Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo 8880330381, 9788880330387

Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo raccolte da Serge Toubiana

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Italian Pages 159 [156] Year 1995

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Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo
 8880330381, 9788880330387

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Prima edizione giugno 1995 Seconda edizione gennaio 1998

© Editrice II Castoro S.r.l., Milano, viale Abruzzi 72 Tutti i diritti riservati E-mail: [email protected] ISBN 88-8033-038-1

Titolo originale: Persévérance © 1994 P.O.L. Éditeur, Paris.

Traduzione di Silvia Pareti Progetto grafico di Giorgio Bulzi e Antonina Taccori

Serge Daney

LO SGUARDO OSTINATO Riflessioni di un cinefilo raccolte da Serge Toubiana

Prefazione di Goffredo Fofì Traduzione di Silvia Pareti

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA di Goffredo Fofì

Per molti anni, figlio di emigrati nella banlieu, poi con una compagna che lavorava a Parigi, ho frequentato assidua­ mente la capitale francese e vi ho per qualche tempo vissuto. Ho seguito le vicende e i contrasti interni alla critica cine­ matografica che lì si produce dapprima con passione, poi con progressiva stanchezza, fino a lasciar perdere, ormai diven­ tato indifferente, tanto anche quel piccolo mondo cambiava, conseguenza del cambiamento del mondo dello spettacolo, e perdeva con la sua ragion d’essere la vivacità e lo smalto del­ le differenze, l’acume e l’ardore delle battaglie. Imbolsite e superflue nell’evoluzione di un dibattito non più all’altezza dei bisogni dell’epoca, ma solo della sua economia, le équipes dei «Cahiers» e di «Positif» si scoloravano nel magma della società dello spettacolo e del sistema corporativo del cinema, e talora nell’albagia e nei bizantinismi delle carriere universitarie (e comunque meno che in Italia). Con più pre­ tese, ma con la stessa sbrigativa superficialità morale. Solo un appuntamento mantenni, più tardi, — in quei trequattro giorni o poco più dei miei soggiorni francesi ogni mese — ed era la lettura delle recensioni (di film e trasmis­ sioni TV), dei diari di viaggio, delle cronache e delle pole­ miche di un critico che davvero non mi sembrava uguale agli altri , Serge Daney. Anche quando ero in disaccordo col suo giudizio, una dialettica stringente e mai gratuita, una provocazione costante dell’intelligenza, un’apertura di di­ scorso ad altro che il cinema, un richiamo a un sentimento del cinema legato a un sistema di valori forti — non dichia­ rati, ma espliciti, evidenti — caratterizzavano per me quell’appuntamento, di cui ho ritrovato il sapore a ritroso, quando Daney è morto prematuramente, nelle raccolte dei suoi scritti, e di cui credo di aver scoperto il segreto in que­ sto Perseverance, {Lo sguardo ostinato nella edizione italiana) qui tradotto con grande tempestività. 9

Questo (questa) Pergiurarne, c quale osa eli più di un libro di cinema, così come Danry era qualcosa di pili, anzi molto di più, di un crii ito cinematografico. Daney si racconta in quest intervista colise io dell’occasio­ ne estrema che gli e offerta di spiegare a se stesso e agli altri il proprie) percorso, umano e intellettuale. Sapeva di avere i giorni contati. Malato incurabile, la i conti con la propria vita, non solo con le proprie idee, e non ha nessuna inten­ zione di barare, ora meno che mai. Nella letteratura prodotta dall’AIDS, molte sono le misti­ ficazioni possibili, sempre comprensibili e quasi sempre accettabili: esiste, ed è tra i pochi giustificabili fino in fondo, un narcisismo di chi sente sfuggire la vita, che però produce - come è stato spesso dimostrato - cattiva lettera­ tura. Non tutti i testamenti dicono la verità, ma quello di Daney — con la serena coscienza da parte dell’autore dei propri limiti e dei propri meriti — riesce a farlo in modo ammirevole. Non bara, Daney, e non si ammira allo spec­ chio; non rivendica e non si lamenta. Ricorda, afferma. Lega la sua biografìa al modo di fare critica, di capire e di amare il cinema. Quanti critici hanno una biografia? Quel che innanzitutto colpisce e rende esemplare il suo percorso è un’origine, è la storia di un approccio. Il cinema è stato per il piccolo Serge, orfano di padre, cresciuto con una madre e una nonna proletarie e incolte, una scoperta del mondo, ha accompagnato e allargato la conoscenza del mondo, ha introdotto all’universo della cultura e della conoscenza. Anche di sé, se è vero — come nel più bel racconto che io conosca sul cinema, non a caso su un bambino di fronte alla magia dello schermo e nel buio di una sala - che «nei sogni» (nelle proiezioni che il film stimola e propone) «nascono le responsabilità». Il racconto, che sarebbe probabilmente molto piaciuto a Daney, è di Deimore Schwartz — altra biografia di bambi­ no povero, altra storia di un accesso alla cultura e alla conoscenza, in altri anni, per il tramite del cinema. Non voglio dire, come non avrebbe mai detto Daney, che solo questo tipo di accesso, questo tipo di biografia rende l’esercizio della critica più profondo, il lavoro intellettuale io

più necessario. Dico che gli dà sale e gusto, che lo arricchi­ sce, e che lo strappa alla routine di una passione fredda, o ai ritardi — nei cinéphiles — di uno sguardo senza più la grazia dell’infanzia e invece con la goffaggine di un’adolescenza da cui non ci si vuole staccare e che i privilegi delle società occidentali permettono, un’adolescenza che ama perdersi nel film, che dispone di chiavi d’accesso al film infatuate e umorali, insufficienti quanto quelle tutta testa e teoria e preoccupate perlopiù di non sentirsi al passo con le evolu­ zioni dei media. Cioè, che lo sappiamo o no, di un sistema di comunicazione (del potere della comunicazione) consu­ stanziale al potere. Daney scopre il cinema «adulto» molto presto, con una proiezione di Notte e nebbia di Alain Resnais, e scopre con essa il rapporto tra cinema e realtà, e tra cinema e storia. E poi Daney è colpito da un articolo sul film Kapò di Pontecorvo, scritto da Rivette per i «Cahiers» nel 1961, in cui si sostiene che una certa carrellata è moralmente abietta. Daney impara a guardare, si prepara anzi a una carriera di «guardatore» di professione. Ma questa «carriera», questo itinerario, questo viaggio, implica una costante riflessione sul contesto del film, e su altri viaggi, nella vita e nell’arte. Non ci sono grandi tappe in questa «carriera». C’è il ’68 con le sue ubriacature ideologiche di cui sanamente egli dif­ fida, ma con le quali tuttavia deve fare i conti (si chiamano anche Godard, anche «Cahiers» quelle ubriacature); c’è una cultura che diviene sempre più borghese; c’è la crisi di un certo sistema di amicizie e la nascita di un altro sistema di amicizie; c’è il passaggio dai «Cahiers» a «Liberation»; c’è la televisione che ha messo in crisi il cinema, e con la quale occorre fare i conti - mangiatrice di film, prosastica narra­ trice del quotidiano anche il più degradato —; e ci sono le avventure del privato, le scoperte e le acquisizioni nonché le solitudini del privato, la ricerca di una comunicazione che non può certo avere come unico punto di riferimento il cinema, o tantomeno l’ambiente del cinema; c’è l’eros (i ragazzi, in giro per il mondo), ci sono le visioni, c’è l’eserci­ zio del pensiero. Che con tanto maggiore precisione si eser­ cita sul cinema in quanto lo confronta con altro, e in quanto

lo rapporta alla sua medesima storia, la storia di un’arte che è l’arte del nostro setolo e t i ha segnato tutti. È uno spirito libero, Daney, che si dà una disciplina, t hè si pone dei limi­ ti e dei fini. Bisogna saper vedere, bisogna saper leggere, e bisogna anche saper interpretare, nel duplice senso di una necessità di comprendere e di un dovere di esserci, di pren­ dere parte coscientemente alla storia della cultura del pro­ prio tempo - e direttamente o indirettamente, dunque, alla storia stessa del cinema. Che riguarda anche chi ne è logi­ sticamente fuori, in platea, solo spettatore, e riguarda a maggior ragione chi di questo sistema di produzione o registrazione di immagini e di visioni è «guardature» per scelta e per mestiere. Quelle che Daney difende non sono le astratte ragioni dell’arte, care alla critica bigotta e, di fatto, ipocrita e calabrache; sono le ragioni dell’autore — della «messa in scena», nel caso del cinema, ma dentro un sistema che cambia, e che può anche uccidere, con la prosa della televisione e con le «grandi cerimonie audiovisive di massa», la poesia del cinema, il bisogno che ne abbiamo noi che di questa poesia abbiamo dovuto e poi saputo nutrirci, e il bisogno che rite­ niamo ne abbia — cosciente o no - un pubblico, o una parte di un pubblico possibile. Per esempio, un pubblico di gio­ vani di oggi e di domani cui la società dello spettacolo va scippando un passato eredità di poesia e di storia e di conoscenza, ma soprattutto di poesia che gli tocca, cui ha diritto, che deve essere sua) e grazie a questo l’accesso a un futuro non alienato, non «fascista»... Guardando indietro, al tragitto di un trentennio intensa­ mente vissuto, e di enormi trasformazioni che probabil­ mente senza il cinema la parte migliore di due o tre genera­ zioni non avrebbe avuto modo di capire o di intuire, Daney opera un rendiconto che vale per tutti, e vale non solo per il cinema. Pochi come lui, e solo lui con tanta lucidità e attenzione, hanno saputo capire per esempio il passaggio dal film all’emissione TV, l’uso del cinema in TV, il modificarsi della ricezione del film, e l’influenza di tutto questo nel linguaggio del film. Pochi come lui, dopo Bazin (suo12

nostro maestro, esploratore di sentieri inediti per entrare con la poesia nella modernità e affrontare Poltre), hanno saputo parlare dei film e dei loro autori con altrettanta tra­ scinante capacità di penetrazione riuscendo a mantenere una purezza di sguardo, che sembra essere miracolosamente rimasta quella del ragazzino di un tempo. Un modo di affrontare la storia e il racconto della storia, la storia del nostro tempo (da Notte e nebbia a Kapò), e un modo di entra­ re nella dimensione più alta della cultura, della trasmissio­ ne della cultura, rimanendo nella dimensione dell’infanzia e dei suoi bisogni. Due film hanno segnato in Daney questa «visione», pieni di crudeltà e pieni di poesia come, avrebbe detto Bazin, dovrebbe essere dei veri capolavori: La morte corre sul fiume di Charles Laughton e II covo dei contrabbandie­ ri di Fritz Lang, due capolavori che hanno al centro lo sguardo di un bambino, di un «guardatore» bambino. «Il covo dei contrabbandieri è la versione positiva di ciò di cui La morte corre sul fiume è la versione malvagia: il ragazzino vuole a tutti i costi un padre, lo sceglie e lo obbliga a comportarsi come suo padre, contro la sua volontà, e si aspetta da lui delle lezioni di messa in scena, cioè delle lezioni di topolo­ gia, di riconoscimento del territorio.» La figura dell’autore, dice Daney, è un’immagine paterna, ma il padre non c’è; c’è nel film di Laughton un padre abu­ sivo che vuol derubare il bambino dell’eredità che gli spet­ ta, che vuole soffocarlo, e c’è un padre che ci si inventa e che si sceglie, da cui si esige (si ha il diritto di esigere) la poesia e l’indicazione di un futuro possibile e dei modi per affrontarlo. Ma è proprio alla fine della sua vita, e del suo libro, del suo testamento, che Daney parla della decisione di assumersi le responsabilità del padre — rifiutando o supe­ rando la cinefilia dell’adolescente, o l’adolescenza della cinefilia. E di parlare così ad altri bambini, ad altri adole­ scenti, a quelli che nasceranno dopo di noi. «Allora ho fini­ to per accettare l’idea che il cinema era o è stato un fatto talmente straordinario che potevo, per esempio, fare una rivista trimestrale, (...) che questa trasmetta così le espe­ rienze di qualcuno. Perché mi sono stancato di non vedere arrivare nulla.» E se «non ci aspettiamo uno stupore indi­ li

menticabile come quello che abbiamo conosciuto» nel nostro felice passato di spettatori d’altri tempi, siamo però «piuttosto inquieti all’idea di un eventuale futuro orwelliano con grandi cerimonie audiovisive di massa e telethon giganti trasmessi sù grande schermo.» Il futuro, tocca a noi inventarlo.

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INTRODUZIONE di Serge Toubiana a Huguette Daney

Erano gli ultimi giorni di dicembre del 1991, tra Natale e Capodanno. Poco prima di partire per Israele in occasione di una Settimana dei «Cahiers du cinéma», face­ vo visita a Serge Daney, già malato. Come sempre, i nostri discorsi toccavano diversi argo­ menti: i film del momento, la situazione dei «Cahiers», il lancio della sua rivista «Trafic». E lo stato di salute di Serge... Tra le altre cose, ricordava anche il suo desiderio di scrivere un libro, l’ultimo secondo i suoi progetti, per il quale aveva già scelto il titolo: Perseverance. Doveva essere un «vero» libro, a differenza delle raccolte di articoli che aveva pubblicato fino a quel momento. Mi diceva di voler raccogliere tutto il materiale della sua vita di cinefilo, per farne il soggetto. Aveva già stabili­ to che il libro sarebbe iniziato con 1’evocazione del carrello di Kapò, in riferimento ad un articolo che Jacques Rivette aveva scritto nel giugno del 1961 sui «Cahiers du cinéma», denunciando il film di Gillo Pontecorvo.

Questo articolo aveva avuto un forte impatto su Serge, che all’epoca aveva solo diciassette anni, provocando in lui uno choc estetico e morale, decisivo per il suo destino di futuro critico dei «Cahiers du cinéma». Nel corso di tutti gli anni Settanta e Ottanta lo avevamo spesso rievocato, insieme alla famosa Lettera su Rossellini, sempre di Rivette, due scritti che contribuirono a porre le fondamenta stesse dell’edifìcio critico dei «Cahiers». Serge vi ritornava continuamente, iscrivendo il suo per­ corso intellettuale nella filiazione teorica prodotta da questi due testi: i campi di concentramento, l’impossibilità del cinema di continuare a raccontare delle storie «dimentican­ 15

do» Hiroshima, la rottura rappresentata dal cinema moder­ no, Rossellini e (ìodard... Questo itinerario teorico mi restava in parte osi uro, ne avevo ancora una coscienza assai vaga, astratta: mi accontentavo di seguire Daney nei suoi pensieri, lasciandolo fare piti che manifestando reale com­ prensione o adesione. Mi mancava un anello della catena, quello che Serge mi avrebbe fornito in seguito.

Anche in questa occasione, quindi, come tutte le volte che passavo a trovarlo in me Traversiere, domandai a Serge a che punto era Perseverance. «ì rafie» occupava quasi tutto il suo tempo, sottraendogli le poche energie che gli restavano. Era ciò a cui teneva di più. Per il resto si dedicava a ricevere gli amici e a parlare con loro. Ma vedevo in lui la tristezza e l’amarezza per non avere forze sufficienti ad affrontare il libro. Il 1991 finiva in modo strano. Da qualche mese un certo malessere si era insinuato tra noi. Mi serbava rancore a causa di un episodio di cui fra poco dirò. Avevo un bel fare onorevole ammenda, questo non-detto incombeva pesante­ mente. Mi sentivo colpevole, dovevo dargli una prova della mia amicizia. Lasciandolo, quel giorno di fine dicembre, decisi di scri­ vergli subito per proporgli di registrare al magnetofono, non appena fossi tornato, una lunga intervista con lui, che gli sarebbe potuta servire come punto di partenza per scri­ vere il suo libro. Gli suggerivo anche di andarcene da Parigi, qualche giorno, così da poter stare più tranquilli.

Al mio ritorno, un biglietto firmato S.D. in data 4 gen­ naio 1992: «La tua lettera mi commuove davvero. Questo libro di interviste era quello che avremmo dovuto fare un anno fa. Ma, allora, il sospetto (egoista) che tu non fossi dalla mia parte si era aggiunto alla mia tristezza. Stavolta invece la colpa è mia. Come sempre, sono stato dispersivo e ora mi trovo proprio nei pasticci. Possiamo provare a realiz­ zarlo insieme questo strano progetto (una cine-biografia). Al più presto.» 16

Un anno prima, Serge se l’era presa con me per non esse­ re stato al suo fianco nell’ «affare Berti». Per chi non lo sapesse o l’avesse dimenticato, Claude Berri aveva citato in giudizio «Liberation» in seguito ad un articolo particolar­ mente ispirato di Serge contro Uranus. Berri aveva ottenuto un diritto di replica, debole di contenuto e mediocre nella forma, che finiva con un volgare «ciao pollo». Era una novità che un cineasta ottenesse per vie legali il diritto di replica a un articolo che non era diffamatorio. Serge era rimasto profondamente ferito dal fatto che questa risposta fosse stata pubblicata senza che nessuno, all’interno di «Liberation», il suo giornale, avesse preso le sue difese.

Serbava rancore anche verso i suoi amici, fra i quali io. Aveva ragione, non mi ero mostrato solidale, non l’avevo sostenuto. L’atmosfera era strana, eravamo in piena guerra del Golfo. In seguito ci spiegammo, ma questo episodio lasciò qualche traccia. Serge non perdeva occasione per tornarci sopra. Era ad un punto della vita in cui tirava le somme, con estrema lucidità, senza indulgenza verso se stesso né verso gli altri. Era così, e l’unica prova di amicizia sarebbe stata essere al suo fianco. Mi aveva scritto: «Al più presto». Aveva fretta davvero.

All’inizio di febbraio, Serge andò a Marsiglia con Raymond Bellour, in occasione di un seminano sul cinema e di una presentazione in pubblico della rivista «Trafìc». Eravamo d’accordo di incontrarci dalle parti di Aix-enProvence, a Eguilles, dove avevo prenotato due camere all’hotel del Belvedere, da venerdì 7 a domenica 9 febbraio. Là si svolsero le nostre conversazioni. Raggiungevo Serge in camera sua e lo intervistavo il più a lungo possibile... Nonostante la fatica parlò per molte ore, aveva idee chiare. Faceva il racconto della sua vita, vita di un «cine-figlio» la cui cine-biografìa volgeva ormai al termine. Per me la cosa più commovente era vedere un amico che, sapendosi vicino alla morte, parlava di sé, della sua infanzia e del suo cammi­ 17

no, con semplicità e intelligenza, senza alcuna parola, alcu­ na espressione che Incesse trasparire il minimo senso di lamento o di ingiustizia. lo che pure, lo ( onoscevo bene, ho scoperto a Eguilles cose di lui che ignoravo, di cui non aveva mai parlato. A nessuno. Non fu tanto una confessione, né, più banalmente, una forma di auto-analisi. Ciò che disse sembrava piuttosto iscriversi, in modo logico e controllalo, nella trama di una personale sceneggiatura. Con serenità Serge stava sisteman­ do gli ultimi pezzi di un puzzle, quello della sua vita. Compresi fino in fondo l'importanza che aveva avuto per Serge l’articolo di Rivette su Kapò, film che del resto giura­ va di non aver mai visto, solamente quel giorno di febbraio del 1992 quando, durante la nostra lunga conversazione che doveva portare a questo libro, mi parlò per la prima volta di suo padre, una figura per lui sconosciuta e segreta. Quel giorno Serge ripercorse davanti a me la sua storia, il suo iti­ nerario di bambino nato nel 1944 - l’anno di Roma città aperta e della scoperta dei campi di concentramento — poi di adolescente e di giovane che, attraverso l’amore per il cine­ ma, si accingeva a scrivere la sua vita. Cioè a confonderla con una certa storia del cinema. 11 «carrello di Kapò», la Lettera su Rossellini, il suo rapporto con i «Cahiers du ciné­ ma», la difesa di Straub e Godard articolata in un’estetica della resistenza, l’amore per le lingue straniere, il gusto dei viaggi, il culto dell’amicizia, il passaggio a «Liberation», la malattia, la nascita di «Trafic»... Così, ad un tratto la com­ ponente biografica rientrava nel discorso teorico, mettendo­ ne in luce la vera portata. Questo anello mancante mi svelava finalmente la via che Serge aveva percorso. Nonostante fossimo amici da vent’anni, e che avessimo condiviso, uno di fronte all’altro, lo stesso ufficio dei «Cahiers du cinéma», è stato solamente in quel giorno che l’ho capito, che l’ho davvero conosciuto.

Il ritorno Marsiglia-Parigi in aereo fu diffìcile. All’aero­ porto, lui che amava tanto viaggiare mi disse che quello sarebbe stato senza dubbio il suo ultimo viaggio. 18

Voleva che si procedesse rapidamente. Feci sbobinare al più presto i nastri magnetici, affidandoli ad Anne-Marie Faux, che lavorò con estrema intelligenza. Poi riconsegnai tutto a Serge. Si riprometteva di tornare su questo primo abbozzo. Ma non aveva più forze per occuparsi contempora­ neamente di «Trafìc» e di questo lavoro di riscrittura. Ogni volta che lo vedevo, gli domandavo discretamente a che punto era. «Proseguo, proseguo...». Ne dubitavo.

Un giorno mi disse che aveva iniziato una prima riscrit­ tura al computer. Non ebbe il tempo di finirla. È morto di AIDS il 12 giugno 1992, cinque mesi dopo le nostre con­ versazioni a Eguilles.

Ho esitato a lungo prima di pubblicare questo mano­ scritto, poiché solo la prima parte dell’intervista è stata completamente rivista da Serge. E per chi conosce la sua scrittura, ciò è evidente: concisione, senso del racconto, chiarezza di stile. Quanto alla seconda parte, l’ho rivista io stesso cercando di essere il più fedele possibile ai suoi intendimenti. Ho pensato che fosse necessario porre il suo articolo sul «carrello di Kapò» in apertura, poiché era intenzione di Serge Daney farne il primo capitolo del suo libro. È il suo ultimo pezzo pubblicato su «Trafìc».

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PRIMA PARTE

Il carrello di Kapò

Nell’elenco dei film che non ho mai visto, non ci sono soltanto Ottobre, Alba tragica o Bambi, c’è anche l’oscuro Kapò. Film sui campi di sterminio, girato nel I960 da Gillo Pontecorvo, Kapò non è diventato una pietra miliare nella storia del cinema. Sono forse il solo che non l’ha mai dimenticato pur non avendolo mai visto? In effetti io non ho mai visto Kapò, ma posso ugualmente dire di averlo visto. L’ho visto perché qualcuno — a parole — me l’ha mostrato. Conosco questo film, il cui titolo, come una parola d’ordine, ha accompagnato tutta la mia vita, solo attraverso un breve testo: la critica di Jacques Rivette nel giugno del 1961 sui «Cahiers du cinema». Era il numero 120, l’artico­ lo si intitolava «Dell’abiezione», Ri vette aveva trentatré anni e io diciassette. Probabilmente non avevo mai pronun­ ciato la parola «abiezione» in vita mia. Nel suo articolo, Rivette non raccontava il film, si limi­ tava a descriverne un’inquadratura, con una frase. La frase, che si scolpì nella mia memoria, diceva: «Guardate, in Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inqua­ dratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo». Così, un semplice movimento della macchina da presa poteva essere proprio il movimento da evitare. Quello che — in modo quanto mai evidente — bisognava essere abietti per compiere. Appena terminai di leggere queste righe seppi che il loro autore aveva assolutamente ragione. Scabro e luminoso, il testo di Rivette mi permetteva di associare un significato alla parola abiezione. La mia rivolta aveva trovato parole per esprimersi. Ma c’era di più. La rivolta era accompagnata da un sentimento meno chiaro e 23

senza dubbio meno puro: la confortante consapevolezza di aver acquisito la mia prima certezza di futuro critico. Nel corso degli anni, infatti, il «carrello di Kapò» costituì per me il dogma universale, l'assioma su cui non si discute, il punto limite di ogni dibattito. Con chiunque non avesse colto immediatamente l'abiezione del «carrello di Kapò» non avrei mai avuto nulla a che vedere, nulla da condividere. D’altra parte questo genere di rifiuti apparteneva ai tempi. Di fronte allo stile rabbioso ed esasperato dell'artico­ lo di Ri vette, capivo che si erano già svolti furiosi dibattiti e mi sembrava logico che il cinema fosse la cassa di risonan­ za privilegiata di ogni polemica. Stava finendo la guerra d’Algeria che, per il fatto di non essere stata filmata, aveva già fatto nascere dei sospetti su ogni rappresentazione della Storia. Tutti sembravano consapevoli che ci potessero essere — proprio e soprattutto nel cinema - delle immagini tabù, dei montaggi vietati e delle leggerezze criminali. La celebre formula di Godard che individuava nell’nso del carrello «una questione di morale» era, almeno per me, una di quel­ le verità su cui non si discute.

L’articolo in questione era stato pubblicato sui «Cahiers du cinéma» tre anni prima che si concludesse il «periodo giallo». Capii forse già da allora che non avrebbe potuto essere pubblicato su nessun’altra rivista di cinema e che apparteneva fino in fondo ai «Cahiers» come io stesso più tardi, sarei loro appartenuto? Comunque sia, avevo trovato la mia famiglia, io che quasi non l’avevo. Dunque, non era solo per mimetismo snob che comperavo da due anni i «Cahiers», condividendo con un compagno del liceo Voltaire - Claude D - i commenti sbalorditi su di essi. E non era per puro capriccio se, all’inizio di ogni mese, incol­ lavo il mio naso contro la vetrina di una modesta libreria di avenue de la République. Bastava che sotto la striscia gialla della copertina, fosse cambiata la fotografìa in bianco e nero per farmi battere il cuore. Ma non volevo che fosse il libraio a dirmi se il nuovo numero era già uscito o no. Volevo sco­ prirlo da solo e comperarlo con indifferenza, e voce neutra, come se si fosse trattato di un quaderno per la brutta copia. 24

Quanto all’idea di abbonarmi, non mi ha mai sfiorato: amavo quell’attesa esasperata. Che fosse per comperarli, poi per scrivervi e finalmente per farli, in ogni caso io sarei rimasto vicino ai «Cahiers», perché erano «casa mia». Al liceo Voltaire eravamo un manipolo ad essere entrati furtivamente nel mondo della cinefilia. L’evento si può anche datare: 1959. La parola «cinefilo» era ancora vitale ma già aveva quella connotazione morbosa e quell’aura ran­ cida che in seguito l’avrebbero gradualmente screditata. Quanto a me, dovetti disprezzare subito coloro che, troppo normalmente educati, deridevano già i «topi di cineteca» che noi, colpevoli di vivere il cinema come passione e la vita per procura, saremmo divenuti per qualche anno. All’inizio degli anni Sessanta, il mondo del cinema era ancora un mondo incantato. Da un lato possedeva tutto il fascino di una contro-cultura parallela. Dall’altro aveva il vantaggio di essere già compiuto, con una storia densa, dei valori riconosciuti, le cantonate del Sadoul — questa Bibbia insufficiente - , una lingua consolidata e miti resistenti, battaglie di idee e riviste militanti. Certo, le guerre erano quasi finite e noi arrivavamo un po’ tardi, ma non così tanto da non alimentare il tacito progetto di riappropriarci di tutta questa storia che non aveva ancora un secolo di vita. Essere cinefilo consisteva semplicemente nell’ingurgitare, parallelamente al programma del liceo e su di esso rical­ cato, un altro programma scolastico, avendo i «Cahiers» come fìl rouge e potendo contare su qualche «traghettatore» adulto che, con la discrezione dei cospiratori, ci faceva capire che c’era un altro mondo da scoprire, e forse che era proprio quello il mondo in cui vivere. Henry Agel - profes­ sore di lettere al liceo Voltaire — fu uno di questi strani tra­ ghettatori. Per evitare a se stesso e a noi il tedio delle lezio­ ni di latino, metteva ai voti le seguenti possibilità: passare un’ora sui testi di Tito Livio o vedere dei film. La classe, che votava per il cinema, usciva dal vecchio cineclub inva­ riabilmente pensierosa e con la sensazione di essere stata presa in trappola. Un po’ per sadismo e sicuramente per il semplice motivo che ne possedeva le copie, Agel proiettava oscuri film capaci di turbare seriamente degli adolescenti 25

come noi. tirano /z \ang des bètes (t.l. Il sangue degli anima­ li) di Hranjii r soprai tutto Notte e nebbia di Resnais. Così attraverso il cinema appresi che la condizione umana e il massacro industriale non erano incompatibili e che il peg­ gio era appena accaduto. Penso oggi c he Agel, per il quale la parola Male si scri­ veva con la maiuscola, amasse spiare sul viso degli adole­ scenti della seconda B gli effetti di questa singolare rivela­ zione, perché proprio di una rivelazione si trattava. Doveva esserci una componenente voyeuristica nel suo modo bruta­ le di trasmettere, attraverso il cinema, questo sapere maca­ bro e inafferrabile, che noi eravamo la prima generazione ad ereditare per intero. Cristiano poco proselita, militante piuttosto elitario, Agel mostrava. Aveva questo talento. Mostrava perché era necessario farlo. E perché la cultura cinematografica al liceo, per la quale si batteva, passava anche attraverso questa tacita distinzione tra coloro che non avrebbero più dimenticato Notte e nebbia e gli altri. Io non facevo parte degli «altri». Una volta, due volte, tre volte, secondo il capriccio di Agel e delle lezioni di latino sacrificate, guardai i celebri mucchi di cadaveri, i capelli, gli occhiali e i denti. Ascoltai dalla voce di Michel Bouquet il commento desolato scritto da Jean Cayrol e la musica di Hans Eisler che sembrava dolersi di esistere. Strano battesimo delle immagini: capire contemporaneamente che i campi di concentramento erano veri e che il film era giusto. E che il cinema — lui solo? — era capace di ergersi sul limite di un’umanità snaturata. Sentivo che le distanze poste da Resnais tra il soggetto filmato, il soggetto che filma e il soggetto spettatore erano, nel 1959 come nel 1955, le sole possibili. Notte e nebbia era dunque un «bel» film? No, era un film giusto. Kapò voleva essere un bel film e non lo era. E per me sarebbe sempre stato bello ciò che era giusto. Da qui la noia totale, che ho invariabilmente prova­ to davanti alle immagini solo belle. Catturato dal cinema, non avevo neanche avuto bisogno di esserne sedotto. Né avevo avuto bisogno che il cinema mi parlasse in modo infantile. Da piccolo non ho visto un 26

solo film di Walt Disney. Mandato direttamente alla scuola comunale, ero fiero di essermi risparmiato l’asilo e la baraonda delle scene dei bambini. Di più: il disegno anima­ to avrebbe sempre rappresentato per me una cosa diversa dal cinema. In un certo senso un nemico. Nessuna bella immagine, soprattutto se disegnata, poteva distogliermi dall’emozione, dal timore, dal fremito che provavo davanti alle cose semplicemente «catturate» da una ripresa. E tutto questo, che, nella sua semplicità, mi ha richiesto anni per poter essere chiaramente formulato, doveva iniziare ad usci­ re dal limbo solo davanti alle immagini di Resnais e al testo di Rivette. Nato nel 1944, due giorni prima dello sbarco alleato, avevo l’età giusta per scoprire contemporaneamente il mio cinema e la mia storia. Una storia strana, che ho cre­ duto per tanto tempo di poter condividere con gli altri prima di capire — molto tardi — che era invece solo mia.

Che cosa sa un bambino? E che cosa sapeva il bambino Serge D., curioso di tutto tranne che di ciò che lo riguarda­ va direttamente? A partire da quale sensazione di estraneità al mondo sentirà più tardi come necessaria la presenza alle immagini del mondo? Conosco poche espressioni così belle come quella che usa Jean Louis Schefer quando in L’homme ordinaire du cinéma parla dei «film che hanno riiguardato la nostra infanzia». Perché una cosa è imparare a guardare i film in modo professionale — per verificare poi che così sono loro che ci ri/guardano sempre meno — e un’altra cosa è vivere con quei film che ci hanno guardato crescere e che ci hanno visto, ostaggi precoci della nostra futura biografia, già impigliati nella rete della nostra storia. Psyco, La dolce vita, Il sepolcro indiano, Rio Bravo, Pickpocket, Anatomia di un omicidio, Shin Heike Monogatari (t.l. Nuovi racconti del Clan Taira} o appunto Notte e nebbia non sono per me film come altri. Alla domanda brutale: «sono qualcosa che ti riguar­ da?» mi rispondono tutti sì. I corpi di Notte e nebbia e, due anni più tardi, quelli delle prime inquadrature di Hiroshima mon amour sono tra le «cose» che mi hanno ri/guardato più di quanto io le abbia viste. EjzenStein ha tentato di produrre immagini simili, 27

ma è Hitchcock ad esserci riuscito. Come si può dimentica­ re, per fare solo un esempio, il primo incontro con Psycho? Eravamo entrati, di nascosto, ai Paramount Opera e il film ci spaventava né piò né meno di tanti altri. Ed ecco, verso la fine, una scena con un montaggio fatto alla bell’e meglio, da cui non emergono che oggetti grotteschi: una vestaglia cubista, una parrucca che cade, un coltello impugnato. Allora la mia percezione slitta e allo spavento, condiviso fino a quel momento con gli altri, subentra la calma di una solitudine rassegnata: il cervello funziona come un secondo proiettore che lasci scorrere l’immagine, permettendo al film e al mondo di continuare senza di lui. Non riesco ad immaginare alcun amore del cinema che non si fondi sul presente rubato di questo «continuate senza di me».

Chi non ha vissuto questa esperienza? Chi non ha cono­ sciuto questi ricordi-schermo? Immagini non identificate impressionano la retina, eventi sconosciuti accadono come per fatalità, parole pronunciate diventano la chiave segreta per schiudere un impossibile sapere su se stessi. Questi momenti di «non visto e perduto» costituiscono la scena primaria dell’appassionato di cinema, quella in cui lui non c'era quando invece non si trattava che di lui. Nel senso in cui Paulhan parla della letteratura come di un’esperienza del mondo «quando noi non ci siamo» e Lacan di «ciò che è assente dal proprio posto». Il cinefilo? È colui che spalanca invano gli occhi ma che non dirà mai a nessuno di non aver potuto vedere nulla. Colui che si prepara una vita di «guardatore» di professione. La storia di prendersi il proprio tempo, di «rifarsi» e di farsi. Il più lentamente possibile. Così la mia vita conobbe il suo punto zero: seconda nascita, come tale vissuta e subito commemorata. La data è nota, sempre il 1959- E — una coincidenza? - l’anno del celebre «Tu non hai visto niente a Hiroshima» di Marguerite Duras. Io e mia madre usciamo da Hiroshima mon amour tutti e due sbalorditi — non eravamo i soli ad esserlo - perché non avevamo mai pensato che il cinema fosse capace di «questo». E sul marciapiede della metropo­ litana, realizzo finalmente che alla domanda fastidiosa cui 28

non so più ormai che cosa rispondere — «che cosa farai nella vita?» — ho da qualche minuto una risposta. «Più tardi», in un modo o nell’altro, sarebbe stato il cinema. Perciò non ho mai risparmiato dettagli su questa mia cine-nascita. Hiroshima, il marciapiede della metropolitana, mia madre, l’ex cinema d’essai degli Agricoltori e le sue comode poltro­ ne di cuoio saranno rievocati più di una volta come scenario mitico della buona origine, quella che ognuno si sceglie. Resnais, ne sono certo, è il nome a cui è legata questa scena primaria in due anni e tre atti. Proprio perché era stato possibile Notte e nebbia, Kapò nasceva già superato e Rivette poteva scrivere il suo articolo. Dunque, prima anco­ ra di essere il prototipo del regista moderno, Resnais fu per me un altro traghettatore. Se, come si diceva allora, rivolu­ zionò, il linguaggio cinematografico, è perché si accontentò di prendere il suo soggetto sul serio, avendo avuto l’intuizio­ ne, quasi la fortuna, di riconoscere in mezzo a tutti gli altri questo soggetto: niente meno che la specie umana così come era uscita dai campi di sterminio e dal trauma atomi­ co: rovinata e sfigurata. Perciò ci fu sempre qualcosa di strano nel mio modo, un po’ annoiato, di guardare gli «altri» film di Resnais. Mi sembrava che i suoi tentativi di rivitalizzare un mondo, di cui lui solo aveva saputo all’epoca registrare la malattia, fossero destinati a produrre solo fastidio. Non con Resnais dunque avrei fatto il mio viaggio nel cinema moderno e nel suo futuro, ma piuttosto con Rossellini. Non con Resnais avrei imparato a memoria e fatto mia la lezione delle cose e della morale, ma sempre con Godard. Perché? Innanzitutto perché Godard e Rossellini hanno parlato, scritto, riflettuto a voce alta, men­ tre l’immagine di Resnais, rigido come una statua di com­ mendatore, intirizzito nelle sue giacche a vento, implorante — giustamente ma invano — che gli si credesse quando dichiarava di non essere un intellettuale, finì per infastidir­ mi. Era forse un modo per vendicarmi del ruolo che due dei suoi film avevano avuto nel «sollevare il velo» della mia vita? Resnais era il regista che mi aveva strappato all’infan­ 29

zia o, piuttosto, die aveva fatto di me, per tre decenni, un bambino serto. E giustamente era la persona con cui, da adulto, non avrei mai condiviso nulla. Mi ricordo che alla fine di un’intervista — per l’uscita di La vita è un romanzo — pensai fosse giusto parlargli dello choc che Hiroshima mon amour aveva provocato nella mia vita: mi ringraziò con un’aria sostenuta e fredda, come se gli avessi fatto i compli­ menti per il suo impermeabile nuovo. Ci rimasi male, ma avevo torto: i film che «hanno ri/guardato la nostra infan­ zia», non sono condivisibili con nessuno, neppure con il loro autore. Ora che questa storia è chiusa ed io ho avuto più di ciò che mi spettava del nulla che c era da vedere a Hiroshima, inevitabilmente mi pongo la domanda: poteva essere diver­ so? Davanti ai campi di concentramento era possibile un’altra «giustezza» diversa da quella dell’anti-spettacolo di Notte e nebbia? Un’amica ricordava recentemente il docu­ mentario di George Stevens, realizzato alla fine della guer­ ra, seppellito, riesumato e recentemente trasmesso dalla televisione francese. È il primo film che abbia registrato a colori l’apertura dei campi di sterminio; e sono proprio i colori che — senza alcuna abiezione — lo fanno precipitare nell’arte. Perché? Per la differenza tra i colori e il bianco e nero? Tra l’America e l’Europa? Tra Stevens e Resnais? Ciò che è grandioso nel film di Stevens è che si tratta ancora una volta del racconto di un viaggio: l’avanzata quotidiana di un piccolo gruppo di soldati che filmano e di registi vagabondi attraverso l’Europa distrutta, da Saint-Ló rasa al suolo ad Auschwitz, tappa che nessuno ha previsto e che sconvolge la compagnia. E poi, aggiunge la mia amica, i cumuli di cadaveri vi assumono una bellezza strana che ricorda la grande pittura di questo secolo. Come sempre, Sylvie P. aveva ragione. Oggi capisco che la bellezza del film di Stevens sta non tanto nella giustezza della distanza adottata quanto piutto­ sto neW'innocenza dello sguardo posato. La giustezza è il far­ dello di chi viene dopo; l’innocenza, la grazia terribile accordata al primo venuto. Al primo che esegue semplice­ 30

mente i gesti propri del cinema. Bisognerà aspettare fino alla metà degli anni Settanta per riconoscere nel Salò di Pasolini o anche neìV Hitler di Syberberg l’altro significato della parola «innocente». Non tanto il non colpevole, quan­ to colui che, filmando il Male, non «pensa male». Nel 1959, io, giovane appena turbato dalla scoperta di sé, già condividevo la colpevolezza di tutti. Ma nel 1945, forse, era sufficiente essere americano e assistere, come fece George Stevens o il caporale Samuel Fuller a Falkenau, all’apertura delle vere porte della notte, cinepresa alla mano. Bisognava essere americano - cioè credere all’innocenza innata dello spettacolo — per far sfilare la popolazione tedesca davanti alle fosse aperte al fine di mostrarle quello vicino a cui era vissuta, nel bene e nel male. Ed era necessario che ciò acca­ desse dieci anni prima che Resnais si mettesse al tavolo di montaggio e quindici anni prima che Pontecorvo aggiunges­ se quel piccolo movimento della macchina da presa che disgustò me e Rivette. La necrofilia era dunque il prezzo di questo ritardo come anche la doppiezza erotica dello sguar­ do «giusto», quello dell’Europa colpevole, quello di Resnais e, di conseguenza, il mio. Questa fu la prima parte della mia storia. Lo spazio aper­ to dalla frase di Rivette era il mio, così come già mia era la famiglia intellettuale dei «Cahiers du cinéma». Ma questo spazio, me ne sarei reso conto in seguito, più che un vasto campo, era una porta stretta. Con da un lato, quello nobile, il piacere della distanza giusta, e dall’altro il suo rovescio di necrofilia sublime o sublimata; e, nel lato non nobile, la possibilità di un piacere completamente diverso e in-sublimabile. Fu Godard che un giorno, mostrandomi alcune cas­ sette di film pornografici ambientati nei campi di stermi­ nio e riposti in un angolo della sua videoteca di Rolle, si stupì che di fronte a quei film non fosse stato fatto alcun discorso, né lanciata alcuna condanna. Come se la bassezza delle intenzioni dei loro produttori e la trivialità degli appetiti dei loro consumatori li proteggessero in qualche modo dalla censura e dall’indignazione. Dimostrazione che nella sottocultura perdurava la sorda rivendicazione di un legame obbligatorio tra i 'carnefici e le vittime. L’esistenza 31

di questi film in effetti non mi aveva mai preoccupato. Avevo nei loro confronti — come nei confronti di tutto il cinema esplicitamente pornografico — la tolleranza quasi educata che si ha verso l’espressione di un fantasia così cruda da non poter vantare cfìe la triste monotonia della sua necessaria ripetizione. Sarà sempre l’altra pornografìa — quella «artistica», di Kapò, come più tardi quella di Portiere di notte e di altri pro­ dotti «rétro» degli anni Settanta — a disgustarmi. All’estetizzazione consensuale del dopo, preferirò sempre il ritorno ostinato delle non-immagini di Notte e nebbia, se non addi­ rittura l’ondata puls^onale di un qualsiasi Louve chez les S.S. che non vedrò mai. Quei film avevano almeno l’onestà di prendere atto dell’iTnpossibilità di raccontare, l’onestà di riconoscere un punto d’arresto nello svolgimento della Storia, dove il racconto si paralizza o gira a vuoto. Non si dovrebbe parlare tanto di amnesia o di rimozione quanto piuttosto di forclusione, una parola di cui solo più tardi apprenderò la definizione lacaniana: ritorno allucinarono di ciò su cui non è stato possibile operare un giudizio di realtà; In altri termini: poiché i registi non hanno filmato a suo tempo la politica di Vichy, il loro compito, cinquant’anni più tardi, non è quello di ottenere un riscatto immaginario a colpi di Arrivederci, ragazzi ma quello di tracciare il ritratto attuale di questo buon popolo francese che, dal 1940 al 1942, retata del Vel’ d’Hiv compresa, non ha battuto ciglio. Essendo il cinema un’arte del presente, i suoi rimorsi non hanno alcun valore. Per questo motivo lo spettatore che fui davanti a Notte e nebbia e il regista che con questo film tentò di mostrare l’irrappresentabile, erano legati da una simmetria complice. Da un lato lo spettatore che improvvisamente «è assente dal suo posto» e si blocca mentre il film va avanti. Dall’altro il film che invece di continuare ripiega su se stesso, si blocca su un’immagine provvisoriamente definitiva che permette al soggetto-spettatore di continuare a credere al cinema e al soggetto-cittadino di continuare a vivere la sua vita. Fermo sullo spettatore, fermo sull’immagine: il cinema è entrato nell’età adulta. La sfera del visibile ha cessato di essere 32

disponibile nella sua interezza: ci sono ora assenze e buchi, vuoti necessari e pieni superflui, immagini per sempre assenti e sguardi venuti meno per sempre. Spettacolo e spettatore cessano di rinviarsi tutte le palle. Fu così che avendo scelto il cinema, considerato «arte dell’immagine in movimento», iniziai la mia vita di «cinefago» sotto l’egida paradossale di un primo fermo immagine. Questo fermo immagine mi protesse dalla necrofilia pura e non vidi nessuno dei rari film o documentari «sui campi» che seguirono Kapò. La questione per me era risolta con Notte e nebbia e con l’articolo di Rivette. Mi comportai per molto tempo come le autorità francesi che, ancora oggi, davanti a qualsiasi fatto di cronaca antisemita, trasmettono d’urgenza il film di Resnais come se esso facesse parte di un arsenale segreto che, al ripresentarsi del Male, potesse opporre all’infinito le sue virtù esoreistiche. E se non appli­ cai il teorema del carrello di Kapò ai soli film esposti dal loro stesso soggetto al pericolo dell’abiezione, accadde per­ ché ero tentato in realtà di applicarlo a tutti i film. «Ci sono delle cose» aveva scritto Ri vette «che devono essere avvicinate con timore e tremore: la morte è certamente una di queste. Come si può, al momento di filmare una cosa tanto misteriosa, non sentirsi un impostore ?» Condividevo. E poiché i fdm in cui la morte non sia in qualche modo presente sono rari, altrettanto numerose erano le occasioni di temere e tremare. Alcuni registi, in effetti, non erano degli impostori. Così, sempre nel 1959, la morte di Miyagi in I racconti della luna pallida d’agosto mi inchiodò, straziato, ad una poltrona del cinema Bertrand. Perché Mizoguchi aveva filmato la morte come una indefinibile fatalità che, lo si vedeva chiaramente, non poteva altro che accadere. Mi ricordo ancora la scena: nella campagna giapponese alcuni viaggiatori sono attaccati da un gruppo di banditi affamati e uno di questi trafigge Miyagi con un colpo di lancia. Ma lo fa quasi inavvertitamente, esitando, còme spinto da un residuo di violenza o da un riflesso condizionato. Questo gesto resta così poco in posa che la cinepresa sembra sul punto di «passargli accanto», e io sono convinto che in quel momento ogni spettatore di I racconti della luna pallida 33

d'agosto è sfiorato dalla stessa folle idea, quasi superstiziosa: se il movimento della macchina da presa non fosse stato così lento, l’avvenimento sarebbe rimasto fuori campo o — chissà? — forse non sarebbe proprio accaduto. La colpa è della macchina da presa? Svincolandola dai gesti degli attori, Mizoguchi ha fatto esattamente il contra­ rio di Pontecorvo in Kapò. Al posto di un colpo d’occhio, per di più aggraziato, ha scelto uno sguardo che «fa fìnta di non vedere nulla», che preferirebbe non aver visto nulla e che, per questo, mostra il fatto nel suo prodursi come fatto, cioè ineluttabilmente e di traverso. Un fatto assurdo e senza valore, assurdo come ogni cosa che volge al male e senza valore come la guerra, catastrofe che Mizoguchi non accettò mai. Un fatto che non ci riguarda mai abbastanza da poter­ ne attraversare il cammino, un fatto vergognoso. Perché scommetto che in quel preciso istante ogni spettatore dei Racconti sa nel modo più assoluto in che cosa consiste l'assur­ dità della guerra. Non importa che lo spettatore sia occi­ dentale, il film giapponese e la guerra medioevale: è suffi­ ciente passare dall’atto di mostrare con il dito all’arte di fis­ sare con lo sguardo perché questo sapere, sfuggente e uni­ versale allo stesso tempo, l’unico di cui il cinema sia capace, ci sia elargito. Schierandomi così in fretta per la panoramica dei Racconti contro il carrello di Kapò, compio una scelta di cui misurerò la portata solo dieci anni più tardi, nel fervore tanto radicale quanto tardivo della politicizzazione post-sessan fotti na dei «Cahiers». Perché se Pontecorvo, futuro autore della Battaglia di Algeri, è un regista coraggioso del quale condi­ vido grossomodo le convinzioni politiche, Mizoguchi sem­ bra aver vissuto solo per la sua arte ed essere stato politicamente un opportunista. Dov’è allora la differenza? Nel «timore e tremore» appunto. Mizoguchi ha paura della guerra perché, a differenza del suo allievo Kurosawa, gli ometti che si tranciano la carotide in nome della virilità feu­ dale lo prostrano. Da questa paura, nausea e desiderio di fuggire deriva la panoramica inebetita. Una paura che fa di questo momento un momento giusto, cioè condivisibile. Pontecorvo, invece, non conosce né timore né tremore: i 54

campi lo sconvolgono solo ideologicamente. E così si inseri­ sce come un di più nella scena sotto le vesti sconce di un carrello aggraziato. Il cinema - me ne rendevo conto — oscillava spesso tra questi due poli. E in seguito, pur avendo a che fare con registi diversi da Pontecorvo, mi sono imbattuto più di una volta in questa usanza da contrabbandieri — una sorta di pratica ipocrita e generalizzata &e\\' ammiccamento — di aggiungere una bellezza parassita lo un’informazione com­ plice a scene che non tollerano simili modalità di rappre­ sentazione. Per questo, il colpo di vento che fa calare, quasi fosse un sudario, il biancore di un paracadute su un soldato morto in L’urlo della battaglia di Fuller, mi ha infastidito per anni. Sempre meno comunque della sottana sollevata sul cadavere di Anna Magnani, falciata da una raffica di mitra in Roma città aperta. Anche Rossellini tirava colpi bassi ma in un modo così nuovo che sarebbero occorsi degli anni per capire verso quale abisso ci stava conducendo. Dov’è la crudeltà? Dove inizia l’oscenità e dove finisce la pornografìa? Sentivo con chiarezza che erano queste le assil­ lanti domande legate al cinema del «dopo olocausto». Cinema che iniziai, da solo e perché ne ero coetaneo, a chia­ mare «moderno». Questo cinema moderno aveva una caratteristica: era crudele; e noi ne avevamo un’altra: accettavamo questa cru­ deltà. La crudeltà era «dalla parte giusta». In suo nome dicevamo no all’illustrazione accademica e ponevamo per sempre fine al sentimentalismo ipocrita di un umanesimo allora troppo loquace. La crudeltà di Mizoguchi, per esem­ pio, consisteva nel montare insieme due movimenti incon­ ciliabili e nel produrre il sentimento straziante di «mancata assistenza a chi è in pericolo». Sentimento moderno per eccellenza, che precede di quindici anni i grandi e coraggio­ si carrelli di Week-end. Sentimento arcaico, anche, perché questa crudeltà era vecchia quanto il cinema stesso, da sem­ pre spia di ciò che in esso era fondamentalmente moderno, dall’ultima inquadratura di Luci della città a Lo sconosciuto di Browning passando per la scena finale di Nana. Come si può dimenticare il lento, trepidante carrello che il giovane 35

Renoir fa partire su Nana, distesa a letto, sifilitica e agoniz­ zante? Come si è potuto - insorgevano allora i topi da cine­ teca die eravamo diventati — vedere in Renoir un cantore della vita beata quando invece è stato uno dei rari registi capaci, fin dagli inizi, di finire un personaggio a colpi di carrello? Effettivamente la crudeltà era nella logica del mio per­ corso di combattente dei «Cahiers». André Bazin, che ne aveva già fatto la teoria, la trovava così strettamente legata all’essenza del cinema da farne quasi «il quid». A Bazin, questo santo laico, piaceva Louisiana Story perché mostrava un uccello mangiato da un coccodrillo in tempo reale e in un’unica inquàdratura: montaggio proibito e capacità di testimonianza del cinema. Scegliere i «Cahiers» significava scegliere il realismo e, come avrei infine scoperto, un certo disprezzo per l’immaginazione. Il «Vuoi guardare? Allora guarda questo» di Lacan, era anticipato dal «Questo è stato ripreso? Allora devo vederlo». Sempre e soprattutto quando quel «ripreso» era doloroso, insopportabile o decisamente invedibile. Questo realismo era infatti bifronte. Se attraverso il rea­ lismo i moderni mostravano un mondo superstite, attraver­ so un altro realismo - o piuttosto un «realistico» - le pro­ pagande filmate degli anni Quaranta avevano alimentato la menzogna e prefigurato la morte. Per questo era giusto, malgrado tutto, chiamare il primo, nato in Italia, «neo». Non era possibile amare l’«arte del secolo» senza vederla partecipare alla follia del secolo e nello stesso tempo esserne partecipata. Diversamente dal teatro — crisi e cura collettive — il cinema — informazione e lutto individuali — aveva inti­ mamente a che fare in quegli anni con l’orrore da cui si era appena ripreso. Ereditavo un convalescente colpevole, un bambino invecchiato, una fragile ipotesi. Saremmo invec­ chiati insieme, ma non in eterno. Erede consapevole, cine-figlio modello, con il «carrello di Kapò» come amuleto, passavo gli anni in una continua apprensione: e se l’amuleto perdeva la sua efficacia? Mi rivedo ancora, professore incaricato, sfruttato, di CensierParis III, fotocopiare il testo di Ri vette, distribuirlo ai miei 36

studenti e domandare la loro impressione. Era un’epoca ancora «rossa» in cui qualche studente cercava di racimola­ re dai suoi insegnanti un po’ del radicalismo politico del '68. Mi sembrò che i più motivati fra loro consentissero, per rispetto verso me, a vedere in Dell’abiezione un docu­ mento storico interessante, ma che lo considerassero già datato. Li capii e se per caso ripetessi l’esperimento con stu­ denti di oggi, non mi inquieterei di vedere che inciampano proprio sul carrello, ma mi preoccuperei di sapere se alme­ no esiste per loro un qualsiasi indice di abiezione. Per dirla tutta, avrei paura di scoprirne la totale mancanza. Segno non solo che i carrelli non hanno più nulla a che vedere con la morale ma che il cinema si è ormai troppo indebolito per ospitare una simile questione. Il fatto è che trentanni dòpo le continue proiezioni di Notte e nebbia al liceo Voltaire, i campi di sterminio — che mi erano serviti come scena primaria — non godono più del sacro rispetto in cui li tenevano Resnais, Cayrol e molti altri. Abbandonata agli storici e ai curiosi, la questione dei campi riguarda ormai solo i loro studi, le loro divergenze e le loro manie. Il desiderio bloccato dalla rimozione che ritorna in modo allucinarono nel reale è evidente che non sarebbe mai dovuto ritornare. Desiderio che non siano mai esistiti né camere a gas, né soluzione finale, né, al limite, campi di sterminio: revisionismo, faurrissonnismo2, negazionismo, sinistrismo e ulteriori ismi. Uno studente di cinema oggi non erediterebbe soltanto il «carrello di Kapò», ma anche una trasmissione incerta, un tabù mal estirpato, insomma un nuovo giro di pista nella storia senza valore della tribalizzazione dello stesso e della fobia dell’altro. Il fermo immagine ha smesso di compiersi, la banalità del male può produrre immagini sempre nuove, elettroniche. Nella Francia attuale si intravedono ormai segnali abba­ stanza numerosi che qualcuno della mia generazione, riflet­ tendo su ciò che gli è stato dato da vivere come Storia, inizi a prendere coscienza del paesaggio in cui è cresciuto. Paesaggio tragico e, nello stesso tempo, confortevole. Due sogni politici — l’americano e il comunista — predisposti a 37

Yalta. Dietro di noi: un punto di non-ritorno morale sim­ boleggiato da Auschwitz e il concetto nuovo di «crimine contro l’umanità». Davanti a noi: l’impensabile, quasi rassi­ curante apocalisse nucleare. E questo, che è appena finito, è durato più di quarant’anni. In realtà io appartengo alla prima generazione per la quale il razzismo e l’antisemiti­ smo erano definitivamente finiti nella pattumiera della sto­ ria: La prima — e l’unica? L’unica, in ogni caso, che non gridò facilmente al lupo del fascismo «il fascismo non passe-rà» — per il semplice fatto che sembrava una cosa del passato, successa una volta per tutte e terminata. Un errore, naturalmente. Un errore che non impedì di vivere bene i propri «gloriosi trentanni», ma sempre come tra virgolet­ te. Un’ingenuità naturalmente, come fu un’ingenuità fìnge­ re che, nel campo cosiddetto estetico, la necrofilia elegante di Resnais potesse per sempre tenere a distanza qualsiasi sconveniente intrusione. «Nessuna poesia dopo Auschwitz», dichiarò Adorno per poi rivedere questa formula rimasta famosa. «Nessuna fin­ zione dopo Resnais», avrei potuto fargli eco, prima di abbandonare, anch’io, questa idea un po’ eccessiva. Protetti dall’onda dello choc prodotta dalla scoperta dei campi di sterminio, abbiamo dunque creduto che l’umanità fosse precipitata — una sola volta, ma non sarebbe più successo nel non-umano? Abbiamo davvero scommesso che per una volta il peggio era passato? Abbiamo a quel punto sperato che ciò che ancora non si si chiamava Shoah fosse stato l’avvenimento unico «grazie» al quale l’intera umanità sovrastava un istante la storia riconoscendovi l’aspetto peg­ giore (ed evitabile) del suo possibile destino? Sembra di sì. Ma se «unico» e «intero» fossero ancora considerate parole eccessive e se l’umanità non prendesse la Shoah come metafora di ciò di cui fu ed è tuttora capace, lo sterminio degli ebrei resterebbe una storia ebraica, poi — per ordine decrescente di responsabilità, per metonimia — una storia molto tedesca, abbastanza francese, araba solo di riflesso, molto poco danese, e quasi per niente bulgara. E proprio alle esigenze della metafora rispondeva, nel cinema, l’impe­ rativo moderno di decretare il fermo immagine e l’inibizioSH

ne della fiction. Si trattava di imparare a raccontare diversamente un’altra storia in cui la specie umana fosse il solo personaggio e la prima anti-diva. Di dar vita ad un altro cinema, un cinema consapevole del fatto che il consegnare troppo presto l’avvenimento alla fiction significa privarlo della sua unicità, perché la fiction è questa libertà che si disperde e che si apre troppo presto all’infinità della varia­ zione e alla seduzione del mentire vero. Nel 1989, in visita a Phnom Penh per «Liberation», camminando nella campagna cambogiana, intuii a che cosa assomigliava un genocidio — ed anche un auto-genocidio — rimasto senza immagini e quasi senza tracce. La prova che il cinema non era più legato intimamente alla storia degli uomini, neppure quando questa presentava il suo volto inu­ mano, la desumevo ironicamente dal fatto che, a differenza dei boia nazisti che avevano filmato le loro vittime, i Khmers rossi avevano lasciato alle loro spalle solo foto e carneficine. Ed era proprio nella misura in cui un altro genocidio, quello cambogiano, restava allo stesso tempo senza immagini e impunito, che per un effetto di contagio retroattivo la Shoah stessa veniva relegata nel regno del relativo. Passaggio dalla metafora bloccata alla metonimia attiva, dal fermo immagine alla vitalità analogica. E questo è accaduto molto velocemente: già nel 1990, la «rivoluzio­ ne rumena» incolpava degli indiscutibili assassini con capi d’accusa assolutamente frivoli come «detenzione illegale di armi da fuoco e genocidio». Era dunque tutto da rifare? Sì, ma questa volta senza il cinema. Da qui il lutto. Infatti, è indubbio, noi abbiamo creduto al cinema. Cioè abbiamo fatto di tutto per non crederci. E la storia dei «Cahiers» post-68 e del loro impossibile rifiuto del bazinismo. Di certo non era il caso di dormire fra due guanciali o di affliggere Barthes confondendo il reale e il rappresentato. Evidentemente eravamo troppo competenti per non inscri­ vere il posto dello spettatore nella catena significante o per non vedere la ferrea ideologia nascosta dietro la falsa neutra­ lità della tecnica. Eravamo anche coraggiosi, Pascal B. ed io, quando, davanti ad un anfiteatro stracolmo di gauchisti buontemponi, urlavamo con voce spezzata che un film non 39

«si vede» ma «si legge». Encomiabile sforzo per essere dalla parte di coloro che non si fanno ingannare. Encomiabile e, per quel che mi riguarda, vano. Arriva sempre il momento in cui malgrado tutto bisogna pagare il conto alla cassa della credenza ingenua e osare credere a ciò che si vede. Certo, non si è obbligati a credere a ciò che si vede, - oltretutto è pericoloso - ma ugualmente non è nemmeno detto che si debba tenere fede al cinema. Ci deve pur essere del rischio e della virtù - insomma del valore — nel fatto di mostrare qualche cosa a qualcuno capace di guardarla. A che cosa servirebbe imparare a «leggere» il visivo e a «deco­ dificare» i messaggi se noti sussistesse, minima, la più radi­ cata delle convinzioni: che vedere è comunque sempre supe­ riore al non vedere. E che ciò che non è visto al momento giu­ sto, non potrà mai più esserlo veramente. Il cinema è l’arte del presente. E se la nostalgia quasi non lo sfiora, è la malinconia la sua immediata controfigura. Mi ricordo ancora la veemenza con la quale tenni questo discorso per la prima e ultima volta. Ero a Teheran, in una scuola di cinema. Davanti ai giornalisti invitati, io e Khemaìs K., c’erano file di ragazzi con la barba incipiente e file di fagotti neri — le ragazze senza dubbio. I ragazzi a sinistra e le ragazze a destra, secondo le leggi dell’apartheid in vigore da quelle parti. Le domande più interessanti — quelle delle ragazze — ci giungevano sotto forma di biglietti furtivi. E fu proprio vedendole così attente e così stupida­ mente velate che mi lasciai andare a una collera vana che riguardava non tanto loro quanto tutte le persone di potere per cui il visibile era la prima cosa che doveva essere con­ trollata, cioè sospettata di tradimento e sottomessa, con l’aiuto di un chador o di un controllo poliziesco dei segni. Imbaldanzito dalla stranezza del momento e del luogo, mi lanciai in una predica in favore del visibile per un pubblico velato che annuiva solo con il capo. Collera tardiva. Collera terminale. Perché l’era del sospet­ to è proprio finita. Si sospetta solo quando una certa idea di verità è in gioco. Niente di simile oggi, se non tra gli inte­ gralisti e i bigotti, che se la prendono col Cristo di Scorsese e con la Maria di Godard. Le immagini non sono più sul 40

versante della verità dialettica del «vedere» e del «mostra­ re», sono passate completamente sul versante della promo­ zione, della pubblicità, in poche parole del potere. Siamo dunque arrivati al punto che si deve iniziare a lavorare su ciò che resta, cioè la leggenda postuma e dorata di ciò che fu il cinema. Di ciò che fu e di ciò che sarebbe potuto esse­ re. «Il nostro compito sarà quello di mostrare come gli individui, affollati nel buio, facevano ardere il loro immagi­ nario per riscaldare il loro reale — era l’epoca del cinema muto. E come hanno finito per lasciar morire quella fiam­ ma al ritmo delle conquiste sociali, accontentandosi di una piccola fiammella — ed è l’epoca del sonoro, della televisio­ ne in un angolo della stanza». Quando, era solo il 1989, Godard stabilì questo programma, avrebbe potuto aggiun­ gere: «Finalmente solo!» Quanto a me, ricordo il momento esatto in cui seppi che l’assioma del «carrello di Kapò» doveva essere rivisitato, e che doveva essere rivisto il concetto cardine di «cinema moderno». Nel 1979 la televisione francese trasmise lo sce­ neggiato americano Holocaust di Marvin Chomsky. Un ciclo si chiudeva, rimandandomi al punto di partenza. Infatti, gli Americani avevano sì permesso a George Stevens di realiz­ zare nel 1945 lo sconvolgente documentario di cui ho par­ lato in precedenza, ma non l’avevano mai diffuso per ragio­ ni di guerra fredda. Incapaci di «trattare» una storia che dopotutto non era loro, i produttori americani l’avevano provvisoriamente abbandonata agli artisti europei. Ma ave­ vano su di essa, come su tutta la storia, diritto di prelazione e prima o poi la macchina tele-hollywoodiana avrebbe osato raccontare la «nostra» storia. L’avrebbe fatto con il maggior riguardo possibile ma non senza vendercela come una storia americana tra le tante. Holocaust avrebbe dunque raccontato la sciagura che si abbatte su una famiglia ebrea, fino a sepa­ rarla e distruggerla: con comparse troppo grasse, perfor­ mances d’attore, umanitarismo a iosa, scene d’azione e melodramma. E compatimento. Dunque solo attraverso la forma del docu-drama all’ame­ ricana questa storia sarebbe potuta uscire dai cineclub e, via etere, raggiungere quella versione asservita dell’«umanità 41

intera» che è il pubblico della mondovisione. Certamente la sifnulazione-Htf/wwr/ non si soffermava più sull’alienazione di un’umanità capace di compiere crimini contro se stessa, rimanendo ostinatamente incapace di far emergere da que­ sta vicenda i singoli individui che furono, ciascuno con una propria storia, un viso, un nome, gli Ebrei sterminati. Fu d’altronde il disegno - quello di Spiegelman autore di Maus — ad osare, più tardi, questo salutare atto di re-indiyidualizzazione. Il disegno, non il cinema, a dimostrazione di quan­ to sia vero che il cinema americano detesti l’individualità. Con Holocaust^ Marvin Chomsky realizzava il ritorno, mode­ sto e trionfale, del nostro nemico estetico di sempre: il buon vecchio quadro sociologico, con il suo cast ben studia­ to di tipi sofferenti e il suo teatrino di ri tratti-robot anima­ ti. Il ciclo si era chiuso è noi avevamo perso. La dimostra­ zione? Fu proprio in questo periodo che iniziarono a circo­ lare — e a indignare — gli scritti di Faurrissonne. $

Mi ci erano voluti dunque vent’anni per passare dal car­ rello di Kapò a questo ineccepibile Holocaust. Non avevo avuto fretta. La questione dei campi di sterminio, quella stessa della mia preistoria, mi sarebbe stata ancora e sempre posta, ma ora non più attraverso il cinema. Era proprio attra­ verso il cinema che avevo capito in che senso mi riguardava, da quale lato mi prendeva e sotto quale forma — un leggero carrello di troppo — mi era apparsa. Bisogna essere leali di fronte al viso di chi, un giorno, ci ha folgorati. E ogni «forma» è un volto che ci guarda. Per questo non ho mai creduto — anche se li temevo — a quelli che, nel cineclub del liceo, combattevano con voce piena di condiscendenza quei povéri pazzi — e folli — formalisti, colpevoli di preferire al contenuto dei film il godimento personale della loro forma. Solo chi ha incontrato abbastanza presto la violenza formale finirà per sapere — ma è necessaria una vita intera, la propria — in che senso anche questa violenza ha uno sfondo. E que­ sto momento giungerà appena in tempo per permettergli di morire guarito, avendo scelto l’enigma delle figure indivi­ duali della propria storia contro le banalità del cinemaspecchio-della-società e altre gravi questioni necessari amen­

te senza risposta. La forma è desiderio, lo sfondo non è che lo schermo quando noi non ci siamo più. Pensavo queste cose guardando, qualche giorno fa, un videoclip alla televisione che, con dissolvenze sdolcinate, intercalava immagini di cantanti senza dubbio molto cele­ bri e di bambini africani senza dubbio molto affamati. I cantanti ricchi — «We are the children, we are the world» — mescolavano la loro immagine a quella degli affamati. In realtà prendevano il loro posto, li rimpiazzavano, li cancel­ lavano. Fondendo e dissolvendo star e scheletri in un colpo d’occhio figurativo in cui due immagini cercavano di diventare una sola, il clip eseguiva con eleganza questa comunione elettronica tra Nord e Sud. Ecco, mi sono detto, l’aspetto attuale dell’abiezione e la forma perfezionata del carrello di Kapò. Mi basterebbe che questo video disgustasse almeno uno degli adolescenti di oggi o che almeno gli facesse provare vergogna. Vergogna non solo di essere nutri­ to e accudito, ma vergogna di essere considerato bisognoso di questa seduzione estetica, in una situazione in cui invece è necessaria soltanto la coscienza — anche cattiva — di essere un uomo e niente di più. E tuttavia, ho pensato alla fine, la mia storia è tutta qui. Nel 1961 un movimento di camera estetizzava un cadavere e trentanni più tardi, una dissolvenza incrociata fa ballare insieme i moribondi e i ben .pasciuti. Niente è cambiato. Né io, ancora eroicamente incapace di scorgervi l’aspetto carnevalesco di una danza macabra contemporaneamente medievale e ultra moderna. Né le concezioni dominanti dell’oleografismo conformista della bellezza omologata. La forma, lei sì, è un po’ cambiata. In Kapò era ancora possibile rimproverare Pontecorvo di aver abolito con superficialità una distanza che avrebbe dovuto mantenere. Il carrello era immorale per la semplice ragione che ci poneva, lui cineasta e me spettatore, là dove non eravamo. Là dove io, almeno, non potevo e non volevo essere. Perché mi «deportava» dalla mia reale situazione di spettatore libero testimone, per rinchiudermi a forza nel quadro. E invece che senso poteva avere la frase di Godard se non quello che non ci si deve mai mettere là dove non si è, né parlare al posto di altri? 4S

Immaginando i gesti di Pontecorvo nell’atto di decidere il carrello, mimandolo con le proprie mani, me la prendo con lui anche di più, perché nel 1961 un carrello significa­ va ancora avere a che fare con rotaie e macchine, cioè con uno sforzo fìsico. Ma faccio ancora più fatica a immaginare i gesti del responsabile della dissolvenza incrociata di We are the children. Me lo figuro mentre schiaccia pulsanti su una consolle, con l’immagine a portata di mano, definitivamen­ te staccato dalle cose e dalle persone che rappresenta, inca­ pace di supporre che sia possibile volergliene per il suo essere uno schiavo dai gesti automatici. Il fatto è che appar­ tiene a un mondo, quello della televisione, in cui, essendo l’alteri tà praticamente scomparsa, non si distinguono più buone o cattive procedure di manipolazione deH’immagine. Non è più l’immagine «dell’altro» ma un’immagine tra le altre nel mercato delle immagini di marca. E questo mondo che non riesce più a farmi indignare, che mi provoca soltan­ to stanchezza e inquietudine, è esattamente il mondo «senza il cinema». Cioè senza quel sentimento di apparte­ nenza all’umanità dovuto alla presenza di un paese supplemen­ tare, chiamato cinema. E capisco bene perché l’ho adottato, il cinema: perché di rimando lui adotta me. Perché mi inse­ gna a toccare instancabilmente con lo sguardo a che distan­ za da me comincia l’altro. Questa storia, naturalmente, comincia e finisce con i campi di concentramento perché essi sono il caso limite che mi attendeva all’inizio della vita e all’uscita dall’infanzia. L’infanzia mi ci sarebbe voluta una vita intera per riconqui­ starla. Per questo — messaggio a Jean Louis S. - finirò sicu­ ramente per vedere Bambi.

Questo testo è apparso nel n. 4 di «Trafìc», autunno 1992, P.O.L. 44

SECONDA PARTE

Prima di tentare di dare all’intervista un andamento cronologico voglio dire che quello che mi colpisce, nell’ascoltarti e nel leggerti, è, per così dire, questa lucidità, che fa sì che la tua esperienza con il cinema sia oggi a tal punto concisa, concentrata, da permetterti di fare una sintesi puntuale tra il cosiddetto campo biografico e le espe­ rienze teoriche, critiche, giornalistiche. Una sorta di condensato di storia del cinema dal dopoguerra in poi, che rende visibile il percor­ so del cinema stesso e della cinefilia a partire dalla tua infanzia... *

C’è un’immagine che mi piace molto, quella dello spec­ chietto retrovisore. Arriva un momento — chiamiamolo vec­ chiaia, morte — in cui bisogna guardare nel retrovisore. Perché finalmente possiamo scorgervi tanto l’immagine del nostro passato quanto il modo con cui questa immagine è stata modificata da tutti quei presenti che ormai non ci assillano più, che si sono sottratti alla vista come un palin­ sesto effìmero, «dromoscopico». Ci accontentiamo così di guardare all’indietro, nel retrovisore, per vedere a che cosa assomigliava quel presente. Forse siamo stati trascinati per molto tempo, dieci, vent’anni, su una strada che non cessava mai di svoltare, per cui, invece di scoprire davanti a noi il paesaggio che ci attende, abbiamo la sensazione di percorrere una spirale per­ fetta, troppo perfetta. Come quando temiamo che una bre­ tella autostradale non sia altro che un cerchio, non una spi­ rale, e che ci riporti così al punto di partenza. Risultato: nes­ suna immagine davanti a noi, una sola dietro di noi, l’onni­ voro quadretto del retrovisore che si ricompone incessante­ mente. Risultato: il celebrato culto della breve frase che avevo messo ad esergo del mio primo libro: «E non appena ebbe attraversato il ponte, i fantasmi gli vennero incontro». E c’è da credere che i fantasmi vengano davvero in que­ sta Francia di oggi, che scopro, incredulo e ferito, intenta a 47

diffondere lo stesso ritornello della mia infanzia. Ma forse è solo un’illusione, una vertigine dovuta a questa spirale che non ha mai fine, che ci sottrae ogni paesaggio diverso da quello da cui veniamo e che è diventato il quadretto della nostra vita e la sua leggenda. In questo stesso momento, però, ci sono dei bambini che non guardano nel retrovisore, ma attraverso il parabrezza, sicuri di avanzare diritti nel paesaggio che sta loro di fronte. Eterno ritorno della presa di coscienza deH’eterno ritorno. Quando è stato chiaro per me, l’effetto spirale e retrovi­ sore? Sicuramente quando sono entrato a «Liberation», cioè tardi. Probabilmente esistono punti della spirale che passa­ no molto vicini al luogo di partenza, al luogo di nascita, riconoscibile, un po’ a strapiombo, ma così vicino che vien voglia di toccarlo. A un certo momento ho avuto la sfronta­ tezza di dire che ero coetaneo di quello che chiamo il cine­ ma moderno, il cinema adulto, il cinema disilluso, quello del Rossellini di Roma città aperta. È quasi un espediente mnemotecnico: mi ripeto che ho la stessa età del cinema moderno, un po’ meno di cinquant’anni, di già. E che non invecchieremo insieme. Rimane il fatto che ho preferito venire alla luce in un altro paese, l’Italia, e in un frangente fondamentale, quando già qualcosa dell’innocenza del cine­ ma era stata intaccata e non sarebbe più ritornata. L’Italia, non la Francia. Non ho voluto saperne della disillusione francese, quella di II Corvo, per esempio, che ho visto una volta sola.

Il corvo ha segnato la vita di persone come Truffaut, Rohmer, o come il nostro amico Jean Douchet, tutta una generazione che dove­ va avere dieci, quindici anni durante la guerra e per la quale il film legittimava un certo disgusto per il mondo degli adulti: lettere anonime, delazioni, tradimento morale. Che cosa può voler dire far tutt'uno con il cinema dopo aver visto II corvo a dodici anni?

Per me il discorso era chiuso e il Clouzot degli anni Cinquanta apparteneva alla schiera degli adulti che fìngono un allettato disgusto per la bassezza del mondo adulto, pur essendone - almeno agli occhi dei bambini - i tipici rap­ ìh

presentanti. Henri-Georges Clouzot, come del resto Julien Duvivier, Claude Autant-Lara o altri, non potrebbe riven­ dicare per sé questa magnifica frase di Bernanos posta all’inizio dei Grandi cimiteri sotto la luna'. «Che importanza ha la mia vita! Voglio solo rimanere sino alla fine fedele al ragazzo che fui (...), dal fanciullo che fui e che è ora per me come un nonno.» Chi, come me, è figlio delle proprie opere, chi deve fare a se stesso il racconto dell’origine che si è data, chi non può permettersi di perdere il filo, anche se immaginario, o rimaneggiato, della propria vita, è punto nel vivo dalla menzogna dei disillusi per professione. E questa menzogna è una specialità francese, molto comoda, molto borghese. Per questo — per rispondere alla domanda — è piuttosto su di me che passa questo effetto di spirale, questa impres­ sione che «tutto è là», disponibile, pensabile, a portata di mano. Ho infatti lo strano privilegio di non avere mai avuto occasione di odiare la mia infanzia, di giocarmela per qualcosa d’altro, di mercanteggiarla o di perderla. Ho avuto il piacere, nél corso della mia esistenza, di ri-raccontarmi continuamente la mia vita, secondo gli interessi dei miei presenti successivi e secondo la logica del retrovisore che obbliga a sdegnare ciò che fino a ieri si pensava del passato di fronte un elemento nuovo e imprevisto che costringe a reinterpretare tutto. A forza di esercitare questo senno del poi, ho finito per avvertire la strana impressione che una storia passava attraverso di me, la storia della passività col­ lettiva di noi bambini cinefili. Bambini viziati o bambini perduti? Esito sempre tra l una e l’altra possibilità. Primi beneficiari della pace - quella di Yalta — o ultime vittime della guerra — quella vissuta nel ventre della propria madre? Recentemente ho rimproverato Bertrand Blier di avere l’atteggiamento che hanno i genitori degli alunni. Odio i genitori degli alunni. Mi schiero sempre dalla parte del bambino solo che anch’io sono stato, mai dalla parte dei genitori. Alla scuola comunale lavoravo bene, ottenevo sempre il premio per gli allievi più meritevoli e mia madre non era obbligata a sorvegliare i miei studi. All’uscita della scuola di via Keller, vedevo le madri inquiete, revansciste, 49

fondare le proprie speranze sui professori in grembiule gri­ gio e mercanteggiare con loro la carne della propria carne. Ero orgoglioso che mia madre non dovesse fare questa parte; mi sembrava naturale che, lavorando bene, la dispen­ sassi da questo. Ero sicuro che non le sarebbe piaciuto par­ lare alle mie spalle con un professore. Sarebbe stato un tra­ dimento. Così come non ho mai sopportato che si sparli di un terzo in terza persona, quando lui è lì, in carne ed ossa, capace di rispondere. Credo di essere rimasto fedele a tutto questo nel mio rapporto con il cinema. Prima la voglia di diventare grande il più presto possibile. Poi una specie di riconoscenza verso mia madre che neanche per un secondo pensò che io dovessi vedere dei film per bambini, e con la quale ben presto strinsi un patto: lei accettava di vedere con me dei film di cappa e spada ed io di vedere con tei dei melodrammi. Mi domando se il rapporto con il cinema non sia stato, per entrambi, fortemente tinto d’Italia.

Tu dunque eri bravo a scuola proprio per evitare questo maternalismo abusivo dei genitori degli alunni che invocano un trattamento di riguardo per i loro rampolli ? Come a voler evitare di essere tra­ dito proprio su questo terreno? Senza dubbio. Dovévo fare la mia parte per mantenere quel sentimento di alleanza molto particolare che avevo con mia madre, alleanza ideologica ante-litteram, di un ragaz­ zino senza padre che faceva causa comune con sua madre nubile contro tutte le ferite e i colpi di cui la società era capace. Certo, ero molto vicino a mia madre, voglio dire fisicamente, incestuosamente, e tutto il resto. E nello stesso tempo questa prossimità aveva un senso, il senso di un’ eventuale battaglia da sostenere contro l’ordine morale, contro le persone normali, contro tutta questa Francia indegna e collaborazionista che un bambino come me sen­ tiva chiaramente non sarebbe mai potuta diventare il suo paese. Ero l’alleato di mia madre in un possibile scontro che, ( ambiando i costumi, non è mai davvero avvenuto. Ma sono sempre stato all’erta, pronto a battermi contro il 50

conformismo sociale, l’ordine morale, tutte* quelle cose che ho finalmente conosciuto solo attraverso i libri e la lettera­ tura del XIX secolo, ma che — pur avendole sempre un po’ temute — non mi hanno mai fatto soffrire. Ce una compo­ nente da