Lo scambio di figura. Tre studi sulla somiglianza e sulla differenza

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Rosaria Caldarone Lo sca1nbio di figura Tre stucli sulla son1iglian;:;a e sulla differen;;a

rlSCH1880 LETH

«Die Weltist /ort, ich muf!, dich tragen».

Paul Celan

A mio padre e ai miei fratelli.

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Introduzione

I saggi che compongono questo libro tentano di articolare, da diverse angolazioni, un discorso sulla differenu a partire dalla somiglianu. È la regolazione della differen7.a sulla contrarietà che viene messa in questione, insieme allo schema oppositivo da cui essa sembra essere generata. Il modello alternativo di una differen7.a (ontologica, sessuale, di genere) che si radichi e si conservi nella somiglianu viene dall'eros e dal suo complesso legame con la philìa. Il primo saggio: Alcibiade I. lA decisione comune e wscambio dl figµra mostra come questo modello sia già connesso all'"amore platonico", che oltre arisultare centrale per l'intero percorso del libro, appare anche sotto una luce nuova, su cui vale la pena di soffermarsi in via preliminare.

"Amore platonico" - l'espressione, indicante un trasporto erotico che prende avvio dal]'anima e che si svilupperebbe grazie al solo concorso dell'anima, appartiene ancora al nostro linguaggio e al nostro modo di comprendere e di classificare le manifestazioni dell'amore. Ma quanto resta di platonico, al di là del nome, in questa rappresentazione? Essa allude a una precisa teoria di Platone sull'amore? Se questa teoria esiste, dove è possibile reperirla con chiarezza? Se non ci si rassegna

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a vedervi solo il frutto di una convenzione, alla cui origine sarebbe solo un intreccio di interpretazioni e ricostruzioni certamente autorevoli e coinvolgenti, ma ispirate da una ben diversa temperie culturale e speculativa (a partire, ovviamente, dal neoplatonismo), come il nome di Platone peserebbe, e da quale specilìca angolazione si poserebbe, sull'idea dell'"amore platonico"? Stupisce che quando si parla non genericamente del tema dell'amore in Platone non si faccia mai riferimento all'Alcibiade I che, come il Simposio, parallelamente al Simposio e ancor più di quest'ultimo, mostra con quale insisten:za il discorso di Platone sul!'amore si costruisca a partire da un discorso d'amore proferito da qualcuno che lo indirizza insostituibilmente a qualcun altro (l'amore dichiarato da Alcibiade a Socrate nel Simposio, l'amore dichiarato da Socrate ad Alcibiade nell'Alcibiade I). Cosl come la cosiddetta "seconda navigazione" è una svolta di pensiero cucita sulla pelle di Socrate - che sperimenta il potere della causa formale quando si tratta di comprendere e di spiegare agli altri il perché del suo accettare la prigionia e poi la morte• - , allo stesso modo è sempre un'esperien:za d'amore a dettare il discorso sull'amore in Platone. Questo statuto di trascendentale sensibile che l'eros platonico possiede, è più che mai evidente proprio nell'Alcibiade I. Il fatto che su questo dialogo gravi una forte ipoteca pedagogica e politica - Socrate insegna ad Alcibiade la cura di sé che gli servirà per il buon governo della città copre a mio avviso il vero nucleo teorico del dialogo, che non esclude certamente né l'insegnamento pedagogico né quello politico, ma li comprende all'interno di un registro più ampio e tuttavia ben distinto a partire dal quale essi assumono il loro significato iniziale: questo registro è la storia d'amore fra Alci-

1. Cfr. Platone, Fedbne, 99 a 1- b 4.

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biade e Socrate. Che poi la pedagogia e la politica possano o debbano essere considerate autonome rispetto ali'eros che le comprende e le rilancia all'inizio, questo è materia di un altro discorso, irrilevante ai fini della comprensione dell'intreocio in cui questi temi si presentano originariamente nel dialogo. Ma cosa accade di cos\ particolare nell'Alcibiade I? Perché additarlo in vista della comprensione dell'amore secondo Platone, ed in vista della verifica della fedeltà al discorso platonico della nozione di "amore platonico"? La risposta a queste domande, che provo a dare nel Primo Capitolo, poggia sull'eviden1.a di un dato fortemente significativo e decisamente inosservato: il di-ventare pienamente, finalmente reciprooo, dell'amore fra Alcibiade e Socrate. Questo ci spinge a dare torto a Lacan il quale, nel suo magnifico Seminario sull'amore in Platone2 contribuisce, di certo con un argomento molto fine, a sorreggere e ad accreditare un'intera tradizione per la quale il contrassegno dell'amore platonico è una certa irreciprocità, quasi una strutturale anaffettività. Secondo Lacan, che si basa prevalentemente sul Simposio, fra Socrate e Alcibiade non si produce affatto quella che egli chiama "la metafora dell'amore", capace di generare "la significazione dell'amore"3, indicante l'evento di scoprire che colui o colei che amiamo, a sua volta ci ricambia•. Ora, posto che questa coppia ha di certo qualcosa

2. J. Lacan, 1l Seminario,libro VIII. 1l transfert (1960-1961),acura di A. Di Ciaocia, Einaudi, Torino 2008. 3. J. Lacan, lt>i, p. 59.

4. "Nella mano che si tende verso il frutto, verso la rosa, verso il ceppo che all'improvviso si infiamma, ebbene, il gesto di tendersi, di attirare, di atti:aare è strettamente solidale con la maturazione del frutto, con la belle-aa del fiore, con la vampata del ceppo. Ma quando, nel movimento di tendersi, di attirare, di atti:aare, la mano è ancora lontana dall'oggetto, se dal frutto, dal fiore o dal ceppo esce una mano che si tende incontro alla vostra, e se in quel momento la vostra mano si fissa nella piene-aa chiusa del frutto o in quella aperta del fiore o nell'esplosione di una mano che brucia, ecco allora che si

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a che fare con Platone, quanto si dice su di essa non è irrilevante rispetto a quel che concerne l'amore secondo Platone. Cosa dice Lacan su Socrate e Alcibiade? Dice che fra di loro la "metafora" dell'amore per la quale l'amante diviene amato e l'amatoamante, quel che Lacan chiama "miracolo", non si può produrre, e la ragione di ciò sta nel fatto che Socrate rifiuta di vedersi nei panni dell'eròmenos in quanto rifiuta di ammettere che in lui vi sia qualcosa di amabile 5• Per questa ragione Socrate resta "impassibiùr. "Impassibilità", scrive Lacan, "vuol dire che non può neppure tollerare di essere considerato al passivo: amato, eròmenos"6. L"'amore platonico", nel senso dell'amore secondo Platone, sembra mantenere dunque l'irreciprocità dei ruoli fra erastès ed eròmenos ma associata ad una componente pedagogica di ammaestramento che tuttavia non va senza eros. La mia tesi è che una certa lettura di Platone - che lo stesso Lacan, sia pure con incomparabile finezza lìnisce per avallare quando interpreta l'eros che passa fra Socrate e Alcibiade nel Simposio - perde di vista un dato per l'acquisizione del quale l'Alcibiade I è estremamente signilìcativo, e cioè il fatto che l'amore platonico in realtà sconvolge il senso di quella "irreciprocità" da cui sembra contraddistinto e cui sembra conferire però un valore aggiunto. Più che un amore non reciproco, e in questo

produce l'amore. Ma non èil caso di fermarsi qui, e di limitarsi adire che ci troviamo di fronte all'amore. Ma non è il caso di fermarsi qui, e di limitarsi adire che ci troviamo di fronte all'amore, voglio dire che si tratta del vostro amore, se prima eravate l'eromenos, l'oggetto amato, e che improvvisamente diventate l'eraste.s, colui che desidera [ ... ]. La struttura di cui si tratta non è di simmebia e di ritorno. Così qui non c'è simmebia, perché nella misura in cui la mano si tende, tende verso un oggetto. La mano che appare dall'altro lato è il miracolo". J. Lacan, ivi, pp. 59-60. 5. Cfr. J. Lacan, fol, p. 171. 6. foi, p. 174.

17 conforme alla morale sessuale accreditata in caso di omosessualità7, l'amore platonico è in realtà un amore asimmetrico, perché mette in campo un terzo nella relazione duale, che si costituisce come il vero fine del rapporto, un fine aggiunto, se vogliamo, ma sen:za il quale l'amore, sia che comprenda sia che non comprenda la sessualità, non può dirsi compiutamente realizzato, quanto alla sua forma propria, nella relazione fra gli amanti. Questo terzo: il bene, il divino, ma anche, per altro verso, il dio dell'amore, il dio messaggero, il dio del passaggio, del guado e dell'infinita distan7.a fra amante e amato, rende "bi1ateralmente smisurata"8 l'asimmetria perché mette in gioco come imprescindibi1e, un rapporto di ciascuno dei due partner con esso. Ora, l'assimilazione dell'asimmetria all'irreciprocità ha comportato nel tempo il depotenziamento della componente propriamente erotica dell'eros platonico, quanto mai lontano, proprio in forza di questa presunta irreciprocità (che per lo stesso Lacan trova conferma nella dinamica della relazione fra Socrate e Alcibiade nel Simposio), dal senso radicalmente reciproco sotteso all'espressione "fare l'amore". Ecco che l'"amore platonico" è diventato un amore asessuato anche a dispetto di un non escludibile coinvolgimento del corpo; asessuato nel senso, cioè, del voltare le spalle a quel godimento reciproco, a quell'abbandono dei ruoli, a quella ridefinizione ontica di ciascuno, sempre sottesi ad un rapporto d'amore autentico. E si badi bene che questa esigenza di reciprocità non è una forzatura "moderna" irrispettosa del paradigma antico, in quanto Platone riferisce nel Simposio che gli dei sono certamente "ammirati" dell'amore degli amanti per i loro amati, ma lo sono molto di più (hyperagastèntes), quan-

7. Per questo tema rinvio al testo di K. J. Dover, L'omosessualità nella Grecia antica, Einaudi, Torino 1985. 8. L'espressione è di Dcrrida che la usa in Chorégraphies. Cfr. Points de suspensions, Galilée, Paris 1992, p. 114.

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do sono gli amati ad amare come gli amanti, quando cioè gli amati, pur restando tali, rilanciano a loro volta l'amore. Questo giustifica, per esempio, il maggior gradimento degli dei nei confronti di Achille (che pur essendo l'amato di Patroclo alla sua morte lo ama e lo piange come un amante) piuttosto che nei confronti di Alcesti (che ama da amante)0 • Agli dei, che prediligono l'amore nell'amato, risulterebbe gradita, dunque, non tanto la sovversione e quindi la perdita della differenza dei ruoli, quanto certamente lo scambio, l'avvicendamento nei ruoli ed è questo l'aspetto veramente sovversivo rispetto alla tradizione di cui anche Platone è figlio. La distinzione fra l'irreciprocità e l'asimmetria e la salvaguardia di quest'ultima comporta, dunque, anche la rivisitazione della ferrea demarcazione fra erastès ed eròmenos, che può essere assunta proprio come un modo di dar conto dell'asimmetria. Questa permane persino quando entra in gioco quella dinamica che nell'Alcibiade I, con un linguaggio inedito e con una potente effrazione concettuale della consueta fisionomia dell'amore, Platone chiama metabalèin to schema alludendo all'atto dello "scambio di fìgura" fra il maestro e il discepolo che, nella tradizione di cui egli è figlio e nel contesto specifico del dialogo, cifrano palesemente l'erastès e l'eròmenos: l'amante che diventa come l'amato e l'amato che diventa come l'amante ("Oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scam,. biarci lafigura, o Socrate, io la tua e tu la mia; infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un

pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro") 10• Commetteremmo tuttavia un errore imperdonabile pensando che la reciprocità messa

9. Cfr. Platone, Simposio , 180 b 1-5. 10. l'latone, Alcibiade I, trad. it di U. Bulhighini, Newton, Roma 1997, p. 595 (135 d 7-10).

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in gioco nello "scambio di figura" tolga da mezzo l'asimmetria. Tenterò di mostrare infatti che 1x•amore platonico" conosce una reciprocità che fiorisce nell'asimmetria sen1.a contraddizione fra questi due concetti. Allo "scambio di figura" prospettato da Alcibiade a Socrate, questi vecchi amanti che sconvolgono la regola dell'amore platonico che essi stessi contribuiscono a dettare, si lega l'impianto complessivo di questo lavoro, che proprio in questa trasformazione (metaholè) - dei ruoli degli amanti ma anche della significazione accreditata dell'"amore platonico"- rintraccia il legame fra somigli= e differen1.a. Lo "scambio di figura" apre così una scia di domande che sfora il discorso di Platone, fino a far da sponda a una certa esigew.a di riscrittura avvertita da J. Derrida a proposito della cosiddetta "differen1.a sessuale", per poi sboccare insidiosamente nel testo aristotelico. Le questioni affrontate nel Serondo e nel Terzo Capitolo, pur venendo fuori come oggetto di studi a sé stanti e dotati di una leggibilità autonoma rispetto all'intero, si legano fra loro come possibili tappe problematiche di un percorso che fa tesoro della correzione impressa emblematicamente da Platone alla dottrina dell'"amore platonico" nell'Alcibiade I. Si tratta di saggiare possibili sviluppi teorici e poste in gioco più o meno intrinseche di quella correzione. In questo senso i tre studi possono utilmente leggersi in serie e gli ultimi due sono stati effettivamente pensati per essere letti nell'ordine qui proposto, appunto come capitoli di libro0 • Il primo ordine di questioni che lo "scambio di figura" libera, fa da sponda, come accennavo, a una certa resistenza avvertiRingrazio la rivista Dlaleghesthal per avere autorizzato la riedizione dell'unico saggio già edito del presente volume, pubblicato nel 2014 con il titolo: Alcibiade 1. La possibìlità comune e lo schema inverlito. Il saggio costituisce ora il Primo Capitolo e compare, par.dalmente modificato, con il nuovo titolo Alcibiade maggiore. La decisione comune e lo scambio di fi~ra . 0

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ta da J. Denida a proposito della "differenza sessuale". Prendo spunto dalla formalizzazione di questa resistenza offerta in C1wrégraphies 11 • Cosa dice Denida? Che la differenza sessuale è atopica, che cambia i posti come in una danza e come in una danza i sessi cambiano e si confondono, quindi non sono pensabili come "posti" fissi secondo una certa declinazione binaria della differen1,a sessuale. La domanda che per me si impone e che intercetta lo "scambio di figura" è la seguente: posto che ciò che induce Denida a respingere la differenza come dualità è l'opposizione cui lo schema binario dà luogo (perché "due" è di solito 1+1 o uno contro l'altro) 12, l'asimmetria dell'"amore platonico" - che rilancia la reciprocità duale ma dentro una mimesis, una danza, se vogliamo, e pertanto una sostituzione del medesimo con l'altro, posture che lo "scambio di figura" può evocare senza forzature - non costituisce proprio un esempio di quella "dissimmetria bilateralmente smisurata"13 all'interno della dualità? Lo "scambio di figura", insomma, con il suo convogliare la dualità nell'esserl'uno-come-l'altro e con il suo conferire alla mimesis una specificità erotica, non sospende quella riserva sul duale in cui è in agguato il rischio dell'uno-di contro-all'altro e della guerra fra i sessi? La differenza fra gli amanti - differenza cospicua trattandosi di Socrate e Alcibiade - nell'Alcibiade I emerge infatti all'interno della somiglianza prodotta dal]'eros e senza contraddizione. Sono queste le domande, provenienti dal I Capitole, che il Secondo solleva nella discussione attorno a Denida, discussione dalla quale trae alimento l'impegno a ritornare, nel Terzo Capitole, sui temi inaugurali della tradi-

11. Cfr. 1992. 12. Cfr.

J. Derrida, Chorégrophies, in Points de suspensicn, Galilée, Paris, J.

Derrida, Vok:e 11 (Correspondance avec Verena Andermatt Conley), in Points de suspensicn, cit., p. 169. 13. J. Derrida, Chorégrophies, cit., p. 114.

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zione metafisica a partire da un certo sospetto "esegetico" che la valorizzazione della "correzione" platonica non manca di innescare. In breve: se la strutturale passività del pais, l'atarassia dell'eròmenos, motore di un desiderio che non lascia traccia in chi lo suscita, viene decostruita alla luce della distinzione dell'asimmetria dall'irreciprocità che nell'Alcibiade I arriva a scuotere e a cambiare il senso della rigida ripartizione dei ruoli fra erastès ed eròmerws per approdare allo "scambio di figura", come non risentire l'eco e il peso di questa effrazione fin nel testo aristotelico, là dove Aristotele nomina il dio lws eròmenon? Nella tradizione da cui anche Aristotele proviene, I'eròmerws non è una semplice postura di avvio del movimento, in quanto I'eròmerws è nella "regola" della morale sessuale al tempo di Platone un fanciullo che suscita e che subisce timidamente un'azione il cui senso comparirà e verrà messo a frutto forse più tardi, e per il quale il termine stesso di eros risulta improprio 14• Non è certo agevole riconoscere il dio aristotelico, per quanto si voglia "metaforicamente", in questa rappresentazione dell'amato dove l'eròmerws è il termine di un'esperien7.a che pur toccandolo non deve toccarlo, trattandosi per lui di un'iniziazione che non ammette la reciprocità. E viceversa: posto che lo "scambio di figura" nominato e richiesto peraltro da quell'eròmerws che Alcibiade fu lungamente e per molti, sconvolge la performance accreditata dell'"amore p"/atonico" perché lo libera dalla fissità, dalla gerarchia dei ruoli, e dunque dalla relazione di dominio, facendo si che questi si alternino consentendo a ciascuno di prendere il posto dell'altro, come non risentire una scossa di questo sowertimento fin nella quiete apparente di un dio che prende a prestito la qualità del suo movimento proprio dalla postura dell'eròmerws? Ma occorre innanzitutto formalizzare la questione: cosa sowertirebbe un tale sowertimento se anche riuscisse nella sua im14. Cfr. Platone, Fedro, 255 e l.

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presa? La risposta è: esso sowertirebbe l'impassibilità del dio, owero l'idea di un dio che in alcun modo partecipa dell'amore che suscita. Il Terzo Capitolo si limita semplicemente ad ambientare questa poderosa questione - che resta dunque solo sfiorata - attraverso l'analisi della philìa aristotelica e del suo aporetico rapporto - ancora una volta di somiglianza nella differenza - con l'eros che dell'amicizia è definito "iperbole". Ciò che sostengo è che questa iperbole (dell'amicizia) non è una possibilità eccessiva e dunque marginale rispetto a un presunto grado positivo dell'amicizia, ma dice qualcosa di essenziale sull'amicizia; in breve, questa iperbole è il cuore del!'amicizia. Ringrazio, come sempre, le stesse persone. Giuseppe Nicolaci e Leonardo Samonà che mi insegnano ogni giorno quanto "l'essere con" sia necessario al pensiero - è insieme a loro, infatti, che le mie idee prendono forma. Jean-Luc Nancy, il cui incontro e la cui amicizia hanno dato uno slancio produttivo, un'energia nuova al mio lavoro, e Jean-Luc Marion. Da lui proviene il tema di fondo della mia ricerca qui confermato: la centralità del "fenomeno erotico" che io ambiento in un campo diverso ma dischiuso dal suo. Rosaria Caldarone

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Akibiade I La decisione comune e lo scambio di figura

I Pur essendo state in larga parte deposte le riserve che hanno indotto a non intestarlo a Platone 1, l'Alcibiade I continua ad essere considerato un dialogo politico con un intreccio erotico-pedagogico funzionale alla scoperta della "cura di sé", ac-

1. Nell'antichità l'autenticità del dialogo era indubbia. A lungo la critica si è poi attenuta all'indica:àone di Schleiennacher che lo ha ritenuto non platonico. Fra i sostenitori della non autenticità spicca A. E. Taylor.che considera l'Akibiade 1 un -manuale di etica non degno di Platone" e che fra le motivazioni addotte per giustificare l'inautenticità inserisce anche questa: -Appare incredibile che Platone, che ci ha dato nel Simposio e nel P,-otagora un così vivido ritratto di Alcibiade possa aver trattato il medesimo personaggio in questo dialogo in modo così incolore". Cfr. Platone. L'uomo e l'opera, trad. it di M. Corsi, La Nuova Italia, Firen:,,e 1968, p. 801. La mia lettura si pone all'esatto opposto rispetto a questa tesi. Tenderò infatti a mostrare proprio il rapporto esserudale e la complementarietà fra l'Alcibiade del Simposio e quello dell'Alcibiade 1. L'autenticità del dialogo è stata riconosciuta invece da L Robin, V. Coldschmidt, R. Weil, checostituisoe una fonte per l'analisi dell'Alcibiade 1 fatta da M. Foucault ne L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de F,-ance (1981-1982), trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2011, e di recente da J.-F. Pradeau nella sua edizione del dialogo {GamierFlammarion, Paris 1999).

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quisizione indispensabile per chi voglia amministrare la vita della città. L'eros del dialogo è dunque sottoposto prima alla pedagogia, che ne governa l'origine, e poi alla politica, che ne rivela la finalità. Questa posizione subalterna implica due corollari: in primo luogo fa della phil'ia il vero sfondo concettuale dell'eros, perché pedagogia vuol dire essenzialmente amicizia del maestro verso l'allievo, affinché l'allievo diventi a sua volta amico del bene, e politica, d'altra parte, vuol dire amicizia dispiegata e messa in pratica nello spazio pubblico. Secondariamente, essa avvalora anche un certo equivoco a proposito dell'"amore platonico", e cioè a proposito dell'idea che Platone aveva dell'amore, idea che giunge a noi tramite il racconto di alcune significative esperien7.e - una di queste è quella vissuta da Socrate e Alcibiade - che nutrono una teoria cui, ben al di là di Platone e dei suoi dialoghi, continuiamo a riferirci con la certezza di trovarvi indicato un tipo di amore particolare, riconoscibile. Quale vissuto corrisponde all'espressione "amore platonico"? Crediamo di andare sul sicuro affermando che l'eros rinvia, per Platone, ali'azione di un erastès il cui gesto tipico consiste nel far volgere l'amato (da cui la sua azione si origina), non verso di sé, non verso l'amante, dunque, al fine di ottenere il godimento nell'ottenuta reciprocità, ma verso quel buono e quel bello che sono amabili in senso assoluto - e cioè separato dalle fattezze fisiche e dal volto di colui che ha deciso di amare per primo e che risulta il "vero amante" nella misura in cui si attiene a questo ruolo. Ma questo è un "ruolo", appunto. L'"amore platonico" arriva a noi ingabbiato in una pesante armatura costituita dalla fissità dei ruoli erastès/eròmenos, attivo/passivo; ruoli già ben determinati nella concezione dell'erotica omosessuale propria della Grecia antica, cui la filosofia aggiunge vocazione e finalità che costituiscono valore

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aggiunto, libera creazione, euristica pura2• Ma a questa pur mirabile euristica sembrerebbe sfuggire, fino al rischio dello sconfinamento nell'ambiguità, che la passività può diventare una forma di attività e, viceoersa, che l'attività può diventare passiva. Ciò che sembrerebbe sfuggire è appunto il viceoersa. Ci sarebbe, insomma, nella rappresentazione greca dell'amore omosessuale che conosce, con Platone, la sua massima espressione ed il suo valore aggiunto, una sorta di "allergia" verso la reciprocità, che non è immune da una certa violen:za. L'eros si manifesta infatti nel desiderio di un amante che decide di amare un ragazzo, dalla cui vista è scosso, con la "missione" di condurlo, per il tramite del suo amore, ad amare il bello amabile in senso assoluto, e a volgersi verso di esso. L'amante, l'erastès, è colui che quindi conosce la via del bene, è colui che gode di un primato nella relazione, a causa del suo sapere già che l'eros umano è un m=.o potente, ma pur sempre un mezzo, per consentire ali'altro di farsi a sua volta amante di un eros diverso, più alto; il oero amante si rivela dunque un maestro capace, in quanto tale, di provocare nell'eròmenos una sorta di periagoghè, di metastrophè, verso il veramente amabile. Il fine, di conseguenza, non è l'amore reciproco fral'erastès e l'eròmenos, ma l'amore del bello da destare e impiantare nell'eròmenos; ne segue che l'incrocio fra i due partners risulta in qualche modo interrotto da questo teno elemento che non è né l'uno né l'altro. Questo scatena il pesante equivoco che incombe sull'amore platonico, rispetto al quale ci si chiede che ruolo abbia il corpo-dimensione in cui gli amanti sono l'uno per l'altro e questo stesso è un bene - e si tende allo stesso tempo a escludere, che esso entri pienamente in gioco.

2. Cfr. M. Erler, Platone. Un'introduzwne, trad. it. di G. Ranocchia, Einaudi, Torino 2008, p. 116.

26 Anche nell'ipotesi in cui si ammette che la sessualità ha effettivamente un ruolo all'interno di questo tipo di amore, come sembrano d'altra parte confermare diverse fonti3, lo scenario non cambia di molto: resta, anzi, ancora più eclatante, il dato dell'irreciprocità, a partire dal fatto che nel rapporto d'amore il pais è estromesso dal godimento che ricava da lui il suo erastès4. Ciò è in qualche modo "fisiologico" in quanto il pais vie-ne accolto nel rapporto d'amore a partire da una inclinazione sessuale neutra, ancora indecisa e quindi al di là del maschile e del femminile: egli non ha ancora sviluppato una tenden:za verso l'omosessualità (''ama ma non sa dire cosa .. _ns) e la stessa iniziazione sessuale impartitagli dall'erastès lascia oltretutto "libera" la sua orientazione sessuale futura. Egli potrà diventare l'erastès di un pais o legarsi a una donna e procreare, o vivere entrambe le esperienze6• Siamo cosl di fronte alla strana potenza di un amore che tocca s'I il corpo, ma senza considerare data a priori la sua diffe-ren7.a sessuale; o, meglio, sen7.a considerarla preliminarmente necessaria per l'amore. La "differen:za sessuale" sembra cosi posteriore e non anteriore e funzionale all'amore in questo tipo di eros: l'eròmenos non esprime infatti né il maschile né

3. Cfr. E. Cantarella, Secondo natura. La bi.sessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 42-47; K. J. Dover, L'omosessualità nella Grecia antica, traci. it di M. Menghi, Einaudi, Torino 1978, pp. 160-178; H . Kelsen, L'amor platonico, trad. !t. di C. Tommasi, Il Mulino, Bologna 1985,p. 81. 4. Cfr. K. J. Dover, clt., pp. 55-56. A proposito dell'irreciprocità nella rela:done fra amante e amato rinvio ad Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 5,

ll57a~. 5. Cfr. Platone, Fedro, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 111

(255D3). 6. Per questo, a proposito della pederastia, H. Kelsen parla non tanto di "un'inversione" quanto di un "raddoppiamento e una manifesta:àone pili ricca della sessualità individuale". Cfr. L'amor platonico, cit., p. 81.

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il femminile, ma appare nella compresen:za di tratti maschili che accolgono la femminilità7 • Ciò che si pro6la è un amore al di là della sessuazione, là dove "al di là" vuol dire "prima" dell'impressione di una precisa marca sessuale. Ora, questa possibilità "fisiologica", perché suggerita appunto, da una physis che diventa oggetto di godimento nello spazio esiguo - perché legato a una inesorabile, fatidica, temporalità: solo per un certo periodo della vita si era pais8 - in cui non vi si è ancora impressa una marca sessuale definita, sancisce in modo definitivo l'irreciprocità nel rapporto. In un certo senso, lH'amore platonico" resta "platonico" - e cioè non Analizzato a quella ricerca del godimento reciproco sotteso all'espressione "fare l'amore", nonostante l'ingresso della sessualità. L'irreciprocità è tale che nel Fedro per il sentimento provato dall'eròmerws non viene usata la parola eros che è usata per l'erastès, maantèros. L'antèros, owero, letteralmente, "l'amore di risposta" è definito un eidoùm eròtos, e cioè un riflesso dell'amore, che non va considerato eros maphilìa0 • L'imperscrutabilità dell'eròmerws, origine separata dell'amore dell'erastès, sembra trovare, alla Ane, la sua trasfigurazione e gloriosa sistemazione teorica nella descrizione aristotelica del motore immobile, l'hos eròmerwn - colui che sen:za ricambiare l'amore che suscita, si limita a farlo nascere rimanendo intatto ed integro, sen:za pena né turbamento alcuni verso il cielo e la natura che restano appesi (ertemai) a lui come a delle braccia avare.

7. Cfr. K. J. Dover, cit., p. 82 e E. Cantarella, cit., pp. 58-62. 8. Cfr. E. Cantarella, cit., p. 67. 9. Cfr. Platone, Fedro, 255 D.

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II L'assen,;a di reciprocità dimora incontrastata, malgrado tutto, anche nel Commentario di Proclo all'Alcibiade I, che benché introduca il concetto di "conversione" degli esseri superiori verso quelli inferiori (epistrophè pros to cheiron), indicante pur sempre un movimento simmetrico, fatto cioè insieme Socrate si abbassa, kateisin, va giù, dice Proclo, verso Alcibiade, affinché a sua volta Alcibiade si elevi verso l'ottimo10 - installa al cuore della reciprocità una qualità essenzialmente irreciproca Irreciproca perché dettata da una ferrea gerarchia, in cui permane la separazione ontica fra il superiore e l'inferiore, che resta sostanzialmente fedele alla diversità dei ruoli dell'erastès e dell'eròmenos e al fatto che ad essere divino è l'amante. Questa gerarchia superiore/inferiore, che conferma i due diversi livelli ontologici dell'erastès e dell'eròmenos produce, di conseguenza, una reciprocità sen7.a libertà e sen7.a "miracolo", per dirla con Lacan. Nel corso della sua analisi del Simposio di Platone, Lacan scrive, infatti: "Nella mano che si tende verso il frutto, verso la rosa, verso il ceppo che all'improvviso si inlìamma, ebbene, il gesto di tendersi, di attirare, di atti.zzare è strettamente solidale con la maturazione del frutto, con la bellezza del fìore, con la vampata del ceppo. Ma quando, nel movimento di tendersi, di attirare, di attizzare, la mano è ancora lontana dall'oggetto, se dal frutto, dal fìore o dal ceppo esce una mano che si tende incontro alla vostra, e se in quel momento la vostra mano si fìssa nella pienezza chiusa del frutto o in quella aperta del lìore o nell'esplosione di una mano che brucia, ecco allora che si produce l'amore. Ma non è il

10. Commentario di Proclo aU'Akiblade Primo di Platone, in Francesca Filippi, L'immaginario e il simbolico nell'uomo, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 301 (133 6-10).

29 caso di fermarsi qui, e di limitarsi a dire che ci troviamo di fronte all'amore, voglio dire che si tratta del vostro amore, se prima eravate l'eromencs, l'oggetto amato, e che improvvisamente diventate l'erastès, colui che desidera [ ... ] La struttura di cui si tratta non è di simmetria e di ritorno. Così qui non c'è simmetria, perché nella misura in cui la mano si tende, tende verso un oggetto. La mano che appare dall'altro lato è il miracoÙJ [corsivo mio]". 11 Ora, paradossalmente, la comparsa della mano nel bel frutto o nel bel fiore, quella mano che con la sua protensione attesta miracolosamente anch'io, sembra lontanissima dalla configurazione dell'"amore platonico", il cui recondito imperativo enuncerebbe invece: Ti amo rnm perché tu mi possa amare, di ritonw, ma perché, attraverso il mio amore, tu possa amare il Bene che devi amare, talmente lontana che per lo stesso Lacan anche l'eros che viaggia - che oo e che viene - fra Alcibiade e Socrate, e di cui gli dà notizia il Simposio, resta un amore sostanzialmente irreciproco. Si tratta, è importante sottolinearlo, dello stesso Lacan che pure sottolinea con sorpresa, nell'encomio di eros fatto da Fedro nel Simposio, una nota significativa sul fronte dello scambio dei ruoli fra erastès ed eromerws in cui a suo avviso si esprime proprio 1a significazione dell'amore" 12• Stando al discorso di Fedro che colpisce Lacan, infatti, gli dei darebbero un posto speciale ad Achille, ancora più speciale del premio conferito in vita ad Alcesti, perché Achille, pur avendo nella relazione con Patroclo il ruolo dell'eromerws, alla morte di quest'ultimo si comporta invece come un erastès 13, decidendo 11. J. Lacan, 1l Seminario libro VIII, trad. lt. di A. Di Ciaocia, Einaudi, Torino 2008, p. 59. 12. lo~ p. 54. 13. lo~ p. 55, p. 60.

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di andare incontro alla morte per lui. Morire deliberatamente per Patroclo diventa l'azione di Achille, l'azione che conferma il suo essere diventato da amato, amante. E questo meraviglia gli dei, definiti nel Simposio hyperagasthèntes (molto ammirati). Vale la pena di non accontentarsi di Lacan e di riaprire il testo platonico. Questa è la spiegazione offerta da Fedro: Resta il fatto che gli dei onorano sopra ogni virtù quella d'amore, e inoltre mostrano più stupore ed ammirazione (mallon thaumàzousin) econcedono maggiori benefici quando l'amato ama l'amante (hotan ho eròmencs ton erostèn agapà) che non quando l'amante dimostra affetto per l'amato (e hotan ho erostès ta paidikà). Infatti l'amante è più divino dell'amato, perché è pieno di dio. E per questa ragione gli dei onorano Achille anche più di Alcesti, inviandolo alle isole dei beati14.

Fra Socrate e Alcibiade non avverrebbe niente di tutto questo. Nessun miracolo stando a Lacan. Anche se resta il dubbio sul perché gli dei si mostrerebbero ammirati e commossi per qualcosa che il "buon senso" in fatto di sessualità e di "morale sessuale" greca tenderebbe invece ad escludere. L'ammirazione degli dei risulterebbe fuori legge15 ••• La spiegazione data da Lacan a questa rigidità e fissità di Socrate nei panni dell'erastès nella parte finale del Simposio fa leva sul rifiuto socratico di porsi nei panni dell'amato, in quanto Socrate sarebbe l'uomo kenotico, il 610-sofo che sa di non possedere niente e, soprattutto, niente di amabile in sé, essendo ancorato al solo desiderio. Riconoscendo di non avere niente di amabile - riconoscendo di non a'Oere - Socrate non

14. Platone, Simposio, trad. it. di F. Zanatta, Feltrinelli, Milano 1995, p.49 (180b 1-5). 15. Chiedo al lettore la pazienza di tenere in sospeso questo dubbio cui darò spazio alla fìnc.

31 può accettare di diventare l'amato, secondo Lacan 16• Egli resta, quindi, lìlosofo e amante di Alcibiade, a modo Stio, là dove "a modo suo" vuol dire che la caratteriz:zazione sessuale di Socrate viene calibrata sulla sua essen7.a di lìlo-sofo - e stando ad essa il lìlo-sofo non può che essere l'amante, colui che non ha niente da perdere perché niente possiede e che quindi ama in pura perdita; ama come parla, senza che niente ritorni a lui. Tutto ciò conferisce un'ulteriore conferma alla struttura singolare dell'"amore platonico", che mantiene il suo aspetto di amore senza reciprocità reale fra gli amanti 17; reciprocità im16. J. Lacan, cit., p. 174. Su questa motivazione offerta da Lacan concorda anche B. Moroncini nel suo bel libro Sull'amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, Cronopio, Napoli 2005, p. 167. 17. L'irreciprocità fra erastès ed eròmeno.s viene considerata da B. Moroncini, sulla scorta di Lacan, indicativa del fatto che "Non si è amanti insieme, ma l'uno è amante, l'altro amato: uno è parte attiva, l'altro passiva.[ ... ] La relazione erotica non è una relazione fra uguali in potenza. Insomma, il rapporto d'amore non è, checché ne pensi un certo umanesimo moderno, un rapporto da soggetto a soggetto, bens'I da soggetto a oggetto, è, infine, una relazione impari" (op. cit., p. 27). Questa valo~one dell-asimmetria" e della "disparità" (cfr. p. 26), che Moroncini ricava dal SimpD$io-ed estende all'amore tout ccurt - e che gli fa sostenere che "Socrate e Alcibiade non si incontrano mai" (p. 27), non è tuttavia la verità ultima dell'Alcibiade 1 e quindi non possiamo considerarla la verità di Platone sull'amore. Questo non vuol dire né che per rintracciare la verità di Platone sull'amore ocoorre guardare necessariamente al discorso di Diotima e all'eros immortale, e cioè "all'individuazione di un oggetto che colmi la mancanza, che si presenti subito come l'unico non colpito dalla contingenza e dal divenire" (p. 141); né che l'asimmetria importata dal ter~ nell'amore scompare per cui tutto si risolve, si aggiusta e si acquieta. In questi due casi, infatti, lo sfondo concettuale dell'eros resterebbe il discorso di Aristofane che punta sul recupero della piene-aa originaria. Come tenterò di mostrare, il finale dell'Alcibiade 1 contiene un'inedita teoria dell'amore che pur restando legata alla "finite-aa• mortale dell'eros approda a una reciprocità e ad una simmetria che portano alla trasformazione dell'amante in amato e dell'amato in amante. È dentro questa simmetria (ciò che Platone, per bocca di Alcibiade, chiama metabalèin to schema (135 d 8)) che si mantiene l'asimmetria strutturale

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pedita, nel caso della lettura di Socrate fatta da Lacan, dalla struttura della 610-solìa che in Socrate si incarna. F oucault stesso, che dedica una cospicua parte della sua analisi alla "cura di sé" nell'Alcibiade 1'8, non proferisce parola sulla natura della particolare relazione erotica fra Socrate e Alcibiade, limitandosi a sostenere che nell'Alcibiade I l'eros- ma l'eros in generale, non quello che viaggia fra Alcibiade e Socrate, non quello che a partire da loro prende la sua forma singolare di vissuto - è a servizio della cura di sé e dell'insegnamento, e che questo legame, costitutivo del modo di amare di quel maestro che è Socrate e del modo di concepire l'amore da parte di Platone, subisce nel tempo una progressiva dissociazione, lìno a perdersi, perché l'eros si rivela una zavorra che rischia di complicare fino a rovinare la natura della relazione educativa, il transfert pegagogico10• Anche a partire da questi elementi, )"'amore platonico", si conferma, come l'amicizia, un amore a tre termini, in cui il terzo: il divino, il bene, il bello in sé, cui deve mirare l'azione del vero amante, di fatto tende a far sbiadire, nella relazione fra i due partners, ciò che appunto determina quest'ultima come relazione: e cioè l'essere di fatto collegati dei due, là dove il "fatto" del collegamento dice innanzitutto il corpo in cui si iscrive la reciprocità. Proverò a mostrare che ritenere l'eros nell'Alcibiade I "funzionale" alla pedagogia e alla politica, occulta l'incubazione di una particolare teoria dell'amore il cui tratto saliente è invece la piena reciprocità e cioè lo scambio dei ruoli fra l'amante e l'amato; questa teoria, che spicca come fortemente inedita dell'eros, owero il suo essere costitutivamente aperto al divino che funge da specchio, da term.

18. M. Foucault, L'enneneutica de/soggetto, op. cit. 19. !oi, pp. 53-5.5.

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rispetto allo stesso Simposio o al Fedro, che restano tuttavia imprescindibili per isolarla, viene offerta e alleggerita evocativamente in forma di conclusione nelle battute fìnali del testo. Andando ben oltre il contesto in cui si sviluppa, inoltre, questa teoria, che stando ali'espressione usata da Socrate chiamo teoria deUo "scambio di figura=, oltre a mettere in crisi una certa neutra fìssità dei ruoli erastèsleròmerws, su cui la letteratura, da Dover a Lacan, conviene, sembra introdurre una teJ'7.a via nel diJemma, oggi particolarmente acuto, fra affermazione e superamento della differen7.a di genere. Confesso che è a partire dalla questione deUa "differen:za sessuale" che dirigo il mio sguardo sul testo platonico, ed è su questo fronte che vedo incidere la teoria dello "scambio di fìgura" in modo estremamente signifìcativo perché propositivo, fecondo. Procederò ricostruendo e amplifìcando le fasi dell'intreccio erotico che vede protagonisti Socrate e Alcibiade e inserirò, secondariamente, all'interno della ricostituita centralità di questo intreccio che perviene al metabalèin tò schema, il tema deUa "cura di sé".

III Socrate si presenta ad Alcibiade con risolutezza e coraggio, parlando di sé in prima persona ed esponendo la propria condizione di amante: Figlio di Clinia, penso che tu ti meravigli del fatto che io, che pure fui il tuo primo amante, mentre gli nitri hanno smesso di frequentarti, sono il solo a non nllontanarmi (ouk apallattomai), e poi mentre gli nitri ti importunavano con i loro

20. Cfr.Alcibiade I, 135 d 8.

34 discorsi, io invece in tanti anni non ti ho neppure rivolto la parola. ..21 •

Si potrebbe pensare che l'aporeticità del comportamento che Socrate descrive a suo carico sia solo una presunta aporeticità, una tattica di avvicinamento ad Alcibiade. Le cose non stanno cosl questa volta, e le parole da lui poco dopo impiegate lo confermano: Dovrei parlare. Certo è difficile (chalepòn) per un amante presentarsi a un uomo che non cede aglt amanti, tuttavia (ho.. mos) devo avere il coraggio (tclmetèon) di esprimere il mio penslero22•

La situazione è veramente difficile e richiede coraggio. Di questo è segno il fatto che la ragione del "non allontanamento" (ouk apall.attomai) con cui si apre il testo, viene interlocutoriamente riproposta. Ti chiederai, rincara Socrate, perché mai, dopo aver visto nel tempo come ti sei via via sviluppato, come sei diventato arrogante e pieno di te, appoggiandoti esageratamente sulle tue doti naturali: il bell'aspetto e i nobili natali... ebbene, ti chiederai come mai io non mi separo, non mi sbtr razzo, del mio amore per te (ouk apall.attomai tou erotosF.

La questione, posta in modo ricorsivo, accorato, è dunque la seguente: perché non si allontana chi avrebbe dalla sua parte tutte le ragioni per allontanarsi? La risposta sembra facile, invece è difficiJet-4. Sembrerebbe facile poter rispondere che chi non se ne va resta perché ama, perché continua ad amare. Ma questa risposta non sarebbe perspicua, resterebbe generica, e il testo lo evidenzia. Cosa ama, infatti, chi non se ne va malgra21. Platone, Alcibiade I, trad. it. di U. Bultrighini, Newton ma 1997, p. 523 (103 a 1-4). 22. loi, 104 e 4-5. (Trad. it. p. 525). 23. Cfi-. iol, 104 e 5. 24. Cl\-. iol,104 e 4.

i Compton, Ro-

35 do abbia sentito nel proprio cuore un amore contrariato, dal proprio demone interiore25? Chi non se ne va e tuttavia vede chiaramente, nell'"amato assoluto", il non amabile in assoluto? Queste evidenti contraddizioni confermano la non facilità della risposta e rendono banale e incoerente esibire "l'amore" come ragione e risposta tout court. Alcibiade prepara la risposta di Socrate rincarando cosi quell'attesa creata poco prima da Socrate stesso: Ma forse tu non sai, Socrate, che mi hai preceduto di poco. Infatti avevo in mente di avvicinarmi io per primo per farti proprio queste domande, che cosa vuoi mai e mirando a quale aspettativa (eis tinaelpida) mi importuni, sempre presente con la più tenace ostinazione (epimelestata paròn), ovunque io sia: e in realtà mi chiedo sbigottito che cosa sia mai questo tuo modo di agire e mi farebbe molto piacere saperlo16•

Nelle battute di un Alcibiade che si dice ignaro della strategia di Socrate, spicca la prima comparsa del termine epimèleia, tema fondamentale dell'intero dialogo (sia pur declinata come epimèleia hetwtoù). Qui l'epimèleia entra in scena al superlativo, come la disposizione eccessiva di un soggetto epimelèstatos; essa viene quindi legata a una dismisura, ma a ben guardare si tratta della dismisura da cui essa proviene: - Aristotele non definisce forse l'eros hyperbolè tes philìas, eccesso di amicizia?27• Se l'epimelès è colui che si prende cura, colui che ha attenzione, sollecitudine, l'epimelèstatos è colui per il quale la cura sconfina nella fissazione, nell'ossessione; qui è in gioco l'essere perseguitati, insomma, dal fantasma dell'altro. Socrate stesso ammetterà, nell'ambito della sua risposta ad Alcibiade, 25. Cfr. ioì, 103 a5. 26. lt>4 104 d 1- 4. (Ttad. !t. p. 525).

21. Cfr. Aristotele, Elica Nicomachea, 1111 a 11-12; 1158 a 12.

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di non aver mai cessato di avere la mente rivolta ad Alcibiade ("prosèchon ge soi ton ooun diatetèlika")21\ ti sono stato addosso con la mente, dice, il che vuol dire, sei stato il mio chiodo lìsso. È certo singolare che la prima accezione dell'epimèleia sia l'ossessione; questo sembra attestare la difficoltà che questa parola nasconde al suo interno, la sua provenien7.a dalla dismisura erotica che comporta la difficile conquista della giusta distanz.a, la fatica di un'adeguata manovra di avvicinamento ali'altro di cui si ha cura, o, meglio, che si ha a cuore. I:epimèleia cela così, in nome della sua provenienza, un problema pratico: come aver cura dell'altro avendone già cura, in quanto lo si porta nel cuore? Ovvero, come avvicinarsi all"'oggetto" della propria cura?

La "cura di sé", l'epimèleia heatttoù che Socrate insegnerà ad Alcibiade è dunque preceduta dalla cura iperbolica di Socrate nei confronti di Alcibiade, e solo all'interno di questa cura che coincide con il singolare eros di Socrate, l'altra cura, la "cura di sé", può essere insegnata e seguita nel suo svilupparsi nell'altro. Èquanto tenterò di mostrare nella mia riproposizione dei passaggi centrali del testd-9. 28. Platone, Alcibiade I, cit., 105 a 3. 29. L"intero dialogo attesta la provenienza dell'epime/eia eautoù dall'epimele.statcn. Questa la sequenza che si produce nel testo, a.nche alla luce di passaggi su cui mi soffermerò a breve: io sono il solo, dice Socrate, che può aiutarti a realizzare i tuoi progetti/ sono il solo perché sono altro e rispetto ai tuoi amanti e rispetto ai tuoi consanguineV sono il solo perché leggo dentro di te una cura invisibile/ in fora del mio amarti - condi:done della visibilità della cura - ti dico ciò che devi fare / Ma potrei dirtelo se non ti amassi? / E cioè se la cura di te che invoco per te e che ti raocomando non fosse dentro la mia cura nei tuoi confronti e, ancora, dentro la mia nei miei confronti? / La mia lettura tende quindi a mostrare la dipendenza strutturale dall'eros della cura di sé. L'eros non è dunque a mio awiso semplicemente funzionale alla cura di sé, una fra le tante vie intersoggettive possibili, ma fenomenologicamenteindispensabile in primo luogo per la "visibilità" della cura e secondariamente per l'accesso ad essa. Mi ritrovo dunque, grosso

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Ma torniamo alla risposta, spiazzante, di Socrate, al perché dell'essere rimasto, al perché del non essersi separato dal suo amore, al perché del suo chiodo fìsso: Dovrei parlare. Certo è difficile per un amante presentarsi a un uomo che non cede agli amanti, tuttavia devo avere il coraggio (tolmetèon) di esprimere il mio pensiero. Infatti se io, Alcibiade, ti avessi visto soddisfatto di quei privilegi che ho appunto esposto poco fa e convinto di dover trascorrere la vita nelle condizioni che questi comportavano, avrei già da tempo desistito dal mio amore (palai an apellàgmen tou erotos), per lo meno in cuor mio ne sono convinto; tuttavia ora rivelerò altri pensieri tuoi nei confronti di te stesso, per cui capirai anche che non ho mai cessato di rivolgere a te la mia mente (ho kaì gnose hoti prosèchon ghe soi ton noun dia-tetèleka). Penso che se un dio ti dicesse: "Alcibiade, preferisci vivere con ciò che hai adesso o morire subito se non hai la possibilità di ottenere cose più grandi?", credo sceglieresti di morire; ma su quale speran7.a ora fondi la tua vita (epì tini de pote elpìdi zes) te lo dirò30•

Ciò che ha indotto Socrate a non desistere dall'amare Alcibiade non passa per una "proprietà" di Alcibiade, come verrà detto ancora più chiaramente alla fìne del dialogo, ma tuttavia questa "cosa" che Alcibiade non ha, e che pertanto non può essere annoverata né fra le proprietà (le "cose" di Alcibiade), né fra le cose che Alcibiade crede di possedere, è ciò che tiene a sé Alcibiade e lo rende Alcibiade agli occhi di Socrate, e dunmodo, più vicina all'interprebcdone di Proclo {cfr. op. cit.) che a quella di Olimpiodoro (Olympiodorus, Commentary on the First Alcibiades ofPlato, Ed. di L. G. Westeminlc, North-Holland Publishing Company, Amsterdam 1956). Per questa accentuazione del ruolo dell'eros che ml condurrà alla fine del testo a sostituire la chiave di lettura dell-intersoggettività" con quella dell-interdonazione", la mia lettura si distacca dalla linea di Foucault recentemente ripresa da C. Agnello in Cura disé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone, Mimesis, Milano 2010. 30. Platone,Alcibiade I , 104 e 4- 100 b. {Trad. it. p. 525).

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que una volta procurato un accesso ad essa, Socrate giungerà al cospetto di Alcibiade in persona. Cos'è questa "non-cosa" che lega Alcibiade a se stesso e allo stesso tempo "rende ragione" della resistenza di Socrate nei suoi confronti? Nient'altro che un desiderio, una speran7--a, guardando alla quale Alcibiade vive la sua vita. Socrate intercetta questa speranza di "cose più grandi" che disaggiusta e contraddice, ma in modo fecondo, il vivere di Alcibiade e la trova amabile. Il fatto che la "cura di sé (epimèleia heautou)" consista, come si sostiene comunemente e giustamente, in un prendersi cura della "cura" dell'altro31 , qui, nelle prime battute del testo, è imprescindibilmente connesso con il dato che Socrate dice di essere ancora amante di Alcibiade grazie al suo accesso a una proprietà non cosale e invisibile di Alcibiade: al suo desiderio appunto, alla sua cura; o, forse meglio, a ciò che ad Alcibiade sta a cuore, alla protensione stessa del suo cuore.

È proprio la possibilità che si dia una cura, un desiderio, un avere a cuore, una tensione, in Alcibiade, a mantenere in Socrate la postura dell'amante, postura che Socrate assume prendendo a cuore in modo stabile le belle ma vaghe speranze di Alcibiade. Ma il dato che resta eclatante, in tutto questo, è che, all'origine, l'epimèleia coincide con l'accesso all'invisibile di un cuore, ecco perché "epimèleia" non va sen7.a eros. Nessuno può prendersi cura della cura dell'altro se prima non l'ha oista, ma vedere la cura dell'altro significa vedere nell'invisibile di un cuore, e solo l'amore apre questo accesso all'inaccessibile stesso.

31. Cfr. M. Foucault, cit., p. 54.

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IV Quando Socrate si rivolge ad Alcibiade ed inizia ad interrogarlo, lo fa col presupposto che lui abbia in mente le cose che Socrate crede che lui abbia in mente32• Socrate, dunque, non ha avuto alcuna rivelazione da parte di Alcibiade, egli ha letto nell'invisibile, e questa possibilità, questa capacità, è chiaramente la prova del suo amare Alcibiade; questa "veggenza" è proprio il dono dell'eros cui la stessa epimèleia Mautoù resta, come vedremo, interamente appesa. Socrate comprende da solo che è sicuramente difficile per Alcibiade cogliere l'attinenza fra il suo non andar via e la sua lettura della cura invisibile nel cuore dello stesso Alcibiade (Forse mi chiederai, ben sapendo CM quel CM dico è vero: ma

cM haa cM fare questo, Socrate, col tuo discorso? [quello cM dicevi mi avresti fatto, sul nwtivo per cui rwn mi abbandoni? (ouk apallotte)J)33 , ed è per questo che dà spontaneamente la

risposta. Prima di soffermarmi su questa risposta farò una piccola digressione che dovrebbe avere lo scopo di mostrare la relazione fra Socrate e Alcibiade all'interno di una tensione che, anticipandola, conduce verso quella reciprocità che viene fuori, quasi come una nuova teoria, alla fine dell'Alcibiade. Quando, nel finale del Simposio, Alcibiade irrompe e sconvolge l'assetto dei discorsi precedentemente fatti, non facendo l'encomio di una potenza d'amore generica ma del suo amore, e cioè di Socrate in persona, il perno della argomentazione risiede nel fatto che egli ha visto dentro Socrate, in un dentro in

32. Cfr. l'latone,Alciblade I, 106 b 11- 106 e l. 33. Io~ 105 d 1-3. (Trad. it. p. 525).

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cui nessun occhio umano può essere mai entrato, "immagini divine e d'oro, bellissime, meravigliose'>:14. Due piani del vedere si sovrappongono e immediatamente si distinguono nello sguardo di Alcibiade che fa il seguente ragionamento: nessuno di voi (oudeis hymòn) conosce veramente Socrate, perché ciò che ooi vedete (oràte gar 'F', cari compagni di bevute, è ciò che è sotto gli occhi di tutti, compresi i miei, e cioè voi vedete come "Socrate è sempre innamorato dei belli, e non fa nient'altro che star loro appresso, e ne è sconvolto, e come, d'altra parte, ignori tutto e non sappia nulla ..." 36• E tuttavia, "come un Sileno scolpito, si copre all'esterno (exthen) con questo atteggiamento (periblebetai), mentre dentro (endothen), se lo si apre, sapreste immaginare, cari compagni di bevute, di quanta temperanza (sophrosyne) sia pieno?[ ... ) Passa tutta la sua vita ironizzando e prendendosi gioco della gente. Ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno abbia visto le immagini che ha dentro (ta entòs agàlmata). Io [corsivo mio) una volta le ho viste (all'ego ed.e pot'eidon)',:r,_

La cosa che più conta, in questo brano, sono le due soggettività contrapposte, contrapposte in forza di ciò che riescono a vedere: "voi", il soggetto di oràte gar, seconda persona plurale, e "io, invece", "ma io", all'ego, prima persona singolare ... Voi vedete quello che vedo pure io ... ma voi non vedete quello che ho visto io, e cioè il divenir serio di Socrate, le sue immagini interiori; in breve, i suoi agàlmata. Ora, questi agàlmata, che sono il cuore del discorso di Alcibiade nel Simposio, e tali

34. Platone, Simposio,cit., 216 e 7-8. (Trad. it. p. 129). 35. lvi, 216 d 2. (Trad. it. p. 129). 36. !oi, 216 d 2 - 4. 31. lvi, 216 d 5- 216 e 6. (Trad. it. p. 129).

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sono riconosciuti da Lacan38, non sono altro che le immagini invisibili la cui visibilità è concessa solo all'amante39• Cosa ha visto Alcibiade? Ha visto innanzitutto che Socrate diventa serio (spoudasantos) - quasi che tutta la sua ironia, tutta la sua maieutica, tutta la sua ricerca Alosofica, fossero solo apparew.a, gioco, atteggiamento, dfoertissement - e si apre (anoichthèntos, anoignumi), cioè espone un sé che non coincide col sé del Socrate noto a tutti, forse anche a se stesso. Alcibiade, dunque, stando al Simposio, rivela Socrate (egò del,òso)''", così come, nell'Alcibiade I, Socrate rivela Alcibiade. In entrambi i dialoghi, sia pure in un'inversione di ruoli, l'uno è il "rivelatore" dell'altro, nel senso che l'uno ha accesso all'invisibile che abita nell'altro, e posto che il rivelatore è sempre l'amante, cui l'amato si rivela divenendo, proprio in forza di questa rivelazione, amato, l'analogia suggerita dalla lettura sinottica dei testi suggerisce che Socrate e Alcibiade sono entrambi amanti. Nel senso che ciascuno di loro è un erastès; entrambi amanti in quanto entrambi vedono nei cuori invisibili dei loro amati: Socrate legge nella speranza di Alcibiade e lo ama per quella speranza, posto che tutto quello che di lui ha, come gli altri, sotto gli occhi, è desolante; Alcibiade fa leva sugli agàlmata e 38. J. Lacan, clt., pp. 150-164. All'inverso, Frocio lega l'agalma all'essenza dell'amore provato da Socrate verso Alcibiade nell'Alcibiade 1. Questo il senso dell'utili;c,,o della no-.done: se un "essere superiore" come Socrate può amare un "essere inferiore" come Alcibiade è perché egli scorge persino in quest'ultimo le immagini della belle-aa. Si tratta della "vera belle-aa·, quella interiore, che non coincide con la belle-&la sensibile di Alcibiade. Cfr. Frocio, cit., 92, 10 (p.257) e 190, l 0(p. 362).

39. Socrate è "in eccesso" su Socrate, agU occhi di Alcibiade, e questo eocesso di visibilità non p uò essere assorbito in alcun modo. Questo eocesso da sostenere come tale rivela l'amore di Alcibiade nel senso che è rivelato dall'amore di Alcibiade. Nel soste nere q uesta tesi mi avvalgo della no-.àone di "fenomeno saturo" di Jean-Luc Marion (Cfr. De rurçroft, Fuf, Faris 2001). 40. Flatone ,Simposio , cit., 2 16d 1.

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non nasconde la sua vergogna, il suo disagio, la sua eterna esitazione nei confronti di un Socrate che frustra il suo desiderio ("non so come devo comportarmi con quest'uomo"41) e di cui vorrebbe augurarsi che sparisse, che si togliesse da mezzo, se non fosse che sa già che l'angoscia prodotta dalla sua assen7..a totale sarebbe ben peggiore di quella che la sua presenza paniale gli provoca già42• Ciò mostra che anche Alcibiade ha, verso Socrate, un amore contrariato ... e che come, stando a Proclo che guarda da una parte sola, oggetto dell'amore di Socrate è il "vero Alcibiade" (alethinòn Alkibiàdenfl, allo stesso modo, oggetto dell'amore di Alcibiade è il oero Socrate. Quello delle immagini meravigliose e invisibili, quello che a tratti si fa serio, quello che non interroga e non ammira i bei fanciulli, quello che lascia in pace la gente; quello che, in breve, è l'amato di Alcibiade. Dire che Socrate e Alcibiade sono entrambi amanti non vuol dire ancora affermare la reciprocità del loro amore, erastài al plurale indica infatti la condizione di chi condivide con altri l'azione dell'amare, ma non quella trasformazione miracolosa cui Lacan allude quando parla delle mani che spuntano dal frutto o dal fiore. Gli erastài, insomma, non sono l'amante e l'amato in quanto entrambi amanti, ma sono coloro che parimenti danno inizio all'azione di amare. Cogliere, tuttavia, nel confronto fra due testi come l'Alcibiade I e il Simposio, che pare plausibile ritenere contemporanei", una dinamicità, una tensione, rispetto a quella fissità dei ruoli erastèsleròmenos incarnati da Socrate e Alcibiade, è tuttavia significativo, perché

41. Ivi, 216 e 1-3. (Trad. it. p. 129). 42. Cfr. ibidem 43. Proclo, cit., 49, 14 (p. 217). 44. A proposito della datazione dell'Alcibiade I rinvio alla ricostruzione fatta da M. Foucault, cit., pp. 64-66.

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induce a interrogarsi sul significato di quella ferrea distinzione, sul valore di quella irreciprocità che è al cuore dell"'amore platonico". Come fa Platone a ignorare il mimetismo che trascina l'amato a diventare amante e ad escluderlo dal particolare amore che descrive? E posto che non lo ignora affatto, come dimostra la descrizione di quegli amanti che sono, ad uno ad uno, Socrate e Alcibiade, fìn qui entrambi amanti all'attivo, perché l'ostinazione a isolare i ruoli di amante e di amato al cuore dell'"amore platonico"? Che valore dare allora a questa irreciprocità? E, ancora, posto che di fatto essa viene contraddetta, proprio quando si tratta di Socrate in persona, dell'amore di cui è capace Socrate41!, essa stessa non costituisce una sorta di "finzione erotica" tesa ad isolare un tratto dell'esperienza dell'amore che pur essendo presente in ogni amore di fatto scompare, non essendo visibile né isolabile come tale?

V

Sospendiamo la risposta per ritrovare la spiegazione fornita da Socrate al legame fra il suo ritorno e le belle speranze di Alcibiade, da cui prende avvio il suo amore. Belle speranze che sono sogni di gloria esprimenti il desiderio che il nome di Alcibiade resti immortale presso i Greci al pari di quello di Ciro o di Serse-16. Te lo dirò, caro lìglio di Clinla e di Dlnomache. Il fotto è che è impossibile (adynawn) per te reallzzare senza di me (aneu

45. La contniddi:àone concerne anche il fatto che Alcibiade viene amato da Socrate in un tempo lungo anche quando anagraficamente non è più un

pois. C&. Protagora, 309 a 1- 309 b 2. 46. Cfr. l'latone,Alcibiade I, 100 a -105d.

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emcù) tutti questi progetti: tanto grande è il potere di cui credo di disporre sui tuoi interessi e sulla tua persona (tosauten. egò dynamin oimai echein eis tà sa progmata kaì eis sé); ed è per questo, ritengo, che il dio per tanto tempo mi ha impedito di parlarti, e io, per parte mia, ho atteso che me lo permettesse. Perché se tu (hosper gar sy) riponi le tue speranze (elpìdas) nella città, pensando di mostrare che hai grandissimo valore per essa e dopo averlo dimostrato speri di potere avere subito un grandissimo potere (dynè.sesthat), cosl io spero, dal canto mio (outo kagò elpìw) di avere moltissimo potere presso di te (meghiston dynè.sesthai parà soi), una volta che li avrò provato quanto io ti sia prezioso (axios), al punto che né il tuo tutore (oute epitropos) né i tuoi parenti (oute sunghenès) né nessun altro (out'alfus oudèis) sarà in grado di farli acquistare la potenza che desideri (ten. dynamis hes epithymeis), nessuno eccetto me (plèn emou), naturalmente con l'aiuto di dio. Finché eri troppo giovane e prima che una speranza di tale ampiezza (tosaùtes eplpìdos) li invadesse, come penso, il dio non ml autori7.7.ava a parlarti, perché non lo facessi senza uno scopo. Adesso invece me ne dà agio, perché ora potresti darmi ascolto".

Non solo Socrate legge nel cuore di Alcibiade, ma si sente chiamato in causa da ciò che ha luogo in quel cuore, a insaputa di Alcibiade è il caso di dire. Chiamato in causa in prima persona ed insostituibilmente. Questa "unicità" di Socrate risalta sia di contro alla figura di un maestro, un eventuale tutore, che sarebbe autorizzato da un ordine di motivazioni neutro, oggettivo, pedagogico, sia di contro a quella di un parente, uno con lo stesso sangue. Se Socrate decide di farsi avanti, dunque, è perché awerte che il gesto di sostenere le speranze di Alcibiade solo lui può intestarselo. La famiglia e la pedagogia sono estromesse da questo compito. Quale vincolo giustifica il compito di Socrate, allora? A che titolo parla Socrate?

47. lol, 100 d 2-106 a 1-2. (Trad. it. p. 527).

45 Che ruolo ha nei confronti di Alcibiade? Evidentemente egli parla da amante, egli parla in quanto ama Alcibiade, e l'ordine dell'amore sorpassa, rispetto a ciò che deve essere detto - e fatto in quanto detto-, l'ordine del vincolo di sangue e del vincolo pedagogico. Tutto il discorso che da questo punto in poi si svilupperà, e cioè tutto l'insegnamento concernente l'epimèleia heat1toù in cui Socrate esercita la sua parresìa - parla cioè in modo franco e risoluto affinché possa suscitare risolutezza e decisione in Alcibiade - risulta dunque ancorato a questa verità La stessa parresìa acquista una connotazione strettamente erotica in quanto essa matura nel confronto fra il tipo di amante che è Socrate e gli altri amanti cui Alcibiade non ha ceduto e che sono stati sopraffatti dalla superiorità di Alcibiade, bello e altrettanto superbo.a. La parresìa diventa cosl uno dei tratti peculiari che distinguono Socrate come il vero amante di contro ai semplici adulatori, amanti da strapazzo~0• Come lo stesso Foucault ammette, la parresìa è il modello opposto all'adulazione, ma l'adulazione cui si riferisce Platone è quella degli amanti indegni. Di contro, Socrate dice la verità ad Alcibiade, pur sapendo che si tratta di una oeritas redarguens per lui; se la dice è perché può dirla e può dirla solo in quanto egli ama veramente Alcibiade. Veritas redarguens dentro oeritas lucens, ricordando Agostino. A proposito di questa schiacciante collocazione di Socrate nel ruolo dell'unico degno e del "vero amante" - unico, si badi bene, malgrado i molti-, Proclo fornisce un'interessante spiegazione. Nel suo Commentario scrive infatti: "A dire la piena verità, sin dalle prime sillabe Socrate si rivela come l'unico amante di Alcibiade. Se, infatti, egli ha iniziato prima degli

48. Cfr. ioi, 103 b 3-104 e 4. 49. Cfr. Frocio, cit., pp. 98-99. (Trad. it. pp. 264-266).

46 altri, è chiaro che allora era l'unico amante; se, ora che gli altri lo hanno abbandonato, egli ancora venera l'amato, anche in tal caso è l'unico amante; se, infine, quando pure gli altri erano presenti, il modo del suo amore era differente, dato che quelli nocevano al giovane, mentre lui come un guardiano, un dèmone o un dio, lo guidava dall'esterno, anche allora era chiaramente l'unico amante. La ragione di ciò risiede nel fatto che, in ciascuna classe degli esseri, ciò che è trascendente è unico, anche quando a esso segue una moltitudine"50• In poche righe, Proclo riassume la condizione di Socrate rispetto ad Alcibiade che troviamo abbozzata all'inizio del dialogo: il suo essere stato il primo amante, l'essere rimasto l'unico, l'avere espresso, con il suo modo di imporsi, con la sua parresìa, un differente tipo di amore, qualitativamente unico. L'unico resta tale, dunque, malgrado, accanto, in fona dei molti; la moltitudine degli amanti venuti dopo, infatti, non scalfisce quella separazione assoluta imposta dall'inizio con il suo accadere. Questa struttura della trascendenza che Proclo descrive a proposito della fenomenologia erotica che si dipana fra Socrate e Alcibiade contribuisce a rischiarare il mistero di quell'"amore platonico" sostanzialmente irreciproco da cui sono partita e a cui a breve tornerò alla luce del percorso guadagnato. Cosa si esprime infatti nel gesto dell'erastès nei confronti del pais se non la volontà di isolare un inizio, di separare l'archè, il punto di avvio dell'amore, dall'amarsi effettivo e cioè sempre reciproco, anche per Platone, indubbiamente? È come se Platone volesse rendere visibile e metterci sotto gli occhi, trascinandolo nella theoria, il "principio" invisibile dell'amore, ciò da cui parte la trasformazione originaria, quasi una nascita

50. loi, 50, 1-10. (Trad. it. p. 220).

47 (anche per questo vicina all'epoca della prima giovinezza in cui il ragazzo è pais), in base alla quale l'amato diventa a sua volta amante, ma amante in modo assoluto, amante di una trascenden:za, amante del principio stesso dell'amore - del principio epèkeina tes ousìas, principio oltre ogni ousìa nel senso per cui è da essa separato. In poche parole, è come se Platone volesse isolare e salvare come neutro, come indifferente alla difTeren7.a, ciò che nell'esperien:za è già da sempre "contaminato", e cioè il momento in cui oocorre imparare ad amare l'amare stesso, il fatto stesso di poter amare, riuscendo così a rivolgersi, direi onticamente, verso il principio da cui proviene la possibilità concreta di ogni amore a venire (la "moltitudine", per usare l'espressione di Proclo). Ma questo gesto resta, come tale, un gesto inaudito, cui è possibile dare solo il significato della finzione, perché è impossibile insegnare ali'altro a diventare amante (amante in assoluto, dell'assoluto)-e quindi amare veramente l'altro - sen:za produrre in lui, contemporaneamente, la trasformazione per cui questi, diventando amante del Bene, diviene anche, da amato, amante del suo amante, rendendo così, quest'ultimo, amato.

La teoria dell'"amore platonico", sembra così contenere la pretesa iperbolica di iscrivere e allo stesso tempo cancellare la traccia sempre sensibile dell'amore del primo amante, di affermarla per cancellarla. Il primo amante resta ragguardevole nella vita erotica del futuro amante perché è colui che non vuole restare per sé, ma per testimoniare altro, un bene più altro, totalmente altro e più alto. In breve, al primo amante compete l'iscrizione principiale nell'anima e/o nel corpo del pais (la difTeren7.a qui incide poco), dell'"amare l'amare", iscrizione che deve precedere l'arrivo del volto dell'altro da amare. Iscrizione prima dell'iscrizione, archi-scrittura dunque: pur essendo contemporanea al gesto che la produce e da esso inscindibile, questa iscrizione ha infatti la pretesa di stac-

48 carsi da sé, di staccarsi dal suo tempo e valere come l'origine separata dalla propria "occasione" concreta. E tuttavia non possiamo chiudere qui il discorso, perché questa pur necessaria lettura decostruttiva dell'"amore platonico" non può essere la ratiJica finale. Il finale dell'Alcibiade I sconvolge, infatti, non tanto l'assetto di questo piano del discorso, ma il suo senso complessivo, mettendoci sotto gli occhi una potente auto-decostruzione.

VI Ritorniamo al passo precedente (105 d 2 - 106 a 1). È interessante notare il modo in cui si impongono diverse sfumature di potere/possibilità (dynamis) in relazione alla speran7.a (elpìs). Socrate non solo accede alla speranza che dimora nel cuore di Alcibiade e in nome di questa bella speran7.a si dichiara suo amante, ma spera a sua volta e mette a confronto le due speranze come se esse fossero destinate a incrociarsi. La sequenza del testo lo rivela: Come tu (lwsper sy)", dice ad Alcibiade, "riponi le tue speranze (elpìdas) nella città, pensando di mostrare che hai grandissimo valore per essa e dopo averlo dimostrato speri di potere avere subito un grandissimo potere (dynesesthai), cosl io spero (elpìzo), dal canto mio, di avere moltissimo potere (meghiston dynesesthai) presso di te (parà soi) una volta che ti avrò mostrato quanto io ti sia prezioso51 •

Le due speranze sono entrambe in vista dell'acquisizione di un potere, una potenza, una dynamis. Alcibiade spera di ot51. Platone, Alcibiade I , cit., 105 e 1- 6. (Trad. lt. p. 527). Questo passaggio del dialogo mostra in modo netto li mantenersi della reciprocità all'interno dell'asimmetria.

49 tenere una potenza che somiglia alla gloria, Socrate spera di avere moltissimo potere presso Alcibiade. Mentre precedentemente era stato possibile guadagnare la comune condizione di Socrate e Alcibiade, il loro essere egualmente (anche se non ancora reciprocamente) erastài mettendo in relazione l'Alcibiade I con il Simposio, qui non compare ancora la reciprocità, ma compare, nell'incrocio delle speranze descritto da Socrate, il loro comune statuto di amanti. Amanti, insieme, nell'Alcibiade I.

È importante soffermarsi sulla speranza di Socrate e sul tipo di potere cui essa aspira: il potere su un cuore. Mi è impossibile non pensare alla "tacita forni del potere amante'>52 che per Heidegger descrive la possibilità autentica e che sembra provenire direttamente da questo preciso punto dell~lcibiade I. Nel particolare potere ricercato da Socrate viene chiamato in causa un potere sull'essere dell'altro che non tocca, non depreda, non accumula e non si impossessa di niente, ma lasciando essere l'altro favorisce quell'essere l'uno per l'altro,

52. Vale la pena di ricordare il celebre passaggio della Lettera sull'amanismc. H eidegger scrive: «Prendersi a cuore una "cosa" o una "persona" nella sua essenz.a vuol dire amarla, volerle bene (Sich einer "Sache" "oder einer Perwn" in ihrem Wesen annehmen, das heisst: sie lieben: sie mcgen). Pensato in modo piil originario, questo bene significa donare l'essenza (das We,. sen schenken). Questo voler bene (Miigen} è l'essenza autentica del potere (Vermogen) che può non solo fare questa o quella cosa, ma anche lasciar • essere presente" (wesen} qualcosa nella sua provenienz.a (Her-kanft}, cioè far essere. È il potere del voler bene ciò "in for.ta di cui" qualcosa può essere. Questo potere è il "possibile" autentico (das eigentlich "'Miigliche"}, quello la cui essenz.a sta nel voler bene. A partire da questo voler bene l'esssere può (vennag) il pensiero. Quello rende possibile questo. L'essere come ciò che vuole bene e che può (das Vermogend-Mogend), è il "possibile" (das Miigliche). L'essere in quanto elemento è la "tacita for.ta" del potere che vuole bene, cioè del possibile». Lettera sull'"amanLsmo", a.e. di F. Volpi, Milano, Adelphi 1976, pp. 3.5-36). (Gesamtaasgabe Bd. 9, Wegmarken, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M.1996, pp. 316-317).

50 nel cui spazio può darsi ogni altra possibilità e ogni altra poten7.a. È in nome di questa particolare "potenza" sen7.a esercizio possibile che Socrate potrà ambire ad insegnare ad Alcibiade l'epimèleia heootou. Come se il potere su se stessi dato dalla conoscenza di sé fosse un dono fatto, dono daro, dal cuore dell'altro. Questo rivela infatti l'ultima parte del testo su cui mi concentrerò in vista della conclusione. Non mi soffermo sulle pagine, per cosl dire, "didascaliche", in cui emergono l'ignoranza e l'inadeguatezza di Alcibiade rispetto alle sue belle speranze che paiono, così, folli, e il timore di Socrate che si dice turbato per lui e per il proprio amore (Aganaktò hyperte soukaì tou emautoù eròros)s.1. Questa parte, che ha lo scopo di condurre al messaggio di Socrate: "conosci te stesso"54, concerne, come è noto, la necessità di identificare l'utile con il giusto, e la necessità di una "competenza" specifica per affrontare l'agone politico. Questa competen7.a ricercata coincide con un particolare "impegno" (epimèleia) ed una particolare "abilità (techne)',ss. "Qual è questo impegno da mettere in atto (tina oun chre ten epimèleian, ho Socrates, poieisthai?)'~, chiede Alcibiade. Neila lunga risposta di Socrate emerge che questa particolare epimèleia è la cura di sé, al fine di diventare migliori, cura che è inevitabilmente connessa alla conoscenza di sé ("Conosci te stesso"). Ma insieme a questo emerge anche altro, e cioè viene fuori la "condizione di possibilità" di questo "diventare migliori". Questa condizione di possibilità è la koinè boulè, la

53. Platone, Alcibiade I , 119 e 6. 54. lvi, 124 b. 55. lvi, 124 b 2~. 56. loi, 124 b 6. (Trad. it. p. 567).

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decisione comune per diventare migliori57. La mia tesi è che questa esigenza di "comunità", non solo interrompe il piano "pedagogico" per rilanciare quello propriamente erotico, ma iscrive in questo piano una reciprocità che comincia a preparare quella condizione dell'essere "amanti", al cui interno avviene la trasformazione dell'amato in amante e dell'amante in amato e che rinvia all'apparizione improvvisa delle mani dal ramo fiorito attestante il miracoli, stando a Lacan. Sono consapevole, tuttavia, che si potrebbe ancora obiettare che non esiste modello educativo che non implichi una "crescita" reciproca, una modificazione, tanto nel maestro quanto nell'allievo. A questa obiezione tenterò di rispondere esibendo la metabolè tou schematos citata da Socrate alla fine del dialogo, che presenta un'iperbole di reciprocità, una sorta di deriva mimetica che va verso la sostituzione dell'uno rispetto all'altro: elemento che incrinerebbe qualunque sistema pedagogico. Il dialogo fra Socrate e Alcibiade conosce uno snodo e un rilancio significativo nel momento in cui viene accolto che il luogo di sé, e cioè il luogo in cui si è se stessi è l'anima ("non

potremmo dire che alcun'altra cosa è padrona assoluta di noi stessi più dell'anima"58). Ma la centralità dell'anima, cuore dell'insegnamento platonico, è qui interamente funzionale al discrimine fra il vero amante e il cattivo amante. Fra Socrate e la moltitudine. È il caso di seguire il testo in quest'ultima sua parte decisiva. - Dunque, colui che cl ordina di conoscere se stesso cl ordina di conoscere l'anima.

57. Cfr. lol, 124 b 6-11. Essa è detta anche ~tiftesslone comune (skeptècn koinè)" alla linea 124 d 9.

58. lo~ 130 d 3-6. (Tud. it. p. 583).

-Così pare. - E colui che conosce qualcuna delle parti del suo corpo conosce le cose che sono sue (ta autou), ma non conosce se stesso (all'ouchhautòn)~.

Il discrimine fra le "cose proprie» e il "se stesso» viene spiegato tramite un esempio non neutro rispetto alla condizione dei dialoganti: - Se qualcuno è stato amante del corpo di Alcibiade, non amò Alcibiade, ma qualcosa di ciò che appartiene ad Alcibiade. - Dici il vero

- E invece, li ama colui che ama la tua anima? - Sembra inevitabile in base al tuo discorso. - E non è forse vero che colui che ama il tuo corpo, quando cessa il suo fiorire, se ne va? - Non è vero che colui che ama l'anima non la lascia finché prosegue per la via del miglioramento? - Dunque io sono colui che non se ne va (egò elmi ho apiòn), ma resta (allà paramènon) quando il corpo cessa il suo vigore, e tutti gli altri se ne sono andati. - E fai bene, o Socrate; e non andartene (medè apèlthois). - Allora cerca di essere il più bello possibile. - Certo, mi impegnerò00•

La ragione del non allontanamento di Socrate, con cui si apre il testo, ritorna alla fine e si approfondisce con la scoperta della cura dell'anima, che è un impegno che richiede l'intera vita e richiede, soprattutto, un amore a lungo termine; non il fuoco di un giorno di primavera, ma un tempo lungo in cui l'amore

59. loi, 130 e 6-10. 60. loi, 131 e 5-131 d 8. (Trad. it. p. 585).

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si mantiene nella fiamma spenta divenuta cenere. Misuratorispetto a questa capacità, al cospetto di questa tenuta, Socrate risulta, cosl, il vero ed unico amante di Alcibiade: - Le cose dunque stanno cosl per te: non ci fu, a quel che sembra, innamorato (erostès) di Alcibiade 6glio di Clinla, e non ce n'è se non uno solo, ed è uno desiderabile (agapetòs), Socrate 6glio di Sofronisco e Fenarete. -Vero. - Non dicesti che ti avevo prevenuto di poco venendo da te, perché volevi venire tu da me per primo per sapere per quale ragione io solo non me ne andavo? -Eracosl - Questa sola era la ragione, perché io ero innamorato di te (monos erostès en sos), mentre gli altri lo erano delle tue cose (oi d'alloi ton son): e mentre le tue cose smettono il loro momento felice, tu invece cominci a 6orire. E d'ora in poi se non ti lasci guastare dal popolo ateniese e non diventi meno bello, non intendo abbandonarti: infatti questo io temo più di tutto: che tu diventato l'amante del popolo vada in rovina6 1•

La costruzione della sequenza argomentativa dell'ultimo passo (io ero innamorato di te, mentre gli altri dille tue cose... ) si rivela identica a quella della scena del Simposio in cui Alcibiade si contrappone ai molti che vedono solo l'aspetto esteriore di Socrate, maieutica compresa; lui, di contro, vede gli agàlmata nascosti nella sua anima. C'è la soggettività dei molti e, di contro, la sintassi marca la soggettività dell'amante. La differen7.a fra l'uno e i molti è qui trasfigurata nella differenza fra il vero amante e i tanti amanti facenti parte della serie. Il vero amante impone in entrambi i casi la differenza.

61. lo4 131 e -132 a 1-4. (Trad. it. pp.585-587).

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VII Rivelatosi ad Alcibiade come vero amante e incalzato da quest'ultimo che chiede come, praticamente, ci si prende cura dell'anima, Socrate tira fuori la metafora dell'occhio. Ricostruisco in breve il suo ragionamento: se il monito "conosci te stesso" fosse stato rivolto al nostro occhio, a quella parte dell'uomo che è la vista, dunque, come se questa potesse esprimere il tutto dell'uomo, che senso avrebbe avuto l'esortazione? Non avrebbe forse spinto, dice Socrate, "a guardare quella cosa guardando alla quale l'occhio avrebbe visto se stesso?"62. Ora, l'oggetto guardando il quale guardiamo anche noi stessi, questo oggetto fatto come uno specchio, è proprio l'occhio, perché "quando guarda nell'occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio". Questa funzione di specchio, dice Socrate la "chiamiamo anche pupilla (kore ), dato che è come un'immagine di chi guarda (eidoùm on ti toù emblèpontos)'063• Utiliz7.ando una definizione di Jean-Luc Marion concernente lo statuto dell'icona, potremmo dire che la pupilla è lo "specchio visibile dell'invisibile (miroir oisible de l'inoisible)'>64, è cioè il luogo in cui si raccoglie, diventa oisibile, ciò che, sema questa esposizione in altro, resterebbe ali'oscuro, senza oisibilità per sé. Come l'occhio, "se ha intenzione di guardare se stesso (ei mellei idèin), deve guardare in un occhio (eis ophthalmòn autò bleptèon) e in quel punto dell'occhio nel quale si trova a risiedere la virtù propria dell'occhio" 65, e cioè nella pupilla in cui si

62. loi, 132 d 1-9. (Tud. it. p. 587).

63. loi, 132 e 7- 133 a 3. 64. Cli-. J.-L. Marion, Dieu sans l"etre, Puf, Paris 1982, p. 32. 65. Platone, Alcibiade I, 133 b 1-3. (Trad. it. p. 589).

55 raccoglie la vista, allo stesso modo, l'anima, se vuole conoscere se stessa per poter prendersi cura di sé, deve guardare a un'altra anima. E precisamente a quella parte dell'altra anima in cui si raccoglie la saggez:za66• L'anima esprime la vita del vivente, e una volta raggiuntala si apre l'accesso all'intero del vivente, ma questo cuore del vivente è un luogo non solo cavo ma anche inaccessibile; esso si riempie di forme e diventacosl visibile solo quando l'anima si rispecchia in un'altra anima. Questo vuol dire che Platone decostruisce il platonismo, perché l'anima non è il luogo di sé se non nel rispecchiamento cui essa può dar luogo, cogliendosi in un'altra anima. Quel vedere solitario, a parte, nell'invisibile del cuore, che caratteri7.7.ava tanto l'amore di Socrate quanto quello di Alcibiade (fra Al.cibiade I e Simposio), presi separatamente come amanti l'uno dell'altro ma non ancora uno per l'altro, conosce cosl un crescendo di intensità, fino a diventare la condizione dell'intellegibilità del sé di chi guarda. Come dire che vedendo gli agàlmata di Socrate, Alcibiade vede e conosce Alcibiade67• Una traccia di questo era già percepibile nel fatto che vedere le immagini meravigliose dentro Socrate costituiva per Alcibiade un modo per cogliersi nella differenza rispetto agli altri (oi men... ego de). Ma ora è al sé in persona, all'"in quanto talen, al "come talen del sé che mira il discorso, ed esso rivela che l'accesso al sé, alla propria anima, dunque, è un dono ricevuto di riflesso, dal rispecchiarsi di quest'anima nel luogo di sé di un altro, ovvero, nell'altrui anima. Se il sé disponesse già di sé, se l'anima dell'altro intervenisse solo per confermare, per notificare, a questo sé ciò che esso sa

66. Cfr. lt>I, 133 b 6-9.

67. Amare, quindi, per Platone non è solo •uscire da se stessi", come scrive L. Robin ne La teoria platonica dell'amore (trad. it di D. G. Porta, Celuc, Padova 1973, p. 254), ma anche rientrarvi.

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già di essere, e viceversa, potremmo tranquillamente parlare, a proposito di questa relazione, di intersoggettività. Ma posto che in questo rispecchiamento si tratta di "dare ciò che non si ha a qualcuno che non sa di chiederlo", parafrasando Lacan, la nozione di "intersoggettività" si rivela angusta e poco perspicua. Credo che più pertinente si riveli l'impiego di quella di "interdonaztcne", proposta da Jean-luc Marion alla fine di Dato che68 • Inter-donazione vuol dire che ciascuno consente ali'altro di accedere a se stesso nel senso che ciascuno dona ali'altro l'accesso a quel se stesso che l'altro non possiede perché non può essere "avuto" come una cosa fra le cose, come precisa la distinzione fatta da Socrate fra il "tu" di Alcibiade e le "sue cose". L'impiego di questa nozione si rivela utile anche guardando al fatto che il rispecchiamento ammette dei gradi: se infatti la parte migliore dell'anima è uno specchio buono in quanto essa somiglia al dio, che sarà mai rispecchiarsi in quello specchio costituito dal dio stesso, che è "più puro (katharòtera) e più luminoso (l.ampròtera) della parte migliore che si trova nella nostra anima?'>oo. Che l'uomo possa ricevere la propria immagine dal dio, non può essere spiegato ricorrendo alla nw.ione di "intersoggettività", in quanto per il Greco non c'è principio

68. Scrive Jean-Luc Marion: "Questa situazione, ancora inesplorata (l'interdonazione) non pennette e non esige soltanto di riprendere la tematica dell'etica-del rispetto e del volto, dell'obbliga:àone e della sostitu:.done -, e di confermarne la piena legittimità fenomenologica. Forse essa autorixt.a anche ad abbordare ciò cui l'etica non può pervenire: l'individuazione d'altri. Perché io non voglio né devo soltanto considerarlo come il palo universale e astratto della contro-intenzionalità, in cui ciascuno può prendere il volto del volto, ma raggiungerlo nella sua insostituibile particolarità, in cui si mostra come nessun altro altri patrebbe fare. Questa individuazione ha un nome: l'amore". Dato che. Saggio per una ferwmenolo~ della donazione, trad. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001, pp. 394-39.5. 69. Platone, Alcibiade I, 133 e 9-11. (Trad. it. p. 589).

57 comune tra l'uomo e il dio, talmente abissale è la separazione. Ma la separazione può, tuttavia, essere intesa come rapporto. Ora, rispetto alla nozione di "intersoggettività" che suppone un piano di immanenza orizzontale in cui l'uomo e il dio non potrebbero platonicamente venire a trovarsi, la nozione di "interdonazione" consente di salvare tanto la separazione ontica quanto il rapporto con l'incommensurabile. Che l'uomo possa ricevere il suo sé guardando al dio, infatti, non implica che fra l'uomo e il dio venga abolita la differenza, questo radicalim, semmai, il dato centrale dell' epimèleia lieootoù per cui è solo aprendosi alla differenza che l'identità può pervenire a sé. Utilizzare il concetto di "interdonazione" per leggere l'epimè"/eia lieootou vuol dire anche, infine, liberare definitivamente l'eros dell'Alcibiade I dalle due ipoteche: la pedagogia e la politica, alle quali è stato lungamente sottoposto e restituirlo a quello che sin dall'inizio appare essere: un frammento della storia d'amore fra Socrate e Alcibiade, e che alla fine si rivela essere: l'elaborazione di una precisa, radicale, teoria dell'amore. Ora, l'attribuzione al dio della funzione di specchio ha in relazione a questa teoria delle conseguenze rilevanti: la migliore qualità del rispecchiamento consentito dal dio corrisponde infatti a una più produttiva ricettività donatrice della forma del sé altrui. Se leggiamo, come propongo, a partire dal]'eros la dinamica interna dell'epimè"/eia 1ieatltoù, tale per cui l'anima che fa da specchio è quella del vero amante, non possiamo escludere il dio, lo specchio più puro e nitido, dal]'eros. Risulta inevitabile allora ammettere che il dio risulta anche il migliore amante e questa conseguenza logica produce una scheggia che non può non muovere, non innescare una tensione nelle presunte "braccia avare" del motore immobile, rimes-

58 se in gioco dalla configurazione dell'eròmenos 70• La struttura della passività amante di Socrate che diventa lo specchio di Alcibiade chiede infatti di essere riconnessa al dio che realizza al meglio la stessa azione di Socrate. Il fatto che questa azione sia in realtà l'esercizio di una passività, attenua forse il "paradosso" di un "dio amante" per un Greco, ma contribuisce a svelare una dinamica erotica in cui la fissità dei ruoli erastès/ eròmenos subisce una scossa che arriva all'hos eròmenon. Accade infatti che l'eròmenon risulti essere il rruglior amante71• •• Quella reciprocità che cominciava a profilarsi nella koinè baulè invocata da Socrate, che disancorava Alcibiade dai panni dell'eterno allievo, apprendista, sottomesso, si afferma e si lega alla fine a un'iperbole mimetica, con il metabalèin te schema. Ripropongo i due passaggi insieme per mostrare l'accentuazione del secondo rispetto al primo: Socrate: SI ma la decisione sul modo In cui potremmo diventare migliori deve essere comune (koinè boulè). Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un'educazione, riferendomi a te (peri men sou), e a me invece no (peri emoù de ou); non c'è nulla infatti in cui io differisca da te (ou gar esth'hoto sou diaphero ), se non In una cosa. Alcibiade: In cosa?

Socrate: 11 mio tutore è migliore e più saggio di Pericle, il tuo (124 b 8-14).

70.Cfr.p.3. 71. Il coinvolgimento del divino nella visibilità del sé rende molto riduttivo parlare di "retorica della seduzione· a proposito della metafora dello specchio. Per questo non concordo con la tesi di F. Renaud. Cfr. La coMScenza thsé nell'Alcibiade I e nel commento th Olimpiodoro, in Interiorità e anima. La psyché In Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 238.

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• Alcibiade: [... ) io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura (metabalèin tè schema), o Socrate, io la tua e tu la mia (to men son egò, sy dè toumòn); infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro (ou garestin hopos ou paida.goghèso se apò tesM tès hemèros,sy d'hyp'emoùpaida.goghèse).

Socrate: Nobile Alcibiade 72, il mio amore non differirà allora in nulla da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato, sarà a sua volta (palin) oggetto delle cure di quest'ultimo (135 d 7-135 e3. Trad. it. par;:. mod.).

Alla fine del dialogo, è Alcibiade a trarre la conclusione radicale che come una calamita attirava già a sé l'intero. Socrate accetta questa conclusione ritrovandovisi e tirando fuori la storia della cicogna che rincara il senso di una reciprocità finalmente piena, riconosciuta73. La conclusione è che a partire da un giorno decisivo (tès hemèras), da un adesso che ricapitola il senso del loro amore, Alcibiade è come Socrate e Socrate è come Alcibiade74 • Questa identica condizione, raggiunta parità, fa sì che essi possano «scambiarsi la figura", invertire cioè lo "schema" maestro/allievo che ha, come sappiamo, una precisa connotazione erotica nell'idea comunemente accetta-

72. È interessante notare che alla fine del dialogo Socrate riconosce ad Alcibiade quella nobiltà inizialmente ritenuta un pretesto che non favorisce la sua crescita interiore (cfr. 104 a 6-8). Alcibiade ritorna, dunque, ciò che veramente è, dopo la koinè boulè. 73. Secondo un'antica credenza le giovani cicogne prestavano assistenza alle vecchie da cui erano state allevate in precedenza. 74. La teoria dello "scambio di figura" è affidata alle battute di Alcibiade. Ora, di Alcibiade Plutarco dice che per quanto egli fosse straordinariamente bello, forte, intelligente, ricco, altero, nobile, la sua dote veramente incomparabile consisteva nel fatto che "egli sapeva imitare tutto ugualmente bene". Vite parallele, Voi. I, trad. it. di C. Carena, p. 535.

60 ta di "amore platonico". Ma scambiarsi la figura non vuol dire appiattire la differen:za, vuol dire, piuttosto, riconoscere di somigliarsi, di essere entrambi amanti, là dove "amanti" questa volta significa entrambi amati ed entrambi amanti allo stesso tempo, erastài ed eròmenoi, attivi e passivi allo stesso tempo, maestri e allievi allo stesso tempo7lS. Oltre a disambiguare il mito dell'"amore platonico", lo "scambio di figura" induce a riflettere sull'esser-come-l'altro dell'amore e sulle sfide che esso pone a un pensiero della "differen7..a di genere" e della "differen:za sessuale". L'esperien:za di Alcibiade e Socrate mostra che l'amore è sempre amore dell'altro, e poco importa che in questo caso specifico si tratti di una coppia omosessuale - la differen:za, con tutte le sue asperità e i suoi passaggi, è salva in questa storia che in ragione di questo si mantiene a pieno titolo nel!'eterosessualità. Eterosessualità nell'omosessualità. Ma l'amore può fermarsi all'affermazione della differen:za? Lo "scambio di figura" di cui parla Alcibiade include nella differen:za la sostituzione dei ruoli, ma la sostituzione indebolisce ladifferen:za facendo in modo che essa non valga più come un "assoluto" indecostruibile - è nel!'eros, infatti, che la differen7..a si costruisce e si decostruisce. L'eros decostruisce la differen7.a sessuale perché la istituisce sempre da capo; ciò vuol dire che l'amore assegna a posteriori !'a-priori dei sessi a se stessi, e che quindi la differen:za sessuale non gli è preliminare

75. LMhomme du désir" e il "Mattre perfetto" destinali a non incontrarsi mai, per dirla con J. Lacan e B. Moroncini (Cfr. B. Moroncini, op. cit., p. 169), nell'A/,:;biS, ecco perché la dualità, in cui solitamente alberga questa particolare determinazione della differenza, dovrebbe perdere il suo primato e forse anche la sua ragion d'essere di cifra archetipica della relazione. Volendo neutrali7.zare "l'opposizione" per salvare la dissimmetria dentro la differenza sessuale, a Derrida appare congruo rilanciare, allora, un'altra differen7.a "che non sarebbe dualità sessuale, differen7.a come duale»o. Questo rilancio si sviluppa in un tempo lungo, e prende la forma di un viaggio ricchissimo all'interno delle opere di Mallarmé, Levinas, Genet, Hegel, Nietzsche,

5.Alcihiade I, 124 blO- 124 e 1-5. 6. Chorégraphies, cit., p. l 15. 7. J. Derrida, Geschlecht, in Psyché. lnvenzionl dell'altro, Voi. 2, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, p. 37. 8. Chorégraphies, cit., p. 106. 9.lbidem

65 Heidegger, Barthes, Blanchot, che scandiscono anche le fasi dell'avan7.amento della questione. Mi pare importante chiarire, tuttavia, perché affronto questo tema scegliendo come guida Derrida. La risposta a questa domanda contiene qualcosa di scontato: Derrida ha sempre ribadito la marcatura sessuale di ogni discorso sedicente neutro, qualunque fosse la sua provenien7.a. Ma questa spiegazione, che sembra semplice e giusta fino ali'ovvietà, risponde solo in parte alla domanda e rimane sostanzialmente vaga nel fondo. La mia scelta punta piuttosto a mostrare un certo approccio sommerso alla questione della differen7.a sessuale, cui Derrida permette di riaffiorare. La messa in evidenza di questo approccio, che non solo potrebbe annoverare fra le sue condizioni di verificabilità lo "scambio di figuran descritto da Alcibiade, ma anche trovare in esso il suo avvio, mira a riconoscere e a valorizzare una certa ritrazione, la concessione fatta a una neutralità sessuale (né l'uno né l'altro sesso) che precede e accompagna lo scandirsi della differen:za e che si pone dunque agli antipodi del cosiddetto "fallogocentrismon. Dentro questo sfondo, la scelta di Derrida è la scelta per una particolare angolazione di apertura della questione: egli si pone nell'ottica di un superamento della "differenza sessualen e traccia al contempo, ma sen7.a un'esplicita intenzione di raccordo, una piccola contro-storia dell'"altra differenzan, in grado non solo di contenere ma anche di significare e di amplificare il "dato" per me centrale costituito dallo "scambio di figura". Derrida, in breve, articola un discorso sulla "differen7.a sessualen individuando in essa un problema che fa posto a quel tipo di "soluzionen offerta a mio avviso dal "scambio di lìguran. Per questa spaziosità che il suo testo offre al mio tema, per il dono della domanda, il capitolo comincia con lui.

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Non va certo dimenticato che la necessità di ripensare la differen1.a sessuale "indebolendo" anche l'istan1.a identitaria del femminile, in vista di un diverso approccio alla questione del "genere", raccorda fra loro molte fUosofe femministe contemporanee fra le quali spicca il nome di Judith Butler. Per quest'ultima, la marcatura femminile che gli studi di genere hanno ad oggi non deve venire compresa, come nel passato, alla luce di un desiderio di riconoscimento funzionale all'affermazione identitaria del genere femminile ma, posto che, come sosteneva S. De Beauvoir come la Butler stessa accoglie e ripete, "donna non si nasce, lo si diventa", il "divenire donna" deve poter diventare la traccia di un poter "divenire altro" accordabile ad ogni genere, al fine di disfare la pretesa di compiute7.7.ae chiusura del "genere"10• Proprio il paradigma di regolazione del desiderio fornito dal riconoscimento subisce dunque una forte incrinatura perché suppone che l'identità di genere venga a sé, si eriga, per il tramite dell'opposizione a un altro genere già rigidamente costituito e dato come normativo. Ma posto che la normatività di genere è l'impossibile stesso, il riconoscimento viene svuotato del suo senso. In linea con questo tipo di critica dell'identità che non risparmia "il femminile", nella misura in cui quest'espressione indica una posizione raggiunta per opposizione che insiste sulla demarcazione rigida dei generi, il mio lavoro mira alla ricerca delle somiglianze e cerca le differenze all'interno delle somiglianze (fra i generi). Questo ha delle ricadute ermeneutiche evidenti e radicali: la messa in discussione della portata definitoria del "genere" obbliga infatti a prendere inconsiderazione il fatto che non disponiamo più di un discorso filosofico unilateralmente sessuato; non c'è dunque un solo "fallogocentri-

10. Cfr. J. Butler, Que.stione di genere. Ilfemminismo e la soooemone dell'i,. dentità, trad. it. di S. Adamo, Latera, Firenze 2013.

67 smo", quello maschile, non c'è un'esclusione nettamente marcata (e cioè da parte di un genere nei confronti di un altro), non ci sono figure "femminili" da recuperare contro e nonostante una tradizione. Ciò significa dover prendere atto della costante auto-decostruzione del discorso lìlosofico già a partire dalla sua origine metafisica. Ora, l'auto-decostruzione della metafisica contiene anch'essa una sua marcatura sessuale, che a me pare di rintracciare nello "scambio di figura" dellì\lcibiade I, ma va immediatamente osservato, in via preliminare, che questa particolare "marcatura" si presenta già come la decostruzione di una decostruzione . Come la decostruzione, cioè, di quella decostruzione della marca sessuale per la quale non occorre certo attendere l'Alcibiade I, perché essa è operante nel linguaggio, nella letteratura, nel costume che Platone eredita. In cosa consiste questa decostruzione preliminare che sta alla base della seconda e che da quest'ultima viene valorizzata al massimo e al tempo stesso decostruita? In una dislocazione della marca sessuale dal suo luogo naturale di apparizione nel corpo, alla relazione in cui effettivamente essa compare, relazione, questa, massimamente rappresentata dall'eros. Più chiaramente: l'identità dei partner prende la sua connotazione sessuale specifica non dal sesso cui essi sono legati in loro stessi per natura, ma dal "ruolo" e di conseguenza dal nome nuovo che essi assumono nella relazione erotica. Ora, questo nome nuovo che ridefinisce il senso d'essere di ciascuno, questo nome/ruolo che "porta" il genere, nel senso che lo regge e lo manifesta, è quello fornito dalla coppia oppositiva amante/ amato, erastès/eròmerws. Ciò vuol dire che la coppia amante/amato ha il potere di spiazzare la radicazione del rapporto erotico nella differen7.a sessuale naturale e di assorbire in sé e di significare nuovamente il senso delle opposizioni maschio/ maschio, maschio/femmina, femmina/femmina, sospendendo la loro caratteri7.7_.azione naturale e rigenerandone la forma. In forza di questa dislocazione, la "natura" si trova prima neu-

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traliZ7.ata e poi ripresa all'interno di un ordine non naturale che le pennette di vivere di vita (im)propria. Le conseguenze di questa operazione gravano, come vedremo, sia sul discorso platonico sia sulla questione contemporanea della "differen7.a sessuale".

II La portata radicale di questa operazione di Ii-scrittura e di ri-nominazione dell'identità naturale è accostabile a quel che viene descritto in modo efficace e parossistico da Jean Genet, e che Derrida cita in Glas, nello scambio delle voci che caratterizza questo testo senza genere stilistico proprio. Così leggiamo fra le colonne alternate di Derrida/Genet: Si può fare a meno del nome? Distaccato: come il più grande stelo/stile. La ferita, lo slegamento, certo, ma anche la delega(gazione) rappresentativa, l'inviodi un distacco[ ... ] Con questo distacco, rielaborare, come problema della firma autografa, della firma e del nome della made, l'alternativa del formalismo o del biografismo, l'inenarrabile e cosl classico problema del soggetto in letteratura. «Cosi, agli occhi della stordita Notre-Dame, le piccole checche di Bianche a Pignlle perdevano il loro ornamento più bello: i loro nomi perdevano la corolla, come il fiore di carta che il ballerino tiene tra le dita e che, alla fine del balletto, è solo un gambo di ferro. qui il fil di fono, tra le dita sostiene il fiore di carta: nella sua ere-.done e nella sua apparenza, il tempo di un balletto. Ma è anche ciò che rimane quando il fiore cade, ridotto - senza ornamento e senza colore naturale - al suo reale sostegno. E al suo «nome proprio». Le checche perdono il loro ornamento, i nomi la loro corolla, nel momento in cui il guardiano grida i «nomi propri» dello stato civile, chiama, classifica secondo la legge, rid&stri

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buisce i gmeri [corsivo mio]: «... nome: "Berthollet Antoine", e apparve Première Communion, nome "Marceau Eugène" e apparve Pomme d'Api. Cool, agli occhi della stordita Notre Dame, le piccole checche di Bianche a Pigalle, perdevano il loro ornamento più bello». Ritorno alla nominazione naturale, vale a dire alla prima violenza classificatoria, inversione del sesso, reintroduzione del nome che viene come secondo, in pieno rigore tassonomico. Non restano 11 altro che fili •

Per Genet il nome aggiunto, il sopra-nome: "Première Communion", "Pommed'Api", "Notre Dame", appare come il vero nome, quello cioè in grado di manifestare, di enfatiZ7.are, il lembo più vero dell'essenza incerta delle "checche di Bianche a Pigalle". "Première Communion", "Notre Darne", "Pomme d'Api", sono nomi che esprimono un desiderio d'essere che la natura ha infranto o mancato; ora, rispetto a questo desiderio, a questo sogno, che trova il suo unico spazio, la sua libera uscita nel nome scelto, il nome naturale, esprimente il sesso biologico, appare come un tradimento desolante che inchioda a un'espressione dell'essenza, quella naturale, che non viene di certo avvertita come la più vera. È il nome anagrafico, e di conseguenza il sesso naturale, che viene vissuto qui, paradossalmente, come un'inversione secondaria di un "primo" nome e sesso che risulta "primo" non in ordine alla sua apparizione nel corpo, ma in ordine alla sua apparizione nel desiderio. Ora, questo tempo del desiderio, ha bisogno di legarsi a un "artificio" per ricostruire la più vera natura - questo artificio è innanzitutto un nuooo nome - ed esso nomina cosl la natura rifatta, scelta e riappropriata, come per la prima volta. Stando alla metafora del fiore utiliZ7.ata in Glas, questo nome costituisce l'ornamento, la corolla, il bello del fiore; ciò che,

ll. J. Derrida, Gl.as, testo italiano e francese,trad. it. di S. Facioni, Bompiani, Milano 2006, p. 475.

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in breve, rende fiore il fiore e pennette di riconoscerlo "come tale" - anche se qui è evidente che "come tale" implica un disaggiustamento e una disfunzione dell'origine che fa sl che l'essenza debba fare un percorso più lungo per istallarsi, al modo della contingenza più accidentale. "Come tale" risuona qui corretto da un "se": "come se fosse tale". E tuttavia, la violen:r.a che si consuma nel ritorno alla nominazione naturale insiste ancora nello spazio dell'opposizione binaria e anche la novità della corolla e del desiderio di cui è espressione è effimera: è destinata a sfiorire finché nomina la fissità di un'unica differenza - quella stessa che oppone la corolla al suo reale sostegno - il cui fronte può essere capovolto ma non valicato. È ancora nel suo ambito che il desiderio di Pomme d'Api continua a muovere anche se a passo di dan7.a. La sottomissione del carattere sessuale alla dinamica dell'opposizione amante e amato fa ben altro: non capovolge la differenza dei sessi ma la sospende assolutamente per ricostituirla a partire da un altro ordine. In questo senso può dirsi dunque una re-iscrizione e un re-impianto del naturale nel campo dell'"artificio", intendendo quest'ultimo come ciò che consegue a una scelta, dell'arte-fatto, nel senso di ciò che è voluto, del fatto ad arte, per l'ingresso di una finalità che si aggiunge a quella naturale12, ecco perché questa sottomissione acquista il senso di una "secondariz7.azione" della sessualità naturale che riprende solo a posteriori il suo significato di corredo identitario. Il sé più vero, il sesso più appropriato, resta quello donato dall'altro e così guadagnato e non presupposto dalla differen:r.a sessuale iscritta nella natura. Ciò vuol dire che la differen:r.a sessuale non compare mai "come tale", ma sempre all'interno della relazione che la suscita e che le toglie sia il significato di dato "naturale" sia quello di dato "culturale" o genericamente

12. Sul tema del rapporto fra natura e artificio rinvio al mio Im,,ianti. Tecnica e scelta diolta, Mimesls, Milano 2011.

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"sociale" 13• Questa stessa decostruzione che disloca la differell7.a sessuale (dal sesso all'eros) subisce, una volta approdati allo "scambio di figura" dell'Alcibiade I, un'ulteriore radicalizzazione che ha l'aspetto di una sovversione del contenuto di questa prima, fondamentale decostruzione, avente il suo perno nel passaggio dall'essere fornito dalla natura ali'essere amante/amato. La "nuova creazione" dei generi che l'eros produce si apre, infatti, per utilizzare le parole di J. Derrida su cui mi soffermerò ancora, più tardi, "all'atopia e alla danz;a"14, e cioè a quella sostituzione dei ruoli che comporta la sospensione dell'idea stessa di "ruolo" e del nome ad esso legato. Non solo, dunque, l'altro, nella relazione erotica, riscrive il genere cui si appartiene (modifìcandolo o confermandolo), nel senso che sospende o riscrive la natura in un orizzonte più ampio e più congruo ali'essenza, ma lo stesso genere ricevuto, cosl come il nuovo nome, perde anche ogni fissità, perde la "posizione" ed entra in una circolarità mimetica (metabalèin to schema). La posta in gioco diventa allora, per il genere come per il nome, proprio quella di perdere lo statuto di "codice"che tuttavia in un primo momento aveva pur costituito un guadagno - e circolare liberamente da parte a parte. Più che un'inversione, lo "scambio di figura" implica allora una destituzione (dei generi). Alludendo a una medesima, libera circolazione, che non presuppone identità stabili, ma che risignifìca sempre in modo nuovo e all'infinito l'iscrizione della differeni.a sessuale, Mallanné enuncia cosl "l'assioma fondamentale sul balletto":

13. Qui si misura a mio avviso l"inadeguate:aasia della "differenza sessuale" sia della "differenza di genere" che pretendono di cogliere il "luogo" della differenza. 14. Chodgrophies, cit., p. 100.

72 La danzatrice non è una donna che danza, per i seguenti motivi giustapposti: Essa non è una donna, ma una metafora che Jiassume uno degli aspetti elementari della nostra forma, spada, coppa, fiore, ecc. E non danza; ma suggensce per il prodigio di scorci o di slanci, con una struttura corporea, quel che ci vorrebbero paragrafi in prosa dialogata o descritta, per esprimerlo nella redazione: poema affrancato da ogni apparato di scriba... La danza è ali, è fatta d'uccelli e partenze nel per-sempre, di ritorni vibranti come freccia ... Uno degli amanti li mostra all'altro, poi indica se stesso, linguaggio iniziale, paragone. A poco a poco, la coppia subisce talmente l'inHusso colombino, che si vede quell'invasione d'aerea lascività scivolare su lei, assimilarsela perdutamente. Fanciulli, eccoli uccelli, od al contrario da uccelli fanciulli, secondo come si voglia vedere lo scambio di cui, per sempre da quell'istante, lui e lei dovrebbero esprimere il duplice gioco: forse tutta l'awentura della differenza sessuale!...con l'intermez7.o di una festa cui tutto è destinato a volgere sotto l'uragano[... )15•

Lo "scambio di figura" prospettato da Alcibiade a Socrate implica un'analoga intercambiabilità dei ruoli e un analogo trasferimento delle identità: non solo ciascuno diventa il ciascuno che è dentro la relazione/dan7.a e grazie ad essa, ma ciascuno testimoniaeporta in sé anche l'altro. Ciò fa comprendere perché "la danzatrice non è una donna che danza" - ma lo slancio stesso verso altro e il ritorno a sé che si ripete; la venuta a sé nella provenienza dall'altro. Questa libera assunzione dell' eterogeneo che anche per Platone si apre ali' accostamento con la vita dell'animale alato, tant'è che Socrate paragona a quel che avviene fra le cicogne lo scambio proposto da Alcibiade ("Nobile Alcibiade, il mio amore non differirà allora in nulla

15. S. Mallanné, Opere, testi scelti, trad. lt. di F. Piselli, Lerici Editore, Milano 1963, pp. 207-209, citato da Derrida in lA dissemi~ne, Jaca Boole, Milano 1989, pp. 260-261.

73 da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato (enneottèusas èrota), sarà a sua volta oggetto delle cure di quest'ultimo")'6, dà luogo a una mimesis che sovverte radicalmente il paradigma oppositivo da cui l'identità viene vista nascere, esponendo una genesi di quest'ultima dalla somiglianza. Ma questo pur suggestivo passaggio di Mallarmé citato dallo stesso Derrida, che fra l'altro dall'atopia della danza trae una risorsa per il proprio discorso, non ci dice nulla su cosa significa qui somiglianza. È nella pittura di R. Magritte che troviamo il suo concetto. Egli non pensa secondo il modello classico secondo cui homoia sono le cose che hanno affezioni identiche maggiori di quelle diverse, in quanto questo modello pone l'identità alla base della somiglian7.a. Nella sua pittura, invece, un atto del pensiero, tramite l'immagine, si fa somigliante al mondo, agli oggetti. Questa somiglianza non ha dunque niente di ontico ma esprime la ricerca dell'unità fra pensiero e essere tramite immagini poetiche17; essa non è neanche simbolica perché non fonde niente ma lascia piuttosto convenire ad uno, enti che restano nella distinzione. Sostenere che la somiglianza sia un atto del pensiero vuol dire allora spostare il legame fra le cose dal piano naturale a quello del pensiero e del desiderio, ciò significa che forme diverse possono essere riunite e apparentate nella mente e finire per somigliarsi a partire da un legarne che non è nelle ccse stesse ma in ciò che dall'esterno le lega fra di loro. La somiglian7.a è dunque la presa d'atto di un legame che porta l'ente a diventare come un altro ente senza essergli stato mai simile per natura, ecco perché al suo interno la differenza si trova non solo accolta ma anche lasciata essere per quel-

16. Platone,Alcibiade 1, 135 e 1-4. (Trad. it. p. 595). 17. Cfr. R. Magrilte, Scritti, Voi Il, trad. it. di L. Sosio, Abscondita, Milano

2oo.5, pp. 290-292.

74 lo che è: né mediata (e dunque trasformata) né risolta nella forma dell'opposizione. Ciò che determina la somiglianza si nutre dunque della differenza e la mantiene, pena la fine della possibilità, per gli enti, di somigliarsi. Questa mimesis erotica in cui l'amato è come l'amante-a sua volta amante, nel senso che riproduce i tratti di chi lo sta amando - e l'amante come l'amato - a sua volta amato - recupera, d'altra parte, il senso più profondo e positivo di quella particolare mimesis in cui la filosofia consiste per Platone. Propongo infatti di leggere insieme questi passaggi tratti rispettivamente dall'Alcibiade I e dalla Repubblica, in cui la dissimmetria presente nella relazione fra gli amanti dà luogo alla stessa mimesis che in for.za di una ancora più ardua dissimmetria si produce fra il filosofo (l'umano, dunque) e il dio: Alcibiade: Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di

scambiarci la figura, o Socrate, io la tua e tu la mia, infatti a partire da questo giorno non è possibile che lo non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro•••.

Socrate: Infatti Adimanto, chi è davvero rivolto all'essew.a

delle cose non ha neppure tempo di guardare giù verso le vicende umane, e di riempirsi di invidia e di malevolen7.n litigando con i propri simili. Egli vede e contempla oggetti ordinati e immutabili che non si danneggiano a vicenda nn7.I sono tutti ordine e ragione e perciò li Imita e si conforma il più possibile ad essi. O tu credi possibile non imitare ciò a cui ci si avvicina con amore? "No, è impossibile" rispose.

18.Alcibiade 1, 135 d 7-10. (Trad. it. par.t. mod. p. 595).

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"Dunque il lìlosofo, vicino a ciò che è divino e ordinato, diventa, per quanto è possibile a un uomo, ordinato e divino" 19•

Platone ci fa scorgere che all'interno della 61osofìa lavora una mimesis erotica che assorbe l'intera vista del filosofo al punto da distrarlo rispetto ad ogni altro vedere; questa potente distrazione accade perché il desiderio che contraddistingue la 61oso6a non si presenta come un semplice desiderio di sapere che lascia gli enti nell'indifferen:za ontica, ma è un desiderio di conformarst ali'ente che riassume in sé il saputo: il dio; è un desiderio di prendere nuova forma e nuovo essere al cospetto di un altro essere. "Farsi ordinato e divino" corrisponde a "immortalizzarsi" (athanatìzein )''!ti, nel gergo di Aristotele, ma che cos'è questa immortalizzazione se non l'auspicio ad aprire il genere umano, a partire dal desiderio, fìno a renderlo mimetico a un altro genere? E se il "genere umano" può avere un tale desiderio vuol dire che esso non riposa completamente sulla sua essen1..a. Non il semplice desiderio del dio, ma il desiderio di somigliare al dio, è dunque la prova di una dislocazione dell'essen:za analoga a quella che trasferisce la marca sessuale dal corpo alla relazione; se in quest'ultima è l'idea di "genere sessuale" a venire secondariZ?..ato, nella prima è l'intera idea di "genere umano" che mostra di risiedere in una plasticità inclusiva di molte somiglianze e molte trasformazioni.

III A proposito di questa inclusività nel genere, inParages Derrida cita Blanchot, che scrive:

19. Platone, La Repubblica, a cura di G. Lo:aa, Mondadori, Milano 1990,

trad. it. p. 503 (500 b 8-500 d 2). 20. Aristotele, Etica Nicbmachea, 1177b 31-34.

76 Ho incontrato degli esseri che non hanno mal detto alla vita, taci!, e mal, alla morte, vattene! Quasi sempre delle donne, belle creature [ ...] Io ho provato vivendo un piacere infinito e morendo una soddisfazione senza limiti. In questa misura lo sono donna e bella21 •

Così come l'"io" maschile si trova affetto da una "deriva aleatoria" che fa sì che un uomo possa sentirsi "donna" e "bella", allo stesso tempo, "donna" qui è un certo tratto che viaggia da parte a parte e come la dan1.atrice di Mallarmé attraversa sia il sesso maschile che il sesso femminile; "donna" è dunque l'incondizionatezza di un sì alla vita e alla morte che può essere proferito sia dalla donna naturale sia dall'uomo naturale. Questa operazione che disloca la di!Teren1.a sessuale dal piano ontico permette di avvicinare, di "mescolare di generi", come sostiene Derrida, ma permette anche di porre su basi non ontiche la questione della somiglian1.a. Chi avrebbe potuto scorgere, d'altra parte, una similitudine fra Alcibiade e Socrate? Nel suo particolarissimo encomio, alla fine del Simposio, Alcibiade vede Socrate talmente irraggiungibile e atopico che lo scarto da lui awertito alla vista di costui ripropone la distan1.a uomo/dio; la letteratura conferma da parte sua questa distan1.a e ce li presenta come massimamente distanti per bel1eZ7_.a, carattere e statura, eppure Socrate si comporta nell'Alcibiade I proprio come Alcibiade nel Simposio. Vede in Alcibiade le immagini meravigliose e invisibili che si rivelano solo a lui, gli agàlmata che assumono ora la veste di "belle speranze" segrete, così come nel Simposio Alcibiade elogia il "suo" Socrate, quello che sa farsi serio e tacere rivelando solo a lui il suo vero profìlo. La particolarità della visione che l'uno ha dell'altro sta nell'invisibilità: l'uno scorge nell'altro l'identica invisibilità, ciò che resta segreto allo

21. J. Denida, Parages, Galilée, Paris 1986, pp. 279-280.

77 sguardo dei più. Nel passaggio finale dell'Alcibiade I questo mimetismo acquista anche un tono iperbolico di sostituzione (dell'uno con l'altro): Alcibiade sembra dire che a partire dalla potem:a di ricapitolazione dell'ora della promessa ("da questo giorno") da cui prende avvio la temporalità erotica, l'uno prende il posto dell'altro e le identità si aprono e comunicano lìno a confondersi ("A!kJra dico così. Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura, o Socrate, io la tua e tu la mia ... "). Questa potente sostituzione illumina, certo da un'angolazione particolare, che è quella dell'eros, il senso difficile della massima: "Ama il prossimo tuo come te stesso". È Derrida a metterci su questa strada. Nell'ambito della sua incursione nel testo hegeliano, in Glas, egli scrive: "L'opposizione tra i contrari (universalità/particolarità, oggettività/soggettività, tutto/ parte), si risolve nell'amore. L'amore non possiede altro: ama il tuo prossimo come te stesso, il che non implica che tu debba amarlo quanto te. Amare se stessi è «una parola senza senso» (ein Wortohne Sinn). Amalo piuttosto come qualcuno che (als einen) è te o «che sei tu (der du bist)». È difficile stabilire la differenza fra i due enunciati. Se amare se stessi non avesse alcun senso, cosa vorrebbe dire amare l'altro come qualcuno che sei tu? o che è te? Non si può amarlo che come altro, ma nell'amore non c'è più alterità, solamente Vereinigung. È il valore del prossimo (Niichsten) che, qui, spariglia l'opposi:zione dell'Io e del Tu come altro'>22.

La massima ed il commento estremamente sensibile di Derrida toccano indirettamente un nodo cruciale: quello della "divisione", in seno all'amore, fra eros e agape. Levinas non avrebbe dubbi a leggere in questa massima un vertice dell'etica e, del resto, la "sostituzione", è per lui la conseguem:a di quella

22. Glas, pp. 318-322.

78 custodia dell'alterità che pur mantenendo intatta l'eterogeneità dell'altro diventa assunzione di un'iperbolica responsabilità: essere l'uno per l'altro23• Jean-Luc Marion, al contrario, vi leggerebbe l'unica forma dell'amore, che sospende, mettendola fuori gioco, la differenza fra amore passionale ovvero eros ed amore caritatevole, ovvero agape, in quanto la logicadell'amore resta per lui la medesima e alberga, stabile, in tutte le sue svariate manifestazioni 24• Sappiamo che Levinas ama la lacerazione ma non la contaminazione quella contaminazione che invece Il fenomeno erotico di Marion richiede come chiave di lettura. L'attenzione di Derrida, proveniente dalla concentrazione su Hegel, si sofferma sulla parte più aporetica dell'enunciato: amare il prossimo rome se stessi. Posto che non avrebbe senso estendere ad altri il proprio narcisismo all'insegna di un'elargizione al prossimo dell'amore di sé, il rome se stessi resta problematico nella misura in cui il "come" viene inteso come un "quanto". In questo caso la massima sembrerebbe invitarci ad amare il prossimo con quella stessa "quantità" di amore che riversiamo già verso di noi; né più e né meno, essa rivelerebbe l'economia del tanto/quanto. Ma posto che amare se stessi è, come ricorda Derrida, "una parola senza senso", ed è oltretutto impossibile, direbbe Pascal, perché il sé è odioso e ingiusto, che senso dare allora ali'espressione "come se stessi"?Tenutoconto di questo corto-drcuito, nel "come se stessi" dovremmo leggere, seguo il commento di Derrida, il "come qualcuno che è te", "come qualcuno che sei tu": tu come un altro, quindi; ovvero, tu che diventi un altro. Mal'esser come l'altro, il sentire l'altro come sé, che l'amore richiede nel suo mirare alla Vereinigung (e vedremo in seguito

23. Cli-. E. Levinas, Altrimenti che essere o aie.li là dell'essenza, trad. it. di S. Petrosinoe M. T. Aiello, Jaca Boole, Milano 1983. 24. Cli-. J.-L. Marion, li fenomeno erotico, trad. it. di L. Tasso, Cantagalll, Milano 2007.

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quanto Derrida sia legato a quest'analisi hegeliana che in Glas egli sembra percorrere invece con circospezione), sembra allo stesso tempo scalfire '1'opposizione dell'Io e del Tu come altro"; come se la prossimità, che scaturisce del resto dall'amore e che non è semplicemente l'oggetto che gli sta di fronte - quasi che lo schema di lettura dell'enunciato fosse: ama tu (soggetto)! chi? - il prossimo (oggetto) - potesse infine togliere da mezzo proprio quell'alterità dell'altro, che è il motivo da cui proprio l'amore si origina. Ecco che su questo versante aporetico in cui l'opposizione che consente il riconoscimento dell'altro viene inquietantemente "sparigliata" dalla prossimità, il riferimento all'Alcibiade I torna per me perspicuo. La sfida teorica che proviene dallo "scambio di figura" mette in fuga proprio il pericolo di una certa "fusione" liquidatrice delle differenze, in quanto l'esser-'20. Il ritrovamento di questa condizione paritaria elettiva sembra chiudere la partita dell'amicizia dalla parte della virtù, come se il seguito della trattazione non dovesse essere che un'apologia dell'amicizia virtuosa in cui da parte a parte circola la medesima virtù. Ma la posta in gioco presto si alza e rimette tutto in discussione. Vale la pena di sottolineare che proprio nello spazio dell'annuncio di questa condizione

19. Cfr. EHca Nicomachea, 1156 b 12-25. 20. lvi, 1151 a 2-4. (Trad. it. p. 111).

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paritaria dell'amicizia perfetta, si prospetta anche il punto di massima lontananza da questa condizione. Questo punto è costituito dalla situazione dell'amante e dell'amato: le amicizie sono massimamente durature quando identico è ciò che ad ogni parte viene dall'altra - ad esempio piacere-; e non soltanto questo, ma viene anche dalla medesima fonte come ad esempio fra persone faeete -, e non come tra amante (=tè) e amato (eromèno). Costoro infatti non godono delle stesse cose (ou gar epì tois autois hedontai outoi), bensì l'uno del vedere l'amato (o mèn horòn ekèinon), l'altro dell'essere l'oggetto delle cure dell'amante (o dè therapeuòmenos hypò tou =toù)21 •

L'eros si costituisce immediatamente come il luogo di massima lontanan7.a dalla condizione "esemplare" dell'amicizia, perché contrariamente ad essa non c'è uguaglianza né proporzione all'interno della relazione che esso prospetta. Gli amanti non godono delle stesse cose e quindi forse, stando ad Aristotele che sembra il precursore di Lacan, non godono affatto, se ciò che fa veramente godere è la condizione di reciprocità che proviene dall'essere pari, uguali; dallo scambiare la stessa moneta. In forza del suo dar luogo alla forma più violenta di irreciprocità nella relazione, l'eros manifesta allora il cuore irreciproco dell'amicizia; la specie che del genere manifesta, senza edulcorarla, la natura aporetica. Esso mostra senza veli ciò che la philìa scongiura, aggiusta e corregge indefessamente: il fatto che ciascuno chiede ali'altro ciò che questi, proprio perché altro, non può esaudire; in questo modo l'eros non chiude ma anzi alza il sipario sulla differenza in atto: Gli amanti a volte appaiono ridicoli quando reputano d'essere giusto d'essere amati come essi amano (axiountes phùeisthai hos philcùsin). Se fossero amabili allo stesso modo si dovrebbe senz'altro ritenerlo giusto (homoios dèphiletoùs ontasisoo

21. lv~ 1157 a 3-S.

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axiotèon), ma poiché non hanno niente di siffatto è ridicolo

(1TIIUibidè toicùton echontas ghelèicn)U.

I..:Etica Eudemia conferma questa inquietante assen7.a di uguagli= che implica la difficoltà di scorgere il giusto: Sono molte le lamentele che nascono nelle amicizie tra coloro che non sì pongono esattamente sullo stesso piano (me kat'eutyorìan), e non è facile vedere ciò che è giusto (tè dika-ion idèin ou radwn ). Infatti è difficile misurare con una sola unità (metresai henì) ciò che non si colloca sullo stesso piano, come accade nelle relazioni amoroset:1.

L'eros prospetta quindi, sin da subito, la condizione difettiva paradigmatica da cui la phi& deve essere salvatafA, esso non espone una difettività qualunque, ma la difettività per eccellenra che l'amicizia deve scongiurare per tendere alla sua forma perfetta. Ancora di più, la tenuta di questo telos sembra dipendere dalla fo17.a di un tale scongiuro. Benché siano molte le specie imperfette di amicizia, che tuttavia per analogia possono essere ricondotte all'amicizia esemplare attraverso l'introduzione di un correttivo proporzionale che permetta di mantenere la somiglian7..a con quella?."S, l'amicizia fra amante e amato resta la manifestazione più acuta e insidiosa dell'irreciprocità che minaccia l'amicizia, un'irreciprocità che però, come vedremo, insidia costantemente l'amicizia dall'interno, rendendo insicuro il suo nocciolo di reciprocità. L'imperfezione dell'amicizia fra amate e amato non espone, dunque, solo la sua parziale difettività di caso fra tanti altri di amicizia imperfetta, ma offre il contro-esempio di ciò che appuntopara&gmaticamente scalfisce il telos stesso della perfe22. It>i, 1158 b 15-19. (Trad. it. p. 731). 23. Etica Eudemia, 1243 b 15-18. (Trad. it. p. 35.5). 24. Cfr. Etica Nicomachea, 1163 b 11-12. 25. Cfr. ivi, 1158 b 11-28.

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zione cui l'amicizia tende (telèi.a philìa). Ciò che èparadossale è che questo contro-esempio non alberga lontano dall'amicizia, in una distanza di sicurezza, ma anzi costeggia la philìa da presso, entra in una mimesis con essa, presta ad essa alcune delle sue condizioni strutturali: come l'esiguità numerica dei veri amici che vira verso la rarefazione dell'uno (che è la condizione propria dell'eros) e la condizione di vita in comune, di mescolanza di vita (syzen), che è anche questa appannaggio precipuo dell'eros. Le analogie insomma non mancano, e la stessa definizione dell'eros come "iperbole dell'amicizia" viene fuori, è il caso di dire, nello spazio di un "come" che non espelle, ma che anzi trattiene, la somiglianza fra eros e philìa: Non è possibile essere amico di molti secondo l'amicizia perfetta, come non è neppure possibile essere Innamorati di molte persone allo stesso tempo (l'amore infatti assomiglia a un eccesso [hyperbolè), e una determinazione di questo genere si rivolge naturalmente verso una sola persona)'6.

Ancora nel libro IX questa analogia viene ripresa a partire dall'esigenza di ipotizzare il numero degli amici in relazione alla vita di intimità, al con-vivere ~ùn) che l'amicizia richiede come sua condizione peculiare: Non è forse che, come per gli amanti (hosper tois eròsi) il vedere l'amato è la cosa più cara ed essi scelgono questa sensnzione più delle altre, nella convinzione che è soprattutto secondo questa che vi è e nasce l'amore, cosl (hos) anche per gli amici il vivere in intimità (syzèn) è la cosa più desiderahile?27

E ancora: Insomma, è senz'altro bene non cercare di avere il maggior numero possibile di amici, ma tanti quanti sono sufficienti a vivere in intimità, giacché tutti ammetteranno che non è

26. fo~ 1158 a 10-13. (Trad. it. p. 725). 27. fo~ 1171 b 29-32. (Trad. it. p. 823).

neppure possibile essere intensamente amico di molti. Per questo motivo non è neppure possibile essere innamorato di molti: l'amore vuol essere infatti una sorta di eccesso d'amicizia (}iyperbolè gartis einai bouletaiphù¾as), e questo è verso una sola persona. Pertanto anche l'essere intensamente amici sarà verso poche persone!S.

L'eros, dunque, porta ali'eccesso, con il suo volere per uno solo, lo stesso limite che la philìa riscontra nel non poter rivolgersi a molti secondo la sua forma perfetta e il suo ideale di vita in comune, ma i "pochi" dell'amicizia risentono di quella rarefazione che nel caso dell'eros riconduce allK'uno". Come lo stesso Aristotele finirà per osservare, infatti, le grandi amicizie restano prevalentemente amicizie di "coppie" di amici; questo contribuisce a dare all'"eccesso" che caratteriZ7.a l'eros una sfumatura di senso più legata al genitivo soggettivo (hyperbolè tès philìas) che al genitivo oggettivo (hyperbo'/è tès phifias), una connotazione, cioè, indicante più il fatto che l'iperbolizzazione erotica appartiene all'amicizia, è propria dell'amicizia e di essa è rivelativa, che non il semplice fatto per cui all'estremo dell'amicizia si trova l'eros come eccesso liminare, impazzimento evitabile, isolabile. Ma se l'iperbole è connaturata alla struttura dell'amicizia come tendiamo a mostrare, se non esiste un grado positivo di amicizia, occorre allora ritornare concettualmente sulla definizione aristotelica dell'eros e intendere diversamente l'espressione "iperbole dell'amicizia". Ciò che va innanzitutto compreso è che c'è una forma particolare di amicizia, quella costituita dal]'eros, per cui Aristotele conia l'espressione "hyperbo'/è tes philìas", che pur urtando contro la condizione sostanziale dell'amicizia perfetta in cui vige la proporzione e pur ponendosi in netto contrasto rispetto all'impianto generale dell'etica aristotelica, secondo il quale la hyperbo'/è è il vizio opposto alla elletpsis 28. loi, ll71 a 10-13. (Trad. it. p. 817).

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(questi estremi permettono infatti di comprendere cosa sia la virtù etica), dice la verità sull'amicizia nella sua forma generale. L'iperbole, allora, è dell'amicizia (genitivo soggettivo) in generale, ma posto che c'è un'amicizia particolare alla cui definizione Aristotele associa l'iperbole, l'amicizia particolare assurge a schema dell'intera amicizia. Da ciò consegue, ancora, che se in un primo tempo poteva andare da sé che l'amicizia erotica esprimesse una difettività in rapporto alla forma perfetta dell'amicizia, nel momento in cui questa particolare amicizia difettiva diventa lo schema dell'amicizia in generale, la natura di questa "difettività" inevitabilmente cambia, perché una "difettività" estesa a tutta l'amicizia diventa una "regola" per l'amicizia. Una "regola" scongiurata, temuta, a causa del suo portarsi dentro un'asimmetria problematica che tuttavia si rivela ineliminabile, malgrado gli sforzi di Aristotele. Ma andiamo con ordine, cercando di recensire le aporie più vistose dell'amicizia la cui presa in conto ci spinge a rivedere la forma del rapporto fra eros ephilìa a partire dalla definizione in cui Aristotele le apparenta e le distingue. Questo è infatti il primo obiettivo di questo lavoro.

IV La prima tappa della sproporzione al fondamento di amicizie strutturali per la comunità, non ancora definibili eterogenee (come quella fra amante e amato) dunque, appare con il rapporto fra genitori e figli. Qui comincia a farsi strada quel "niente in comune" (oudèn koinòn)20 che minaccia l'amicizia dall'interno e che l'eros ha la for.za di esporre in tutta la sua

29. Cfr. it>i, 1161 b 3.

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drammaticità sotto una condizione per cosi dire, trascendentale. "I genitori", scrive Aristotele, sanno che i loro Ggli vengono da loro più di quanto coloro che sono stati generati sanno che derivano da quelli, ed il principio da cui procede un essere è unito come a cosa propria all'essere che è stato generato più di quanto l'essere che è derivato è unito ali'essere che l'ha fatto. Ché, l'essere che deriva da un principio appartiene come cosa propria al principio dal quale deriva (ad esempio un dente, un capello o qualunque altra cosa appartegono come cosa propria a colui che li possiede), invece il principio dal quale un essere deriva non appartiene per nulla come cosa proplia ali'essere che ne è derivato, o vi appartiene di meno30•

Lo stesso principio lega in modo diverso i due lembi della generazione: il generante e il generato, il medesimo legame, dunque, e per di più quello in cui la fo17.a della natura si esprime con più vigore, non lega allo stesso modo. Questo getta sulla "superiorità" ("l'amicizia verso i genitori è per i 6gli - e quella verso gli dei è per gli uomini - come un'amicizia verso un essere buono e superiore, giacché essi hanno fatto loro del bene in cose grandi"31 ) e sull'impossibilità di rendere il dono ricevuto che ne deriva, un'ombra di impoten:za, come se una lacuna ontica impedisse una parità d'amore, a causa del suo acuire da una parte e allentare dall'altra, la dinamica della relazione. Questa condizione di sproporzione fra amicizie "secondo natura" permane anche nell'amicizia fra marito e moglie. La vita "di coppia" è prima della vita politica, e per l'uomo, diversamente dall'animale, essa va ben oltre l'ordine della procreazione, dice Aristotele:32, arrivando a includere 6nalità intrinseche alla coniugalità in cui brilla "il comune"

30. loi, 1161 b 20-25. (Tud. it. p. 751). 31. lvi, 1162 a 4-6. (Trad. it. p. 753). 32. lvi, 1262 a 17- 23.

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tanto ricercato, e non di rado anche baciato dalla virtù. Ma tutta questa potenzialità di risorse impatta contro il dato che il vero collegamento (syndesmòs) che di fatto lega la coppia preservandone l'unione è quello costituito dai figli. Ora, i figli costituiscono un tipo di vincolo comune che riporta sul fronte dell'oggettività indipendente e altra dalla coppia, quella piacevolezza, utilità e virtù immateriali che sono invece ad essa immanenti, ma che hanno però il difetto di non durare: È opinione comune che i 6gli costituiscono un vincolo; per questo i coniugi che non hanno 6gli si dividono più rapidamente. I 6gli Infatti sono un bene comune ad entrambi, e ciò che è comune tiene unlti 33•

La superiorità naturale del genitore e quella "culturale" del marito, in questi tipi di amicizie, mette in gioco un "di più", una sproporzione, che non può essere riassorbita dalla natura che la produce, come accade invece nel caso di situazioni di possibile eterogeneità nelle amicizie. Quando questa si riassorbe senza problemi ("chi è migliore ritiene sia conveniente a sé avere di più, giacché a chi è buono è conveniente che sia assegnato di più"34 ) accade che l'oggettività del merito "stabilisce l'uguaglianza e salva l'amicizia"35, ma si dà il caso che il merito stesso sia estromesso nel caso di eterogeneità strutturali, codificate dalla natura delle cose. Il caso più eclatante di questa messa fuori gioco del merito è costituito dalla relazione con gli dèi ("che eccellono di gran lunga per tutti gli altri beni")36. Aristotele dice che benché non ci sia nulla che fissi il limite rispetto al quale si cessa di essere amici, tuttavia l'accrescimento eccessivo della distanza fa finire l'amicizia;

33. 34. 35. 36.

lv4 1162 a 27-29. (Tra.d. it. p. 755). lv~ 1163 a 25-27. (Trad. it. p. 763). lv~ 1163 b 11-12. (Trad. it. p. 765). lo~ 1158 b 35-36. (Trad. it. p. 731).

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ora questo accrescimento eccessivo della distanz.a è costituito proprio dall'"ingresso» del dio nella relazione degli amici. Aristotele non esita a de6nire aporetica questa situazione37 in cui si produce una contraddizione di non poco conto rispetto alla prescrizione contenuta nella telèia philìa, secondo la quale il vero amico non cessa di desiderare il meglio, i più grandi beni, per l'amico, quel meglio che, fra l'altro, egli desidera anche per sé, in nome di quella comunione d'intenti ("giacchè l'amico è un altro se stesso (esti gar ho phiÙJs allos autòsf]38 che caratterizza l'amicizia dei buoni. Ora, se questo "meglio" fra tutti i beni (ta meghista tòn agathòn) per l'amico prende la forma della possibilità per lui di diventare un dio (theoùs einai), questo stesso fa cessare l'amicizia. Non potendo sostenere questa sproporzione assoluta, l'amicizia deve ammettere delle precise condizioni di possibilità e vincolarsi ad esse; Aristotele non tarda adire, infatti, che l'amico vorrà per l'amico i beni più grandi, ma a condizione che resti un uomo (anthropo dè onti boulèsetai tà meghista agathà)39• Questa tesi è evidentemente aporetica non solo perché sembra contrawenire alla tesi del "volere il meglio per l'amico", limitando le possibilità di espressione di questo stesso "meglio" con il rifiuto della sua "sommità" che proprio "I'essere dio» incarna, ma perché si scontra con quell'idea di "immortalizvizinne" (athanathizein) che costituisce il cuore dell'etica aristotelica ("Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente, essendo uomini, a cose umane e, non essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell'individuo, è la più alta»)~. Come 37. Cfr. ivi, 1159 a 6. 38. lvi, 1166 a 31-32. (Trad. lt p. 785). 39. lvi, 1159 a 10..11. 40. loi, 1177 b 31-34. (Trad. it. p. 867).

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scrive P. Aubenque: "L'amicizia tende a consumarsi nella stessa trascendenza cui essa aspira; al limite, l'amicizia perfetta si distrugge dasé41 • Da qui l'attestarsi dell'amicizia nell'esclusivo campo del possibile (tè dynatòn)42, nel finito, nell'umano, nel limite, dunque. Ma non va dimenticato che, d'altra parte, da Aristotele viene anche un invito, di gusto kantiano, a volgere la finitezza a "prendersi cura" (therapèuein) della sproporzione che tuttavia non governa e non comprende. Questo in qualche modo riconcilia le cose: Pertanto è cosl che gli amici di condizione diseguale devono frequentarsi, e quello che riceve un vantaggio in denaro o in virtù deve dare in cambio onore, rimettendo ciò che può. Ché l'amlcl7.ia ricerca (epizetèi) soltanto ciò che si può (tò dynatèn), non ciò che è propomonale al merito. Infatti [questo] non è neppure possibile in tutti i casi, come in quello degli onori verso gli dei ed i genitori: nessuno infatti potrebbe mai rendere loro ciò che meritano, ma chi se ne prende cura secondo la sua possibilità (eis dynamin ho therapèuon) è, a gtuclizio cli tutti, persona virtuosa"".

V La ricerca della proporzione (tò arùilogon), che imponendo una misura comune (koinòn metron) salva l'amicizia, e che nel caso dell'amicizia politica contempla l'uso della moneta appunto per misurare e rapportare ogni cosa ad ogni altra, co-

41. P. Aubenque, Sur l'amitfé chez Aristate, in La prudence chez Aristate,

Puf, Paris 1963, p. 180. 42. Cfr. Etica Nioomachea, 1163 b 15. 43. fo~ 1163 b 12-18. (Trad. it. p. 765).

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nosce il suo punto di massima incrinatura nell'amicizia degli amanti: Invece [Invece rispetto alla proporzione, al merito, alla misura, al prez:r.o e alla moneta, di cui alcune amicizie si servono) nell'amicizia amorosa (en tè de erotikè) talvolta l'amante muove accuse di non essere corrisposto (ouk antiphilèuai) nell'amore, mentre egli ama ardentemente - anche nel caso che non abbia nulla di amabile (oudèn eclum philetòn), se cosl gli è capitato (ei outos etuchen). Dal canto suo spesso l'amato rimprovera che, dopo aver avuto in passato tutte le promesse, ora non ne vede assolta nessuna (oudèn epitelèi)...

L'eros sembra situarsi nel punto di massima lontananza da quel principio di proporzione, merito, misura, che l'amicizia o raramente espone, nel caso in cui la virtù degli amici si impone (sia pure in mezzo ad aporie quali l'ingresso del dio nell'amicizia), o cerca di ristabilire "politicamente", cercando di dare a ciascuno il suo e ottemperando all'eterogeneità. Esso sembra addirittura for.t.are il principio stesso da cui si genera la possibilità dell'amicizia rispetto ad almeno tre "infrazioni", tre negazioni, che contravvengono allo statuto della phflìa e che si evincono in questo passaggio del testo appena proposto. 1) La prima è la percezione della non corrispondenza che nell'eros può venire acuita, la percezione, cioè, di una nonreciprocità (ouk antiphilèitai) che, ancora più insidiosamente che se fosse assoluta (chiudendo la partita), può essere vissuta all'interno di una relazione di cui la reciprocità è un tratto costitutivo anche se non fondamentale (anche l'inanimato e il morto possono essere oggetto d'amore). Di contro, sappiamo che proprio la reciprocità è condizione fondamentale dell'amicizia ("Ed è quando ricambia (antiphilè) l'amicizia che riceve che uno diventa amico, e quando questa reciprocità non rimanga, per una qualche ragione, nascosta (mè lanthàne) ai 44. loi, 1164 a 2-6. (Trad. it. par..: mod. p. 7fff).

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due")"S. Uno dei volti dell'aporia nell'eros ha dunque la forma dell'awertimento, in seno alla reciprocità, dell'irreciprocità più completa e a volte anche dolorosa. Ma, come vedremo a breve, non tutta l'irreciprocità che è in gioco nell'eros ha il carattere della promessa mancata qui rappresentata da Aristotele, ma una certa irreciprocità che viaggia fìno all'hos eròmenon costituisce una risorsa di cui "prendersi cura" come Aristotele invita a fare in altro contesto, a proposito della sproporzione "intrattabile" costituita dall'impossibilità di rendere ai genitori e agli dei. 2). La seconda infrazione, ancora più insidiosa, apparentemente presenta la negazione, da parte dell'eros, del principio fondatore della concezione aristotelica dell'amicizia, secondo cui l'amicizia è la risposta all'atto che l'amabile, il philetòn, nella sua ampia gamma di manifestazioni, esercita sui viventi. Anche chi non ha nulla di amabile (oudèn echon philetòn), nella misura in cui ama, può essere amato (e chiedere di essere amato) in un tempo forse più breve, ma ad un tempo. Non è possibile spiegarsi questa contraddizione se non facendo leva su ciò che discende dalla distinzione fra il "tu" e "le tue cose" dell'Alcibiade I, e cioè sul fatto che l'amore eccede l'ordine della visibilità oggettiva e del valore, non perché cieco - Socrate mostra infatti di vedere chiaramente l'assenza di amabilità in Alcibiade (Alcibiade I), cosi come Alcibiade mostra di vedere chiaramente i guasti che l'io ipertrofìco di Socrate procura al suo cuore (Simposio). Anche in questo secondo caso, pur con le dovute differenze, non c'è nulla di "oggettivamente", neutramente, amabile, ma l'eros disloca il philetòn, in qualcosa di misterioso e invisibile la cui manifestazione è interamente affidata a chi di essa diventa, grazie alla sorte (ei outcs etychen), il destinatario. Gli agàlmata che Socrate vede in Alcibiade nell'Alcibiade I e Alcibiade vede in Socrate nel Simposio, testi di cui abbiamo proposto nel Primo 45. Etica Eudemia, VII, 1236 a 14-15. (Tud. it. p. 303).

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Capitolo una lettura congiunta, sono visioni che non hanno nulla di oggettivo perché sono immagini prodotte dall'amore di qualcuno che ha il potere di rivelarle grazie alla sua capacità di accedere al "tu" inaccessibile dell'altro. Inaccessibile allo sguardo comune, cioè non amante, non vedente. Che chi non possiede nulla di amabile possa essere amato, conferma a centrano ciò che Aristotele intende negare e attribuire solo ali'amicizia dei buoni: e cioè che l'eros possa accedere ad un amore dell'altro in quanto altro, in quanto "proprio lui" (kath'®tò). Se non ha nulla di amabile, infatti, l'amante di cui Aristotele parla all'inizio del libro IX dell'Etica Nicomachea, in nome di cosa ha acquisito lo statuto di amante? Si potrebbe rispondere: in nome del semplice fatto di amare qualcuno (condizione che manterrebbe intatta la sua non amabilità, posto che fra l'altro ci è nota una certa rigidità nei ruoli dell'erastès e dell'eròmenos), ma posto che Aristotele parla di una corrispondenza difettiva che resta pur sempre una corrispondenza ("talvolta l'amante muove accuse di non essere corrisposto [ouk antiphilèitai] nell'amore, mentre egli ama ardentemente") è legittimo chiedersi che cosa giustifica lo statuto di amante in qualcuno che non ha nulla di amabile. Se l'essere amante non dipende dall'amabile - che si dispiega per Aristotele nei regimi dell'utile, del piacevole, del bene46 - deve necessariamente derivare, sia pure a partire da una conferma paradossale, dallo stesso ordine da cui scaturisce l'amicizia dei buoni, e cioè dal regime di assoluteZ'l.a del "tu", altro rispetto alle "proprietà" che da esso si dipartono; deve derivare, cioè, da quella stessa inoggettivabilità che è in gioco nell'amicizia fra i buoni. 3) La ter7.a infrazione del canone dell'amicizia sembra colpire pro-

46. Anche se, rispetto al piacevole e all'utile, che esibiscono ragioni oggettive per essere amici, il bene, come abbiamo in parte già mostrato, è il luogo in cui nasce l'amore del -ru· indipendente dalle "proprietà" di questo 'Tu", e quindi esso costituisce il fondamento dell'amicizia meno oggettivante.

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prio la definizione dell'amicizia "sostanziale", la telèia phi'lùz; lo si evince dal fatto che Aristotele dice che l'amato lamenta, dal canto suo, una sfasatura temporale in cui si produce una lacerazione dell'intenzione erotica ("Fu molti anni fai ed al presente/ di l,ei non so più nulla/ di l,ei che un tempo mi era tutto/ ma tutto se ne oo" B. Brecht): le promesse fatte in passato (proteron), ora (nun) giacciono incompiute, non portate a termine, spezzate nella finalità che dava loro rango di promesse. La rottura di questa finalità (oudèn epitelèi) in cui le promesse trovavano la forza di reggere l'awenire, implica l'impossibilità di una unificazione del tempo nell'anima: il passato resta il tempo delle promesse, il presente mostra il loro sbiadire e questa spez7;itura divide chi la vive. Di contro, l'amicizia virtuosa è quella in cui l'intenzione, la proairesis, ("è questa che fa l'amico e la virtù")47 si mantiene salda, senza bisogno di motivazioni estrinseche valevoli come supporti. Ciò implica la lunga durata dell'amicizia e l'erezione del tempo presente a tempo unico perché riunificante in sé, senza alcuna frattura, il passato e il futuro. Proaìresis può essere considerato il nome di una promessa compiuta, e cioè mantenuta, nel suo stesso statuto di promessa; una promessa che non teme il tempo perché la sua mira intenzionale ha il potere di attraversarlo e di neutralizzarne l'alea.

VI Resta l'eros a margine di tutto questo, come Aristotele sembra rappresentare? Una certa assenza di "garanzie" - l'eros non ha fondamento nella natura; né nell'ente mosso né in quello immobile, ma nella scossa che sospinge questi ultimi l'uno

41. Etica Nicomachea, 1164 b2. (Trad. it. p. 771).

134 verso l'altro, come sostiene Platone nel Simposio, che lo pensa già sen1.a terreno - sembra autorizzare la sfiducia nei suoi confronti, eppure niente più di una finalità non garantita da alcun fondamento oggettivo rende il fine perseguito ammirevole pur nella sua fallibilità. Ancora una volta nell'Alcibiade I, la cui traccia sostiene questo lavoro nel suo insieme, questa condizione si trova rappresentata. Si tratta del passaggio finale del testo, quello in cui, nelle parole di Alcibiade, viene fuori lo "scambio di figura" cui questo lavoro è appeso in tutte le sue parti, ma che presenta una sfumatura legata alla temporalità: Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci la figura (metahaùin tò schèma), o Socrate, io il tuo e tu il mio; infatti a partire da questo giorno [ corsivi nostri] (apò tesde tes hemèros) non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro"". A partire da questo giorno qui, indica il sopraggiungere di un diverso rapporto al tempo, il tempo affrontato, attraversato, e dunque in qualche modo dominato, a partire, più che dalla semplice promessa, dalla "decisione comune" (koinè boulè) di diventare migliori insieme, espressione massima dell'eros di Socrate'0 nel momento in cui sopraggiunge l'intesa relativa alla conosceni.a di sé come requisito fondamentale per affrontare gli obiettivi che Alcibiade si appresta a perseguire. La decisione, per esprimersi ha bisogno di investire sul tempo, e rende gravido il suo ora (apò tesde hemèras) di eternità. Si tratta dello stesso ragionamento che Kant esprime magnificamente ne La religione entro i limiti della sola ragione, quando parla dell'"uomo nuovo", colui che ha abbandonato "l'intenzione cattiva", owero, calando il suo discorso nel nostro, colui che ha

48. Platone, Alcibiade I, 135 d 7-10. (Tnd. it. par-.l. mod). 49. Cfr. ivi, 124 b 8.

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assunto stabilmente un'intenzione buona (diventare "migliori insieme", come Socrate propone ad Alcibiade e come Alcibiade reoepisce). L'"uomo nuovo", dice Kant, empiricamente è sempre lo stesso uomo "meritevole di punizione", e cioè cedevole, tuttavia, "nella sua nuova intenzione" egli è "moralmente un altro uomo davanti a un giudice divino, per il quale

l'intenzione ha più oalore dell'atto, e cioè aooiene perché l'uomo nuovo ha accolto entro sé questa intenzione~. Al di là del diverso contesto e dell'intervento del "giudice divino" che fa la differen:za, Kant contempla il caso in cui l'intenzione viene svincolata dall'idea di una difettività bisognosa di "riempimento" o di "atto", di "effettività", il caso cioè in cui l'intenzione si affranca dalla verifica che il tempo, spesso massacratore delle intenzioni, può costituire. Qui l'intenzione basta a se stessa e requisisce il tempo, al punto che l'ora della sua introduzione nel cuore vale quanto il sempre. Allo stesso modo, lo "a partire da questo giorno qui" di Alcibiade, stabilizza la contingen:za dell'eros. Se per un verso l'eros costituisce il punto di massima lontanan7.a dalla philìa, per altro verso va preso atto che questa distan:za cresce nello spazio di una somiglian:za fortissima che fa pensare che fra Platone e Aristotele avvenga una vera e propria dislocazione di tutto ciò che era ritenuto appannaggio dell'eros nella philìa; questo dato è significativo non solo in negativo perché attesta che in qualche modo Aristotele cerca una riconversione dell'eros, ma anche "in positivo" perché ci fa comprendere che la philìa aristotelica, pur nel suo tentativo di affrancarsi dall'eros o forse proprio a causa di questo stesso affrancamento, rivela un nucleo erotico originario che sorregge la necessità, già rappresentata, di ritornare sull'espressione

50. I. Kant, I.A religicne entro i limiti della sola ragione, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano p. 189.

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"hyperholè tes philìas". L'occorrema per verificare questa dipendema è data dalla questione dell'amicizia verso se stessi, che appare sin da subito un concetto aporetico. Secondo l'Etica Nicomachea "tutti i sentimenti di amicizia nascono dal rapporto di sé con se stesso (ap'autoù) e in seguito si estendono verso gli altri (kaì pros tous allous dièkei)'>S 1; l'Etica Eudemia, invece, introduce il dubbio su una tale provenien7.a Alcuni[ ... ] sono dell'avviso che ciascuno sia soprattutto amico di se stesso e, servendosi di questo criterio, giudicano l'amici7.ia verso gli altri amici; ma rispetto sia ai ragionamenti sia a ciò che si ritiene caratterizzi gli amici, alcuni elementi sembrano essere in opposizione, mentre altri sembrano essere simili. Infatti questa amicizia esiste in qualche modo per analogia (katà analoghìan), non in assoluto (haplòs d'ou)52•

Il problema è costituito dal fatto che l'essere amico e l'essere oggetto di amicizia presuppongono due soggetti distinti che bisogna riportare all'interno dell'amicizia verso se stessi, che è fatta da un soggetto unico. Aristotele risolve questo problema dicendo che l'anima è duplice e l'uomo virtuoso tendendo alla parte nobile e razionale, mostra appunto una "tensione amicalen verso il meglio che toglie ogni ombra di "egoismo" a questo andare verso se stessi53 e riconferma l'unità del soggetto (eis kaì autòs autò agathòs)54• Ma ciò che rende l'amicizia verso se stessi un tema interessante ai fini del nostro discorso è il fatto che Aristotele non solo dice che l'uomo virtuoso "nei rapporti con l'amico (pros dè ton philòn) sta come nei rapporti con se stesso (Jwsper pros autòn) (giacché l'amico è un altro se stesso

51. Etica Nicomachea 1168 b 5-6. (Trad. it. p. 801). 52. Etica Eudemta, 1240 a 9-14. (Trad. it. 53. Cfi-. ioi, 1240 b 14-20. 54. Cfi-. iol, 1240 b 19.

p. 331).

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[o philos allcs autòs ])'>ss, ma che "l'eccesso dell'amicizia assomiglia ali' amicizia che si ha verso se stessi (he hyperbolè tès philìas tè pros autòn homoioùtai)~. Ha forse dimenticato Aristotele di aver utilizzato l'espressione "eccesso dell'amicizia" a proposito dell'eros, e per più di una volta, in modo da non lasciare intendere che fosse casuale? Se "l'eccesso di amicizia" fosse di una sola specie, se il significato di questa espressione fosse, come ci sembra, interamente requisito da un solo fenomeno: l'eros, in riferimento al quale esso compare per la prima volta, che significato avrebbe sostenere che l'amore "assomiglia all'amicizia che si ha verso se stessi"? In altre parole, in che rapporto sta l'eros (inteso come relazione duale) con l'amore di sé? Malgrado l'assoluta laconicità del testo aristotelico, che non aggiunge alcuna riga di spiegazione a questo accostamento, il rapporto che esso designa è tutt'altro che peregrino. Il legame fra la dimensione dell'eros e la conoscel17..a di sé è già venuto fuori nell'Alcibiade I, dove è intestato al tema della "cura di sé". Lì, come abbiamo già visto, la metafora dell'occhio sanciva la dipendenza dal]'altro in relazione alla possibilità di approdare alla conoscenza di sé. Ora, nell'Etica Nicom.achea, l'amicizia verso se stessi, pur mantenendo al suo interno la questione della conoscenza di sé - perché solo nel virtuoso che conosce la parte dell'anima verso cui è bene tendere (essere amico), questo tipo di amicizia può albergare - mette in gioco, accanto alla conosce117.a, anche l'amore di sé. Se, infatti,il virtuoso, oltre o forse grazie alla conoscel17..a approda anche ali'amore di sé, se conoscendosi si vuole anche bene (il virtuoso è infatti colui che è "oggetto di desiderio" per se stesso [autòs autò phìlos kaì orektòs]), e cioè approva felicemente il suo esistere, come viene detto nell'Eti-

55. Etica Niccmachea, 1166 a 29-32. (Tud. it. p. 785). 56. lo~ 1166 b 1-2. (Trad. it. p. 785).

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ca NicomacheaS1, bisogna capire in che modo questa amicizia verso se stesso non si traduce in una mossa liquidatrice dell'amicizia con altri, a causa della perfezione, dell'autosufficienza raggiunta dal virtuoso, la cui virtù costituisce un elemento di somiglianza e di elevazione al divino, la cui autàrkeia - di cui il pensiero che pensa se stesso è una traccia - è, d'altra parte, prevalentemente letta come rottura della relazionalità e come una forma di autoreferenzialità:'58. Il virtuoso presenta quindi la stessa aporia che concerne il dio che è "pensiero di pensiero»: L'individuo di questa natura vuole trascorrere il tempo con se stesso, giacché piacevolmente fa questo; infatti i ricordi delle cose che ha compiuto gli sono dolci e per ciò che riguarda le cose future le sue speranze sono quelle di un uomo dabbene, e le speranze di questo genere sono piacevoli e nel pensiero abbonda di oggetti da contemplare. Soprattutto con se stesso egli prova dolore e piacere, giacché è la medesima cosa che gli è sempre dolorosa e piacevole, e non una volta una cosa, un'altra volta un'altra. Infatti, per cosl dire, non sa che cosa sia il pentimento50•

VII Per il virtuoso come per Dio, si tratta, insomma, di fare i conti con il rischio del narcisismo. Ma questa ipotesi cade, perché, nel caso dell'uomo, persino là dove più fortemente il sé fa blocco con sé, e cioè nel caso dell'autàrkes, anche in quel caso

57. Questo legame inedito fra conoscenza di sé e amore di sé è un dono dell'arnici:àa. Cfr. Etica Eudemia 1240 b 19, Etica Nicomadiea, 1166 a1166 b2. 58. Cfr. T. De Koninck, La -Pensée de la pensée~ chez Aristote, in La questlcnde Dleu selcn Aristote et Hegel, Paris, PUF 1991, pp. 69-151. 59. Etica Nicoma,;;hea, 1166 a 23-29. (Trad. it. p. 785).

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la conoscenza di sé resta legata ali'opera dell'amicizia, quindi dell'altro, che aiuta il sé a pervenire a sé. Nella Grande Etica questa tesi conosce uno sviluppo particolare che ci riporta direttamente ali'Alcibiade I rinsaldando, cosl, quel nesso fra eros e philìa che mostra di mantenersi malgrado la sua spezzatura. Aristotele utiliZ1.a, infatti, lo stesso schema di Platone che nel Primo Capitolo abbiamo descritto ricorrendo alla nozione di "interdonazione"60 per descrivere il sé che viene a sé: Poiché dunque, il conoscere se stessi (gnonai autòn), come hanno detto alcuni tra i sapienti, è la cosa più difficile, ma anche la più piacevole (infatti è piacevole conoscere se stessi), noi non siamo capaci di conoscerci a partire da noi stessi (autoi men oun autoùs ex autòn ou dynàmetha theàsasthai) (e che noi non siamo capaci di conoscere noi stessi risulta evidente dal fatto che rimproveriamo gli altri sen7.a accorgerci che facciamo le stesse cose; questo, poi, avviene o per benevolen7.a o per passione; infatti a molti di noi capita di essere accecati e di non giudicare rettamente); come, dunque, quando vogliamo vedere la nostra faccia la vediamo guardandoci allo specchio (hosper oun hotan thelmnen autòi autòn tò prosopon hidèin eis tò katoptron hemblèpsantes eidmnen), allo stesso modo quando vogliamo conoscere noi stessi potremmo conoscerci guardandoci nell'amico (hcrrwws kaì hotan autòi autoùs boulethòmen gnonai, eis tòn philon hidòntes gnorisaimen an); infatti l'amico è, come abbiamo detto, un alter ego (ho philos heteros egò) Se, quindi, è piacevole conoscere se stessi, e non è possibile conoscerci sen7.a un altro che ci sa amico, l'individuo autosufficiente avrà bisogno dell'amicizia per conoscere se stesso01 •

Che I'autàrkes, e cioè colui che è massimamente raccolto in sé e padrone di sé, abbia bisogno dell'amico per conoscere se stesso, trascina anche l'amore di sé che dalla conoscenza di sé 60. Cfr. Capitolo I, p. 54. 61. Grande Etica, 1213 a 14-27. (Trad. il p. 86).

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è inseparabile (questo legame è proprio l'opera della philìa) - e che di certo all'autàrkes non può mancare perché costui possiede tutte le perfezioni - in quella dipendenza dall'altro descritta dalla metafora dello specchio. Ma che cos'è un amore di sé proveniente dall'amore dell'altro, radicaliZ7.ando cosi, a partire dall'eros, la tesi che l'Etica Eudemia sembra inizialmente contrapporre all'Etica Nic.omachea ("questa amicizia [l'amicizia verso se stessi) esiste in qualche modo per analogia [con quella verso gli altri), non in assoluto")62? Nient'altro che l'ammissione di una riconciliazione con il narcisismo, forse il suo superamento. Se, "come ci si rapporta a se stessi (pros heautòn), così (outc) ci si rapporta anche all'amico (pros philon)»63, va da sé che è possibile rapportarsi a se stessi rapportandosi all'amico - tesi del resto espressa dalla metafora dello specchio della Grande etica. Ma ciò vuol dire allora, che, grazie ali' amico, nel rapporto a "sé" si rompe quel circuito autoreferenziale che è alla base del narcisismo e il sé guadagna, grazie all'altro, la libertà di un ritorno a sé che non soffre più dei limiti descritti dalla Grande etica ("noi non siamo capaci di conoscerci a partire da noi stessi. .."). Amare se stessi nell'altro ("egli vede se medesimo nell'innamorato come in uno specchio (hosper en katòptro) ma non lo sa""f'A, amarsi grazie ali'altro, ali'amico, diventa cosi la conquista della philìa, ma questa conquista capitale si attua in uno spazio argomentativo che riporta la philìa nel circuito dell'eros. Alla fine del perì philìas Aristotele dice che gli amici virtuosi "diventano migliori (beltìous) esercitando l'amicizia e correggendosi a vicenda. Infatti si modellano (apomattontai)

62. Etica Eudemia, 1240 a 13-14. (Trad it. p. 331). 63. Etica Nlccmachea, 1171 b 33-34. (Trad. lt. p. 823). 64. Platone, Fedro, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, p. 111 (255

D6).

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gli uni sugli altri"65• Nell'Alcibiade I. quando Socrate comprende che Alcibiade ha recepito la necessità di un•educazione del proprio sé, comincia contestualmente ad abbandonare il ruolo del pedagogo e con esso lo "schema" maestro/discepolo, che nell'"amore platonico" ripete lo schema amante/amato. La decisione di "diventare migliori", dice Socrate, "deve essere comune" (koi-nè boulè)66: Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un'educazione, riferendomi a te, e a me invece no; non c'è nulla infatti in cui io differisca da te67•

La necessità di diventare migliori insieme si accresce progressivamente, ammettendo anche l'ipotesi di un pensiero comune ("riflettere insieme" [skeptèon koi-nè])68, fino al punto che il progressivo saldarsi di questo "insieme" conduce allo "scambio di figura", il cui accadere è prodotto dall'accrescimento di quella homowsis che ritroviamo anche nell'idea di "modellellarsi" l'uno sull'altro, di cui parla Aristotele come culmine dell'amicizia (il perì philìas, fra l'altro, si conclude cosl).

VIII

Apertura su una questione Ma cosa comporta accettare che l'eros offra la figura alla philìa? Sicuramente la riduzione di quello iato fra i due che si esaspera quando si arriva alla questione del motore immobile, che appare come il punto di massima lontanaw.a fra eros e 6.5. Etica Nicomachea, 1172 a 11-13. (Trad. it. p. 825). 66. Cfr.Alcibiade I, 124 b 8.

61. lv~ 124 e 1-2. 68. lv~ 124 d 9.

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phi"lùflO. Se la philìa è per Aristotele tutta protesa all'attivo, contrassegnata più dall'amare che dall'essere amati, e questo primato dell'attivo diventa per essa un vanto70 , Dio, al contrario, sembra spezzare lo schema reciprocalista e mutualista operante nella philìa facendosi pensare a partire da un'azione assolutamente irreciproca che imprevedibilmente riabilita quella condizione secondariz,-,ata e forse anche disprez,-.ata nellaphilìa, cioè la condizione dell'amato, dell'eròmenos. L'inversione dello schema dell'amicizia che proponiamo, attraverso la nuova configurazione dell'iperbole dell'amicizia, in cui è paradossalmente affidata all'eros la forma propria della philìa, ha l'ambizione di fornire uno squarcio di intellegibilità alla questione del motore immobile in quanto lws eròmenon. Considerare l'iperbole costituita dall'eros non come un eccesso marginale ma come il cuore dell'amicizia, vuol dire spingere l'amicizia a fare i conti più sostanzialmente e meno accidentalmente con la dissimmetria che l'eros comporta: questa maggiore familiarità con il dissimile71 implica la possibilità di 69. A questo proposito J. Derrida scrive: "Eros e Philla sono appunto movimenti; non abbiamo qui una gerarchia e una asimmetria inverse? Primo Motore e Atto Puro, Dio mette in movimento senza muoversi e senza essere mosso, è il desiderabile o il desiderato assoluto, analogicamente e formalmente al posto dell'amato, quindi dal lato del morto, di ciò che può essere inanimato senza smettere di essere amato o desiderato. Diversamente da ciò che accade nell'amicizia, nessuno contesterà che quest'oggetto assoluto del desiderio si trova anche al principio e al culmine della gerarchia naturale, pur non lasciandosi muovere o smuovere da nessuna attra:àone". Politi,. che dell'amJciZia, trad. it. di G. Chiuraz:à, Raffae llo Cortina, Milano 1995, pp.20.21.

70. Cfr. Etica N!comachea, 1159 a 27. 71. Nel Llside Platone offre un interessante spunto a riguardo di questo tipo di "familiarità". Egli sostiene infatti che se il simile (homoios) coincide con il proprio (oikelon) non è semplice disfarsi dell'aporia che attraversa l'amicizia, concernente il fatto che il simile è inutile al simile. Ma se il simile viene distinto dal proprio, se viene valorizzato questo scarto, questa risultante dif-

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dare un senso preciso, fruibile, non troppo urtante la fìsionomia dell'ente mosso, all'irreciprocità che contrassegna il movimento del motore immobile in quanto eromenon. L'eros, pennette infatti di collocare all'interno di una trama che resta relazionale, l'irreciprocità, e di renderla signifìcante all'interno della relazione. Va fatto osservare, a questo proposito, che l'amore reciproco nasce nella separatezza delle intenzioni; il principio dell'amore reciproco alberga nella solitudine che non cessa di fare i conti con la possibilità dell'irreciprocità che può riguardare tanto il principio dell'amore quanto la dinamica della relazione. Questa solitudine essenziale è a principio dell'eros e questo sostiene Lacan quando dice che la mano che spunta dal bel ramo è il "miracolo", e cioè qualcosa che resta al di fuori da ogni attesa o previsione72• La stessa "solitudine" la vivono rispettivamente Alcibiade e Socrate quando l'uno scorge nell'altro le "immagini meravigliose" (agàlmata) o le "belle speranze" di cui ciascuno è depositario. Malgrado l'irreciprocità riveli una separazione che si installa proprio al cuore di ciò che riunifìca, tale spezzatura resta comunque la spe7.7.atura in/di una relazione; questo resta vero anche quando l'irreciprocità in questione indica non tanto la sproporzione positiva da cui nasce l'amore ma anche quella negativa in cui l'amore finisce. Alla luce di questo diventa legittimo chiedersi: 1) Come può la semantica dell'eros, che torna nel libro XII della Metafisica attraverso la metafora dell'hos eromenon, essere completamente privata della sua qualità relazionale e pretendere di indicare, isolare e preservare, la separatezza dell'eròmenos fuori dal quel circuito relazionale che essa implica sempre e comunque nell'ambito umano, ambito che fra ferenza pennette di comprendere cosa sia l'amico (El men ti tò oikèicn tou homòlu dtaphèrei, legoimen an ti, hos emòi dokèi, o Lysi te kai Menèxene,

peri philon), Listde, 222 b 3-5. 72. Cfr. Capitolo 1, p. 26.

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l'altro in Lamda è richiamato e connesso al modo d'essere di Dio73? 2) E, al contempo, come liberare l'irreciprocità che è in gioco nel Dio "Jws eròmenon dall'insidiosa metabolè che fa sì che l'amante possa diventare "un altro uomo» non più in grado di "mantenere i giuramenti e le promesse fatte'..,•? Raccogliendo gli elementi fomitici dal percorso fatto potrebbe essere tentata una simile risposta: in quanto eròmenos, il dio aristotelico amplifica quell'aspetto di irreciprocità che è contenuto e custodito nell'inizio di ogni eros umano e che si genera dalla/nella visione dell'amato nella separazione dall'amato (è dall'amato che parte il "flussod'amore»7lS [imeros] che fa dell'amante un amante, ma l'amato non lo sa). Ma mentre l'irreciprocità nel caso dell'eros umano conosce anche la possibilità che l'altro possa diventare "un altro" e spezzare di fatto il legame, possibilità sapientemente descritta da Platone nel Fedro, l'irreciprocità dalla parte di Dio qualifica l'incommensurabilità solo positiva di un amato che resta distante sotto il segno di una sproporzione (quella di un Tu divenuto segno assoluto) che arricchisce e riunisce piuttosto che separare. Questa distam.a, pur restando a garanzia di una separate7.7.a strutturale del principio dell'amore, che nel caso del Dio raddoppia in quanto Dio è anche l'origine separata del movimento, per quanto doppiamente incolmabile ed incommensurabile, resta una distan:za nella prossimità e induce a pensare la stessa continuità onto-teo-logica in Aristotele a partire dalla spe7.7.atura che la sostan:za immobile comporta (111ede11ùa arché koinè). Si tratta di comprendere che in quanto amato Dio non può che essere parte di una relazione. La contro-parte è qui, evidentemente, il mondo, che dal suo semplice darsi è mosso. 73. e&. Aristotele, Metafisica, A, 1075 a 6-10. 74. Platone, Fedro, 241 a 7~. (Trad. it. p. 71).

15. lvi, 255 e 1.

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Il mondo è quindi, aristotelicamente, l'ente-mosso-in quantoamante. Ma come ignorare, a questo punto - dopo aver compreso (per via analogica) ma anche salvato (assolutamente) l'irreciprocità positiva di Dio - che la logica dell'eros impone la trasformazione dell'amante in amato e dell'amato in amante? Come ignorare lo "scambio di figura" che altrove Aristotele ammette, sia pure affidandolo alla debole autorità di un "oome sembra"76? Sembra, infatti, che il sapiente sia "il più gradito agli dei" (theophilèstatos) "per il fatto che come sua attività esercita l'intelletto ed ha cura (therapìa) di esso"; ora, se si ammette che gli dei possano esercitare la propria cura (epimèleia) verso le cose umane, allora è inevitabile che essi rivolgano i propri favori (chairein) alla parte migliore degli uomini, quella a loro più congenere (synghemstaton)11• È abbastan7.a significativo che Aristotele utilizzi il verbo chairein per indicare i benefici degli dei verso gli uomini, verbo che non è ignoto al vocabolario erotico greco. Ma ciò che in questo passaggio stupisce è il finale. Si sostiene, infatti, che gli dei benefichino coloro che non solo esercitano ma anche amano e onorano più di ogni cosa la parte migliore di essi, perché proprio questa parte è agli dei cara. Vale la pena di rimettere in sequenze l'intero passaggio che conosce un progressivo crescendo: 1) Colui che come sua attività esercita l'intelletto e ha cura di esso sembra sia versare nella condizione ottimale che essere il più gradito agli del (theophilèstatos ). 2) Se infatti da parte degli del vi è q ualche preoccupazione (tis hepimèleia ton anthropinon) per le cose degli uomini, come comunemente si crede, sarà anche ben logico che essi rivolgano i loro favori (chairein) alla parte più eccellente dell'uomo, owero a quella che è congenere (synghenèstato) a loro e (questa sarà l'lntel-

76. Cfr. Etica Nicomachea, 1179 a 25. 77. Cfr. ioi, 1179 a 22-32.

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letto), 3) e che benefichino (anteupoiein) in cambio coloro che la amano pil) di ogni cosa (agapòntas malkita touto) e la onorano, giudicando che si prendono cura di ciò che a loro è caro ed agiscono in modo retto e bello. 4) Ora, che tutte queste caratteristiche siano presenti nel grado più alto nel sapiente, è evidente. Egli è dunque la persona più cara agli dei. Ed è naturale che questa persona sia anche la più felice. Di conseguen7.a anche in questo modo il sapiente sarà sommamente felice78•

L'azione amante degli dei sembra raccogliersi tutta in questa particolare rillessività dell'amore umano da loro concessa e a loro gradita 3): un poter amar(si) se stessi in ciò che di se stessi è amato anche dagli dei Oa parte migliore, l'intelligen1.a); ciò non solo conferma la sconfìtta del narcisismo, ma di questa sconfitta offre anche la ragione. Gli dei hanno a cuore coloro che amano e onorano ciò che, in loro stessi, fa spazio ad altro dal loro sé mortale, coloro che si amano là dove sono più di ciò che essi sono, quantitativamente e qualitativamente. Là dove, in breve, si è già dischiuso uno spazio di somiglian1.a (homoicsis) e di comunaTl7,a (lwinonìa) che Aristotele spinge verso la synghèneia.19, la congenericità. Gli dei concedono dunque agli uomini di amarsi. Nello spazio di questa riflessività elargita come un dono, che nella misura in cui è donata da altri rifugge ogni auto-referenzialità, compare il loro amore e, per gli uomini, la vita felice.

18. Etl.ca Nicomachea, 1179 a 2.2-32. (Trad. it. p. 8Tl). 79. lvi, 1179 a 26.

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Indice

Introduzione

p.13

Capitolo primo

Alcibiade maggiore. LA decisione comune e le scambio di figura

p. 23

Capitolo secondo

Verso "un'altra differen:t,a sessuale"

p.63

Capitolo terzo

Iperbole dell'amicizia

p. 109