano sempre integralmente la filosofia degli Alcolisti anonimi e si trasformano spesso in sistema misto, come i Weight Watchers o i Depressi anonimi che chiedono sovvenzioni allo Stato, cosa cui si oppongono gli Alcolisti anonimi. • Infine, essi sono efficaci. Riescono meglio (il che evidentemente non vuol dire che riescano sempre) di qualsiasi altro approccio o cura degli alcolisti, a tal punto che la maggior parte delle istituzioni per la disintossicazione adottano almeno in parte il loro approccio e che molte di esse se ne ispirano ufficialmente. Ora, non ci può essere alcun dubbio circa gli Alcolisti anonimi: si tratta di un sistema di dono tanto nella filosofia dei gruppi quanto nel loro modo di funzionamento. Una persona che accetti di diventare membro deve riconoscere che è alcolista e non può farcela da sola; che la sua capacità di farcela le verrà dal di fuori, da un dono concesso da una forza superiore

«così come la concepisce». Tale riconoscimento significa che la persona rompe con il narcisismo dell'individuo moderno, che comporta in quest'ultimo una fiducia illimitata nelle proprie capacità personali di essere indipendente e autonomo e un timore altrettanto illimitato di ritrovarsi «assorbito dall'altro». Secondo molti studiosi, questo tratto della personalità tende a essere amplificato nell'alcolista. E' la prima tappa da superare. Segue un certo numero di altre tappe attraverso le quali deve passare ogni membro, l'ultima delle quali consiste nel trasmettere a un altro alcolista il dono ricevuto. La trasformazione delle persone che aderiscono agli Alcolisti anonimi è spesso spettacolare e profonda; essa va ben oltre quella malattia che è l'alcolismo: si dà un di più che supera largamente lo scopo immediato. Abbiamo osservato questa trasformazione e abbiamo anche sentito le testimonianze di alcuni membri, nonché dei loro parenti: «Mia madre è stata salvata dagli Alcolisti anonimi. Era uno straccio. Non soltanto ora non beve più ma la sua personalità è trasformata. Si è aperta. Per esempio, lei che temeva più di ogni altra cosa di parlare in pubblico, ne prova ora un gran piacere». Vediamo più da vicino il funzionamento di questo sistema di dono, al tempo stesso estremamente moderno e molto tradizionale. E' moderno in primo luogo per la libertà dei membri. Per diventare membro basta accettare di non bere per 24 ore. Non viene effettuato alcun controllo: conta soltanto la testimonianza dell'individuo. Si può entrare e uscire da un gruppo degli Alcolisti anonimi, cambiare gruppo, tornare, a volontà. Questi gruppi sono ora diffusi in tutto il mondo. Costituiscono una federazione mondiale, una rete di reti interamente controllata dalla base, e i gruppi stessi si avvicinano alla democrazia diretta. Nessun leader carismatico, nessun guru, ma al contrario l'anonimato, anche per i fondatori degli Alcolisti anonimi, dei quali si conoscono soltanto i nomi di battesimo come per tutti gli altri membri. E' moderno anche perché i gruppi non sono fondati su un passato comune, sulla comunità territoriale o culturale dei membri, ma su un problema specifico. Tutta la letteratura degli Alcolisti anonimi insiste sul fatto che il loro solo scopo è quello di aiutare gli alcolisti, il che del resto è loro spesso rimproverato dai gruppi a tendenza più politica. Ma paradossalmente, come si è visto, la modestia dello scopo è pari soltanto all'importanza dei risultati raggiunti presso gli individui che vi aderiscono, importanza che va ben oltre il fatto di non bere più. Le manifestazioni di questa trasformazione inducono talvolta i professionisti che curano le tossicomanie a dire che gli Alcolisti anonimi sono una sorta di strana setta. E' difficile accogliere tale critica qualora si

osservi più da vicino quel che accade presso gli Alcolisti anonimi. I critici confondono fenomeni propri delle sette con la dipendenza che si può manifestare presso alcuni alcolisti nelle prime fasi della disintossicazione, nel momento in cui aderiscono al movimento; reazioni che si spiegano con lo stato di degradazione fisica e morale allora subìto. Certo, gli alcolisti vivono momenti di febbrilità e stati strani che possono farli assimilare a neofiti, stati che certo possono spaventare dei professionisti poco abituati a osservare tali risultati nella loro pratica. Eppure, nonostante la sua grande modernità, questo movimento possiede anche numerosi tratti tradizionali. Non esiste separazione, non esistono intermediari in questo sistema fondato sulla trasmissione di un dono. Gli Alcolisti anonimi hanno una posizione radicale in proposito. L'alcolismo è considerato una malattia incurabile. Il membro degli Alcolisti anonimi è dunque sempre un alcolista, ma un alcolista che non beve. In tal modo, non s'introduce alcuna separazione tra chi ha appena aderito all'associazione e chi ne è membro da venticinque anni. Non c'è da una parte il malato, il cliente, e dall'altro colui che è guarito, il competente, colui che sa. Gli Alcolisti anonimi spingono molto oltre questo principio. Così un membro che interviene in una riunione deve sempre cominciare identificandosi (solo il nome di battesimo) e aggiungendo «sono un alcolista». Dal nostro punto di vista, questo rifiuto radicale della distinzione produttore-utente (a sua volta all'origine dell'importanza attuale degli intermediari nei sistemi mercantile e statale) (2) è fondamentale e spiega le caratteristiche comunitarie e l'assenza di burocrazia degli alcolisti anonimi nonostante il loro sviluppo spettacolare. Il dono può circolare, non è interrotto, gli intermediari non hanno presa su tale sistema che si basa sul principio comunitario e la democrazia diretta, dato che il presidente di ogni gruppo è eletto dai membri e cambiato ogni tre mesi. Al fine di evitare ancor più ogni «tentazione» burocratica e professionale, gli Alcolisti anonimi diffidano del denaro, quale che sia la sua provenienza. Essi rifiutano ogni somma proveniente dall'esterno, sia dall'impresa privata, sia dallo Stato. Ogni comunità (gruppo) degli Alcolisti anonimi deve autofinanziarsi. Alla fine di ogni riunione, si passa il cappello chiedendo tuttavia alle persone invitate che non sono membri dell'associazione di non dare! Non si fa alcuna pubblicità. La rete mondiale degli Alcolisti anonimi si estende in altro modo: come il dono, essa circola, è trasmessa. Vari altri tratti avvicinano i gruppi degli Alcolisti anonimi a un tipo di funzionamento tradizionale. Così, anche se la comunità non è basata su un

passato comune, le riunioni consistono spesso nell'ascoltare un membro raccontare la sua storia, il suo passato di alcolista. Inoltre, l'importanza delle trasformazioni che avvengono spesso hanno un equivalente soltanto nei riti d'iniziazione descritti dagli antropologi. Infine, la necessità che il membro si abbandoni a una forza superiore dalla quale riceverà la forza di smettere di bere è al tempo stesso tradizionale e moderna. Moderna, nel senso che si tratta di un Dio personale, come ciascuno lo concepisce (gli Alcolisti anonimi insistono molto sul fatto che non costituiscono in alcun modo una religione, che ogni membro crede in ciò che vuole); ma tradizionale, perché è necessario credere in una forza che libera il membro dal narcisismo caratteristico dell'individuo moderno. Come scrive Bateson: «Si trascende il problema con una sorta di doppia resa: si stabilisce una sorta di equivalenza tra l'alcol e Dio, entrambi più forti di noi. (...) Bill W. che ha fondato gli Alcolisti anonimi, era furbo, molto furbo» (1989, p. 177). Gli Alcolisti anonimi attribuiscono una importanza particolare alla necessità per l'Io di «arrendersi», di abbandonarsi, alla resa della personalità. L'individuo che aderisce agli Alcolisti anonimi scambia la coscienza narcisistica solitaria dell'alcolista con la consapevolezza di far parte di un insieme più vasto al quale si abbandona. Egli sperimenta l'estensione della coscienza che accompagna la connessione con un sistema di dono, e che gli dà la forza di affrontare la sua «malattia». Tradizionali e moderni, "Gemeinschaft" e "Gesellschaft", ma basati sull'assenza di separazione e sul dono, gli Alcolisti anonimi fanno saltare queste categorie e rimettono in questione il dualismo occidentale e le alternative tra le quali ci colloca parte degli autori: alternativa tra la sovranità dello Stato e quella dell'individuo (Bowles, 1987), tra l'olismo e l'individualismo (Dumont), più in generale tra lo spirito e la materia, come osserva ancora Bateson (1973, p.p. 307 seg.), uno dei pochi studiosi di scienze sociali che si sia interessato degli Alcolisti anonimi: "Il mondo delle persone sobrie potrebbe trarre molte lezioni (...) dall'esperienza degli Alcolisti anonimi. Se continuiamo a ragionare secondo il dualismo cartesiano, opponendo lo spirito alla materia, continueremo anche senza dubbio a vedere un mondo in cui si oppongono Dio e l'uomo, l'élite e il popolo, i popoli eletti e gli altri, le nazioni tra loro e l'uomo e l'ambiente. E' poco probabile che una specie che possiede simultaneamente una tecnologia avanzata e questo curioso modo di vedere le cose possa durare molto a lungo". Una simile rimessa in questione non viene dalle esotiche filosofie orientali, ma banalmente dagli Stati Uniti, dalla classe media americana,

da un Americano anonimo! Non è l'ultimo paradosso degli Alcolisti anonimi, che spiega senza dubbio in parte lo scarso interesse manifestato dagli intellettuali per una esperienza e una filosofia così ricche, efficaci, nuove e vecchie al tempo stesso. Gli Alcolisti anonimi sono una sorta di rivoluzione, ma solo per analogia. Infatti essi si diffondono senza rumore e senza martirio. Non rivendicano niente, non s'impegnano in alcun dibattito e ripetono instancabilmente il loro unico e modesto scopo: aiutare coloro che vogliono smettere di bere. Ma le nostre categorie di pensiero cartesiane non si applicano a questa rete fondata sul dono, che si diffonde anonimamente, per contatto diretto, al di fuori dello Stato e dei media, ma anche al di fuori della tradizione. Essa ridà un senso alla vita di decine di migliaia di persone, semplicemente con il voler fornire una soluzione al loro problema di alcol. Non è una religione; è una nuova forma di socialità che resta da concepire; è un modello del modo in cui può funzionare un sistema di dono oggi, che ci dà forse un'anticipazione di quel che potrebbero essere la società moderna e i rapporti umani se riusciamo un giorno a uscire dal paradigma della crescita, se il mercato diventa un buon servitore ("a good servant") piuttosto che un cattivo padrone ("a bad master"), se gli economisti, secondo l'auspicio di Keynes, si accontentano della modestia dei dentisti! - IL VOLONTARIATO Se è vero che una parte delle organizzazioni si trasforma e finisce per integrarsi nel sistema statale o mercantile, spesso si constata anche la comparsa di movimenti fondati sul dono. Quest'ultimo fenomeno tende a essere occultato, come restano nell'ombra le organizzazioni che continuano a funzionare in base al principio del dono senza trasformarsi in istanze burocratiche, come gli Alcolisti anonimi. Quali sono le caratteristiche principali di queste associazioni attive nella maggior parte dei settori sociali: sanità, problemi della gioventù, tossicomanie, violenza contro le donne, povertà, tempo libero? "Non separazione: il legame comunitario" - Quando si chiede ai membri delle organizzazioni del volontariato che cosa distingua queste ultime dalle istituzioni pubbliche che operano nello stesso campo, la prima caratteristica che essi tengono a sottolineare è l'assenza di separazione tra colui che dà o rende il servizio e colui che lo

riceve. Anche se ci si rivolge il più delle volte a sconosciuti, estranei in misura diversa (il massimo dell'estraneità è raggiunto nelle organizzazioni il cui campo di azione è il Terzo mondo), esiste una tendenza costante a ridurre il fossato, a personalizzare il rapporto, come si è già visto (aiuto personalizzato ai bambini dei paesi esteri, impegno personale dei cooperanti, appello costante al volontariato eccetera). Questo significa in sostanza la stessa denominazione di organizzazione «comunitaria»: il fatto che il principio e il motore dell'azione hanno la loro origine nel legame che esiste tra i membri dell'associazione o tra l'associazione e la persona aiutata, la quale del resto raramente è chiamata «cliente». Tutti insistono su questo aspetto che, secondo loro, distingue la loro azione dall'intervento pubblico: il legame comunitario tra chi dispensa e chi riceve il servizio. Questa assenza di separazione è particolarmente evidente nei gruppi di aiuto reciproco, ma è presente ovunque. «Da noi sono a casa loro; questo non è un ufficio governativo», si dice per esempio. Questa assenza di separazione si manifesta anche nell'insistenza sul rifiuto della superiorità che attribuirebbe la competenza professionale, la quale crea un fossato tra il cliente e lo specialista: «Siamo tutti eguali; noi tutti possiamo capire il problema di coloro che ci vengono a trovare; siamo come loro». "Importanza della persona" - Questo rapporto tra chi dà e chi riceve ha come conseguenza che ci si rivolga alla persona in modo diverso, nell'ambito di rapporti retti dal legame stesso e non da norme esterne al rapporto. «La persona soccorsa non è un dossier», si dice in proposito. «Noi ci creiamo degli obblighi nei confronti di ciascuna persona», ci ha detto la maggior parte dei membri di organizzazioni comunitarie. In che modo ciò si manifesta? Le risposte sono spontanee e svariate. Esempio: «Se il padre di uno dei nostri membri muore, gli si fa una visita. Conoscete molti funzionari che fanno la stessa cosa?» Storicamente, in molti settori sociali, il volontariato è stato in parte sostituito dal salariato, e la professionalizzazione definita da una competenza tecnica. E' interessante tuttavia notare che il personale di questi settori ha conservato una parte significativa di ciò che si chiama la «qualità umana» del legame. Questo aspetto del resto è ridiventato importante da qualche anno nel settore ospedaliero, in particolare in luoghi come i centri di cure palliative, dove il volontariato svolge un ruolo essenziale. La qualità del legame non ha mai potuto essere affidata interamente al rapporto salariale. Analizzando l'evoluzione del ruolo del

volontariato nel settore ospedaliero a Montréal, Aline Charles conclude: «Se c'è una dimensione del loro lavoro che i volontari non perderanno è proprio quella del sostegno morale ai pazienti e di tutto ciò che mira a rendere meno penoso il tempo passato in ospedale» (1990, p. 85). In proposito, un confronto tra il dono e lo Stato mette in evidenza due princìpi diversi: la responsabilità formale, definita contrattualmente con riferimento a dei diritti, e la responsabilità dei legami, nei confronti di coloro che per noi sono unici e viceversa. Nella prospettiva del dono, si può considerare la società come una rete costituita dalla somma dei rapporti unici che ogni membro intrattiene con gli altri. E' questa la visione che emerge dall'osservazione di tali organizzazioni. E' così che noi ci colleghiamo al complesso dei membri della società, molto più che tramite il passaggio formale per un centro che redistribuirebbe poi la sua parte a ogni membro. Questo sistema centrale di redistribuzione può funzionare soltanto se è inserito in questa rete, se è alimentato e ispirato dalla rete sociale. Il contrario è la burocrazia nel senso peggiorativo del termine: una struttura rigida, incapace di adattamento. Non bisogna sottovalutare l'importanza di queste differenze rispetto al funzionamento di apparati che, al contrario, tendono a trasformare ogni individuo in «numero», nel senso stretto della parola, per poterlo «trattare» statisticamente e in altro modo. Per questi sistemi, tutto ciò che è unico diventa un problema. Niente di meno individualistico in questo senso dell'apparato statale che pure alimenta l'individualismo moderno, di cui si dice che libera l'individuo dalla comunità, dalla famiglia, da tutti quei legami che lo costringono e gli impediscono di liberarsi e di diventare un «vero» individuo, senza altri obblighi che quelli che si è assegnato egli stesso. Il sistema di dono ritiene al contrario che più una persona ha dei legami, più essa diventa «individualizzata», più accresce la sua individualità. Al contrario, lo Stato ha bisogno, come controparte, di un «individuo spersonalizzato» (Gouldner, 1989, p. 17). E' come se la società moderna, «sacrificando» il carattere unico di ciascuno dei suoi membri ai bisogni delle sue organizzazioni e del suo funzionamento, sviluppasse in compenso l'ideologia individualistica. Infatti, come afferma Campbell (1988), nelle società di cacciatori e raccoglitori, il cacciatore solitario ha soprattutto bisogno di ricordare che non è solo e unico, mentre il produttore della catena di montaggio o il funzionario hanno forse bisogno in primo luogo di farsi dire che sono unici e che, nonostante le apparenze, sono degli individui insostituibili.

"Piacere, libertà e restituzione" - La motivazione di gran lunga la più importante che emerge per spiegare l'impegno nell'azione volontaria è il fatto che si è ricevuto molto, e che si vuole restituire un po' di quel che si è ricevuto: dalla famiglia, dall'ambiente, dalla «vita in generale». I volontari si sentono in qualche modo obbligati verso le persone soccorse; ma nello stesso tempo affermano tutti la propria libertà: sono obblighi che loro stessi si sono dati. Insistono anche sul piacere come una delle motivazioni principali della loro azione. Il più delle volte le persone tengono a distinguersi non solo dai professionisti e dallo Stato ma anche dalla «vecchia» concezione del volontariato, assimilata alla carità e agli obblighi religiosi. Ciò non esclude un riferimento spirituale importante in una percentuale notevole di persone. «Ma questo riguarda solo me», affermano tutte quando si pone loro la domanda. Tutti rifiutano l'immagine della patronessa che compra la propria salvezza facendo la carità, «occupandosi dei poveri, ricca e oziosa, per ammazzare il tempo tra due visite mondane» (Charles, 1990, p. 15). Del resto ci si può chiedere in quale misura questa immagine rifletta la varietà e la ricchezza del volontariato, anche nel passato (ibid.). Ad ogni modo, oggi, le persone che praticano il volontariato lo fanno per piacere e ricavano più di quanto non diano, anche nei gruppi in cui il servizio reso è unilaterale e non reciproco. «Non agisco per magnanimità. Ricevo tanto dalla gente che aiuto». Questa dichiarazione può sembrare sorprendente da parte di volontari che si è soliti associare al modello tradizionale del dono caritatevole e del lavoro «gratuito», nel senso per l'appunto di «non restituito», il che è vero soltanto in termini contabili o mercantili: non c'è restituzione materiale. Ma c'è restituzione, importante. Non è forse il caso di tornare sul senso originario della parola "bénévole": atto volontario, liberamente accettato, gratuito nel senso di libero, e non di «lavoro gratuito», espressione che lascia necessariamente supporre qualcosa di anormale, poiché si adottano come criteri le norme dell'universo del lavoro e poiché ogni lavoro dev'essere pagato. E' certo che una volta che queste attività siano state definite come lavoro, il fatto che esse siano gratuite assume un altro senso e diventa segno di sfruttamento. Ora, queste attività si situano al di fuori del mondo del lavoro e della produzione, al di fuori della rottura creata dal lavoro salariato. Esse sono sempre vicine al legame sociale, immanenti al legame, e dunque al di fuori del rapporto salariale. D'altronde, si osserva spesso una certa diffidenza nei confronti del denaro, nonché l'importanza attribuita alle piccole

dimensioni dell'organizzazione per rendere possibili i rapporti personali e impedire l'avvento di rapporti burocratici dovuti alla necessità di affidare i compiti a un personale retribuito. Le organizzazioni, piuttosto che crescere, preferiscono moltiplicarsi. "Tradizionale o moderno?" - Come gli Alcolisti anonimi, queste associazioni, per più aspetti, sono moderne nel senso che la costrizione caratteristica del modello comunitario tradizionale ne è assente. Esse si distinguono dunque radicalmente dalle comunità religiose o dalle antiche corporazioni, per esempio, e sono caratterizzate dalla grandissima libertà dei loro membri. Eppure conservano anche aspetti tradizionali. Simmel ha ben analizzato il passaggio dalle associazioni medievali alle associazioni moderne che mantengono la libertà dei loro membri in quanto non comportano «un qualsiasi legame di natura personale» (1987, p. 429 [trad. it., p. 491]). Esse restano tradizionali sotto vari aspetti, il principale dei quali è l'importanza dei rapporti personali e dell'impegno della personalità; ma sono fondamentalmente moderne perché riguardano rapporti tra estranei e perché insistono sulla libertà. Questo aspetto delle associazioni ci riporta alla necessaria complementarietà della loro azione con lo Stato. Infatti questa libertà presuppone che esistano istituzioni incaricate di dispensare un certo numero di servizi che non sono più resi da nessuno: per molto tempo lo Stato si è assunto gli obblighi di cui si liberavano le reti sociali, con i vantaggi, ma anche gli inconvenienti che ciò presuppone, come si è visto nel capitolo precedente. Ma bisogna ben rendersi conto che questa libertà alimenta l'espansione dello Stato-provvidenza, proprio mentre lo Stato è spesso incompetente ad assolvere alcuni di tali ruoli, quelli che più rientrano nella sfera del dono. Le associazioni utilizzano anzi le due forme di raggruppamento, moderno e «comunitario», descritte da Simmel, quando si raggruppano in federazioni. «La forma monetaria dell'interesse collettivo dà anche alle associazioni la possibilità di pervenire insieme a un grado più elevato di unità, senza che la singola associazione debba rinunciare alla propria indipendenza e alla propria specificità» (1987, p.p. 429 seg. [trad. it., p. 492]). Non senza pericolo, del resto, perché è là, al secondo livello che si inseriscono spesso gli intermediari che trasformano il sistema di dono in un apparato comparabile al sistema statale. Questa evoluzione spesso osservata verso sistemi diversi fondati sul rapporto salariale risponde

certo a una necessità attuale; ma l'esistenza di tali associazioni basate sul dono risponde anch'essa a una necessità. - UN DONO MODERNO Sahlins (1976) ha costruito una tipologia del dono fondata sull'ipotesi che più il dono circola in una rete primaria (tra parenti, non estranei), meno stretta è l'equivalenza tra il dono e la restituzione, e più la restituzione si estende nel tempo. E' quel che chiama la reciprocità generalizzata, dove, al limite, quel che è ricambiato non è vincolato ad alcuna condizione di tempo, di quantità o di qualità. In altri termini, più ci si allontana dalla condizione di estraneo, più ci sarebbe apertura o generalizzazione dell'equivalenza, di modo che il dono più lontano dal mercato sarebbe al tempo stesso la forma più generale dello scambio, lo scambio generalizzato, perché la sua estensione temporale è indefinita. Se si riprende la formula di Lévi-Strauss (1967), ci sarebbero insomma due forme di scambio generalizzato: • Quella che rientra in una generalizzazione o estensione "spaziale": essa è caratteristica del mercato e si estende teoricamente a tutto il pianeta; ma è limitata a certi tipi di beni, quelli che possono trovare una equivalenza quantitativa monetaria, e non può estendersi molto nel tempo: la restituzione tende a essere immediata. • Quella che rientra in una generalizzazione intensiva o "temporale": essa si estende a tutto e il suo orizzonte temporale è illimitato; ma è limitata nella sua estensione spaziale, perché le cose circolano soltanto all'interno di certi legami personali. Più il legame è di «qualità», più permette di allontanarsi dall'equivalenza quantitativa e dalla reciprocità immediata che caratterizzano lo scambio mercantile; e più l'atto è unilaterale, o almeno lo si percepisce come tale, a causa della durata del ciclo in cui si inserisce, della sua estensione temporale. Questa forma di scambio sostituisce l'estensione spaziale con l'inserimento in una serie storica. In questa tipologia il dono agli estranei rientra in quella che Sahlins chiama la «reciprocità negativa» e mira a una restituzione maggiore di quel che viene dato, sotto forma di guadagno, di profitto. Abbiamo constatato nel presente capitolo che questa regola non ha carattere generale. Essa non vale per la sfera moderna del dono agli estranei, quell'insieme di doni attuali unilaterali. Ci sono doni unilaterali agli estranei, ovvero agli sconosciuti, come il dono del sangue e il dono del

cuore. Ci sono i doni in caso di catastrofe, c'è il volontariato. C'è l'aiuto reciproco che a volte intesse un legame che attraversa le frontiere e fa sì che un membro degli Alcolisti anonimi, ovunque sia, possa telefonare a qualcuno che lo aiuterà in caso di difficoltà. Non c'è correlazione tra prossimità dei protagonisti ed elasticità dell'equivalenza, salvo nell'ambito di certi sottoinsiemi di dono, di serie particolari, come direbbe Simmel. Questa sfera del dono agli estranei è propria del dono moderno, abbiamo detto. Perché? In primo luogo, questi doni non circolano nelle reti personali di affinità, di legami primari come la parentela o l'amicizia, come fa la maggior parte dei doni nella maggior parte delle società, secondo Sahlins. Non è il caso dei doni agli estranei presentati in questo capitolo; ad ogni modo non ne è una caratteristica essenziale. Anzi, molto spesso si ignora senz'altro chi riceverà, benché d'altra parte abbiamo constatato una tendenza costante a una personalizzazione simbolica del rapporto, a una diminuzione degli intermediari che non siano i donatori, le persone inscritte nel sistema di dono, animate dallo spirito del dono. Ma, si potrebbe rispondere, le religioni hanno sempre incoraggiato questo tipo di dono, in particolare il cristianesimo. L'amore è un tratto essenziale del cristianesimo e il dono caritatevole non si è mai limitato a chi è vicino. Al contrario, il «prossimo» è l'umanità intera. Le comunità religiose costituiscono in proposito un caso esemplare, forse in via di scomparsa. I loro membri sono in qualche modo dei «professionisti del dono», categoria impensabile nel quadro delle teorie moderne, tanto marxista quanto liberale o femminista, i cui concetti fondamentali sono lo sfruttamento, il dominio e l'utilitarismo. Chi ha veramente l'impressione di aver detto l'essenziale interpretando il voto di povertà soltanto come una forma di sfruttamento, o anche una ipocrisia? Ora, la religione non è specificamente moderna... In che senso si può allora affermare che il dono agli estranei è proprio del dono moderno? E' probabile che questo tipo di dono abbia avuto origine nelle grandi religioni e in particolare nel cristianesimo (3). Ma il legame attuale tra il dono agli estranei e la religione è molto più lento, e spesso inesistente. Le religioni, pur svolgendovi un ruolo importante, non sono più essenziali a questo fenomeno del dono agli estranei, e inoltre intervengono spesso a titolo privato, sotto forma di una spiritualità personale che si preferisce tacere. Soprattutto, abbiamo rilevato l'importanza attribuita da tutte le persone incontrate al rifiuto del modello del dono caritatevole tradizionale che si fa per sacrificio, per andare in cielo. Il che porta tali persone a insistere sull'importanza della restituzione, e sulle forme molteplici che essa

assume. In breve, le conoscenze attuali circa il fenomeno del dono agli estranei permettono di affermare che questo dono esiste indipendentemente dalla religione, anche se si ritrova spesso la presenza di quest'ultima sotto forme inedite. Si può muovere un'ultima obiezione a proposito del carattere moderno del dono agli estranei. Questa consuetudine è già esistita al di fuori di un contesto religioso, anzi ha avuto una grande importanza nell'impero romano, come mostra il libro di Paul Veyne (1976) sull'evergetismo. Ma la sfera attuale del dono tra estranei si distingue da questo importante fenomeno di dono dei ricchi romani al popolo per un tratto essenziale: non è un fenomeno di classe. Anche se è certo che una certa redistribuzione avviene tra nazioni e tra gruppi sociali, il dono moderno non è basato su un obbligo morale della classe ricca verso il popolo, come l'evergetismo. Le persone di ogni ambiente sociale partecipano a questo dono moderno, non solo sotto forma monetaria ma anche sotto forma di dono di tempo: attività di ascolto, visite, accompagnamento di persone anziane eccetera. Questo dono d'altra parte è spesso anonimo, ovvero nascosto; in ogni caso non detto ai colleghi di lavoro e nemmeno ai familiari. Non ha il carattere ostentatorio dei doni fatti alla collettività dalla classe possidente. Dono sconosciuto fatto a sconosciuti, in cui la motivazione religiosa non è essenziale, e che investe l'insieme degli ambienti sociali: questa la sfera del dono tra estranei che assume attualmente una importanza sempre crescente. Prima di concludere questa rassegna del dono così come esiste attualmente nella società moderna, resta da chiedersi che ne è del dono nel luogo che storicamente ne è stata la negazione: la sfera mercantile.

CAPITOLO 5 IL DONO E LA MERCE - IL DONO AL SERVIZIO DEGLI AFFARI "Il paradosso di Dale Carnegie" - Nella sfera mercantile, il dono è di solito al servizio della circolazione delle cose, della vendita e dello smercio dei prodotti. Questo uso strumentale del dono da parte dei mercanti è una evidenza quotidiana, e Dale Carnegie non ha aspettato noi per fare molti soldi pubblicando nel 1936 un libro da allora sempre ristampato che dava la ricetta del dono al servizio del mercato: "How to Win Friends and Influence People". Se volete aver successo nella vita e negli affari, interessatevi agli altri, ci ripete questo autore per interi capitoli, tutti pieni di esempi luminosi d'individui diventati ricchi applicando questa ricetta. Ma l'apparente semplicità della formula si muta ben presto in paradosso perché risulta che la ricetta funziona soltanto se il disinteresse è vero. In realtà, tutta l'ambiguità dell'utilitarismo nei confronti del dono è contenuta in questo libro: «Per fare molti soldi, pensa il mercante che si serve del dono, bisogna cominciare con il fare dei regali, che poi si fanno pagare molto cari». Ma, come cerca di dimostrare Carnegie, il problema di questa formulazione semplicistica della logica mercantile, è che essa dimentica un elemento essenziale: il mercante dev'essere sincero nel fare il suo regalo se vuole che ciò frutti in seguito! La prima e più celebre opera sulle relazioni umane considerate come una tecnica, come un insieme di espedienti, come una merce, in realtà moltiplica le storie di dono e tende tanto a negare quanto ad affermare il rapporto mezzo-fine enunciato dal mercante. All'inizio l'autore afferma di aver scritto il libro perché la

popolazione lo reclamava da tempo e si stupisce del fatto che un'opera del genere non esista già. Cita Rockefeller: «A saper trattare con gli altri, si impara. E' una derrata che si può acquistare esattamente come lo zucchero e il caffè. E per entrare in possesso di questa merce io sarei pronto a pagare di più che per qualsiasi altra cosa al mondo» (p. 15 romano). Sembra però che ci sia una contraddizione nella frase di Rockefeller: se è una merce come un'altra per cui esiste una simile domanda, a cominciare dalla propria, è difficile capire come mai nessuno abbia ancora avuto l'idea di produrla. La risposta è nel seguito del libro dove si apprende che per l'appunto non bisogna considerare i rapporti umani soltanto come un mezzo, come una merce. L'opera fa appello ai valori tradizionali (lealtà, entusiasmo, spirito di gruppo). Certo, l'autore insiste molto sul denaro: ma al tempo stesso sembra dire che verrà in più, che non dev'essere lo scopo del gesto compiuto. Tutta l'ambiguità del messaggio che si presenta all'inizio come la ricetta miracolosa si manifesta nel doppio precetto che segue: «Fate in modo che il vostro interlocutore si senta importante. E fatelo con sincerità» (p. 111). L'autore il cui progetto era quello di fornire ai lettori il segreto perché i rapporti umani siano al servizio degli affari e permettano di «aver successo nella vita» in definitiva non può far altro che ricordare, come dice lui stesso (p.p. 100 seg.), i precetti di tutti i saggi dell'umanità, da Confucio a Gesù Cristo: interessati agli altri, ma fallo sinceramente, cioè non in modo utilitario, non come strumento al servizio del tuo scopo, ma come un fine in sé; e allora conseguirai l'altro scopo, in più. E' quel che chiamiamo il paradosso di Dale Carnegie, per designare il fatto che, anche nella sfera mercantile, l'uso strumentale dei legami sociali non è così semplice come appare nel discorso utilitarista. "Il dono nell'impresa" - Lo stesso vale per la riscoperta dell'importanza dei rapporti informali nell'impresa. La loro analisi ha costituito l'essenziale della sociologia del lavoro per decenni. Bisogna ricordare che la sociologia del lavoro ha fatto i primi passi negli anni trenta con la celebre inchiesta del gruppo di Elton Mayo, il quale, alla ricerca dei fattori in grado di accrescere la produttività degli operai, procedeva a numerose ricerche scientifiche con gruppo di controllo, modificando l'illuminazione, i colori, la temperatura dell'officina, poi il salario, i tempi di riposo, la libertà di spostamento eccetera. Ogni volta la produttività aumentava, in un modo che restava incomprensibile finché non si avanzò l'ipotesi che ciò si spiegava

semplicemente con il fatto che i lavoratori avevano l'impressione che ci si interessava a loro! Quel che Elton Mayo scopriva era l'importanza, ai fini della produttività, dell'organizzazione informale dell'impresa e del morale dei gruppi primari. Certo, questi fenomeni possono essere interpretati in termini di dono, come fanno del resto economisti come George Akerlov (1984). Questo tema domina attualmente i dibattiti, con la crisi del «fordismo» (modello di produzione fondato sul lavoro alla catena di montaggio e sulla dequalificazione del lavoratore) e la ricerca di nuove formule che legano i lavoratori alla loro impresa, nonché con la riscoperta dell'importanza delle reti di affinità anche in questo settore. Ora, ogni rapporto di affinità si nutre in parte di dono. Non si può far altro qui che ricordare tutta la letteratura attuale sul fenomeno, che porta alla sperimentazione di numerose formule di moda, come i circoli di qualità. E' sempre in questo modo che si tende a spiegare la superiorità dell'industria giapponese. Già nel 1946 Ruth Benedict nel suo libro sul Giappone, aveva insistito sull'importanza del dono in quella società, anche nella sfera economica. Più recentemente, Ronald Dore (1987) ha attribuito l'efficienza economica dei giapponesi a valori sociali di tipo altruistico, che sarebbero più importanti della ricerca della massimizzazione del profitto. L'interesse attuale delle grandi imprese come la Saint-Gobain in Francia per le reti locali di piccoli imprenditori (Raveyre, 1988) va nello stesso senso e segna il ritorno del sociale come spiegazione dei fenomeni economici. Importa tuttavia distinguere bene tra il legame e il dono. Il dono è al servizio del legame, non è tutto il legame. E' certo che ogni organizzazione umana funziona altrimenti che come una macchina ed è altra cosa che il suo organigramma; e che se questa altra cosa, questo supplemento - la qualità dei legami tra i membri - manca, niente funziona. E' quel che ha mostrato la scuola delle relazioni umane dopo Elton Mayo e, più recentemente, l'analisi strategica dei rapporti di potere all'interno delle organizzazioni (Crozier), corrente che giunge oggi alla rimessa in questione del taylorismo e ai metodi alla giapponese. Tutto ciò mostra l'importanza del legame sociale, anche nelle organizzazioni formalmente rette dai princìpi razionali della burocrazia, anche nelle organizzazioni che raggruppano membri soltanto in funzione di loro interessi materiali, fondati su un contratto preciso, che tuttavia non dispenserà mai dalla necessità della fiducia tra i partners per ogni impresa comune, come dimostrano anche gli economisti seguaci della teoria delle convenzioni. Ma in queste organizzazioni, dove certo il legame è importante, in quale misura il dono nutre tale legame? In quale misura un certo numero di

cose e di servizi circola parallelamente agli scambi contrattuali e non contrattuali? Qual è la loro importanza? In che modo ciò sostiene lo scambio contrattuale? Se l'importanza del legame è stata ampiamente dimostrata in tutti gli studi di quel che è stato chiamato l'informale, l'importanza dei doni è stata poco esplorata, se non sotto la forma della denuncia del paternalismo padronale. Ma poche ricerche settoriali hanno analizzato il ruolo specifico del dono in questo scambio complesso e a più livelli tra i diversi partners economici. Si può pensare dunque che il dono svolga un ruolo importante, ma non può essere utilizzato in modo strumentale senza perdere gran parte della sua efficacia (1): è quello che abbiamo chiamato il paradosso di Dale Carnegie. Dopo queste considerazioni generali sullo statuto e il ruolo probabile del dono nella sfera mercantile, facciamo un altro passo avanti nella riflessione analizzando situazioni in cui il mercato, stavolta, è al servizio di un dono, «gestisce» un dono, agisce congiuntamente con un sistema di dono. E' questo il caso del mercato dell'arte e del dono di organi. Sono sistemi tecnoprofessionali o mercantili che contengono elementi di dono essenziali per il loro stesso funzionamento. Questa situazione è corrente: basta ricordare qui una prima trasformazione utilitaria del dono in tutto ciò che fa uno studioso di scienze sociali con il materiale che raccoglie, le interviste che gli individui accettano di fare gratis, il tempo che gli dedicano senza essere pagati, insomma tutto quel che si dà ai ricercatori, che il ricercatore considera del resto come suoi «dati»! Si potrebbero analizzare gli effetti perversi che comporterebbe il fatto di retribuire le persone che accettano di partecipare a una intervista. Proprio per questo la società moderna resiste all'integrazione commerciale completa di tutti i settori, anche se ne risulterebbe un aumento del prodotto interno lordo, riducendo però la quantità e la qualità del servizio (2). - IL MERCATO DELL'ARTE L'opera d'arte non è soltanto una merce; ma d'altra parte, non c'è dubbio che essa è una merce nella società attuale. Essa è anzi passata allo «stadio supremo» della merce, perché è ora oggetto di speculazione, perché ha perduto ogni valore d'uso, perché si acquista senza nemmeno vedere, soltanto in funzione del valore mercantile futuro. Baudelaire diceva dell'arte che era la «merce assoluta»: l'evoluzione attuale del mercato dell'arte tende a dargli ragione. «Si parla del mercato dell'arte

contemporanea oggi come di un "art-biz", come si parla di "show-biz", dove "biz" sta per "business"» (Robillard, 1990, p. 142). Un giornalista del «Time» affermava addirittura che «l'arte contemporanea è semplicemente diventata un valore monetario», aggiungendo che «il mercato consuma tutte le sfumature del senso» («Time», 27 novembre 1989, p. 43). Ma è soltanto un sistema mercantile, come lascia intendere quest'ultima citazione? Niente di meno evidente, a una più attenta considerazione. D'altronde, lo stesso giornalista afferma peraltro, a proposito delle opere d'arte acquistate dai giapponesi e che lasciano gli Stati Uniti: «Ogni volta ciò vi dà l'impressione che esse siano sprofondate in un abisso». Il sistema artistico attuale sarebbe anche un sistema di dono? Che cosa «produce» (o crea) l'artista delle arti «plastiche»? Che cosa contiene questo «prodotto» perché una tela come "Les Iris" sia donata dal pittore a suo fratello, ma venduta per 54 milioni di dollari un secolo dopo, senza alcun aumento della sua utilità né della sua rarità? A quale universo può appartenere un simile «prodotto»? "Una strana merce" - E' ben noto che la concezione moderna dell'arte assegna all'artista un ruolo unico nella società. Anzi, tale concezione è recente, come dimostra Yves Robillard. Se ci si limita soltanto, in un primo tempo, al sistema di produzione, colui che viene chiamato artista fa parte di un sistema in cui tutti i ruoli sono essenziali, dal collezionista al mercante e all'artista stesso. In questo senso, «non è l'artista che fa l'arte, ma l'arte che fa l'artista, perché l'arte è innanzi tutto il prodotto (...) di una élite di partecipanti privilegiati che ho accoppiato nel modo seguente: l'artista e la critica, il mercante d'arte e il collezionista, il museologo e lo storico dell'arte» (1987, p.p. 14 seg.). Questo approccio inserisce dunque l'artista in un sistema: sistema mercantile, sistema di dono o sistema misto? E qual è il ruolo specifico di ciascuno dei partecipanti, e più in particolare dell'«artista»? Perché la società moderna ha concesso a questo partecipante particolare un posto così speciale, non foss'altro nel suo immaginario collettivo? Si può ammettere che l'artista sia una finzione, come afferma Robillard, eppure bisogna render conto della necessità di tale finzione. Nello strano passaggio da 0 a 54 milioni di dollari, l'artista in qualche modo c'entra: il fatto che sia un Van Gogh non è «gratuito»... A una più attenta considerazione, in questa merce si trovano varie altre caratteristiche strane, tutte legate a colui che viene chiamato l'artista. Noi vorremmo

dimostrare che queste caratteristiche si spiegano soltanto con riferimento al sistema del dono. E' possibile definire il «tipo ideale» (3) (nel senso di Max Weber) dell'artista mediante un certo numero di tratti che lo distinguono dagli altri produttori nella società attuale. In primo luogo egli è colui che, rispetto agli altri produttori di beni o di servizi, "si dedica interamente al prodotto, senza preoccuparsi della clientela". Ecco un primo tratto che distingue l'artista dagli altri produttori di questa società, soggetti ai molteplici intermediari posti tra loro e l'utilizzatore finale del prodotto. L'artista vorrebbe realizzare il sogno di ogni produttore: fabbricare un prodotto in una totale indipendenza rispetto al cliente. Non soltanto questa è la sua caratteristica principale, ma a quanto pare anche la sua condizione di esistenza. Un «vero» artista non risponde a una ordinazione ed è difficile concepire che un artista paghi una ditta di marketing per stabilire che cosa produrrà. Il cliente d'altra parte, non può modificare il prodotto (4); deve «rispettarlo». Evidentemente, il rischio è che nessuno acquisti perché l'artista non accede al "riconoscimento" del pubblico. L'artista che ha successo è quello che si fa comprare ma senza vendersi, cioè senza fare come la maggioranza dei produttori moderni. Rispondere alla domanda, per un artista, vuol dire prostituirsi. Niente di più malvisto, presso i membri del sistema artistico, del pensare di acquistare un'opera d'arte in funzione di un arredamento qualsiasi, del colore di un muro, piuttosto che pensando all'opera nella sua essenza, completamente isolata. Senza parlare di colui che ordinasse un'opera a un artista in funzione dell'arredamento... L'artista che accetta tali ordinazioni rischia del resto di veder scendere rapidamente la sua «quotazione» sul «mercato» dell'arte. L'opposto è l'artista sfortunato ma che non si prostituisce, che rifiuta di rispondere alle richieste del cliente. E' necessario che ci siano artisti sfortunati e poveri per dimostrare che quelli che hanno successo non si sono venduti. In questo senso, l'opera d'arte non è la «merce assoluta», ma piuttosto il prodotto assoluto e la non-merce assoluta. Essa è il risultato del rifiuto radicale di certi produttori di abbandonarsi ai mercanti all'atto della fabbricazione. La nozione di avanguardia ne è l'illustrazione più estrema e la perversione. Aver successo, per l'avanguardia, era una prova di fallimento. Per l'avanguardia contava soltanto il giudizio degli altri artisti, cioè quello della comunità dei produttori. Presso tutti i produttori moderni che vogliono ricostituire la comunità perduta, è sempre grande la tentazione di prendere atto della

rottura tra produttore e utente (5) e ripiegare su una comunità di produttori. Ciò porta a una seconda caratteristica del mito dell'artista: la grandissima importanza attribuita al "processo di produzione stesso", e soprattutto al legame tra il prodotto e il produttore. Si tratta di un contrasto completo rispetto al modo moderno di parlare del processo di produzione, in cui si insiste sul fatto che il sistema produce «da solo», cioè indipendentemente dal produttore, grazie all'autonomia della macchina, anzi dell'intero sistema di macchine integrate. Viceversa, anche se l'artista non può «vendere» il suo prodotto, lo si incoraggia a parlare del modo in cui l'ha prodotto. L'artista produce in una sorta di stato di grazia, di esaltazione che affascina l'amatore, suo cliente, e che è all'opposto della produzione moderna, tanto delle sue norme quanto della sua realtà. E' una seconda caratteristica dell'artista rispetto agli altri produttori della società. Difficilmente l'artista parlerà della bellezza della sua tela: ma sarà pronto a descrivere quel che ha sentito quando l'ha realizzata, la sua idea, il problema che si è posto e il modo in cui l'ha risolto eccetera. Questa caratteristica è così importante che si trasmette agli altri partecipanti del sistema, e anche al cliente, che attribuirà molta importanza al modo in cui il prodotto è stato realizzato, agli stati d'animo di colui che lo ha prodotto. Nell'ambiente artistico è corrente leggere e udire frasi come le seguenti, che manifestano tutte l'importanza attribuita al modo di produzione, importanza che non trova posto altrove nell'universo della produzione: «Questo acquarello non è interessante in sé, ma retrospettivamente, per comprendere come egli sia passato da una fase all'altra». «Il modo in cui si perviene a un'opera è spesso più interessante dell'opera stessa». «L'arte attuale tende a lasciare tracce del suo percorso nell'opera finita». «L'atelier dell'artista è un luogo sacro: non vi entra chi vuole». Si arriva così a una terza caratteristica. Nel sistema artistico, il produttore e il cliente non si distinguono nel modo abituale. Il cliente condivide i valori del produttore. Ama pensare che, procurandosi un'«opera» (non si parla nemmeno di prodotto), egli partecipi in un modo qualsiasi alla comunità degli artisti. Quindi deve rispettare l'opera e il suo autore, cioè per l'appunto non trattare l'opera come un prodotto. E ciò non vale solo per il cliente ma anche per tutti gli intermediari, i quali, anche se guadagnano soldi, devono condividere questo sistema di valori, «credere» negli artisti che espongono, difenderli come loro pupilli. E' forse per questa ragione che si designa il cliente del prodotto artistico con il termine «amatore d'arte»: colui che ama.

Ci si avvicina al sistema del dono. Si postula una sorta di comunità produttore-cliente, comunità negata dalla modernità. Il sistema artistico rifiuta la separazione produttore-utente alla quale noi attribuiamo una importanza essenziale come fondamento della modernità. E si riesce forse a comprendere finalmente lo statuto ambiguo dell'artista in questa società: egli non le appartiene. Il circolo è chiuso. Egli appartiene al sistema del dono e non al sistema utilitaristico. In una società utilitaristica non può essere altro che un mito. Tutti questi tratti dell'artista assumono un senso che risulta evidente al tempo stesso nel momento della produzione e nei legami dell'artista con il cliente. In effetti, l'artista produce in una sorta di stato di esaltazione che niente deve perturbare. E' in questo stato d'animo che nasce il prodotto, che idealmente dev'essere influenzato soltanto da lui. Secondo questo sistema esplicativo, l'artista è colui che possiede un dono e l'atto artistico è l'atto di ricezione di trasmissione al produttore di tale dono. Il prodotto, l'opera d'arte è il risultato dell'ispirazione. In realtà, l'opera d'arte non è un prodotto; essa non si situa nel sistema di produzione moderno. L'artista riceve qualcosa che trasmette, e che è contenuta nel suo «dono», che è il suo dono. Emozione estetica, bellezza, quale che sia il nome che si dà a questo supplemento, esso è essenziale, e senza di esso l'opera sarebbe soltanto un prodotto e l'artista farebbe parte da tempo dei ranghi dei produttori. Questa emozione, questo supplemento che circola tra lui e il cliente, spiegano tutte le caratteristiche descritte più sopra, e fanno del mondo artistico un sistema di dono, una comunità composta di amatori che condividono una stessa credenza, il rispetto di un certo prodotto. Questo supplemento non ha equivalente monetario. Del resto questa constatazione vale per tutte le arti. Nella trasmissione dell'arte, il denaro è sempre un veicolo insufficiente. Ogni artista si aspetta di ricevere "oltre" il riconoscimento, della gratitudine, come per un dono. Proprio questo esprime per esempio il fenomeno degli applausi dopo un concerto, segno che la comunità artistico-melomane esiste e che l'emozione è stata davvero trasmessa, che c'è ben altro che un rapporto mercantile, che il fossato tra il produttore e il cliente è in parte superato, cosa che nessun cachet, per quanto elevato, può trasmettere. L'artista ha «messo tutto se stesso» nella sua opera e si aspetta che il pubblico faccia altrettanto. Non è più un produttore, è un autore. Non si accontenta del miglior prezzo possibile, ottenuto «a qualsiasi prezzo». E ciò si trasmette al processo stesso di produzione: la ripetizione del pianista lo gratifica; la ripetizione del lavoratore alla catena di montaggio gli procura un salario. La

ripetizione dell'operaio lo esclude dal prodotto; la ripetizione dell'artista lo fa penetrare nell'opera. L'una esclude, l'altra include. Se si analizza il sistema artistico in questo quadro di riferimento allora tutto diventa comprensibile. Il ruolo dei partners del grande gioco artistico si chiarisce; in particolare quello del cliente che dev'essere «amatore»; deve partecipare, non può accontentarsi di essere consumatore, come nel sistema di produzione mercantile. In un certo modo, deve partecipare allo stesso sistema del produttore, colui che viene chiamato l'artista, che assolve il ruolo principale perché è colui grazie al quale il dono entra nel sistema, colui che è a contatto con l'altro sistema di riferimento. Tutti i partecipanti devono condividere il mito dell'arte; ma è colui che viene chiamato l'artista che lo incarna, che comunica con l'altro mondo, non mercantile, e garantisce in tal modo il rispetto del produttore che diventa creatore. "L'artista e il sistema di produzione" - In definitiva, quel che sembra allora strano è il fatto che non tutti siano artisti in questa società. E' il tema del bel libro di Lewis Hyde (1983). Perché l'artista ha tanto bisogno, più degli altri attori esaminati finora, di proteggersi quando entra in contatto con i suoi clienti tramite il mercato? In un certo senso, non si potrebbe affermare che le caratteristiche dell'artista e la sua valorizzazione del prodotto sono su tutti i punti rappresentativi dell'ideale della società moderna? In effetti, la società moderna è una società il cui scopo è la produzione, il cui dio è il prodotto. Crescita del prodotto interno lordo, crescita del saggio di produzione, crescita della produttività: questi sono i criteri in base ai quali si valuta il progresso in questa società. Una società deve innanzi tutto produrre, e produrre sempre più. Questo è il postulato che sembra evidente alla nostra società moderna, ma che sembrerebbe bizzarro a un insieme di altre società. Pensiamo per esempio ai cacciatori-raccoglitori che, a rigore, non producono niente ma lasciano che la natura produca tutto e si accontentano di raccogliere quel che è prodotto. Una frase del genere sembrerebbe loro del tutto incomprensibile. Tutte le risorse della società moderna sono soggette alla produzione. La società moderna può essere definita come un sistema di produzione e ci si potrebbe aspettare, in questo contesto, che lo statuto del produttore sia glorificato. Ora, si constata proprio il contrario. Dall'inizio della industrializzazione, anzi dall'avvento del mercante, si è fatto di tutto per svalutare colui che produce direttamente. La comparsa degli intermediari

ha fatto in modo di trasferire a qualcuno che non ha niente a che vedere con la produzione diretta tutta la responsabilità delle decisioni. Con il taylorismo si è raggiunto l'apogeo di questa tendenza. In modo esplicito e deliberato, si è distrutta la competenza dei produttori per trasferirla a un intermediario che controlla il prodotto. La società mercantile e più particolarmente industriale, tende a declassare ogni produttore che si lasci influenzare dal suo cliente. Secondo la bella formula di Friedmann, è «il lavoro in frantumi». Paradossalmente la società moderna, pure votata al dio della produzione, riduce a nulla il produttore e simultaneamente idealizza la produzione. E' la sua principale contraddizione. Ecco perché essa inventa il mito dell'artista. In questo contesto, si vede che la valorizzazione e il rispetto infinito del prodotto e dell'atto di produzione dell'artista sono una sorta di negazione mitica del fatto che il sistema di produzione reale distrugge il produttore. L'artista non può inscriversi in esso; non può sottomettersi al cliente, a ogni sua richiesta, senza tradire il mito al quale aderisce e che è anzi una condizione della sua produzione. La società moderna ha trasformato la catena che andava dall'artigiano all'opera all'utente in una catena che va dal produttore al prodotto al consumatore. All'artista non resta altro che rifugiarsi in una terza catena: dall'artista all'opera all'amatore, che per un eccesso ora comprensibile, tende a escludere ogni valore d'uso per concentrarsi sul valore di legame. Di qui i rapporti complessi tra gli artigiani e gli artisti nella società attuale. Proprio per questo è essenziale che la maggioranza degli artisti viva poveramente, o non viva dell'arte. L'artista che vive in miseria è un martire del sistema di produzione. Per vivere della propria arte, è necessario viverne in modo molto ricco. Quel che conta è il fatto che, a differenza di quel che avviene per il resto della produzione, non ci sono legami tra il valore mercantile dell'opera e la quantità di lavoro fornita dall'artista. E' su questa inadeguatezza necessaria che gioca la speculazione sull'arte. Tutti i partecipanti devono contribuire alla protezione di questa gallina dalle uova d'oro (per il mercante) che soprattutto non deve essere uccisa e fatta a pezzi come è stato fatto (con profitto) per il resto della produzione e per i gesti degli altri produttori in questa società. Come il donatore di sangue, l'artista funziona in un sistema misto. Ma l'artista riesce anche a impregnare tutto il resto del sistema dello spirito del dono. Come il donatore di sangue egli è all'inizio della catena e, come lui, è membro di un sistema misto. Ma a differenza del donatore di sangue, egli conserva sempre un certo controllo sul proprio «prodotto» ed è

riuscito finora a esercitare una influenza minima sul complesso del sistema. Essere artista è uno stato; donare il sangue è un gesto che può molto più facilmente essere assorbito in un sistema mercantile o statale, con gli effetti perversi che si sanno. La morte dell'arte, annunciata da tempo, è la fine di questa influenza, o almeno della sua illusione. La società resiste dunque spesso con gran forza alla trasformazione in merce di certi doni, anche quando tali doni sono in parte assorbiti da sistemi estranei al dono, come il mercato. Questo fenomeno è evidente anche nel caso del dono del rene, che ora esamineremo. - IL DONO DI ORGANI Il dono di organi evidentemente non esisteva nelle società tradizionali. Esso è nato con la tecnologia moderna e non può fare a meno di crescere negli anni a venire. Il dono di organi, alla morte o tra viventi, presenta certe analogie con il dono di sangue; ma se ne distingue anche per molti aspetti. L'importanza degli intermediari tra chi dona e chi riceve, e di un apparato tecnoprofessionale particolarmente perfezionato, è la prima caratteristica che colpisce l'osservatore. Ragion per cui si tratta anche in questo caso di un sistema misto e non di un sistema di dono «puro». Infatti tutti questi intermediari, tecnici e professionali, non sono retti dal dono ma dal rapporto salariale. Ma questo apparato è strumentale, assicura la trasmissione di un dono. La società non accetta la vendita di organi. A differenza di quel che accade per il sangue, il commercio di organi è in generale proibito, anche se di fatto viene praticato, anche se esiste un mercato nero. Si trova in India un mercato aperto di reni e anche di occhi di donatori viventi. Le persone ricche vengono da tutto il mondo per acquistare (Leon R. Kass, 1992, p. 67). Da questo punto di vista, lo scandalo della trasfusione di sangue contaminato probabilmente è soltanto il segno precorritore di molti scandali futuri che riguarderanno il trapianto degli organi. Naturalmente, nessuno è in grado di avanzare cifre precise e controllabili che permettano di misurare l'ampiezza del fenomeno, ma ormai si sa che esistono, in particolare in America latina, organizzazioni che procedono a rapimenti e ad assassinii per alimentare i ricchi mercati di organi da trapianto dell'America settentrionale o dell'Europa occidentale (6). Evidentemente, la domanda di tali organi sostitutivi è destinata a crescere in proporzioni notevoli. Chi rifiuterebbe la possibilità di vivere dieci o quindici anni di più? O meglio, e soprattutto,

chi rinuncerebbe a fare di tutto per permettere a un familiare, a un genitore o a un bambino di avere salva la vita? Ora, c'è penuria di organi. Per esempio, in Francia, alla fine del 1990 si stimava il deficit di organi da trapiantare in 4731 per i reni, 719 per i cuori, 380 per i fegati, 163 per l'insieme cuore-polmoni (7). Si pone dunque il problema di sapere, da una parte, come ottenere e, dall'altra, come distribuire questi organi il cui trapianto è così costoso: 250 mila franchi per un rene, 450 mila per un cuore, da 250 mila a un milione e mezzo di franchi per un fegato, 800 mila franchi per un trapianto di midollo osseo o di un insieme cuore-polmoni. I paesi anglosassoni sono tentati dalla prospettiva della legalizzazione della vendita. E una simile legalizzazione sembra altamente auspicabile a molti rappresentanti dei paesi del Terzo mondo, che non vedono in nome di che cosa si proibirebbe ai poveri di rimediare alla loro miseria materiale e di assicurare il futuro dei loro figli vendendo un rene o un occhio. Sin d'ora, per esempio, un rene, venduto per 45 mila dollari negli Stati Uniti, è acquistato attraverso i piccoli annunci per 2000 dollari a venditori argentini. Perché no, pensano gli autori d'ispirazione liberale, se i contratti sono legali e se venditori e acquirenti sono chiaramente informati delle implicazioni della transazione? Viceversa, la Francia è orgogliosa del rifiuto che essa oppone a qualsiasi prospettiva di commercializzazione del corpo umano. Almeno in teoria. Così il progetto di legge sulla bioetica preparato da Bianco, Sapin e Curien afferma, come idee-forza l'indisponibilità del corpo umano, la sua non patrimonialità e non commerciabilità (8). Da questo punto di vista gli organi trapiantabili possono provenire soltanto da doni e soprattutto da doni "post mortem", fatti in stato di morte clinica (9). La chiave di volta del sistema della bioetica alla francese è costituita dalla legge Caillavet (1976) e dai relativi decreti di applicazione (1978), che consentono al corpo medico di presumere che ogni persona deceduta sia donatore consenziente, a meno che la famiglia del morto non sostenga il contrario in modo plausibile. Se la parola chiave dei giuristi anglosassoni è il contratto, quella dei giuristi e delle autorità della bioetica francesi sarebbe il dono. Ma il dono putativo istituito dalla legge Caillavet può essere considerato un vero dono? In certi casi, perché no? Ma nella maggior parte è lecito dubitarne. Il professor Christian Cabrol, direttore di France-Transplants si preoccupa della diminuzione del numero dei donatori dichiarati e vorrebbe che a tutti coloro che lo desiderano si desse la possibilità di fare iscrivere il proprio rifiuto di donare in uno schedario centrale consultabile tramite computer («Le Monde», 22 gennaio 1992, p. 157). Questa proposta, in apparenza liberale, permetterebbe in realtà ai medici che prelevano gli

organi di opporsi con maggiore efficacia che non oggi alle reticenze delle famiglie. Infatti, chi vorrebbe farsi registrare ufficialmente come non donatore, in altri termini come un egoista patentato dallo Stato? Ma se tutti sono automaticamente donatori, dov'è il dono? Non è proprio perché si tratta sempre meno di dono che il numero di donatori spontanei diminuisce? E perché le famiglie riaffermano di essere esse stesse le vere proprietarie dei corpi morti? La questione che si pone, in effetti, è proprio quella di sapere chi dispone dello "jus utendi et abutendi". Il diritto d'ispirazione anglosassone pone come unici proprietari gli individui. La tradizione afferma il diritto eminente dei lignaggi. Quale ruolo svolge in tale questione il principio del dono alla francese, in apparenza così morale e seducente? Molto spesso, come si è visto, esso serve a dissimulare come un "cache-sexe" pratiche affaristiche tanto meno regolate e controllate quanto più negate. Ma in modo più sostanziale il principio del dono presunto permette l'affermazione della preminenza dello Stato nazionale su tutti gli altri soggetti di diritto, e tende a operarsi insensibilmente uno slittamento dal dono presunto alla percezione di una sorta d'imposta. E' quel che espone perfettamente, con il gran merito della chiarezza, il filosofo Dagognet quando dice che il solo rimedio alla penuria degli organi passa per l'affermazione che lo Stato è il proprietario eminente dei corpi morti. "Il dono del rene" - Ben diversamente vanno le cose quando il dono di un organo avviene tra persone appartenenti alla stessa rete primaria, come nel caso del dono di un rene tra persone viventi, che tratteremo basandoci su alcuni studi americani. Ci troviamo di fronte a un dono unilaterale che si avvicina alla trasmissione; e tale diventa nel caso di dono alla morte. Ma anche se le cose avvengono tra vivi, è evidente che il donatore non riceve niente di equivalente a quel che dà, nel senso economico del termine. Quale rapporto esiste tra chi dona e chi riceve, prima e dopo il dono? Inizialmente, questo rapporto consiste nella maggior parte dei casi in un legame personale, in generale un legame di parentela diretta, di sangue, perché è in tal caso che la compatibilità biologica è massima e minima la probabilità di rigetto, il che esclude i collaterali. Al di fuori della famiglia, questo dono rischia dunque di non essere «ricevuto»! Si ritrova la presenza del legame comunitario come elemento fondamentale, al punto che, in assenza di legame di parentela, gli intermediari si chiedono spesso se sia legittimo chiedere a qualcuno un tale dono, il che li porta talvolta a

servirsi dell'alibi dell'incompatibilità per escludere un donatore (Fox e Swazey, 1978, p. 23). Essi stentano a credere che un simile dono a un estraneo sia possibile e sono molto esitanti nell'autorizzarlo. In generale, secondo Fellner e Schwartz, «la professione medica tratta con sospetto e diffidenza le motivazioni dei donatori di organi viventi» (riportato da Fox, p. 7). Tuttavia, per i donatori, si tratta nella maggior parte dei casi dell'atto più importante della loro vita: per tutti coloro che hanno donato un rene, «questo gesto si è rivelato come l'esperienza più significativa della loro esistenza» (p. 26). Questa trasformazione si esprime con frasi come: «Mi sembra di essere diventato migliore (...). Ho dato un senso alla mia vita. Ora sono capace di fare qualsiasi cosa» (ibid.). Quel dono non sarà mai restituito nel senso contabile, economico, nel senso del calcolo dell'equivalenza tra le cose che circolano. Niente circola in cambio come tale; ma, nonostante questo carattere unilaterale, le testimonianze stanno a indicare che la restituzione è immensa, anche se ciò che è reso consiste nel gesto stesso e non in un oggetto o servizio preciso, poiché, nel senso materiale, non c'è niente. I donatori sono trasformati dal dono al punto che le loro testimonianze ricordano per certi aspetti i testi che descrivono i riti d'iniziazione, di «nuova nascita» eccetera. Ciò avvicina in modo inatteso il dono di organi e lo scambio arcaico. Questa restituzione di tipo insolito spiega senza dubbio come mai, nonostante il suo carattere molto squilibrato, senza reciprocità, «impulsivo», tale dono di rado provochi problemi tra chi dona e chi riceve. Al contrario, nella maggior parte dei casi, esso li avvicina tra loro (p. 69). Si tratta evidentemente di un gesto grave, pericoloso, importante oggettivamente e soggettivamente. E' dunque normale che coloro che si sono interessati al fenomeno cerchino di sapere come i donatori (10) siano giunti a prendere una simile decisione, quali fossero le loro ragioni per compiere un gesto che non è affatto obbligatorio nella libera società moderna. Ora, sembra che semplicemente non ci sia stata decisione. «Il termine "decisione" sembra inadeguato», concludono gli studiosi (citato in Hyde 1983, p. 65), i quali parlano anche di «decisioni subitanee». «Noi reagiamo come per riflesso», dice un donatore (p. 66). Amitai Etzioni, nel riferire risultati analoghi (1990, p. 97), propone di distinguere tra scelta e decisione e di riservare quest'ultimo termine alle scelte che fanno le persone quando adottano la procedura deliberativa razionale di comparazione tra i vantaggi e gli inconvenienti (ibid., p.p. 95 e 150). Noi ci troviamo qui di fronte a un dato empirico di grande portata: per un atto così importante e grave come il dono di un rene, si constata che

l'uomo non si comporta conformemente ai postulati utilitaristici, che non calcola, che questo gesto si colloca semplicemente al di fuori di quel modello esplicativo del comportamento dell'essere umano. Esistono certo eccezioni a questo schema generale. Così è stato osservato un caso in cui la donatrice chiede alla madre una pelliccia in cambio, comportamento conforme alla logica mercantile. Interessante la spiegazione della madre: ella attribuisce tale atteggiamento alla scarsa maturità della figlia, il che implica che il dono spontaneo, «irrazionale», senza calcolo, impulsivo sarebbe un indizio di maturità per decisioni così gravi. Questa posizione è evidentemente il contrario dell'abituale concezione occidentale della maturità, che caratterizzerebbe un individuo che valuta logicamente i vantaggi e gli inconvenienti prima di giungere alla decisione più razionale. La madre fa un ragionamento antiutilitaristico. Infatti il comportamento della figlia è quello predetto dal modello mercantile: ella fa degli affari. E Pierre Bourdieu direbbe che, al contrario degli altri, ella ha la lucidità di non aderire alla menzogna collettiva, il coraggio di non cedere all'ipocrisia del dono e di non fingere di credere che fa un dono gratuito. Ora, questo comportamento atteso dalla spiegazione dominante in realtà è considerato anormale dal complesso degli agenti. Infine, è interessante notare che il dono del rene mette in evidenza l'eterna opposizione tra l'affinità e la filiazione. In realtà è il coniuge che sarebbe «il donatore di organi più adeguato da un certo punto di vista socioculturale». Ma di solito i coniugi sono esclusi, a causa dell'incompatibilità dei tessuti (p. 22). E' il paradosso del legame estraneo-familiare, che esclude l'estraneo da un tale dono all'interno stesso della famiglia. Tutti possono donare salvo il coniuge: figli, fratelli e sorelle, genitori. Il coniuge ridiventa improvvisamente un estraneo. Il suo «vero volto», esorcizzato dai riti matrimoniali riappare bruscamente, torna improvvisamente alla ribalta con una simile «operazione» che è spesso mal sopportata come un incesto simbolico dal coniuge, per esempio quando i donatori sono il fratello o la sorella. Questo dono eminentemente moderno, il dono di organi, tende a escludere gli estranei e ha bisogno della comunità di sangue per essere ricevuto. Questo panorama del dono nelle società liberali termina con il dono di organi: dono moderno per eccellenza, e che pure rimette in discussione il modello utilitaristico deliberativo di scelta razionale dei mezzi in vista di un fine. Il dono del rene dimostra che il dono è un atto morale e che a questo titolo è «motivato intrinsecamente e non è soggetto a un'analisi fine-mezzi» (Etzioni, 1990, p. 43). Prima di compararlo al dono arcaico, è

necessario riassumere le principali caratteristiche del dono moderno così come si presenta nei luoghi molteplici e diversi della società liberale.

CAPITOLO 6 IL DONO NELLA SOCIETA' LIBERALE Che cosa constatiamo dopo questa panoramica delle forme che assume il dono nella società moderna? In realtà, l'individuo moderno è costantemente impegnato in rapporti di dono. Che cos'è allora un sistema di dono moderno? Quali sono le caratteristiche del dono così come risultano dalle quattro sfere presentate nei capitoli precedenti? Esamineremo successivamente la restituzione del dono, il gesto in se stesso e le caratteristiche del legame. - DONO E RECIPROCITÀ. LE FORME DI RESTITUZIONE DEL DONO La maggior parte degli autori che scrive sul dono concorda nel respingere la gratuità. Essa «maschera» qualcos'altro, come dice Françoise Weber. Idea complementare: il rapporto di dono è dunque in primo luogo un fenomeno di reciprocità. In altri termini, tutti condividono lo stupore iniziale di Marcel Mauss quando si è messo a osservare rapporti di dono di fronte all'obbligo di ricambiare, che diventa dunque al tempo stesso la cosa da spiegare e l'essenza di ogni rapporto di dono, la sua vera natura, quella che si nasconde dietro le affermazioni di gratuità degli attori. Se ne conclude che l'essenza del dono non consisterebbe nell'essere un dono. E' quel che esprime l'idea di reciprocità come fondamento del dono, reciprocità ristretta (diadica, simmetrica) o generalizzata (aperta, a catena sotto forma di trasmissione); ma reciprocità. Il percorso che abbiamo appena compiuto porta a conclusioni diverse in proposito. E' esatto che spesso c'è restituzione. E se il dono rappresenta una forma di circolazione originale distinta, non si definisce certo in base

a questa caratteristica di non restituzione. Ciò detto, bisogna aggiungere subito che ci sono molte differenze rispetto alla restituzione mercantile. 1) In primo luogo, "non sempre" c'è restituzione nel senso abituale, mercantile del termine, di restituzione materiale di beni o servizi, come dimostra in particolare la sfera del dono unilaterale agli sconosciuti. Nel senso delle cose che circolano, la frequenza del dono unilaterale non reciproco è notevole: sangue, organi, volontariato, doni ai bambini, eredità in cui l'erede è talvolta semplice canale di trasmissione eccetera. 2) Viceversa, la restituzione è spesso "maggiore" del dono. Quando c'è restituzione, questa in genere si allontana dal principio di equivalenza mercantile. Sembra addirittura che spesso i partners provino piacere nello squilibrare costantemente lo scambio rispetto all'equivalenza mercantile; in altri termini, a mantenersi in stato di debito reciproco. Il campo del dono si situa tra due poli, quello in cui lo squilibrio è talmente grande che si ha l'impressione di «rimetterci», e allora si abbandona il rapporto (1), e quello dell'equivalenza, in cui ci si sdebita, il che pure mette fine al rapporto. 3) La restituzione esiste anche se "non è voluta". Come definire questo fenomeno strano che scandalizza anche una intervistata: "Quando ero piccola, a scuola tutto era facile per me, più che per gli altri. Dicevano che ero dotata. Lo trovavo ingiusto rispetto ad altri bambini per i quali era molto più difficile. Quando mi hanno insegnato la parabola dei talenti, mi sono consolata, perché mi sono detta che avrei dovuto fare più degli altri, trasmettere il talento che avevo ricevuto. Era meno ingiusto a condizione che dessi gratuitamente, potevo ristabilire l'equilibrio. Ciò mi ha consolato finché mi sono resa conto che donando ottenevo molta più soddisfazione, molto più piacere e anche talvolta molti più vantaggi materiali in cambio; che in realtà il dono veramente gratuito era impossibile anche se lo volevo, e che ciò dunque non riparava l'ingiustizia, al contrario: non solo avevo ricevuto di più, ma il fatto di donare mi procurava soddisfazioni inaccessibili agli altri. La parabola dei talenti finì dunque per accrescere l'ingiustizia iniziale". Questa intervistata esprime l'opposizione tra il regime della giustizia e quello dell'amore puro, analizzato da Luc Boltanski. Il dono si situa tra questi due regimi. Come comprendere questa restituzione di primo tipo, ottenuta addirittura contro la volontà del donatore, senza tornare allo spirito del dono? La sola cosa non libera nel dono, è il fatto di ricevere. Lo si voglia o no, si riceve, spesso c'è restituzione! Inoltre, se si amplia la definizione di restituzione per includere le restituzioni che travalicano la circolazione materiale dei beni e dei servizi, allora c'è sempre

restituzione, e questa restituzione è giudicata importante dalla maggior parte dei donatori. Ci sono più forme di restituzione del dono: la gratitudine che esso suscita, la riconoscenza, questo supplemento che circola e che non entra nei conti sono forme di restituzione importanti per i donatori. Se tale restituzione non esiste si tratta di un dono «mancato», il donatore pensa che ci ha rimesso. Ma la restituzione non è là dove la maggioranza degli osservatori ha sempre teso a collocarla a partire da una prospettiva fondata sull'equivalenza mercantile. 4) Infine, stranamente, la restituzione è spesso nel dono stesso, nell'ispirazione dell'artista, nella trasformazione della persona che conoscono i donatori: spettacolare nel caso di colui che dona il rene, in misura spesso minore, evidentemente, negli altri casi. Ma anche i volontari ritengono generalmente di ricevere molto dalle persone che aiutano. C'è una restituzione immediata di energia per colui che dona, il quale ne esce ingrandito. Questa restituzione, inesistente nelle altre forme di circolazione delle cose, è insita nel gesto stesso di donare. Tale fenomeno non ha nome nelle scienze sociali. E' nel dono di organi e presso gli Alcolisti anonimi che questo strano effetto è stato osservato con la massima evidenza, presentando spesso un carattere spettacolare. «Non sono più la stessa persona», dirà il donatore. Questa restituzione non entra in alcuna equazione contabile delle misure di equivalenza (poiché è inclusa nel gesto stesso di donare che, in ogni bilancio, è contrassegnato dal segno meno). Il più delle volte è negata dalle teorie moderne dell'utilitarismo volgare o scientifico ed è passata sotto silenzio nelle teorie del dono. L'importanza di questa trasformazione di chi dona o di chi riceve (Alcolisti anonimi) non ha equivalente nella società moderna. Presenta analogie soltanto con esperienze correnti nelle società arcaiche: iniziazione, riti di passaggio, conversione, esperienza della morte. La si ritrova anche nel perdono. Degli psicologi che studiano questo fenomeno parlano della «trasformazione prodotta dal perdono, accompagnata dalla consapevolezza che quel che accade non dipende soltanto dalla volontà della persona in causa» (Rowe e altri, 1989, p. 242). - LA SPONTANEITÀ, LA LIBERTÀ, IL NON-CALCOLO Come si è visto, degli studiosi che cercavano di comprendere come si prende la decisione di donare un rene sono giunti alla conclusione che il termine stesso di decisione era inadeguato. E coloro che vogliono sapere in che modo una coppia pervenga alla divisione dei compiti si sentono

rispondere: «E' venuta da sola!» Non si tratta certo di prendere per oro colato queste risposte, ma esse esprimono un tratto essenziale del dono. Ciò rimette in questione inaspettatamente il modello utilitaristico di calcolo dei «più» e dei «meno» che la razionalità di ogni decisione pone come condizione perché la decisione possa essere qualificata veramente «umana» o civile... Ora, accade che per i donatori, in quella «decisione» considerata come la più importante della loro vita che consiste nel donare un rene, non c'è ragionamento, cioè che essi non hanno «valutato il pro e il contro», che non c'è stato calcolo. In questo senso, lo spirito del dono si oppone radicalmente al calcolo, a questo modo particolare, e non universale, di comportarsi. Dunque non ci sarebbe soltanto il calcolo da una parte e il riflesso di tipo animale dall'altra. C'è il gesto compiuto nello spirito del dono. E quel che è vero per un gesto di tale importanza lo è anche per il complesso di ciò che circola in un sistema di dono. E' malvisto calcolare, non è una norma centrale del sistema di dono. Il calcolo è periferico, e gioca in un modo che resta da precisare, ma che non è quello del modello razionale abituale. Qualcuno che calcola tende a escludersi da un sistema di dono. Si giunge a considerare che i tre momenti del ciclo - dare, ricevere, ricambiare - spesso si confondono: secondo il punto di vista dell'attore, donare è ricambiare e viceversa. Anche nel volontariato, considerato spesso come il tipo stesso del dono «gratuito», i volontari restituiscono: donano perché hanno ricevuto molto. E spesso ricevono più di quel che donano! Si chiama dono il loro gesto se si vuole insistere sull'energia iniziale, sull'atto che avvia il ciclo, e sul fatto che c'è una restituzione immediata e indipendente di ciò che ritorna alla fine del ciclo. Ciò implica che nella trilogia dare, ricevere e ricambiare, non tutti i termini hanno lo stesso statuto. Il primo è ciò che fonda il sistema: esso designa la natura di ciò che si svolge e si porta dietro il resto, ne definisce la logica ed esprime il fatto che il sistema non è meccanico, ma libero o indeterminato. Si è ben costretti a concludere che la reciprocità degli oggetti non è centrale per il dono e che "il dono è in primo luogo un dono", se si osservano soltanto le cose concrete che circolano. E' quel che esprimeva già Seneca a proposito dell'allegoria delle tre Grazie: «In questo gruppo tuttavia la maggiore ha una posizione privilegiata come nello scambio di benefici colui che comincia» (2). D'altronde, il termine «ricambiare» significa qui in realtà donare. La distinzione tra donare e ricambiare è analitica. Infatti colui che ricambia in realtà dona anch'egli. Non si restituisce un dono come si restituisce il denaro o un prestito. Si dona e se dall'analisi risulta che si è già ricevuto,

la parola «ricambiare» designa questo aspetto del gesto. Si tratta dunque proprio di un sistema di dono, dove la reciprocità designa il fatto che in questo sistema, quando c'è equivalenza, non è equivalenza mercantile. Essa obbedisce ad altre regole: si situa in una storia tra persone. Il gesto non si spiega né con lo statuto (Gouldner, 1960, p. 170), né con il potere, né con il mercato, ma con la storia del rapporto, con il suo passato. Certo, esistono perversioni del dono, usi del dono a fini di potere, di dominio eccetera. E questa dimensione è spesso presente in esso; ma non è l'essenziale del dono, non più di quanto il piacere del rapporto sia l'essenziale dello scambio mercantile, anche se spesso è presente. D'altra parte, con il paradosso di Carnegie si è visto che l'efficacia del dono come strumento di potere è massima quando la strumentalità è minima! Il tempo è al cuore del dono e della reciprocità, mentre l'eliminazione del tempo è al cuore del rapporto mercantile. E' quel che significa «ricambiare»: collegare il gesto a un altro in un passato prossimo o remoto. - IL MEZZO È IL FINE A partire dalla distinzione abituale delle tre sfere, ci siamo chiesti se e come si potesse ritrovare il dono nei sistemi moderni di circolazione delle cose, quello mercantile e quello statale. Nell'ambito della sfera mercantile abbiamo constatato il paradosso di Carnegie secondo cui per aver successo negli affari, bisogna non soltanto valorizzare l'altro, ma farlo «sinceramente». Nella sfera statale siamo stati indotti a criticare l'approccio secondo cui la redistribuzione può essere la forma moderna del dono e si basa sugli stessi princìpi del dono. Ciò ha comportato l'obbligo di riconoscere l'esistenza di una quarta sfera, quella che abbiamo chiamato dono tra estranei, sfera importante e specifica del dono moderno, come aveva sottolineato giustamente Titmuss; sfera nella quale, d'altra parte, abbiamo riconosciuto vecchie strutture di dono «liberate». Quali sono le caratteristiche comuni al dono che appaiono grazie a questi sondaggi in diversi luoghi della società attuale? • L'"estraneo": in definitiva lo si ritrova ovunque, mentre si suppone che il dono circoli nell'ambito di rapporti comunitari. Noi abbiamo fatto della sua presenza una caratteristica particolare della società moderna, la sfera del dono agli estranei e agli sconosciuti. Il dono tende a far sì che lo sconosciuto sia il meno estraneo possibile, a differenza dei sistemi statale

e mercantile, che tendono al contrario. Ma il dono agli sconosciuti è una caratteristica moderna. Si ritrova addirittura questo tema dell'estraneo là dove meno ce lo si aspettava: nel cuore della famiglia, il cui nucleo è necessariamente costituito da due estranei, e nel personaggio centrale distributore dei regali ai figli della famiglia: Babbo Natale. • La "libertà". Il forte grado di costrizione sottolineato da Mauss (i doni «ricambiati obbligatoriamente») sembra avere abbandonato in parte il dono moderno. Questa caratteristica è presente ovunque ci sia dono e tende anzi a generalizzarsi oggi al limite del possibile, per esempio nei vecchi sistemi come il matrimonio, diventato libero sia all'entrata sia all'uscita. • La "gratuità". Se non c'è dono gratuito, in ogni caso c'è gratuità nel dono. E' la differenza più evidente rispetto allo Stato. Le cose che entrano nel circuito di circolazione statale sono state prima prelevate dai contribuenti e sono gestite in un sistema separato composto d'intermediari che prelevano essi stessi una parte di quel che circola per assicurare il funzionamento del sistema. La previdenza sociale non è un dono, bensì un diritto. Certo non senza numerosi vantaggi, spesso messi in evidenza. • Il carattere "spontaneo", che pure si ritrova dappertutto. Il dono non obbedisce ad alcuna costrizione (3), né autoritaria né legale, e neppure razionale, in funzione di un calcolo. Esso obbedisce a un «moto dell'anima». E' essenziale che ogni dono contenga un elemento di spontaneità che lo situa al di fuori delle norme e fa sì che esso non sia vissuto come un fenomeno puramente volontario. Nel dono c'è sempre qualcosa che trascina il donatore, che gli sfugge. • Il "debito" è onnipresente, ma diverso dal debito mercantile. La stessa parola copre qui una realtà completamente diversa. • C'è "restituzione", di vari tipi, il che rende inadeguata la nozione abituale di reciprocità associata al dono, che tende a confondere quel che avviene tra le cose che circolano e quel che avviene tra le persone, tra gli agenti. Dal punto di vista della logica abituale dello scambio la restituzione più sorprendente è la trasformazione indotta presso il donatore che si ritrova anche nel perdono. Il paradosso di Carnegie a proposito del dono nel mercato è in realtà presente ovunque in tutte le forme del dono. Infatti, se si deve andare verso l'altro sinceramente, ciò significa che non lo si fa soltanto per ottenere qualcosa, ma perché lo si «sente», per un «moto» verso l'altro. Si ritrova questa idea ovunque nell'universo del dono. Perdere per vincere.

Non si dà per ricevere; forse perché l'altro dia. C'è qui qualcosa d'incomprensibile per lo spirito moderno. Come si può al tempo stesso volere un fine (ricevere) e servirsi normalmente di un mezzo per ottenerlo (donare) senza considerare nello stesso tempo che si tratta di un mezzo, dato che questa è la condizione per raggiungere il fine? La preposizione «per» assume qui un senso inconsueto. Viene colpita qui tutta la logica fine-mezzi, il fondamento della razionalità strumentale (Weber) e delle organizzazioni moderne. Non sembra sia possibile applicare al dono il rapporto fine-mezzi, cioè un certo tipo di legame tra un'azione presente e un'azione futura, legame lineare che è alla base dell'anticipazione, del calcolo, di tutte le teorie dell'azione, della nozione stessa d'intenzionalità. Qualcosa ci sfugge nel dono e dà le vertigini alla ragione moderna. Il che non vuol dire che il dono sia irrazionale. Ecco quel che bisogna ora cercare di comprendere, cominciando col tornare sul dono arcaico, oggetto abituale degli analisti del dono nelle scienze umane.

PARTE SECONDA DAL DONO ARCAICO AL DONO MODERNO

CAPITOLO 7 IL DONO ARCAICO: LE LEZIONI DELL'ETNOLOGIA (1) "Ecco perché si eleva un tempio delle Grazie ["Xarites"] in un luogo dove sia bene in vista: è per insegnare a ricambiare i benefici ricevuti. Questo è proprio della grazia; non solo bisogna pregare in cambio colui che si dimostra grazioso, ma anche prendere personalmente l'iniziativa di un gesto grazioso". Aristotele, "Etica nicomachea", 1133, a 3-5. Aristotele è probabilmente il primo e, per 2500 anni, il maggiore teorico del dono. L'amicizia, egli dimostra, la "philia", si fonda sulla capacità di donare e di restituire, sulla reciprocità. Senza amicizia non potrebbe esistere comunità ("koinsnia") e senza comunità non c'è ordine politico possibile, poiché l'ordine politico ha come primo scopo quello di procurare ai cittadini il solo piacere degno degli uomini: quello di vivere insieme nel riconoscimento reciproco dei loro valori. In poche parole, Aristotele pone il paradosso che coincide con la logica del dono; in altri termini, il paradosso che presiede alla costituzione del rapporto sociale. Quest'ultimo si feconda, si genera e si nutre della «grazia». Traduciamo: esso esige generosità e spontaneità. Donde il problema che si pone a tutti e a nessuno, al legislatore che istituisce la Città come a ciascuno di noi, ad ogni momento, anche il più banale della nostra esistenza: come fare per produrre spontaneità? Ben prima di aver potuto leggere le opere della scuola di Palo Alto, l'umanità sembra essersi costantemente posta la stessa questione lancinante: come costringere gli uomini a essere spontanei? Se avesse parlato il linguaggio dell'utilitarismo, avrebbe potuto dire: come convincerli che è loro interesse essere disinteressati, persuaderli che, come dimostra il «dilemma del prigioniero», il bene comune può essere ottenuto soltanto se ciascuno abbandona la diffidenza

e accetta di rinunciare alla difesa del proprio interesse personale immediato, sapendo che gli altri faranno lo stesso? Dati i rischi corsi, si capisce come le società arcaiche e tradizionali abbiano optato per la prudenza e preferito rendere la spontaneità il più obbligatoria possibile, individuarne, analizzarne e nominarne i minimi meandri. Donde quella proliferazione dei rituali, delle prescrizioni e degli interdetti che fa inorridire i moderni e li spinge a credere che l'uomo arcaico o tradizionale viva soltanto nella costrizione e nell'assenza di spontaneità più assolute e insopportabili. Ciò è al tempo stesso vero e falso. Vero perché, per definizione, il rituale prescritto è costrittivo. Falso perché non può prevedere e dominare tutto, perché spesso è aperta la scelta tra più logiche dell'obbligo e perché, in ogni caso, nell'ambito degli ordini retti dalla tradizione e dal rito, la costrizione principale consiste nel porsi in posizione di donatore, e dunque nel prendere l'iniziativa. Falso anche perché le norme sono state decretate dai membri di quelle società, da quelli stessi che le rispettano, spesso mediante il meccanismo della democrazia diretta, e perché in ogni caso queste prescrizioni non sono imposte dall'esterno, se non dai "loro" antenati, dai "loro" dei. Falso infine, perché il grado di costrizione di una prescrizione interiorizzata dal soggetto è sempre problematico. Come si vedrà, un dono interamente obbligato non è un dono, quale che sia il tipo di società. Il dono è sempre un gioco e le prescrizioni e gli interdetti sono sempre in qualche modo, delle regole del gioco. «L'atmosfera del dono», per impiegare i termini di Marcel Mauss, è sempre quella «dell'obbligo e, insieme, della libertà» (1950, p. 258 [trad. it., p. 269]). Sarebbe certo impossibile arrischiare affermazioni così generali come quelle appena formulate se un ampio materiale etnologico non permettesse di suffragarle. E' esso sufficiente e abbastanza chiaro, eloquente e dimostrativo? Naturalmente, se ne può dubitare. Gli etnologi sono gente prudente, sensibile alle mille e una specificità delle società da essi studiate direttamente; ben pochi si azzardano a enunciare proposizioni che vanno oltre il loro campo di osservazione. Ciò consente di misurare meglio l'audacia di cui ha dato prova Marcel Mauss procedendo, nell'"Essai sur le don", alla ricerca di una forma generale, di una sorta di universale, possibile, probabile o potenziale, attraverso la diversità delle illustrazioni etnologiche tratte tanto dal continente americano quanto dall'Europa, dall'India o dall'Oceania. Mauss stesso si guarda bene dall'estrapolare i suoi risultati al di là delle culture che ha studiato: ma, a nostra conoscenza, nessuno studio etnografico ha apportato elementi che permetterebbero di battere in breccia le sue

generalizzazioni parziali, che sembra dunque possibile estendere. Fino ad affermare che tutte le società arcaiche, ovvero «selvagge» o «primitive» o «senza Stato», pensano se stesse e pensano il loro universo, il cosmo, nel linguaggio del dono? Sì, crediamo, con l'evidente riserva che un'affermazione così generale non può essere dimostrata induttivamente mediante accumulazione di esempi, ma soltanto valere finché non sarà stata confutata. Gli esempi che seguono serviranno come illustrazioni più che come prove. Illustrazioni sufficienti, speriamo, per criticare le teorie del dono primitivo che, mentre pretendono di spiegarlo, lo dissolvono fino a farlo scomparire e a dare l'impressione che si tratti di un puro miraggio che avrebbe sempre avuto una esistenza soltanto ideologica. - TRE ESEMPI DI DONO ARCAICO Si ricorda l'inizio dell'"Essai sur le don": «Nella civiltà scandinava e in un buon numero di altre, gli scambi e i contratti vengono effettuati sotto forma di donativi, in teoria volontari, in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente» (Mauss, 1950, p. 147 [trad. it., p. 157]). Questa proposizione, che resta vera, deve tuttavia essere doppiamente estesa e precisata. Da una parte, come si è appena detto, ad altre società arcaiche, probabilmente a tutte. D'altra parte, e seguendo Mauss stesso, per indicare che ciò che è così scambiato sotto forma di doni - o, meglio e più semplicemente, donato e ricambiato - non sono semplicemente beni economici o contratti, ma "si tratta, prima di tutto, di cortesie, di banchetti, di riti, di prestazioni militari, di donne, di bambini, di danze, di feste, di fiere, di cui la contrattazione è solo un momento e in cui la circolazione delle ricchezze è solo uno dei termini di un contratto molto più generale e molto più durevole" (ibid, p. 151 [trad. it., p. 161]). In una parola, tutto. Proprio per questo il dono costituisce il «fenomeno sociale totale» per eccellenza. Il dono, o meglio la circolarità e la reversibilità indotte, per riprendere ancora una volta l'espressione di Mauss, dal triplice obbligo di dare, ricevere e ricambiare. I due esempi principali dati da Mauss sono il potlàc, come studiato da Franz Boas presso gli indiani del Nordovest americano, e il "kula", minuziosamente descritto da Bronislaw Malinowski (1963), in "Argonauts of the Western Pacific".

"Il potlàc: perché distruggere?" - Chi praticava il potlàc? Gli indiani del Nordovest americano? Quali indiani? Gli haida, i tlingit, i tsimshian, i salish, i kwakiutl... E quali kwakiutl? E come definiti? A entrare nei particolari della letteratura scientifica, enorme e inesauribile, successiva ai lavori classici di Boas e dei suoi discepoli, le incertezze e i dubbi si moltiplicano. Si sa tanto meno precisamente quali di quelle tribù praticassero effettivamente il potlàc in quanto nessuno è d'accordo sulle caratteristiche di quest'ultimo (confronta Schulte-Tenckhoff, 1986). La perplessità dei membri di un tribunale canadese chiamato a giudicare, alla fine del secolo diciannovesimo un indiano accusato di aver praticato il potlàc, appena proibito dalla legge, non faceva altro che prefigurare quella che si sarebbe impadronita di decine, poi di centinaia di etnologi. La legge proibiva, sì, il potlàc ma non spiegava che cosa fosse. Senza pretendere di decidere nei dibattiti che dividono gli specialisti, limitiamoci dunque a ricordare la descrizione classica di Marcel Mauss e, per maggiori particolari, a rinviare il lettore al bel libro di Isabelle Schulte-Tenckhoff, che presenta tutti gli elementi del caso e giunge alla conclusione che, nonostante tutte le loro imprecisioni etnografiche, le descrizioni dell'etnografia francese ispirate da Mauss sono più giuste di quelle dei loro concorrenti anglosassoni (2). Ricchi, anche se non praticavano l'agricoltura, pescatori e cacciatori, da lungo tempo commercianti con i bianchi ai quali vendono pellicce, gli indiani della costa nordoccidentale dividono l'anno in due stagioni radicalmente contrastanti. D'estate si disperdono per cacciare, pescare e raccogliere «bacche succulente». D'inverno, al contrario, si raggruppano. Comincia allora un periodo di vita sociale intensa. Tutto è pretesto per feste continue e ripetute, spesso lunghissime. E' in queste occasioni che viene praticato il potlàc, la «lotta per la ricchezza» secondo l'espressione di Helen Codere (1950), nel corso del quale ogni capo di clan tiene a dimostrarsi più munifico degli altri. E a chi donerà la maggior quantità di cibo e di beni preziosi, le cui due specie principali rappresentano, dice Mauss, una sorta di moneta: da una parte degli oggetti di rame, alcuni dei quali sono dei veri e propri scudi blasonati; dall'altra delle belle coperte, «che, mirabilmente istoriate, servono ancora da ornamento e di cui alcune hanno un valore considerevole». Ai nostri occhi, si tratta di un gioco a chi perde vince dove si considera vincitore colui che si sarà dimostrato il più generoso. La vincita, nel caso, non è esclusivamente simbolica: "Lo statuto politico degli individui, nelle confraternite e nei clan, i ranghi di

ogni specie si ottengono con la «guerra di proprietà», allo stesso modo che per mezzo della guerra, o grazie alla fortuna, o per eredità o con l'affinità e il matrimonio. (...) Il matrimonio dei figli, i posti nelle confraternite si ottengono solo nel corso di potlàc scambiati e ricambiati. Li si perde al potlàc così come li si perde in guerra, al gioco, alla corsa, alla lotta" (Mauss, 1950, p.p. 200 seg. [trad. it., p.p. 212 seg.]). Al cuore del potlàc, due nozioni centrali che, in una forma o nell'altra o in gradi diversi, si ritrovano in tutti i sistemi di liberalità: la nozione di credito e la nozione di onore. Non si ricambia immediatamente, ma più tardi e in misura maggiore. E più tardi è meglio è, poiché questo lasso di tempo implica un aumento proporzionale del debito. Ricambiare immediatamente significherebbe rifiutare il dono riducendo prestazioni e controprestazioni a una semplice permuta o a uno scambio: a un baratto. Ora, se questo non è ignorato, negli interstizi dello scambio cerimoniale, nondimeno è tenuto in scarsa stima e confinato a prestazioni discontinue che non rischiano d'interferire con lo scambio nobile. Ricambiare immediatamente significherebbe che ci si sottrae al peso del debito, che si teme di non poterlo assumere, che si tenta di sfuggire all'obbligo, alla cortesia che vi obbliga, e che si rinuncia a stabilire il legame sociale per timore di non poter essere altrettanto munifico a propria volta. Che il peso del debito sia effettivamente pesante da portare è quel che risulta dal fatto che, come nota Marcel Mauss, tutto dev'essere reso aumentato di un interesse usuraio. Il tasso, scrive lasciandosi molto probabilmente ingannare da Boas, va in genere dal 30 al 100 per cento all'anno (ibid., p. 212 [trad. it., p. 224]). Venir meno all'obbligo di ricambiare è punito con la schiavitù per debito, paragonabile al "nexum" romano. L'onore, la valorizzazione del nome e l'aumento della fama sono dunque esattamente proporzionali alla capacità di perdere e di sopportare il debito. Questi segni di considerazione sono legati «al ricambiare puntualmente e ad usura i doni accettati, così da obbligare coloro verso cui si era rimasti obbligati» (ibid., p. 200 [trad. it ., p. 212]). Queste due nozioni di credito e di onore, notavamo, sono comuni a tutti i sistemi di dono. Quel che è specifico del potlàc kwakiutl e che ha affascinato generazioni di antropologi, professionisti o dilettanti, di saggisti e letterati, è il suo carattere esacerbato, il che spinge per esempio una Ruth Benedict a stigmatizzare presso il kwakiutl l'ossessione della ricchezza, il desiderio di superiorità e una megalomania paranoica spudorata (3). In effetti, la rivalità tende in permanenza a oltrepassare ogni limite. In certi potlàc, nota Mauss, si deve spendere tutto quel che si ha e non

conservare nulla; è a chi sarà il più ricco e a chi farà le spese più folli. E aggiunge: "In un certo numero di casi non si tratta neppure di dare e di ricambiare bensì di distruggere, per non dare neanche l'impressione di desiderare qualcosa in cambio. (...) Si bruciano le abitazioni e migliaia di coperte, si mandano in pezzi gli oggetti di rame più cari, li si getta in acqua per schiacciare, per «annientare» il rivale" (ibid., p.p. 201 seg. [trad. it., p.p. 213 seg.]). Non ci si stupirà del fatto che il potlàc costituisce per Mauss l'esempio privilegiato di ciò che egli chiama le prestazioni agonistiche. "Il dono circolare: il kula" - L'altro esempio di sistema di dono arcaico su cui Mauss si sofferma a lungo è quello del "kula", praticato dagli abitanti delle isole Trobriand e dai loro vicini, situati nelle Massim, a nordovest della Nuova Guinea. Questo sistema è più pacifico, benché fondato sulle stesse nozioni di credito e di onore. Qui non sono le modalità del credito che assumono una forma spettacolare. Il termine "kula" significa «cerchio», il cerchio che lega i partners disseminati in un numero notevole d'isole e di regioni, costituendo così un sistema internazionale di scambio di grande ampiezza, cerchio tanto più grande in quanto s'interseca, ai margini, con cerchi analoghi (4). La partecipazione al kula è la grande occasione della vita degli uomini trobriandesi: attraverso di essa si conquistano amici e fama; per essa vale la pena di vivere e in rapporto ad essa tutto acquista un senso. Se ci volesse una prova della superiorità, nell'esistenza umana, delle motivazioni propriamente simboliche su quelle esclusivamente materiali, probabilmente se ne troverebbe una delle più eloquenti considerando la straordinaria persistenza del kula. Lo scambio kula sembra in effetti esistere da almeno cinque secoli e, mentre non svolge alcuna funzione propriamente utilitaria, lungi dal deperire con l'«occidentalizzazione del mondo» (Latouche) svolge un ruolo sempre più importante nella vita attuale dei trobriandesi e dei loro vicini (Weiner, 1989). Che cos'è che attira e affascina tanto nel kula? Forse, in primo luogo, al di là della ricerca della fama comune a tutti questi tipi di scambi cerimoniali, la straordinaria chiarezza con cui la sua stessa struttura formale illustra i princìpi di alternanza e reversibilità che sono al cuore del gioco del dono. Tutti devono giocare ma ciascuno a sua volta, a suo tempo e al momento giusto. Esponiamo le cose in modo anch'esso formale e astratto: un bel giorno, un mese, un anno, un certo numero di uomini dell'isola A, sotto la direzione di un imprenditore, di un capo-spedizione,

noleggiano una o più piroghe e vogano verso l'isola B. Le piroghe partono quasi vuote, cariche soltanto di oggetti senza importanza, di perline di vetro o di paccottiglia, la cui sola funzione sarà quella di servire da esca, da "opening gifts". Una volta che i visitatori sono sbarcati sull'isola B, ciascuno ritrova i suoi vecchi partners di scambi, o si mette alla ricerca di nuovi facendo piccoli regali. Se questi sono accettati, l'uomo di B fa a quello di A un dono importante: si è creato un nuovo legame, ci si è fatti un nuovo amico, si è aperta una nuova strada ("keda"). Un capo trobriandese, nota Malinowski (1920), è così in rapporto con 200 amici, 100 a nord e 100 a sud. Create le nuove amicizie e consolidate le vecchie, gli uomini di A lasciano B e fanno vela verso un'isola C, poi D, dove si ripete lo stesso processo, per tornare infine ad A, ormai stracarichi dei regali preziosi ricevuti. Qualche mese o un anno dopo, sarà la volta della gente di B, poi di C eccetera di montare una spedizione, poi di ricevere a loro volta doni di valore nelle stesse circostanze. Nel quadro del kula certi beni utilitari possono circolare, a condizione che contengano una dimensione di lusso. Rapporti di baratto ("gimwali") sono tollerati, come nel quadro del potlàc, ma anche qui marginalmente e negli interstizi dello scambio cerimoniale. L'importante è che si eviti la confusione dei registri. Non c'è nulla di più infamante che essere accusato di condurre il kula come un "gimwali". I beni specifici del kula sono i "vaygu'a", gli oggetti preziosi, suddivisi in maschili e femminili, che circolano in senso opposto a seconda del sesso, e che consistono in braccialetti di conchiglie. Sono questi ultimi, oggetto di tutti i desideri, che alimentano le leggende, i racconti e i sogni; di loro si raccontano nei particolari le circostanze della traslazione, la potenza e la gloria dei loro ex detentori; sono loro che si custodiscono gelosamente, pur sapendo che bisognerà separarsene per farne dono. Il loro valore, osservano Malinowski e Mauss, oltre che secondo la grandezza e la qualità dei materiali di cui sono fatti, varia soprattutto in proporzione al numero dei partners per le cui mani sono passati e alla posizione sociale di questi ultimi. Sarebbe impossibile dunque trovare una illustrazione più eloquente della dissociazione radicale tra il valore simbolico dei beni e il loro valore utilitario. Analogamente, in "Coral Gardens", Malinowski (1935) descrive a lungo la produzione degli ignami e il modo in cui i trobriandesi ne distinguono la parte più importante, quella che sarà destinata esclusivamente al cerimoniale e la parte strettamente alimentare. Mentre gli ignami della prima categoria sono esibiti, quelli destinati al consumo sono trasportati di nascosto, quasi vergognandosi, e la quantità che un uomo se ne riserva

resta un segreto ben custodito (Breton, 1989, p. 50). Nel capitolo 6 di "Argonauts" Malinowski tenta una classificazione dei vari tipi di prestazioni alle quali procedono i trobriandesi andando da quelle che gli sembrano le più gratuite e le meno rette dalla legge dell'equivalenza, alle più interessate, a quelle che sono le più vicine al semplice baratto e allo scambio mercantile. Egli distingue sette tipi di prestazioni. Si noterà che il kula viene soltanto in sesta posizione, subito prima del baratto puro e semplice, il "gimwali", e sullo stesso piano del "wasi", sorta di kula interno a ogni isola e che riguarda beni alimentari, anche se conserva i tratti dello scambio cerimoniale. Soltanto con alcune tribù, partners disprezzati, è permesso mercanteggiare; e in ogni caso, il mercanteggiare è proibito agli aristocratici. Il resoconto di tali assalti di generosità non deve indurre in errore e far credere all'esistenza di un mondo troppo idilliaco. In fin dei conti ci sono dei vincitori e dei vinti nel gioco del dono, e i calcoli non mancano mai. In un recente articolo Annette B. Weiner (5) descrive minuziosamente il calcolo cui procedono i trobriandesi per sapere se devono, e quando, introdurre nel cerchio del kula i beni preziosi di famiglia, in teoria inalienabili (i "kitomu") e tanto più preziosi, tanto più in grado di scatenare il desiderio e di attrarre numerosi e superbi "vaygu'a". Analogamente, in un testo precedente, Reo F. Fortune (1972) riferiva come gli stregoni di Dobu, i più temibili di tutti i protagonisti del kula, ricorrevano più intensamente alle formule magiche per costringere i partners a donare loro i beni più cari e per assicurarsi, con la forza della magia, le conquiste femminili più insperate. In questo senso, è vero che il dono gratuito non esiste (Douglas, 1989). Ma il punto essenziale e che va sottolineato ai fini della nostra esposizione è che se, qui come altrove, tutti entrano in concorrenza con tutti al fine di ottenere i beni più ambiti, resta nondimeno il fatto che si otterrà solo quello che sarà stato dato. Tutt'al più si può costringere, con l'astuzia, con la magia o con la retorica a dare; a rigore non si può né estorcere con la violenza bruta né trarre vantaggio da uno scambio bilaterale razionale. Se gli uomini del kula si contrappongono individualmente tra loro, osserva Annette B. Weiner, è in definitiva «per acquisire determinati partners o "amici", come spesso li chiamano» (Weiner, 1989, p. 38). E' dunque ancor più legittimo dire del kula quel che un indiano skagit diceva del potlàc: «E' come una stretta di mano immateriale» (Schulte-Tenckhoff, 1986, p. 264). Il kula costituisce la mano visibile del dono: esso intesse una rete di rapporti tra persone là dove la mano invisibile che si suppone comandi il mercato regge il rapporto tra le cose.

Al che la critica femminista potrebbe opporre che se gli uomini del kula possono fare le anime belle ed esibire pose nobili lo devono al lavoro delle donne che, pur producendo beni destinati al sistema cerimoniale, ne sono radicalmente escluse. La discussione di tale critica richiederebbe tanto più tempo, attenzione e spazio in quanto implicherebbe quella della tesi di Claude Lévi-Strauss secondo la quale le donne non solo producono i beni che sono oggetto di dono, ma costituiscono esse stesse i primi oggetti del dono, il dono per eccellenza. Ci torneremo. D'altra parte, sembra che all'interno della sola area della Nuova Guinea la condizione relativa degli uomini e delle donne sia molto variabile. La generalizzazione sembra dunque rischiosa, e più ancora se la si dovesse estendere ad altre aree geografiche. Il punto più esauriente sulla questione, attualmente, è quello fatto da Marilyn Strathern (1988) (6). Pur riconoscendole una certa legittimità, ella tenta di dimostrare che la critica femminista sbaglia perché troppo eurocentrica. Da una parte, dimostra la Strathern, non si può trattare di sfruttamento del lavoro in una società che non conosce il lavoro e in cui le cose si ottengono soltanto attraverso il dono; d'altra parte, e soprattutto, non si può parlare di sfruttamento del lavoro delle donne da parte degli uomini perché l'identità sessuale non è definita come in Occidente e perché non si presume che gli esseri umani abbiano una identità sessuale predeterminata, fissa e imposta "ne varietur" (7). Ad ogni modo, nel caso preciso delle isole Trobriand, Annette B. Weiner (1983) ha mirabilmente dimostrato che Malinowski semplicemente non si era accorto dell'esistenza di un sistema cerimoniale oblativo esclusivamente controllato dalle donne, in modo complementare ai rituali kula che strutturano la vita propriamente sociale e politica, il controllo delle operazioni simboliche - morti, nascite - attraverso le quali la società entra in contatto con l'ordine cosmico (8), per non parlare del fatto che le donne sono le sole donatrici reali, se non necessariamente simboliche, dei bambini. Dunque non è possibile affermare che sempre e ovunque, nell'ordine sociale arcaico e tradizionale, gli uomini si riserverebbero il monopolio della posizione di donatori, nel migliore dei casi relegando le donne al solo ruolo di destinatarie, nel peggiore di riproduttrici espropriate (9). L'esempio delle isole Trobriand, in ogni caso, attesta che l'essenziale della lotta, non soltanto tra gli uomini, ma anche tra gli uomini e le donne, non ha come oggetto tanto l'appropriazione delle cose quanto l'appropriazione del potere di donare, come aveva già ben dimostrato Georges Bataille.

"Dono tradizionale e mercato" - Tutti gli scritti teorici sul dono che ambiscono a una certa generalità iniziano come il presente capitolo con un richiamo dei vecchi studi e una presentazione delle analisi recenti sul potlàc e il kula. Potlàc e kula costituiscono, in qualche modo, le «figure obbligate» di ogni «presentazione» del dono, e a giusto titolo. Per le «figure libere» la scelta è infinitamente più aperta. In particolare, recenti esplorazioni antropologiche della Nuova Guinea forniscono un ricco materiale. Ma ci sembra preferibile a questo punto affrontare un terzo continente, l'Africa, e porci il problema del posto del dono nell'ambito di una società relativamente complessa e che, a differenza dei kwakiutl e dei trobriandesi, conosce il mercato da tempo. L'esempio servirà così da introduzione a una riflessione sui rapporti tra il dono e la merce. Prendiamo dunque come guida il libro di Guy Nicolas, "Don rituel et échange marchand" (1986), dedicato a uno studio condotto tra il 1950 e il 1970 sul sistema oblativo della regione di Maradi, nel sud dello Stato del Niger. A nostro avviso si tratta del lavoro etnologico più completo e il migliore mai effettuato sulla questione: un modello del genere, purtroppo misconosciuto. Nel 1960, la regione di Maradi, una delle più densamente popolate del Niger, conta 141500 abitanti, di cui oltre 20 mila per la sola città di Maradi. I sedentari vivono in grossi villaggi di un migliaio di abitanti. L'attività economica si suddivide tra un'agricoltura di sussistenza, la produzione di arachidi per il mercato mondiale, e una importante produzione artigianale di cotonate e d'indaco che la regione esporta da lunga data. La popolazione è composta, da una parte, di peuls autoctoni dediti principalmente all'agricoltura e, dall'altra, di un ceto dominante haussa insieme mercantile e aristocratico. Gli haussa, costituiti in Stati nel secolo undicesimo, sono i mercanti dell'Africa centrale, dove se ne contavano 25 milioni nel 1960. Sono loro che, a Maradi, danno il tono e impongono l'ethos dominante, chiaramente mercantile. Tutti commerciano e si fa commercio di tutto. Ciascuno è a capo di una piccola impresa personale, produce e vende tessuti, cuoio, mobili, coperte eccetera. L'unità sociale di base è la famiglia poligama ("gida"), la cui importanza è minacciata dal villaggio ("gari"), che ormai ha la meglio per il suo peso simbolico sul clan. In questa società che da molto tempo conosce una piccola proprietà individuale ereditaria, ciascuno gode di una grande autonomia individuale, il cui esercizio però consiste nello scegliere tra più appartenenze. Il sistema religioso è molto complesso poiché

consiste in una sovrapposizione di religioni agrarie politeistiche, di un culto cittadino, anch'esso politeistico, di origine haussa e di un islam onnipresente, benché in modo superficiale. Il potere appartiene tradizionalmente all'aristocrazia haussa. La regione di Maradi è divisa in due province, a loro volta divise in cantoni, i cui capi portano il titolo regale di "farki". Ogni villaggio, infine, è comandato da un capo che è solo un "primus inter pares" scelto tra i capifamiglia, spesso in quella dei fondatori del villaggio. L'interesse particolare del libro di Guy Nicolas dipende dal fatto che egli procede a un'analisi del complesso dei sistemi oblativi che strutturano la vita a Maradi e le danno il senso e il colore particolare. Grazie al suo scrupolo di esaustività, egli attesta l'onnipresenza del dono in seno a una società che, da un altro punto di vista, potrebbe passare per una società mercantile, quale effettivamente essa è. Il dono rituale è praticato in quattro settori significativi dell'esistenza sociale: le grandi tappe della vita; la vita religiosa; le feste della gioventù e le gare; le pratiche di potere. Non è possibile riprodurre qui nei particolari lo studio di Nicolas, ma se ne può dare una idea. Le grandi tappe della vita di un abitante di Maradi sono l'attribuzione del nome, la circoncisione, il matrimonio e i funerali. Ci limiteremo in proposito a parlare brevemente dei matrimoni, solo per suggerirne la complessità, che basta a dimostrare come la dote versata dal fidanzato al padre della sposa ("bridewealth") non possa essere assimilata al prezzo pagato per l'acquisto di una merce. Nel caso, a Maradi, questa prestazione matrimoniale ("sadaki") è relativamente modesta a confronto con l'ammontare raggiunto in molte altre società africane. Il processo di matrimonio comporta tre tappe: il fidanzamento, il matrimonio propriamente detto e l'accompagnamento della sposa al domicilio del marito. Non è possibile descrivere qui i rituali complessi che si svolgono a ciascuna di queste tappe. Ci limiteremo a indicare i nomi pittoreschi dei vari doni che sono effettuati in tali occasioni. Il periodo del fidanzamento comincia con un primo dono, detto «denaro per vedere il lignaggio» (della futura fidanzata), sorta di "opening gift". Gli corrisponde un «dono della potestas» versato dai genitori della futura sposa. Dono restituito con un lavoro effettuato sul campo del futuro suocero, detto «parte di coltura reciproca in ringraziamento». Seguono numerosi doni scambievoli di animali, sale, noci di cocco, noci di betel eccetera. In occasione delle cerimonie di matrimonio propriamente dette, oltre al versamento del "sadaki", si effettuano un «dono di denaro del furto» che evoca il matrimonio con rapimento; un «dono che uccide la madrina»; un «dono di denaro dell'altalena» e, da parte del marito, un regalo di nozze molto

importante, la cui composizione è stata minuziosamente decisa in precedenza. Nel momento della venuta della sposa nell'abitazione del marito, qualche giorno dopo, si versa alle accompagnatrici «il denaro dell'accompagnamento della sposa» al quale si aggiunge, per far cessare il disprezzo che esse ostentano per l'abitazione del marito, «il denaro del disprezziamo»; seguono il versamento del «denaro della riunione» e quello del «denaro della schiava», destinato a riscattare da una schiavitù ludica la sorella cadetta della sposa. La madre del marito offre un «dono di ringraziamento» ai genitori della sposa. Da parte sua, il marito deve fare alla moglie un nuovo regalo perché ella accetti di parlargli e di avvicinarglisi. Anche i giorni successivi sono occasione di numerosi altri doni. Se si ricorda che gli abitanti di Maradi sono poligami e che lo scopo di ogni uomo è quello di avere il maggior numero di spose possibile, si capisce come le sole cerimonie del matrimonio bastino a riempire l'esistenza e a porla pesantemente sotto il segno del dono. Tanto più che, ancor prima di giungere al fidanzamento, l'uomo ha dovuto fare la corte e che questa implica numerosi altri doni. In questa occasione, come in quella del matrimonio l'autonomia delle donne si manifesta in modo spettacolare. In occasione del matrimonio, la famiglia della sposa, in effetti, versa un dono di compenso, chiamato "hé" (aumento); un tempo modesto, lo "hé" tende oggi a diventare più importante dei doni effettuati dalla parte dello sposo, contro il parere del padre della sposa e ancor più contro quello del governo, ma dietro istigazione della sposa e di sua madre. Il nome stesso di questa pratica richiama il meccanismo del potlàc. E in realtà la logica della rivalità oblativa impregna tutta la vita a Maradi, tanto più che gli stregoni ("griots") onnipresenti e che vivono dei resti della oblatività generale, lodano in ogni occasione importante la generosità dei donatori, o stigmatizzano la meschinità di coloro che non danno abbastanza. Attraverso lo "hé" madre e figlia rivaleggiano per schiacciare le rivali. Sin dalla più tenera età, e a volte anche di nascosto dalla madre, la giovane donna si dedica a costituire il suo "hé", dandosi a tutte le attività che possano fruttare risorse finanziarie. La principale consiste nel mettere in concorrenza tra loro più pretendenti facendo salire le offerte per scegliere in genere il maggior offerente. I concorrenti scartati possono eventualmente chiedere un risarcimento al prescelto; ma in ogni caso, i «doni di ricerca della moglie» costano cari. Secondo un calcolo di Guy Nicolas, essi rappresentano il 72 per cento del complesso delle spese relative a un matrimonio. Per spendere meno i giovani, nella maggior

parte dei casi, possono aspirare soltanto a delle vedove che eventualmente contribuiscono anche a completare con lo "hé" un capitale iniziale troppo esiguo. A questo punto sarebbe il caso di richiamare almeno le mille altre occasioni di dono descritte da Nicolas: i doni alle danzatrici esperte degli spiriti del culto vodu, vere e proprie prostitute sacre; il dono di spose ai religiosi austeri, il "dobu", potlàc tramite il quale i giovani rivaleggiano per accedere al titolo di maestro superando l'invidia, l'odio e la stregoneria dei rivali; o ancora il «dobu delle donne» ("kan kwarya") aperto a tutte le donne che ne manifestano il desiderio, tramite il quale queste ultime tentano di accedere al titolo di capitana ("tambara") lanciando una sfida di ricchezza a tutte le altre donne. La capacità di lanciare tale sfida, debitamente constatata dagli stregoni, presuppone, osserva Nicolas, «virtù di ascetismo, di energia nel lavoro, di previdenza che non sono alla portata di tutti» (1986, p. 90). Come quella dei guerrieri selvaggi studiati da Pierre Clastres, la carriera di "tambara" non è mai compiuta: sempre nuove occasioni si presentano alla "tambara" per dimostrare la sua generosità. Limitiamoci a segnalare, per finire a proposito di Maradi, che coloro che non sanno essere spontaneamente generosi si espongono alla minaccia permanente di un "gukun", cioè di un dono di lavoro effettuato clandestinamente, di notte, dai giovani del villaggio che li costringerà a un controdono particolarmente dispendioso, con il pericolo di perdere definitivamente la faccia. Dal punto di vista della sociologia, c'è qualche inconveniente nel centrare troppo le discussioni sui soli esempi classici del potlàc o del kula: non rinviano forse a uno stato dell'umanità superato da molto tempo, e che non ci riguarderebbe più? In realtà, la loro analisi è lasciata agli antropologi. Senza dubbio la società di Maradi ci è meno estranea, almeno in quanto fa parte di un passato meno lontano da noi. Lo studio che ne ha fatto Guy Nicolas permette, a nostro avviso, di trarre qualche conclusione provvisoria immediata. Essa dimostra che la dicotomia pertinente non è quella che contrapporrebbe il calcolo all'assenza di calcolo, l'interesse al disinteresse. Il calcolo evidentemente era già presente nel caso del potlàc e del kula; a Maradi tutti calcolano, comprano e vendono. Ma quel che emerge in modo altrettanto chiaro è che il fine ultimo del processo complessivo, il momento del consumo finale, consiste nel ritrovarsi in posizione di donatore. Come nota giustamente Nicolas, l'investimento nel dono e l'investimento nella merce vanno di pari passo e si alimentano reciprocamente. Nondimeno il secondo sembra dominato

gerarchicamente dal primo, che gli «dà» il suo senso finale. «L'ordine oblativo impone al mercante di sottomettersi alla sua legge e al donatore di partecipare al mercato per procurarsi quei beni» (1986, p. 178). Pur essendo onnipresente, il mercato tende dunque a essere strumentale rispetto al dono. Si sa che Marx contrapponeva la formula della «piccola produzione mercantile semplice» al caso del capitalismo, affermando che nella prima era la merce, considerata in primo luogo nella sua dimensione di valore d'uso, che costituiva al tempo stesso il punto di partenza e il fine del processo, laddove nel capitalismo il denaro diventa precondizione e termine del processo complessivo. Egli riassumeva questa opposizione con le due formule opposte: M-D-M da una parte e D-M-D dall'altra (M = merce e D = denaro). Posto D apostrofo = dono, per caratterizzare una società tradizionale ancora retta dal dono nonostante il posto importante che vi occupa la merce, si può scrivere D apostrofo-M-D-M-D apostrofo. La stessa cosa può essere detta in altro modo. Il consumo dei beni a Maradi è in primo luogo un consumo pubblico, o meglio fatto in pubblico e per il pubblico, più che un consumo strettamente privato. Il che porta ad affermare, sulle orme di Mary Douglas e di Baron Isherwood (1979) che il consumo è in primo luogo un lavoro rituale. O ancora, altra formulazione equivalente, a Maradi la logica del valore delle cose resta ancora subordinata a quella del valore delle persone. Prima di chiedersi in che modo il dono arcaico può essere comparato con il dono moderno descritto nella parte prima, importa proseguire la presentazione del dono arcaico completando questi studi di casi particolari con una riflessione su un problema altrettanto classico quanto possono esserlo il potlàc e il kula: il ruolo del denaro in quelle società. - SULLA NATURA DELLA MONETA NELLE SOCIETÀ SELVAGGE Hegel diceva della moneta che «essa è libertà coniata». Scriveva anche che «la logica costituisce il denaro dello spirito». Sarebbe possibile moltiplicare le metafore in questo senso (10). Tutte dimostrerebbero a che punto la moneta è consustanziale alla modernità. Di quest'ultima il denaro è al tempo stesso la quintessenza e la condizione prima di possibilità (11). Così, per chi si ponga il problema delle somiglianze e differenze tra le società arcaiche e le società moderne, non c'è indubbiamente tema di riflessione più centrale e nevralgico di quello che pone l'interrogazione circa la natura della moneta arcaica. Senza desiderio di denaro, non si dà sistema economico moderno né è

concepibile un sistema di mercato. Senza desiderio dei beni preziosi arcaici che Marcel Mauss proponeva di considerare come forma di moneta, senza desideri intrecciati e spettacolari per i "vaygu'a", i "taonga" o gli oggetti di rame blasonati dei kwakiutl, kula e potlàc sono impossibili. I desideri che si manifestano in entrambi i casi, quello moderno e quello arcaico, sono comparabili? E gli oggetti cui si riferiscono sono della stessa natura? O ancora, i beni di valore arcaici sono gli antenati diretti della moneta moderna, facilmente sussumibili sotto il concetto generico di moneta, oppure appartengono a un'altra specie, almeno tanto diversa dalla moneta degli economisti quanto l'uomo di Neanderthal dall'"homo sapiens"? A tale questione del grado d'identità della moneta arcaica e della moneta moderna, colui che è probabilmente il migliore specialista francese, Jean-Michel Servet (1982) risponde in modo cauto e prudente. Egli chiama «paleomonete» le monete arcaiche, per designare al tempo stesso il fatto che molto spesso i beni che hanno svolto il ruolo di moneta arcaica si sono caricati poi delle funzioni monetarie moderne e, d'altra parte, per insistere sulla mutazione che quei beni subirono allora. A nostro avviso, è la tesi della discontinuità che va sostenuta. Certo, nessuna società conosciuta, a quanto pare, ignora l'uso di oggetti preziosi che possono essere contati (12). Si può essere tentati dunque di vedere in ciò il segno di una necessità universale di misurare il valore dei beni. Basterebbe fare un altro passo per accreditare l'evoluzionismo economicistico dominante, quello che vuol vedere nel dono e nello scambio cerimoniale soltanto una sorta di lusso esotico, ipocrita, sottile pellicola posta alla superficie di un realismo economico sempre presente, che si manifesterebbe nell'eternità del baratto, dello scambio diretto, presto razionalizzato e sviluppato grazie alla comparsa della moneta, questo intermediario degli scambi che ne permette la moltiplicazione. Ora, questo schema di lettura economicistico non è sostenibile. Nello stesso modo in cui, come si è visto, il baratto e anche il mercato non sono ignorati nella società arcaica, ma vengono mantenuti strettamente ai margini, così in essa hanno corso monete di ogni sorta, che servono però a tutt'altro che la moneta di oggi. A stare agli economisti, quest'ultima assolve almeno tre funzioni: essa misura il valore dei beni, ne consente la circolazione e serve infine a pagare e a restituire debiti «materiali». Le monete primitive contribuivano già a loro modo ad assolvere queste tre funzioni; ma, come notava Karl Polanyi (1944, 1957, 1977) nessuna moneta arcaica le assolveva simultaneamente. Più in generale, a suo avviso, tali monete erano sempre specifiche (servivano a un solo uso: "one purpose"), laddove la moneta moderna è in qualche modo buona per

«tutti gli usi» ("multipurpose"). Il sistema monetario dell'isola Russell, per esempio, conosce due sfere monetarie, quella del sistema Ndap e quella del sistema Nko. Limitiamoci alla prima: il sistema Ndap è diviso in ventidue classi di monete di conchiglie. Un determinato bene può essere ottenuto soltanto in cambio di una conchiglia Ndap di un determinato rango, di cui peraltro l'acquirente potenziale, nella maggior parte dei casi, non dispone. Questo esempio basta a rendere consapevoli del fatto capitale che le «monete» arcaiche non formano un insieme omogeneo, dotato di proprietà di addittività e sostituibilità. Nessuna singola moneta è immediatamente sostituibile a un'altra secondo rapporti numerici semplici. Gli abitanti delle isole Palau (nelle Caroline) a volte sono stati visti come capitalisti finanziari "ante litteram". In effetti si appassionano per le loro «monete». Ora, queste sono suddivise in nove generi fondamentali e in 282 tipi diversi. I più esperti di quei «banchieri» primitivi conoscono i nomi di tremila singole monete diverse, nonché quelli dei loro detentori presenti e passati, la storia dei tragitti complessi che esse hanno compiuto. Quel che secondo Mauss consentirebbe di parlare di moneta a proposito di questo tipo di beni preziosi, è il carattere generale della loro circolazione. Ora, questa in realtà è strettamente limitata. Sembra in effetti che sia possibile generalizzare l'osservazione condotta nei particolari da Paul Bohannan sui tiv della Nigeria, che dimostra l'esistenza di tre tipi di beni appartenenti a tre sfere di circolazione diverse e in teoria non destinate a comunicare: la sfera dei beni di sussistenza, quella dei beni di lusso e quella dei beni di prestigio (13). Non esiste alcun mezzo, in particolare alcuna moneta generale, che permetterebbe di convertire almeno ufficialmente, beni di sussistenza in bestiame, donne o bambini. La generalità della circolazione è dunque molto relativa, la moneta primitiva circola soltanto permutandosi con un numero di beni molto ristretto e tra un certo numero di partners determinati. Essa non può seguire qualsiasi strada. D'altra parte, e questo avrebbe dovuto indurlo a rinunciare alla sua tesi del carattere monetario della moneta selvaggia, lo stesso Marcel Mauss notava che il valore delle singole unità monetarie non è mai fisso; esso varia in funzione del numero dei detentori precedenti, del loro prestigio, nonché delle circostanze che hanno presieduto alle transazioni cui sono servite. Più in generale, per un medesimo bene, i prezzi primitivi variano secondo il valore sociale degli attori dello scambio. Agli abitanti dell'isola tale si darà un pesce contro un taro o un igname; a quelli di un'altra, per esempio, dieci pesci. L'esigenza di eguaglianza, di reciprocità aritmetica evidentemente non è tra le preoccupazioni più urgenti. In Nuova Guinea, i

baruya danno sotto forma di pani di sale una giornata di lavoro ai vicini yaundanyi che ne restituiscono loro due e mezzo sotto forma di mantelli di scorza. La cosa è nota a tutti e considerata normale a causa della superiorità magica dei baruya sugli yaundanyi (confronta Godelier, 1973). Tutte queste osservazioni ci avviano verso una conclusione semplice: la moneta primitiva non misura in primo luogo il valore delle cose, ma quello delle persone (14). Se misura il valore delle cose è soltanto in modo indiretto, rispecchiando il valore delle persone. Inoltre, la moneta arcaica non permette di acquistare nulla: del resto come si potrebbe "acquistare" dato che non si può ottenere nulla che non sia "donato", a parte baratti residuali che non passano per la moneta? La moneta arcaica non serve ad acquistare ma a pagare, e non principalmente il prezzo delle cose ma quello delle persone, il prezzo della sposa o quello del sangue. Essa non è al cuore di un sistema economico inesistente, ma al centro del sistema matrimoniale e del sistema della vendetta. La moneta moderna nascerà soltanto allorché il valore delle cose diventerà autonomo rispetto a quello delle persone; il giorno in cui i tiranni greci portati al potere dai primi fallimenti della democrazia faranno fondere i beni preziosi appartenenti alle famiglie aristocratiche per farne monete coniate il cui valore, garantito dalla Città, sarebbe stato indipendente da quello dei loro ex detentori. Prima di rappresentare la libertà sotto forma di moneta battuta, la moneta moderna è dunque per prima cosa l'eguaglianza sotto forma di moneta battuta (15). Rinviando al principio statale, essa garantisce che in teoria uno vale uno e che tutti hanno diritto a un pari accesso ai beni, qualunque sia il loro valore sociale, salvo a moltiplicare le ineguaglianze concrete a partire da questo principio di eguaglianza astratta cristallizzato dall'invenzione della moneta. La società arcaica, viceversa, postula che le persone e le cose hanno "a priori" valori diversi, e che è compito del dono produrre una certa redistribuzione e una certa parificazione a partire dal postulato che ciascuno è unico. Il significato della moneta arcaica, dunque, non si legge nel rapporto che essa ha con le cose ma in quello infinitamente più complesso e generale che essa stabilisce con le persone viventi, morte o destinate a rinascere, con gli animali e con il cosmo. Essa non è altro che la vita stessa. Come scrive Jean-Michel Servet, "sono delle paleomonete, il luogo del discorso e del contatto fisico (...). Esse seguono il verbo, le donne, i bambini, altre ricchezze date e ricevute. Il semplice fatto di detenerle sarebbe non solo assurdo ma pericoloso. In canaco i termini tradotti con «vita» e «debito» sono designati da una stessa parola. Colui che è in debito non ha fatto altro che abbandonare una parcella della sua energia al

creditore; la ritroverà quando porterà quel che doveva; quando il creditore muore, il debitore si libera di un debito per non lasciare la propria vita nelle mani di un morto. Le paleomonete canache sono il respiro dei bambini, i bambini di un clan; seguendo i canali della parentela, le paleomonete seguono il flusso vitale. Totem e parentela sono indispensabili per ottenere paleomonete e, reciprocamente, senza il 'mié', i gruppi, i clans non possono entrare in rapporto con altre persone e non hanno esistenza sociale (...). Li si vede circolare come compensazione matrimoniale o per assassinio e offesa, come capacità di concludere un'alleanza politica tra gruppi, come oggetto esclusivo del sacrificio (...). Sono mezzi di scambio sociale" (Servet, 1982, p.p. 196 seg., 207). In una società senza scrittura, la moneta costituisce il repertorio privilegiato che serve da supporto alla memoria collettiva. Perché ogni singola moneta è unica, intrinsecamente insostituibile alle altre, essa ricorda in ogni momento, con la sua sola presenza, la sua origine e il percorso che ha seguito. Essa rende dunque immediatamente visibile la serie totale dei debiti e degli obblighi intrecciati che tutti hanno verso tutti. Così Ann Salmond poteva scrivere a proposito di certi "taonga" maori in nefrite, particolarmente preziosi e in teoria inalienabili: "Ogni tesoro taonga era un punto fisso nella rete tribale dei nomi, delle storie e delle relazioni. Essi appartenevano ad antenati particolari, discendevano da filiazioni particolari, possedevano la loro propria storia ed erano scambiati in certe occasioni memorabili. I taonga catturavano la storia e la mostravano ai viventi ricordando i modelli del passato, dalla prima creazione fino al tempo presente" (citato in Weiner, 1988, p. 147). Ma è forse presso i maenge della Nuova Bretagna, le cui paleomonete si chiamano "pages" che si legge meglio l'equazione primordiale un "page" = una vita (Panoff, 1980). Equazione di cui sembra ora possibile esplicitare tutti i termini: la moneta arcaica non è altro che la vita, che non è altro che il soffio vitale, la forza che fa crescere, che a sua volta non è altro che il nome e il dono, che a sua volta non è altro che il debito. La moneta arcaica rappresenta la cristallizzazione delle persone in società che non conoscono gli individui ma dove ci sono soltanto persone. Teniamo presente questa equazione per tentare una interpretazione del dono arcaico.

CAPITOLO 8 LE INTERPRETAZIONI CLASSICHE DEL DONO ARCAICO Perché e per che cosa si dona? Perché bisogna accettare i doni, i regali? Perché non è possibile non ricambiarli? Queste sono, si ricorderà, le tre domande con le quali inizia l'"Essai sur le don" di Marcel Mauss. A tali questioni l'"Essai" propone o suggerisce, a metà esplicitamente a metà implicitamente, tre tipi di risposte che si ritrovano più o meno in quelle che è possibile qualificare come le interpretazioni classiche del dono: l'interpretazione economica, l'interpretazione «indigena» e l'interpretazione strutturalista-scambista. La prima e la terza, nel tentativo di riferire il dono a una verità che sarebbe ad esso esterna, presentano l'inconveniente di dissolverlo. La seconda, quella che piaceva di più a Mauss stesso resta enigmatica e incompleta. Un rapido esame di questi tre grandi tipi d'interpretazione ci permetterà di disegnare lo sfondo sul quale si svolge la parte essenziale del dibattito teorico, prima di abbozzare la nostra formulazione. - L'INTERPRETAZIONE ECONOMICA L'interpretazione economica del dono è quella che viene più spontanea alla mente moderna. Non è sorprendente dunque che essa sia di gran lunga la più diffusa tra le teorie del dono. Proprio ad essa si riferisce Marcel Mauss all'inizio dell'"Essai sur le don", evocando "il carattere volontario, per così dire, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato, di queste prestazioni. Esse hanno rivestito quasi sempre le forme del dono, del regalo offerto generosamente, anche quando nel gesto che accompagna la transazione, non c'è che finzione, formalismo e menzogna sociale e, al fondo, obbligo e interesse economico" (1950, p. 147 [trad. it., p.p. 157 seg.]).

E aggiunge: «Il mercato (...) è un fenomeno umano che secondo noi, è presente in ogni società conosciuta». Queste dichiarazioni sembrano entrare in contraddizione con le altre spiegazioni proposte d'altra parte da Mauss, e con la sua constatazione che "l''homo oeconomicus' non si trova dietro di noi, ma davanti a noi (...). L'uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice" (ibid., p. 272 [trad. it., p. 284]). Una contraddizione dello stesso tipo anima tutta l'antropologia culturalista americana, come dimostra alla perfezione Isabelle SchulteTenckhoff (1986). In effetti, da una parte, il culturalismo mette sistematicamente l'accento sull'inesauribile e irresistibile diversità delle culture umane, tutte organizzate attorno a valori in se stessi presunti arbitrari. Dall'altra, al di là dell'affermazione di questa diversità, crede di poter ritrovare sistematicamente l'efficacia universale delle motivazioni strettamente economiche. Accade così che Franz Boas, che è al tempo stesso lo scopritore del potlàc e il fondatore dell'antropologia culturale, scrive quanto segue: «Gli indiani considerano il potlàc come un mezzo per assicurare il benessere dei loro figli nel caso in cui questi restassero orfani in tenera età. Per impiegare un termine nostro, è la loro assicurazione sulla vita» (1). Analogamente, mettendo l'accento sui «tassi usurai» praticati nel potlàc, egli afferma che il principio fondamentale di quest'ultimo è «investire ricchezze che fruttino interessi» (2). Analogamente ancora, Paul Radin qualifica gli indiani della costa nordoccidentale come «capitalisti del Nord» e descrive il potlàc come «una vera e propria vendita all'asta di nomi, privilegi e beni» (3). Più tardi, due dei maggiori rappresentanti della corrente detta «formalista» dell'antropologia economica, Raymond Firth (1972) e Melville Herskowitz (1965) concorderanno nell'idea che è servita e serve tuttora come banalità di base nella letteratura scientifica, cioè che le pratiche oblative corrispondono a «un investimento materiale in vista di un profitto sociale». A stare a questo tipo di spiegazione si finisce col chiedersi se Mauss non abbia avuto le traveggole e se qualcosa di simile a pratiche di dono sia mai esistita. Nel caso del potlàc il dubbio è tanto più forte in quanto, come si è visto, la caratterizzazione del potlàc è a sua volta incerta. Tutti gli specialisti concordano ora nel ritenere che una parte del suo carattere esacerbato dipenda dalla situazione particolare nella quale si trovava la società kwakiutl alla fine del secolo diciannovesimo. La sua ricchezza eccezionale si spiegava in parte con gli antichi rapporti commerciali con i bianchi, in questo caso fruttuosi. D'altra parte, verso il 1890, la popolazione kwakiutl era notevolmente diminuita mentre il

numero delle posizioni onorifiche era rimasto stabile (600), sicché nel caso frequente della mancanza di eredi legittimi e indiscussi, poteva aprirsi la concorrenza tra parenti lontani e tutti "a priori" altrettanto poco legittimi. Peter Drucker (1967) che è un'autorità in materia, proponeva dunque di distinguere tra il potlàc ordinario, conforme alla istituzione originaria, e il potlàc di rivalità, corrispondente, a suo avviso, a uno stato patologico. La parola potlàc, egli osserva, non significa altro che «dare». Il potlàc ordinario implicava semplicemente una festa data in occasione di un avvenimento importante, destinato a simboleggiare e a rendere pubblica una modificazione di diritti. Non avrebbe avuto niente a che vedere né con i «tassi usurai» né con la rivalità. Era una semplificazione eccessiva poiché, come si è visto, l'elemento di rivalità non è mai assente dal sistema di dono arcaico. Ad ogni modo, questa distinzione apre la strada alle interpretazioni economiche che si potrebbero qualificare "hard", confinando tra le anomalie tutti gli aspetti strani del potlàc, per interessarsi soltanto alle sue funzioni economiche. Ai confini dell'ecologia culturale ispirata da Julian Steward e del materialismo culturale rappresentato da un Melvin Harris, numerosi autori mettono in evidenza le funzioni propriamente utilitarie del potlàc. In questo come in altri casi, l'essenziale sarebbe massimizzare l'energia o le calorie prodotte o distribuite. Stuart Piddocke (1965) vede nel potlàc una sorta di cassa di compensazione tra tribù temporaneamente deficitarie e tribù temporaneamente beneficiarie. Analogamente Melvin Harris, il caloroso difensore di un materialismo radicale di tipo settecentesco, ritiene che la vera ragion d'essere del potlàc consisterebbe nel fatto che esso organizza «il trasferimento di cibo e di ricchezza dai centri ad alta produttività a quelli meno fortunati, presso popoli che non hanno ancora una vera classe dirigente». E aggiunge, più in generale e contro le interpretazioni che avevano goduto del favore dei culturalisti: «Il sistema economico dei kwakiutl non era al servizio della rivalità di statuti, al contrario questi ultimi erano al servizio del sistema economico» (4). In Francia, l'antropologia economica marxista, tanto potente negli anni settanta, in particolare con i vari Maurice Godelier, Claude Meillassoux, Emmanuel Terray e Pierre-Philippe Rey, ha tentato di praticare un materialismo più raffinato; ma insieme abbastanza ambiguo e indeterminato, poiché essa non è mai riuscita a precisare se l'economico di cui postulava il carattere «determinante in ultima istanza» fosse da comprendere piuttosto nella dimensione delle forze e del «processo di produzione», il che avrebbe minacciato di farla cadere dalla parte del

materialismo volgare; oppure se l'essenziale non fosse da ricercare dalla parte dei «rapporti di produzione», con il rischio di non distinguere più molto bene questi ultimi dai rapporti sociali o politici o dai rapporti di parentela. Per l'essenziale, l'antropologia economica marxista si è sforzata di ridurre il modo di scambio al modo di produzione, il che finiva con il proiettare immediatamente il dono dalla parte della soprastruttura o dell'ideologia. Ora, non c'è alcun dubbio che il dono possa essere manipolato, più o meno consapevolmente, e servire a mascherare o a eufemizzare i rapporti di dominazione e di sfruttamento; resterebbe tuttavia da dimostrare che esso è integralmente riducibile ai suoi usi ideologici. E' la mancanza di tale dimostrazione che a nostro avviso rende erroneo quello che è senza dubbio il più grandioso tentativo di costruire una teoria sociologica generale sulla base di una interpretazione economica del dono: la sociologia o meglio "l'économie générale de la pratique" di Pierre Bourdieu (1972) (5). Questa ha il merito di rappresentare, all'interno del campo di pensiero influenzato da Marx, l'elaborazione teorica che meno sottovaluta il peso delle motivazioni propriamente simboliche nel comportamento umano. Gli "Etudes d'ethnologie Kabyle" di Bourdieu costituiscono notevoli contributi allo studio della logica dell'onore. Nondimeno, Bourdieu sembra credere impossibile renderne conto, sempre in ultima analisi, se non postulando che la dialettica dei capitali - simbolici, culturali, sociali eccetera - che egli studia con tanto acume si riduca in fin dei conti alle necessità inerenti all'accumulazione del capitale economico. Il fatto è, egli spiega, che «l'economico in se stesso», in altri termini l'interesse materiale oggettivo, è sempre presente. Quel che caratterizzerebbe le società arcaiche tradizionali sarebbe l'assenza di un «economico per sé», la scarsa coscienza o la dissimulazione dell'interesse materiale. Si giunge così all'idea che il dono non sarebbe altro che «formalismo e menzogna sociale» (Mauss, 1950, p. 147 [trad. it., p. 158]). Sarebbe ridicolo abbozzare qui in poche righe una confutazione di queste letture economiche del dono. Se questo libro convince almeno in parte il lettore, tale scopo sarà raggiunto da solo. Basti ricordare che le società arcaiche non vivono nell'ossessione della scarsità materiale (Sahlins, 1976; Caillé, 1984) e che l'accumulazione materiale non è la loro preoccupazione principale. D'altra parte, l'obbligo di donare contrasta direttamente con le esigenze dell'accumulazione. Le interpretazioni economiche del dono si basano necessariamente sul postulato della inconsapevolezza o della ipocrisia dei selvaggi. Ora, si ricorderà che il baratto non è affatto ignoto né ai kwakiutl né ai trobriandesi, e che la

società africana studiata da Guy Nicolas è senz'altro una società di mercanti. Non è possibile dunque imputare loro la mancata consapevolezza dell'«economico in sé». Sarebbe meglio dire che questo è contenuto, che si impedisce deliberatamente l'autonomizzazione dell'ordine della merce dal suo contesto sociale complessivo; che la società arcaica è «contro l'economia e il mercato», così come, a stare a Pierre Clastres, essa è «contro lo Stato». Quanto all'ipocrisia, è sempre possibile imputarla a ogni individuo o a ogni società; ma se si conviene di riconoscere l'onnipresenza dell'«ideologia del dono» nelle società arcaiche, l'accusa d'ipocrisia perde vigore. Se tutte quelle società e tutti i membri di quelle società ne sono vittime, chi non lo è? Ammettiamo pure che fino all'avvento del capitalismo - poiché è di questo che si tratta - tutti i gruppi umani abbiano vissuto nella ipocrisia più totale: resterebbe da spiegare questa scelta, perché mai l'hanno trovata vantaggiosa. - L'INTERPRETAZIONE «INDIGENA» Così, nonostante le citazioni sopra riportate e che potrebbero far credere il contrario, l'interpretazione economica del dono non è quella veramente preferita da Marcel Mauss. Egli sembra darle provvisoriamente credito solo per cautelarsi contro i rischi d'idealismo, e per non cadere in una ideologia del disinteresse che sarebbe soltanto l'immagine capovolta dell'utilitarismo economicistico che egli combatte. Dei tre obblighi da lui distinti quello che gli sembra più misterioso e interessante è evidentemente quello di ricambiare. E in effetti egli si pone il problema di sapere come una società primitiva riesca a far sì che siano rispettati contratti puramente taciti e impliciti, e perché essi siano onorati, quando non esistono né testi scritti né ufficiali giudiziari né agenti della forza pubblica. E' noto che Mauss credette di trovare l'essenziale della risposta a tale problema nelle parole di un saggio maori di nome Ranaipiri, parole dette a un missionario etnologo, Elsdon Best: supponendo che Best faccia dono a Ranaipiri di un bene prezioso (un "taonga") e che Ranaipiri a sua volta ne faccia dono a una terza persona, allora se questa terza persona dà un "taonga" a Ranaipiri, bisogna assolutamente che Ranaipiri a sua volta offra a Best questo nuovo "taonga" perché esso è lo spirito - lo "hau" - del dono di Best. «Se conservassi per me il secondo "taonga", potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte» (Mauss, 1950, p. 159 [trad. it., p. 170]).

Secondo Mauss allora tutto diventa chiaro: quel che obbliga a restituire è «lo spirito della cosa data», l'equivalente del "mana" presente nei beni personali. Non tutte le cose sono investite in questo modo dalle forze spirituali, ma solo quelle che appartengono a un clan, a un lignaggio, a delle persone. Ora, sono per l'appunto queste che sfuggono al dominio dell'utilitario e servono come supporti del dono. Sono loro che vengono alienate proprio perché sono in teoria inalienabili (Weiner, 1988). Tali beni non cessano mai di appartenere ai loro detentori iniziali. Ne consegue, conclude Mauss, che «si comprende chiaramente e logicamente, nel quadro di questo sistema d'idee, che è necessario rendere altrui ciò che è in realtà una particella della sua natura e della sua sostanza» (Mauss, 1950, p. 160 [trad. it., p. 172]). In realtà ci sembra che Mauss formuli effettivamente così, in poche parole, l'essenziale di quel che aveva da dire sul dono! Potremmo dunque fermarci qui, non foss'altro perché la sua teoria è stata costantemente respinta e condannata. Forse, come osserva Annette B. Weiner, perché i commentatori non hanno fatto abbastanza attenzione alla nozione di beni inalienabili e alla dialettica della inalienabilità e dell'alienabilità alla quale sono sottoposti i beni personali. Il dibattito teorico va dunque continuato. Non ci addentreremo nella enorme letteratura scientifica dedicata alla esegesi della sola nozione di "hau", pur riservandoci di parlarne brevemente in seguito. Per il momento bisogna affrontare il dibattito suscitato da Claude Lévi-Strauss che fonda il suo progetto di antropologia strutturalista al tempo stesso rivendicando l'eredità di Marcel Mauss e respingendo la sua interpretazione indigena del dono. - L'INTERPRETAZIONE SCAMBISTA-STRUTTURALISTA Nella sua introduzione alla raccolta di testi di Marcel Mauss pubblicata con il titolo "Sociologie et anthropologie", dove figura l'"Essai sur le don", Lévi-Strauss come molti altri autori (6) rimprovera a Mauss di essersi lasciato ingannare da un giurista maori e di aver accettato senz'altro una spiegazione animistica del dono in grado di soddisfare gli spiriti primitivi credenti nella realtà delle forze spirituali, ma inaccettabile dalla scienza. Per di più, egli aggiunge, Mauss si sarebbe sbagliato distinguendo tre obbligazioni: donare, ricevere e ricambiare, là dove ce n'è soltanto una, quella di scambiare. Dare, ricevere, ricambiare non sono altro che tre momenti di un'unica e medesima realtà: lo scambio. E' noto che in "Les Structures élémentaires de la parenté", Lévi-Strauss spiegava che lo

scambio è in primo luogo lo scambio delle donne (7), e che quest'ultimo non è che l'altra faccia, consustanziale, dell'universale proibizione dell'incesto. Quest'ultima, proibendo di prender moglie all'interno del proprio gruppo, costringe ad andare a cercare altrove e perciò a stringere rapporti di affinità con estranei così trasformati, in modo sempre più o meno precario, in parenti. Si può capire la teoria di Lévi-Strauss in due sensi: l'uno più empirico e concreto, l'altro nettamente più astratto. Nel senso concreto lo scambio delle donne, corollario della proibizione dell'incesto, ha la funzione di sostituire la pace alla guerra. Questa linea di ragionamento era già presente in Mauss quando scriveva che tutte queste prestazioni e controprestazioni sono in fondo «rigorosamente obbligatorie, sotto pena di guerra privata o pubblica» (1950, p. 151 [trad. it., p. 161]), che l'eccesso di generosità è proporzionale al timore e all'ostilità e che «solo opponendo la ragione al sentimento e imponendo la volontà di pace contro simili improvvise follie, i popoli giungono a sostituire alla guerra, all'isolamento e alla stasi, l'alleanza, il dono e il commercio». Infatti «non esiste via di mezzo: fidarsi interamente o diffidare interamente; deporre le armi e rinunciare alla magia, o dare tutto: dall'ospitalità fugace alle figlie e ai beni» (ibid., p.p. 277 seg. [trad. it., p. 290]). Per riprendere i termini di Marshall Sahlins (1976), il dono costituirebbe il vero contratto sociale primitivo. Questa formulazione è plausibile, a patto di dialettizzare meglio la pace e la guerra, poiché anche quest'ultima costituisce un rapporto sociale. Viceversa, quel che disturba nella letteratura strutturalista è l'uso che fa del concetto di scambio, sul quale essa fonda la sua dimensione astratta e quasi esoterica. Se la proibizione dell'incesto, spiega Lévi-Strauss, è universale, è perché essa si colloca all'intersezione della Natura e della Cultura; perché, sottomettendole alla Legge, essa trasforma le società in ordini propriamente culturali. In altri termini, gli uomini accedono all'umanità soltanto accedendo alla legge. Si sa quale uso farà Jacques Lacan di questo tema per reinterpretare la teoria freudiana dell'Edipo, rischiando sempre d'ipostatizzare la Legge e di identificare un po' troppo rapidamente la legge che proibisce l'incesto con la legge dello scambio economico. In effetti, perché parlare di scambio? Il problema è tutto qui, poiché sembra difficile servirsi di questo tema senza entrare immediatamente, volenti o nolenti, consapevolmente o no, nel campo d'intelligibilità aperto dall'economia politica, e senza assimilare lo scambio allo scambio delle merci e tutto il sistema di scambio al mercato. D'altronde è questo il rimprovero, in parte giustificato (8), che muovono le femministe a Lévi-

Strauss: di postulare che tutte le società avrebbero trattato le donne come merci. Certo, Lévi-Strauss distingue tra quello che chiama lo scambio ristretto bilaterale delle donne e lo scambio generalizzato, in cui un clan A dà una donna a un clan B che ne dà una a un clan C eccetera, sicché è chiaro in questo caso che non ci si trova affatto nel quadro della logica di mercato poiché non è mai il beneficiario di una prestazione che fornisce la controprestazione. Resta nondimeno il fatto che se non si distingue chiaramente tra dono e merce, tra scambio cerimoniale e scambio mercantile, Lévi-Strauss impedisce di comprendere l'essenziale, e cioè le ragioni dello straordinario accanimento con cui le società arcaiche hanno resistito a ogni tentativo di trasformare i doni in merci. In breve, non sembra che la nozione di scambio possa essere generalizzata così com'è e il solo fatto di parlare di scambio fa immediatamente e inevitabilmente ricadere nel quadro di una interpretazione economica del dono. Marcel Mauss ha dunque ragione di diffidarne e di parlare di «ciò che viene chiamato così impropriamente lo scambio, il "baratto"», poiché per l'appunto quel che resta da capire, salvo ricadere nell'economicismo che lo strutturalismo pretende di superare, sono le ragioni per cui almeno negli affari importanti gli uomini delle società arcaiche non scambiano ma donano. La stessa ambiguità pesa a nostro avviso sulla riformulazione lacaniana del freudismo, in quanto essa si basa sullo strutturalismo di Claude LéviStrauss. Tale riformulazione lacaniana è quella che ispira tre degli autori che hanno scritto le cose più perspicaci sul dono nelle società arcaiche: Jean Baudrillard in "L'Echange symbolique et la mort" (1976), Stéphane Breton (1989) e Guy Nicolas. La migliore esposizione della dottrina lacaniana sul dono è quella che ne dà Nicolas (1986, p.p. 178 e seguenti). Basandosi principalmente ma non esclusivamente su "Fonction et champ de la parole et du langage" (Lacan, 1966), egli conferisce alla dottrina una chiarezza e una coerenza che essa non ha in modo evidente nell'originale. Nel suo celebre "Al di là del principio di piacere" Freud racconta di aver osservato un bebé allontanare da sé un rocchetto di legno cui era avvolto un filo, poi riavvicinarlo emettendo suoni onomatopeici: «o», «a». Questi ultimi significano in tedesco, spiega Freud, "fort", là e "da", qui. Tramite il gioco del rocchetto il bambino scongiura simbolicamente l'assenza reale della madre. Il rocchetto rappresenta l'oggetto perduto. Simbolo della presenza e dell'assenza, esso significa «un frammento del soggetto che si stacca da lui pur restando ancora ben suo» (Lacan). Giocando con esso il piccolo impara che nel simbolico e per suo tramite può ritrovare e padroneggiare quel che non può fare a meno di perdere nel reale. Il

rocchetto illustra quel che Lacan chiama l'oggetto "a", «il significante di ogni perdita subita dal soggetto nel suo accesso all'ordine sociale e allo scambio» (ibid., p. 180). L'accesso al simbolico, al gioco, è quel che permette al soggetto di liberarsi dalla presa dell'immagine che gli rinviano gli altri soggetti, nel registro dell'immaginario abbozzato dallo stadio dello specchio. E' quel che permette di sfuggire alla rivalità indefinita e senza via d'uscita. Viceversa, l'inconscio è fatto di tutto ciò che non ha potuto essere scambiato, simboleggiato, donato e ricambiato, e che la psicoanalisi ha il compito di far cadere dal registro dell'immaginario in quello del simbolico, della parola e dello scambio. Di qui la tesi di Baudrillard, in parte ripresa da Breton, secondo la quale non esiste inconscio nelle società arcaiche perché tutto vi circola secondo la legge della reversibilità. In effetti si notano subito le consonanze con l'"Essai sur le don" e con "Les Structures élémentaires de la parenté". Quel «frammento del soggetto che si distacca da lui pur restando ancora ben suo» evoca irresistibilmente i "taonga" di Ranaipiri e il modo in cui egli spiega che è necessario che facciano ritorno. Quel che resta problematico, tuttavia, sulla base del testo di Lacan, è l'inquietante incertezza e polisemia del suo concetto di simbolico. Intende con ciò la legge del dono? Certe frasi sparse nel saggio "Fonction et champ de la parole" lo lascerebbero pensare, ma sono troppo poco sviluppate e non è questa l'interpretazione dominante fatta propria dalla corrente lacaniana. Si tratta del gioco? Oppure, piuttosto, come induce a pensare la filiazione da Lévi-Strauss, dello scambio, che del resto Lacan propone di pensare mediante la teoria dei giochi, la quale non si stacca in modo evidente dalla teoria economica? Si tratta infine della logica formale delle matematiche? Ecco molti candidati al ruolo d'interpreti di un concetto di simbolico al quale del resto Lacan fa svolgere lo stesso ruolo che Hegel affidava a quello del sapere assoluto, che si suppone in grado di por fine alla dialettica speculare di servo e padrone? (9) Dopo tutto gli antropologi o i sociologi d'ispirazione lacaniana riprendono dalla sua opera soltanto la nozione di reversibilità; questa ha il vantaggio di essere presente, in effetti, tanto nel dono quanto nel gioco, nello scambio, nella lingua o nelle matematiche; ma presenta l'inconveniente simmetrico di non distinguere abbastanza tra questi domini. Inoltre, non appena la nozione di reversibilità è ipostatizzata, quello di cancellare la specificità dei momenti del dare, del ricevere e del ricambiare, al punto, anche qui, di far dimenticare che proprio del dono si tratta. E' opportuno infine far entrare l'opera di René Girard e dei suoi discepoli nel campo ispirato dallo strutturalismo? Sarebbe fare violenza

all'autore ma non per questo del tutto illegittimo perché la sua teoria del desiderio mimetico è, in fondo, più vicina a quella di Lacan e dunque a quella di Hegel, riletta da Alexandre Kojève, di quel che si è voluto dire. Quanto meno le somiglianze prevalgono sulle differenze poiché, come Lacan (e come Hegel), egli postula che il desiderio non è desiderio di oggetto ma desiderio di soggetto, che non s'instaura nel registro del bisogno e dell'utilitario ma in quello del rapporto con l'altro. In tal modo egli tocca necessariamente la questione del dono e dello scambio cerimoniale, se è vero, come si è visto, che quest'ultimo si sviluppa nella messa tra parentesi, nel rifiuto, nella negazione o nel diniego come si vorrà dell'utilità materiale. Com'è noto, la specificità di Girard consiste nell'affermare che il desiderio non è desiderio dell'altro e di riconoscimento, come in Hegel, ma desiderio secondo l'altro. Il soggetto umano desidera unicamente l'oggetto che desidera un altro soggetto ai suoi occhi prestigioso, che Girard qualifica «mediatore». S'instaura così una dialettica non già di servo e signore ma di maestro e discepolo che sbocca inevitabilmente nella confusione dei desideri e delle identità di ciascuno. A stare a René Girard la soluzione cui avrebbe fatto ricorso l'insieme delle società umane fino all'avvento del cristianesimo sarebbe stata la messa a morte collettiva di una vittima espiatoria carica di tutti i mali che affliggevano le comunità. Miti e religioni avrebbero parlato soltanto di sacrifici umani. Che rapporto c'è con il dono? Con molto talento un giovane antropologo americano, Mark Anspach, ha intrapreso la rilettura del materiale raccolto da Marcel Mauss e dai suoi successori inforcando gli occhiali di René Girard (Anspach 1984; 1984 a). Il dono consisterebbe in una attenuazione, una sorta d'introiezione della logica sacrificale. Analogamente Lucien Scubla (1988) sostiene che il sistema della vendetta - sistema dei «doni» di morte - può essere regolato soltanto dal sacrificio. Se così fosse, il presente libro mancherebbe in parte al suo scopo, poiché il dono non avrebbe la dimensione di fenomeno primordiale e universale che tentiamo di riscontrare in esso. Come il lettore avrà capito, la nostra ipotesi, al contrario di queste letture girardiane, è piuttosto che convenga pensare vendetta, stregoneria e sacrificio come dei sottoinsiemi o delle tappe della logica del dono. Non è possibile discutere qui della fondatezza della ipotesi girardiana (10). Limitiamoci a notare quella che sembra essere la sua ambiguità principale, inerente all'individualismo metodologico (raffinato) latente che anima il suo progetto. In definitiva, tale progetto non consiste forse nel dedurre il rapporto sociale da ipotesi relative alla natura del desiderio dei soggetti

individuali? Ora, se questo desiderio è sempre e ovunque identico, non si vede bene come sarebbe possibile dedurne ora per esempio una società selvaggia arcaica, ora una società industriale di mercato. Quanto meno, mancano alcune mediazioni. O ancora, e inversamente, se il desiderio è desiderio di imitare un altro privilegiato, bisogna pur sempre spiegare quel che rende certi soggetti particolarmente desiderabili e carichi di valore agli occhi degli altri nelle varie società; qui il capo selvaggio generoso e dilapidatore, lì il capitalista puritano e accumulatore. Non è possibile in ogni momento della storia sciogliere le società concrete nelle loro presunte componenti elementari, nei puri soggetti di desiderio colti nella loro pura astrazione universale. Più in generale e più fondamentalmente niente permette di affermare l'identità senza pecca e una intercambiabilità teorica di tutti i soggetti umani. In occasione di un colloquio dedicato a René Girard, Lucien Scubla osservava molto giustamente che la descrizione della lotta tra i fratelli nemici dimentica che questi hanno una sorella, che la loro lotta è polarizzata dal rapporto che essi hanno con il sangue mestruale e con il desiderio di controllare la procreazione. Quasi dappertutto la religione non è forse un monopolio maschile (Scubla, 1985)? La differenza dei sessi, almeno, non può essere dissolta incessantemente nella pura individualità astratta e intercambiabile. Sembra dunque che la teoria girardiana non riesca a spiegare quel che rende i beni preziosi dei selvaggi tanto preziosi ai loro occhi. Non basta dire che essi li desiderano perché tutti li desiderano. I più bei modelli matematici costruiti a partire da questa ipotesi, speculativa nel doppio senso del termine, non riusciranno mai a dedurre il dono arcaico, i "vaygu'a" e i "taonga", né a spiegare in che cosa differiscono dalle merci. Il discorso di Scubla appena ricordato e al quale aderirebbero molti antropologi, suggerisce un'altra pista; la desiderabilità ha a che fare con la procreazione e le capacità delle donne in proposito. Bisognerà tenerne conto nel momento di abbozzare la nostra interpretazione. - L'ECONOMICISMO DELLE INTERPRETAZIONI CLASSICHE Gli antropologi che si ispirano alla psicoanalisi, come quelli che si richiamano a René Girard, sembrano sfuggire alla riduzione mercantile del dono. Nicolas (1986) è esplicito in proposito quando afferma che «l'ordine oblativo impone al mercante di sottomettersi alla sua legge» (p. 178). Inoltre, egli riconosce l'importanza dell'angoscia della perdita a partire dall'esperienza originaria della perdita del seno materno, dove

l'accesso al dono significa l'accesso all'universo simbolico in cui la perdita è accettata dal soggetto. «Il dono all'altro "rappresenta" la perdita di sé» (p. 186). Ma Nicolas afferma anche, basando tutta la sua argomentazione sull'esempio freudiano del bambino che gioca con il rocchetto di legno legato a un filo, che «la perdita si annulla, nella misura in cui lo stesso oggetto serve indefinitamente a realizzare l'alternanza delle posizioni», che c'è garanzia di ritorno, in un «ciclo senza mancanza», che «il fine vero non è altro che questo ritorno secondo il circuito» (citazione da Lacan). L'autore sembra dunque esitare tra il riconoscimento di una perdita reale, o almeno della sua possibilità effettiva, e un modello che si avvicina all'equivalenza, anche se non binaria. Come il rocchetto del bambino, l'autore fa un andirivieni tra queste due posizioni, senza che si sappia se a suo avviso c'è perdita reale e accettazione della perdita da parte del soggetto o al contrario restituzione garantita, il che costituirebbe un perfezionamento del modello mercantile e dell'ossessione dell'equivalenza. Il riferimento al bambino e al rocchetto simboleggia davvero la perdita, o indica piuttosto l'angoscia della perdita e il suo scongiuro mediante il ritorno immediato del rocchetto, ritorno interamente controllato dal bambino? Concludiamo. In questo esempio celebre di Freud, non c'è ancora accesso alla perdita; meno ancora alla sua accettazione, e in definitiva al piacere del dono che comprende la possibilità e spesso la speranza del ritorno ma per niente affatto la sua garanzia e certamente non il controllo del soggetto sull'operazione. Non c'è veramente ancora passaggio dal sistema duale, proprio del rapporto tra madre e figlio e del rapporto mercantile, alla triade, alla catena transitiva, modello del dono. Il rocchetto con il suo ritorno immediato, rappresenta molto più il rapporto mercantile che non il rapporto di dono nel senso che tutto avviene nell'immediatezza dell'istante. Tuttavia, anche nel rapporto mercantile qualcosa è perduto, sacrificato per un'altra cosa e c'è dunque esperienza della perdita. Lo stadio del rocchetto è dunque uno stadio anteriore nello stesso tempo all'esperienza mercantile e, più ancora, all'esperienza del dono, perdita senza garanzia di restituzione, ma perdita sublimata. Ad eccezione dell'interpretazione indigena di Marcel Mauss, una deviazione economicistica sembra pertanto contrassegnare le interpretazioni del dono arcaico, anche quelle che si spingono più lontano nella sua comprensione, che si tratti dell'interpretazione di Lévi-Strauss, di quella di Lacan o di quella di Girard. Ma allora lo spirito moderno è comunque condannato a pensare secondo il paradigma dell'economia e a

proiettarlo sulle società che adottano una diversa visione del mondo? C'è un tale fossato tra loro e noi che la sola alternativa si colloca tra la proiezione deformante della nostra propria "Weltanschauung" e l'adesione, senza comprenderla, alla visione indigena? Per cominciare a rispondere a tale questione bisogna procedere a una comparazione tra il dono arcaico e quel che abbiamo già constatato nella parte prima a proposito del dono moderno.

CAPITOLO 9 DONO ARCAICO E DONO MODERNO - DONO ARCAICO E MERCATO Se quanto appena detto non è troppo inesatto, si capirà meglio perché quelle che abbiamo qualificato come teorie classiche del dono lasciano un senso d'incompiutezza e d'insoddisfazione. Il fatto è che tutte, salvo l'interpretazione «indigena» di Marcel Mauss misconoscono la specificità del dono arcaico rispetto allo scambio mercantile. Esse ne attenuano la stranezza, affermando che per renderlo intelligibile converrebbe considerarlo come l'espressione di costrizioni o di motivazioni in se stesse universali: l'interesse economico, la proibizione dell'incesto e l'obbligo di scambiare, la sostituzione operata dal contratto sociale della pace alla guerra, l'obbligo di subordinare il registro dell'immaginario a quello del simbolico o l'altra, infine, di sacrificare una vittima espiatoria per ristabilire la concordia tra tutti i membri della società. Tutte le teorie classiche, poi, pongono il problema delle «funzioni» del dono arcaico. Ora, la specificità del dono arcaico non dipende da queste ultime. Ogni tipo di socialità globale, per definizione, assolve un insieme di funzioni; dunque nessuna di quelle che vengono imputate al dono arcaico è falsa "a priori"; ma le stesse funzioni potrebbero altrettanto giustamente, e più ancora, essere imputate per esempio al mercato poiché, come il dono, più del dono, esso permette la soddisfazione dell'interesse economico, instaura lo scambio generale, sostituisce il «dolce commercio» alla guerra e subordina l'immaginario dei consumatori individuali a una legge comune, quella dell'offerta e della domanda. Se si considerano soltanto le

funzioni del dono arcaico, la sua specificità è destinata dunque a restare nascosta. Se esiste, come coglierla? La sola possibilità sembrerebbe quella del comprenderlo in qualche modo estrinsecamente, mettendo in evidenza quel che nel dono sembra diverso dal mercato. Da questo punto di vista, lo scambio cerimoniale non può non sembrarci singolare, come una sorta di negativo del mercato. In effetti esso si mostra contrario all'utilità, all'accumulazione e all'equivalenza. E' antiutilitario perché sembra nutrirsi della dilapidazione e del sacrificio dei beni utili o quanto meno della loro forclusione. Contrario all'equivalenza perché il primo dono abbozza uno squilibrio che può essere colmato soltanto rimandandolo all'infinito, pena l'estinzione dei debiti e l'interruzione del ciclo oblativo. Contrario all'accumulazione, infine, poiché i più ricchi non potrebbero arricchirsi al di là dell'obbligo sociale di reversione e di dilapidazione. - LA SPIRALE DEL DONO E' chiaro però che questa caratterizzazione della sola specificità estrinseca del dono selvaggio è troppo restrittiva e ingannevole. Essa porta a vederlo come in uno specchio, a cercarvi una immagine rovesciata di quella che abbiamo di noi stessi e del mercato, e a cedere insensibilmente alla tentazione di considerare il dono come una forma di scambio economico. Ora, dobbiamo chiederci in che senso il dono costituisce un sistema, dotato di una coerenza intrinseca e, in quanto tale, irriducibile ad altro che se stesso, proprio come il mercato costituisce una realtà "sui generis" della quale si misconoscerebbe la natura se si tentasse di pensarla nei termini di un'altra. Per farci una idea della coerenza sistemica del dono arcaico e della sua specificità, per prima cosa bisogna prendere pienamente sul serio la dimensione di fenomeno sociale totale che Mauss vedeva in esso e, di conseguenza, cessare di pensarlo nel cono d'ombra proiettato dall'economico moderno. Finché non si realizzerà questa rottura, ci si può porre il problema dei fondamenti dell'obbligo di ricambiare soltanto vedendo in esso una forma primitiva della legge dell'equivalenza contabile, un abbozzo della reciprocità mercantile retta dalla legge del dare e dell'avere, il primo abbozzo dei contratti sinallagmatici che legano due individui in proporzione dei loro interessi particolari e specificati. Si è allora quasi inevitabilmente portati a pensare l'esigenza di crescita e di sviluppo che si manifesta con tanta forza nel dono - bisogna ricambiare e dare sempre di più - nel registro dell'usura

e come una prima manifestazione del desiderio che animerebbe tutti gli individui di percepire un tasso d'interesse su ogni «capitale» da loro messo in circolazione. E ci sfugge il senso dell'obbligo di dare, come di quello di ricevere. Di conseguenza, non se ne parla affatto. Torniamo dunque per un istante sulla questione del significato dello "hau", quello spirito della cosa data, menzionato da Ranaipiri come la causa che costringe i maori a restituire i beni preziosi ("taonga"). Come si poteva già intuire nel leggere le parole di Ranaipiri e come ha chiaramente dimostrato Paulette Taïeb (1984), non ogni bene restituito è considerato come uno "hau" del dono iniziale. E' considerato tale solo il controdono che proviene dal controdono effettuato da un terzo. In altri termini, lo "hau" non interviene nei rapporti bilaterali - in questo caso il controdono è un "utu" e non uno "hau" - ma soltanto in quelli che chiamano in causa più partners in una catena, in un percorso complessi. Per riprendere i termini di Claude Lévi-Strauss, sembra possibile affermare che lo "hau" è coestensivo allo scambio generalizzato; o meglio al dono generalizzato. L'errore di Marcel Mauss, se di errore si tratta, consiste semplicemente nel non avere messo in luce abbastanza questa molteplicità dei protagonisti e nel non avere protetto abbastanza i lettori dalla tentazione di cercare di comprendere un rapporto sociale globale, una rete, nei termini della logica dello scambio bilaterale semplice. D'altra parte, lavori recenti fanno piena luce su tale questione della natura dello "hau". Remo Guidieri, per esempio, traduce come segue le parole di Ranaipiri: «Serbarlo per me significherebbe perdere la mia forza (...). Mi attende la morte perché gli orrori spaventosi di "makutu" [la stregoneria] si scatenerebbero sul mio capo» (Guidieri, 1984). Il dizionario Williams nota che «l'oggetto che serve da strumento alla stregoneria è uno "hau"»; e secondo Johansen: «Soltanto quando un "utu" è immobilizzato, non circola, esso diventa uno "hau" (...). Se ne può allora fare uso per stregare» (ibid., p. 97). Conviene dunque, in qualche modo, abbondare nel senso del misticismo cui Lévi-Strauss rimproverava Mauss di aver ceduto. Lo spirito della cosa data non agisce da solo: se lo "hau" uccide, è in quanto cristallizza l'odio risultante da una interruzione dei flussi di generosità e serve come supporto di pratiche di stregoneria che presuppongono l'attivazione deliberata di certe tecniche. Si manifesta così un aspetto nascosto del dono, il suo aspetto nero, l'aspetto del dono in negativo, quello della stregoneria (1), conseguenza dell'interruzione del dono. La stregoneria, da una parte, è una forma di guerra a distanza, di guerra invisibile condotta con mezzi invisibili; dall'altra, rientra nell'ordine della vendetta; infine, si colloca all'opposto

della magia positiva, della magia che fa nascere e crescere tutte le cose in una logica di gioco cooperativo. In effetti, la stregoneria instaura un gioco a somma zero (2), che fa deperire e morire. Si capisce dunque meglio in che senso è profondamente sbagliato pensare lo scambio cerimoniale in primo luogo come una forma di scambio economico, come una sorta di baratto manierato ed eufemizzato. Più profondamente esso va pensato e messo in relazione con gli altri sistemi di rapporti sociali che ne sono sempre soltanto le trasformazioni, così come esso le trasforma attualizzando e rendendone immediatamente visibile la logica costitutiva: il sistema della parentela e dell'affinità, quello della stregoneria, quello della vendetta, il sistema della guerra, quello della magia, quello del sacrificio e del rapporto con gli dei e con gli spiriti. Conviene però indubbiamente spingere ancora oltre l'indagine e cercare di isolare gli elementi comuni a tutti questi sistemi: qualcosa d'irriducibile allo scambio cerimoniale, ma che questo manifesta in modo privilegiato perché lo rappresenta e lo inscena allo stato quasi puro. A nostro avviso si tratta dell'immaginario del dono in quanto tale, quello che afferma che il mondo intero, il mondo sociale come il mondo animale o il cosmo, può essere generato e organizzato soltanto a partire da doni scambiati da persone, princìpi vitali o potenze in se stesse antagoniste ma che è compito del dono trasformare in alleati. A meno che il rifiuto del dono o della sua restituzione non lasci che si scateni la parte malefica contenuta in ogni potenza e ogni essere, e non sbocchi nel caos, nella sterilità e nella morte. Gli autori che si ispirano a Jacques Lacan hanno messo in luce uno dei corollari dell'universalità dell'immaginario del dono nella società arcaica: cioè l'universalità della legge della reversibilità. Poiché il tempo del dono è circolare e ciclico, le posizioni sono infinitamente reversibili e permutabili. I papua, osservava già Marcel Mauss, hanno una sola parola per designare quella che noi pensiamo come l'opposizione dell'acquisto e della vendita. Emile Benveniste ha dimostrato che la radice indoeuropea "-do-" poteva designare, a seconda delle lingue, prevalentemente il dono ma anche il controdono ovvero l'appropriazione (Benveniste, 1966). Infatti, in un tempo non lineare, quel che viene dopo c'era già prima. Il solo inconveniente di questa tematica della reversibilità, abbiamo osservato, è che così com'è essa resta troppo astratta. Da una parte, maschera la specificità di ciascuno dei momenti del dare, ricevere e ricambiare; più sostanzialmente essa non segnala due fatti essenziali: in primo luogo, che in un mondo percepito come un mondo di potenze personalizzate, quello del paganesimo, del totemismo e dell'animismo,

ogni essere è dotato di una forza specifica, più o meno grande, ma in ogni caso non comparabile con altre forze e altrettanto poco sostituibile ad esse, in teoria, quanto una moneta primitiva lo è a un'altra. A differenza dello scambio mercantile, il dono dunque non mette in rapporto entità eguali in diritto e "a priori", o la cui equivalenza possa essere calcolata. Viceversa, nell'ambito di un universo percepito come radicalmente eterogeneo, intessuto di particolarità irriducibili, esso produce eguaglianza - o meglio parità - soltanto "a posteriori", "ex post", e dopo aver postulato e segnalato una fondamentale differenza iniziale. Poiché descrive la circolarità dei doni, immaginando implicitamente che questa si svolgerebbe in una sorta di stato d'imponderabilità, come sotto vuoto, la tematica della reversibilità postula implicitamente l'eguaglianza o l'identità dei protagonisti del dono. Essa cancella le asperità, le irreversibilità e le singolarità che nascono necessariamente per via della eterogeneità fondamentale delle forze tra le quali il dono instaura un patto precario. La metafora del cerchio è ingannevole anche, in secondo luogo, perché mette sullo stesso piano i tre tempi del ciclo oblativo. Ora, sarebbe meglio senza dubbio adottare la metafora della spirale. E' chiaro in effetti che il momento capitale è il primo, quello del dono propriamente detto. E' il dono che fa apparire qualcosa che non esisteva in precedenza, un effetto privo di causa senza il quale, a rigore, non esisterebbe niente. Se si vuole, la ragione per cui c'è qualcosa piuttosto che niente, è che questo qualcosa è stato donato (o preso), è il dono, unica e vera causa prima postulata dalla metafisica selvaggia. Senza «l'iniziativa di un gesto grazioso», per dirla con Aristotele, niente può esistere. L'obbligo di accettare, da parte sua, si confonde con quello di ricevere la vita, questa scintilla di organizzazione uscita dal caos. Ma il più grave rischio di fraintendimento riguarda l'obbligo di ricambiare. L'immaginario della merce ci spinge a comprenderla come l'espressione della necessità di sdebitarsi per mettere fine a ogni debito. Ora, se così fosse, non si capirebbe perché il vero obbligo non è quello di restituire ma quello di restituire di più. In realtà, come aveva ben visto Claude Lefort (1978) l'obbligo di restituire di più non è altro che quello di porsi a propria volta in posizione di donatore al fine di, non già annullare, ma (ri)alimentare continuamente i debiti. Il famoso «tasso d'interesse» primitivo, la prospettiva di ottenere il quale, come vogliono farci credere molti antropologi, motiverebbe anticipatamente il dono iniziale, non costituisce dunque affatto una retribuzione di quest'ultimo. Viceversa esso permette a chi riceve di prendere a sua volta l'iniziativa e di occupare ormai la posizione di donatore. Gli uomini del mondo arcaico non sono

intercambiabili, come postula la logica depurata e formale della reversibilità. Essi non occupano nemmeno indifferentemente la posizione di chi dà e di chi riceve. Il fatto essenziale, che maschera la problematica della reversibilità, è che tutti sono donatori, in proporzione alla forza irriducibile e incomparabile che si suppone possiedano e incarnino. E questo, naturalmente, non è vero soltanto e nemmeno principalmente degli uomini, ma anche degli animali, dei vegetali, dei minerali, degli antenati, degli spiriti e degli dei. Abbiamo appena segnalato i legami esistenti tra il dono dei beni preziosi maori e la stregoneria. Lo "hau" è ciò che permette di stregare. Ma il testo di Ranaipiri, riprodotto da Mauss nell'"Essai sur le don", è soltanto un frammento di discorsi molto più ampi e sviluppati, che Ranaipiri dedica principalmente alla spiegazione di come i sacerdoti collochino certi beni preziosi ("taonga") nella foresta e come il dono del "taonga" sia la condizione perché la foresta abbondi di uccelli che i maori, a cominciare dai sacerdoti stessi, potranno mangiare. Questi uccelli, spiega Ranaipiri, sono lo "hau" della foresta, che a sua volta corrisponde allo "hau" dei "taonga". Soltanto se i sacerdoti donano alla foresta, questa potrà donare a sua volta. Il concetto di "hau" si manifesta qui nel registro della magia positiva: esso designa la forza vitale, il soffio, ciò che fa nascere e svilupparsi, la fonte di ogni crescita e di ogni maturazione. Appare così un altro tema fondamentale: il dono è la condizione "sine qua non" di ogni fecondità. Nell'ambito di un universo popolato soltanto da forze autonome e che non è possibile assoggettare, se non eventualmente con l'astuzia o la seduzione, "niente può essere prodotto, tutto deve essere donato". E' possibile consumare uccelli soltanto se si persuade la foresta a donarne a sufficienza. Le donne non producono i bambini, che del resto non sono considerati loro prodotto: ne sono solo le detentrici provvisorie e bisogna convincerle a donarli, cioè a immetterli nella circolazione generale. Certo quest'opera di convinzione non esclude il ricorso a certe forme di violenza, ma questa deve trovare i suoi limiti nel fatto che ciò che risulta da una gestazione e riveste dunque la forma di un dono, non può essere puramente e semplicemente estorto. Inoltre per quest'altra ragione: poiché il dono è la condizione stessa della fecondità e poiché fin quando è in circolazione esso fa esistere un maggior numero di esseri e princìpi vitali, l'immagine del cerchio indefinitamente reversibile è ingannevole ed è preferibile la metafora della spirale.

- LO STRANO PRINCIPIO DI ALTERNANZA Soltanto dopo aver riconosciuto questo principio trasversale che organizza i diversi piani della società arcaica secondo cui il dono mette in rapporto persone autonome e irriducibili, donatori semivolontari e seminvolontari, incoraggiati a donare perché il mondo possa esistere, è forse possibile dedurre un'altra specificità del dono rituale arcaico, complementare al principio di reversibilità a spirale: quella che dipende da ciò che si potrebbe chiamare il principio di alternanza. Questo principio, come lo aveva luminosamente esposto Huizinga (1939), apparenta strettamente il dono arcaico al gioco agonistico. Tranne che nel dono di trasmissione, il dono in qualche modo verticale della filiazione e della successione delle generazioni, i partners del rapporto di dono sono in effetti insieme antagonisti e alleati. Nell'ambito del dono rituale, come nella stregoneria, nella vendetta, nell'affinità, come probabilmente anche nella guerra e nel sacrificio, regna implicitamente una regola in fondo strana, quella per cui "è possibile donare, giocare soltanto a turno". Un colpo ciascuno, un dono o un controdono ciascuno, un sortilegio, un morto o una donna ciascuno. Come negli scacchi, nella dama, nei giochi di carte o in tutti i giochi del genere, non si può giocare due volte di seguito. Se il membro di un clan ha ucciso un membro di un altro clan, non si può anticipare: bisogna aspettare la vendetta. E' soltanto dopo aver subìto personalmente una morte che ci si potrà vendicare a propria volta, e così di seguito all'infinito se una procedura esterna non interviene a por fine al processo Quale statuto accordare a questo principio di alternanza? Lo si deve intendere come la manifestazione di una esigenza democratica primitiva? (4) Se così fosse, non si tratterebbe sicuramente di una democrazia del tipo di quelle fondate sui diritti dell'uomo. Cioè di una democrazia che poggia sul principio dell'eguaglianza di diritto degli uomini, di diritto tra uomini nudi, senza qualità e senza tante parole. Se esiste una esigenza democratica primitiva, essa è fondata sul timore e sul rispetto provati per persone tanto più irriducibili e indistruttibili in quanto, se si cercasse di sterminarle o di farle scomparire, allora verrebbero meno anche le condizioni di ogni fecondità e della vita stessa. Non si può al tempo stesso mangiare la foresta e sperare che il suo "hau" continui a moltiplicare gli uccelli. Ammettiamo di non avere risposta alla questione dello statuto e dell'origine del principio di alternanza. Senza dubbio ci mancano gli elementi etnografici che permetterebbero di capire come mai dei debiti simbolici, come mai dei percorsi di dono si

esauriscono e si chiudono (5). Come mai dunque una estinzione dei vecchi debiti, la morte e la decrepitezza intervengono a controbilanciare i debiti, i crediti e la vita nuovi. Comunque sia, noi disponiamo ormai di elementi sufficienti per comprendere la specificità del dono arcaico. Resta da metterli insieme, da tentare di renderli coerenti ai nostri occhi un'ultima volta, in modo che possano servire come termine di paragone con il dono moderno. - LA SISTEMATICITÀ DEL DONO ARCAICO Il dono, nella società arcaica, non è una forma particolare di rapporto economico tra due o più individui. Ben oltre il solo scambio dei beni, il dono rappresenta la forma generale dei rapporti che uniscono, in positivo o in negativo, nel bene o nel male, le molteplici forze personalizzate umane, animali, vegetali, minerali o divine, che popolano il cosmo selvaggio. "L'obbligo di restituire nello scambio - scrive Goldman - corrisponde a una visione cosmica fondata sul principio di una circolazione eterna delle forme viventi. Gli obblighi di dare e restituire impegnano a loro volta a prender parte a questa circolazione vitale. L'intero sistema di circolazione, abbracciava un universo popolato di esseri umani, di forze soprannaturali e, tramite le ricchezze messe in circolazione, delle forme della vita vegetale e animale" (6). Tuttavia non ci si può limitare ad affermare che la società arcaica si organizza tutta a partire da una sorta di principio metafisico oblativo a priori, perché è per l'appunto la preminenza e l'onnipresenza di quest'ultimo che devono essere spiegate. Il tentativo più chiaro e più soddisfacente in tal senso ci sembra quello di Chris Gregory (1982). Esso si basa su una rilettura originale della storia intrecciata dell'economia politica e dell'antropologia. Esistono in economia, dice Gregory, due modi di pensare, due tipi di obiettivi scientifici, radicalmente e irriducibilmente diversi: da una parte quello incarnato dall'economia classica inglese, completato da Karl Marx e più recentemente da Piero Sraffa; dall'altra, il progetto dell'economia neoclassica. I veri continuatori dell'economia classica, ritiene Gregory, non sono gli economisti neoclassici ma Lewis H. Morgan, Marcel Mauss e Claude Lévi-Strauss. Questi antropologi in effetti hanno in comune con gli economisti classici il fatto di porsi il problema delle leggi di funzionamento di un sistema sociale globale, laddove gli economisti neoclassici si interessano soltanto ai rapporti soggettivi che gli

individui intrattengono con le cose. Quel che separa gli economisti classici dagli antropologi appena menzionati non è la natura del loro progetto scientifico, ma il fatto che i primi cercano di individuare le leggi di funzionamento di una società regolata dalla produzione e dallo scambio di merci, mentre i secondi studiano società in cui non domina la produzione ma il consumo e quest'ultimo avviene secondo la logica del dono. Semplificando: l'economia di mercato mira a produrre cose per mezzo di cose. Al limite, essa produce le persone stesse come se fossero cose (7). Viceversa, la società arcaica privilegia i rapporti tra le persone rispetto ai rapporti tra le cose. Essa si preoccupa dunque in primo luogo della «produzione» delle persone, e produce le cose stesse come se fossero delle persone, facendole servire, tramite il dono, alla produzione delle persone e alla instaurazione di legami sociali tra loro: "Lo scambio di merci - scrive Gregory - è uno scambio di oggetti alienabili tra persone che si trovano in uno stato d'indipendenza reciproca che si traduce nella creazione di un rapporto quantitativo tra gli oggetti scambiati (...). Lo scambio mediante il dono, viceversa, consiste in uno scambio di oggetti inalienabili tra persone che si trovano in uno stato di dipendenza reciproca che si traduce nell'instaurazione di un rapporto qualitativo tra i protagonisti. Quest'ultimo deriva dal primato del consumo e dei metodi di produzione mediante il consumo. Ragion per cui i princìpi che governano la produzione e il consumo dei beni devono essere intesi con riferimento al controllo delle nascite, dei matrimoni e delle morti" (Gregory, 1982, p. 100). Poiché l'oggetto privilegiato del dono non è costituito da cose ma da persone, le donne, l'«equivalente» dei prezzi di mercato nell'economia del dono non deve essere ricercato nei rapporti quantitativi, del resto, come si è visto, variabili tra i beni, ma nei «termini di parentela classificatoria» (ibid., p. 67). La grande cesura storica è quella che oppone le società claniche, che funzionano sulla base del dono e della parentela, alle società di classe, organizzate in gradi diversi a partire dal mercato. Nell'ambito di ciascuno di questi due grandi blocchi, esistono certo differenziazioni notevoli. Gregory distingue così, per il secondo, la società schiavistica che pratica il baratto, la società feudale mercantile - quella che obbedisce al ciclo M-DM di Marx - e la società propriamente capitalistica, che obbedisce al ciclo D-M-D. Analogamente, nell'universo clanico, è possibile distinguere tre forme o tre stadi principali: le società organizzate in metà e in fratrie praticano lo scambio limitato delle donne (A verso B verso A) e lo scambio equilibrato dei beni. Il potere appartiene ai vecchi. L'obbligo di restituire

di più ("incremental exchange of things-gifts") appare con l'organizzazione in forma di tribù o di nazione. Essa è associata allo scambio differito ("delayed") delle donne (A verso B verso C, C verso B verso A) e all'istituzione dei "Big Men". Nel quadro infine delle chefferies e delle confederazioni a base clanica si sviluppano lo scambio generalizzato delle donne (A verso B verso C verso A) e lo scambio tributario dei beni (ibid, p.p. 69 seg.). Era tanto più importante ricordare queste distinzioni in quanto, come già segnalato nella nostra introduzione generale, la ragione principale per cui i moderni rifiutano di sentire parlare del dono è che essi lo associano immancabilmente con i meccanismi dello sfruttamento e della dominazione e, in particolare, con la dominazione e lo sfruttamento delle donne che sarebbero le principali vittime della ideologia oblativa. La tipologia di Gregory (di cui si potrebbe discutere la pertinenza su questo o quel caso particolare, ma che sembra nelle grandi linee giusta e chiarificatrice) ha il merito di mostrare in che cosa i moderni hanno insieme ragione e torto. Ragione perché, in effetti, il perfezionamento e la ritualizzazione esacerbata del dono sembrano proprio andare di pari passo con l'accentuarsi delle gerarchie e l'emergere di una logica aristocratica. Torto perché, in quanto tale, il dono non può essere ridotto alla sua realizzazione a fini di dominio simbolico e reale più di quanto la merce non sia intrinsecamente riducibile al capitale. Il dono tra eguali riproduce eguaglianza; il dono tra ineguali riproduce ineguaglianza. - RIPRODUZIONE, DONO, PERSONA E SOCIALITÀ PRIMARIA Una prima traduzione possibile del discorso di Gregory potrebbe essere la seguente: il dono costituisce il tipo di rapporto per eccellenza tra le persone in quanto esse si considerano e si pongono come tali. E' ciò che trasforma gli esseri e gli individui in persone. Corollario: il dono istituisce il registro della «socialità primaria» di cui costituisce la trama stessa. Noi introduciamo qui due nozioni nuove: «persona» e «socialità primaria», d'altronde strettamente interdipendenti, che richiederebbero ciascuna lunghi commenti. Per quel che riguarda la prima, limitiamoci a ricordare l'evidenza che i soggetti, contrariamente a quanto postulato più o meno da tutte le varianti dell'utilitarismo o dell'individualismo metodologico contemporanei, non possono essere considerati come atomi che sarebbero preesistenti alla loro inscrizione in rapporti sociali determinati. Conformemente a una prospettiva che non vuole essere né

individualistica né olistica ma interazionistica, il concetto di persona designa il fatto che i soggetti sono presi in una serie di fasci di diritti e di obblighi, di debiti e di crediti che scandiscono la loro esistenza concreta. La socialità primaria rappresenta il luogo reale, simbolico o immaginario in cui le persone entrano in interazione diretta; o ancora è il luogo della interconnessione diretta e concreta, sia essa effettiva (rapporti diretti) o soltanto virtuale. In una prospettiva fenomenologica, si dirà che la socialità primaria costituisce lo spazio concreto della intersoggettività e dunque che il dono è la modalità concreta e specifica di quest'ultima. Quel che è possibile chiamare per differenza la «socialità secondaria» appartiene al registro della «intermediazione». In questo secondo registro, le persone non interagiscono in quanto persone globali ma in quanto supporti di funzioni parziali e, almeno in partenza, strumentali. Empiricamente, i campi principali della socialità primaria sono quelli della parentela, dell'affinità, del vicinato, dell'associazione, del cameratismo. Rientrano viceversa nel registro della socialità secondaria i campi del teologico-politico, della guerra e dello scambio mercantile. Se ci si rifà alle quattro sfere distinte nella parte prima, quelle dello Stato e del mercato rientrano nella socialità secondaria; la sfera domestica nella socialità primaria e la sfera del dono tra estranei appartiene al tempo stesso alla socialità primaria e alla socialità secondaria. I concetti di «persona» e di «socialità primaria» sono in se stessi transtorici e universali. Dunque non ci dicono niente di particolare sulla società arcaica. Per procedere nel senso di una specificazione, ispiriamoci all'ipotesi di Gregory secondo la quale «i doni di cose rappresentano dei sostituti simbolici dei doni di donne piuttosto che il contrario». La ragione dell'importanza fondamentale del dono delle donne nella società clanica, come abbiamo indicato a sufficienza, dipende dal fatto che la preoccupazione principale in esso è quella della «produzione» degli esseri viventi. Ma il termine stesso di produzione è inadeguato. Solo la società moderna produce (e consuma) al termine di un lavoro. Nella società clanica viceversa non nasce e non si ottiene niente se non tramite la generazione, il parto (8). Il solo «lavoro» concepibile è quello che serve ad abbreviare il periodo di gestazione e a far sì che avvenga il parto; in altri termini il lavoro che contribuisce a realizzare il dono. E' possibile generalizzare questa osservazione e affermare che la società mercantile moderna pensa tutto nel linguaggio della produzione e del lavoro, il che la porta a concepire la nascita come ri-produzione, processo assimilabile alla produzione, mentre la società clanica ragiona a

partire dalla metafora dell'apparizione, della generazione, identificate con la realizzazione di un dono. Seguiamo questa pista per dimostrare brevemente come la società arcaica si organizzi a partire da una duplice esigenza generativa. In primo luogo, quella della nascita degli esseri e degli individui biologici; poi quella della rinascita simbolica delle persone sociali (9). "La nascita degli esseri biologici" - Non è così certo come dice René Girard che tutti i miti parlino dell'assassinio di una vittima espiatoria. In ogni caso, non parlano solo di quello. In compenso, è chiaro che parlano molto di sesso, di stupro o d'incesto. Non perché i selvaggi sarebbero dei rozzi maniaci sessuali, dediti "ante litteram" alla pornografia che ha fatto seguito in Occidente alla recente ondata di liberazione sessuale. Ma, più verosimilmente, perché essi non conoscono altra metafora generale a partire dalla quale pensare l'origine di tutte le cose: l'essenziale è quell'enigma essenziale che è la comparsa della vita in tutte le sue forme. Dunque non è molto sorprendente che il potere di dare la vita, e dunque quello delle donne, sia considerato come il più affascinante, desiderabile e pericoloso. Nemmeno è molto sorprendente che questo potere sia immediatamente scongiurato, addomesticato, negato e disciplinato. Non sembra tollerabile che solo le donne possano essere considerate le donatrici autentiche delle sole cose realmente importanti. Inoltre, spiegano numerose mitologie primitive, sono le donne che possedevano all'origine tutto il saper fare e che hanno inventato tutte le istituzioni umane. Con l'astuzia e la perfidia, profittando della loro inavvertenza, o per scrupolo del dovere gli uomini hanno sottratto loro quei poteri favolosi e ormai fanno credere alle donne che sono loro a possederli realmente. Quel che importa soprattutto è affermare che gli uomini svolgono nella procreazione un ruolo almeno altrettanto importante e in genere molto più importante di quello delle donne. Infatti la legge fondamentale vuole che non esista nulla che non venga da due (10), in altri termini che niente possa nascere che non risulti da uno scambio di doni e di controdoni. Gli uomini si donano dunque le donne che donano i bambini che donano loro gli sposi, o meglio che i doni degli sposi o di certi uomini privilegiati contribuiscono a far nascere e crescere. Tutto qui è questione di doni incrociati, di sperma, di latte e di sangue.

"La rinascita simbolica delle persone" - Com'è noto, i rituali d'iniziazione mettono in scena un parto propriamente sociale e simbolico. Svolgendo nei confronti degli iniziati il ruolo di madri culturali, i padri e gli zii ne assicurano la trasformazione definitiva da individui biologici, fino ad allora confinati nell'universo delle donne sotto la custodia della madre, in persone sociali, dotate di uno o più nomi, di diritti e di obblighi (11). Questi rituali iniziatici s'inscrivono nel quadro più generale del complesso dei rituali religiosi, magici e sacrificali. Come ha dimostrato Arthur M. Hocart (1978) lo scopo primario di tutti i rituali è quello di assicurare la fecondità. Tutti implicano la suddivisione del clan, della orda o della tribù, oppure quella degli officianti del rituale, in due gruppi, l'uno che dà e l'altro che riceve. La vera origine della divisione del lavoro sarebbe da ricercare nella divisione del lavoro rituale? Il principio di alternanza richiamato più sopra è da mettere in rapporto con l'universalità della divisione delle società in metà, nonché con quella del principio che afferma che non si può essere nello stesso tempo chi dona e chi riceve, ma che queste due posizioni devono essere occupate a turno. In "La Pensée sauvage", Claude Lévi-Strauss dimostra in modo ammirevole come le prescrizioni e le proscrizioni organizzate dall'operatore totemico diano nascita a una divisione propriamente immaginaria, priva di qualsiasi vero contenuto funzionale, del lavoro. I membri del clan della tartaruga marina saranno, per esempio, i soli a poterla cacciare, e poiché non possono consumare il loro animale eponimo, i soli a poterlo donare. L'amore, scriveva Jacques Lacan, consiste nell'offrire a qualcuno qualcosa che non si ha e che egli non vuole. Tutto lo sforzo della società arcaica, fondata sull'onore dei donatori, consiste nel tentare di superare questo pessimismo donando a ciascuno qualcosa ch'egli sia il solo a poter donare a sua volta. Il ruolo dell'iniziazione consiste proprio nel consacrare questo accesso al monopolio di certe posizioni, diritti, beni, prerogative e obblighi conseguenti. Fino al momento dell'iniziazione o delle iniziazioni (poiché si accede a ogni età della vita mediante una nuova iniziazione), la nuova persona sociale si è accontentata di ricevere. Essa è stata la beneficiaria di quel che si potrebbe chiamare il sistema dei doni verticali, quello che s'inscrive nella logica della trasmissione. I doni che questa implica, doni tra ineguali, dei più anziani ai più giovani, non richiedono restituzione, a parte l'obbligo di chi riceve di trasmettere a sua volta, ma più tardi. Questi doni sfuggono dunque al principio dell'alternanza che caratterizza la maggior

parte dei doni orizzontali. Una volta portata a termine l'iniziazione, si apre il campo degli scambi cerimoniali, quelli che rappresentano e simboleggiano il dono in quanto tale. E' a proposito di questo tipo di dono che si può parlare di «doni orizzontali», illustrati dai classici esempi del potlàc e del kula. Essi rientrano in quella che Marshall Sahlins chiama la reciprocità equilibrata. In teoria, essi avvengono tra pari, o meglio creano parità. Con la precisazione che la parità è sempre minacciata dall'obiettivo di ottenere una superiorità, che il fatto di ricambiare è destinato a riassorbire e a ribaltare. Coloro che donano donne sono superiori a coloro che le ricevono, a meno che eccezionalmente non sia il contrario. Sognare, come diceva Mauss, che un dono sia talmente enorme da non poter essere restituito - sognare come scriveva Leonard Cohen in una celebre canzone una carta "so high and wild" che non si avrebbe mai più bisogno di giocare di nuovo - significa sognare di ritrasformare il dono orizzontale in dono verticale. La legge del sempre di più, cristallizzata nello "hau", traduce il desiderio di accedere alla posizione di potere che è quella degli antichi, degli antenati, dei genitori il cui dono di trasmissione - dono senza replica - non richiede restituzione. La pulsione gerarchizzante, quella che produce i "Big Men" e gli aristocratici, separandoli dalla gente comune che non ha i mezzi di ricambiare altrettanto, si fa strada attraverso questa dialettica del dono orizzontale tra pari e del dono verticale di trasmissione la cui riattualizzazione virtuale è sempre implicita nei doni che hanno maggior carattere di reciprocità. Il dono tra i sessi genera i figli, gli animali, i vegetali, le pietre, le stelle, i venti e gli spiriti. Il dono cerimoniale apporta la fama, l'onore, il prestigio, la faccia (12). Il dono verticale mantiene il dominio della parentela, il dono orizzontale apre quello dell'alleanza, matrimoniale o politica. Trasforma i nemici di ieri o di domani in alleati. Muta gli estranei in amici. Resta la questione degli estranei sconosciuti, e di coloro con i quali non si stabiliscono rapporti di scambio e di affinità. Questa presentazione del dono arcaico permette una prima comparazione con il dono moderno. - LA SOCIALITÀ ARCAICA La società arcaica si preoccupa infinitamente di più della propria «riproduzione» che della produzione delle cose; infinitamente di più di riprodurre gli esseri biologici, le persone, i rapporti tra loro e, tramite il dono agli dei, di riprodurre la società stessa. Il momento della

riproduzione, o meglio della rigenerazione, è quello del sacro e del rituale. Nessun dubbio che esso abbia senz'altro maggiore importanza del tempo delle attività profane, che inquadra e scandisce da un capo all'altro. Il fatto è che tutto deve in ogni momento poter avere un senso globale e coerente; ovvero che, nell'ambito di uno degli ordini della pratica, non deve poter intervenire niente che non sia significativo anche nell'ambito di un altro e che non abbia senso dal punto di vista dell'insieme. Tutto dev'essere continuamente e indefinitamente ricontestualizzato. Questa predilezione per l'astoricità, questa passione del ritorno permanente alle origini, del ritorno a zero e al punto di partenza, hanno senza dubbio ragioni di ordine tecnico ed economico. Le tecniche della caccia e della raccolta permettono di far vivere soltanto poca gente su un territorio che dev'essere notevolmente esteso. Ma sembrano intervenire anche altre ragioni certo più fondamentali, ragioni attinenti alla natura stessa di quell'operatore simbolico che è il dono. Poiché quest'ultimo stabilisce rapporti concreti tra persone concrete, la sua forza è limitata dalla sua stessa concretezza. Non potrebbe estendersi a un numero troppo grande d'individui senza mutare di natura e senza far cadere le persone nel registro dell'astrazione impersonale. Lévi-Strauss parla di quella dolcezza che deve necessariamente essere rifiutata agli uomini, quella di vivere sempre nell'ambito del proprio gruppo. E' questo il sogno, peraltro spesso angoscioso, che nondimeno persegue la società selvaggia: essa vuole restare una società di parenti e affini inestricabilmente uniti dai legami concreti del dono concreto. Ora, il più nobile e prestigioso dei trobriandesi non può avere molto più di duecento amici, più di duecento partners del kula. Al di là di questo numero, l'operatore dono deve ammettere la propria impotenza, diventa muto e sterile. Il dono arcaico, come il dono moderno funziona conformemente alla logica delle reti; ma nel caso del dono arcaico, le reti devono restare fitte, convergere e contribuire alla riproduzione presunta identica dell'unità di società che hanno scelto di muoversi soltanto nell'ambito del proprio gruppo, di dedicarsi tutte al solo registro della socialità primaria. Detto in modo più esplicito, esse non sanno che cosa farsene dell'estraneo che non possono trasformare in affine. Se, per riprendere l'espressione di Mary Douglas, la società arcaica ignora il dono gratuito, non è perché i selvaggi sarebbero affetti da un egoismo incurabile. Essi non sono né più né meno egoisti di noi. Del resto, il problema non sta in questa dialettica idealistica dell'egoismo e dell'altruismo. Dire che la società clanica ignora il dono gratuito significa semplicemente

riconoscere che essa non vuole entrare in rapporto con gli estranei sconosciuti, quelli che non sono destinati a diventare affini. E' sempre possibile fare qualcosa dello sconosciuto occasionale, di passaggio, portato dai casi di quella storia che si rifiuta: gli si può offrire ospitalità e, nel caso, lo si può mangiare. Con certi estranei è possibile abbozzare relazioni commerciali sotto la forma prudente del commercio silenzioso, permettendosi l'inganno e le manovre che le leggi dell'onore vietano tra prossimi. Ma questo rapporto con gli estranei deve rimanere periferico, il più lontano possibile dalla comunità. Nell'ambito di quest'ultima, l'estraneo non può avere uno statuto in quanto tale. Con il completamente Altro, viceversa, si stringono rapporti privilegiati, ma sotto una forma paradossale che viene a sintetizzare e a chiudere il complesso dei paradossi di cui si nutre il dono arcaico. Nell'avviare la nostra esplorazione delle contrade in cui regna il dono arcaico, ci eravamo muniti di un viatico: una citazione di Aristotele che spiegava perché bisogna essere spontaneo, perché la spontaneità è obbligatoria. E' questo naturalmente il paradosso centrale del dono in generale, che si può risolvere e superare soltanto con quella "common knowledge", quel sapere comune che è una ignoranza comune necessaria. Niente può accadere, passare dalla potenza all'atto se non tramite il dono. Niente ha valore se non provvisto della spontaneità che accompagna la donazione. Il dono è per definizione spontaneo. Ora, esso è talmente essenziale alla società che questa tenderà continuamente a renderlo obbligatorio, a dubitare della capacità dei suoi membri e a fare leggi che lo negano. Abbiamo visto come sia in occasione della circolazione e dell'alienazione di beni teoricamente inalienabili che il desiderio e gli interessi si esacerbano, e dunque che la tensione tra spontaneità e costrizione diventa massima, come per un effetto di un doppio paradosso. Contrariamente alle teorie antiche del comunismo primitivo e al modello comunitario di Cheal (1988), ciascuno nella società arcaica è proprietario di qualcosa, ma conformemente a un diritto di proprietà strano che proibisce di conservare per sé quel che si possiede. Correlativamente, il dono introduce eguaglianza e parità in seno a un universo che è in primo luogo concepito come fondamentalmente inegualitario ed eterogeneo, universo di forze e di princìpi personali antagonistici sempre ineguali dal punto di vista dell'energia vitale in essi contenuta. Come la guerra tende a rendere i guerrieri eguali con lo scambio di colpi che si infliggono nella prospettiva di una morte comune, così il dono crea una sorta di eguaglianza, introducendo un minimo di proporzionalità in un rapporto

che in partenza era puramente ineguale (confronta per esempio Berthoud, 1982). Tutti questi paradossi si collegano alla preoccupazione di preservare l'unità del corpo sociale e si condensano nel rapporto anch'esso paradossale che la società selvaggia intrattiene con la Legge, che le permette di rimanere nel registro della socialità primaria. Come hanno ben dimostrato Clastres (1974), Gauchet e Lefort (1971) e Gauchet (1977), quel che permette alla società selvaggia di preservare la sua indivisione reale, di prevenire l'emergere di un potere separato - e di una economia separata, bisognerebbe aggiungere - è il fatto che essa pone l'origine simbolica della Legge lontano da se stessa. Essa postula che questa sia stata data una volta per tutte dall'esterno, dagli eroi culturali o dagli antenati. Gli uomini non si riconoscono come gli inventori della Legge, né del resto come gli inventori di checchessia. Il capo selvaggio non fa la legge, si limita a dire una legge che tutti conoscono e considerano come radicalmente trascendente ed esterna al rapporto sociale concreto. E' proprio affermando la loro assoluta eteronomia simbolica che le società arcaiche si considerano unificate e salvaguardano la loro autonomia reale. E' inoltre facendo una caccia spietata al loro interno a tutto ciò che rischia di distaccarsene - sotto forma di un potere incontrollabile o di quelle ricchezze che minacciano di accumularsi sfuggendo all'esigenza di reversibilità - che esse proibiscono a chiunque di impadronirsi del "nomos" per proprio conto facendolo passare dal polo del simbolico a quello del reale. Di qui l'importanza del lavoro rituale e del tempo consacrato alla sola esigenza della riproduzione simbolica della società. Il rituale, in tutte le sue forme, sacrificale, magica, estatica, spazza via ed elimina in permanenza le scorie della "ypheis" e riporta ciascuno all'esigenza del dono. Riassumiamo: la società arcaica preserva la sua autonomia collettiva reale imbrigliando l'autonomia degli individui e sottomettendosi a una eteronomia simbolica assoluta. Essa salvaguarda il predominio del registro della personalizzazione e della socialità primaria subordinandosi a quello della socialità secondaria. La condizione del mantenimento del suo equilibrio è che essa non abbia rapporti regolari permanenti e strutturati con l'estraneo, perché con lui, per definizione, se non riesce a farsene un affine, è impossibile stabilire rapporti di dono concreti e personali. Assoggettandosi all'Altro simbolico, esse sperano di sfuggire agli altri reali, ai molteplici sconosciuti e nemici potenziali. E' negli stretti limiti inerenti a questo montaggio simbolico che il dono arcaico, operatore concreto di rapporti concreti tra le persone può essere

efficace. Con l'irruzione concreta di quegli altri molto concreti che sono i conquistatori, e per l'intervento di quegli altri passabilmente astratti che sono i mercanti, comincerà un'altra storia. Volenti o nolenti bisognerà far posto a tutti questi estranei e stabilire con loro rapporti che per definizione non potranno più essere quelli disegnati e conformati dal dono arcaico. Quest'ultimo, come le società nelle quali regnava sovrano, dovrà storicizzarsi, diventare astratto e spiritualizzarsi, pur lasciando un posto sempre più grande alle logiche propriamente secondarie del dominio e della merce. L'altra storia che così ha inizio è la storia della storicità. - LA SOCIALITÀ MODERNA Bisogna aggiungere però che c'è un rovescio della medaglia in questa chiusura del dono arcaico condannato alla eterna ripetizione dell'identico. Se è vero che la società arcaica non conosce il dono agli estranei, viceversa è esatto anche che essa è aperta a tutta la natura, al cosmo di cui fa parte. Il primato concesso al dono verticale collegato alla fecondità tende certo a limitare il dono orizzontale a vantaggio della famiglia, com'è illustrato dal rifiuto di donare sangue agli estranei. Ma questa chiusura è compensata in qualche modo dall'estensione indefinita dei rapporti di parentela. A proposito degli aborigeni australiani Chatwin afferma che «le strutture di parentela si estendono a tutti gli uomini viventi, a tutte le altre creature, ai fiumi, alle rocce e agli alberi» (Chatwin, 1988, p. 105). E sotto questo aspetto, è il dono moderno che appare come chiuso perché limita la sua area di circolazione agli umani e finisce per limitare la parentela alla famiglia nucleare e il dono alla sfera dell'intimità (Cheal, 1988). Ci si trova dunque in presenza di due sistemi che sono entrambi aperti e chiusi, a seconda dell'aspetto considerato e del punto di vista adottato. Il tipo di apertura del dono arcaico spiega che in questo sistema tutto può essere un bene, tutto può essere un legame e tutto può essere un termine (13) del dono, cioè un soggetto cui il dono è indirizzato. La permutabilità tra i "termini" del dono (la sua destinazione), i "legami" e i "beni" (quel che circola) è completa. In altri termini, tutto può essere dato a tutto: è quel che spiega in particolare come le donne possano essere un dono senza perciò essere un oggetto (14). Infatti questa estensione della personalizzazione degli esseri a tutto il cosmo fa sì che la società arcaica non conosce il mondo degli oggetti, categoria propria della società moderna. Mentre nella società moderna tutto tende a essere prodotto,

nella società arcaica niente è prodotto, salvo marginalmente; tutto compare e scompare, nasce e muore, «sorge dall'interno delle cose» (Simmel). «Esiste, prima di tutto, una mescolanza di legami spirituali tra le cose, che appartengono in qualche misura all'anima, e gli individui e i gruppi, che si trattano entro certi limiti come oggetti» (Mauss, 1950, p. 163 [trad. it., pp. 174 seg.]). In questo «va e vieni delle anime e delle cose confuse tra loro» (ibid., p. 230 [trad. it., p. 242]) non c'è né anima né cosa, questa distinzione cessa di essere pertinente. E' per l'appunto ciò che rende possibile la permutabilità generalizzata tra termine, dono, legame. Al contrario, la modernità ha introdotto una rottura radicale tra il mondo delle persone-soggetti e il resto del cosmo diventato oggetto. Anche gli animali sono sempre più degli oggetti obbedienti al mondo della produzione. Tutto tende ad essere prodotto, anche la nascita, che diventa una produzione di esseri umani o una riproduzione. Ora, il dono non può essere un puro oggetto. Infatti ciò significherebbe che è totalmente alienabile, che è una merce, spogliato delle tracce delle persone che l'hanno conosciuto. Prodotto od oggetto, ciò significa esattamente la stessa cosa. Il mercato «oggettiva» il mondo, la natura, gli animali, gli alberi, e riduce dunque di altrettanto la circolazione del dono a quel che resta, a coloro che conservano lo statuto di soggetto, e soltanto al momento in cui essi hanno questo statuto (cioè al di fuori del mercato e al di fuori dello Stato). Il prodotto è una categoria fondamentale di base della società moderna, nata dai primi scambi con l'esterno, nata dalla comparsa dell'estraneo come categoria sociale: categoria che la società moderna proietta su ogni interpretazione del dono arcaico. Una simile distinzione tra oggetto e soggetto pone fine alla permutabilità arcaica. Un soggetto non può più essere un regalo, e non si fanno doni agli oggetti. Alla socialità delle piccole società peraltro aperte sul cosmo, che fa parte della parentela così come la parentela ne fa parte, il moderno sostituisce la socialità degli umani chiusi sulla natura: esso deve domarla per non subirne le leggi implacabili, le leggi del mondo degli oggetti sulle quali noi non abbiamo presa, mentre l'arcaico può pregare per far cadere la pioggia. (E se prega abbastanza a lungo, la pioggia effettivamente cadrà...). Il dono arcaico si svolge tra gruppi (15); la sfera «naturale» del dono moderno si situa nell'intimità, spesso tra individui. Il dono serve in essa a ricordare a ciascuno che è unico in questa rete personale, che si situa in una rete composta di esseri unici gli uni rispetto agli altri, mentre negli apparati in cui lavora o presso i mercanti con i quali ha a che fare, si recitano ruoli intercambiabili. Viceversa, in una società in cui si è sempre

unico, in cui non si è mai uno strumento, in cui non si vende la propria forza-lavoro, non c'è ragione che tali reti individuali esistano e che il dono serva a costruire l'unicità degli esseri. Tutta l'organizzazione razionale industriale e burocratica è fondata su un principio che nega l'unico, quello della ripetizione e della riproduzione dell'identico all'infinito, quello in cui non deve apparire niente d'imprevisto, perché l'imprevisto è considerato imperfezione, anomalia nella catena della riproduzione perfetta dell'identico. Il principio del dono, al contrario, è l'imprevisto, "something extra" (Cheal, 1988), quello che sfugge, quel che appare proveniente da non si sa dove, quel che nasce, quel che spezza la catena della riproduzione dell'identico a profitto della fecondazione, della nascita. Questo ambiente circostante del dono moderno spiega in parte le sue caratteristiche di ripiegamento sulla valorizzazione di reti individuali intime personalizzate, di fronte a un mondo radicalmente eterogeneo, retto dalle leggi della fisica, del mercato e della razionalità strumentale e lineare. Nel dono qualcosa appare, una grazia di cui abbiamo molto bisogno. Ogni dono moderno fatto a un individuo serve a individualizzarlo "dalla" società e non a rafforzare la sua individuazione "nella" società, come il dono arcaico. Essendo stati staccati dal sistema dell'universo e irregimentati in sistemi nei quali non siamo unici, ma multipli gli uni degli altri, cloni intercambiabili all'infinito, l'unico modo di cui disponiamo per costruire socialmente la nostra unicità è la costituzione di una rete di altre persone uniche. La rete è la costruzione degli unici, e il dono traccia e mantiene i percorsi, i cammini tra gli unici. Proprio per questo nel dono moderno la persona alla quale è destinato il dono è il principale fattore di spiegazione della scelta del regalo (Cheal, 1988, p. 145). Nel dono arcaico, tutto conferma la nostra unicità nell'ambito di un universo interamente composto di unico, di diverso. La differenziazione moderna dev'essere costruita, la differenziazione arcaica è già là, immanente, perché il mondo degli oggetti intercambiabili, il mondo dei prodotti non esiste. Per l'uomo primitivo, "Il fatto che il suo comportamento rispetto all'oggetto sia immerso nella dimensione della soggettività gli fa apparire inappropriato lo scambio - con la natura o interindividuale - poiché lo scambio è associato alla oggettivazione della cosa e del suo valore. Di fatto, è come se la prima presa di coscienza dell'oggetto in quanto tale implicasse una sensazione di angoscia, come se si provasse che una parte dell'Io venisse staccata da esso" (Simmel, 1987, p. 77 [trad. it., p. 148]). Ciò spiega l'assenza di ciò che Cheal chiama il dono intimo nelle società arcaiche. C'è evidentemente molto dono verticale; ma nessun equivalente dei doni rituali intimi (Natale, compleanni, festa di san

Valentino, Pasqua...) sembra esistere nelle società arcaiche, dove il dono ha luogo pubblicamente e tra gruppi. Il solo rituale di dono facilmente comparabile nei due tipi di società, il solo caso in cui si sente che si comparano cose comparabili, è quello che accompagna il matrimonio, come lo descrive Cheal. La nascita, la generazione è davvero alla base di ogni dono, quale che sia la società. E tutte le differenze si spiegano con l'indifferenza delle nostre società nei confronti della comparsa della vita, questo fatto fondamentale da cui proviene ogni cosa; nei confronti della creazione, che è stata sostituita con la produzione, progetto essenziale della civiltà industriale: giungere a produrre tutto, a far sì che più nulla sia creato, più nulla appaia né venga al mondo che non sia prodotto, compresa la vita umana, mentre, per i cacciatori-raccoglitori, niente è prodotto, tutto nasce, appare, è generato. In questo consiste tutta la differenza. Vista dalla cultura arcaica, questa ossessione della produzione equivale a un desiderio di eliminare ogni vita, ogni supplemento, ogni apparizione, ogni extra, ogni grazia dall'universo. La società moderna tende a puntare tutto sulla circolazione orizzontale estesa all'intero pianeta mediante il libero scambio di tutto da parte di tutti, disinteressandosi della trasmissione verticale al punto di distruggere il pianeta e di non riprodursi più, di comportarsi come se costituisse l'ultima generazione, eliminando così qualsiasi verticalità a vantaggio di una generalizzazione assoluta della circolazione orizzontale. Lévi-Strauss ha mostrato come il tabù dell'incesto rompa la linea di circolazione verticale e apra l'universo della circolazione orizzontale, condizione di possibilità della società. Viceversa, l'esperienza della modernità mette in evidenza i pericoli che corre una società che si abbandoni alla circolazione orizzontale. Il rapporto che una società stabilisce tra i due tipi di circolazione è cruciale. La nascita ha luogo oggi nell'intimità, in quella cerchia protettiva inventata dai moderni contro il mondo senza grazia della produzione, il che spiega lo spostamento del dono in questa sfera dell'intimità, inesistente nelle società arcaiche. Il dono segue la nascita e il movimento della vita. Il dono ruota intorno alla famiglia e alla parentela, nei due tipi di società. Le donne sono al centro dei sistemi di dono nei due tipi di società. La donna anzi è un regalo nel dono arcaico. Nel dono moderno, essa è l'attore principale del dono rituale, intimo o comunitario, e del dono agli estranei, in realtà di tutti i tipi di dono. Ragion per cui Cheal termina il suo "The Gift Economy" affermando che non sono le classi sociali, né il patriarcato, né il fatto che la donna sia a casa o al lavoro che determinano in primo luogo le caratteristiche del dono moderno, bensì la

differenza sessuale. Il dono moderno è una storia di donne: «E' nell'ambito dell'universo di rapporti propri delle donne che sono stati elaborati i significati moderni del dono» (p. 183). Il dono segue la nascita, ed è per questo che oggi sta di casa nell'intimità e forse si estinguerà con la fecondazione artificiale, con la previsione del sesso del bambino, del suo quoziente intellettuale, della sua altezza eccetera, quando non ci sarà più sorpresa: in altri termini, quando il bebé sarà un prodotto e la nascita una produzione. La rottura tra l'umanità e il cosmo, rottura attraverso la quale penetra il mondo degli oggetti, che finisce per invadere senz'altro il mondo e per travolgere le persone: ecco quel che spiega l'insieme delle differenze tra dono moderno e dono arcaico, pur dimostrando che la chiusura nell'ambito del proprio gruppo è altrettanto importante nei due tipi di società, a seconda del punto di vista. Claude Lévi-Strauss riconosceva l'importanza di questa chiusura moderna nel suo "Anthropologie structurale due": "Si è cominciato con il recidere l'uomo dalla natura, e con il costituirlo a regno sovrano; si è così creduto di cancellare il suo carattere più irrecusabile, ovverosia che egli è in primo luogo un essere vivente. E, non vedendo questa proprietà comune, si è dato campo libero a tutti gli abusi. Mai meglio che al termine degli ultimi quattro secoli della sua storia, l'uomo occidentale è in grado di capire che, arrogandosi il diritto di separare radicalmente l'umanità dall'animalità, accordando all'una tutto ciò che toglieva all'altra, apriva un circolo vizioso, e che la stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita a escludere dagli uomini altri uomini e a rivendicare, a beneficio di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanesimo nato corrotto per aver desunto dall'amor proprio il suo principio e la sua nozione" (Lévi-Strauss, 1973, p. 53 [trad. it., p. 77]). Il dono moderno crea reti che sono al riparo dagli oggetti, che ridanno un senso alle cose, parallelamente alla rottura con il mondo prodotta dalla generalizzazione degli oggetti. Da dove proviene questa rottura?

CAPITOLO 10 IL PASSAGGIO AL DONO MODERNO Non sarebbe possibile in questa sede ricostruire l'origine dell'oggettivazione del mondo. Più modestamente, noi intendiamo piuttosto riflettere sulla recente evoluzione che ha portato a questa tendenza a considerare il dono stesso come un oggetto e a comprenderlo nel quadro della circolazione mercantile. Scopo del presente capitolo è quello di far vedere come l'irruzione del mercato porti al paradigma della crescita e comporti una tendenza a liberare i membri della società da qualsiasi obbligo legato ai rapporti sociali, a partire dal postulato che ogni legame obbligatorio può essere sostituito da un bene. Ma ben presto ci si rende conto che il mercato non può liberarci di certi legami e che i beni non sostituiscono tutti i legami. Autori come Mauss o Titmuss pensano che l'intervento dello Stato e delle sue politiche sociali di redistribuzione venga a rafforzare il sistema di dono più antico, permetta agli individui di premunirsi contro l'invasione del mercato e garantisca loro il diritto e la libertà di crearsi dei doveri, la libertà di donare che il mercato tende a sopprimere. Noi pensiamo al contrario che lo Stato è per lo meno ambiguo nella sua funzione di supporto del dono o di bastione contro il mercato e che, storicamente, esso ha contribuito molto a estendere un tipo di rapporto mercantile a settori non ancora toccati dal mercato. Dopo aver precisato che il dono moderno non trae direttamente la sua origine dal dono arcaico, presenteremo successivamente le conseguenze della comparsa del mercato e dello Stato. Analizzeremo poi il risultato principale di questa trasformazione, ossia la separazione e l'isolamento della sfera del dono; quindi la resistenza dei membri della società a questa oggettivazione del mondo.

- L'ESTRANEO ARCAICO E L'ESTRANEO FEUDALE Partiamo da una constatazione evidente: gli attuali scambi internazionali sono piuttosto lontani dal kula! Essi non sono retti dal dono, ma dal mercato. Eppure restano tracce importanti di questa funzione del dono, anche nel settore dei rapporti con gli estranei. Infatti, il rapporto mercantile deve in primo luogo essere «autorizzato» da un rapporto di dono. Ovunque il mercato non ha già stabilito le sue regole «automatiche», oppure ovunque sono i rapporti che contano, si utilizza sempre il regalo. Così c'è scambio di regali tra capi di Stato di due paesi all'inizio di un incontro che porta a un trattato commerciale le cui «modalità di applicazione» sono lasciate ai funzionari e la realizzazione effettiva ai mercanti. Il dono ha autorizzato tutto quel che segue; atto fondatore, ha stabilito la fiducia minima necessaria al successivo scambio mercantile. In questo scambio in cui si offre un "opening gift" c'è obbligo di ricambiare, ma non c'è contratto e ancor meno costrizione. Bisogna avere un minimo di fiducia per offrire un regalo. Quando si constata che il dono è restituito, che il dono ricevuto è bello, che rappresenta il passato, l'anima della nazione con la quale si commercerà in seguito, allora si possono effettuare gli scambi mercantili. Beninteso, l'atto ufficiale è oggi soprattutto simbolico e tutto avviene soprattutto a monte dell'atto stesso, nei molteplici scambi «protocollari» che rendono possibile e preparano lo scambio di regali «ufficiali». Il regalo è l'atto che istituisce il rapporto di fiducia grazie al quale le due società e i loro membri possono «abbandonarsi» alle regole del mercato. Ma il regalo è a sua volta uno scambio non mercantile, uno scambio di «regali» garanti del futuro... mercantile. La differenza rispetto al kula è che, in quest'ultimo caso, non si passa al mercato. L'invasione dei rapporti internazionali ad opera del mercato non è propria del dono moderno. Karl Polanyi (1957) ha dimostrato l'importanza dei rapporti mercantili tra diverse società molto lontane dalla modernità. Quel che caratterizza maggiormente la modernità è l'ingresso del mercato nell'ambito dei rapporti tra i membri di una stessa società. Ora, ciò non si è verificato nelle società arcaiche, ma nelle società feudali del Medioevo europeo, dove le comunità locali erano dominate; quanto meno esse facevano parte di un insieme molto più vasto, del quale si sono liberate grazie al mercato e alla democrazia. Questo punto è essenziale: il mercato non ha in primo luogo liberato le persone dai loro doveri sociali «primari», come si fa credere confondendo società arcaiche e comunità feudali inserite in un insieme più vasto. Il dono attuale e il

mercato hanno come punto di partenza le nostre società passate, tradizionali, feudali, rurali... Poco importa il nome: quel che bisogna tenere a mente è che il punto di partenza, l'origine dello statuto attuale del dono nelle nostre società è l'introduzione del mercato nei rapporti sociali, come sostituto a rapporti interni piuttosto che tra estranei. Va tuttavia precisato che il mercato non si sostituisce a rapporti interni alla comunità stessa, ma a rapporti che non sono né completamente estranei né comunitari, ai rapporti di autorità costituiti dal legame feudale con il signore e con il regno. E' da questo che il mercato (come pure lo Stato) è venuto a liberare i membri di queste comunità inserite, a differenza delle società arcaiche, in insiemi più vasti dove subivano una certa dominazione. E' in primo luogo questo legame di sottomissione relativa all'insieme più vasto che modificherà l'introduzione del mercato, fino alla trasformazione radicale del legame nella democrazia rappresentativa di oggi. Bisogna insistere su questo punto: all'origine del dono moderno non si trova il dono arcaico, ma la società feudale. Non è possibile mostrare qui tutte le differenze tra le due; limitiamoci a dire che ci troviamo di fronte a comunità i cui membri vivono rapporti di subordinazione e che il mercato libererà gli individui e la comunità stessa da tali rapporti. Se non si riconosce questo punto di partenza, si introduce e si mantiene poi in tutta l'analisi una grande confusione tra costrizione e obblighi sociali. Il mercato e la democrazia rappresentativa hanno dapprima liberato le persone dalle costrizioni esterne alla comunità; queste sono diverse dagli obblighi imposti dai rapporti comunitari che, a loro volta, sono comuni alle società arcaiche, libere rispetto all'esterno. Soltanto in un secondo tempo, molto più tardi, il mercato e lo Stato-provvidenza vorranno far saltare anche gli obblighi comunitari. Questa distinzione è fondamentale. Ci serviamo dei termini «costrizione» e «obbligo» per segnare questa differenza tra un obbligo morale, il cui polo estremo è l'obbligo amoroso, e la costrizione, che viene dall'esterno e il cui polo estremo è la forza fisica. Da qualche parte tra i due si situa il contratto, spazio che separa il dono dalla costrizione, spazio che il mercato estenderà, tipo intermedio di costrizione sociale che tuttavia può esistere soltanto fondato su un rapporto di dono preliminare che lo rende possibile, come dimostra l'esempio degli scambi internazionali. Vediamo dunque la genesi di questo stato di fatto, cioè la comparsa e la generalizzazione del rapporto mercantile e dello Stato come forme di circolazione dei beni e dei servizi all'interno di una società. Questo capovolgimento dei rapporti con i beni e le cose è all'origine del posto e del ruolo del dono attuale. Infatti questa rottura introdotta nella società

permette agli oggetti di «volare con le proprie ali», di uscire dai rapporti sociali: «le cose determinano reciprocamente i loro valori come attraverso un meccanismo automatico» (Simmel, 1987, p. 47 [trad. it., p. 122]). In un secondo tempo, come per un effetto di boomerang, questa oggettivazione tenderà a liberare i rapporti sociali stessi; essa porterà a una visione interamente negativa di ogni rapporto caratterizzato da «attaccamento» e in definitiva all'utopia di una società senza rapporti (ovvero di rapporti allo stato puro). - PRIMA ROTTURA: IL MERCATO Il fondamento, l'origine del capovolgimento, è l'irruzione del mercato nel seno stesso dei rapporti sociali. Che cosa significa? Che cosa sostituisce il mercato? Con che cosa lo sostituisce? Per assicurare la circolazione delle cose, il loro passaggio da un produttore a un consumatore, il mercato introduce dei meccanismi che permettono l'istituzione di rapporti spersonalizzati tra individui che diventano agenti neutri. Il mercato stabilisce uno spazio che costituisce alla lettera un "no man's land", un luogo senza legami personali in cui le cose si scambiano tra loro grazie al meccanismo dei prezzi, stabilito indipendentemente dagli agenti. «Ti farò un buon prezzo», è una espressione che attesta il fatto, affermando "a contrario" un privilegio concesso a qualcuno, al di fuori della regola generale che vuole che non ci sia un prezzo per una persona, ma un solo prezzo stabilito indipendentemente dagli agenti individuali, estranei tra loro. Il prezzo è legato soltanto alla cosa diventata merce. Il mercato, come dice Simmel, «non deve temere deviazione dovuta agli imponderabili dei rapporti personali, quando produttore e acquirente si conoscono tra loro» (1979, p. 64), e ogni prodotto è più o meno «fatto su misura», personalizzato. Che cosa sostituisce il mercato? Nella società feudale, come nella società arcaica, le cose circolano inserite nei rapporti personali, all'interno di legami comunitari diretti, personalizzati, retti da norme sociali. Questi rapporti sono di due tipi: ci sono i rapporti comunitari propriamente detti (famiglia, vicinato, villaggio eccetera) e i rapporti di servitù che, pur essendo altrettanto personali, comportano una dimensione di subordinazione e di dipendenza nei confronti dei membri di un altro gruppo sociale (Simmel, 1987, p. 416 [trad. it., p. 480]). Il mercato toccherà poco il primo tipo di rapporti. Esso influenzerà soprattutto il secondo tipo, che non esiste nelle società arcaiche. Mentre,

nel modello arcaico dei cacciatori-raccoglitori, niente è prodotto in senso stretto, nella società feudale il servo produce qualche cosa; e non produce soltanto per sé o per i membri della sua famiglia o della sua comunità immediata. D'altra parte, a differenza di quanto avviene nel mercato, egli sa bene per chi produce, e ci sono segni numerosi e ben noti di questo rapporto personalizzato tra il signore e i servi, e anche tra il re e i suoi sudditi. Tutto ciò che è prodotto è destinato a qualcuno. Tutto ciò che è prodotto ha una ragione, una utilità sociale immediata, nota, evidente, inscritta nella indissociabilità dell'atto di produzione e del suo fine, la persona alla quale il prodotto è destinato. Questa realtà fondamentale dei rapporti sociali muterà con l'arrivo del mercato. La società mercantile ha avuto inizio il giorno in cui si è deciso di fabbricare una cosa non già perché un utilizzatore l'aveva «domandata», ne «aveva bisogno»; non già perché il fatto di produrre poteva essere utile all'"utilizzatore", ma perché poteva essere indirettamente «utile» al produttore, se questi riusciva a vendere la cosa prodotta, beninteso. Il giorno in cui fu invertito il rapporto tra fabbricante e utilizzatore, il giorno in cui un calzolaio invece di fabbricare un paio di scarpe ordinate da qualcuno ne fabbricò cento paia, preoccupandosi soltanto in seguito di trovare la «domanda», fu inventato il surplus; infatti, «l'uomo che vive nella società non produce surplus finché non abbia designato come tale una parte di ciò che ha prodotto» (H. W. Pearson, 1957, p. 306 [trad. it., p. 400]). Facendo d'ora in poi produrre da sconosciuti, il mercato libera dalla subordinazione personale; ma, nel far questo, esso instaura una incertezza fondamentale circa l'adeguazione tra quel che fa il produttore e quel che vuole l'utente. Ciò comporta la comparsa tra loro di un intermediario incaricato di gestire questa incertezza, il mercante, che diventerà il centro del sistema perché assumerà il rischio legato d'ora in poi alla produzione, il rischio permanente della sovrapproduzione. Il mercato instaura una minaccia permanente d'insufficienza della domanda, come dimostrerà Keynes. «Il problema centrale è il rischio permanente della "sovrapproduzione", poiché la produzione è [d'ora in poi] destinata a gruppi relativamente instabili e fluttuanti, sconosciuti e incontrollabili» (Gouldner, 1989, p. 18). Questo significa la spersonalizzazione dell'atto di produrre, la sua decontestualizzazione, la trasformazione di un atto sociale inscritto in un rapporto tra due persone concrete in atto economico liberato da questo rapporto e inscritto soltanto in un contesto di produzione. Molto rapidamente, il calzolaio venderà dunque la sua produzione a un intermediario, il mercante, che si assumerà la responsabilità di trovare gli

utilizzatori, chiamati consumatori. Il mercante diventa il portatore dell'incertezza generata dal primato della produzione. Si procede così alla costruzione sociale della coppia consumatore-produttore, e il produttore diventa "primo" in questo rapporto. Il senso del rapporto è capovolto. La società è diventata «utilitaristica»: si è messa a cercare l'utilità, perché questa non andava più da sé. Essa ha definito l'utilità e l'ha dissociata dall'uso riducendola all'atto di acquisto da parte di un consumatore. Allora sono apparsi i due temi ricorrenti e complementari del timore del surplus e del suo opposto, il timore della scarsità. Il grande paradosso di questa società è il fatto che l'obiettivo di ogni produttore sarà quello di produrre cose inutili. Infatti l'economia e i suoi agenti sono tutti mobilitati nella produzione di surplus. Ora, che cos'è un surplus, se non per definizione una cosa non necessaria a colui che la produce, una cosa alla quale bisognerà trovare una utilità, che non va più da sé? Il surplus è quel che si cerca una utilità (1); e tale utilità è il risultato di un calcolo, quello del mercante. Non solo la produzione comincia a esistere indipendentemente dall'uso, ma assume il primo posto. Da mezzo, diventa fine. D'ora in poi, il produttore, "ignora la destinazione finale e il fine ultimo delle sue attività. (...) Il suo scopo non può più essere quello di cercare di adattare il proprio prodotto ai desideri del destinatario, ma piuttosto di venderne al prezzo più alto una quantità grande il più possibile. Per forza di cose, (...) egli non può fare a meno di scambiare i mezzi per dei fini" (Boudon 1990, p. 411) (2). Il mondo dei prodotti, - queste strane cose senza filiazione, in cerca di senso, impensabili, come si è visto, nell'universo arcaico - invaderà la società che progressivamente e in misura sempre crescente si sottometterà loro. La tendenza permanente a creare artificialmente bisogni per vendere la produzione diventa così inerente al sistema. Proprio per questo, vari secoli dopo, si giunge a trovare normale e auspicabile far scavare un buco da qualcuno e farlo poi riempire da un altro per «creare» occupazione, cioè dei produttori. Perché? Per rilanciare il sistema, per creare un potere d'acquisto che generi una domanda che farà ripartire la macchina per produrre, destinata poi a funzionare da sola. Si paga dunque della gente per scavare e riempire buchi al solo scopo d'introdurre del denaro nel circuito economico. Ma allora, si potrebbe chiedere ingenuamente, perché non limitarsi a distribuire del denaro? Potrebbe darsi che nel tempo non impiegato a scavare e riempire il buco le persone che ricevono il denaro facciano cose utili e che tutti ci guadagnerebbero su tutti i piani. Evidentemente, non c'è ragione

puramente economica di assoggettare in questo modo i membri della società alla produzione come condizione di accesso al consumo. C'è un postulato morale nel fatto di dover produrre anche se ciò non presenta alcuna utilità nel senso di uso, purché ciò faccia aumentare il prodotto interno lordo. O meglio, la produzione è diventata la definizione stessa dell'utilità nel sistema e il fondamento del valore delle persone. L'utilità è ogni produzione avente un valore monetario, senza riguardo per la sua utilità nel senso di uso per qualcuno. Al limite, il sistema non riconosce più alcuna importanza al valore d'uso: quel che interessa al mercante, cioè colui che si assumerà il maggiore problema di questa società (stabilire un legame in precedenza automatico tra il produttore e l'utente) e la più grande incertezza (che i prodotti non trovino utenti), è la produzione, la sua crescita perpetua. Se potesse trovare qualcos'altro al posto dell'utente trasformato in consumatore, farebbe a meno di quest'ultimo con sollievo. Del resto egli ha in parte trovato quel che cercava con l'industria degli armamenti: questi non devono più essere utilizzati, ma soltanto prodotti, poi dichiarati obsoleti; ciò permette di produrne in permanenza senza aspettare l'utilizzatore di armamenti, cosa di cui certo non ci lamenteremo. Come dice molto bene Gouldner, «l'utilità, reale o presunta, tende a diventare un peso storico di cui ci si può disfare» (1989, p. 29). L'uso, e dunque l'utente, non è più la ragion d'essere di colui che fabbrica qualcosa, come lo si concepiva per esempio in Grecia. Per Platone, "per ogni cosa esistono tre specie d'arte: della sua utilizzazione, della sua fabbricazione e della sua imitazione; esse appartengono rispettivamente all'utente, all'artigiano e al pittore: il pittore, come tutti gli altri imitatori, non conosce niente della cosa, salvo la sua apparenza esteriore, della quale si servirà con «artifici» per dare l'illusione della realtà; l'artigiano fabbrica effettivamente la cosa, ma senza conoscerne perfettamente, in quanto artigiano, l''eidos', cioè il fine; solo l'utente ha questa competenza" (Vernant, 1985, p. 293 [trad. it., p. 300]). L'introduzione del mercato ribalta completamente questa sequenza. Il produttore diventa primo e l'utente non è nient'altro che uno strumento necessario allo smercio della produzione. Egli si trasforma in consumatore. I ruoli sono capovolti. Il capovolgimento dell'ordine fine-mezzo va di pari passo con la rottura radicale tra il produttore e l'utente. La cosa che circola non trasporta più il legame sociale, ne è dissociata, è liberata dal dono. Il legame sociale deve «rifugiarsi» altrove, nel «resto» della società. La produzione è diventata lo scopo della società. E il mercante è colui tramite il quale l'utilità entra nel sistema perché il prodotto grazie a lui acquisisce un valore monetario che

spesso non ha niente a che vedere con l'uso: è legato esclusivamente al fatto che qualcuno acquista. Gli antropologi conoscono forse altre società che abbiano un tale rapporto con l'utilità, la gratuità, il superfluo? Da questo punto di vista, la società moderna non cerca di essere utile. Essa vuole produrre, e basta. Qualsiasi cosa, dai buchi vuoti ai buchi riempiti. Oppure, il che è lo stesso, essa ha la sua propria definizione dell'utilità: la produzione massima di tutto ciò che può trasformarsi in merci. E il suo grande problema rispetto al mercato è che questo meccanismo di «smercio» di ciò che è prodotto dipende dal consumatore, cioè dai membri della società che tenderanno sempre a resistere a questa trasformazione universale del loro mondo in prodotti, in oggetti staccati da ogni legame sociale e da ogni senso, in oggetto sociale non identificato. Il consumatore conserva sempre questa tendenza a mantenere una concezione diversa, «passatista» dell'utilità che non si riduce allo smercio, alla «consumazione» (Bataille, 1967) del prodotto. Vuole che ciò serva, vuole inserire le cose in un altro sistema di valore. Come diceva Le Corbusier a proposito dell'utente, «purtroppo (...) egli vuole sempre fare solo di testa sua». La pubblicità consiste interamente nel tentare di convincerlo che ha torto, che non deve definirsi come utente o membro di una rete di persone, ma soltanto come consumatore di oggetti, che deve sbarazzarsi degli ultimi residui della sua mentalità arcaica! Il sistema mercantile assume questa incertezza fondamentale creata dal fossato tra il produttore e il consumatore risultante dalla spersonalizzazione dei rapporti sociali di produzione. Ciò lo distingue dal sistema socialista che trasforma la società in un sistema di produzione puro, in una comunità dei produttori, eliminando il solo meccanismo di collegamento tra i due agenti, situati ai due poli del sistema, tra il produttore e il consumatore: il mercato. Anche se quest'ultimo tende sempre a creare dei bisogni, esiste un meccanismo di controllo che scompare in una società dove lo si elimina, e nei settori che non sono controllati né da lui, né dalla comunità, come lo Stato. - SECONDA ROTTURA: LO STATO L'estensione del rapporto mercantile si fermerà a lungo alla produzione delle cose e, per molte ragioni, toccherà poco gli scambi di servizi; questi rimarranno retti dai legami comunitari personalizzati. E' dunque soprattutto dai rapporti personali di dipendenza economica che il mercato per molto tempo libererà gli individui liberando la circolazione

delle cose e introducendo la rottura produttore-consumatore senza perciò modificare gli altri rapporti sociali. Importa insistere su questo punto. Il mercato influenza poco il sistema di rapporti primari, la famiglia, la parentela, il villaggio. Esso libera dalla subordinazione nei confronti del signore. Ma i legami comunitari all'inizio non sono affatto modificati da lui: lo saranno più tardi dall'industrializzazione e dallo smantellamento fisico delle comunità, le quali del resto tendono a ricostituirsi nello spazio urbano. Più ancora: il rapporto mercantile e il denaro possono essere al servizio dei rapporti comunitari. Essi non ne costituiscono mai un sostituto diretto proprio perché per definizione eliminano ogni legame personale, ogni personalizzazione della cosa che circola propria del rapporto di dono. Nella misura in cui la libertà mercantile è interamente negativa, vuota di contenuto personale, puramente «oggettuale» (Simmel, 1987, p.p. 504 e seguenti [trad. it., p.p. 569 e seguenti]), essa può essere utilizzata per far circolare le cose tra le comunità senza peraltro tendere a sostituire i legami comunitari diretti tra produttori e utenti. Mercato e comunità, per così dire, non sono in concorrenza. E' quanto illustra bene Simmel (1987, p.p. 428 e seguenti [trad. it., pp. 489 e seguenti]) descrivendo le prime federazioni di associazioni fondate unicamente sulle sottoscrizioni delle associazioni membri, al fine di difendere i loro interessi comuni senza influire sull'appartenenza prima all'associazione membro, alla quale si tiene moltissimo. Simmel dimostra che soltanto il denaro (simbolo qui del mercato) permette tali raggruppamenti senza influenzare la natura degli organismi membri e il legame dei membri individuali con la «loro» associazione. «La forma monetaria dell'interesse collettivo dà anche alle associazioni la possibilità di pervenire insieme a un grado più elevato di unità, senza che la singola associazione debba rinunciare alla propria indipendenza e alla propria specificità (p.p. 429 seg. [trad. it., p. 492]) (3). Ma lo sviluppo della modernità non si ferma qui. Lo Stato democratico e provvidenziale darà il cambio al mercato nel campo dei servizi. Si assumerà gran parte degli scambi di dono «tralasciati» dal mercato e li trasformerà in rapporti di tipo mercantile. Libererà il campo dei servizi resi fondandolo anche su una rottura tra i suoi agenti produttori di servizi e coloro i quali chiamerà, a seconda delle circostanze, utenti, beneficiari, amministrati eccetera. Certo, lo Stato era presente sin dall'inizio di questo processo, e svolgeva un ruolo capitale nell'istituzione del mercato stesso. Inoltre, la democratizzazione dello Stato è strettamente legata ai doni fatti al re dai sudditi, processo che perviene al celebre "no taxation without

representation". «All'inizio (...) è il popolo, nel senso largo, vago, della parola che decide di fornire, di dare sussidi al re» (Guery, 1983, p. 27). In questo caso come per il mercato, è dunque importante ricordare che il punto di partenza non è una società arcaica, cioè «naturalmente» democratica, come dice Jean Baechler, ma una situazione in cui le comunità fanno parte di regni o d'imperi, e sono dunque «governate» dall'esterno. Né la democrazia greca (Baechler, 1985, p. 87) né la democrazia arcaica sono all'origine della democrazia moderna. Quest'ultima è rappresentativa e non diretta e risulta dalla trasformazione progressiva di un governo esterno alla società, di cui ci si è a poco a poco appropriati invece di liberarsene, o più precisamente di cui ci si è liberati appropriandosene parzialmente, con il dono che svolge un ruolo non trascurabile in questo processo, come ha dimostrato così bene Alain Guéry analizzando il passaggio «dal dono all'imposta» (1983). Parallelamente, tutto un insieme di rapporti di «servizio» tra le persone (servizi ai bambini, ai vecchi, a tutti coloro che un giorno o l'altro hanno bisogno dei servizi altrui, il che ci comprende tutti) sono «usciti» anch'essi dal sistema di dono per essere assunti stavolta soprattutto dall'apparato statale e dai suoi professionisti e impiegati. Tutti i servizi che non possono essere assicurati dal mercato tendono a essere dispensati dallo Stato, che così dà il cambio al mercato. Il dualismo produttore-utente si diffonde dunque al di fuori del mercato e della fabbricazione dei beni, con l'arrivo della democrazia rappresentativa, in cui il cittadino diventa a sua volta amministrato e consumatore di beni politici prodotti da un'altra categoria d'intermediari, diversa dai mercanti: i «nominati», intermediari tra gli eletti e i cittadini. La democrazia rappresentativa instaura un'altra rottura fondamentale per la modernità, stavolta tra governanti e governati. Come il mercato nei rapporti economici, essa introduce l'estraneo nei rapporti politici. Questo nuovo rapporto è ignorato tanto dalla democrazia diretta arcaica quanto dalla democrazia ateniese. Quest'ultima, fondata sulla "philia", non conosce la distinzione produttore-utente. Nella democrazia rappresentativa, tra l'eletto e il cittadino s'inserisce un altro intermediario, il «nominato», il burocrate, che occupa il posto lasciato dalla rottura del legame comunitario tra i governanti e i governati. Ciò porta alla situazione che caratterizza lo Stato-provvidenza, cioè un secondo processo parallelo d'ipertrofia degli intermediari nel nome della libertà e della crescita. All'ipertrofia del mercante, intermediario tra il produttore e il consumatore, si aggiungerà ben presto l'ipertrofia dei nominati nel rapporto politico, intermediari tra gli eletti e i cittadini. Il

primo settore fa vivere il secondo poiché il numero dei nominati cresce nella misura delle imposte prelevate sugli scambi mercantili monetari. I due sistemi si nutrono del denaro. Questi due processi, mettendo al centro del rapporto una rottura, un fossato sempre più grande, separano progressivamente il produttore dall'utente, l'offerta dalla domanda, pur integrandoli in sistemi diversi e opposti. Generalizzando il ricorso all'intermediario, tendono a termine a trasformare ogni rapporto sociale in un legame tra estranei e in uno strumento al servizio di ciò che circola. Nel settore pubblico, il ricorso all'intermediario prende la forma del processo di professionalizzazione e di burocratizzazione dei servizi, che non sostituirà stavolta un rapporto di dominazione esterno alla comunità, ma toccherà direttamente i legami comunitari. Illustriamo questo processo con un esempio tratto dal cosiddetto «lavoro sociale». Inizialmente assunto dai rapporti di parentela, di vicinato, di amicizia, in breve da legami personali diretti (che chiamiamo comunitari), questo insieme di servizi è stato a poco a poco trasferito a impiegati del settore pubblico o a organizzazioni specializzate in tali servizi e sovvenzionate dallo Stato. Questo trasferimento avviene nel nome dell'eguaglianza e dell'universalità, ma anche nel nome di un desiderio di liberazione dai legami sociali obbligatori. Questo processo di liberazione tende a trasformare la democrazia stessa in un meccanismo quasi mercantile: noi paghiamo con le nostre tasse o direttamente individui che a loro volta sono evidentemente pagati per fare un lavoro, il «lavoro sociale», che consiste in realtà essenzialmente in legami sociali. Per alcuni è un grande «guadagno» perché le donne, che prima si occupavano «gratuitamente» dei figli, dei genitori, ora si occupano a pagamento dei figli e dei genitori degli altri. Per non essere sfruttati, questi impiegati cercano di professionalizzarsi. E giungiamo al rapporto produttore-utente caratteristico della modernità. Raramente si nota il cambiamento profondo di rapporto che implica questo passaggio dal familiare all'estraneo mediante il denaro: è la generalizzazione di un rapporto mercantile non concorrenziale. Per comprendere il senso di questo rapporto, bisogna uscire dal dualismo produttore-utente e cercare di pensarlo dall'esterno. Proseguiamo con lo stesso esempio adottando la prospettiva del dono, Cioè ponendoci la questione della qualità del legame sociale. Che cosa significa questo trasferimento? Che cosa significa il fatto che delle donne (perché in grande maggioranza sono loro che occupano questi posti) sono ora pagate (cioè si pagano tra loro, perché questi servizi sono finanziati

dall'imposta, che è un prelevamento sui loro redditi) per «dispensare» servizi a degli estranei invece di «rendere» dei servizi ai loro parenti? Su scala macrosociale, è come se una donna avesse detto a un'altra: «Occupati della mia vecchia madre, ti pagherò; io mi occupo dei tuoi figli e tu mi paghi. Eccoci entrambe liberate. Non siamo più sfruttate, siamo pagate». Liberate da che? Essenzialmente dal legame sociale a causa della dissociazione che s'instaura tra il servizio reso e il legame personale con il «beneficiario». Certo, esiste ancora un pericolo di attaccamento alla persona alla quale si dispensa il servizio ed è per questo che si supererà ben presto tale stadio specializzando, decomponendo il servizio reso, di modo che invece di dispensare l'insieme dei servizi a una sola persona, ogni impiegato dispenserà ormai soltanto una frazione dei servizi a un gran numero di «clienti», minimizzando la possibilità che si ricrei un legame sociale pregiudizievole alla libertà conquistata a così caro prezzo. Viste con le lenti del modello mercantile, le cose non sono cambiate. Infatti il mercato s'interessa unicamente ai punti di partenza e di arrivo e vuole sapere soltanto se il bene o il servizio sono stati prodotti e dispensati. Non si interessa affatto al supporto, alla qualità di ciò che veicola il servizio, al legame tra chi produce e chi riceve, che del resto tende ad affidare a specialisti (equivalenti dell'intermediario nella circolazione mercantile). Questo nuovo modo di rendere i servizi è dunque strettamente equivalente in termini mercantili, ed è superiore al vecchio in termini tecnocratici, poiché introduce una specializzazione e dunque un aumento presunto della qualità dei servizi. Ma in termini di legami sociali c'è una grande differenza: ora le due donne delle quali abbiamo parlato hanno legami con degli estranei. E proprio in questo consiste la loro liberazione. Quanto ai loro figli o ai loro genitori, esse potranno accontentarsi di amarli, senza essere costrette a render loro servizi: potranno amarli allo stato puro. Si giunge così a questa utopia, a questo strano legame affettivo divenuto gratuito, nel senso che è sbarazzato di ogni aspetto materiale o utilitario; nel senso che non circola più niente a parte dei sentimenti. La rottura è totale tra ciò che circola e i sentimenti. Secondo questa utopia, noi finiremmo per essere completamente trasformati in produttori di certi beni e servizi da una parte, in utenti di certi altri dall'altra. Ma non produrremmo (fabbricheremmo, creeremmo) più niente, né renderemmo più alcun servizio al di fuori di questo quadro e statuto. Al di fuori di queste istituzioni di servizi, continueremmo certo ad amare, a odiare, ad avere gli uni nei confronti degli altri tutti quei sentimenti che sono essenziali ai nostri rapporti quotidiani; ma vivremmo tutto ciò allo stato

puro, soprattutto senza che circolino beni o servizi sulla base di tali sentimenti. Dopo essere stato condannato all'inizio come un comportamento in cui «ci si rimette» perché lo si «produce» gratuitamente, ogni gesto che potrebbe essere interpretato come un servizio finirebbe per essere proibito: solo coloro che hanno la competenza richiesta, attestata da diplomi, avrebbero il diritto di compierlo; ma, d'altra parte, la contaminazione dei sentimenti ad opera delle cose è un fenomeno tanto ineluttabile quanto nefasto; allora, rendere un servizio diventerebbe un atto antisociale che toglie lavoro a coloro che sono specializzati in questo tipo di atti. Spinto al limite dell'assurdo, questo significherebbe il progetto moderno di liberazione completa dai legami sociali. Liberazione, per fare che? - LA LIBERTÀ DI PRODURRE DI PIÙ Lo Stato e il mercato sono entrambi fondati sugli intermediari: i «nominati» e i mercanti. Questi due sistemi ci liberano dal rapporto di dono, ma ci assoggettano alla legge della produzione. La produzione diventa prioritaria, il prodotto invade il mondo. Produzione di beni, poi di servizi: questi due movimenti fondano la grande avventura della liberazione dai legami sociali, cioè quella duplice tendenza a liberarci da ogni legame sociale, consegnandoci però all'aumento permanente della produzione e al dominio della merce, soprattutto sotto la forma del denaro. E' il rovescio della medaglia. Infatti l'individuo moderno, grazie ai beni che accumula o dilapida, è libero da ogni legame; non è però libero di non produrre sempre di più, in altri termini di creare surplus in permanenza (Pearson, 1957). Oppure non è moderno. E' la definizione minima della modernizzazione. Così un autore come Belshaw (1965), pure così attento a definire la modernizzazione in modo neutro e non occidentalocentrico, afferma che noi occidentali non dobbiamo stabilire quale prodotto, quale produzione una società qualsiasi debba aumentare... purché essa decida di aumentare qualcosa! Tale è la definizione minima di colui, individuo o società, che aderisca al principio della modernizzazione. Una società può decidere «di formare stregoni piuttosto che psichiatri» (p. 146). Avrà sempre diritto al titolo di società moderna. Il mercato è neutrale, non s'immischia di quel che una società produce, a condizione che produca qualcosa, e sempre di più. Infatti, «la presenza di un orientamento che faccia dell'espansione un criterio di successo costituisce una delle condizioni indispensabili della modernizzazione» (ibid.). In altri

termini, «una società moderna non mira a raggiungere un equilibrio statico tra l'offerta e la domanda, stato caratteristico della maggior parte delle società primitive» (p. 110) . Tutto il resto può a rigore essere statico in una società, ma non l'equilibrio tra l'offerta e la domanda. Che cosa vuol dire? Che ogni società che considerasse soddisfacente il livello di beni monetarizzati raggiunto, i cui membri decidessero di fare altro (musica, meditazione, feste, chiacchierate o... niente) non sarebbe moderna, ritornerebbe alla primitività caratterizzata da un «equilibrio statico» tra l'offerta e la domanda. Che una società moderna non gode di questa libertà... Ora, ciò è indissolubilmente legato alla rottura tra produttore e utente, e alla negazione del rapporto di dono che fonda il rapporto con il mondo delle società arcaiche. Perché? Proseguiamo il ragionamento. In realtà, una società moderna potrebbe a rigore trovare accettabile che i suoi membri si dedichino soprattutto alla musica e addirittura alla meditazione piuttosto che alla produzione di computers più efficienti o di aerei in grado di ridurre di dodici minuti il tempo di volo tra Montréal e Parigi... Infatti, come dice Belshaw, noi non dobbiamo decidere quel che dev'essere prodotto, purché se ne possa produrre sempre di più. Una società potrebbe dunque essere moderna e consacrarsi soprattutto alla musica o alla meditazione. Non è questo il problema fondamentale, che consiste nel modo di fare piuttosto che nella natura dell'attività. La società moderna può «investire» in qualsiasi attività (il passaggio dalla produzione di «beni» alla produzione di «servizi» o d'«informazione» è dunque da questo punto di vista secondario), ma a una condizione: quella di sviluppare una professionalizzazione dell'attività, una competenza, dei luoghi specializzati, una infrastruttura materiale perfezionata, dei produttori di meditazione, dei venditori e consumatori di meditazione; in altri termini a condizione che l'attività conosca una crescita quantitativa monetaria misurata dal prodotto interno lordo e non si contenti di un «equilibrio statico»; a condizione, dunque, che essa perpetui la divisione produttore-consumatore, che non avvenga, come si dice, in modo «informale» (senza forma), che non sia tra le mani di dilettanti (che amano dedicarvicisi); cioè a condizione che non sia trasmessa in reti di reciprocità e di dono, non avvenga in un contesto di dono, ma nell'ambito di un ordine mercantile o burocratico. Burocrazia e mercato sono, da questo punto di vista, equivalenti, l'una riproducendo il modello produttore-intermediario-cliente proprio dell'altro e negando altrettanto il rapporto di dono.

La crescita perpetua, la rottura produttore-utente e la negazione del legame sociale (che non è fondato su questa rottura) sono una sola e medesima cosa, e cominciamo a vedere in che cosa la loro generalizzazione costituisce una negazione del dono. Il dono arcaico funziona sullo «sfondo» dell'obbligo sociale, realtà che la modernità non cessa di ricordarci e di cui ci vuole liberare. La cultura moderna, invece di preoccuparsi in primo luogo di quel che ci lega gli uni agli altri, mira in primo luogo a liberarci dagli altri, a emanciparci dai legami sociali concepiti come altrettante costrizioni inaccettabili. Al di là di questo processo ogni legame sociale deve diventare volontario. E' la generalizzazione dell'"exit", il grande regalo della modernità: avere soltanto rapporti liberamente scelti, mentre gli altri sono trasferiti al mercato e allo Stato che se ne fanno carico; come ce ne facciamo carico noi in quanto lavoratori... ma questo lo si dimentica. - LA DISSOCIAZIONE DELL'UTILITARIO E DEL GRATUITO E' questa evoluzione che, a termine, dà l'impressione che il dono, quasi completamente eliminato dalla società moderna, sia sostituito da quel doppio sistema che isola il produttore dall'utente e moltiplica nello stesso tempo gli intermediari. Ed è vero che la tendenza «naturale» di questo doppio movimento è quella dell'eliminazione del dono, pur nutrendosi di esso, paradossalmente, considerandolo come acquisito. Così gli studi sulla famiglia hanno spesso dimostrato fino a che punto il sistema economico ha bisogno di questa rete e ne dipende (Sgritta, 1983). E' la separazione dei due universi per paura di una perversione reciproca. Da una parte, le cose e i servizi devono poter circolare senza dover «temere deviazione dovuta agli imponderabili dei rapporti personali» (Simmel, 1979, p. 64). D'altra parte, i legami affettivi, come dice François de Singly, non devono essere corrotti da considerazioni mercantili. Poiché il dono è ciò che circola restando preso nei legami sociali, la separazione totale delle due sfere lo elimina. Ecco l'utopia della modernità, l'illusione onnipresente nello spirito moderno. Quel che caratterizza la modernità, non è tanto la negazione dei legami (posizione estrema assunta da pochi, anche tra gli economisti) quanto la tentazione costante di ridurli praticamente all'universo mercantile oppure di pensare i legami e il mercato isolatamente, come due mondi impermeabili, ma dei quali il primo, a contatto con il secondo, ne è sempre contaminato e in definitiva assoggettato. Non si riesce a pensarli insieme.

Ciò dà l'impressione che il mondo sia diviso in due: da una parte gli scienziati, la produzione, gli affari, le cose serie, reali, dominate dall'utilitarismo; dall'altra la poesia, quella alta e quella popolare; la canzone, l'arte, la religione, l'amore, l'amicizia, retti dai sentimenti (l'altro stato che, come dice Musil, non presenta alcuna utilità per l'altro mondo, quello della vita quotidiana). Questi due mondi ci mandano quotidianamente e in permanenza, messaggi del tutto contraddittori. E' il "double bind" dell'occidentale. Così, Alain Touraine, a proposito dell'America latina afferma da una parte: "Io penso (...) che la modernità non si confonda con la razionalità, ma piuttosto con una immagine sempre più complessa e completa della persona umana, che è al tempo stesso ragione e sentimento, individualità e comunità, passato e futuro, e che di fronte a un Occidente obnubilato dai suoi interessi e dai suoi piaceri (...) l'America latina viva, con più forza e immaginazione di qualsiasi altra parte del mondo la ricerca di una nuova modernità (...)" (1988, p.p. 157 seg.). Ma non dimentica forse questa idea quando conclude, nella stessa opera, con l'affermazione: "Finché l'America latina resterà una società tradizionale dove l'apparire conta più del fare e 'i rapporti personali più del calcolo razionale', (...) essa non avrà altra scelta che quella tra il sottosviluppo globale e una dualizzazione crescente?" (p. 468, corsivo nostro). Il pensiero moderno è capace di pensare le due cose insieme? Il solo modo per la modernità di «salvare» i legami dal loro assoggettamento alla produzione mercantile sembra essere quello di liberarli da ogni circolazione di beni, di isolarli in un legame allo stato puro. Mauss termina il suo "Essai sur le don" suggerendo al contrario che la mescolanza dell'interesse e della gratuità caratterizza la maggior parte dei nostri atti di scambio non mercantile (1950, p.p. 258 e seguenti [trad. it., p.p. 269 e seguenti]). Ciò può sembrare un luogo comune. In realtà, con tale affermazione, egli si oppone fondamentalmente all'ideologia della separazione delle sfere che domina la società moderna. Questa incapacità di pensare i beni al servizio dei legami conduce a eliminare ogni circolazione di beni nei legami affettivi. La separazione in due sfere impermeabili esiste anche nel pensiero quotidiano corrente. Molti accettano malvolentieri, per esempio, che si utilizzi il linguaggio mercantile (debito, scambio) nel campo del dono. E viceversa non si dice forse che negli affari bisogna escludere i sentimenti? In una prospettiva in cui ogni circolazione di cose è necessariamente retta soltanto dal principio dell'interesse, si giunge a questa separazione delle due sfere.

Senza questa separazione radicale, il legame sociale sarebbe necessariamente assoggettato alla circolazione dei beni come nel modello mercantile. E' Simmel che forse meglio di ogni altro ha espresso questa logica dell'autonomizzazione radicale: "Inserendo, per così dire, un cuneo tra la persona e la cosa, il denaro distrugge innanzi tutto legami benefici e produttivi, ma instaura quella reciproca autonomia, in cui ognuna di esse può trovare il proprio pieno, soddisfacente e imperturbato sviluppo" (1987, p. 420 [trad. it., p. 483). In tal modo, come constatavamo nella conclusione del capitolo precedente, tutto diventa oggetto e il legame sociale risulta circondato da un universo di prodotti dai quali sarebbe necessariamente contaminato per contatto. Il legame sociale dunque può esistere ormai soltanto «allo stato puro», senza alcuna circolazione di cose! Il dono si rifugia altrove, cioè in quel che resta di non moderno, nell'altra faccia, in un universo separato. Ma anche questo universo di legame puro tende a essere visto come un prodotto, come un bene. Il modello mercantile ha sempre un doppio statuto: è nello stesso tempo uno dei due modelli ma anche li ingloba entrambi, è il metamodello di riferimento; infatti, anche quando si parla della pura sfera dei legami affettivi in cui nessun bene deve circolare, si tende ancora a descrivere il legame come un bene. Così de Singly si serve più volte del concetto di «bene affettivo», anche se si tratta di un modello dal quale «sono esclusi i servizi che non siano affettivi o sessuali» (1988, p. 137). L'altra faccia della medaglia è che tutti i rapporti non volontari, non liberi sono rinviati nell'universo del lavoro e sono «prodotti» dal mercato o dallo Stato, dall'individuo in quanto impiegato, in quanto produttore. Questi rapporti sono detti liberi perché ciò che è prodotto (beni o servizi) lo è per degli estranei, delle persone verso le quali non abbiamo obblighi derivanti da legami personali. Il dono moderno diventa dunque totalmente libero e aperto a ogni legame, dipendente soltanto dalle affinità elettive del momento. E l'obbligo è assunto dal mercato e dallo Stato; ciò che era strettamente inserito nella società arcaica diventa «idealmente» (nel senso weberiano e anche nel senso dell'ideale della società) del tutto separato. Se questo modello fosse realizzabile, si giungerebbe al compimento di questa rottura, all'eliminazione del principio comunitario in quanto comporta obblighi, alla liberazione totale dal legame e al suo trasferimento in un settore in cui i rapporti tra le persone funzionano come tra estranei, tra «non impegnati», dove non c'è sorpresa, né

imprevisto e dove non si può dissimulare, come sotto il dono, l'obbligo, ovvero il veleno. Ma questa situazione è un limite, un asintoto, un ideale mai raggiunto. Nella società moderna esiste un nucleo consistente di rapporti sociali che sono ancora inseriti in un sistema di obblighi, di legami sociali. In realtà, la liberazione da questi legami non è auspicata da alcuno. Anche se ci si permette di sognarla quando li si trova troppo pesanti, la sua realizzazione effettiva è respinta categoricamente dalla maggioranza. Il rapporto con i figli è qui insieme la migliore illustrazione e il fondamento di ogni rapporto di dono, illustrazione di quel «fondamento» di cui parlava Mauss, sul quale vengono a infrangersi per poi ritirarsi, come un'onda ogni tentativo e ogni movimento di «liberazione» totale dei rapporti sociali. Se è vero che nel Medioevo un vassallo era considerato più avvantaggiato di un servo perché poteva cambiare signore (Simmel 1987, p. 367 [trad. it., p. 431]), e che il progresso introdotto dal mercato è consistito nel liberare tutti da questo tipo di obbligo, si esita ancora oggi a spingere il progresso della libertà fino alla possibilità di cambiare genitori. Ma forse anche il rapporto con i figli è a sua volta minacciato in altro modo, con la fecondazione artificiale e tutte le tecniche che faranno in modo che un figlio sarà sempre meno donato e sempre più prodotto, che ne saremo sempre meno i procreatori e sempre più i coproduttori. Ed è relativamente vano proclamare nello stesso tempo delle carte dei diritti del bambino, perché un diritto ha senso soltanto per qualcuno che lo possa difendere. Per quanti ne sono incapaci, si possono imporre soltanto doveri, obblighi a coloro che hanno già dei diritti e che saranno incaricati di proteggere coloro che non ne hanno. Ma chi si sente veramente obbligato nei confronti di un prodotto, di una merce? Come si è visto, il denaro (o il mercato) «crea rapporti tra gli uomini, ma lascia gli uomini al di fuori di essi» (Simmel, 1987, p, 373 [trad. it., p. 436]). Un artista vende un concerto e si deve pagare per assistervi. Il legame tra l'artista e lo spettatore è evidentemente del tutto quantificato; ma ciò non basta né all'uno né all'altro. Entrambi vogliono qualcosa di diverso dal rapporto oggettivato. L'artista vuole essere applaudito, anche lo spettatore vuole applaudire, entrambi vogliono stabilire un legame non assimilabile da parte del mercato, non quantificabile, gratuito nei suoi confronti. E' così che il dono s'infila ovunque negli interstizi, deborda, distoglie, aggiunge rispetto a ciò che il rapporto utilitario tenta di ridurre alla sua più semplice espressione, quella monetaria, la cui caratteristica consiste nel «non possedere altre qualità che la quantità» (Simmel, 1988, p. 43).

- RESISTENZE E CONTROMOVIMENTI Riassumiamo. Il mercato non permette di liberarci di tutto. Per questo siamo ricorsi allo Stato-provvidenza per proseguire la grande impresa di liberazione dai nostri obblighi. Dando il cambio al mercato, lo Stato mira a liberare gli individui da tutti i loro obblighi sociali trasformando questi ultimi in obblighi contrattuali pecuniari, quasi mercantili. L'utente paga, il produttore è pagato: ciò sostituisce l'obbligo sociale. Ora, si constata che lo Stato causa gli stessi inconvenienti del mercato per quel che riguarda la spersonalizzazione del rapporto, aggiungendovi una irresponsabilità propria delle strutture burocratiche, molte volte analizzata e sulla quale non è il caso di tornare in questa sede. Ben al di là della crisi finanziaria, fu ed è la crisi dello Stato-provvidenza: la reazione dell'utente contro gli inconvenienti di questo sistema, mediante la riattualizzazione di reti, oppure molto spesso la loro evidenziazione, perché non erano scomparse. Ci si era soltanto abituati a vedere la società senza di loro, a concettualizzarla pensando di poterne fare a meno. La resistenza dei membri della società a questa oggettivazione è stata costante, anche se ci si limita a riscoprirla. Il legame sociale, tema che oggi domina i colloqui, non ha aspettato che le scienze umane vi si interessassero di nuovo per restare attivo. La resistenza è diretta contro questi due sistemi quando, nei suoi rapporti con l'uno o con l'altro, l'individuo rifiuta di svolgere soltanto il ruolo di consumatore del prodotto o del servizio fornito dal professionista, ma si definisce come utente. Ciò si traduce nella maggior parte dei casi in una sorta di resistenza passiva: è quel che si constata nell'analizzare i rapporti produttore-utente (Godbout, 1987). In quanto cittadini, gli utenti hanno spesso richiesto anche più democrazia. Al suo posto è stata offerta loro la partecipazione a universi che sono loro completamente estranei, e questo per ragioni ora comprensibili. In altri termini, si è offerto loro di essere coproduttori (4) dei servizi. In tal modo, non si teneva conto della cesura radicale tra il mondo dei produttori e quello degli utenti, che rende difficile ogni legame sociale diretto tra i membri dei due universi. La crescita della democrazia attraverso una penetrazione dei suoi meccanismi presso gli intermediari, presso i «nominati», resta certo una via interessante per migliorare i rapporti tra i cittadini e lo Stato. Ma questo mezzo è molto insufficiente, perché non permette di uscire dalla logica distruttiva del legame sociale

che si accompagna alla rottura tra produttore e utente sulla quale è fondata anche la democrazia rappresentativa. Il percorso dev'essere inverso. E' soltanto a partire da una considerazione preliminare delle reti sociali che si potrà in seguito eventualmente accrescere la democratizzazione e trasformare il rapporto produttore-utente. E' soltanto smettendo di pensare l'utente come un individuo isolato nel suo statuto di cliente di apparati professionali, vedendolo invece così com'è, cioè nella sua rete di affinità elettive, di dono e di controdono, che si modificherà il rapporto binario utilitaristico al quale dovranno subentrare i legami sociali, i legami comunitari, un aldilà del rapporto produttoreutente, dove questa distinzione non esiste: famiglia, reti sociali eccetera, ovunque si constata un modo di funzionamento che neghi la stessa distinzione produttore-utente, che sottometta la circolazione delle cose ai legami sociali e non viceversa (5). Il «pubblico» definito dalle istituzioni che così si qualificano è in realtà un insieme di membri di reti collegate in molti modi, reti che funzionano secondo regole diverse da quelle degli apparati, e la cui caratteristica principale rispetto a questi ultimi è per l'appunto di non fare distinzioni tra «loro» e «noi», di non operare la cesura radicale che esiste sempre tra un pubblico e un apparato, o tra un produttore e un consumatore. E' quel che si può chiamare il modello comunitario, la cui caratteristica principale, per quel che riguarda lo Stato e il mercato, è la negazione della rottura produttore-utente che fonda il mercato e il rapporto professionale. Tutto un insieme di regole diverse derivano da questo principio. C'è dunque anche una resistenza indiretta dovuta al fatto che, concretamente, l'utente, in quanto persona, nella sua vita, continua ad agire, a stabilire legami sociali non fondati sulla rottura. A tutto danno dei produttori del sistema mercantile, l'utente continua, come diceva scoraggiato Le Corbusier «a fare di testa sua». Questo utente caparbio che continua a comunicare con gli altri «membri» della società senza passare per i «sistemi» previsti a tal fine; questo membro di reti che, come un ragno, ricomincia a tessere legami via via che gli apparati li «razionalizzano» e che i mercanti li monetarizzano: sono loro che ci interessano in questo libro Noi tentiamo di esplorare quel «rovescio della storia contemporanea» (Balzac), quei luoghi in cui le cose continuano ad avere un'anima e a vivere al servizio dei legami sociali. E' la rottura che bisogna rimettere in questione in quanto fondamento di una società. Non si tratta di negarne l'esistenza né l'importanza, ma di contestarne la pretesa di essere la matrice del legame sociale.

Nella parte prima del presente volume abbiamo descritto, ritagliandole in modo relativamente arbitrario e a fini di presentazione, le quattro sfere diverse nel cui ambito il dono circola nella società moderna. La comparazione con il dono arcaico ha messo in evidenza la necessità di riflettere sulle fonti del dualismo proprio dei sistemi mercantile e statale, che comporta la rottura con il circuito del dono e la generalizzazione del mondo degli oggetti. Possiamo ora tornare al dono moderno e tentare di comprenderne i tratti specifici, le regole di funzionamento, cominciando con la caratteristica che gli attribuiscono al tempo stesso il senso comune e il pensiero analitico: la gratuità.

PARTE TERZA LO STRANO ANELLO DEL DONO

CAPITOLO 11 DONO, MERCATO, GRATUITA' (1) "Più lo scambio è eguale e più ci si annoia. Il dono assicura la sopravvivenza del tempo squilibrando l'offerta e la sua contropartita". Henri Raymond I biologi Margulis e Sagan affermano che «l'essenza del vivente è una memoria; la preservazione fisica del passato nel presente» (1989, p. 64). Il dono conserva la traccia dei rapporti anteriori, al di là della transazione immediata. Ne ha la memoria, a differenza del mercato che del passato conserva solo il prezzo, memoria del legame tra le cose e del non legame tra le persone. Mentre la dinamica del dono e la sua estensione sono temporali, verticali, il mercato tende a eliminare il passato. L'estensione spaziale orizzontale illimitata dei rapporti tra estranei è a questo «prezzo», e porta all'oggettivazione del mondo che ha come origine la rottura introdotta dal mercato tra il produttore e il consumatore. Il mercato è una sorta di dono scisso, come risulta dal linguaggio mercantile. Spesso, nelle società arcaiche, nozioni come quella di acquisto e di vendita erano designate con una sola parola. Il vocabolario mercantile procede non solo a una riduzione economica del senso a partire da un significato più globale (religioso, morale, politico eccetera) ma anche - lo si è notato meno spesso - a una riduzione sistematica della polivalenza della maggior parte dei termini che designano la circolazione delle cose nel linguaggio corrente. C'è passaggio dalla «poli-valenza» alla «equivalenza». Ci si può anzi chiedere se, dal punto di vista dei legami sociali e considerato analiticamente, il mercato non sia proprio questo: un sistema che isola il fatto di dare dal fatto di ricevere, che individua due operazioni distinte, messe poi tra loro in rapporto di tensione alla ricerca di una equivalenza. Si potrebbe chiamare tutto ciò costruzione sociale della

problematica della equivalenza. Tutto il vocabolario dello scambio subisce lo stesso trattamento: riduzione e separazione. Vediamone qualche esempio a partire da parole ed espressioni di uso corrente, per illustrare la rottura che fonda la modernità. • "Riconoscenza". Nel linguaggio corrente, la parola significa la riconoscenza che si riceve in virtù di un movimento degli altri verso di sé e la riconoscenza che si manifesta verso qualcuno, in un movimento verso un altro. Indica un doppio movimento, come tutte le parole del sistema del dono. Il mercato riduce questa parola a un senso unico e univoco, come nell'espressione «riconoscimento di debito». • "Ospitalità". Il vocabolario dell'ospitalità presenta la stessa ambiguità. «Ricevere» designa certo il fatto di accogliere qualcuno a casa propria, ma anche e con altrettanta importanza, il fatto di dare, di offrire qualcosa: l'ospitalità, un pasto eccetera. Ricevere qualcuno significa dargli qualcosa. D'altra parte, la parola «ospite» designa tanto colui che riceve quanto colui che è ricevuto, a seconda del contesto. Ciò rientra nelle leggi e nei riti dell'ospitalità che, come dimostra Pitt-Rivers, mirano a evitare una situazione di eguaglianza tra l'estraneo e la società ospite, eguaglianza che è necessariamente fonte di rivalità e dunque di conflitto (1983, p. 161). E' esattamente il contrario di quel che cerca il mercato: creare le condizioni di scambio di beni tra estranei uguali. • "Avere fiducia" significa concedere la propria fiducia a qualcuno, dargliela, dunque, e non averla... (Benveniste, 1969, vol. 1, p. 117 [trad. it., p. 77]). • "Gli devo molto". Al di fuori del contesto economico, questa frase significa: mi ha dato molto. Ciò comporta degli obblighi, non un debito come lo si intende oggi, dimenticando del resto il senso originale della parola debito (p. 183 [trad. it., p. 138]). Gli devo molto: grazie a quella persona vivo meglio, ho risolto certi problemi importanti eccetera. Ciò esprime quel che si è ricevuto da qualcuno, e non quel che gli si deve, contrariamente alla parola debito nel contesto mercantile. «Gli devo molto» significa il contrario di: «Gli devo dieci dollari». La parola «debito» è stata recuperata dal pensiero mercantile; e anche in questo caso se ne è eliminato il doppio riferimento per farne un concetto univoco e unilaterale, per poter stabilire equivalenze contabili. • "Emprunter" in antico francese voleva dire sia «prestare» sia «farsi prestare» (p. 189 [trad. it., p. 144]). In latino «"praestare" (...) significa alle origini mettere graziosamente a disposizione, senza considerazione di restituzione» (p. 181 [trad. it., p. 137]).

L'enumerazione potrebbe continuare a lungo. Così, la parola "prix" designa nel linguaggio mercantile quel che bisogna pagare per giungere all'equivalenza monetaria (prezzo); ma nel linguaggio corrente significa anche il contrario: quel che si ottiene gratuitamente, sia per caso, sia per meriti eccezionali (premio). Il mercato potrebbe dunque essere considerato come un dono scisso. Anche se un dono fa sempre parte di un sistema di dono più vasto in cui bisogna inserirlo per comprenderlo (il ciclo dare, ricevere, ricambiare di Mauss resta finora la migliore approssimazione al funzionamento di tale sistema), non bisogna mai dimenticare che, al contrario del mercato, il dono è un gesto completo che bisogna anche comprendere come tale prima d'inserirlo nel sistema di dono. E' una differenza essenziale rispetto al mercato che risulta da una scissione del gesto del dono, scissione che genera il dispositivo offertadomanda e la ricerca di equivalenza tra questi due elementi preliminarmente separati. Scindendo il gesto del dono, il modello mercantile si condanna a non poter mai render conto del dono, così come la dimostrazione di Zenone, scindendo il movimento, non riesce mai a spiegare che la freccia raggiunge il bersaglio. Il che non impedisce alla freccia di raggiungerlo, né al dono di esistere. - IL VALORE DI LEGAME La riduzione del valore delle parole si applica anche alla riduzione al senso quantitativo della stessa parola valore. Questo fenomeno è stato commentato molto spesso e si manifesta all'evidenza con il fatto di ridurre i valori al loro equivalente quantitativo presunto, rappresentabile con una somma di denaro. E' il cosiddetto valore di scambio che si è soliti contrapporre al valore d'uso. Il valore d'uso è più vicino alla realtà, ma perciò stesso è unico, non rappresentabile da una quantità qualsiasi. Il rapporto mercantile tende d'altra parte a escludere il valore d'uso così com'è espresso dall'utente, trasformando quest'ultimo in consumatore, come si è visto nel capitolo precedente. Che ne è del valore del dono? Evidentemente non è un valore di scambio mercantile. Ma è un valore d'uso? Quell'«uso» delle cose che costituisce il dono - l'uso di un bene al servizio di un legame - in realtà è di rado incluso nel concetto di valore d'uso, che tende a riconoscere soltanto l'utilizzazione immediata della cosa e a escludere che essa sia al servizio del legame. Quell'«uso» particolare delle cose è abbastanza diverso dagli altri usi per distinguerlo da essi. A tal fine, non si dovrebbe

forse aggiungere un terzo tipo di valore, che sarebbe il «valore di legame»? Quel che vale un oggetto, un servizio, un «gesto» qualsiasi nell'universo dei legami, nel rafforzamento dei legami. Questa realtà si colloca all'opposto del valore contabile, ed è totalmente occultata dal discorso economico, per cui il legame è lo scambio stesso e nient'altro. Il valore di scambio, come quello del dono, tende a essere esclusivamente relazionale; ma esso esprime il rapporto tra le cose scambiate, così com'è rappresentato dal denaro. Il valore delle cose in funzione del legame tra le persone tende anch'esso a essere negato dal concetto di valore d'uso, il quale si concentra sull'utilizzazione materiale e sulla funzione delle cose. Eppure, al di là e abbastanza indipendentemente dal loro valore di scambio e dal loro valore d'uso, le cose assumono valori diversi a seconda della loro capacità di esprimere, veicolare e nutrire i legami sociali. Tuttavia, questo valore non è stabilito mediante comparazione con altre cose, ma in primo luogo in rapporto con le persone. Lo stesso oggetto avrà un valore di legame molto diverso a seconda del circuito in cui si situa. Si ritrova qui inaspettatamente proprio quel che esprime la moneta arcaica. Si è visto che il suo valore variava in funzione del numero dei suoi detentori e del loro prestigio e che essa era la memoria del valore di legame, come il prezzo è la memoria del valore di scambio. Alla tradizionale opposizione scambio-uso, sarebbe dunque necessario aggiungere il "valore di legame", distinto dal valore d'uso. Come si è visto, il dilapidatore apporta la prova "a contrario" della sua esistenza, separando radicalmente l'uso dal valore di legame. Egli non trasforma il denaro in valore d'uso, né in valore di scambio facendolo fruttificare. Sceglie di darlo, ma al di fuori del circuito del dono, al di fuori del valore di legame. Non lo dà a nessuno, sottrae l'oggetto a tutti i circuiti di circolazione ammessi nella società. Il dilapidatore rifiuta al tempo stesso il valore d'uso, il valore di scambio e il valore di legame. Circolando, il dono arricchisce il legame e trasforma i protagonisti. Il dono contiene sempre un al di là, un supplemento, qualcosa di più, che si cerca di definire con gratuità. E il valore di legame. Il plusvalore è l'assorbimento di questo supplemento da parte della cosa che circola e da parte di uno dei protagonisti, la trasformazione di un valore di legame in valore di scambio. Si può assorbire il valore di legame sia trasformandolo in valore d'uso, cioè arrestando la circolazione della cosa e consumandola, sia oggettivandolo e riducendolo al valore di scambio nel momento di farlo circolare.

Il valore di legame è cosa diversa dal valore di scambio e dal valore d'uso. E' forse quel che spiega meglio la diffidenza che manifesta il dono verso il denaro. Il fatto è strano per il pensiero economico: nel modello economico si riduce a disfunzioni, inefficienze, riassunte nel fatto che il dono - nel caso il regalo - non corrisponde alle «preferenze» della persona, a quel che essa avrebbe acquistato se le si fosse dato del denaro (Camerer, 1988). Ora, nell'offerta di un regalo, lo scopo non consiste nel disporre di un meccanismo che permetta una perfetta corrispondenza con le preferenze del donatario. La posta in gioco del regalo è che il donatore dimostri che sa che cosa piace al donatario. Questo è più importante della soddisfazione «mercantile» del donatario, poiché è il legame che conta, e il dono è una operazione al servizio del legame, come riconosce del resto Camerer: «Un amico intimo "deve" poter individuare i miei gusti» (p. 194; corsivo dell'autore). Camerer ha quasi colto il punto, poiché avanza l'ipotesi che «i regali esprimano in qualche modo le caratteristiche del donatore». Ma non si spinge fino a mettere in rapporto il legame e il dono, anche se cita Caplow che riconosce perfettamente il valore di legame: «Bisognerebbe stimare il valore economico di un regalo di Natale considerando il valore affettivo del rapporto» (ibid.). Ma per l'appunto, non c'è scala economica, poiché il valore di legame dipende dalle caratteristiche delle persone, dalla natura del legame, da un insieme di variabili che il valore economico, per formarsi e diventare puramente quantitativo, ha dovuto cominciare con l'eliminare. Il valore di legame sfugge al calcolo, il che non significa che non esiste. Il valore di legame è il valore del tempo che il mercato sostituisce con una immediatezza indefinitamente estensibile nello spazio, estraendo la cosa dalla rete temporale. Più si isolano le cose dal loro valore di legame, più esse diventano trasportabili, fredde (congelate...), puri oggetti sottratti al tempo. Esprimendo il valore di legame, il dono serve a dimostrarci che non siamo degli oggetti. «Gli uomini che donano si confermano reciprocamente di non essere delle cose» (2). Ritroviamo così il dono arcaico e lo "hau" del saggio maori, come l'interpreta Marcel Mauss. Per Mauss, lo "hau" è lo spirito della cosa che circola. Ora, che cos'è lo spirito della cosa se non quel che essa contiene della persona che ha dato, quel qualcosa che si distacca dal soggetto pur continuando ad appartenervi? E' il valore di legame, ovvero lo scambio simbolico. Quest'ultimo concetto presenta tuttavia l'inconveniente di essere troppo generale, in quanto include ogni comunicazione tra le persone. Il valore di legame è il valore simbolico che si attribuisce al dono, a ciò che circola sotto forma di dono.

- LA GRATUITÀ: ESISTONO DONI GRATUITI... Possiamo ora affrontare la nozione di gratuità. Citiamo di nuovo Benveniste: "(...) il va e vieni della prestazione e del pagamento può essere volontariamente interrotto: servizio senza scambio, offerta di favore, pura «grazia», che predispone a una nuova forma di reciprocità. Al di là del circuito normale degli scambi, di ciò che si dà per ottenere, esiste un secondo circuito, quello del favore e della riconoscenza, di ciò che si dà senza attesa di ricambio, di ciò che si offre per «ringraziare»" (1969, vol. 1, p. 202 [trad. it., vol. 1, p. 153]). Dono, gratuità, generosità. Non si può fare astrazione dalla generosità quando si parla del dono, fosse pure un sistema in cui si rende altrettanto, ovvero più ancora che nel sistema mercantile. La si ritrova a ogni passo, sotto l'ambiguità dei termini rispetto alla loro univocità mercantile, poiché, per l'appunto, quel che è reso è spesso più importante di quel che è dato, il che sta a indicare che non è mostrando che c'è restituzione del dono che ci si può figurare di aver ridotto il fenomeno a una sorta di scambio mercantile mascherato. Non è così che si può sorvolare sulla gratuità e sulla generosità. Di fronte a questo fenomeno di riduzione economicistica del vocabolario, dopo aver proposto l'introduzione del valore di legame, bisogna dunque fare un posto a parte alla nozione di gratuità, termine che simboleggia per eccellenza l'unilateralità assoluta, dunque estraneo al vocabolario mercantile e oggetto di tante discussioni circa la possibilità del dono gratuito (Douglas, 1989), Ora, secondo Benveniste, l'ambivalenza è anche qui presente all'origine. Gratuità viene dal latino "gratia". Si applica alle due parti: «colui che accoglie con favore» e «colui che è accolto con favore, che è gradito»; Benveniste parla anche di «valore reciproco» (p. 199 [trad. it., p. 151]). Di qui il senso evolve verso quello, religioso, di grazia, ricevuta «graziosamente» e che dà luogo a riconoscenza, poi ingloba il fatto di dare per il piacere, che porta alla nozione di gratuità attuale, la quale rinvia a vari significati: • Nel quadro mercantile, «gratis» significa il fatto di ottenere qualcosa per niente, senza pagare, senza costo. Gratuito significa qui senza valore di scambio. • Gratuito si applica anche a qualcosa che si fa «per niente», che non ha utilità evidente, che si fa «gratuitamente» come la confezione dei regali, per esempio. Gratuito significa allora senza valore d'uso.

• Gratuito significa anche senza razionalità, come in «affermare qualcosa gratuitamente», senza fondamento, senza prova. • Per il donatore, gratuito significa anche libero, senza obbligo, e senza esigenza di restituzione: è il senso più contestato e quello interpretato come una «menzogna sociale». • Infine, gratuito conserva un tocco di grazia, di grazioso che fa sorgere dal nulla qualcosa d'inatteso, di generoso, che è legato alla nascita, al generare. I quattro primi significati peccano tutti contro la ragione utilitaria, ma l'ultimo esce chiaramente da quel sistema in cui non può esistere nulla che non sia stato prodotto. L'ambiguità e anche la contraddizione tra questi diversi significati è grande, perché il pensiero mercantile afferma al tempo stesso che il dono è gratuito (altrimenti non è un dono) e che la gratuità è impossibile nei fatti, che chi riceve dovrà sempre finire con il pagare ("there is no such thing as a free lunch"); quanto al donatore, nel suo caso, gratuito significa semplicemente «rimetterci», salvo beninteso se utilizza il «dono» in modo strumentale per ottenere di più. Il quadro di pensiero mercantile rende la gratuità impossibile "a priori". Allora, basta sostituire la gratuità nel sistema di dono per risolvere la contraddizione? Sembra proprio di no. Trasposto nel sistema del dono, il paradosso sembra altrettanto grande. Esso si esprime come segue: • Primo, il dono non aspetta niente in cambio; chi dice dono dice gratuità. • Ora, c'è restituzione in ogni sistema di dono. E' la constatazione che tanto stupore causò in Mauss, nonché l'oggetto centrale degli studi sul dono da allora in poi. • Dunque, o il dono non è gratuito, oppure non esiste. Da dove nasce dunque l'onnipresenza della gratuità presso gli attori del dono, del resto constatata da tutti gli osservatori? L'idea di nonrestituzione sembra inerente al dono. In ogni caso la restituzione è inattesa e strana. Mentre nel mercato il circolo è normale, il dono che ritorna fa un anello strano. Questa contraddizione fondamentale, in cui cade ogni discussione che confronta il dono con il mercato, sbocca inevitabilmente sul problema della bontà (o della cattiveria) dei selvaggi (specialisti del dono per l'umanità attuale) e dell'umanità in generale. E si contrappongono il campo dei cattivi realisti (i cinici) e il campo dei buoni idealisti (gli ingenui). In questo dibattito, le dimensioni cognitiva e normativa sono indissolubilmente mescolate e sembra impossibile trovare una via di uscita. Se non c'è dono gratuito, come afferma Mary

Douglas, allora in che cosa il dono differisce dal mercato? Qual è la sua specificità? Quali elementi ci fornisce il resoconto del dono moderno presentato nella parte prima del volume per chiarire il paradosso della gratuità? Cominciamo con il richiamare i fatti che portano a distinguere il dono dal mercato: a) in primo luogo, certo, l'importanza universalmente affermata della gratuità e della spontaneità del dono, anche quando è effettivamente ricambiato; b) poi, "l'unilateralità reale di un gran numero di doni e anche l'esistenza di doni unilaterali"; una percentuale notevole di doni non è ricambiata, cosa che si è finito con il dimenticare a forza di sottolineare e voler capire perché e in che modo nella maggior parte dei casi i doni erano ricambiati. Come spiegare le numerose situazioni in cui il dono non è ricambiato, non solo senza che esploda la violenza, ma anche senza che sia spezzato il legame sociale? L'importanza del dono unilaterale non può essere negata, come si è visto nel capitolo precedente. Ci sono doni «veramente» gratuiti, nel senso preciso di unilaterali (Parry, 1986). Che cosa significano? Chi studia il dono sembra preso in uno strano dilemma: o il dono è ricambiato, e allora ci si chiede quale possa essere la forza che obbliga a ricambiarlo. (Notiamo che porre la questione in tal modo equivale a postulare che è normale che il dono non sia ricambiato, che lo stato abituale delle forze sociali non obbliga a ricambiare). Oppure il dono non è ricambiato, e allora ci si volge verso il donatore e non si capisce lo stesso. Si cerca l'interesse nascosto. Allora si adotta il postulato inverso: è naturale che il dono sia ricambiato! In breve, il dono è un fenomeno unico per gli studiosi poiché ogni previsione a suo proposito sembra inammissibile nella teoria implicita dell'osservatore. Ecco un altro modo di esprimere il paradosso della gratuità. Certo, non c'è bisogno di ricorrere immediatamente all'ipotesi della gratuità per render conto dell'unilateralità. Sono possibili varie altre spiegazioni. Si possono considerare tre casi: • Il dono mette i partners nello stato di debito che caratterizza ogni legame sociale intenso. L'ampiezza dei cicli di doni e controdoni anteriori all'osservazione instaura uno stato di debito reciproco permanente. Ogni partner pensa di dover molto all'altro. Sono quelli che si definiscono legami che tendono a diventare incondizionati: si può chiedere qualsiasi cosa. E l'osservatore si trova a osservare il fenomeno a uno stadio in cui questo stato esiste. La spiegazione dell'unilateralità consiste allora nella storia del rapporto tra i due partners, di cui l'osservatore vede solo una sequenza "temporale". • Il dono circola in una catena circolare o senza fine. E' lo scambio indiretto o generalizzato, che Lévi-Strauss oppone allo scambio diretto o

ristretto, binario (1967, p. 508 [trad. it., p. 520]). Così la maggioranza di coloro che praticano il volontariato afferma di aver ricevuto molto nella vita, sicché è normale per loro ricambiare. E l'osservatore che constata l'unilateralità in realtà vede soltanto una sequenza "spaziale". Isola due persone che in realtà si situano in una catena molto più grande. Bisogna dunque inscrivere ogni sequenza di dono nella sua catena spazio-temporale prima di concludere prematuramente che si tratta di unilateralità. • Restano infine gli ultimi casi, il residuo unilaterale. Anche se il fenomeno è molto più raro di quel che potrebbe sembrare a prima vista, i doni unilaterali esistono: doni di sangue, doni di organi eccetera. Ma si sospetta che bisognerà spiegarli nel quadro più generale dell'insieme dei doni, compresa la maggior parte dei doni, dove l'unilateralità è molto più relativa. Infatti niente dice che, anche in quei casi, il donatore, nella sua mente, non stia ricambiando. Abbiamo dunque praticamente eliminato il dono unilaterale e con ciò stesso risolto il paradosso della gratuità del dono semplicemente allargando il quadro del gesto gratuito? Si potrebbe crederlo, ma in realtà niente è risolto perché ora bisogna spiegare l'obbligo di ricambiare. Anche se in realtà il dono è un modo di ricambiare, poiché assolutamente niente costringeva e nemmeno obbligava (caso del volontariato soprattutto) il donatore a ricambiare, si può ancora affermare in questo senso che il dono è gratuito, e che il problema, destinato a restare irrisolto, consiste proprio in quella libertà generosa, altruista di donare: quella libertà cui rinvia la parola «gratuito». Bisogna spiegare questa specie di «obbligo libero», come si è reso conto progressivamente Mauss via via che procedeva nel suo "Essai sur le don". Dopo aver messo all'inizio l'accento sull'obbligo, egli reintroduce progressivamente la libertà e termina utilizzando quasi sistematicamente i due termini: «dare, liberamente e per obbligo» (1950, p. 265 [trad. it., p. 276]), «sotto una forma disinteressata e obbligatoria nello stesso tempo» (p. 194 [trad. it., p. 206]). c) Finora si è constatato, da una parte, l'importanza della gratuità presso i donatori, dall'altra il fatto che essa non significa assenza di restituzione. Bisogna ora specificare le caratteristiche della restituzione in questione rispetto alla restituzione mercantile. La prima è l'ineguaglianza, la "non-equivalenza mercantile". Nel mercato, come dice Simmel, c'è la necessità psicologica di ottenere una cosa di un valore eguale al bene sacrificato. Ora un debito di dono non è mai «saldato»; esso è ridotto o invertito da un dono maggiore del debito. Se la natura ha orrore del vuoto,

il dono ha orrore dell'equilibrio, senza potersene allontanare al di là di una certa soglia, pena la trasformazione in violenza. Questo fatto in genere non è preso in considerazione nelle teorie e tipologie del dono. Al contrario, esse sono quasi tutte fondate, almeno implicitamente, sul postulato della ricerca dell'equivalenza. Ora, l'equivalenza è la morte del dono: è un modo per «mettere un termine» a una catena di dono, di privare il dono della tensione che lo anima. Viceversa l'assenza di equilibrio mette fine a un rapporto mercantile. Un servizio ne «attira» un altro. Bisogna comprendere la legge della gravità degli scambi in altri termini che in quelli della legge dell'equilibrio generale del mercato. E' l'intenzione che conta. Nel dono, tutto sta nel modo, nel gesto. Nel mercato, viceversa, «è il risultato che conta». Proprio per questo il dono non ha prezzo. Non che il suo prezzo possa essere soltanto infinito: semplicemente, non ne ha, nel senso letterale che la nozione di prezzo non si applica al dono, e anche nel senso che è pericoloso applicarvi un prezzo, che è controindicato, che il dono manifesta una sorta di allergia al prezzo. Infatti prezzo implica ricerca di equivalenza mercantile, univoca, con un altro oggetto dello stesso prezzo, mentre il dono chiama un controdono il cui valore dipende dal rapporto tra le due persone, dalla sequenza del rapporto in cui si situa il dono eccetera. Il valore di legame di un oggetto non ha equivalente monetario. La gratuità contribuisce a definire questa differenza fondamentale: il dono non cerca l'eguaglianza o l'equivalenza. E ci si può chiedere se la passione moderna dell'eguaglianza (Tocqueville) non sia in parte una delle trasposizioni più insidiose del mercato nei rapporti sociali. Proprio per questo, come si è visto, lo Stato-provvidenza non è un sistema di dono. La ricerca di eguaglianza interrompe e uccide il dono. Ritroviamo qui il tema dell'estraneo. A partire dal momento in cui un rapporto non è più tra puri estranei, l'eguaglianza, misurata e limitata alla comparazione di ciò che è scambiato, consiste nel negare l'unicità del rapporto che si stabilisce, unico nel senso che tiene conto delle caratteristiche particolari dei partners. La ricerca dell'eguaglianza può essere legittima soltanto nei rapporti burocratici astratti. Nei rapporti personali è un insulto e tende a negare il legame. L'eguaglianza introduce la rivalità che il dono al contrario elimina facendo alternativamente dei partners dei «superiori» e degli «inferiori». I rapporti di coppia permettono di illustrare questa affermazione. Una coppia che mira all'eguaglianza nella ripartizione del complesso degli scambi è una coppia portata dalla sua dinamica verso la rivalità permanente, verso l'istituzione di un rapporto mercantile e verso la

rottura. Certo può esistere una fase di questo tipo nell'evoluzione di una coppia; ma essa deve superarla e raggiungere lo stadio del rapporto di dono, cioè un rapporto in cui ciascuno considera che riceve qualcosa di unico, che ad ogni modo non potrà mai ricambiare quel che l'altro gli dà, di modo che i due partners hanno l'impressione di dovere più di quanto ricevano. L'ineguaglianza diventa consustanziale al rapporto e ne alimenta la dinamica. Una coppia che «funziona» bene vive in uno stato di debito reciproco permanente, considerato come normale, inesauribile, e dunque non ha senso contabile egualitario. «Gli /Le devo tanto»: questa è la base di un rapporto di coppia. Si tratta in tal caso di un rapporto strettamente incomprensibile in uno schema egualitario mercantile o statale, perché una simile dinamica del debito non si basa sulle cose e sui servizi che circolano, ma opera direttamente tra le persone, in un legame alimentato dalle cose che circolano. L ideologia condivisa da un certo numero di economisti e di femministe che vogliono che si applichi ai rapporti personali la nozione di eguaglianza tratta dal pensiero liberale sui diritti porta alla dissoluzione di un tale tipo di rapporto. Non si tratta evidentemente di negare le numerose forme di sfruttamento e di dominazione che esistono all'interno della coppia; può essere auspicabile riferirsi ai valori e al sistema egualitari per modificare un rapporto di coppia o - più spesso - porvi fine. Infatti, in sostanza, la dinamica della coppia è di un altro ordine e il suo passaggio al sistema mercantile indica un momento di crisi, e la sua riduzione permanente a tale sistema significa la fine del rapporto. La non-equivalenza del dono è propria del dono moderno? Lo si potrebbe pensare leggendo le analisi delle società arcaiche, nelle quali sembra che ogni debito debba essere onorato, compreso il debito di sangue, con la vendetta... Tuttavia la non-equivalenza esiste anche in quelle società, come si è visto nella parte seconda. Ma gli antropologi che osservano i sistemi di reciprocità delle società arcaiche e constatano l'ineguaglianza dello scambio si affrettano spesso ad aggiungere subito, come Malinowski, per esempio, che «alla lunga si realizza un equilibrio, vantaggioso per entrambe le parti» (3). A lungo termine, lo scambio tramite il dono sarebbe eguale, obbedirebbe alla regola dell'equivalenza. Lo scambio mercantile moderno, dunque, non farebbe altro che sostituire il lungo termine con il breve nella ricerca dell'equivalenza, eliminando il tempo degli scambi sociali. In questa affermazione dell'eguaglianza a lungo termine c'è qualcosa d'insolito e di «gratuito»... Infatti, come fa l'osservatore a sapere che a lungo termine doni e controdoni si equivalgono? Qual è il momento

teorico in cui tutto si equilibra? Non si fa mai alcuna verifica. D'altronde sarebbe molto spesso impossibile, salvo postulare tutto un insieme di criteri quantitativi (di equivalenti monetari degli scambi osservati a lungo termine), di punti di riferimento esogeni, che spesso non esistono nel sistema osservato. Ad ogni modo, negli scambi (trasmissioni) tra generazioni, ciò diventa rigorosamente impossibile. Poiché il lungo termine non è mai definito e potrebbe sempre essere prolungato (se l'«equilibrio» non compare), nessuna affermazione sarebbe confutabile. Del resto è come se l'affermazione di eguaglianza a lungo termine non avesse bisogno di essere verificata. Basta che sia postulata perché il sistema di spiegazione funzioni. Ma postulata da chi? Raramente dai protagonisti stessi. In ogni caso, gli antropologi non sentono la necessità di renderne conto. Questo postulato è dunque avanzato soltanto dall'osservatore per i suoi propri bisogni: etici, ma anche intellettuali, perché ne ha bisogno per comprendere il fenomeno che osserva. Se avanza il postulato di una eguaglianza degli scambi a lungo termine, è in grado di ammettere una ineguaglianza negli scambi osservati. L'eguaglianza a lungo termine è il mito dell'antropologo, il mito che gli permette di interpretare comportamenti che, altrimenti, dovrebbero essere imputati alla mentalità, alla tradizione eccetera, spiegazioni che sono sempre soltanto un modo per celare la nostra incomprensione. Laplace non aveva più bisogno dell'ipotesi di Dio; ma l'antropologo moderno ha sempre bisogno del postulato universale dell'equivalenza generale delle cose che circolano. Ha bisogno di postulare la "garanzia" di restituzione, come se non avesse superato certi stadi definiti dalla psicoanalisi in cui il bambino non ha ancora fatto l'esperienza della perdita... Ma questa sorta di ossessione dell'equivalenza è forse altro che la proiezione sul dono del modello mercantile? d) Infine, va ricordato un ultimo aspetto. Il fatto che "si ricambi più di quanto non si riceva". In linguaggio mercantile è la regola dell'equivalenza negativa. «Bisogna dare in cambio più di quanto non si sia ricevuto» (Mauss, 1950, p. 259 [trad. it., p.p. 269 seg.]). Infatti non soltanto il dono non è un gioco a somma-nonzero come il mercato, ma consiste anzi nel giocare a chi perde vince, evidentemente secondo le norme del mercato. «Ricambiare» è qualcosa di completamente diverso dal «ricevere» dello scambio mercantile. Quest'ultimo è per essenza accumulativo, ritentivo: si scambia per avere di più, per accumulare. E' il contrario di ricambiare, è una logica diversa. Lo scambio mercantile trattiene il più possibile, è anale, com'è noto; ma nello stesso tempo quel che è immesso nella transazione è ceduto, perduto, abbandonato, non ci è mai restituito, è sacrificato perché si è

ottenuta immediatamente un'altra cosa in cambio: un profitto, un «rendimento». Si baratta il «ricambiare» del dono con il «rendimento» del mercato. Ora, ricambiare, nel dono, presuppone la durata, il tempo (4), il «lavoro della gratitudine» (Hyde). Nel mercato, gratuità significa sofferenza, perdita, mancanza: nel sistema mercantile, tutto quel che è ceduto è sacrificato. Il gratuito assume qui il senso religioso del sacrificio. Il dono è necessariamente triste per tutti coloro che aderiscono al credo mercantile. e) "Dono e perdita". Ora, è qui che il dente duole, e c'è un importante errore di fatto: il dono di rado è triste! C'è restituzione immediata nel piacere del dono, constatazione sulla quale il più delle volte si sorvola e che può cominciare a far capire la gratuità. Essa spiega come la restituzione non sia voluta, come essa venga in più perché il piacere del gesto basta spesso a giustificare il dono per chi lo fa. Il dono è gratuito nel senso che nel momento in cui viene fatto, non è il risultato di un calcolo, è spontaneo. «E' un riflesso» dichiara una intervistata ad Anne Gotman a proposito dell'eredità trasmessa ai figli non appena ricevuta (1988, cap. 3). Nella logica utilitaristica, la spontaneità è assimilata all'istinto, alla dimensione primaria. Essa si oppone alla logica moderna, calcolatrice e razionale. Simmel ha ben analizzato tale fenomeno: la gratuità del dono ha qualcosa a che vedere con il carattere spontaneo che gli si attribuisce. Essa è legata all'assenza di calcolo, allo slancio spontaneo, all'impulso, alla «follia», all'affetto, al primario, al selvaggio, al femminile, al naturale, al pulsionale. In questo senso, il dono non è raffinato come lo scambio monetario. Esso caratterizza i selvaggi che passerebbero dal dono alla violenza, senza stato intermedio, poiché quei due stati sono vicini alle pulsioni spontanee animali, caratteristiche di «popoli (...) che per il cambiamento di proprietà conoscono soltanto la forma della rapina o del dono», l'impulsività egoistica della rapina e l'altruismo non meno impulsivo del dono (Simmel, 1987, p. 554 [trad. it., p. 616]). Si scivola dunque insensibilmente dal gratuito all'unilaterale, allo spontaneo e al riflesso che rientra nell'impulso e nel comportamento primitivo. In realtà, ciò dimostra semplicemente che il dono non appartiene all'universo utilitaristico del calcolo razionale, constatazione già da noi fatta più volte. Ma allora appartiene alla barbarie? Calcolo o barbarie, è la sola alternativa? Proprio qui forse anche autori come Mauss, Simmel e Titmuss lasciano trasparire degli aspetti evoluzionistici e addirittura utilitaristici (nel senso di calcolo razionale come base di ogni decisione «civilizzata»). Questo postulato li porta logicamente a vedere i sistemi di sicurezza

sociale come una evoluzione normale del dono nella società moderna, poiché in essa il dono è razionalizzato e integrato in un universo «razionale-legale». La gratuità del dono spontaneo, in questo quadro, o non esiste, oppure è un residuo assimilabile a un riflesso primitivo. Si nega la possibilità di una spontaneità "appresa", che pure è evidente, per esempio nel dono di un organo. Non c'è calcolo nel dono di organo. Il pensiero economico esclude questa possibilità; esso ammette soltanto un'alternativa: la spontaneità animale, istintiva, o il calcolo razionale. Ora, l'apprendistato sociale è anche e largamente lo sviluppo della spontaneità, l'ampliamento sociale della spontaneità. Chiuso in questa falsa alternativa, il pensiero utilitarista non coglie una caratteristica essenziale del dono, evidente nel dono di organo, presente in tutti i tipi di dono incontrati: il movimento spontaneo dell'anima (5) verso l'altro. Questo gesto (e non il dono...) è gratuito nel senso preciso che non è fatto in vista di una restituzione, anche se la restituzione esiste quasi sempre sotto una forma o un altra, anche se il dono «rende». Questi due fatti apparentemente contraddittori devono entrambi essere considerati essenziali a questo stadio; non è possibile eliminarne uno a vantaggio dell'altro. Gratuità significa dunque sacrificio, perdita, da una parte, spontaneità spiegata dall'impulso, dall'irrazionalità dall'altra, essendo bene inteso che l'individuo evoluto razionale calcola e dunque non fa (non può, non deve fare) doni gratuiti. In entrambi i casi, si ignora il fenomeno del piacere del dono, della perdita accettata e voluta come tale. La perdita non è considerata tale: nel mercato perché un oggetto è acquisito in cambio di un altro; nel dono perché la perdita è sublimata a un altro livello. Il donatore ha superato lo stadio del rocchetto di filo e assume il rischio della perdita. Il dono è il superamento dell'esperienza della perdita, mentre il mercato è una fase intermedia in cui la perdita è immediatamente compensata dall'acquisizione di un altro oggetto. D'altra parte, più il piacere è grande, meno il dono obbliga; è per questo che la buona educazione esige che si dica «la prego, se proprio insiste» prima di ricevere un dono, per non essere obbligato verso l'altro. Il che non impedisce al donatario di dire poi «grazie», di mettersi alla mercé del donatore, di essergli «obbligato», nonostante tutto. Egli esorcizza così l'eguaglianza portatrice di rivalità. Si potrebbe dunque cominciare a risolvere il paradosso della gratuità dicendo che il dono è gratuito non già nel senso che non c'è restituzione (anche se spesso è così, si tratta di punti di vista), ma che lo è nel senso che ciò che circola non corrisponde alle regole dell'equivalenza

mercantile (campo in cui «gratuito» ha spesso il senso di «cattivo affare»). Designare il dono come gratuito nel contesto mercantile ha una connotazione automaticamente negativa; è un cattivo affare o un sacrificio; gratuità significa necessariamente inganno. In questo ordine d'idee, dire che il lavoro domestico delle donne è gratuito equivale a dire che esse sono sfruttate. Si isola un gesto dal suo contesto non mercantile e lo si esamina alla luce della morale mercantile. Spingendo all'estremo questa logica si potrebbe giungere a dire che una donna che «dà» il seno al figlio si fa sfruttare perché non ha niente in cambio. Perché non si giunge a questo? Perché quel gesto non è mai inscritto in un modello mercantile. E' l'inscrizione preliminare di un gesto nel modello mercantile che porta a interpretare la gratuità come sfruttamento o, in modo più neutro, come un fenomeno anormale, il che conduce al paradosso del dono gratuito. In ogni osservazione di un fenomeno noi ci costruiamo un modello mediante il quale stabiliamo ciò che sarà costante e ciò che sarà variabile. Quando si esamina il fenomeno del dono con le lenti del modello mercantile, è come se si definisse "in partenza" come costante precisamente quel che varia: il valore di legame. Non stupisce affatto allora che si sia portati a spiegazioni tanto poco scientifiche e tanto fuori contesto quanto l'ipocrisia generalizzata degli attori, o alla negazione del fenomeno analizzato. Il pensiero mercantile elimina il piacere del dono e conserva soltanto quel che è perduto, sacrificato. Bisogna al tempo stesso ammettere che il dono è inscritto in un sistema di scambio diverso dal mercato e vedere il dono come un gesto gratificante. E' questo forse il senso profondo della parola «gratuito» che è stato invertito dalla logica mercantile: un dono gratuito gratifica colui che lo fa tanto quanto colui che lo riceve. E' la restituzione di secondo tipo constatata nella parte prima e onnipresente nel dono che spiega il paradosso del dono gratuito. Questa restituzione non è mai considerata. Bisogna conservare questo senso della parola «gratuito». Ci sono doni gratuiti nel senso che, per colui che li fa, il gesto è interamente soddisfacente in se stesso e senza bisogno di restituzione (di primo tipo, materiale). Il rapporto con i figli è evidentemente l'esempio estremo di ciò. Bisogna dunque respingere ciò che implica l'uso della gratuità nel contesto mercantile, ma conservare l'elemento di gratuità nella nozione di dono. E' vero che una certa analisi del dono arcaico porta a eliminare questa dimensione perché nelle società arcaiche il dono sembra a tal punto inscritto in regole rigide che la gratuità è nascosta. Ciò non significa evidentemente che il dono obbligato, coatto, senza piacere o ancora quello che si chiama «convenzionale» non esista; ma è un

caso limite, e non lo si chiama più dono quando ogni elemento di gratuità (di libertà) è scomparso. Il piacere del dono ne costituisce un elemento essenziale, soprattutto nel contesto attuale, dove un insieme di gesti concepiti in precedenza come doveri sono effettuati liberamente e dove ogni nozione di sacrificio è messa al bando dalle persone che donano, anche in settori come il volontariato, tradizionalmente portatori del donosacrificio. Nell'evocare quest'ultimo e l'importanza che ha avuto nella religione cristiana, si è portati a chiedersi se davvero le società tradizionali siano caratterizzate dal dono obbligato oppure se non abbiamo, come spesso accade, proiettato tale visione sugli altri perché nella nostra società il dono era obbligato. La gratuità si spiega con la realtà del piacere del dono, con il fatto constatato da tutti coloro che affermano di ricevere più di quanto non diano nell'atto stesso del donare. E' una sorta di supplemento che mostra come il dono non sia soltanto basato sull'attesa del controdono. Tutti conoscono per esperienza il carattere penoso di un dono che si sente obbligato, che non è stato fatto «di buon cuore» ma in virtù di un obbligo esterno qualsiasi (6). Il piacere del dono è in realtà essenziale al dono. Non è un elemento aggiunto. E' legato alla libertà, è la prova dell'assenza di costrizione, il contrassegno del legame sociale. In realtà il dono unilaterale (o puro: confronta Parry, 1986) è abbastanza facilmente comprensibile dal punto di vista del donatore. Il vero problema si situa dalla parte di chi riceve. Il dono instaura un debito, uno stato di dipendenza: oppure segna una esclusione dal legame sociale, quel che proviamo tutti quando doniamo (facciamo l'elemosina) a un mendicante per strada: proviamo un oscuro disagio, la vergogna che nasce dal fatto che, nel gesto stesso di donare, confermiamo ai nostri occhi e agli occhi del mendicante la sua esclusione dalla società, perché il nostro gesto non può instaurare un legame sociale. Noi fuggiamo lo sguardo del mendicante e ci allontaniamo rapidamente dopo aver dato, rifiutando così segni di riconoscenza di solito accolti con gioia. Situazioni del genere mettono in evidenza i vantaggi di passare per i meccanismi anonimi della redistribuzione statale e dei diritti, che spersonalizzano il legame e dunque non hanno a che vedere con un atto di esclusione. Il comportamento sarà diverso se si tratta di uno stato di urgenza, necessariamente temporaneo. Gioca allora la solidarietà di fronte al destino, l'idea che ciò può capitare a tutti. Anche le grandi religioni, in particolare il cristianesimo, trasformano il gesto insegnando al donatore che chi riceve è Dio stesso, al quale egli deve tutto, e che glielo renderà.

Pensiamo ora di aver dimostrato l'importanza della gratuità nel dono. Essa spiega le principali differenze tra dono e mercato. Se si integra il fenomeno di restituzione di secondo tipo, si possono conciliare facilmente gratuità e restituzione. La gratuità e la restituzione esistono e non sono due fenomeni contraddittori se si esce dal sistema d'interpretazione mercantile. L'errore consiste nel sottoporre il sistema del dono a un modello d'interpretazione - o a una visione del mondo - incapace di tener conto delle sue sottigliezze. Più precisamente, essa consiste nella confusione tra la constatazione che c'è restituzione e la volontà, ovvero l'esigenza di una restituzione. Negare la gratuità, significa rifiutare questa distinzione. In un'opera recente, Luc Boltanski considera questo problema al cuore del fenomeno del dono. Dopo aver passato in rassegna un certo numero di tesi sul dono, egli pone il problema: come spiegare la contraddizione tra il calcolo implicito nella nozione di ricambiare e la necessaria negazione del calcolo nel dono? Come dar conto della «tensione tra l'obbligo di donare che, per struttura, non passa per il calcolo e non cerca l'equivalenza, e l'obbligo di ricambiare che è inconcepibile al di fuori di uno spazio di calcolo che permetta di realizzare l'equivalenza del controdono rispetto al dono?» (1990, p. 220) (7) Comprendere la gratuità significa tentare di rispondere a tale questione. A tal fine, bisogna concentrare l'attenzione su una ultima caratteristica del dono, trascurata finora. La restituzione e l'attesa di restituzione non sono né assenti né ignorate; ma non sono esplicitate. Non c'è inconsapevolezza, ignoranza del calcolo, c'è rifiuto attivo da parte degli agenti. Ciò non manca di fornire un argomento supplementare ai sostenitori della ipocrisia del dono: «Il tempo che (...) separa il dono dal controdono autorizza l'errore grossolano e la menzogna a se stesso collettivamente sostenuta e approvata che costituisce la condizione di funzionamento dello scambio simbolico» (Bourdieu) (8). Noi non abbiamo ancora spiegato questo strano aspetto del fenomeno del dono: il suo occultamento. Abbiamo soltanto stabilito che la gratuità designa una dimensione essenziale del dono. - LA REGOLA DELL'IMPLICITO «Grazie, ma non avresti dovuto, è troppo, non c'era bisogno! - Ma no, non è niente!» Visto con gli occhi del sistema mercantile, il dono appare come una immensa ipocrisia. Nel mercato, si dice pane al pane. Anche se l'inganno è

permesso, si conoscono le regole del gioco. Nel dono, si arriva a negare non solo la restituzione, ma il dono stesso. La regola, per chi riceve, è dire che l'altro non avrebbe dovuto donare, mentre il donatore risponde che quel che ha donato non è niente, è senza importanza, come risulta da questo dialogo caratteristico di un rapporto di dono, ma che sembra cercare di negare il dono! Questo fenomeno resta da spiegare. In effetti, come parlare delle regole del dono, quando una sembra essere che tali regole devono restare nascoste ai membri della società in cui vengono osservate, come se la loro rivelazione dovesse comportare la scomparsa del dono, così come l'esposizione alla luce cancella una immagine fotografica dalla pellicola? Ecco una realtà che avrebbe la «particolarità di non poter essere percepita dagli attori che la mettono in opera pena la trasformazione nel suo contrario: il calcolo del debito» (Kaufman, 1990, p, 93). Percepita, o espressa? In realtà gli agenti non ignorano queste regole. Essi le percepiscono. Sanno anche che il partner le conosce e che sa che l'altro le conosce eccetera. Non è un problema d'ignoranza e nemmeno di misconoscimento. Non si tratta del tipo di problematica - corrente nelle scienze umane - in cui si suppone che il soggetto non sappia che cosa fa mentre lo scienziato gli rivela la verità dei suoi atti. Chi dona e chi riceve sanno quel che fanno. Non c'è misconoscimento, ma rifiuto attivo e cosciente di esplicitazione da una parte e dall'altra, doppia ipocrisia simmetrica e dunque, normalmente, assurda e senza ragion d'essere. Più ancora: non soltanto ci si rifiuta di esplicitare le regole, ma sembra che si tenga a enunciarne altre che affermano il contrario di quel che accade «in realtà». Si afferma l'assenza di attesa di restituzione, mentre ci si aspetta che il dono sia ricambiato. Si parla di dono, mentre si tratta di reciprocità. Mauss l'aveva notato per il dono arcaico: attorno al dono s'instaura l'amplificazione dei discorsi generosi, mentre quel che lo studioso osserva è la reciprocità. Ma ciò si applica nella stessa misura al dono moderno. Possiamo ora render conto di questo fenomeno strano? Siamo forse ridotti alla spiegazione utilitaristica che a quanto pare si confonde con il senso comune occidentale: noi abbiamo bisogno di nasconderci - o meglio di non dirci - quel che sappiamo. La triste legge universale dell'interesse si dissimula sotto l'apparenza del dono generoso? Preferiremmo tutti fingere, anche se sappiamo tutti che è falso. Ma perché dunque? Questo è strano e solo apparentemente coincide con il senso comune. Infatti quest'ultimo opera una distinzione tra coloro che offrono nel quadro di regole note e gli altri. Così, se qualcuno vi offre qualcosa «senza ragione apparente», come si dice, cioè senza che il gesto entri in una sequenza di dono più ampia nella quale voi siete inscritti, voi vi

chiederete effettivamente (senza dirlo): «Che cosa vuole da me quello lì?» E' in questo contesto che il senso comune fa spontaneamente l'ipotesi utilitaristica, cioè quando gli agenti non si situano in un sistema di dono. Ci sono dunque tutte le ragioni per applicare qui il precetto di Boudon e avanzare l'ipotesi che gli attori hanno «buone ragioni» per comportarsi così, e che tali buone ragioni sono diverse da quelle trovate finora, come l'ipocrisia. Per trovare queste ragioni ci siamo chiesti perché "noi" abbiamo bisogno di dissimularci la regola del controdono quando riceviamo od offriamo. E, dopo un certo disagio che non fa che confermare la regola dell'implicito, la risposta è apparsa di una semplicità e di una evidenza disarmanti: noi non ricordiamo al nostro interlocutore il «dovere di reciprocità» al fine di introdurre o di conservare un rischio nella comparsa del controdono, una incertezza, una indeterminazione, in altri termini al fine di introdurre «proprietà d'indecidibilità» (9) nella sequenza. All'ipocrisia verrebbe ad aggiungersi il masochismo?! Esiste una spiegazione molto più semplice, più plausibile e più «economica»: il donatore agisce così al fine di restare il più lontano possibile dall'impegno contrattuale, che ha la proprietà di obbligare l'altro indipendentemente dai «sentimenti» che nutre nei suoi confronti, indipendentemente dal legame che esiste tra loro. Sarebbe dunque per lasciare l'altro il più libero possibile di ricambiare o di non ricambiare, libero anche di «calcolare» quel che deve ricambiare, quando deve farlo eccetera. Per introdurre un elemento di gioco nello scambio; per obbligare, certo, ma liberamente... (10). Perché questa necessità? Perché più io ho la convinzione che l'altro non era «veramente» obbligato di ricambiare, più il fatto che egli ricambia ha valore per me perché significa che egli agisce per il rapporto, per nutrire il legame che abbiamo, per... me. E' dunque essenziale «liberare» in permanenza l'altro mediante un insieme di rituali, pur mantenendo la speranza che il controdono sarà ricambiato. Più c'è esplicitazione, più ci si avvicina al contratto, meno il gesto di ricambiare è libero. Meno valore ha nel rapporto. Naturalmente, si tratta qui del valore di legame, e non del valore di scambio o del valore d'uso. Ecco spiegato perché la reciprocità non solo non viene esplicitata, ma debba essere negata in tutti i modi possibili. Noi introduciamo così la libertà nel cuore stesso del rapporto di dono. Affermiamo la necessità di riattualizzare in permanenza l'indeterminazione del legame sociale come condizione di esistenza di ogni società. Simultaneamente confermiamo che il legame sociale è sempre, in tutte le società, a rischio. La coesione sociale si crea in ogni

istante, si rafforza o si indebolisce in funzione delle innumerevoli decisioni di ciascun membro di fidarsi o no di un altro membro prendendo il rischio che un dono non sia ricambiato. Infatti il rischio è reale, il dono non sempre è ricambiato, c'è continuamente rottura di circuiti di dono e violenza, e uso della forza in tutte le forme. Il dono è al cuore dell'incertezza che caratterizza il legame sociale. Certo, esiste sempre una parte d'incertezza negli scambi umani, anche al di fuori dei rapporti di dono, anche all'interno dei rapporti più burocratici, come hanno dimostrato così bene gli studi sulle organizzazioni di Michel Crozier e della sua équipe. Da essi risulta anzi che quelle zone d'incertezza sono in parte create dagli attori stessi; ma, secondo questo approccio, gli attori hanno necessariamente lo scopo di ridurre e controllare per loro stessi questa incertezza al fine di accrescere il loro potere. E' la ragion d'essere delle strategie che essi elaborano e che l'analisi strategica ricostruisce (11). Proprio su questo punto l'attore del dono si distingue: contrariamente all'attore definito dall'analisi strategica, e dalla sociologia delle organizzazioni, egli non ha come postulato la riduzione dell'incertezza. Crea al contrario in permanenza una zona d'incertezza che applica a se stesso. Il donatore non vuole per prima cosa e innanzi tutto la restituzione; vuole per prima cosa che la restituzione sia libera, dunque incerta. Nel dono s'inscena il legame sociale più libero. E' su questo scambio che si fonda la coesione sociale di base, sulla quale si basa la «macrocoesione» statale e la microcoesione mercantile. E' di questi milioni di gesti quotidiani che si nutrono i sistemi statale e mercantile. Più il gesto è vissuto come incondizionato dai due partners, più è indecidibile, più rafforza il legame sociale quando è stabilito. Proprio per questo non solo bisogna ricrearlo a ogni istante, ma bisogna anche ricrearlo a ogni generazione. E' questa una delle ragioni che spiegano l'importanza del dono per il bambino: esso è l'apprendistato fondamentale del legame sociale, nonché della libertà. Proprio questo esprime il commento di un informatore: "Angèle ci accolse a Parigi dicendo che sperava molto che si facesse altrettanto quando ella sarebbe venuta a Montréal. Ciò ci ha semplicemente tolto la voglia di farlo. Per noi, andava da sé che la si accogliesse. Ma ora è come se le si dovesse questo, e anche come se essa ci ospitasse non perché le fa piacere ma solo per essere ospitata a sua volta, e che anzi dubitasse che lo si faccia". L'esplicitazione della regola di reciprocità uccide il dono e può anche provocare la non-reciprocità! Ciò contrasta completamente con il dialogo

citato più sopra, che possiamo ora riprendere per esplicitarne il significato. «Grazie, ma non avresti dovuto, è troppo», dice chi riceve. Queste parole trasmettono al donatore il messaggio seguente: «Tu non mi dovevi niente, eri libero, non c'era bisogno. Rispetto a tutto quel che ti devo è troppo. Ma apprezzo molto che tu lo faccia, ecco perché dico grazie, il che esprime anche la mia intenzione di ricambiare». D'altra parte, poiché ogni dono stabilisce un potere potenziale di chi dona su chi riceve, quest'ultimo dice al donatore che non doveva fare quel dono, che dunque l'ha fatto veramente senza obbligo, riducendo così il proprio obbligo derivante da quel dono. «Ma non è niente», risponde il donatore. Rispetto a tutto quel che ti devo, a tutto quel che tu mi hai dato, non è niente. Non è niente come bene. Il valore mercantile è minimizzato e l'accento è posto sul valore di legame. In quanto bene, non è niente, quel niente che circola al servizio del legame. «Non è niente rispetto alla mia stima per te. Non è niente, dunque tu non mi devi niente in cambio, sei libero di non ricambiare o di ricambiare quel che vorrai, quando vorrai eccetera. Non sentirti obbligato né soprattutto dominato in seguito a questo gesto, non è il senso che devi dargli. Se ricambi, sarà dunque un dono». Nel complesso questo dialogo implicito nega il rapporto di equivalenza e conferma che i partners rimangono in stato di debito, che quel che accade è al di fuori dell'equivalenza tra le cose che circolano, che il dono è al servizio del legame. Libertà, negazione del valore mercantile, negazione dell'equivalenza: quando si decodifica non c'è né menzogna né ipocrisia. Il codice è necessario perché il bene che circola significhi il legame; ma non deve essere esplicitato, poiché il fatto stesso di esplicitarlo significa che il messaggio non è compreso! Trovare un linguaggio esplicito per il dono è contraddittorio! (12). Si comprende così l'importanza, notata da tutti gli osservatori, dell'intervallo temporale tra il dono e il controdono, il fatto che in una dialettica di scambio immediato non ci sia più dono: come i riti della gratuità forniscono uno spazio all'indecidibilità sociale così i ritmi e le alternanze le procurano il tempo necessario alla sua conservazione. «Fidarsi» è l'atto fondatore permanente di ogni società che si realizza attraverso il gesto del dono. Ciò significa accettare un rischio, vale a dire, in termini formali, introdurre l'indeterminazione, porla come condizione preliminare di ogni legame sociale, il che spiega come tutte le teorie deterministiche inciampino su questo fenomeno elementare, ma primordiale, fondatore della libertà. Per questo il dono è strettamente

legato al gioco. L'assenza di contratto nel dono presuppone certo la fiducia, ma anche la ricrea ogni volta. Ragion per cui non solo il dono non ha bisogno di essere esplicitato, ma in realtà sarebbe più esatto dire che non deve essere esplicitato. Il «detto» del dono può avere soltanto uno scopo: intendersi sul non-detto. Le spiegazioni abituali in termini di consuetudine e d'interesse sono dunque smentite entrambe in quanto rinchiudono il dono nella costrizione delle tradizioni, da una parte, dell'egoismo calcolatore contrattuale e contabile, dall'altra. Se fosse possibile, basterebbe misurare l'importanza dei doni in una società per conoscerne il grado di libertà, e questo sia al livello microsociale sia al livello macrosociale. Ogni dono è un gesto che amplia lo spazio di libertà dei membri di una società. - E LA LIBERTÀ MERCANTILE? Ciò non toglie l'importanza della libertà uscita dal mercato e caratteristica della modernità, ma permette di relativizzarla. Come si caratterizza tale libertà rispetto al dono? La libertà mercantile consiste essenzialmente nella "possibilità di uscire": essa permette di ritirarsi dal legame sociale in due modi: - "Minimizzando l'importanza" del legame all'interno della transazione, dello scambio: non si è costretti ad amarsi per fare degli affari, perché i beni circolino: è una grande liberazione. Bisogna soltanto pagarne il prezzo, se si vuole e se si può. - Di conseguenza, permettendo di "uscire dal legame" stesso. E' la libertà di andare altrove (l'"exit" di Hirschman), libertà che è al di fuori del legame sociale e contro di esso, al contrario del dono. Questa libertà è importante: rispetto alla costrizione esterna, alla gerarchia, alla forza, alla stregoneria delle società arcaiche, il mercato e il dono sono entrambi liberi. "Ma mentre il dono instaura e alimenta un legame sociale libero, il mercato libera tirandoci fuori dal legame sociale: in altri termini, la sua libertà consiste nel liberarci dal legame sociale stesso", generando così l'individuo moderno, senza legame, ma pieno di diritti e di beni. Non stupisce che questa libertà eserciti un grande fascino, e che si tenti continuamente di introdurre questa meraviglia proprio all'interno dei legami sociali e di applicarla ai legami sociali stessi: tentativo contraddittorio poiché questa libertà si basa sulla loro negazione, essendo fondata su rapporti tra estranei.

La libertà mercantile è al di fuori dei legami sociali. La libertà del dono è all'interno dei legami sociali. Il dono circola nei legami sociali e ne fonda la libertà. Non si può applicare loro il modello mercantile poiché quest'ultimo presuppone sia l'assenza di legami, sia legami definiti unicamente come perturbazione esterna allo scambio. Grazie al meccanismo dei prezzi, le cose finiscono addirittura per circolare senza le persone. Il mercato è liberato dal contesto personale. La libertà del dono integra le persone, le loro caratteristiche: essa è un metaordine rispetto al mercato. Un altro modo di esprimere la stessa idea è quello che consiste nel tornare alla distinzione tra il valore di legame e il valore mercantile. L'oggetto mercantile è al di fuori del contesto del valore di legame. Il contesto del valore mercantile è il valore mercantile degli altri oggetti. Il suo contesto è il mondo degli oggetti. Il valore di legame è al contrario inserito nel legame sociale. Lo stesso oggetto, con lo stesso prezzo, ha in realtà un valore di legame diverso a seconda del contesto sociale. Il valore di legame è determinato dal contesto sociale, il valore mercantile dal contesto economico. Anche lo Stato è una impresa di liberazione dai legami sociali, realizzata stavolta con la costruzione di un apparato gerarchico e burocratico retto dalla costrizione, costrizione accettata tuttavia dagli individui in un regime democratico. In un primo tempo, esso rende più liberi i legami di parentela, di vicinato, di amicizia diminuendo gli obblighi e assumendo una parte dei servizi che le reti di dono fornivano in precedenza. Ma può toccare una soglia in cui distrugge il legame sociale, come fa il mercato, e in cui genera dipendenze estremamente forti nei propri confronti. Lo Stato e il mercato si completano dunque mirabilmente. Il mercato e lo Stato accarezzano «naturalmente» il progetto comune di depurare il legame sociale da tutte quelle scorie che sarebbero costituite dalla circolazione di oggetti da una parte, da quella dei servizi dall'altra, lasciando soltanto il gioiello del legame sociale allo stato puro: l'affettività, l'amore eccetera. Questa utopia è enunciata da de Singly, che parla di scambi «che escludono sempre più (...) i servizi che non siano affettivi e sessuali. Così depurato dagli altri conti, l'affetto nell'ambito della famiglia perverrà a quell'ideale (...) in cui ogni traccia d'interesse dev'essere bandita» (de Singly, 1988, p. 137). In breve è il sogno di un legame sociale in cui più niente circolerebbe, un legame che non sarebbe più un canale di circolazione dei beni e dei servizi. Un tale legame sociale in cui niente può circolare non esiste (13). Quando tutto circola mediante il mercato o lo Stato, bisogna constatare

che non è il legame sociale allo stato puro che si ritrova ma l'assenza di legame, l'individuo solitario. Il legame che non si nutre di niente, in cui niente circola, muore. Viceversa, tutto un insieme di servizi circola bene soltanto passando per i legami sociali. Il servizio non è un prodotto (14), e per contentarsi di un esempio evidente, si può affermare che la società è ancora lontana dal trovare una formula, mercantile o statale, che potrà dispensare certi «servizi» resi dai genitori nell'educazione dei figli. Lo Stato e il mercato si fermano sulla soglia in cui il servizio è il legame, come "the medium is the message", per riprendere la formula di MacLuhan. Solo gli oggetti o il denaro circolano veramente bene nella rete mercantile e nell'apparato statale. Per questo tutto tende ad assumere questa forma, tutto tende a diventare oggetto per poter circolare. Ma a che «prezzo»! L'opera d'arte è la sola a poter circolare sul mercato senza perdere l'anima, senza essere soltanto un oggetto. A che prezzo? Quello di una grandissima scarsità. A condizione di restare marginale. Amitai Etzioni (1990, p.p. 29 e 31) ricordava la tesi celebre di Erich Fromm nel senso che la libertà acquisita dalla modernità ha un costo. Sarebbe senza dubbio più esatto dire che essa ha dei limiti, quelli della distruzione dei legami sociali che ne deriva e che porta l'individuo all'isolamento e a una diminuzione della sua libertà. In capo al cammino della liberazione mercantile e statale, non si trova un individuo libero ma un individuo solo, fragile, dipendente, vulnerabile, accudito da apparati esterni a lui e sui quali egli non ha alcuna presa, facile preda delle ideologie totalitarie, nelle quali il bisogno di potere ma anche il dono e l'altruismo conoscono le peggiori perversioni. Perché? Perché la libertà si nutre dei legami sociali. L'approccio mercantile vede i legami sociali soltanto sotto forma di costrizione. Ora, ci sono due tipi di liberazione. C'è la liberazione "dai" legami sociali, nel senso che ci si libera di loro (quella del modello neoclassico) e c'è la liberazione "dei" legami sociali stessi. Liberare l'individuo dalla comunità è un processo che tocca ben presto il suo limite. Liberare la comunità stessa è certo molto più difficile, ma molto più fondamentale. Ora, ci si può chiedere se non è proprio quel che accade attualmente con la famiglia, per esempio, e in molteplici reti sociali che reinventano la libertà nell'obbligo sociale, nell'istituzione di un rapporto di debito volontario. Equivalenza mercantile, eguaglianza e diritti statali, gratuità dello stato di debito: la società attuale ha bisogno dei tre sistemi, e non intendiamo affatto suggerire l'eliminazione né dello Stato né del mercato. Ciò sarebbe non soltanto impossibile ma anche estremamente nefasto, poiché una grande società (statisticamente parlando) ha bisogno dell'apparato

statale e del mercato. Il dono, al loro posto, comporterebbe fenomeni di dominio personale particolarmente gravi, effetti perversi di clientelismo che ci sono tutti familiari. Infatti una grande società, per definizione, comprende necessariamente una larga proporzione di legami tra sconosciuti ed estranei. Ora, lo Stato e il mercato sono dei buoni sistemi per trattare questo tipo di rapporto, per far circolare i beni e i servizi tra estranei, mantenendo il valore di legame costante, o piuttosto senza farlo intervenire. Essi non comportano quei fenomeni di dominio mediante il dono, come hanno tanto spesso osservato giustamente tutti coloro che hanno lodato i vantaggi dello Stato-provvidenza rispetto alla carità privata. Non solo bisogna mantenerli ma fare in modo che Stato, mercato e dono si compenetrino e si nutrano a vicenda. Non stiamo forse (ri)scoprendo che i sistemi misti sono i più efficaci? Lo Stato ricorre sempre più alle solidarietà locali per realizzare certe missioni sociali; viceversa, si constata che un sistema mercantile o statale che esclude il dono è inefficace a lungo termine, come sembra dimostrare il fallimento dei paesi socialisti ma anche quello del modello taylorista e, in senso opposto, il successo del «modello» giapponese. Il problema sta tutto nelle condizioni della loro compenetrazione. Noi pensiamo che gli altri sistemi debbano essere globalmente subordinati al sistema di dono, perché è il solo che accetti l'incompletezza del legame sociale, la libertà non solo al di fuori del legame sociale ma all'interno stesso di quest'ultimo. Altrimenti c'è costrizione in un modo o nell'altro: i sistemi socialisti hanno voluto subordinare il dono allo Stato, alla solidarietà statale. Il capitalismo (come il socialismo) ha voluto (e vuole) subordinare tutto alla produzione mercantile. Ma, a differenza del sistema statale totalitario, il diritto all'opposizione vi è rimasto possibile, ragion per cui ha creato problemi ecologici molto meno gravi di quelli dei paesi dell'Europa orientale, completamente abbandonati e assoggettati al modello dello sviluppo. Se lo Stato funziona in base all'eguaglianza e il mercato in base all'equivalenza, principio del dono è il debito volontariamente mantenuto, lo squilibrio, l'ineguaglianza. E la specificità della società moderna diventa la sua capacità di assumere le situazioni di eguaglianza in modelli deterministici - il mercato e lo Stato - mentre nelle società senza mercato e senza Stato, la condizione di eguaglianza comporta la violenza e dev'essere evitata il più possibile. Ma eguaglianza, concorrenza, rivalità sono indissolubilmente legati, come aveva capito Tocqueville. Ragion per cui tali princìpi, anche se

possono avere una grande importanza in una società nella misura in cui sono circoscritti e controllati (contenuti) dal mercato e dallo Stato, non possono costituire la base della società. Quest'ultima resta il legame ineguale di dono, e questo legame sociale non può essere pensato all'interno di tali modelli, anche se è quel che si cerca di fare da due secoli a questa parte. Dopo l'introduzione del mercato e dello Stato moderni, noi non riusciamo più a leggere il funzionamento contestuale del dono, la sua logica di rete e di circolazione delle cose, a seconda della risposta emotiva che essa provoca. E' possibile pensare il dono secondo un modello non deterministico? - DONO E MODELLI DETERMINISTICI Kurt Gödel ha dimostrato che, anche nelle matematiche, ci saranno sempre proposizioni indecidibili, che il sistema non è mai chiuso, completo. «Il teorema di Gödel è una confutazione di un modello meccanico della scienza, del pensiero, del mondo» (15). Si può considerare l'utilitarismo come l'applicazione del modello meccanicistico alla società. Il meccanismo dei prezzi e gli apparati burocratici delle organizzazioni moderne sono teoricamente dei modelli completi, nel senso logico. Ogni decisione è il frutto di un calcolo ragionato e ragionevole, che può eventualmente essere programmato in anticipo. E la regola dell'equivalenza è anche una legge fondata sulla completezza: per ogni prodotto facente parte del sistema economico esiste un equivalente monetario. La restituzione è determinata dalla regola dell'equivalenza e si applica a tutto quel che costituisce il sistema mercantile. In pratica, non si riesce veramente a predire la realtà, poiché il numero di applicazioni dell'assioma utilitaristico è infinito. Si possono sempre trovare "a posteriori" degli interessi dietro a ogni gesto. Invece di predire, si spiega "ex post". Si cerca un interesse in ogni comportamento, se ne trovano sempre e allora non resta che applicare l'assioma: quando si è trovato un interesse si è trovata la spiegazione di un comportamento. Postulato complementare: ogni altra spiegazione non è tale. E' un sistema completo, nel senso logico. La completezza è caratteristica di una visione meccanicistica e deterministica del mondo. Viceversa, la restituzione del dono è indeterminata, indecidibile. Dal punto di vista del dono, la regola di equivalenza corrisponde alla circolarità stessa e mette dunque fine al processo per autoreferenza. Rispetto al dono, il mercato è un sistema a debole potenza, perché più un

sistema è potente, più diventa incompleto, sempre secondo Gödel. «Il teorema d'incompletezza di Gödel dice che ogni sistema "abbastanza potente" è proprio per la sua potenza incompleto» (Hofstadter, 1985, p. 115). Il dono è più potente perché include il legame nel sistema mentre il mercato e lo Stato lo collocano fuori del loro sistema e lo sostituiscono con una «meccanica»; in altri termini, essi lo considerano sia come una costante, sia come una variabile esogena. Le loro leggi e il loro sistema si applicano soltanto ai rapporti tra le cose che circolano, e non ai legami sociali. Sono un sistema più semplice, più preciso, più determinato del dono, il quale è un metasistema rispetto al mercato e allo Stato. Concretamente, noi possiamo uscire dal mercato e lo facciamo quotidianamente ogni volta che, nella circolazione delle cose, introduciamo il valore di legame: mancia aggiunta al servizio, applausi aggiunti al prezzo del biglietto, tutti quegli innumerevoli «valori aggiunti di legame» che costellano i nostri rapporti sociali. Ogni volta, usciamo volontariamente dal rapporto mercantile e reintroduciamo un «gesto» inatteso, imprevisto, una «grazia». Le azioni più importanti delle nostre vite, come il dono del rene, sono qualcosa di più che non il risultato di calcoli razionali; esse obbediscono ad altro. Il dono è la quarta dimensione del sociale, inafferrabile razionalmente in un sistema meccanicistico, ma nella quale siamo immersi, tanto nella nostra vita quotidiana quanto nelle grandi decisioni che prendiamo. Nel legame sociale circola ben altro che quello che si vede circolare. E' quel che il saggio maori aveva chiamato lo "hau", lo spirito del dono, che l'Occidente non riesce a comprendere nell'ambito del suo paradigma dominante, ma che appare di una evidenza primordiale non appena si esca da tale paradigma. E' dunque inutile tentare di comprendere il dono con la ragione moderna? Bisogna lasciare il dono ai romanzieri, ai poeti? In parte, senza dubbio. Il legame sociale non appartiene ad alcuna disciplina e le belle storie fanno comprendere il dono meglio delle scienze umane. Non è perché non si può dire tutto che non si può dire nulla, ma bisogna abbandonare i modelli meccanicistici che caratterizzano le scienze umane. Sorprendentemente, il campo dell'intelligenza artificiale e delle scienze cognitive può forse fornire un punto di partenza per elaborare un modello di circolazione mediante il dono.

CAPITOLO 12 ABBOZZO PER UN MODELLO DEL RAPPORTO DI DONO Il dono non è il caso; c'è un certo disordine, ma non è il caso. «Effetti di puro caso non formeranno mai un dono, un dono che abbia il senso di un dono, se nella semantica della parola "dono" sembra implicito che l'istanza donatrice abbia liberamente l'intenzione di donare» (Derrida, 1991, p. 157). Il dono non è un gioco, anche se c'è del gioco nel dono, anzi se in esso si gioca molto. Il dono non è la produzione. Produrre esclude il dono. Il dono non è il risultato della ragione, della razionalità fine-mezzi. «Dare le ragioni del dono segna la fine del dono» (ibid., p. 187), come si è visto. Ma il dono non è senza ragione. E' possibile dire il dono? E' possibile pensare la libertà obbligatoria del dono? Secondo Derrida, Mauss stesso non ha parlato del dono: «Il suo "Essai sur le don" assomiglia sempre più a un saggio non sul dono ma sulla parola "dono"» (ibid., p. 77). Più precisamente: è possibile pensare la restituzione del dono? Mentre si immagina spontaneamente il gesto del dono come una linea retta, una freccia, quella della gratuità e del disinteresse che va direttamente e fieramente verso l'altro senza guardarsi indietro, il dono è un boomerang. Traccia un circolo. "Kula ring". Ma un circolo strano, proprio come l'"Essai sur le don". Mauss passa dal dono allo scambio, poi ritorna al dono. Traccia un anello. In un primo tempo, schierandosi contro l'idea della freccia per ben segnare la propria distanza rispetto all'immagine corrente del dono gratuito nel senso di senza restituzione, insiste sulla restituzione e sul suo carattere obbligatorio. Si chiude così nel circolo del dono. Poi, progressivamente, prende le distanze nei confronti del dono come scambio di tipo economico e, a tal fine, insiste di nuovo sulla libertà della restituzione. Si avvicina dunque di nuovo alla freccia e termina moltiplicando le espressioni paradossali contenenti al tempo stesso le parole «libero» e «obbligatorio». Mentre all'inizio dell'"Essai" oppone i due concetti («in teoria volontari,

ma in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente»), l'ultima parte li giustappone più volte: «sotto una forma disinteressata e obbligatoria nello stesso tempo» (p. 194 [trad. it., p. 206]); «dell'obbligo e, insieme, della libertà» (p. 258 [trad. it., p. 269]); «uscire da se stessi, dare, liberamente e per obbligo» (p. 265 [trad. it., p. 276]). L'"Essai sur le don" forma una sorta di anello strano, come l'oggetto che studia. C'è circolo e non c'è circolo. «Ci può essere dono soltanto nel momento in cui si verificherà una effrazione nel circolo» (Derrida, 1991, p, 21). Il dono interrompe il sistema. Quale sistema? Quello del circolo dello scambio. Quando avviene la restituzione, il circolo del dono si ferma e diventa un puro circolo di scambio. In realtà, non si ricambia mai in un gesto di dono, si dà «a propria volta». E ancora queste ultime parole sono di troppo; presuppongono erroneamente una sorta di alternanza che avrebbe un carattere automatico, meccanico. Ma non si può sfuggire completamente ad essa, perché una certa alternanza non è nemmeno assente dal dono. La verità del circolo del dono è che il terzo termine della celebre trilogia di Mauss, «ricambiare», non deve esistere. Si dà e si riceve, pur flirtando continuamente con il ricambiare, avvicinandosene a volte pericolosamente al punto che per esempio nel potlàc, dice Mauss, si distrugge «per non dare neanche l'impressione di desiderare qualcosa in cambio» (p. 201 [trad. it., p.p. 213 seg.]. Ma se ci si cade, si interrompe l'anello del dono per scendere nel circolo della circolazione mercantile, nel baratto o ancora per giungere alla fine della circolazione delle cose, al regolamento del conto, dei conti. Strano circolo, dunque, essenzialmente paradossale. In ogni caso, non è un circolo economico, anche se si avvicina continuamente all'economico, anche se intervengono in proporzioni variabili considerazioni d'interesse, di prestigio eccetera, che non possono far altro che risalire alla coscienza del soggetto donatore - perché non è sciocco e sa bene che il dono frutta -, ma senza mai avere la meglio. Come dar conto teoricamente di un fenomeno che presenta tante caratteristiche apparentemente irriducibili a ogni formalizzazione: libero, indecidibile, contestuale, spontaneo, che rifiuta la distinzione soggettooggetto nel cuore del pensiero moderno senza regola di funzionamento esplicita? Stranamente, crediamo di poter andare più lontano con la nozione di rete, che si è sviluppata in campi di ricerca che per l'appunto hanno inciampato nei modelli deterministici, come l'intelligenza artificiale. L'evoluzione recente di questa disciplina presenta varie analogie con il problema del dono. Soltanto analogie, evidentemente, perché

l'intelligenza artificiale si limita a render conto di fenomeni che restano elementari rispetto al dono, che è il più complesso dei fenomeni sociali e simbolici. Ci riferiamo qui all'intelligenza artificiale come a una sorta di «modello di pensiero» (1) in grado di fornire una prima visione del dono rendendolo comprensibile e significativo come sistema. Abbiamo bisogno di un modello - o di un approccio - che possa al tempo stesso visualizzare il dono e far comparire le differenze con il modello mercantile e il modello statale. Ora, nell'evoluzione recente dell'intelligenza artificiale, si ritrovano problemi simili a quelli incontrati qui tra il dono e l'apparato statale o tra l'utilitarismo mercantile (determinismo contabile) e il dono. - I DUE APPROCCI DELL'INTELLIGENZA ARTIFICIALE All'inizio, negli anni cinquanta, il campo dell'intelligenza artificiale è caratterizzato dalla presenza di due approcci diversi. Il primo modello è gerarchico e deterministico. La programmazione del computer avviene a partire da un centro che controlla tutto ("central processing unit"). Il dispositivo consiste in molteplici livelli gerarchici lineari (albero d'inclusione). Il centro dà ordini ad elementi passivi. L'informazione è immagazzinata in una memoria passiva. Lo scopo è quello di giungere a comprendere la logica elementare del funzionamento dell'intelligenza e di elaborare una teoria dell'intelligenza concepita come un insieme di leggi universali "context-free" (Dreyfus e Dreyfus, 1988, p. 25), per riprodurla poi in una macchina entro la quale si inseriranno tutte le regole della intelligenza razionale. Questo apparecchio darà i suoi ordini ai vari elementi che la compongono e tratterà in modo predeterminato tutte le informazioni che essa riceve. Ogni soluzione possibile è stata inizialmente inventariata da colui che concepisce l'apparecchio. E' un sistema gerarchico, il cui referente filosofico è il calcolo razionale uscito dalla tradizione cartesiana e dal postulato che ogni ragionamento può essere ridotto al calcolo, e che si può ridurre ogni concetto ai suoi elementi più semplici, e ricomporli a partire da tali elementi. Il secondo approccio ha un punto di partenza diverso. Invece di porsi il problema logicamente e deduttivamente «dall'alto in basso», si cerca di comprendere come l'intelligenza emerga da connessioni semplici tra i neuroni. E' l'approccio «dal basso in alto» (2). Si cerca di simulare quel che fa l'intelligenza a partire dalle conoscenze neurologiche attuali, di copiarla e di far funzionare questo «dispositivo». Questo sistema è in

grado di apprendere senza che peraltro si sappia come fa esattamente, nel senso di sapere quale elemento influisca su quale altro, analiticamente o gerarchicamente. Si elaborano reti di rapporti possibili e si fa funzionare la rete, che apprenderà e si svilupperà funzionando. Si giunge persino a supporre che l'ambiguità sia essenziale alla intelligenza umana. Inizialmente i due approcci conoscono un grande successo. Non mancano da una parte e dall'altra le dichiarazioni che annunciano che presto si potranno costruire macchine «veramente» intelligenti. Ma, a partire dalla metà degli anni sessanta, il secondo approccio è tralasciato a vantaggio del primo, l'approccio gerarchico deduttivo, che chiameremo «sinottico» (3). Tuttavia, l'approccio sinottico non conosce i successi previsti. Sicché da una decina di anni il secondo approccio, designato oggi con l'espressione «reti neuronali» o con il termine «connessionista» conosce una moda crescente. Uno dei maggiori difensori precedenti dell'approccio sinottico, Marvin Minsky giunge addirittura a descrivere l'intelligenza artificiale come "a society of mind", una società non gerarchica ma «eterarchica», un intreccio ("a tangled web") (1986). Questo approccio è basato sul fatto che l'intelligenza deve essere capace di tener conto del contesto. Ora, i modelli sinottici sono "contextfree". Considerano il contesto come esterno (o come una costante), il che obbliga a prevedere tutte le situazioni possibili, a integrare il contesto nel programma, compito impossibile. "Nessuna anticipazione, nessuna pianificazione, nessuna programmazione per quanto esaustive, potranno mai fare l'elenco a priori di tutte le varianti degli svolgimenti della situazione più ordinaria della vita quotidiana. C'è solo un modo per determinare tutte le risposte richieste da un sistema: immergerlo nel mondo e lasciarlo agire. Ogni sistema è dunque singolare e sostanzialmente inadatto alla programmazione" (Reeke ed Edelman, 1988, p. 152). Le reti neuronali partono al contrario dal postulato che il contesto varia all'infinito e che bisogna imparare a tenerne conto. Sono sensibili al contesto: tutti gli autori insistono su questo punto (5); e Jorion (1989) sviluppa un analogia simile tra le reti neuronali e il pensiero selvaggio descritto in particolare da Lévy-Bruhl, pensiero che non funziona per inclusione ma per associazione, per reti contestuali. "Quel che sta al posto della classificazione nel pensiero primitivo è una disposizione a raggruppare le nozioni secondo l'equivalenza della risposta emotiva che esse suscitano (p. 533).

Le piante risultano connesse da una rete complessa di somiglianze e affinità, dove ogni specie può appartenere a più categorie, e non da una struttura a forma di albero che organizzi le categorie in una gerarchia per esclusione reciproca" (p. 525) (6). Sono delle «connessioni semplici», senza rapporto d'inclusione, senza organizzazione a livelli, «piatte e larghe» (7), senza gerarchia. Esse si stabiliscono per affinità (p. 530). L'analogia con la libera associazione in psicologia è evidente, ma anche con la spontaneità del dono, o con il suo carattere primario, rispetto alla secondarietà riflessiva del mercato e dello Stato. E' vano voler eliminare l'emozione dall'analisi del dono e sostituirla con il calcolo e il rapporto d'inclusione. «Questo rapporto d'inclusione risale [in Occidente] al secolo sedicesimo (...). Ma da allora noi non sappiamo più come fare per non leggerla [nelle altre società]» (p. 524). Abbiamo esattamente lo stesso problema con il dono da quando sono stati introdotti il mercato e lo Stato: gli applichiamo la logica d'inclusione e non riusciamo più a leggerne il funzionamento contestuale, la logica di rete e di circolazione delle cose «secondo la risposta emotiva che essa suscita». Con l'approccio delle reti neuronali, il problema del senso comune diventa cruciale. Mentre il primo approccio, logicamente, considera che il senso comune si basa su una teoria implicita che sarebbe in possesso di ogni soggetto, il secondo non avanza questo postulato. Esso considera anzi che una teoria del genere è forse inesistente; e lo statuto della regola cambia completamente. Si considera che la regola è dedotta dal comportamento del sistema, ma non che il sistema obbedisce alle regole, come nell'approccio deduttivo. «Il suo comportamento può essere descritto da regole, anche se il sistema non contiene regole che ne reggano le operazioni» (Waltz, 1988, p. 201). «Una regola non è una cosa che si dia a un ordinatore ma un "pattern" che si inferisce dall'osservazione del comportamento della macchina» (Turkle, 1988, p. 247). Questo approccio ha attualmente il vento in poppa. Esso consiste nel considerare l'intelligenza artificiale come una rete, relativamente indeterminata, dove non si cerca più di localizzare esattamente quel che accade. Non si fa più la teoria dell'intelligenza, si riproduce la rete. Si esce dall'impossibilità di pensare i sistemi altrimenti che con il modello dell'albero d'inclusione. Certo, si può dire che l'intelligenza ha un centro, l'«io», che dirigerebbe tutte le operazioni. Ma, come nota Hofstadter, che strano centro quello che non può determinare e nemmeno sapere quale sarà il suo prossimo pensiero! L'intelligenza artificiale evolve verso un modello associativo che Minsky designa con il termine di eterarchia in

opposizione alla gerarchia lineare, Hofstadter con l'espressione «gerarchia concatenata» che fa «anelli strani». Questa espressione non conviene forse perfettamente al fenomeno che più ha preoccupato gli studiosi del dono, cioè lo strano anello della restituzione del dono, la strana restituzione non prevista, spesso non voluta e che assume forme incomprensibili nel quadro dello scambio mercantile? Lo strano anello presuppone non solo la restituzione (l'anello) ma anche che tale restituzione sia situata all'interno di una gerarchia. Lo strano anello si produce in una gerarchia concatenata, altrimenti è un anello semplice. In proposito si possono caratterizzare il dono, il mercato e lo Stato come segue. - LO STATO E IL MERCATO Lo Stato è una gerarchia, ma inclusiva, non concatenata, senza anello (8), se non l'anello semplice minimo del "feedback". Gli apparati sono dei sensi unici, il che evita certi problemi (l'incontro e l'incidente, i rapporti di dominazione mediante il dono eccetera), ma diminuisce nella stessa misura la elasticità del sistema. Tutto quel che circola passa per un centro prima di ripartire nell'altro senso, lasciandovi peraltro una parte del suo contenuto a ogni tappa, ragion per cui ciò che circola arriva molto più ridotto che in partenza. La sola possibilità di restituzione è il "feedback", cioè il fatto che il sistema trattiene dell'esterno soltanto quel che vuole trattenere. Invece nello strano anello l'esterno impone qualcosa al sistema. C'è interazione dinamica. L'apparato statale non fa anelli strani perché non può essergli imposto nulla che non sia da lui previsto. Nell'apparato, le cose fanno un doppio percorso fisso parallelo: concentrazione-redistribuzione. La memoria dell'apparato è il dossier, in particolare per un individuo; sono i diritti e la legge per l'insieme degli individui. Da parte sua, il mercato è una rete concatenata, ma non gerarchica. Proprio per questo è anche un anello semplice. Il mercato è un "boulevard", a volte un'autostrada, in cui la circolazione è regolata da un meccanismo che assicura che ovunque, quando un oggetto passa in un senso, un oggetto «equivalente» passa nel senso opposto. Ma, a un altro livello, è a senso unico in quanto mira a far passare le cose dal produttore al consumatore, e allora le cose scompaiono dal sistema. Il mercato è una rete di autostrade che vanno in tutte le direzioni. E' concatenato (Jorion, 1990, pp. 44 e 68). A differenza dello Stato è

decentralizzato. Esso «sceglie» il suo percorso come una rete telefonica. E' indefinitamente estendibile nello spazio, ma a un solo livello; è senza profondità, appiattito dalla ricerca dello scambio eguale, dell'equivalenza perfetta. E' una superficie che si può estendere all'intero pianeta grazie al fatto che costituisce anche una rete dalla quale si sono eliminati «i rischi dei rapporti personali» (Simmel, 1987). Ciò corrisponde a una concatenazione semplice (Hofstadter, 1985), a una connessione semplice. Inoltre, il mercato ha anche una origine e una destinazione, una direzione dal produttore al consumatore. Il tempo del mercato, la sua memoria, è il denaro. Esso utilizza volontariamente soltanto una infima parte dei rapporti precedenti tra le persone. Astrae il legame dalla sua storia personale: è al tempo stesso il suo vantaggio e il suo inconveniente. Ma non stupisce che Bateson ritenga che «tra tutti gli organismi immaginari (dragoni, dei eccetera) l'"homo oeconomicus" è il più sbiadito (...) perché i suoi processi mentali sono sempre quantitativi, e le sue preferenze transitive» (1989, p.p. 238 seg.). Ciò permette del resto al suddetto "homo oeconomicus" di essere universale e di passare attraverso le culture. Rispetto allo Stato, il mercato apre uno spazio libero infinito. E si capisce facilmente come un membro di una società che si trovi di fronte a un apparato statale senza anello democratico consideri una liberazione la rete mercantile, i molteplici percorsi che gli si aprono davanti e sembrano infiniti. Ma si capisce anche che risulterà ben presto insoddisfatto da quell'assenza di legame sociale che il mercato comporta, che si sentirà limitato in quella rete piatta, diminuito, un po' come un essere a tre dimensioni che fosse costretto in due come il disegno del dragone di Escher: "Quali che siano gli sforzi che fa questo dragone per diventare tridimensionale, resta completamente piatto. Sono stati praticati due tagli nella carta su cui è stampato. Poi è stato piegato in modo da far apparire due quadrati vuoti. Ma questo dragone è un animale ostinato e nonostante le sue due dimensioni, continua a volerne avere tre, così da passare la testa da uno dei buchi e la coda dall'altro" (Escher, 1990, p. 73). Riesce soltanto a mordersi la coda, immagine perfetta dell'autoreferenzialità del dono visto attraverso il prisma mercantile. «Più lo scambio è eguale e più ci si annoia. Il dono assicura la sopravvivenza del tempo squilibrando l'offerta e la sua controparte» (Henri Raymond). Nel mercato esiste solo la restituzione semplice, l'equivalenza monetaria. L'individuo è privato del gioco delle restituzioni multidimensionali contenute nel dono: piacere del dono, riconoscenza, controdono.

Questo appiattimento del legame sociale - verticale nello Stato, orizzontale nel mercato - spiega la diffidenza del dono nei confronti dei rapporti monetari. Il denaro simboleggia questa riduzione perché è l'essenza della quantità, perché «non possiede altre qualità che la quantità» (Simmel, 1988, p. 43). «Il denaro svaluta in qualche modo tutto ciò di cui è l'equivalente» (ibid., p. 14). Perché? Proprio perché colloca tutto in due dimensioni. Sopprime in tal modo lo spazio multidimensionale di cui il dono ha bisogno per dispiegare i suoi ritorni molteplici, lo spazio del valore di legame di cui la cosa è veicolo e simbolo: valore di legame che, alla lettera, «non ha prezzo» perché si situa al di fuori dello spazio mercantile. Ciò non significa che non si riuscirà mai ad acquistarlo «pagando il dovuto», come si dice. Ma che, se si riesce, la persona ha sacrificato il valore di legame.

- IL DONO Il dono combina l'anello del mercato e la gerarchia dello Stato, il che ne fa una gerarchia concatenata. Proprio per questo ogni sussunzione del dono nel modello dello Stato o del mercato consiste in una sezione sia

verticale, che mantiene soltanto l'aspetto gerarchico, obbligo, costrizione; sia orizzontale, che mantiene solo la rete semplice e piatta del mercato, retta da una sola legge, quella dell'equivalenza, che neutralizza i legami e la loro variabilità contestuale. Solo il dono presenta un anello strano e una gerarchia concatenata. Ha la profondità e i livelli dell'apparato, ma è una rete: con tutto lo spessore dei legami personali e il loro peso storico. La memoria del dono è l'insieme del legame sociale, la traccia mnesica che lascia il dono precedente. Il dono ha una memoria non esterna alle persone, a differenza dello Stato e del mercato. Ragion per cui ogni persona, costituita dal complesso dei suoi legami di dono passati è unica rispetto all'altra, come già visto nei capitoli precedenti. E ciò esiste anche nelle reti mnesiche dei sistemi intelligenti. Del resto è la base della vita: «L'essenza del vivente è una memoria, la preservazione fisica del passato nel presente» (Margulis e Sagan, 1989, p. 64). - DONO E SISTEMI INTELLIGENTI "Sono convinto che le spiegazioni dei fenomeni «emergenti» dei nostri cervelli, come le idee, le speranze, le immagini, le analogie e per finire, la coscienza e il libero arbitrio si basano su una sorta di anello strano, una interazione tra livelli nella quale il livello superiore ridiscende verso il livello inferiore. In altri termini, ci sarebbe una «risonanza» autorinforzantesi tra i vari livelli" (Hofstadter, 1985, p. 709). Si può descrivere meglio il dono, dal potlàc al regalo moderno, quel fenomeno di "risonanza", di amplificazione che ha tanto stupito gli osservatori del dono arcaico? Il mercato blocca ogni risonanza scindendo e isolando l'«offerta» e la «domanda», localizzando l'andata e il ritorno in due vie separate parallele. Quanto allo Stato, esso impedisce il ritorno e tollera soltanto l'anello troncato del "feedback". E' possibile, aggiunge Hofstadter, eliminare gli anelli strani di un sistema «ma soltanto a condizione di introdurre una gerarchia di apparenza artificiale» (ibid., p. 24) che elimina una quantità di possibilità interessanti del sistema. E fa degli esempi nel campo del pensiero, dove l'eliminazione della possibilità del paradosso porta a un pensiero privo d'interesse. Si riconoscono qui i pericoli che gravano su ogni apparato statale che riesca a sottrarsi all'anello paradossale della democrazia: la burocrazia inefficiente e, a termine, il totalitarismo, il sistema a senso unico, dall'alto in basso.

Il dono sta al sistema sociale come la democrazia sta al sistema politico, e la coscienza sta agli individui: un fenomeno emergente che implica tutti i livelli, emergente dall'anello strano che formano i diversi livelli tra loro. Il sistema di dono è una proiezione sociale del nostro sistema di coscienza, di quella concatenazione di livelli eterarchici che è il miglior modello del sistema mentale. La concatenazione di livelli del dono è analoga: restituzione immediata nel piacere stesso del dono, controdono, reazione a catena, amplificazione della coscienza del donatore, rafforzamento del legame, tutto quel che accade in un dono si situa a vari livelli tra loro interagenti, secondo una gerarchia concatenata, che forma anelli strani che il modello del mercato può visualizzare soltanto come paradosso, e che fondano il legame sociale come l'anello strano della democrazia fonda i nostri sistemi politici, come l'anello strano dell'intelligenza fonda la coscienza individuale. Tutti questi sistemi si rinviano l'uno all'altro. Sono isomorfi. Sono indecidibili, nel senso d'irriducibili a una legge meccanica e a un sistema chiuso (9). Il sistema chiuso non può essere altro che una approssimazione del funzionamento di un solo livello, come quello della circolazione delle cose e della legge dell'equivalenza mercantile, o come quello unidimensionale e verticale costituito dallo Stato, con il principio di eguaglianza, indipendentemente dal suo inserimento nell'anello democratico. Il dono è un «incrocio» di questi due sistemi. Il dono è un sistema di debito in risonanza. E' la forma elementare della circolazione delle cose e dei servizi, da cui procedono il mercato e lo Stato. - UN ANELLO DI PIÙ O UN ANELLO DI TROPPO? • Per Hofstadter, come per la maggior parte dei filosofi, l'intelligenza della specie umana è un anello in più rispetto a quella degli animali, l'anello che fa sì che si sappia di sapere, quel ritorno su se stesso, quella riflessione che definisce l'uomo dai greci in poi. • Per certi pensatori della democrazia moderna, anche la differenza tra i primitivi e noi consiste in un anello in più, quello che ci conferisce l'autonomia, che loro non avrebbero. • Per i liberali utilitaristi, la superiorità del mercato rispetto al dono è ancora una volta un anello in più, il ritorno su di sé che ci insegna che ogni dono è uno scambio che ignora di esserlo e che il donatore è interessato. E' l'anello della lucidità che permette di uscire dalla spontaneità primitiva e dall'ingenuità e di accedere alla razionalità, o meglio alla coscienza della

razionalità, poiché ogni uomo è utilitarista, anche se non lo sa o fa finta di non saperlo. • Ora, il dono è ancora un livello di più: è la consapevolezza che l'esplicitazione dello scambio è un livello di troppo, che fissa lo scambio e lo trasforma, facendogli perdere l'elasticità con il ridurre l'incertezza e l'indeterminazione, con il farlo quindi tornare a un livello inferiore. L'anello mercantile, per il dono, invece di essere un anello di più è un "anello perverso". La coscienza del rifiuto di tale livello è superiore al livello stesso. E' il livello del linguaggio, della creazione, dell'indistinto necessario per rispecchiare l'indeterminatezza e l'incompletezza radicale di tali sistemi, la loro irriducibilità a quei sistemi deterministici che sono, per esempio, l'approccio sinottico nell'intelligenza artificiale e i modelli dell'apparato statale e del mercato nei rapporti sociali. Il dono è l'abbandono consapevole all'assenza di calcolo, metalivello spontaneo che si può definire come «comportamento che risulta da un effetto di autorganizzazione» (Jorion, 1990, p. 117). Se si seguono le regole, non si sa donare, così come non si sa parlare se si ha bisogno di seguire le regole parlando. L'anello strano è al cuore del dono come dell'intelligenza. In che modo un pensiero può pensare, si chiede Minsky? «In che modo i pensieri possono comportarsi come agenti?» (Turkle, 1988, p. 263). In che modo un dono può essere ricambiato, si chiede Mauss? A che cosa ci porta questa analogia tra il dono e i princìpi dei sistemi intelligenti? Non certo a poter costruire un modello del dono; ma, si spera, a dare una idea dei modelli che si potrebbero ottenere; a coglierne il livello di complessità attraverso il confronto con i modelli mercantili e statali di circolazione delle cose; a stabilirne l'irriducibilità a modelli deterministici e gerarchici; a dimostrare che gli altri sistemi procedono dal dono, e non viceversa; a comprendere che si ignora quasi tutto del dono come sistema per difetto di modelli adeguati, e dunque che sono necessarie delle ricerche se si spera di progredire nella conoscenza del sistema di dono e dei suoi molteplici ritorni concatenati. Come l'intelligenza, nel senso più ampio del termine, il dono non procede mediante razionalità inclusiva. Questa razionalità è piuttosto una constatazione "a posteriori". L'intelligenza è il fenomeno individuale più complesso. Il dono è il fenomeno sociale più complesso. E' l'esperienza che non solo fa accedere l'individuo al collettivo, ma apre sulla rete universale, sul mondo, sulla vita, sugli altri stati, sull'appartenenza a qualcosa di più di se stesso. Quel che ci insegnano tutti i sistemi di dono, è una consapevolezza dell'appartenenza che, lungi dal negare l'individuo, ne è una estensione indefinita in reti

incommensurabili. Lo spirito del dono avvicina allo spirito "tout court", quale che sia il significato che si dà al termine. Nessuno può fare a meno di questa nozione, che ha qualcosa a che vedere con gli anelli strani che esprimono l'infinito. «Il concetto di anello strano contiene implicitamente il concetto d'infinito, perché che cos'è un anello se non una forma di rappresentazione di un processo infinito in un modo finito?» (Hofstadter, 1985, p. 17). E Bateson, al termine della sua vita, affermava che «i misteriosi fenomeni che noi associamo a quel che chiamiamo «lo spirito» hanno qualcosa a che vedere con (...) le caratteristiche dei sistemi circolari e autocorrettori» (1989, p. 244). Il dono ci introduce in una rete universale simile a questa allegoria buddhista: "Una rete di fili infinita estesa sull'universo, di cui i fili orizzontali attraversano lo spazio e i fili verticali il tempo. A ogni intersezione dei fili si trova un individuo, e ogni individuo è una perla di cristallo. La grande luce dell'Essere assoluto illumina e compenetra ogni perla, che riflette non solo la luce di tutte le altre perle della rete ma anche il riflesso di ciascuno dei riflessi dell'universo" (Hofstadter, 1985, p. 289).

CONCLUSIONE SOTTO GLI SCAMBI, IL DONO "Più una civiltà è sviluppata, più compiuto è il mondo che essa produce, più gli uomini si sentono a casa nell'artificio umano, più provano risentimento contro quello che non hanno prodotto, tutto quel che è loro semplicemente e misteriosamente dato". Hannah Arendt «I tempi sono duri ma moderni» dicevamo nell'iniziare questo libro. Sotto il dono, si trova lo scambio, affermano i moderni. Noi abbiamo voluto mettere alla prova l'idea inversa: sotto gli scambi, abbiamo cercato il dono. In generale, l'uomo moderno aspetta che una persona sia morta per abbandonare l'ipotesi cinica e utilitaristica nei suoi confronti. D'un tratto, si getta un altro sguardo sulla sua vita, uno sguardo più aperto, più generoso. Trattandosi del dono, si tende il più delle volte a metterne in evidenza gli effetti perversi, dei quali non pensiamo nemmeno di negare l'importanza. Crediamo, anzi, con Koestler, che "in tutta la Storia, i danni causati da eccessi di asserzione individuale sono quantitativamente trascurabili a confronto con i macelli organizzati da trascendenza altruistica per la maggior gloria di una bandiera, di un capo, di una fede o di una convinzione politica". Ma gli effetti perversi del dono non erano il nostro argomento: cercavamo piuttosto di dimostrare come funziona nel suo stato «normale»; tendevamo a fornire elementi per costruire il modello dell'"homo reciprocus", tipo ideale che non corrisponde alla realtà del sociale ma che, come l'"homo oeconomicus, può contribuire a comprenderlo".

E' possibile restituire un senso ai legami sociali, senza ingenuità né cinismo, cioè senza trasformare tutto in oggetto? Può il dono, come afferma Claude Lefort, essere ciò che ci conferma a vicenda che non siamo delle cose? La società moderna è stretta dalla minaccia dell'oggettivazione universale e generale, ritorno inatteso e ultimo risultato del suo lungo tentativo di «domare» la natura (Bacone), che porta a far sì che i geni, cioè la presenza dei nostri antenati in noi, siano manipolati come delle cose e che il bambino stesso diventi un oggetto della biotecnologia. Ad ogni estremità della vita l'oggetto ci invade: manipolazione di embrioni da una parte, sfruttamento dei cadaveri «caldi» dall'altra. «Un morto non è un essere umano» (1). Eppure è proprio in base al rispetto del cadavere che gli archeologi riconoscono la presenza dei primi umani. Numerosi sono coloro i quali cercano di invertire questa corrente (2). L'etica è attualmente più richiesta della sociologia. Sociologi dell'importanza di Etzioni lanciano nuovi movimenti come la «socioeconomia» che vuole lottare contro il «cinismo americano» (3). La presente riflessione sul dono fa parte di questi tentativi. Prima di indicare su quale visione del mondo sbocca il dono, torniamo una ultima volta sul mercato. - UN ULTIMO ELOGIO DEL MERCATO Il dono esiste e costituisce un sistema importante; ma noi non pretendiamo che sia il solo né che si possa spiegare tutto con il dono. Mentre gli utilitaristi cercano di ridurre tutto all'interesse, noi non neghiamo l'interesse e non cerchiamo di «annegare» tutto nel dono. L'interesse, il potere, la sessualità, - le tre chiavi della spiegazione moderna degli scambi - esistono e sono importanti. L'interesse anzi è forse ovunque; e noi crediamo opportuno riaffermare una ultima volta la nostra « fede» nel mercato in quanto meccanismo di liberazione. Il dono non è né buono né cattivo in se stesso, né ovunque auspicabile. Tutto dipende dal contesto del rapporto che gli dà un senso. Il mercato può essere preferibile. Per esempio, non interessa affatto accettare un dono da qualcuno da cui si voglia restare indipendente. Il mercato è una invenzione sociale unica, e così pure lo Stato. Poiché più del mercato si basa sulla fiducia, il dono è più rischioso, più pericoloso e colpisce più profondamente la persona quando le regole non sono rispettate, quando essa ci rimette. Viceversa, all'altro estremo, il pericolo del dono dipende

dal peso dell'obbligo che si trasforma in costrizione. Figli che sfuggono i genitori, doni troppo pesanti, regali avvelenati. L'individuo moderno resta diffidente, spesso a ragione. Può capitare di assistere alla scena seguente. Un commerciante ha appena servito per errore un chilo di ciliegie a una cliente che gliene aveva chiesto mezzo. «Me ne ha dato troppo, ma non fa niente. Le pago. Quanto le devo? - Perché? Ha paura di fare indigestione con quello che le ho dato di troppo se non lo paga?» Paura di rimetterci perché si è dato troppo, paura di rimetterci perché si è ricevuto troppo e si è obbligati a «ricambiare»... Quest'ultimo caso è il peggiore, mentre, teoricamente, nell'ideologia dello sviluppo, ricevere sempre di più è l'obiettivo stesso di tutta la vita moderna, che pure questo dialogo contraddice in tutti i modi. Il mercato permette di proseguire lo scambio in condizioni in cui il dono non è possibile o auspicabile, e quando l'alternativa è la violenza o l'assenza completa di rapporto. Così, tra due persone o due società che non condividono in partenza alcun valore, tra due estranei, la sola base d'intesa possibile è l'interesse, quali che siano le ragioni inesplicabili all'altro che renderebbero conto di tale interesse. Adam Smith ha ragione: tra il macellaio e il cliente che egli non conosce, è l'interesse di entrambi che crea il legame. L'utilitarismo è la sola morale possibile comune a due estranei, ed è pertinente per tutti i rapporti nei quali si auspica che l'interlocutore resti estraneo. E' il rapporto minimo, l'alternativa a un rapporto gerarchico di dominazione esterna. Il mercato, ai tempi di Adam Smith come oggi, ha sempre significato un ritorno alla società, una volontà dei membri della società di autoregolarsi, un'alternativa alla regolazione esterna, tirannica, militare, burocratica o «provvidenziale», una sfida lanciata all'autorità. Il liberalismo è una teoria dei «legami deboli» necessari nelle nostre società, come ha dimostrato Granoveter (1983). Ma questi legami deboli presuppongono dei legami forti. Il mercato all'esterno, il dono all'interno: ecco spesso la «formula vincente», anche nelle società liberali, anche sul piano economico, come dimostrano gli ebrei da tempo (Hyde, 1983), i giapponesi oggi e le minoranze ricche che hanno sempre una duplice legge: l'una per l'interno, l'altra per l'esterno, per i rapporti con gli estranei. D'altronde, perché si vuole fare del mercato la base di ogni rapporto sociale? In virtù di quale aberrazione si può immaginare che il legame sociale minimo tra estranei possa essere anche il fondamento di una società? Nella misura in cui si assegna alla società come solo scopo quello di produrre sempre di più, c'è una certa coerenza in questo. Infatti il dono è contro lo sviluppo: «Il potlàc è stato considerato dalle autorità canadesi

come uno spreco, distruttivo dell'iniziativa economica e della morale: in altri tempi costituiva un ostacolo allo sviluppo e alla modernizzazione» (Belshaw, 1965, p. 21). Proprio per questa ragione si vuole estendere il mercato al complesso dei rapporti sociali: per trasformare l'intera società in un «sistema di sviluppo». - E LA VIOLENZA? Bisogna dunque relativizzare il mercato. Ma il dono non si oppone soltanto al mercato. In realtà, il contrario del dono, quando si esce dal paradigma utilitaristico è la violenza, l'odio, tutte quelle «cose nascoste» che l'opera di René Girard vuole rivelare alla coscienza moderna. Torniamo dunque brevemente sul pensiero girardiano. Mentre per gli utilitaristi la cosa nascosta, sempre la stessa, è l'interesse (che si tratta di capire per aver capito tutto), in Girard fondatrice è la violenza. Inoltre, il rapporto fondatore è un rapporto con un oggetto o con una persona oggettivata. Quel che conta, è l'altro, ma l'altro che desidera la stessa cosa che io desidero, che voglio strappargli con la violenza. Non c'è amore possibile in questo sistema di spiegazione; soltanto odio e «desiderio» le cui conseguenze sono necessariamente spaventose. Girard smonta la logica dell'eguaglianza, che genera la rivalità, che scatena la violenza. Proprio per questo, come si è visto, nella maggior parte delle società si fugge l'eguaglianza. Ma ci sono altre soluzioni: la dominazione subita o accettata; il dono che, uscendo dall'eguaglianza, crea uno stato di debito reciproco. Girard riconosce questa logica del dono; ma ne situa l'origine al di fuori della società. Proprio quando certi fatti da lui presentati vanno nel senso opposto, la elimina. Infatti per lui l'unica definizione dell'uomo è quella di un essere che ha paura di se stesso e dei suoi atti, e tutta la società, tutte le società sono fondate su questa paura. Una sola volta, nella sua opera di oltre 600 pagine sulle «cose nascoste dalla creazione del mondo» (1978), Girard menziona l'esistenza degli «esseri cari» minacciati da tutta questa violenza. «Più [la rabbia] si esaspera, più tende a orientarsi verso gli esseri più (...) cari» (p. 121). Ci sarebbe dunque da qualche parte, tra questi esseri cari, un rapporto non fondato sulla violenza e che la violenza minaccia. Ci sarebbero in ogni società esseri ai quali vogliamo a ogni costo evitare questa violenza. Da dove vengono? E' la sola allusione a questa realtà in una opera in cui, del resto, non c'è desiderio che abbia conseguenze positive, non c'è calore, non c'è bisogno di amore. Questa realtà non ha alcun posto in tale sistema.

In questo senso, Girard è moderno e ci si può addirittura chiedere se non sia utilitarista. Infatti egli trascura tutte le situazioni in cui potrebbero comparire questi elementi opposti alla logica della violenza, a vantaggio di elementi secondari che confermano l'ipotesi cinica. Facciamo un esempio per mostrare l'illegittimità di questa eliminazione dei rapporti di dono dai rapporti sociali. Nella sua discussione del giudizio di Salomone (p.p. 341-51), Girard constata che la vera madre prostituta fa esplodere la logica infernale del mimetismo con l'amore per quell'essere caro che è suo figlio. Ma non riconosce che la condizione stessa dell'efficacia del giudizio del re Salomone, che egli commenta a lungo per illustrare la sua teoria, è per l'appunto che la sua teoria non si applica. Tale condizione è che una delle due pretese madri respinga la logica della violenza e si spinga sino a prendere in considerazione la perdita del figlio, il suo abbandono alla rivale pur di salvarlo. E' esattamente il contrario del desiderio mimetico girardiano: è la logica dell'amore (4). E la celebre «saggezza del re Salomone» consiste proprio in questa scommessa che la logica dell'amore avrebbe avuto la meglio e fatto esplodere la logica girardiana che egli propone alle due donne. In definitiva, in questa storia due persone su tre adottano un atteggiamento non girardiano: il re e la «buona» prostituta, la vera madre. Ma Girard tiene conto soltanto del terzo personaggio, la falsa madre, che inoltre è la perdente della storia, quella che ha un comportamento mimetico conforme alla sua teoria, ma che perde proprio perché adotta un comportamento conforme alla teoria di Girard. Ora, su che cosa si fonda quest'altra logica non girardiana sulla quale si basa la saggezza del re Salomone? Niente affatto su un eroismo che sarebbe eccezionale nella storia dell'umanità; semplicemente sull'amore materno che è sempre esistito e che trascende continuamente la logica della violenza mimetica. Nessun bisogno di ricorrere al Cristo per riconoscere la sua esistenza in tutta la storia dell'umanità. Girard sembra dunque accecato dalla sua teoria nell'interpretazione di questo passo biblico. Non vede quel che implica il giudizio di Salomone, pur mostrandocelo. Questa storia potrebbe infatti servire a illustrare l'importanza fondamentale della logica del dono. Girard ne vede solo l'aspetto che conferma la sua teoria. Per il resto, ne fa la prefigurazione del Cristo, cioè di un avvenimento unico nella storia dell'umanità, mentre si tratta semplicemente dell'amore materno, cioè di un fenomeno «banalmente» universale. Evidentemente non c'è solo violenza tra madre e figlio; e anche tra i figli, come si è visto. C'è l'imitazione dell'offerta. La violenza primaria non

è nella creazione di un legame; è invece nella rottura di un legame, nella rottura con la madre, nella paura dell'abbandono, cioè della rottura definitiva del legame. La prima violenza è la perdita del legame, di quel che ci lega a colei che ci dà tutto. E la prima esperienza sociale da assumere è quella della distanza necessaria (5) che permette di diventare a propria volta donatore, di imitare il dono, che permette la mimesi positiva. La violenza è seconda e si produce sullo sfondo di legame positivo tra due esseri cari. Di questo legame fondatore e primario, l'autore non parla. Il suo sistema comincia dopo. Egli pone la rottura come fondamento e non vede altro mezzo che l'intervento divino per rovesciare la logica della violenza e della vendetta. Si mette fine alla vendetta con il perdono. Il perdono è un dono fondamentale, un dono di passaggio (come si dice «riti di passaggio») dal sistema della violenza al sistema di dono, atto sociale e psicologico fondatore, a proposito del quale ci si deve stupire del fatto che sia stato così poco studiato nelle scienze umane (Rowe e altri, 1989). Ma allora quale legame c'è tra il dono e la violenza? Questo libro non tratta della violenza, e nemmeno dei legami tra i due fenomeni. Limitiamoci ad osservare che il dono è una forma di scambio alternativa alla violenza, che si può concepire la violenza come lo stato negativo di un sistema sociale che sarebbe la conseguenza dell'interruzione del dono. Ciò non significa che dono e violenza obbediscano alle stesse regole. Una illustrazione di questa differenza consiste nel fatto che si passa dall'uno all'altra «facendo un gesto». Per riconciliare una persona in conflitto con un'altra, si dice: «Fai un gesto», cioè un atto non previsto nelle regole attuali del sistema e che metterà forse fine a quello stato del sistema se l'altro lo accetta. Altrimenti, se l'altro non lo accetta, o lo accetta come un dono-veleno di cui conviene diffidare, in quanto non proviene da un «cuore benevolo» (Mauss), il gesto scatena un livello di violenza ancora più alto. Fare un gesto significa prendere il rischio di trasformare lo stato del sistema. Un nonnulla può far passare un sistema sociale da uno stato all'altro, allo stesso modo che un solo grado di più fa passare l'acqua dallo stato liquido allo stato gassoso. Resta sempre acqua; ma non è più nello stesso stato; non obbedisce più alle stesse leggi fisiche (6). Tuttavia, il suo stato gassoso non è l'immagine rovesciata dello stato liquido. Lo stato di non-dono è uno stato di riserva, di ritenzione, di non-abbandono, molto diverso dalla violenza, e che non obbedisce alla stessa logica. Anche se un nonnulla può comportare il passaggio dall'uno all'altro, questi due stati non obbediscono alle stesse regole. La violenza e il dono sono due stati diversi.

Sistema di debiti volontari e che si autoalimentano, il dono è uno stato eccedentario. Nelle situazioni più diverse, e più opposte, si perviene sempre a questo risultato stupefacente. Dal rapporto di coppia al rapporto tra genitori e figli al volontariato, dal dono a una terza persona o a colui che ci ha già donato, a un amico o anche a un estraneo, si dona perché si è ricevuto; dunque si sta sempre ricambiando; ma si riceve sempre di più di quel che si dà, checché si faccia e anche se non lo si vuole; è quel che si può chiamare il paradosso della parabola dei talenti. Si è sempre in un sistema in cui si riceve in eccesso: è la legge più generale, constatata ovunque si osservi il dono, ovunque esso funzioni nel suo stato normale. Il dono genera sempre qualcos'altro, fa apparire un supplemento. Il modello del dono non obbedisce alle leggi della fisica classica: nel dono qualcosa si crea, qualcosa appare. Questa creazione è in primo luogo la nascita. L'istinto di ricambiare è fondato sul fatto evidente che la nostra stessa esistenza ci viene da un dono, quello della nascita, che ci pone in posizione di debito. - LA LIBERTÀ DEL DONO L'esperienza del dono impedisce di risolvere il problema della libertà riducendola alla decisione calcolata e relegando la spontaneità dalla parte della pulsione primaria. Il dono obbliga a pensare insieme spontaneità e libertà. In che modo? Il dono è libero. L'individualismo metodologico insorge a ragione contro il determinismo che presuppone la spiegazione in base alle tradizioni, alle mentalità, alle cause (Boudon). Esso afferma la libertà dell'attore. E' questo il contributo fondamentale delle teorie della decisione, dove una decisione è per definizione l'affermazione di una libertà rispetto ai sistemi di cui fa parte l'attore, contrariamente a quel che propongono le spiegazioni in base alla tradizione. Senza il postulato di questa libertà il termine «decisione» non ha più alcun senso. Ma questo attore dell'individualismo metodologico è un attore razionale nel senso di calcolatore: cerca di massimizzare il suo potere, i suoi interessi. La sua decisione è razionale nel senso del calcolo dei vantaggi e degli inconvenienti; calcolo molto limitato, beninteso (March e Simon, 1979), ma calcolo comunque. Il resto, le altre azioni, gli altri comportamenti non rientrano nella decisione, ma nel riflesso. Tutto quel che non rientrerebbe in questo modello di comportamento sarebbe irrazionale, e non libero. Questa posizione è bene illustrata da uno schema di Boudon (1988, p. 242) fatto di cerchi concentrici, dove si passa progressivamente dal

modello razionale utilitario, al centro, all'impulsivo e all'irrazionale, alla periferia. Essa sembra dimenticare la penetrante conclusione di Simmel nella sua analisi del denaro: «[il puro pensiero razionale] può soltanto fornire i mezzi (...), è completamente indifferente al fine pratico che li sceglie e li realizza» (1987, p. 559 [trad. it., p. 620]). Più recentemente MacIntyre afferma: «La ragione è calcolatrice. Essa può stabilire verità di fatto e relazioni matematiche ma niente più. Nel campo della pratica può parlare solo di mezzi. A proposito dei fini deve tacere» (7). Questo approccio rinvia dunque continuamente tutto l'universo dei fini, degli obiettivi, dei valori nella sfera del riflesso e dell'irrazionalità, ed innalza allo statuto di sola decisione libera le decisioni sui mezzi. O ancora, essa considera i valori come già dati, così come per il mercante le preferenze del consumatore sono già date; egli si inchina di fronte ad esse e si definisce come mezzo per soddisfarle. Rispetto a questo modello, il dono fa un passo in più nella definizione della libertà. Esso non pone il calcolo razionale come condizione della libertà. La libertà spontanea del gesto è affermata: essa non è il risultato né di un calcolo né dell'ordine del riflesso. Essa è sempre effettivamente «già là», direbbe Merleau-Ponty, prima della ragione. Il dono è libero senza essere una decisione nel senso delle teorie della decisione, senza essere un calcolo. Il calcolo è meccanico, i legami sociali non lo sono. Il dono è incompleto; qualcosa gli sfugge in permanenza: il niente, lo spirito del dono, il supplemento. Si dà di più per dare abbastanza, e questo è il dono. Ragion per cui non si può spiegare il dono anche se lo si può capire. Dare, ricevere, ricambiare sono momenti del dono che circolano contemporaneamente in tutti i sensi. Dare è ricambiare ed è ricevere.





Anche qui è un disegno di Escher che illustra nel modo migliore questo aspetto del dono: non si sa in che senso esso circola, non si sa in che momento si sottrae alla materia e prende il volo, non si sa in quale direzione. E' il contrario della bella precisione meccanica dell'offerta e della domanda. Non c'è spiegazione riduzionistica del dono: se lo si decompone nei suoi elementi qualcosa sfugge che è per l'appunto la sua specificità. Mauss aveva ragione di dire che è un fenomeno sociale totale, anche in questo senso. Si capisce davvero il dono soltanto ricorrendo alla metafora. - UNA METAFORA: IL DONO È UN ATTRATTORE STRANO Il dono non è un sistema di equilibrio statico e nemmeno omeostatico, con una variabile di equilibrio fissa che il sistema cercherebbe continuamente di raggiungere e intorno al quale varierebbe, come un termostato, e come il prezzo nel modello mercantile. Il dono è un sistema complesso: né connessione semplice né gerarchia. Per comprendere certi fenomeni, in questi ultimi decenni, i fisici e matematici hanno elaborato nuovi concetti: oggetto frattale, attrattori strani eccetera (Gleick, 1989). Tali modelli rendono conto di fenomeni fino ad allora tenuti a margine delle teorie fisiche, come le turbolenze, fenomeni che non si spiegavano con gli attrattori «semplici» della fisica classica. Analogicamente, si può considerare il mercato come un attrattore semplice, che rende conto della circolazione di un certo numero di oggetti, le merci, a parità di ogni altra condizione. Ma il dono è un attrattore strano, che rende conto delle turbolenze osservate nel mercato e negli apparati, e negli scambi tra gli umani quando li si osserva con il modello mercantile. Da qualche secolo, l'umanità occidentale si ostina a spiegare gli scambi con un attrattore semplice che porta a far funzionare tutta la società mediante due dispositivi soltanto: mercato e Stato. Ma ciò è inadeguato: ci sono delle turbolenze. Come in fisica, l'"homo oeconomicus" ha a lungo lasciato da parte questi fenomeni incomprensibili. Più recentemente, ha tentato di ridurli (8), di spiegare queste zone di turbolenza con gli stessi schemi (9). Senza successo, sosteniamo in questo libro. E' tempo di accettare nelle scienze umane la presenza di quell'attrattore strano che è il dono, perturbando le equivalenze che sono le regolarità economiche dei mercanti e le regolarità razionali dei tecnocrati. Il mercato è un attrattore semplice, con un punto fisso, come il pendolo (Gleick, 1989, p.p. 179-82). Nella circolazione mercantile, le negoziazioni fluttuano attorno a questo

punto fino alla transazione, che costituisce il punto di equilibrio. L'attrattore semplice dell'economia, è l'equivalenza, che mette il sistema in stato di quiete. Ora, il dono è un attrattore senza punto fisso. Non raggiunge mai l'equilibrio, o allora non si ha più un sistema di dono. Il punto fisso segna l'arresto del sistema. Quel che è equilibrio per il sistema mercantile - l'equivalenza - implica, per il sistema di dono, la fine del movimento, come per il pendolo. L'equilibrio del dono sta nella tensione del debito reciproco: questo è il motore del movimento del dono. Il dono è il moto sociale perpetuo. Per esplicitarne le leggi matematicamente bisognerebbe, come in fisica, disporre di lunghe serie temporali di dono, su scala statistica, come le serie dei corsi del cotone che sono serviti a elaborare la teoria degli oggetti frattali. - DONO E OCCIDENTE Noi abbiamo cercato di parlare del dono con i mezzi che ci eravamo dati in partenza, quelli della ragione occidentale. Per procedere oltre, bisognerebbe cambiare linguaggio, perché il dono tocca gli strati universali più profondi, quelli di cui parlano i miti. Bisognerebbe passare da «è come se» a «c'era una volta», cioè reintegrare il tempo, essenziale al dono, e che la modernità dissolve nello spazio... mercantile. Il dono è sempre una storia. Il dono spinge involontariamente verso un aldilà del dono, ragion per cui si può concludere un libro sul dono soltanto con una infinita modestia, sapendo che ci si è limitati ad aprire una breccia, che per definizione è impossibile circoscrivere l'universo del dono, che bisogna sottomettersi ad esso e non pretendere di dominarlo, foss'anche solo intellettualmente. Alla fine dell'introduzione dicevamo che il dono ha a che fare con i rapporti interpersonali. Il senso di questa affermazione si è via via precisato, al tempo stesso per opposizione ai rapporti con gli intermediari, e anche, più positivamente, per mostrare che in un rapporto di dono è impegnata la persona in quanto tale. Essa non è un mezzo. Quel che circola veicola questo elemento personale. Quel che circola contiene una parte di sé. Ogni dono è un dono di sé e difficilmente può essere trattato come un oggetto. Il dono rientra nel pensiero animistico. Al contrario, il rapporto mercantile è una oggettivazione del mondo e dei rapporti tra umani, e tra gli umani e gli altri esseri che lo circondano. A questo titolo può essere pensato solo come situato all'interno del grande

movimento di oggettivazione del mondo effettuato dall'Occidente, come illustra bene la seguente storia degli inuit e dei loro caribù. E stato proposto (10) agli abitanti di un villaggio inuit un progetto di commercializzazione della carne di caribù per il mercato esterno che presupporrebbe la costruzione di una fabbrica ed eliminerebbe la disoccupazione nel villaggio. Un progetto mirabolante che presenta solo vantaggi, a quanto pare. Eppure gli inuit esitano. Perché? Perché hanno un rapporto personale con i caribù. Stabilito da un passato e un destino comuni, il rapporto con l'animale è fatto di rispetto e di riconoscenza, è un rapporto di dono descritto da numerosi antropologi (11). Con gli animali le società di cacciatori scambiano una vita con un'altra vita. Così, in Siberia, si va a morire nella foresta per nutrire le bestie. Si restituisce loro quel che si è ricevuto. E presso gli indiani non si devono uccidere più animali del necessario, perché ciò comporterebbe la morte di qualcuno. Con il mercato, al contrario, si uccide fino all'esaurimento della specie. Da questo punto di vista il mercato dunque non è una generalizzazione dello scambio: ne rappresenta invece una perversione, una esacerbazione fino all'estinzione dei protagonisti progressivamente trasformati anch'essi in oggetti. Si propone dunque agli inuit di passare da un sistema di dono tra loro e i caribù a un sistema mercantile, dove il caribù è trasformato in oggetto. Il capo del villaggio afferma di essere molto esitante; forse si chiede se si può fare una cosa simile. E' una brutta cosa e un giorno si sarà puniti. Commercializzare i caribù è un gesto di una grande violenza per gli inuit, che intrattengono con l'animale un rapporto personale. D'ora in poi bisognerà trattarlo come un oggetto, giungere forse come l'uomo moderno ad avere il cuore troppo sensibile per ucciderlo da sé, o addirittura essere incapace di assistere alla morte di un caribù; bisognerà accettare come un progresso che i caribù siano rinchiusi ed eventualmente allevati come bestiame da macello nelle condizioni ben note. E' la grande rottura con il cosmo, con il fatto di appartenere a un mondo più vasto di cui fanno parte i caribù. E' il ripiegamento su se stessi attraverso la trasformazione del resto del mondo in oggetto suscettibile di diventare una merce e di obbedire a leggi ineluttabili quelle della fisica e quelle del mercato. Ricordiamo un'ultima volta questo tema spesso affermato da Marcel Mauss: «In origine, certamente, le cose stesse possedevano una personalità e una virtù proprie» (1950, p. 232 [trad. it., p. 244]). «Questo va e vieni delle anime e delle cose confuse tra loro» (p. 230 [trad. it., p. 242]) è essenziale al dono, moderno e arcaico.

Tuttavia il capo aggiunge: «Ma ci sono tanti disoccupati». Quest'ultima frase indica che egli ha già interiorizzato il modello mercantile (12). Ci sono disoccupati soltanto in questo modello. Nell'altro c'è solo una mancanza di caribù. Se ci sono molti caribù, e non c'è niente da fare, non ci si sente disoccupato ma come qualcuno molto fortunato. - LORO E NOI Possedere libera, dice la modernità. Possedere vincola, dice la saggezza di tutti i tempi. Il surplus è pericoloso. Dal surplus nascono l'ineguaglianza, i conflitti, la violenza. Che fare del surplus? Ci sono diversi modi per liberarsene: • non avere niente: è quello dei cacciatori-raccoglitori; • non volere niente, eliminare il desiderio (buddhismo, zen, distacco di Diogene); • non dovere niente, liberarsi del debito (il mercante); • eliminarlo (il potlàc eccetera); • immagazzinarlo secondo regole precise; • darsi a un'altra libertà (mistica, dio, miti, Alcolisti anonimi); • infine sacralizzarlo, farne l'obiettivo stesso della società cui è assoggettato ogni membro: è il paradigma dello sviluppo. A partire dal momento in cui il calcolo è estratto dal sistema sociale, è liberato e diventa possibile l'estensione indefinita del mercato, parallelamente al dono moderno. Si assiste alla «liberazione» del calcolo e del surplus, esorcizzato dalla sua trasformazione in metaobiettivo sociale. L'eccedente non viene in più, come nel dono. L'intera società vi si consacra, «si dà» alla produzione di surplus, e il surplus è sempre più utilizzato per produrre esso stesso surplus (investimento), sicché la società, senza rendersene veramente conto, finisce per consacrarsi alla produzione controllata di surplus, e il consumo finale e l'utilità diventano sempre più rari, il che porta simultaneamente a valorizzare l'utilità e a sviluppare l'utilitarismo. Liberare il calcolo libera nello stesso tempo il dono, simultaneamente. Ma questa liberazione del dono è possibile soltanto se altri sistemi, vincolanti, non liberi, assumono le funzioni assolte dal dono in altre società. Lo Stato e il mercato, fondati sul calcolo sostituiscono in parte il dono. Un'analisi del dono rimette in questione le differenze tra «loro» e «noi» (13). Ma si dona un rene senza essere costretti, si potrebbe rispondere, si è liberi, non è come per «loro », che obbediscono alla tradizione e non

hanno scelta quando donano. Eppure, quando si fanno loro domande, i donatori di reni rispondono che ciò andava da sé, che il problema non si pone, che non è frutto di un ragionamento, che si dona nonostante le sofferenze, le perdite, i rischi che ciò comporta, perché è così. Ovvero la stessa risposta che gli «arcaici» danno agli etnologi, la risposta che porta gli antropologi a concludere che «loro» sono dominati dalla tradizione e che il «loro» dono non è libero. Non sono loro che ce lo dicono, siamo noi che lo interpretiamo a partire da fatti che non esiteremmo spesso a interpretare allo stesso modo a proposito dei nostri propri comportamenti. Almeno è quanto dimostra questa comparazione con il dono del rene (14). La differenza tra loro e noi sembra dunque meno evidente di quel che appare a prima vista, a proposito del dono. Ricordiamo d'altra parte che i grandi pensieri dell'umanità sono fondati su esperienze di dono. Ciò è evidente per il cristianesimo. Ma Buddha ha potuto raggiungere l'illuminazione grazie a un dono fatto a un povero, un paria. E Confucio afferma: «Io trasmetto, io non invento niente». Quanto a Socrate, egli ha sempre sostenuto di non essere affatto direttamente l'autore di tutto quel che diceva di essere soltanto come una levatrice e che il dio faceva tutto: «Tutti coloro ai quali Dio lo concede fanno nel corso delle nostre conversazioni meravigliosi progressi, manifestamente senza avere appreso da me checchessia» (15). Che tutto ciò sia «vero» o no (domanda dell'uomo moderno che spreca molta energia per sapere se e quando e come tutti questi personaggi siano veramente esistiti), il fatto è che tutti i grandi saggi all'origine di tutte le grandi spiritualità dell'umanità affermano di aver ricevuto il loro messaggio da altrove, e si pongono così, loro e il loro «messaggio», in un sistema di dono. Ciò è un fatto nel senso moderno e scientifico del termine. Tutti salvo i filosofi dei Lumi: ma da dove veniva loro questa «luce», si potrebbe chiedere? Ad ogni modo, essa non fa ancora parte delle grandi saggezze dell'umanità, essendo condivisa soltanto da una infima minoranza dei membri delle società occidentali. La maggioranza, dopo secoli di Lumi, resta sempre nelle «tenebre» ed è in larghissima maggioranza religiosa (anche gli scienziati sono oggi spesso credenti) (16). Questi i fatti nel senso moderno del termine. Ed è ragionevole classificare tra gli «illuminati», tra gli arretrati, i fondatori di tutti i grandi sistemi di pensiero dell'umanità, tranne il nostro (veramente condiviso poi da una esigua minoranza)? E' davvero un pensiero universale? Al termine del nostro viaggio nel dono moderno, giungiamo a chiederci se la visione del mondo occidentale consenta di pensare il dono. Lévi-Strauss

afferma che "il soggetto occidentale «introspettivo» è il contrario del viaggio interiore orientale che sposa il cosmo ed è una negazione della rottura che comporta la dissoluzione dell'io. Per il buddhismo, l'interiorità è il mondo. Non c'è esterno, punto di vista proprio dell'Occidente dei Lumi" (1988, p. 127). Per pensare il dono, speriamo di aver dimostrato che è necessario collocarlo in un pensiero che non sia fondato sulla rottura. Rottura tra produttore e utente, rottura tra «loro» e «noi», che ci riportano ineluttabilmente alla rottura tra l'uomo e il cosmo. Bisogna liberarsi dai condizionamenti dell'utilitarismo come ci si è liberati da quelli della religione. Infatti, dopo tutto, è davvero ragionevole impedirsi di pensare alla morte altrimenti che sotto forma della comparsa di un cadavere e dunque alla vita come stato precadaverico? Dare la vita significa trascendere l'esperienza mercantile definita come il guadagno di una cosa mediante la perdita di un'altra. Chi dà la vita non soltanto non perde niente poiché si tratta di un dono-trasmissione, ma guadagna tutto. Guadagna il fatto di restituire la vita che gli è stata donata senza perderla e la possibilità di donare a qualcuno per tutta la sua vita, qualcuno che non può essere un oggetto. Guadagna anche l'accesso alla comprensione della propria morte; guadagna l'autorizzazione di morire, di restituire un giorno la propria vita. Quando si è data la vita, si può giungere alla propria morte e pensarla come altra cosa che non l'accesso allo stato cadaverico, allo stato di oggetto. Dare la vita è anche accettare di morire perché bisogna che coloro che danno la vita muoiano perché quelli che nascono vivano, per far loro posto; volontariamente, perché colui che nasce è infinitamente debole e potrebbe essere schiacciato all'istante da coloro che danno la vita. In numerose società il dio della morte è anche il dio della nascita e del sesso, osserva Joseph Campbell, che aggiunge: «Non appena si ha generato o procreato, si passa dalla parte della morte. Il figlio è la nuova vita, e si è soltanto il protettore di questa nuova vita» (1988, p. 110). Proprio per questo è essenziale che gli uomini partecipino a questa capacità di dare la vita che è stata in primo luogo attribuita alle donne. Proprio per questo il matrimonio fonda la società ed è il luogo di concentrazione dei regali, con i figli. La nascita è il dono per eccellenza, in tutte le società. Il "cogito" presuppone la negazione del mondo, l'"homo oeconomicus" la negazione della società. Il dono ci collega alla società e al mondo. Il dono reintegra l'umanità nel cosmo. E' la teoria generale dello scambio, una teoria non limitata ai protagonisti del gioco mercantile. E' il riconoscimento dell'universo altrimenti che come oggetto, il superamento

dei diritti individuali. Se noi continuiamo nella logica dei diritti, diventeremo sempre più attenti ai diritti di alcuni, e va benissimo; ma questa logica è anche, e simmetricamente, una logica di esclusione di tutti coloro che non hanno le caratteristiche necessarie per godere dei diritti, cioè, in definitiva di tutti coloro che non possono avere lo statuto di cittadino ragionevole in grado di difendere i propri diritti e di pensare in termini d'interesse generale. Sono così progressivamente esclusi non solo gli animali ma anche i bambini, dopo il feto. Il diritto del bambino dipende dalla definizione preliminare del bambino, sulla quale il bambino stesso non ha niente da dire, non ha alcun diritto. Per il momento, i diritti cominciano alla nascita. La democrazia è consistita nell'estendere progressivamente la definizione di cittadino, cioè di coloro che sono dotati della ragione; ma questa estensione razionalistica ha dei limiti. A partire dal concepimento fino a quando diventa un cittadino, l'essere umano è considerato come un essere in formazione, non ancora a pieno titolo, non ancora libero, non ancora in possesso delle caratteristiche di una persona, dunque non ancora dotato del diritto di difendersi da solo. Allora i suoi diritti non possono essere altro che i doveri che gli altri - gli adulti - si accordano per rispettare nei suoi confronti. A un certo punto il dono deve sostituirsi al diritto. Dopo aver constatato che la modernità era fondata su una rottura fondamentale tra produttori e utenti che trasforma a termine ogni legame sociale in rapporto tra estranei retto dal mercato o dallo Stato, vediamo apparire una rottura ancora più fondamentale: una rottura con l'universo che separa l'essere umano dalla tradizione (dal passato) e dalla trascendenza. In altri termini, tutto quel che non è la somma degli individui ragionevoli utilitaristi esistenti a un momento dato è trasformato sia in oggetto (il resto del cosmo, a cominciare dagli animali) sia in illusione (i morti, gli antenati e coloro che non ancora esistono). Questa duplice rottura con il cosmo da una parte, con il passato e il futuro dall'altra, fa della modernità qualcosa di puntuale, di ristretto, di angoscioso, dove non è più possibile l'abbandono. Al contrario, il dono apre sullo scambio simbolico, il quale «non ha tregua né tra i viventi, né con i morti (...), né con le pietre, né con le bestie» (Baudrillard, 1976, p.p. 207 seg.); la negazione della morte, lungi dallo sbarazzarci di questa «realtà», non fa che accrescere l'angoscia nei suoi confronti. Il solo modo di lottare contro tale angoscia consiste nel rendersi necessario a qualcuno o a qualcosa, un bambino, un gatto, o una Causa. Da sempre l'uomo si assegna, si crea obblighi per raggiungere un minimo di serenità di fronte a ciò che lo supera. E' questa l'origine del rapporto di dono: una creazione

continua di obblighi che si ritrovano ovunque negli interstizi della modernità, che si riformano man mano che i progressi moderni permettono di liberarsene e che ci liberano dall'angoscia. L'universo mercantile impone che tutto debba essere prodotto e trattato ("produced and processed"). Niente più può apparire o scomparire. La morte è dunque la produzione di un cadavere. Nel dono le cose compaiono e scompaiono. Il dono è la comparsa di qualcosa, di un talento, di un niente. Il dono è una nascita. Il dono è ciò che compare e non era previsto né dal gesto né dalla legge, nemmeno quella del dono. E' questo il paradosso della gratuità. Questa grazia che compare in più. La generosità comporta la riconoscenza. Questa frase dice tutto. In generosità c'è generazione e il "Petit Robert" definisce la generosità come il fatto di qualcuno che è incline a dare "di più" di quanto non sia tenuto a fare, che va dunque al di là delle regole stesse del dono. Questa generosità comporta la riconoscenza, una nuova nascita congiunta, un altro dono non previsto, e così di seguito, senza fine. Pensare in termini di dono è essenzialmente cessare di vedere quel che ci circonda (in primo luogo i legami, ma anche le cose) come strumenti e mezzi al nostro servizio, il che ci riporta al paradosso di Dale Carnegie e all'anello strano contenuto nel rapporto fini-mezzi. Donare è rimettersi nella corrente, nel ciclo, uscire dal pensiero lineare, riconnettersi orizzontalmente, ma anche verticalmente, nel tempo, ritrovando gli antenati. L'estensione spaziale del mercato restringe il tempo e fa sì che gli antenati diventino dei cadaveri trasformati in polvere. Viceversa, quel che unisce i partners del dono, non è il loro statuto né il loro interesse mercantile; è la loro storia, quel che è accaduto tra loro in precedenza (Gouldner, 1960, p.p. 170 seg.). D'altronde è la definizione stessa della vita. Il dono è il gesto concreto e quotidiano che ci lega al cosmo, che rompe con il dualismo e ci riconnette al mondo. Ci sono due modi di accedere all'universale: per riduzioni successive delle specificità di ogni cosa, fino al mercato e al denaro (Simmel); per generalizzazione del particolare mediante il mito, il dono, l'iniziazione (speranza di comunione con il cosmo, di rinascita), mediante la metafora (Bateson). Il dono è l'alternativa alla dialettica del signore e del servo. Non si tratta di dominare gli altri, né di essere dominato, né di domare la natura, né di esserne schiacciato; ma di appartenere a un insieme più vasto, di ristabilire il rapporto, di diventare membro. Per paura (spesso legittima, certo) di rimetterci, l'uomo moderno non riesce più ad abbandonarsi alla corrente cosmica, ad «attaccarsi». Riduce tutto il suo universo a degli oggetti apparentemente non minacciosi perché non vincolanti, non

impegnativi, oggetti dai quali può staccarsi immediatamente. E ingenera l'inquinamento, soffoca nei suoi rifiuti che finiscono per rifiutarlo. L'uomo moderno si libera dei legami con le persone sostituendoli il più possibile con legami con le cose, dicendosi senza dubbio che è molto meno vincolante, così com'è più facile separarsi da un gatto o da un cane che non da un bambino. In tal modo egli accresce infinitamente il numero delle cose, con l'idea complementare di liberarsi anche delle costrizioni materiali, punto di partenza e obiettivo di tutta questa avventura: l'uomo liberato dalla costrizione storica della fame, del freddo eccetera grazie all'accumulazione delle cose. L'effetto perverso più spettacolare di questo processo è che l'accumulazione non soltanto non libera ma accresce la nostra dipendenza dalle cose, crea una infinità di bisogni, modifica addirittura la nostra capacità di resistenza fisica, ci rende vulnerabili e dipendenti dalle cose che abbiamo prodotto per liberarci di loro, per liberarci dai legami sociali. L'uomo moderno falsamente emancipato dal dovere di reciprocità, schiacciato dal peso dell'accumulazione di quel che riceve senza ricambiare, diventa un grande infermo, e la sua sensibilità lo rende incapace di sopportare i rapporti umani (17). Un essere vulnerabile, che ha perso il suo sistema di difesa immunitaria contro i rapporti negativi, che fugge il ciclo dare, ricevere, ricambiare per paura di rimetterci, che sterilizza il ciclo trasformandolo in rapporti unilaterali, oggettivi, precisi, calcolabili, meccanici, predeterminati, contabili, espliciti, oggettivati, freddi... mentre, come si è visto, ricambiare è dare, dare è ricevere ed è ricambiare, ricevere è dare; dare, ricevere, ricambiare è, ogni volta, affermare l'indeterminazione del mondo e il rischio dell'esistenza; è ogni volta far esistere la società, ogni società. - A CHI APPARTIENE IL MONDO ATTUALE? In che modo, in virtù di quale "tour de force" le scienze sociali riescono a parlare dei legami sociali senza utilizzare le parole che li designano nella vita corrente: l'abbandono, il perdono, la rinuncia, l'amore, il rispetto, la dignità, il riscatto, la salvezza, la riparazione, la compassione, tutto quel che è al cuore dei rapporti tra gli esseri ed è alimentato dal dono. Le scienze sociali devono prendere atto, come Bateson, che non sono riuscite a comprendere di che cosa la religione è una metafora, e che ancor meno possono pretendere di sostituirla. Se Dio non esiste, l'uomo è forse necessariamente utilitarista? Si può negare Dio

senza prendersi per degli dei? E' questo il grande problema della democrazia rappresentativa e dell'anello strano endogeno: ci si può salvare da soli? Noi non pretendiamo di fornire una nuova chiave in sostituzione delle altre, ma soltanto di mostrare che non si può né sorvolare sul dono né ridurlo alle altre spiegazioni moderne della società. E' dunque essenzialmente la pretesa della esclusività della spiegazione, l'illegittimità della riduzione utilitaristica che attacchiamo, non il fatto, né la sua importanza. C'è interesse ovunque, o quasi; ma raramente c'è soltanto interesse. Il mondo sociale non è una macchina deterministica sottoposta ai calcoli imperativi dei suoi membri. «Le cose appartengono a coloro che le rendono migliori» (Brecht). Interessarsi del dono, significa credere che il mondo appartenga ben più ai donatori di quanto non si tenda generalmente a pensare oggi. Charles Foster Kane muore solo nel suo palazzo per averlo dimenticato. «Colui che non è occupato a nascere è occupato a morire» (Bob Dylan). Il dono è essenzialmente un atto di ripetizione della nascita, una rinascita, una ripresa di contatto con la fonte della vita e dell'energia universale. Ma di questo non c'è «prova». D'altronde, non ci sono nemmeno prove dell'esistenza del dono così com'è presentato nelle pagine che precedono, così come non ci sono prove dell'esistenza dell'amore per qualcuno che non è mai stato innamorato e si accontenta di osservare scientificamente lo scambio sessuale. Il dono è una riflessione a partire da una esperienza. Bisogna condividere questa esperienza perché la riflessione acquisti senso. Il dono fa parte dei fenomeni che l'analisi e la scomposizione in pezzi staccati fanno scomparire, come la pornografia fa scomparire l'erotismo. L'osservazione di un fenomeno dall'esterno non si limita a modificare il fenomeno (Heisenberg), spesso lo fa scomparire. Senza lo spirito del dono, le cose possono circolare in una routine non più alimentata da alcun legame. Ma questo vale anche per l'osservatore: soltanto colui che possiede lo spirito del dono può vederlo all'opera nell'osservazione dei comportamenti umani. Questa riflessione si conclude con alcune considerazioni fenomenologiche sul dono in quanto esperienza umana. A questo livello, in ogni dono si ritrovano due idee contraddittorie: • l'idea dell'accettazione della perdita, della sua sublimazione, del distacco volontario nei confronti degli oggetti, della rinuncia; • al contrario, l'idea dell'eccedente, della comparsa, dell'inatteso, dello spreco, della generazione. Ora, queste due idee sono incompatibili per il pensiero moderno. La perdita non può essere altro che un modo di rimetterci in un affare,

oppure un modo di farsi sfruttare. Anche la generazione è impossibile: infatti esiste soltanto la produzione, e ogni produzione è riproduzione dell'identico, in un processo in cui non compare mai nulla salvo il plusvalore o il profitto. Nelle scienze umane solo la psicoanalisi è sensibile al fatto che è necessario perdere la propria madre e rinunciare a lei per diventare adulto, esperienza essenziale per ogni essere umano. Ma la psicoanalisi tende anche a concepire il rapporto di debito come unicamente negativo, come qualcosa di cui ci si deve liberare, visione caratteristica del modello mercantile. Il dono in psicoanalisi spesso è soltanto dono-veleno. Accettare l'esperienza di rinuncia agli oggetti e agli esseri e conoscere la generazione e il rinnovamento procurati da questa esperienza, significa in definitiva effettuare l'apprendistato della morte; e del dono.

NOTE INTRODUZIONE N. 1. Una versione precedente di questa introduzione è stata pubblicata in «Revue du MAUSS», 1991, n. 11, p.p. 11-32 con lo stesso titolo. N. 2. A questi due sistemi converrebbe aggiungerne un terzo, quello delle «rappresentazioni sociali», o dell'«immaginario», o del «simbolico» (a seconda degli autori). Ma il carattere disparato di queste qualificazioni mostra bene come a questo terzo sistema non si attribuisca in genere, e in fondo, né una efficacia sua propria né una vera coerenza intrinseca. A meno di non ricadere in un funzionalismo culturalista poco soddisfacente. N. 3. Come mostra mirabilmente Vidal, 1991. CAPITOLO PRIMO. N. 1. O, se si preferisce, la «socialità primaria». N. 2. In proposito confronta il testo di Wirth in Grafmeyer e Joseph, 1984. N. 3. Esse vanno dal «dono del niente» di Duvignaud (1977) al «dispendio» di Bataille (1967) e allo scambio generalizzato di LéviStrauss (1967). La tipologia più recente è quella di Sahlins (1976), che tenta di tener conto al tempo stesso del grado di equivalenza e del tipo di legame, stabilendo un rapporto tra le due variabili. Essa pone dunque la reciprocità al centro del fenomeno di dono. Confronta l'ultima parte. CAPITOLO SECONDO. N. 1. Garant e Bolduc, 1990, p. 4 romano. Sull'aiuto a domicilio confronta anche Lesemann e Chaume, 1989. N. 2. Sull'importanza pecuniaria degli scambi nella rete di parentela confronta Roberge, 1985.

N. 3. Fenomeno che gli americani chiamano "self-fulfilling prophecy" (profezia autorealizzantesi). N. 4. Kaufmann, 1990; Bloch e altri, 1989; Hochschild, 1989. N. 5. "Histoire de la famille", vol. 1, p. 10. Confronta anche l'ultimo capitolo delle "Structures élémentaires de la parenté" (1967). N. 6. Ciò non manca di ricordare lo "hé" a Maradi (confronta capitolo 7). N. 7. Fonte: documentario sulla comunicazione non verbale, Télé 99, Montréal, 4 ottobre 1987. N. 8. Sul potlàc confronta capitolo 6. N. 9. Secondo Jonathan Parry, il dono fatto in segreto caratterizza tutte le grandi religioni dell'umanità (1986, p. 467). N. 10. Lévi-Strauss, 1967, p. 100 (dove è citato Isaacs) [trad. it., p. 142]. N. 11. Questa sezione deve molto a una ricerca in corso di Anne Gotman. N. 12. Confronta capitolo 10. N. 13. Confronta in proposito il n. 110 della rivista «Dialogue» (Paris 1991), sul tema "Dettes et cadeaux dans la famille". N. 14. Confronta anche Salem, 1990. CAPITOLO TERZO. N. 1. Riportato in «Le Devoir», 16 febbraio 1991. N. 2. Ma è anche, in un certo senso, un dono arcaico, che ricorda i riti legati al sangue; e ricordiamo che il cristianesimo è fondato sull'atto di un Dio che ha «versato il suo sangue» per l'umanità; infine, è un dono di sé, senza alcun dubbio possibile. Il sangue non è fabbricato, è una parte di se stesso. N. 3. Negli Stati Uniti delle imprese commerciali hanno addirittura intentato processi contro le organizzazioni che si servivano di sangue donato. Nel 1966 la Federal Trade Commission considerava che i membri delle banche di sangue comunitarie (sangue donato) «si erano associati illegalmente allo scopo di cospirare per limitare il commercio del sangue umano»! (p. 161). N. 4. In certi casi crede di sapere, perché questi organismi evidentemente non sono al riparo da appropriazioni indebite di fondi da parte degli intermediari, anche se questi ultimi sono meno numerosi che nel settore statale. N. 5. Mauss sviluppa questo tema in "Essai sur le don" (1950, p.p. 260 e seguenti [trad. it., p.p. 271 e seguenti]).

N. 6. L'elemosina, dono unilaterale a uno sconosciuto, è un caso bizzarro e sarà trattato più oltre. Logicamente è un dono che esclude, che afferma un dominio, il cui senso principale è quello di rivelare l'impossibilità di restituire per chi riceve: dall'elemosina per strada all'aiuto al Terzo mondo, si assiste alla stessa perversione del dono, salvo se è trasposto in un sistema religioso, poiché sarà «restituito al centuplo» nientedimeno che da Dio stesso; e non si ringraziano forse i monaci tibetani per il dono che si fa loro? La dimensione spirituale può neutralizzare gli effetti perversi del dono unilaterale a uno sconosciuto incapace di ricambiare (ma ciò non accade necessariamente). CAPITOLO QUARTO. N. 1. Chazaud, Gordon e Babchuck, Palisi, Gassler; confronta in proposito Malenfant, 1990. N. 2. Confronta capitolo 10. N. 3. Sull'origine dell'elemosina confronta Weber in Cheal, 1988, p. 157; Mauss, 1950, p. 169 [trad it., p. 180]; Veyne, 1976, p.p. 44-65. CAPITOLO QUINTO. N. 1. Ciò che dimostra ottimamente Michel Crozier (1989). N. 2. Richard Titmuss (1971) pone questo problema a proposito del dono del sangue, dei malati utilizzati dalla medicina, o degli studenti di medicina sottopagati: «Paradossalmente si constata che la monetarizzazione di un sistema di distribuzione del sangue si traduce in un aumento del prodotto interno lordo. E' semplicemente, in primo luogo, la conseguenza del trasferimento (sul piano statistico) di un servizio non remunerato (...) che comporta pochi costi esterni verso un'attività retribuita che implica esternalità costose. Si osserverebbero analoghi effetti sul prodotto interno lordo se le donne fossero pagate per il lavoro domestico o se le coppie sposate senza figli ricevessero un premio per l'adozione, o ancora se gli ammalati ospedalizzati si facessero pagare dagli studenti di medicina che li esaminano nel corso dei loro studi. Il prodotto interno lordo si gonfia anche quando dei traffici commerciali accelerano l'"obsolescenza del sangue" o lo sprecano; lo spreco è contabilizzato perché qualcuno lo paga» (p.p. 205 seg. e 214). N. 3. O ancora l'ideologia o il sistema di valori dell'artista, almeno fino a tempi recenti.

N. 4. In senso stretto, ciò si applica soltanto alle arti plastiche, e ancora, poiché una galleria può ordinare quadri di un dato formato; ma non chiederà mai di usare «un blu un po' più scuro»... N. 5. il capitolo 6 è dedicato a questo tema. N. 6. Confronta in proposito Maïté Pinero, "Enlèvement d'enfants et trafic d 'organes", in « Le Monde diplomatique», agosto 1992, p.p. 16 seg. N. 7. Fonte: France-Transplants, Paris, ministère de la Santé, citato in «Témoignage chrétien», quarto trimestre 1991, n. intitolato "Bioéthique, la vie au risque de la science". N. 8. Confronta «Le Monde», 7 marzo 1992. N. 9. Cioè elettroencefalogramma piatto, ma battito cardiaco. N. 10. Come al solito, gli studi sono stranamente silenziosi su chi riceve e sui problemi legati al ricevimento di un dono così enorme. CAPITOLO SESTO. N. 1. Ovvero ci si situa nell'agape, nell'amore puro, diverso dal dono; confronta in proposito Boltanski, 1990, ma anche Jankelevitch, 1968, vol. 2, p.p. 910-39, che stabilisce la distinzione tra il dono e l'agape, cosa che Boltanski non fa. N. 2. Citato in Vidal, 1991, p. 31. N. 3. Il che non significa assenza di obblighi. CAPITOLO SETTIMO. N. 1. Una versione abbreviata dei capitoli 7 e 8 è stata pubblicata in «Revue du MAUSS», 1991, n. 12, p.p. 51-78, con il titolo "Nature du don archaïque". N. 2. Esse valgono principalmente per i kwakiutl. N. 3. Benedict, 1967, capitolo 6. Confronta Schulte-Tenckhoff, 1986, p.p. 137 seg. N. 4. Il sistema include non solo le isole dell'estremità orientale della Nuova Guinea (Luisiadi, isole Woodlark, Loughlans, arcipelago delle Trobriand e gruppo delle isole di Entrecasteaux), ma anche, oltre alle regioni costiere della Nuova Guinea orientale stessa, l'isola Sud-Est e l'isola Rossell. Confronta la sintesi in Malinowski, 1920. N. 5. 1989. Sulla dialettica dell'alienabilità e della inalienabilità confronta anche Weiner, 1988. N. 6. Confronta la presentazione critica di questo libro ad opera di Mary Douglas, 1991.

N. 7. Confronta anche, in proposito, Breton, 1989. N. 8. Confronta anche Weiner, 1984. N. 9. In "L'un est l'autre" che presenta l'essenziale delle tesi femministe ammesse in Francia in materia di antropologia, Elisabeth Badinter (1986) dà atto ad Annette B. Weiner di questo punto, e colloca l'inizio del patriarcato soltanto all'avvento dell'agricoltura. Ma anche nelI'ambito delle società contadine come si vedrà con l'esempio di Maradi, le cose non sono tanto semplici da lasciarsi ordinare in un modello di dominazione e di sfruttamento lineare. N. 10. Jean-Joseph Goux in "Economie et symbolisme" (1973) ne sviluppava alcune in modo certo discutibile, ma molto suggestivo. Avanzava l'ipotesi che esista un'analogia formale tra la moneta, equivalente generale delle merci, il fallo, oggetto sessuale privilegiato, e il padre, «altro» privilegiato. N. 11. Com'è noto questa è la tesi di Georg Simmel (1987). N. 12. E' la conclusione cui sono giunti, qualche anno fa, in occasione di un colloquio tenuto al Centre Thomas More, all'Arbresle, un certo numero di antropologi, tra i quali Daniel de Coppet e Jean-Michel Servet. La loro conclusione è così sicura? Esistono, per esempio, delle «paleomonete» tra i guayaki e in tutte le culture di tipo paleolitico? N. 13. Confronta Bohannan, 1955 e 1967. Confronta inoltre Salisbury, 1962. N. 14. Nel suo "Vocabulaire des institutions indo-européennes", Emile Benveniste (1969) dimostra che all'origine, nelle lingue indoeuropee, la nozione di valore designa in primo luogo il valore delle persone, quel che bisogna pagare per riscattare un prigioniero o vendicare una morte. N. 15. Sulla genesi della moneta confronta Servet, 1982. CAPITOLO OTTAVO. N. 1. Citato in Schulte-Tenckhoff, 1986, p. 63. N. 2 . Ibid., p. 123. Isabelle Schulte-Tenckhoff ricorda che questa affermazione ha avuto a lungo valore di dogma, nonostante le critiche di Curtis (1915), che affermava che «un kwakiutl sarebbe oggetto di derisione se chiedesse degli interessi nel ricevere un controdono per un dono equivalente da lui offerto». N. 3. Citato in Schulte-Tenckhoff, 1986, p. 127. N. 4. Citato ibid, p.p. 141 e 148. N. 5. Non è possibile discutere oltre in questa sede l'opera di Bourdieu. Per una critica più particolareggiata confronta Caillé, 1988. N. 6. Per esempio, Raymond Firth (1929).

N. 7. Più in generale Claude Lévi-Strauss ritiene che le società siano costituite da tre sistemi di scambio, il sistema dello scambio delle donne, quello delle parole e quello delle cose. N. 8. In parte soltanto perché Claude Lévi-Strauss pensa che le donne costituiscano i doni per eccellenza piuttosto che delle merci. Ma non distingue con sufficiente chiarezza dono e merce, donde l'ambiguità. N. 9. Una simile ambiguità si ritrova in Jean Piaget. Questi si pone il problema della genesi del senso morale nel bambino in rapporto con quella delle sue capacità logiche e razionali. Il comune denominatore sarebbe costituito dalle nozioni di reciprocità e di reversibilità che Piaget non distingue abbastanza, a nostro avviso (confronta Piaget, 1977). N. 10. Ci torneremo brevemente nell'ultimo capitolo. CAPITOLO NONO. N. 1. I lavori di Jeanne Favret-Saada (1977 e 1981, con Josée Contrepas) mettono in evidenza la sussistenza delle pratiche stregonesche in certe regioni rurali francesi, in particolare in Mayenne. Si noterà con interesse che dai lavori recenti di Favret-Saada risulta che di solito è poco dopo «essersi messo in proprio» che un coltivatore può sentirsi stregato; dunque poco tempo dopo aver smesso di lavorare «gratuitamente», cioè senza ricevere denaro, per conto dei suoi genitori. In altri termini, la crisi della stregoneria sopraggiunge in occasione del passaggio dall'universo del dono a quello della merce e quando i primi bilanci segnalano una inquietante perdita di energia vitale. N. 2. E procede da questo gioco a somma zero. N. 3. Questa logica vendicatoria è mirabilmente descritta da Ismail Kadaré in "Avril brisé", Fayard, Paris 1981. La pertinenza e la precisione delle sue descrizioni «letterarie» sono perfettamente attestate dall'appassionante serie di lavori raccolti da Raymond Verdier (1981). N. 4 . Sul tema dei rapporti tra democrazia selvaggia e vendetta confronta il n. 7 della «Revue du MAUSS», intitolato "Les sauvages étaientils des démocrates?", primo trimestre 1990. E più particolarmente gli articoli di Nello Zagnoli, "La vengeance en Calabre", e di Georges Charachidzé, "Types de vengeance caucasienne". Questo numero abbozza una discussione della tesi di Jean Baechler (1985) secondo cui la democrazia costituisce il regime politico naturale e spontaneo dell'umanità. N. 5 Si troveranno elementi in questo senso in Weiner, 1989.

N. 6. Goldman, citato da Schulte-Tenckhoff, 1986, p. 191. Concezioni analoghe sono sviluppate in Francia dagli antropologi che si ispirano all'opera di Louis Dumont. Confronta Coppet e Iteanu, 1983. N. 7. E' su questo postulato che si basa la teoria marxista del plusvalore, ed è esso che la vizia. Il plusvalore sarebbe determinato, e il sistema economico chiuso su se stesso, soltanto se la forza-lavoro fosse effettivamente prodotta come una cosa, mediante altre cose; se fosse una cosa il cui valore potesse essere dedotto dal valore delle cose necessarie alla sua produzione. Marx qui si è lasciato ingannare proprio dalle apparenze che voleva demistificare. La forza-lavoro non si riduce a una merce, a una «commodity produced by means of commodities» (Sraffa), non più che il denaro o la terra. Karl Polanyi (1944) parlava più giustamente a loro proposito di quasi-merci. N. 8. Anche i minerali devono essere partoriti (confronta Eliade, 1977). N. 9. Seguiamo qui la strada aperta da Annette B. Weiner, che insiste sull'importanza decisiva di questa esigenza di riproduzione (confronta in particolare Weiner, 1982), ma ci sembra che la riproduzione debba essere pensata nei legami stretti, indissolubili, che essa intrattiene con la simbolica del dono. Se l'esigenza di reciprocità è al cuore del dono allora la riproduzione non dev'essere pensata al posto della reciprocità, ma come suo corollario. N. 10. E' quel che spiega il mito di Edipo secondo Claude Lévi-Strauss (1958). N. 11. L'iniziazione femminile è generalmente molto più breve e sommaria, probabilmente perché la fecondità femminile è percepita come più naturale che simbolica. N. 12. Sulla logica dell'onore esiste una letteratura immensa. Sui legami tra onore e "baraka", in altri termini il dono di una forza soprannaturale, confronta Jamous, 1981. La logica dell'onore evidentemente non è riservata alle società arcaiche e tradizionali. L'opera di Erving Goffman, per esempio, fa largo posto all'analisi dei rituali che permettono di non perdere la faccia, di valorizzare il proprio onore o di rispettare quello degli altri. Confronta Goffman, 1973. Confronta anche, su di lui, Catherine Kerbrat-Orecchioni, 1989 e Michel de Fornel, 1989. N. 13. Ci serviamo qui del linguaggio di Lévi-Strauss, 1967. N. 14. Contrariamente a quel che afferma Lévi-Strauss, secondo il quale la donna figurerebbe nello scambio matrimoniale come uno degli oggetti dello scambio stesso, e non come uno dei partners. Confronta in proposito Chantal Collard, 1981. N. 15. Cheal, 1988, p. 173 che cita Mauss.

CAPITOLO DECIMO. N. 1. Sulla nozione di surplus confronta H. W. Pearson, 1957. N. 2. Boudon riassume qui il pensiero di Simmel. N. 3. Simmel crede che, a lungo termine, ciò finirà per influenzare l'associazione stessa. Esamineremo questo problema soprattutto nel capitolo seguente. N. 4. La coproduzione, concetto sviluppato soprattutto negli Stati Uniti, non tiene conto del fossato tra produttore e utente che caratterizza l'organizzazione moderna. Essa comporta perciò effetti perversi importanti. Senza essere respinta, la coproduzione dev'essere concepita come una fase che suppone che il produttore si definisca anch'egli come coutente. Gadrey (1991) perviene esattamente alla stessa conclusione in un testo intitolato "Le service n'est pas un produit": «Considerare l'utente come un cliente (...) ci sembra corrispondere piuttosto a una fase transitoria (...). Questa tappa necessaria (...) che corrisponde (...) solo alle premesse di un orientamento verso il servizio in cui si tratterebbe in fondo di ritrovare l'utente dietro il cliente» (p. 24, corsivo di Gadrey). N. 5. Ho constatato che le istituzioni pubbliche modificano effettivamente la loro pratica quando si mettono al servizio di queste reti, invece di volersele assoggettare secondo il modello dello Statoprovvidenza. CAPITOLO UNDICESIMO. N. 1. Parti del presente capitolo sono state pubblicate in «Revue du MAUSS», numeri 15-16, 1992, con il titolo "La circulation par le don", p.p. 215-31. N. 2. Claude Lefort, citato in Boltanski, 1990, p. 216. N. 3. Citato in Gouldner, 1960, p. 170. N. 4. Tra le diverse operazioni mercantili, quella che paradossalmente assomiglia di più al dono è forse l'investimento, perché il ritorno non è immediato. Con l'enorme differenza che il dono non è fatto in vista del ritorno e che il rischio in esso si basa sulle persone implicate nel sistema. L'investimento consiste nel ritirare un valore dal sistema del dono per tentare di fargli produrre una maggiore quantità di beni (Hyde, 1983, p. 37). Il rischio non è della stessa natura nei due casi: nel dono riguarda la fiducia morale; nell'investimento, la fiducia «performativa», la probabilità

di successo, definita come la capacità (calcolabile) di produrre più di quanto viene «investito». N. 5. Quale parola converrebbe meglio? N. 6. Questo tipo di dono sembra importante nel Giappone moderno, e i giapponesi più urbanizzati vivono i doni tradizionali propri della società rurale come delle costrizioni (Harumi Befu, 1986). N. 7. La risposta di Boltanski a tale questione è la sua descrizione del modello dell'agape pura, dell'amore cristiano (così come lo si ritrova per esempio in san Francesco d'Assisi), al quale dedica vari capitoli. Accontentiamoci qui di rilevare una caratteristica di questo modello. La preoccupazione del calcolo, dell'equivalenza non è più attivamente rifiutata: è assente. Essa non è più implicita, e nemmeno incosciente; è ignorata, inesistente. In questo stato di agape, c'è assenza completa di desiderio, tranne che il desiderio di donare (p.p. 235 seg.). Nel modello puro, Boltanski risolve dunque il paradosso fondamentale del dono sopprimendo uno dei termini della tensione: gli agenti in stato di agape ignorano tutto del desiderio e del calcolo, la stessa parola «ricambiare» non ha più alcun senso, non esiste più; gli agenti non la rifiutano, ne ignorano semplicemente l'esistenza. Il paradosso dunque non è risolto, uno dei termini è soppresso in un modello puro che la realtà non conosce. Per un approccio che distingue dono e agape confronta Jankelevitch, 1968. N. 8. Citato da Boltanski, 1990, p. 220. N. 9. L'espressione è di Jean-Pierre Dupuy che si è interessato a questo problema in un'opera (1985) consacrata a René Girard. Per Dupuy né Girard né Bourdieu sembrano disposti a riconoscere «proprietà d'indecidibilità» (p. 126) ai sistemi sociali, dato che questi due autori ricercano la «verità oggettiva» su ogni società. E Dupuy cita Bourdieu che sa che la verità oggettiva di ogni società, «il vero suolo della sua vita» (Lukacs), la sua finalità potenziale è quella di un «sistema retto dalle leggi del calcolo interessato, della concorrenza e dello sfruttamento» (ibid.). N. 10. «Donare è altrettanto mettere l'altro alla propria dipendenza quanto mettersi alla sua dipendenza con l'accettare il fatto che ricambierà». «Il donatore invita, ovvero provoca il donatario non tanto a ricambiare una contropartita quanto a occupare a sua volta la posizione del donatore. Così, dare perché l'altro dia non equivale a dare per ricevere» (Lefort, citato in Bloch e altri, 1989, p.p. 20 seg.). N. 11. Confronta Crozier e Friedberg, 1977; in particolare p.p. 20 e 67. N. 12. Theodore Caplow (1982) analizza questo fenomeno a proposito degli scambi di regali di Natale.

N. 13. I grandi economisti liberali erano consapevoli dei limiti del modello mercantile e non condividevano questa utopia apparsa recentemente con i sostenitori del "public choice". Confronta in proposito Bowles e Gintis, 1987, p.p. 143 seg. Su questo tema confronta anche Bugra, 1989. N. 14. Confronta in proposito l'ottimo testo di Jean Gadrey così intitolato (colloquio sugli utenti, Parigi, 1991). N. 15 Jean-Yves Girard, in Nagel e altri, 1989, p. 168. Confronta anche Hofstadter, 1985. CAPITOLO DODICESIMO. N. 1. Turkle (1988) parla di mito portante ("sustaining myth") a proposito dei legami tra l'intelligenza artificiale e la psicoanalisi. N. 2. E' così che Casti (1989) descrive i due approcci: "top-down" e "bottom-up" (p.p. 290-339). N. 3. Con riferimento a Lindblom e alla sua opera "The Intelligence of Democracy" (1965). N. 4. Ma dal suo libro non risulta che egli si allontani decisamente dal modello gerarchico. N. 5. Dreyfus e Dreyfus, 1988, p.p. 25 seg., 29, 38; Cowan e Sharp, 1988, p. 113; Reeke ed Edelman, 1988, p.p. 153, 159. Confronta anche Hofstadter, 1985. N. 6. Citazione da Friedberg. N. 7. Ciò definisce più la rete mercantile che non il dono, che non è piatto, ma profondo, temporale. Confronta più oltre. N. 8. Ricordiamo che noi consideriamo qui soltanto l'apparato, facendo astrazione dalla dimensione democratica che invece costituisce un anello strano. N. 9. Stranamente Hofstadter (1985) termina la sua opera difendendo la tesi riduzionistica. Egli afferma che anche il pensiero obbedisce a regole precise, che appartiene a un «metalivello inviolabile» e che questo livello è il suo "hardware", il gioco dei neuroni nel cervello, «retto da un insieme di convenzioni ad esso esterne» (p. 775). A sostegno della sua tesi richiama analogie come il disegno delle mani di Escher, paradosso risolto da Escher stesso, metalivello inviolabile esterno. Ora, queste analogie dovrebbero portare Hofstadter alla conclusione opposta: se il livello inviolabile del cervello è la fisica dei neuroni, per analogia il metalivello delle mani di Escher dovrebbe essere costituito dalle leggi della fisica applicate al disegno di Escher. Ora, tali leggi non spiegheranno mai il fatto

che in questo disegno si vede il paradosso delle mani che si disegnano reciprocamente. Per spiegarlo, Hofstadter non ricorre allo "hardware" bensì a un "metasoftware", un vero e proprio "deus ex machina" nel senso letterale dell'espressione, un dio che si chiama Escher, creatore del disegno. La sua analogia è dunque antiriduzionistica e mostrerebbe piuttosto che, per spiegare l'intelligenza, bisogna ricorrere in effetti a un metalivello inviolabile ma che, lungi dal situarsi dalla parte dello "hardware", trascende anche il "software". E' l'ipotesi di Dio. CONCLUSIONE. N. 1. Schwarzenberg, citato in Vacquin, 1990, p. 137. N. 2. Confronta in particolare Sloterdijk, 1987. N. 3. «Le Monde», 10 maggio 1990; confronta anche la «Revue du MAUSS», 1990, n. 9, dedicato alla socioeconomia. N. 4. Lo stesso ragionamento vale per la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, di cui pure parla Girard. N. 5. Confronta in proposito il capitolo 8 (sul bambino e il rocchetto di filo). N. 6. E' quel che i fisici chiamano lo studio delle transizioni di fase. «Quando si scalda un solido, l'aumento di energia ne fa vibrare le molecole. Esse tendono i loro legami e costringono la materia a dilatarsi. (...) A una temperatura e a una pressione particolari, questa variazione diventa improvvisamente discontinua (...). La struttura cristallina si dissolve e le molecole si allontanano le une dalle altre. Esse obbediscono alle leggi dei fluidi, leggi che non si possono dedurre da un esame del solido» (Gleick, 1989, p.p. 166 seg.). N. 7. Citato in Habermas, 1986, p. 62. N. 8. Da teorie come quella del "public choice". N. 9. Confronta in proposito Bugra, 1989. N. 10. Informazioni tratte dal telegiornale di Radio-Canada, 22 aprile 1985. N. 11. Confronta in proposito Campbell, 1988. N. 12. La particolarità degli inuit consiste nel fatto che non sono mai stati dominati. Sono stati dati loro denaro, case eccetera finché non hanno finito con l'interiorizzare questo modello e considerarsi disoccupati. Si sono fatti ingannare dolcemente, senza violenza, con il dono. N. 13. In modo diverso ma, ci sembra, complementare a quello di Bruno Latour, che analizza questa differenza a partire dal fatto scientifico (199I).

N. 14. Ritroviamo qui tutta la pertinenza della critica mossa a questa interpretazione dall'individualismo metodologico. N. 15. Citato in Jaspers, 1989, vol. 1, p. 139. N. 16. Sono addirittura sul punto di ridiventarlo, perché, secondo una recente inchiesta di «Le Nouvel Observateur» presso dei ricercatori del C.N.R.S., la proporzione di credenti sarebbe tra loro in aumento. N. 17. E anche i rapporti con gli animali: incapace di vedere lo spettacolo dell'uccisione di un animale (vitello, gallina eccetera) ma perfettamente in grado di sopportare il trattamento che gli ha fatto subire l'allevamento moderno, peggiore di quello che qualsiasi società ha mai fatto su questa scala a degli animali. Tutto ciò è perfettamente accettabile a condizione che resti nascosto, che se ne veda soltanto il risultato confezionato sotto plastica

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