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Italian Pages 231 Year 2023
Natalino Irti Lo Spettatore
Natalino Irti Lo Spettatore
Il Sole 24 ORE Progetto grafico copertina: Francesco Narracci
ISSN 977-1826380-300-20002 Le Guide del Sole 24 Ore Registrazione in Tribunale n. 542 - 08.07.05 Direttore responsabile: Fabio Tamburini Proprietario ed Editore: Il Sole 24 ORE S.p.A. Sede legale, redazione e direzione: Viale Sarca, 223 – 20126 Milano Mensile n. 2/2022 ISBN 979-12-5484-0955
© 2022 Il Sole 24 ORE S.p.A. Sede legale, redazione e amministrazione: Viale Sarca, 223 – 20126 Milano Per informazioni: Servizio Clienti 02.30300600 Fotocomposizione: Emmegi Group, via F. Confalonieri, 36 – 20124 Milano Prima edizione: Dicembre 2022
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Indice
Prefazione di Fabio Tamburini
IX
Gli occhiali del giurista e lo sguardo di Ortega y Gasset Domenica 10 Ottobre 2021
3
La politica fa i conti con eccezionalità ed emergenza Domenica 24 Ottobre 2021
7
Il movimento e la trasformazione in struttura Domenica 31 Ottobre 2021
9
Il politicamente corretto e la fatica di pensare Domenica 7 Novembre 2021
11
La virtù è un impegno della volontà, uno stile di vita Domenica 14 Novembre 2021
13
I politici e l’alto sentimento del diritto Domenica 21 Novembre 2021
15 III
Indice
Quando le parole che scuotono non arrivano Domenica 28 Novembre 2021
17
Buon Natale alla faccia di chi lo voleva cancellare Domenica 5 Dicembre 2021
21
L’Università vive nella continuità maestri-allievi Domenica 12 Dicembre 2021
25
Una lezione di Ratzinger, il consumismo e la manipolazione Domenica 19 Dicembre 2021
29
L’etica nell’economia tra eccessi e ipocrisie Domenica 2 Gennaio 2022
33
La stanchezza di obbedire a regole mutevoli e oscure Domenica 9 Gennaio 2022
37
Elogio dell’alleanza tra allievi e maestri Domenica 16 Gennaio 2022
41
Salviamo i libri dai roghi dell’oblio e dell’incuria Domenica 23 Gennaio 2022
45
In dialogo con il filosofo Domenica 30 Gennaio 2022
49
Esigenze spirituali e necessità tecnocratiche Domenica 6 Febbraio 2022 IV
51
Indice
Non ci può essere politica senza radici culturali Domenica 13 Febbraio 2022
55
Dalla politica nessuno può andarsene Domenica 20 Febbraio 2022
59
Gli intellettuali del Sud e la costruzione dell’Italia Domenica 27 Febbraio 2022
63
Alla perenne ricerca di un ordine Domenica 6 Marzo 2022
67
La musica e l’arte antidoti all’orrore della guerra Domenica 13 Marzo 2022
71
Gli sfollati tra presente e passato Domenica 20 Marzo 2022
75
Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria Domenica 27 Marzo 2022
79
Le tentazioni del conformismo piatto e decadente Domenica 3 Aprile 2022
83
Il diritto si misura con la potenza della tecnica Domenica 10 Aprile 2022
87
La lezione di de Gaulle e la figura dello statista Domenica 24 Aprile 2022
91
La Russia di Alessandro I, le piccole nazioni e l’oggi Domenica 1° Maggio 2022
95 V
Indice
Smascherare chi abusa della parola valore Domenica 8 Maggio 2022
99
Quando la sanzione è atto di forza e non di diritto Domenica 15 Maggio 2022
103
Scelte politiche e consapevolezza storica Domenica 22 Maggio 2022
107
I pericoli dell’ignoranza attiva Domenica 29 Maggio 2022
111
Non basta leggere, occorre rileggere Domenica 5 Giugno 2022
115
La gratitudine figlia della libertà Domenica 12 Giugno 2022
119
Il diritto di conoscere il padre Domenica 19 Giugno 2022
123
Tra pace e guerra non c’è una via di mezzo Domenica 26 Giugno 2022
127
Tenere la distanza è faticoso ma necessario Domenica 3 Luglio 2022
131
La riservatezza che guida l’agire dello statista Domenica 10 Luglio 2022
135
La storia è tramonto e nascita di ordini Domenica 17 Luglio 2022 VI
139
Indice
Il diario e l’importanza di dialogare con sé stessi Domenica 24 Luglio 2022
143
La nostalgia del villeggiare e la gabbia delle ferie Domenica 31 Luglio 2022
147
Le carceri e il dovere del rieducare Domenica 4 Settembre 2022
151
Il tramonto delle ideologie e la mancanza di ideali Domenica 11 Settembre 2022
155
Torniamo al lei: il tu è solo finzione di parità Domenica 18 Settembre 2022
159
Il Crocefisso sulla parete bianca Domenica 25 Settembre 2022
163
Elogio del dilettantismo che dà virtù alla politica Domenica 2 Ottobre 2022
167
Il ritorno della nazionalità Domenica 9 Ottobre 2022
171
Elogio dell’ironia, che è educativa e fa pensare Domenica 16 Ottobre 2022
175
Il rito della lezione e il sapere irrequieto Domenica 23 Ottobre 2022
179
La sovranità dei consumatori e il loro potere Domenica 30 Ottobre 2022
183 VII
Indice
La dolorosa lezione del morire in carcere Domenica 6 Novembre 2022
187
Elogio del nozionismo, garanzia del nostro sapere Domenica 13 Novembre 2022
191
Per una strada di Napoli ricordando Croce Domenica 20 Novembre 2022
195
Demoni nascosti nelle caverne e pronti a ridestarsi Domenica 27 Novembre 2022 199 Commiato dal vincolo domenicale, ma non è un addio 203
Domenica 4 Dicembre 2022
VIII
Prefazione di Fabio Tamburini
Avere convinto Natalino Irti, insigne giurista ma anche roccioso abruzzese, a tenere una rubrica sul Sole 24 Ore è una medaglia di cui vado fiero. E, in poche settimane, Lo Spettatore, pubblicato ogni domenica, è diventato un appuntamento atteso dai lettori perché è stato una unità sapiente di riflessioni critiche sull’attualità, dotti riferimenti al pensiero filosofico e giuridico, introspezioni dell’animo umano che scavano nel profondo di ognuno. Ciò è avvenuto lasciando all’autore quanto era stato pattuito inizialmente: autonomia e libertà assoluta. In alcuni passaggi, lo ammetto, è stato necessario superare qualche complessità. Ma ha sempre prevalso un atteggiamento condiviso: l’opposizione costante al pensiero unico, detestato sia dall’autore della rubrica, sia dal direttore del giornale. Questa raccolta ripropone le puntate de Lo Spettatore, che abbandona la cadenza settimanale, troppo impegnativa e vincolante, camicia troppo stretta per uno spirito libero come l’autore. Ho coltivato a lungo la tentazione di convincerlo a cambiare idea. Poi ho capito che non avevo speranza perché, come ho scritto domenica 4 dicembre nei saluti di ringraziamento e commiato, il vento non si ferma con le mani. C’è però una doppia consolazione: la pubblicazione di questa raccolta e, soprattutto, il fatto che Lo Spettatore continuerà a impreIX
Prefazione
ziosire le pagine del Sole 24 Ore, sia pure svincolato dalla cadenza settimanale. Conosco il professore da tanti anni. E posso dare testimonianza diretta che è, prima di tutto, un uomo libero, che ha sempre difeso con tenacia l’indipendenza di pensiero. L’episodio risale all’inizio degli anni Novanta, quando accettò di presentare il libro Un siciliano a Milano, pubblicato dalla Longanesi, biografia non autorizzata di Enrico Cuccia, che ha ricostruito la storia di Mediobanca al Circolo della stampa, a Milano. È un libro, diciamo così, particolare, perché scriverlo è stato un po’ come l’aver portato un cane in chiesa e al tempo, un tempo ormai lontano, anche solo parlando di Cuccia si faceva peccato. Irti, che era presidente del Credito italiano, una delle banche d’interesse nazionale dell’Iri di cui, sulla base di patti riservati, il controllato (Mediobanca) controllava i controllanti (le banche dell’Iri), confermò la partecipazione e fu puntuale all’appuntamento. Diciamo che non era scontato. Una delle criticità della nostra epoca, forse la maggiore, è la mancanza di leadership, non soltanto nella politica. In ogni campo il novero dei personaggi capaci di alzare lo sguardo oltre la quotidianità, di riflettere sulla vita, sul futuro del mondo, sulla necessità di scelte individuali e collettive adeguate diventa sempre più ristretto. Il professore fa eccezione e, tra gli scritti che trovate nel libro, mi fa particolare piacere ricordare la lezione dell’uomo in carcere, la pena come percorso di rieducazione e non come semplice punizione, il tramonto delle ideologie e il vuoto che hanno lasciato, il piacere e il dovere delle riletture, i pericoli dell’ignoranza, la necessità X
Prefazione
di salvare i libri e le biblioteche. Il tratto distintivo unisce cortesia, eleganza ma anche pensieri che assomigliano a colpi di mazza ferrata. Buona rilettura.
XI
Lo Spettatore*
* Sono conservati i titoli attribuiti dalla redazione del giornale.
Gli occhiali del giurista e lo sguardo di Ortega y Gasset
Questa rubrica, destinata ad accogliere pensieri domenicali (quando se ne dia occasione e gusto di scrittura), osa prender titolo dai saggi di un insigne filosofo spagnolo, José Ortega y Gasset. Il quale, in piccoli quaderni apparsi tra il 1916 e il 1934, fu “El Espectador” degli eventi più vari, capaci di destare curiosità e imporre riflessione. Ma non solo il titolo, poiché Ortega vi esprimeva il proprio rapporto con il mondo e la propria filosofia. È quasi passata in moda, o consuetudine di citazione, la frase «Io sono me stesso e la mia circostanza»: dove «circostanza» sta a indicare tutto ciò che ci è intorno, e ci avvolge, ed esige una nostra presa di posizione. Lo Spettatore guarda questo ricco mondo dal suo punto di vista: dalla sua «prospettiva», diceva Ortega. Lo guarda – è da chiarire – come da lontano, da una certa distanza, non già perché ne sia estraneo (anch’egli appartiene a quel mondo), ma nella tensione di capire i movimenti più nascosti, le forze storiche che lottano e corrono l’incognita del vincere o del soccombere. Il «prospettivismo» non è opaca e inerte neutralità, ma franca scelta di un punto di vista, di un angolo di osservazione, che permetta di abbracciare gli eventi, di sorprenderne la logica interna, e di misurarne l’energia distruttiva o costruttiva. Ha scritto Ortega in una delle pagine più 3
Lo Spettatore
nette e sicure: «Ogni vita è un punto di vista sull’universo. A rigore, ciò che essa vede non lo può vedere un’altra. Ogni individuo – persona, popolo, epoca – è un organo insostituibile per la conquista della verità. (...) Ciascun individuo è un punto di vista essenziale». I tempi, che il destino ha assegnati alla nostra vita, sono densi di eventi. La tecno-economia, ha planetaria coalizione fra tecnica ed economia, che Ortega poteva soltanto intravvedere (ma pur ne colse la immane potenza), domina la natura e la storia degli uomini. Si approntano difese del clima e dell’ambiente; si ridefinisce lo scopo dell’impresa, che si vorrebbe etica o sostenibile; si elevano «diritti umani» o «fondamentali» a protezione dell’uomo nella sua identità biologica; si prefigurano nuove forme di democrazia; si rimedita lo stesso concetto di libertà. Un addensarsi di problemi e interrogativi, che esigono, non solo sensibilità storica e volontà di governo politico, ma pure l’occhio degli spettatori, gli «amici del guardare», a cui si rivolgeva Ortega. Per guardare, cioè provare a capire ciò che accade o può accadere, è necessaria la fatica della distanza, del trarsi fuori dall’immediatezza delle cose, dello scorgere un senso d’insieme. La fatica è forse più agevole per il giurista (e tale è, e rimane, l’autore di questa colonnina): più agevole, poiché egli ragiona e argomenta in base a schemi normativi e criteri istituzionali; ma anche più ardua, poiché il suo sguardo deve slargarsi e toccare ambiti contigui o lontani della vita collettiva. Il giurista è come uno spettatore fornito di occhiali particolari, che illuminano alcune cose, ma altre (e sono 4
Gli occhiali del giurista e lo sguardodi Ortega y Gasset
la più parte) nascondono e velano di nebbia. Allora egli ha l’impegno di diradarla, e di spingersi, come può, fino all’estremo limite della propria comprensione, dove l’assenza di forma fa sospettare la minaccia del caos. Può dirsi spettatore delle “forme”, siano esse proprie di istituti già saldi e duraturi o soltanto labili emergenze e preannunci del domani: ma sempre “forme”, cioè fisionomie costruite dagli uomini per la necessità della convivenza. Il suo compito sta nello scoprirle o intuirle, e nel ridurle a quel tanto o poco di razionalità che i tempi concedono. Egli non propone né suggerisce, non consiglia né condanna, ma sta in vigile attesa. Domenica 10 Ottobre 2021
5
La politica fa i conti con eccezionalità ed emergenza
Se, come si insegna da eminenti filosofi, l’individuo si risolve nelle opere, che egli fa o concorre a fare, allora le cadenze anniversarie dovrebbero riguardare, non il semplice nascere e morire, ma poesie, romanzi, saggi di studio, e, insomma, tutte le orme lasciate dall’uomo nella vita materiale e spirituale. Nessuno ha rammentato il centenario di un grande libro di Carl Schmitt, La Dittatura (Die Diktatur), apparso nel 1921, e oggi tenuto per classico delle teorie politiche e giuridiche. Forse il silenzio nasce dalle cupe ombre, che si distendono sulla vita, o su tratti di vita, di Schmitt, e lo accompagnano anche nella tarda solitudine di Plettenberg. Il libro gravita (e duole di sciuparne qui la ricchezza argomentativa) sull’ardua distinzione fra “dittatura commissaria” e “dittatura sovrana”: l’una si svolge all’interno di un dato ordinamento, e lo difende e protegge; l’altra contrappone un diverso ordinamento, e dà mano per instaurarlo in luogo di quello in vigore. Schmitt trae la prima figura dalle fonti romane, dove il dictator è preposto, per preciso periodo di tempo, a un àmbito di attività, si scioglie da tutti i vincoli di decisione collegiale, ma pur depone ogni autorità dopo l’esaurimento dell’ufficio. È, questa, la figura consueta nella storia europea, che oggi si riaffaccia, sotto più amabile 7
Lo Spettatore
e innocente nome di “commissario”, in tutte le situazioni di “emergenza” o “eccezionalità”. Designano queste parole stati di cose assai diversi, poiché l’emergenza è evento interno alla normalità (la quale, come è ovvio, non è un quieto e sereno scorrere), mentre l’eccezione rompe la regola, e ferisce o schianta la normalità di un dato sistema. Il libro di Schmitt non poteva presagire forme di dittatura tecnocratica, al cui servizio si pongano economia e politica. Né distinguere, in questo nuovo e diverso orizzonte, gradi di costrizione fisica e spirituale, che serrino l’individuo nei luoghi di lavoro e nella stessa quotidianità di vita. Ma l’autore – incomparabile e controverso “spettatore” del secolo ventesimo – avvertì, nella prefazione alla quarta edizione del 1978, come ben poteva accadere che «taluni capitoli di questo libro appaiano in una luce del tutto nuova». Quella luce, che giunge ora dalle vicende mondiali degli ultimi anni. Domenica 24 Ottobre 2021
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Il movimento e la trasformazione in struttura
Le parole vanno interrogate e adoperate nella loro più intima profondità. Che spesso non è offerta dalla radice etimologica, ma dalla storicità dell’uso. Come è ovvio, le due prospettive possono congiungersi e affidarsi a un concorde significato. È agevole e spontaneo ricondurre “movimento” al muoversi, alla condizione di qualcosa che non se ne sta definita e ferma, ma si fa nell’agire e nel tempo. Questo “farsi” esprime sensibilità individuali e collettive, ascolta rumori del sottosuolo, enuncia e dissolve idee. Le sue forme visibili – raduni, convegni, sit-in simbolici ecc. – sono da osservare e capire: lo Spettatore vi trova il suo terreno d’elezione, il materiale del suo pervicace guardare. Gli occhi si fermano sulla “direzione” di così quotidiano e vivace agitarsi. “Verso dove” scorre il movimento? E quale consapevolezza ne guida e orienta i passi? La risposta a queste domande implica che il movimento abbia già dall’origine, o si dia in corso di tempo, una qualche struttura. Sociologi e storici hanno indagato il problematico rapporto fra i due fenomeni (essenziale, dopo pagine di Max Weber, rimane il saggio di Francesco Alberoni su Movimento e istituzione, datato 1977). Il movimento è gettato in un dilemma di vita: senza struttura, 9
Lo Spettatore
rischia di dissolversi e svanire nell’effimero; dotandosi di struttura, diventa “altro”, si irrigidisce e indurisce. La struttura – che sia partito o ordine religioso o istituto giuridico – ha il duplice volto della salvezza e della perdizione: un volto tuttavia necessario, poiché il movimento non basta a sé stesso, e reca dentro la vocazione a consolidarsi e a prendere una “forma” stabile e duratura. Regimi del Novecento, e anche di questo secolo, hanno provato a conservare il movimento accanto alla struttura, in modo da non privarsi di freschezza di idee e spontaneità d’animo. Queste ardue e rare esperienze svelano la gravità del conflitto e insieme la necessità della duplice garanzia, che non spenga la vitalità del movimento e insieme offra serietà e continuità della struttura. Sta alla minoranza direttiva di non dissipare l’originaria spontaneità del movimento e di farne una dotazione, la quale si rinnovi e cresca nel tempo: forse irregolare e scomposta, ma indispensabile per le fondamenta e gli scopi della struttura. Domenica 31 Ottobre 2021
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Il politicamente corretto e la fatica di pensare
Anche sugli studî giuridici, che dall’uomo comune si reputano rigorosi e austeri, aleggia la spensieratezza del “politicamente corretto”. Spensieratezza, cioè un liberarsi della fatica di pensare, un fatuo abbandono al conformismo. Così, a mano a mano, si determina una sorta di retorica, un uggioso reiterare di moduli argomentativi e linguistici in pagine di giuristi, docenti canuti e allievi servili. Primeggia fra essi la critica al “positivismo”, un bersaglio mai definito, lasciato in un’ombra di significati, che tutto può accogliere ed esprimere. Eppure lo scrupolo filologico, da cui dovrebbe muovere ogni serio argomentare, ci insegna che positivismo è la teoria (e la congiunta prospettiva di studio) di un diritto “posto”. Posto, come è nel nostro cammino terreno, da uomini per altri uomini: un “affare tra uomini”, direbbe Albert Camus, che risolvono da soli le questioni del loro convivere. Non riceviamo un diritto dall’esterno, né per benignità del cielo né dalle tenebre del sottosuolo, ma lo facciamo noi, è una nostra creatura, fragile e mutevole, caduca e imperfetta, come tutte le opere dell’uomo. Donde la nota di umiltà, che sempre accompagna la pagina del pensoso giurista, il quale conosce la solitudine del “porre” e il destino di precarietà delle leggi. 11
Lo Spettatore
Questa umiltà lo sospinge alla particolare concretezza delle norme, alla protezione istituzionale di scopi, che rimarrebbero utopie o sogni di visionarî, se non fossero calati nella positività delle leggi e nella efficacia del loro rigore. “Profeti disarmati”, ad usare la schietta e dura prosa di Machiavelli, coloro che elargiscono “diritti” all’umanità intera, e non si curano dei singoli individui nella determinatezza di situazioni storiche e sociali. O coloro, che disegnano piani mondiali, e non si abbassano alle indagini su Paesi lontani e civiltà straniere. Né convegni di Stati, né proclami di notabili, né vivaci agitazioni di piazza, né fresche passioni di adolescenti, possono tenere il luogo della concreta positività di leggi, che tutelino i diritti dei singoli e adottino garanzie di concreta applicazione. Diseducativa e ingannevole è la spensierata retorica dell’anti-positivismo: l’una, poiché riduce e sfiacca la volontà dell’uomo, teso a costruire il suo mondo terreno; l’altra, poiché illude e delude, promette e tradisce, e finge di donare ciò che, nella storia dell’umanità, è sempre conquista faticosa, risultato incerto e labile, approssimazione infinita e inappagata. Domenica 7 Novembre 2021
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La virtù è un impegno della volontà, uno stile di vita
Le quattro virtù cardinali, così denominate da Sant’Ambrogio, prudenza giustizia temperanza fortezza, segnano ancora la direzione del cammino. Tutte esigono il dominio di sé stessi, il governo di impulsi ed istinti, la misura dell’agire. Non c’è virtù senza codesta “misura”, la quale si faccia “norma” della vita e orienti la volontà. Soltanto così ci è dato di conciliare dottrine soggettivistiche e dottrine oggettivistiche: l’agire è deciso dal singolo, ma trova misura in un criterio di massima. La virtù non è perciò qualità di natura, elargita da non so che nume al tempo della nascita, ma impegno della volontà, capace di darci “fortezza”. Questo è l’autentico “cardine”, intorno a cui gravitano prudenza giustizia temperanza. La “fortezza” non si esprime e consuma in un atto, o in una serie di atti, ma conferisce all’individuo fisionomia e stile morale. Non si tratta di abitudine moralistica, di quell’occhiuto giudicare e condannare in cui si esercitano gli arroganti custodi della virtù, ma dello stile di coerenza e fedeltà a sé stessi. Onde ne nasca la fiducia altrui, la ragionata attesa della nostra condotta, la quale, nel suo obbedire al criterio prescelto, è sempre calcolabile, da amici e nemici, poiché “etiam hosti fides servanda”. La virtù, intesa come abito di vita, non è cosa che si prenda o si lasci a piacimento, perché ormai è la fisionomia morale di ciascun individuo. 13
Lo Spettatore
Anche fedeltà e coerenza appartengono, come è ovvio, all’animo umano, al suo oscuro abisso, e soggiacciono sempre a un destino di caduta. E la nostra volontà non può andare oltre i limiti dell’essere uomini, né scongiurarne le svolte e gli sviamenti. La “prudenza” riguarda anche le stesse virtù, e le accompagna nel loro tragitto terreno. Il quale può essere agevole e semplice, o travagliato e doloroso. Non sta a noi di deciderlo. A questo sommesso e dubbioso elogio della virtù individuale – che è abito nei rapporti con gli altri – vengono contrapposte le virtù civili, enunciate nelle comunità e nei regimi politici. Virtù, anche dette “repubblicane” in memoria dei giacobini di Parigi e della grande Rivoluzione. Sono virtù espressive di “appartenenze” e di vincoli storico-politici, legate al loro medesimo destino: e perciò durano quanto essi durano, e si estinguono con il loro esaurirsi. Le virtù civili non sostituiscono né aboliscono le antiche virtù cardinali, ma anzi le presuppongono e vi trovano ferma garanzia. Soltanto la fedeltà a sé stessi – la “fortezza” – può garantire anche la continuità dell’impegno politico e delle scelte individuali. Le virtù civili non stanno da sole, non si reggono di per sé, ma si appoggiano alla serietà morale dell’individuo. Si vuol dire, ancora una volta, che la virtù non è una qualità “naturale”, né si esercita per appartenenza a una comunità, ma è impegno con sé stessi e su sé stessi, sicché ne venga delineato uno stile di vita, capace di distinguere l’individuo e di definirlo nel rapporto con gli altri. Domenica 14 Novembre 2021 14
I politici e l’alto sentimento del diritto
Radi, nella nostra storia, gli uomini di governo, provvisti di alto e rigoroso sentimento del diritto (che non è – subito avverto – sentimento dei diritti). Non parlo di autentici giuristi, chiamati a uffici istituzionali, come il grande Alfredo Rocco, e Giovanni Leone, Antonio Segni, Francesco Cossiga; né di ministri, i quali si valgano di illustri collaboratori (rimane esemplare il caso di Dino Grandi, che, nei lavori preparatori per il nuovo codice di procedura civile, si giovò della triade accademica più autorevole: Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei, Enrico Redenti). Parlo di uomini di governo, a dir così, lontani dagli studi giuridici, e tuttavia presi nella necessità di tradurre programmi politici o piani economici nella concretezza di specifiche leggi. Poiché – è bene ribadire – la positività delle norme (che siano limpide nel testo ed esigue nel numero) è l’indispensabile strumento di qualsiasi politica economica e sociale. Soltanto così le scelte di governo, ossia la scelta di fini di una comunità in una data situazione storica, possono farsi orientatrici della convivenza. Anche gli ideali più alti, i disegni più ambiziosi, gli aneliti umanitari più evangelici; anche essi hanno bisogno di strumenti legali, cioè di tutela giudiziaria e di potere coercitivo. L’assenza o la debolezza di queste 15
Lo Spettatore
garanzie condanna le leggi, e idee e piani che vi si incorporino, allo scacco e all’impotenza. Perciò si rallegra il giurista quando legge nella prosa del bavarese Manfred Weber, parlamentare europeo: «L’Ue non è uno Stato e questo è chiaro, la Brexit lo ha dimostrato: un Paese se vuole può lasciare l’Unione, è un’unione di Stati sovrani che vogliono fare cose insieme. (…) Gli Stati membri decidono quali sono le competenze a livello europeo, condivido questa prospettiva e abbiamo bisogno di un controllo e bilanciamento reciproco». Ottimo esempio di uomo politico, che obbedisce al più concreto positivismo dei trattati, e si mostra alieno da emozioni e mitologie. Egli sa configurare l’Unione, non come fatto “irreversibile” della storia, ma come ente giuridico voluto da Stati, sovrani nell’aderire e sovrani nel ritrarsene, che rinunciano a regolare date materie, e così istituiscono le competenze degli organi europei. “Competenza” è la sfera, di cui gli Stati membri delegano la disciplina, ed alla quale, per vincolo di trattati, debbono sottostare. La sobria prosa del Weber riesce più educatrice e illuminante di solenni e mistiche professioni di fede. Anche sui temi europei abbiamo bisogno di asciutta razionalità. Domenica 21 Novembre 2021
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Quando le parole che scuotono non arrivano
«Non c’è la parola che scuote, ma soltanto suoni»: questa notazione diaristica del grande storico Leopold von Ranke risale al 1840. Ritorna oggi nella nostra memoria. “Scuote” la parola, che segna la direzione di un cammino collettivo, che anima le speranze di una generazione, che raccoglie il senso di un periodo politico-sociale. Ed essa viene da tutti ascoltata e capita, poiché da tutti è attesa. È proprio degli uomini di Stato, o dei capi di religioni, e dei “sismografi” (ossia degli “intellettuali”, in cui si specchiano i tempi), pronunciare le parole che “scuotono”: riassuntive e stimolanti, sobrie e incisive. Nessuna parola, negli ultimi anni, capace di “scuotere”. Eppure sono state e sono innumerevoli: scorrono, giorno per giorno, in opaca fluidità; si infittiscono e addensano in annunci, avvertimenti sanitarî, misure economiche, restrizioni di libertà. Ma rimangono, la più parte, soltanto “suoni”, voci disperse senza eco né traccia spirituale. Ne nasce, quasi per paradosso, un grave silenzio sui problemi decisivi e sulle domande fondamentali. Come l’ossessivo fluire di leggi si risolve in “a-nomia”, così la nebbiosa pioggia delle parole si converte nella durezza del silenzio. Volevamo risposte; eravamo in attesa di parole direttrici; tendevamo l’animo nell’ascolto più fiducioso. Ma non giunge la parola 17
Lo Spettatore
che scuote. La situazione storica la esigerebbe e imporrebbe. I giovani, che affollano piazze e occupano scuole e abitano le notti delle nostre città, vivono in questa interiore solitudine, poiché – si è già detto – lo scorrere inespressivo delle parole si traduce in assenza, in abbandono a sé stessi. E ciascuno cerca e trova dentro di sé, o si ritira nel vincolo protettivo, e quasi fisico, della generazione. Tornano i vecchi e i giovani, i padri e i figli, dei grandi romanzi russi. La “generazione” conferisce senso e scopo: non è soltanto appartenenza anagrafica, “coetaneità”, ma un sentire comune e un sentirsi insieme. E questo esprime parole direttive e stati d’animo, che riempiono il silenzio e il vuoto. La generazione si agita; sorgono movimenti, duraturi o effimeri; si utilizzano bandiere sanitarie come schermi; dilaga la sfiducia nelle istituzioni rappresentative e nell’esercizio del voto. Le parole che “scuotono” servono alla causa della democrazia, poiché suscitano convincimenti o miti politici, e restituiscono fiducia negli atti di partecipazione. La democrazia può nascere soltanto su un terreno di pensieri ed emozioni e passioni, da cui il singolo sia sospinto a uscire fuori di sé, a rompere la propria solitudine e sottrarsi allo stretto nodo della generazione: che poi è un entrare nel circolo più vasto della società politica. Il “farsi parte” è vivere accanto agli altri in una comunità di destino, e così assumere le scelte, che imprimono forma e contenuto a un’epoca storica o ad un arco di anni. Mentre la generazione stringe in vincoli precarî, e, come tale, è destinata a esaurirsi e a divenire “passato”, la cit18
Quando le parole che scuotono non arrivano
tadinanza democratica sa guardare più lontano e progetta le vie del domani. Soltanto le parole che “scuotono” sono in grado di ridestarla e animarla. Domenica 28 Novembre 2021
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Buon Natale alla faccia di chi lo voleva cancellare
Lo zelo impiegatizio, ebbro di mitologia europea, ha proposto di abrogare il “Buon Natale”, e di sostituire “periodo natalizio” con “periodo di vacanza”. L’episodio è di sconcertante gravità. C’è, in primo luogo, la idea (ma sembra di sciupare questa parola), che la lingua sia un “manufatto”, una qualsiasi merce producibile con “direttive” o “regolamenti” europei. E che, come si dettano regole per confetture domestiche o generi alimentari, del pari le lingue possano ridursi a tipi rigidi, fruibili da tutti e in qualsiasi luogo del mondo. Ma la lingua – che non sia nomenclatura tecnica – ha sempre caratteri di storicità: è legata a un luogo, a un tempo, ad una comunità di individui. I quali, nel loro reciproco parlare e intendersi, attingono alla comune dotazione linguistica. Allo stesso canone di storicità si riconducono frasi augurali e saluti del calendario festivo. La pretesa di piena “inclusività” di lingue e costumi dialogici ha uno sfondo di frigida insensibilità storica e di totale rifiuto del passato. Così, il “Buon Natale” ha radici profonde nella spiritualità europea, espressa nel tempo attraverso opere di ingegno e di fantasia. È un saluto augurale denso di passato comune, che stringe insieme gli uomini e li fa partecipi di uno stesso pa21
Lo Spettatore
trimonio culturale. Qui non è problema di laicità, o di professione di fede religiosa, ma soltanto di appartenenza storica, quale si è definita e consolidata nel corso dei secoli. La negazione del passato non rientra tra i poteri della burocrazia europea, che non ha “competenza” (in molteplici sensi) di cancellare la storia delle arti e della poesia. Nella proposta di adottare “periodo di vacanza” non vibra la gioiosa attesa di un evento, che ha segnato di per sé la storia del mondo, ma la banale antitesi fra il tempo del lavoro e il tempo “libero”. Che è, a ben vedere, un giudizio severo sul lavoro, sul tempo vissuto dall’uomo nel costruire la propria vita terrena. La “vacanza”, posta in antitesi al lavoro, evoca il puro vuoto, uno spazio da riempire in qualche modo e da trascorrere in “libertà”. Quasi che l’autenticità dell’esistenza non si esprima nel lavoro e nelle opere dovute alla umana fatica. Le due proposte, da cui ha preso spunto questa amara e desolata riflessione, rivelano, non tanto la “ignoranza attiva” già denunciata da Goethe, quanto l’aridità di una concezione a-storica della lingua e dei costumi umani. A-storica, poiché ignora l’essenza delle lingue, nelle quali si depongono il passato di popoli interi, loro fedi religiose e vicende politiche, loro filosofie e credenze. Quella proposta non “include” nessuno, ma “esclude” tutti, poiché “tutti” non è l’algida omogeneità delle merci o del danaro, ma la unità della molteplice storia umana, varia per i singoli cammini, e forte proprio di una infinita mutevolezza. Le proposte “natalizie” non hanno reso un buon servi22
Buon Natale alla faccia di chi lo voleva cancellare
gio alla serietà delle decisioni europee ed alla fisionomia culturale dell’Unione. Lo Spettatore continuerà a usare, con animo lieto, le antiche forme di saluto augurale. Domenica 5 Dicembre 2021
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L’Università vive nella continuità maestri-allievi
Giorgio Parisi ha dedicato il premio Nobel al suo maestro Nicola Cabibbo, eminente fisico vissuto tra il 1935 e il 2010. Il gesto, di nobile significato morale e scientifico, solleva un grave interrogativo: chi è il maestro? Maestro, da “magister”, è colui che sa e sta “oltre”: ci fu insegnato, in anni lontani, troppo lontani e come impalliditi, che “magis” indica superiorità qualitativa, e “plus” quantitativa. E perciò qui usiamo “oltre” o anche “più” in quel senso ricco e pregnante. Ma non basta che il maestro sappia, è pur necessario che egli riveli e sparga questo suo maggior sapere: e lo esprima nel fare le cose, nel creare opere, e, sovratutto, nell’offrirlo agli allievi. Il maestro è, nella sua propria essenza, un donatore, un seminatore nei solchi dell’umanità, in una cerchia, vasta o angusta, di individui che ascoltano e trattengono le sue parole. Alla figura del maestro si congiunge il “docere”, l’insegnare e proporre ad altri. Il maestro, come si legge nel Vangelo di Matteo, sempre vuole con sé, e sempre prescrive “Sequere me”. Un motto di D’Annunzio, di quelli misteriosi che si sospettano di vitalismo o sensualismo, recita «Io ho quel che ho donato», ed è espressivo del rapporto tra maestro e allievi. L’uno dona, e, in questo atto di generosa e aper25
Lo Spettatore
ta liberalità, raggiunge il proprio ambìto “avere”. Non c’è altro corrispettivo di un tale possesso dell’animo. Sembra una perdita, ed invece ritorna al donante, e lo fa più ricco ed umano. Sul rapporto tra maestro e allievo, come si formavano grandi scuole di pittura e di ogni arte figurativa, al modo stesso si edificavano le genealogie universitarie. “Edificavano”, giacché la visione dell’oggi sospinge verso il passato, o verso un ritorno futuro. L’Università o si costruisce nella catena ininterrotta di maestri e allievi, che a loro volta si sollevano a maestri, e così nell’arco dei secoli, o non è. Possono ben darsi scuole di “saper fare”, di abilità tecniche, di capacità organizzative e direttive, di talenti professionali; ma non Università. La quale vive e prosegue nella continuità di maestri e allievi: questi, bensì impazienti di autonomia e cercatori di nuove strade, ma recanti il segno dei maestri. Allievi, degni del maestro, in cui questi si riconosce e rinasce, non sono i servili ripetitori, gli infecondi depositarî di schemi e formulette, i fatui “superatori”, ma gli scolari dallo sguardo acuminato, fattisi seminatori per altre generazioni. Quante volte lo scolaro, che pure percorra altre vie e si discosti dalla lezione appresa nelle aule universitarie, avverte una movenza di studio, un giro di frasi, un ritmo argomentativo, in cui ritrova il metodo del maestro, la voce del vecchio insegnante. Che così continua a donare, e si rallegra – dovunque egli sia – che il dono è ben custodito e fruttifica nel tempo. La unità di maestro ed allievo non sta nell’estrinseco concordare su uno od altro tema, su una od altra soluzione di problemi, ma – a dirla con Goethe – nel «procedere 26
L’Università vive nella continuità maestri-allievi
nello stesso senso»: che è un andare insieme nella diversità dei caratteri e nella feconda molteplicità delle vite individuali. Domenica 12 Dicembre 2021
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Una lezione di Ratzinger, il consumismo e la manipolazione
Produzione e consumo governano la nostra vita. O, meglio, la vita stessa è divenuta un “prodotto”: il nascere e il morire, che un tempo “capitavano”, cioè accadevano nella naturalità degli eventi, sono caduti sotto il domino della tecnica. Già intorno al 1970, Joseph Ratzinger, allora professore di Teologia nell’Università di Tubinga, avvertiva, con modernissima e schietta sensibilità, la radicale «manipolabilità dell’uomo». Il quale è producibile tra gli altri innumeri producibili. Il nascere rientra nelle tecniche della produzione; il morire, anch’esso, si affaccia alla volontà dell’uomo e alle sue decisioni. Il fare dell’uomo sta al centro dell’universo: sciolto ormai da ogni rapporto ultraterreno, tutto dispiegato nella sua solitaria capacità produttiva. La diagnosi di Ratzinger, che aveva tono di dolorosa descrizione, e innalzava di contro alla tecnica la verità della fede e la certezza del credere, giova a illuminare anche altri àmbiti. Nel diritto, le norme sono “prodotte”: le officine parlamentari non conoscono sosta; e ne viene un fluire di leggi, destinate a morire in breve arco di tempo. Nascono e muoiono; sorgono dal nulla e ritornano nel nulla: così predicava ai giuristi Emanuele Severino. Quando si additano a pubblica condanna i 29
Lo Spettatore
“nichilisti”, o tali vengono sospettati taluni severi studiosi, si dimentica che il nichilismo, questo ignorare il “da dove” e il “verso dove”, è tutt’uno con l’idea di “manipolabilità” delle cose e degli uomini. Quotidiano e ossessivo è il consumo di norme, che si spingono a regolare salute dei singoli, rapporti di famiglia, esercizio di attività economiche. Da per tutto si invocano “regole”, e queste sono emanate consumate sostituite. Il ritmo del consumo è così intenso che i singoli atti si spengono subito nell’oblio. La dimenticanza afferra e avvolge la catena dei consumi, sicché, già nel primo mattino di ogni giorno, si attendono altre notizie, altre immagini, altre merci, altre norme ecc. La dimenticanza, rubandoci o soffocando il passato, ci stringe e ingabbia nel presente, ossia nell’oggi dei consumi quotidiani. E perciò l’individuo, sempre insoddisfatto e avido, trascorre di merce in merce, e tutto riduce a bene consumabile: così si stabilisce una immane correlazione fra il produrre e consumare, e l’uno sospinge e stimola l’altro. Che cosa può resistere al processo di mercificazione, e quindi ripristinare la stabilità della vita individuale, e scoprire il significato del nostro cammino? Intorno a questa domanda si affannano uomini di pensiero e d’azione, giovani e vecchi; ma non giunge, né può giungere, la risposta, poiché tutti siamo immersi nel nostro tempo, e nessuno è in grado di trarsene fuori e di assumere la distanza del giudizio. Nessuno è propriamente “spettatore”, ed anche chi prova ad esserlo, chi vi impegna le energie più intime, appartiene all’epoca e concorre nel costruirne la fisionomia. 30
Una lezione di Ratzinger, il consumismo e la manipolazione
Slegarsi da questo presente è come separarsi da sé stessi. Che è sogno e illusione. Domenica 19 Dicembre 2021
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L’etica nell’economia tra eccessi e ipocrisie
Lo storico futuro, che volgerà lo sguardo sul nostro tempo, e ne raccoglierà tracce e documenti, si stupirà del primato di una parola, che domina l’attività bancaria, l’esercizio delle imprese, le ardite applicazioni tecnologiche, e quasi ogni ambito di vita. È la parola “etica”, e gli aggettivi e verbi che ne derivano o vi si riconducono. E a quello storico sembrerà di entrare in un’epoca severa e rigorosa, di dura moralità, di condotte irreprensibili. E ne trarrà giudizio di ammirazione e sospiro di nostalgia. Ma, spinta che sia l’indagine alle statistiche criminali e alle vicende giudiziarie; al corso dei mercati e ai rapporti tra classi sociali; lo stupore si farà più cauto e guardingo. Che forse le banche “etiche” si abbandonano alla generosità del dono, e rinunciano a percepire interessi? E le imprese “etiche” non sono più destinate a conseguire profitti? E i distanti ceti sociali si ritrovano nel medesimo grado di “benessere”? No, registrerà, tra disilluso e rassegnato, lo storico di domani. Ciascuna istituzione o struttura è sempre volta a raggiungere lo scopo originario, quel fine che la conforma e ne stabilisce l’identità. Esse sono state concepite e costruite per raggiungere taluni risultati tecnici o economici e da questi non possono essere disgiunte se 33
Lo Spettatore
non a condizione di diventare “altro da sé”. Ma di questa conversione, di un tale salvifico rovesciamento, non c’è segno. Assumere uno scopo diverso significa anche correggere o modificare la struttura: il “perché” condiziona e determina il “come”. Certo, sopraggiungono regole di diritto e minaccia di sanzioni, che fissano limiti e divieti; ma sono, appunto, regole di diritto, le quali non “eticizzano”, ma piuttosto “giuridicizzano” profili di quelle strutture e istituzioni. Mai ne toccano il fine originario, la destinazione segnata nella storia del moderno capitalismo. Ed allora perché nobilitare norme giuridiche, emanate dal potere egemone e dal gruppo governante, sotto il nome di “etica”, quasi a evocare un ordine superiore, un insieme di imperativi categorici, o spontanei nella coscienza umana o dettati da un’autorità ultra-positiva? Le regole di diritto vanno accolte per quel che sono: precetti di fare o non fare, provvisti di sanzioni. Bisogna restituire serietà e sobrietà alle parole, e stringerle al loro autentico significato. Uomini e istituzioni, che si nobilitano nell’“etica” o si esaltano nel culto dei “valori” (quei “valori”, che essi scelgono, ed al cui servizio piegano le loro volontà), vanno, per dir così, ricondotti alla misura storica e intesi nella dimensione della “realtà effettuale”. Che, nel suo proprio svolgimento, conosce da sempre ideali e sogni, vittorie e cadute, altezze e abissi. La storia umana rifiuta veli di pudicizia, e rimane per i secoli identica a sé stessa: mutevole bensì nelle forme, nei modi organizzativi, nei fini perseguiti, ma perenne nel suo cammino di gioie e di dolori, di rara felicità (sono, a giudizio del grande Leopold von Ranke, le pagine non scritte) e di inattese cata34
L’etica nell’economia tra eccessi e ipocrisie
strofi. Questa è la concreta ed effettiva realtà, che prova fastidio e sdegno per le quotidiane ipocrisie dell’“etica” e per l’innalzamento di qualsiasi scopo al cielo dei “valori”. Domenica 2 Gennaio 2022
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La stanchezza di obbedire a regole mutevoli e oscure
Obbedire stanca. Non l’obbedire a comandi, che giungano entro un ordine, laico o religioso, in cui abbiamo deciso di svolgere la vita. Allora il comando è accolto nell’animo come nostro, e la volontà vi presta convinta osservanza. Ci riconosciamo in esso, lo consideriamo legittimo e necessario: legittimo, poiché deriva da un’autorità scelta per principio di convivenza; necessario, poiché dà risposta a problemi avvertiti dalla collettività. Questa obbedienza non è costrizione, ma esercizio di libertà, adempimento di un dovere assunto come uomini tra uomini. È ben vero che le norme straripano dai confini dei codici, i quali hanno provato a raccoglierle e sistemarle, ma le fondamentali e primarie sono percepite e obbedite per una sorta di spontanea adesione. Si frantumano, si disperdono in rami speciali e periferici, diventano sempre più minute, assumono carattere di prescrizioni tecniche, ma pur riescono a governare la quotidianità dei rapporti e dei commerci. Il virus, nemico invisibile degli ultimi due anni, specie che sentiamo in lotta con la specie umana (sicché l’acuto filosofo Pietro Rossi ha discorso di conflitto tra le specie, e non più tra le classi sociali), questo ente misterioso e astuto ha suscitato, e va suscitando, una incessante pro37
Lo Spettatore
duzione di norme. Prescrizioni sanitarie, governative, regionali, comunali; pareri di innumeri virologi, quali in Italia non erano immaginabili; oscure statistiche di morbi e funeste cifre di morti; ed ogni giorno, un’ossessiva fiumana, che ci stringe e avvolge. Qui il cittadino ha la disperazione del trovare e capire la regola della propria condotta. Del trovare, giacché non gli si porge netta e sicura, precisa e limpida, ma esige un affanno di ricerca, uno scovarla tra categorie anagrafiche e varietà di tempi e luoghi. E poi c’è il capirla, l’intenderla nel testo letterale e negli scopi perseguiti, il raccordarla con le anteriori e accertarla vigente o abrogata. Ne nasce un’intima stanchezza, un sentirsi ormai incapaci di trovare la regola, e perciò un’angosciosa solitudine, che si afferra alla nuda fisicità del corpo. Il grande Tucidide, nelle pagine immortali sulla peste di Atene, narra la tragedia dell’“anomia”, di un’assenza di norme che sospinge l’uomo in sé stesso e lo scioglie da ogni vincolo collettivo. Ad esito simile conduce la stanchezza dell’obbedire. La esausta capacità di trovare e capire la regola si converte in cupa difesa del proprio corpo, in rottura dei rapporti sociali e nel rifiuto dell’ascolto. Perché ascoltare, se le prescrizioni sono mutevoli e oscure, e non segnano un lucido e fermo cammino? Ogni società è una comunità di ascoltatori; il ritrarsi spezza il legame della reciprocità. Ciascun individuo si stringe a sé, tremulo nella scelta dei farmaci, sensibile a profezie stregonesche, docile a immaginazioni di congiure economico-sanitarie. La solitudine è una triste officina di sentimenti, paure, sospetti, ansietà. Non la solitudine del lavoro spiri38
La stanchezza di obbedire a regole mutevoli e oscure
tuale, delle letture fedeli e consolatorie, ma la disperata solitudine, che nasce dall’inutile fatica dell’ascolto, dal silenzio (perché silenzio è anche lo stridio delle prescrizioni quotidiane), dallo stare lontano l’uno dall’altro. La stanchezza ci ricongiunge e identifica con la fragile fisicità del corpo, che così descrive il nostro orizzonte e indica l’estrema speranza. Domenica 9 Gennaio 2022
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Elogio dell’alleanza tra allievi e maestri
Non è il consueto pensiero domenicale, ma piuttosto la celebrazione di un libro, giunto a cinquanta edizioni; libro, caro fin dagli anni remoti della giovinezza: le Istituzioni di diritto civile di Alberto Trabucchi, ora curato, con affettuosa devozione e consonante metodo, dal figlio Giuseppe. Sempre per i nitidi caratteri della vecchia Cedam. La “premessa” alla prima edizione reca: «Venezia, Pasqua del 1943». Appena entrato in vigore il nuovo Codice civile; oscura e dolorosa la tempesta della guerra; incerto il cammino politico del nostro Paese. Alberto Trabucchi, allora sui trentacinque anni, raccoglie le lezioni svolte ai «volenterosi e vivaci studenti di questa Ca’ Foscari, che ospita giovani eccellenti di molte regioni d’Italia». Libro, nato dalla scuola e concepito per la scuola, ma, come è destino delle pagine che attraversano il tempo, venuto ad allargarsi e arricchirsi: dapprima per mano dell’autore, poi con il contributo dei preziosi custodi e prosecutori. E così il manuale, pensato e dettato sulla laguna, assume fisionomia e prestigio di un “classico”. Una chiarezza assoluta, che talvolta cede (o cedeva) al bonario e all’ironico, su un ordito di alta dottrina e rigore concettuale. Nulla di banalmente divulgativo, nulla di volgare 41
Lo Spettatore
ed empirico. I giovani allievi o lettori sono messi dinanzi alla scienza del diritto, che è scienza, e non pratica mercantile o mistica intuizione, soltanto se viene costruita sul terreno del diritto positivo e ridotta a sistema di concetti. Altro modo di pensare non è dato all’autentico giurista. Fra le pagine del libro sembra di scorgere il volto sereno e saggio di Alberto Trabucchi, il quale ebbe ufficî pubblici di alto rilievo, ma si tenne sempre fedele all’immagine di maestro universitario. Quando si scorrono i trenta nomi di allievi, che «hanno contribuito all’aggiornamento del Manuale», si avverte il caldo sentimento di una scuola: sintesi di tempi diversi, linea continua tra l’oggi e l’ieri, voci l’una all’altra congiunte in coerenza di metodo e di vocazione. Come famosi dipinti si attribuiscono a scuole o botteghe di grandi artisti, e se ne scoprono e accertano il tratto del disegno o i colori delle figurazioni, così è dei libri di scienza, sui quali è impressa l’orma di una scuola. Ciascun autore esprime e rivela sé stesso, e protegge la propria autonomia e libertà di pensiero, ma – per dirla con un motto di Goethe, altra volta rammentato – camminano nello stesso senso. Non percorrono vie opposte e contrastanti, ma la vecchia strada, che, nella sua lastricata saldezza, tocca nuovi paesi e si affaccia su nuove pianure. I giovani, formatisi sul «Trabucchi», o su altri rari classici, non abbandonano il libro dopo la prova d’esame, quasi oggetto o strumento ormai disutile, ma lo conservano con intima affezione: è parte della nostra vita, ne rileggiamo le pagine, ne risentiamo nella memoria le frasi più nette e incisive. Si crede a torto che questa gelosa custodia riguardi sol42
Elogio dell’alleanza tra allievi e maestri
tanto manuali o antologie letterarie, a cui spesso ci rivolgiamo per conforto o consiglio dell’animo, ma non diverso è il rapporto con opere di scienza, che hanno lasciato traccia di modi logici e schemi argomentativi. Amava Leonardo definirsi «omo sanza lettere», e chiamava unica maestra la «sperientia», la quale prende forma diversa nelle singole discipline ed è racchiusa nei libri di fisici, chimici, ed altri studiosi della natura. Ma libri di scienza sono, come di sopra si è avvertito, anche i libri giuridici, nei quali si raccoglie la concreta «sperientia» delle leggi. E dunque a essi, e alle Istituzioni cinquantenni del Trabucchi, si rivolge il nostro pensiero e pone ancora le ardue domande sulla convivenza. Nascosto, per dir così, dietro il genetliaco di un libro, questa meditazione domenicale ricanta l’elogio della scuola, e la feconda continuità, che stringe antichi o vecchi maestri e allievi capaci di sciogliersi dai lacci del presente, di guardare indietro e di trarre energie e incitamento dal passato. Domenica 16 Gennaio 2022
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Salviamo i libri dai roghi dell’oblio e dell’incuria
Che ne sarà dei nostri libri, di questi taciti e fedeli amici, che – basta un gesto della mano – ci vengono accanto nelle ore liete e dolorose della vita? La rete telematica ha preso il luogo dei libri cartacei: in aziende economiche, studî professionali, ricerche di singoli studiosi, indagini scientifiche; in breve, dovunque vi sia bisogno di una memoria del passato. E poi incalza il problema dello spazio, di abitazioni ristrette e sobrie, di costumi di vita che si svolgono in ambiti più limitati. Tutto nel nostro tempo congiura contro le biblioteche larghe e distese sulle pareti, divise in scansie e fondi, poste nel piano nobile di palazzi o nella sala centrale d’una casa borghese. Ora, già in vita, lo studioso e l’amatore si danno pena per il domani, e progettano soluzioni di atti liberali o lasciti testamentarî. Ma anche Università, e altre istituzioni di cultura, sono sovente costrette al rifiuto, a non esaudire desideri e propositi. Alcuni anni or sono Nino Aragno, figura nobile e generosa fra gli editori italiani, e familiare con grandi biblioteche, propose che un castello piemontese potesse ricevere e salvare cospicue raccolte e fondi speciali. La proposta non trovò attuazione, ma pur rimane come segno di un problema che attende soluzione. Su questa linea è forse immaginabile non so quale pubbli45
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co luogo, castelli o palazzi di varie regioni e città, che accettino donazioni e lasciti testamentari provvedendo alla razionale sistemazione dei libri. Non una triste fossa comune, ma una biblioteca nazionale, che impedisca la dispersione di raccolte e il destino sui bouquinistes lungo le rive dei nostri fiumi. È che la biblioteca di uno studioso non è semplice somma di volumi, ma, anch’essa, nel suo costituirsi ed espandersi, opera di cultura individuale, recando traccia del cammino dell’autore, e di suoi gusti e fonti, rifiuti e predilezioni. È il suo volto rispecchiato nella scelta e composizione della biblioteca: non passivo e materiale strumento, ma persona partecipe dello stesso viaggio. La storia europea ha conosciuto roghi di libri, e ancora rammemora le cupe immagini e le sacrileghe fiaccolate del 10 maggio 1933. Ma parimenti grave e distruttivo sarebbe il rogo decretato, per incuria o abbandono o fisica rovina, dalla rete telematica e dalla scarsezza di spazio. Se non un “FAI del libro”, concepito o idealmente vagheggiato da Nino Aragno, ben si potrebbe istituire un luogo di raccolta, adibito a ricevere, scegliere, conservare i libri, non solo di grandi studiosi e celebri casate, ma anche di quella borghesia a cui è cara la custodia di vecchie edizioni o opere legate a stagioni della vita. Distruggere libri, in uno dei diversi roghi che l’uomo può accendere nella propria storia, significa cancellare epoche culturali, “far pulizia” di scelte individuali e collettive. Castelli e palazzi, in cui sarebbero riunite le biblioteche di tutte le classi sociali, si staglierebbero all’orizzonte come forzieri e custodi di civiltà. Le biblioteche, anche più umili e modeste, composte di pochi volumi (che non 46
Salviamo i libri dai roghi dell’oblio e dell’incuria
siano semplici oggetti decorativi) o di estese enciclopedie, raccontano la storia di individui e famiglie, dal primo e timido avvicinarsi alla cultura fino alla piena maturità delle scelte. Sono spesso cammini ardui e faticosi, in cui il libro figura come simbolo di un’attesa sociale o di una meta raggiunta. Queste storie non possono andare disperse o distrutte: sarebbe un rogo più crudele e triste di ogni altro. Dietro ogni libro c’è un frammento d’umanità. Domenica 23 Gennaio 2022
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In dialogo con il filosofo
“Lo Spettatore” è chiamato in dialogo da un filosofo illustre, Biagio de Giovanni, che, con generosi accenti d’amicizia, così scrive da Napoli: «Ti leggo sempre nei piccoli elzeviri, sei diventato la prima lettura domenicale. E ricavo sempre più l’impressione che il tema che unitariamente sollevi è quello che molti di noi avvertiamo con reazioni diverse, provo a dirla così: La fine del mondo che abbiamo conosciuto, e anzi “conosciuto” è poco, parola, “conoscere”, che uso poco anche in filosofia; il mondo dove siamo “stati”, il mondo che siamo noi e che continua a vivere, come memoria viva, in un mondo “altro”, un contrasto irrimediabile non solo perché anche noi “diventiamo” quel mondo, ma perché, nel diventarlo, abbiamo sofferenza, viviamo una vita dimezzata, sofferenza che ormai fatica a tradursi in pensiero, e quasi oggi mi sembra che il nostro Severino è stato il filosofo che più di ogni altro ha capito questo, e si è in qualche modo rifugiato nell’eterno, ma riuscendo ad abitarlo sempre e solo come una promessa». C’è, di certo, unità nelle sobrie prose della domenica: l’unità di chi, affacciandosi sulle vicende quotidiane, prova a coglierne temi ed a ricondurli in una sua prospettiva. Non tanto li registra e narra, quanto scruta e interroga. Questo interpretare non sfugge alla dolente antitesi tra il mondo di ieri, vissuto e custodito nella 49
Lo Spettatore
memoria, mondo dove “siamo stati”, e un mondo “altro”, che ci è dintorno e chiede di essere capito. Ne nascono la sofferenza interiore e la fatica del pensiero, che Biagio de Giovanni esprime con rara efficacia di parola, ed anche la tentazione severiniana di «rifugiarsi nell’eterno» (che è però abitabile «sempre e solo come una promessa»). Ma – notiamo alla dialogante cortesia dell’amico – già nello scrivere i «piccoli elzeviri» domenicali, c’è un andar oltre l’immediata sofferenza dell’antitesi, un vederla a distanza, con la vigilata curiosità, appunto, di uno “spettatore”. La distanza stempera il rapporto con il mondo “altro”: non lo esclude e annebbia, ma ne pone in risalto caratteri simili o inattese connessioni. “Conoscere” forse non basta, e ne traiamo sempre un che di amaro e doloroso; eppure esso appresta, per dir così, un “rifugio” terreno e determinato. Si ha la consolatoria impressione di “stare” nella storia. Emanuele Severino, che fu grande e comune interlocutore, additava una strada non caduca e non precaria, ma tale da esigere una scelta ardua e definitiva. Una scelta che i dialoganti non hanno compiuto. Intorno a Biagio de Giovanni, festeggiante il novantesimo genetliaco, ci si trovò raccolti il 6 dicembre 2021 nel napoletano Palazzo Filomarino, offrendogli un “Libro degli amici” (edito dalla raffinata Bibliopolis), che reca testimonianze di estrema e affettuosa stima (da Giorgio Napolitano a Ciliberto, da Cacciari a Esposito). Lo Spettatore vorrebbe oggi aggiungervi un’altra piccola pagina. Domenica 30 Gennaio 2022 50
Esigenze spirituali e necessità tecnocratiche
Si affollano i centenari (1922 – 2022): politici, letterari, filosofi e così via. La memoria, individuale e collettiva, ha bisogno di questa periodicità: opere e figure sono già dentro la coscienza, ma le date ne risvegliano la fisionomia, le richiamano in superficie, le isolano e fermano nell’attenzione. Esse già ci appartengono, ma rese tacite dal tempo, come in un angolo d’ombra da cui la scansione cronologica le trae e illumina. L’intervallo trascorso permette che lo sguardo misuri l’efficacia delle singole opere, consideri le letture già svolte e gli effetti lasciati nella storia generale o nelle storie di discipline speciali. Questi “effetti” – ai quali le moderne teorie ermeneutiche riservano grande rilievo – mostrano come l’opera sia inserita in una tradizione di pensiero, ne abbia segnato una svolta, o promosso una revisione critica. Ed essa perciò non ci giunge con la nudità dell’origine, spoglia dei rapporti interpretativi svolti nel tempo, ma carica di questa insopprimibile storicità, di una densità di dialoghi intrecciati nel tempo. Pensieri, questi ora accennati, che suscita il saggio di Walther Rathenau, Meccanica dello spirito (1913), ora volto in italiano per la sensibile cura di Vincenzo Pinto, a cui hanno dato accoglienza le fervide e sagaci edizioni di Nino Aragno. Rathenau, caduto il 24 giugno 1922 per 51
Lo Spettatore
mano di terroristi di estrema destra: di quei “coscritti”, che saranno evocati nel fascinoso e torbido libro di Ernst von Salomon. La figura di Rathenau, suscitatrice di fini pagine fra gli studiosi italiani (da Luzzatto a Villari, da Racinaro a Cacciari), torna nel centenario come simbolo della coscienza più profonda e inquieta del capitalismo, di un’ansia di vedere oltre la razionalità organizzatrice della moderna impresa. Si direbbe da taluni, presi dal personaggio narrativo di Paul Arnheim in cui il Musil di L’uomo senza qualità raffigura Rathenau, un lusso della coscienza, che svaga dalla gestione di grandi imprese elettriche alle preziose sfumature della sensibilità. Si direbbe, ma con qualche rischio di errore e di angustia interpretativa, poiché Rathenau, teorico della nuova economia e di una diversa forma di Stato, esprime l’angoscia tecnocratica. Di chi, vivendo e operando all’interno di una grande impresa (AEG, ma era leggenda o verità che egli fosse negli organi amministrativi di circa cento società), avverte il bisogno di “anima”, di innalzare il talento organizzativo e produttivo al piano delle esperienze spirituali. La “meccanizzazione” è al centro di questo pensiero, né data né imposta dalla natura, ma concepita e attuata dalla volontà umana. «L’intelletto – scrive Rathenau – ha risposto sulle cose ultime con un silenzioso diniego». Le “cose ultime”, le scelte decisive che danno significato alla vita e riguardano l’intero nostro mondo, stanno oltre l’intelletto e la dominazione tecnica della realtà. Questo bisogno di “regno dell’anima”, o “supplemento d’anima”, accompagna il corso del “moderno capitali52
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smo” e lo fa dolente e inquieto. Talvolta appare di sfuggita in una pena individuale, in un sentirsi insoddisfatti e poveri; talvolta, assume la tragicità di un’assenza, di una assoluta e incolmabile incompletezza. Rathenau esprime questo profondo tormento: da un lato, il vincolo della razionalità organizzativa e le leggi della moderna economia; dall’altro, il “regno di fini”, che stanno oltre, e chiedono al tecnocrate di compiere una rinascita interiore, di trascendere la “gabbia” della meccanizzazione. Inevitabile è il rischio di cadere nell’evasione estetica e nelle visionarie finezze dell’animo. Ecco come i centenari, i quali sembrano semplici cadenze cronologiche, svolgono una funzione costruttiva e feconda; suggerendoci di guardare agli effetti delle opere lungo il corso del passato; sollevando gli interrogativi sul loro futuro destino. In un principio d’anno, che non sia banalmente vissuto o sciupato in effimere mondanità, gli interrogativi sulle “cose ultime” incalzano e risospingono su dense pagine del Novecento, il secolo che non sta dietro di noi, ma dentro di noi. Domenica 6 Febbraio 2022
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Non ci può essere politica senza radici culturali
Triste e buia è ora la via Nazionale, proprio là dove si affacciano le sale dell’Eliseo e del suo “Ridotto” (elegante parola, che sa di piccolo e lezioso). Quasi che l’antistante Palazzo Koch tutto avvolga nel suo cinereo silenzio. E la memoria, ridestata, come suole, per contrasto d’immagini e di figure, risale alla metà degli anni Cinquanta, ai convegni del Mondo, che in quelle sale accoglievano una singolare e nobile élite, e vecchi maestri, e giovani impazienti di scorgere un nuovo volto dell’Italia. Attesa non delusa, poiché tutti i discorsi – di Jemolo e Calogero, Ernesto Rossi e Achille Battaglia, Mario Ferrara e Tullio Ascarelli (ed altri che premono nel grato ricordo) – gettavano lo sguardo nel futuro, proponevano leggi, disegnavano forme della nostra convivenza. Fu stagione di profonda cultura e di passione civile, quando la teoria crociana della libertà – la libertà dello Spirito, che si fa “religione”, e sempre costruisce più alta e degna storia dell’uomo –, quella teoria ci sembrava astratta e lontana, e bisognevole di tradursi nei concreti e determinati istituti di libertà, e farsi patrimonio e fede di tutte le classi sociali. Così si intrecciavano e ordinavano le fila di “socialismo liberale”, “liberalsocialismo”, “Giustizia e libertà”: in breve, una «libertà liberatrice» (come la definiva Adolfo Omodeo), capace di instaurare 55
Lo Spettatore
ordinamenti politici, superare disuguaglianze economiche, ricondurre tutti alla parità dei “punti di partenza”. Il Mondo, le larghe pagine del settimanale di Mario Pannunzio, divenne come un segno di appartenenza, un modo di riconoscersi nelle più varie occasioni, una prova d’un comune sentire e pensare (e forse è lecito allo Spettatore evocare dentro di sé l’emozione allora provata nel vedere sue verdi e acerbe prosucce in quei nitidi caratteri di stampa). Il congiungersi di cultura e politica, ed anzi il generarsi di questa da quella, la capacità argomentativa e costruttiva di convertire le idee in programmi di azione (e “d’azione” fu l’effimero partito che le raccolse e fece proprie), la intrinseca intellettualità dell’agire politico, furono i caratteri di quella stagione. La quale era tratta, da un lato, al rifiuto nei confronti del fascismo e delle discordi ideologie che vi erano confluite, e, dall’altro, al confronto critico con il marxismo europeo e con la dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Si andava così elaborando e definendo una “terza via”, una soluzione intermedia, sostenuta dalla borghesia più vigile e moderna: che non era né la borghesia pre-fascistica della vecchia Destra storica, né la borghesia tecno-economica dell’epoca industriale. Un arduo “centro” – oggi si direbbe –, che tuttavia aveva per principî di fede lo Stato di diritto, la divisione dei poteri, la giustizia amministrativa, la scuola pubblica e la congiunta circolazione delle minoranze direttive. Questo appariva, non il centro di un’improbabile geometria, o di una rara sapienza mediatrice, ma un’autentica classe generale, pronta a sciogliersi da particolari interessi e capace di suggerire i fini ultimi della comuni56
Non ci può essere politica senza radici culturali
tà nazionale. Se guardiamo l’oggi, non ne affiorano urti di pensiero politico, o di integrali programmi di vita, ma proposte occasionali e fortuite di una o altra legge: un quotidiano empirismo, che spesso si nasconde, o prova a nascondersi, dietro mitologie europee o utopie umanitarie o messaggi di salvezza. Segni, tutti, di una crisi della “ragione politica”, la quale può nascere e svolgersi soltanto da un indirizzo culturale, e non dalla consolatoria vaghezza di astratti principî o di ignoti “valori”. La memoria del Mondo pannunziano, dei convegni dell’Eliseo non è un rifugio dell’animo, ma vuol significare che un’atmosfera culturale genera, di per sé, la concretezza di proposte e la scelta di fini comuni. Senza cultura l’empirismo è un cieco andare per le vie del mondo, un maldestro appoggiarsi ora a questa ora a quella stampella. La serietà della politica, il fervore d’un pensiero creativo, non sta nel concorde applaudire o nell’effimera necessità di un’ora, ma nel ricostruire il terreno delle idee, capaci, nella loro diversità, di identificare le forze storiche, di ascoltare i conflitti sociali, e di disegnare i contorni del futuro. Domenica 13 Febbraio 2022
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Dalla politica nessuno può andarsene
Ma che cos’è mai questa “politica”, da cui tutti, o quasi tutti, vogliono tenersi discosti? E così considerata malsana e corruttrice, che un’orgogliosa dichiarazione del Presidente del Consiglio dei ministri (l’umano orgoglio di quanti scelgono e costruiscono la loro strada) è stata piegata o interpretata a rifiuto della politica stessa? È concorde e unanime il concetto che la politica è determinazione di fini comuni, del “verso dove” una data società si incammini, e con quali mezzi e tempi di esecuzione. Una causa, insomma, per cui si avverte la weberiana “passione”, che preme dentro come un dovere da adempiere e un servizio da rendere a sé e agli altri. La politica sta in questa scelta fondamentale, la quale nasce dall’urto con altre forze, in un conflitto che ha per giudice soltanto il corso storico. La pudica formula del “tecnico prestato alla politica” nasconde la semplice verità, che il tecnico, cioè l’individuo provvisto di una speciale competenza, si è fatto “politico” al pari di ogni militante di partito, e, anch’egli, ha compiuto la scelta di un “verso dove”, prendendo posizione nelle relazioni interne fra le classi sociali e nelle estere fra gli Stati. Il tecnico, che mette la propria competenza al servizio del governo (democratico o liberale o autoritario), ne condivide per ciò stesso l’indirizzo, fa proprî gli scopi 59
Lo Spettatore
perseguiti, ne accetta i risultati siano favorevoli o sfavorevoli. L’articolo 95 della Costituzione tratteggia con singolare efficacia la figura del Presidente del Consiglio dei ministri, che «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei Ministri». E come potrebbe non far politica, e starsene in sprezzante solitudine, chi ha il dovere costituzionale di garantire “l’unità di indirizzo politico”? Indirizzo è, appunto, il cammino di una data società, il destino abbracciante tutti i suoi membri e tutti i ceti sociali. Chi torni (e il sommesso suggerimento è di tornarvi nelle ore decisive) sulle pagine del celebre discorso di Max Weber, la “politica come professione” (Politik als Beruf), tenuto a Monaco il 28 gennaio 1919, incontra le tre qualità dell’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Dove vibrano queste caratteristiche dell’animo e della mente, ivi si dà autentica politica, la quale non prende in prestito gli individui, trattandoli come passivi e inerti strumenti, ma li vuole tutti per sé, immersi nel loro compito, tenaci e fermi nel perseguire gli scopi prescelti. La dedizione all’ufficio, il Beruf, può durare breve ora o lungo arco di anni, esaurirsi nell’esecuzione di un piano o slargarsi a un disegno del domani, ma sempre rilevano quelle qualità, che costituiscono il profondo èthos della politica. Fuori dalla politica, intesa come vincolo di destino, nessuno può uscire, neppure “andandosene” e abitando i rifugî remoti dal mondo, poiché anche tale estraniarsi e allontanarsi sarebbe un ge60
Dalla politica nessuno può andarsene
sto politico, ossia una presa di posizione nei confronti dei consociati. Quando la storia d’un Paese offre l’immagine del caos, e come un informe agitarsi di gruppi e generazioni, allora, se non si decida di scendere in campo e correre il rischio del conflitto, rimane soltanto l’attesa del corso storico. Che è il modo più dolente, ancora una volta, di far politica. Lo stare insieme, l’appartenere a una società e il ritrovarsi in un fondamento costitutivo, ci traggono dentro un cerchio, un comune navigare, che può anche conoscere le durezze della tempesta e la tragedia del naufragio. Domenica 20 Febbraio 2022
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Gli intellettuali del Sud e la costruzione dell’Italia
C’è un pensiero meridionale, da cui prendono titolo libri e saggi di rivista. Quasi che i luoghi del Sud siano capaci di indirizzare le menti ed orientare gli animi. Che è bensì virtù generatrice di ogni luogo, di ogni più stabile dimora dell’uomo, ma nel Sud d’Italia assume una propria tonalità, un inconfondibile respiro. L’intellettuale del Sud, dell’antica Magna Grecia, è anche venuto nell’aneddotica per certo giudizio espresso da un “personaggio” dell’economia sull’argomentare e ragionare di un politico irpino. Giudizio non altero né sprezzante, poiché singolare è lo stile argomentativo, quale è stato conformato dalla storia meridionale. Dove dispute feudali, controversie fra potere religioso e potere civile, difesa di interessi da soprusi nobiliari, e perciò quotidiano ricorso al patrocinio di avvocati e notari: tutto, insomma, cospirò a diffondere un metodo di pensiero sottile, calato in schemi di sillogismo, non intimidito dalle conseguenze più estreme e radicali. E così ne nasce la tradizione della borghesia meridionale, orgogliosa di sapere storico e giuridico, pronta a difendere le ragioni dello Stato contro la Chiesa, e di città e comuni contro le arroganze feudali. Il popolo le fu estraneo, ed essa crebbe e si svolse lontana dalle folle contadine e dai “lazzari” delle capitali. La rivoluzione napoletana 63
Lo Spettatore
del 1799 ne reca testimonianza: l’astratta modernità delle concezioni, l’impazienza di forzare i lenti e complessi tempi della storia, la torbida alleanza fra il trono e le plebi, segnarono la sconfitta della borghesia meridionale. Stagione più propizia fu quella risorgimentale e unitaria, quando la classe media, ormai invigorita dal pensiero hegeliano e da un alto sentimento dello Stato, giunse al potere di governo, e concepì e attuò riforme amministrative e fiscali, rinnovò e animò le antiche Università, introdusse istituti garanti di libertà. Una storia diversa, che ora può trovarsi, limpida e appassionata, nelle pagine di un insigne studioso del diritto amministrativo, Franco Gaetano Scoca, al quale si debbono saggi così sulla travagliosa unificazione del nostro Paese come sul pensiero costruttivo del nuovo Stato. Uno tra i saggi offre la biografia politica di Silvio Spaventa (12 maggio 1822-20 giugno 1893), che già sulla copertina è definito «patriota ardente, politico rigoroso, fine giurista». L’aggettivo “rigoroso” abbraccia, insieme con lo Spaventa, tutto il ceto politico che ebbe responsabilità del governo nazionale dal 1861 al 1876: la famosa “Destra storica”, a cui si ascrivono anche le nobili figure di Marco Minghetti e Bettino Ricasoli. Una élite di severa condotta individuale, di ardua moralità privata e pubblica, di intransigenti principî liberali. Vi si riconobbe, in pagine famose della Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Benedetto Croce, abruzzese anch’egli al pari degli Spaventa, e imparentato con loro e, dopo il terremoto di Casamicciola del 1883, affidato diciassettenne alla tutela dello zio Silvio Spaventa. Se profondo era in tutti il sentimento dello Stato, cioè 64
Gli intellettuali del Sud e la costruzione dell’Italia
di appartenere a un organismo di diritto che regola l’esercizio dell’autorità e rende i cittadini eguali dinanzi alla legge, non debole vibrava in loro il culto della libertà. La quale veniva risolta nella pluralità degli istituti giuridici, delle concrete garanzie predisposte a tutela del singolo nei rapporti reciproci e nei confronti degli ufficî pubblici. Da questo sfondo di pensiero giunge il saggio di Marco Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, edito nel 1881 (e – sia consentito di rammentarlo – in ristampa anastatica il 1992 per iniziativa e con prefazione dell’autore di questa rubrica). Il Minghetti, passando in rassegna le varie materie affidate all’azione amministrativa, segnala gli innumerevoli varchi di arbitrio e di incontrollata scelta burocratica: dove il difetto di norme rigorose e precise offre «un campo immenso ai partiti per scorazzarvi con piena balia», talché «il favore e l’avversione, l’indugio e il diniego di provvedere, l’abuso e il sopruso divengono consuetudine e quindi nasce quella irrequietezza, e quello scontento che rende ai popoli le istituzioni discare». Codesto “scontento” poté trovare giuridica espressione nel ricorso alla IV sezione del Consiglio di Stato, concepita da Silvio Spaventa al fine di garantire l’interesse dei singoli cittadini (appunto, l’interesse legittimo) avverso i provvedimenti amministrativi. Poi allargata ad altre sezioni, e diramatasi nei tribunali regionali, la giustizia amministrativa è opera insigne della Destra storica, di quel “pensiero meridionale” che si è posto al servizio dell’unità politica e statale del nostro Paese. Domenica 27 Febbraio 2022 65
Alla perenne ricerca di un ordine
In una fra le pagine più schiette e dolenti delle Memorie, il principe Klemens von Metternich confessa: «Io tiro una linea fra ciò che era e ciò che è. Questa demarcazione comincia alle ore undici della notte fra il 13 e 14 marzo 1848. Io sono l’uomo di ciò che era». In quella notte il vecchio Cancelliere lascia il governo dell’Impero austriaco; tramonta il “sistema Metternich”, che dal 1815 aveva garantito la tranquillità dei popoli e l’equilibrio degli Stati europei. Sul “principio di legittimità” gravitava l’ordine continentale: continuità delle antiche dinastie, rigida determinazione dei confini, libertà «considerata – egli scrive nel proprio testamento politico – come la conseguenza inevitabile dell’ordine». I fatti rivoluzionari del marzo 1848 svelano le forze ignote, o appena intraviste, delle singole nazionalità. Ma essi appaiono a Metternich «opera di studenti traviati, di qualche rissoso appartenente a varie classi sociali, e di un certo numero di borghesi che hanno la mania di parlare senza conoscenza di avvenimenti che interessano il mondo». Una sorta di tragica incomprensione, non cogliere e capire il significato dei moti nazionali, ossia l’identità storica dei popoli. Il grande Cancelliere si riconosce e chiude in ciò che era, mentre l’Europa, scioltasi dalle decisioni del Congresso di Vienna e dal legittimismo dinastico, si 67
Lo Spettatore
apriva a fatica una nuova strada. Il principio politico di nazionalità, trionfante nel secolo XIX e fonte di Stati unitari e indipendenti, aveva in sé anche un che di malsano e torbido, una vena di cieco irrazionalismo, una volontà di agire come semplice e crudo agire. Esso non è ancora spento (è un “linguaggio antico”, direbbe il filosofo Biagio de Giovanni), e forse non può spegnersi, ma, di tempo in tempo, si stringe con altri principi e criteri di condotta. Dinanzi a sé o contro di sé trova principi di carattere internazionalistico, i quali sono anch’essi politici, e, sotto schermo di diritti naturali o di umanitaria solidarietà, rivendicano, al pari degli altri, il “diritto di intervento” in Stati stranieri. Non si vuol qui tracciare un disegno storico (né si saprebbe), ma soltanto segnalare questa storica relatività degli ordini politici, nessuno dei quali ha per sé l’assoluto e l’eterno. E tutti nascono, si svolgono, si esauriscono nel conflitto delle forze concrete o dei molteplici principi. Così è accaduto al principio di nazionalità, che, apparso superato e trasceso con i trattati di Versailles e la sconfitta tedesca del 1945, ha poi determinato la “guerra fredda” e la divisione del mondo in due blocchi. Si dice principio di nazionalità, ma pur chiarendo che esso si era ormai esteso al di là dell’Atlantico, chiamava in causa anche Paesi orientali, e si presentava frammisto a ragioni ideologiche o razziali. Questo mostra che gli Stati, nella loro chiusa configurazione, non erano più capaci di contenerlo, e che si venivano delineando – come genialmente intuì il controverso Carl Schmitt (Grossraumtheorie), – «grandi spazi» terrestri abbraccianti, nel segno di singoli principi politici 68
Alla perenne ricerca di un ordine
(ma pure economici e industriali), una pluralità di Paesi. In essi continuava, e continua a parlare, il “linguaggio antico” della nazionalità, congiungendosi o celandosi dietro altri principi, e poi riaffiorando nella sua terribile potenza. Forse alla memoria del Cancelliere austriaco, lontano da Vienna e dagli uffici pubblici, tornava il famoso colloquio con Napoleone, simbolo di un declinante ordine europeo, al quale si contrapponevano il legittimismo monarchico e il desiderio di pace. E forse gli appariva che gli ordini ed equilibri fra Stati sono consegnati al mutevole corso storico, che anche il sistema uscito dal Congresso di Vienna tramontava, e che la pace è come un’effimera sosta e un breve intervallo. Gli uomini non hanno riposo, interessi economici e disegni militari vengono in urto, i popoli si agitano in continua irrequietezza, e un ordine succede all’altro, illuso di essere definitivo e di esaurire le energie creatrici di storia. Domenica 6 Marzo 2022
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La musica e l’arte antidoti all’orrore della guerra
Narrano i biografi un episodio occorso ad Arturo Toscanini la sera del 14 maggio 1931. Si trovava il maestro a Bologna per dirigere un concerto al Teatro Comunale: musiche di Giuseppe Martucci, educatore all’arte di Wagner e compositore, nel ventennale della morte. Giungono in città, per una fiera commerciale, i notabili del regime Costanzo Ciano e Leonardo Arpinati, che pure vogliono assistere al concerto. Si chiede al maestro di dirigere, o far eseguire dall’orchestra, la Marcia Reale e Giovinezza. Toscanini rifiuta: non già per gesto di dissenso politico (qualche simpatia per il nazionalismo dannunziano e per il Mussolini gli sarà sempre imputata), ma per rispetto dell’austero e pietoso rito in memoria di Martucci. Una masnada di facinorosi lo attende all’ingresso del teatro, assale l’autista, schiaffeggia il maestro, che, sospeso il concerto e consigliato da amici, nella notte lascia Bologna e riparte per Milano. Corse voce che a levare le mani fosse il giovane Leo Longanesi, autore, il giorno dopo, su L’assalto, di un dissacrante articolo dal titolo «Fine di un’estetica». Capitolo della bruta e torbida violenza, che nega il carattere universale e la grandezza umana dell’arte. Violenza rozza e incolta, la quale è altro dalla forza creatrice delle idee e dal movimento storico di individui e popoli. Il 71
Lo Spettatore
rifiuto di Toscanini proteggeva il tempio, serbava l’antica venerazione per i riti dei morti, diceva la schietta voce della libertà interiore. Quella voce ascoltata dai cuori anche nei tempi oscuri di regimi tirannici. A Wilhelm Furtwängler, sommo direttore d’orchestra (e autore di pagine finissime su suoni e parole), fu mossa accusa di esser rimasto in Germania negli anni del nazionalsocialismo. Ne seguì, dopo il 1945, un tristo processo di “denazificazione”, concluso con sentenze pienamente assolutorie. Ma doloroso fu il rapporto con Thomas Mann, esule in America (di cui si fece cittadino) e giudice severo di scrittori e artisti restati in patria. Alla fine d’una udienza denazificante, Furtwängler, secondo che narra la moglie Elisabeth nelle proprie memorie, pronunciò queste parole profonde: «Nessuno che non fosse allora qui in Germania può giudicare come si stava qui. Thomas Mann intendeva davvero che nella Germania di Hitler non si dovesse poter suonare Beethoven. Non poteva immaginarsi che mai uomini più dei tedeschi che dovettero vivere sotto il terrore di Hitler, ebbero maggiore necessità e bramavano più dolorosamente di ascoltare e rivivere Beethoven e il suo messaggio di libertà e di amore per gli uomini». Ma questo non intese la stampa americana che, settaria e minacciosa, nel 1948 impedì a Furtwängler di soggiornare a Chicago per alcun tempo e di dirigerne l’orchestra. Queste cronache, che tuttavia esprimono alti e nobili significati, tornano alla memoria quando si legge di un sindaco di grande città (sindaco assai stimato per capacità e impegno amministrativo) che intima al maestro russo Valery Gergiev di condannare la propria patria in armi, e al rifiutante irroga la sanzione del silenzio mu72
La musica e l’arte antidoti all’orrore della guerra
sicale. Allievo di Yuri Temirkanov, Gergiev, invitato nei teatri di tutto il mondo, ha raggiunto fama e prestigio a tal segno da dirigere anche nell’aula solenne di una delle nostre Camere. Gli schiaffi patiti da Toscanini, e la dolorosa dichiarazione di Furtwängler testimoniano che la musica, al pari di qualsiasi espressione d’arte, sta, essa sì, oltre ogni confine e lotta politica, simbolo e portatrice ai popoli di libertà spirituale. È la musica che risuona nella terra di nessuno, in labile tregua fra le truppe nemiche, dolce amica dell’una e dell’altra parte; o che echeggia solitaria in Varsavia distrutta e deserta, come nelle scabre immagini del film di Polański. D’intorno la storia fa il suo corso, rovinano città e imperi, cadono regimi tirannici o democratici, ma questo filo di libertà interiore e di tenerezza spirituale mai si rompe, e sempre ci conforta nelle durezze del vivere. Domenica 13 Marzo 2022
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Gli sfollati tra presente e passato
Tornavamo dallo “sfollamento”. Che strana parola, piena di remota densità, come di uomini che si disperdano e scompaiano nello spazio. Non elegante, non comune, non quotidiana, appartiene al linguaggio di una generazione superstite. No, non generazione, ma singoli individui, per i quali essa desta memorie, descrive episodî lontani, rinnova dolore e sofferenza. Si sfollava dalle città bombardate, o esposte a incursioni aeree, per importanza politica, rilievo strategico, scelte militari. Gli “sfollati” cercavano riparo in borghi di montagna, paesi di pianura, o nelle “piccole patrie”, luoghi nativi da cui si attendeva quasi una protezione di avi e di antichi Lari. Le divinità dei luoghi e delle famiglie erano chiamate in soccorso. La guerra ormai infuriava al Nord. Aperta la strada di Cassino (ahimè, la barbara distruzione dell’abbazia benedettina), liberata Roma nel giugno 1944, si poteva tornare dallo sfollamento nei rifugî abruzzesi (codesta è l’esperienza dello Spettatore). Lo sfollamento ha in sé, accanto al distacco e al farsi lontano, anche il presagio di un ritorno. E il ritorno si ebbe in città devastate, in abitazioni con le nude occhiaie delle finestre, in strade ancora disseminate di pericoli. La vita si ridestò, animata dalla speranza e dalla volontà ricostruttrice. Non era ancora la 75
Lo Spettatore
piatta e sazia normalità; duravano razionamenti, scarsità di cibo, intermittenza di gas ed energia elettrica. Ciò che oggi fa paura, e agghiaccia l’animo, allora vivemmo. Secchi arbusti, che gli scolari recavano da casa, ardevano nelle stufe di ghisa. Ne nacque, non soltanto freschezza di iniziative e progetti, ma un’austera serietà di individui e famiglie. Gli edifici furono restaurati, ripresero fervidi i mercati, tornarono a funzionare gli uffici pubblici; e insieme – ecco il tratto più inatteso e nuovo – si accesero conflitti ideologici e contrasti di partiti. Questa intensità di vita, intellettuale e pratica, riempiva il tempo e riscaldava gli animi. Le lotte erano schiette e dure: fascismo e antifascismo, repubblica o monarchia, dottrina sociale della Chiesa cattolica e comunismo, e così seguitando attraverso antichi metodi e moderni stili di pensiero. Il “comizio”, tenuto nelle vecchie piazze o da balconi di nobili dimore, era il simbolo di questa ansia di dialogo, di un misurarsi e contraddirsi l’uno di fronte all’altro. Si avvertiva il preannuncio di un nuovo ordine, l’incalzare di forze storiche che, uscite dalla guerra più robuste e salde, provavano a costruire un altro assetto dell’Italia e del mondo. Né c’era da stupirsene, poiché la storia degli uomini, in un divenire senza sosta e senza meta (una meta che a noi sia dato di sapere o congetturare), conosce rovine di Stati ed imperi, tramonti e rinascite. Si narra dagli storici che Scipione Africano piangesse dinanzi alle fiamme distruttrici della vinta Cartagine, e, a suoi stupiti ufficiali e soldati, confidasse che il suo pensiero correva al destino di Roma. Questa coscienza storica, che certo negli “sfollati” era incerta, e 76
Gli sfollati tra presente e passato
velata da luci ed ombre, è compagna della vita più sensibile e aperta: la quale non si ferma e chiude nell’ieri, negli ordini ormai stanchi o disfatti, ma è capace di intuire o intravvedere il corso delle cose. Lo Spettatore si rende ben conto di stringere insieme presente e passato, memoria di esperienze lontane e presagî sul futuro, ma anche sa che ci sono misteriosi richiami e tacite affinità, da cui l’animo non riesce a liberarsi. E tutte chiedono che la pagina domenicale, resa più sciolta e audace, le registri e trascenda nell’oggettività della scrittura. Domenica 20 Marzo 2022
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Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria
Il diritto si leva al tramonto, quando la giornata è conclusa o prossima a concludersi. Non parlo del diritto “quotidiano”, civile o penale, che accompagna il corso normale della vita, i traffici di mercato, le violazioni di proprietà altrui o di altri beni economici. Qui si dà che il diritto preveda e anticipi gli eventi del futuro: appunto, esso “dispone per l’avvenire”, cioè prova a impossessarsi di ciò che ancora può accadere. Altro è invece il diritto costituzionale e internazionale, che stanno lì sul confine della storia e ne registrano le mutevoli vicende. È la regione del rischio estremo, dove divampano gli incendi dei popoli, gli Stati entrano in guerra (e ne escono vincitori e vinti), rovinano vecchi ordini e si disegnano nuove forme di convivenza. La voce del diritto, mentre la tempesta infuria, è debole, sommessa, inascoltata. Se la giornata è conclusa, gli uomini danno mano a nuovi edifici e progettano ordini diversi dal passato. Ma ci sono conti da regolare, finzioni ed ipocrisie da soddisfare, verginità storiche da ricomporre. Ed allora i vincitori riscoprono il diritto, e ne invocano le forme punitrici e redentrici. Già all’indomani della prima guerra mondiale fu chiesta alla Germania la consegna del Kaiser Guglielmo II, che si voleva tradurre in ceppi dinanzi a un tribunale 79
Lo Spettatore
dei vincitori come colpevole di aver scatenato il conflitto. Rifiutò la Germania; e rifiutò l’Olanda, in cui l’Hohenzollern aveva trovato asilo. In proposito fu detta la parola, più nuda di illusioni ed utopie, da Vittorio Emanuele Orlando, fondatore della scuola italiana di diritto pubblico, che sembrò opporre al simulacro di processo (previsto dall’articolo 227 del Trattato di Versailles) la scabra e schietta rudezza dei Romani, trascinanti in catene il vinto Vercingetorige. Si sa bene dell’impegno (ed anche di assai stimati studiosi italiani), svolto, dopo il processo di Norimberga, per costruire, con trattati e istituzioni di Corti, un diritto penale internazionale, su cui gravano gli interrogativi di sempre: l’anteriorità della norma violata, la posizione di assoluta imparzialità (e politica ed economica) del terzo giudicante, l’esecuzione coercitiva delle sentenze, e via seguitando. Quando la potenza accusatrice si fa potenza giudicante, emana sentenze e irroga sanzioni, allora la parola “diritto” può riposare inerte nei dizionari. Essa non è mai disgiungibile dalla figura di un “terzo”, che sia al di sopra delle parti in contesa, e ne possa accertare colpevolezza o innocenza. Riaffiorano queste domande alla lettura di un nitido saggio di Rosario Aitala e Fulvio Palombino (che può trovarsi nell’ultimo fascicolo di Limes, la colta e autorevole rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo). Le pagine sono percorse dalla consapevolezza che, nelle ore più crudeli della storia, il diritto fatica a dire la propria parola, e quasi si fa da canto in attesa dell’aurora. La guerra ahimè! ha questa intima capacità generatrice, decreta il tramonto di vecchi ordini, di classi sociali e ceti 80
Il silenzio del diritto mentre la guerra infuria
dirigenti, e di altri promuove la nascita e abbozza il disegno. Nulla ritorna come prima, quasi che si chiuda una semplice parentesi, un intervallo di sangue e dolore, e tutto si ricomponga nelle vecchie strutture. E ciò che sorge o s’annuncia è sovente fuori da ogni disegno di statisti e governi, per una “eterogenesi di fini” che salgono dalle cose stesse nel loro farsi e determinarsi. Quando dai filosofi si teorizzano “tribunali della storia” o “tribunali del mondo”, si coglie, con accenti fra mistici e arcani, questo svolgersi inatteso dei fatti, che gli uomini si trovano dinanzi ed a cui pur debbono piegarsi. Il grande e vecchio Orlando, che aveva attraversato la fine del secolo decimonono ed i primi decenni del ventesimo, e compiuto esperienze di studî e di governo, di diplomazia e di lotte politiche, giungeva alla religiosa conclusione che «certe condanne le può pronunziare soltanto il Destino e che quando Dio interviene, non vi è più posto per i giudizi dell’uomo». Domenica 27 Marzo 2022
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Le tentazioni del conformismo piatto e decadente
Marcello Clerici ha bisogno di sentirsi eguale agli altri, immerso nella protettiva uniformità delle opinioni; di scrollarsi di dosso la fatica della scelta e il peso della libertà. Ecco il tema di Il Conformista, controverso romanzo moraviano del 1951. Così la normalità dà significato alla vita individuale, che s’illude di tenersi al riparo dal rischio. L’uniformità accoglie in sé ogni pigrizia del pensiero, ogni viltà di carattere. Non è l’unità dei voleri, raccolti intorno a un ideale e miranti allo stesso scopo, ma piatto e paludoso eguagliarsi degli uni agli altri. Il conformismo distrugge lo spirito critico e il travaglio dell’analisi storica, offrendo agli individui, ormai ridotti a “massa”, la garanzia della normalità. Colui che dubita o dissente rompe, per così dire, il patto sociale, questo accordo di identità, e viene in sospetto di peccato religioso, di algidità morale, o di oscure intese con il nemico. Si denomina, appunto, “contro-corrente”, andare in senso avverso alle acque limacciose del fiume, risalire indietro alla fonte, dove esse sono limpide e schiette. Faticoso, arduo, e talora ambiguo, codesto andare à rebours, anche se non assume il carattere estetico e mondano di quel Des Esseintes, consegnatoci dalle pagine di Huysmans. Così enunciata, l’alternativa è drammatica: 83
Lo Spettatore
da un lato, l’opaco conformismo; il gusto, dall’altro, di sottile e morbosa decadenza, di un ritrarsi tra ignoti piaceri e sfumature dei sensi. Al conformismo va opposto, non il tormento, tra mondano e mistico, della aristocratica solitudine, ma il vigore dello spirito critico, la spietatezza dell’analisi razionale, ossessiva e tenace nella sua indagine sui “perché?” di cose e vicende umane. Il “perché” deve accompagnare ogni giudizio su eventi, i quali, essendo umani, affondano vichianamente le radici nell’animo e nella mente di individui. Ciascuno ha proprie abitudini, e stili di condotta, ma questi servono a definire l’identità, il carattere individuale, non sommergono nel grigiore del voler essere eguali. Abitudine non è conformismo, ma piuttosto designa una qualche coerenza di condotta, un modo continuativo e proprio di rispondere alle situazioni della vita. Ed anzi l’abitudine è freno e ostacolo alla subdola tentazione del conformismo: è un tenersi eguali a sé stessi, non farsi eguali agli altri. Il conformismo – spesso rivelato da un assiduo e concorde applaudire – non favorisce le istituzioni liberali, che vogliono assillo del dubbio, confronto o conflitto di opinioni, lenta costruzione dell’accordo. Né esso garantisce stabilità e continuità di direzione etico-politica, poiché, riposando sul pigro e vile adagiarsi degli animi, è esposto al rischio dell’inattesa mutevolezza. Donde la necessità di mutar d’abito, di indossare una camicia di altro colore, e di esibire un nuovo distintivo. È quel che accade nel “politicamente corretto”, una tra le specie più tristi e torbide del conformismo, dove vige – come già 84
Le tentazioni del conformismo piatto e decadente
intuì Tocqueville – la tirannia del numero, e dove ciascuno pensa al modo di tutti, ma illudendosi di pensare a modo proprio. Il grado di identificazione è totale; non ci sono riserve critiche; tacciono dubbî e perplessità. Pigrizia, viltà, paura, bruti calcoli di convenienza, si congiungono insieme e instaurano l’eguaglianza del momento, di questo preciso momento, qui ed ora. Sicché il conformismo si risolve nell’assoluta perdita di identità, nell’affannosa ricerca di un senso, che, non levandosi in interiore homine, si disperde e annichilisce nella molteplicità delle plaudenti apparenze. Sarebbe ufficio della scuola, dei maestri universitarî, ed anche di nobili e austere figure della classe politica, opporsi al conformismo, a un pensare unico che non è vero e autentico pensiero, educando e risvegliando lo spirito critico, il gusto del dissenso, il coraggio di un serio remare à rebours. Domenica 3 Aprile 2022
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Il diritto si misura con la potenza della tecnica
Sul principio degli anni Trenta del secolo scorso, un filosofo tedesco, Ernst Cassirer, narrava che «fra gli Everi del Sud del Togo … il martello del fabbro ha il valore d’una potente divinità, alla quale si rivolgono preghiere e vengono fatti sacrifici». Né caduta è oggi la consuetudine di inorgoglirsi di “miracoli della tecnica” o di inorridire dinanzi a “catastrofi della tecnica”. La tecnica, fra stregoneria e magia, viene tenuta come qualcosa di diverso dall’umano, e addirittura di ostile e contrastante alla cultura delle civiltà storiche. Che sarebbero esclusivo cammino di arti e poesia, sensibilità letteraria e musicale, opere della politica e del sapere umanistico. Fu dualismo, da cui sorse l’antitesi tra Kultur e Zivilization, ancora viva e aspra nelle Considerazioni di un politico (1918), dove Thomas Mann contrappone l’umanesimo tedesco alla pavida fede nel progresso tecnico e nella fatua felicità degli uomini. Questa antitesi si indebolì ed esaurì (ma ne resta traccia nel sentire comune e in taluni ritardatari del pensiero) quando fu schiarita la connessione profonda tra sapere scientifico, applicazione esecutiva, lavoro umano. Sicché gli strumenti tecnici, tornando nel nostro mondo e svelandosi come risultati di leonardesca “sperienzia”, esibirono la loro assoluta umanità. 87
Lo Spettatore
Non si trattava più di meraviglia dinanzi a miracoli religiosi o riti magici, ma, per dirla con Camus, di un «affare tra gli uomini»: uomini che indagano le regolarità naturali, progettano beni economici e non economici, e dispiegano il lavoro nella pluralità delle loro individuali competenze. Ridotto a nuda esperienza, spoglio di fedi e ingenue credulità, ormai l’uomo stava di fronte a sé stesso, solo con il proprio “saper fare”. Così la tecnica si ergeva insieme dentro e contro di lui, come una insaziata “volontà di potenza”, mai soddisfatta dei risultati, tutta tesa a conservarsi e incrementarsi. Negli abissi del pensiero filosofico, quale si svolge da Nietzsche ad Heidegger fino al nostro Severino, la tecnica esprime una capacità immane di crescere e raggiungere indefiniti scopi. La parola riassume e spiega le molteplici tecniche, proprie di particolari rami scientifici o di apparati produttivi: esse sono soltanto profili e aspetti di un’immane potenza. L’uomo si avvede che lo strumento tecnico non è un qualsiasi attrezzo da usare e poi mettere da canto, ma è parte del nostro destino e dà forma alla nostra vita (come è nei “messaggini”, i quali dettano stile espressivo, e definiscono la dotazione linguistica del singolo utente). A problemi così gravi e ardui ci conduce ora la lettura di pagine penetranti ed inquiete, che il compianto Beniamino Caravita ha dedicato alla intelligenza artificiale. Dove, pur avvertito il sinuoso fascino della macchina che raccoglie ed elabora dati, e sa comporli e coordinarli, e compiere scelte e prendere decisioni, si fanno strada gli interrogativi di una schietta sensibilità giuridica, e preme l’angoscia di un domani che ponga a rischio le ga88
Il diritto si misura con la potenza della tecnica
ranzie costituzionali della persona umana. Che ne sarà delle libertà e della stessa paternità dei nostri testi? Si trovano così, l’una dinanzi all’altra, la potenza normativa del diritto e la potenza della tecnica, e la prima esprime la volontà di orientare e vigilare la seconda. Le nude parole di costituzioni e leggi – che siano dello Stato o di altro ente sovrano – si levano avverso l’immane e inesauribile potenza della tecnica. E mentre esse si rivolgono, com’è nella lor propria natura e destinazione, ad altri uomini, che possono obbedirle o violarle, la tecnica percorre il suo cammino e progredisce verso un dove non stabilito dagli uomini né dagli uomini saputo. «Ma che cosa sono mai le leggi – si chiedeva Ernst Jünger, sismografo fra i più sottili del nostro tempo – quando una nuova formazione proietta la sua ombra?». Qui si tace lo Spettatore, quasi smarrito per l’impotenza del diritto e per l’inesorabile cerchio, in cui la tecnica ci chiama e avvolge. Domenica 10 Aprile 2022
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La lezione di de Gaulle e la figura dello statista
La tregua festiva, una sorta di riposo nel cammino quotidiano, ha consentito di tornare sulle pagine, tra storiografiche e autobiografiche, di Charles de Gaulle. Dove, appunto, la storia di Francia s’identifica con la passione politica di un uomo. Le chiamò Mémoire d’espoir, e voleva significare che la secolare storia della nazione conferiva legittimità al proprio agire, e insieme apriva la strada del futuro. La narrazione in terza persona non serve a evocare la solenne e antica forma di Cesare, ma a stabilire il tono severo dell’oggettività, quasi di eventi che accadano da soli e obbediscano a una inesorabile logica. Sicché il protagonista ne è ascoltatore e interprete, colui che, interrogando il passato e affisando lo sguardo nell’oggi, sa comprendere quella logica e perciò costruire il domani. Sono pagine pervase dalla grandezza dell’intelligenza storica e dal pathos dell’azione politica; e così disegnano l’immagine dello statista. Che non è un tecnico, un “competente” di qualche disciplina, ma sa radunare intorno a sé le energie più autorevoli del Paese (orgogliosa, nel secondo volume dei Mémoires, è la descrizione del governo, uscito dalla vittoria elettorale del 1962: il primo nome è André Malraux). Energie e volontà particolari, che, chiamate a una missione e devote a una causa, attuano il disegno unitario dello “statista”. Questi ha 91
Lo Spettatore
il talento d’insieme, la superiore capacità di sintesi, la “lungimiranza” che è il vedere lontano e da lontano. Questo genio del vedere non si apprende in nessuna scuola, non è detto e insegnato in nessun libro, ma si compone di sapere e fantasia, di conoscenza storica e intuizione umana. Arduo da esercitare quando vacilla un ordine del mondo, le forze si agitano irrequiete, declinano vecchie arroganze, e – prima tacite e ombrose, poi palesi e nette – si affacciano nuove potenze. Si è allora dinanzi a una crisi storica, la quale esige la comprensione di ciò che cade, di ciò che resta, di ciò che avanza e irrompe nel quadro complessivo del mondo. È il tempo, per dirla con Jacob Burckhardt, degli “sviluppi accelerati”: non dei passi lenti e graduali, delle piccole e minute correzioni, ma delle nuove forme assunte da un Paese o dall’intera umanità. All’uomo politico, che abbia vigore e prestigio di statista, si richiede un lucido e impietoso realismo: se l’epoca delle colonie è conclusa, i rapporti con l’Algeria – pensa e attua de Gaulle – debbono trovare un nuovo inquadramento. Realismo non è piatto adeguarsi a ciò che accade e soltanto perché accade, ma visione delle cose e degli uomini nella loro definita e storica singolarità, nella loro capacità di vivere o sopravvivere dinanzi agli eventi. Talune istituzioni appaiono stanche e fragili, chiuse in dati scopi e disadatte per finalità più ardite e ambiziose: altre mostrano inattesa forza e si protendono verso il futuro. Bisogna conferire o restituire allo sguardo una sorta di disincantata lucidità, sciogliendosi da miti, pregiudizi, vincoli del passato. Spesso si chiede il sacrificio di vecchie convinzioni, di immagini e utopie che ci hanno accompagnato negli anni. 92
La lezione di de Gaulle e la figura dello statista
Lo “sviluppo accelerato” non tollera indugi, non lascia il tempo per rimorsi e pentimenti, ma vuole la prontezza intuitiva del genio politico, l’energia della decisione, e quella che sempre il Burckhardt chiama «la volontà reale di impadronirsi della situazione». Rendersi consapevoli delle forze in lotta, misurarne la vitalità, allargare l’orizzonte al di là dei vecchi confini, interrogarsi sull’ordine del mondo e trovarvi la propria parte: questo è il reale “impadronirsi della situazione”. Che certo non può essere colta e dominata da zelanti funzionarî di istituti o probi studiosi universitarî, esemplari nel loro ufficio di osservazione ed analisi, ma sprovvisti di genialità politica e di potere direttivo. Sull’insieme dei “dati” raccolti, di stime economiche e militari, di calcoli industriali, si levano lo guardo e la volontà dello “statista”, che li studia e utilizza, piegandoli al proprio disegno, in cui sa congiungere il duro peso della realtà e il fascino dei larghi orizzonti. E sa ben distinguere le lotte di interessi dalle ipocrisie morali e umanitarie. Domenica 24 Aprile 2022
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La Russia di Alessandro I, le piccole nazioni e l’oggi
Chiusi nelle scansie, i libri di lontane letture. Poi, altre curiosità, sviarsi di interessi e gusti, impegni di lavoro. Ma ecco che un evento inatteso o singolari circostanze del mondo ne ridestano la memoria. È la necessità del ritorno a un amico, che ci fu utile e prezioso. Così si riapre il saggio Due secoli di pensiero politico russo, che nel 1943 Wolf Giusti consegnò alla “Biblioteca storica Sansoni” diretta dal grande Federico Chabod. Vi si narra, disegnando l’epoca di Alessandro I, di Pavel Ivanovič Pestel’, giovane soldato nella campagna contro Napoleone, fattosi poi autore di una costituzione nota sotto il nome di Rússkaja Právda. Documento, così riassunto dal Giusti (e qui Lo Spettatore non può che offrire, quasi per intero, il testo di pagina 63): «La Russia è immensa, ma accanto al popolo russo vi convivono numerose altre nazionalità. Da “buone frontiere” derivano la prosperità della nazione e la garanzia della pace: le piccole nazioni sottomesse a un grande popolo mirano spesso all’indipendenza; a sua volta, un grande popolo vuole frontiere sicure e cerca di impedire che i piccoli popoli viventi ai suoi margini cadano nell’orbita di un altro grande stato. Tutti e due questi punti di vista appaiono giustificati al Pestel’: tuttavia i popoli troppo piccoli per avere un’effettiva possi95
Lo Spettatore
bilità d’indipendenza, devono, secondo lui, accettare la protezione d’un grande stato, altrimenti non diverrebbero che motivo di lite e terreno di battaglia tra grandi stati. Le piccole nazionalità devono venire a trovarsi così soddisfatte in seno alla grande nazionalità nei cui limiti vivono, “da dimenticare la loro precedente debole nazionalità” ed entrare con gioia nella nuova comunità nazionale». Il Pestel’ accorda a Polonia, ma nega a Finlandia, Estonia ed altri Paesi baltici, Biancorussia, Piccola Russia, Bessarabia, Crimea, Georgia, regioni del Caucaso e della Siberia; a tutti nega il diritto di nazionalità: «sono popoli troppo piccoli, appartenenti da tempo alla Russia e, più o meno, senza tradizioni di vera indipendenza; queste nazioni, a causa della loro piccolezza o debolezza, non potranno quindi formare stati indipendenti». Il vecchio documento, o manifesto politico, di Pestel’ non è di certo fonte legittimante, a distanza di due secoli, per disegni di espansione territoriale o strategie militari. Ma pure testimonia la storicità dei problemi, di motivi e tensioni, che – ora palesi ora silenziosi e sommersi – tracciano il cammino di un Paese e vi imprimono il segno di un destino. Ed anche rivela la necessità che pronunzie verbali e concrete azioni, scelte e decisioni di governo, sorgano da profonda consapevolezza storica, si interroghino intorno ai perché, e non cedano a una sorta di primitività senza passato. Che non è “giustificare”, ma piuttosto rigoroso esercizio di pensiero e di spirito critico: quel “ricostruire” storico, il quale è anche serio “costruire” dell’oggi e del domani. Se è vero che la storia – come temono alcuni filosofi – può recar dan96
La Russia di Alessandro I, le piccole nazioni e l’oggi
no alle energie vitali, è altresì vero che queste possono esprimersi con meditato disegno soltanto alla luce del passato. Chi ignora il passato, ignora anche il presente, dove si aggira in preda a torbide emozioni e a primitività di istinti. L’azione politica, che duri nel tempo e abbia significato nella vita d’un popolo, nasce da lucida consapevolezza dei “perché”, dal cogliere la complessità delle situazioni storiche, le quali rifiutano il semplicismo burocratico e lo zelo servile, ed esigono lo sguardo lungimirante dello statista. Domenica 1° Maggio 2022
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Smascherare chi abusa della parola valore
Come logora e consunta dall’uso la parola “valore”. Ci giunge oggi dall’economia (i beni sono cose che hanno valore per pregio intrinseco o rarità), e poi dilaga in ogni campo del vivere umano. E crescono di giorno in giorno, e si espandono a regimi politici, unioni monetarie, alleanze militari, leggi costituzionali e norme ordinarie. Non più principî immutabili nel tempo, o fedi religiose evocanti la divinità, ma enti ed oggetti che la volontà umana solleva ed erige a valori. Sono generati e sorretti dalla volontà di coloro che li pongono, e perciò pronti in loro difesa a patire gravi pericoli e rischî estremi. Il disvelarsi del volere, il quale per sua indole è proprio di ogni uomo, e si esprime mutevole e precario, toglie ai valori qualsiasi rango di immutabilità. Nascono e tramontano insieme con la volontà che li generò e accompagnò nel cammino terreno. Così diventano criterî temporanei di condotta, o si levano crudeli e impietosi nel giudizio, o scadono a materia di negoziati transattivi e patti di morte. La perdita della perenne immutabilità (il «Dio è morto» di Nietzsche) li consegna alla finitezza del volere umano. E questo li rende intrinsecamente storici e variabili. Non c’è alcun magistrato, che, muovendosi al di sopra della storia, possa giudicarli, apprezzandoli o condan99
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nandoli. Sta a ciascun individuo di sceglierli e di assumerne la responsabilità. È il politeismo dell’età moderna, indagato e definito da Max Weber, del quale è memorabile la pagina “tra le due leggi”, che premono e stringono sull’animo dell’uomo, e nessuno può consigliarlo o sostituirlo nella scelta, tutta affidata alla sua volontà. La filosofia e la pratica dei valori vorrebbero salvare il mondo dall’abisso, e opporsi al vuoto e al disincanto del nichilismo. Ma la battaglia si risolve, quasi per paradosso, nell’estremo e oscuro soggettivismo di coloro che dichiarano di porre o scoprire valori. In questa conversione di norme in valori è – come vide l’acutissimo Carl Schmitt – la radice di una crisi profonda. Il giudice non è più chiamato ad applicare la legge (a cui pur sarebbe soggetto per dovere costituzionale), ma ad attuare valori: vaghi, indefiniti, incerti nel contenuto e nella dimensione, duttili e proni alle qualsiasi circostanze del caso. E parimenti l’uomo di governo, in luogo di calcolare la concretezza di interessi e bisogni, e di osservare il giuoco delle potenze storiche; anch’egli si lascia prendere dal mistero dei valori (o forse è soltanto schermo retorico e demagogico, che imprime certa tonalità di principî anche alle parole più banali e volgari). Queste notazioni, che sanno di teorico ed astratto, volgono a due conclusioni (ma “conclusione” qui non si dà se non per scansione espositiva). L’una è il monito o appello a non sciupare la parola “valore”, che è assai densa di significato e di richiami, e andrebbe trattata con parsimonia e sobrietà. È una parola fragile e delicata. Se tutto può diventare valore (da vincoli affettivi ad accordi economici, da incontri occasionali ad alleanze 100
Smascherare chi abusa della parola valore
militari ecc.), nulla è più valore, inteso nella sua assoluta intangibilità. L’altra conclusione sta nell’invito a smascherare teorici, profeti, solenni enunciatori, quotidiani utenti, strappando il casto velo di valori e mostrando il fondo oscuro e nascosto di interessi e poteri. Le cose vanno ricondotte alla loro nuda semplicità. Democrazia è parlare e intendersi nei significati più consueti, e non agitare fantasmi e miti indicibili. Gli uomini di azione, agitati da una “causa” e pronti al sacrificio estremo vanno ammirati e stimati per la schiettezza della fede, la quale non ha bisogno di darsi l’aura di un valore. Basta a sé stessa come segno e misura di volontà umana e di slancio morale. La inflazione dei valori li discredita, e li abbassa a merce di consumo acquistabile all’ingrosso in qualsiasi negozio di città. Domenica 8 Maggio 2022
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Quando la sanzione è atto di forza e non di diritto
Chi rimpiange le parole, rimpiange le cose. Si vuol dire che il fastidio o la nervosa impazienza, provati dinanzi a nuovi usi di una vecchia parola, spesso esprimono il rimpianto di altri significati o di diversi impieghi. La parola, tratta a nuovi e inattesi scopi, lascia scoperta e nuda l’originaria realtà, che quasi va in cerca di un altro nome. Accade a un dipresso così per la parola “sanzione”, che oggi eccita gli animi e guida scelte di azione pubblica e privata. Si apprendeva, nelle vecchie scuole di diritto (e apprese, o poteva apprendere, la generazione a cui appartiene l’autore di queste prose domenicali), che tutte le norme giuridiche si compongono di un precetto e di una sanzione. Che il primo consiste nel comando o divieto di tenere una certa condotta; e la seconda, nella risposta afflittiva alla violazione del precetto. Nozioni semplici, forse troppo nette e rigorose per individui ebbri di odiosi fantasmi o di fremiti punitivi. E – si aggiungeva come requisiti essenziali – che le norme sanzionatorie devono preesistere al fatto illecito ed esigono la pronuncia del giudice. La sanzione presuppone la inosservanza di una norma e la decisione di un terzo, che stia al di là o al di sopra delle parti. La triade è insopprimibile dall’idea stessa di giudizio. 103
Lo Spettatore
Questo, per la storia del diritto occidentale, è, o era, il carattere più nobile e alto. La figura del terzo; la necessità che la sanzione sia irrogata in un giudizio; che la parte reputata colpevole possa difendersi ed esporre le proprie ragioni; e, dunque, che la sanzione, come perdita di beni economici e male inflitto all’autore del fatto illecito, non appaia arbitraria, capricciosa, occasionale. Nulla hanno da vedere con la solenne ed austera decisione giudiziaria la interdizione a un direttore d’orchestra, o l’espulsione di atleti, o il divieto di corsi letterarî ecc. La sanzione acquistava, nella dialettica delle parti e nella pronuncia del terzo, una sorta di altezza morale, come parola affermata dal diritto tra le contese degli uomini. Ma se quelle caratteristiche e procedure non sono osservate, e non c’è norma anteriore, né accertata colpevolezza del destinatario, né decisione di terzo imparziale; allora siamo dinanzi ad atti di forza, che non meritano la parola “sanzione”, o la utilizzano per schermo argomentativo e retorico. Atti di forza, gesti d’impeto o di genuino sdegno, per i quali la coscienza avveduta non mostra alcuno stupore, e sa bene iscriverli nelle pagine della storia umana. Desta dolore l’uso volgare di parole, che evocano una tradizione giuridica, di leggi e dottrine e concetti, ed ora si vedono piegate a diversi significati, sciolte dalle loro origini e manipolate dalla violenza semantica del potere. Certo, si danno ben uomini politici, o servili studiosi, incapaci di cogliere gli ardui problemi del linguaggio giuridico, dove le parole designano concetti, e questi, a lor volta, rivelano e fissano il contenuto di norme. A costoro può sembrar futile il tormento intorno alle parole, e il 104
Quando la sanzione è atto di forza e non di diritto
sostituire l’una con l’altra, giacché ignorano la funzione costitutiva del linguaggio. Che è altresì funzione educatrice, come si attende proprio nei regimi occidentali di democrazia e libertà, proposti a modelli di chiarezza dialogica e di onestà pubblica. Il linguaggio è elemento decisivo di ogni regime politico, poiché getta un ponte fra gli uomini, fra governanti e governati, li educa e forma cittadini, o li riduce a massa ignara e plaudente. Quando la parola è strappata dalla cosa originaria (e, nel nostro caso, sanzione da requisiti e caratteri di un autentico giudizio), allora se ne fa un uso obliquo e ingannatorio. E le sanzioni, in luogo di conservare il prestigio di atti compiuti nel diritto (di quel diritto applicabile ai destinatarî), scadono a gesti brutali di irosa impotenza. Domenica 15 Maggio 2022
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Scelte politiche e consapevolezza storica
Narrano i biografi che Hippolyte Taine, il grande storico di Les Origines de la France contemporaine, venuto in età di voto se ne astenne, così ragionando: «Sì, per votare dovrei conoscere lo stato della Francia, le sue idee, i suoi costumi, le sue opinioni, il suo avvenire. Perché il vero governo è quello che conosce la civiltà di un popolo». Dubbi e interrogativi, a cui egli dette risposta con la splendida opera, quale si svolge dal ritratto fascinoso dell’antico Regime fino alla Rivoluzione. Il voto, di cittadini elettori o di parlamentari delle due Camere, quando sia privo di consapevolezza storica, si riduce a gesto indifferente, a scelta fortuita non sorretta da interiore necessità. Rari i gravi problemi, che nascano e tramontino nello spazio d’un mattino; ma assai più numerosi, e decisivi, i problemi giunti all’oggi con il carico del passato. Ciascuna nazione (se ancora questa nobile parola ha un senso) porta con sé il proprio passato, la propria memoria di ore serene o oscure, di vittorie e sconfitte, tracciate nelle pagine del mondo. Il “carattere” delle nazioni, che non è certo da intendere in senso costrittivo e deterministico, lascia l’orma nei secoli, e ci forma e definisce nella peculiare identità. Si illudeva la tecno-economia, nel suo dominio planetario, di spegnere le identità e di ridurre gli uomini a uno 107
Lo Spettatore
schema omogeneo, utilizzabile in ogni luogo del globo. E così sorse, a modo d’esempio, la figura del “consumatore”, di colui che acquista e, proprio nel suo consumare, distrugge le merci offerte in vendita. Poiché produzione e consumo si tengono insieme in reciprocità di vincolo, e l’una non può stare senza l’altro. La figura del consumatore – ma pure quella dell’“esperto” – non ha volto né nome. Essa non è definita nella molteplicità di singoli individui, ma nella grigia e oggettiva funzionalità. “Funzione” è la parola che spiega e scioglie ogni problema, e dice la condizione dell’uomo all’interno degli apparati produttivi. Ci torna dentro la risposta di Martin Heidegger nella famosa intervista di Der Spiegel il 23 settembre 1976: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra». La uni-formità del funzionare, ossia del dispiegare la propria competenza entro l’apparato tecnico-economico, sopprime le identità di nazioni e individui, o meglio le soffoca e respinge in un oscuro sottosuolo dove si agitano e aggrovigliano in sé stesse. E allora non c’è da stupirsi se nel sottosuolo delle identità si aprono squarci e crepe improvvisi, quasi in eruzioni violente. Questi vulcani, chiusi nella corporeità di nazioni e individui, non si spengono mai. E quando riemergono seminano rovine, distruggono vecchi ordini, istituiscono nuove forme di convivenza. Soltanto la storia, la conoscenza critica del passato, può mettere al riparo o consentire un relativo grado di previsione. All’algido cosmo del funzionare – temuto o intuito da Heidegger – può opporsi soltanto 108
Scelte politiche e consapevolezza storica
la civiltà di un popolo, con suoi antichi usi e linguaggi e istituzioni: quel tessuto storico, di cui andava in cerca il giovane Taine per esprimere il suo primo voto. L’assenza di storia non rinvigorisce – come forse si crede – la capacità di decisione, quasi che la volontà, libera di ogni peso, possa dispiegarsi nel suo slancio vitale. Sarà scelta arbitraria e capricciosa, fiacca o lacunosa considerazione delle forze in gioco e degli interessi in conflitto. Il silenzio sulla storia, come grava nella quotidianità televisiva, getta gli individui nel più sfrenato occasionalismo, in un vivere alla giornata, che, non conosce il passato, e perciò si nega lo stesso sguardo sul futuro. Non c’è guerra né crisi economica né urto di forze che non abbia bisogno di coscienza storica, del rannodarsi a figure o epoche del passato: il quale “passato”, a ben vedere, passato non è, poiché non passa, non trascorre e scompare, ma resta dentro l’identità degli individui e delle nazioni. Domenica 22 Maggio 2022
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I pericoli dell’ignoranza attiva
Talune Massime e riflessioni Wolfango Goethe pubblicò in vita; altre si dettero in ristampa dopo la morte. Se ne ha in Italia una piccola antologia, un prezioso breviario, con note e richiami di Giuseppe Zamboni. Sono sobrie proposizioni, in cui uno spettatore di altissimo rango osserva fatti della vita, pregi e difetti degli uomini, nascita e tramonti di idee. Non hanno il tagliente e rude stile dell’aforisma, ma la pacata conclusione d’un ragionamento. Sono un libro da tenere sul tavolo di lavoro, da riaprire a caso, da rileggere a conforto o critica di propri dubbi. Non la massima si svolge in riflessione, ma la riflessione si condensa e raccoglie in una mattina. Come dimenticare quella proposizione in cui si legge «nulla essere così terribile come l’ignoranza attiva». Si badi, non la semplice ignoranza, il non sapere questa o quella cosa, l’una o l’altra nozione: che può essere stato di quiete o di riposata serenità. Ma la «ignoranza attiva» (tätige), a cui si accompagna la vanità del fare, dell’intraprendere opere, o di entrare nel giuoco dei fini e degli interessi. Il pericolo è qui, proprio nell’attività, nella pretesa di saccenteria, nel valutare poco o nulla gli altri, e molto e troppo sé stessi. Ignorante – si badi – non è l’incompetente, colui che non conosce la tecnica di un apparato o il funzionamento di una macchina, ma quegli 111
Lo Spettatore
che non sa le cose del mondo e il destino degli uomini, e non ha la sintesi dello sguardo tutto abbracciante. E perciò si danno – e assai ne incontriamo o scansiamo nella quotidianità dei rapporti – competenti/ignoranti e incompetenti/saggi e accorti individui, solleciti a “capire” le vicende e caratteristiche dei tempi. Spicca, per diffusione e gravità di effetti, l’ignoranza del passato, il restringersi all’oggi, alla labile immediatezza del presente. Allora l’ignoranza – come assai spesso si è avvertito in queste prose della domenica – si esprime nel più arbitrario occasionalismo, nel decidere senza il lume del passato e senza un balenio di eventi futuri. Soltanto “occasioni”, contingenti scelte, suggerite da labili alleanze o da patti che hanno ormai perduto significato storico e gravano con il loro peso sul destino dei popoli. È l’occasionalismo, scambiato per prontezza d’istinto o libertà di scelta, ed invece ha soltanto il grigio volto dell’ignoranza attiva. Talvolta gli uomini – al pari di quei nobili napoletani, di cui narra Gino Doria nella sua storia della Capitale – se ne compiacciono e adornano come di rara virtù e privilegio di casta. Ignoranza per snobismo, come della signora che non leggeva libri per non sciupare i languidi occhi. Non l’einaudiano «conoscere per deliberare», ma il sussiego arrogante del «deliberare senza conoscere»: dove il conoscere, per quel che si è sopra detto, è la intuizione storica e la sapienza della vita umana. La vera antitesi sta, non nel sapere tecnico o nella competenza funzionale, ma nell’intelligenza, in questa attitudine a capire, a entrare dentro le cose e gli uomini prima ancora che essi si mostrino del tutto. Il “leggere dentro” è un 112
I pericoli dell’ignoranza attiva
prendere in sé, un farsi diverso per i rapporti avuti con altri, spinto fino al grado estremo dell’amore. La semplice e densa massima di Goethe mette in allarme dinanzi allo sfrenato attivismo di uomini di governo, che, ignari di storia e spogli di sapienza, si dimenano nella quotidiana occasionalità. E dichiarano, con modeste e consunte parole, piani per il futuro; esercitano zelo servile verso potenze straniere; reiterano uggiose professioni di fede. Mai sul loro labbro la parola direttrice, capace di interpretare le vicende del tempo e di accendere un qualche spiraglio nelle tenebre del futuro. Ne nasce così nostalgia per la castigata serietà degli autentici statisti, per il grave riserbo delle scelte decisive, per il capire che sa dominare le cose, e non se ne lascia possedere nell’immediatezza del loro accadere. Domenica 29 Maggio 2022
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Non basta leggere, occorre rileggere
La pagina bianca è in attesa. Chiama e allontana. Ma il vincolo domenicale esige che essa sia riempita: un tema di pensiero, una curiosità sociologica, un moto di sdegno trattenuto e soffocato. Anche avvertiva, quell’oscuro fascino della pagina bianca, quell’ammiccare e respingere, un maestro di stile, il marchese Roberto Ridolfi, che alle brevi prose, con fiorentinesca ironia, dava il nome di “ghiribizzi”, capricci dell’animo; e ne fece una raccolta, che è breviario di garbo letterario e di finezze linguistiche. Scrivere un elzeviro sembrava al marchese fatica quasi più grave e tormentosa delle tre biografie classiche: le vite di Guicciardini, Machiavelli, Savonarola. Ma questa domenica è propizia a “Lo Spettatore”, poiché gli è stato dato di vivere, e, per così dire, gustare nella mente e nell’animo, due adunanze universitarie (si sogliono definire “eventi” con parola densa di ignoto accadere). Gli incontri si sono svolti nel segno della rilettura: che non è un leggere la prima volta, ma un tornare indietro, e riaprire il libro, e ricominciare il dialogo, che ormai ci trova con altri problemi e nuovi interrogativi. Le riletture traggono noi nel passato, e il passato nel nostro oggi: che è un vedere più a fondo nel vecchio libro, ed anche più a fondo in noi stessi. 115
Lo Spettatore
Il problema della rilettura si è presentato, nella sua limpidità storiografica, nel trovarsi, l’una dinanzi all’altra, due età tra ventesimo e ventunesimo secolo. Nell’Aula Magna de “La Sapienza”, il grande affresco di Mario Sironi, quasi ridestato nell’operosa molteplicità delle sue figure, ha abbracciato una vasta platea di studiosi, chiamati, per acuta ideazione di un giovane docente, Giovanni Perlingieri, a “rileggere” libri rilevanti (il “classici” era cautamente rinchiuso tra virgolette) nella storia del diritto civile. A rileggere, e dunque interrogati intorno ai problemi dell’oggi, ed esposti all’alternativa di ciò che è vivo e ciò che è morto: quel poco, che ha lasciato durevole traccia; e quel tanto, che rimane nell’ieri, reso tacito e spento – direbbe Nietzsche – nel «selvaggio fiume del divenire». C’è, al di là del giudizio storiografico, stretto per sua propria indole nel distinguere e segnare differenze, il comune e solidale appello alla memoria, sicché problemi e soluzioni non appaiano germogliati nella quotidianità, ma venuti dal passato. Questa è la giustizia che si deve ai vecchi maestri, i quali ben conoscevano e vivevano la “vocazione professionale della scienza”, il convincimento (per usare le parole del grande Max Weber) che «il destino della sua anima dipende proprio dall’esattezza di quella particolare congettura in quel passo di quel manoscritto». Umiltà, o interiore orgoglio, di sentirsi come anello di una catena, in dialogo con studiosi futuri di quel testo, disputanti intorno a quella tal congettura interpretativa. Appello alla memoria si è levato anche all’Università di Padova, celebrante gli ottocento anni della fondazio116
Non basta leggere, occorre rileggere
ne, dove Manlio Miele, autorevole cattedratico di diritto canonico, e perciò intimamente immerso nella storia, ha promosso la “rilettura” di un corso di lezioni tenuto, la lontana primavera del 1951, su “La crisi del diritto”. Qui non era dialogo sereno e pacato tra l’ieri e l’oggi, ma incalzare di domanda sulla crisi, su questa lacerante svolta, che segna rovina di vecchi ordini e nascita di nuove forme di convivenza. Mentre a Roma si tessevano i fili della tradizione (che è, appunto, un “tradere”, un consegnare da una ad altra epoca), a Padova si pativa il dolore della rottura, del vedere scissa e divisa la forma dello Stato moderno. Da un lato, la potenza della tecno-economia, che non si tiene entro alcun confine, e domina il mondo con le scoperte scientifiche e la volontà di profitto; dall’altro, l’inquieto sottosuolo delle antiche nazionalità e delle vite individuali: queste, ora violente e crudeli, ora serrate in tacita angoscia, ora capaci di scuotere la separazione e travolgere il tutto. La pagina bianca si è andata riempiendo, e così ha consentito all’autore di riguadagnare la distanza dalle cose, ed anche di intravvedere lumi di speranza negli studî di diritto. Quella speranza, che sempre si riaccende quando giovani e fresche generazioni avvertono, e fanno avvertire, la continuità del pensiero. Domenica 5 Giugno 2022
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La gratitudine figlia della libertà
Non c’è sentimento più arduo e imbarazzante della gratitudine. Sempre legata a un qualche episodio, a un contegno altrui riuscito per noi utile o vantaggioso, a una situazione difficile, che ci vide volgerci al vicino, al compagno di banco, e domandargli e riceverne soccorso. Fu necessario considerare gli “altri”, e metterli sul conto della nostra vita: un debito di cortesia, di aiuto, di agevolante disponibilità, o, in casi rari ed estremi, di pericolosa complicità. Quel debito ci sta dentro, e non si lascia dimenticare: pure vorremmo cancellarlo, discacciarlo dalla memoria, e seppellirlo per sempre insieme con i ricordi più urtanti e asprigni. Ma basta un nulla, ed esso ci riappare con una limpidezza, che diremmo pervicace e impietosa. Un banco di scuola, un esame di terza liceo, un compito occhieggiato e copiato, una prova scritta di concorso: e, insomma, tutte le occasioni, in cui lo sguardo e la parola bussarono alla porta altrui. Ed essa, quando non si chiuse con piglio altezzoso o rudezza di rifiuto, si aprì verso di noi: ed oggi ci sembra che ne fummo accolti con malagrazia e sussiego, e quasi imprimendo una subdola ferita nel nostro prostrato orgoglio. E c’è poi lo scrupolo del “contraccambio”, che da antichi e venerati filosofi si congiunse, per modo di esatta giustizia, al sentimento della gratitudine. Ma 119
Lo Spettatore
qui si vuole introdurre una misura di corrispettività, di scambio di favori o cortesie, un ricevere e un dare, che sembra lontano ed estraneo alla sensibilità morale. La quale è soprattutto nella “riconoscenza”, cioè nell’accettare, dentro di sé e in confronto con altri, la realtà di quel tal episodio e di conservarne gelosa e accurata memoria. Nel “riconoscere” è l’autentico contraccambio, lo spirituale corrispettivo di ciò che fu dato o compiuto in nostro vantaggio. Il riconoscere è proprio di animi nobili e forti: nobili, per memoria dei beneficî ricevuti; forti, nel sentire l’operosa continuità della vita, che è trama di incontri e di solidali vicinanze. E capaci anche di tollerare la superba pretesa alla gratitudine. Ed anzi la varietà e misura delle “riconoscenze” è indice di serietà e ricchezza spirituale. Allora la gratitudine non fa paura, non turba e intristisce, ma eccita e riempie la nostra sensibilità. Segno di forza interiore e di fecondo gusto del vivere. Così, intorno a ciascuno di noi, si costruisce un’ideale cerchia di umanità, che nessuno può cancellare e sopprimere. Incontri ariosi, dialoghi aperti e confidenti, un ricevere e dare freschi nella loro nativa spontaneità. La gratitudine vi sta come cerniera, come vincolo reciproco, che non lascia disperdere gli incontri, ma li tiene insieme in una sorta di cappella interiore, dove si celebrano riti di umana coralità. Ben vero che talora si intrecciano rapporti di complicità, di fratellanza istituzionale, di oscura reciprocità. Allora non è a parlare di gratitudine, sentimento di uomini liberi, sciolti da doveri di casta o di consorteria. Qui il vicendevole e statutario soccorso trova radice in vincoli di appartenenza, di milizia laica o religiosa, di comu120
La gratitudine figlia della libertà
nanza di interessi o di affari. È in gioco l’espulsione o la sospensione, la reputazione individuale o famigliare, lo stare da una parte o dall’altra: è dei “nostri” o non è dei “nostri”. Premî e pene rientrano nella logica propria di questi speciali (e talora criminali) ordinamenti. Altro è il terreno della gratitudine, che indica una società di uomini liberi, i quali, nel domandare e ricevere, nel donare e nell’attendersi un moto riconoscente dell’animo, interrogano, non tavole statutarie o torbide intese, ma la loro coscienza. E ne ascoltano le parole e i moniti. Domenica 12 Giugno 2022
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Il diritto di conoscere il padre
Produzione: spaventevole e terribile questa parola, quando si allarga, da cose materiali e beni economici, ad opere d’arte, creazioni di fantasia, saggi di scienza, risultati di pensiero. Certo, il produrre (“pro” “ducere”) è sempre un portare avanti, un segno di accrescimento e di espansione. Ma, nel moderno capitalismo, lo vedevamo congiunto alla tecnica e ristretto alle merci, alle cose venute in rapporto di scambio con il danaro. Sicché si delinea la correlazione del produrre e consumare, e l’uno non può stare senza l’altro. Già l’uso della parola con riguardo alle leggi appariva un presentimento: le norme, decise da uomini per altri uomini, sono “prodotte”, e dunque poste accanto alle merci e destinate al consumo. Non più l’aura, sacra o profana, dell’antico “nomos”, ma l’ossessiva, disfrenata produzione di leggi. Tutto l’umano è per ciò stesso “producibile” con le tecniche di singoli campi e la competenza degli “specialisti”. E l’umano comprende anche l’uomo, nel nascere e morire della sua fisicità. Questo esito già avvertiva Joseph Ratzinger, professore a Tubinga, nelle lezioni dell’estate 1967. Ora raccolte in Introduzione al Cristianesimo: libro di acuta e dolorosa modernità, dove si agitano gli interrogativi più ardui del nostro tempo. Che è epoca del 123
Lo Spettatore
“faciendum”, del manipolabile, dei congegni produttivi estesi fino al nascere dell’uomo. La tecnica, ora elevata ad unica ed esclusiva garanzia di verità, si impadronisce della fisicità umana, e converte la casualità dell’accadere (“capitava” un tempo, di nascere e di morire) in procedura produttiva, utilizzabile e calcolabile dai “competenti” del ramo biologico. Allo Spettatore sovvengono lezioni sul bio-diritto, svolte il 2007 nell’Università brasiliana di San Paolo, dove si affacciava e svolgeva la tesi della “giuridificazione del bios”. Trasaliscono i giuristi, legati al nascere e morire dei codici; tramonta l’efficacia probatoria dei registri di stato civile, nei quali si rispecchiava la vicenda terrena dell’individuo, e l’unirsi in matrimonio, e il generare figli, e l’individuazione pubblica di madre e padre. Il fenomeno non poteva sfuggire alla sottilità di Ernst Jünger, finissimo sismografo dell’età nostra, che nel 1981 annota: «Le leggi possono soltanto agire da barriera o scavare un letto alla corrente. Ma che cosa sono mai le leggi quando una nuova formazione proietta la sua ombra? Lo si può constatare nei giuristi e nella loro mancanza di riferimenti cui appellarsi. Ciò che in questo caso va affrontato e risolto non potevano prevederlo né i codici di diritto civile né quelli di diritto penale. In gioco, infatti, non vi è solo un cambiamento nel quadro del diritto, quello per esempio dello stato civile, ma un evento biologico dalle conseguenze imprevedibili» (An der Zeitmauer, trad. it. Al muro del tempo, Milano, 2000, pag. 233). Ed anche Jünger solleva la domanda intorno al “diritto di conoscere il proprio padre biologico” (domanda, che vedo risuonare nelle risposte date, con delicata sen124
Il diritto di conoscere il padre
sibilità, da Chiara Lalli e Anna Meldolesi nell’addizione settimanale di un quotidiano). Nessun senso ha l’interrogativo ove sia riferito ad una tecnica di produzione, la quale perde nome e volto, e tutta si riassume nell’esattezza del funzionare. La logica dei processi produttivi non risparmia neppure la nascita dell’uomo: impersonale, anonima, astratta. E così si dischiude il terreno dei puri affetti, dei moti dell’animo, sciolti da relazioni genetiche, e perciò germinati e racchiusi nella spontaneità più limpida e impenetrabile. La suprema artificialità diviene fonte di suprema spiritualità. Questa dolce e docile purezza, che è andare oltre etnie e stirpi e rami di famiglie, è come un dono inatteso della tecnica, la quale, avendo abbracciato l’umano, si fa, essa proprio, generatrice di affetti, interiori legami, parentele del cuore. È un modo, anche questo, di attrarre la tecnica nel giro della nostra umanità: non miracolo o catastrofe, che ci stia di contro, ma realtà da noi creata, capace di inserirsi nel giuoco imprevedibile e misterioso degli affetti. Domenica 19 Giugno 2022
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Tra pace e guerra non c’è una via di mezzo
Il titolo di questa prosa domenicale volge in italiano, con tono andante e sbrigativo, l’incisiva densità d’una frase latina: «Inter pacem et bellum nihil est medium». È di Cicerone, il supremo stilista della romanità; e si trova nell’ottava filippica, pronunciata, al pari delle altre, contro Marco Antonio. “Nihil est medium”: nulla è tra i due termini, così enunciati, e vissuti in rigida alternativa. C’è di mezzo il nulla, l’impossibilità logica di una qualsiasi condotta, di un agire che abbia senso nella storia degli uomini. La quale conosce bensì l’intermedio, il conciliante, il negoziato, il transattivo, ma recisamente lo esclude nella polarità estrema di guerra e pace. Queste sono situazioni, in cui gli uomini raggiungono il più alto grado di intensità, si tendono fino allo spasimo, e avvertono che è in giuoco l’identità di ciascuno, si voglia individuo o Stato. Le classiche pagine di Carl von Clausewitz illuminano circa l’inesorabile reciprocità della guerra, di questo “urto di forze viventi”: «Fintanto che non ho abbattuto il nemico, devo temere che egli abbatta me, quindi non sono più padrone delle mie azioni, ma egli impone a me la legge come io la impongo a lui». Questa ferma distinzione, che, come è ovvio, chiama gli uomini politici e i governi alla responsabilità del127
Lo Spettatore
la decisione, si è andata sfumando e corrompendo per una sorta di dissimulazione o ipocrisia internazionale. Il “medium” si è riempito di “misure” e “contro-misure’, di “sanzioni” (non irrogate da alcun giudice e senza alcun processo), di “aiuti”, e militari e finanziarî, agli Stati in guerra. Le parole “guerra” e “pace” hanno perduto la loro esclusiva perentorietà, e vengono annebbiate e velate di pudori politici. Cicerone ne sarebbe sconvolto, egli che, proprio nella ottava orazione, si affatica a distinguere il “tumultus” dal “bellum”. Del fenomeno ebbe piena consapevolezza Carl Schmitt, grande e controverso proprio per penetrante lucidità e impietosa sincerità delle diagnosi storiche. Il quale già nel 1938 denunciava la «abnorme situazione intermedia tra guerra e pace, in cui tutte e due le cose sono mischiate», e ne ravvisava la causa, non soltanto nella legalità ginevrina (della Società delle Nazioni), ma anche nella «estensione dell’idea di guerra alle attività non militari – economiche, propagandistiche ecc. – dell’inimicizia». A titolo di merito per la scienza giuridica italiana, è pur da rammentare che Schmitt richiamava il nostro internazionalista Arrigo Cavaglieri, autore nel 1915 di un saggio critico circa i “mezzi coercitivi al di fuori della guerra”. La dissimulazione svigorisce di significato le norme costituzionali (come l’articolo 11 della nostra Carta), e falsa la posizione delle parti politiche e dei governi, i quali nascondono a sé stessi, con inganni psicologici e linguistici, l’autentica realtà delle decisioni assunte. La serietà educativa della politica, necessaria e salvifica in tempi calamitosi come il nostro, vorrebbe il ritorno 128
Tra pace e guerra non c’è una via di mezzo
alla nettezza classica, alla scelta, grave e profonda, tra guerra e pace, senza velami linguistici e tardivi pudori di coscienza, ma con la piena e radicale assunzione di responsabilità. Le formule intermedie sono scuola di “non onesta”. dissimulazione. Che tocca i dibattiti parlamentari, gli indirizzi di governo, le pubbliche dichiarazioni, le notizie diffuse da stampa ed altre fonti comunicative. Il cittadino è come smarrito, non sa se lo Stato, a cui pure appartiene, sia in guerra, e dunque nella necessità di sacrificî e rinunzie, o in sereno periodo di pace. La coscienza individuale e collettiva non ha la chiarezza indispensabile per vivere tempi difficili. Domenica 26 Giugno 2022
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Tenere la distanza è faticoso ma necessario
Lo Spettatore guarda, ascolta, annota; non sta nelle cose e fra le cose, ma le tiene e osserva a distanza. Se ne fa estraneo e si aggira intorno ad esse (quasi si ricanterebbe il distico di Umberto Saba: «Guardo e ascolto, però che in questo è tutta / la mia forza: guardare ed ascoltare»). Faticosa è la distanza, il dis-tare, lo star lontano; e insieme capire ciò che accade, e fermare sulla pagina bianca impressioni e commenti. La vita ci avvolge da ogni lato, e prova a trarci dentro di sé, partecipi e complici del suo farsi. Anche il guardare e notare dello Spettatore è un fatto, immerso, al pari di innumeri altri, nel cammino degli uomini. Anche chi dorme – ammoniva il grande Eraclito, l’oscuro filosofo di Efeso – «opera e collabora a ciò che avviene nel cosmo». Nessuno può trovar scampo da questo operare e collaborare, neppure Lo Spettatore nel suo arduo lontanarsi e discostarsi. L’antico frammento non sopprime né nega (a dirla con Nietzsche) il pathos della distanza, questo sforzo di essere insieme fuori e dentro: fuori, per osservare, come da un lieve poggio, il corso del fiume; dentro, per misurarne le acque, e discoprirne l’origine e la foce. Assai spesso, per non dire sempre, la raggiunta distanza mette al riparo da fugaci giudizî, da chiassoso 131
Lo Spettatore
e rissoso urto di partiti politici, dal vocio confuso della piazza. In uno dei breviari di saggezza, che conviene di consultare in ogni ora della vita, Il libro degli amici (Buch der Freu) di Hugo von Hofmannsthal – delicatamente volto in italiano da Gabriella Bemporad – leggiamo: «È un’arte sgradevole ma necessaria tenere a distanza gli uomini volgari con la freddezza. “Soltanto il freddo trattiene il fango, che non t’insudici i piedi” dice un proverbio arabo». Ma che cosa è propriamente volgarità, che è da tenere a distanza e da non insudiciarvisi? Non è problema di classi sociali, né di tono di vita, né di stile esteriore, ma dello sfrontato o spocchioso rapporto con gli altri. Il quale può incontrarsi dovunque: in ignoranti e competenti, in colleghi di lavoro e gente d’affari, in dotti conversari o in fortuiti avvicinamenti. Pure la “freddezza”, che il poeta tedesco raccomanda per protezione dello spirito, è “arte sgradevole”, esercizio faticoso di parole e gesti. Perché la volgarità è di per sé tracotante e invasiva, usurpa eguaglianza e parità, tenta di trascinare sul suo proprio fangoso terreno. Tocca il grado più alto congiungendosi con il potere, politico o amministrativo o economico: non l’autentico potere, amante di riserbo e pudore, nascosto all’occhio indiscreto e profano; ma il “volgare” potere dell’avere, la labile autorità di ufficî pubblici, la frivola modernità di circoli cittadini. La volgarità ha, per dir così, un suo inconfondibile e percepibile odore: si avverte da subito, tradito da inattesa familiarità o da un tratto del volto; non è timida dinanzi alla porta, ma irrompe con oscura pervicacia o con vezzo di falsa signorilità. E talvolta induce anche colo132
Tenere la distanza è faticoso ma necessario
ro, che subito l’hanno fiutata e riconosciuta, a contegni disdicevoli e scontrosi, assunti per difesa o per istintiva repulsione del gusto. Questo rifiuto – come osserva Hofmannsthal – è bensì un’arte, un modo abile e destro di stabilire la distanza, ma spesso non può esprimersi con sollecita prontezza, ha bisogno di un qualche tempo per studiare l’offensiva della volgarità. Intervalli penosi e imbarazzanti, tra il dire e non dire, tra provvisoria apertura di dialogo e sprezzante diniego. Se ne esce di malumore, insoddisfatti di sé, con un fastidio d’animo che dura nel tempo: non aver scorto subito le tracce della volgarità, aver concesso credito di simpatia o di stima, un rimprovero alla nostra credulità e ingenua fiducia. Faticosa e necessaria è, dunque, la distanza, il lontanarsi accorto da cose e uomini, e vederli sul palcoscenico del mondo, mentre Lo Spettatore si rifugia in un angolo laterale dell’ombrosa e silenziosa platea. Né di contro possono levarsi gli argomenti dell’eguaglianza, del trovarsi fisicamente insieme sulle strade del mondo: che sono raziocinii astratti e indeterminati, mentre la storia, nel suo libero svolgersi, ci fa diseguali, non l’uno all’altro superiore, ma l’uno dall’altro diverso. Domenica 3 Luglio 2022
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La riservatezza che guida l’agire dello statista
Un’immagine, data in giornali cartacei e schermi televisivi, ridesta nella memoria una pagina del Breviarium politicorum, in cui il cardinale Mazzarino ammonisce l’uomo di governo intorno al leggere e allo scrivere. Se ne offre il testo dalla traduzione italiana del 1698, che ebbe per titolo Epilogo de’ Dogmi Politici secondo i dettami rimastine dal Cardinal Mazzarino; e può trovarsi nella ristampa, curata da Giovanni Macchia in aristocratica collana della Rizzoli: «Se ti occorrerà scrivere in un luogo frequentato da molti, appoggia a un lettorino [= leggio] qualche foglio già scritto, come se avessi a ricopiarlo. Egli sia patente, e in prospettiva; ma la carta, dove realmente scrivi, stia distesa ugualmente sul tavolino, e talmente cautelata, che non comparisca, se non la sola riga della trascrizione, che possa leggersi da chi vi si accosta. Quello però, che hai scritto, riparalo con qualche libro, o altro pezzo di carta, ovvero con altra carta sostenuta, come la prima, ma più appressata allo scritto». Nel giuoco ingegnoso del foglio scritto e del foglio simulatamente copiato traluce l’arte del segreto, che Mazzarino prese a principio di vita e criterio di governo politico. Il segreto, gli “arcana imperii” di Tacito, accompagna l’agire dello statista, il quale ha, e trattiene dentro di sé, i disegni più arditi e le scelte più gravi. In altro 135
Lo Spettatore
“dettame” del Mazzarino (a cui Lo Spettatore professa reverenza anche per vincolo di nascita nella Marsica, remota terra dell’Abruzzo ulteriore), si legge: «Non fidare a chi che sia segreto rilevante; perché non è alcuno, che appena trascorso lo spazio di un’ora, non ti possa divenir nemico». Moniti circa l’assoluta e cangiante relatività della posizione di amico o nemico, di “operar circospetto”, di “fidanza guardinga”, che nulla hanno di torbido e oscuro, ma piuttosto suggeriscono la meditata serietà della parola e l’interiorità della decisione politica. Né di contro possono levarsi gli zelanti sacerdoti della “trasparenza” (parola che, insieme con “opacità”, ci giunge dagli studî di linguistica, ed è oggi piegata agli usi più arbitrarî), che è bensì pregio di procedure pubbliche e di faticosi percorsi amministrativi, ma non tocca la sfera più intima e chiusa dell’individuo. Se il “trasparente” si fa ostentato e primitivo accadere delle cose, o descrizione pubblicitaria di stati fisici e di vicende tra erotico e affaristico, allora rinasce, nelle menti più colte e negli animi più sensibili, la nostalgia del segreto, del pudore personale e famigliare, dell’austero silenzio. La riservatezza, questo tener dentro uno spirituale recinto le avventure e i casi della vita, è propria di animi nobili e forti, che non temono lo stare con sé stessi, il compiere in solitudine le scelte più gravi. L’arcano del potere non ama la precipite decisione, l’umorosa e istintiva risposta, ma la cauta lentezza, lo sguardo pacato e freddo su cose e uomini. Il rischio dell’immediata e fortuita “intervista” gli è avverso ed estraneo. Segreto non è il torbido, che si voglia celare ad altri per timore di 136
La riservatezza che guida l’agire dello statista
giudizio o riprovazione sociale, ma l’intimo pensare, e l’urto, avvertito dalle deste e schiette coscienze, tra alternative e dubbi e ragioni di questo o quel decidere. La moderna civiltà d’Europa, distinguendo sfera pubblica e sfera privata, mondo degli affari pubblici e angolo dei sentimenti e delle fedi, ha elevato confini non superabili dall’occhio collettivo, e così garantito la gelosa libertà del segreto. Che sempre è segreto, e non varia per l’oggetto del riserbo, sia decisione personale di vita o scelta di governo, rapporto di intima famigliarità o disegno di azione politica. Esso appartiene alla sovranità individuale, ed è da proteggere e difendere contro gli assalti di masse mai sazie nella loro curiosa indiscrezione. Il declino del segreto non è segno di ariosa e spregiudicata società, ma di crisi del mondo individuale, che non si raccoglie in sé stesso, spaurisce nella solitudine tormentosa della coscienza, e perciò ama annegarsi o nascondersi nella palude collettiva. Domenica 10 Luglio 2022
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La storia è tramonto e nascita di ordini
È accaduto allo Spettatore, in pubblico dialogo con un eminente fisico, di richiamare l’ardua notazione di Henri Bergson: il quale, distinti un ordine automatico o geometrico e un ordine voluto, finisce per ridurre il disordine a mancanza dell’ordine desiderato o auspicato dall’osservatore. L’ordine essendo un «certain accord entre le sujet et l’objet». E, dunque, disordine quale mancanza della nostra idea di ordine, e tale, come rimpianto del passato, o come volontà tesa al futuro. E già nella più semplice esperienza quotidiana – argomenta Bergson – può sfuggire, entrando in una stanza di abitazione, l’accusa o il rimprovero di “disordine”, poiché oggetti, arredi o abiti scompagnati, non sono disposti secondo un nostro disegno. Così la nozione di disordine nasce dal confronto delle cose come sono con una diversa, rimpianta o immaginata, configurazione di una data realtà. «J’appelle alors désordre l’absence de cet ordre». Forse la definizione di Bergson è interpretabile in ciò, che le cose sono sempre in un certo ordine, ancorché esso non soddisfi l’idea di ordine propria dell’osservatore. La storia non offrirebbe un avvicendarsi di disordine e ordine, ma una serie continua di “ordini”, ciascuno con caratteristiche e modi che ne segnano l’irripetibile identità. 139
Lo Spettatore
Non si nega (e come mai si potrebbe?) la transizione da uno ad altro ordine, poiché nessuno ha il privilegio dell’assolutezza e della eternità. Ma tutti giacciono nella precarietà, nel divenire storico e nell’urto delle forze vitali, da cui vengono innalzati o abbattuti, istituiti o destituiti. C’è sempre un evento, o un insieme di eventi, che determina la disgregazione e la crisi di un ordine, e prepara e lascia intravvedere le linee del nuovo. Questo, che altri chiamerebbe passaggio dal disordine all’ordine, si rivela come l’ininterrotto svolgersi degli ordini, a nessuno dei quali è concesso di arrestare tale fluire e di instaurare un ordine perenne. Pagine gravi e confuse, talora crudeli, e grondanti lutti e rovine, sono quelle della transizione dal vecchio al nuovo ordine. Vi si scatenano passioni e ambizioni, istinti di violenza e morte, eroismo e viltà; e tutto ciò che l’uomo trae con sé in queste ore insieme distruttive e creatrici. «È vero – ammoniva il grande storico Leopold von Ranke –: i movimenti mondiali distruggono sempre nuovamente il sistema del diritto, ma, allorché sono cessati, questo si ricompone da capo e tutti gli sforzi mirano soltanto a ricostituirlo». Poiché non c’è (o agli uomini non è dato di conoscerlo) un ordine assoluto, che sovrasti gli altri e si ponga per modello, e vincoli a sé le forze in campo, ma tutti sono gettati nella precarietà della storia, nessuno è in grado di disegnare il nuovo “sistema” e di tracciarne i contenuti con alta prevedibilità. Questo ignoto del domani accompagna le transizioni: si vedono le rovine del vecchio, ma non ancora i netti contorni del nuovo “sistema”. E nulla può fare il diritto, che, per dirla hegelianamente, si leva al tramonto, e 140
La storia è tramonto e nascita di ordini
accoglie nelle norme l’incontrovertibile accaduto. «Fert unda nec regitur»: non c’è argine di diritto, di leggi e tribunali, che valga a contrastare e dirigere l’onda tempestosa e schiantatrice dei fatti. Difettano di senso storico, o vagheggiano ordini assoluti, dettati al di là o al di sopra di tempo e spazio, coloro che non avvertono questo travaglioso divenire, l’irrevocabile tramonto e l’aurora degli ordini terreni. Che non è né fatuo ottimismo né pessimismo tragico, ma umana coscienza del destino, che tutto travolge e tutto ricostruisce. Lo sguardo deve farsi più libero e acuto, e sorprendere, se sa e se vuole, le forze del sottosuolo, quelle potenze, nascoste e tacite per lungo tempo, ora risvegliatesi e pronte a costituire il nuovo ordine. Le quali potenze o hanno antiche radici di identità e nazionalità, o emergono con superbia tecnica, o irrompono per l’immane dolore della povertà. Un evento bellico non le determina, ma le rivela e sospinge nella loro impazienza rinnovatrice (o, per anime belle e cuori pii, sovvertitrice). Il destino dell’uomo non è di starsene quieto in una serenità senza fine, protetto in un ordine senza tramonto, riposante in uno scorrere d’ore senza tempeste. Ma di vivere fra lotte di idee e urto di sentimenti, con passione lucida e operosa. Domenica 17 Luglio 2022
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Il diario e l’importanza di dialogare con sé stessi
Queste prose domenicali si compongono quasi in un singolare diario: spunti da letture, rimandi della memoria, impazienze di carattere, osservazioni “dal vero” su eventi e figure del nostro tempo. Inconsueto, poiché il diario evoca un quotidiano confessarsi, un intimo resoconto con sé stessi, un vespertino raccogliersi nella pagina bianca. Ben può replicarsi che il diario, a dispetto dell’ètimo (dal latino dies), è ormai larga e generosa categoria, in cui alloggia una varietà di scritture, unite soltanto dalla cadenza periodica, da una sorta di convenzione che l’autore stipula con il tempo. Codesto è davvero fra i segni distintivi, che suscita un vincolo per l’autore e un’attesa nei lettori. Quando, s’intende, il diario sia dato alle stampe, e perciò perda la sua originaria intimità e riservatezza. Ci sono diarî chiusi nel cassetto, o celati al fondo polveroso di un armadio, e destinati a restare così, orma segreta di un passaggio per le vie del mondo. E diarî, invece, che vengono a stampa durante la vita; allora sono piuttosto pagine narrative di fatti o descrittive di figure, e ne è splendido esempio il Journal dei de Goncourt. Non se ne saprebbe qui esaltare la tenace continuità (dal 1851 al 1896), il concorde sentire e giudicare dei fratelli Jules e 143
Lo Spettatore
Edmond, l’inquieto e nervoso sopravvivere del secondo dopo il 1870 e fino alla pagina estrema. Ma è opera che sta a sé, quadro visivo di un’epoca, dove si racconta assai più degli altri che degli umbratili autori. Quali che siano tipi e modi, il diario è sempre un’oggettivazione della coscienza, un raccontarsi quasi dal di fuori, un proiettarsi su uno schermo e vedersi come spettatori di sé stessi. L’oggettività narrativa o confessoria ha la sovrana virtù di trarci fuori dai grumi sentimentali e dagli intreccî quotidiani; sicché l’intima sofferenza del ripassare il tempo, le “morte stagioni”, trova compenso in un rasserenarsi dello spirito e in un conscio tacere di affanni e dolori. Ardua e faticosa da conquistare è l’oggettività, e non soltanto sulle pagine di diario, ma pure in scritture di pensiero e di ricerca scientifica. Sempre ci assalgono i turbamenti del “piccolo io”, gli attriti psicologici, il fastidiante agitarsi dell’animo, da cui si levano rifiuti e settarismi, odî teologici e urti di scuole, e come un indistinto rimescolio di sensi. I diarî, i “mémoires”, i giornali di bordo, ci aiutano nel liberarci da questa interiore oscurità, nel recar luce di ragione entro la buia caverna. La pagina bianca ci attende nella sua capacità di salvezza, in un sobrio offrirsi alla nostra pena o al caos rissoso dei sentimenti. Diveniamo spettatori della nostra vita, scoprendone cadute e vuoti, debolezze e tratti di energia. E tutto si deve alla parola redentrice nel suo spasimo di oggettività: non nel renderci più poveri, e immiseriti e perduti nel deserto, ma rivelandoci a noi stessi, ciascuno con il segreto del proprio destino. 144
Il diario e l’importanza di dialogare con sé stessi
Era consuetudine di donare, al compimento della maggiore età, ornati quaderni di diario, pagine bianche da riempire nel corso degli anni. Delicata e avveduta consuetudine, poiché sospingeva verso il colloquio interiore, non aver paura di star soli e di parlare con sé stessi, sollevarsi, d’alcun poco, verso la serenante oggettività. Ma oggi è caduta quella consuetudine, forse schernita per costume borghese o leziosità da convitto femminile, e anche avanza, sinuosa e incurabile, la paura dello star soli; e così il naufragio nella pubblicità mediatica e nel conformismo appare come l’unico e gratuito salvagente. Il diario riconduce a sé stessi, rende consapevoli del rapporto con il tempo, dello svolgersi da un inizio verso l’inesorabile compimento, di questo farsi uomini, capaci di trascendere la muta naturalità, e di costruire, giorno dopo giorno, il loro mondo. *** È velata questa prosa da un’ombra di tristezza, poiché dubbî linguistici e lacune letterarie non possono più sciogliersi nella fine e generosa parola di Luca Serianni, strappatoci, nel destino comune al grande filologo Giorgio Pasquali, da una violenza schiantatrice. Domenica 24 Luglio 2022
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La nostalgia del villeggiare e la gabbia delle ferie
Si villeggiava; si andava e si stava in villa. La parola evoca tempi lontani, costumi di nobiltà e di borghesia, che dalla città si ritraevano nella casa di campagna, dalle strade affollate nella solitaria frescura dei boschi. La parola non dice nulla di lavoro e di riposo, di tregua aperta nell’incalzante quotidianità: essa esprime piuttosto un luogo e uno stile architettonico, e modi e forme di schiva civiltà. Leggevamo, nel decennio ’70/’80 del secolo scorso, le prose finissime del marchese Roberto Ridolfi, che tutte si aggiravano e connettevano ai poggi fiorentini, alle erbose viottole, alle “terrazze olivate”, e insomma allo stare in villa. Addio alla Baronta ne raccolse e custodisce le ultime: un fragile e piccolo libro, che nella scansia sceglie di certo, per vicino e consonante, Villa, il saggio tra svagato e malinconico, di Rudolf Borchardt, tedesco amantissimo del nostro paesaggio e delle case di campagna, che vi sorgono, nude e semplici, con alti e rudi muri di cinta. Il villeggiare era un star lontani dalla città, e insieme un gusto di letture e di silenzi, di radi e scelti incontri, un ritrovarsi fra pochi nelle stesse idee e fin nei medesimi tratti e contegni di vita. Già la parola vacanza ha altro timbro e capacità evocativa. C’è l’eco di qualcosa a cui ci sottraiamo, che lasciamo dietro di noi, che prima ci occupava e teneva legati. Non 147
Lo Spettatore
tanto libertà, quanto liberazione: l’andare in vacanza è sì uno sciogliersi dai lacci, ma un andare senza meta prestabilita. Non c’è il “verso dove”, di cui è invece pieno e denso il villeggiare. Si può andare in vacanza e restare in città, scrollarci di dosso un peso o una fatica e non desiderare altri luoghi. Così, mentre nel villeggiare risuona anche l’idea di un avere – villa, si spiega in un lessico ottocentesco, è «possessione con casa da abitarvi il padrone» –, vacanza non dice né luogo né proprietà, ma un semplice gesto liberatorio, un abbandono arioso e lieve e talora ironico (la memoria è pronta a offrirci titoli di film classici, da Les vacances de Monsieur Hulot a Vacanze romane). Ma oggi tutti si scambiano domande sulle ferie, e fanno programmi di come trascorrerle. O, meglio, passarle, perché nella parola c’è il tono di qualcosa che deve esser fatto e compiuto. Prendere le ferie non è né villeggiare né andare in vacanza: non ha il fascino esclusivo e possessivo dell’uno, non il respiro e la spigliatezza liberatrice dell’altro. Le ferie indicano un riposo necessario, corrispettivo di un lavoro, al servizio del quale sono concepite e utilizzate. Esse s’inscrivono sempre, o quasi sempre, in un piano: piano dell’impresa o della qualsiasi struttura produttiva, in cui sono calcolate e distribuite. Il linguaggio delle ferie è il linguaggio del piano, che ripartisce uomini, determina tempi, prevede sostituzioni, fissa presenze e assenze. Se in villeggiatura e in vacanza vibra una nota di scioltezza, di decisione soggettiva e di gusto personale, le ferie appartengono invece alla razionalità del mondo economico, al calcolo rigoroso della produzione. Ferie irregolari e arbitrarie romperebbero 148
La nostalgia del villeggiare e la gabbia delle ferie
il ciclo produttivo e getterebbero nel caos la razionale continuità dell’impresa. Questo, che sembra un discorrere di parole e un esercizio della stanca estate, si rivela così una riflessione sul vivere del nostro tempo, che poco conosce la civiltà del villeggiare o l’apertura estrosa della vacanza, ma si chiude nella gabbia, rigida e razionale, delle ferie, cioè di soste organizzate in moduli uniformi e ripetitivi. Pure in esse la verde e fuggevole età, o l’animo libero e sereno, aprono varchi di spensieratezza, di abbandono, e di gioioso disfrenarsi dei sensi. Ognuno può ricavarne secondo proprie attitudini e fantasie, fuori da vincoli di luogo o di classi sociali. Queste tre specie si raccolgono nel cerchio magico dell’otium, e significano tutte lontananza dall’impegno, e tutte racchiudono un non so che di pigrizia (come si legge in un vecchio e ingiallito vocabolario), un lume o illusione di libertà. Anche Lo Spettatore ne prova una qualche vaghezza, e guarda al mite e pallido settembre. Domenica 31 Luglio 2022
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Le carceri e il dovere del rieducare
«Anche agosto, anche agosto/andato è per sempre!». Così canta in strofa alcionia il poeta della terra d’Abruzzi. Giunge il pallido settembre con sue trepidezze e malinconie. Lo sguardo dello Spettatore si fa più prensile e desto. Incalzano eventi politici, gridìo di promesse, unirsi e dividersi di fazioni. Ingannevoli “programmi” tengono luogo delle idee: non si ascolta parola, che segni la direzione comune e indichi il “verso dove”. L’animo se ne distoglie deluso, e dentro gli preme un fatto doloroso della fuggente estate. Una giovane donna che in carcere decreta la propria fine; la nobile e scavata lettera d’un giudice. Si avverte come una disperata indignazione, un fremito amaro della coscienza, un dubitare intorno alle ragioni stesse del nostro convivere. Perché convivere è rompere la solitudine, spezzare il duro confine tra privato e pubblico, e dunque far proprie le cadute e debolezze e angosce dell’esistenza individuale. E sovrattutto non rinserrarsi entro la crudele superbia del giudizio. C’è nella nostra Carta una norma, che ha la perentoria severità d’un monito religioso: articolo 27, nel secondo comma: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla ri151
Lo Spettatore
educazione del condannato». È chiusa per noi l’antica disputa sulla funzione della pena, ormai destinata, per vincolo costituzionale, al fine pedagogico. “Rieducazione del condannato”: sì, condannato, e dunque oggetto di giudizio secondo le leggi dello Stato; ma condannato al fine della rieducazione. La quale è parola di profonda serietà; e tutto ispira, o dovrebbe, il cammino della giustizia penale. In essa non c’è tratto di violenza pedagogica (come pur si conosce in pagine oscure del Novecento europeo), ma di restituzione alla consapevole e interiore libertà. Il condannato scelse tra le possibilità della vita; e a codesta radice di libertà è ora da ricondurlo, e quasi ricollocarlo nel suo tempo. La storia del suo delitto è storia della sua libertà, del suo inerme trovarsi dinanzi a scelte e alternative di vita. Se vi fosse vincolo deterministico, naturale necessità di ciò che accade o viene compiuto, egli non sarebbe né colpevole né responsabile. E neppure si concepirebbe giudizio, ma soltanto un ricostruire scientifico di connessioni causali e derivazioni genetiche. La libertà è insieme fondamento del delitto, del giudizio, della pena. Il fine supremo della rieducazione, se impone alla pena detentiva una misura che permetta di adempiere così arduo dovere, più ammonisce a ridurre e circoscrivere i reati colpiti con perdita della libertà personale. Onde ne sorge il terribile interrogativo: come rieducare, ossia restituire alla coscienza della libertà, l’uomo che ha perduto la stessa disponibilità del proprio corpo? non è forse la coercizione fisica intimamente avversa alla rieducazione dello spirito? 152
Le carceri e il dovere del rieducare
Questo è il dilemma, che emerge da quella lettera sconsolata; e va oltre il caso singolo fino a inalzarsi a essenziale problema del nostro stare insieme, del comune riconoscerci in un principio costitutivo. Vi vibra un’ansia di unità, che non separa il colpevole dal mondo, ma piuttosto ve lo riconduce mostrando che stava nella sua libertà di diversamente volere. In una storia del diritto penale, dettata, negli anni Trenta del secolo scorso, da un acutissimo filosofo di scuola gentiliana, si leggono parole di stringente profondità: «Quando il giudice giudica e punisce, non si volge propriamente all’altro da sé, ma a se stesso, e giudica e punisce se stesso in quanto umanità. Perché possa parlarsi veramente di pena, il giudice non deve essere estraneo al delinquente, né questo a quello: è l’uomo che in essi pecca e si redime». Nulla va aggiunto alla strenua lucidezza di Ugo Spirito. Il rieducare esige, come sempre, l’unità interiore tra i soggetti, sicché l’uno si riconosca nell’altro, e insieme trovino le aspre vie della libertà. *** Sia lecito allo Spettatore di dar notizia che due enti di rilievo – la società “Sport e salute”, guidata da Vito Cozzoli, e la “Fondazione Nicola Irti per le opere di carità e di cultura” – hanno stipulato un’intesa collaborativa per promuovere nelle carceri minorili il “rieducare” attraverso lo sport; e che su questo tema si fermò l’intensa prolusione accompagnatoria del prof. Gabrio Forti. Domenica 4 Settembre 2022
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Il tramonto delle ideologie e la mancanza di ideali
Il tramonto fu salutato a festa con impazienza liberatrice. Erano cadute le ideologie, dominanti il secolo ventesimo; e, negli anni del dopoguerra, rese aspre dall’urto dei partiti politici. Alba di un nuovo giorno; respiro più largo e libero; scioltezza nel pensare e nell’agire. Con ignaro esercizio di marxismo teorico, le ideologie furono respinte e seppellite come “falsa coscienza”, ingannevoli vesti di interessi egemonici. Ma grande fu la sorpresa e amaro il disinganno. Le ideologie, nel loro declinare, trascinarono ogni cultura politica, ogni serio pensiero intorno al domani collettivo. E il luogo ne fu preso da empirismo e occasionalismo: dove per l’uno s’intende l’assenza di un disegno, di una visione che tracci il cammino dal passato verso il futuro; e per l’altro, un rispondere alle circostanze dell’ora, un disperdersi nella minuta quotidianità. Né può valere in difesa o spiegazione storica, la esibita “concretezza” delle scelte, poiché il concreto, la solitaria particolarità del decidere, acquista senso soltanto nel quadro di un principio o idea direttiva. È, codesto, un sentirsi fragili, che talvolta chiede ausilio a vecchi miti o a solenni schemi oratorî (appello all’Europa o alla Carta costituzionale o al sentimento di nazionalità, e così seguitando). O rispolvera, e tira a lucido, le formulette geometriche di centro, destra, sinistra. 155
Lo Spettatore
Espedienti o stampelle argomentative, utilizzate per coprire il vuoto o la debolezza di cultura politica. La quale si vede ridotta a programmi, assai spesso improvvisati per l’urgere di consultazioni elettorali, e composti di una irrelata molteplicità di temi, raccolti fra desiderî attese risentimenti di massa. Ma cultura non sono, privi come appaiono di radici storiche e di sguardi penetranti nel futuro: di un conservare e progredire, legati insieme, e l’uno appoggiato sull’altro. Cultura non è precettistica o prontuario di soluzioni su singoli problemi, ma un’idea complessiva e unitaria di svolgimento nazionale. Processo che si fa nel tempo, dove idee e fatti s’intrecciano, e si spiegano vicendevolmente; e così ne nasce una linea insieme di continuità e di sviluppo attraverso le generazioni, e un sentirsi dentro un alveo comune. Storia di una nazione è la cultura politica, la quale non nasce soltanto per pagine di filosofi o scrittori di cose sociali, ma per una connessione di carattere interpretativo con l’intero passato. Quelle ideologie, di cui fu salutato il tramonto, custodivano anche robustezza di orientamenti culturali, e si diffondevano in scuole, ed educavano giovani all’impegno politico. Non si vuole di certo rianimarle, e resuscitarle dai loro sarcofaghi, ma trarne lezione di serietà e di coscienza storica. Rimane, per dir così, un lascito ereditario, meritevole di esser raccolto, e reso conforme ai tempi nuovi. Giacché – come insegnava un nostro filosofo – «una classe dirigente degna deve essere una classe sapiente»: dove sapienza non indica una qualche erudizione o specialità di dottrina, ma la capacità di raccogliere e tener vive la tradizione del singolo popolo e le 156
Il tramonto delle ideologie e la mancanza di ideali
esperienze del passato. I grandi ideali – di eguaglianza e libertà liberatrice, di società in cui sia dato a ciascuno di esprimere la pienezza delle proprie capacità, di scuole severe e rigorose, di onestà personale e di moralità collettiva –; questi, ed altri ideali e miti e sogni, possono farsi cultura, riannodando i fili del passato e spingendosi verso il domani con animosa fiducia. Farsi cultura è trascendere empirismo e occasionalismo, prender partito sulle questioni ultime e decisive, non isterilirsi nella comoda taccia di conservatori e progressisti. Comoda, eppure incapace di dare risposta alle domande che sovrastano tutte le altre, e riemergono inappagate nei bolsi programmi dell’ultima ora. Il “che cosa fare” non si elabora in officine tecniche o in segreterie di partiti politici, ma sorge e si definisce in una visione d’insieme, nella concreta e determinata storicità del Paese. Qui, nel ricostruirla e interpretarla, si misura il talento politico e la legittima attesa del consenso elettorale. Domenica 11 Settembre 2022
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Torniamo al lei: il tu è solo finzione di parità
Sotto la data del 12 maggio 1869, il Journal dei de Goncourt annota: «Questa sera, in fondo alla serra della principessa [Mathilde, figlia di Gerolamo Bonaparte], Flaubert si rivolge con il lei (nel testo francese: vous) a Madame Sand, che, rispondendogli, si lascia scappare un tu. La principessa ci lancia un’occhiata. È il tu di un’amante o di una che fa la commedia?». La malizia mondana, il tono salottiero, non impediscono di cogliere l’importanza del pronome. Il tu è protagonista dell’episodio, e suscita la capricciosa alternativa della principessa e il gusto narrativo dei diaristi. Non era il tu del banale e quotidiano “tutoyer”, ma un tu carico o sospettato di complice intimità. Appunto, il remoto 1869, quando i pronomi conservavano un profondo significato, ed esprimevano rapporti personali o distinzioni di classi sociali. Un significato ormai sepolto e perduto. Il tu conosce, e accresce di giorno in giorno, un’espansione inflattiva. Si dà nei negozî, su tram e treni, in luoghi di lavoro, in cene di accomodata borghesia, in circoli marini e fluviali, insomma dovunque non ci sia lo schermo insuperabile di un’autorità o di una scala burocratica. Il tu, timido e fantasioso, della contestazione studentesca ha ormai l’aria del riguardo più vigile e accorto. Non fu il prin159
Lo Spettatore
cipio, e se ne sta sereno in archivio fra i ricordi di gioventù. Così sciolto e diffuso, irriflesso e nativo, il tu ha finito per sciupare e perdere ogni nascosta intimità, e conserva a fatica raro significato di fiducia o affetto o stima reciproca (ignora Lo Spettatore se i cattedratici tedeschi, come si leggeva in loro memorie, celebrino ancora la festa del tu). Il tu espansivo simula eguaglianza e finge parità proprio dove il solco sociale o economico è più profondo e incolmabile. C’è l’ingannevole tu, ma, al di sopra o al di sotto, si agitano rancori e invidie e odi, come soffocati, e perciò resi sordi e cupi, dalla parvenza grammaticale. Bene spesso dietro il tu, e quasi nascosto dal pronome egualitario, c’è un “servitore senza livrea”, il quale si lascia prendere da coloro che – diremo col quattrocentesco Alberti – «godono essere accerchiati da molti assentatori». Chi abbia gusto d’aneddotica, può anche rammentare che, svolgendosi l’assiduo carteggio tra Benedetto Croce e Karl Vossler fin dal 1899, soltanto nella lettera del 13 settembre 1908 il filosofo italiano «si permise di passare dal voi al tu, passaggio che è più facile compiere in iscritto». Da canto sopravvive il lei (uscito vittorioso dalle vane battaglie del ventennio), che è quasi un abito da cerimonia, un moto dell’animo, disgustato dalla facile e labile familiarità, da quell’ipocrisia del non distinguere e non separare. Ed è segno, non già di superiorità o sprezzatura, ma di rispetto verso l’altro, di intima parità fra uomo e uomo. Sicché, quando poi, nel lungo corso di anni ed esperienze della vita, si trascorre al tu, questo riguada160
Torniamo al lei: il tu è solo finzione di parità
gna in pienezza di significato e in vincolo di stima. È comune conquista, risultato di un riconoscersi e ritrovarsi, e non graziosa elargizione dall’alto al basso. “Torniamo al lei” (tralascio il voi che sa di meridionale reverenza) suona come il “torniamo al signor”, con cui un vecchio e saggio liberale salutò, all’indomani della guerra, la caduta delle “eccellenze”, dei generali e degli orbaci aquiliferi. La civiltà dei pronomi è tutta da ricostruire. Non con altezzoso sussiego, o con superba lontananza, ma nel segno del reciproco riguardo e di consapevole conquista degli animi. Né è da tirare in discorso democrazia o eguaglianza, che si vorrebbero onorate dal tu e vilipese dal lei, poiché il tu è soltanto finzione di parità, e dietro nasconde, come già si è notato, abissi economici e sociali. Dove invece il lei è segno di eguale condizione civile, di comune dignità, di serietà nei rapporti fra uomini: quei rapporti, che esigono il trascorrere del tempo, il penetrante leggersi negli occhi, l’inattesa molteplicità delle esperienze. E se non si giunge al tu, non è da prendersi in pena, giacché quel lei è denso di riguardo, di stima, e spesso di pudico affetto. Domenica 18 Settembre 2022
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Il Crocefisso sulla parete bianca
Stagione dei ritorni, l’estate. Alle piccole patrie, paesi nativi, luoghi favolosi d’infanzia, vecchi e diradati amici. Ed anche a pagine già lette, e come riposte nella memoria: che si risvegliano per impulso di cose ed eventi, e chiedono, anch’esse, l’estivo ritorno. E così lo Spettatore, nel solitario casale d’Abruzzi, si china di nuovo su una lettera di Benedetto Croce, inviata al direttore del Giornale d’Italia, il 12 agosto 1925 (che può trovarsi nel volume secondo delle Pagine sparse). Eccone l’intero testo: «Meana, 12 agosto 1925 Caro Direttore, Fa il giro della stampa l’affermazione di un giornale fascista, che “il senatore Croce, liberale, vorrebbe ritogliere il Crocifisso dalle scuole”. Venti anni fa, in tempi di democratismo e di massoneria, io, nominato componente del Consiglio di vigilanza di una scuola popolare, feci prendere provvedimenti a carico di un nuovo direttore, che, come primo suo atto, si era permesso di rimuovere il Crocefisso dalle aule scolastiche. E tutti coloro che conoscono quanto ho scritto in proposito, sanno che sono stato apertamente favorevole 163
Lo Spettatore
all’insegnamento religioso nelle scuole elementari, da dare agli alunni delle famiglie che ne facciano richiesta e da affidare a persone che siano sinceramente credenti. Cosa, del resto, naturale, perché sento e osservo i doveri che cultura e gentilezza d’animo impongono verso l’alta religione dei nostri padri. Ciò che non mi è piaciuto, è lasciar correre o alimentare l’equivoco tra questo, che è l’atteggiamento liberale, e l’altro, che non so quale nome meriti, ma certo consiste nel trescare coi clericali. Se a tale mia ripugnanza intendeva alludere il giornale fascista, ha detto il vero». La lettera gravita tutta su «i doveri che cultura e gentilezza d’animo impongono verso l’alta religione dei nostri padri». Che sono doveri verso la storia, nobile e austera catena fra le generazioni, devozione e reverenza al comune passato. Lo “atteggiamento liberale” è, in primo luogo, coscienza storica, che di certo non mira allo Stato confessionale, ma rifiuta l’astratta e indifferente “neutralità”. La libertà di professare una qualsiasi religione, e di praticarne riti e culti, non è incompatibile con la storicità del passato. Lo stesso Croce, ministro dell’istruzione pubblica in un governo presieduto dal Giolitti, aveva pur chiarito, in un discorso del 7 luglio 1920 dinanzi alla Camera dei Deputati, l’altezza del sentimento religioso e respinto la formula della scuola neutra o scuola atea. Aggiungendo: «Né vorrete ritrovare sulle sue labbra [del ministro] i leggieri scherni contro il cristianesimo, perché affermare, come io ho affermato, che il cristianesimo ha creato la vita morale della quale ancora viviamo, 164
Il Crocefisso sulla parete bianca
e che in questo senso tutti siamo cristiani, è cosa tanto indubitabile, quanto il dire che Roma ha creato il diritto e la Grecia l’arte letteraria, e che tutti noi, italiani, francesi o tedeschi, siamo in questo senso, romani ed ellenici». La idea di libertà sta oltre la disputa sulle relazioni fra Stato e Chiesa cattolica, e sui regimi o sistemi succedutisi nel tempo (se subordinazione dell’uno all’altro ente, o patto concordatario, o separazione), e vuole che il cittadino sia libero nella scelta, se scelta compie, della credenza religiosa, e libero di riunirsi in comunità di confratelli. Che è l’indirizzo della nostra Carta, pur accogliente (e il Croce ne dissentì, come ne avrebbe dissentito lo Spettatore) il regime concordatario del 1929, poi riveduto nel 1984. La parete bianca nelle aule scolastiche non è simbolo di libertà né di seria laicità, ma piuttosto di rifiuto della nostra storia, di quel non poter non essere cristiani, profondamente ragionato dal Croce. Né è da affacciare proposta di scelta “democratica”, compiuta da studenti e docenti e autorità scolastiche, quasi che il criterio estrinseco transitorio numerico dei voti possa, di volta in volta, esprimere lo spirito informatore della scuola e tenere il luogo di una storia millenaria. Già nel lontano 1914 il grande giurista Francesco Scaduto, fondatore della scuola italiana di diritto ecclesiastico, aveva ammonito circa “l’equivoco fra rapporto giuridico e rapporto di fatto”, ed escluso che la questione della laicità fosse da sciogliere con decisione di una maggioranza, la quale è sempre, e non può non essere, sopraffattrice di minoranza, e perciò fonte di guerre di religione. Il Crocefisso sulla parete non è risultato di voto di maggioranza di una qualsiasi 165
Lo Spettatore
assemblea, né privilegio né lesione di libertà, salvo che si imputi a privilegio di avere dietro di sé una grande e lontana storia. Ma sarebbe privilegio concesso nel cammino secolare delle cose umane. La laicità dello Stato non risiede nell’abolire il Crocefisso, consegnato dai nostri padri, per lungo ordine di generazioni, a credenti e non credenti, ma nella libertà di professare o non professare una fede religiosa, e di riunirsi in organizzate “confessioni”. Una laicità, non astratta, né grigiamente scolastica, né negoziabile mercé calcolo di voti, ma immersa nella nostra storia, e partecipe delle vicende nazionali e popolari. Lo Stato (e si discorre qui di Stato liberale) è, esso stesso, intriso di storicità, costruito da uomini nel corso del tempo, e quindi provvisto di una sua identità culturale, che non è la totalizzante eticità di stampo hegeliano, ma pur riposa su antichi e non tradibili lasciti di religiosità. Domenica 25 Settembre 2022
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Elogio del dilettantismo che dà virtù alla politica
C’è una pagina del Protagora, il grande dialogo platonico di accusa contro i Sofisti, che si vorrebbe scolpita su marmo, studiata in ogni ordine di scuole, presa a sommo criterio della vita pubblica. Non va sciupata con riassunto; e perciò tutta si offre nella traduzione italiana di Francesco Adorno. Parla Socrate intorno a costumi e consuetudini di Atene, e vuol mostrare che la politica non è insegnabile, né trasmissibile da uomo a uomo: «Ebbene, vedo che, quando ci riuniamo in assemblea, se per la città si tratta di costruire edifici, vengono chiamati in qualità di consiglieri gli architetti, se si tratta di navi i costruttori navali e via di seguito per tutte quelle arti che si ritiene possano essere apprese e insegnate. Se, invece, uno qualsiasi, che non sia considerato un competente in materia, si mette a dar consigli, anche se bello, ricco, nobile, non per questo gli danno retta, ma si mettono a ridere, e rumoreggiano fino a che costui, che voleva dare consigli, o se ne va spontaneamente, assordito dallo schiamazzo, o, su ordine dei pritani, gli arcieri lo strappano dalla tribuna e lo cacciano via. Così, dunque, si comportano quando si tratta di materia che ritengono oggetto d’arte; quando, invece, si debba deliberare sul modo di condurre gli affari dello Stato, indifferentemente si leva a dare il suo consiglio 167
Lo Spettatore
un architetto, un fabbro, un calzolaio, un commerciante, un marinaio, un ricco, un povero, chi è di nobile nascita e chi non lo è, e nessuno muove loro rimproveri come nel caso di prima, perché cercano di dare consigli senza preparazione alcuna e senza avere avuto alcun maestro. Evidentemente ritengono che la virtù politica non sia insegnabile». Qui, nella nuda semplicità di antica prosa, c’è, enunciato e risolto, il problema dei rapporti fra tecnici e politici, tra il definito sapere dei “competenti” e l’ariosa libertà dei comuni cittadini. Vi sono opere tecniche, di architettura urbana o di costruzione navale, che esigono la speciale perizia dei competenti; e i pretenziosi ignoranti sono dileggiati e scacciati dall’assemblea. Ma quando si discutono e deliberano affari dello Stato, cioè gli scopi perseguiti dalla città, allora tutti hanno diritto a dare consiglio, e non si distinguono categorie professionali né nobiltà o povertà di nascita. Essi appartengono a tutti, e tutti si riuniscono per deliberare la scelta. Altro è la competenza tecnica, insegnata nelle scuole e imparabile dagli allievi; altro, la decisione politica, che richiede talenti civici, sguardo d’insieme, capacità di prevedere il futuro. Non c’è competenza tecnica sui fini, i quali agitano le menti, e riscaldano gli animi, e sollevano moti di idee e conflitti di passioni; ma soltanto intorno ai mezzi, alle modalità attuative ed esecutive. Lo Spettatore, che a questi temi dedicò un ombroso saggio nel 2014, ragionandovi in termini teorici e dottrinarî, ne vede oggi intorno la prova storica, l’inconfutabile prova delle scelte collettive. Le quali traggono e riservano a sé, a dir così, la competenza delle competenze, la 168
Elogio del dilettantismo che dà virtù alla politica
potestà di suprema decisione circa gli affari dello Stato. Questa decisione non è ufficio di specialisti; essa sta oltre le competenze, e la chiamiamo “politica”. Si coglie qui la profondità di una notazione, tra paradossale e aforistica, di Raymond Aron: «I regimi democratici occidentali sono regimi di esperti sotto la direzione di dilettanti», i quali hanno dalla loro la forza della legittimità. E, una volta che siano definiti gli scopi comuni, avvertono pur bisogno di abili tecno-strutture, e provano a valersene in tempi e modi adatti. La pagina socratica insegna che c’è luogo e necessità della perizia, dello specialismo tecnico e della competenza; e c’è, diverso ed altro, il tempo delle fedi, delle “cause” politiche da cui nasce la direzione della città. Se i competenti non hanno legittimità a decidere circa gli affari dello Stato, che esigono altre capacità e attitudini (prima tra esse un vasto orizzonte e un agile piegarsi a debolezze e miserie umane), è pur vero che gli scopi deliberati dalla politica non sono perseguibili senza ausilio di strutture funzionali e scelta di mezzi idonei. Ma sempre rimane che i tecnici degli strumenti non hanno potestà di decidere i fini. Il “dilettantismo’” assai spesso nasconde felicità e prontezza di intuizioni, capacità di riconoscere e calcolare le forze in giuoco, rudezza e serietà di carattere. Cioè le virtù della politica. Domenica 2 Ottobre 2022
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Il ritorno della nazionalità
Perché infelice è l’identità? perché uno studioso del rango di Alain Finkielkraut ne trae titolo per un penetrante e lucido saggio? Infelice è lo smarrirsi e perdersi in un’indefinita e astratta “umanità”, cercare e trovare il senso della propria vita – vita individuale e vita collettiva – in un paesaggio omologante, senza sussulti e rilievi, senza ombre e luci inattese. Ma i demoni dell’identità non si lasciano intimorire e soffocare, riemergono improvvisi dagli eventi, e mostrano un’energia cresciuta nel nascosto silenzio di lunghi anni. Noi siamo il nostro passato. Questa proposizione, che ci viene da lontani filosofi, ha un che di arduo ed oscuro. Il nostro presente, qui ed ora, e il nostro futuro dipendono da ciò che è stato. Non può essere altrimenti, poiché la identità, di noi come singoli individui e della società di cui siamo parte, è ricostruibile e definibile soltanto in base alle azioni compiute, alle concrete opere che ci videro artefici. Di qui l’intrinseca storicità degli individui (dei quali, appunto, si stima o disapprova il carattere), delle comunità, delle nazioni. Il mondo degli uomini non è riducibile a nomi astratti o funzioni tecniche o tipi biologici, ma si scompone e divide nella singolare storicità di ogni individuo e di ogni cerchia sociale (che sia famiglia o categoria professionale, o città, o Stato). 171
Lo Spettatore
Nella vita, nel cammino che attraversa il tempo, mai incontriamo la pura e disincarnata umanità, senza nome e senza volto, ma sempre singoli individui o gruppi di individui, quali si sono costruiti nella loro storica determinatezza. Proprio questo “farsi” li sospinge da esperienza a esperienza, da decisione a decisione, e tutto, infine, si raccoglie nella identità di uomini e di popoli. Il corso di lezioni, dettate da Federico Chabod nelle Università di Milano e Roma, si apre con un incipit perentorio: «Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica». Cioè di particolarità e singolarità, elevate contro l’astratto cosmopolitismo: il quale – preme qui di precisare – già designava i “lumi” della ragione, o i “naturali” diritti dell’uomo, ed ora si esprime nel dominio planetario della tecno-economia. Né va taciuto che il senso della nazionalità, esaltandosi con “primati” e “missioni” di singoli popoli, o corrompendosi in deliri razziali, è stato fonte di lotte crudeli e di guerre sanguinose. La storia europea ne serba ancora le tracce. Il principio di nazionalità, nelle diverse forme in cui si manifesta e consolida (linguistica, economica, religiosa ecc.), si trova sempre congiunto e stretto con altri criteri di carattere organizzativo: come, per recare esempi più consueti, il criterio di legittimità dinastica o costituzionale, di democrazia parlamentare, di liberalismo politico, di liberismo o socialismo economico. Su di essi lascia un’impronta particolare, attraendoli nel proprio cerchio e dotandoli di una specifica identità. Può anche accadere che esso sia sovrastato, e reso inquieto e ombroso, da altre strutture, come per trattati istitutivi di alleanze, di comuni organi economici, di coalizioni militari. O formi 172
Il ritorno della nazionalità
il sostrato di “grandi spazi”, pronto a riemergere e a far sentire la voce antica. Il nostro tempo vi ha opposto (non per consapevole disegno, ma nel corso oggettivo dell’economia) forme organizzative “a-topiche”, distese in tutti i luoghi, e perciò in nessun luogo, dove vige la razionalità degli apparati tecnici e il neutrale funzionamento del produrre e consumare. Qui si misurano la capacità di resistenza del principio nazionale e la sua ininterrotta energia, sicché gli uomini, quasi divisi e scomposti in due mondi, ne avvertono ancora il fascino e obbediscono, ora festosamente ora tragicamente, alla sua legge. E appaiono dissennati coloro che ne ignorano la forza storica, fatta di memorie lontane e di presente volontà, e presumono di averlo relegato in soffitta. Il principio di nazionalità reca in sé il passato, l’insieme di tradizioni e particolarità di un luogo, e scorre ora in superficie ora nel sottosuolo. Spesso riemerge nella sua terribile potenza, rovescia equilibri e ordini degli Stati, e prova a disegnare un nuovo assetto del mondo. È questa, la potenza storica della individualità, a cui anche il grande Chabod, di nascita valdostana e di largo respiro europeo, rendeva schietto omaggio nelle sue pagine. E noi con lui. Domenica 9 Ottobre 2022
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Elogio dell’ironia, che è educativa e fa pensare
Ironia: parlare allusivo, lieve, docile, che non vuole essere inteso nella sua letteralità, ma come scomposto e disvelato. È il principio di un giuoco linguistico e mentale, a cui si chiede di collaborare e di farsi partecipi. Se l’incantesimo non si stabilisce, e il volto dell’altro non ha trasalimenti né pieghe di sorriso né battito di ciglia, allora il giuoco non è riuscito. E non rimane che ritrarsene, delusi, risospinti nella pura letteralità delle parole. Eppure nell’ironia si celebra un alto grado di serietà, che non è sempre cupezza del volto e austerità di linguaggio, ma anche sorridente e disincantata immagine del mondo e degli uomini. Ironia non è scherzo fatuo e banale, ma sottile e sinuoso rovesciamento delle cose, in modo che esse non siano alterate e nascoste, ma appaiano nella loro più nuda sincerità. Un risultato, raggiunto in modo occhieggiante e implicito, a cui è estranea la vincolante grandezza della verità. Se verità all’uomo è dato di perseguire o conquistare, certo essa non si consegna alla parola allusiva e crepuscolare, a quel tono di mezzo fra il non credere e lo sperare di credere. Un grande glottologo, tempra energica di pensatore, Antonino Pagliaro, dedicò il prologo di un suo libro del 1970, Ironia e verità, all’analisi storica e linguistica dell’ironia; e ne rimangono, tutte da leggere 175
Lo Spettatore
e meditare, pagine di finissimo acume. Dove pure si distingue ironia da umorismo, che è un considerare fatti e uomini entro la cornice d’una visione, spesso o di amaro pessimismo o di arido cinismo. E così accade che l’umorismo faccia soltanto ridere o sorridere, e l’ironia faccia anche pensare. E Pagliaro ne tratteggia il tono tra enigmatico e ludico: «Quando il legame tra l’espressione verbale e il moto di coscienza, o processo di pensiero, che si vuole esprimere, è così labile che l’ascoltatore o il lettore non intende se chi parla o scrive dice sul serio oppure per ischerzo, il giuoco assume il carattere dell’enigma: sul tessuto delle allusioni e delle sfumature, si crea una saggezza discreta che esige mente desta e ascolto acuto. La stessa leggerezza del giuoco disinteressato si sviluppa per immagini e risonanze verbali, capaci di significati nuovi e polivalenti, proprio come si esige per l’espressione poetica». L’ironia non ha carattere popolare e “democratico”. L’uomo-massa (per chiamarlo così con Ortega y Gasset) ama l’aperta primitività dell’esplicito, non coglie sottintesi e sfumature, scambia l’impudico ostentare con sincerità di vita. Troppo gli chiederebbe l’ironia; quel troppo che egli non è in grado né di sentire né di offrire. Epperò nulla è così remoto e avverso all’ironia come il linguaggio della politica e della persuasione collettiva. La sequenza di incontri e dibattiti televisivi non porge mai sapore di ironia, di un alludere sottile ed elegante, che esige gusto della parola e delicatezza d’animo. Il lungo esercizio dell’ironia, su sé e gli altri e le cose del mondo, ha una interiore forza distruttiva, che infine minaccia e aggredisce lo stesso autore. Il quale, preso 176
Elogio dell’ironia, che è educativa e fa pensare
dall’assiduo rovesciarsi di uomini e fatti, perde il senso della distinzione, e crede realtà quel suo giuoco psicologico e mentale. Allora l’ironia tutto lo conquista e possiede, e lo sbalza fuori dalla realtà, rinchiudendolo nel suo dolente sorriso. E dolente è tutta la storia concettuale dell’ironia, che, perduta l’efficacia educativa assegnatale da Socrate, si è risolta nell’intimo e timido sguardo dell’io. Di fronte gli sta la realtà, che egli, così com’è, non ama: spesso fastidio di particolari, umane antipatie, distanza di cultura e costumi e consuetudini sociali. L’ironia ne mette al riparo, o le nasconde e reprime. C’è sempre una pena, che accompagna l’ironia, un fuggir dalla realtà (che si considera o futile o falsamente drammatica), un nascondersi nella duplicità dei significati, in attesa dell’ascolto solidale dell’interlocutore. Essa ha bisogno degli altri, non può stare da sola: allora si ridurrebbe a disagio o tormento dell’animo, e la pena toccherebbe gradi di tragica intensità. Oh, salvezza dell’ironia! Domenica 16 Ottobre 2022
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Il rito della lezione e il sapere irrequieto
Il vecchio insegnante – o dovrebbe dirsi, con impietosa crudezza, l’insegnante ormai vecchio, e quasi perduto negli anni – è tornato nell’Aula I. Sorride dall’alto il casto cielo di Roma, appena venato da brividi autunnali. Anche la sobria cerimonia sembra smorzarsi nella tenuità delle “elegie romane”. L’Aula, restaurata e tirata a nuovo, si apre in ariosa eleganza; è come in attesa. Sta nella Facoltà giuridica de “La Sapienza”, entro la lucida e classica modernità, che Marcello Piacentini impresse alla Città Universitaria. La grande opera fu compiuta nel giro breve di tre anni; e le cronache del Regime danno notizia di un telegramma, che il Mussolini indirizzò, brusco e rude, al Rettore Alfredo Rocco: «Invece dei duemila operai che mi avevano detto possibile di occupare nei lavori della nuova Università, ieri ne ho fatto contare 190 manovali, dieci muratori, 3 assistenti: totale 203 stop ti prego di far attivare al massimo tali lavori poiché anche a Roma la disoccupazione edile est notevole». Curiosità e aneddoti di tempi lontani, che si addensano nella memoria e colorano di sorriso le malinconie del ritorno. È anche ritorno dello scolaro, dello smarrito adolescente giunto dalla provincia abruzzese, e tutto assorto nell’ascoltare la voce pomeridiana e sussurrante di Arturo Carlo Jemolo, o la ferma e netta di Francesco Calasso. Il suo grande maestro Emilio 179
Lo Spettatore
Betti raccoglieva radi scolari in piccola e ombrosa auletta. Tornò insegnante in quell’Aula I, e provò la trepida vigilia di ogni lezione, e il leggere nello sguardo dei giovani, affollantisi a centinaia, l’impegno del far capire che era un suo capire più chiaro e profondo. Nulla, o forse soltanto l’antica amicizia e la fresca passione d’amore, reggono il confronto con l’umana esperienza della lezione, se essa ha la pienezza d’un dono e l’umiltà di un irrequieto sapere. Ed altre aule gli sovvenivano nella vastità della Sapienza. La prima, l’austera Sassari del 1968, dove una lapide statuiva: «Fortitudo mea est oboedientia maiorum»: la forza del mio animo è nell’osservanza della tradizione. Il vincolo al passato mi sorregge e invigorisce. E poi l’Aula dei Filosofi nella dolce e lieve Parma; e, ancora, per il lungo cammino da Università a Università, il luminoso vagare in un’aula torinese, entro il nuovo edificio succeduto al severo Palazzo Campana. Aule tutte, dove, come in antichi e moderni templi, si celebra – o si celebrava – il rito spirituale della lezione. Ed ogni volta l’insegnante ne usciva orgoglioso e insieme scontento: orgoglioso, di quel leggersi negli occhi, di quell’ostinato far capire con la parola più semplice e rigorosa; e pure insoddisfatto per non aver dato il meglio di sé, il di più che si sente dentro e non riesce a trovare le vie del dialogo. Ardua è la parola, che stringe in unità insegnante e scolari: la parola, né inelegante né impropria, capace di gettare il ponte e di aiutare l’uno e gli altri. Le aule sono come consapevoli spettatrici di questo incontrarsi e osservarsi e giudicarsi: sì, anche giudicarsi 180
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poiché il giudizio è nelle cose stesse, nel porsi gli uni a parlare, gli altri ad ascoltare. Giudicavano gli scolari di un remoto 1954; e giudicano gli adolescenti e ragazzi di oggi 19 ottobre 2022, in cui l’aula, tra saluti augurali e commosse memorie, li accoglie nella composta serietà della loro giovinezza. E giudicarono e giudicheranno gli insegnanti che non temano l’ufficio del valutare e distinguere, da secoli affidato alla loro probità e responsabilità. Non aula di crudeli tribunali, ma di un farsi vicini e partecipi gli uni agli altri, e così costituire la fruttuosa unità del rapporto didattico: dove le età quasi si confondono in un presente degli intelletti, e ciascuno, donando, si allarga e si fa più ricco e sicuro di sé. L’Aula I è il simbolo di ogni altra; e tutte hanno la stessa dignità, luoghi della parola dialogante, del reciproco intendersi, dell’umano giudicare. Domenica 23 Ottobre 2022
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La sovranità dei consumatori e il loro potere
Chi è la figura, pallida e ambigua, che si aggira nelle terre d’Occidente e d’Oriente? ed ha in suo destino di distruggere le cose, di ridurle al nulla, affinché altre siano subito manipolate e gettate per le vie del mondo? È il consumatore. Colui che usa, logora, sfrutta, e annichila le cose. E appena determina il vuoto, ecco che esso si riempie, e ricolma, e trabocca di altre cose. «Distruzione creatrice» fu detta da Joseph Schumpeter: un ridurre o ricacciare nel nulla, il quale ridesta le energie della produzione. È un vortice effimero e mutevole, un regno di necessità bisogni desiderî, di cui la tecno-economia, la razionalità degli apparati produttivi, si nutre ogni giorno e senza il quale subito perirebbe. I beni, dal consumatore insieme desiderati e annichiliti, provengono dal mercato: sono merci, che l’apparato tecnico-economico produce ed offre al gusto voluttuoso dei singoli. Codesto apparato non ha altro volto se non le geometriche o variopinte navate dei centri commerciali; non ha altro nome se non le griffes ed i marchî di merci. Da un lato, la massa anonima e indistinta dei consumatori; dall’altro, l’apparato tecnico della produzione. Nel mezzo si allarga una steppa deserta, i luoghi nudi e metallici del mercato. Tutto ciò che era intermedio – antiche comunità, ceti professionali, residui di fedi ed arti 183
Lo Spettatore
ecc. – va eliminato: la sua sopravvivenza non risponde all’interesse né della massa consumatrice né dell’apparato produttivo. In luogo di varietà e singolarità, sta la massa dei consumatori, la moltitudine “indifferente”: cioè senza altra differenza, e nota personale, che non sia la cosa scelta per il consumo. Entro quella massa non si distinguono individui, ma soltanto categorie di consumatori, definiti in funzione dei tipi di merce. Le merci sono criterio di determinazione, scompongono la massa in categorie, queste collocano in luoghi dello spazio e punti del tempo, suscitano forme proprie di disciplina legislativa. I modi, in cui i consumatori si raggruppano e associano, sono anch’essi orientati dal genere di merce: il vincolo nasce e si svolge fra soggetti, che consumano il medesimo bene, e soltanto perché consumano il medesimo bene. Il carattere nichilistico del consumo non risparmia queste sedi associative, che tanto durano quanto dura il rapporto fra soggetti e merci. Al di là di questo, perdono ogni ragion d’essere. La figura del consumatore si viene collocando al centro del nostro tempo. Non più il cittadino, che, prendendo il luogo dell’antico suddito, si fa partecipe della casa comune, ma il consumatore il quale distrugge, senza tregua e senza gioia, le cose offerte dall’apparato produttivo. Leggi, e programmi politici, e intese parlamentari si compiono, non a tutela dei cittadini, ma dei consumatori. I quali anche ricevono, in cerchie di giuristi e ideologi, nobiltà di “persone” e pregio di cristiana elevatezza; e perciò esigono difese legislative e protezione di tribu184
La sovranità dei consumatori e il loro potere
nali. Assistiamo così al vano tentativo d’introdurre nel mercato – ossia, nel luogo dell’insaziata volontà di profitto – principî di religione e massime evangeliche, e di consegnare gli uni e le altre alla custodia dei consumatori. Diciamo vano e ingannevole, poiché i consumatori non possono uscire dalla logica del moderno capitalismo, e sono, e restano, tali soltanto all’interno di essa e nel rapporto con l’apparato produttivo. La severa e tragica lotta di classe, e il cristiano anelito di giustizia sociale, non possono convertirsi nella cura legislativa dei consumatori. Questo sovrapporsi ha per inevitabile corollario che classe politica e potere legislativo si rivolgano ai cittadini che consumano: cioè, a coloro che si trovano nella condizione di “entrare nel mercato” e di scambiare danaro contro beni. Ed, anzi, di stimare acquisto e consumo di beni per ragione costitutiva della vita. La figura unitaria del cittadino, in cui si riconoscono poveri e ricchi, fortunati e infelici, si rompe nel cinico dualismo di consumatori e non consumatori. Arduo il tentativo di restituire identità al consumatore (ma nobile e generosa è la “sovranità alimentare”), di farlo individuo fra individui capaci di scegliere, provvisti di mente guardinga e accorta, forti nella resistenza a seduzioni del mercato. Restituire la “sovranità” è, con esercizio di umile realismo, ridestare la consapevole facoltà di scelta, il tenace sottrarsi a merci omologanti, la difesa del “Paese” come luogo di integrale vita e custode di antiche consuetudini. La ferrea gabbia del capitalismo lascia ancora qualche varco di identità. Non a caso un denso capitolo dei Pro185
Lo Spettatore
legomena sul patriottismo, dovuti all’acutissimo Robert Michels, è dedicato alla «nostalgia dei cibi del proprio paese». Il saggio risale alla fine degli anni Venti, quando poco o nulla lasciava presagire l’universale espansione di consumi uniformi. Ne rimane il messaggio a un’educazione critica di carattere alimentare: educazione alla scelta fra le merci, alla preferenza per i prodotti immuni dal contagio planetario, alla tutela di ciò che resta del passato. Questa è forse la sovranità, l’unico e concreto potere, di cui il consumatore, tornato consapevole cittadino, può valersi dinanzi all’assediante varietà dei beni prodotti. Domenica 30 Ottobre 2022
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La dolorosa lezione del morire in carcere
Un giovane straniero, accusato di lieve furto, si dà morte nel carcere. Un uomo privato di libertà, e dunque offeso nella sua corporea fisicità; imputato, e perciò non ancora giudicato, non ancora accertato colpevole e responsabile di delitto. Quella morte intristisce l’animo del cittadino e la mente del giurista. Si domanda il cittadino se l’impossessarsi di piccole cose, misere di valore economico, esiga la forma più dura e crudele di difesa sociale. Si domanda il giurista se norme della Costituzione non ne siano vulnerate e tradite: la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva; la destinazione rieducativa della pena. E soprattutto s’interroga intorno a un diritto penale, ancora fermo e saldo nelle sanzioni restrittive della libertà personale. Dove la pena sembra identificarsi e interamente coincidere con la perdita della libertà. Questa identificazione separa e isola il diritto penale dall’unità dell’ordinamento giuridico, che, per dir così, è accantonato e messo da parte in sue diverse e varie regioni. Deve pur replicarsi che, se il fatto è commesso in violazione di una norma, esso ha carattere di illiceità rispetto a tutto l’ordinamento, dal quale, nella sua unità e molteplicità, giungerà la risposta. Domanda e risposta, illecito e sanzione, non appartengono soltanto al diritto penale, 187
Lo Spettatore
e perciò non soggiacciono alla perversa identificazione tra sanzione e perdita della libertà. Si vuol dire – e si dice e insegna da maestri, italiani e stranieri, dello stesso diritto penale – che la risposta unitaria dell’ordinamento può consistere, e deve consistere, soprattutto in sanzioni di altri campi: civile, amministrativo, fiscale, e così seguitando. L’asse del diritto penale va spostato verso sanzioni diverse dalla restrizione fisica. Viene bene osservato da autorevole studioso tedesco, cattedratico in Francoforte, Klaus Lüderssen, nel saggio intorno a Il declino del diritto penale (che abbiamo in Italia per la cura di Luciano Eusebi), come «il diritto e la procedura penale, in linea con una malintesa tradizione, assumano (congiuntamente) compiti che in realtà attengono in via primaria ad altri settori del diritto, vale a dire, soprattutto, al diritto (e al processo) civile». La funzione rieducativa, assegnata alla pena nel fondamentale articolo 27 della Carta (norma vincolante per il legislatore ordinario e per interpreti pratici e teorici), contiene, essa stessa, un programma di “politica criminale”. Se rieducare non è trattamento medico, né terapia di violenza conformatrice, ma ardua riscoperta di consapevole libertà, onde all’uomo è dato di scegliere fra le molteplici possibilità di vita, allora la “politica criminale” deve orientarsi verso un impiego limitato e accorto della restrizione fisica. La quale diventa così una sanzione eccezionale, legata al giudizio di condanna per reati ai quali il sentire comune riserva, nella sua insopprimibile mutevolezza, la risposta più grave. Il carcere, questo che, per il giovane straniero e per altri fratelli senza speranza, è luogo di morte, assume la 188
La dolorosa lezione del morire in carcere
funzione più alta del rieducare, dove non si giudica, ma si comprendono e ripercorrono le singole storie; dove il magistrato cede al pedagogo. L’articolo 27 della Costituzione, nella sua generale e vincolante positività, sta oltre ogni disputa di scuola e dibattito filosofico. Esso ci reca, e impone, l’immagine dell’uomo “rieducabile”, e quindi suscettibile di mutamenti spirituali e di più avvertita libertà, e non di un essere stretto da deterministica necessità. L’alternativa tra libero e servo arbitrio è un capitolo storico, chiuso nei grandi e lontani nomi di Lutero ed Erasmo, e nell’urto dottrinario tra scuola positiva e scuola classica. La parola “rieducazione” genera di per sé una visione della libertà: dell’uomo, che si costruisce a mano nel cammino terreno, ed esercita la facoltà di scelta tra le possibilità di vita. Taluna possibilità è vietata dal diritto, e così ne nasce la sanzione rieducativa, cioè volta a più alta consapevolezza, a più profonda capacità di scelta. Sanzione, che soltanto eccezionalmente s’identifica con la perdita della libertà fisica, e, in linea generale e ordinaria, si giova di ogni risorsa afflittiva dell’ordinamento, quale offerta da tutti i rami del diritto (civile, amministrativo, fiscale, e così seguitando). Il morire in carcere è dolorosa e triste lezione, da ascoltare con animi partecipi e volontà costruttive di un altro diritto penale. Oggi abbiamo, e, come cittadini e giuristi, non possiamo non avere, il saldo punto d’appoggio nella norma costituzionale, la quale appunto ci “costituisce” nel nostro duplice ufficio e nella nostra solidale responsabilità. Domenica 6 Novembre 2022
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Elogio del nozionismo, garanzia del nostro sapere
Eravamo tra il quarto e il quinto decennio del secolo scorso. Una cittadina della provincia abruzzese, ancora stretta in un’ardua cerchia di monti (l’autostrada sarebbe stata aperta di là a qualche anno). L’edificio del Ginnasio-Liceo, intitolato all’audace prosciugatore del lago Fucino, recava non gravi ferite della guerra, ma nelle aule l’inverno raggelava gli scolari in abiti che conoscevano lunga tradizione di famiglia. Lasciata la figura del maestro elementare, simbolo umano scolpito nei cuori, si incontravano i “professori”: tutti, o quasi tutti, vincitori di pubblici concorsi, dai quali il giudizio cittadino distingueva i “supplenti”, destinati, appunto, a colmare lacune e assenze, ma non provvisti di fama e prestigio. Sempre “professori”, a cui si doveva, non per comando di autorità o paura di sanzioni, ma per intima reverenza, ascolto e rispetto, riguardosa osservanza di gesti e parole. E gli scolari, a loro volta, si sentivano membri di una piccola comunità, congiunti nell’attesa del sapere, che anche era attesa del giudizio. Sì, sapere e giudizio: parole fattesi impronunciabili, sospettate di cupa reazione, imputate, dai critici più generosi, a malinconie di tarda età. Quel sapere era sapere di dati e nomi e luoghi, che fossero di epoche passate o di personalità storiche (uo191
Lo Spettatore
mini di Stato, condottieri, poeti, prosatori, e quanti, insomma, lasciano traccia nel loro cammino terreno). Furono chiamate, e condannate e vilipese come “nozioni”: e tali erano, quel “certo” del grande Vico, che è il sostrato filologico di autentico conoscere. Ogni memoria, di individui e famiglie e comunità nazionali, ha bisogno di nozioni, e si appoggia e sostiene su una eredità di fatti, i quali vanno appresi con umiltà di mente e devozione verso il passato. L’infantile intuizionismo o la superbia ideologica sono ciechi e vuoti di storia, di quel patrimonio di fatti, che, proprio per esser comuni e saputi, ci rendono l’uno all’altro comprensibili e partecipi della stessa identità. Come l’identità dell’individuo è offerta dalla sua vita, dal pensare e volere e agire negli anni, così la identità delle nazioni, la consapevole appartenenza a una “patria”, sta nella sua storia, accolta e ragionata nella complessità degli eventi e nelle umane vicende del vincere e del soccombere. Il riandare a tempi lontani della scuola media non solo ridesta il debito di gratitudine verso gli insegnanti, e il loro severo ed equo giudicare, ma pure rafforza nella convinzione che il sapere, il qualsiasi sapere tecnico o umanistico, esige l’interiore disponibilità della mente e la capacità di individuali sacrifici. E perciò anche un’apertura al giudizio, al controllo della educazione reciproca di insegnanti e allievi, che non può non esprimersi in modi visibili e inserirsi nel cammino scolastico. Questa necessità e centralità del giudizio, che filosofi come Gentile e Croce difesero nella forma dell’esame di Sta-
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Elogio del nozionismo, garanzia del nostro sapere
to, permette la “circolazione delle élites”, l’emergere da tutti i ceti sociali, la rottura di privilegi di classe. E così la scuola è democratica e liberale, poiché sa giudicare e distinguere, reprimere le ineguaglianze, ma anche segnare le distanze. La disputa sul “merito” ha qualcosa di primitivo, se per merito si intende il giudicante accertamento di un dato sapere: che è tale, e non può esser diverso, nello sviluppo storico e nel contenuto concettuale. E, al pari di ogni altro, stringe insieme il “certo” e il “vero”, il sostrato filologico delle nozioni e la trama delle categorie generali. E come mai potrebbe “sapersi” la storia letteraria e politica d’un Paese, se non conoscendo, da un lato, la sequenza di nomi e date, e, dall’altro, le concrete opere, in cui quelle storie si sono espresse e consegnate alla memoria? E come farsi applicazione di un diritto, se non piegandosi con umiltà sull’esegesi dei testi legislativi e insieme raccogliendo i casi nelle forme concettuali? Ecco il “nozionismo” come garanzia insopprimibile del nostro sapere e agire. Domenica 13 Novembre 2022
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Per una strada di Napoli ricordando Croce
Ogni città ha le sue strade. Sue, poiché non possono immaginarsi altrove, ma soltanto così come sono: con quell’aprirsi e svolgersi e chiudersi, e con quell’umanità che le percorre e le prende nella vita individuale. Se c’è poeta delle strade, di erte popolose o deserte, cantucci nascosti e schivi, questi è Umberto Saba, che ci ricanta: «Spesso, per ritornare alla mia casa / prendo un’oscura via di città vecchia / Giallo in qualche pozzanghera si specchia / qualche fanale, e affollata è la strada». Ma talvolta le strade non si celano agli sguardi timidi e pensosi, e pretendono di avere il viaggiatore tutto per sé, quasi stretto in un’animazione di vicende e destini che si incrociano, scontrano, e stanno insieme sullo stesso selciato. E non si parla di vie commerciali, dove le cose e il denaro dominano per scambi e negoziati assidui; o sono semplici mercati, e luoghi di primitivi bisogni o desideri voluttuosi. No, appunto, di strade che sanno l’integrale destino dell’uomo. Così allo Spettatore si configura la via Benedetto Croce, che, nel cuore affannoso di Napoli, si svolge tra Piazza del Gesù e Piazza San Domenico Maggiore (e qui oggi ci volgiamo anche in devota memoria del filosofo, che per sempre la lasciò il 20 novembre 1952). Una strada 195
Lo Spettatore
densa di palazzi e botteghe, di ambiti settecenteschi e oscuri pertugi, di rumori e voci e colori. È difficile raccoglierla, pur breve e stretta, in un’immagine d’insieme, disegnarla in un quadro di costume e d’occasione. Ne tracciò le linee, con prosa insieme erudita e commossa, proprio il Croce, quando il 1912 descrisse, levandosi dal tavolino e affacciandosi al balcone della sua stanza di studio, le «vetuste fabbriche che l’una incontro all’altra sorgono all’incrocio della via di Trinità Maggiore (oggi intitolata al filosofo, ndr) con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara». La via Croce si diparte da Piazza del Gesù, dove l’omonima chiesa custodisce anche la tomba di Gesualdo da Venosa (e la scorse un giorno, sul buio e antico pavimento, un giurista di alto rango, Gianni Iudica, incline a musicare e convertire in spartito anche il nudo grigiore del codice civile); e di là conduce a Palazzo Filomarino Della Rocca, dove ha sede l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, sognato e disegnato dal Croce, e recato a concreta attuazione per l’operosa fedeltà del grande banchiere Raffaele Mattioli. E non dispiace qui di rammentare che l’uomo di studi speculativi e l’uomo di ingegnosa finanza provenivano entrambi dall’aspro Abruzzo. L’Istituto, che celebra in operosa discrezione l’età di settantantacinque anni (fu inaugurato, con prolusione del Croce, il 16 febbraio 1947), è luogo di liberi e liberali studi. Accoglie un’aristocrazia di giovani borsisti; promuove lezioni e seminari e corsi di conferenze: si svolge, in ciascun anno accademico, come trama di incontri e dialoghi. Non eroga diplomi, né ornate certificazioni né attestati di proba diligenza: gli studi sono fine a sé 196
Per una strada di Napoli ricordando Croce
stessi, e giovano alla seria formazione delle menti e dei caratteri. È, per dir così, un “altrove”, fuori da strutture pubbliche e ordini burocratici, ma con lo sguardo aperto sul mondo dei fatti e sul corso delle idee. Raccogliendo insieme rigore filosofico e slancio del pensiero: il “certo” e il “vero” del grande Vico. Tutti i membri di questa comunità – e bibliotecari e commessi, e segretari e redattori, e docenti e allievi, e amministratori e revisori –, lasciate le austere sale del Palazzo, si consegnano alla via rumorosa; ma l’aggettivo si mostra subito inadatto, poiché non si odono rumori rozzi e fastidiosi, e piuttosto si è come presi e abbracciati da un vento di suoni e voci e colori, che si raccolgono nell’unità della via e la segnano nella sua identità. E allora i “viandanti” si avvertono, in verità di esperienza, come “andanti per via”, la quale non è percorso verso una meta, ma meta essa stessa, che afferra l’animo, stringe i sensi, e parla di sé, del suo passato e del suo presente. Domenica 20 Novembre 2022
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Demoni nascosti nelle caverne e pronti a ridestarsi
Dura e tenace fu, nella cultura giuridica del nazionalsocialismo, la lotta contro i “paragrafi”, cioè contro la positiva letteralità delle norme. Già nel punto 19 dell’originario programma nazista del 1920, un “diritto comunitario tedesco” veniva elevato ad antitesi dell’antico diritto romano. La “schiavitù dei paragrafi” (die Paragraphensklaverei), il vincolo linguistico e logico della legge, è rifiutata e combattuta nel segno di un diritto etnicamente puro, che nasce dal popolo tedesco e ad esso rimane legato nel suo cammino, dall’emanazione all’applicazione. «Il diritto è ciò che è utile al popolo», dichiara Hans Frank, teorico ascoltato e temuto del nuovo indirizzo (ma ne resterà nome soltanto come crudele governatore generale di Polonia). È un capitolo di storia del diritto, che si trova narrato, e spiegato con estremo scrupolo di filologia giuridica, nel saggio di Johann Chapoutot intorno a La rivoluzione culturale nazista. Ed è altresì una lezione, a noi impartita da anni cupi della storia europea. I demoni non tacciono per sempre; si nascondono in caverne oscure e profonde; si ridestano minacciosi in abiti nuovi e seducenti. Il diritto dei paragrafi è diritto di libertà e di pace sociale. Di libertà, poiché definisce, nella conchiusa brevità di testi legislativi, le azio199
Lo Spettatore
ni vietate, e perciò insieme descrive l’immenso spazio del lecito, di ciò che il cittadino può fare senza timore di sanzioni. Quel divieto è come una piccola isola nel grande mare della libertà. E così ne nasce il bisogno e sentimento della sicurezza individuale, quale risuona, da ultimo, in talune pagine del fascinoso Logiche follie, dettate da Gabrio Forti e Silvano Petrosino. I “paragrafi” della legge disegnano la rigida mappa dell’illecito, da cui soltanto può emergere la “responsabilità personale” (enunciata nel solenne articolo 27 della Costituzione). Sicurezza, come calcolabile definizione del vietato e del permesso, e responsabilità personale si tengono in vicendevole rapporto: sappiamo dove il fluire dell’esperienza incontra il no della legge, e dunque ha inizio la nostra responsabilità. Si diceva poco sopra dei “paragrafi” come garanti di pace sociale. La forza letterale delle norme, la proprietà e secchezza linguistica, il preciso e netto disegno delle azioni vietate; insomma, tutti i caratteri, raccolti nell’idea di Stato di diritto e del “principio di legalità”, servono a costruire e intendere la funzione del giudice. Non siamo in uno Stato giurisdizionale, ma in uno Stato legislativo, dove – come detta l’articolo 101 della Carta – «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Che è un esser soggetti ai “paragrafi” (di tutte le norme dell’ordinamento, e costituzionali e ordinarie). Umile e grande soggezione: umiltà, nel sapersi al servizio delle leggi, emanate secondo il metodo proprio del sistema e nell’osservanza delle prescritte procedure; orgoglio, nel darsi all’opera comune, al costruire e sorreggere l’abitazione della convivenza. 200
Demoni nascosti nelle caverne e pronti a ridestarsi
La “schiavitù dei paragrafi”, schernita e vilipesa dalla dottrina nazionalsocialista, si rivela così “libertà dei paragrafi”, ossia libertà, non consegnata all’estro inventivo o emotivo dei singoli giudicanti (fattisi, per superbia di carattere o albagia di casta, interpreti di sommi “valori” o eterni “principî”), ma al sobrio linguaggio delle leggi, alla nettezza delle “fattispecie” e degli schemi normativi. Linguaggio, che è patrimonio di tutti, ponte di unitiva comprensione tra i membri della società, interiore legame, onde possiamo dirci partecipi di una comune storia. La battaglia contro i paragrafi è più difficile da scorgere e denunciare negli Stati democratici, dove può far mostra di “progressismo” giuridico e nascondersi dietro pontificali e abusivi schermi di “diritti innati” o “diritti umani”. Ma lo sguardo memore e vigile la scova e la dice per ciò che è: minaccia grave di sovvertimento linguistico e di arbitrio soggettivo. Domenica 27 Novembre 2022
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Commiato dal vincolo domenicale, ma non è un addio
Ci diamo ogni giorno norme di vita. Leggi date da noi a noi stessi: se le obbediamo, ne nasce soddisfazione e compiaciuto orgoglio; se le violiamo, disappunto fastidio malessere. Non possiamo vivere fuori da un ordine: quello che appena domani forse ci sembrerà superfluo o dannoso. Anche il naufrago di Defoe, l’astuto e ingegnoso Robinson, subito si impone regole di condotta e scansione di orari. E pure, nell’accidiosa stanchezza di Oblomov, si riuscirebbe a trovare un ritmo normativo, un interiore ordine del non fare, dell’attendere, del lasciarsi vivere nel tempo. E regole si dettano scrittori delle prose più diverse: scientifiche, narrative, giornalistiche. Prose assai spesso legate a cadenze temporali e vincoli di periodicità. Sta dinanzi a loro la pagina bianca e nuda, come in attesa; e lo sguardo vi si posa con sgomento e timidità, di rado con impeto di gioia. Il vincolo temporale suole restringere o indirizzare la libertà di pensiero e la scelta dei temi. Introduce criterî di selezione, suggerisce tonalità di stile, secchezza o turgore di parole. Luogo di edizione e caratteristiche del lettore assumono netto rilievo: non si perde libertà di pensiero e di espressione, ma essa si fa più accorta e consapevole, più sensibile e duttile. Esercizio faticoso, 203
Lo Spettatore
nel quale la singolarità intellettuale dell’autore è chiamata al confronto e alla misura. La situazione storica la condiziona e orienta. Così accade anche a Lo Spettatore, stretto dal vincolo domenicale, dall’imperativa attesa del Direttore, forse dalla sottile curiosità di qualche lettore. Egli similmente conosce il pathos della pagina bianca, e quel suo tacito appello a riempirsi di parole e perciò a farsi “scrittura”. Eccoci, ora lieti ora stanchi, di fronte all’oggettività di un testo, che prende subito distanza dall’autore, si raccoglie e chiude in sé stesso, e incomincia un misterioso cammino fra i lettori. Appena fermato sulla carta, sembra che il suo significato sia diverso dalla intenzione creatrice, ed altri ne vada assumendo, di volta in volta, secondo la sensibilità del lettore. È un frantumarsi, dividersi, rompersi nella pluralità delle letture. Codesto è il rischio della pagina scritta, che ciascun autore sa di correre nel momento stesso in cui lancia la bottiglia tra le onde del mare; e non sa da chi e come sarà raccolta. L’elzeviro domenicale non sfugge al rischio; e ne rinnova, con ritmo di periodicità, il consapevole timore. Allora Lo Spettatore vuole affrancarsene, e tornare all’estro irregolare di singole prose, alla spontaneità di impressioni e giudizî dell’ora. Non un addio, ma un guardare franco e arioso, che nasce e si consuma nell’occasionalità dei tempi. Il dialogo non si interrompe. Prosegue in forme più sciolte e tempi più duttili: sempre un guardare da una “prospettiva”, capace di sporgersi umilmente sul corso delle cose e sul mondo degli umani affetti. Altra volta si evocò il principe degli elzeviristi italiani, il marchese Roberto Ridolfi, di cui, negli anni Sessan204
Commiato dal vincolo domenicale, ma non è un addio
ta del secolo scorso, attendevamo le prose di suprema eleganza; e misurammo la incolmabile distanza tra la villa fiorentina della Baronta (“sui poggi delle Campora, un miglio e mezzo fuori di Porta Romana”) e un casale dell’aspra montagna abruzzese. Ma pur c’era, fra tutti coloro che sfidano la pagina bianca, un comune afflato di esprimersi, il desiderio di incontro con ignoti dialoganti. Un desiderio, che, scioltosi dalla costrittiva periodicità, giace desto e pronto nell’animo. Caduto il vincolo domenicale, rimane il gusto del guardare, e il rapsodico colloquio con i lettori, ai quali si deve un grato saluto per l’attenzione di ieri e la curiosità di domani. Domenica 4 Dicembre 2022 *** Rinunciare a un gioiello è sempre un peccato e l’intervento domenicale de Lo Spettatore era un vero gioiello, diventato appuntamento tradizionale imperdibile. La vita però ha dei percorsi che spesso non è possibile contrastare perché, come si sa, non è possibile fermare il vento con le mani. Le motivazioni, del resto, sono incontrovertibili. La consolazione è che Lo Spettatore continuerà, senza più la cadenza settimanale, a impreziosire il Sole 24 Ore. L’orgoglio è avere rispettato l’unica condizione posta dal professore: libertà e autonomia assoluta. D’altra parte non è stato difficile perché Lo Spettatore detesta il pensiero unico, esattamente come lo detesta il direttore di questo giornale. Fabio Tamburini 205
Indice dei nomi
A Adorno, 167 Aitala, 80 Aragno, 45, 46, 51 Arnheim, 52 Aron, 169 Ascarelli, 55
B Battaglia, 55 Bemporad, 132 Bergson, 139 Betti, 180 Borchardt, 147
C Cabibbo, 25 Cacciari, 50, 52 Calamandrei, 15 Calasso, 179 Calogero, 55 Camus, 11, 88 Caracciolo, 80 Caravita, 88 Carnelutti, 15 Cassirer, 87 Cavaglieri, 128 Chabod, 95, 172, 173 206
Indice dei nomi
Chapoutot, 199 Cicerone, 127, 128 Ciliberto, 50 Clausewitz, 127 Clerici, 83 Cossiga, 15 Croce, 64, 160, 163, 164, 165, 192, 196
D D’Annunzio, 25 De Gaulle, 91, 92 De Giovanni, 49, 50, 68 De Goncourt, 143, 159 Defoe, 203 Doria, 112
E Eraclito, 131 Esposito, 50 Eusebi, 188
F Ferrara, 55 Finkielkraut, 171 Forti, 153, 200 Frank, 199 Furtwängler, 72, 73
G Gergiev, 72, 73 Giusti, 95 Goethe, 22, 26, 42, 111, 113 Grandi, 15 Guicciardini, 115
H Heidegger, 88, 108
207
Indice dei nomi
Hofmannsthal, 132, 133 Huysmans, 84
J Jemolo, 55, 179 Junger, 89, 124
L Lalli, 125 Leone, 15 Longanesi, 71 Luderssen, 188 Luzzatto, 52
M Macchia, 135 Machiavelli, 12, 115 Mann, 72, 87 Martucci, 71 Mazzarino, 135, 136 Meldolesi, 125 Metternich, 67 Michels, 186 Miele, 117 Minghetti, 64, 65
N Napolitano, 50 Nietzsche, 88, 99, 116, 131
O Omodeo, 55 Orlando, 80, 81 Ortega y Gasset, 3, 4
P Pagliaro, 175, 176
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Indice dei nomi
Palombino, 80 Pannunzio, 56 Parisi, 25 Perlingieri, 116 Pestel, 95, 96 Petrosino, 200 Piacentini, 179 Polański, 73
R Racinaro, 52 Ranke, 16, 34, 140 Rathenau, 51, 52, 53 Ratzinger, 29, 123 Redenti, 15 Ricasoli, 64 Ridolfi, 115, 147, 204 Rocco, 15, 179 Rossi, 37, 55
S Saba, 131, 195 Salomon, 52 Savonarola, 115 Schmitt, 7, 8, 68, 100, 128 Scoca, 64 Segni, 15 Severino, 29, 49, 50, 88 Sironi, 116 Socrate, 167, 177 Spaventa, 64, 65 Spirito, 153
T Taine, 107, 109. Temirkanov, 73. Tocqueville, 85. Toscanini, 71, 72, 73 Trabucchi, 41, 42, 43
209
Indice dei nomi
V Vico, 192, 197 Villari, 52 Vossler, 160
W Weber, 9, 16, 60, 100, 116
Z Zamboni, 111
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Il Sole 24 Ore
Frank Pagano, Pierangelo Soldavini Il Capitale Decentralizzato. Blockchain, Nft, Metaverso, 2022
Andrea Notarnicola Cociani Leadership Inclusiva, 2022
Chiara Di Cristofaro, Simona Rossitto Ho detto no, 2022
Alessandro Ciatti Caimi, Silvio Rivetti, Mario Maccagno Il condominio, 2022
Emanuela E. Rinaldi La paghetta perfetta, 2022
Hermann Simon, Francesco Fiorese Inflazione, 2022
Barbara Sgarzi Vino, donne e leadership, 2022 217
Il Sole 24 Ore
Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Potere informazione diritti, 2022 Alberto Clò Il ricatto del gas russo, 2022 Nicoletta Carbone e Giuseppe Alfredo Iannoccari Strategica mente, 2022 Arnaldo Benini, Patrizia Caraveo, Gilberto Corbellini, Paolo Legrenzi, Vittorio Lingiardi, Sebastiano Maffettone, Giorgio Vallortigara Quello che ora sappiamo, 2022 Mauro Meazza PNRR, cos’è a cosa serve, 2022 Roberto Bernabò Città Italia, 2022 Lo Conte, Bombardelli e Ballarani Young finance, 2022 Pierangelo Soldavini e Francesco Pagano CEO Factor, 2022 Armellini, Mainò e Romano La consulenza finanziaria indipendente, 2022
218
Il Sole 24 Ore
Francesco Mercadante Le parole dell’Economia, 2022
Marco Alfieri e Francesca Barbieri Ucraina 24.02.2022, 2022
Vanessa Ruffini Felicità al lavoro, 2022
Autori vari Papà Stories, 2022
Sergio Fabbrini Democrazie sotto stress, 2022
Stefano Gnasso, Carlotta Ventura, Anna Camaiti Hostert e Antonio Spadaro Pandexit, 2022
Emanuele Sacerdote Il futuro erede, 2022
Massimiliano Allievi Commercialista 4.0, 2022
Paolo Colombo Varsavia 1944, 2022
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Il Sole 24 Ore
Alberto Orioli Dodici presidenti, 2021
Francesca Romana Puggelli Emozioni al lavoro, 2021
Federico Taddia, Pierdomenico Baccalario Io sarò, 2021
Roberto Galullo, Angelo Mincuzzi Il tesoro di Maradona, 2021
Umberto Bottazzini Matematici di profilo, 2021
Antonio Galdo Gli sbandati, 2021
Vito Varvaro, Massimo Saracchi e Arrigo Berni People&Growth, 2021
Debora Rosciani, Mauro Meazza Investire perché, 2021
Enrico Cerni Dante per manager, 2021 220
Il Sole 24 Ore
Silvio Rivetti Fisco facile, 2021
Enzo Restagno Josquin Desprez, 2021
Roberto Galullo, Angelo Mincuzzi I re Mida del calcio, 2021
Salvatore Ciconte, Marco Gregoretti Sportivi e felici, 2021
Dario Ricci Tokyo Story 202ø1, 2021
Valentina Cucino, Alberto Di Martin, Luca Ferrucci, Andrea Piccaluga La buona impresa, 2021
Eliana Di Caro Le Madri della Costituzione, 2021
Alessandra Schepisi, Pierpaolo Romio 24 storie di bici, 2021
Pierangelo Soldavini, Francesco Pagano, Natalia Borri [Primo] non comandare, 2021 221
Il Sole 24 Ore
Guido Caroselli Fiumi, 2021
Luigi Mascilli Migliorini Napoleone e le sue isole, 2021
Unichess Scacchi & Management, 2021
Simone Filippetti Un pianeta piccolo piccolo, 2021
Elisabetta Fiorito Amori e pandemie, 2021
Alessandro Umberto Belluzzo Brexit istruzioni per l’uso, 2021
Salo Muller A stasera e fai il bravo, 2021
Carla Moreni Musica a specchio, 2020
Piero Barbanti Emicrania, 2020
Marco Carminati La galleria dei ritratti, 2020
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Il Sole 24 Ore
Claudia Parzani e Francesca Isola Meravigliose, 2020
Davide Oldani Mangia come parli. Pop rhapsody, 2020
Enrico Mariutti La decarbonizzazione felice, 2020
Niccolò Nisivoccia La rinascita del debitore, 2020
Marco lo Conte La pensione su misura, 2020
Debora Rosciani, Mauro Meazza Investire è facile, 2020
Autori vari Fisco. Le tasse del futuro, 2020
Autori vari Smart working, 2020
Sergio Fabbrini Prima l’Europa, 2020
Davide Oldani Mangia come parli, 2020
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Il Sole 24 Ore
Nicoletta Carbone La scienza della gratitudine, 2020
Mattia Losi La prossima pandemia, 2020
Giampaolo Musumeci Io sono il cattivo, 2020
Silvia Paoli Eleganza. La guida dello stile maschile, 2020
Autori vari #Lockdown, 2020
Giuseppe Lupo I giorni dell’emergenza, 2020
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