Liszt o il giardino d'Armida 8870631796, 9788870631791


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Italian Pages 128 [130] Year 1996

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Liszt o il giardino d'Armida
 8870631796, 9788870631791

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Biblioteca di cultura musicale

Improvvisi 7

Grafica di copertina: Marco Rostagno

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta deu editore © 1993 E.D. T. Edizioni di Torino 19, via Alfieri - 10121 Torino ISBN 88-7063-179-6

PIERO RATTALINO

LISZT o IL GIARDINO D’ARMIDA

Indice

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Parte prima: Liszt prima di Liszt

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Parte seconda: Lisztomania

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Parte terza: Liszt come Liszt

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Parte quarta: Liszt dopo Liszt

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Nota bibliografica

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Indice dei nomi

Per Leslie Howard

Parte prima: Liszt prima di Liszt

1. La televisione, anche quando mandava in Italia i suoi primi vagiti, aveva già compreso che i giochi a premio sarebbero stati il suo più corroborante nutrimento. Ci fu così un periodo di sperimentazione, precedente al boom di Lascia o raddoppia?, durante il quale si sussegui­ rono piccoli tentativi che non lasciarono traccia. In uno di questi i telespettatori videro una legione di concorrenti che, per accedere al gioco vero e proprio, dovevano risolvere un semplice cruciverba. Il presentatore che lo propose lo definì «facilissimo». E in verità le definizioni navi­ gavano effettivamente sul sempliciotto. Eppure... Due parole-chiave del cruciverba dovevano essere incatenate: «Gran­ de musicista ungherese autore delle rapsodie» e «Antica popolazione del Messico». Provi il cortese lettore, senza sbirciare il frontespizio, a scrivere le due parole, e forse cascherà lui pure nella trappoletta. La soluzione giusta è: LISZT, AZTECHI, con la z come lettera di incrocio. In quel lontano gioco televisivo tutti i concorrenti risolsero sì il cruciverba, ma quasi .tutti scrissero LISTZ e ATZECHI, con la t in comune. E così la bonaria eliminatoria si rivelò, alla prova dei fatti, micidiale. Il nome dei Liszt era in realtà List, come ce n’erano e ce ne sono moltissimi in Germania. Il nonno di Liszt (o forse il padre, ritiene Alan Walker), entrato al servizio dei principi ungheresi Esterhàzy, non dovet­ te tardare ad accorgersi che la 5 veniva pronunciata in Ungheria come se e che per avere la s sorda si doveva scriverla sz. Così si passò dal List al Liszt, da pronunciare Li-s-t, sebbene nell’atto di nascita di Franz, in latino, il cognome sia scritto secondo la grafia tedesca (i genitori di «Franciscus» sono «List Adamus, ovium Rationista principis Esterhàzy et Lager Maria Anna»). La inconsueta forma grafica, se mise a posto i Liszt che erano andati a vivere nella provincia ungherese, guastò le uova nel paniere al Liszt che divenne cittadino del mondo: non è infrequente neppur oggi, ma era

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Liszt o il giardino d’Armida

frequentissimo nel secolo XIX che il nome Liszt fosse alla fine pronun­ ciato Lizz e, spesso, scritto Listz o Litz. Nessun problema invece per gli ungheresi: oltretutto, in ungherese “liszt” significa “farina”. Il nonno di Franz Liszt visse fino a ottantanove anni, si sposò tre volte ed ebbe venticinque figli. Ed era così gagliardo che il nostro Franz si trovò con ben quattro zii più giovani di lui: l’ultimo nato, Eduard, sarebbe diventato consigliere legale di Franz, e per evitare imbarazzi si sarebbe presentato in società come cugino invece che zio del suo celebre nipotino, di lui maggiore di sei anni. Esistenza umanamente ricca e assai travagliata, quella del nonno; ma Franz lo conobbe appena e non ne fu influenzato, anche se qualche genealogista potrebbe far risalire all’avo la propensione del Nostro per il bel sesso. Profondissima fu invece l’influenza del padre. Adam Liszt era stato assunto a Eisenstadt, al servizio dei principi Esterhàzy, dapprima per breve tempo verso il 1790, poi dal 1798; aveva anche partecipato, un po’ come violoncellista in orchestra e un po’ come basso nel coro, alle esecu­ zioni musicali che a Eisenstadt si tenevano ogni giorno, vi aveva cono­ sciuto Hummel, Cherubini, Beethoven; vi aveva, forse, giocato a carte con il vecchio Haydn ormai pensionato. L’l 1 gennaio 1811 Adam sposò Anna Lager, nata nella Bassa Austria. La coppia si stabilì nel villaggio chiamato Raiding (Doborjàn in unghe­ rese, ma attualmente sotto la sovranità austriaca), perché Adam era stato promosso ispettore delle greggi - ovium rationista — degli Esterhàzy in quella zona. Il che giovò alla sua carriera ma non ai suoi gusti, essendo Adam Liszt pazzamente innamorato della musica; e nei palazzi degli Esterhàzy, a Eisenstadt e a Esterhàz, di musica se ne faceva moltissima, mentre pochissima se ne faceva a Raiding. Gli Esterhàzy avevano avuto per lungo tempo al loro servizio Joseph Haydn; dal 1804 era stato loro maestro di cappella Johann Nepomuk Hummel, che venne licenziato, proprio nel 1811, per scarso attaccamen­ to alle sue funzioni. E Adam Liszt ammirava moltissimo Hummel, già allievo di Mozart e di Clementi e uno tra i maggiori pianisti-compositori del tempo. Toccava proprio ad Adam mettere al mondo chi avrebbe eclissato e Hummel e ogni altro pianista passato, presente e futuro. Nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1811 nasceva a Raiding Franz (Ferenc, in ungherese): in quella notte compariva la grande cometa. Dell’infanzia di Franz sappiamo ben poco. Sappiamo che la musica cominciò a studiarla con il padre, che nell’estate del 1819 venne condot­ to a Vienna e sottoposto al giudizio di Carl Czerny, astro emergente della didattica, e che il 21 settembre fu ascoltato dal principe Esterhàzy, dal quale il padre sperava di ottenere una licenza (oggi diremmo una “aspettativa con assegni”). Nell’ottobre del 1820 il ragazzino si presentò a Òdenburg, nel corso

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Parte prima: Liszt prima di Liszt

di una serata di un flautista cieco, il barone von Braun, eseguendo il Concerto in mi bemolle maggiore di Ferdinand Ries e improvvisando su temi suggeriti dal pubblico. Il 26 novembre si presentò a Bratislava. Sei nobili ungheresi — usava spesso, e l’usanza sarebbe durata ancora a lungo, nella felix Austria-Ungheria - gli garantirono una pensione di seicento fiorini all’anno per sei anni, Adam ottenne l’agognata aspettativa - senza assegni - e la famigliola si trasferì a Vienna. La scelta di Vienna era quasi obbligata, perché la capitale imperiale distava solo novanta chilometri da Raiding e perché era una delle grandi metropoli in cui si decidevano i destini della musica. Adam Liszt deside­ rava agganciare Hummel, che effettivamente era allora, escluso Clemen­ ti, la più alta autorità in fatto e di concertismo e di didattica ed uno dei quattro o cinque leader internazionali della composizione pianistica. Il costo di una lezione di Hummel si rivelò però troppo elevato per le tasche di Adam, che doveva mandare avanti la famiglia con i risparmi e con la pensione dei sei nobili ungheresi. Così, Adam Liszt si rivolse di nuovo a Carl Czerny, che costava molto meno perché aveva appena trentun anni, che non era un esecutore famoso e che non era famoso neppure come didatta, ma che lo sarebbe diventato in breve... anche per aver insegnato al fenomenale Liszt. Dopo dodici lezioni, Czerny rinun­ ciò al compenso pattuito con Adam Liszt, che accolse questa decisione come una vera benedizione, perché più volte si era trovato con le tasche asciutte e con il rischio di dover riprendere il suo servizio di ovium rationista a cui erano affidate le sorti di cinquantamila montoni, invece di vegliare sulla fanciullezza di un genio. La scelta di Czerny fù felicissima. Czerny era un mago della didattica, era il più attento, sagace, intelligente codificatore del gusto Biedermeier entro cui si stava sviluppando il concertismo della Restaurazione, ma era anche uomo di quei tempi nuovi che vedevano profilarsi all’orizzonte la figura del piani­ sta-interprete. Hummel era invece pianista-compositore che, com’ebbe a rimproverargli più tardi Robert Schumann, basava tutto l’insegnamento sulle proprie opere. Guidato da Czerny, Liszt studiò non solo i Concerti di Hum­ mel in la minore e in si minore, ma anche molti altri autori, tra cui Clementi, Beethoven, Moscheles e, solo per finire, Czerny. Durante gli studi con Czerny Liszt fu allievo, per la composizione, del famosissimo Antonio Salieri: nel 1822 era in grado di scrivere la Varia­ zione che non figura qualitativamente all’ultimo posto nella raccolta di ben cinquanta variazioni su un Valzer di Diabelli di cinquanta diversi compositori austroungheresi e tedeschi (escluso Beethoven che, come tutti sanno, di variazioni sul Valzer di Diabelli ne scrisse trentatré per conto suo). Il 1° dicembre 1822 Liszt fu in grado di farsi ascoltare dall’altezzosissimo pubblico viennese, che gli decretò il trionfo. Seguiro­ no altri concerti fino all’ultimo, che ebbe luogo il 13 aprile 1823.

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Liszt o il giardino dArmida

A Vienna Liszt incontrò Beethoven, di cui Czerny era stato allievo - uno tra i pochissimi - per il pianoforte. Una tradizione risalente a Liszt stesso ci dice che Beethoven assistette al concerto del 13 aprile {Concerto in si minore di Hummel, Variazioni sulla marcia d'Alessandro di Moscheles, e improvvisazione) e che al termine salì sul palcoscenico e abbracciò coram populo il ragazzo, schioccandogli in fronte il Weihekuss, il “bacio della consacrazione”. C’è una stampa tardo-ottocentesca, molto diffusa un tempo e un po’ nello stile degli ex voto, che illustra l’avvenimento. Avvenimento non documentato. È documentata invece, nei Quaderni di conversazione, una visita di Liszt a Beethoven, ed è documentato un colloquio del famulus di Beethoven, Anton Schindler, che cerca di convincere il padrone di casa a promettere di esaudire la preghiera del ragazzino e di assistere al concerto. L’incontro, quindi, ci fu davvero, e non è improbabile che Beethoven abbracciasse e baciasse Liszt in casa sua. Di una presenza di Beethoven al concerto non parla però alcuno dei giornali che recensirono la serata. L’ultimo accanito ricercatore, Deszò Legàny, non ha trovato alcun accenno al fatto, che non sarebbe di sicuro passato inosservato nella stampa viennese del 1823; altre indirette testimonianze ci dicono inoltre che sicuramente, il 13 aprile, il sordo Beethoven se ne restò a casa. Liszt lasciò dunque che i suoi ricordi venissero ritoccati in modo da renderli pubblicitariamente più efficaci. E non è questo un gran male: non è più il tempo in cui si combatteva Liszt anche con il passarne al setaccio, per metterlo alla gogna, le vanterie, a volte tali e a volte supposte. Quel che a noi importa veramente è che Liszt, educato per un paio d’anni a Vienna e allievo di un allievo di Beethoven, vedesse in Beetho­ ven — lo scrisse nel 1855 nell’ampio saggio su Robert Schumann — l’iniziatore di una nuova era della musica, e che a Beethoven dedicasse una costante attenzione nei suoi interessi di interprete. Ci importa anche che, come pianista, dedicasse molta attenzione a Schubert, con il quale non risulta avesse rapporti personali. Tra i meriti storici del Liszt inter­ prete spiccano infatti sopra tutti le esecuzioni beethoveniane e le trascri­ zioni schubertiane, che resero noti a un vasto pubblico i nomi dei due grandi di Vienna, non votati, per loro scelta, a una popolarità facilmente acquisibile.

2. Dopo il concerto del 13 aprile, ritengono i biografi, la fertile imma­ ginazione di Adam Liszt concepì l’ambizioso disegno di far ripercorrere a Franz il cammino percorso più di cinquant’anni prima da Mozart. Czerny non approvò, e lo scrisse molti anni più tardi nell’autobiografia. Tuttavia, Adam Liszt riuscì a portare a compimento il suo disegno senza guastarsi con il buon Czerny, al quale continuò a scrivere per anni,

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Parte prima: Liszt prima di Liszt

raccontando di come sorvegliava i progressi del ragazzo e di come lo faceva studiare con il metronomo. Dopo aver fatto una puntata in Un­ gheria - concerti a Pest il 1 °, il 10, il 19 e il 24 maggio - per sfruttare economicamente la curiosità suscitata dai successi viennesi di Franz, la famiglia Liszt si mise in strada il 20 settembre 1823, e attraverso Mona­ co, Augusta, Stoccarda e Strasburgo, con relativi concerti, arrivò a Parigi 1’11 dicembre, prendendo alloggio all’Hotel d’Angleterre, al n. 10 della rue du Mail. Nei decenni che stanno a cavallo tra Settecento e Ottocento, Vienna era stata insieme con Londra la mecca del pianoforte. Tra il 1820 e il 1830 Vienna e Londra vennero a poco a poco soppiantate da Parigi. Che cosa di speciale offrisse Parigi ai pianisti, prima delle giornate rivoluzio­ narie che portarono al potere la borghesia, non riusciamo bene a capirlo. Sta di fatto però che Kalkbrenner, dopo aver abitato per anni a Londra, si stabilì a Parigi, che a Parigi studiò e visse Henri Herz, nato a Vienna. Pianisti celebri entrambi, e abilissimi didatti che lanciarono due diffusis­ sime apparecchiature per bene apprendere a suonare il pianoforte, il Guide-mains e il Dactylion, i due diedero alla città di Parigi una fama che venne contrastata solo dalla presenza a Vienna di Czerny e dalla presenza a Londra di Clementi e di Moscheles. Ma dopo la rivoluzione, negli anni Trenta, la storia del pianoforte si giocò in realtà soltanto a Parigi, sia ad opera di pianisti quali Chopin, Liszt, Alkan, sia ad opera dei costruttori Érard e Pleyel. Abbiamo appena visto Liszt scendere all’Hotel d’Angleterre. Proprio in faccia all’albergo - coincidenza casuale, o mossa astuta di Adam? - si trovava la sede commerciale della ditta Érard. Il vecchio Sebastien Érard, che aveva settantun anni, e il ventinovenne nipote Pierre incontrarono subito i Liszt, si innamorarono del talento del dodicenne Franz e decisero di puntare su di lui per farne, se così si può dire, il collaudatore e il propagandista del loro nuovo modello di pianoforte, un “coda” con meccanica a doppio scappamento di cui avevano pronti alcuni esemplari. Sebastien Érard non era un novellino: costruiva strumenti dal 1768, nel 1803 aveva donato un pianoforte a Beethoven proprio mentre Beethoven stava per scrivere due Sonate virtuosistiche come Pop. 53 e Top. 57. E forse, chissà, i caratteri notativi della Waldstein e &AVAppassionata dipesero anche dalle potenzialità del pianoforte Érard, così come è probabile che dal pianoforte Érard dipendessero l’uso in funzione melodica del registro sopracuto e il gioco sottile dei pedali che caratterizzano il Concerto op. 58. Insomma, era già un uomo che aveva fatto la storia, Sebastien Érard. Ma il suo posto nell’olimpo divenne più largo quando mise a punto il “doppio scappamento”, che brevettò nel 1821, e quando ebbe l’audacia di scegliere un ragazzino per far conoscere la sua ingegnosa meccanica.

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Liszt o il giardino d'Armida

Franz Liszt era però arrivato a Parigi, come racconta lui stesso, covan­ do un’altra ambizione: diventare allievo del Conservatorio. E lui stesso racconta, in un articolo degli anni Trenta, che a sbarrargli l’accesso fu Luigi Cherubini, direttore dell’istituto, che si trincerò dietro il regola­ mento respingendo ogni supplica: il regolamento diceva che gli stranieri non potevano essere iscritti al Conservatorio, il direttore Cherubini era stato messo al suo posto per far rispettare il regolamento, e la somma poteva trarla chiunque. Che Liszt lo sapesse o no quando si presentò a Cherubini, che lo sapesse o no quando rievocò l’episodio, sta di fatto che non era vero: il regolamento non vietava l’iscrizione degli stranieri. Qualche ricercatore d’archivio notò che nel 1823 figuravano come allievi del Conservatorio parigino alcuni stranieri. E fu una buona occa­ sione per deplorare il crudele comportamento del vecchio Cherubini, il cui cuore era aperto solo alla soluzione di complicati canoni e non di semplici casi umani. Ma poi un altro più pignolo ricercatore scoprì che non il regolamento, bensì una disposizione del ministro delle Belle Arti, il visconte La Rochefoucauld, vietava che si accettassero in Conservatorio allievi stranieri di pianoforte. Ciò sembra molto strano, a tutta prima. Parigi, già lo abbiamo detto, intorno al 1820 non era ancora una capitale del pianoforte: le capitali erano Vienna e Londra. Anche la fama dei costruttori viennesi e londi­ nesi era maggiore di quella dei costruttori parigini. Però la scuola piani­ stica del Conservatorio di Parigi, con Louis Adam e con Pierre-JosephGuillaume Zimmermann, stava acquistando una grande rinomanza e, per di più, il Conservatorio di Parigi era un istituto pubblico, mentre a Vienna e a Londra esistevano soltanto scuole private. Perciò molti ragaz­ zi ambivano a entrare nel Conservatorio di Parigi, e il ministro, invece di esserne lieto e di aumentare il numero degli insegnanti, come avrebbe fatto un saggio imprenditore privato, emise l’ordinanza-capestro. In ve­ rità, la emise il 29 dicembre 1823, diciassette giorni dopo che Liszt aveva chiesto l’iscrizione; ma la disposizione era stata approvata preventiva­ mente dal collegio dei professori, ed era già vincolante per il direttore. Cherubini esce dunque assolto dal severo tribunale della storia. E in fondo, applicando senza tentennamenti una tassativa disposizione in itinere^ rese a Franz un segnalato servizio. Adam Liszt, ritenendo giu­ stamente che non ci fosse più bisogno di maestri di pianoforte, cominciò subito a muoversi per organizzare dei concerti, e per la composizione affidò il figlio ad Antonin Reicha, che era un celebre teorico, e a Ferdi­ nando Paèr, che era un celebre compositore. Parigi, attraverso le lettere di raccomandazione - allora si diceva di patronage — raccolte a Vienna, e attraverso gli Erard che lo introdussero nel generone, spianò a Liszt la strada verso la carriera concertistica: dopo

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Parte prima: Liszt prima di Liszt

essere diventato in breve il cocco dei salotti, le petit Litzpoté far accorrere un pubblico numeroso al concerto che tenne al Theatre Louvois il 7 marzo 1824, ottenendo un trionfo incredibile, corroborato dalla misura­ zione del cranio a cui si applicò il frenologo Franz Gali in persona, autore della teoria sul rapporto tra la conformazione della testa e le capacità intellettive. Un mese più tardi gli Érard lo portarono a Londra dove, al suo primo concerto, Franz ebbe in platea Clementi, Cramer, Ries, Kalkbrenner, e dove suonò anche a Carlton House, alla presenza del re Giorgio IV. Suonò di nuovo più volte a Parigi nell’inverno 1824-25, tornò a Londra nel 1825 (Giorgio IV lo ricevette nel castello di Windsor), esordì il 17 ottobre all’Opéra di Parigi con un’opera in un atto, Don Sanche ou Le chàteau d'amour ), e sfruttò i successi delle capitali con tournée in provincia. Nel 1827 Liszt suonò per la terza volta in Inghilterra. Al ritorno andò con il padre a Boulogne per una vacanza. Qui Adam morì improvvisa­ mente il 27 agosto, probabilmente per un’infezione tifoidea. E Franz, ormai sazio di trionfi, si ritirò dalla carriera concertistica e si guadagnò da vivere con le lezioni private. Mantenne la residenza a Parigi fino al 1844, abitandovi stabilmente fino al 1835 e saltuariamente nei nove anni successivi. E mise da parte la lingua materna, il tedesco, facendo del francese il suo abituale mezzo d’espressione parlata e scritta. Il francese, si capisce, era la lingua internazionale con cui si girava il mondo e che tutti gli artisti, e tutti gli aristocratici, dovevano conoscere. Ma Liszt non imparò il francese: lo adottò, ne fece la sua lingua, e reimparò il tedesco quando si stabilì in Germania. La questione della lingua, s’intende, è secondaria. Ci sembra però che in questo caso sia da considerare attentamente, perché l’adozione di una lingua è il riflesso dell’adozione di una cultura: culturalmente, Liszt divenne francese.

3. Poiché la sospensione della carriera concertistica coincise in pratica con la sospensione dell’attività creativa, converrà esaminare subito il catalogo delle composizioni scritte tra il 1824 e il 1829, dopo la Varia­ zione su un Valzer di Diabelli di cui abbiamo detto e un Tantum ergo, compito di scuola assegnato da Salieri, che è andato perduto. Queste le musiche del primo periodo parigino:

Cinque Variazioni sulla romanza dell'opera “Joseph”di Méhul (1824 ca.) Huit Variations op. 1 (1824 ca.) Sept Variations brillantes sur un air de Rossini op. 2 (1824 ca.) Impromptu sur des thèmes de Rossini et Spontini op. 3 (1824) Allegro di bravura op. 4 n. 1 (1824)

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Liszt o il giardino d Armida

Rondò di bravura, op. 4 n. 2 (1824) Rondò, Fantasia (1824) Don Sanche ou Le chàteau d'amour (1824-25) Due Concerti (1825) Tre Sonate (1825) Sonata a quattro mani (1825) Trio (1825) Quintetto (1825) Etude en quarante-huit exercises dans tousles tons majeurs et mineursvp. 6 (1825) Allegro molto quasi presto (1827) Due danze ungheresi di reclutamento (1828) Grande Fantaisie sur la tyroHenne de Topéra “La Fiancée” (1829).

Il Rondò e la Fantasia del 1824 e tutte le composizioni del 1825, tranne gli Studi, non ci sono pervenute: ne abbiamo notizia solo dalla corrispondenza di Adam Liszt1. Moscheles, che ascoltò uno dei due Concerti a Londra, ci dice di avervi trovato un’opera «piena di caotiche bellezze». Cosa che ci stupisce un po’, perché notiamo le bellezze caoti­ che nelle composizioni lisztiane dei primi anni Trenta, mentre le com­ posizioni degli anni Venti ci sembrano ordinatissime. Ordinatissime sono le Variazioni sulla romanza del “Joseph”diMéhul, non datate e solo di recente riscoperte, che stilisticamente sono assegna­ bili al 1824 e che compositivamente e strumentalmente sono molto più semplici delle analoghe Variazioni di Weber op. 28, scritte nel 1812. Semplici e ordinate sono le Variazioni op. 1, dedicate a Sebastien Érard, su un tema di taglio schubertiano e nelle quali (Yariazione n. 8) viene doverosamente sfruttato il “doppio scappamento”. Più diffìcili tecnicamente, ma sempre ordinatissime sono le Variazioni op. 2 sull’aria «Ah, come nasconder la fiamma» Emione di Rossini: solo nella terza variazione si intravede un gusto armonico non convenzionale e solo nella Introduzione si trova un breve passo che doveva riuscire particolarmente brillante con il “doppio scappamento”. E diligentemente condotto ci sembra l’Impromptu su temi di Rossini (La Donna del lago, Armida} e di Spontini (Olympic, Fernand Cortez). L’Allegro e il Rondò op. 4 esempli­ ficano chiarissimamente il passaggio dallo stile brillante allo stile di bra­ vura, con passi di difficoltà tremende, ma non superiori a quelle analo­ ghe che si incontrano in Hummel o nell’Arf de varier di Reicha, a quel

1 Abbiamo sedici pagine di un pezzo per pianoforte e orchestra, parte delle quali si ritrovano in Malédiction, abbozzata nel 1830 e completata dieci anni dopo. Non sappiamo se si tratti di una prima versione di Malédiction o, come ritengono alcuni studiosi, di un frammento di uno dei due Concerti giovanili, riutilizzato in Malédiction.

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Parte prima: Liszt prima di Liszt

tempo maestro di composizione di Liszt, che era stata pubblicata ventanni prima. Negli Studi - Liszt compose solo i primi dodici, dei quarantotto annunciati - il modello evidente è Cramer, ma filtrato probabilmente attraverso Czerny. Non manca qualche impennata, qualche scatto giova­ nile che porta a forzature stilistiche in un panorama chiaramente defini­ to e riconoscibile, e non manca la gradevolezza tematica, che rende affascinanti questi brevi quadretti. Tuttavia Liszt si colloca entro una precisa ottica, quella del didatta, e l’accentua anzi pubblicando con i suoi Studi i Preludi ed Esercizi di Clementi — che, detto per inciso, era ancora vivente — con l’aggiunta di diteggiature e di indicazioni di metronomo. Se esaminiamo l’insieme delle composizioni note e le testimonianze su quelle andate perdute, vi riconosciamo una lucida strategia per la forma­ zione dell’immagine pubblica di un compositore dell’epoca di Biedermeier, capace di rifornire il suo carniere di tutto quello che ritiene smer­ ciabile. Il discorso non può essere completo perché molti lavori non li conosciamo, ma quelli che conosciamo ci fanno supporre che i referenti stilistici del giovane Liszt fossero, più che Beethoven e Schubert, o Weber, virtuosi affermati come Hummel, Moscheles, Kalkbrenner. Se le composizioni riflettono la tecnica di Liszt in quegli anni, e riflettono dunque anche le sue improvvisazioni, non ci stupisce la testi­ monianza, un po’ acidula, del sedicenne Mendelssohn, che ascoltò Liszt a Parigi nel 1825: «[...] ha molto di dita, poco di testa, l’improvvisazione era penosa e piatta, zeppa di scale». I tempi di metronomo dell’op. 4 e quelli aggiunti da Liszt ai Preludi ed Esercizi di Clementi ci dicono che il ragazzo amava correre. Ma non più di quanto galoppassero gli altri: la velocità, non la potenza o gli effetti timbrici, era il clou del virtuosismo Biedermeier. Nel quale Liszt nuotava come un pesce. Quanto a Don Sanche, l’opera fu scritta mentre Liszt cominciava a studiare con Ferdinando Paèr, il quale, pare, lo aiutò perlomeno nella strumentazione. Se Paér non intervenne direttamente nella stesura dell’opera, intervenne indirettamente in quanto modello stilistico, tanto che Don Sanche sembra iscriversi nella storia dell’opera italiana come un lavoro del giovane Donizetti, e non senza curiose anticipazioni di stile verdiano (ad esempio, nel duetto in sol minore, n. 7 della partitura)2. Si sarebbe anche tentati di vedere in Don Sanche qualche riflesso del Viaggio a Reims di Rossini; ma il lavoro rossiniano fu eseguito a Parigi il 19 giugno 1825, mentre Liszt si trovava in Inghilterra. Comunque, Don Sanche si iscrive perfettamente, mutatis mutandis, nel quadro Biedermeier in cui si collocano le composizioni per pianoforte.

2 Si può trovare il libretto del Don Sanche, con la traduzione italiana, nella bella monografìa lisztiana di Rossana Dalmonte.

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Liszt o il giardino d*Armida

A che cosa dobbiamo attribuire la caduta di produttività - che scende a zero - del 1826, nonché la mancata ripresa degli anni seguenti? Alla sazietà dei successi? O, al contrario, alla delusione per il sostanziale insuccesso del Don Sanche ? O alla crisi di misticismo e al desiderio di prendere gli ordini sacri? Impossibile rispondere. Ma bisogna notare che ancor prima di inter­ rompere l’attività concertistica Liszt aveva già sospeso l’attività creativa. I segni che denunciano la crisi profonda sono dunque due, e le pagine del 1827-29 rappresentano i primi, isolati tentativi di uscirne. Il pezzo in sol minore del 1827, che si suol chiamare Scherzo, è molto promettente ma brevissimo. Brevissime sono le due danze ungheresi di reclutamento, note sotto il titolo Zum Andenken (In Memoria, forse in ricordo del padre) che figura in calce al manoscritto; tre pagine a stampa soltanto, che aprono però il filone magiaro nell’opera di Liszt. I temi sono di Làszlo Fày e di Jànos Bihari. Liszt non trascrive sem­ plicemente per pianoforte gli originali, ma ne modifica la struttura, come farà poi costantemente. I due pezzi, in tonalità diverse (si bemolle maggiore e re minore), sono legati dall’indicazione attacca posta al termi­ ne del primo; e siccome il secondo pezzo è seguito da una variazione, si tratta proprio di un prototipo di rapsodia ungherese. La Fantasia sulla Fiancée di Auber, di cui Liszt avrebbe pubblicato una seconda versione negli anni Trenta e una terza negli anni Quaranta, è in forma di introduzione, tema, quattro variazioni e finale. L’aspetto compositivo non si discosta dagli schemi su cui lavoravano allora altri virtuosi, ma la strumentazione è frutto di una ricerca attraverso cui si delineano alcuni caratteri stilistici che non abbandoneranno più Liszt. I “gesti sonori”, cioè i tratti a velocità folgorante e su estensioni ampie che vengono percepiti dall’ascoltatore come insiemi ritmico-armonici invece che come successioni, fanno qui la loro comparsa in misura cospicua, sia affidati all’una o all’altra mano, sia affidati alle mani alternate, con un aumento vertiginoso, in quest’ultimo caso, dell’incisività del suono. Gli accordi in rapidissima successione, gli sbalzi di registro, l’ampio uso dello staccato e del martellato, l’impiego in funzione melodica di tutti i registri prefigurano anch’essi il futuro Liszt, e le note ribattute grondano ovunque. Tuttavia la struttura tecnica fondamentale resta Biedermeier, come risulta chiaro dalla prima e dalla terza variazione, che sono le più sviluppate e le più impegnative virtuosisticamente. Nel Liszt di questo primo periodo possiamo quindi riconoscere il formarsi del virtuoso Bie­ dermeier, che si impadronisce della lingua franca internazionale e la domina al punto da poter cominciare, a diciott’anni, a oltrepassarla. Bisogna però dire, perché è inevitabile che si facciano confronti, che i traguardi raggiunti nello stesso periodo da Mendelssohn e da Chopin mostrano personalità creative più complete di quanto non sia la persona­ lità di Liszt. Il periodo successivo porterà Liszt verso un radicalismo

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Parte prima: Liszt prima di Liszt

estetico che dipenderà anche dalla sua iniziale mancanza di retroterra culturale, dal suo sradicamento da Vienna e dal suo inserimento non ancora organico nel mondo parigino: Liszt diventerà francese quando la Francia poserà il tricorno e prenderà il cilindro.

4. Si dice — lo disse Franz quasi cinquantanni più tardi — che le ultime parole rivolte da Adam Liszt al suo figliolo fossero state: «Je crains pour toi les femmes» (Temo per te le donne). Adam era un padre perspicace. Il primo, incantevole affar di cuore, Liszt lo incontrò con una sua giovanissima allieva, Caroline de SaintCricq, figlia del ministro del Commercio e dell’industria di Carlo X. La madre di Caroline, che scomparve nel 1828, disse al marito, morendo: «Lascia che siano felici». Il marito, allora, non capì: quando capì fu di diverso parere. Si amavano in modo commovente, i due ragazzi. Le lezioni di musica si prolungavano in letture di romanzi e di poesia e in interminabili silenzi... Paolo e Francesca? Sì e no. Uscendo una volta molto tardi dal palazzo, Liszt dovette disturbare il portiere per farsi aprire il portone e dimenticò che era buona usanza compensare con una mancia il distur­ bo. Il ministro, avvertito dal domestico dell’accaduto, chiuse per sempre la porta in faccia a Franz. Il secondo affar di cuore, meno incantevole, Liszt lo ebbe con una nobildonna di cui si sa poco, la contessa Adèle Laprunarède, nata du Chelard, più tardi duchessa di Fleury. Come una circe o un’armida, la contessa Adèle tenne Franz serrato per un intero inverno, l’inverno del 1831, nel castello di Marlioz situato non lontano da Ginevra. In una vecchia biografia romanzata di Liszt, Rapsodia ungherese^ diffusissima tra le due guerre e che venne tradotta in molte lingue, l’incontro tra l’esperta Adèle e l’ingenuo Franz, tra l’impeccabile professoressa in ars amatoria e il tremante ma talentoso allievo, è rappresentato nel più puro stile kitsch da romanzo rosa. Liszt, invitato, si reca a trovare nel suo palazzo la contessa che, indisposta, lo riceve stando a letto e lo attrae dolcemente nell’alcova... In realtà, di tutta la faccenda non sappiamo quasi nulla, se non che nel castello di Marlioz era presente anche il marito di Adèle, e che il prolungato soggiorno fu reso quasi obbligato da imponenti nevicate. Sappiamo quasi tutto del terzo, e grande, affar di cuore, quello che per più di dieci anni legò Liszt a un’altra nobile dama, Marie de Flavigny sposa del conte d’Agoult. Ma la vita di Liszt, sebbene il suo profetico padre temesse per lui le donne, non è fatta solo di casti amori, di eros oblioso e di passioni brucianti, sebbene tutti e tre i filoni scorrano paral­ leli - anche il primo, come avremo modo di constatare - nei quasi sessantanni in cui il Nostro visse amando.

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Nel 1827, come abbiamo visto, la carriera concertistica di Liszt si interrompe bruscamente. Nel 1828 egli suona qualche volta a Parigi, e in dicembre annuncia l’esecuzione, in prima assoluta locale, del Concerto op. 73 di Beethoven (Beethoven, ricordiamo, era morto meno di due anni prima) alla Società dei Concerti del Conservatorio: esecuzione rin­ viata per una sua malattia e che ignoriamo se abbia poi avuto luogo. Non sappiamo in verità se l’iniziativa si collocasse nell’ottica di una commemorazione di Beethoven o se annunciasse già un nuovo indirizzo culturale di Liszt. Nel dubbio la prenderemo come una specie di dichia­ razione d’intenti che sarà gravida di conseguenze qualche anno più tardi. Le esecuzioni dei concerti di Hummel e di Moscheles si erano infatti collocate per Liszt entro un’attività concertistica da adolescente. Nella civiltà del Biedermeier il pianista esordiva, giovanissimo, con musiche di autori contemporanei rinomati: era una specie di prova di iniziazione, con la quale i ragazzi dimostravano d’essere all’altezza del dernier cri in fatto di virtuosismo. Una volta superata la prova iniziatica, il giovane di talento doveva a sua volta diventare creatore di virtuosismo, cioè piani­ sta-compositore. E, come abbiamo visto, Liszt scrisse negli anni Venti due Concerti. Nel 1828, decidendo di presentare un Concerto vecchio di vent’anni e di scrittura non sufficientemente brillante per i gusti del tempo, come l’Imperatore di Beethoven, il diciassettenne Liszt si affiancava a Mendelssohn e a Ferdinand Hiller, suoi coetanei, che come lui sarebbero diventati interpreti oltre che compositori, mentre l’altro grande coetaneo, Chopin, rimaneva legato all’ideologia del Biedermeier. Non è impensabile, anzi, sembra molto probabile che Liszt, alla fine degli anni Venti e poi negli anni Trenta, alzasse il tasso di difficoltà del Concerto op. 73 di Beethoven aggiungendo doppie note e ottave e riscrivendo alcuni passi. Ma il nuovo indirizzo era ormai avviato, e il primo barlume dello storicismo, che avrebbe improntato di sé l’attività concertistica di Liszt, era acceso. L’interruzione della carriera concertistica nel 1827 fu dovuta alla sa­ zietà, come dicevamo, ma probabilmente anche alla scomparsa del pa­ dre. In tempi in cui, per i concertisti, l’impresariato non esisteva ancora, l’organizzazione di una tournée toccava necessariamente o al concertista stesso o a un suo congiunto. La madre di Liszt, tornata a Parigi dopo aver abitato per tre anni a Graz presso una sorella, non era all’altezza di questo non facile compito. Liszt era troppo giovane. E così, scomparso quell’abile manager che era stato suo padre, Franz rimase fermo a Parigi, dando, per campare, molte e molte lezioni di pianoforte, studiando poco il suo strumento, non componendo, divorando libri di tutti i generi e passando ore in chiesa, in preda a crisi di misticismo e di sconforto che gli fecero seriamente pensare di prendere gli ordini sacri.

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Già abbiamo visto come si concludessero le lezioni impartite a Caro­ line de Saint-Cricq. Dallo stato di malinconia depressiva che seguì, Liszt si sollevò, diceva sua madre, nel luglio del 1830, quando le reali canno­ nate tentarono di spazzar via dalle strade di Parigi una popolazione in tumulto che spazzò invece via dal trono l’ultimo Borbone, Carlo X. Liszt si scoprì rivoluzionario. Non che corresse sulle barricate: schizzò una Sinfonia rivoluzionaria che non finì mai, forse per mancanza di idee, ma più probabilmente per mancanza di tecnica. In realtà, Liszt non era ancora la personalità a più strati nella quale il rivoluzionario si sarebbe sovrapposto al mistico e questo al libertino. Come pianista e come compositore, lo abbiamo visto, non si era veramente staccato dalla lezione dei pianisti-compositori del Biedermeier. Come innamorato si era trovato invischiato in un sogno proi­ bito, né più né meno di un Werther. Come intellettuale provava simpatia per le teorie sociali del conte di Saint Simon. Come credente era immerso fino al collo nei riti della religione cattolica. Come uomo era una personalità non ancora pienamente uscita da una splendida adolescenza troncata dalla fulmi­ nea scomparsa di un padre che ne era stato mentore e ispiratore. Dopo il 1830 il compositore Liszt cominciò a battere strade così radicali da spaventare persino il Liszt maturo. Come pianista si mise a studiare daccapo lo strumento — avecfureur, con furore, come dice in una lettera a un amico - dopo aver ascoltato, nell’aprile del 1832, Niccolò Paganini. Come innamorato scoprì, sotto la guida di Adèle Laprunarède, le gioie del liberti­ naggio. Come credente l’abate Lammenais, come intellettuale Hugo e La­ martine. La sua adesione alla rivoluzione di luglio fu però puramente emotiva (non razionale come quella di Mendelssohn, che aveva un’educazione bor­ ghese tedesca), e all’inizio degli anni Trenta egli frequentò sì Berlioz, Chopin, Heine, Balzac, Mickiewicz, Delacroix, ma anche le case degli aristocratici legittimisti, mentre non ebbe dimestichezza con l’aristocrazia orleanista, quella che appoggiava il nuovo re borghese Luigi Filippo. Senza abbandonare mai Parigi, tra il 1831 e il 1835 Liszt si mise in luce come pianista di punta eseguendo musiche di Beethoven e di Weber e le sue trascrizioni dei lavori di Berlioz. Come compositore abbozzò molte cose e non le finì tutte, ma vinse la sfida che aveva rivolto a se stesso dopo aver ascoltato Paganini. Quanto alle donne, beh, non si può pensare che dopo l’inverno trascorso in studioso ritiro con la contessa Adèle, Liszt restasse in ozio. In questo particolare settore abbiamo notizia di affarucci con la contessa Pauline Plater, con la marchesa Bellissen, la contessa Merlin, la duchessa Ranzan, madame Goussart, madame Boscary, e con donnine allegre come mademoiselle du Barré, una Charlotte, una Hortense, una Marie. La madre tentò, invano, di maritarlo con una mademoiselle Charlotte Laborie. E a questi anni risale forse un’awenturetta galante piuttosto nebulosa. Liszt, dopo Berlioz e dopo Hiller, avrebbe goduto i favori della bellissima pianista Marie Moke, moglie

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del fabbricante di pianoforti ed editore Camille Pleyel. E la frittata sarebbe stata cucinata - nientedimeno! - nell’appartamento di Chopin, assente da Parigi, di cui Liszt aveva la chiave. Ciò avrebbe provocato il risentimento di Chopin e il raffreddamento di rapporti che erano iniziati con molta cordialità nel 1832. Ma questa storia non è invero del tutto chiara, e così, per trovare un Liszt veramente engagé, dobbiamo aspettare fino a quando sull’orizzonte non spunta la moglie del conte d’Agoult.

5. Secondo una tesi storiografica avanzata già nel primo breve schizzo biografico di Liszt, quello firmato da Joseph d’Ortigue nel 1835, Liszt riprese interesse alla composizione dopo le tre giornate rivoluzionarie del luglio 1830. La Fantasia sulla Fiancée, del 1829, non sembra di sicuro opera di chi avesse perso ogni fiducia, perlomeno, nelle possibilità anco­ ra inesplorate del pianoforte. Ma convenzionalmente possiamo ammet­ tere che con il 1830 si apra nella creatività lisztiana un nuovo periodo che si protrae per una quindicina d’anni. Noi ne esamineremo ora il primo momento, che si conclude nella primavera del 1835 con la “fuga” di Liszt a Ginevra, in compagnia di Marie d’Agoult. Questo il corpus delle composizioni create tra il 1830 e la metà del 1835:

Sinfonia della rivoluzione per orchestra (1830) Introduzione e Variazioni sulla marcia dell*“Assedio di Corinto”di Rossini (1830 ca.) Malédiction per pianoforte e orchestra (1830 ca.) Concerto n. 1, primi abbozzi (1830 ca.) Grande Fantaisie de bravoure sur “La Clochette” (1831-32) Valzer in la maggiore (1832) La Romanesca (1832) Prélude omnitonique (perduto) (1832 ca.) Duo per violino e pianoforte sulla Mazurca op. 6 n. 2 di Chopin (1832 ca.) Sinfonia fantastica di Berlioz, trascrizione per pianoforte (1833) Ouverture Francs-Juges di Berlioz, trascrizione per pianoforte (1833) Uidée fixe su tema di Berlioz (1833 ca.) Grande Fantaisie symphonique per pianoforte e orchestra su due temi del Lélio di Berlioz (1834) Harmonies poétiques et religieuses (1834 o 1833) Apparitions (1834) Grand Concertstuck per due pianoforti su Romanze senza parole di Mendelssohn (1834-35) De Profundis per pianoforte e orchestra (1834-35).

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Joseph d’Ortigue ci dice: Arrivò il 1830. Liszt vide la rivoluzione di tre giorni [27-29 luglio]; vide il popolo, indignato alla vista della violazione dei suoi diritti, sollevarsi in massa, vide il suo entusiasmo per il combattimento e la sua moderazione nel combattimento e con quale dignità ritornò alla pace dopo il combattimento. Questa lotta accanita del potere e della libertà dovettero causare sul suo animo una di quelle commozioni il cui ricordo resta per sempre vibrante. Concepì allora una sinfonia rivoluzionaria.

Questa concezione pacifista della rivoluzione, in cui ci sembra di vedere anche lo zampino del borghese e cattolico d’Ortigue, era stata preceduta da un delirio di empietà: [...] nel mezzo del suo fervore s’innalzò nella sua anima un vivo disprezzo per se stesso. L’uomo è doppio, come si trovano d’accordo nel dire le Sante Scritture, la filosofia antica, le moralità moderne. Liszt ne fece la triste esperienza. A lato del suo proprio io, del suo vero io, egli vide drizzarsi come un sinistro genio, un io usurpatore del primo, una potenza misteriosa e malvagia che lo rendeva servo e lo dominava. Così, quand’egli si rimproverava con un ghigno sardonico d’aver creduto in Dio, quando si faceva beffe della religione, dell’amore, della libertà, dell’arte, non era lui, che rideva a questo modo, ma laltro. Quando aveva letto Pascal, VEssai sur l’indifferénce, era lui, ma quando, in quest’epoca, leggeva Volney, Rousseau, Dupuis, Voltaire, Byron, quando ragionava con orgoglio, quando si beffava, quando odiava, quando la sua testa s’esaltava a freddo per il suicidio e per il nulla, non era mica lui, era l’altro. Questo cinismo dogmatico e spregiatore non era lui, egli faceva sorda violenza alla sua anima; era un’anomalia, e Liszt ben se ne accorse: anomalia che si spiega come tutte le altre, essendo la natura umana, come dice de Maistre, un dato. Questo stato, dicemmo, durò poco: l’empietà non era la sua base [morale]. Tuttavia la nomea di questo cambiamento non tardò a spandersi. Questa notizia, Liszt non è più devoto, fece sensazione presso una folla di graziose donnine. Di punto in bianco gli si attribuirono venti intrighi amorosi: non ne aveva nemmeno uno. Fu in questi tempi che una donna [madame Goussard] verso cui si sentiva portato da una pura simpatia d’artista gli rivelò la musica italiana. Le sue disposizioni venivano allora a proposito per favorire in lui questa iniziazione a una musica tutt’affatto sensuale. Lui stesso riassunse la situazione della sua anima in que­ st’epoca in alcune composizioni, specialmente nella Fantasia sulla “Fiancée”, la sola che allora pubblicò; pezzo d’una espressione motteggiatrice, d’una verve byroniana, e le cui forme sono brillanti con civetteria, alla maniera di Herz. Le dottrine di cui Liszt s’era nutrito mentre lo stato di cui parliamo s’era prolungato non tardarono a far nascere in lui il disgusto ch’esse devono naturalmente ispirare. Non essendo allora più sostenuto, nel coltivare la sua arte, dalla fede che dona coraggio ed entusiasmo, una profonda noia fece nascere in lui il bisogno di lavorare, e di conseguenza il bisogno di sapere e di come impiegare la sua attività.

Liszt, continua d’Ortigue, si prefisse allora di diventare un altro Paganini, fece «forti studi musicali, letterari, filosofici», si chiese se doveva «sistemare la sua esistenza con il matrimonio» o «viaggiare all’estero, ingrandire la sua fama, fare la sua fortuna», e no, non era questo il fine, ma era il «bisogno di trovare il vero nella sua arte».

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D’Ortigue fissa questo periodo «nello spazio dei due anni 1828 e 1829», dopodiché «arrivò il 1830». E bara, sia perché Liszt ascoltò per la prima volta Paganini nel 1832, sia perché il travaglio spirituale, che sicuramente ci fu e che fu profondo, è perfettamente testimoniato dalle composizioni del 1830-34. Che poi, nel giugno del 1835, D’Ortigue ci tenesse a far passare Liszt, che già stava vivendo a Ginevra con la moglie del conte d’Agoult, per un equilibrato bacchettone che da anni aveva scacciato da sé Fempietà, è cosa mondanamente comprensibile. Ma di lui - Liszt — si può dire quel che Satie diceva di Ravel: Ravel rifiuta la legion d’onore, tutta la sua musica l’accetta. Tutta la musica di Liszt dopo la Rivoluzione - altro che quella povera coquette della Fantasia sulla Fiancée - accetta le scenografìe del romanticismo nero, accetta non solo gli atei e i deisti morti ma anche gli atei e i deisti viventi, accetta Jules Janin e Petrus Borei, che nella Parigi degli anni Trenta pubblicavano le loro storie d’orrore, e non è estranea al Chartetton di Alfred de Vigny, che sarebbe andato in scena il 12 febbraio 1835. Il lui e I’altro che il d’Ortigue aveva ridotto a unità restano due, restano scissi, restano avver­ sari: in Liszt, molto più che in Schumann, si manifesta il Doppelganger, la personalità scissa e dilaniata, il Mister Hide annidato nel Dottor Jeckill. A cominciare dalla composizione per pianoforte e orchestra che si suole intitolare Malédiction, abbozzata intorno al 1830 e rielaborata circa dieci anni più tardi. Tre dei temi che si trovano in questo lavoro sono indicati con Malédiction (Maledizione), Orgueil (Orgoglio), Raillerie (Motteggio), un episodio è indicato con “pleurs, angoisses” (lacrime, angosce), la prima didascalia di carattere, insieme con il tema Malédiction, è con furore, poi si trovano teneramente amoroso, soave lusingando, energico nobilmente, risoluto fieramente. Da tutto ciò sembra dipanarsi un romanzo; sicuramente, seppur non è sottesa a Malédiction una storia, sono sottese intenzioni programmatiche, che però non ci sono note (a meno che la fonte letteraria non sia da cercare in una poesia di Hugo, intitolata appunto Malédiction}. Malédiction è del resto un pezzo pieno di enigmi. La strumentazione pianoforte e archi - e la durata — circa un quarto d’ora — fanno pensare che si tratti del frammento di un progetto più ampio, forse il primo tempo di un lavoro che si sarebbe completato con un secondo tempo per pianoforte e fiati e un terzo per pianoforte e orchestra, ed è singolare che la parte degli archi sia così secondaria, un semplice rafforzamento della fittissima parte pianistica. Noi non vogliamo comunque esaminare Malédiction. Ci importava solo di far notare come in Malédiction si manifestino già sia forti tendenze verso un’estetica berlioziana, sia un modo di rappresentare la realtà attraverso con­ trapposizioni violente, tenebre o luce o, secondo l’interpretazione di Paul Merrick, il Diavolo e Dio.

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6. Tutt’altro che saggiamente pie sono del resto le tre Apparitions, ispirate a Lamartine. O meglio, saggia è la terza, che è una parafrasi di un valzer di Schubert e che prefigura le Soirées de Vienne degli anni Cinquanta. Ma le altre due, con il loro umor tetro, con i loro brividi, con i loro fantasmi, ci dicono che il Liszt della vecchiaia esisteva già in bozzolo nel 1834. Schumann, recensendo nel 1839 gli Studi op. 6 e i Grandi Studi, scrisse: In un primo tempo egli [Liszt] cercò di trasferire nella musica le idee del Roman­ ticismo letterario francese, tra i corifei del quale egli viveva; poi l’improvvisa compar­ sa di Paganini lo incitò ad approfondire l’indagine sulle possibilità tecniche del suo strumento e a tentare l’estremo. Talvolta (ad esempio, nelle sue Apparitions} lo vediamo perso a distillare le più cupe fantasie, indifferente e quasi blasé, mentre altre volte si abbandona ai più sfrenati artifìci virtuosistici, ironico e temerario fino alla semi-pazzia.

Si sa quanto Schumann detestasse il nichilismo del romanticismo francese. Liszt stesso censurò però le Harmoniespoétiques et religieuses del 1834 quando le ripubblicò, nel 1853, in una nuova versione intitolata Pensée des morts e inserita nella nuova raccolta delle Harmonies poétiques et religieuses. Una nota introduttiva dice: «Un frammento di questa rac­ colta era stato pubblicato, alcuni anni or sono, inavvertitamente e con troppa precipitazione. L’autore disconosce oggi completamente questa edizione, tronca e scorretta per tanti aspetti, collocando quello stesso frammento all’inizio della quarta Harmonie, Pensée des morts, con i ne­ cessari cambiamenti». I necessari cambiamenti consistono nell’aggiunta di una sezione consolatrice, che cancella il Lento disperato con cui si chiudeva la prima versione. Prima versione che iniziava con Lento assai con un profondo sentimento di noia, una didascalia che è tutto un pro­ gramma estetico e morale. Ma persino nella parte introduttiva della Fantasia sulla “Campanella”, pezzo virtuosistico e vitalistico, troviamo all’inizio un recitando con un con dolore ma semplice e alla fine un dolente perdendosi. La Fantasia sulla “Campanella ” potrebbe simboleggiare, e forse sim­ boleggia, uno stato di prostrazione e di apatia che viene superato attra­ verso il lavoro accanito sullo strumento, il pianoforte. Leggiamo ancora d’Ortigue: Una sorta di sfida a se stesso gli rese tutta la sua energia. Bisogna che io diventi Paganini, disse a se stesso d’improvviso; da allora questa idea non lo abbandonò più.

Liszt era già stato il grande virtuoso Biedermeier, era già stato il perfetto collaudatore dei pianoforti Érard. Quel che Liszt scoprì di ine­ splorato nel pianoforte Érard, verso il 1832, possiamo soltanto immagi­ narlo. Possiamo immaginare che l’esplorazione riguardasse il pianoforte

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e che ancora di più, molto di più, riguardasse il corpo di Liszt. Tecnica classica + meccanica con doppio scappamento ci danno la Fantasia sulla Fiancee. Fantasia sulla Fiancée + tecnica che impiega il corpo ci danno la Fantasia sulla “Campanella” e le trascrizioni della Sinfonia fantastica e della ouverture dei Francsfuges di Berlioz. Nasce allora il concertista dei tempi nuovi, e con lui nasce il concertismo dei tempi nuovi: nasce una collocazione della musica in uno spazio teatrale - e fìsico e antropologico - che non ha precedenti e che condizionerà fino a oggi il rapporto tra il concertista e il pubblico. E questa rivoluzione di costume non si forma­ va, alla d’Ortigue, attraverso la spinta a “trovare il vero nella sua arte”, ma a trovare nell’arte l’artificio supremo, il dominio sulla folla esercitato attraverso il senso. È opera di magia, questa, e la magia confina con il demonismo e Liszt porterà perennemente in sé questa sua origine di Mago Merlino, nato da una vergine e dal diavolo. Il senso del nuovo virtuosismo lisztiano è la trasmutazione del piano­ forte in una macchina illusionistica che ha il fresco sussurro della brezza marina e la potenza terrificante della folgore montana, e che ha la gam­ ma dei colori dell’arcobaleno. Non si può pensare al pianoforte di questo Liszt senza pensare a ciò che si diceva del violino di Paganini. Ma biso­ gna anche pensare alle voci della Pasta, della Malibran, di Rubini. E bisogna pensare ad Amalia Brugnoli e alla Taglioni, che tra il 1823 e il 1832 inventavano e sviluppavano la danza sulle punte. E bisogna pensa­ re all’illuminazione a gas che nel 1822 veniva introdotta all’Opéra di Parigi creando un dislivello tra sala e scena, e bisogna pensare alla sceno­ grafia del Robert le Diable di Meyerbeer che trionfava sulla scena dell’Opéra il 21 novembre 1831. A pensarci si fa presto, ma i voli delle ballerine e le voci dei cantanti non li abbiamo, le scene del grand opera le vediamo solo sulle stampe, le musiche di Paganini le eseguiamo in modo stilisticamente corretto, cioè classicheggiante, e le musiche parigine di Liszt non ci impegnamo a farle veramente rivivere. Quelle musiche fanno paura, e non le gradiamo come non gradiamo L’àne mort et la femme guillotinée di Jules Janin, pubblicato nel 1829, e i Contes immorauxài Pétrus Borei, pubblicati nel 1833. Il nuovo virtuo­ sismo di Liszt non eccita ed esalta il pubblico ma lo schiavizza, e in esso compare il sadismo che non lo abbandonerà mai più. E molto difficile, s’intende, definire che cosa sia sadismo nella musica senza testo. Ma il Liszt esecutore, che traspare dalle sue musiche di questo periodo, doveva essere terrificante per la quantità di note e di timbri che riusciva a cavare dal pianoforte. «Noi [pianisti] facciamo arpeggi come le arpe, note lun­ ghe come gli strumenti a fiato, staccati e mille altri passaggi che prima sembravano riservati a tale o talaltro strumento», egli scriveva in una sua famosa dichiarazione del 1838. Se non è — e non è - una vanteria, se i

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contemporanei ascoltavano un pianoforte quale non avevano mai ascol­ tato, non potevano non essere turbati: turbati come da un prodigio. Leggiamo quel che Henri Blaze de Bury dice di Liszt interprete dell’/wvito alla danza di Weber (che Liszt parafrasava): «[...] una di quelle deliranti ispirazioni che in poche pagine rivelano abissi di dolore e di voluttà, di frenesia e di disperazione». E aggiungeva, e l’aggiunta ci dà la chiave della trasformazione operata dall’interprete: «Chi non ha mai ascoltato Liszt tradurre con la sua anima e il suo genio questo episodio fantastico ignora a qual grado di sovreccitazione possa condurre il senso della musica». Chi legge la Fantasia sulla “Campanella”o la trascrizione della Fanta­ stica non fatica a immaginarlo, quel turbamento doloroso, anche se mette rispettosamente da parte i testi negromantici e non prova neppure per scherzo a trasferirli sulla tastiera.

7- Il mago vorrebbe però esercitare anche in senso positivo il potere negromantico che ha acquistato sugli uomini, perché conosce e ammira Émile Barrault, che a Parigi ha dato vita al sansimonismo, conosce e ammira il democratico Lamartine, conosce e ammira il millenarista aba­ te Lamennais. La Fantasia su due temi del Lélio è una professione di fede in Berlioz, le trascrizioni servono a diffonderne il nome. L'idée fixe, condotta come un delicato notturnino che prefigura i Sogni d'amore, renderà ben accetto il sulfureo Berlioz alle dilettanti di pianoforte. La Fantasia è un pezzo di dimensioni imponenti - circa ventiquattro minu­ ti — in un tempo solo, costruito su due temi {Ballata delpescatore, Canto di briganti), in cui troviamo un campionario di futuri stilemi lisztiani (recitativo, melodia raddoppiata e trillo nella stessa mano, coloratura in note doppie, arpeggi che coprono tutta l’estensione, ottave rapide per moto contrario, ottave alternate tra le due mani). La scrittura pianistica è di estrema difficoltà e di grande efficacia, mentre piuttosto impacciata è la strumentazione orchestrale. Ma il lavo­ ro meriterebbe di trovare una circolazione nella vita musicale di oggi. Il Duo su un tema di Chopin, il Concertstuck su temi di Mendelssohn sono altrettante professioni di fede, sono testimonianze rese da un vir­ tuoso popolarissimo a due compagni di strada che avevano conquistato l’ammirazione dei salotti, non le luci della ribalta. E poi, c’è in Liszt l’ambizione, l’ansia di celebrare Vuomo. La Sinfonia rivoluzionaria è il punto di partenza, il De Profundis è il punto di arrivo di questo tumul­ tuoso e splendido periodo parigino di Liszt. La Sinfonia rivoluzionaria doveva contenere una canzone hussita del XV secolo, il corale di Lutero Ein 'feste Burg ist unser Gotte: la Marsigliese, oltre a un frammento di Vive Henri IV. Secondo Paul Merrick, Vive Henri Wsimboleggia i realisti, la

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Marsigliese il popolo, gli altri due canti Dio. Il programma della Sinfonia è cosparso di parole vergate febbrilmente qua e là nel manoscritto: “in­ dignazione, vendetta, terrore, libertà, disordine, grida confuse (onda, bizzarria), furore, rifiuto, marcia della guardia reale, dubbio, incertezza, parti in aumento, otto parti diverse, attacco, battaglia, marcia della guar­ dia nazionale, entusiasmo, entusiasmo, entusiasmo”. Non sappiamo se Liszt avesse avuto notizia della Vittoria di Wellington di Beethoven, ma dal suo programma sembra di vedere, strutturalmente, un ritorno al genere della battaglia, di cui il brano beethoveniano è l’esempio più cospicuo. La capacità di condurre a termine l’ambizioso progetto non fu però pari al fervore, e la Sinfonia rivoluzionaria rimase allo stato di abbozzo. Venne rielaborata e non ultimata nel 1848-49, in occasione di un’altra rivoluzione, e venne infine utilizzata in parte, come vedremo, nel poema sinfonico Héro'ide funébre, scritto nel 1854. Il De Profundis, dedicato all’abate Lamennais, pone molti problemi di ardua, e forse impossibile, soluzione. Liszt aveva conosciuto l’abate nel­ l’inverno del 1834 e aveva letto Paroles dun croyant neWa primavera. Il libro fu condannato in luglio come «detestabile prodotto d’empietà e d’audacia» dalla bolla Singulari nos del papa Gregorio XVI. L’abate si ritirò allora nel suo castello di La Chénaie in Bretagna. Liszt gli scrisse per dirgli quanto avesse ammirato Paroles dun croyant, l’abate rispose invitandolo a soggiornare a La Chènaie, e Liszt vi arrivò il 16 settembre e vi rimase fino al 10 ottobre. Il 14 gennaio 1835 scrisse a Lamennais dicendo: «Avrò l’onore di spedirvi un piccolo lavoro su cui ho avuto l’audacia di porre un gran nome, il vostro. E un salmo strumentale, De Profundis. Il canto gregoriano che tanto vi piace è conservato nel falso bordone [non si conosce la pubblicazione da cui Liszt trasse la melodia gregoriana, e non si può quindi dire se per falso bordone egli intendesse la parte del basso o la parte del tenore]. Forse vi farà piacere, un po’; io l’ho scritto comunque in ricordo di alcune ore passate (ma vorrei dir vissute} a La Chénaie». Un lavoro, dunque, che esprime un’alta tensione spirituale e che merita un’analisi particolareggiata perché conclude la formazione di Liszt nella cultura francese. Un quesito, banale solo in apparenza, sorge subi­ to: che cosa spedì, Liszt, all’abate Lamennais? Chi cerca il De Profundis tra le opere lisztiane lo trova infatti elencato tra le “opere incompiute”. Manca nel De Profundis la conclusione, perché il manoscritto si arresta su un accordo dell’orchestra con un accordo arpeggiato del pianoforte, che rimane sospeso; inoltre qualche tratto risulta appena abbozzato, sono del tutto assenti le indicazioni di agogica e quasi del tutto le indicazioni di dinamica. Liszt spedì all’abate Lamennais una bella copia completa, mai ritrovata, o si limitò a mandare un estratto? Finora non si è scoperto nessun documento che risolvesse l’indovinello. Gli studiosi che esamina­

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rono il manoscritto, custodito nell’archivio Goethe-Schiller di Weimar, rilevarono l’incompletezza e si limitarono a dire che una parte del De Profundis fu utilizzata nella seconda versione del Totentanz (1853) e nella Pensée des morts delle Harmonies poétiques et religieuses. Più recen­ temente vennero tentati almeno tre diversi completamenti del De Pro­ fundis, e la composizione venne eseguita, incisa in disco e pubblicata, di modo che se ne può oggi parlare con conoscenza di causa. Il titolo originale dice: De Profundis (Psaume instrumental) pour Orchestre et Piano principal par F. Liszt à Mr Tabbé de Lamennais

Dunque: De Profundis (Salmo strumentale) per orchestra e pianoforte principale. La collocazione dell’orchestra al primo posto e del pianoforte al secondo, e l’uso del termine principal, invece di solo, per designare il pianoforte, già ci dicono che non si tratta di una concezione Biedermeier del rapporto solista-orchestra: il pianoforte spicca sull’orchestra ma vi è anche integrato, al contrario di quanto avviene nei concerti, nelle fanta­ sie e nelle variazioni dell’epoca Biedermeier, nonché nella Fantasia su due temi del Lélio. Il rapporto tra solista e orchestra, anzi, tra orchestra e solista del De Profundis è definito fin dall’inizio. Nella breve introduzione, tematica, che precede l’esposizione del primo tema, il pianoforte suona all’unisono con violoncelli e contrabbassi, come uno strumento dell’orchestra che funziona da componente di un impasto timbrico. Il primo tema viene frazionato tra orchestra e pianoforte (primo elemento all’orchestra, secondo elemento al pianoforte, mentre nella riesposizione il prima tema verrà affidato tutto all’or­ chestra, con sovrapposta una ornamentazione del pianoforte). Il secondo tema, che è tipicamente “da archi”, non viene mai ripreso dal pianoforte. Bastano questi tre cenni, pensiamo, per far capire come il ruolo dell’orchestra non sia di contorno, e men che mai ad libitum, anche se la parte del piano­ forte è molto sviluppata e di grande difficoltà. Il contenuto tecnico della parte pianistica non è tuttavia paragonabile, quanto a somma di difficoltà, a quello della Fantasia su due temi del Lélio, e tanto meno a quello della Fantasia sulla ^Campanella”o della trascrizione della Sinfoniafantastica. Liszt intende dun­ que il De Profundis come composizione per orchestra con pianoforte concer­ tante, un po’ al modo òAXAroldo in Italia di Berlioz (1834). E se si pensa a quel che Paganini voleva invece da Berlioz, al quale chiese un pezzo in cui il solista fosse costantemente impegnato, si può capire quanto nuova fosse la concezione del De Profundis nel contesto della vita concertistica degli anni Trenta.

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Il titolo De profundis trova riscontro in un “tema del De Profundis ” che non abbiamo alcuna difficoltà a riconoscere intuitivamente, ma che riconosciamo anche positivamente, perché viene utilizzato con l’aggiun­ ta delle parole, in mi bemolle maggiore invece che in fa diesis minore, nella Pensée des morts del 1853. Chiarissimo il titolo, e chiarissimo il sottotitolo: salmo strumentale. In realtà il titolo e il sottotitolo sollevano una serie di interrogativi a cui non siamo riusciti a trovare una risposta certa. Se il pezzo fosse in forma di variazioni come il Totentanz (variazioni sul Dies Irete}, non ci sarebbero dubbi. La forma del De Profundis è però molto articolata, avendo alla base la struttura bitematica e tripartita del primo tempo della sinfonia o della ouverture da concerto. Non trattan­ dosi quindi di “variazioni sul tema del De Profundis ”, ma di una messa in musica del salmo penitenziale De Profundis senza intonazione del testo, di una messa in musica strumentale invece che sinfonico-vocale, noi ci troviamo a non poter capire quale rapporto esista tra il testo e le sezioni della composizione musicale. I cinque tempi della Sinfonia fan­ tastica hanno dei titoli e un “programma”, che funge da prefazione alla partitura. Schumann dice, dopo aver esposto il programma: «Fin qui il programma. Ma tutta la Germania non sa che farsene: simili guide hanno sempre qualcosa di poco dignitoso e di ciarlatanesco. In ogni caso i titoli sarebbero stati sufficienti; i particolari, più precisi, che devono certo interessare la persona del compositore che ha vissuto in prima persona la Sinfonia, si sarebbero comunque propalati per tradizione orale». Ora, nel caso di questa composizione di Liszt noi abbiamo solo un titolo generico... e non abbiamo nessuna tradizione orale. E vero che il De Profundis non è concepito in più tempi con soluzione di continuità, ma in più sezioni che si susseguono senza interruzioni. Però una delle sezioni contrasta con le altre in modo così radicale da non trovar spiega­ zioni plausibili né in considerazioni musicali né nel testo del salmo penitenziale. E ciò sconcerta fortemente chi legge la composizione. La sezione... intrusa è la quarta: una polacca estesissima (322 battute su un totale di circa 900), pluri tematica, chiaramente influenzata dalle Polacche di Weber, con un percorso tonale che dal do diesis minore iniziale passa a la maggiore, si bemolle maggiore, do diesis minore, re bemolle maggiore; nell’ultima sezione - “lotta” del primo tema contro il tema della polacca — il percorso tonale comporta rapidi scambi senza il prevalere di una tonalità determinata. La polacca, che si presenta anche in una variante ritmicamente contratta a polca, non sembra rispondere a nessuna ragione strutturale riconoscibile. Siccome il Deprofitndiscontra­ sta, all’inizio, l’affermazione della polacca, e siccome il primo tema, alla fine, la contrasta e la scaccia via, la concezione di questa parte risponde sicuramente a un intento programmatico di incerta, per noi, definizione.

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La polacca potrebbe simboleggiare le “iniquità” di cui parla il salmi­ sta, ma anche il secondo tema, danzante, potrebbe simboleggiarle. Il De Profundis dovrebbe simboleggiare l’invocazione a Dio, un tema derivato dal De Profundis dovrebbe simboleggiare la redenzione, e il primo tema dovrebbe simboleggiare l’angoscia del credente prima dell’invocazione. Ma tutti questi “dovrebbe” dicono che stiamo navigando in un mare di supposizioni senza trovare un ancoraggio. Con altrettanta probabilità, e lasciandoci suggestionare da alcune somiglianze stilistiche tra Liszt e Wagner (probabilmente riconducibili a una comune influenza di Weber e di Meyerbeer), potremmo vedere nel De Profundis una specie di terzo atto del Vascello fantasma. Non riusciamo a capire niente di più se supponiamo che Liszt perso­ nalizzasse il testo del salmo rapportandolo alla sua situazione esistenziale: la passione per la moglie del conte d’Agoult; la morte, a sei anni, della figlioletta della d’Agoult, avvenuta nel dicembre 1834 e vista dalla madre come un castigo del cielo per l’amore colpevole; la decisione di vivere more uxorio con la d’Agoult, rimasta incinta nel marzo del 18353. E oscuro resta, in tutto ciò, il ruolo dell’abate Lamennais, a cui Liszt comunicò l’ultima risoluzione, oscuro resta l’influsso delle teorie del sansimoniano Prosper Enfantin, che predicava l’uguaglianza dei sessi e la “riabilitazione della carne”. Certo è che attraverso le caotiche bellezze del De Profundis noi vediamo in modo chiarissimo il Liszt di Weimar, così come in altre composizioni di questo periodo avevamo visto altri aspetti futuri di Liszt. La cultura francese, insomma, avrebbe segnato per sem­ pre l’austroungarico giramondo che avrebbe invano tentato di trovare un ubi consistam nella Weimar di Goethe e in Roma caput mundi, E il lui e Paltro, Liszt e il suo Doppelganger, non avrebbero cessato di combattere tra di loro, fino alla morte dell’abate Liszt che scriveva valzer e polche intitolate a Mefìstofele.

8. Pare che Marie d’Agoult fosse una donna fisicamente conturbante, intellettualmente coltivatissima, priva del più piccolo granello di autoi­ ronia. I ritratti e le lettere sembrano interamente confermare queste

3 Nelle memorie di Marie d’Agoult tutti gli accadimenti dell’autunno-inverno 1834-35 sono oggetto di correzioni volte a salvare le apparenze: la d’Agoult voleva soprattutto evitare il rimprovero per aver visto Liszt durante il periodo che seguì la morte della bambina, e perciò inventò un nuovo soggiorno di Franz a La Chénaie. Ma i “tempi” degli avvenimenti sono chiarissimi: la lettera di commiato di Marie d’Agoult al marito è datata 26 maggio 1835, Blandine Liszt nacque a Ginevra il 18 dicembre, e il concepimento deve quindi risalire a marzo.

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opinioni dei contemporanei, anche se un ritratto è appena un barlume di una presenza fìsica e una lettera non più che il pallido riflesso di una conversazione. Quel che si coglie nelle lettere è, piuttosto, una più che discreta dose di narcisismo e di spirito possessivo, una certa tendenza a catturare l’attenzione degli uomini e una forte inclinazione a detestare le donne fatte spiritualmente a sua immagine, come la fatalissima Cristina di Belgiojoso e la sanguigna George Sand. Marie era di famiglia legittimista: il visconte suo padre era stato pag­ gio della regina Maria Antonietta, parecchi dei suoi parenti avevano perso la testa sotto la ghigliottina, e Marie stessa era venuta al mondo a Francoforte sul Meno invece che in Francia perché il genitore era fuoriu­ scito. Nata nel 1805 (Marie era di sei anni maggiore di Liszt), orfana del padre dal 1818, era stata educata in un convento; nel 1827, dopo aver rifiutato vari pretendenti, aveva sposato il conte Charles d’Agoult, tren­ tasettenne. Matrimonio fastosissimo, con il re Carlo X e i duchi e le duchesse di Berry e d’Orleans a far da testimoni: due figlie in sei anni, la noia delle unioni di convenienza. Liszt, che, come detto, non era estraneo ai palazzi legittimisti, conob­ be la contessa d’Agoult nel 1833. Nella tarda primavera del 1835, i due — «per buone e cogenti ragioni», come dice il biografo principe di Liszt, Sacheverell Sitwell — si allontanarono separatamente da Parigi, trascorse­ ro insieme qualche settimana a Basilea e insieme presero alloggio, dal­ l’agosto, a Ginevra. Il 18 dicembre nasceva la prima loro figlia, Blandine. Enorme scandalo a Parigi, scandaletto a Ginevra, presto superato quando Liszt accettò di insegnare nel Conservatorio appena aperto e di suonare in pubblico per beneficenza. Liszt e la d’Agoult non tardarono così a farsi un piccolo circolo di amici tra gli intellettuali ginevrini, ricevettero visite da personaggi di passaggio, fecero con George Sand una lunga gita a Chamonix, Martigny e Friburgo, pittorescamente descrittaci dalla Sand stessa e dal glottologo Adolphe Pictet, che vi partecipò. Il primo anno di convivenza fu certamente il più felice. A guastare l’idillio arrivò la notizia che un pianista fino ad allora noto soltanto in Germania e in Austria, Sigismund Thalberg, aveva fatto furore a Parigi. Nell’aprile del 1836 Liszt era andato per alcuni giorni a Parigi; non aveva potuto ascoltare Thalberg, che se ne era allontanato da poco, ma si era “ripresentato” ai suoi ammiratori con un concerto in cui aveva eseguito la gigantesca Sonata op. 106 di Beethoven. Tornò a Parigi nel dicembre del 1836, diede un gran ricevimento, ricomparve nei saloni e nei salotti, suonò più volte in pubblico, recensì su una rivista musicale le composi­ zioni di Thalberg, allora pubblicate. Quando Thalberg, in marzo, arrivò a Parigi, c’erano tutti gli elementi per una sfida fra titani. Thalberg suonò il 12 marzo 1837 nella sala del Conservatorio (quat­ trocento posti), Liszt ribattè il 19 con un concerto nella sala del Teatro

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dell’opera (più di tremila posti). Il 31 marzo Cristina di Belgiojoso, che con le sue opere di beneficenza riusciva sempre a far convivere il diavolo con l’acqua santa, mise i due campioni uno di fronte all’altro nel salone del suo palazzo. Sembra che la superiorità di Liszt venisse riconosciuta, almeno a maggioranza, ma per molti anni ancora si continuò a disputare su chi fosse il migliore. Il conte d’Agoult aveva preso molto sportivamente l’affronto, sicché Marie era potuta tornare a Parigi. Dopo aver duellato con Thalberg in casa Belgiojoso, Liszt tenne ancora un concerto nella Salle Érard, il 9 aprile, eseguendo tra l’altro alcuni degli Studi op. 25 di Chopin dedicati a Marie d’Agoult (gli Studi op. 10 erano stati dedicati a Liszt); accettò quindi l’invito di George Sand, che aveva casa a Nohant nel Berry, dove Marie soggiornava già da qualche mese. Dopo alcune settimane di sosta a Nohant — qui Liszt lavorò molto alle sue trascrizioni dei Lieder di Schubert - la coppia partì per l’Italia passando da Lione. A Lione Liszt suonò per beneficenza e Marie suscitò un’ardente (e duratura) ammirazione nel giovane poeta Louis de Ronchaud. Invitato da Liszt, il poeta accompagnò gli amanti fino a Chambéry ma non li seguì in Italia, dove i due si avviavano per molte buone ragioni (visitare il paese, le sue bellezze naturali e d’arte, leggere i poeti, conoscere la vita musicale), compresa una, direbbe il Sitwell, molto «cogente»: era bene allontanarsi dalla Francia perché stava arrivando un altro bebé, che ven­ ne al mondo il 25 dicembre 1837 a Como e che si chiamò Cosima. Prima che a Como i Liszt (chiamiamoli così, com’erano di fatto) avevano soggiornato brevemente a Baveno e più lungamente a Bellagio. Dopo la nascita di Cosima soggiornarono a Milano, Venezia (da cui, come diremo, il solo Franz raggiunse Vienna), poi a Genova, a Lugano, a Modena in una residenza estiva del duca, a Firenze, a Roma (dove il 9 maggio 1839 nacque il figlio maschio Daniel), a Lucca, a San Rossore vicino a Pisa e ancora a Firenze, rimanendo in Italia per circa due anni, fino al novembre del 1839. Liszt, che aveva già pubblicato alcuni saggi, si accordò con la «Revue et Gazette Musicale» di Parigi per l’invio di corrispondenze dall’Italia. Abbiamo così una sua recensione di alcune composizioni di Schumann, le sue analisi sulla situazione musicale italiana, e scritti su argomenti come il Perseo di Cellini e la Santa Cecilia di Raffaello, che ci rivelano molto del suo gusto e della sua formazione intellettuale. Troppo intelligente e troppo à la pagete? limitarsi a scrivere come un musicista in visita in un paese sconosciuto, Liszt adotta uno stile giorna­ listico brillante e condisce i suoi racconti con episodi, spunti, battute che non hanno il sapore della autenticità quanto piuttosto della rivisitazione, della lustratura di una più dimessa e banale realtà. Ad esempio, senza accusare Liszt di mendacio noi ci permettiamo di dubitare che l’editore

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Giovanni Ricordi, sentendo un pianista che provava uno strumento nel suo negozio milanese, stesse ad ascoltarlo attentamente, scappasse ad ingurgitare rapidamente un risotto, ritornasse e borbottasse ad un com­ messo: «Questo è Liszt o il diavolo», mettesse in cinque minuti a dispo­ sizione dello sconosciuto visitatore - presentatosi come Liszt — la sua carrozza e i suoi cavalli, la villa in Brianza, il palco alla Scala, la collezione di millecinquecento partiture. Il che non toglie che Liszt venisse ricevuto da Ricordi con ogni cordialità e introdotto nella buona società di Mila­ no e richiesto di suonare alla Scala, cosa che fece già il 10 dicembre 1837. Negli scritti di Liszt, al di sotto della vernice giornalistica parigina, si coglie però benissimo un’acutezza di giudizio che colpisce nel profondo i mali della vita musicale italiana: In questo felice paese [...] la messa in scena di una “opera seria” non è per nulla una cosa seria: quindici giorni, abitualmente, sono sufficienti. L’orchestra e i cantan­ ti, senza alcun legame fra di loro, non ricevono alcun impulso da un pubblico che parla e dorme (nei palchi del quinto ordine si cena e si gioca a carte); gli esecutori, distratti, intorpiditi, raffreddati, non sono in teatro come artisti, ma come gente stipendiata per fare della musica. [Trad. it. L. Cortese]

E via di questo passo... Non si trattava di osservazioni severe su un teatro di periferia: si trattava di critiche rivolte alla maestà della Scala. In una successiva e più particolareggiata corrispondenza Liszt concludeva che «La Scala si trova in uno stato di decadenza di cui non è possibile prevedere la durata». I milanesi, quando la corrispondenza fu pubblicata, si infuriarono come tori imbizzarriti; i giornali fecero clamorosamente eco all’indigna­ zione e Liszt pubblicò una lettera che, nella nota di uno spione della polizia ritrovata da Raffaello Barbiera, veniva definita «cartello di disfida che il signor cembalista Liszt dirige al pubblico milanese dopo averlo solennemente insultato e provocato». L’informatore ci dà dentro con forza, dicendo che «in tal lettera il Liszt deride il gusto e le cognizioni dei milanesi ai quali porse il cappello tre mesi fa per buscarsi i loro denari»; motivo per cui nella buona società si discusse accesamente se sfidare Liszt a duello o se, essendo il signor cembalista un plebeo, far ricorso a «schiaffi e bastone». Sembra di leggere le dispute alla tavola di don Rodrigo. Comunque, Liszt lasciò la Lombar­ dia, su pressante invito, ritiene il Barbiera, del capo della polizia. La conoscenza del paesaggio e dell’arte italiana fu di considerevole importanza nella maturazione dell’estetica lisztiana. Affermazioni come queste: «il sentimento e la riflessione mi convincevano ogni giorno di più della relazione nascosta che lega le opere del genio» o «Raffaello e Miche­ langelo mi facevano meglio comprendere Mozart e Beethoven» o «Tizia­

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no e Rossini mi apparivano come due astri dai raggi simili», ci sembrano in verità generiche e ci mettono in sospetto per la loro mancanza di prospettiva storica. Tuttavia è proprio da queste esperienze concrete e un po’ superficialmente entusiastiche che si va maturando una concezione della musica come parte inscindibile della cultura artistica, concezione che sarà di estrema importanza nella seconda metà del secolo. La vita musicale italiana, molto povera per quanto riguardava i con­ certi e nella quale mancava completamente l’esperienza delle istituzioni sinfoniche ormai attive nel mondo anglosassone e a Parigi, favorì indiret­ tamente la maturazione del Liszt concertista. Egli suonò in pubblico a Milano, Genova, Firenze, Bologna, Pisa, Roma, affrontando per la pri­ ma volta, nella capitale papale, il concerto sostenuto da un solo esecuto­ re. In una famosa lettera a Cristina di Belgiojoso, del 1839, Liszt disse di aver inventato a Roma i «soliloqui! musicali», cosa che non s’era allora mai vista. Sebbene il programma (Ouverture del Guglielmo Teli trascritta da Liszt, Variazioni sulla Marcia dei Puritani, Studi di Liszt, improvvi­ sazione) non fosse precisamente ciò che intendiamo oggi per concerto, quanto piuttosto il tour de force di un uomo-orchestra, Liszt saggiava per la prima volta le sue capacità di dominatore nei confronti di un pubblico distratto e avido di emozioni. La breve scappata che Liszt fece a Vienna tra l’aprile e il maggio del 1838 fu altrettanto determinante nella messa a fuoco di una scelta che avrebbe creato un panorama nuovo nella storia del concertismo. Occa­ sione contingente del viaggio fù una disastrosa inondazione che causò danni gravissimi in Ungheria: con gli otto concerti tenuti a Vienna Liszt raccolse una grossa somma che consegnò al governo di un paese che considerava la sua patria, pur non parlandone la lingua e pur essendone uscito bambino. A parte le sporadiche apparizioni a Lione, a Ginevra e in Italia, Liszt non era stato ascoltato negli ultimi dieci anni se non a Parigi, e dalla capitale asburgica, che per prima aveva creato la fama di Thalberg, man­ cava da quindici anni. Con i concerti di Vienna egli dimostrò anche a se stesso che la sua arte matura poteva essere riconosciuta in una città che per gusto e per civiltà radicalmente differiva da Parigi. Nel 1838 ci furono trattative anche per un giro di concerti in Germa­ nia: segno di una volontà di riprendere la carriera di pianista che andava oltre la circostanza casuale da cui erano nati gli otto concerti viennesi. Fu però un’altra casuale, e provvidenziale, circostanza a favorire il ritorno di Liszt a Vienna un anno e mezzo più tardi, nel novembre del 1839. Era stata lanciata una sottoscrizione per un monumento a Beethoven, che aveva fruttato solo 424 franchi. Lo scultore Lorenzo Bartolini, a cui Liszt chiese quanto sarebbe costata una commissione, indicò una cifra fra i cinquanta e i sessantamila franchi. Liszt comunicò allora ai giornali che

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si impegnava a coprire personalmente il costo, e partì per Vienna: aveva inizio così, in un modo apparentemente estemporaneo, un’avventura che sarebbe durata quasi otto anni e che avrebbe rivoluzionato la vita musicale.

9. Peregrinando tra la Svizzera, la Francia e l’Italia, tra il 1836 e il 1839 Liszt triplicò il suo catalogo. Guardiamo l’elenco delle più importanti composizioni di questo periodo: Réminescences de “La Juive” (1835) Fantaisie romantique sur deux mélodies suisses (1835) Réminescences de “Lucia di Lammermoor’ (1836) Divertissement sur la cavatine “I tuoi frequenti palpiti' (1836) La Serenata e L’Orgia, grandefantaisie sur des motif des “Soirées musicales (1836) La Pastorella dellAlpi e Li Marinari, deuxième fantaisie sur des motifs des “Soirées musicales" (1836) Rondeau fantastique sur un thème espagnol “El contrabandista"(1836) Réminescences des “Puritains" (1836) Grande Fantaisie sur des thèmes de l’opéra “Les Huguenots" (1836) Hexaméron (1837) Fantaisie sur des motif de l’opéra “La Sonnambula" (1839) Album d’un voyageur (1835-40) 24 Grandes Etudes (1838) Études d’exécutions transcendante d’aprés Paganini (1838) Grand Galop chromatique (1838) Soirées musicales (1837) Nuits d’été à Pausillipe (1838) Soirées italiennes (1838) Lob der Trdnen, da Schubert (1838) Dodici Lieder, da Schubert (1838) Schwanengesang, da Schubert (1838) Adelaide, da Beethoven (1839) Winterreise, da Schubert (1839) Partition de piano delle Sinfonie n. 5, 6 e 7 di Beethoven (1837) Ouverture del Guglielmo Teli (1838) Grand Duo concertant sur la romance “La Marin ” de M. Lafont, per violino e pianoforte (1837) Concerto n.l per pianoforte e orchestra, ulteriori abbozzi (1839) Concerto n.2 per pianoforte e orchestra, abbozzo (1839) Concerto n.3 per pianoforte e orchestra, incompiuto (1839).

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Il catalogo, come si vede, comprende quasi esclusivamente composi­ zione per pianoforte e, tra queste, lavori che in prevalenza appartengono ai generi delle parafrasi e delle trascrizioni. Le composizioni originali più interessanti, e più importanti per lo sviluppo della poetica di Liszt, sono quelle àAV Album d’un voyageur, che più tardi confluiranno in parte nella prima delle Années depèlerinage, Suisse, L’Album d’un voyageur compren­ de le Impressions etpoésies, sette composizioni originali, le Fleurs mètodiques des Alpes, nove trascrizioni di canti popolari, e le Paraphrases, tre elaborazioni di bravura di musiche popolareggianti. Oggi conosciamo generalmente solo la successiva versione, molto rimaneggiata, (VAL Album d’un voyageur. Sul rapporto tra la prima e la seconda versione non possiamo qui soffermarci. Ma conviene ricavare dalla prefazione della prima versione, che fu eliminata nella seconda, due concetti fondamentali. Liszt afferma innanzitutto il carattere anticlassi­ cistico della sua poetica, dicendo che il lettore troverà «un seguito di pezzi, che non attenendosi ad alcuna forma convenzionale, non chiu­ dendosi in alcuno speciale schema, prenderanno di volta in volta i ritmi, le movenze, le figure più appropriate a esprimere il sogno, la passione o il pensiero che le avrà ispirate». Non più, dunque, delle sonate, dei rondò, degli scherzi, delle variazioni, e nemmeno dei notturni e degli improvvisi di più recente conio, ma le impressioni della rivolta operaia in una città industriale {Lyon, con l’epigrafe «Vivre en travaillant ou mourir en combattant»), la pace di uno specchio d’acqua tra le monta­ gne {Le Lacde Wallenstadt, Il lago di Wallenstadt), l’incanto della natura primigenia {Au bord dune source. Sulle rive di una sorgente), la sugge­ stione di una natura interpretata da un pensatore {La Vallèe dober­ mann, La valle d’Obermann, da un romanzo di Etienne Sénancour), e così via. I motivi ispiratori suggeriscono una simbologia musicale, a volte an­ che onomatopeica, ma vengono sublimati, nelle aspirazioni di Liszt, in espressioni di un linguaggio dell’ineffabile: «Quanto più la musica pro­ gredisce, si sviluppa, si libera dai primieri legami, sempre più tende a improntarsi della idealità che ha segnato la perfezione delle arti plastiche, a diventare non più una semplice combinazione di suoni, ma un lin­ guaggio poetico, più adatto forse della stessa poesia a esprimere tutto ciò che ci spalanca orizzonti inconsueti, tutto ciò che sfugge all’analisi, tutto ciò che s’agita nelle profondità inaccessibili dei desideri imperituri, dei presentimenti, dell’infinito». Più tardi, nel saggio dedicato a Schumann, Liszt riprenderà in forma più discorsiva e meno alata il secondo concetto, individuando nel Be­ ethoven AcWEgmont e delle composizioni strumentali con titoli l’inizia­ tore di questa fase della musica, e in Schumann il primo continuatore, e stabilendo quindi una genealogia Beethoven-Schumann-Liszt che sa un

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po’ di regale dinastia, un Saul-Davide-Salomone. Non tornerà invece con altrettanta sicurezza sul primo concetto, perché il problema del rapporto con le forme della tradizione classica, e in particolare del primo tempo di sonata, si sarà imposto al suo spirito come tema di ricerca della sintesi di nuovo e di antico. Il compagno di strada, Schumann, non recensì nel suo complesso l’Album d’un voyageur, pubblicato nel 1840, ma si soffermò solo sulle Paraphrases, uscite separatamente nel 1836, inserendole in un discorso su parecchie «elaborazioni di canti svizzeri». Vale la pena di leggere la breve nota di Schumann, con il rammarico che egli non abbia poi af­ frontato la raccolta completa: Dei contributi di Liszt parlerò solo di sfuggita, in quanto egli sembra attualmente attraversare una nuova fase compositiva, su cui è meglio non esprimere un giudizio prematuro. Le sue sono le composizioni di maggiore spicco della raccolta, e sotto le sue dita saranno certo meravigliosi pezzi di pittura sonora. Echi, suoni di campanacci, giovani che cantano Jodel, prati color verde dorato: questo e altro ancora vediamo Improvvisata [Improvvisata sur le Ranz des vaches de E Hubef\ grazie alla fertile fantasia del grande virtuoso; nel Notturno [ Un soir dans les montagnes. Nocturne sur le Chant montagnard de Ernest KnopL invece, sono campane di chiesette, corni alpini alla sera, una tempesta in arrivo, cascate e lavine, per concludere poi con il dolce richiamo delle campane già udite all’inizio, mentre il vecchio fòhn torna brontolando a nascon­ dersi nelle gole montane. Ma una delle sue migliori composizioni in assoluto sembra il Rondò (n. 3) [Rondeau sur le Ranz de chèvres de Ferd. Hubeì\, davvero un pezzo ben congegnato anche sul piano formale, ricco di idee e spiritoso, a parte qualche luogo comune che sempre, purtroppo, si insinua nelle sue composizioni accanto a passaggi della più ardita forza. Dobbiamo infine sottolineare anche un particolare assai originale: l’estrema cura riservata alle indicazioni interpretative.

Lasciando a Schumann la responsabilità del «luogo comune», che non condividiamo, tutta la recensione coglie in modo ammirevole le caratte­ ristiche della poetica paesistica di Liszt. L’ampiezza delle tre composizio­ ni, che durano complessivamente circa ventotto minuti, la collocazione al centro del brano del movimento lento e “notturno”, e la didascalia generale del terzo pezzo, Allegro finale, ci fanno anzi guardare a questo lavoro di Liszt come a un trittico organico, che nella sua struttura mima l’archetipo della sonata. Possiamo dunque dire, senza paradosso, che con le Paraphrases compare nella musica francese quel concetto di trittico, come sostituto della sonata, che con Debussy e Ravel innalzerà la Francia al livello della classicità tedesca. Avevamo parlato, prima, del turbamento provato da chi legge le pa­ gine giovanili di Liszt. Mettono paura il tono desolato, il sorgere di tetri fantasmi, il taedium vitae. Mettono paura le forme, che rifuggono le classiche simmetrie a cui continuano a riferirsi Chopin e Schumann. E mette paura il gioco alchemico con la materia, tanto più evidente nelle fantasie su temi di melodrammi e nelle trascrizioni.

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Il sonno della ragione, si sa, genera mostri. Abbandonando le forme classiche, possedute sia pure in quella versione rassicurante che era stata inventata dal Biedermeier, Liszt si inoltra su un terreno in cui le simme­ trie architettoniche sono sostituite da un ordine creato di volta in volta e che obbedisce a oscuri impulsi della psiche. Le parafrasi non rispondono soltanto a una finalità mondana, cioè all’incatenamento di un pubblico che nel teatro vive il suo inconscio collettivo e a cui sono familiari Rossini e Bellini e Meyerbeer più di Bach e Beethoven. In Liszt, come nei grandi virtuosi suoi contemporanei, questa finalità gioca senza dubbio un ruolo fondamentale. Ma il parago­ ne tra una parafrasi di Thalberg e una di Liszt dimostra che mentre nel primo c’è il gusto dello scegliere e dell’ornare elegantemente, nel secon­ do c’è anche il gusto del distruggere e del ricomporre. Questo gusto, Liszt lo esercita persino verso se stesso, quando dagli Studi op. 6 crea i Grandi Studi, che diventeranno più tardi ancora gli Studi trascendentali. La recensione di Schumann, nel 1839, già si pone il problema critico che nasce dal dato cronachistico: [...] la nuova edizione ha accresciuto la ricchezza dei mezzi a sua disposizione cercando di superare la precedente in splendore e pienezza; d’altra parte va rilevato che la primitiva ingenuità che animava quella prima, giovanile effusione appare quasi del tutto eliminata dall’attuale forma dell’opera. Inoltre il nuovo lavoro ci dà la misura di quanto più elevato sia l’attuale modo di pensare e di sentire dell’artista, ci permette di gettare uno sguardo nella sua vita spirituale più segreta, dove spesso non sappiamo se per caso il fanciullo non sia da invidiare più dell’uomo che sembra non poter giungere ad alcuna pace.

E più avanti: Le composizioni di questo genere bisogna sentirla sono cose che le mani hanno strappato allo strumento, e solo le mani sullo strumento possono renderci le imma­ gini di esse. E poi bisogna anche vedere il compositore, perché se lo spettacolo di qualunque virtuosismo ha un effetto di corroborante elevazione nello spettatore, tanto più forte sarà l’effetto vedendo il compositore stesso lottare con il suo strumen­ to, domarlo e farlo obbedire in ciascuno dei suoni che egli vuole. Sono veri Studi di tempesta e di orrore, Studi per dieci o dodici persone al massimo in tutto il mondo; se vi si cimentassero pianisti di scarso valore farebbero solo ridere.

Il problema è molto complesso e tocca qualunque campo in cui una forma artistica venga riplasmata in un’altra forma e in un’altra materia; e tanto peggio quando a intervenire, come di solito avviene, non è il creatore. Si ha il diritto di ridurre un poema epico, di illustrarlo, di trarne un dramma teatrale un film, un fotoromanzo? Si ha il diritto di rimaneggiare un edificio, di ampliarlo, di elevarlo, di tagliarlo, di sosti­ tuire certi materiali? Le opere d’arte non devono essere tutelate? Non si deve tutelare persino il paesaggio?

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Quel che di Liszt accettiamo, almeno razionalmente, è la sua opera di trascrittore che, rispettando le note dei testi e trasferendole al pianoforte, le faceva ascoltare a un pubblico che non aveva né l’opportunità né gli stimoli culturali per conoscerle. Razionalmente si accettano le trascrizio­ ni della Sinfonia fantastica di Berlioz e delle Sinfonie di Beethoven. An­ che se, visceralmente, una non piccola parte dei critici e del pubblico si sente urtata dalla stranissima Eroica che salta fuori dal pianoforte di Liszt. E il risentimento non è senza ragione perché Liszt, malgrado tutte le sue buone intenzioni, non si sottomette ma si sostituisce a Beethoven; e trascrivendo Beethoven non secondo lo stile pianistico di Beethoven, ma secondo uno stile pianistico più “moderno” e molto diverso si lascia guidare dall’orgoglio luciferino del superamento. Lo spirito di ribellione che è in lui e la crudeltà che egli esercita verso le creature fanno sì che, pur lodandolo per i fini pratici ottenuti, noi non possiamo non sussurrarci ra noi e noi che, malgrado il successo, il fine non giustifica i me zi. Ma in fondo al cuore sappiamo che non con il moralismo giudiche­ remo Liszt. E ci resta, come dicevamo, una paura senza conforto, perché intuiamo che la valutazione di Schumann, su cui continuiamo ad appog­ giarci, non coglie il vero.

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10. «Temo per te le donne», aveva detto, spirando, Adam Liszt. La stessa frase avrebbe potuto sospirarla Marie d’Agoult, che rientrava in Francia con i bambini mentre il suo compagno prendeva la strada di Vienna. Salutata Marie a Firenze, Liszt raggiunse via terra Venezia, si imbarcò, arrivò a Trieste il 26 ottobre 1839. Visto che il monumento a Beethoven aspettava, ci sarebbe da credere che Liszt si precipitasse alla stazione di posta per sapere a che ora partiva la prima carrozza per Vienna. E invece non ripartì che due settimane più tardi, dopo aver tenuto due concerti. Che cosa mai era successo? Quale alta ragione tratteneva così a lungo quel paladino dell’ideale? La ragione, forse, si chiamava Carolina. Cioè Carolina Ungher, primadonna del Teatro Grande. La Ungher, che non era più una giovinetta (era nata nel 1803), era però una gran bella donna, forse un po’ imponente, ma soda e statuaria; ed era una donna di spirito, allegra, incantevole; ed era stata amata, amatissima dal poeta Lenau, e da principi, e da patrizi. Insomma, una di quelle rocche che attirano l’assediante: Liszt ci si mise d’impegno. Se la espugnasse o no non lo sappiamo con certezza; solo notiamo che nelle lettere a Marie d’Agoult la Ungher compare in continuazione: c’è persi­ no un “Resumé de nos conversation avec la Ungher” (Riassunto delle nostre conversazioni con la Ungher) in cui si scopre una non tanto mascherata dichiarazione d’amore - e di rinuncia - della donna. Walker crede che Liszt volesse far ingelosire Marie; a noi sembra piuttosto ch’egli volesse mettere avanti le mani per il caso che all’orecchio della compagna fosse arrivata o arrivasse qualche notizia allarmante. In ogni modo, che Liszt si trovasse bene con la Ungher va da sé; nell’epistolario Lisztd’Agoult il suo nome torna per parecchi anni e in un modo che lascia intrawedere la scappatella di Trieste. Liszt e la Ungher si conoscevano fin dal 1822: la Ungher aveva preso parte al concerto che il piccolo Franz aveva tenuto a Vienna il 1° dicem­

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bre. Aveva allora, dice un biografo malizioso, preso sulle ginocchia il ragazzino, e lo riprese, giovanotto, a Trieste. Ma sarà poi vero? Nel 1824 la giovane cantante era stata scelta da Beethoven per la parte di contralto nella prima esecuzione della Nona Sinfonia, quindi era scesa a tentare la carriera in Italia. Liszt aveva ritrovato la Ungher, che cantava alla Scala, a Milano, e poi a Firenze. Presentato dall’autorevole «Osservatore Triestino» come «celebrità pro­ priamente europea, e il vero diavolo dei pianofortisti», Liszt suonò a Trieste il 5 e ITI novembre. Partì il 12, e il 12 Carolina si ammalò, sicché si disse che s’era preso il raffreddore per aver accompagnato fuori città il suo amico. «Si pretende ch’io mi sia raffreddata martedì 12 corrente facendo una passeggiata fuori città. Io offro un premio di cento zecchini - annunciò fieramente Carolina sull’«Osservatore» - a chi può provare ch’io sia uscita di casa il giorno di martedì 12 novembre 1839». Gran donna, quella Ungher. Liszt arrivò a Vienna il mattino del 15 novembre, dopo tre giorni e tre notti di viaggio. Il primo concerto ebbe luogo il 19, il sesto ed ultimo il 14 dicembre. Tutti i biglietti erano stati venduti e si attendeva con ansia che Liszt aggiungesse altre serate a quelle già annunciate. Il che non avvenne. Liszt non stava bene: era raffreddatissimo (come Carolina) e aveva la febbre. Chiamò un medico che gli prescrisse una dozzina di polverine, lo fece «vigorosamente sudare» e lo rimise in piedi. L’interesse per Liszt era talmente spasmodico che il medico, spiegò a Liszt l’amico Joseph Dessauer, per due giorni non fece visite «altro che per dar notizie della tua febbre». Febbre che, momentaneamente rintuzzata, ritornò dopo il primo con­ certo e accompagnò Liszt per tutto il tempo trascorso a Vienna e oltre. Costretto a passare molte ore a letto e chiuso in camera, Liszt ricevette una gran quantità di persone che volevano vederlo e tenergli compagnia. Anche dame. Tra le altre, una pericolosissima maliarda di cui abbiamo già citato il nome e gli attributi, Marie Moke, già in Pleyel e da quattro anni divorziata. Bellissima donna e bravissima pianista, Marie prima aveva condotto al delirio Berlioz, poi lo aveva piantato per sposare Ca­ mille Pleyel, poi aveva corso la cavallina con parecchi spasimanti (tra i quali dovette esserci anche Liszt), e infine, separatasi da Pleyel, aveva continuato a correre baldanzosamente la cavallina e a mietere successi come pianista. Liszt se la ritrovò nello stesso albergo a Vienna. In una lettera del dicembre dette alla d’Agoult la notizia dell’incontro in modo neutro, pur aggiungendo quelle tre frasi che avrebbero poi fatto impazzire tutti i biografi e di Liszt e di Chopin: «Mi ha chiesto se mi ricordavo della camera di Chopin... Certamente, signora, come dimenticare, ecc... Poi

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è arrivato il conte Dietrichstein che ha tagliato corto alla nostra conver­ sazione e io sono partito». Il 19 dicembre, da Bratislava, Liszt diede più precise notizie, che han tutta l’aria di esser state reclamate dalla destinataria: «Bisogna che vi parli della signora Pleyel? Perché no?». E via a raccontare come la Pleyel avesse mandato un biglietto per esser ricevuta, come fosse stata ricevuta, come avesse suonato, «ammirevolmente», la lisztiana Fantasia sugli “Ugonotti” (uno dei tre pezzi di Liszt dedicati alla d’Agoult), come «secondo la sua lodevole abitudine» Liszt avesse finito per «dirle quasi delle stupidaggi­ ni», cioè incitandola a suonare a Vienna senza preoccuparsi della presen­ za del sommo Liszt. Poi: «Quando mi lascia è di parere diametralmente opposto al mio, dicendo che voleva aspettare ch’io partissi per Pest, che il pubblico avrebbe visto di buon grado questa sua modestia, ecc... Torna il giorno dopo: parliamo ancora del concerto. Ha cambiato idea del tutto e mi prega insistentemente di dirle delle stupidaggini come il giorno prima e di dirigere tutte le sue mosse durante il suo soggiorno a Vienna. Questo comincia a diventare imbarazzante». Per farla breve, andò a finire che per il primo concerto la fascinosa Marie entrò in scena al braccio di un Liszt vestito da perfetto damerino («un incantevole abito da mattina con bottoni a testa di cane, scarpe di vernice e un gilet incomparabile») e che per il secondo concerto apparve un annuncio con su scritto «per estrema cortesia verso l’artista il signor Liszt ha promesso il suo concorso»: la Pleyel e Liszt eseguirono a due pianoforti un pezzo di Herz sul Guglielmo Teli di Rossini. E fu un bidelirio. Per parte sua Marie d’Agoult, nelle lettere a Liszt, citava spesso il diplomatico inglese Henry Bulwer-Lytton, molto assiduo: «Ieri sera il signor Bulwer, ancora il signor Bulwer, sempre il signor Bulwer! Ha l’aria di divertirsi molto con me», aveva scritto il 26 novembre. Ma il 20 gennaio 1840 avrebbe scritto: «Il cancan musicale del giorno è il vostro ritorno qui [a Parigi] con la signora Pleyel. C’è stato un tempo in cui questo cancan m’avrebbe fatto versare amare lacrime: oggi scivola come sulla tela cerata». E si rammaricava, la menzognera, di non più soffrire. Liszt, il 2 febbraio: «Il cancan musicale del mio ritorno con la Camilla [era il terzo nome della ex-moglie di Camille] è proprio inventato. Mi ci vorrebbe un omnibus per ricondurla con tutto il suo seguito. Sarà l’am­ basciatore di Francia che si caricherà probabilmente di questa bisogna». Il 9 febbraio la d’Agoult ribatteva: «Si dà sempre a voi la Pleyel, e a me Sainte-Beuve» (il grande critico era stato citato come aspirante spasiman­ te in una lettera del 19 novembre 1839). La borsa degli amanti parigina dava insomma favoriti la Pleyel e Sainte-Beuve, aspettando che arrivasse, come nella Traviata, la storica notizia che Franz e Marie erano “disgiun­

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ti”. Il che non era né improbabile né in realtà imminente. Ma sull’argo­ mento dovremo ancora tornare. Ci siamo soffermati sul caso-Pleyel, che di per sé non avrebbe meritato più di un cenno, perché ci mostra un Liszt, come sarà poi sempre, non tanto cacciatore quanto selvaggina. Non solo una fùrbona come la Pleyel, che riesce ad aggregarlo — mentre lui trionfa — al suo codazzo di adoratori, ma molte altre donne si faranno un dovere e un vanto di conquistare Liszt facendo le viste di esserne conquistate. Ci sono molte Caroline de Saint-Cricq nella vita di Liszt; ci sono molte Adèle Laprunarède. Ma Liszt morirà solo come un vero Don Giovanni... A Vienna, nel 1839, Liszt non si offrì però soltanto all’ammirazione delle folle e alle mire di una maliarda. Fece molto di più: iniziando la turbinosa kermesse europea che Heine avrebbe definito Lisztomania, mise le definitive basi del concertismo pianistico moderno. I grandi pianisti della generazione precedente, e ancora un artista della levatura di Chopin, come già abbiamo detto, suonando in pubblico avevano eseguito i loro concerti, le loro variazioni, le loro fantasie e i loro rondò per pianoforte e orchestra, e avevano improvvisato su temi sugge­ riti dal pubblico. L’esecuzione di musiche — sempre per pianoforte e orchestra - di cui l’esecutore non fosse nello stesso tempo compositore, era riservata agli esordienti, ai ragazzi. Poi, cresciuto e divenuto celebre, il pianista doveva fondare il suo stile di pianista-compositore. Liszt e l’adolescente Mendelssohn non si erano comportati diversamente, ma avevano mantenuto nel loro repertorio anche musiche come i concerti di Beethoven e il Concertstuck di Weber. Verso il 1830 Thal­ berg, Liszt e altri avevano aggiunto all’improvvisazione la variazione di bravura e la fantasia cosiddetta drammatica (cioè su melodrammi molto popolari) per pianoforte solo. Il concerto pubblico, che aveva sempre visto la presenza dell’orchestra e di vari esecutori solisti, riuniti a corona intorno al protagonista della serata, cominciava così a limitare il ruolo dell’orchestra e ad accentrare le luci sul protagonista. I due concerti tenuti da Liszt a Trieste erano di tipo ancora tradizio­ nale. Ecco il programma del primo:

Lickl: Sinfonia per orchestra Liszt, Chopin e altri: Hexaméron Lillo: Romanza per tenore Liszt: Galop cromatico Auber: La festa da ballo, ouvertureper orchestra Donizetti-Liszt: Reminiscenza della “Lucia diLammermoor” Rossini: Due Ariette per soprano Bellini: Quartetto dei Puritani Liszt: Fantasia sulla “Niobe” di Pacini,

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Il primo concerto a Vienna, del 19 novembre 1839, comprendeva: Beethoven:

Scherzo, Tempesta e Finale della Sinfonia n. 6 (trascrizione di Liszt per pianoforte solo) G. Curci: Arietta, cantata dalla signora L. Tuczek Liszt, Chopin e altri: Hexaméron Quartetto vocale per voci maschili Schubert-Liszt: Ave Maria Liszt: Studio n. 4 (il futuro Mazeppd). L’ultimo concerto, il 14 dicembre, comprendeva: Beethoven: C. Kreutzer: Schubert-Liszt: Beethoven:

Bellini-Liszt:

Trio op. 97 Lied, eseguito dalla signora C. Kreutzer Melodie ungheresi An die feme Geliebte, eseguito dal signor L. Titze e da Liszt Fantasia sulla "Sonnambula”.

Esclusa l’orchestra, limitata la partecipazione di cantanti e di stru­ mentisti, Liszt faceva del pianoforte e del pianista i protagonisti assoluti della serata. Il pianoforte veniva presentato come strumento per la mu­ sica da camera {Trio e LiederAi Beethoven), come sostituto dell’orche­ stra sinfonica {Sinfonia di Beethoven), come sostituto dell’opera {Hexaméron, cioè variazioni sulla marcia dei Puritani di Bellini, e Fanta­ sia sulla "Sonnambula"}. La struttura del concerto tradizionale non veni­ va in effetti mutata, ma il pianoforte dimostrava di saperne sostenere tutto il peso. Negli anni successivi Liszt avrebbe dato uno spazio più ampio alla letteratura originale per pianoforte solo, ma senza mai perdere il contatto con il repertorio sinfonico e con il melodramma, di modo che il pubblico borghese, fanatico del teatro e interessato di fresco alla mu­ sica sinfonica, trovasse svariati motivi di interesse nel concerto pianisti­ co, che dal 1840 si cominciò a chiamare recital. Liszt aveva trionfato a Vienna nel 1838; vi trionfò di nuovo, in una misura fino ad allora inaudita per un pianista, nel dicembre del 1839. Subito dopo andò a Bratislava, dove aveva suonato bambino, e quindi a Pest. L’accoglienza degli ungheresi fu tale che la stampa internazionale paragonò - ironicamente — Liszt alle più idolatrate ballerine del tempo. A nessuna ballerina era però mai toccata la cerimonia della consegna di una “sciabola d’onore” che sei magnati misero nelle mani di Liszt, vestito in sgargiante costume nazionale, al termine del concerto del 4 gennaio 1840. La stampa satirica si scatenò, sul tema della sciabola e del costume. Liszt si risentì e per parecchio tempo dovette rintuzzare pesanti punzec­ chiature che lo irritavano e che lo addoloravano. Dall’Ungheria partì

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anche una petizione airimperatore perché a Liszt fossero concesse paten­ ti di nobiltà in base a una traballante ricostruzione dei suoi rami araldici. L’imperatore respinse la richiesta dopo più di sei mesi (il 20 giugno 1840, per l’esattezza). Intanto, però, ne avevano parlato a iosa i giornali, se ne era ciarlato - figurarsi! - a Parigi. Alla fine gli ungheresi fecero un po’ la figura dei provinciali, e Liszt un po’ quella del parvenu.

11. Tra il 1840 e il 1847 Liszt percorse tutta l’Europa, suscitando ovun­ que fanatismi, in qualche caso opposizioni, in qualche caso freddezza. Alan Walker elenca 166 città in cui Liszt suonò tra il novembre del 1839 e il settembre del ’47; i paesi da lui toccati (li elenchiamo secondo le divisioni politiche di oggi) sono diciotto: Austria, Ungheria, Cecoslovac­ chia, Germania, Danimarca, Francia, Inghilterra, Irlanda, Belgio, Olan­ da, Svizzera, Spagna, Portogallo, Romania, Polonia, Jugoslavia, Russia, Turchia. Liszt suonò in tutti i maggiori centri: tre volte a Vienna (1839, ’40, ’46), tre a Berlino (1841, ’42, ’43), quattro a Parigi (1840, ’41, ’42, ’44), tre a Bruxelles (1840, ’41, ’45), tre a Pest (1839, ’40, ’46), tre a Dresda (1840, ’41, ’44), due a Londra (1840, ’41), due a S. Pietroburgo (1842, ’43), due a Lipsia (1840 e ’41), due a Lisbona (1844 e ’45), due a Praga (1840 e ’46), e altri ancora. Ma suonò anche in centri minori e in piccole città, come Agen, Arad, Conmel, Eszèk, Galatz, Liegnitz, Marienburg, Mòdling, Neisse, Stanislav, Wesel, Zimony. Utilizzando i mezzi di locomozione plurisecolari e sfruttando intensamente i tronchi ferroviari che si andavano inaugurando ovunque in Europa, Liszt viaggiò con una frequenza e una vastità di raggio d’azione mai raggiunte da altri prima di lui, neppure da Paganini, che negli anni Trenta aveva inaugu­ rato una nuova concezione del concertismo: con Liszt la vita concertisti­ ca cambiava, e il pianoforte ne diventava il protagonista. Non tutti i pubblici, come abbiamo accennato, accolsero Liszt con pari entusiasmo. Quando, nel 1840, si recò in Inghilterra dopo i deliri di Vienna e soprattutto di Pest, trovò ascoltatori molto riservati e che restarono “freddi” anche nel 1841. Si disse che nell’Inghilterra vittoriana il giudizio morale sul suo irregolare legame con la d’Agoult faceva velo al giudizio sull’artista. E possibile, specie nella primavera del ’40, quando la d’Agoult seguì Liszt a Londra creandogli problemi per gli inviti a ricevimenti e party; ma sembra strano che la pruderie vittoriana condi­ zionasse il pubblico anche tra il novembre del 1840 e il gennaio del 1841, quando la d’Agoult restò a Parigi. Un pubblico piuttosto freddino Liszt lo trovò dapprima a Lipsia, dove si presentò al Gewandhaus, tempio della musica sinfonica, con la sua trascrizione della Pastorale di Beethoven. Schumann rilevò in ciò un errore di programmazione, e solo facendo ricorso a tutte le sue capacità

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e all’appoggio di Mendelssohn, Schumann e Hiller, Liszt riuscì a con­ quistare anche Lipsia. Berlino preoccupò molto Liszt, che vi arrivò nel 1841 dopo aver già suonato nelle altre tre grandi capitali, Vienna, Parigi e Londra. Per Ber­ lino si preparò scrupolosamente e vi si presentò con un repertorio impo­ nente: in ventitré concerti - dodici a suo profitto e undici di beneficen­ za — eseguì, a memoria, un’ottantina di composizioni. Di Beethoven le Sonate op. 26, 27 n. 2, 31 n. 2, 57, 106, i Concerti op. 37 e 73, la Fantasia op. 80, e inoltre la sua trascrizione della Marcia funebre deifi Eroica e dello Scherzo, Tempesta e Finale della Pastorale, tra gli autori “antichi” eseguì Bach, Haendel e Scarlatti, tra i grandi concertisti della generazione precedente Hummel e Moscheles, tra i contemporanei Men­ delssohn e Chopin; eseguì inoltre trascrizioni sue da Rossini, da Paganini e da Schubert, nove delle sue grandi fantasie drammatiche e una decina di sue composizioni. E impressionante notare come fin dal 1839 Liszt si rendesse conto che nella sua iniziativa di novatore entravano in gioco elementi di fanatismo, di mondanità, di moda, in ultima analisi di ciarlataneria. Scrivendo alla d’Agoult il 15 novembre, da Vienna, osservò: «I nostri amici (Chopin, Massart, Berlioz, ecc.) non mi conoscono affatto [nel lavoro che sto facendo ora] e non possono giudicarmi. Solo il successo può assolvermi, ed è precisamente il successo che mi condanna ai loro occhi. Poco im­ porta! Qualunque cosa capiti io non perderò dignità». Non solo non perdette la dignità, ma fece sorgere, con il recital, un’istituzione perma­ nente della vita e della cultura musicale. Dopo che la separazione tra la d’Agoult e Liszt era stata consumata, quest’ultimo scrisse alla sua ex-compagna, che gli aveva rimproverato i tradimenti e l’insincerità: «V’ho dunque mentito [...] a proposito della signora S[amoyloff], della principessa [Belgiojoso], della Pleyel, ecc. [...]?» (febbraio 1846). Della Pleyel abbiamo detto. Negli “eccetera” metteremo la Ungher, magari la polacca Eve Hanska (amante di Balzac, che Liszt incontrò a San Pietroburgo), le ospiti del gineceo del principe Pùckler Moskau, grande orientalista che adottava con scrupolo i costumi orientali e di cui Liszt fu ospite, e qualche altra di cui diremo poi. Di una fiammata accesasi tra Liszt e Cristina di Belgiojoso si è parlato molto, nonché dell’antipatia che la d’Agoult provava per la principessa italiana. Qualco­ sa di tenero ci fu, evidentemente; ma i più recenti biografi della Belgiojo­ so escludono una vera e propria “relazione” (ed escludono comunque che Cristina fosse quella vampiresca, necrofilia divoratrice d’uomini che ci era stata tramandata da certa letteratura scandalistica dell’Ottocento). La principessa Samoyloff, famosa per i suoi amori con Giovanni Pacini e per aver organizzato la gazzarra antibelliniana della prima della Norma,

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non viene comunemente indicata tra le amanti di Liszt: anche con lei Liszt dovette essere più leprotto che cacciatore. Si ha l’impressione che Liszt flirtasse molto e che Marie d’Agoult si ingelosisse soprattutto perché i flirt avevano quella eco che oggi defini­ remmo “da rotocalco”. Alan Walker sostiene però che prima della rottu­ ra Marie d’Agoult rese la pariglia a Liszt, oltre che nei flirt, confessati e un po’ vantati nelle lettere, in almeno due solidi “tradimenti” carnali: con il giornalista Emile de Girardin e con Charles Didier; e precisa anche, sulla scorta dell’inedito diario del Didier, che Liszt si trovò... incoronato nella notte del 30 gennaio 1842, dopo una serata all’Opéra. Con chi trascorse Liszt, che era allora a Berlino, la notte del 30 gennaio 1842? Ci sono buoni motivi per ritenere che la trascorresse con Charlotte von Hagn, trentunenne sfolgorante bellezza bavarese che a Berlino faceva l’attrice e che, come con galanteria Liszt scrisse alla d’Agoult il 25 gennaio 1842, era stata «l’odalisca favorita di due re». Charlotte compose per Liszt una poesia amorosa, Was Liebe sei (Che cosa sia l’amore) che Liszt mise in musica. «Poeta! cosa sia l’amore non mi celare! / L’amore è il respiro dell’anima. / Poeta! cosa sia un bacio fammi sapere! / Quanto più è breve, tanto più grande è il peccato!» (trad. it. R. Dalmonte). Sette anni più tardi questa focosa Charlotte avrebbe scritto a Liszt: «Lei ha messo a terra per me tutti gli altri. Nessuno può sostenere il paragone». Capperi! Ci sono, pare, tutte le buone ragioni per ritenere che tra flirt innocen­ ti e meno innocenti cadute Liszt non fosse precisamente, come si dice nella Traviata^ «model di fedeltà». E anche Marie d’Agoult... Eppure, nelle lettere che gli amanti si scambiarono copiosamente tra il 1840 e il 1842 soffia un sentimento amoroso intensissimo, radicato, rapinoso: un grande amore, da una parte e dall’altra, dopo una grande passione. Alcu­ ne settimane d’estate che gli amanti trascorsero con i figli nell’isola di Nonnenwerth sul Reno, nel 1841, ’42 e ’43, dovettero segnare le ultime fiammate di un’intesa che si andava logorando più per le circostanze esterne - la lontananza, la vita di società di Marie, il tourbillon in cui Liszt viveva - che per l’affievolirsi di un rapporto intensamente vissuto. La rottura avvenne per motivi concomitanti. All’inizio del 1844 Liszt dedicò a Marie Pleyel le sue Reminiscenze della “Norma” e Marie d’Agoult ne fu infastidita oltre il ragionevole, tanto che cercò insistentemente di far cassare la dedica prima della pubblicazione. La motivazione simbolica del tentativo sembra molto chiara: Norma-d’Agoult, madre dei figli di Pollione-Liszt, soffre un intollerabile insulto se Adalgisa-Pleyel riceve un dono. Alla fine Liszt, senza evidentemente capire la motivazione profon­ da di quello che sembrava un incomprensibile capriccio, scrisse a Marie che «la dedica della Norma deve restare com’è» (18 febbraio 1844).

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Nel febbraio del 1844 Liszt conobbe a Dresda la ballerina spagnola Lola Montez, che non si chiamava Lola Montez ma Elisa Gilbert, che non era spagnola ma irlandese, e che non era nemmeno ballerina, sebbe­ ne arrivasse a calcare il palcoscenico dell’Opéra di Parigi per esserne rapidamente cacciata. Avventuriera della più bell’acqua, sfrontata, volgare, Lola Montez sarebbe passata alla storia perché nel 1846 avrebbe catturato una preda regale, Luigi I di Baviera, che le avrebbe donato un titolo di contessa e, come si dice, si sarebbe per lei rovinato tutta la reputazione. Liszt non arrivò a tanto. Ma arrivò a sbalordire Wagner, presentando­ si nei camerini del Teatro di Corte di Dresda, in cui si rappresentava il Rienzi, al braccio della Montez. E arrivò a disgustare la d’Agoult, soprat­ tutto perché la Montez precedette Liszt a Parigi, giungendovi alla fine di marzo ed esordendo all’Opéra con scandalo dei critici e degli spettatori. In un tempestoso incontro tra Liszt e la d’Agoult che ebbe luogo a maggio Marie, dice Jacques Vier, gridò di esser disposta a figurare come /’amante di Liszt ma non come una delle sue amanti. E fu il crollo. La ragione che probabilmente impedì la riappacificazione fu però il romanzo Nélida che, ideato dalla d’Agoult tra la fine del ’43 e i primi mesi del ’44 e pubblicato nel 1846, creò scandalo e divenne subito un best seller. La d’Agoult, assunto il nome d’arte di Daniel Stern, aveva cominciato nel 1841 a scrivere feuilleton e novelle che Émile de Girardin - ahi! - le aveva pubblicato. Nélida (anagramma di Daniel) era il suo primo ro­ manzo, ed era di ispirazione, diciamo così, pesantemente autobiografica. Nélida, nobile di nascita e nobilissima di sentimenti, fugge (a Ginevra, manco a dirlo) con il pittore Guermann Regnier, plebeo di nascita e cinicamente immorale. Dopo vari tira e molla tra Parigi e l’Italia, Guermann abbandona Nélida giusto in tempo per scoprire che senza la donna, sua ispiratrice e musa, la sua vena creativa si inaridisce e tace. Ammalatosi, invoca Néli­ da, che torna a perdonarlo prima di raccoglierne l’ultimo respiro. Nélida dedicherà il resto della sua vita a opere di bene. Tra Marie e Franz le cose andarono diversamente. Ma Franz, detto volgarmente, aveva buone ragioni per fare gli scongiuri. Eppure i loro rapporti epistolari non si interruppero, tanto profondo era stato il lega­ me che li aveva uniti.

12. Il lettore ricorderà che Liszt era tornato in grande stile alla vita concertistica perché la sottoscrizione per il monumento a Beethoven stava andando a rotoli. Non che Liszt versasse al comitato incaricato di raccogliere i fondi tutto quel che guadagnava; né il comitato si ritenne pago di aver trovato un grande mecenate. L’impegno di Liszt permise

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però al comitato di commissionare allo scultore il monumento, mentre proseguiva la raccolta dei fondi, sicché nel 1845^ anno in cui cadeva il settantacinquesimo della nascita di Beethoven, si potè fissare l’inaugura­ zione. Lo scultore non era Lorenzo Bartolini perché il comitato aveva ritenu­ to imbarazzante e improponibile che fosse la mano di uno straniero a cavare dalla bruta materia i nobili tratti di Beethoven (non era invece giudicato imbarazzante che un altro straniero, Liszt, mettesse mano alla borsa). Lo scultore prescelto dal comitato fu perciò Ernst-Julius Hàhnel. Liszt contribuì con un quinto, diecimila franchi, alla spesa. Ma dovette poi provvedere ad altre spese, perché il comitato diede luminosa prova di un’incapacità organizzativa insospettabile in buoni laboriosi borghesi della Renania, e per di più dei tempi antichi. L’inaugurazione del monumento era stata fissata per il 12 agosto 1845. All’inizio dell’anno Liszt era in Spagna; in aprile passò in Francia, vi tenne concerti, tenne concerti a Zurigo, e arrivò in giugno a Bonn in tempo per accorgersi che, a parte il monumento e l’annuncio della festa, la macchina organizzativa non aveva prodotto null’altro. Tra le tante cose che mancavano, a cominciare da un piano per alloggiare i moltissimi forestieri che sarebbero convenuti a Bonn, Liszt scoprì che la patria di Beethoven non possedeva una sala per concerti. Propose di costruirne una di fortuna, e siccome il comitato nicchiava dichiarò che avrebbe coperto per intero la spesa. Garantita la spesa, si trovò un architetto di Colonia, Zwirner, che in quattro settimane spianò e livellò il terreno, tirò su un padiglione capace di contenere tremila spettatori e, miracolo nel miracolo, azzeccò un’acustica eccellente: la Festhalle c’era. Stavano intanto arrivando gli ospiti, tra cui Berlioz, Meyerbeer, Spohr, Moscheles, la grande cantante svedese Jenny Lind, l’immancabile Marie Pleyel che aveva entrature sufficienti non solo per esserci ma anche per venire invitata a suonare, e i critici dei maggiori giornali e delle riviste musicali europee; era prevista la presenza della regina Vittoria con il principe consorte (e seguito) e del re di Prussia Federico Guglielmo IV con consorte (e seguito). Ci fu qualche defezione che sapeva di polemica: Mendelssohn e Hiller, molto legati alla Renania dove avevano diretto più volte, non si fecero vedere. Il famulus^ o segretario di Beethoven e suo biografo, Anton Schindler, da Liszt conosciuto a Vienna nel 1823, ven­ ne, ma protestò nei giornali perché il pianista Liszt avrebbe diretto la Quinta Sinfonia. Insomma, il mondo musicale tedesco ricominciava a ritenere imbarazzante che fosse uno straniero a celebrare Beethoven e si rodeva nel timore che la manifestazione diventasse, come si disse più tardi, un «Festival Beethoven in onore di Liszt». LT 1 agosto Ludwig Spohr diresse la Missa solemnis e la Nona Sinfo-

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nia, poi il battello Ludwig van Beethoven salpò da Bonn carico di ospiti e di gitanti e approdò nell’isola di Nonnenwerth, ben nota a Liszt, dov’ebbe luogo un banchetto; tornò la sera a Bonn, nelle cui strade e piazze si svolse un gran ballo popolare o, come scrisse il «Times», «per le classi basse». Il mattino successivo Liszt diresse in duomo la Messa in do maggiore; dopodiché la folla si assiepò sulla piazza in attesa che il monu­ mento venisse scoperto. Mancavano all’appello le Loro Maestà, che arrivarono con un più che regale ritardo mentre i crani delle classi basse e non solo basse bollivano sotto il sole d’agosto.Quando Vittoria, Federico Guglielmo IV e i rispet­ tivi seguiti ebbero finalmente preso posto nella tribuna loro riservata avanzò il professor H.K. Breidenstein, oratore ufficiale, che tenne un interminabile discorso, adatto alla circostanza. Quindi, tra salve di can­ noni e acclamazioni della folla, si tirarono le funi e il monumento venne scoperto. E accadde allora una cosa che avrebbe potuto esser pensata per un film di René Clair. Perché la tribuna delle maestà era stata collocata sul lato sbagliato, sicché non il volto, ma il posteriore di Ludwig apparve agli sguardi esterrefatti di Vittoria e di Federico Guglielmo IV. Facendosi largo tra la folla alcuni dei dignitari, tra cui Liszt, andarono ad ammirare il monumento di faccia," mentre altri pensarono che Beethoven non sarebbe scappato e si sarebbe potuto vederlo con comodo più tardi. A sera però, mentre gli ospiti folleggiavano tra i ricevimenti, i pranzi e gli intrattenimenti musicali, Beethoven restò al buio perché non s’era pen­ sato di illuminarlo per la notte. Nel pomeriggio si tenne il grande concerto alla Festhalle, durante il quale Liszt diresse la Quinta e il finale del FideliO) e suonò, sotto la direzione di Spohr, il Concerto op. 73. Il 13, al mattino, ebbe luogo l’esecuzione della Cantata festiva) composta da Liszt per l’occasione. Le Loro Maestà erano di nuovo in gravissimo ritardo, sicché Liszt le aspettò a lungo prima di attaccare la Cantata. Non arrivavano: attaccò. Arriva­ rono che stava finendo: ricominciò da capo. Quando finì se ne andarono e il pubblico potè sentire il resto del programma (in cui figurava Marie Pleyel). Poi cominciò il banchetto finale all’aperto, foriero di una nuova e persino più grandiosa scena alla René Clair. A Liszt era stato affidato il discorso ufficiale, ma siccome doveva parlare in tedesco, lingua che non gli era più molto familiare, si dimenticò di citare la Francia tra le nazioni che partecipavano alla manifestazione. Un francese lo apostrofò con foga francese rinforzata da sciovinismo e champagne francesi, e Liszt cercò invano di scusarsi mentre tutti avevano già cominciato a far pollaio. Il dottor Wolf, autore del testo della Cantata) salì sul tavolo per ristabilire, strillando, l’ordine, ma Lola Montez, che era arrivata senza invito ed era

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entrata proclamandosi a gran voce «ospite di Liszt», ritenne che fosse giunto il suo momento e balzò a sua volta sul tavolo gridando: «Parli dunque, signor Wolf, parli, La prego», facendo strage di bicchieri men­ tre si esibiva in una delle sue famose danze spagnole. A questo punto un impietosito Buon Dio mandò giù un acquazzone violentissimo che fece scappare tutti quanti. E così si conclusero le feste per l’inaugurazione del monumento a Beethoven. Naturalmente, a Liszt, il cui conto in banca era sceso sottozero, ven­ nero addossate tutte le magagne e a lui venne imputato lo scandalo di Lola. Venticinque anni più tardi si celebrò a Bonn il centenario della nascita di Beethoven. E Liszt, ricorda Walker, non venne invitato.

13. I biografi non sono neppur certi che Lola Montez, tanto nociva alla reputazione di Liszt, di Liszt fosse diventata l’amante, e che il suo rap­ porto con il Maestro fosse di quel tipo che Walker usa definire come sexual connection. E, se sexual connection fu, durò poche settimane. Im­ mediatamente prima e immediatamente dopo la rottura con la d’Agoult, del resto, Liszt incontrò tre donne con le quali si sviluppò, soprattutto da parte sua, più l’idillio amoroso che non la passione bruciante. La prima donna fatata Liszt la incontrò vicino ai Pirenei. L’8 ottobre 1844 tenne un concerto nella Salle de Spectacle di Pau, su un magnifico pianoforte Érard che, gli spiegarono, era stato messo a disposizione da madame d’Artigaux. Liszt volle conoscere e ringraziare la cortese pro­ prietaria dello strumento: si recò in visita da lei e... si trovò di fronte al suo primo amore, Caroline de Saint-Cricq. Maritata a forza al signor Bertrand Dartigaux, che non era conte e non era dArtigaux come usava dire, Caroline era una moglie infelice e fedele confinata in provincia. Liszt tornò a trovarla parecchie volte durante le due settimane del sog­ giorno a Pau, scrisse per lei il Lied Ich móchte hingehn wie das Abendroth (Vorrei andarmene come il tramonto, testo di Georg Herwegh), le donò un braccialetto, e quando fece testamento, nel 1860, le lasciò un anello. Anello che non le venne mai consegnato perché Caroline morì quattor­ dici anni prima di Liszt, nel 1872. La seconda donna del destino, la ventiquattrenne contessa Valentine de Cessiat, fu incontrata da Liszt nel maggio del 1845, nel castello di Monceau in cui viveva Lamartine. Valentine era nipote del poeta e ne era anche l’amante; lo avrebbe sposato, con speciale dispensa papale, dopo la morte della moglie. Ma Liszt, che dell’animo femminile non doveva poi intendersene troppo, propose a Valentine di convolare a giuste nozze. Valentine oppose un - imbarazzato, pensiamo - diniego, e Liszt andò a consigliarsi con la sorella maggiore dell’interessata, che gli disse di non ritenerlo tagliato per il matrimonio. Candido oltre ogni dire, Liszt citò

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il suo decennale legame con la d’Agoult, e la sorella, convinta, cercò di metterci una buona parola. Invano. Però, Liszt era appena partito che nel castello arrivò Louis de Ronchaud, sua vecchia conoscenza, tenace spasimante sfortunato di Marie d’Agoult e pettegolo di primaria grandezza: ragion per cui Marie d’Agoult venne puntualmente informata dei propositi nuziali di Liszt. La terza donna fatale è Marie Duplessis, modello della Marguerite della Dame aux camélias di Dumas figlio, e quindi della Violetta di Verdi. Nella prefazione del romanzo, pubblicato nel 1848, Jules Janin dice di aver presentato a Liszt Marie Duplessis nel foyer di un piccolo teatro di boulevard, YAmbigu. Sembra invece che la presentazione fosse avvenuta nel novembre del 1845, per... merito dell’ex-medico curante di Marie, il dottor David-Ferdinand Koreff. Si parla spesso del dottor Koreff nell’epistolario Liszt-d’Agoult del 1839-40. Tedesco trapiantato in Francia e ben introdotto nel mondo dell’intellighenzia parigina, «mezzo ciarlatano, mezzo genio», come lo definisce il biografo della Duplessis André Maurois, il medico alla moda curava sia Marie d’Agoult sia la madre di Liszt. Anzi, il dottor Koreff era del resto altamente specializzato nella clientela femminile, a cui propina­ va cure quanto mai bizzarre: ad esempio, tra il maggio e il giugno del 1845 pensò di arginare la tubercolosi polmonare di Marie Duplessis con un centigrammo di stricnina al giorno! Nel novembre del 1845 la Duplessis non era più cliente di Koreff, ma non aveva trovato un medico migliore per curare l’“atro morbo”. Liszt la conobbe e l’amò. Se ne diventasse o meno l’amante è dubbio. Ma sem­ brerebbe di no. Del resto la vita di Liszt, vero Don Giovanni, è anche costellata di donne amate platonicamente, e nel suo amore per la Du­ plessis, come traspare da una lettera alla d’Agoult, ci sono una delicatezza idillica e una finezza psicologica che ci fanno conoscere un innamorato insospettabilmente tenero. Liszt e la d’Agoult, abbiamo detto, continuavano a tenere corrispon­ denza di tanto in tanto e a scambiarsi qualche confidenza. La lettera che ci interessa fu scritta da Leopoli, il 1° maggio 1847. Marie Duplessis era morta a Parigi e la notizia era pervenuta a Liszt in ritardo. «E la prima donna di cui sono stato innamorato - scrive Liszt - che si trova in non so qual cimitero, abbandonata ai vermi del sepolcro! Ella me lo diceva bene quindici mesi or sono: “Io non vivrò; sono una ragazza singolare e non potrò reggere a questa vita che non so condurre e che non so del resto sopportare. Prendimi, portami dove vorrai; non ti darò fastidio, dormo tutto il giorno; la sera mi lascerai andare allo spettacolo e la notte farai di me quel che vorrai!”». «Non vi ho mai detto — prosegue Liszt — da quale singolare attacca­ mento ero stato preso per quell’incantevole creatura durante il mio ulti­

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mo soggiorno a Parigi. Le avevo detto che l’avrei portata a Costantino­ poli, perché era il solo viaggio sensatamente possibile che potevo farle fare. Ed ora eccola morta... E io non so quale strana corda d’elegia antica vibri nel mio cuore, ricordandola!». Liszt raggiunse Costantinopoli nel giugno del 1847. Marie Duplessis non era con lui, ma era stato lui il solo che avesse saputo far balenare nella fantasia della povera ragazza un “avvenir migliore”. Costantinopoli. Era l’ultima grande capitale in cui Liszt doveva com­ parire, e perciò vi andò affrontando un viaggio tutt altro che comodo e una quarantena in entrata e in uscita che lo disturbò non poco. Fare il concertista nel modo in cui lo faceva Liszt non era né facile né comodo. Faticosi erano i viaggi, faticosi i concerti, faticosi i rapporti sociali intensissimi e gli interminabili pantagruelici banchetti, faticoso era ricevere postulanti d’ogni genere e reggere all’assalto di femminelle invasate che se non svenivano si scatenavano come menadi, anche sol­ tanto per conquistare un trofeo o un feticcio (erano molto ambiti i mozziconi dei sigari fumati da Liszt: Jean Chantavoine racconta di una dama che da quarantanni conservava e portava in seno una tal reliquia). Nelle lettere della d’Agoult torna più volte la preoccupazione destata dai troppi sigari nelle cui spire voluttuose Liszt s’awolgeva; non disde­ gnava del resto cognac e champagne, e per superare i malanni che l’afflig­ gevano, tra cui una misteriosa febbre intermittente, ricorreva a medica­ menti non precisamente raccomandabili, come gli oppiacei. Non era un ritmo di vita che potesse durare a lungo e non sembra del resto che Liszt avesse mai avuto l’intenzione di prolungarlo indefinitamente. Negli itinerari lisztiani si scorge a posteriori un disegno molto chiaro che tende a “coprire” tutta l’Europa: Austria, Ungheria, Boemia, Sasso­ nia, Inghilterra, Irlanda e Belgio nel 1839-40, Olanda, Danimarca, Prussia e Russia nel 1841-42, Germania e Polonia nel 1843, Francia nel 1844, Spagna e Portogallo nel 1844-45. Costantinopoli concludeva un ciclo esaltante e irripetibile, e Liszt, che nel 1842 era stato nominato maestro di cappella del duca di Weimar, doveva da tempo avere in animo di chiudere con la Sublime Porta la sua attività concertistica. A Kiev, nel febbraio del 1847, conobbe Carolyne Iwanowska, ventot­ tenne moglie separata del principe Nikolaj Sayn-Wittgenstein, che lo invitò nella sua residenza di Woronince. Liszt, abbiamo detto, aveva l’abitudine di mettere le mani avanti con Marie d’Agoult, citando inno­ centemente le amicizie femminili che diventavano impegnative. Sebbe­ ne con la d’Agoult non vivesse più da tre anni, in una lettera del 10 febbraio 1847 da Woronince annunciò innocentemente: «Sapete una notizia? E che ho appena incontrato a Kiev, per caso, una donna proprio straordinaria, ma proprio straordinaria ed eminente... al punto che mi sono cordialmente deciso a fare venti leghe di deviazione per chiacchie­

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rare con lei per qualche ora» (a dire il vero, la chiacchierata durò dieci giorni). Da Jassy, in maggio, confessò, negandola, la verità: «Berlioz m’ha scritto una grande [...] lettera da San Pietroburgo attraverso la princi­ pessa Wittgenstein (che è la mia nuova scoperta in fatto di principesse, come diceva la signora Allart, con la differenza che noi non pensiamo affatto di essere innamorati l’un l’altro)». Era invece proprio quel che accadeva. Una lettera di Marie, del 17 gennaio 1848, sarà, su questo punto, sferzante come il sermone di un confessore: «Una nuova apparizione si impadronisce della vostra imma­ ginazione e del vostro cuore? Tanto meglio. Questa donna, voi dite, di gran carattere, non consentirà certamente alla divisione della vostra vita. Non vorrà essere una delle vostre amanti, e siccome, negli ultimi quattro anni, avete dovuto esser giunto, più che alla sazietà, al disgusto mortale dei piaceri senza amore, dovete afferrare con gioia il filo che vi vien teso per uscire dal labirinto». Nel settembre del 1847 Liszt concludeva a Elisavetgrad la lunga tour­ née in Oriente. Dopo di allora avrebbe suonato in pubblico solo molto raramente e senza mai percepire onorario. E Carolyne gli avrebbe orga­ nizzato la nuova vita e la nuova carriera. Per i sudditi russi non era facile uscire dal paese. Tanto più difficile sarebbe stata la fuga per la moglie di un aiutante dello zar, com’era il principe Sayn-Wittgenstein, se si fosse sospettato che fuori dai confini l’attendeva un amante con cui aveva deciso di passare tutta la vita. La principessa ottenne per sé e per la figlia il permesso di recarsi per una cura a Carlsbad in Boemia, e così uscì legalmente dalla Russia. Sembra anzi che fosse l’ultima a passare da un valico di frontiera che venne chiuso subito dopo perché in Europa stavano scoppiando i moti rivolu­ zionari, stava cioè arrivando il Quarantotto. Il Quarantotto è una pagina cruciale e difficile da analizzare, nella vita di Liszt. L’uomo del 1830, colui che aveva schizzato la Sinfonia rivolu­ zionaria, aveva sempre avuto degli amici nella sinistra radicale francese, ma aveva anche frequentato i legittimisti dell’estrema destra. Durante gli anni della kermesse concertistica aveva conosciuto e frequentato molti intellettuali, ma soprattutto moltissimi aristocratici, tra i quali c’erano coloro che guardarono senza timore alla rivoluzione, coloro che si man­ tennero prudenti e coloro che la combatterono. La situazione, s’intende, non era così schematica, e i comportamenti di chi prese parte attiva ai moti rivoluzionari e controrivoluzionari non fu certo ancorata in modo tetragono a posizioni di principio. Tra i più intimi amici di Liszt, due perdettero la vita: il conte Lajos Batthyàny, presidente del consiglio nel governo rivoluzionario ungherese, fu fucilato dagli austriaci, e il conte Felix Lichnowsky fu linciato dalla folla a Fran­

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coforte sul Meno. Wagner si salvò dall’arresto con la fuga. La d Agoult seguì gli avvenimenti con tale interesse e tale capacità di analisi da poter scrivere più tardi quella Histoire de la Révolution de 1848, in tre volumi, che resta il suo miglior lavoro letterario. Liszt, semplicemente... svicolò, rifugiandosi con la Sayn-Wittgenstein nel castello di Kryzanowitz e poi nel castello di Graz, messi a sua disposizione da Felix Lichnowsky, filando via da una Vienna in cui si innalzavano le prime barricate e recandosi come in pellegrinaggio a Rai­ ding ed Eisenstadt, luoghi della sua infanzia4. Quindi i due amanti raggiunsero Weimar (prima Franz, dopo alcune settimane Carolyne), prendendo rispettivamente alloggio nell’albergo Erbprinz e in una gran­ de casa detta Altenburg. I due erano convinti di potersi unire poco tempo dopo in matrimo­ nio, fidando nel divorzio che Carolyne aveva chiesto e che la moglie del granduca di Weimar e sorella dello zar, Marie Pavlovna, aveva caldeggia­ to. Il divorzio non fu però sollecitamente pronunciato e dopo qualche tempo Liszt andò a vivere nell’Altenburg... sebbene le comunicazioni ufficiali indirizzate dalla corte granducale al granducale maestro di cap­ pella continuassero ad essere consegnate all’Hotel Erbprinz. Nel 1857 lo zar tolse la cittadinanza russa a Carolyne, che rifiutava di tornare in patria, e le sequestrò i beni. Da quel momento la principessa non fu più ricevuta a corte e la sua difficile posizione si rifletté su Liszt, con le indirette conseguenze di cui diremo più avanti.

14. Tra il 1840 e il 1847 Liszt è prima di tutto e soprattutto il grande concertista. Il compositore, tuttavia, non tace affatto, ma raggiunge anzi la più completa maturità nel campo della fantasia su temi di melodram­ mi, la fantasia drammatica, e comincia ad affrontare il campo d’azione che sta al di là del pianoforte. Questo l’elenco dei più importanti lavori:

4 II 15 gennaio 1849 Cristina di Belgiojoso così scrisse a Liszt: «Il vostro paese, a quest’ora, è perito e, come il mio, è stato tradito, perché il popolo ungherese sa battersi e, questa volta, ha ceduto senza colpo ferire. Ci dev’essere là sotto qualche spaventoso mistero che la storia non chiarirà forse mai. Ma perché, mio caro Liszt, Voi non avete preso parte alla lotta? L’Ungheria non è forse la Vostra patria di fatto e di scelta? Non avete dichiarato di essere ungherese? Vi credevo al di là del Danubio ed ero inquieta di non sentire Vostre notizie [...]. So che non prendete molto a cuore la politica; e tuttavia che cosa c’è che merita che ci si applichi, se non il fondare i diritti di tutti, popoli e individui? [...] Sono i piaceri personali, che non meritano la pena che ci prendiamo per averli». Non si conosce la risposta di Liszt.

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Melodie nazionali ungheresi (1840) Rapsodie ungheresi (prima versione) (1840) Cinque cori su testi francesi (1840) Venezia e Napoli (prima versione) (1840) Tre melodie ungheresi (1840) Reminiscences de “Lucrezia Borgia” (1840) Sechs geistliche Lieder op. 48 di Beethoven, trascrizione per pianoforte (1840) Mendelssohns Lieder (1840) Geistliche Lieder (da Schubert) (1840) Settimino op. 20 di Beethoven, trascrizione per pianoforte (1840) Quattro cori maschili (1841) Réminiscences de “Norma1* (1841) Reminiscences de “Robert le Diable” (1841) Réminiscences de “Don Juan” (1841) Valse a capriccio sur deux motifs de “Lucia” et “Parisina” (1841) Fantasia su due temi delle “Nozze di Figaro”, incompiuta (1841) Sei Preludi e fughe per organo di Bach, trascrizione per pianoforte (1842-50) Marcia dei Circassi da “Russian e Ludmila” di Glinka (1843) Buch der Lieder per pianoforte solo (1843) Faribolo Pastour et Chanson du Béarn (1844) Les quatre Elements per coro maschile e pianoforte, testi di J. Autran (1845) Festkantate^ex lo scoprimento del monumento a Beethoven, per due soprani, due tenori, due bassi, coro e orchestra, testo di O.L.B. Wolf (1845) Grande fantasia da concerto su melodie popolari spagnole (1845) Ballatati. 1 (1845-48) Capriccio alla turca su “Le rovine d.'Atene”di Beethoven (1846) Lieder di Dessaur, trascrizione per pianoforte (1846) Sei melodie per pianoforte, da Schubert (1846) Mullerlieder da Schubert (1846) Tarantella di bravura dalla “Muta di Portici” (1846) Rapsodie ungheresi, seconda versione (1846-47) Sardanapalo, opera in tre atti da Byron, incompiuta (1846-51) Grande paraphrase de la marche de Giuseppe Donizetti, composée pour Sa Majesté le Sultan Abdul Medijd-Khan (1847) Due trascrizioni da Rossini (1847) Glanes de Woronince (1847) 35 Lieder per canto e pianoforte su testi francesi e tedeschi (1840-47).

Tra le composizioni che non ruotano attorno al pianoforte si segna­ lano soltanto i cori Les quatre Éléments, che Liszt avrebbe riutilizzato più tardi nel poema sinfonico Les Préludes. La Festkantate è opera di circo­ stanza, che sarebbe interessante soprattutto per valutare la tecnica lisztia-

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na nel trattare la strumentazione orchestrale e il rapporto tra le voci e l’orchestra; ma la partitura non è stata mai pubblicata. Della progettata opera Sardanapalo, a cui Liszt lavorò saltuariamente, si sa molto poco; si trattava, e questo è un dato rilevante, di un melodramma con testo italiano di un certo Rotondi. Anche un Riccardo in Palestina, da Walter Scott, a cui Liszt accennò in una lettera, avrebbe avuto un testo italiano. Le composizioni originali per pianoforte sono poche e, a parte varie piccole pagine che non abbiamo incluso nell’elenco, la sola realmente interessante è la Ballata n. 1, con la quale Liszt affronta il problema del bitematismo, cioè del rapporto dialettico tra due temi entro una prospet­ tiva di simmetrie formali articolate. Le composizioni pianistiche basate su temi o su musiche da vari autori possono essere distinte in trascrizioni, parafrasi, fantasie. Dopo aver trascritto alla fine degli anni Trenta molti Lieder di Schu­ bert, Liszt continua questo lavoro con lo stesso Schubert e lo estende ad altri autori, tra i quali... se stesso, con il Buch der Lieder (Libro dei Lieder) che comprende sei pezzi. Si tratta di trascrizioni difficili, in stile concertistico e non di rado di bravura, che nel loro complesso non entrarono in repertorio, sebbene alcune di esse venissero eseguite da Liszt, poi da molti altri, e sebbene vengano ancora eseguite ai nostri giorni. Una volta riconosciuta l’abilità di Liszt, che aveva messo a punto una sofisticatissima tecnica di trasferimento del canto da camera alla sala di concerto, non ci sarebbe dunque null’altro da aggiungere. Ma conver­ rà invece fare una breve riflessione sul significato ideologico che le tra­ scrizioni dei Lieder assumono nella storia del concertismo, cioè dello spettacolo. Il centro, e la carta vincente, del repertorio concertistico di Liszt è senza dubbio costituito dalle fantasie drammatiche. E del resto, eccettua­ ta Clara Wieck, anche gli altri concertisti che negli anni Trenta si affian­ carono a Liszt, come Thalberg, Henselt, Dòhler, Dreyschock, Willmers, Adolfo Fumagalli, conquistarono il pubblico con le fantasie drammati­ che. La fantasia drammatica poteva essere una macchina teatrale meravi­ gliosa, e talvolta, come vedremo fra poco, poteva presentare motivi di non secondario interesse anche sul piano compositivo, ma sul piano sociologico non innovava nulla: il pubblico riviveva con il pianoforte le pagine del melodramma che aveva già familiari. E lo stesso avveniva con le trascrizioni di composizioni sinfoniche, che dagli autori erano state pensate per l’esecuzione pubblica, cioè per una classe di ascoltatori che venivano toccati da grandi e “popolari” temi ideologici. Proponendo al pubblico anche musiche strumentali pensate per l’ese­ cuzione privata o addirittura per la privata lettura, Liszt e Clara Wieck introdussero nello spettacolo elementi di poetica nuovi, contenuti inu­ sitati e difficili. Ora, i Lieder appartengono allo stesso ambito, la musica

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da camera, a cui appartengono le Fughe di Bach e le Sonate di Beethoven e le Mazurche di Chopin: con le sue trascrizioni da concerto dei Lieder, e con le sue esecuzioni delle Fughe di Bach e delle Sonate di Beethoven e delle Mazurche di Chopin in sale che contenevano duemila spettatori, Liszt trasformava la poesia in teatro, ampliando le tematiche teatrali e riducendo nello stesso tempo lo spazio della poesia: nella seconda metà del secolo il salotto intellettuale diventerà dunque, ideologicamente, uno spazio teatrale, e sarà sostituito nelle sue antiche funzioni dal salotto piccolo-borghese. Nelle parafrasi si manifesta soprattutto il gusto di Liszt per l’esotico e per il popolaresco: in ogni angolo che visita, persino in quel cantuccio vicino ai Pirenei in cui ritrova la sua prima fiamma (Faribolo Pastour et Chanson du Béarn, dedicati a madame d’Artigaux), Liszt scopre qualco­ sa, nel folclore locale, che merita la sua attenzione e che susciterà la curiosità del suo pubblico. La Spagna, la Russia, Venezia, Napoli... A Costantinopoli, avendo già sfruttato le antiche turcherie con la parafrasi sulle musiche di Beethoven per le Rovine d’Atene, e non trovando nulla di altrettanto stuzzicante, Liszt fa ricorso a una marcia del fratello di Donizetti, Giuseppe, che sulle rive del Bosforo si era scavata una confor­ tevole nicchia. L’importante, per Liszt, è che il pubblico riceva una sua cartolina da Costantinopoli, e che vi figuri l’esotico sultano Abdul Medijd-Kahn. In questa grande galleria di stampe dei paesi meravigliosi il posto d’onore lo assume la terra che, avendo costretto suo padre (o suo nonno) a cambiare in sz una s, è stata scelta da Liszt a sua patria: l’Ungheria. I suoi genitori sono austriaci, la lingua ungherese non la conosce, il suo soggiorno a Doborjàn è durato neppure dieci anni, e Doborjàn è del resto terra di confine in cui si parla tedesco. Ma Liszt vuole essere unghe­ rese, e in Ungheria, invece di un pacifico Giuseppe Donizetti, trova gli eccitanti zingari. Altrettanto estranei alla musica ungherese, in realtà, quanto il Giuseppe bergamasco era estraneo alla musica turca. Liszt non se ne dà per inteso, e si lancia in un’avventura da cui uscirà lacerato ideologicamente, ma che delizierà i pubblici di tutto il mondo. Il capitolo più interessante del catalogo lisztiano di questi anni è quello delle fantasie drammatiche, con le quali un genere appena nato nel decennio precedente raggiunge il culmine e muore. Riprendiamo un discorso che avevamo già avviato e non ancora con­ cluso. In questi ultimi decenni le trascrizioni del giovane Liszt, che da più di mezzo secolo erano state respinte dal gusto dominante, sono state riportate alla luce, destando un po’ di interesse, un po’ di fastidio, un po’ di scandalo. Interesse, fastidio, scandalo, ma con prevalenza del primo, destano quelle poche parafrasi e fantasie - si parla qui del Liszt 1830-50, non del Liszt posteriore - che sono state riproposte da alcuni concertisti.

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Siamo ben lontani dal conoscere davvero il panorama delle grandi parafrasi e delle fantasie pluritematiche o delle fantasie drammatiche che dir si voglia. Almeno le fantasie sul Don Giovanni e sulla Norma hanno però riconquistato il diritto di cittadinanza nelle nostre sale di concerto. Ma... Ma si può immaginare un Don Giovanni in cui non compaia Donna Anna, in cui la terribile musica del Commendatore sceso dal piedistallo stia all’inizio e non alla fine, in cui il duetto «Là ci darem la mano» non venga seguito dal «Fermati, scellerato!» di Donna Elvira, in cui si finisca con la lasciva aria dello champagne? «Personalmente sul libretto, pur magistralmente costruito, dell’avventuroso abate Lorenzo Da Ponte, ho da obbiettare che l’eroe non vi è rappresentato in modo abbastanza vittorioso, che i suoi successi galanti non sono precisamente brillanti, e che oltretutto anziché demoniaco riesce volubile», scriveva Busoni nella introduzione alla sua revisione della Fantasia sul“Don Giovanni'. Liszt doveva essere d’accordo: nel suo condensato del Don Giovanni vince la lussuria, il vizio non è punito, il vendicatore della morale fa soltanto sentire una minaccia tremenda che non si concreta. Si può immaginare di scrivere una parafrasi della Divina Commedia in cui desiderabile sia l’inferno? Con Liszt siamo già alle Fleurs du mal... Pure la fantasia sulla Norma è per noi un osso duro da rodere. Ci sono invenzioni pianistiche che strappano un grido d’ammirazione, come il ferocissimo «Gerra, guerra» o come quel «Qual cor tradisti» di cui Buso­ ni diceva che «non è ancora arrivato a Liszt» chi lo ha «ascoltato o suonato senza emozione». Anche la forma lascia subito ammirati per la logica dell’organizzazio­ ne tonale: sol minore-sol maggiore-si minore-si maggiore-mi bemolle minore-mi bemolle maggiore. La scelta dei temi è però sconcertante. Reminiscenze della “Norma”, dice il titolo. Si può pensare che tra le reminiscenze della Norma non ci sia necessariamente «Casta Diva»? Non c’è. Liszt, quando trasferisce sul pianoforte il melodramma contempora­ neo, sceglie preferibilmente il canto sillabico, la linea melodica non vo­ calizzata; e le vocalizzazioni di «Casta Diva» suonerebbero sul pianoforte come in un pallidissimo riflesso, non come in un accettabile specchio delle voci lunari della Pasta e della Malibran. Ma, oltre alle ragioni tecniche, Liszt evita «Casta Diva» fors’anche per ragioni drammatiche: nelle sue Reminiscenze manca la dimensione sacerdotale e sacrale del personaggio di Norma, e manca la volontà di espiazione che la fa ascen­ dere al rogo. E la vicenda privata di Norma, il tradimento dell’amante e il pericolo mortale dei figli, l’odio e la pietà a uno stadio elementare ciò che Liszt coglie nell’opera e che lo scuote nel profondo, non il lato politico-sociale del conflitto e la statura pubblica dei personaggi. Nel periodo della sua attività di pianista concertista, che si addensa

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Parte seconda: Lisztomania

negli anni fra il 1839 e il 1847, Liszt rivela agli ascoltatori dei teatri la musica strumentale ed espone loro, commentandola, la musica melo­ drammatica. Ma sconvolgendo la gerarchia dei valori, da vero romantico individualista: è Fio, il suo io, ciò che egli esalta, anche quando si rispec­ chia in Beethoven o in Mozart o in Bellini. E perciò Liszt ci mette a disagio, o ci infastidisce o, ed è la verità, ci fa paura.

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15. Abbiamo già detto che nel 1853, pubblicando una raccolta di dieci pezzi intitolata Harmonies poétiques et religieuses, Liszt aggiungeva a una composizione di ventanni prima una sezione finale “celestiale” per la quale non sarebbero impropri, invece del pianoforte, flauti, arpe e coro in lontananza come nei classici del misticismo pompier. E nato un nuovo Liszt, dunque. Quanto sia diverso lo vedremo pre­ sto. Comunque, il nuovo Liszt tenta, perlomeno, di esser diverso dal vecchio. Non è solo sulle Harmonies del 1834 che Liszt ritorna dopo aver abbandonato la carriera concertistica ed essersi stabilito a Weimar: ritor­ na su molte delle sue composizioni, e le riscrive. Liszt accetta, implicitamente, la riserva critica di Schumann a propo­ sito degli Studi da Paganini'. «Certo: se consideriamo con maggiore at­ tenzione alcune cose contenute in questa raccolta, non potremo avere dubbi circa il fatto che il contenuto musicale di fondo spesso non sta in nessun rapporto con le difficoltà tecniche» (1842). C’è in questa posizio­ ne critica, a parer nostro, un equivoco di fondo. Le composizioni del Liszt concertista vanno misurate secondo il metro non dell’estetica ma dello spettacolo, così come non secondo le norme del diritto canonico va giudicata la catalessi-lievitazione corporale, la “suspension éthéréenne” inventata daH’illusionista Robert Houdin verso il 1840. Ma a cadere nell’equivoco, dopo Schumann, è il Liszt di Weimar, e a noi non resta che seguirlo sulla sua strada. A volte, nella revisione, si tratta del sorgere di idee migliori: ad esem­ pio, riscrivendo la Vallèe d’Obermann Liszt trova all’inizio uno spazio armonico molto più ampio, che dal mi minore curva inaspettatamente nel sol minore e poi nel si bemolle minore. Di invenzioni di questo genere sono sparse le revisioni. Però, quel che viene radicalmente ripen­ sato è il pianoforte. In un certo senso si tratta di dar ordine al caos, cioè di ritracciare le linee con fermezza, di attenuare macchie materiche e

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pesanti ombreggiature, di rendere più sicura l’esecuzione e più organiz­ zata la percezione. Il “caso” più sorprendente lo abbiamo nel quarto degli Studi da Pa­ ganini. Nella versione composta nel 1838 e pubblicata nel 1840 trovia­ mo due redazioni di questo Studio', nella prima la linea leggerissima di Paganini viene raddoppiata in sesta, appena ombreggiata; nella seconda viene riverberata su accordi, in modo che non più una linea si muove, ma una massa. Nella edizione pubblicata nel 1851 torniamo a Paganini, a una semplice, intelligente trascrizione. La terza versione è quella oggi nota, la prima sembra poco più che uno schizzo. La seconda versione fa sorgere un interrogativo: si tratta di uno studio teorico, di una specie di sciarada senza soluzione? Oppure Liszt eseguiva davvero questa versione? Non si ha notizia delle esecuzioni di Liszt, ma pare molto improbabile che egli pubblicasse un pezzo che non eseguiva. Il punto è che, così come appare, il pezzo sembra ineseguibile. Torniamo alle caratteristiche del Liszt virtuoso degli anni Trenta e Quaranta. Non si capisce come Liszt potesse eseguire una composizione del genere. Se la eseguiva — e pensiamo che la eseguisse — il risultato non poteva essere che illusionistico: sicuramente non si sentivano quattro linee in movimento ma un tremolio di armonie, cioè un effetto magico in cui le intensità dei singoli suoni erano soggette ad ampi margini di casuale oscillazione. Si può anche pensare a un effetto di pianoforte automatico o di automa; e del resto il primo Ottocento costruiva pianoforti automatici, ricordava ancora gli automi di Vaucanson e svolgeva con passione ricer­ che per dare negli androidi l’illusione della vita. Non vorremmo sembrare irriverenti, ma il Liszt di questa versione dello Studio da Paganini, e in diversa misura di altre pagine degli anni Trenta e Quaranta, sembra personificare lo scimmione Milo di Hoff­ mann che troviamo nei frammenti di Kreisleriana\ una creatura subuma­ na (o sovrumana), che riesce a percorrere «senza un intoppo, con tutt’e due le mani, accordi di trentadue, sessantaquattro, centoventotto note, a fare dei trilli ugualmente buoni con tutte le dita e a saltare su e giù tre o quattro ottave, come per l’addietro da un albero all’altro» (trad. it. R. Pisaneschi). Se non tenteremo di riprendere su larga scala le composizioni lisztiane degli anni Trenta e Quaranta non saremo mai in grado di capire per intero il fenomeno Liszt, Liszt l’illusionista, Liszt il mago, e non saremo nemmeno in grado di capire il brusco processo di autocritica e di auto­ censura che ci dà le definitive versioni degli Studi trascendentali e degli Studi da Paganini, tanto più razionali e sagge e, a parer nostro, tanto meno fantastiche delle precedenti versioni.

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Caratteristica prima del virtuoso è di mirare a stupire e affascinare, non a convincere. Il Liszt di Weimar, che non è più genio e sregolatezza, non diventa però, affatto, genio e regolatezza perché il virtuosismo, tanto più saggio e quindi più convincente per quanto riguarda Fuso dello strumento, si sposta sulla concezione musicale: sono i temi a perdere ogni nettezza, ogni definizione univoca, ed è attraverso la metamorfosi dei temi, spinta a limiti di bravura inimmaginabili, che la musica di Liszt mantiene il suo carattere di fiaba surreale in cui Forco diventa topo e il principe albero e la fanciulla ruscello. Il lavoro del Liszt compositore è prima di tutto riflessione sui principi classici del comporre, cioè sul pluritematismo e sullo sviluppo tematico. Al termine della sua carriera di concertista militante, alla quale si era affiancata una carriera di creatore finalizzata in gran parte al concerti­ smo, Liszt ripensa la sua posizione di musicista di fronte alla storia. Negli anni Trenta aveva aderito alle tendenze anticlassicistiche del romantici­ smo francese e aveva teorizzato, e praticato, il superamento degli schemi formali classici e Fintimo rapporto della musica con la letteratura, con le arti visive e con la natura. La classicità veniva vista da lui come esperienza conclusa e non attuale, dalla quale non si attingevano i principi del pensare e del comporre ma le opere d’arte assolute, da perpetuare nella loro intangibile integrità. Malgrado le deviazioni, le incongruenze, le contraddizioni di chi operava in un mondo in rapida e tumultuosa trasformazione, il Liszt degli anni Trenta e Quaranta si fa guidare dai due fili d’Arianna dell’anticlassicismo e dello storicismo: non compone né sonate né concerti ma esegue sonate e concerti di Beethoven, non compone fughe ma esegue fughe di Bach, di Haendel, di Scarlatti, sfugge ai condizionamenti della classicità prendendo occasioni creative dalla attualità contemporanea (fantasie drammatiche) o dalla atemporalità del folclore. Questa posizione viene messa in crisi dalla cessazione dell’attività concertistica. Installato a Weimar come direttore del teatro di corte e reso indipendente dagli stimoli come dalle tentazioni del rapporto con pubblici cosmopoliti, Liszt comincia a riscoprire nella classicità i valori della techné e dei principi compositivi. Dapprima è l’Allegro di sonata ad attirare la sua attenzione, poi l’arte della variazione, poi la fuga. I principi della sua estetica romantica non vengono negati ma vengono a parer nostro, per così dire, “messi in parentesi” per un breve periodo. Riemergeranno, in matura sintesi con le nuove esperienze, nei poemi sinfonici che cominceranno ad apparire dal 1854. Ma perdono fortemente di significato in opere come le Ballate, il Grosses Konzertsolo, la Fantasia quasi Sonata, la Sonata. La discussione sulle fonti di ispirazione non-musicali di questi lavori, che punta prin­ cipalmente sull’ estetica della musica a programma di cui Liszt fu propu-

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gnatore, ha a parer nostro il torto di considerare monolitica una perso­ nalità artistica che si evolve e che attraversa una molteplicità di problemi. Sebbene la radice della creatività di Liszt sia emotiva ed espressiva, non formale, e sebbene il suo stile sia immaginativo in una tale misura da stimolare riferimenti alla letteratura, al mito, a visioni della natura, l’in­ teresse dominante e la preoccupazione di fondo che guida la composizio­ ne delle Ballate e della Sonata è a parer nostro la riconquista della grande forma attraverso l’impiego di princìpi del comporre classici.

16. Nella forma della Sonata in si minore confluisce prima di tutto una scoperta della Fantasia quasi Sonata, derivata dalla Patetica di Beethoven: un tema in movimento lento, tema d’esordio, diventa parte integrante del primo gruppo tematico e ritorna nel corso dell’Allegro energico. A questo primo gruppo tematico si contrappongono un secondo gruppo tematico dell’Allegro energico e un tema in movimento lento, che appa­ re soltanto alla metà della composizione e poco prima della fine. Tranne che nel terzo tema tutta la composizione consiste in trasformazioni, talora profondissime, di elementi dei due gruppi tematici: trasformazio­ ni che dimostrano fino a che punto Liszt avesse creato una nuova tecnica della variazione basata sullo studio delle cosiddette Variazioni-Goldberg di Bach e delle Variazioni su un Valzer di Diabelli di Beethoven. Le trasformazioni dei temi, in una sonata, contraddicono in realtà la tradizione classica e provocano quindi - o meglio, provocarono a suo tempo - il disorientamento psicologico dell’ascoltatore. La dialettica beethoveniana aveva insegnato che i temi sono protagonisti non solo simbolici ma reali del dramma. Nella Sonata di Liszt l’ascoltatore, ad esempio, sente nella prima pagina un tema minacciosissimo... e poche pagine più avanti se lo trova trasformato in una dolcissima ninna nanna. Così avviene continuamente con tutti i nuclei che compongono i temi principali (escluso, ripetiamo, quello centrale). Se l’ascoltatore non rico­ nosce le metamorfosi, e assegna a ogni trasformazione il ruolo di “perso­ naggio”, individuerà un numero di personaggi troppo elevato per un dramma di cui possa comprendere la “trama”. Se riconosce le metamor­ fosi come tali resta disorientato per la mancanza di specifico “ruolo” di ogni tema. Più che alla tradizione classica, più che al teatro drammatico contemporaneo, la Sonatasi richiama piuttosto al poema rinascimentale o al romanzo cavalleresco o picaresco: sicché si capisce benissimo perché il suo inserimento nel repertorio concertistico, malgrado il magistero della scrittura strumentale, fosse lentissimo e avvenisse solo nel momen­ to in cui veniva superato il teatro naturalistico. Lo scheletro formale della Sonata, pur enormemente ingigantito, è quello classico: esposizione, sviluppo, riesposizione, con un andamento

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tonale che non si discosta da quello tradizionale. Questo schema viene però “aperto” nel corso dello sviluppo, e nella frattura viene inserito il terzo tema che ha funzione di “adagio”. Liszt riesce così a sintetizzare la struttura della sonata classica in più tempi, accentuando ulteriormente la sintesi mediante rinserimento, dopo l’Adagio, di un fugato sul primo tema che assolve la funzione di Scherzo. In trenta minuti di musica abbiamo quindi un Allegro di sonata, un Adagio e uno Scherzo in un blocco molto articolato senza soluzioni di continuità, e abbiamo il dominio della scienza architettonica, della scienza della variazione e della scienza contrappuntistica. Una tale sintesi non appartiene neppur più a un singolo musicista, ma a una generazione, a un’epoca: è il compimento della rivoluzione operata dagli artisti nati intorno al 1810, compimento al quale perviene Liszt, unico sopravvissu­ to. Proprio per questo motivo la Sonata in si minore ebbe alcune imita­ zioni ma non un seguito: fino alla Kammersymphonie di Schonberg, nel 1906, la cultura europea non conoscerà nulla di simile. Al tempo in cui i biografi andavano fiduciosamente a ricercare i segni distintivi della personalità del biografato nella sua ascendenza genetica, del padre e del nonno di Liszt si sapeva poco. Oggi, che di babbo e nonno Liszt qualcosa in più si sa, è subentrato un certo imbarazzo, o un certo scetticismo, nel trovare connessioni certe tra le virtù e le colpe dei padri e le virtù e le colpe dei figli. Fatto salvo il dovere di non stabilire meccaniche relazioni possiamo dire che Liszt fu la sintesi di suo padre e di suo nonno, tra di loro opposti quasi come i due princìpi di Beethoven. Il nonno era, in fondo, un caposcarico. Il padre era un uomo savio e metodico. Liszt, sansimoniano e intimo dell’abate Lamennais, fu sempre cattolico praticante e devoto di S. Francesco, prese nel 1865 gli ordini minori e divenne nel 1879 canonico di Albano, frequentò il papa Pio IX e altissimi prelati di mezza Europa. Il che non gli vietò di appartenere a sette logge massoniche, di vivere more uxorio con due donne maritate, da una delle quali ebbe tre figli, e di collezionare, prima, durante e dopo i concubinaggi, una ricchissima serie di avventure galanti. A leggere le lettere di Liszt alla sua figlia maggiore Blandine, nelle quali si trovano esposti i rigidi principi educativi dell’età vittoriana, e a pensare ch’egli e la principessa Carolyne Sayn-Wittgenstein, vivendo sotto lo stesso tetto a Weimar, tutte le mattine si raccoglievano in pre­ ghiera prostrandosi su due inginocchiatoi collocati fianco a fianco, c’è da pensare che Liszt fosse insieme un bigotto e un ipocrita. E nelle sue musiche si ritrovano un sentimentalismo dolciastro e l’ottimismo pre­ confezionato dei finali gloriosi, che mettono a disagio l’ascoltatore per­ ché puzzano di insincerità e, appunto, di ipocrisia. Avevamo prima par­ lato del sadismo del virtuosismo lisztiano. Si può parlare anche di falsità della sua arte, di consapevole finzione?

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Pensiamo di sì. Pensiamo che se ne possa parlare quando Liszt rinne­ ga il suo Don Giovanni, e dunque nel Grosses Konzertsolo (Gran Solo di concerto), nella Fantasia quasi Sonata dopo una lettura di Dante, nella prima versione della Ballata n. 2 e nella prima versione della Sonata in si minore, e in molte altre pagine degli anni di Weimar. Ma pensiamo, nello stesso tempo, che la falsità, carattere a parer nostro distintivo delFarte matura di Liszt, sia molto complessa e vada vista come incarnazio­ ne decadentistica di uno spirito arcaico, medievale. Ci sono nel Liszt di Weimar tutti gli entusiasmi candidi, tutte le contraddizioni non solo irrisolte ma taciute, tutte le esagerazioni dello spirito medievale. E anche il suo porre su due piani distinti la carne e lo spirito, anche il suo sposare aperto concubinaggio e pia devozione appar­ tengono allo spirito medievale. Ma il medievalismo di Liszt non può certo essere diretto: è estetico, è decadentistico. E proprio per questo i finali trionfanti assumono un doppio significato, che è positivo e negativo insieme. La conclusione della Fantasia quasi Sonata è imbarazzante quando se ne coglie soltanto il significato positivo; non lo è quando si coglie, insieme con l’afferma­ zione, la negazione che nasce appunto dalla consapevole finzione, quan­ do insieme con il grido vittorioso si vede la risata. Finale glorioso: quello del Tartufo. Va da sé però che questa doppiezza di Liszt non è certo fatta per attirargli le simpatie dell’ascoltatore e che anche questo Liszt, se lo si comprende nel suo essere maschera nuova e volto antico, fa paura. I finali alternativi, e definitivi, della Sonata e della Ballata n. 2 sciol­ gono essi stessi l’imbarazzo perché scelgono il modo interrogativo-esitante e quindi “moderno”. Ma questo, si perdoni il termine, è un altro trucco diabolico di quel mago che Liszt era. Perché le due conclusioni opposte sono in realtà altrettanto logiche, altrettanto possibili. Il secon­ do finale della Sonata è soltanto meno banale e meno pompier del primo, è esteticamente riuscitissimo e quindi non imbarazzante e più gradevole per la gente di garbo. Non è tuttavia il solo possibile: ideologicamente, il primo finale sta in piedi quanto il secondo. E Liszt può permettersi la beffa di non arrivare, dopo mezz’ora di musica, non a una conclusione, ma solo a una chiusa convincente sul piano dell’evidenza estetica, non della catarsi.

17. Nel 1845, come abbiamo detto, Anton Schindler aveva protestato pubblicamente perché Liszt, pianista, intendeva dirigere la Sinfonia n. 5 di Beethoven. Prima del 1848 Liszt aveva diretto qualche composizione sinfonica e, a Breslavia nel 1843, una sola rappresentazione del Flauto magico. Non era, evidentemente, un direttore d’orchestra professionista, e tanto meno un organizzatore musicale di teatro. Ma da quando iniziò

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a lavorare a Weimar assolse impeccabilmente le funzioni inerenti al suo ufficio. L’opera con cui Liszt esordì a Weimar il 16 febbraio 1848 fu la Martha di Flo to w: non era una novità e non spaventava nessuno. Dal 1849, assumendo la piena responsabilità della carica, Liszt faceva capire che le sue scelte non sarebbero state di routine. Il repertorio programmato da Liszt fu in grandissima misura contem­ poraneo, con alcune prime esecuzioni assolute che segnarono un’epoca. Tra gli autori “antichi” diede la preferenza a Gluck {Orpheus, Armida, Alceste, Iphigenia, quest’ultima nella versione di Wagner); di Mozart diresse il Don Giovanni e il Flauto magico, di Beethoven il Fidelio, di Weber l’Euryanthe. Genoveva di Schumann fu ripresa a Weimar per la prima volta dopo il tiepido successo di Lipsia, in prima esecuzione asso­ luta vennero diretti da Liszt Toni di Ernst II di Sachsen-Koburg-Gotha (14 aprile 1849), Das Korps der Rache di Siegfried Saloman (12 giugno 1850), Lohengrin di Wagner (28 agosto 1850), Die Nibelungen di Hein­ rich Dorn (22 gennaio 1854), Alphonso und Estrella di Schubert (24 giugno 1854), Die sibirischen Jdger di Anton Rubinstein (9 novembre 1854), Kaiser Konrad von Weinsberg di Gustav Schmidt (16 febbraio 1857), Der Barbier von Bagdad di Peter Cornelius (15 dicembre 1858); Liszt preparò inoltre Konig Alfred di Joachim Raff (9 marzo 1851) e Landgraf Ludwigs Brautfahrt di Eduard Lassen (20 maggio 1857), la­ sciando la bacchetta, per le prime rappresentazioni, ai rispettivi autori. Wagner, troppo ardentemente impegolatosi nei moti rivoluzionari di Dresda, era sfuggito all’ordine di cattura rifugiandosi in Svizzera. La tolleranza del Granduca permise a Liszt di dirigere, superando gravissi­ me difficoltà pratiche, il Lohengrin, oltre al Tannhauser e al Vascello fantasma. Non meno significativa la cura di Liszt per il repertorio francese e italiano: Rossini {La Gazza ladra, L'Italiana in Algeri, Le Comte Ory), Donizetti, Bellini, Verdi {Emani e I due Foscarì), Cherubini, Spontini, Auber, Meyerbeer, Hérold, Halévy, Berlioz {Benvenuto Cellini). Haendel, Haydn, Mozart, Beethoven (tutte le Sinfonie), Mendelssohn, Schu­ mann, Liszt furono alcuni degli autori diretti da Liszt nei concerti; a Berlioz, invitato anche come direttore, furono dedicate nel novembre del 1852, nel febbraio del ’55 e nel febbraio del ’56 tre “settimane”, tre veri e propri festival di cui diremo più avanti. Questo lavoro, che in senso lato fu assai più di educatore del gusto europeo che di direttore di un piccolo teatro, venne affiancato da una serie di pubblicazioni e dall’insegnamento. Ad alcune delle opere, tra cui Tannhauser e Lohengrin, vennero dedicati da Liszt ampi saggi di presen­ tazione (Liszt, in un certo senso, inventò il programma di sala). Nel 1851 venne pubblicata una monografia su Chopin, poi molto criticata

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e che non è in verità esemplare in quanto saggio biografico-critico, ma che ha il grandissimo merito di indicare nel Polacco, ancor considerato un semplice pianista-compositore, un creatore di importanza storica assoluta. Maggiori e più acerbe polemiche suscitò il volume Gli zingari e la loro musica in Ungheria, che faceva della musica zingara la musica nazionale ungherese, basandosi quindi su un vero e proprio fraintendi­ mento dovuto a mancanza di informazione, ma che era invece ricchissi­ mo di ricordi personali, di impressioni e di intuizioni sull’arte del popo­ lo nomade. Molti giovani musicisti si recarono a Weimar, e tra di essi molti pianisti. Non tutti restarono poi “fedeli” a Liszt, alla sua lezione, alla sua estetica: si allontanarono presto da lui, ad esempio, Brahms e il violinista Joseph Joachim, mentre Anton Rubinstein, che fu il maggior pianista della seconda metà del secolo, vide sempre in Liszt assai più il grande virtuoso che non il grande creatore. Furono invece profondamente in­ fluenzati da Liszt alcuni minori compositori (Cornelius, Reubke) e, so­ prattutto, vari importanti pianisti: Hans Bronsart von Schellendorf e la moglie Inge, Karl Klindworth, Hans von Bùlow (che nel 1857 sposò la seconda figlia di Liszt e della d’Agoult, Cosima), l’americano William Mason, Carl Tausig. Sebbene ne vivesse lontano, Liszt non rinunciò ai suoi doveri di edu­ catore nei confronti dei figli. Dopo la separazione c’erano stati momenti di forte tensione con la d’Agoult, che sui figli non aveva diritti legali ma che non voleva rinunciare a vederli. Liszt fu rigidamente contrario a che i figli avessero dimestichezza con la madre, specie dopo che nella sua vita era entrata la principessa Sayn-Wittgenstein: li affidò a sua madre, poi, non essendo questa una sentinella abbastanza severa, a varie dame di provata affidabilità, ma intervenne anche con un fitto carteggio che riguardò soprattutto la figlia maggiore, Blandine. Durante il periodo di Weimar Liszt sviluppò un’attività prodigiosa: oltre a tutto ciò a cui abbiamo rapidamente accennato, c’è infatti da considerare il suo lavoro di compositore, di cui abbiamo già detto e di cui diremo ancora. E ci furono viaggi artistici di direttore d’orchestra che, seppure non frequentissimi, lo impegnarono costantemente. La principessa Sayn-Wittgenstein seppe organizzare la vita di Liszt quasi in ogni particolare, e tutto il tempo che negli anni precedenti era stato dedicato a viaggi, frequentazioni sociali e affari di cuore venne impegnato nella professione. Una sola, piccola, tenerissima deviazione portò Liszt verso una sua allieva, la vedovella Agnes Street-Klindworth, che da alcuni vecchi ritratti ancora ci guarda con il sorriso di una madon­ na leonardesca. Vedova con due figli, giovane, dolcissima, bellissima, Agnes fu per breve tempo amante di Liszt e per lunghissimi anni una confidente.

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Come musicista di corte che doveva rendere conto del suo operato solo al suo signore, Liszt potè seguire criteri illuministici, facendo di Weimar il centro di punta della cultura europea. «Solo i teatri di corte liberi nelle loro decisioni e non condizionati, come i teatri privati, da limiti riguardanti interessi personali e finanziari - potrebbero decretare sia resistenza sia la sopravvivenza del bello». Liszt così scrisse nel saggio sul Fidelio. E per una decina d’anni ebbe anche ragione. Solo che il suo illuminato radicalismo non era precisamente quel che volevano i sudditi del Granduca, ai quali sarebbe bastato un buon teatro d’opera come ce n’erano diversi nei piccoli stati tedeschi, un teatro d’opera che non suc­ chiasse troppi mezzi finanziari a danno del teatro di prosa. Franz von Dingelstedt, divenuto direttore dei teatri di corte, comin­ ciò a limare i fondi che servivano a Liszt. La messa in scena del Barbier von Bagdad di Peter Cornelius, allievo di Liszt, costò molto denaro, non ebbe successo e procurò fischi al direttore, cioè Liszt. Il 18 dicembre 1858 Liszt presentò le sue dimissioni.

18. Dimissionario dalla fine del 1858, Liszt abitò ancora a Weimar fino al 1861. Avendo deciso di allontanarsi dalla città in cui aveva goduto della protezione di due granduchi e della stima della defunta grandu­ chessa madre, gli restava un problema da risolvere, un problema che non si saprebbe se definire più grave per la sua coscienza o per il suo orgoglio. Ne accennò nella lettera al Granduca con la quale ribadiva le sue dimis­ sioni: «E chiaro che si vuole impedirmi a qualunque prezzo un matrimo­ nio al quale, per la mia nascita, non sono destinato, ma che io credo, lo dico senza falsa modestia, di essermi guadagnato». Alla luce di questo ragionamento la onorevole sconfitta subita da Liszt a Weimar diventa imbarazzante. La meschinità di chi brigò instancabil­ mente perché a Liszt venisse impedito il sospirato matrimonio fu certa­ mente senza limiti. E che Liszt ne fosse infastidito, seccato, addolorato, ben lo si comprende. Non si capisce invece com’egli potesse vedere nell’unione legale con una nobildonna l’assunzione di un plebeo a una casta superiore. Molto più pratico, molto più spiccio fu Theodor Dòhler che, non essendo nobile e trovando ostacolato un suo progetto di matri­ monio con una nobildonna russa, aggirò la fortezza ottenendo le patenti di nobiltà dal duca di Lucca, presso il quale svolgeva le funzioni di pianista di corte. Il duca di Lucca che mette a tacere le obiezioni dello zar di tutte le Russie: questo sì, che significa dare scacco alla boria aristocra­ tica servendosi delle sue stesse regole! Ma pretendere che il matrimo­ nio... interclassista arrivi a sancire alti meriti personali, come Liszt ane­ lava? Via, questa è grossa. Anche se dobbiamo aggiungere, tanto per stabilire una misura di valutazione in ordine alla psicologia degli artisti,

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usi a trattare con gli aristocratici e a far parte del loro mondo, che altrettanto grossa ci sembra la pretesa di Beethoven, il quale voleva affi­ dare una sua causa al tribunale dei nobili e che, non avendo potuto produrre le patenti di nobiltà, fu rispedito al tribunale ordinario. Nel 1859 un altro scottante motivo s’aggiunse per Liszt al desiderio di risolvere con il matrimonio il difficile rapporto con Carolyne. Il figlio ventenne di Liszt, Daniel, morì di tubercolosi a Berlino il 13 dicembre 1859, in casa della sorella Cosima sposata con Hans von Bùlow. Ritor­ nando affranto da Berlino dopo il funerale, Liszt dovette affrontare una situazione che sembra tratta pari pari dalla Traviata. La figlia di Caroly­ ne, Marie, affezionatissima a Liszt e da questi molto amata, aveva da poco sposato il principe Konstantin von Hohenlohe-Schillingsfurst, e la famiglia Hohenlohe esigeva da Liszt o il matrimonio o la separazione. Esigeva la separazione, in realtà, perché qualche anno dopo, quando il matrimonio divenne possibile, il futuro cardinale Hohenlohe ci mise il suo zampino per mandarlo a monte. E sembra dicesse: «Un amante? Ciò non mi riguarda. Ma un marito plebeo farebbe nel mio casato una macchia incancellabile»5. Nel 1860 Liszt e Carolyne ebbero notizie che il divorzio era stato concesso e che il principe Sayn-Wittgenstein si risposava. Si trattava ora di ottenere sia per Liszt sia per Carolyne, entrambi cattolici, il nulla osta dell’autorità ecclesiastica, conseguente e al divorzio e all’annullamento che - questa storia è terribilmente complicata - era stato concesso dalla diocesi ucraina in cui il matrimonio di Carolyne era stato celebrato. Si sapeva però che c’era l’opposizione del vescovo di Fulda, competente a Weimar per territorio, e del nunzio apostolico a Vienna. Carolyne si recò

5 La frase attribuita al cardinale Hohenlohe può essere una fola. Nella raccolta dei documenti concernenti il mancato matrimonio, pubblicata da Walker {Liszt, Carolyne and the Vatican}, troviamo però quanto basta a dimostrare che Hohenlohe svolse una sottile opera di “sabotatore” contro l’annullamento del matrimonio di Carolyne, probabilmente per ragioni che non riguardavano affatto questioni di nobiltà. La dichiarazione di nullità del matrimonio avrebbe avuto come possibile conseguenza la non-legittimità di nascita della figlia, e il principe Konstantin von Hohenlohe sarebbe diventato il marito di una “bastarda”. Fin dal 1859 la figlia di Carolyne presentò perciò un’istanza perché le venisse riconosciuta la legittimità della nascita: la soluzione favorevole di questa petizione ebbe luogo prima del matrimonio. La figlia e il genero di Carolyne non mancarono poi di gettare pesanti ombre sul comportamento della principessa che, a loro dire, aveva trattenuto una somma della dote di Marie per corrompere gli ecclesiastici a cui spettava di giudicare la causa. Tutta la vicenda del legame tra Liszt e Carolyne, vista con gli occhi di Marie Pauline Antonia von SaynWittgenstein, sposata con il principe Konstantin Hohenlohe-Schillingsfurst, potrebbe in verità essere argomento di un saggio psicologico.

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allora a Roma per caldeggiare in curia la pratica. Liszt si recò invece a Parigi, dove conobbe Baudelaire, rinnovò la vecchia amicizia con Rossi­ ni, incontrò Berlioz, Meyerbeer e vari amici, fu ricevuto da Napoleone III e rivide Marie d’Agoult. Il 4 settembre 1860, tornato a Weimar, stese il suo testamento, nel quale parlava anche di un grande sogno infranto: Ad un certo momento (circa dodici anni or sono) avevo sognato di un nuovo periodo di Weimar paragonabile a quello di Carl August, in cui Wagner e io stesso saremmo stati i fari, come, in tempi passati, Goethe e Schiller. La cattiveria, per non dir l’infamia di certe circostanze locali, ogni specie di gelosie e di inettitudini, sia all’interno sia all’esterno, hanno impedito la realizzazione della mia visione.

Weimar venne veramente abbandonata un anno dopo ancora. Ma la città, ora che Liszt se ne andava, gli offrì un’occasione di amichevole commiato: diretta da Hans von Biilow, e alla presenza di Wagner che aveva goduto di un permesso speciale, il 7 settembre 1861 venne esegui­ ta la Sinfonia “Faust”, che Liszt aveva completato nel 1857. Il 20 ottobre Liszt arrivava a Roma, dove erano fissate per il 22, giorno del suo cinquantesimo compleanno, le nozze con Carolyne. Alla vigilia un incaricato del Vaticano comunicò però agli amanti che tutto ritornava subjudice. Così, la chiesa di San Carlo al Corso, già addobbata, fu disaddobbata, e i due promessi sposi restarono tali anche dopo che, nel 1864, il marito di Carolyne fu passato a miglior vita. Una lettera della principessa al cugino-zio di Liszt, Eduard, del 30 maggio 1875, getta però una strana, enigmatica luce sul mancato matri­ monio. La principessa prega Éduard perché... faccia la paternale a Liszt nel momento in cui Olga Janina, di cui diremo poi, aveva pubblicato un volgare libello antilisztiano: Gli dica che per caso è venuto a conoscenza della poca stima che si ha di lui. A ciò sarà sensibile. Gli dica che il mondo sa bene che il pamphlet della Janina è pieno di falsità, ma che si dice che solo i particolari sono falsi, e che la realtà è peggiore, nel senso che si attribuisce il mio rifiuto di sposarlo, non appena il rifiuto m’è stato possibile, al fatto che ero a conoscenza della sua liaison con [Emilie] Genast. Insista su questo punto, che il mondo considera ciò una ingratitudine e una bassezza da parte sua.

Emilie Genast, mezzosoprano, aveva cantato spesso musiche di Liszt; la liaison con il Maestro dovrebbe risalire al 1860-61, quando la princi­ pessa si era recata a Roma. Impossibile stabilire se la principessa inven­ tasse una motivazione, del mancato matrimonio, che avrebbe impressio­ nato Liszt, o se rivelasse una verità.

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19. Dopo aver rapidamente percorso tutta la vicenda umana e professio­ nale di Liszt a Weimar, riprendiamone ora alcuni momenti particolar­ mente significativi ai fini della nostra narrazione. La posizione di maestro di cappella, cioè di organizzatore musicale, e quindi di uomo che occupa una posizione di potere, colora in un modo del tutto singolare i rapporti tra Liszt e alcuni tra i più grandi musicisti del suo tempo, per i quali egli divenne implicitamente - chiediamo scusa al lettore per l’antipatica definizione, che è però l’unica esatta - un datore di lavoro. Nel 1854 Schumann venne ricoverato in una casa di cura per malattie nervose. La moglie Clara si trovò di punto in bianco a dover provvedere da capofamiglia al sostentamento e all’educazione dei figli, oltre che a pagare la retta del marito. Come tutti sanno, Clara potè contare allora sul sostegno morale del giovane Brahms e sul sostegno materiale del fratello di Felix Mendelssohn, Paul, che si accordò con lei per il prestito di una certa somma. Clara non aveva altra risorsa se non quella della sua attività di concertista, che era stata intensa negli anni Trenta e che si era molto allentata dopo il matrimonio. Per riprendere in grande stile la carriera le sarebbe tornato utile l’appoggio di Liszt, che nel 1840 le aveva dedicato gli Studi di Paganini e il cui prestigio era immenso. Clara si rivolse perciò a Liszt, che le organizzò due concerti a Weimar, il 24 e il 27 ottobre 1854. Nella serata del 27 Liszt stesso diresse, con Clara al pianoforte, il Concerto 54 di Schumann, che veniva ascoltato a Weimar per la prima volta. Il 1° dicembre, sulla «Neue Zeitschrift fiir Musik» di Lipsia, la rivista fondata da Schumann nel 1834 e da lui diretta per dieci anni, usciva un saggio di Liszt su Clara. Il valore pubblicitario dello scritto era per Clara molto alto. Ma Liszt non era tipo da mettere insieme, sia pure per sentimento di amicizia e per servizio, un soffietto. Dell’occasione che gli capitava si servì invece per esporre la sua concezione, incarnata in Clara, del virtuosismo pianistico e dell’interpretazione dei testi classici. Liszt, certamente, non prendeva Clara come pretesto di autoesaltazio­ ne, ma, appunto, come occasione per stabilire alcuni punti fermi su un’attività artistica che egli stesso, insieme con Clara, aveva creato nei decenni precedenti. Il primo punto fermo è la rivendicazione della digni­ tà del virtuosismo e della sua insostituibile funzione: Rifiutiamo fin da ora l’ipotesi, la quale vuole che il virtuosismo, che qui è rappresentato dalla donna, sia subordinato all’attività creativa e che lo si voglia considerare come una specie di dote della sua debolezza. Quella che nei nostri giorni è diventata una forte protesta degli artisti contro l’egoismo, o meglio, contro la limitatezza del virtuosismo odierno cantato e suonato, che come un declamatore che non capisce quel che dice fa ammirare le opere d’arte senza un approfondimento intellettuale, certo non diminuisce l’importanza che nel campo artistico è da attribuire

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al virtuosismo. La stessa protesta diventa un'esagerazione insulsa quanto l’abuso stesso, se arriva a disconoscere la portata di questo ramo dell’arte, se mette in discussione il suo diritto di far parte dell’arte e se gli nega il suo rango nel pantheon. Il virtuosismo non è un’escrescenza, ma un elemento costitutivo della musica.

Passando poi a parlare di Clara e della sua evoluzione, Liszt sembra parlare in realtà di se stesso, delle varie fasi della sua evoluzione. Poco importa a noi, naturalmente, della pertinenza di ciò che Liszt dice di Clara: ci importa invece di capire come, attraverso se stesso e attraverso Clara, Liszt intenda chiarire la natura del virtuosismo, termine che vale come sinonimo di ciò che noi intendiamo con “interpretazione”. Ci interessa perciò la conclusione, che va molto al di là di Clara e che fissa dei princìpi intorno ai quali, fino ai nostri giorni, si è sviluppata la storia dell’interpretazione: Salita sul tripode del tempio, non è più la donna che si rivolge a noi. Ci intrat­ tiene come una poetessa, non con delle passioni terrene, né con le lotte e le rivolte proprie dei destini umani, né ci vuole a tutti i costi convincere con l’arditezza del suo discorso e meno che mai si dà da fare per richiamare su di sé la simpatia. Sacerdotessa sottomessa, piena di fede e venerazione del dio delfico, essa serve il suo culto con una fedeltà che fa rabbrividire. Timorosa di saltare anche solo uno jota della sentenza da pronunciare, di accentuare in modo sbagliato anche una sola sillaba, e di diventare così un’interprete colpevole e ingannevole, domina anche il proprio sentimento. Per annunciare gli oracoli come una mediatrice incorruttibile, come una commentatrice fedele, rinuncia alle proprie ispirazioni improvvise.

Parlando di Clara, Liszt definisce dunque la propria fede nella missio­ ne dell’interprete. Parlando l’anno dopo, sempre sulla «Neue Zeitschrift fur Musik», di Robert Schumann, definisce il proprio pensiero sulla collocazione della musica nella società moderna. Abbiamo già detto incidentalmente che nel saggio su Schumann Liszt stabilisce una “genealogia” Beethoven-Schumann-Liszt. Escludiamo an­ che in questo caso l’autoesaltazione; ma il ragionamento, che parte da certi aspetti delfarte di Beethoven e passa attraverso Schumann (scartan­ do Mendelssohn), lascia al lettore di trarre una conclusione che non può non chiamarsi Liszt. Non diciamo che il ragionamento sia valido sul piano storiografico: è fondamentale, però, per capire Liszt e, soprattutto, per capire il senso della sua attività creativa nel periodo di Weimar. La posizione storica di Schumann viene definita da Liszt in modo molto chiaro: La quantità delle opere presenti del maestro, che uguaglia quella dei nostri compositori più grandi e più attivi, potrebbe già fin da ora autorizzare la formula­ zione di un giudizio preciso, tanto più perché Schumann, in maniera più immediata di Mendelssohn, proviene da Beethoven per linea diretta e perché ne adotta con piena consapevolezza la profonda serietà e ne resta erede assumendone su di sé la

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responsabilità. Schumann è un artista che può rivendicare pienamente il diritto di essere considerato insieme al suddetto [Beethoven] il capo del movimento da lui rappresentato e il padre di quell’impulso che, negli ultimi due decenni, ha fatto evolvere in maniera così energica la musica tedesca.

Liszt trova tuttavia uno Schumann a lui congeniale e uno Schumann che congeniale non gli è: Siccome dobbiamo ricercare nell’opera soprattutto l’autore, non possiamo trala­ sciare nessuno degli elementi che sono essenziali rispetto all’insieme, se vogliamo riconoscere ovunque il suo ideale. Anche se il Bello non manca in nessuna delle sue opere, questo si ritrae qua e là dal nostro sguardo. Talvolta pare nascosto sotto l’involucro di una regolarità simmetrica [...], altre volte sembra sperdersi nei sentieri rocciosi e selvaggi dell’armonia [...].

Dopo la parte introduttiva Liszt riconosce come primo merito storico di Schumann quello di esser stato anche critico. In tempi in cui la critica musicale veniva spesso esercitata da letterati, uomini di gusto non esperti di musica in senso specifico, Liszt fa una netta distinzione che ha valore di principio: La letteratura può pur sempre discutere dell’arte, e può farlo in modo tanto utile quanto splendente: tuttavia, ponderare in modo giusto il valore delle opere, trovare e riconoscere le sue debolezze e il suo segreto fascino nei punti veramente giusti, non le è e non le sarà mai possibile. La letteratura può discutere l’arte, ma solo gli artisti la possono giudicare appro­ fonditamente. E questi trovano il loro giudizio solo nella perseverante venerazione per i capolavori della propria arte. Essi rappresentano la vera fede, il rinnovamento continuo e la santificazione indispensabile del proprio culto!

L’analisi della funzione del critico è vasta e puntigliosa, e si apre a pertinenti considerazioni sociologiche. Considerazioni che permeano di sé anche tutto il discorso, non teoretico, dedicato alla musica: A parte il dramma, nessuna arte richiama tante folle quanto la musica, cui partecipano in numero sempre maggiore molti praticanti. [...] La musica non limita le sue meravigliose manifestazioni a opere per le masse: va incontro alle più diverse necessità della nostra anima e le colma di tutte le impressioni di cui è capace. Non si farà sfuggire nessuno degli stati d’animo più intimi di noi stessi, li vorrà cogliere con tutte le forme. [...] Essa partecipa alla vita esteriore e chiassosa come al destino delle singole anime, ai loro dolori e alle loro gioie, risuona nel tempio come nel bosco. Col suono dei ricordi, il risonante richiamo di guerra, vessillo di un’intera nazione o simbolo di un amore segreto, essa risuona attraverso la storia dei popoli, non resta estranea a nessun luogo e a nessuno.

Malgrado quest’inno che travalica secoli e paesi, Liszt pensa che solo da Beethoven in poi la musica sia stata in condizione di svolgere vera­

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mente la sua missione divina, grazie alla avvenuta creazione «di una grammatica, di una logica, di una sintassi e di una retorica musicali»: Beethoven è colui che «compì il tragitto nella nostra arte dal periodo della giovinezza entusiastica a quello della prima maturità». Alla fine degli anni Trenta, nella prefazione dell’A/^z/m dun voyageur, Liszt aveva esposto un proprio credo poetico. Alla metà degli anni Cin­ quanta ritrovava storicamente, in Beethoven e in Schumann, i suoi pre­ cursori. Il punto d’approdo è l’estetica della musica a programma, per la quale Liszt non va di un passo oltre a ciò che trova nell’arte e nelle prose di Schumann. Dopo aver citato un ampio squarcio della famosa recen­ sione schumanniana per la Sinfonia in do maggiore di Schubert, Liszt conclude infatti, in modo più utilitaristico che filosofico, così: Il programma è il mezzo per far sì che la musica divenga più accessibile e più comprensibile, di quanto non fosse prima, a quella parte del pubblico che consiste di individui che pensano e agiscono.

Il programma, dunque, come utile sussidio per una nuova classe di ascoltatori, gli ascoltatori non competenti dei labirintici processi creativi del musicista. Sempre senza eroici furori Liszt vede in Schumann colui che, denominando con proprietà le cose esposte dalla musica con lin­ guaggio esoterico, le rende comprensibili: Non crediamo di elargire a questo musicista, di cui ci occupiamo oggi, lodi indegne, se lo definiamo l’autore che nelle sue composizioni per pianoforte ha afferrato in modo più completo il significato del programma e che per adoperarlo ha dato degli esempi molto giusti. Gli riuscì nel modo più meraviglioso di richiamare in noi, musicalmente, l’effetto che la realtà di un oggetto avrebbe fatto su di noi, prefigurando tale oggetto già nel titolo. Avendone una concezione poetica comprese la vera destinazione del programma.

Il lettore perdonerà le lunghe citazioni di questo paragrafo. Ma abbia­ mo preferito esporre con le parole di Liszt i termini della sua poetica, la poetica della musica a programma, per sottrarla al dibattito di natura filosofica che l’investì nella seconda metà dell’Ottocento e che ebbe strascichi vivaci ancora agli inizi del nostro secolo. Analizzeremo più avanti uno dei poemi sinfonici di Liszt. Ma ci importava di far osservare quanto sia ingenuo, e poco filosofico, e a parer nostro attraente e “sano”, in Liszt, il concetto di musica a programma. Termineremo citando una lettera a Marie d’Agoult, del 15 novembre 1864, in cui l’estetica di Liszt spicca chiaramente, e con semplicità anche maggiore di quella dei suoi scritti: [...] sottoscrivo interamente e senz’alcuna riserva la regola che mi ricordate, che le opere musicali «seguendo in senso generale un programma devono aver presa sul­

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Parte terza: Liszt come Liszt l’immaginazione e il sentimento indipendentemente dal programma». In altri termi­ ni: ogni bella Musica deve prima di tutto e sempre esser conforme alle condizioni assolute, inviolabili e imprescindibili della Musica. Proporzione, ordine, armonia ed Euritmia le sono tanto indispensabili quanto invenzione, fantasia, melodia, senti­ mento e passione.

20. L’“inventore” della musica a programma non era tuttavia Liszt. Pur considerando come formulazioni implicitamente precorritrici delia mu­ sica a programma romantica le musiche di scena e le ouverture da con­ certo di Beethoven (e di Mendelssohn), è nel 1830, nella Symphonic fantastiquedi Berlioz, sottotitolata Episodes de la vie dun artiste (Episodi della vita di un artista) che troviamo stampato un testo letterario, espli­ cativo del testo musicale, con Pindicazione «le programme doit étre considéré comme le texte parie d’un opera» (il programma dev’essere considerato come il testo parlato [libretto] di un’opera). Liszt si era recato in casa di Berlioz il 4 dicembre 1830, giorno che precedeva la prima esecuzione della Fantastica : aveva ascoltato, il 5, l’opera rivoluzionaria, si era acceso d’entusiasmo, l’aveva trascritta e, con la sua trascrizione e con le sue esecuzioni, aveva molto contribuito a farla conoscere. Dal canto suo Berlioz, babilonese non solo come composito­ re, aveva preso a chiamare Liszt «Mon cher sublime», e i due erano diventati amici per la pelle. Liszt non citò Berlioz nel saggio dedicato a Schumann, ma sempre nel 1855 scrisse un altro saggio che, prendendo lo spunto da Harold en Italie, riesaminava il problema della musica a programma dal coté fran­ cese, parlando in verità assai più della musica a programma che del lavoro di Berlioz. Berlioz, insomma, come occasione per esporre le pro­ prie concezioni estetiche, né più né meno di quanto era avvenuto con Schumann. Noi, dati i limiti di questa monografia, non torneremo per­ ciò su un argomento che abbiamo già trattato e a cui il saggio su Berlioz non aggiunge significativi elementi di novità6. Ci sembra invece opportuno parlare di Liszt come “datore di lavoro” di Berlioz. Liszt diresse a Weimar 1’Harold en Italie, in prima locale, il 10 aprile 1851. Il 20 marzo 1852, in prima per la Germania, diresse il Benvenuto Cellini, ripetendo l’esecuzione il 27 marzo e il 17 aprile. Il Benvenuto Cellini divenne la spina dorsale della prima “Settimana Ber-

6 II lettore interessato all’argomento potrà trovare il saggio su Berlioz, tradotto in italiano, nella raccolta di scritti di Liszt intitolata Un continuo progresso. Scritti sulla musica, a cura di G. Kroo, Milano, Unicopli-Ricordi 1987.

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lioz”, dal 14 al 21 novembre dello stesso anno, che comprendeva due rappresentazioni dell’opera e un concerto sinfonico-vocale diretto da Berlioz, con il Romèo et Juliette e i due primi atti della Damnation de Faust. Al banchetto finale — sappiamo, e lo abbiamo già visto parlando dell’inaugurazione del monumento a Beethoven, che tutti i salmi ro­ mantici finiscono a tavola - Berlioz ricevette l’Ordine del Falcone, alta onorificenza del granducato. Liszt riprese i primi due atti della Damnation de Faust il 3 febbraio 1853, e il 27 gennaio 1854 diresse la Fuite en Egypte dall’Enfance du Christ. Dal 17 al 21 febbraio 1855 ebbe luogo la seconda “Settimana Berlioz”, con due concerti diretti da Berlioz, con brani del Romèo et Juliette e della Damnation de Faust, un coro del Benvenuto Cellini, la romanza La Captive, l’Enfance du Christ, la Symphonic fantastique, Lélio ou Le Retour à la vie, nonché il Concerto n. 1 di Liszt in prima esecuzione assoluta. Liszt fu, ovviamente, il solista del suo Concerto, ma... suonò la grancassa nella Fantastique, e il pianoforte e il padiglione cinese nel Lélio. L’anno dopo, dal 16 febbraio al 1° marzo, si svolse la terza “Set­ timana Berlioz”, con il Benvenuto Cellini diretto da Liszt, e la versione completa della Damnation de Faust e l’Ouverture del Corsaire dirette dall’autore. Fino a quel momento i rapporti tra Liszt e Berlioz erano stati, ancor più che amichevoli, addirittura fraterni. Dal 1856 l’ombra di Wagner cominciò però a raffreddare i loro sentimenti, o meglio, i sentimenti di Berlioz, perché Liszt si comportò sempre, verso gli amici e verso i nemici, con animo francescano. Berlioz e Wagner si erano conosciuti a Londra nel 1855. Berlioz scriveva a Liszt, il 25 giugno: «Egli è superbo di ardore, di calore del cuore, e io confesso che persino le sue violenze mi attraggono. [...] Se tutt’e due abbiamo delle asprezze, perlomeno le nostre asprezze si inca­ strano». Wagner scriveva a Liszt, il 5 luglio: «Porto con me da Londra un vero beneficio: una cordiale e profonda amicizia che è nata con Berlioz e che è ricambiata». Quando Berlioz arriva a Weimar Liszt approfitta dell’occasione per fargli ascoltare il Lohengrin'. Berlioz, pare, abbandona la sala dopo l’arrivo del cigno, cioè prima che sia finito il primo atto, e Liszt — è sempre un’ipotesi, perché non abbiamo alcun documento perde per una volta la sua francescana pazienza e dopo la rappresentazio­ ne chiede spiegazioni al fedifrago. Il 25 marzo 1856 Liszt scrive a Wa­ gner, riferendo della serata: «Sala colma, pubblico, ciò va da sé, tutt’occhi e tutte orecchie. C’era Berlioz». Serge Gut, che si sofferma minuzio­ samente sull’episodio, commenta giudiziosamente: «Se quest’ultimo [Berlioz] avesse pronunciato il più piccolo elogio, è certo che Liszt si sarebbe affrettato a riferirlo; preferì far passare le critiche sotto silenzio». A complicare le cose ci si mette la principessa Sayn-Wittgenstein, che,

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timorosa della “crescita” di Wagner, incoraggia Berlioz nel progetto dei Troyens e intrattiene con lui una corrispondenza. La candidatura di Liszt a membro corrispondente dell’Académie des Beaux Arts, nel 1859, non viene sostenuta con sufficiente vigore, dice Berlioz in una lettera alla principessa, da Delacroix. Delacroix scrive però anche lui alla principessa - Carolyne era un vero castigo di Dio, nelle sue trame epistolari — salvando se stesso, Halévy e qualche altro, che non cita, e accusando la maggioranza ostile. Il solito Gut, che seguiamo fedelmente, si chiede se Berlioz non facesse parte dei denigratori nascosti. Nell’ottobre del 1864 Liszt e Berlioz si incontrano a Parigi. Il 28 Berlioz scrive a Humbert Ferrand, menando a Liszt uno di quei fendenti che costituivano il nerbo delle sue critiche più feroci: Liszt ha passato otto giorni a Parigi; siamo stati a pranzo insieme due volte e, avendo prudentemente scartato ogni conversazione musicale, abbiamo passato alcu­ ne ore incantevoli. È ripartito per Roma dove gioca alla musica dell'avvenire Ògmcmà al Papa, che si chiede che vuol dir ciò.

Infine, quando la Messa di Gran di Liszt viene eseguita a Parigi, il 15 marzo 1866, Berlioz scrive a un amico: «Ieri è stata eseguita a SaintEustache la Messa di Liszt. C’era una folla immensa. Ma, ahimè, quale negazione dell’arte». Quanto a Liszt, il 26 agosto 1883 scriverà alla principessa: «Sebbene Berlioz mi abbia tristemente rinnegato nel 1866 a Parigi, io riconfermo sempre la mia ammirazione per il suo genio». E Les Troyens, che Berlioz dedicò alla principessa Sayn-Wittgenstein? Il 26 maggio 1879 Liszt scrisse alla sua ninfa egeria: «Berlioz, non meno di Beethoven, non aveva niente a che spartire con questa galera arcaica». L’ombra di Wagner, che si era insinuata tra Liszt e Berlioz nel 1856, sarebbe diventata con il tempo grande al punto da oscurare lo stesso Liszt. Il primo incontro tra Liszt e Wagner risale all’ottobre del 1840: Liszt aveva appena cominciato la sua sfolgorante carriera di virtuoso, Wagner era nessuno. Seguirono altri incontri nell’aprile del 1841, nel dicembre del ’42, nel febbraio del ’44, nel marzo e nell’agosto del ’48. Il 12 novembre del 1848 Liszt diresse a Weimar l’Ouverture del Tannhau­ ser e il 19 febbraio del ’49 l’opera intera, ma Wagner, impegnato nelle sue funzioni di direttore del teatro di corte di Dresda, non potè assistere alle esecuzioni. Il 13 maggio del ’49 Wagner, in fuga dalla Sassonia, cerca rifugio da Liszt a Weimar: Liszt lo ospita, lo nasconde, e dopo undici giorni gli consegna, a Jena, un falso passaporto intestato al Dot­ tor Widmann”, con cui Wagner può espatriare in Svizzera. Da quel momento Liszt cerca di far eseguire in Germania e all’estero le opere di Wagner, dirige in “prima assoluta” il Lohengrin, scrive saggi sul Tannhauser, sul Lohengrin, sul Vascello fantasma, sull Oro del Reno,

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trascrive per pianoforte brani delle opere di Wagner, gli manda a più riprese del denaro. Wagner non ha del resto timore di chiedere soldi: cortesemente a volte, a volte brutalmente. Nel dicembre del 1858 immagina di poter ottenere dal Granduca una pensione annua. Liszt gli risponde diplo­ maticamente, comunicandogli che il duca Ernst di Gotha vuole dedicar­ gli la sua opera Diana von Solange e che sarebbe opportuno mandargli una letterina ammodo. Il 31 dicembre, rispondendo, Wagner esplode in questi termini: Per amor del cielo, che me ne faccio... di Diana von Solange? Devo vedermi preso in giro così da te? Non una parola? Niente denaro?... Vedo bene che tu non sai affatto cos’è la miseria. Uomo felice!... Mandami pure [le tue partiture del] Dante e la Messa [di Gran\. Ma prima di tutto dei soldi! [...] Ma soprattutto non scrivermi mai più niente di così serioso, né di così patetico! Gran Dio! Ho già detto, ultimamente, che siete tutti dei noiosi. Ciò non ha dunque portato i suoi frutti?

Liszt il francescano perdette anche quella volta la pazienza, e rispose (quasi) per le rime. Wagner si giustificò il 7 gennaio 1859, Liszt rispose il 17 febbraio, dicendo che la pensione stava nel mondo dei sogni e che Wagner avrebbe potuto avere a suo tempo un piccolo sussidio. Superata la burrasca, Wagner e Liszt si trovarono a Parigi nel maggio del 1861 e nelPagosto dello stesso anno a Weimar, per una riunione del Tonkùnstler-Versammlung (Congresso dei musicisti). Poi, per undici anni, Wagner e Liszt si videro raramente, e la loro corrispondenza cessò dal 7 luglio 1861 al 18 maggio 1872. Sono gli anni in cui la fama di Liszt non decolla e la celebrità di Wagner esplode. Sono anche gli anni nei quali Cosima Liszt in von Bùlow diviene prima l’amante di Wagner e poi, contro il parere del padre, abbandona il marito. Liszt tronca ogni rapporto con la figlia e con l’amico. Il 18 maggio 1872, Wagner scrive a Liszt per annunciargli la posa della prima pietra del suo teatro a Bayreuth: «Se ora ti dico: vieni! - quel che ti dico è: vieni verso te stesso! - perché è te stesso che troverai qui. Che tu sia benedetto e caro, qualunque cosa tu decida». Liszt non assiste alla cerimonia, ma scrive: «Che la benedizione di Dio sia su voi, insieme a tutto il mio amore». Il 2 settembre Wagner e Cosima incontrano Liszt a Weimar. E nell’agosto del 1876 Liszt va a Bayreuth per la prima del Ring L’immancabile banchetto che segue la rappresentazione del Crepusco­ lo degli Dei vede a tavola qualcosa come settecento persone. Un brindisi di Wagner è per Liszt: «Qui si trova colui che, per primo, m’ha sostenuto con la sua fede, quando ancora nessuno conosceva nulla di me, e senza

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il quale voi non avreste forse ascoltato oggi nessuna mia nota: il mio caro amico, Franz Liszt». Liszt risponde: «Ringrazio il mio amico per questo glorioso riconoscimento e gli sono umilissimamente devoto nella più profonda venerazione; così come noi ci inchiniamo davanti al genio di Dante, di Michelangelo, di Shakespeare e di Beethoven, io mi inchino davanti al genio del Maestro». E noi ci fermiamo qui, lasciando in cantina i wagneriani che snobba­ no Liszt e i lisztiani che vanno a scovare i “furti” operati da Wagner nelle opere di Liszt. Sono cose che possiamo benissimo dimenticare senza far torto a nessuno. Leggiamo invece, anticipando i tempi, due pezzi che Liszt scrisse nel 1883: Richard Wagner-Venezia e Sulla tomba di Richard Wagner. Richard Wagner-Venezia, brevissimo pezzo per pianoforte di 19 bat­ tute (due pagine a stampa), fu scritto presumibilmente poco dopo la morte di Wagner, avvenuta a Venezia il 13 febbraio 1883. La struttura è in due parti, con una breve coda che simula la riesposizione della prima parte, e la dicotomia formale viene accentuata dall'armonia, che è cro­ matica (ai limiti dell'atonalità) nella prima parte, diatonica nella secon­ da. Nella prima parte Liszt sovrappone a un nucleo tematico del basso, progressivamente “allargato” al modo delle future espansioni motiviche di Bartók, un frammento cromatico; l’accordo di base dell’armonia è quello di terza e quinta eccedente, accordo tonalmente equivoco e che, se impiegato sistematicamente, postula il superamento della tonalità clas­ sica. La seconda parte è una specie di fanfara in tre successive tonalità: si bemolle maggiore, re bemolle maggiore, mi maggiore. La coda riprende l’accordo di terza e quinta eccedente, sviluppato in un lento arpeggio discendente nel quale viene inserita una appoggiatura cromatica. Sia la struttura sia l’armonia rappresentano un radicale superamento della tra­ dizione musicale europea. Non è tuttavia improbabile che l’armonia sia qui usata in senso simbolico (cromatismo=tenebre, morte; diatonismo=luce, tra­ sfigurazione), come poi nel tardo Rimskij-Korsakov e nel primo Stravinsky. Sulla tomba di Richard Wagner è una breve elegia per quartetto d'archi e arpa, trascritta anche per pianoforte. Il pezzo è basato sul tema, o meglio su una variante del tema con cui si apre il Parsifal, tema che Wagner aveva tratto dal Preludio a Le campane di Strasburgo di Liszt. Una breve prefazione di Liszt ricorda questo particolare, e il tema diven­ ta il simbolo dell’amicizia tra Liszt e Wagner e dei rapporti artistici e umani tra i due musicisti, che superano tutte le celebrazioni e le contro­ celebrazioni.

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21. Abbiamo già detto che le dispute sulla musica a programma hanno per noi non già il profumo delle cose antiche ma il puzzo delle cose andate a male, e che conviene invece vedere quel che la musica a programma rappresentò per Liszt. Nel saggio su Schumann, Liszt cita Beethoven, e in particolare l’ouverture dell’Ègmonte le opere strumentali con titoli. Liszt aveva bisogno di più, al modo di Berlioz, che stampava il programma? Poeticamente no. Ma formalmente gli occorreva qualcosa di diverso dalla ouverture da concerto e dalla sinfonia. Lo schema della ouverture da concerto è quello del primo tempo di sinfonia, il cosiddetto Allegro di sonata bitematico e tripartito, con in­ troduzione iniziale e perorazione finale. Difficilmente questo schema può piegarsi alla esigenze di un racconto epico, anche se, ad esempio, nella cosiddetta Terza Leonora di Beethoven l’introduzione, sfruttando l’aria di Florestan, evoca il buio carcere, l’episodio con la tromba in lontananza è preso pari pari dal climax drammatico della vicenda, e il finale rende esattamente il trionfo dell’amore fedele ed eroico di Leono­ ra. Ma lo schema della ouverture da concerto presenta per Liszt due inconvenienti: la tripartizione è architettonicamente costrittiva e le di­ mensioni sono troppo strette e non possono essere dilatate ad arbitrio. Quanto alla sinfonia, è evidente che le soluzioni di continuità tra i tempi e lo schema allegro-adagio-scherzo-fmale non permettono se non ecce­ zionalmente il riferimento a una vicenda, sia pure interpretata simboli­ camente. Lo schema della ouverture da concerto venne tuttavia adottato da Liszt nella Ballata n. 2 per pianoforte, terminata nel 1853. Alla metà dell’Ottocento la ballata, come forma poetica e come poesia in musica, aveva dietro di sé una storia lunghissima, plurisecolare. La ballata stru­ mentale non aveva storia: era stata letteralmente “inventata” da Chopin nel 1831, e da Chopin era stata “coltivata” fino al 1842. Tra il 1845 e il 1848 Liszt componeva la sua Ballata n. 1, tra il 1852 e il 1853 la n. 2; nel 1854 Brahms componeva le quattro Ballate 10. Scrivevano bal­ late per pianoforte, nello stesso periodo, altri compositori ancora, come il celebre Thalberg, il giovanissimo Cesar Franck, l’“americano” Louis Moreau Gottschalk. Ma da Chopin a Brahms il genere, appena nato, era già arrivato a un apogeo che coincideva con la fine; e le poche importanti aggiunte successive (di Grieg nel 1876, di Fauré nel 1881, di Debussy nel 1890) non avrebbero sostanzialmente mutato l’immagine che oggi ne abbiamo. La prima Ballata di Chopin fu pubblicata in Inghilterra, nel 1836, come Ballata senza parole. La prima delle Ballate (ti Brahms era in origine ispirata alti Edward di Herder. Data la lunga storia della ballata come componimento poetico-musicale, il problema critico, o perlomeno la domanda curiosa suscitata dall’invenzione di Chopin, era inevitabilmen­

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te questa: può esistere ballata strumentale senza implicazioni program­ matiche? La ricerca delle fonti ispiratrici delle Ballateci Chopin fu lunga e puntigliosa, specie nella seconda metà del secolo, ma non ottenne complessivamente alcun risultato, nonché certo, neppure probabile. La Ballata n. 1 di Liszt aveva nella prima edizione un titolo che fu poi soppresso: Chant du Croisé (Canto del Crociato); la Ballata n. 2 non ebbe titolo mai. Ora, da una parte ci si chiede se un artista che dichiarava la sua totale adesione all’estetica della musica a programma potesse poi scrivere una ballata senza programma. A questa domanda si aggiunge l’altra più gene­ rale, se possa esistere la ballata strumentale senza ispirazione letteraria. Con altrettanta probabilità di colpire il bersaglio si può però osservare che, se a scegliere il titolo generico è un autore avvezzo — al contrario di Chopin - a dare alle sue composizioni dei titoli caratteristici, il titolo generico è sufficiente come riferimento indicativo all’ epos che nel genere si è andato storicamente delineando. In senso teorico, si capisce, la discussione può durare all’infinito. In senso storico non c’è un solo documento che dimostri o che neppure lasci supporre un intento programmatico di Liszt. Esiste invece una tradizione, la cui origine non è nota ma che sembra sia da ricercare nel circolo degli ultimi allievi di Liszt, secondo cui la Ballata n. 2 sarebbe ispirata al mito di Ero e Leandro. Il mito di Ero e Leandro è conosciuto quanto basta perché noi pos­ siamo qui esimerci dall’esporlo. I precisi paralleli fra situazioni e avveni­ menti del mito e singoli momenti della Ballata, compreso il momento preciso in cui Leandro annega, sono stati spiegati da Claudio Arrau nelle sue conversazioni con Joseph Horowitz, che il lettore potrà facilmente reperire. Senza entrare nel merito delle convinzioni di Arrau, che almeno a livello personale dell’interprete posseggono piena validità, ci sembra più importante attirare l’attenzione del lettore sulla forma della Ballata, che, come dicevamo, deriva dalla forma della ouverture da concerto. Creando il genere, Chopin non aveva però creato la forma della balla­ ta: uniche caratteristiche comuni alle sue quattro ballate sono il metro binario composto e il pluritematismo. Formalmente, le Ballate di Cho­ pin rappresentano ripensamenti della forma classica, per eccellenza pluritematica, del cosiddetto Allegro di sonata, trattato con una fantasia e una duttilità che, senza cancellarne del tutto la struttura, la riplasmano ogni volta in modo nuovo e originalissimo. Le Ballateti Liszt appartengono anch’esse a un momento di riflessio­ ne sul pluritematismo classico, e si richiamano alle Ballate di Chopin come a un modello di comportamento, non a un modello formale. Il procedimento specifico con cui il pluritematismo classico viene ripla­

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smato nella Ballata n. 2 è veramente singolare. Due sono i temi princi­ pali, e la struttura prevede, come nell’Allegro di sonata, l’esposizione, lo sviluppo, la riesposizione (molto abbreviata). Identica a quella classica è la struttura tonale, con il secondo tema in re maggiore nell’esposizione e in si maggiore nella riesposizione, esattamente come nella Sonata. Più che di temi si deve però parlare di gruppi tematici. La esposizione avvie­ ne in questo modo: secondo elemento del primo gruppo tematico e secondo elemento del secondo gruppo tematico vengono presentati in un’ampia introduzione (si minore e si maggiore con immediata ripeti­ zione in si bemolle minore e si bemolle maggiore), quindi inizia 1’ espo­ sizione vera e propria, con i gruppi completi. Per bilanciare architettoni­ camente la lunga introduzione Liszt crea una altrettanto ampia perora­ zione finale, in cui riespone, in si maggiore e come un corale, il secondo elemento del primo tema, facendolo seguire da tre variazioni, con spo­ stamento verso l’acuto e con aumento progressivo della massa e del volume di suono fino alla conclusiva riapparizione trionfale (non sembra improbabile che il modello formale di questa struttura sia da cercare nel secondo tempo della Sonata wp. 57 di Beethoven, X Appassionata). Fra la prima e la seconda variazione, ed è una felice invenzione, viene inserito un episodio di intenso lirismo, basato sul primo elemento del secondo tema. La Ballata viene poi conclusa con una riapparizione del secondo elemento del secondo tema, non trionfale. È da notare che a questa soluzione - ne abbiamo accennato parlando della Sonata- Liszt arrivò in un secondo momento: la prima versione si concludeva invece trionfal­ mente, con uno scatenamento orgiastico di sonorità. Due gruppi tematici di due elementi ciascuno. Liszt condensa in realtà in due gruppi tematici principali quelli che nell’Allegro di sonata classico erano i due temi principali e i due temi secondari e, come abbiamo visto, sposta il peso gravitazionale sul secondo elemento di ogni gruppo, corrispondente al tema secondario della tradizione classica. Si tratta di un rovesciamento di prospettiva in cui si esprime la tensione etica di Liszt, impegnato nella riconquista non accademica della classici­ tà e degli orizzonti umanistici della classicità. E sebbene la composizione sia di una pienezza emotiva e di una plasticità rappresentativa ancora pienamente legate al romanticismo, il sottile gioco intellettuale che si apre con la classicità è già di tipo manieristico, alessandrino. Perciò non si può parlare, né qui né nella contemporanea Sonata, di neoclassicismo di Liszt, ma di apertura - lenta e appena accennata - del manierismo decadentistico che da Liszt verrà sviluppato nei decenni successivi, fino alla fase ultima e visionaria della sua creatività.

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22. Vediamo ora di parlare rapidamente dei poemi sinfonici. Innanzitut­ to il nome: poema sinfonico, Symphonische Dichtung. Liszt adottò il termine nel 1854, per la prima esecuzione del Tasso. Lamento e trionfo. Spetta a Wagner la prima chiara messa a punto della poetica del poema sinfonico, in una lettera-saggio datata 15 febbraio 1857 e indirizzata alla figlia della principessa Sayn-Wittgenstein: Involontariamente, ascoltando una delle nuove opere orchestrali di Liszt, mi sentii sorpreso e rapito nel constatare quanto era felice questa denominazione di “poema sinfonico”. Detto molto seriamente, la scoperta di questa denominazione costituisce una conquista più grande che non si creda, perché implica la scoperta di una nuova forma d’arte. Questa affermazione Vi sembrerà senza dubbio bizzarra; perciò Vi dirò molto nettamente qual è il mio modo di vedere quest’argomento.

Wagner parte dalla Ouverture, esponendo la tesi che non solo l’ou­ verture stessa, ma qualsivoglia pezzo di musica strumentale deve la pro­ pria forma «alla danza o alla marcia». Secondo Wagner, la «regola della danza esige, invece dello sviluppo, necessario alla materia drammatica, il cambiamento», vale a dire l’alternarsi di episodi vivaci e di episodi tran­ quilli. Wagner ha chiaramente in mente il minuetto (vivace) e il trio (tranquillo): Senza questa alternanza e questo ritorno non si può immaginare nessun movi­ mento sinfonico, nella accezione attuale del termine, e ciò che si esprime nel terzo tempo d’una sinfonia sotto forma di minuetto, trio e ripetizione del minuetto, benché in modo più sfumato [...] può essere ritrovato in ciascuno degli altri tempi [della sinfonia] come embrione della forma. Ne segue che, se sorge conflitto tra l’idea drammatica e questa forma, bisogna necessariamente sacrificare o lo sviluppo (l’idea) al cambiamento (la forma), o questo a quello.

Wagner, dopo aver parlato di Gluck e di Beethoven, afferma che non bisogna temere «che l’artista non possegga la facoltà musicale-poetica necessaria qui, quella che permette esattamente di esaminare il soggetto poetico di modo che possa servire al musicista per la creazione di forme musicali intelligibili». La soluzione del problema spetta «a un eletto superiormente dotato e che, musicista completo, sia pure poeta fino alla punta delle unghie». Conclusione: [...] chiunque sia dotato di intelligenza e di cuore mi capirà ascoltando i “poemi sinfonici” di Liszt, il suo Faust, il suo Dante-, perché sono essi che mi hanno fatto capire il presente problema.

Tra i non dotati di intelligenza e di cuore c’era di sicuro Eduard Hanslick, autore del Von Musikalisch-Schonen, Del bello musicale, uscito a Lipsia nel 1854. Hanslick mise l’inventore del poema sinfonico in cima

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alla sua lista nera e ce lo mantenne per sempre. Ma abbiamo già detto che riteniamo inutile ripercorrere le dispute tra formalisti e contenutisti. Ci sembra invece interessante un distinguo di Wagner, a proposito della musica a programma: M’era sempre capitato, di fronte alle manifestazioni migliori e spesso persino geniali di questo genere, di perdere all’audizione così completamente il filo musicale da non arrivare, malgrado i più grandi sforzi, a ricordarlo e a riallacciarlo. Ciò mi capitò ancora di recente con la scena d’amore, così meravigliosamente sorprendente, nei suoi motivi principali, del Romèo et Juliette, la sinfonia del nostro amico Berlioz; la grandissima impressione che m’aveva fatto lo sviluppo del tema principale svanì e si calmò nel corso dell’intero movimento, per convertirsi alla fine in un innegabile disagio. Capii d’improvviso che, essendosi rotto il filo musicale (cioè l’alternanza logica e chiara dei motivi determinanti), dovevo riferirmi a motivi scenici che non mi erano presenti allo spirito e che non erano del pari indicati nel programma. Questi motivi esistevano indiscutibilmente in Shakespeare, nella famosa scena del balcone, ma il grande errore del compositore risiedeva nel fatto di essere stati con­ servati fedelmente così come li aveva disposti il drammaturgo.

Abbiamo già detto, a proposito della Sonata., che la musica strumen­ tale di Liszt non va vista nel quadro del teatro naturalistico. Wagner afferma questo concetto quando dice che non si trattava più di un soggetto così com’è caratterizzato dalle parole di un poeta, ma piuttosto di un altro del tutto diverso, che si rifiuta a qualsiasi descrizione, e di cui ci si immagina con difficoltà come possa, nella sua sottile atmosfera, tradursi in un nostro innegabile sentimento. Questa sicurezza geniale della concezione musicale si esprime in Liszt, fin dall’inizio dell’opera musicale, con una tal forza che spesso, dopo le prime sedici battute, io non potevo impedirmi di gridare: «Basta! Basta così!».

A Weimar Liszt scrisse dodici poemi sinfonici:

1. Ce quon entend sur la montagne (Ciò che si ascolta sulla montagna), da V. Hugo: abbozzo, 1847; I versione, 1848-49; II, 1850; III, 1853-54; IV, 1857; 2. Tasso. Lamento e Trionfo, da Goethe e Byron: abbozzo, 1840; I versione, 1849; II, 1850-51; III, 1854; 3. Les Pléludes (I Preludi), da Lamartine: abbozzo, 1844-45; I versio­ ne, 1851; IL 1854; ^.Orpheus (Orfeo): 1853-54; 5.Prometheus (Prometeo), da Herder: I versione, 1850; II, 1855; (s.Mazeppa, da V. Hugo: I versione, 1851; II, 1854; 7 .Festklànge (Suoni di festa): 1853; 8 .Héro'ide funebre (Eroide funebre): I versione, 1849-50; II, 1854; 9 .Hungaria (Ungheria): abbozzo, 1840, 1854;

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10 .Hamlet (Amleto), da Shakespeare: 1858; W.Hunnenschlacht (La battaglia degli Unni), da W. von Kaulbach: 1857; 12 .Die Ideale (L’ideale), da Schiller: abbozzo 1853, 1857.

All’estetica della musica a programma fanno inoltre capo le sinfonie: X.Eine Faust-Symphonie in drei Charakterbildern (Una Sinfonia-Faust in tre ritratti di carattere), da Goethe, progettata nel 1839:1 versio­ ne, 1854; II versione, con tenore e coro, 1857; l .Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia (Una Sinfonia sulla divina Commedia di Dante), da Dante: abbozzi, 1847, 1855-56, con due finali.

Significative le dediche: tutti i poemi sinfonici sono dedicati a Caroly­ ne Sayn-Wittgenstein, la Sinfonia-Faust a Berlioz, la Sinfonia-Dante a Wagner. I motivi ispiratori dei poemi sinfonici sono tratti da fonti letterarie, tranne che in due casi: Hunnenschlachtè ispirato a un quadro di Wilhelm von Kaulbach, e Orpheus fu pensato dapprima come preludio all’ Orfeo ed Euridice di Gluck, anche se nel programma Liszt scrisse poi di aver avuto presente una raffigurazione di Orfeo su un vaso etrusco visto al Louvre. Dove manca la citazione della fonte, il programma è di Liszt stesso. Ad esempio, il programma di Hérotde funèbre, che potremmo tradurre con Sepoltura d’eroi inizia con una confessione: Si è parlato più volte di una sinfonia che componemmo nel 1830. Diverse ragioni ci convinsero a tenerla in portafoglio. Tuttavia, pubblicando questa serie di poemi sinfonici, abbiamo voluto inserirvi un frammento di quest’opera, la sua prima parte.

Il punto di partenza è dunque la Rivoluzione di luglio, le tre giornate del 1830; e in questo senso il programma àeW Héroìde funebre sì avvicina a quello della Grande Symphoniefunèbre et triomphale di Berlioz, compo­ sta nel 1840 in memoria dei caduti del 1830. Ma Liszt intende ispirarsi a ciò che nel mondo non perisce mai: «Tutto può cambiare nelle società umane, costumi e culti, leggi e idee; il Dolore resta; resta come fin dall’inizio dei tempi». Liszt spiega ampiamente e con facondia questo concetto. E conclude così: De Maistre osserva che in migliaia d’anni se ne può contare appena qualcuno in cui, per rara eccezione, la pace regnò su questa terra, che somiglia così a un’arena in

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cui i popoli si combattono come un tempo i gladiatori, e in cui i più valorosi, entrando in lizza, salutano il Destino, loro padrone, e la Provvidenza, loro arbitro. Nelle guerre e nelle carneficine che si susseguono, giochi sinistri, le bandiere che si levano fiere e ardite le une contro le altre, quale che sia il loro colore, sventolano intrise di sangue eroico e di lacrime inestinguibili. Spetta all’arte di gettare il suo velo trasfigurante sulla tomba dei valorosi, di avvolgere col suo nimbo d’oro i morti e i morenti, così che siano invidiati dai vivi.

La composizione è una grande marcia funebre (più di venti minuti di durata), tripartita e preceduta da una introduzione. Nella parte centrale troviamo citato un frammento della Marsigliese, e anche il tema princi­ pale comincia con i due intervalli iniziali delfinno rivoluzionario france­ se. Quegli stessi intervalli si trovano però anche all’inizio della Rapsodia ungherese n. 14. Non è dunque improbabile che Liszt arrivasse alla cele­ brazione del dolore universale partendo da due esperienze individuali che lo avevano profondamente segnato e che costituiscono il sostrato emotivo del poema sinfonico: la Rivoluzione di luglio a Parigi, l’insurre­ zione ungherese del 1848-49. All’opposto della Heroìde funebre, Festkldnge celebra la gioia. L’occa­ sione per l’esecuzione del poema fu offerta dalle feste per il cinquantena­ rio di regno di Marie Pavlovna, granduchessa di Weimar e sorella dello zar, amica e protettrice di Liszt nonché sfortunata patrocinatrice della causa matrimoniale di Carolyne. Ma la granduchessa era russa. Che cosa c’entrano dunque gli stilemi musicali polacchi e gli stilemi della musica verbunkos dell’Ungheria, che si trovano nella parte centrale del poema? Lo capiamo se teniamo presente il fatto che la principessa Sayn-Wittgen­ stein, nata Iwanowska, era polacca, e che Liszt era ungherese. Il poema sinfonico celebra dunque, con i suoi suoni di festa, le nozze che non ebbero mai luogo. Ma qualche stilema del verbunkos si infiltra anche nella marcia fune­ bre dell’ Hamlet, nel canto del gondoliere veneziano del Tasso, nella marcia finale del Mazeppa. Perché? Ci chiediamo ancora. Non sembra azzardato affermare che, così come parla di se stesso quando scrive di Clara e di Robert Schumann, Liszt parli di se stesso quando medita su Goethe, su Dante, su Amleto, su Prometeo, su Orfeo, sul Tasso, su Mazeppa: i poemi sinfonici e le sinfonie sono i suoi autoritratti, l’imperiale galleria dei suoi autoritratti allo specchio.

23. Ivan Stepanoviò Mazepa-Kolendinskij era nato a Kiev nel 1644. Da ragazzo fu paggio alla corte di Giovanni Casimiro, re di Polonia. A causa di un intrigo amoroso con una dama, una contessa, il giovane MazepaKolendinskij sarebbe stato legato, nudo, sul dorso di un cavallo dell’Ucraina. Il cavallo tornò, galoppando pazzamente, nel paese natio e

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Mazepa-Kolendinskij, semivivo, fu raccolto e curato dai cosacchi. Eletto più tardi atamano, si alleò prima con i turchi e poi con i russi, fu fatto principe da Pietro il Grande, complottò con il re di Svezia Carlo XII a cui s’unì nel 1708 nella guerra che gli svedesi combattevano contro i russi. Sconfitto insieme con Carlo XII nella battaglia di Poltava, fuggì in territorio turco e morì nel 1709, forse suicida. Le vicende di Ivan Stepanovic Mazepa-Kolendinskij, divenuto Ma­ zeppa, vennero narrate da Voltaire nella storia del regno di Carlo XII. Ma i romantici restarono colpiti dalla vicenda, forse leggendaria, della cavalcata sul dorso del destriero impazzito. E Victor Hugo, in un poe­ metto a lui dedicato e contenuto nelle Horientales, fece di Mazeppa il simbolo dell’artista che, trascinato dal suo genio, attraverso la sofferenza diventa poeta. Il poemetto di Victor Hugo, preceduto come epigrafe da un verso — «Avanti! Avanti!» - del Mazeppa di Byron, e stampato all’inizio della partitura nell’originale francese e nella traduzione tedesca di Peter Cor­ nelius, è il programma del poema sinfonico di Liszt. La prima parte descrive con vividi e crudi colori la cavalcata selvaggia, valli, montagne, fiumi, steppe, foreste, deserti, con il sangue di Mazeppa che corre sul suolo e le sue carni che si lacerano. Dopo tre giorni il cavallo cade sfinito, e gli uccelli da preda s’awentano sull’animale e sull’uomo, «Molti becchi ardenti aspirano a rodere nella sua testa gli occhi bruciati dal pianto». Ma «questo cadavere vivente» diventerà principe delle tribù ucraine, e «la sua selvaggia grandezza nascerà dal suo supplizio». Nella seconda parte del poemetto il racconto viene riletto come sim­ bolo: Mazeppa è l’artista, il cavallo è il «genio, ardente corsiero», che lo trascina «fuori dal mondo reale». Nella selvaggia cavalcata il poeta «tutto vede», tutto conosce nella sofferenza, «bruciato da ardenti scintille», la fronte battuta da «fredde ali». Egli grida atterrito, tu prosegui implacabile. Pallido, prostrato, ferito, sotto il tuo volo che l’opprime Egli piega con terrore; Ogni passo che fai sembra scavargli la tomba. Infine arriva il termine... egli corre, vola, cade, E si risolleva re!

Il poema sinfonico di Liszt è nettamente diviso in due parti: la cavalcata e il trionfo. La prima parte, Allegro agitato, inizia con uno scoppio, secco come una frustata, dei fiati, seguito dal concitato movimento continuo degli archi. Il tema degli archi ricorda nettamente il finale della Sonata op. 35 di Chopin, che segue la Marcia funebre e che conclude una composizione non impropriamente chiamata da certuni poema della morte. Liszt vuole sicura­ mente destare nell’ascoltatore l’idea, e diremmo la sensazione fisica, della

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cavalcata mortale. Ma il movimento continuato degli archi, a cui s’aggiungo­ no progressivamente tutti gli altri strumenti, serve a preparare, con un enor­ me crescendo di intensità, il tema principale, il canto disperato e selvaggio di Mazeppa, in re minore. Il tema principale viene quindi variato, e poi svilup­ pato; segue - Un poco più mosso, sempre agitato assai— una seconda variazione in si bemolle minore, dolente, che viene ripetuta in si minore e poi sviluppa­ ta. Ritorna il re minore per la terza variazione, seguita dalla quarta variazione, punto culminante della prima parte, in re maggiore. Il movimento continua­ to della cavalcata s’arresta, e nella calma improvvisa e sinistra — Andante — si odono “brandelli” del tema, imploranti, di Mazeppa. Misteriosamente, in un clima di attesa e di vera e propria suspense, la prima parte si conclude. I simboli sono chiari: la cavalcata, Mazeppa, l’arresto della corsa. La suddivisione in tre parti — introduzione, tema e prima variazione, secon­ da variazione e sua ripetizione, terza, quarta variazione e coda - simbo­ leggia probabilmente i tre giorni in cui prosegue la cavalcata. Aggiungia­ mo ancora che la struttura del tema con variazioni viene mascherata con transizioni anche ampie tra una variazione e l’altra, in modo che non si verificano mai soluzioni di continuità. La seconda parte, Allegro, inizia in re minore con tremoli soffocati degli archi e con appelli degli ottoni — la didascalia dice marziale, nobi­ le—, che simboleggiano l’arrivo delle tribù ucraine. A questa parte intro­ duttiva, breve, segue VAllegro marziale, che è di volta in volta una grande marcia di parata, con spiegamento di bellici oricalchi e di percussioni, e una danza esotica. Marcia trionfale e danze, come nella futura Aida e in tante opere dell’ottocento. Non manca alla fine il momento in cui ritroviamo, glorioso, il tema di Mazeppa; e non fatichiamo a immagina­ re l’arrivo, in trono, dell’atamano dei cosacchi. Una nota a pie di pagina dice che la seconda parte, dall’Allegro in re minore in poi, può essere eseguita come pezzo a sé7. Si tratta in effetti di un rimaneggiamento &AVArbeiterchor, Coro di lavoratori, per baritono, quartetto maschile, coro e pianoforte, composto negli anni Quaranta su testo di Philipp Kaufmann e trascritto anche per pianoforte solo con il titolo Marcia eroica: un pezzo, quindi, che aveva in origine una sua compiutezza e che la conserva ancora. Anche uno degli Studi trascendentali, il n. 4, è intitolato Mazeppa. Se andiamo a leggerlo vi ritroviamo la prima parte del poema sinfonico, con

7 Liszt ascoltò un’esecuzione della sola seconda parte a Vienna, il 14 settembre 1856, sotto la direzione di Johann Strauss: «[...] Strauss ha fatto eseguire al “Volksgarten”, in mio onore, tre pezzi del “Lohengrin” e la Marchefinale del mio Mazeppa. Quest’ultima, così come due pezzi del “Lohengrin” sono stati bissati» (lettera a Agnes StreetKlindworth, 16 settembre 1856).

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molte piccole modificazioni, con una diversa introduzione e con una breve conclusione, trionfale, in re maggiore. Alla fine troviamo stampati gli ultimi versi del poemetto di Hugo. Il confronto minuzioso tra lo Studio e la prima parte del poema sinfonico ci dice che per la versione orchestrale Liszt introdusse varianti dovute sia a ragioni strumentali sia a ragioni compositive. La struttura generale resta tuttavia tripartita, e quindi possiamo parlare di trascrizione. A chi è anche solo superficialmente esperto del catalogo lisztiano non sfugge il fatto che nel 1840 Liszt aveva composto, e nel 1847 aveva pubblicato, un pezzo per pianoforte intitolato Mazeppa, dedicandolo a Victor Hugo. Lo leggiamo, e scopriamo che si tratta dello Studio trascen­ dentale n. 4, con un’introduzione più breve, diverse varianti, e con una scrittura pianistica più complessa; sotto l’ultima battuta troviamo anche qui gli ultimi versi del poemetto di Hugo. La fonte letteraria del futuro poema sinfonico era dunque stata individuata fin dal 1840. Chi legge il quarto dei Grandi Studi, pubblicati nel 1839 e scritti nel 1837, ritrova Mazeppa, senza titolo e senza introduzione: si comincia subito dal tema principale. Già Robert Schumann aveva però scoperto che i Grandi Studi del 1837 hanno come base gli Studi composti verso il 1826, pubblicati verso il 1827 come op. 6 e più tardi, alla metà degli anni Trenta, come op. 1. Il n. 4 degli Studi del 1826 si limita a due pagine a stampa, rispetto alle dodici della versione 1837, e sviluppa la sola formula d’accompagnamento del tema di Mazeppa. Riassumiamo in uno specchietto tutte le “fonti musicali” e tutte le versioni del poema sinfonico Mazeppa\ Titolo

Organico

Pubblicazione

1826 1837 1840 1843-1848

Studio n. 4 Grande Studio n. 4 Mazeppa Arbeiterchor

1827 1839 1847

1848 ca. 1848 ca.

Marcia eroica Marcia eroica

pianoforte pianoforte pianoforte canto e pianoforte pianoforte pianoforte a quattro mani

1851

Studio trascendentale n. 4, Mazeppa Mazeppa» poema sinfonico Mazeppa» poema sinfonico, (versione definitiva) Mazeppa» poema sinfonico Mazeppa» poema sinfonico

pianoforte orchestra

1852 —

orchestra due pianoforti pianoforte a 4 mani

1856 1856 1875

Anno

1851 1854

1855 1875

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1953 —



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Se prendiamo l’escursione temporale nei termini più ampi possiamo dire che Liszt scopre nel 1826 il nucleo primo di un’ opera che, cresciuta nel tempo, verrà pubblicata nel 1856. Se si trattasse di un lavoro lenta­ mente formatosi durante trent’anni, nessuno troverebbe nulla da obiet­ tare; anzi, si ammirerebbe la costanza di Liszt. Le tappe intermedie, le aggiunte, il matrimonio tra uno studio per pianoforte e un coro di lavoratori fanno invece arricciare il naso a più d’un critico. Serge Gut, che a Liszt ha dedicato gran parte della sua attività di studioso, dice che Mazeppa è «musicalmente assai deludente», che «la forma in due parti è primitiva e senza alcun legame organico», e che, infine, «gli effetti degli ottoni e di certe curve melodiche sono al limite del volgare». Non citiamo Gut per contrastare un giudizio che non condividiamo8*io , ma semplicemente per far capire come dovessero sentirsi orripilati, di fronte a Mazeppa^ i mendelssohniani e gli schumanniani tedeschi del 1856 e come dovesse sentirsi orripilato Brahms. Nel giugno del 1853 Brahms si recò a Weimar e si presentò a Liszt. Liszt lesse a prima vista lo Scherzo op. 4 e parte della Sonata op. 1 di Brahms, poi eseguì la sua Sonata in si minore, terminata quattro mesi prima. Il pianista americano William Mason, che era presente, racconta che durante l’esecuzione della Sonata in si minore Brahms si assopì, che Liszt se ne accorse e che al termine dell’esecuzione se ne andò brusca­ mente. Il piccolo incidente, su cui molto si è discusso e di cui si è anche tentato di negare l’autenticità, non è di alcun peso nella storia dei rap­ porti tra Liszt e Brahms. Ma Brahms divenne grande amico di Josef Joachim. E Joachim, primo violino nell’orchestra di Weimar dal 1850 al 1852, aiutato poi da Liszt per l’acquisizione di una posizione analoga ma meglio retribuita a Hannover, e quindi legato a Liszt da vincoli di fami­ liarità e di riconoscenza, il 27 agosto 1857 si sentì in dovere di scrivere una lettera in cui, in termini molto crudi, esprimeva a Liszt il suo distac­ co e la sua opposizione (la riprendiamo dalla monografia brahmsiana di Claude Rostand): Lei è abituato a essere trattato con entusiasmo e sa di quale sincerità e amicizia io sia capace, per cui non le nasconderò ulteriormente ciò che il suo sentimento di uomo ha il diritto di esigere da me senza indugio. Non sono assolutamente toccato dalla sua musica; essa è contraria al nutrimento che, fin dall’infanzia, ho tratto dai nostri grandi maestri. [...] Come potrei, a queste condizioni, unirmi a quanti, in suo

8 Crediamo che, malgrado l’apparente ingenuità, il giudizio più acuto sia quello di Wagner: «Anche Mazeppa è ammirevolmente bello; già al solo scorrerlo per la prima volta io ansimavo! Pure il povero cavallo mi fa pena: la natura e il mondo sono proprio un che di terribile» (lettera a Liszt, 12 luglio 1856).

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nome e in nome della fede (parlo di chi è sincero) che non possono non avere, in quanto responsabili dell’evoluzione artistica contemporanea, si prefìggono come scopo principale della loro vita la diffusione delle sue opere con tutti i mezzi di cui dispongono?

Tre anni più tardi, nell’estate del 1860, Brahms scriveva a Joachim: «I weimariani continuano ad agitare le acque. La voglia di entrare in campo e di attaccare Liszt mi fa prudere le mani». In aprile era uscita sull’«Echo» di Berlino la lettera sottoscritta da Brahms e Joachim, oltre che da Julius Otto Grimm e Bernhard Scholz, che si concludeva così: I sottoscritti [...] non possono che deplorare e condannare le opere dei capi e dei discepoli della scuola neo tedesca i quali, da una parte, mettono in pratica questi principi [i principi della Musica dell’avvenire] e, dall’altra, vogliono imporre l’appli­ cazione di teorie nuove e insensate, contrarie alla natura stessa della musica.

La lettera suscitò polemiche violentissime, e Liszt venne visto non più quale suscitatore di cultura in una Weimar divenuta una Atene della musica, ma come accolito di una fazione funesta per i destini dell’arte nazionale. Liszt, che aveva già lasciato la sua posizione di “datore di lavoro” a Weimar, nel 1861 si sarebbe trasferito a Roma. La Germania lo respingeva, lo espelleva da sé come leader e come maìtre-à-penser. E la sua storica innovazione, il poema sinfonico, avrebbe avuto sviluppi in Russia e in Francia prima che in Germania, dove sarebbe ricomparso solo trent’anni più tardi con Richard Strauss.

24. L’organo romantico non ha goduto per parecchi decenni di buona stampa, perché organo romantico significava organo pomposo, chiasso­ so, bombardante, tanto opulento di suono quanto povero di ritmo e di trasparenza. E per un’epoca che sentiva l’esigenza impellente di riscopri­ re l’enorme patrimonio della musica organistica barocca, l’organo di Atlantic City appariva giustamente molto più adatto ad allietare le con­ venzioni elettorali che a promuovere avventure culturali. Ma l’organo di Atlantic City, estrema e babilonica propaggine dell’organo romantico, è forse l’organo di Ives; non è l’organo di Reger, non è l’organo di Franck, e tanto meno è l’organo di Liszt, che di organo comincia ad occuparsi quando il primo creatore dell’organo romantico, Aristide Cavaillé Coll, non aveva ancora neppur tentato di sostituire la trasmissione meccanica con la trasmissione pneumatica. Nel 1836 Liszt aveva provato un bellis­ simo organo, costruito tra il 1824 e il 1834 da Aloysius Moser nella chiesa di S. Nicola a Friburgo: un organo con quattro manuali e sessan-

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taquattro registri. L’occasione era stata una gita che Liszt, la d’Agoult e un gruppo di amici, tra cui George Sand, avevano fatto partendo da Chamonix e a cui abbiamo già accennato. Lo studioso di sanscrito Adol­ phe Pictet, che del gruppo faceva parte, descrisse nel volume Une course à Chamonix la gita, la scoperta dell’organo, e la straordinaria improvvi­ sazione di Liszt, durata alcune ore e conclusa con una fantasia sul Dies Irae del Requiem di Mozart. L’improvvisazione lasciò attoniti i compagni di viaggio, e dovette certamente essere impressionante, se solo pensiamo alla tecnica di un Liszt venticinquenne che da poco aveva trascritto per pianoforte la Sinfonia fantastica di Berlioz. Non stentiamo dunque a credere che sulle quattro tastiere dell’organo Moser Liszt facesse miraco­ li, e che la sua conoscenza dell’orchestra di Berlioz lo guidasse nella scelta e nello sfruttamento dei registri. Non riusciamo invece ad immaginare se e quando e quanto egli avesse acquisito la tecnica della pedaliera, e possiamo ragionevolmente supporre che le sue mani arrivassero come saette dove... non arrivavano i piedi. E probabile che Liszt non mancasse di provare qualche altro strumento nelle innumerevoli città che visitò tra il 1836 e il 1847. Sappiamo comunque che quando si stabilì a Weimar si preoccupò presto di avere in casa un organo: per l’organo cominciò a comporre nel 1850, cominciò a insegnarlo subito (ebbe tra gli allievi Julius Reubke), e nel 1850 completò le trascrizioni per pianoforte di sei Preludi e fuga per organo di Bach. Le trascrizioni, paradossalmente, ci danno più delle opere originali un’idea della concezione dell’organo in Liszt. Nelle sue trascrizioni bachiane Liszt non punta sulla creazione di effetti coloristici, al contrario di Cari Tausig, né sulla monumentalità della sonorità mediante la mol-, tiplicazione dei raddoppi, al contrario di Ferruccio Busoni. Liszt si pre­ occupa invece di rendere eseguibile su una tastiera ciò che sull’organo è eseguito su due manuali e una pedaliera, e aggiunge quasi esclusivamente raddoppi di ottava al basso, secondo una concezione ancora nettamente beethoveniana della esecuzione polifonica sul pianoforte. La perfetta udibilità delle parti, che sia Tausig, sia Busoni tendono a trasferire, a fissare nella scrittura, Liszt la ottiene mediante la differenziazione del tocco e l’affida al gusto dell’esecutore. Nell’organo, a parer nostro, Liszt ama lo strumento che permette la chiarezza espositiva della polifonia, più che lo strumento atto a giochi di colori e di volumi. Anzi, è probabile che Liszt vedesse nell’organo, quale si andava delineando alla metà dell’Ottocento, una specie di pianoforte perfezionato. Liszt fu molto inte­ ressato agli esperimenti con i quali si cercava di rendere possibili sull’or­ gano gli effetti di crescendo e di diminuendo graduali della sonorità, impossibili sull’organo barocco e sull’organo classico, e nella sua casa di Weimar uni un organo da sala e un pianoforte da concerto, creando una specie di strumentone con doppi comandi.

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Il vantaggio degli strumenti a tastiera è quello di poter disporre, attraverso i collegamenti e la moltiplicazione dei congegni meccanici, di una molteplicità di effetti acustici. Il limite degli strumenti a tastiera, come di tutte le macchine musicali, è sempre rappresentato dalla man­ canza di controllo soggettivo e costante della sonorità. Nel pianoforte l’esecutore sceglie la dinamica di emissione del suono, ma non può influire sulla diminuzione di intensità che segue l’emissione. Nell’organo l’esecutore non può influire direttamente sulla dinamica, anche se l’in­ tensità è costante dopo l’emissione. Con gli esperimenti dei costruttori, o con gli esperimenti lisztiani su organo e pianoforte collegati, si cercava di inventare uno strumento a tastiera che superasse i limiti della macchi­ na, e che garantisse nello stesso tempo l’estrema complessità degli effetti e il controllo sulla qualità del suono. Né le ricerche dei costruttori aprirono prospettive ricche di sviluppi, né l’organo-pianoforte di Liszt andò oltre il tentativo individuale. Ma la produzione organistica va vista, a parer nostro, in relazione con un ideale dalla storia non realizzato, e risulta indubbiamente meglio, quasi una regione di confine dell’organo classico, su organi a trasmissione mecca­ nica e di registrazione non troppo sofisticata. La produzione organistica di Liszt comprende due sole composizioni di vasto respiro, la Fantasia e fuga sul corale “Ad nos, ad salutarem undam ”, composta nel 1850, e il Preludio e fuga sul nome BACH, composto nel 1855 e riscritto nel 1870. Il titolo “fantasia e fuga” fa subito pensare al barocco, a Bach. Ma in Liszt, al contrario che in Mendelssohn, non giocano suggestioni neobarocche o neoclassiche. Per lui si può piuttosto parlare di neogotico, cioè di suggestioni medievalistiche di un intellet­ tuale che, pur venerando Bach, era cattolico, e che, pur vivendo in Germania, s’era formato culturalmente nel romanticismo francese. Il passato non suggerisce a Liszt tanto delle forme, quanto delle atmosfere. E la Fantasia e fuga sul corale “Ad nos, ad salutarem undam” finisce con l’essere esattamente quel che dice il sottotitolo, cioè una Illustrazione del “Profeta”, dell’opera parigina di Meyerbeer ambientata in un nordico XVI secolo. Nel grand opéra di Meyerbeer il corale, cantato dagli anabattisti, è il simbolo della purificazione. Liszt se ne serve per una complessa costru­ zione non solo musicale ma ideologica, nella quale l’estasi (Adagio nella “mistica” tonalità di fa diesis maggiore, quasi un intermezzo tra la fan­ tasia e la fuga) è preceduta dall’angoscia tormentosa (Moderato dell’inizio della fantasia), e in cui il trionfo finale è preceduto (prima parte della fuga) da pagine di sarcasmo e di sfida, da una di quelle lampeggianti apparizioni diaboliche tanto frequenti nell’opera di Liszt. Scritta nel 1850, nel momento in cui il Liszt illustratore dei melo­ drammi si va trasformando nel creatore dei poemi sinfonici, la Fantasia

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e fu£a su^ corale “Ad nos, ad salutarem undam ” è un’opera-chiave perché colloca, in un vasto affresco, contrasti radicali di situazioni drammatiche ed espressive senza far ricorso a temi diversi, ma basandosi sulle meta­ morfosi di un solo tema. Caratteristica essenziale della poetica di Liszt, come abbiamo visto, è appunto la trasformazione continua e profonda dei temi, il trarre gli opposti da un’unica matrice e, perciò, l’evitare la risoluzione dei conflitti, la catarsi. Nella Fantasia e fuga, come in quasi tutto il Liszt di Weimar, la conclusione trionfale e trionfalistica è un dato esterno, “obbligato” e che, a parer nostro, obbedisce a una consapevole finzione. Nel tardo Liszt le conclusioni resteranno sospese perché non verranno più cercate le risposte risolutive. Scritta per organo, la Fantasia e fuga non è idiomaticamente pensata per organo. Liszt ne stese contemporaneamente una versione per organo, una versione per pianoforte con pedaliera, una versione per pianoforte a quattro mani. Il pianoforte con pedaliera, strumento che verso la metà dello scorso secolo interessò molto anche a Schumann e a Charles-Valentin Alkan, scom­ parve presto dall’uso; non siamo quindi in grado di controllare l’effetto che il pezzo otteneva su di esso. La versione per pianoforte a quattro mani appare utilitaristica e non tale da impegnare fisicamente gli esecutori in rapporto con il titanismo dell’opera. La versione per organo non richiede una tecnica virtuosistica né alle tastiere né alla pedaliera. O meglio, Liszt scrive per la pedaliera versioni alternative di certi passi che sono giudicate ineseguibili dagli organisti, e scrive versioni principali che risultano timide e sommarie (alcuni organisti, per rendere più spettacolare l’esecuzione scansando nel contempo le “ineseguibili” versioni alternative, trasferiscono alla pedaliera certi passi affidati da Liszt ai manuali). Ben più interessante, organisticamente, è la successiva fantasia e fuga, quella sul nome BACH, nella quale le più ardite concatenazioni armo­ niche, suggerite dalle note del tema, che coprono una terza minore, vengono spinte fino alla sospensione della tonalità. Malgrado la sua genialità di strumentista, insomma, anche Liszt dovette imparare ad usare uno strumento che nel 1850 non gli era ancora familiare, sicché la versione che, impegnando l’esecutore in misura quasi sovrumana, rende palesi in ogni momento la monumentalità e la tensione della Fantasia e fuga sul corale “Ad nos, ad salutarem undam ”, è a parer nostro la quarta: quella per pianoforte solo che Ferruccio Busoni scrisse nel 1897. I due maggiori lavori per organo di Liszt sono pezzi da concerto, ma in realtà solo il Preludio e fuga sul nome BACH, scritto per l’inaugurazio­ ne del nuovo organo del duomo di Merseburg, è pensato secondo una concezione prevalentemente sinfonica dello strumento. Liszt non avreb­ be infatti seguito lo sviluppo sinfonico dell’organo negli ultimi qua­ rantanni del secolo e, dopo la trascrizione delle Variazioni sopra il basso della cantata di Bach “Weinen, Sorgen, Zagen”, avrebbe aggiunto al suo

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catalogo solo pezzi di stile cameristico, intimo, spesso previsti in versione opzionale per le modeste sonorità dell’harmonium. Nel periodo di Weimar Liszt comincia a dedicarsi anche alla musica sacra. Ecco l’elenco delle sue principali composizioni in questo campo: Missa quattor vocum ad acquales continente organo per coro e organo. Nuova versione, 1869 1853 Domine salvum fac regem per tenore, coro maschile e organo 1855 Missa solemnis zur Einweihung der Basilika in Gran per soli, coro e orchestra; revisione, 1857-58 1855 Salmo XIIIper tenore, coro e orchestra; revisione 1859 1855-59 Die Seligkeiten per baritono, coro misto e organo 1859 Salmo XXIII per tenore o soprano, arpa e organo, con coro maschile ad libitum; revisione, 1862 1859 salmo CXXXVII per soprano, coro femminile, violino, arpa, pianoforte e organo; revisione, 1862 1859 ca. Te Deum per coro misto, organo, ottoni e timpani I860 Salmo XVIIIper coro maschile e orchestra 1860 ca. Pater noster / per coro misto e organo.

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A questo non piccolo elenco è da aggiungere anche il Magnificat per coro femminile e orchestra che conclude la Sinfonia-Dante. La composizione più impegnativa è senza dubbio la Messa solenne per l’inaugurazione della basilica di Gran (Gran in tedesco, Ersztergom in ungherese, era una località sul Danubio, non lontano da Pest). Liszt aveva già studiato in passato le composizioni religiose di Palestrina e di Orlando di Lasso; riprese questi studi a Weimar, e li estese alle messe di Bach e di Beethoven, nell’aspirazione, come disse in una lettera ad Agnes Street-Klindworth del 16 settembre 1856, a «penetrare fino alle sorgenti vive che sprizzano fino alla vita eterna». Nella Messa di Gran Liszt non tenta però alcun inserimento di stilemi arcaici nel suo linguaggio. Lo studio della musica sacra rinascimentale e barocca diventa quindi ricerca del sentimento religioso incarnatosi in varie epoche, ma non fonte di evoluzione stilistica; qualche rapporto si nota invece tra la Messa di Gran e la Missa solemnis di Beethoven, a riprova del fatto che Liszt vede in Beethoven l’iniziatore dell’epoca di maturità del linguaggio musicale. La Messa è divisa in più brani, secondo l’uso liturgico; tuttavia alcuni temi ritornano, trasformati, in più pezzi, e il Credo, come ha fatto notare Gut, è costruito in forma-sonata modificata. La Messa si inserisce dun­ que a pieno titolo nel profondo ripensamento della tradizione classica che abbiamo già riscontrato sia nella produzione pianistica sia nella produzione sinfonica.

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La prima esecuzione, preceduta da piccole polemiche provinciali e da manovre per farla sospendere, ebbe luogo a Gran il 31 agosto 1855, dopo due prove pubbliche a Pest il 26 e il 28. Erano presenti, come Liszt aveva anticipato ad Agnes Street-Klindworth il 3 agosto, «l’imperatore e quattro arciduchi [...] con un seguito di sessanta alti dignitari e funzio­ nari, quattro cardinali, sette o otto arcivescovi e una quarantina di vesco­ vi». Era un’occasione solenne, l’imperatore Francesco Giuseppe venne salutato al suo arrivo da cento colpi di cannone, quattromila persone vennero stipate nella cattedrale, e il successo fu solenne. In verità, Fran­ cesco Giuseppe, che già non apprezzava molto la musica, apprezzò ancor meno la musica di Liszt e, dice Paul Merrick, non lo invitò al banchetto. I critici tedeschi spararono a zero. Però il successo ci fu, e venne confer­ mato da un’esecuzione a Pest il 4 settembre. Berlioz, pur non essendosi recato in Ungheria, riferì sul «Journal des Débats», il 24 settembre, ciò che aveva letto in vari giornali: La potente emozione religiosa di questa grande opera che io non ho ascoltato, ma che avevo potuto leggere a Weimar prima che fosse eseguita, è stata prontamente riconosciuta e l’uditorio l’ha accolta con riconoscenza.

Se il lettore non se ne fosse accorto, la Messa di Gran è quella che dieci anni più tardi sarebbe stata definita da Berlioz «negazione dell’arte»... Dei quattro salmi il più noto è il XIII, Herr, wie lang willst du meiner sogar vergessen?, quasi mezz’ora ininterrotta di musica, come nella Sonata in si minore, nella Fantasia e fuga sul corale “Ad nos, ad salutarem undam , in Ce quon entend sur la montagne, le composizioni strumentali di Liszt che raggiungono le dimensioni di quadri d’opera. La costruzione è quella dei poemi sinfonici, solidissima. Ma sembra a noi che l’ampiezza dell’architettura musicale sia eccessiva rispetto ai contenuti del testo. Gli altri salmi adottano organici inconsueti e molto suggestivi. Di particolare interesse il Salmo CXXXVII, Aufden Wassern zur Babylon, sia per l’uso degli strumenti, calcolato non solo sui timbri ma sui registri, sia per lo stile armonico essenziale e scabro. La revisione del 1862 accentua i caratteri di novità della versione del 1859; tuttavia, già in questa com­ pare un Liszt diverso, quel Liszt che a Roma sarebbe veramente pervenu­ to alle “sorgenti vive” della religiosità, e che forse per questo motivo avrebbe fallito nel tentativo di diventare il nuovo Palestrina.

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Parte quarta: Liszt dopo Liszt

25. «Il sipario di questo quartetto — scrive Sacheverell Sitwell — si alza su una prospettiva di chiese e conventi romani. Ogni strada è nera di preti e le campane suonano da ogni angolo». Nell’atmosfera della Roma papale Liszt restò immerso per tre anni. E furono anni decisivi per il tratto di vita che ancora gli restava da percorrere. Il fatto che più diede materia ai pettegolezzi dei gazzettieri, che più colpì l’immaginazione dei contemporanei e che più ci stupisce oggi è che Liszt, arrivato a Roma per sposarsi, finisse per indossarvi la tonaca. La religiosità di Liszt rappresenta un aspetto della sua personalità che è di diffìcilissima analisi. Suo padre era entrato a diciott’anni come novizio nel convento francescano di Malacka vicino a Bratislava; era quindi passato nel monastero di Tyrnavia, ma a vent’anni se ne era andato, senza astio, tanto da tornare più volte in visita, anche con suo figlio. Alle crisi mistiche di Franz, negli ultimi anni dell’adolescenza, abbiamo a suo tempo accennato. Nel 1840 Liszt si era recato in visita nel convento francescano di Pest e nel 1857 era diventato terziario francescano. All’Altenburg egli e la principessa, come abbiamo visto, avevano due inginoc­ chiatoi fianco a fianco, e ogni giorno pregavano insieme. Come conci­ liassero la loro fede cattolica con la situazione di concubinaggio in cui, secondo il diritto canonico, vivevano, non lo sappiamo. E non sarebbe giustificato pensare che fossero due ipocriti: il conflitto tra fede e peccato fu da essi dolorosamente avvertito e a rigore, per quanto improbabile ciò possa apparire, non siamo neppure in grado di affermare che non venisse risolto nell’unico modo possibile, cioè con la castità9.

9 Non si tratta di una mera supposizione, ma di una pulce nell’orecchio che si mette a ronzare quando leggiamo la lettera della principessa Sayn-Wittgenstein allo zio-cugino

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Quando si stabilì a Roma Liszt abitò per qualche tempo in un appar­ tamento in affitto, vicino a quello della principessa. Dopo qualche mese andò a vivere alla Madonna del Rosario a Monte Mario, dove ricevette più volte la visita del papa Pio IX e dove si dedicò alla composizione di musica sacra. Solo nell’autunno del 1864 si recò in Germania e fece una rapida scappata a Parigi, ma a fine ottobre era di nuovo a Roma, nel suo ritiro. Il 20 aprile 1865 prese parte a un concerto a Palazzo Barberini, eseguendo PT/mta alla danza di Weber e un suo vecchio cavallo dì battaglia, X Erlkonigàs Schubert da lui trascritto. Il 25 aprile ricevette gli ordini minori (da monsignor Hohenlohe), e lo stesso giorno prese allog­ gio in Vaticano. Nessuno può affermare che la decisione di avviarsi al sacerdozio non fosse dettata da un sincero impulso interiore. Ma nessuno può, e nem­ meno Liszt poteva, non sapere che con l’amicizia del papa e in un momento in cui si stava cercando di promuovere la riforma della musica sacra cattolica, uno dei più grandi musicisti del secolo non sarebbe vis­ suto in Vaticano solo come ostiario-lettore-accolito-esorcista. Nel 1862 venivano composti l’oratorio La leggenda di Santa Elisabetta e due inni sacri, nel 1863 veniva pubblicato il Salmo XIII, nel 1866 veniva termi­ nato l’oratorio Christus, nel 1867 la Messa per l’incoronazione, scritta per l’intronizzazione di Francesco Giuseppe a re d’Ungheria. Pio IX chiamava questo compositore «il mio Palestrina», e Liszt sperò di assumere in Vaticano una posizione analoga a quella di cui aveva goduto a Weimar. Non sappiamo bene - possiamo immaginarlo - per­ ché il desiderio di Liszt non si realizzasse. Ma non si realizzò. E quando nel 1866 monsignor Hohenlohe divenne cardinale, l’abate Liszt, come lo chiamavano, andò ad abitare nel convento di Santa Francesca Roma­ na, alternando i soggiorni in questa dimora con i soggiorni nella Villa d’Este di Tivoli, di cui il cardinale poteva disporre. Liszt continuò a girare in tonaca, ad assistere quotidianamente alla messa, a recitare il breviario, a prender parte agli esercizi spirituali e a discutere di teologia con i suoi buoni amici ecclesiastici. Nel 1879 divenne canonico onorario di Albano. Ma la sua carriera ecclesiastica non progredì di un passo e la

di Liszt, Éduard, già citata: «Sebbene la sua immaginazione sia molto infiammabile dalla parte delle donne, perché suo padre gli ha detto sul suo letto di morte - Guardati dalle donne, perché ti porteranno a perdizione -, lui non è una natura libertina. Non ha vissuto dieci anni di seguito nella continenza? Tanto a Weimar che a Roma. Solo, è debole quando una donna vuole impadronirsi di lui, non sa resisterle». La principessa ignorava evidentemente la “relazione” con Agnes Street-Klindworth, che aveva avuto luogo a Weimar sotto i suoi occhi. Ma l’ipotesi che Liszt e la principessa vivessero a Weimar in castità non è da scartare, e spiega del resto meglio il rapporto amoroso con la Street-Klindworth.

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boutade di Rossini - «Liszt scrive messe per prepararsi a dirle» - restò una boutade. Nel 1866 la Messa di Gran venne eseguita a Parigi. Liszt vi si recò, sia per assistere all’esecuzione, sia per sistemare affari di famiglia perché era morta sua madre. Rivide gli amici di sempre, rivide, e fu l’ultima volta, Marie d’Agoult. Nel 1867 andò a Pest per la prima esecuzione della Messa per l'incoronazione^ diretta da Gottfried Preyer. Per un anno anco­ ra, dopo Pest, Liszt restò rintanato a Roma; ma dal 1869 ricominciò a viaggiare regolarmente, e non sempre da solo. Il granduca Cari Alexander non aveva cessato di mantenere con Liszt buoni rapporti. Non si trattava di riproporlo a Weimar come direttore del teatro e, in pratica, come dittatore della musica, ma più semplicemente come maestro di pianoforte. Dopo aver inventato nel 1840 il recital, nel 1869, con la complicità di Cari Alexander di Sassonia-Weimar, Liszt inventò così il “corso di perfezionamento”. Era un qualcosa di diverso dall’insegnamento che aveva impartito a Weimar negli anni Cin­ quanta. Allora i giovani che studiavano con lui condividevano tutta la sua intensa vita di musicista; dal 1869 in poi i pianisti di tutto il mondo seppero che per alcuni mesi all’anno avrebbero potuto essere ascoltati e consigliati dal più grande pianista del secolo, che per almeno tre ore al giorno restava a loro completa disposizione. Inutile citare nomi. O meglio, è più facile citare i soli due sommi concer­ tisti - Paderewski e Busoni - che non andarono a studiare con Liszt; tutti gli altri fecero i loro pellegrinaggi a Weimar, seguendo il maestro anche a Roma e a Pest. Non che i corsi di Liszt fossero selettivi, perché insieme con i talenti veri capitavano sotto la benigna ferula dell’Abate una quantità di ragazze che non potevano perfezionare ciò che non possedevano minimamente. Hans von Billow, che sostituì una volta Liszt, malato, cacciò come ladroni dal tempio una gran quantità di allievi. E tuttavia l’insegnamento di Liszt, pur dispersivo, fu determinante nel definire le linee culturali che il concertismo pianistico seguì negli ultimi decenni del secolo. Altrettanto importante fu l’opera di Liszt nello sviluppo della cultura musicale ungherese. Ungherese era nato, ungherese sentiva di essere, un disastro nazionale dell’Ungheria gli aveva fatto riprendere la carriera concertistica, in Ungheria aveva ottenuto i più esaltanti trionfi, con gli ungheresi aveva affettuosamente bisticciato per averli posposti come musicisti agli zingari. La sconfìtta dell’Austria nella guerra con la Prussia del 1866 aveva determinato in Ungheria una nuova situazione politica, sicché a Pest erano state fondate nel 1867 PAccademia Corale, che disponeva di un’or­ chestra e, dal 1868, una scuola, e la Società degli Amici della Musica. La vita musicale della capitale prese nel giro di due anni uno sviluppo impetuoso, inarrestabile.

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Liszt, invitato, prima rifiutò, poi si lasciò convincere dalle insistenze del barone Augusz e del grande violinista Ede Reményi e arrivò a Pest il 21 aprile 1869, in battello da Vienna: diresse due concerti, il 26 e il 30, di fronte a sale straordinariamente colme e con enorme successo; durante tutto il soggiorno gli vennero tributati onori regali che, com’era da prevedere, vennero messi in caricatura dalla stampa europea, sempre giuliva nel colpire con sfottò i provinciali. Il 3 maggio il suo allievo diciassettenne Georg Leitert eseguì, per la prima volta a Pest, la Sonata in si minore (e la ótf^taop. 106 di Beethoven). Il 4 Liszt partì, in treno, diretto a Roma, promettendo di ritornare. Tornò nel 1870, e si fermò in Ungheria dal 30 luglio fino al 22 aprile 1871. C’erano diversi motivi, per un così lungo soggiorno: la Francia e la Prussia erano in guerra, gli italiani - Liszt, amico di Pio IX e sosteni­ tore del dogma dell’infallibilità persino contro il parere della principessa e del cardinale Hohenlohe, non era proprio un ammiratore di Vittorio Emanuele II - occupavano Roma. E poi c’era un’altra faccenda, donne­ sca, di cui parleremo in seguito. A Pest ritornò regolarmente, ogni anno, fino al termine dei suoi giorni, e con minore regolarità a Roma e a Weimar. Restava a Roma (e a Tivoli) durante l’estate e per parte dell’autunno, a Pest nel tardo autun­ no e in inverno, a Weimar in primavera. Era, disse, la «vie trifurquée», la vita triforcuta, che iniziava alla soglia dei sessantanni e che avrebbe condotto fino a settantacinque.

26. Né Roma, né Pest, né Weimar erano centri musicali di importanza vitale. Né a Roma, né a Pest, né a Weimar era stata offerta a Liszt una posizione di potere che gli permettesse di mettere in cantiere un proget­ to culturale di ampio respiro. Anzi, quando a Pest sembrò che la sua presenza dovesse essere legata a una istituzione non mancò una campa­ gna giornalistica che mise in dubbio le sue qualità di compositore. Gli fu offerta, e l’accettò, la presidenza della neonata Accademia di Musica, cioè della prima scuola superiore che sorgesse in Ungheria. Ma si trat­ tava pur sempre di un incarico che, per quanto prestigioso, era onorifico più per l’Accademia che non per Liszt, il quale restava escluso dalle leve che muovevano economicamente la vita musicale ungherese e che la indirizzavano. Era un ospite molto gradito finché prendeva parte a con­ certi, insegnava, girava per i salotti e per le sacrestie, ma niente di più. Nei centri musicalmente importanti - da Parigi a Londra a Berlino a Vienna - Liszt poteva essere saltuariamente presente, ma sul suo nome non si giocavano né i grandi interessi economici dell’editoria e del teatro né le grandi dispute culturali. Sebbene la sua presenza di artista avesse lasciato solchi profondi in Francia e in Germania, e sebbene la sorgente

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cultura russa fosse da lui influenzata, Liszt era ormai una specie di padri­ no ideologico più che un leader. Come creatore, s’intende, perché come maestro, nel senso più alto, del pianoforte, la sua posizione era indiscus­ sa. Ma Liszt aveva ambito e ambiva a diventare protagonista con i poemi sinfonici, con gli oratori, con la musica sacra. E qui nessuno lo prendeva veramente sul serio: nemmeno il movimento ceciliano si identificò in Liszt, che ebbe anzi difficoltà a pubblicare i suoi ultimi lavori destinati all’uso liturgico. La partita storica, a partire dagli anni Sessanta nei quali Liszt era stato nascosto nei conventi romani, si giocava sul nome di Wagner. E Wagner onorava Liszt, e lui e Cosima lo volevano a Bayreuth, e Liszt a Bayreuth ci andava. Ma Wagner onorava Liszt come l’amico a cui è dovuta una grande riconoscenza, non come l’eguale (Liszt era d’accordo). E nel circolo wagneriano — la principessa Carolyne, a Roma, schiumava di rabbia — le tarde pagine di Liszt venivano guardate non solo senza alcuna simpatia, ma come imbarazzanti manifestazioni di senilità10. Quando non schiumava di rabbia contro la sfacciata fortuna e l’impu­ dica arroganza di Wagner, la principessa Sayn-Wittgenstein stava im­ mersa nelle montagne di libri e di documenti da cui traeva le sue conclu­ sioni sulle «cause interne della debolezza esterna della Chiesa», analizzate nel momento in cui la proclamazione del dogma dell’infallibilità coinci­ deva inaspettatamente con la fine del potere temporale. Les causes intérieures de lafaiblesse extérieure de LÉglise en 1870 è il titolo della dinosaurica opera in ventiquattro volumi, di oltre mille pagine ciascuno, che la principessa scrisse negli ultimi anni della sua vita e che finì di pubbli­ care poco tempo prima della morte, nel 1887. Carolyne fumava con gusto certi enormi sigari Minghetti fuori ordi­ nanza, che il Monopolio Italiano Tabacchi confezionava apposta per lei, e non rimproverava quindi a Liszt il vizio del fumo. In ciò era meglio di Marie d’Agoult. Per il resto era anche più erudita di Marie — e Liszt provava un gran, timore reverenziale per l’erudizione enciclopedica - ed era più possessiva e più sagace nello scoprire gli indizi delle bugiarderie, anche con l’ausilio di Adelheid von Schorn, sguinzagliata in tutt’Europa sulle orme lisztiane. Dopo il mancato matrimonio era diventata per Liszt una cara amica, a cui far spesso visita durante i soggiorni a Roma e a cui mandar resoconti non compromettenti durante le assenze. Soprattutto evitando di far sapere - ma la principessa sapeva - che a

10 Una nota nel diario di Cosima Wagner, del 2 dicembre 1882, dice: «Prima di pranzo Richard aveva suonato una piccola composizione di mio padre, tratta dall’Albero di Natale; siccome lo pregavo di dirmi che cosa ne pensasse, m’ha detto: sarebbe troppo crudele».

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Weimar c’era un’altra baronessa-principessa, la baronessa Olga Meyendorff nata principessa Gortschakov, splendida vedova trentenne a cui Liszt non era affatto indifferente e che non era a Liszt indifferente. Senza contare l’angelica Agnes Street-Klindworth, sempre in auge, e Carolina Ungher, ora sposata con il ricchissimo letterato Francois Sabatier, che s’era messa a studiare il pianoforte, e tutte le allieve che si disputavano uno sguardo del Maestro e si sorvegliavano vicendevolmente per cogliere i minimi indizi di un particolare favore. Olga Janina, allieva tra le molte, diede a Liszt un filo durissimo da torcere, tanto duro che rischiò di soffocarlo. Olga dice, di sé, di chiamar­ si Janina, di esser contessa, di esser bella, di esser cosacca. Si chiamava Olga Zielinska sposata con Karol Janina Piasecki, non era contessa, non era un gran che bella ed era polacca: quasi una riedizione, insomma, di Lola Montez. La Janina divenne allieva di Liszt a Roma nel 1869; seguì il maestro in Germania, restò con lui a Pest nel 1870 e più volte Liszt la fece suonare - con esito alterno — in concerti pubblici e privati. Si recò poi negli Stati Uniti con lettere di presentazione di Liszt ma, avendo capito che il suo maestro era ben lieto di essersela tolta di torno, gli telegrafò che sarebbe tornata a chiarire le cose. Si presentò il 25 novembre 1871, per chiarirle, munita di una pistola che puntò addosso all’Abate; dissuasa dal comportamento di Liszt, che non reagì, rinunciò all’idea dell’omicidio e optò per il suicidio, ingoiando un veleno. Soccorsa da un medico e facilmente salvata, venne fatta allontanare da Pest dopo pochi giorni. Apparve ancora come pianista in varie sale di concerto; nel 1887 viveva a Ginevra sotto il nome di “marchesa Cesarano”, dopodiché se ne per­ dono le tracce. Dopo la scena madre del 1871 Liszt non la rivide più. Se ci fosse stata sexual connection tra i due, come direbbe Walker, non possiamo affatto escluderlo, ma non possiamo affermarlo con certezza. Nelle lettere di Liszt a Carolyne Sayn-Wittgenstein troviamo più lo sbalordimento e il fastidio per i folli comportamenti della Janina che il rimorso e la vergo­ gna per averla illusa. Che Liszt si impegnasse nel “lancio” della carriera della Janina è indubbio; che questo fosse il prezzo della sexual connection è una congettura, del resto per nulla irragionevole. Di sesso si fa comun­ que spreco nei romanzi e libelli che la Janina pubblicò sotto vari pseudo­ nomi o anonimamente tra il 1874 e il 1878: non meno di tredici ne ha contati Emil Haraszti, sempre indaffarato a rivoltare il “peccato” dell’Abate stretto tra il voto di castità e la bramosia della carne, come un Klingsor da feuilleton. La bibliotechina di Olga Janina, alias Robert Franz, alias Sylvia Zorelli, è letterariamente miserevole e umanamente meschina. Molto diffi­ cile ricavare quel che di vero sia entrato nei suoi scritti; e del resto,

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passato il momento dello scandalo, non è di nessun interesse sapere se Liszt sedusse, se fu sedotto, o se fu abbindolato da un’arrivista senza neppure la soddisfazione di sedurre o di essere sedotto. Anche biografi seri credettero di poter estrarre soprattutto dal primo romanzo della Janina, Souvenirs dune Cosaque, un nucleo di verità storica. Operazione quanto mai diffìcile e che dà risultati quanto mai ipotetici e, in verità, smentiti in buona parte da documenti storici inoppugnabili. L’unica certezza che abbiamo è che Liszt, a sessant’anni suonati, riuscì a rendersi ridicolo per aver dato credito, almeno artisticamente, a una ragazza di trentaquattro anni più giovane, che lo ripagò con una valanga di maleodorante materia scandalistica. E meno male che Liszt non rico­ priva incarichi ufficiali: comunque, per un po’ di tempo si tenne alla larga da Roma e dalla principessa.

27. Dopo la delusione di Weimar, e dopo la delusione di Roma, dove neppure il papa gli concede di accedere all’amore benedetto e santo con la principessa, o dove, forse, la principessa ormai libera da vincoli legali rifiuta di dargli la mano di sposa, Liszt scopre di nuovo che il suo vero terreno non è quello moderno della dialettica, ma quello medievale dell’incantesimo. Nel 1863 due didatti di Stoccarda, Sigmund Lebert e Ludwig Starle, ricevevano da Liszt il contributo che gli avevano chiesto per la quarta parte del loro Metodo, destinato a diventare celeberrimo: i due studi da concerto Waldesrauschen e Gnomenreigen, la trascrizione per pianoforte della Fantasia e fuga in sol minore per organo di Bach, e una Ave Maria. Lasciamo da parte \Ave Maria, che non si distingue nel catalogo piani­ stico lisztiano. Ma la Fantasia e fuga in sol minore è uno dei più alti modelli di trascrizione dall’organo, e i due Studi da concerto innovano il genere in modo del tutto inatteso. Waldesrauschen, Mormorio del bosco, e Gnomenreigen, Ronda di gnomi. Liszt riacciuffa il mondo fatato che, nei primi anni del Roman­ ticismo, era stato la cifra poetica di Mendelssohn, del Mendelssohn del Sogno di una notte di mezza estate. Bisogna aver letto con attenzione le recensioni di Robert Schumann, per capire quel che aveva significato, per i giovani musicisti e per i giovani pianisti, l’elemento fantastico nella musica. Nel I860 le fate e i coboldi e le creature del bosco e della notte erano però ormai... usurati, perché tutti i medi e mediocri compositori li avevano sfruttati a dismisura. Il bosco, o meglio la selva, antico simbo­ lo poetico, non era ancora stato riconsacrato da Wagner, e con i suoi due Studi da concerto Liszt rischiava quasi di apparire un tardo epigono di Mendelssohn. Il miracolo di Liszt è di riprendere in mano un guscio ormai vuoto di contenuti e di dargli nuova vita e nuove potenzialità.

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I due Studi si differenziano sensibilmente dai brani dello stesso genere precedentemente pubblicati da Liszt: tecnicamente sono meno proble­ matici dei più. difficili tra gli Studi trascendentali e tra gli Studi da Paganini e sono espressivamente gradevoli, meno melodiosi dei Tre Studi da concerto. Il virtuosismo è magia del colore timbrico più che superamento di difficoltà meccaniche, e l’espressione è indiretta, quasi manieristica. All’origine di questa evoluzione poetica e stilistica di Liszt c’è probabil­ mente, come dicevamo poc’anzi, un ripensamento della poetica di Men­ delssohn nei suoi aspetti fiabeschi; ma altrettanto importante, sotto l’aspet­ to stilistico, è il riferimento al colore sonoro del tardo Chopin, specialmente dello Scherzo n. 4 e della Berceuse. Perciò parlavamo di espressione indiretta e quasi manieristica: Liszt, ritornando sul passato, su un passato recente, già lo trasforma in mito. Waldesrauschen è in re bemolle maggiore. L’organizzazione tonale, a livello di macrostruttura, è basata su una progressione per terze maggiori ascendenti: re bemolle maggiore, fa maggiore, la maggiore, re bemolle maggiore. Si tratta di una delle possibili suddivisioni in parti uguali dell’ottava, che era stata impiegata da Schubert nella Fantasia op. 15, e che Liszt aveva già ripreso nelle Reminiscenze della “Norma”. Qui la progressione per terze viene impiegata in una architettura di piccole dimensioni, e ciò rappresenta una novità assoluta. La forma è quella tipica dello studio classico (esposizione, sviluppo, riesposizione), ma le proporzioni sono singolari: ampia esposizione, breve sviluppo, sintetica riesposizione. L’equilibrio architettonico viene raggiunto con l’inseri­ mento di una vorticosa cadenza dopo la riesposizione, seguita da una placidissima coda. La forma dello studio viene quindi ripensata secondo lo schema del primo tempo di concerto. La miniaturizzazione della gran­ de forma apre l’orizzonte sulla poetica di Ravel, e la sonorità, fatte salve le ovvie differenze di linguaggio, prefigura Jeux d’eau, lavoro-chiave nella poetica del simbolismo. Gnomenreigen inizia in fa diesis minore e termina in fa diesis maggio­ re. La forma è bitematica e i due temi sono esposti, classicamente, in fa diesis minore il primo e in la maggiore il secondo. Non manca neppure la ripetizione dell’esposizione, che i classici indicavano con il segno di “ritornello”: ma Liszt fa una ripetizione variata, con il secondo tema in si bemolle maggiore. Lo sviluppo è basato sul solo primo tema, e la riesposizione inizia - è una variante dello schema classico che era stata inventata da Chopin - con il secondo tema in fa diesis maggiore e prosegue quindi con una coda basata sul primo tema. Si tratta di uno dei più originali ripensamenti della classica forma di primo tempo di sonata, in dimensioni miniaturizzate che sarebbero state impensabili nel Liszt di Weimar. Sia per questo motivo, sia per il colore della tonalità, sia per la prevalenza assoluta del registro medio e del registro acuto rispetto al

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grave, Gnomenreigen preannuncia taluni caratteri salienti della Sonatine di Ravel. Il virtuosismo, nei due Studi da concerto, si annulla, muore. Liszt ridiventa negromante e maestro di incantesimi. Un grande pezzo di incantesimo e di magia è la Leggenda di S. Francesco dAssisi, la Predica agli uccelli (1863). Un grande pezzo di simbolismo incantato rio è la Marcia funebre in morte di Massimiliano I imperatore del Messico (1867). “Sbagliato”, s’intende, è il personaggio: come si fa a celebrare il fratello dell’imperatore d’Austria, che accetta la corona imperiale di un paese d’oltremare e vi si regge, finché non viene abbandonato al suo destino tragico, con la forza delle armi francesi? Massimiliano è un personaggio imbarazzante, ed è tipico di Liszt lo scegliere una vittima che non desta simpatia se non nei circoli imperialisti. Ma la Marcia funebre è un gran­ dissimo pezzo di musica, che ci rivela ideologicamente l’ultimo Liszt. Non è improbabile che, dopo aver pensato a Massimiliano mentre scriveva il pezzo, Liszt pensasse a se stesso quando, sedici anni dopo, lo includeva nel terzo Anno di pellegrinaggio, Italia. Il titolo stesso della raccolta, al contrario delle due precedenti, ci sembra sia da intendere in senso simbolico, e che spirituale sia il pellegrinaggio e che l’Italia rappre­ senti, più che un luogo geografico, la sede della civiltà cattolica. La Marcia funebre trova dunque una sua perfetta collocazione nel simboli­ smo cristiano del terzo Anno di pellegrinaggio, legandosi sia al pezzo che, nella raccolta, la precede (Sunt lacrimae rerum), sia a quello che la segue {Sursum corda). Il sottotitolo di Sunt lacrimae rerum, en mode Hongrois (in modo ungherese), può a parer nostro giustificare la supposizione che i tre pezzi siano da vedere non solo come simbolo di ascesa a Dio attraverso il dolore e la morte, ma di sintesi della missione storica di Liszt: ungherese di nascita, fondatore (sconfitto) di una moderna Atene della musica nella città di Goethe, entrato a Roma nel sacerdozio, nel servizio divino. E in questo senso può anche essere intesa, ed essere riferita a Liszt più che a Massimiliano, l’epigrafe della Marcia funebre, «In magnis et voluisse sat est» (Nelle grandi imprese basta l’aver voluto). Il probabile transfert mette in evidenza, più che il rapporto della composizione con un tragico avvenimento storico, il senso del suo inse­ rimento, sedici anni più tardi, in una raccolta tra le più rivoluzionarie e tra le più enigmatiche di Liszt. Anche stilisticamente la Marcia funebre si inserisce in modo perfetto nella raccolta (mentre non vi si inserirebbero altre pagine scritte da Liszt intorno al 1867), perché rappresenta un rinnovato momento di liberazione della tradizione formale della cultura classica. Liszt aveva inteso fin dagli anni Trenta la musica come manife­ stazione immediata di sentimenti individuali, e i sentimenti come epifa­ nie di forze che trascendono l’individuo. La poetica simbolista che sca­ turiva da queste posizioni aveva però dovuto misurarsi con la tradizione

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formale classica, e Liszt aveva aderito all’ottimismo di maniera, ereditato sì dalla eroica determinazione di Beethoven, ma trasferito meccanicamente, e perciò diventato di maniera, in una situazione storica radical­ mente diversa. Nella Marcia funebre lo schema ideologico lamento-trasfigurazione, fondamentale nella poetica lisztiana, perde ogni carattere di forzatura e diventa conquista di chi rischia e accetta la sconfitta, la distruzione, l’annientamento. Gli strumenti linguistici della tradizione vengono impiegati secondo una logica che non è più la loro, e la forma non può essere esaminata in confronto con schemi preesistenti, ma solo descritta: Prima parte (14 battute), in due episodi: 1) tonalità non determinata, al limite del rumore, dinamica costante forte, registro estremo grave dello strumento; 2) “motto” o “fonema” di tre suoni alla mano destra, “mot­ to” diatonico (ma contorto e mascherato) alla sinistra, dinamica che diminuisce verso la fine, aggiunta di una ottava al precedente registro;

Seconda parte (33 battute), in due episodi: 1) tonalità di fa minore con cromatismi, “ostinato” alla sinistra, tema alla destra (entrambi derivati dai “motti” della prima parte), dinamica variabile, registro grave; 2) ripetizione del precedente episodio, una terza maggiore sopra (la minore); Terza parte (18 battute), in due episodi: 1) modalità antica (esacordo di Guido d’Arezzo, in do diesis), tema derivato dal tema precedente, dina­ mica piano e dolce, registro medio-acuto; 2) ripetizione dell’episodio precedente, con scissione del sesto suono dell’esacordo (la diesis) in due suoni (la e si);

Quarta parte (36 battute), in due episodi: 1) Recitativo molto declamato sul tema precedente, modo minore, forte, registro medio; 2) Tranquillo, grandioso, modalità dorica di fa diesis, dinamica molto variabile, sposta­ mento su più registri;

Quinta parte (24 battute): trionfante, tema della terza parte, in modo maggiore e in tonalità di fa diesis, dinamica fortissimo, impiego alternato e simultaneo di tutti i registri. E evidente che le proporzioni tra le parti rispondono ai princìpi della simmetria della tradizione dell’arte occidentale: parti più grandi e parti più piccole vengono alternate secondo moduli non di ripetizione geome­ trica, ma di progressivo ampliamento, la principale suddivisione simbolico-strutturale (inizio del tema-messaggio della terza parte) è tagliata secondo la sezione aurea. Un’analisi non sommaria metterebbe poi in evidenza le microstrutture, la cui articolazione è basata sui principi di ripetizione variata della tradizione musicale colta; le stesse trasformazioni

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delle cellule tematiche sono riferibili a princìpi strutturali elaborati in più secoli dalla musica europea. È però altrettanto evidente che Liszt non segue la formalizzazione della tradizione, e in particolare la formalizzazione della marcia funebre: marcia, trio eroico (Beethoven) o consolatorio (Chopin), ripetizione della marcia. In Liszt, che vive in un’epoca di disintegrazione della socie­ tà, è una voce arcana, antica, celeste, simboleggiata dall’arcaico esacordo di Guido, quella che dall’oscurità tormentosa estrae la parola rigeneratri­ ce che l’uomo, attraverso il tumulto emotivo della rivelazione {Recitati­ vo), fa sua {trionfale nel “moderno” modo maggiore). La forma della composizione e l’uso di strumenti linguistici della tradizione diventano così inseparabili dalla simbologia, e la simbologia ridona significato a un mito: con la terza parte degli Anni di pellegrinag­ gio (non solo con la Marcia funebre) Liszt riconquista il senso perenne del rapporto con il divino.

28. Con i Ritratti storici ungheresi (1885) Liszt riconquista il senso perenne della patria. Per mettere insieme la raccolta, che è di sette pezzi, Liszt aveva utilizzato anche pagine composte in precedenza, modificandole in alcuni particolari: così, il n. 6, dedicato a Mosonyi, era stato scritto nel 1870 e pubblicato nel ’71, il n. 7, dedicato a Petòfi, era stato scritto e pubblicato nel 1877. Sia per la natura estrinseca della collana, sia per il denominatore comune che sottilmente la percorre, questa tardissima opera di Liszt ricorda le chimeriche, allucinate Filles du feu che Gerard de Nerval pubblicò nel 1854, l’anno precedente la morte. Così come Gerard de Nerval ripercorreva attraverso alcune figure femminili, diverse nella somiglianza, il destino della donna, attraverso le figure di artisti e uomini politici ungheresi Liszt ripercor­ reva la sua mitologia della patria. Una patria di cui non conosceva bene la lingua, che aveva esaltato e che lo aveva esaltato finché ne era rimasto lontano e che, da quando vi ritornava periodicamente, lo isolava sempre più, collo­ candolo tra i sopravvissuti in attesa di deificarlo nel pantheon. Una patria che per decisione della figlia Cosima, imperiosa fino al punto di contravvenire alle disposizioni testamentarie del padre, non avrebbe accolto mai le sue ossa, discese nella terra di Bayreuth, la dimora di Wagner. Con il terzo degli Anni e con i Ritratti Liszt, disincantato e solitario incantatore, raggiunge una fede nei miti del destino individuale e del destino collettivo dell’uomo, individua­ listica e non legata ad istituzioni storiche, non più logorata dagli usi strumen­ tali e propagandistici a cui egli stesso, negli anni pur culturalmente così fecondi di Weimar, non era sfùggito. Il divino, o Dio, la patria. Liszt, a parer nostro, li vive come miti riconquistati, non come realtà. C’è un terzo mito, a popolare i sogni del vecchio abate Liszt: il demoniaco, o Mefistofele.

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Dal demoniaco borghese e ridanciano del Valzer infernale del “Roberto il Diavolo” di Meyerbeer (1841) al demoniaco lussurioso della Fantasia sul "Don Giovanni” (1841) al demoniaco bombastico del Valzer del “Faust”di Gounod(1861) al demoniaco dandistico della Danza macabra di Saint-Saèns (1876) c’è tutto un curiosare di Liszt nei diavoli altrui. Ma dopo averlo evocato nel terzo episodio della Sinfonia-Faust (185457), Liszt scopre in Mefistofele, «lo spirito che nega», il suo più fraterno amico diavolo, e lo fa protagonista di quattro Valzer di Mefistofele (1861, 1881, 1883, 1885) e di una Polka di Mefistofele (1883). È quasi un genere, Mefistofele, nel catalogo delle opere di Liszt, una presenza ineli­ minabile. Ancora pittoresco e sensuale nel primo Valzer, freddo ed ermafroditico maestro di paradossi linguistici nell’ultimo e nella Polka. Lo stile pianistico che Liszt elabora nella sua tarda creatività non è meno virtuosistico di quello precedente, sebbene sia di più agevole ese­ cuzione meccanica. Il processo di limitazione delle ombreggiature e di definizione delle linee, che caratterizzava il Liszt del 1850-60 rispetto al Liszt del 1830-50, si approfondisce e si radicalizza. E come se la struttura in ferro sostituisse la struttura in pietra, come se la reggia di Sardanapalo diventasse un interno della scuola di Glasgow. Linee sottili e scabre, sonorità liberata dalle sue antiche seduzioni. Il giardino di Armida ha un che di lunare, di raggelato e di raggelante, le armonie e le forme perdono il loro carattere organico e diventano mostruose. Di una mostruosità gentile, tuttavia, in un mondo in cui è ciò che è, fuori dal tempo, come nelle pitture del folle Richard Dadd. Atemporali, astorici sono il divino, il demoniaco, l’umano, figure di un’allegoria senza vita, sfilata di essenze: se ne è atterriti. Guardiamo la Fantasia sul “Simon Boccanegra” (1882), eseguita alla Scala nel 1881. Per l’occasione Liszt rispolverò un termine che non usava più da quarant’anni: reminiscenze. L’ideologia che presiede alla nascita di questa composizione è la stessa che aveva fatto nascere le grandi fantasie del periodo giovanile: una sintesi della drammaturgia dell’opera. Ma la poetica è manieristica e lo stile pianistico è scabro e privo di ornato. Non si tratta più di arte oratoria, ma di soliloquio, e la dimensione del pubblico viene cancellata o perlomeno allontanata fino a scomparire, con tutte le conseguenze che da ciò derivano: la ripetitività, la mancanza di concentrazione discorsiva, la mancanza di seduzione nella sonorità. Una musica per gli occhi e per l’immaginazione, che pochi pianisti hanno affrontato e affrontano. Sonorizzata, se il gioco riesce, è grande musica. Ma è quanto di più difficile Liszt abbia scritto, proprio perché l’ordine della difficoltà non è pianistico: come nell’ultimo Beethoven, come nell’ultimo Chopin. Nel giardino dei mostri entra la fantasia drammatica. Nel giardino dei mostri entra l’essenza del virtuosismo, un’opera che solo nel 1975 è stata

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scoperta negli Archivi Goethe-Schiller di Weimar e che solo nel 1983 è uscita nella prima edizione a stampa: i 12 Grosse Etuden (Dodici Grandi Studi). Scritti certamente negli anni Settanta, i dodici Studi concludevano gli esercizi tecnici che Liszt aveva intenzione di pubblicare nel 1879 e che uscirono invece pochi mesi dopo la sua morte. Per una rocambolesca vicenda in cui sembra fosse coinvolta Olga Janina, i dodici Studi scom­ parvero e della loro esistenza si ebbero solo notizie talmente indirette e vaghe da suggerire a parecchi studiosi l’ipotesi che non fossero in realtà mai stati scritti. Il fortunoso ritrovamento ha deluso chi si aspettava una specie di nuova serie di studi trascendentali, ma non chi era abituato a non lasciarsi mai stupire abbastanza da Liszt, imprevedibile negromante. Si tratta infatti di pezzi di musica organizzati nel modo tipico degli esercizi tecnici più aridi, di un campionario di formule e di una compi­ lazione di colori timbrici attraverso il binomio formula-tonalità. Eppu­ re. .. «Un’attenta analisi porta [...] a qualche interessante risultato. Tale ad esempio la “musicalità” della raccolta e le soluzioni formali di questi studi puramente meccanici», come dice Imre Mezò, che ne ha curato la pubblicazione. Chi apre il volume resta un po’ incredulo e - molto - spaventato. Basta leggere l’inizio del settimo Studio, con accordi sulla posizione di decima, in movimento diatonico, che sfiancano le mani che non arriva­ no a prendere la dodicesima. Dopo nove pagine a stampa in cui si procede cromaticamente, come nel Clavicembalo ben temperato di Bach, sopravvengono due pagine di totale follia, con una conclusione in accor­ di sulla estensione della decimaquinta, cioè della doppia ottava. Anche le mani che afferrano la dodicesima, le mani di Rachmaninov e di Lhevinne e di Prokof ev e di Richter, ne escono sfiancate! Lo scimmione Milo, creatura subumana e sovrumana, ricompare nel Liszt settantenne, così com’era comparso nel Liszt ventenne. «Si può scrivere o ascoltare una cosa così?», annota Liszt sul manoscritto della Csàrdàs macabre (1882). Si possono suonare i Dodici Grandi Studi ? ci chiediamo noi con sgomento e, se siamo pianisti che desiderano attinge­ re alla incommensurabile sapienza del più grande di tutti i pianisti, con paura. Il sadismo del vecchio mitissimo Abate non ha limiti: egli tocca i confini delle cose che forse non si possono scrivere perché non si devono dire, che forse non si possono ascoltare perché fanno perdere la coscienza di sé, che forse non si possono eseguire perché trascendono le capacità dei comuni mortali. Liszt è terrificante oggi come lo era quando carpì a Paganini il suo segreto. E, come allora, è affascinante per chiunque non soggiaccia interamente alla voce della ragione.

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29. Liszt, e nessuno lo mette in dubbio, è l’inventore del poema sinfo­ nico. Un inventore, un padre, però, che mette al mondo un figlio e che poi lo lascia andare per la sua strada. Nel 1861 viene completata la pubblicazione dei dodici poemi sinfonici di Liszt; nei successivi vent’an­ ni, mentre al poema sinfonico si dedicano Franck, Saint-Saèns, Balaki­ rev, Smetana, l’inventore scrive i Due Episodi dal “Faust”di Lenau, le Tre Odi funebri e poche altre pagine per orchestra, sempre più o meno “a programma”, ma che scansano il sottotitolo glorioso. Si badi, il primo Episodio dal “Faust” di Lenaue La processione notturna. Quasi quarantanni più tardi, nel 1899, il compositore francese Henri-Benjamin Rabaud scriverà La processione notturna, dal Faust di Lenau, e la sottotitolerà poema sinfonico. Evidentemente, Liszt non intende ritornare sul poema sinfonico, o forse non vuole superare il numero dodici. L’incantesimo si rompe nel 1881, con Von der Wiege bis zum Grabe (Dalla culla alla tomba) da un dipinto di Mihàly Zichy, terminato nel 1882 ed etichettato come poema sinfonico. Con nostra grande sorpresa non troviamo in Von der Wiege bis zum Grabe un movimento continua­ to, magari articolato in più parti come in tutti i precedenti poemi sinfo­ nici, ma un lavoro in tre tempi separati, che complessivamente durano sui quindici minuti: I) La culla-, II) LI combattimento per la vita-, III) Verso la tomba: culla della vita futura. Il quadro dello Zichy, che in realtà è un disegno a penna, rientra nella poetica di Bòcklin, con la differenza che Bòcklin era un sommo pittore e Zichy non lo era. La musica di Liszt è di una dolcezza ammaliante, anche nel breve Combattimento-, un pezzo di una intensa religiosità, un invito alla buona morte. Ma è un poema sinfonico? Così Liszt lo definì, e lui è l’inventore del poema sinfonico. Tuttavia, a noi sembra che il concetto di poema si sia trasformato nel concetto di suite allegorica. Si tratta in ogni caso di un capolavoro che ha pochi eguali nella produzione di Liszt, e ciò rende oziosa la discussione sul genere. È però certamente singolare che Liszt si servisse di un sotto­ titolo in modo del tutto diverso da come lo aveva impiegato in passato. In verità, se Liszt torna sul poema sinfonico, sulla rapsodia ungherese, sulla fantasia drammatica, sullo studio, sul valzer, per imbalsamarli, vi torna come un asceta che abbandona per qualche istante il suo ininter­ rotto colloquio con Dio. Negli anni che precedevano Weimar Liszt aveva collocato al centro dei suoi interessi il pianoforte, a Weimar era venuta in primo piano l’orchestra; durante la vie trifurquée il cuore di Liszt pulsa per la musica religiosa. Distinguiamo però, nella musica religiosa, la musica sacra e la musica devozionale. Musica sacra era il Salmo XLLL, musica sacra era la Messa di Gran-, musica sacra è l’oratorio Christus, musica sacra è la Messa dell’in­ coronazione. E la musica sacra confina con il teatro, esprime il sentimen­ to religioso come rappresentazione a cui il fedele assiste da spettatore.

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Dopo il 1867, dopo la Messa dell’incoronazione, la religiosità di Liszt si indirizza invece verso la musica devozionale, seguendo la strada che era stata imboccata con il Salmo CXXXVII e, nella musica per pianoforte, con la Leggenda di S. Francesco d’Assisi Leggiamo la Sankt Christoph Legende, la Leggenda di S. Cristoforo, composta forse verso il 1874, forse dieci anni più tardi. Un pezzo di una decina di minuti, per baritono, coro femminile, pianoforte, harmonium, arpa ad libitum, eseguita per la prima volta a Budapest nel 1967 (!). Il testo, di autore sconosciuto, è di soli ventisette versi, e racconta con epica semplicità, in modo di ballata, la leggenda di S. Cristoforo, l’“uomo forte” che serve i forti, prima il Re, poi il Diavolo, e che infine porta sulle sue spalle la gente che vuole traversare il fiume. Viene un fanciullino che chiede di essere portato, e Cristoforo lo traghetta. Come pesa quel fan­ ciullino, come pesa sempre più: «Ma gli angeli dicono: il fanciullino è Gesù». Venticinque versi sono cantati dal baritono accompagnato dal piano­ forte, a modo di declamato su un breve nucleo motivico trattato con tecnica raffinatissima (con il pianoforte, non con le parole, il creatore del poema sinfonico esprime però la stanchezza mortale di Cristoforo, che non riesce a reggere il peso enorme del fanciullino). Negli ultimi due versi - «Aber die Engel singen: / Das Kindelein ist Jesus!» — intervengono il coro femminile, l’harmonium e l’arpa. Cristoforo, estatico, ripete le parole degli angeli, e la musica sviluppa un semplice canone che, per una volta, non ha nulla di dotto ma semplicemente è lo specchio realistico della situazione. Il tono è quello di una leggenda medievale, alla Walter Pater, la musica, semplicissima, esercita sull’animo dell’ascoltatore una presa emotiva che lo fa ridiventare bambino. Ma questa non è musica sacra nel senso tradizionale e nel senso del Liszt di Weimar: non si presta né per l’esecuzione concertistica, né per l’esecuzione di una cappella musicale. È invece musica devozionale, che si rivolge a un utopico piccolo gruppo di fedeli, capaci di organizzare fra di loro l’esecuzione e di goderne. Se poi il piccolo cenacolo di fedeli sia in grado di eseguire la Leggenda è dubbio, perché il Liszt maestro di semplicità non rinuncia a sperimentare, a sperimentare sul linguaggio. Perciò abbiamo parlato di gruppo utopistico. Però l’indirizzo ideologico è chiaro. Ed è chiaro nello stupefacente mottetto Ossa arida, composto nel 1879, per coro maschile all’unisono e organo a quattro mani o pianofor­ te a quattro mani. E una, diciamo così, colonna di intervalli di terza, semplice di una semplicità barbarica, che inizia a un livello bassissimo di dinamica, raggiunge un livello parossistico in due minuti, e fa vacillare il senso tonale. Liszt così commenta il pezzo, in calce all’ultima pagina: «I professori e gli allievi dei conservatori devono profondamente biasi­

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mare, nelle prime venti battute, le dissonanze inusuali e le sovrapposizio­ ni consecutive di terze. Ciò malgrado, Liszt scripsit (Villa d’Este, 18-21 ottobre 1879)». Siamo giusti: papa Pio IX avrebbe potuto, papa Leone XIII poteva mettere il sigillo di nuovo Palestrina su uno così?

30. Liszt, in verità, era partito pieno di buoni propositi, prima ancora di recarsi a Roma. Il 24 luglio 1860 egli scriveva infatti alla principessa: «Se Sua Santità desse più avanti qualche seguito alFidea di stabilire per così dire il “canone” del canto chiesastico sulla base esclusiva del canto gre­ goriano, questa è un’opera a cui mi dedicherei corpo e anima e che, con la grazia di Dio, spererei di esser capace di condurre a termine». Liszt chiedeva alla principessa di procurargli la proposta di riforma della musica sacra presentata da Spontini a papa Gregorio XVI nel 1839, diceva di volersi servire dei lavori di Cari Proske (quattro volumi di Musica divina, raccolta di composizioni del XVI e XVII see.) e di Johann Georg Mettenleiter, di voler fare ricerche a Bruxelles, Parigi e Roma, e insomma di avere in animo di presentare entro un anno un suo progetto: «Tutti gli strumenti d’orchestra sarebbero scartati, e io manterrei soltanto un ac­ compagnamento d’organo ad libitum, per sostenere e rinforzare le voci. È il solo strumento che abbia il diritto di rimanere nella musica chiesa­ stica; miscelando i suoi diversi registri si potrà anche aggiungere un po’ più di colore. Tuttavia lo userei con estrema parsimonia. Come ho già detto, scriverei la parte dell’organo solo ad libitum, in modo che possa essere del tutto omessa senza alcun inconveniente». In quel momento Liszt stava lavorando all’oratorio La leggenda di Santa Elisabetta, che aveva iniziato nel 1857 e che avrebbe terminato nel 1862. Era ancora musica religioso-teatrale, ispirata a sei affreschi dipinti da Moritz von Schwind nel 1854-55. Però Liszt vi utilizzava già il gre­ goriano e temi popolari del XVII e XVIII see. Di gregoriano è nutrito il secondo oratorio, Christus, iniziato nel 1862 e terminato nel 186611: di gregoriano, e di cori a cappella sostenuti dall’organo. Il gregoriano e lo stile dell’antica musica a cappella costituiscono l’innervatura della Messa delfineoronazione, il cui Credo è una parafrasi del Credo di una delle Messes royalest Henry Du Mont (1610-84). Però lo stile degli oratori e della Messa è composito: basta l’inizio del Christus, una fuga strumentale

11 La prima esecuzione della prima parte del Christus ebbe luogo a Vienna il 31 dicembre 1871; dirigeva Anton Rubinstein, allargano sedeva Anton Bruckner. La prima esecuzione completa ebbe luogo a Weimar il 29 maggio 1873, sotto la direzione di Liszt.

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sulla melodia gregoriana Rorate caeli desuper, per capire che la poetica esposta nella lettera del 24 luglio 1860 non informa di sé queste compo­ sizioni, sebbene vi compaia qua e là (ad esempio, nel n. 3 del Christus, «Stabat mater speciosa», per coro a cappella, a cui venne aggiunto Porga­ no dopo l’esecuzione viennese del 1871). La Missa choralis per coro e organo (1865), il Requiem per soli, coro maschile, organo e ottoni (1867), e la seconda versione della Messa per coro maschile e organo del 1848, detta Szekszdrd Mass (1869), si adegua­ no - anche se non del tutto, perché l’organo non è ad libitum e l’armo­ nia, ad esempio nel Dies Irae del Requiem, tocca punte di sperimentazio­ ne audacissime - al progetto di Liszt. Il quale, si capisce, non aveva alcun obbligo di tener fede a un proponimento esposto in un momento in cui le sue idee sulla musica sacra erano ancora in fase di elaborazione. Ma a noi interessava qui mettere in luce il fatto che negli anni Sessanta si intersecano, nell’opera di Liszt, una concezione religioso-teatrale della musica sacra e una concezione che rientra pienamente negli orizzonti del movimento ceciliano di Franz Witt e Franz Xaver Haberl, ambedue molto stimati da Liszt. Liszt supera dunque il concetto di musica sacra come musica religiosa da concerto, si impegna sul concetto ceciliano di musica sacra come musica liturgica, ma alla fine, negli anni Settanta, imbocca una sua strada, una strada che lo conduce alla musica devozionale per piccoli gruppi di fedeli. Era il sogno che aveva già esposto nel 1834, in uno scritto sul futuro della musica sacra, che anche i fedeli fossero esecutori, loro, della musica. Allora pensava però a masse enormi, pensava a canti religiosi e a canti patriottici per una grande comunità. Nell’ultima fase della sua creatività scompare invece il concetto di popolo, di popolo orante, e la musica devozionale soddisfa un bisogno privato di attingere al divino; un divino intangibile nella sua maestà: «Immaginare che Dio abbia bisogno delle nostre frasi in letteratura, musica o altro, mi sembra stupido e blasfemo» (lettera alla principessa Sayn-Wittgenstein, 28 di­ cembre 1875). Tra le opere in cui la religiosità ultima di Liszt si manifesta nel modo più alto è la Via Crucis, La Via Crucis, 14 Stazioni della Croce per coro e soli, con accompagnamento di organo (o pianoforte), progettata nel 1873, schizzata nel 1876 e nel 1877, composta in gran parte a Roma nel 1878 e ultimata a Budapest nel 1879; i testi erano stati scelti dal Nuovo Testamento, da inni e da corali, per cura della principessa. L’opera fu ispirata a Liszt da una serie di disegni del pittore nazareno Franz Overbeck. Nella Via Crucis la struttura della grande cantata per soli, coro e orchestra viene ridotta a dimensione cameristica: un piccolo coro da cui si staccano in alcuni momenti i solisti (due soprani, un contralto, un

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tenore, un baritono, un basso), ed una parte strumentale affidata all’or­ gano o, in alternativa, al pianoforte (detto per inciso, sarebbe molto interessante studiare le diversità di scrittura e di tessitura che esistono tra la parte organistica e la parte pianistica). Le dimensioni formali sono molto ridotte e l’elaborazione contrappuntistica, tipica della musica re­ ligiosa colta, è qui pressoché assente. Sia per le sue dimensioni, sia per la sua povertà stilistica, sia per l’impiego di limitati mezzi esecutivi, l’opera rientra quindi negli indirizzi del movimento ceciliano ed è teoricamente eseguibile da una piccola cantoria di dilettanti in una chiesa di villaggio. La semplicità primitivistica, “francescana”, è però ottenuta attraverso un linguaggio che nella sovrapposizione e nella successione dei suoni non conosce regole o, meglio, che le regole se le crea nel suo farsi. Piccole strutture motiviche - il tema iniziale di tre suoni, che simboleggia la croce, e altre — ritornano più volte nell’opera e le danno coerenza logica. La coerenza linguistica nasce però da contrasti violentissimi o, per quan­ to paradossale ciò possa sembrare, dalla incompatibilità dei mezzi di cui Liszt si serve. I punti di massima divaricazione lessicale si trovano tra il tema del brano introduttivo, Vexilla regisprodeunt (che viene ripreso nella Stazio­ ne XIV), ricalcato sul gregoriano, e il tema della Stazione TV (che viene ripreso nella Stazione XIII ), atonale. Tra questi due poli estremi si collocano le zone del modalismo, del corale bachiano, della tonalità classica, del cromatismo romantico, della scala esatonale, di inedite for­ mazioni e concatenamenti accordali. Liszt, in realtà, usa la successione dei suoni senza inserirla funzionalmente in schemi canonici di organiz­ zazione dello spazio delle altezze, e pensa le sovrapposizioni, fondamen­ talmente, come colori timbrici. Il colore, più ancora del suono significante e più della parola cantata, è il dato che caratterizza in modo rivoluzionario non solo la Via Crucis, ma tutta la produzione sacra del tardo Liszt. Così, alcune stazioni pos­ sono essere puramente strumentali, alcune puramente vocali, e il classico insieme di voci e strumenti compare più come eccezione che come norma. Una breve descrizione spiegherà meglio le singolari caratteristiche di quest’opera. Il brano introduttivo è diviso in due sezioni: una parte, Vexilla regis prodeunt, per organo (o pianoforte, s’intende) e coro misto all’unisono; una parte, O Crux, ave, per quattro soli e coro a cappella. La Stazione I, Gesù è condannato a morte, è per organo; al termine una voce di baritono canta le parole di Pilato «Innocens ego sum a sanguine justi huius». Ancora per organo è la Stazione II, Gesù prende la croce, con, a metà, una voce di baritono che canta le parole «Ave, Crux». La Stazione III, Gesù cade per la prima volta, è in due parti: prima parte per organo con breve intervento di tenori e bassi, seconda parte, Stabat mater, per

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due soprani e contralto, solisti, senza accompagnamento. Interamente organistiche sono la Stazione IV, Gesù incontra la sua santissima madre, e la Stazione V, Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce. E così via. Un continuo trascolorare tra le zone timbriche dell’organo (pianofor­ te), delle voci soliste sole, del coro solo, dell’unione di tutti i mezzi sonori. Persino la parola acquista un valore più timbrico che semantico, tanto che i testi dei due corali della Stazione P7e della Stazione XIIsono in tedesco. Qui Liszt cita Bach, così come all’inizio aveva citato il grego­ riano. E alla fine, nell’ultima sezione, riprendendo ancora, dopo VAmen, VAve Crux, Liszt cita se stesso, il se stesso del periodo di Weimar e delle pagine consolatorie del tipo Bénédiction de Dieu dans la solitude o Pensée des morts. Un se stesso disincarnato e trasfigurato, s’intende, un se stesso che non trionfa più sul male ma che nell’accettazione della croce trova l’appagamento supremo della vita. Una morte senza trasfigurazione, un’espia­ zione senza compenso. L’identificazione personale di Liszt nell’eponimo del suo grande oratorio Christus sembra evidente; ed evidente sembra la sua identificazione, nella Via Crucis, con colui che prende la croce. Solo che il Christus è in tre parti: Oratorium Nativitatis Domini, Post Epiphaniam, Passio et Resurrectio. La Via Crucis si chiude con la sepol­ tura. Dal quadretto devozionale, che è l’aspetto apparente della Via Crucis, passiamo così a un simbolo della vita morale e dell’eroismo quale può ancora esistere nell’epoca del decadentismo. Liszt, isolato e vecchio e sopravvissuto al suo tempo, non compiange il Cristo e non compiange se stesso, ma solo fa ripetere a un coro angelico 1’t4^, Crux in cui si placa la sua lunga ansia di cercatore della verità. A chi si indirizzava, Liszt, con la Via Crucis ? Solo a se stesso, credia­ mo. L’editore Pustet di Ratisbona, l’editore del movimento ceciliano, a cui la Via Crucis venne proposta da Liszt nel 1884 insieme con Septem Sacramenta e Rosario, rifiutò l’intero pacchetto. La prima edizione della Via Crucis uscì solo nel 1936, nell’ambito dell’opera omnia ; la prima esecuzione ebbe luogo a Budapest nel 1929, e la prima esecuzione a Londra, sede della Liszt Society, arrivò nel 1952. È evidente che Liszt, Grande Comunicatore avanti lettera, non scriveva la sua musica devo­ zionale che per sé. E per Dio, anche se Dio non ne aveva bisogno.

31. Con l’ultimo Liszt l’ideologia borghese potrebbe ritrovare le sue motivazioni eroiche, divenute rarefatte ed essenziali. Ma Liszt è un soli­ tario vecchio ecclesiastico a cui si guarda come a un mago rimbambito che si balocca con i resti del suo antico sapere e della sua antica potenza. Vaga Liszt in Europa, da una tappa all’altra della vita triforcuta. A Roma lo sorveglia la principessa Sayn-Wittgenstein, a Weimar lo guarda a vista

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Liszt o il giardino d’Armida

la baronessa Meyendorff, a Budapest lo accompagna spesso - ma senza scandalo - una ragazza piccolina e piuttosto belloccia, sua allieva di pianoforte: Lina Schmalhausen. Nel 1886 Liszt avrebbe compiuto settantacinque anni e i suoi fedeli avevano preparato dei festeggiamenti in grande. A Roma, in gennaio, si tenne un concerto di musiche sue. Il 21 Liszt salutò la principessa, partì, e in sessanta ore, dormendo a Venezia e a Gorizia, arrivò a Budapest. In marzo andò ad Anversa, proseguì per Parigi dove, il 25, si eseguiva nella chiesa di Sant’Eustachio la sua Messa di Gran, ripartì per Londra dove arrivò il 3 aprile. Mancava dall’Inghilterra dal 1841, quando gli inglesi lo avevano guardato storto; nel 1886 seppero riparare la scortesia con concerti, con ricevimenti a corte e in case aristocratiche, nonché con l’inevitabile grande banchetto. Liszt suonò più volte il pianoforte, ben sapendo che non avrebbe offuscato la sua fama leggendaria. Dopo il banchetto finale andò al pianoforte e fece ascoltare la sua Marcia dei Crociati (dall’oratorio La Leggenda di Santa Elisabetta}, gli Studi di Chopin op. 25 n. 1 e 2, un Notturno di Chopin, e uno dei suoi più difficili pezzi, la Tarantella di bravura dalla “Muta di Portici”. Era molto invecchiato, Liszt, e anche ingrassato. La sottana abatesca non gli donava più tanto, la zazzera non era più tanto curata, una cata­ ratta gli intorbidava la vista, dell’eroe romantico non c’era più gran traccia. Ma ancora c’era nella sua figura, nella sua figura mefistofelica che vediamo per l’ultima volta in una fotografìa scattata poco dopo nel castello di Kolpach, quanto bastava perché Edward Burne Jones ritraesse in un suo quadro il vecchio prete come Mago Merlino. Tornato ad Anversa, Liszt vi passò la Settimana Santa. Arrivò il 5 maggio a Parigi per ascoltare la Leggenda di Santa Elisabetta, che fu un grandissimo successo, e per farsi ritrarre dal pittore ungherese Mihàly Munkàcsy. Instancabile, o sordo alla fatica che accumulava, partì il 15 maggio per Weimar, dal 3 al 6 giugno fu a Sondershausen per un festival, poi andò a Halle, ritornò a Weimar (era l’ultimo ciclo di lezioni, dal 15 al 26 giugno: il pezzo con cui concluse il suo insegnamento, ascoltandolo dall’allievo August Gòllerich, fu la sua parafrasi dal Romeo et Juliette di Gounod, intitolata LesAdieux, Gli addii). All’inizio di luglio era a Bayreuth per le nozze della nipotina Daniela, figlia di Cosima e di Hans von Billow. Di qui, accettando l’invito di Munkàscy, che possedeva un ca­ stello nel Lussemburgo, si recò a Kolpach. E li, il 19 luglio, ascoltato un concerto della Società Musicale del Lussemburgo, si lasciò per l’ultima volta persuadere a suonare per il pubblico: eseguì lo Studio op. 25 n. 2 di Chopin. Anzi: pare che eseguisse una volta lo Studio così com’è, e una seconda volta in ottave.

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Parte quarta: Liszt dopo Liszt

Il 20 partiva per Bayreuth, dove stava per avere inizio il festival wa­ gneriano. Salì in treno — scompartimento di seconda classe - e restò solo fino a che, in una piccola stazione, non vide salire il Commendatore. Veniva sotto l’aspetto di una giovane coppietta appena sposata, che abbassò il finestrino e rimase a farsi sferzare la faccia dal vento e a scambiarsi tenerezze. Liszt non chiese di rialzare il vetro. Quando arrivò a Bayreuth, il 21, aveva un gran raffreddore con febbre e tuttavia assistet­ te alle rappresentazioni del Parsifal e, fin quasi alla fine, del Tristano. Il 26 la febbre s’era alzata, poco più tardi si manifestò la polmonite. Il 31 luglio ricevette i sacramenti e morì a mezzanotte, dopo aver pronunciato la parola Tristan. Fu sepolto a Bayreuth, sebbene avesse disposto di essere tumulato a Budapest. La principessa Sayn-Wittgenstein protestò, ma Cosima, come abbiamo visto, non intese ragioni. Sette mesi più tardi Carolyne licenziava il ventiquattresimo e ultimo tomo del suo opus magnum e due settimane dopo si spegneva nel sonno; il servizio funebre si svolse in Santa Maria del Popolo, con le note del Requiem di Liszt diretto da Giovanni Sgambati. Così, erano ormai scom­ parsi tutti i protagonisti di quella lunga saga tragica che era stata la vita di Liszt. Salvo Cosima, che fino al 1930 avrebbe vegliato sull’immorta­ lità di Wagner, mentre solo pochi originali osavano far entrare Liszt nel recinto dei grandi creatori. Per il vecchio Liszt non era però questa, la conclusione più importante di una vita. Come aveva scritto in cima all’epicedio di Massimiliano imperatore, «In magnis et voluisse sat est».

Ili

Nota bibliografica

N.B.: questa Nota bibliografica comprende soltanto i testi citati nel corso dei volume. Barbiera Raffaello, Nella gloria e neirombra. Immagini e memorie dell’ottocento, Milano, A. Mondadori 1926. Busoni Ferruccio, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, trad. it. Laura e Luigi Dallapiccola e Fedele D’Amico, Milano, Il Saggiatore 1977. Dalmonte Rossana, Franz Liszt. La vita, l'opera, i testi musicati, Milano, Feltrinelli 1983. D’Ortigue Joseph-Louis, Franz Listz (sic), «Revue et Gazette Musicale de Paris», 14 giugno 1835. Gut Serge, Franz Liszt, Artigues-pré-Bordeaux, Editions de Fallois / L’age d’Homme 1989. Horowitz Joseph, Conversations with Arrau, New York, Alfred A. Knopf 1982 (trad, it. E. Napoli, Milano, A. Mondadori 1984). LegAny Dezsò, Franz Liszt: Unbekannte Presse und Briefe aus Wien 1822-1886, WienGraz, Hermann Bòlhaus 1984. Liszt Franz, Franz Liszt’sBriefe, a cura di La Mara, 8 voli., Leipzig, Breitkopf & Hàrtel 1893-1907. — Briefwechsel zwischen Wagner und Liszt, a cura di E. Kloss, Leipzig, Breitkopf & Hàrtel 1910. — Correspondance de Liszt et de la comtesse d’Agoult, a cura di D. Ollivier, Paris, Bernard Grasset 1933-34. — Correspondance de Liszt et de sa fitte Madame Émile Ollivier, 1842-1862 a cura di D. Ollivier, Paris, Bernard Grasset 1936. — Correspondance: Lettres choisis, a cura di P.A. Hueé e C. Knepper, Paris, JeanClaude Lattès 1987. — Gesammelte Schrifien, a cura di L. Ramann, 6 voli., Leipzig, Breitkopf & Hàrtel 1880-83. — Confessioni di un musicista romantico, a cura di L. Cortese, trad. it. L. Cortese, Milano, Alessandro Minuziano Editore 1945.

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Liszt o il giardino d Armida — Robert e Clara Schumann, trad. it. L. Brunelli, Firenze, Passigli Editore 1993. — “Un continuo progresso Scritti sulla musica, a cura di G. Kroo, trad. it. A. Giorgetti, D. Zazzi, G. Tagliatatela, Milano, Unicopli-Ricordi 1987. Merrick Paul, Revolution and Religion in the Music ofLiszt, Cambridge-New YorkPort Chester-Melbourne-Sydney, Cambridge University Press 1987. Rostand Claude, Brahms, Paris, Librairie Arthème Fayard 1958 (trad. it. Paolo Donati, Milano, Rusconi 1986). Schumann Robert, Gesammelte Schriften uber Musik und Musiker, a cura di M. Kreisig, Leipzig, C.F. Kahnt 1914 (trad. it. G. Taglietti, Milano, Unicopli-Ricordi 1991). Sitwell Sacheverell, Liszt, ed. riv., New York, Dover Books 1967. Stern Daniel, [M. d’Agoult], Nélida, Bruxelles-Leipzig, Meline, Cans et Cie 1846. — Mémoires (1833-1854), Paris, Caiman Levy 19275. Wagner Richard, Ein Brief von Richard Wagner uber Franz Liszt's Symphonischen Dichtungen, Leipzig, C.F. Kahnt 1857. Walker Alan, Franz Liszt, New York-London, Macmillan, I vol. 1983, II vol. 1989, III vol. in preparazione. — Liszt, Carolyne and the Vatican. The story of a thwarted parriage, Stuyvesant, Pendragon Press 1991.

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Indice dei nomi

ADAM Louis, 6 AGOULT Charles, conte di, 25 AGOULT Marie, contessa di, 11, 14, 23-5, 33, 38-41,44-8, 61,68, 86, 93, 95 ALKAN Charles-Valentin, 5, 88 ARRAU Claudio, 75 ARTIGAUX, madame d’, v. Caroline de SAINT-CRICQ AUBER Daniel-Fran^ois-Esprit, 10, 36, 60 AUTRAN Joseph, 49 BACH Johann Sebastian, 31, 39, 49, 51, 56, 87, 89, 97, 103, 109 BALAKIREV Milij Alekseeviè, 104 BALZAC Honoré de, 13, 39 BARBIERA Raffaello, 26 BARRAULT Émile, 19 BARRÉ, mademoiselle du, 13 BARTÓK Béla, 74 BARTOLINI Lorenzo, 27, 42 BATTHYANY Lajos, 47 BAUDELAIRE Charles, 64 BEETHOVEN Ludwig van, 2-5, 9, 12-3, 20, 24, 26, 28-32, 34, 36-9, 42-4, 49, 51, 53, 56-60, 63, 66-9, 71, 74, 76-7, 89, 100-2 BELGIOJOSO TRTVULZIO Cristina di, 245, 27, 39, 48 BELLISSEN, marchesa, 13 BERLIOZ Louis-Hector, 13-4, 18-9, 21, 32, 34, 39,42,47, 60, 64,69-71,74,78-79, 86,90 BERRY, duca e duchessa di, 24 BIHARI J anos, 10 BLAZE de BURY Henri, 19 BÓCKLIN Arnold, 104 BOREL Pétrus, 16,18 BOSCARY, madame, 13

BRAHMS Johannes, 61, 65, 74, 84-5 BRAUN von, barone, 3 BREIDENSTEIN H.K., 43 BRONSART von SCHELLENDORF Hans, 61 BRONSART von SCHELLENDORF Inge, 61

BRUCKNER Joseph Anton, 106 BRUGNOLI Amalia, 18 BULOW Cosima von, v. Cosima LISZT BtJLOW Daniela von, 110 BtJLOW Hans von, 61, 63-4, 93, 110 BULWER-LYTTON Henry, 35 BURNE-JONES Edward Coley, 110 BUSONI Ferruccio, 52, 86, 88, 93 BYRON George Gordon, 15,49,78,81

CARLO X BORBONE, re di Francia, 11,13, 24 CARLO XII, re di Svezia, 81 CAVAILLÉ COLL Aristide, 85 CELLINI Benvenuto, 25 CESSIAT Valentine de, 44 CHANTAVOINE Jean-Fran^ois-Henry, 46 CHELARD Adèle, 11, 13, 36 CHERUBINI Luigi, 2, 5, 60 CHOPIN Fryderyk Franciszek, 5, 10, 12-4, 19, 30, 34, 36-7, 39, 51, 60, 74-6, 81, 98, 101-2, 110 CLEMENTI Muzio, 2-3,5, 7, 9 CORNELIUS Peter, 60-2, 81 CRAMER Johann Baptist, 9 CURCI Giuseppe, 37 CZERNY Carl, 2-4, 9 DA PONTE Lorenzo, 52 DADD Richard, 102

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Liszt o il giardino dArmida GREGORIO XVI, Bartolomeo Alberto Cappellari, papa, 20, 106 GRIEG Edvard Hagerup, 74 GRIMM Julius Otto, 85 GUIDO d’AREZZO, 100-1 GUT Serge, 70-1,84,89

DANTE ALIGHIERI, 73,79-80 DARTIGAUX Bertrand, 44 DEBUSSY Achille-Claude, 30,74 DELACROIX Eugène, 13,71 DESSAUER Joseph, 34 DIABELLI Anton, 3, 7 DIDIER Charles, 40 DINGELSTEDT Franz von, 62 DÓHLER Theodor von, 50, 62 DONIZETTI Gaetano, 9, 36, 60 DONIZETTI Giuseppe, 49, 51 DORN Heinrich, 60 DREYSCHOCK Alexander, 50 DUMONT Henry, 106 DUMAS Alexandre, figlio, 45 DUPLESSIS Marie, 45-6

HABERL Franz Xaver, 107 HAENDEL Georg Friedrich, 39, 56, 60 HAGN Charlotte von, 40 HAHNEL Ernst-Julius, 42 HALÉVY Ludovic, 60,71 HANSKA Eve, 39 HANSLICK Eduard, 77 HARASZTI Emil, 96 HAYDN Franz Joseph, 2, 60 HEINE Heinrich, 13,36 HENSELT Georg Martin Adolp von, 50 HERDER Johann Gottfried, 74,78 HÉROLD Ferdinand-Louis-Joseph, 60 HERWEGH Georg, 44 HERZ Henri, 5,15,35 HILLER Ferdinand, 12, 14, 39, 42 HOFFMANN Ernst Theodor Amadeus, 55 HOHENLOHE, cardinale, 63, 92, 94 HOHENLOHE-SCHILLINGSFÙRST Konstantin von, principe, 63 HOROWITZ Joseph, 75 HOUDIN Robert, 54 HUGO Victor, 13, 16, 78, 81, 83 HUMMEL Johann Nepomuk, 2-4, 8-9, 12, 39

ENFANTIN Prosper, 23 ÉRARD Pierre, 5-7 ÉRARD Sébastien, 5-8 ESTERHAZYj principi, 1-2

FAURÉ Gabriel, 74 FAYLàszlo, 10 FEDERICO GUGLIELMO IV, re di Prussia, 42-3 FERRAND Humbert, 71 FLAVIGNY Marie de, v. Marie d’AGOULT FLEURY Adèle, duchessa di, v. Adèle CHELARD FLOTOW Friedrich von, 60 FRANCESCO d’ASSISI, 58 FRANCESCO GIUSEPPE I, imperatore d’Austria e re d’Ungheria, 90, 92 FRANCK César, 74, 104 FUMAGALLI Adolfo, 50

IWANOWSKA Carolyne, v. Carolyne SAYN-WITTGENSTEIN

GALL Franz, 5 GENAST Émilie, 64 GIORGIO IV, re di Gran Bretagna e Irlanda, 7 GIOVANNI CASIMIRO, re di Polonia, 80 GIRARDIN Émile de, 40-1 GLINKA Michail Ivanovic, 49 GLUCK Christoph Willibald, 60, 77, 79 GOETHE Johann Wolfang von, 23, 64, 78-80, 99 GÒLLERICH August, 110 GORTSCHAKOV Olga, v. Olga MEYENDORFF GOTHA-SACHSEN-KOBURG Ernst II di, 60, 72 GOUNOD Charles-Francois, 110 GOUSSART madame, 13,15

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JANIN Jules, 16,18 JANINA Olga, v. Olga ZIELINSKA JANINA PIASECKI Karol, 96 JOACHIM Joseph, 61,84-5

KALKBRENNER Friedrich Wilhelm Michael, 5, 7,9 KAUFMANN Philipp, 82 KAULBACH Wilhelm von, 79 KLINDWORTH Karl, 61 KOREFF David-Ferdinand, 45 KREUTZER Cacilia, 37 KREUTZER Conradin, 37 LA ROCHEFOUCAULD, visconte di, 6 LABOIRE Charlotte, 13 LAGER Maria Anna, 1-2, 12

Indice dei nomi LAMARTINE Alphonse de, 13, 17, 19, 44, 78 LAMENNAIS Félicité-Robert de 13, 19-21, 23. 58 LAPRUNARÈDE Adèle, v. Adèle CHELARD LASSEN Éduard, 60 LASSO Orlando di, 89 LEBERT Sigmud (propr. Levi), 97 LEGANYDeszò, 4 LEITERT Georg, 94 LENAU Nikolaus, 33, 104 LEONE XIII, Vincenzo Gioacchino Pecci, papa, 106 LHEVINNE Josef, 103 LICHNOWSKY Felix , 47-8 LICKL Aegidius Ferdinand Karl, 36 LILLO Giuseppe, 36 LIND Jerry, 42 LISZT Adam, 2-4, 6-8, 11, 33 LISZT Blandine, 23-4, 58, 61 LISZT Cosima, 25, 61, 72, 95, 101, 110-1 LISZT Daniel, 25,63 LUIGI FILIPPO d’ORLÉANS, re dei francesi, 13 LUIGI I di WITTELSBACH, re di Baviera , 41 LUTERO Martin, 19

MAISTRE Joseph de, 15,79 MALIBRAN Maria Felicia, 18, 52 MARIA ANTONIETTA d’ASBURGOLORENA, regina di Francia, 24 MASON William, 61,84 MASSART Lambert Joseph, 39 MASSIMILIANO I d’ASBURGO, arciduca d’Austria e imperatore del Messico, 99 MAUROIS André, 45 MAZEPA-KOLENDISKIJ Ivan Stepanoviè, 80-1 MEDIJD KAHN ABDUL sultano, 49, 51 MÉHUL Étienne-Nicholas, 7-8 MENDELSSHON-BARTHOLDY Felix, 9-10, 12-4, 19, 36, 39, 42, 60, 66, 69, 87, 97-8 MENDELSSHON-BARTHOLDY Paul, 65 MERLIN, contessa, 13 MERRICK Paul, 16, 19, 90 METTENLEITER Johann Georg, 106 MEYENDORFF Olga, 96,110 MEYERBEER Giacomo (propr. Beer Jacob Liebmann), 18, 23, 31, 42, 60, 64» 87 MEZÒ Imre, 103 MICHELANGELO BUONARROTI, 26, 73 MICKIEWICZ Adam, 13 MOKE Marie, v. Marie PLEYEL MONTEZ Lola (pseud, di Elisa Gilbert), 41,43-4 MOREAU GOTTSCHALK Louis, 74

MOSCHELES Ignaz, 3, 5, 8-9, 12, 39, 42 MOSER Aloysius, 85 MOSONYI Mihàly, 101 MOZART Wolfgang Amadeus, 2, 4, 26, 53, 60, 86 MUNKACSY Mihàly, 110

NAPOLEONE III BONAPARTE, imperatore dei francesi, 64 NERVAL Gerard de (pseud, di Gérard Labrunie), 101 ORLÉANS, duca e duchessa di, 24 ORTIGUE Joseph de, 14-8 OVERBECK Franz, 107 PACINI Giovanni, 39 PADEREWSKI Ignacy Jan, 93 PAER Ferdinando, 6, 9 PAGANINI Niccolò, 13, 15-8, 38-9, 55, 103 PALESTRINA Giovanni Pierluigi da, 89 PASCAL Blaise, 15 PASTA Giuditta Maria Costanza, 18, 52 PATER Walter, 105 PAVLOVNA Marie, 48, 80 PETÒFI Sàndor, 101 PICTET Adolphe, 24,86 PIETRO IALEKSEEVIC, detto il Grande, 62, 81 PIO IX, Giovanni Maria Mastai-Ferretti, papa, 58, 92, 94, 106 PLATER Pauline, 13 PLEYEL Camille-Joseph-Stephan, 14, 34 PLEYEL Ignaz Joseph, 5 PLEYEL Marie, 13, 34-6, 39-40, 42-3 PREYER Gottfried, 93 PROKOF’EV Sergej Sergeevit, 103 PROSKE Cari, 106 PÙCKLER-MOSKAU, principe, 39

RABAUD Henry-Benjamin, 104 RACHMANINOV Sergej Vasil’eviò, 103 RAFF Joachim, 60 RAFFAELLO SANZIO, 25-6 RAVEL Maurice, 16,30,98-9 REICHA Antonin, 6,8 REMÉNYI Ede (pseud, di Eduard Hoffmann), 94 REUBKE Julius, 61, 86 RICHTER Svjatoslav Teofilovit, 103 RICORDI Giovanni, 26 RIES Ferdinand, 3, 7 RIMSKIJ-KORSAKOV Nikolaj Andreeviè, 74

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Liszt o il giardino d*Armida RONCHAUD Louis de, 25, 45 ROSSINI Gioachino, 7-9, 14, 27, 31, 35-6, 39, 49. 60, 64, 93 ROSTAND Claude, 84 ROUSSEAU Jean-Jacques, 15 RUBINI Giovanni Battista, 18 RUBINSTEIN Anton Grigor’evic, 60-1, 106 SABATIER Francois. 96 SACHSEN-KOBURG-GOTHA Ernst II di, 60, 72 SAINT-CRICQ Caroline de, 11, 13, 36, 44, 51 SAINT-SAÈNS Charles-Camille, 102, 104 SAINT-SIMON Claude-Henry de Rouvroy, conte di» 13 SAINTE-BEUVE Charles Augustin de, 35 SALIERI Antonio, 3, 7 SALOMAN Siegfried, 60 SAMOYLOFF, principessa, 39 SAND George (pseud, di Amandine-Lucie-Aurore Dupin), 24-5, 86 SASSONIA-WEIMAR Carl Alexander, granduca di 60» 62, 72, 93 SATIE Erik-Alfrcd-Leslie, 16 SAYN-WITTGENSTEIN Carolyne, principessa, 46-8, 58,61» 63-4,70-1,79-80,91-2,95-6,107. 109,111 SAYN-WITTGENSTEIN Marie Pauline Antonia, 63, 77 SAYN-WITTGENSTEIN Nikolaj, principe, 46-7, 63 SCARIATTI Domenico, 39, 56 SCHILLER Friedrich, 64, 79 SCHINDLER Anton. 4. 42, 59 SCHMALHAUSEN Lina, 110 SCHMIDT Gustav, 60 SCHOLZ Bernhard, 85 SCHONBERG Arnold, 58 SCHORN Adelheid von, 95 SCHUBERT Franz Peter, 4, 9, 17, 25, 28, 37 39, 49-50, 60, 68, 98 SCHUMANN Clara Josephine, 50, 65-6, 80 SCHUMANN Robert Alexander, 3-4. 16-7, 22. 25, 29-32, 39, 54, 60, 65-6, 68-9, 74, 80, 83» 88, 97 SCHWIND Moritz Ludwig von, 106 SCOTT Walter, 50 SÉNANCOUR Étienne, 29 SGAMBATI Giovanni, 111 SHAKESPEARE William, 73,78-9 SITWELL Sacheverell, 24-5,91

SMETANA Bedrich. 104 SPOHR Ludwig, 42-3 SPONTINI Gasparc Luigi Pacifico, 7-8, 60, 106 STARK Ludwig, 97 STERN Daniel (pseud, di Marie d’Agoult, u) STRAUSS Richard, 82,85 STRAVINSKY Igor Fcdorovid, 74 STREET-KLINDWORTH Agnes, 61, 82» 8990, 92, 96

TAGLIONI Maria. 18 TASSO Torquato, 80 TAUS1NG Carl, 61,86 THAI-BERG Sigismund Fortune? Francois, 24-5» 27,31,36» 50,74 TIZIANO VECELLIO, 26 TUCZEK-EHRENBURG Leopoldine Margarethe, 37 UNGHER Carolina, 33-4, 39, 96

VERDI Giuseppe, 45» 60 VIER Jacques» 41 VIGNY Alfred de, 16 VITTORIA, regina di Gran Bretagna e Irlanda, 42-3 VITTORIO EMANUELE II di SAVOIA, re di Sardegna, re d’Italia, 94 VOLNEY Constantin-Francois Chasscboeuf, conic di, 15 VOLTAIRE (pseud, di Francois-Marie Arouet), 15,81 WAGNER Cosima, v. Cosima LISZT WAGNER Richard, 23» 41. 48, 60, 64» 70-3, 77-9, 95, 97, 101 WALKER Alan, 1, 33, 38, 40. 44» 63, 96 WEBER Carl Maria von, 8-9, 13, 19, 22-3, 36, 60 WIECK Clara Josephine, v. Clara Josephine SCHUMANN WILLMERS Rudolf, 50 WITT Franz, 107 WITTGENSTEIN, principessa, v. Carolyne SAYN-WITTGENSTEIN WOLF Oskar L. Bernhard, 43-4, 49

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ZI CHY Mihlly, 104 ZIELINSKA Olga, 64, 96-7» 103 ZIMMERMANN Pierre-Joseph-Guillaumc, 6

Finito di stampare presso Stampatre - Torino nel mese di settembre 1993 Ristampa

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Anno 93 94 95 96 97 98 99

Henri Blaze de Bury, recensendo l’esecuzione lisztiana della parafrasi dell’Iwwto alla danza di

Weber scriveva: «Chi non ha mai ascoltato Liszt tradurre con la sua anima e il suo genio questo episodio fantastico ignora a qual grado di sovraeccitazione possa condurre il senso della musica». Il grande virtuoso Biedermeier - terrificante la quan­ tità di note e di timbri che riusciva a cavare dal suo strumento - il perfetto collaudatore dei piano­ forti Erard, il disincantato e solitario incantatore, sicuramente uno tra i massimi protagonisti - com­ positore e interprete, ma anche didatta e saggista dell’Ottocento musicale, i suoi innumerevoli affari di cuore - casti amori e brucianti passioni (le ulti­ me parole che il padre Adam gli rivolse prima di morire furono: «Temo per te le donne») - sono qui raccontati da Piero Rattalino in un meditato, e spregiudicato, “ritratto d’artista”.

Piero Rattalino (1931) insegna Pianoforte presso il Conservatorio G. Verdi di Milano, è responsabile di­ dattico dell’Accademia Pianistica di Imola e consu­ lente del Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo. Dedicatosi inizialmente all’attività di concertista e compositore, si è rivolto ben presto al­ l’insegnamento, alla saggistica e all’organizzazione musicale, ricoprendo gli incarichi di direttore artisti­ co del Teatro Comunale di Bologna, del Teatro Carlo Felice di Genova e del Teatro Regio di Torino. Ha pubblicato uvolumi Storia del Pianoforte (Milano, 1982), Da Clementi a Pollini (Milano, 1983), La sona­ ta romantica e altri saggi sulla letteratura del pianofor­ te (Milano, 1985) e, per questa collana, Pryderyk Chopin (1992).

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