L’ideologia degli archeologi: Egemonie e tradizioni epistemologiche alla fine del postmoderno 9781407358840, 9781407358857

Il libro si concentra sulle dinamiche che intercorrono tra i diversi approcci epistemologici e teorici in archeologia, a

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Indice
Lista delle figure
Premessa
1. Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo.
1.1. Definizioni, recrudescenze e problemi di periodizzazione.
1.2. La crisi della ragione.
1.2.1. Periodizzare il moderno (fase 1).
1.2.2. Periodizzare il moderno (fase 2).
1.2.3. Periodizzare il moderno (fase 3).
1.3. La crisi della ragione (atto secondo): il problema dell’empirismo e della natura delle cose.
1.4. La crisi della ragione (atto terzo), grandi narrazioni e microstorie.
1.5. Questioni di scala.
1.6. Il legame perduto: la scuola di Francoforte e la tradizione dei British cultural studies.
1.7. Il fantasma del postmoderno.
1.8. Comparando Stati Uniti e Regno Unito: alcune riflessioni.
2. Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia.
2.1. Archeologie: processualismo e postprocessualismo.
2.2. Dalla New archaeology all’archeologia processuale: una questione di sfumature?
2.3. Dall’archeologia processuale alla perdita dell’innocenza.
2.4. Il momento del disincanto: la critica postprocessuale.
2.4.1. Interpretazioni archeologiche: gli oggetti di studio.
2.4.2. Conoscere il passato: il soggetto a portata di mano.
2.5. Rigettare le critiche.
2.6. Le ragioni profonde di una opposizione e la loro riconciliazione mancata.
3. Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.
3.1. Inventare o inventariare le differenze?
3.2. Alcune riviste e il loro “contesto”.
3.3.1. Nazionalità degli autori e lingue franche: qualche riflessione.
3.3.2. Periodi e periodizzazioni come indizio di mutamenti paradigmatici.
3.3. Lo spazio geografico e lo spazio del potere accademico.
3.4. Obiettivi delle ricerche: campi di indagine e scelte accademiche.
3.5. Il supporto materiale della ricerca e le rotture epistemologiche: un esempio dai PBSR
4. Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio.
4.1. La comparsa del Journal of Roman Archaeology
5. Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia.
5.1. Frammenti da un manifesto.
5.1.1. Archeologia, simmetria e atti poietici.
5.1.2. Simmetria e (ri)contestualizzazione: la fine del soggetto e l’era post-umana.
5.1.3. Simmetria ed ermeneutica del sospetto: la fine del sociale e del culturale.
5.1.4. Simmetria e ricomposizione. Uomini in cose, cose in uomini.
5.2. Manifesti e ricomposizioni: visualizzare l’archeologia.
5.2.1. Il rifiuto del linguaggio.
5.2.2. Arte visuale e tradizione.
5.2.3. Immagine e conciliazione.
6. Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo).
6.1. Marx, Kant, Hegel e l’archeologia anglo-americana.
6.1.1. Empirismo raddoppiato.
6.1.2. Le conseguenze della morte di Marx.
6.2. L’ideologia e la struttura: Foucault-Veyne e Marx.
6.2.1. Paradigmi a confronto: superficie/profondità vs. segno/sintomo.
6.2.2. Sovrainterpretazione ed epigenesi. Banalità, quotidiano ed anacronismo controllato.
6.2.3. L’interpretazione è un pique-nique?
6.3. L’uomo e il singolo.
6.3.1. Purismi logici e forma sociale.
6.3.2. Empirismo moderno.
6.3.3. Del falso rifiuto della separazione purista proposta da Kant.
6.3.4. La forma sociale. Critiche all’empirismo? No, alle separazioni.
7. Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti.
7.1. Archeologia Classica e Antiquity.
7.2. Compare il comparabile. L’esempio demografico ed economico.
7.3. Il problema epistemologico delle fonti: soluzioni a confronto nell’archeologia postmoderna.
7.4. Quale storicismo per l’archeologia classica?
7.5. Historical Archaeology e Archeologia Classica.
7.6. Le riviste e l’archeologia classica
7.7. Archeologia e testi tra le due sponde dell’Atlantico.
7.8. Archeologie e postmoderno: convergenze e dissonanze.
8. Archeologia, democrazia e autorità.
8.1. Democrazia e autorità.
8.2. Archeologia (classica) e società.
8.3. Archeologie e Autorità.
8.4. Archeologie nelle marginalità.
(Ap)punti per una conclusione futura
Bibliografia
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L’ideologia degli archeologi: Egemonie e tradizioni epistemologiche alla fine del postmoderno
 9781407358840, 9781407358857

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L’ideologia degli archeologi Egemonie e tradizioni epistemologiche alla fine del postmoderno

Edoardo Vanni B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 5 0

2021

L’ideologia degli archeologi Egemonie e tradizioni epistemologiche alla fine del postmoderno

Edoardo Vanni B A R I N T E R NAT I O NA L S E R I E S 3 0 5 0

2021

Published in 2021 by BAR Publishing, Oxford BAR International Series 3050 L’ideologia degli archeologi isbn isbn doi

978 1 4073 5884 0 paperback 978 1 4073 5885 7 e-format

https://doi.org/10.30861/9781407358840

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Mauro Aloisio

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A Cèlia. Lei sa perché.

Indice Lista delle figure.................................................................................................................................................................. ix Premessa............................................................................................................................................................................. xii 1. Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo............................................................................................ 1 1.1. Definizioni, recrudescenze e problemi di periodizzazione....................................................................................... 1 1.2. La crisi della ragione................................................................................................................................................. 1 1.2.1. Periodizzare il moderno (fase 1)....................................................................................................................... 3 1.2.2. Periodizzare il moderno (fase 2)....................................................................................................................... 4 1.2.3. Periodizzare il moderno (fase 3)....................................................................................................................... 6 1.3. La crisi della ragione (atto secondo): il problema dell’empirismo e della natura delle cose.................................... 8 1.4. La crisi della ragione (atto terzo), grandi narrazioni e microstorie......................................................................... 10 1.5. Questioni di scala.................................................................................................................................................... 11 1.6. Il legame perduto: la scuola di Francoforte e la tradizione dei British cultural studies......................................... 13 1.7. Il fantasma del postmoderno................................................................................................................................... 15 1.8. Comparando Stati Uniti e Regno Unito: alcune riflessioni..................................................................................... 17 2. Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia............................................................. 21 2.1. Archeologie: processualismo e postprocessualismo............................................................................................... 21 2.2. Dalla New archaeology all’archeologia processuale: una questione di sfumature?............................................... 21 2.3. Dall’archeologia processuale alla perdita dell’innocenza....................................................................................... 24 2.4. Il momento del disincanto: la critica postprocessuale............................................................................................. 27 2.4.1. Interpretazioni archeologiche: gli oggetti di studio......................................................................................... 28 2.4.2. Conoscere il passato: il soggetto a portata di mano........................................................................................ 29 2.5. Rigettare le critiche................................................................................................................................................. 31 2.6. Le ragioni profonde di una opposizione e la loro riconciliazione mancata............................................................ 33 3. Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.......................................................................................... 37 3.1. Inventare o inventariare le differenze?.................................................................................................................... 37 3.2. Alcune riviste e il loro “contesto”........................................................................................................................... 38 3.3.1. Nazionalità degli autori e lingue franche: qualche riflessione........................................................................ 41 3.3.2. Periodi e periodizzazioni come indizio di mutamenti paradigmatici.............................................................. 45 3.3. Lo spazio geografico e lo spazio del potere accademico........................................................................................ 54 3.4. Obiettivi delle ricerche: campi di indagine e scelte accademiche........................................................................... 60 3.5. Il supporto materiale della ricerca e le rotture epistemologiche: un esempio dai PBSR......................................... 66 4. Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio.................................................................................................................. 71 4.1. La comparsa del Journal of Roman Archaeology................................................................................................... 71 5. Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia............................................................................................ 81 5.1. Frammenti da un manifesto..................................................................................................................................... 81 5.1.1. Archeologia, simmetria e atti poietici............................................................................................................. 82 5.1.2. Simmetria e (ri)contestualizzazione: la fine del soggetto e l’era post-umana................................................. 83 5.1.3. Simmetria ed ermeneutica del sospetto: la fine del sociale e del culturale..................................................... 85 5.1.4. Simmetria e ricomposizione. Uomini in cose, cose in uomini........................................................................ 87 5.2. Manifesti e ricomposizioni: visualizzare l’archeologia........................................................................................... 91 5.2.1. Il rifiuto del linguaggio.................................................................................................................................... 92 5.2.2. Arte visuale e tradizione.................................................................................................................................. 93 5.2.3. Immagine e conciliazione................................................................................................................................ 94 6. Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo)........................................ 97 6.1. Marx, Kant, Hegel e l’archeologia angloamericana................................................................................................ 97 6.1.1. Empirismo raddoppiato................................................................................................................................... 97 6.1.2. Le conseguenze della morte di Marx.............................................................................................................. 97 vii

L’ideologia degli archeologi 6.2. L’ideologia e la struttura: Foucault-Veyne e Marx.................................................................................................. 99 6.2.1. Paradigmi a confronto: superficie/profondità vs. segno/sintomo.................................................................. 100 6.2.2. Sovrainterpretazione ed epigenesi. Banalità, quotidiano ed anacronismo controllato.................................. 101 6.2.3. L’interpretazione è un pique-nique?.............................................................................................................. 103 6.3. L’uomo e il singolo............................................................................................................................................... 103 6.3.1. Purismi logici e forma sociale....................................................................................................................... 104 6.3.2. Empirismo moderno...................................................................................................................................... 104 6.3.3. Del falso rifiuto della separazione purista proposta da Kant......................................................................... 105 6.3.4. La forma sociale. Critiche all’empirismo? No, alle separazioni................................................................... 106 7. Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti...................................................................... 109 7.1. Archeologia classica e Antiquity........................................................................................................................... 109 7.2. Compare il comparabile. L’esempio demografico ed economico......................................................................... 110 7.3. Il problema epistemologico delle fonti: soluzioni a confronto nell’archeologia postmoderna............................. 112 7.4. Quale storicismo per l’archeologia classica?........................................................................................................ 113 7.5. Historical archaeology e archeologia classica...................................................................................................... 115 7.6. Le riviste e l’archeologia classica......................................................................................................................... 120 7.7. Archeologia e testi tra le due sponde dell’Atlantico............................................................................................. 121 7.8. Archeologie e postmoderno: convergenze e dissonanze....................................................................................... 130 8. Archeologia, democrazia e autorità........................................................................................................................... 135 8.1. Democrazia e autorità........................................................................................................................................... 135 8.2. Archeologia (classica) e società............................................................................................................................ 137 8.3. Archeologie e autorità........................................................................................................................................... 138 8.4. Archeologie nelle marginalità............................................................................................................................... 139 (Ap)punti per una conclusione futura.......................................................................................................................... 143 Bibliografia....................................................................................................................................................................... 147

viii

Lista delle figure 3.1. Grafici sulle lingue utilizzate in riviste appartenenti a contesti culturali e linguistici diversi nello studio di Kristiansen 2000a................................................................................................................................................. 42 3.2. Grafico generale sulle nazionalità degli autori presenti nei Papers of the British School at Rome............................. 42 3.3. Grafico sulle variazioni delle nazionalità degli autori presenti nei Papers of the British School at Rome................. 43 3.4. Grafico generale sulle lingue utilizzate nei Papers of the British School at Rome...................................................... 43 3.5. Grafico generale sulle nazionalità degli autori presenti nei Mélanges de l’École française de Rome........................ 45 3.6. Grafico sulle variazioni delle nazionalità degli autori dei Mélanges de l’École française de Rome........................... 45 3.7. Grafico generale sulle nazionalità degli autori degli Accordia Research Papers......................................................... 46 3.8. Grafico generale sulle nazionalità degli autori del Journal of Mediterranean Archeology.......................................... 46 3.9. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati nei Papers of the British School at Rome, con differenti direttori........ 47 3.10. Grafico sulle variazioni annuali tra i periodi studiati nei Papers of the British School at Rome............................... 50 3.11. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati negli Accordia Research Papers.......................................................... 50 3.12. Grafico generale sulle percentuali dei periodi studiati negli Accordia Research Papers........................................... 51 3.13. Grafico generale sulle percentuali dei periodi studiati nel Cambridge Journal of Archaeology............................... 51 3.14. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati nel Journal of Mediterranean Archaeology......................................... 53 3.15. Grafico generale sulle percentuali tra i periodi studiati nell’European Journal of Archaeology............................... 53 3.16. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati nell’European Journal of Archaeology............................................... 55 3.17. Grafico generale sulle percentuali tra i periodi studiati nell’Annual of the British School at Athens....................... 55 3.18. Grafico sui periodi presenti nel volume celebrativo del centenario della fondazione della British School at Athens................................................................................................................................................................. 56 3.19. Grafico delle variazioni annuali dei contesti geografici studiati nei Papers of the British School at Rome.............. 56 3.20. Grafico generale sulle percentuali dei contesti geografici studiati nei Papers of the British School at Rome.......... 57 3.21. Grafico generale sulle percentuali dei contesti geografici studiati negli Accordia Research Papers......................... 58 3.22. Grafico generale sulle percentuali dei contesti geografici studiati nel Journal of Mediterranean Archaeology........................................................................................................................................................................ 58 3.23. Assi geografici privilegiati negli articoli del Journal of Mediterranean Archaeology............................................... 59 3.24. Grafico generale degli argomenti trattati nei Papers of the British School at Rome................................................. 62 3.25. Grafico delle variazioni sugli argomenti trattati nei Papers of the British School at Rome, con diversi direttori della scuola............................................................................................................................................................ 62 3.26. Grafico degli argomenti presenti nel volume celebrativo del centenario della British Academy.............................. 63 3.27. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli del Journal of Mediterranean Archaeology........................ 63 3.28. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli degli Accordia Research Papers......................................... 65 3.29. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli dell’European Journal of Archaeology............................... 65 3.30. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli nel Cambridge Journal of Archaeology.............................. 67 3.31. Grafico sulle variazioni degli argomenti studiati nel Cambridge Journal of Archaeology........................................ 67 3.32. Grafico generale delle metodologie utilizzate per le ricerche negli articoli dei Papers of the British School at Rome................................................................................................................................................................... 68 ix

L’ideologia degli archeologi 3.33. Grafico delle variazioni delle metodologie e tipo di fonte utilizzate per le ricerche negli articoli dei Papers of the British School at Rome, con diversi direttori.......................................................................................... 68 3.34. Grafico delle variazioni reciproche tra le metodologie e le tipologie di fonti utilizzate per le ricerche negli articoli dei Papers of the British School at Rome ....................................................................................... 69 3.35. Grafico generale delle percentuali dei supporti materiali studiati negli articoli dei Papers of the British School at Rome....................................................................................................................................................... 69 3.36. Grafico delle percentuali di studi presenti negli articoli dei Papers of the British School at Rome che utilizzano l’instrumentum secondo un determinato approccio..................................................................................... 70 4.1. Grafico generale sulle nazionalità degli autori presenti nel Journal of Roman Archaeology...................................... 72 4.2. Grafico sulle nazionalità degli autori raggruppate per blocchi linguistico-culturali nel Journal of Roman Archaeology............................................................................................................................................................ 72 4.3. Grafico delle variazioni di nazionalità tra autori degli articoli del Journal of Roman Archaeology........................... 73 4.4. Grafico sulla presenza della lingua inglese rispetto agli altri idiomi nel Journal of Roman Archaeology.................. 73 4.5. Grafico dei periodi studiati negli articoli del Journal of Roman Archaeology............................................................ 74 4.6. Grafico dei contesti geografici studiati nel Journal of Roman Archaeology............................................................... 74 4.7. Grafico delle variazioni tra i contesti geografici presenti negli articoli del Journal of Roman Archaeology.............. 75 4.8. Grafico sugli argomenti trattati negli articoli del Journal of Roman Archaeology...................................................... 76 4.9. Grafico delle variazioni tra gli argomenti studiati nel Journal of Roman Archaeology.............................................. 76 4.10. Grafico delle metodologie e tipi di fonti utilizzate per le ricerche presenti nel Journal of Roman Archaeology........................................................................................................................................................................ 77 4.11. Grafico delle variazioni tra le metodologie e le fonti utilizzate per le ricerche del Journal of Roman Archaeology........................................................................................................................................................................ 77 4.12. Grafico delle tipologie di supporto materiale utilizzato per le ricerche del Journal of Roman Archaeology........................................................................................................................................................................ 78 4.13. Grafico degli articoli che utilizzano come specifica fonte materiale le anfore.......................................................... 78 4.14. Grafico sull’incremento del numero totale degli articoli pubblicati nel Journal of Roman Archaeology................. 79 5.1. Schema che rappresenta i fattori che intercorrono alla formazione di un’interpretazione storico-archeologica......... 89 5.2. Schema sulle procedure argomentativo-deduttive che contribuiscono a creare un’interpretazione storico-archeologica............................................................................................................................................................ 93 6.1. Grafico sull’alternanza tra approccio idealista e illuminista, secondo lo studio di Kristiansen 2008a...................... 106 7.1 Grafico sulle percentuali degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche dei Papers of the British School at Rome, secondo l’opposizione epistemologica. .................................................................................... 121 7.2. Grafico sulle variazioni degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche dei Papers of the British School at Rome, secondo l’opposizione epistemologica. .................................................................................... 121 7.3. Grafico sulle variazioni degli argomenti affrontati nelle ricerche dei Papers of the British School at Rome........... 122 7.4. Grafico degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche degli Accordia Research Papers, secondo l’opposizione epistemologica. .......................................................................................................................................... 122 7.5. Grafico degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche nel Journal of Mediterranean Archaeology, secondo l’opposizione epistemologica............................................................................................................................. 123 7.6. Grafico sui periodi studiati negli articoli del Journal of Mediterranean Archaeology............................................... 123 7.7. Grafico sui periodi studiati negli articoli degli Accordia Research Papers................................................................ 124 7.8. Grafico sui periodi studiati negli articoli dei Papers of the British School at Rome................................................. 124 7.9. Grafico sulle percentuali dei supporti materiali utilizzati negli articoli dei Papers of the British School at Rome.. 125 7.10. Grafico sulle percentuali degli approcci legati allo studio dell’instrumentum negli articoli Papers of the British School at Rome........................................................................................................................................... 125 x

Lista delle figure 7.11. Grafico generale sui supporti materiali utilizzati secondo un determinato approccio epistemico negli articoli dei Papers of the British School at Rome.................................................................................................... 126 7.12. La contrapposizione tra archeologi processuali e postprocessuali secondo il noto fumetto di Paul Bahn (modificato da Bahn 1996)...................................................................................................................................... 128 7.13. La contrapposizione tra archeologi processuali e postprocessuali nella rappresentazione di M. Johnson (modificato da Johnson 1999)............................................................................................................................. 129 7.14. Grafico sulle tematiche affrontate nei Papers of the British School at Rome.......................................................... 131 7.15. Grafico sulle tematiche affrontate nel Journal of Roman Archaeology................................................................... 131 7.16. Grafico sulle tematiche affrontate neL Cambridge Journal of Archaeology............................................................ 132

xi

Premessa 1.  Casualità e scelte programmatiche. Nella ricerca, l’individuazione di un argomento specifico tra gli altri è spesso frutto di un processo di maturazione fatto di coincidenze e casualità. È solo in un secondo momento che delle ragioni meno confuse arrivano a dare forma e coerenza; ed è allora che, come per effetto di uno straniamento, riusciamo a mettere a fuoco il nostro argomento nella sua collazione teorica e storiografica. Esistono poi quei rari momenti epifanici in cui si percepisce da subito con lucidità, almeno nella sensazione, l’urgenza di un problema che aspetta di essere risolto, quasi come una vertigine. Questo meccanismo ci costringe anche a dar ragione di ciò che facciamo.

teorico-pratiche tra l’archeologia italiana e quella britannica. Lui, con sorriso bonario e un po’ compiaciuto rispose: “È tutta questione di empirismo”. Da quella, per me allora, criptica risposta, partì la mia indagine. Sentivo però che non mi bastava e che volevo capire più a fondo quali fossero i meccanismi di caduta di un’idea, il suo formarsi e diffondersi, come essa in seguito diventi un paradigma che influenza i corpi e i modi di agire. Allora non sapevo come avrei fatto, da dove sarei partito e dove sarei arrivato. Questo lavoro rappresenta la versione imperfetta di quello sforzo ermeneutico e di quella giovane inquietudine. 2.  Banalità ed eccezionalità dell’archeologia. Quando si scrive c’è il rischio di restare, in parte, vittime del fascino che esercita la ricerca spasmodica dell’Unico, dell’Eccezionale e dell’Originale. Questa luce abbagliante è pari alla volontà di esprimere la propria individualità e di ritrovare il sublime. In Italia questa volontà è un lascito indelebile di Benedetto Croce e della sua estetica, che ancora, per certi versi, ci tormenta come uno spettro. Nonostante l’archeologia nasca in Italia con la precisa intenzione di contrapporsi alla storia come storia dell’arte, di separarsi da questa per acquistare la sua autonomia, il tratto visionario dell’originalità a tutti i costi permane. Non nei metodi, forse, ma nell’attesa e nella speranza di quanto la propria ricerca possa rappresentare una novità. Inutile dire che molto spesso il sistema esterno con cui l’archeologia deve interloquire (società civile, enti statali, organizzazioni, ecc.) fa della spettacolarizzazione il suo linguaggio precipuo, chiedendo a gran voce all’archeologia di placare la fame di originalità. Alimentandosi a vicenda, i dispensatori di eccezionalità si allontanano sempre di più l’uno dall’altro e in maniera progressiva, fino a che non saranno più in grado di comunicare e di capirsi. Nessuno lo dice ma vi è un disagio profondo e uno sforzo estenuante a parlare la lingua dell’altro.

L’idea che sta alla base di questo libro nasce dall’incontro tra degli eventi sostanzialmente imprevedibili e il lavoro di cesellatura e studio svolto negli anni, incontro che poi ha preso forma concreta, addensandosi, cadendo e imprimendosi su queste pagine. Nel 2010 mi trovavo, grazie ad una borsa di studio, al McDonald Institute di Cambridge, in Inghilterra. Il mio tutor di allora era il prof. Martin Jones, esperto di DNA antico. Da subito mi ritrovai a seguire corsi e seminari tenuti da studiosi come Mary Beard, Robin Osborne, Anthony Snodgrass, Barbara Bender, Martin Millett, John Robb, Colin Renfrew, Graeme Barker e molti altri. Questi nomi risuonavano nella mia testa con una certa familiarità, avendoli incontrati decine di volte nei manuali e negli articoli letti negli anni universitari. Ben presto mi resi conto di trovarmi al centro del potere, o perlomeno in uno dei tanti centri del potere dal quale si esercitava un’egemonia (in senso gramsciano) sulla disciplina, esprimendo e imponendo a fasi alterne la linea teorica, pratica e politica per l’archeologia. Quello che mi incuriosiva era la natura del formarsi di tale egemonia e la sua interazione con altri centri egemoni e, ancor di più, con le zone periferiche. L’incompatibilità di alcune tendenze teoriche con la tradizione archeologica italiana, il diverso sviluppo degli esiti postprocessuali in differenti contesti accademici, l’incapacità, a volte, di comunicare e trovare un piano di discussione comune tra le diverse archeologie. Queste erano alcune delle domande che mi ponevo allora, e che mi pongo tutt’oggi, sull’origine di certe opposizioni teoriche e dell’organizzazione degli spazi epistemici, e che, mi rendevo conto, avevano poi una grandissima ripercussione sulle riflessioni metodologiche, sulle strategie d’indagine e infine sull’interpretazione e la narrazione storico-archeologica: in una parola sulla prassi.

L’archeologia non è certo immune dalle logiche della società contemporanea. Proprio per questo suo continuo (e necessario) dialogo con la società, l’archeologia è una di quelle discipline in grado di misurare lo stato di salute della società contemporanea forse ancor più dell’antropologia. Il rapporto con il passato, la costruzione dell’identità, la percezione di sé stessi e della società nel presente, la capacità di pensare il futuro, la conservazione del patrimonio materiale, sono tutti temi intimamente legati con l’archeologia e con la riproduzione della società come tale. D’altra parte, l’archeologia è spesso all’opposto della logica della spettacolarizzazione e l’eccezionalità così intesa vi si trova raramente. L’unicità, nel suo senso di irripetibilità, è un concetto differente rispetto all’eccezionalità, ed è rintracciabile continuamente nella

In una conversazione con Andrea Carandini, mesi dopo, ricordo di aver chiesto, incuriosito, la sua opinione sulla ragione di alcune delle più macroscopiche differenze xii

Premessa pratica archeologica quotidiana, allorché si riporta alla luce e si ridà vita a un segmento del passato, a un frammento di storia sino ad allora rimasto sepolto, unico e irripetibile. Quei frammenti, scavati, documentati e raccontati, sono gesti quotidiani, banali, semplici: un vaso per bere, un muro per abitare, un chiodo per inchiodare, niente di più e niente di meno. Quella banalità è la nostra banalità di tutti i giorni che forse cerchiamo in tutti i modi di sublimare ed esorcizzare. Nietzsche ha scritto pagine memorabili a tal proposito.

contigue, gravide di conseguenze anche per la propria. È allora che si cerca di monitorare la temperatura, lo stato di salute dei paradigmi e delle decostruzioni, per decidere di abbandonarle o per seguirle con più forza, eventualmente per cambiare direzione o per imporne una in maniera più consapevole. Questo è accaduto più volte e più volte si ripeterà. O semplicemente si parte dall’analisi delle riviste per constatare uno smarrimento, un arresto o un ritardo. Farò questo analizzando nel dettaglio alcune riviste archeologiche e la loro evoluzione in termini di approcci, argomenti e linee editoriali, consapevole del fatto che esse rappresentano una cartina tornasole attraverso cui analizzare cambiamenti e addensamenti di paradigmi così come le egemonie accademiche. Partiremo da questa analisi, condotta nel modo più analitico possibile, per poi riflettere più in generale su argomenti teorici, storiografici, socioculturali e anche filosofici che diano ragione dei cambiamenti in corso. L’utilizzo di alcune riviste, o il riferimento ad autori e lavori specifici, non vuole avere carattere di esaustività, ma vuole essere un pretesto per riflettere sui temi che ci interessano. Dunque, l’ordine del discorso e la narrazione che ci accingiamo a fare saranno selettivi e ragionati, con un fine dichiarato che, inevitabilmente, non avrà carattere di esaustività.

Valutare lo stato di salute dell’archeologia classica, in particolare, è un modo fra tanti per riflettere sullo stato di salute di tutta una disciplina alla luce della società presente, per calibrarne le tendenze e le derive in atto e proporre correzioni di rotta possibili in base alle esigenze future. L’archeologia classica nello specifico (come quella storica del resto) ha il vantaggio di comporsi di una serie di questioni epistemologiche ed euristiche del tutto distintive, come ad esempio quella del rapporto tra fonti scritte e archeologiche, ma anche disciplinari, come quella tra storia, storia dell’arte e archeologia, incarnando una certa tendenza conservatrice rispetto alle svolte paradigmatiche, e permettendomi, in questo senso, di considerare anche il rapporto fra tradizione e innovazione e riflettere più in generale (mi si permetta il riferimento kuhniano) sulla logica delle rivoluzioni teoriche nelle scienze umane.

Credo che questo tipo di prodotti costituiti dagli articoli, grazie al loro carattere inorganico, al loro segno rapsodico e istantaneo, si prestino maggiormente a misurare in modo specifico cambi di tendenze, scarti, rifiuti, contrasti e posizionamenti disciplinari, rispetto a opere monografiche coerenti che sono frutto di una riflessione lenta e lunga nel tempo. La velocità con cui si pubblicano, il loro moltiplicarsi e la frammentarietà delle prospettive che veicolano sono un concentrato di idiosincrasie del moderno (o postmoderno che dir si voglia). Sono permeabili più di ogni altro strumento editoriale all’elemento esterno e involontario; sono suscettibili ai residui, alle anomalie e alle devianze; dettano, o cercano di dettare, le linee uniformanti, dirompenti o conservatrici. Solo la velocità, veicolata della rete informatica, spezzerà definitivamente il ruolo che ancor oggi l’accademia può esercitare attraverso questo specifico strumento editoriale. Velocità e possibilità del moltiplicarsi degli attori chiamati alla formazione della Verità. Tutto questo sta avendo effetti deflagranti sul ruolo degli intellettuali, sulla tenuta dei paradigmi e sulle dinamiche egemoniche in generale. Effetti che, piaccia o no, sono già in atto e difficilmente arrestabili. Ma questo argomento sarà affrontato solo in maniera cursoria nelle conclusioni finali1.

Farlo poi riflettendo sulle dinamiche tra un’archeologia dominante, quella anglo-americana e nordeuropea in rapporto a quella storico-mediterranea (nel nostro caso soprattutto quella italiana), dà la possibilità di applicare un po’ di comparativismo per mettere in discussione, magari per una volontà di legittimazione a rivendicare quel briciolo di egemonia negataci, un equilibrio che va ripensato. Tutto questo sarà presente, in forma problematica, lungo tutto il nostro percorso. Nel momento in cui ci si domanda il perché una simile indagine prende forma in questo preciso cronotopo, la risposta più immediata è la constatazione di uno smarrimento in cui si fatica a ritrovarsi. Uno smarrimento epocale, al tempo stesso storico-sociale, culturale, disciplinare e in ultima istanza economico. Il sistema di rapporti in cui siamo immersi possiede una gerarchia che si sviluppa a più livelli e le discipline accademiche ne sono il riflesso: archeologia classica italiana di ascendenze neo-marxiste; archeologia storicoantropologica mediterranea; archeologia anglo-americana; archeologie postcoloniali; archeologie periferiche; sistema capitalistico occidentale. Questo, a grandi linee, dal contesto più piccolo a quello più grande, dove “piccolo” non vuol dire minore, ma più vicino e avvertibile.

4.  Svolte epistemologiche. Credo dunque che ci sia un’urgenza data dal preciso momento storico in cui ci troviamo e che questo sia stato un elemento decisivo di inquadramento e ricerca di senso in questo studio. Perché dunque, ancora una volta, sentirne l’esigenza e trovare un luogo (accademico) dove poter riflettere sui modi e i tempi, sulle trasformazioni di una disciplina? Un tempo si

3.  Postmodernismo e velocità. All’inizio di questo millennio si sono prodotti da più parti tentativi di sintesi e riflessioni sullo stato dell’archeologia classica e non solo, che hanno messo in luce lo stato del dibattito in corso. Di solito questi tentativi si producono al momento in cui si avverte un cambiamento epocale nell’orizzonte teorico o metodologico della disciplina, o quando si assiste alla nascita di nuove prospettive in discipline

1 

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Per una riflessione si veda Vanni 2017.

L’ideologia degli archeologi maiuscola, resta però, come alternativa alle vecchie verità assolute e al nichilismo, la possibilità di compiere uno sforzo metodologico per non perdere la tensione verso il rigore, verso l’oggettività, verso una comprensione, certo, ma pur sempre mutila.

sarebbe forse scelto di studiare ceramica, di occuparsi di un argomento topico. La consapevolezza, però, del ruolo assolutamente primario giocato da noi contemporanei e dei nostri modi di fare storia (come guardiamo il passato e lo riscriviamo alla luce del presente) impone che se ne indaghino nel dettaglio le dinamiche di formazione epistemica. Questo lo dicevano già, sotto un’altra prospettiva, Hyden White, Michel de Certeau e Paul Ricoeur. Forse la stagione delle crono-tipologie è passata, o perlomeno attraversa un periodo di crisi, e anche questo è un segno dei tempi, un fatto su cui ci si deve interrogare.

5.  Posizionamenti storici. Constatato il fatto che l’epistemologia (o le epistemologie) del contemporaneo è uno dei fattori che concorre alla produzione del fatto storico, si pone il problema di come si debba impostare il nostro rapporto nei loro confronti. La comprensione del contesto storico presente diventa dunque un dato a tutti gli effetti (come fosse un testo antico, un sito o un frammento di ceramica) che partecipa in egual misura alla costruzione del discorso storico; non è solo un inevitabile elemento di distorsione da eliminare o, peggio, da ignorare. Al contrario, mi verrebbe da dire che si impone l’obbligo, ogni volta che scriviamo, di metterne in luce ed esplicitarne il rapporto con il nostro posizionamento disciplinare e teorico, oltreché con l’oggetto di studio; di chiarire cioè la dinamica presente-passato ai fini della narrazione. È una questione di controllo, come dicevo, ma anche una questione di conoscenza, di spiegazione e di interpretazione. L’obiettivo è quello di proporre una storia tra le tante e poter scegliere quella che meglio spiega un processo; percepire gli errori e le distonie, indicare nuove soluzioni per recepire connessioni ignorate o per eliminarne altre. La diagnosi sullo stato dell’archeologia classica dell’ultimo quindicennio, dalla nascita della (o delle) archeologia post(post)processuale alla sua attuale crisi ha, in ultima analisi, questo scopo. L’archeologia processuale, infatti, è entrata rapidamente in crisi e soffre delle aporie che essa stessa ha portato alla luce nelle procedure interpretative, dando origine ad alcuni dei suoi aspetti più deteriori. Non se ne vogliono rifiutare in blocco le conquiste e le feconde intuizioni elaborate nell’ambito della ricerca archeologica, ma per continuare a riflettere nel modo corretto sui metodi delle archeologie (o dell’archeologia tout court) si deve dar ragione dei motivi di queste sue mancanze e degli arretramenti rispetto alle posizioni raggiunte. Si deve cioè, necessariamente, riconoscere l’alto grado di anestetizzazione (il termine è di Glucksmann) raggiunto dal postmoderno e in generale dalle post- n’importe quelle disciplina. Anestetizzazione al frammentato, all’incoerenza e alla rassegnazione di non formulare delle risposte, nell’incapacità di porre le domande, non comprendendo più la realtà stessa.

E allora quali sono i dati da studiare adesso? Le ceramiche? O piuttosto i pollini? O ancora la cultura materiale di società contemporanee? Si tratta di non trascurare niente: una globalità di approcci è ormai necessaria. Una questione di metodi, certo, ma soprattutto una questione epistemologica. L’epistemologia diventa un oggetto storico, s’impone alla nostra attenzione, tanto quanto un’iscrizione epigrafica o uno studio etnoarcheologico. Una questione più di storia della teoria o se si vuole di storiografia dell’archeologia. Tuttavia, l’idea è di costruire una base empirica su cui appoggiare le riflessioni e le argomentazioni, intorno a temi e soluzioni ben precise. I dati in questo studio saranno i documenti scritti di alcune riviste; veri e propri documenti “storici”, non quelli di archivio ma quelli pubblicati. Il protagonista sarà la costruzione del passato da parte di una società contemporanea e nello specifico l’indagine su un’operazione altamente selettiva condotta da una ristretta élite ascritta a una porzione di cultura ben circoscritta. Una storia contemporanea degli studi dell’archeologia (ma non solo), costruita soprattutto con l’occhio e la sensibilità propria dell’archeologia. Perché l’archeologia non è solo una disciplina tecnica ma anche un modo di fare storia e, in ultima istanza, una visione del mondo. Una filosofia, se si vuole. Uno stile di vita. Una sensibilità alla banalità. È, mi dispiace dirlo, anche una questione di controllo. Fa ancora un certo effetto leggere oggi le parole che Arnaldo Momigliano scrisse sui principi che regolano il “giuoco” dello studio della storia antica. Il suo era uno sforzo estremo, uno degli ultimi, per contrastare la deriva che stava portando la storia verso un cambio di stato ontologico: la sua trasformazione in retorica. La perdita della sua neutralità, del suo fondamento scientifico e della sua oggettività. È, ed era, una questione anche di verità. Ma la storia, ci si era già resi conto, è costruzione arbitraria, ed è questa la profonda lezione del postmodernismo. È il presente che scrive sé stesso e progetta il suo futuro a partire dal passato. Una ricostruzione che affonda le sue premesse nel presente. Momigliano però credeva fermamente che si potesse conservare l’obiettività e la legittimità stessa della storia sul piano del documento, sul piano del controllo filologico. Da qui l’atteggiamento del Momigliano, postpositivista critico, nostalgico del rigore perduto, intollerante verso le decostruzioni con il suo rigetto nei confronti del postmoderno, termine che a malapena pronunciava. Nel postmoderno una verità sul passato non esiste. Esistono invece diverse storie scritte per, e nel, presente. Non esiste la storia, con la S

La fase essenziale in una ricerca è quella che presiede alla formulazione di domande adeguate, piuttosto che alla frenesia di dare risposte. Ma non ci si illuda che ponendo le domande corrette si possa sfuggire al problema della loro soluzione: evitando i rischi delle risposte si evita di esporsi, e così, più che rispondere si accenna, si allude, come in un gioco verbale o di prestigio. In un’età incerta, in cui facilmente si può essere contraddetti da un’interpretazione differente rispetto alla propria, in cui si moltiplicano i centri e i soggetti creatori della Verità, tendiamo a mettersi al riparo. Si dà atto così della complessità del reale ma si rinuncia a spiegarlo, perché xiv

Premessa non imbrigliabile, non percepibile nella sua interezza ma solo attraverso singoli frammenti disposti in spazi discreti, rompendo anche la circolarità perfetta e tautologica della spiegazione ermeneutica, in cui la parte, pur rimanendo frammentata e isolata, dava ragione dell’insieme solo per il fatto di essere percepita. L’insieme, per contro, il tutto che si dava come insieme algebrico delle sue parti, si sfalda tra le maglie del pensiero che cerca di tenerlo insieme. Tutto quello che sembra restare dal punto di vista operativo è solo un’epistemologia della giustapposizione, in cui cadono anche quei fragili rapporti tra l’insieme e le sue parti e che progressivamente vanno a coincidere, tanto che non si riescono più a distinguere.

ma può eventualmente avere delle ripercussioni sul metodo e sulle pratiche, in maniera non marginale e sicuramente graduale. Indagare sui mutamenti ci impone di riflettere sul fatto che questi sono in atto anche mentre scriviamo e che spesso ciò che percepiamo distintamente è il prodotto cristallizzato di un processo già trascorso, mentre ciò che caratterizza queste svolte teoriche e paradigmatiche è il loro continuo fermentare, evaporare, coagularsi, in continui cambi di direzione. Riflettere sui modi e sulle possibilità di queste trasformazioni significa discutere anche degli indirizzi da seguire per progettare il futuro. Cambiare e capire le logiche che presiedono a tali cambiamenti significa eventualmente partecipare al tracciamento di un percorso. Si è riflettuto sul perché e nel corso dell’esposizione se ne approfondiranno le ragioni.

Mettere dunque a fuoco le tendenze teoriche e di metodo dell’archeologia classica attraverso le riviste archeologiche non è fare della teoria pura o mettere in pratica quel tipo di bluffing archaeology che nasconde la propria mancanza di dati discettando della validità di quelli degli altri2. Significa piuttosto creare una di queste idee da criticare, mettendo sul piatto un argomento di discussione che renda un discorso sull’archeologia teorica ancora possibile, oltre che un possibile strumento di ricerca: è creare un insieme coerente (o incoerente che sia) di dati su cui riflettere e da poter utilizzare; è tentare di indicare gli ostacoli, le soluzioni, le alternative; è fare la storia di un fattore storico, attraverso testi specialistici che, esplicitamente o meno, racchiudono in sé le epistemologie del presente e le basi teoriche del fare storia; è tentare di seguire la direzione presa dall’archeologia e spiegarne le ragioni per proporre dei correttivi o decidere sulla correttezza degli strumenti e delle scelte fatte.

7.  Comparare il comparabile. La ricognizione delle riviste archeologiche diventa un perno essenziale della strategia di comprensione dei sommovimenti che sconvolgono l’archeologia contemporanea3. In un lavoro recente, le ricercatrici argentine Ma. Soledad Mallía e Aixa Solange Vidal4 hanno messo a punto uno studio di ricerca “bibliometrica”, nel tentativo di “misurare” le prospettive e le tendenze dell’archeologia pre- e colombiana praticata in contesto europeo, proprio utilizzando articoli di riviste come dati da laboratorio. Prendendo in esame due autorevoli riviste spagnole pubblicate entrambe a Madrid, le autrici hanno isolato e messo a punto “from the opposite corner”, cioè da una visuale opposta a quella europea coloniale, una serie di indicatori e di variabili che hanno ispirato anche il presente lavoro e che qui di seguito riportiamo: 1) aree geografiche studiate; 2) argomenti trattati (ecologia, teoria, spazio, architettura, ecc.); 3) periodi studiati; 4) fonti utilizzate (scritte, materiali, ecc.); 5) nazionalità degli autori. Alla base della loro ricerca vi è un intento politico laddove si tenta di modificare gli equilibri egemoni e fare un passo verso una maggiore comprensione globale delle dinamiche accademiche, sociali e infine storico-archeologiche.

6.  L’ermeneutica del testo. Affrontando un lavoro di questo tipo, che è sostanzialmente una ricognizione di testi e articoli di riviste archeologiche (considerati come testi puri), bisogna inevitabilmente creare un campo d’azione, un contesto delimitato, tracciandone i limiti cronologici, spaziali, topografici e tematici. In termini spaziali i limiti saranno quelli di alcune riviste specialistiche di archeologia principalmente di matrice anglo-americana. Se si vuole, lo spazio fisico è rappresentato dalla rivista e dai limiti tracciati dai testi in essa presenti, dalle linee editoriali e dalle loro trasformazioni. Il limite costituito dalle riviste non ci impedirà, a scopo argomentativo, di utilizzare, o fare riferimento a monografie e articoli di altre riviste giudicate da chi scrive di particolare interesse teorico perché legate esplicitamente e programmaticamente a certe discussioni epistemologiche ed ermeneutiche che riguardano questa ricerca. Data l’impossibilità (a prescindere dalla scelta dello spettro cronologico), ma anche la sostanziale inutilità di dare una lettura esaustiva e sistematica di tutti gli articoli nella loro interezza e puntualità, si sceglieranno dei criteri ben precisi di selezione in rapporto ai testi da visionare.

Cambiando paese e continente, la studiosa francese Sarah Rey ha affrontato uno studio non dissimile. La ricerca era nell’ambito del progetto portato avanti da Michel Gras sulla ricostruzione della storia (delle tendenze) dell’École Française de Rome. Per fare questo la ricercatrice ha operato sia vagliando gli articoli pubblicati sui Mélanges de l’École Française de Rome (MEFRA) sia prendendo in considerazione la documentazione d’archivio disponibile. Gli intenti politici sembrano in questo caso del tutto assenti o, perlomeno, non esplicitati. Tuttavia, incuriosisce la scelta cronologica dell’indagine che parte dai primi anni della fondazione per terminare appena dopo gli anni Quaranta. Quando mi sono recato al Collège de France, dove la Rey stava terminando la sua ricerca,

Affrontare lo studio dei testi di riviste non è una faccenda esclusivamente filologica o prettamente archeologica,

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3  Precedente illustre del secolo scorso Dyson 1985 e la sua comparazione tra American Antiquity e l’American Journal of Archaeology e più recentemente Terrenato 2002 su archeologia classica e Antiquity, per citarne solo alcuni. 4  Soledad Mallía, Solange Vidal 2009.

Bahn 1991, pp. 3-15; Manacorda 2000a, pp. 5-6.

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L’ideologia degli archeologi ho avuto la possibilità di domandarle i motivi di questa scelta. La ricercatrice, rispondendomi, l’ha giustificata secondo quelle che erano le ragioni del politicamente corretto: risalire troppo a ridosso dei nostri giorni avrebbe significato discutere idee ed approcci di studiosi ancora vivi, con il rischio per lei di dover affrontare situazioni di forte imbarazzo. Il colloquio fu informale ma la risposta resta ugualmente significativa. A me non interessa mettere in atto questo tipo di precauzioni ma piuttosto immergermi nel dibattito contemporaneo. Creare qualcosa che non si limiti alla pars destruens. Qualcosa che sia una critica, ma allo stesso tempo un modo per porre le basi di qualcosa di nuovo. Non basta l’eclettismo e neanche la politesse per far fronte alle grandi sfide epistemiche del presente. A forza di diventare debole il pensiero rischia di diventare inesistente.

La ricerca prenderà avvio all’incirca dagli inizi degli anni Novanta. Il limite di arrivo sarà evidentemente l’età contemporanea, quella che alcuni archeologi e archeologhe hanno ribattezzato the black hole, ma con altre sfumature7. Qui si crea una delle cesure significative dell’archeologia classica angloamericana e non solo. L’analisi dei testi si interromperà al 2010, un limite operativo segnato in maniera emblematica quando ci è parso che l’effetto straniante perdesse la sua efficacia diventando presentismo. L’ultimo decennio è stato dunque lasciato alla trattazione libera, discorsiva e non analitica. Si tratterà inoltre, ma solo marginalmente, i termini del travagliato passaggio dalla New archaeology all’archeologia processuale e lo scontro di quest’ultima con la Post archaelogy. Le rispettive argomentazioni, i protagonisti, i conflitti e le prese di posizione di queste due correnti dell’archeologia angloamericana avranno diritto di cittadinanza solo all’interno del più vasto tema della dialettica moderno/postmoderno, così come la prolificazione e la deflagrazione delle varie archeologie postprocessuali8, delle quali si è tenuto conto discrezionalmente in funzione della loro precoce messa in discussione.

Un altro lavoro per certi versi simile è stato condotto da Giulia Facchin, allieva del prof. Daniele Manacorda, nella sua tesi di laurea specialistica sulla rivista Dialoghi di Archeologia5. La differenza macroscopica con la presente indagine è che quella dei DdA rappresenta un’esperienza conclusa in sé (la rivista non fu più pubblicata a partire dal 1992) sul cui valore gli amici della rivista più volte hanno avuto la possibilità di tornare a riflettere da diverse posizioni e con differenti conclusioni6. Inoltre, l’autrice si è potuta avvalere dell’importante strumento dell’inchiesta diretta. Una sorta di etnografia sul campo. Per evidenti motivi tutto questo non ci è stato possibile. La nostra messa a punto verterà, quanto più possibile, sulle riflessioni esplicitate dagli autori nei testi, ma per la maggior parte si avvarrà di strumenti più affini alla critica che all’etnografia o all’archeologia. Le riflessioni scaturiranno dai testi medesimi, decriptati ed interpretati alla luce di contesti epistemologici più ampi, quando saremo in grado di ricostruirne la genealogia cognitiva. Come si sa l’uso dei testi (sia antichi che moderni) porta con sé un rischio. Il rischio è quello di usarli a carattere probatorio, per confermare le tesi di partenza. Ma qui si cercherà piuttosto di mettere in luce delle differenze e cercarne le ragioni. Fare, quindi, un inventario delle differenze.

Le critiche più serrate a una di queste archeologie, ovvero quella contestuale (o interpretativa) di Ian Hodder9, si fa strada proprio all’inizio degli anni Novanta. In questi stessi anni si registrano attacchi e ripensamenti che sono sia il sintomo di una crisi precoce dell’archeologia postmoderna, sia, per contrasto, l’indizio di una certa ritrosia ad abbandonare quelle istanze. Del resto, era solo da pochi anni che l’archeologia si confrontava con temi postmoderni e già vedeva le proprie posizioni vacillare dall’interno. Un confronto stabilito su basi fragili e di cui forse l’archeologia ignorava le conseguenze in tutta la loro portata, povera com’era di solide basi epistemologiche. L’entusiasmo un po’ ingenuo e a tratti miope con cui si abbracciavano le idiosincrasie del postmoderno, salutata come un’era totalmente nuova e liberatoria, produceva ora smarrimento e panico di fronte al liquido e all’incerto.

8.  Questione di tempi. Dopo aver messo a punto i nostri limiti epistemici, definendo cioè lo spazio legittimo della ricerca e l’oggetto da indagare, resta da decidere l’ambito cronologico da prendere in considerazione. Nonostante vi sia, come in tutte le scelte prese in seno a una ricerca, un certo grado di arbitrarietà, la scelta dei limiti temporali ci impone una riflessione più approfondita. Non solo perché la periodizzazione è uno degli argomenti e dei problemi principali di una disciplina storica come l’archeologia, ma anche perché la sua impostazione e la sua giustificazione sono premesse sia concettuali che metodologiche di un certo modo di fare ricerca. Esse danno subito il grado e l’ottica con cui si intenderà proseguire il discorso.

Già agli inizi degli anni Novanta, in piena esplosione postprocessuale, due autori scandinavi criticavano l’archeologia interpretativa/contestuale di Ian Hodder basando le proprie argomentazioni sulla tradizione filosofica tedesca praticata nel vecchio continente. È su questo piano che si gioca la partita. La loro messa a punto del pensiero di Hodder parte dalla constatazione che “It is remarkable that there has been little or no reference to the German hermeneutic tradition in these attempts at establishing an interpretative archaeology”. Ciò che è ancora più sorprendente, ma conseguenza inevitabile di questa “distrazione”, è che la filosofia della storia elaborata da R. G. Collingwood così frequentemente citata

5  Facchin G., Per una storia dei “Dialoghi di archeologia”1967-1992 (tesi di laurea relatore: Daniele Manacorda; correlatore: Emanuele Papi, Siena 2005). 6  Su tutti Carandini 2008; Greco, Carandini 2007.

Rathje, La Motta, Longacre 2002. Già messo abbondantemente in rilievo in due articoli da Cuozzo 1996, 2000. 9  Hodder 1982a, 1986, 1990a, 1991a. 7  8 

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Premessa 9.  La fine che non arriva. Quando Romano Luperini decideva di pubblicare in un volumetto del 200512 una serie di saggi sulla fine del postmoderno non stava forse pensando all’archeologia, e magari non immaginava come questa disciplina relativamente giovane nel campo delle scienze sociali fosse coinvolta nel dibattito. La spasmodica e frenetica (e qualche volta idiosincratica) ricerca di strumenti, di metodi, ma soprattutto di solide basi epistemologiche, ha donato all’archeologia un’impronta interdisciplinare molto marcata sin dai suoi esordi. Questa vocazione è forse dovuta al suo carattere intrinsecamente liminale, sia dal punto di vista epistemologico (la soglia tra le scienze umane e le scienze “dure”), sia da quello socioculturale e politico (la soglia tra accademia/specialismo e pubblico/diffusione). Se da un lato il vantaggio evidente è stato quello di suscitare una continua riflessione teorica e un costante confronto con altre discipline, dall’altro si è sempre verificata una dipendenza a livello epistemologico da altre discipline sociali più dinamiche a livello teorico. Insomma, Prometeo è rimasto incatenato.

da Hodder, rappresenterebbe “well-know hermeneutic positions that have been widely debated and criticized within Continental philosophy and historiography”10. Ma torneremo in seguito su queste critiche. In sostanza si accusava Hodder di aver ignorato la tradizione europea. Sono queste dinamiche egemoniche tra tradizioni culturali differenti che cercheremo, quando possibile, di analizzare e rendere manifeste. Dall’angolo opposto del Continente, ma contiguo al background dominante, l’altro che da subito ha criticato una certa parte dell’archeologia interpretativa/contestuale è stato Bruce Trigger. In ambito angloamericano Trigger ha rappresentato sempre un’anomalia, un’eccezione, per il suo rapporto stretto con un certo tipo di materialismo temperato e per la sua affinità all’archeologia marxista vicina alle posizioni di Vere Gordon Childe. Questo avvicinamento alle ragioni profonde che animavano il pensiero dell’archeologo australiano accentuerà la sua posizione atipica nella riflessione teorica archeologica atlantica. In questa prospettiva il pensiero marxiano sarà uno dei temi su cui rifletteremo nel corso di queste pagine.

A ben guardare, la fine del postmoderno è, semplificando al massimo, la consapevolezza di un vuoto epistemologico scavato e creato da circa un secolo di decostruzione del pensiero cartesiano. Frantumato e ridotto in briciole sembra di non poterne più scorgere le fattezze. C’è in questo vuoto vertiginoso un pericolo e un’opportunità. Il pericolo è quello che nel vuoto conoscitivo, che è anche vuoto di autorità e legittimazione, trovino spazio fantasmi e disconnessioni. La possibilità è per l’archeologia di partecipare, finalmente non da comprimaria, alla costruzione di un sapere nuovo e condiviso, contribuendo con la sua ormai matura esperienza nel campo della cultura materiale e delle conciliazioni teoriche.

Un’altra importante cesura si registra all’inizio del nuovo millennio, cesura le cui ragioni verranno esplicitate in seguito, ma che, si può accennare, sono dovute all’inizio di nuove geografie di potere a livello globale. Mi si lasci qui precisare che i ritmi scelti rappresenteranno dei cambiamenti di rotta o degli scarti all’interno della disciplina (nel senso di cambiamenti repentini di direzione), ma che saranno cesure inevitabilmente legate a un contesto storico più generale. Non interessano qui le date precise ma dei termini indicativi da cui, ed entro i quali, si possono avvertire e spiegare taluni fenomeni. Si dirà che bisognerebbe, piuttosto che dar ragione dei cambiamenti, spiegare i motivi delle continuità11. Ma spesso è sezionando, anatomizzando, separando in spazi discreti con fervore analitico che si individuano i fattori e gli elementi decisivi, come per gli strati archeologici. Scavando stratigraficamente si creano unità minime e si moltiplicano le separazioni lacerando il tessuto storico-stratigrafico, nello sforzo etico e narrativo di ricomporre quel ritmo storico che prima non aveva forma. Se si separa troppo si perde il continuum storico e il senso segnico della cultura materiale; se si accorpa eccessivamente, si rischia di omogeneizzare e di dar vita ad una continuità che fagocita le differenze e che nello stesso tempo le dissolve, sovrainterpretando. Si creano così due tendenze ben distinte, che si inverano in due strategie e approcci conoscitivi differenti.

Armando De Guio ha ben riassunto questo quadro che sconvolge l’archeologia, che ne provoca il senso di smarrimento e che produce una sorta di cortocircuito epistemico “informato ad un andamento parossistico con patologica alternanza ‘post-moderna’ di decostruzionismo/ ipercostruzionismo e ricerca spasmodica di fresh blood in una kermesse epocale (ma anche volatile) fin du millénaire, dove alla vituperata ‘tirannia dei metodi’ della ‘vetero/ new archaeology’ si sostituisce una più perversa ‘tirannia delle epistemologie’ (post/post/post…) in frenetico ricambio. La scena in cui si riproduce questo metastabile teatro (una forma tipica di ‘archaeology as a theatre’) presenta un singolare omomorfismo proprio col nostro oggetto specifico di indagine: si tratta in effetti (visto dal nostro estremo negativo del gradiente canonico di core/ periphery/margin di Sherrat 1994) di una emblematica istanza di ‘landscape of power’ (ideazionale, ma anche accademico, editoriale…), la cui traiettoria morfogenetica appare spesso informata ad una “geometria” non proprio euclidea, ma piuttosto caotica/frattale da ‘attori strani’ (ma non sempre… : cfr. Casati 1991). In effetti, al di là

10  Johnsen, Olsen 1992, p. 420. Riporterò questo passo per intero che ritengo di estrema importanza: “Various critics, whose critiques are often lumped together under the heading “post-processual”, have strongly challenged the positivistic foundation of the preceding “new” or “processual” archaeology. Central to this development is the so-called “contextual” archaeology proposed by Ian Hodder, in which archaeology is focused on as an interpretative practice. This “interpretative turn”, which at first sight seems to be a verstehen antithesis to the explanatory framework applied by the new archaeology, constitutes the background of the present paper, which is a critical discussion of contextual archaeology in relation to its hermeneutic-philosophical background”. 11  Shanks, Tilley 1987.

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Luperini 2005.

L’ideologia degli archeologi di questa sofferta cortina di ironia al contorno, quello che sembra realmente rilevante è che proprio sul terreno ipersensitivo dell’archeologia sociale (con le sue istanze, passate e presenti e future di conflitto, così centrali per i ‘landscapes of power’) si sta giocando la partita principale della ricerca di una neo-ortodossia paradigmatica per l’intera Archeologia.”13. Questi i limiti e i termini più evidenti del metodo e dell’argomentazione che seguirò, ora ineliminabili in quanto fisiologici al contesto d’indagine, ora imprescindibili perché frutto di una presa di posizione civile. Ma si potrebbe anche dire sociale, politica o ideologica. 10.  L’ordine del discorso. Per quel che riguarda l’organizzazione del testo vera e propria, l’ordine del discorso, come in sostanza procederemo dal punto di vista argomentativo per affrontare i temi proposti, secondo un percorso rizomatico fatto di molteplici rivoli che si perdono, si alimentano, spariscono per poi risalire in superficie e ricomparire, il lavoro è stato diviso in quattro parti: 1) la prima, che potremmo definire epistemologica, è costruita in modo da fornire lo spazio della conoscenza, la rete storico-filosofica all’interno della quale si snoda il nostro percorso. Nel capitolo I affronteremo in maniera problematica e critica la separazione retorica e pratica venutasi a creare tra moderno e postmoderno, entro cui si organizza l’altra separazione che ci riguarda più da vicino tra archeologia processuale e postprocessuale, analizzata nel capitolo II; 2) la seconda, analitica ed euristica, prevede dapprima l’esposizione e l’analisi dei singoli articoli di alcune delle più significative riviste archeologiche, principalmente angloamericane, i cui risultati saranno esposti nel capitolo III. L’obiettivo è quello di creare quell’inventario delle differenze e similitudini che forniranno la base quantitativa per alcune delle nostre riflessioni su dinamiche di potere disciplinari operanti su alcune sub-discipline archeologiche e all’interno delle riviste stesse, che svilupperemo nel capitolo IV; 3) la terza parte, che potremmo invece definire ermeneutica, attraverso un’operazione interpretativa portata a un livello ulteriore, vuole dar ragione di alcune trasformazioni paradigmatiche occorse all’interno della disciplina archeologica e inverate nelle narrazioni archeologiche e nelle dinamiche egemoniche disciplinari. Faremo questo con due procedimenti distinti: dapprima nel capitolo V prenderemo in considerazione alcuni slittamenti e svolte paradigmatiche recenti, analizzando alcuni espliciti manifesti programmatici. Successivamente, nel capitolo VI, metteremo in prospettiva questi sovvertimenti teorici all’interno di una riflessione più ampia e profonda, per darne una spiegazione per così dire morfologico-filosofica, tornando sui nostri passi e riprendendo la separazione moderno/postmoderno sotto una nuova luce; 4) infine, nella quarta e ultima parte rifletteremo sul ruolo rivestito dall’archeologia classica in particolare, tra le tante branche

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dell’archeologia che potevamo analizzare, sia all’interno di un contesto propriamente disciplinare (capitolo VII), sia in un contesto più vasto, che rifletta sulle implicazioni etiche, politiche e sociali di alcune trasformazioni paradigmatiche, tentando anche di proporre alcune vie d’uscita e possibili sviluppi per il futuro. Sullo sfondo vi sono due opposizioni binarie intorno alle quali si organizza il discorso: una teorica, come detto in precedenza, ovvero la presunta opposizione binaria moderno/postmoderno, che non esaurisce e non è sufficiente a spiegare tutto il reale, ma rappresenta un punto di vista, dichiarato programmatico e dunque criticabile come qualsiasi altra procedura argomentativa; la seconda separazione/ricomposizione è quella accademica, tra una tradizione archeologica (e filosofica) angloamericana e europeo-continentale, dal mio punto di vista egemonica, e una storico-antropologica mediterranea dall’altra, per certi aspetti periferica. Anche questa è una premessa dichiarata e magari problematica, frammentaria, limitata, criticabile, ma pur sempre legittima e parte anch’essa del posizionamento teorico che si intende rendere esplicito e delle variabili da considerare.

De Guio 2001, pp. 3-4.

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1 Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. On définit souvent la modernité par l’humanisme, soit pour saluer la naissance de l’homme, soit pour annonce sa mort. Mais cette habitude même est moderne parce qu’elle reste asymétrique. Elle oublie la naissance conjointe de la «non-humanité», celle des choses, ou des objets, ou des bêtes, et celle, non moins étrange, d’un Dieu barré, hors-jeu. La modernité vient de la création conjointe et du traitement séparé des trois communautés pendant que, en dessous, les hybrides continuent de se multiplier par l’effet même de ce traitement séparé. C’est cette double séparation qu’il nous faut reconstruire entre le haut et le bas d’une part, entre les humains et les non–humaines d’autre part1. Bruno Latour 1.1. Definizioni, recrudescenze e problemi di periodizzazione.1

dell’illuminismo (Amsterdam, 1947). Il libro comincia con una lunga citazione di Sir Francis Bacon, una sorta di manifesto dell’empirismo e del buon metodo scientifico basato sull’induzione. L’intento di Bacone, però, era principalmente quello di gettare in definitivo discredito le vecchie metodologie e filosofie della scienza e di lanciare un’accusa verso coloro che le praticavano. Verso coloro cioè che “prima credono che altri sappiano ciò che essi non sanno, e poi di sapere essi stessi ciò che non sanno. Ma la credulità, l’avversione al dubbio, l’avventatezza nelle risposte, lo sfoggio di cultura, la paura di contraddire, l’indolenza nelle ricerche personali, il feticismo verbale, la tendenza a fermarsi alle conoscenze parziali, tutto ciò e altre cose ancora hanno vietato le felici nozze dell’intelletto umano con la natura delle cose (corsivo mio), per accoppiarlo invece a concetti vani e ad esperimenti disordinati. […] La superiorità dell’uomo è nel sapere, su questo non c’è alcun dubbio”3.

Definire brevemente il rapporto tra concetti è funzionale al discorso. La dialettica di costruzione tra “moderno” e “postmoderno” serve qui a tracciare una parabola specifica che dà luogo al contesto attuale della mia analisi. L’obiettivo non è tanto quello di stabilire una genealogia dei concetti del pensiero moderno o una periodizzazione dei suoi vari momenti che difficilmente esiste e che difficilmente saremmo in grado di svolgere, né tanto meno quello di tentare una nuova definizione di postmodernità. Molto più semplicemente l’intento è di chiarire il campo delle tensioni al momento della presente ricerca, quali concetti siano operativi nell’ambito dell’epistemologia contemporanea e, se possibile, cercare di individuarne la retorica funzionale ai fini dello studio del presente. Difendere o rigettare nuove posizioni, tanto quanto costruirne di nuove e alternative dipende, in un certo grado, dalla capacità di comprendere il ruolo e l’efficacia dei paradigmi operanti nel dibattito passato e contemporaneo; cogliere sfumature, incomprensioni o riproposizioni laddove, a volte, ciò che si ha di fronte è la parola “senza” il concetto.

A dispetto della citazione, com’è noto, il libro si prefiggeva l’obiettivo opposto rispetto a quello del filosofo inglese. L’illuminismo, secondo i due autori, difese e propugnò l’autodeterminazione razionale degli individui ma finì con imporre al mondo una razionalità scientifica in grado di neutralizzare, se non di impedire, la stessa libertà che si rivendicava al soggetto. Questa ragione scientifica, basata sull’oggettivazione della realtà, si proponeva di dominare tutto il mondo della natura allo scopo di un suo sfruttamento strumentale. Con lo sviluppo della tecnologia, anche l’uomo, la vita umana stessa, sono diventati oggetto di analisi a scopo di dominio e manipolazione. Di fatto, il progetto illuminista si è risolto nel suo opposto. Tra la ragione come facoltà della scienza e la ragione come facoltà della libertà si è così sviluppato un conflitto, con la vittoria della razionalità tecnocratica. A differenza dei marxisti tradizionali, Horkheimer e Adorno credevano che non fosse più tanto la proprietà privata dei mezzi di produzione a generare nuove forme di schiavitù e asservimento, ma che al contrario fosse, per così dire, la volontà di potenza iscritta nel codice genetico della ragione strumentale a generare l’appropriazione del mondo da parte di ristrette èlites. Non solo, ormai era anche chiaro

Questa operazione di chiarificazione delle procedure e dei concetti su una parte dell’epistemologia occidentale2 ci sarà d’aiuto nell’affrontare gli stessi temi e le stesse opposizioni nel pensiero archeologico e, in quanto funzionale al nostro ragionamento, essa è tesa a far emergere taluni aspetti piuttosto che altri in maniera strumentale e dunque parziale (di parte). 1.2. La crisi della ragione. All’indomani della Seconda guerra mondiale, Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, due tra i più importanti esponenti della scuola di Francoforte e della Teoria Critica, davano alle stampe La Dialettica Latour 1991, p. 23. Qui epistemologia è intesa nel senso più generico di teoria della conoscenza. La complessità del termine è ben evidente nelle cinque distinzioni che ne faceva Gregory Bateson (1972): epistemologia come teoria della conoscenza; epistemologia come paradigma; epistemologia come cosmologia biologica; epistemologia come scienza; epistemologia come struttura del carattere. 1  2 

3  Montagu B. (ed.), Praise of Knowledge, Miscellaneous Tracts upon Human Philosophy in the Works of Francis Bacon I (1825), pp. 254-55 [cit. Horkheimer, Adorno 1966, pp. 11-12].

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L’ideologia degli archeologi che l’abolizione della proprietà privata non aveva portato ad alcuna liberazione.

patriarcale nei confronti della natura e degli altri esseri umani tipico dell’illuminismo, ma già presente in nuce nelle filosofie (e nelle magie) del Rinascimento di Cartesio e Bacone. Se la filosofia oggettiva è servita quale orientamento attorno a questioni di fondo come l’idea del massimo Bene, il problema del destino umano e il modo di realizzare i fini ultimi, la filosofia soggettiva ha calcato la mano sul rifiuto di riconoscere e valutare i fini limitandosi a considerare l’efficienza dei mezzi. Tale atteggiamento è tipico di un razionalismo solo formale e strumentale, insensibile, privo di anima. L’atteggiamento soggettivo dichiara impossibile un esame scientifico degli scopi. E così chiarisce Horkheimer: “Soggettivandosi, la ragione si è anche formalizzata. Il formalismo della ragione ha implicazioni teoriche e pratiche di vasta portata. Per le concezioni soggettivistiche, il pensiero non può essere di nessuna utilità per stabilire se un fine è desiderabile in sé. La validità degli ideali, i criteri delle nostre azioni e convinzioni, i principi basilari dell’etica e della politica, tutte le nostre decisioni fondamentali sono fatti dipendere dai fattori diversi dalla ragione”6. Ancora: “La ragione è ormai completamente soggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura.”7. Ciò nonostante, Horkheimer non propone un ritorno alla ragione oggettiva: “Il compito della filosofia non sta nel difendere ostinatamente una di queste due concezioni a spese dell’altra, ma nell’incoraggiare la critica reciproca. [...] Il falso non è l’uno o l’altro di questi concetti, bensì l’ipostatizzazione di uno di essi a spese dell’altro”8. Ma il tono generale non è ottimistico: una nuova dialettica tra uomo e uomo, tra insieme dell’umanità e natura è di difficilissima realizzazione e altissima improbabilità. “Se – scrive Horkheimer – volessimo parlare di una malattia della ragione, questa malattia dovrebbe essere intesa come non come un male che ha colpito la ragione in un dato momento storico, ma come qualcosa d’inseparabile dalla natura della ragione nella civiltà, così come l’abbiamo conosciuta fin qui. La malattia della ragione sta nel fatto che essa è nata dal bisogno umano di dominare la natura”9. Horkheimer esprime a questo punto una sfiducia nella prassi politica, la quale è per sua intrinseca costituzione uno scontro tra soggettività, un agire quasi inconsapevole e meccanico che non fa che riprodurre l’atteggiamento aggressivo di tipo cartesiano e rivaluta a dismisura il compito critico della filosofia, la quale diviene il modo e l’unica via per acquisire coscienza della follia in cui è caduto l’uomo borghese (e proletario) credendosi padrone della natura. La ragione può diventare ragionevole solo riflettendo sul male del mondo così com’è prodotto e riprodotto dall’uomo; in questa autocritica, la ragione rimarrà nello stesso tempo fedele a sé stessa, riaffermando e applicando senza nessun secondo fine questo principio di verità che dobbiamo alla ragione soltanto. La schiavitù della natura si tradurrà in schiavitù dell’uomo, e viceversa,

Dalla volontà di dominio possono sorgere, come nel comunismo sovietico, forme ancora più aberranti di oppressione di quelle storicamente espresse dalle società borghesi. Secondo Horkheimer e Adorno c’è una perfetta identità tra logica del dominio e logica illuministica. “Illuminismo” diventa così sinonimo di pensiero borghese e il suo significato viene esteso (secondo alcuni in modo eccessivo e confusionario) a tutta la tradizione soggettivistica, da Cartesio a Bacone, ai suoi “foschi scrittori” (Machiavelli, Hobbes e Mandeville), senza ignorare nemmeno Kant. Il criticismo kantiano, secondo Horkheimer e Adorno, ha ridotto l’oggetto a semplice materiale caotico. La mente del soggetto assume così il compito di piegarlo al suo modo di vedere a priori. Se Kant non è che l’estrema consapevolezza del borghese, il positivismo di Comte, Stuart Mill e Spencer ne è la sua definitiva consacrazione mentre il pragmatismo americano non è altro che l’espressione di un efficientismo razionalizzante e privo di scrupoli. L’illuminismo, che in origine si proponeva di rendere l’uomo meno timido e pauroso nei confronti della natura e dell’ignoto, del mito e delle superstizioni religiose, ha così liberato una sorta di mostruosità insita nell’uomo stesso che si è scatenata prima nei confronti della natura e poi nei confronti dei propri simili. Tuttavia, proprio questa “follia” razionalistica si è risolta, in modo quasi hegeliano-marxiana, nella sua negazione: il dominatore si è fatto dominare dai suoi stessi strumenti, dai suoi servi e dalla sua praxis. Completamente scisso dalla natura, alienato del suo tempo, quasi dimentico del fatto che alla base del suo fare, dell’essere homo faber, c’era la ricerca di maggior piacere e più grandi vantaggi, il borghese-illuminista si è imposto un’etica e una disciplina rinunciataria, una forma di continua astinenza a favore dell’impegno e del lavoro, diventando così identico al suo strumento: l’operaio contemporaneo. Metafora di questa condizione alienata sarebbe il mitico Ulisse e l’Odissea la sua storia (forse vi sono in questa scelta più echi di Joyce che di Omero) 4. In un successivo lavoro Horkheimer riuniva gli interventi presentati in una serie di conferenze tenute negli Stati Uniti, precisando ulteriormente le tesi sostenute nella Dialettica dell’illuminismo5. Nelle conferenze americane Horkheimer distingueva tra una ragione oggettiva e una soggettiva, dichiarando la prima come elemento comune ai grandi sistemi filosofici (da Platone ad Aristotele, attraverso la Scolastica e l’Idealismo tedesco), e individuava nella seconda il prodromo di quell’atteggiamento aggressivo4  Horkheimer e Adorno (1966) utilizzano l’allegoria dell’homo faber come Ulisse con le sirene. Facendosi legare all’albero maestro, egli può sentire l’ammaliante richiamo della felicità e del sublime piacere ma non può approfittarne. La lezione che Omero intendeva veicolare era un po’ diversa. Ulisse volle solo conoscere direttamente e non per “sentito dire”, il limite estremo della tentazione, il canto sovraumano, la musica del paradiso come anticamera dell’inferno, senza alcuna intenzione però di finire all’inferno egli stesso. Che ci sia finito, per incontrare Achille, è un’altra storia. 5  Horkheimer 1969.

Horkheimer 1969. Ibidem. 8  Ibidem. 9  Ibidem. 6  7 

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. fino a quando l’uomo non saprà capire la sua stessa ragione e il processo con cui ha creato e mantiene tuttora in vita l’antagonismo che minaccia di distruggerlo. La ragione può essere più che natura solo rendendosi conto della sua “naturalità”, che consiste nella sua tendenza al dominio, quella tendenza che paradossalmente aliena dalla natura10.

di fiducia in suo nome, nei confronti dell’essere umano e della ragione stessa; un inno al progresso dell’umanità. Nel 1917 l’Europa era sull’orlo della guerra, ma anche alle soglie di una rivoluzione socialista che non si verificò mai13, sconfessando le previsioni del Marx storico e politico (del Marx marxista)14. Furono proprio la mancata rivoluzione socialista mondiale e le due guerre a provocare la spinta della “scuola critica” verso la decodificazione di quello che si celava dietro le auto-rappresentazioni del pensiero (alla corrispondenza tra parole e cose, tra ragione e realtà, tra pensiero e verità), nel tentativo di capire quali forze avessero impedito la rivoluzione socialista mondiale o perché, una volta ottenuto il suffragio universale, le masse non avessero avuto la forza di cambiare le cose servendosi dello strumento della democrazia borghese.

I critici delle posizioni filosofiche di Horkheimer, di Adorno e in parte di Marcuse si sono domandati se tale visione costituisca un superamento del marxismo, un suo semplice aggiornamento di fronte alle grandi tragedie del Novecento (nazismo e gulag, due facce della stessa medaglia), oppure se il tutto non costituisca che un semplice ritorno ad un modo pre-marxista di pensare, un superamento a ritroso delle Tesi su Feuerbach in particolare11. La sfiducia nella prassi, il fatto che l’unico barlume di speranza sia affidato alla filosofia critica, proprio come unica prassi possibile, in realtà, evidenzia qualcosa di diverso: le categorie marxiane sono state, con il linguaggio tipicamente para-freudiano della scuola di Francoforte, introiettate, digerite e rielaborate nella teoria critica. Lo scontro tra dominatori e dominati non ha portato alla vittoria dei migliori (probabilmente perché tutti caduti lungo la via) ma dei peggiori, del pessimo sostrato latente all’umanità costituito dalla volontà di potenza, cioè dalla logica di dominio. Come si vedrà esaminando gli esiti dell’ultimo Horkheimer, ciò lo porterà ad abbandonare anche una prospettiva radicalmente di sinistra, semplicemente anticapitalistica, essendo l’anticapitalismo stesso una categoria insufficiente a lottare contro il vero male del mondo. Ma non addentriamoci oltre nel ruolo che rivestì Marx e la sua filosofia, su cui torneremo in seguito.

Le cose sono però più complesse. La periodizzazione del moderno rischia di condurci in una rappresentazione del medesimo piuttosto semplicistica e lineare, ad una germinazione continua e unilineare. Le cose si complicano ulteriormente se si cerca di armonizzare la periodizzazione “culturale” con la periodizzazione “economica”. Quest’ultima è intimamente legata al sorgere del modo di produzione capitalistico e tende a scorgere se non una certa continuità, perlomeno una periodizzazione di largo respiro. Secondo le tesi di Ernest Mandel il capitalismo avrebbe avuto tre stadi distinti, ciascuno dei quali segnerebbe la dialettica espansione verso lo stadio successivo: il capitalismo di mercato; lo stadio del monopolio e dell’imperialismo; lo stadio post-industriale nel quale viviamo: “The fundamental revolutions in power technology—the technology of the production of motive machines by machines—thus appears as the determinant moment in revolutions of technology as a whole. Machine production of steam-driven motors since 1848; machine production of electric and combustion motors since the 90s of the 19th century; machine production of electronic and nuclear-powered apparatuses since the 40s of the 20th century—these are the three general revolutions in technology engendered by the capitalist mode of production since the ‘original’ industrial revolution of the later 18th century.”15. Nello stesso senso vanno le riflessioni del critico letterario americano e teorico culturale Fredric Jameson. Quest’ultimo, pur concordando con la tripartizione mandeliana, diverge nella terminologia. Secondo Jameson sarebbe sbagliato parlare di era postindustriale “what might better be termed multinational capital.”16.

Ciò che ci interessa puntualizzare, è la forte frattura avvertita dai seguaci della scuola di Francoforte: uno scardinamento totale del pensiero occidentale causato dal trauma dei conflitti bellici che si tramutava in una vera e propria “crisi della ragione”. 1.2.1. Periodizzare il moderno (fase 1). In questa critica serrata al pensiero moderno si rivelano, per contrasto, tutti i limiti della sua concettualizzazione. In un’ipotetica e riduttiva periodizzazione dello stesso, potremmo tracciarne la lunga parabola che tocca Bacone, Newton, Cartesio, Hobbes e Hume, passando per l’illuminismo e la brusca accelerata della rivoluzione industriale. Scopriremmo che nell’analisi delle caratteristiche della modernità, della formazione socioeconomica di cui è espressione magistralmente messa a punto da Marx nel Capitale12, e nel tentativo di periodizzarne le tappe evolutive, è l’idea di movimento verso qualcosa e di superamento sistemico a giocare un ruolo determinante, idea che si risolve in un grande atto

Tali periodizzazioni si baserebbero sulle principali rivoluzioni tecnologiche realizzatesi dall’avvento del capitale, nonostante per lo stesso Marx, come ricorda Jameson, queste rivoluzioni sarebbero state “the result of the development of capital, rather than some primal cause

Horkheimer 1969. Su questo tema Balibar 2012. 12  La cui analisi com’è noto si riferisce ad un capitalismo “puro”, che nella storia non ha forse mai avuto luogo, Carandini 1979; Jameson 1984, p. 78. 10 

Canfora 2004, pp. 339-340. Burgio 2005 ha recentemente sostenuto il contrario. 15  Mandel 1975, p. 18. 16  Jameson 1984, p. 78. 13 

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L’ideologia degli archeologi in its own right.”17. Di qui ne scaturirebbe, in un’omologia perfetta, una periodizzazione culturale tripartita in realismo, modernismo e postmodernismo e corrispondente ai diversi stadi di sviluppo dell’accoppiata capitale/ tecnologia18, il primo dotato di una certa immobilità rispetto al fattore tecnologico, molto più dinamico e decisivo nella determinazione dei cambiamenti.

essere vicini alla sua fine e alle soglie del suo superamento, secondo delle forme di “rivoluzione dolce” e di trapasso non ben specificate. Ciò che colpisce, soprattutto, è l’annuncio (o l’allusione) della fine di un ciclo economicosociale e storico in assenza di un’alternativa progettuale o di una previsione sistemica, come un trapasso nel buio. In realtà l’impressione appare quella della persistenza di una condizione che si fatica a sostenere e concepire. Piuttosto che della rottura o del cambiamento, bisognerebbe dar ragione delle recrudescenze del capitale che fatica a esaurire la sua forza, il quale, superato incolume il gorgo delle due guerre, giunge intatto fino a noi. L’alternativa al sistema attuale è lontana dall’essere concepita, così come distante è l’idea del suo esaurimento. In questa prospettiva gli schemi tripartiti sono destinati a moltiplicarsi all’infinito, come all’infinito è destinata a dilatarsi la nostra condizione “tarda” o la lunga fase di postmodernismo che ci attende. E, d’altronde, profetizzare la continuità non ha mai convinto nessuno.

A questo punto si potrebbe ragionevolmente obiettare sull’utilità di questa tripartizione tecno-culturale, il cui vantaggio più evidente ai fini dell’analisi sarebbe quello di far coincidere due aspetti diversi normalmente in tensione e in conflitto tra di loro armonizzandoli in una trasformazione sincronica. Cultura ed economia, struttura e sovrastruttura andrebbero così non solo a influenzarsi reciprocamente e indirettamente, ma a legarsi indissolubilmente formando la solida categoria di formazione economicosociale19. La rivoluzione nucleare e la crisi della ragione sarebbero in sostanza intimamente legate. L’impressione è piuttosto quella di una correzione all’ultimo momento, di un iso-orientamento forzoso. L’operazione è quella di reificare il capitale a piattaforma dentro e sopra la quale sopraggiungono i cambiamenti, investendo la tecnologia di un ruolo poietico e dinamico con cui spiegare dei cambiamenti che altrimenti risulterebbero imprigionati in uno spazio a-temporale.

1.2.2. Periodizzare il moderno (fase 2). Ciò che probabilmente si fatica a sistematizzare del moderno è la pretesa di coerenza e la specificità dei suoi attributi, quali possono essere il positivismo, la verità, il metodo e la razionalità. Il tentativo di restituire coerenza risiede nella fase di conoscenza e controllo di un momento della storia esaurito, che viene analizzato, capito e, in quanto concluso, periodizzato. Questa fase precede immediatamente il suo incasellamento nello schema più generale dell’evoluzione della società. Adagiato al suo posto nello schema della storia, un periodo viene addomesticato e neutralizzato, lasciato in un torpore controllato, pronto per essere risvegliato e rigettato nella storia viva attraverso un’operazione di restituzione di senso e coerenza. Tutte queste operazioni sono legittimate dall’insorgere di una fase nuova che supera la precedente e la metabolizza come procedura necessaria e sequenziale alla ricerca e alla definizione dell’“identità”23 specifica della nuova fase.

L’uso della formazione socioeconomica capitalista come categoria storica, cioè il modo di produzione in cui viviamo in questo momento, pone dei seri problemi riguardo alla periodizzazione nel momento in cui se ne vuole fare uno strumento di analisi del presente20. La difficoltà sta sia nel periodizzare la categoria stessa con i suoi specifici cambiamenti, sia periodizzare i cambiamenti percepibili attraverso la sua lente, sia periodizzare prescindendo da questa21. Il capitalismo, infatti, sembra avere la peculiare qualità di assorbire la storia e il tempo nel momento in cui lo si usa come strumento di analisi del reale, reificando la nostra società in un eterno presente dominato dal capitale onnipresente e dall’incapacità di progettare e immaginare alternative22. Secondo Mandel e Jameson, e il loro schema tripartito, l’ultima fase, la postmoderna, sarebbe espressione della logica del tardo capitalismo, conservando così una qualità profetica attinta direttamente, e volutamente, da un certo aspetto del pensiero di Marx. Parlare di tardo capitalismo e schema tripartito dà in effetti l’impressione di analizzare un ciclo concluso in sé ormai lasciato alle nostre spalle e pronto per essere vivisezionato e concettualizzato o, quantomeno, di

Una contrapposizione di qualità e attributi in cui si categorizza per contrasto e differenza in cerca di una nuova coerenza perduta in cui riorganizzare il reale. In questo senso c’è chi vede la presente condizione, come ad esempio Zygmunt Bauman, non come un momento di transizione, o come l’insorgere di una nuova fase, ma piuttosto come una lunghissima modernità mai conclusa. Occupandosi proprio di queste periodizzazioni sul passaggio tra moderno e postmoderno e delle modalità di transizione dall’uno all’altro, Bauman ravviserebbe non una rottura con il pensiero razionale e con la ragione, ma una continuità di sostanza in cui il moderno porta a compimento tutte le sue potenzialità. Ai numerosi tentativi di trasformare gli accadimenti dei due conflitti mondiali e dell’Olocausto in eventi estranei, lontani ed eccezionali rispetto alla società razionale e civile, il sociologo

Ibidem. Jameson 1984, pp. 79-80. 19  Sereni 1970. 20  Sweezy, Magdoff 1972. Sul dibattito scaturito dall’articolo di Emilio Sereni sul concetto di formazione economico-sociale si veda Simoni 2006. 21  Sulle difficoltà di periodizzazione la storia mondiale presente Bentley 1996. 22  Da cui poi ‘la fine della storia’, elaborata in chiave conservatrice e liberale da Fukuyama 1992 e in senso progressista e socialista da Lyotard 1979. Altre opere significative in questo senso sono quelle di Koselleck 1979 e Hartog 2003 tra gli altri. 17  18 

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Remotti 2010.

Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. polacco avrebbe risposto sostenendo come le crudeltà del genocidio e le atrocità in cui la società tutta si trovò coinvolta fossero profondamente radicate nella modernità. Ne sarebbero addirittura l’apoteosi e l’espressione estetica più alta e compiaciuta. La modernità è genocidio, prodotto e mezzo della sua espressione, in una combinazione letale di sviluppo e fede tecnologica, sostenuta da sistemi politici autoritari basati sullo Stato-nazione e dal consenso della loro base sociale. La modernità nella sua interezza (martiri e carnefici) avrebbe così attraversato indisturbata ed indenne la sua stessa crisi, uscendone anzi rafforzata e, liberati i suoi vettori, avrebbe perso allo stesso tempo in coerenza e solidità. La potenza sprigionata da questa modernità tutta nuova, espansa e moltiplicata, anziché comprendere escluderebbe, frammentando e parcellizzando, proprio grazie al movimento di accelerazione24, come un motore azionato che continua a moltiplicare la sua forza, divenendo incontrollabile ai suoi stessi manovratori. La durevolezza e la solidità si trasformerebbero in transitorietà. La modernità nel suo nuovo stato liquido separerebbe la realtà e l’individuo in spazi discreti, offrendo la continua possibilità di annientamento, distruzione e ricostruzione, per tornare nella fluidità caotica. Una modernità, dunque, che ci sfugge di mano e che più che essere post, è modernità potenziata, tentacolare, fuori controllo ed ambivalente. Ben presto Bauman si rende conto che la modernità e il moderno sono cambiati nella forma e nelle modalità d’azione, ma non nella sostanza. Non c’è superamento (post) ma continuità. In un primo momento Bauman ammetteva il concetto di post-modernità, ma nel quadro del suo più ampio progetto etico-politico. Più che di postmodernità quella proposta da Bauman era una contromodernità, non intesa come sublimazione storica ma come lotta e contrapposizione al sistema “moderno”, attraverso un’azione etica e politica rivolta all’annientamento del suo centro di gravità, che ponesse così le basi di una nuova società e di un nuovo individuo25.

in una faticosa coerenza, tendono a sopravvivere anche di fronte a profonde frizioni e a evidenti disfunzioni: “This tendency is rooted in the natural propensity to absorb and accommodate new experience into the familiar picture of the world; habitual categories are the main tools of this absorption. New experience does not fit the categories easily”27. La postmodernità sarebbe in ultima analisi una metaforizzazione e un’ipostatizzazione della condizione presente che smaschera la normalità del nostro mondo; una sorta di teodicea del pensiero razionale; un tentativo di creare una condizione ontologica differente di segno totalmente opposto a quella che fu capace di generare tante atrocità nei due conflitti mondiali; e soprattutto una disperata voglia di nuova identità e di assoluzione28. Lentamente, Bauman, studiando la condizione postmoderna, si rese conto dell’inconsistenza di questa categoria e dei suoi limiti operativi nell’analisi del reale29. Essa diventava più lucidamente un termine “ombrello” più che una nuova fase, una metafora appunto. Così nei suoi ultimi lavori si reindirizzò di nuovo allo studio della postmodernità come modernità nuova, non più uguale a sé stessa, avendo perso le sue qualità solide per diventare liquida30. Uno scarto di prospettiva che voleva accentuare la continuità ma soprattutto denunciare il fallimento della postmodernità come categoria d’analisi31. Trasformatosi in una parodia del moderno e nel suo fantasma, il postmoderno perdeva agli occhi di Bauman tutta la sua efficacia analitica. Per Jeffrey Alexander questo mutamento di prospettiva in Bauman, e la difficoltà riscontrata a livello terminologico dai vari tentativi di periodizzazione del moderno (Modern, Anti, Post, Neo), rappresentavano la vittoria del neoliberalismo, e le rinnovate trasformazioni industriali che coinvolgevano l’Occidente, invece, erano la prova che il capitalismo di mercato era tutt’altro che esausto32. Questa presa di coscienza sulle nuove combinazioni di vecchi meccanismi della società contemporanea riportavano prepotentemente a riflettere ancora una volta da una posizione “moderna” secondo una prospettiva che da alcuni è stata definita appunto neomoderna.

L’oggetto dell’analisi rimane sempre il medesimo; ciò che cambia sono le sue innumerevoli manifestazioni e la fluidità delle diverse prospettive con cui analizzarlo: “In all my books – sostiene Bauman – I constantly enter the same room, only that I enter the room through different doors. So I see the same things, the same furniture, but out of a different perspective”26. Per certi aspetti la persistenza è e rimane ingannevole. Non ci permette cioè di vedere i cambiamenti, avvolgendoci sotto la calda coperta della familiarità. È proprio questa familiarità che Bauman vuole sovvertire, mostrandone la logica intima, denudandola e rendendo il nostro mondo quotidiano a-familiare, mostruoso e alieno. Un concetto chiave anche e soprattutto sul piano metodologico: defamiliarizzare il mondo sociale, così come siamo stati abituati a immaginarcelo, attraverso concetti che ne danno un significato. Queste configurazioni storiche che danno senso al mondo, con cui lo controlliamo e lo imbrigliamo

Per concludere: “In a way, Bauman’s preference for liquid modernity can be seen as part of a general response to the recent decline of postmodernism. This decline can be Bauman 1989, p. 192. Kwiek 1997. 29  La complessità del pensiero di Bauman verrà trattata qui solo marginalmente. Ciò che ci preme sottolineare però è come la stessa parabola bibliografia di questo autore, sincronica con un certo mutamento della sua visione, dia ragione del polimorfismo di concetti e periodi sotto analisi. È innegabile l’ambivalenza con cui lo stesso Bauman intese il rapporto tra moderno e postmoderno. Se da un lato considerò molto più di altri autori il postmoderno come una vera e propria rottura rispetto al moderno, concepito come un blocco monolitico radicato nell’eliminazione dell’ambivalenza tipica dell’illuminismo, dall’altro, al tempo stesso, lo dissolveva reintegrandolo nella modernità liquida (si veda per questo soprattutto l’introduzione in Bauman 1992). 30  Bauman 2002. 31  Questa immersione nella postmodernità, il suo lento dissolversi come categoria e il ritorno al discorso moderno è stato analizzato da molti, Beilharz 2000, 2001; Smith 2000; Tester 2004. 32  Alexander 1995, pp. 84-85. 27  28 

Su questo concetto di accelerazione sistemica Srnicek, Williams 2016. Bauman 1989; 1991; 1992; 1993; 2002. 26  Welzer 2002, p. 109. 24  25 

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L’ideologia degli archeologi razionalizzazione) natura e cultura in ibridi, cioè costruzioni ottenute tramite giustapposizioni inerti che non sarebbero mai vere e proprie fusioni in nuove forme. L’ibrido è il vettore che perpetua l’asimmetria, che mantiene separate le sostanze. La seconda pratica, “per purificazione”, creerebbe due zone ontologiche distinte, quella umana da un lato e quella non-umana dall’altro37. La separazione natura/cultura sarebbe indispensabile ai “moderni” per accrescere il numero di combinazioni possibili tra oggetto e soggetto (gli ibridi) e per imbrigliare il reale in coerenze affettate e precarie, mantenendo il sociale sotto l’egida della forza ordinatrice. In questa condizione di magmatica ibridità si assiste alla rapida e definitiva socializzazione del non-umano (l’oggetto, la natura), senza permettere mai a quest’ultimo di essere visto come un elemento attivo che partecipa autonomamente attraverso le sue qualità inumane proprie alla produzione del sociale38. L’unico modo per concepire la “cosalità” da parte dei moderni sarebbe quello di umanizzare e socializzare l’oggetto. I moderni, rendendo i misti indispensabili ma neutralizzandoli e purificandoli attraverso il processo di socializzazione, praticano a ogni istante la riproduzione di tutte le combinazioni possibili di ibridi senza che questi possano avere alcun legame o effetto decisivo sulla realtà sociale.

attributed to the failure of postmodernism to go beyond the critique of foundationalism. By reducing the social to a mere system of differences and the subject to an illusion of individuality or self-presence, postmodernism exorcised actors and agents from society and therefore could not adequately explain the meaning of social action and change. It represented a spirited attack on the power structures of modernity but it did not, and probably could not, lay down principles for an alternative structure because it was adamantly anti-foundational. […] Bauman’s recent works can be located within this return to modernist themes. These are themes centering on the revival of the market, the global spread of democracy, and the vital role of agency […]. His metaphor of liquid modernity is directed towards a critique of the aqueous foundation of modernity. At the same time, the link with postmodernity is not completely severed because the sense of flexibility and uncertainty implicit in the postmodern is continuous with the notion of liquidity. This new discourse on an aqueous foundation can be interpreted as Bauman’s probable dissatisfaction with the inability of postmodernism to confront the emerging conditions of inequality in the West and around the world”33. Non esisterebbero più le tre fasi di sviluppo mandeliane ma due momenti metaforici di una solita entità. Come però giustamente ha ricordato Raymond Lee34, cosa dovremmo farcene adesso del concetto di postmodernità e della sua dialettica con il moderno? Dimenticarlo in un cassetto, eliminarlo, convincerci che ci siamo sbagliati e che niente è cambiato?

Al contrario, i premoderni si comporterebbero (o si sarebbero comportati? La successione temporale non è chiara) come monadi, sacralizzando il non-umano e legandolo intimamente alla società; così facendo si precludono di praticare ciò che le loro rappresentazioni sembrerebbero invece permettergli. Ciò che a loro (i premoderni) è interdetto e impossibile da realizzare, è percorribile da noi (i moderni) giacché per noi ormai l’ordine sociale si trova a corrispondere con quello naturale39. Il nostro continuo sforzo di purificazione e traduzione, di separazione e ricongiunzione altro non sarebbe che un caso particolare di mediazione tra i due poli opposti di natura/oggetto e soggetto/cultura, durante il quale i “quasi-oggetti”, gli ibridi, continuano a moltiplicarsi accrescendo a dismisura la separazione tra i termini della polarità. L’ossessione di separare e distinguere le leggi della natura dai meccanismi di funzionamento della società avrebbe creato un’asimmetria, la cui mistificazione è l’impressione della coerenza della modernità, che in realtà è continuamente centrifugata e sconfessata dalla storia. In sostanza, la razionalità economica, la verità scientifica e l’efficienza tecnica non sarebbero mai esistite, sono errori di categorizzazione40. L’ansia di rendere tutto alla pura logica non ha fatto altro che creare delle rappresentazioni annacquate, dandoci la sensazione di praticare un modernismo che non è mai stato praticato. Questo non perché saremmo postmoderni, moderni in una condizione liquida, modernisti pentiti o ipermoderni41, ma semplicemente perché non siamo stati mai moderni (nous

1.2.3. Periodizzare il moderno (fase 3). Partendo da una prospettiva completamente diversa, il filosofo delle scienze Bruno Latour è arrivato a una radicale critica del concetto di modernità. La modernità per Latour designerebbe la modalità di transizione da un’epoca all’altra, attraverso la quale si definisce un nuovo regime di relazioni e si produce un’accelerazione e una rivoluzione delle medesime35. Con le parole “moderno”, “modernizzazione” e “modernità” noi definiremmo così, per contrasto, un passato estraneo a tali nuove qualità relazionali, arcaico ed immobile. La parola indicherebbe una realtà doppiamente asimmetrica nei confronti di un passato esterno, lontano nel tempo e nello spazio, un meta-luogo scisso in vincitori (i moderni) e vinti (i nonmoderni)36. Lo scetticismo dell’autore riguardo a questi meccanismi di definizione investe tanto la terminologia del postmoderno che quella del moderno. L’ipotesi di Latour è che sia lo stesso concetto di “modernità” a essere errato. Esso corrisponderebbe a una metafora che traduce due pratiche della – e nella – società, concepite come distinte ma che in realtà sono profondamente interrelate. La prima pratica consisterebbe nel mescolare “per traduzione” (per

Latour 1991, p. 22. Latour 1991, pp. 62-63. 39  Lévi-Strauss 1962, p. 353; Latour 1991, p. 63. 40  Latour 1991, p. 161. 41  Anche se al postmoderno Latour riconosce di aver avvertito per primo queste contraddizioni: Latour 1991, p. 183. 37  38 

Lee 2005, p. 67. Idem, p. 75. 35  Latour 1991, p. 20. 36  Ibidem. 33  34 

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. n’avons jamais été modernes), non avendo mai applicato la filosofia e il metodo moderno così come sono stati professati o concepiti. Se il passato e gli Antichi erano afflitti dall’indistinto rapporto tra cose e uomini, tra natura e cultura, tra umano e divino, nell’incapacità di effettuare una separazione, noi, i moderni, e il presente, così come il futuro, siamo altrettanto confusi e fusi con il non-umano42.

e violento formato dalla particella attore/tempo (dove l’attore è sia umano che non-umano) la cui traiettoria si forma e si perde ad ogni istante47. La storia perde le sue qualità fondamentali, disintegrandosi e diventando anch’essa ridicola nei suoi sforzi di formalizzazione. Il tutto è ridotto al minimo comun denominatore della particella “attante”, che non è più l’uomo, l’individuo, ma qualcos’altro, e il cui campo d’azione non è più la storia ma una rete di relazioni.

In questo senso Latour si proclama un non-moderno praticante una contro-rivoluzione nei confronti della filosofia kantiana che, ponendo l’uomo al centro delle relazioni e delle rappresentazioni, avrebbe relegato il resto del mondo non-umano a una sequenza di oggetti non conoscibili. Natura e cultura non sarebbero ontologicamente separate e operativamente legate, ma sarebbero la stessa entità43.

Le riflessioni filosofiche di Latour rigettano anche qualsiasi specifica teoria del tempo, qualsiasi periodizzazione. Il tempo è un groviglio di spirali, capovolgimenti e fusioni, non una corsa lineare in avanti. La temporalità perde le sue qualità di irreversibilità e unicità divenendo un luogo a-temporale, una terra di contrasto dove si mescolano in maniera continua e permanente elementi differenti di differenti epoche46. Non possiamo dirci moderni proprio per questo smarrimento definitivo della dimensione temporale che caratterizza la modernità. Non si può dire semplicemente che il tempo passa in termini di rivoluzioni irreversibili; meglio dire che gorgoglia in un turbinio continuo di scarti ed epigenesi la cui tenuta è garantita solo dalla rete degli “attanti”. L’attante è un evento istantaneo

Tutto questo corpo di teorie (che noi seguiremo solo fino a un certo punto) è il frutto di un confronto serrato con la modernità e con i suoi elementi di interazione e definizione. Nello specifico si tratta di teorie che tendono a indagare come il sociale, il politico e l’economico interagiscono nella costruzione dei predicati sulla realtà, attraverso l’analisi e l’osservazione sia dei luoghi specifici della loro formazione, ovvero i centri di ricerca e i luoghi accademici, sia dell’interazione tra gli attanti e i meccanismi dell’innovazione tecnologica48. Su queste premesse, in una serie di lavori condotti in équipe e separatamente, lo stesso Bruno Latour, Michel Callon e il sociologo John Law misero a punto una teoria nel campo sociale detta “ActorNetwork-Theory” (A.N.T.) dando l’avvio agli Science and technology studies49. Secondo questa teoria, la ricerca scientifica e ogni discorso sulla realtà fisica sono prodotti dal sociale, definito come una rete di rapporti eterogenei in cui le relazioni interne sono simultaneamente creazioni materiali e semiotiche. L’attore umano riveste all’interno del network una posizione equipollente alle componenti materiali e tecnologiche che lo circondano (gli oggetti e le macchine) e attraverso cui agisce e si riproduce socialmente e biologicamente. In questa rete di relazioni di segno equivalente, il soggetto perde il primato di centro motore e la propria posizione privilegiata di oggetto di studio. L’umano deve essere indagato con lo stesso metodo e definito dalla stessa terminologia che spetta agli oggetti materiali. Invertiti i termini della descrizione e messa da parte qualsiasi gerarchia, non solo l’umano diviene oggetto ma l’oggetto diviene soggetto attivo in un rinnovato interesse sulla agency degli attori nonumani (in archeologia diremmo della cultura materiale). Dal punto di vista metodologico l’asimmetria creata tra i due poli natura/oggetto e cultura/soggetto, che con la loro contrapposizione mutilano i nostri tentativi di accesso alla realtà, si risolve nella ricomposizione delle relazioni tra materialità e concetto50. La ricomposizione a sua volta si ottiene applicando le leggi generali di simmetria51 in cui le differenze sono create da e verso il network e non poste dall’esterno: “these networks are composed not only of people, but also of machines, animals, texts, money, architectures–any material that you care to mention. So, the argument is that the stuff of the social isn’t simply human. It is all these other materials too. Indeed, the

Latour 1991, p. 71. 43  Harman 2009, p. 58. 44  Latour 1991, p. 123; Harman 2009, p. 62. 45  Harman 2009, p. 64. 46  Ibidem.

47  Questo concetto/paradosso è chiarito ed approfondito in Latour 1999; Harman 2009, p. 68. 48  Law 1992, p. 2. 49  Callon 1986; Law 1992; Callon, Law 1997; Latour 2005. 50  Latour 1991, pp. 124-144. 51  Law 1992, p. 7.

Hobbes sbagliava a decretare la definitiva vittoria del potere della società sulla natura. Le varie manifestazioni di protesta e reazione, le posizioni contro o a favore della postmodernità o dell’anti-modernità appaiono illusorie e ridicole di fronte all’inconsistenza delle separazioni su cui si fondano. I discorsi sull’anima, la mente, l’emozione, le relazioni fra soggetti e le specificità locali, sui postmoderni e antimoderni si strutturano e si organizzano intorno a un centro egemone totalizzante che secondo Latour è un centro vuoto e che va contrastato spostandosi ai margini e alla periferia, nel tentativo di rifuggire dalla cattiva modernità attraverso l’accelerazione centrifuga che sciolga i legami di dipendenza44. Ancora una volta è la capacità del postmoderno a proporsi come strumento euristico d’analisi e alternativa economico-sociale (in senso leniniano) a mostrare la sua debolezza. La filosofia moderna non è in grado di dirci nulla di nuovo rispetto ai “quasi-oggetti” della realtà. Mentre il realismo scientifico da un lato accantona e dimentica il “quasi-” credendo di parlare solo dell’oggetto, il postmoderno celebra nel suo discorso solo il “quasi-” e la metafora dell’oggetto, il suo fantasma45.

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L’ideologia degli archeologi argument is that we wouldn’t have a society at all if it weren’t for the heterogeneity of the networks of the social. So, in this view the task of sociology is to characterise these networks in their heterogeneity and explore how it is that they come to be patterned to generate effects like organisations, inequality and power.” E da ultimo: “The argument is that these various networks participate in the social. They shape it. In some measure they help to overcome your reluctance to read my text. And (most crucially) they are necessary to the social relationship between author and reader”52.

e un passato immobile non ha più alcun senso, poiché tutto è frantumato in una spettacolare deflagrazione: l’oggetto e il soggetto si mescolano e si confondono. Come disse il paleontologo Éric Böeda: “Il faut oublier l’homme”54 per liberare l’oggetto e l’archeologia. Questa via è stata intrapresa da un gruppo di archeologhe e archeologi americani e britannici55 che operano soprattutto negli Stati Uniti. Un attivo gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford dove, dopo l’arrivo di Ian Hodder e di altri ricercatori britannici, l’archeologia postprocessuale ha definitivamente trionfato; qui, la contrapposizione tra le due archeologie si è andata col tempo affievolendo rispetto alle recrudescenze britanniche, assumendo come vedremo altre forme con pretese di neomaterialismo ontologico56.

I soggetti-oggetti di questo network sono, come detto, gli actants, ovvero i vecchi attori ibridi, i “quasi-oggetti”, dotati però di una nuova e più cogente ontologia, la cui sostanza instabile ma solida è costituita dall’inscindibile unione di umano e non-umano, di soggetto-oggetto, di società e natura, costruiti l’uno dentro l’altro. Il punto di osservazione e di spiegazione del reale non poggia più su uno dei termini dell’opposizione ma viene ricollocato all’interno del “quasi-oggetto”. L’attante però è sfuggente e qualsiasi tentativo di carpirlo sembra quasi ridursi all’istante stesso, a un’epifania, come a una rivelazione. Latour e gli altri sanno bene che il problema del relativismo assoluto culturale e del relativismo relativo di prospettiva non è così risolto53.

1.3. La crisi della ragione (atto secondo): il problema dell’empirismo e della natura delle cose. La fiducia nella razionalità dell’uomo e del metodo scientifico, alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Ventesimo secolo, vacillavano sotto i colpi di violente critiche. Questi ripensamenti coinvolgevano solo in una certa misura le scienze sociali mentre riguardavano principalmente la filosofia pura e la filosofia delle scienze. Il problema era epistemologico, teorico e di metodo. Vi era coinvolto l’uomo nel suo stato ontologico e gli oggetti nella loro condizione ontica, ma anche il metodo nella sua potenzialità ermeneutica. In filosofia, le contraddizioni legate al discorso sulla conoscenza scientifica come modalità di accesso alla verità del mondo e sul suo preteso rigore metodologico (empirismo, induzione, generale/ particolare e oggettività) si ponevano in maniera pressante e con un certo anticipo rispetto alle scienze sociali ancora in cerca di quel rigore che le legittimasse definitivamente57.

Questa de-umanizzazione del soggetto e il nuovo ruolo di costruttore del sociale di cui è investito il materiale hanno avuto e hanno enormi conseguenze nel campo archeologico che si occupa dell’uomo e della società attraverso l’analisi delle sue manifestazioni materiali. Essa non solo ha fatto da nuova base per la post-archeologia (oggetto come attore, come costruttore di socialità) ma, in particolar modo, la teoria della simmetria è ora al centro di un rinnovato interesse da parte dell’archeologia angloamericana. Quest’interesse è legato al tentativo di superare in maniera definitiva la contrapposizione, ormai divenuta asfissiante, tra archeologia processuale e postprocessuale. La teoria simmetrica di Latour, con la fusione tra soggetto ed oggetto (non solo nel passato, ma soprattutto nel presente), sembra risolvere quella dicotomia ossessiva e al limite del patologico tra prospettiva dell’autore presente e oggetto storico nel passato, una dicotomia trasformatasi poi in aporia e in stagnazione epistemologica. Il problema che ha per decenni animato il dibattito sulla corrispondenza tra cultura materiale e organizzazione sociale o simbolica, perderebbe di significato attraverso il procedimento simmetrico. Dall’oggetto non deve più scaturire l’uomo e le relazioni di senso che l’hanno prodotto, ma soltanto la storia dell’oggetto. Si dissolverebbe così anche la distorsione provocata dal contesto sociale presente, poiché tutto diventa oggetto: il falso e il vero, il parziale e il totale, il materiale e il simbolico, così come il presente e il passato. Una “middle range theory” che connetta il presente con il passato, l’interpretabile con il descrivibile, che abbia la funzione di mediare tra un presente dinamico 52  53 

I problemi erano sostanzialmente due: da un lato la validità della logica che permette di formulare leggi generali (si parla ancora di scienze nomotetiche usando una vecchia terminologia) da casi singoli e particolari; dall’altro, la comprensione del meccanismo di cambiamento dei paradigmi derivati da questa logica58. Nel 1935 Karl Raimund Popper fu invitato, a un anno dalla pubblicazione della sua Logik der Forschung, a partecipare a una discussione all’Aristotelian Society di Londra. In quell’occasione Bertrand Russell lesse uno dei suoi saggi più noti sui limiti dell’empirismo, segno che tale concezione cominciava ad essere al centro di un dibattito59 che metteva in discussione la logica dell’induzione così com’era stata formulata da Hume nei Boëda 2005. Webmoor 2007a; Witmore 2007; Shanks 2007. 56  Hegmon 2005, p. 232; Trigger 2008, pp. 448-449; Sull’Ontological Turn in archeologia Hicks 2010; Hicks, Beaudry 2010; Olsen 2010; Alberti 2016; Alberti; Jones, Pollard 2013; Martin 2013; Kristiansen 2017. 57  Sparti 2002. 58  Kuhn 1970; Popper 1994. 59  Russell 1903. 54  55 

Law 1992, pp. 2-3. Latour 1991, pp 151-159.

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. suoi tre principi fondamentali nel 173960, mettendo in evidenza le sue contraddizioni applicative. Le principali critiche riguardavano tre ordini di problemi: 1) in natura esistono innumerevoli apparenti regolarità e molte leggi universali; 2) ogni inferenza induttiva, cioè ogni ragionamento che partendo da casi singoli e osservabili e dalla loro ripetuta occorrenza ottiene leggi e regolarità, deve essere invalida; 3) non ci sono valide ragioni che giustifichino la validità di una legge universale diverse da quelle fornite dall’esperienza.

sicuramente ha lontani antenati, da Parmenide a Hobbes) di un rapporto diretto e biunivoco fra parole e oggetti materiali rende perfettamente superflui i significati (cioè i concetti)64. Sosteneva Russell: “Aver significato mi sembra una nozione composta confusamente di elementi logici e psicologici. Una proposizione [...] non contiene parole, bensì le entità indicate dalle parole. Così il significato è [...] irrilevante per la logica”65. In un linguaggio ideale, scrive Russell, “non ci sarebbe che una e una sola parola per ogni oggetto semplice, e ogni oggetto non semplice sarebbe espresso da una combinazione di parole, ciascuna per un oggetto semplice”66. Questi ultimi tentativi di ricomporre le contraddizioni di sistema attraverso la stessa logica che vi presiedeva, furono una caratteristica del crepuscolo della ragione. Com’è noto, Popper, in quello stesso colloquio londinese, dichiarò di non credere all’induzione o alla conoscenza scientifica ma di credere fermamente nell’empirismo, ma in quell’occasione non fu preso sul serio. Successivamente Popper credette di risolvere lo stesso problema posto da Russell sul paradosso logico dell’induzione di Hume attraverso la definizione del suo realismo critico, che ri-fondava l’empirismo senza sacrificarlo su un quarto e più solido principio, quello di falsificazione. Tale principio non faceva altro che dotare le congetture e le supposizioni formulate a partire dall’analisi dei dati di una solidità di tipo scientifico e di una validità generale “temporanea”67: non c’è alcun metodo per scoprire una teoria scientifica vera; non c’è alcun metodo per accertare la verità di un’ipotesi scientifica; non c’è alcun metodo per accertare se un’ipotesi è probabile o probabilmente vera68: e dunque finchè non viene falsificato qualsiasi predicato resta sempre vero. In quell’occasione Popper fu preso sul serio.

Il conflitto tra (1) da una parte, e tra (2) e (3) dall’altra, costituisce il problema logico dell’induzione. L’affermazione (2) è il principio della non validità dell’induzione, mentre la preposizione (3) costituisce il principio dell’empirismo. La maggiore preoccupazione di Russell era risolvere il paradosso creato dalla pratica dell’induzione e dall’impossibilità di muovere dall’empirismo verso la formulazione di leggi generali in cui non diminuisse né il valore empirico né la validità generale. Secondo Hume, pur non potendo muovere che attraverso l’inferenza induttiva, cioè da casi singoli e osservabili, questa restava invalida non potendo portare ad alcuna legge di validità generale: non ha importanza quante volte il sole sia stato osservato levarsi e tramontare perché non se ne potrà mai stabilire la regolarità assoluta e generale ma solo constatare il fatto singolo ogni volta che accade61. La soluzione che Russell proponeva di fronte alle aporie dell’empirismo, come poi notò Popper, era molto singolare62. Russell affrontava questo paradosso invocando un quarto principio che rifondasse l’empirismo ma che non si basasse sull’induzione; un coup de théâtre per ristabilire una più solida logica della conoscenza scientifica che secondo Russell non poteva prescindere dall’empirismo.

Un epigono di Russell, non nella logica ma nel campo della metafisica, fu senz’altro Heidegger, uno degli ultimi filosofi a tentare l’avventura della definizione dell’Essere69. Anche per lui la soluzione del problema metafisico andava cercata attraverso i vecchi strumenti del pensiero. Sviluppando una certa concezione del divenire storico ereditata da Marx e applicata alla metafisica dell’essere, Heidegger risolse la qualità storica e transeunte dell’Essere dissolvendola attraverso la creazione di un luogo a-temporale dove le sue varie manifestazioni metafisiche potessero dimorare (Dasein). Gli sviluppi del suo pensiero ebbero delle conseguenze non previste, aiutando in una certa misura a scardinare la vecchia ragione classica. Adesso è soprattutto la sua fenomenologia ad essere al centro di un nuovo

Russell aveva affrontato la questione non mettendo in discussione l’intera impalcatura del pensiero razionale ma cercando attraverso questo di ricrearne dei fondamenti ultimi che non potessero sfuggire a una qualche coerenza di tipo razionale. Separando gli elementi della realtà in unità singole ed autosufficienti cercava, con un ultimo tentativo, di purificare il mondo della logica da elementi torbidi, dando fondo ed esaurendo tutte le possibilità della ragione classica. Non è un caso che Russell venga a buon diritto riconosciuto come l’iniziatore di quella svolta che il pragmatista americano Richard Rorty definì “linguistica” (linguistic turn)63 e che tanta parte ebbe nel ripensamento e nella conseguente messa in discussione cui fu sottoposta la ragione, così come la ebbe nella successiva definizione dell’alternativa postmoderna che ad essa si opponeva. La sua grammatica estensionale fu solo uno dei momenti di questa crisi, affrontata però con vecchi strumenti ed espedienti retorici: la tesi proposta da Russell (che

64  In questo senso l’isomorfismo tra realtà e linguaggio sarà alla base del pensiero di Foucault 1966 e Derrida 1967. 65  Russell 1903, p. 27. 66  Russell 1918, p. 447. Le implicazione del pensiero e delle riflessioni di Russell saranno esplorate dal suo allievo Wittgenstein nel Tractatus. Resta il fatto che il totale “disinteresse per la funzione simbolica del linguaggio” porti inevitabilmente a considerarlo come “mero fatto fisico” (Statera 1967, p. 17 e 42). Una posizione del genere “non è in grado di spiegare perché nelle lingue naturali possono articolarsi significati indipendentemente dal riferimento a situazioni di fatto o a cose esistenti” (Eco 1973, p. 129). 67  Eco 1973, p. 129. 68  Popper 1994, p. 36. 69  Heidegger 1992.

Hume 1971. Popper 1994, pp. 58-60. 62  Popper 1994, pp. 42-43. 63  Rorty 1967. Per il dibattito sul linguistic turn in Inghilterra, Cerutti 1997. 60  61 

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L’ideologia degli archeologi interesse. Essa, infatti, è vista come momento culminante di tutto un movimento che durante il Novecento cercò di riscoprire il significato delle cose sotto l’inerte anonimità degli oggetti prodotti dalla società consumistica, vivificato da un nuovo rapporto col soggetto70. In archeologia l’interesse verso le concezioni di Heidegger sulle modalità di accesso dell’ontologia dell’oggetto da parte del soggetto si è tradotto in un ripensamento sulle possibilità di accesso da parte del soggetto-interprete nel presente alla sostanzasignificato della cultura materiale prodotta nel passato, attraverso il rapporto semico e fisico che si instaura tra le parti. La riduzione di segno della distinzione tra spazio fisico e simbolico, e della compenetrazione tra interno ed esterno, non è passata inosservata ed è stata oggetto di acute riflessioni critiche71.

Le diverse e contrastanti reazioni erano dovute alla forte ambiguità teorica intrisa nel concetto di paradigma indiziario, sostenuta dall’alta qualità delle argomentazioni: di fronte alla presunta crisi della ragione si chiedeva in sostanza a Ginzburg di prendere una posizione, di schierarsi di fronte all’urgenza e di proporre un nuovo paradigma a soluzione della crisi delle grandi narrazioni76. Questo è un po’ lo stesso meccanismo che fece la fortuna di Michel Foucault come storico e pensatore. Il suo scetticismo programmatico, e le applicazioni storiche e filosofiche che esso comportava irritavano molti. In una conservazione tra lo stesso Foucault e Raymond Aron, eminente sociologo francese anch’egli formatosi all’École Normale Supérieure di Parigi, sulla nascita e le origini della sociologia, i due normalisti si trovarono a discutere sulla figura di Montesquieu e se questi fosse da considerarsi un sociologo vero e proprio interessato all’uomo-individuo come oggetto di una pratica di indagine distinta, e dunque fondatore o precursore della sociologia, o se fosse ancora legato alla vecchia filosofia politica e alla storia delle istituzioni77. Le argomentazioni di Foucault non erano rivolte tuttavia verso Montesquieu o la sociologia del Settecento, ma sul perché Aron, dal canto suo, lo considerasse, nel contesto storico-filosofico presente, un sociologo a tutti gli effetti. Per Foucault era perfettamente comprensibile che Aron (così come Lévi-Strauss) vedesse Montesquieu come un sociologo vero e proprio: essendo scomparsa la categoria antropologica responsabile dello sviluppo della sociologia, cioè l’uomo e il sociale in quanto tali, si reagiva riattivandola genealogicamente attraverso la ricerca. L’uomo veniva inghiottito nella struttura e nello stesso momento veniva riscoperto. Entrambi, sia Ginzburg che Foucault, individuavano il problema, diagnosticavano la “malattia” per così dire, l’impercettibile scarto che andava creando una divaricazione incolmabile dai vecchi percorsi. Lo analizzavano attraverso le loro straordinarie capacità, senza poi però prescrivere una cura una soluzione precisa al problema: l’unica profilassi da seguire era la pratica di un sano scetticismo e a molti questo sembrava inaccettabile.

1.4. La crisi della ragione (atto terzo), grandi narrazioni e microstorie. Quando nel 1979 uscì il volume collettivo intitolato proprio Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane72, l’intento era quello di discutere dal punto di vista di varie discipline sociali i motivi e lo stato di questa crisi e, dove possibile, proporre misure contrastive o alternative di fronte al franare dei vecchi paradigmi: insomma trovare una nuova coerenza logica di fronte all’inadeguatezza dei vecchi strumenti d’analisi. L’irrompere dell’individuo, del soggetto e del particolare nelle scienze sociali (a maggior ragione per la scrittura della storia) metteva a dura prova le vecchie narrative “strutturali” e la tenuta delle ricostruzioni generali. Tra i contributi del volume destò particolare interesse quello sul “paradigma indiziario” di Carlo Ginzburg che dette vita a uno dei momenti di discussione teorica più alta nel campo delle scienze sociali in Italia e che coinvolse trasversalmente numerose discipline, tra cui l’archeologia73. L’interesse suscitato dal saggio di Ginzburg sul metodo indiziario fu dovuto anche a una serie di ambiguità che circondavano sia il meccanismo del metodo sia la posizione teorica tenuta da Ginzburg all’interno del dibattito sulla crisi della ragione. Ad alcuni pareva che quello di Ginzburg, a differenza di altri saggi contenuti nel volume, non si schierasse e non scegliesse tra i diversi modelli di razionalità74; altri ritenevano che Ginzburg scegliesse invece un sapere ben preciso, teorizzando in un certo modo sé stesso e il suo metodo75; altri ancora vedevano nel metodo del paradigma indiziario un tentativo reazionario di imbrigliare in una nuova rigida e autoritaria teoria il particolare, il dettaglio, la storia delle minuzie, insomma quella realtà parcellizzata, esplosa e liberatasi col postmoderno dalle gabbie coercitive del pensiero razionale, patriarcale, economico, uniformante.

La seconda questione era il rapporto tra indizio e paradigma, tra particolare e possibilità di generalizzare, tra induzione e deduzione, tra struttura e individuo: il paradosso logico di Hume era riproposto sotto altre sembianze in storia. Per esemplificare questo sistema indiziario, tra i tanti esempi utilizzati da Ginzburg, come il metodo di Giovanni Morelli o di Sherlock Holmes, vi era quello di Zadig, famoso personaggio di un racconto di Voltaire, il quale in base a indizi e tracce era in grado di riconoscere fattezze e sembianze di animali mai visti. Come ricorda Luciano Canfora però “Voltaire scrive che il saggio e sfortunato Zadig prima di acquistare questa sagacia […], si era ritirato a studiare le proprietà degli animali e delle piante, ed aveva accumulato gli elementi

Bloch 1980; Simmel 1985; Bodei 2009, pp. 42-49. Thomas 1996. 72  Gargani 1979. 73  Ginzburg 1979; per le discussioni collettive sul tema si vedano le discussioni nei volumi Aut Aut 1980, Quaderni di Storia 1980, 6; 1981, 7, 1982. 74  Vegetti 1980; Canfora 1980, p. 7, in QdS 1980. 75  Calvino 1980; Carandini 1980, in QdS 1980. 70  71 

Lyotard 1979 sulla fine dei grands récits. Ora in Raymond Aron, Michel Foucault. Dialogue (Clamecy 2007); Aron 1967; Foucault 1967. 76  77 

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. che hanno formato nella sua mente il paradigma al quale l’indizio concreto lo ha ricondotto, mettendolo in condizione di descrivere minuziosamente e fedelmente animali ed oggetti che non ha mai visto. La questione è dunque: questo paradigma indiziario sarà alternativo, opposto a quello tradizionalmente deduttivo galileiano? (corsivo mio)”78.

traduzione dei termini). Quella che invece oggi è sentita come una premessa imprescindibile è la necessità non più procrastinabile di avviare un dibattito che sia autonomo anche in campo teorico. In Italia questa necessità è dovuta ripartire dalla riappropriazione del proprio passato, dalla formalizzazione della storia della disciplina archeologica nel nostro paese, dalla sua evoluzione, dal riflettere sui suoi, seppur minimi, contributi nella consapevolezza della sua crisi. La storia dell’archeologia (la storia del pensiero archeologico) è un fondamentale punto di partenza per la ri-strutturazione teorica della disciplina. Non è un caso che imbattendosi per caso (o per scelta) in libri di archeologia teorica, non si possa far a meno di notare come questi siano essenzialmente libri sulla storia del pensiero archeologico82. Ancora poca teoria e (per fortuna) molta storia83.

Questo stesso dibattito coinvolse, come già ricordato, numerosi studiosi di varie discipline, tra cui anche l’archeologia79. Il fatto che la neonata archeologia italiana, in cerca della sua legittimazione e indipendenza, venisse coinvolta nel dibattito contribuì senz’altro alla riflessione interna della disciplina e alla sua maturità, segnando anche una linea definitiva di demarcazione e facendo emergere caratteristiche specifiche dell’archeologia italiana. La discussione sul paradigma indiziario infatti, “in ambito anglosassone sarebbe stato appannaggio dell’archeologia teorica, […] da noi invece coinvolse prevalentemente il rapporto tra archeologi e storici e il valore storiografico dell’approccio archeologico”80. Nella dialettica tra storia e archeologia fu senz’altro quest’ultima ad approfittare e a beneficiare della discussione in quella specifica occasione. Per la storia e per gli storici, forse, la riflessione era totalmente autonoma e autosufficiente alla disciplina. Una riflessione che partiva dalla storia ed era destinata a farvi ritorno. L’archeologia italiana restava un po’ periferica, ancora priva d’autorità e di riconoscimento, guardata com’era con indulgenza quando non del tutto ignorata. Non è un caso che Andrea Carandini, in uno dei suoi interventi sul saggio di Ginzburg, si esprima con affermazioni rivelatrici circa la “frustrazione” che doveva avvertire un archeologo in quel contesto vedendo nella sua disciplina una materia totalmente storica e non una sua ancella, e che sentiva non solo di praticare già da tempo il metodo indiziario, ma di essere il punto di giunzione tra questo e il paradigma galileiano: “L’ho letto con passione, nonostante che mi sentissi in gran parte escluso da quella così seducente inquadratura storica. Perché un dissenso fra due raccoglitori di briciole? Forse perché uno raccoglie briciole di mentalità e l’altro (apparentemente) briciole tout court? Sono io a sentirmi ingiustificatamente escluso, oppure interi campi di lavoro restano fuori dall’ottica del nostro storico?”. E più avanti, in riferimento alla “scoperta” di questo decisivo paradigma indiziario, prosegue: “Poco male che l’archeologo provi di fronte ad essa [la battaglia di Ginzburg] un’impressione di déjà vu”, l’importante era essere stati ammessi al dibattito e soprattutto quello che contava veramente era “la sua [di Ginzburg] battaglia concreta, entro un confine specialistico concreto”81. Allora gli stimoli teorici per l’archeologia italiana provenivano in gran parte dalla storia o giungevano totalmente fraintesi e scimmiottati pedissequamente dal dibattito anglofono (esemplificativo è il fraintendimento sul piano della

1.5. Questioni di scala. L’usura dei paradigmi più influenti, e per questo più esausti, giungeva a compimento nel campo storico dopo la pubblicazione della monumentale opera di Fernand Braudel su civilizzazione materiale, economia e capitalismo tra Quindicesimo e Diciottesimo secolo84. Tre volumi in cui veniva messa in discussione la categoria di “modo di produzione capitalistico”, che acquistava adesso un carattere più sfumato, perdendo di consistenza strutturale e contestuale, e che veniva così, in una certa misura, liberata per fare la sua parte nello studio del passato. Un modo di produzione capitalistico concepito più alla maniera di Max Weber, e che si ritrova già in Mommsen, per cui il sistema capitalistico, attraverso una dissoluzione della sua nozione tecnica e formale, è concepito “nel senso di un insieme di processi sociali e di comportamenti individuali e collettivi caratterizzati da una forte disponibilità di capitali finanziari, ricchezze da investire, [e] un sistematico rapporto con determinate forme di redditività” 85. Il formalismo delle idee e dei concetti cede il passo al disordine della dinamica sfuggente. La ragione, finora lontana dagli antagonismi, autolegittimata e sicura, comincia a cedere il passo; non c’è più certezza unificatrice né per il presente né per il passato. “Semplificando anche qui al massimo,” fa notare lo storico Aldo Schiavone, “credo di poter dire che queste trasformazioni nel senso che abbiamo della storia sono molto legate alla straordinaria complessità sotto cui oggi ci appare il nostro presente, e all’inaudita difficoltà di rappresentarcelo in forme in qualche modo riconducibili ai paradigmi consolidati di una ragione ‘classica’, che ci appare invece sempre più limitata e sulla difensiva, oltre che prodotta da condizioni storiche che non sono più le nostre”. Il presente si riflette così frantumato nel passato “scoperto anch’esso, con stupore, meno compatto, meno Giannichedda 2002; Terrenato 2000. In generale per l’importanza della storia dell’archeologia e per il suo nascere come disciplina autonoma Trigger 1980, 2001, 2008, pp.1-39; sul rapporto tra storiografia dell’archeologia e teoria, Trigger 1994, 1998; Johnson 1999, 2000; Murray, Evans 2008. Per una panoramica in Italia Barbanera 2000; Terrenato 1998; 2005. 84  Braudel 1979. 85  Capogrossi Colognesi 2005, pp. 547-548. 82  83 

Canfora 1980, pp. 7-8, in QdS 1980. Carandini 1980, 1997, pp. 223-248; Mannoni 1993, 2002, 2004; Pucci 1994, 2000. 80  Manacorda 2000, p. 6. 81  Carandini 1980, p. 3. 78  79 

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L’ideologia degli archeologi un altro annalista di seconda generazione, Paul Veyne92, largamente influenzato da Foucault e dal suo modo di concepire la scrittura della storia93. Una storia che pareva perdere, seguendo il particolare, il suo statuto di scienza (e in questo profondamente differente dalla storia marxiana), abbandonata all’erudizione e all’abilità di pochi capaci di connettere, come in un’epifania, dati storici a realtà passate; una storia in cui la coerenza dell’insieme veniva assicurata dall’abilità del narratore94. Né archeologia, né storia, né scienza ma letteratura95.

solido, attraversato da problematicità che vanno portate alla luce, da alter natività che bisogna rivelare, da silenzi cui va data finalmente la parola, da sussulti, da segreti mai visti prima. Non guardiamo più alla storia, insomma, a partire da una certezza di unificazione conoscitiva dell’oggetto intorno a pochi centri che sono chiari, ma nel segno di un universo frantumato, percorso da mille linee, condensato intorno a mille coaguli. Non c’è più una ragione separata che spieghi tutto, concentrandosi su pochi fatti, in nome di un Dio nascosto”. E concludeva: “Ma ora, che siamo in grado di vedere molto oltre, e la ‘ragione’ del passato non ci appare più concentrata in poche casematte, quali dovranno essere gli statuti teorici dei nuovi saperi storiografici che si stanno costruendo?” 86.

La convergenza tra romanzo e storia, tra fiction e history, tra “l’histoire oubliée par tout d’historiens, celle des mœurs”96 e la grande storia politica delle nazioni, tra carattere scientifico e dimensione letteraria, veniva cercata sul piano dell’arte e non su quello della scienza. Era ciò che faceva anche Hayden White con la sua “meta-storia”97. Quest’ultimo, servendosi della categoria di “realismo” desunta da Auerbach operante a livello della narrazione formale, svuotava di contenuto le narrazioni storiografiche prive delle pretese di verità (fonti e tecniche della ricerca), trasformando così la storiografia in un puro e semplice documento ideologico. “Principio di realtà e ideologia, controllo filologico e proiezione nel passato dei problemi del presente”98 si sovrappongono, riducendo la storia alla dimensione unilaterale dell’intreccio, in una sorta di patologia dell’immaginario. Congetture, ipotesi, verità e prova; tra finzione narrativa e storiografia filosofica99, metodo filologico ed immaginazione. Per Momigliano i pericoli di fare del fatto storico ciò che si vuole potevano ancora essere ancora evitati praticando del buon metodo storico, dedicando un’attenzione primaria al documento, al valore di prova che può rappresentare, salvaguardando ogni ricerca dalla falsificazione ideologica. Tra documento e fatto vi è corrispondenza reale e non narrativa, “i fatti e i loro collegamenti sono quelli che sono, e nessuno potrà modificarvi alcunché”100. È lo stesso atteggiamento che portò il Croce a criticare il metodo filologicocombinatorio. Per il Croce la vera storiografia era

Le risposte non tardarono ad arrivare e, come spesso succede, imbrigliarono le complessità scaturite dal dibattito in una questione di “scala” dell’oggetto della narrativa storica, reificando lo stesso pensiero di Ginzburg in una scienza del particolare, in una “microstoria” contrapposta alle grandi narrative “macrostoriche” e “metastoriche”, contrapposizione tipica della postmodernità87. Il grado di tale diminuzione di scala si può ben misurare attraverso le discussioni avviate in Francia su questi stessi argomenti dalla seconda generazione delle Annales88. Circa dieci anni dopo la pubblicazione del volume in cui compariva il saggio di Ginzburg, François Hartog lanciava la sua battaglia contro la tirannia della longue durée89. La diagnosi era condivisa: “Le reclassement des disciplines transforme le paysage scientifique, remet en cause des primautés établies, affecte le voies traditionnelles par lesquelles circulait l’innovation. Les paradigmes dominants, que l’on allait chercher dans les marxismes ou dans les structuralismes aussi bien que dans les usages confiants de la quantification, perdents de leurs capacités structurantes, quand se développe, dans une atmosphère de ‘retour à la Chine’, une méfiance simpliste devant toutes les idéologies. Les développements multiformes de la recherché, enfin, rendent inacceptable le consensus implicite qui fondait l’unité du social en l’identifiant au réel”90. Le contromisure dovevano essere ricercate nel metodo ed erano sostanzialmente di due ordini: “les échelles d’analyse, et l’écriture de l’histoire”91, sviluppando appunto certe problematiche affrontate dalla microstoria dopo un lungo periodo di attenzione solo nei confronti dei processi globali e delle strutture. Di questa storia miniaturistica, intimamente legata all’epistemologia, nemica delle categorie forti e in un certo qual modo della storia come scienza, si era fatto portavoce dieci anni prima

“Si tratta - dice Foucault - di fare della storia un uso che la liberi per sempre dal modello, insieme metafisico ed antropologico, della memoria. Si tratta di fare della storia una contro memoria, e di dispiegarvi di conseguenza una forma del tempo del tutto diversa” Foucault 1977, p. 49; su questa linea epistemologica Veyne 1971; per una critica al libro di Veyne, Aron 1971; Carandini 1979; Momigliano 1978. 93  Veyne 1975; 1995; 2007; 2008. 94  Questa pericolosa deriva era già stata notata da Pierre Vilar: “sostituire all’epistemologia non già dei concetti, ma il suo personale gioco d’immagini” Vilar 1973, p. 575. 95  Vilar 1973, p. 571. 96  La frase è di Balzac. 97  Ginzburg 1984, pp. 142-143; Momigliano 1984a. 98  Ginzburg 1984, p. 145. 99  Contrasti che Momigliano individuava, esemplificati al massimo, in Edward Gibbon, quando in una nota al capitolo XXXI della sua History of the Decline and Fall of the Roman Empire sosteneva “I owe it to myself and to historic truth to declare, that some circumstances in this paragraph are fonde only on conjecture and analogy. The stubbornness of our language has sometimes forced me to deviate from the conditional into the indicative mood”. 100  Momigliano 1973, p. 851. Se per Carandini praticare questo tipo di storia, era fare una “storia contro Marx”, per Momigliano era negare questa corrispondenza, ma per entrambi restituire alla storia il suo grado di scientificità. 92 

Schiavone 1980, pp. 23-25. Su tutti Hyden White (1978); per una bibliografia esaustiva Joyce 1998. 88  Trevor-Roper 1972; Godelier 1993; Lepetit 1993. Per una critica radicale al concetto di longue durée si veda Burguière 1995; Grenier 1995. Sull’influenza esercitata dalla seconda generazione delle Annales in archeologia Morris 2000, pp. 5-6; Bintliff 2004, pp. 175-186, in generale Kinser 1981; Skeates 1990. 89  Hartog 1988; Annales 1989. 90  Hartog 1988, p. 291. 91  Ivi, p. 293. 86  87 

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. di rapporti di produzione, di contraddizione, ecc. siano o logorati dall’uso o insufficienti teoricamente; ma non sono convinto che se ne possa fare a meno, senza puntare alla costruzione di strumenti di pari o maggiore potenza teorica complessiva, di pari o maggiore generalità, di pari o maggiore efficacia nella progettazione oltre che nella conoscenza. Temo che altrimenti il soggetto, il singolo, l’individuale e il concreto restino là a fare da sintomo, sempre e soltanto da oggetto di sapere e mai da soggetto di sapere, non si trasformino mai in potenzialità di sapere né in progetto complessivo (corsivo mio)”.

immune dall’aneddotica, dall’immaginazione e dalle congetture101, dall’irresistibile atteggiamento di integrare le lacune della documentazione con espedienti retorici della narrazione, trasformando un torso in una statua compiuta. Si tratta, alla fine, dell’annoso problema di come combinare e utilizzare serie documentarie diverse, che per l’archeologia classica, ma non solo, diventa un problema vitale, di sopravvivenza102. L’idea di integrare serie documentarie diverse è certamente fruttuosa, ma sopravvalutare le fonti di carattere narrativo “contiene il germe di una dissoluzione idealistica della storia in storia della storiografia”103.

Spesso l’attenzione nei confronti della discussione sul paradigma indiziario ha tralasciato, non sappiamo fino a che punto in maniera volontaria, queste importanti riflessioni, distraendo le energie dai punti essenziali. Rileggendo d’un fiato tutti i contributi di quella discussione raccolta nei Quaderni di storia del 1982 non si può non restare colpiti dalla qualità degli interventi e notare come essi racchiudessero in poche pagine tutta una serie di questioni concernenti la crisi, presunta o meno, del pensiero occidentale. Tutte le questioni poste dalla modernità erano state individuate e affrontate e non certo in maniera banale. Altrettanto stupore si ha quando ci si rende conto di come queste riflessioni siano rimaste periferiche, inascoltate e mal interpretate. Abusando come mio solito delle citazioni, lasciatemi concludere con un’altra, nel tentativo di restituirla all’attenzione che merita. Tra i tanti interventi raccolti nel volume dei Quaderni di storia, appare fugace quello lungo meno di due pagine a firma Umberto Eco. Egli trova interessante tutto il problema legato alla logica del pensiero visto dalla prospettiva di un semiotico: abduzione (Peirce), induzione, segno, indizio, ecc. Per Eco i problemi che affannano gli storici (“Se sia più interessante fare storia su indizi secondari o su grossi fatti”, o “se ci sia scienza diagnostica dell’individuale o scienza delle grandi leggi”), alla luce dei meccanismi logici, non fanno alcuna differenza così come perde di assoluta consistenza la troppo rigida distinzione tra scienze umane e scienze naturali: “Mi pare che oggi sempre di più si stia scoprendo, ma qui butto io una cosa che andrebbe motivata con giornate di congresso scientifico, che la deduzione e l’induzione sono travestimenti retorici espositivi di un unico meccanismo fondamentale della scoperta che è l’abduzione (corsivo mio)”105, dove la premessa maggiore è certa e quella minore solo probabile. Un modo elegante per risolvere il problema logico di Hume.

In realtà il problema centrale che mi pare non sia stato sottolineato abbastanza non riguardava la “scala” dell’indagine, o il frantumare la razionalità astratta e deduttiva in favore di una parcellizzata e incontrollabile dinamica, ma ammettere che più razionalità potevano convivere all’interno di un medesimo panorama epistemologico. Una presa di coscienza che non prevede soluzioni immediate o sostituzioni indolori di paradigmi, ma una faticosa lotta di affermazione di alcune razionalità rimaste finora periferiche. Una questione teorica che aveva ben individuato Carandini contrapponendo due paradigmi, quello indiziario e quello galileiano, e che riassume bene Mario Vegetti in uno dei suoi pregnanti interventi in risposta a Ginzburg: “Credo invece che in tutti i campi la razionalità storicamente egemone sia quella che Ginzburg chiama astratta o anatomica, la razionalità potente di questo tipo, mentre penso che il sapere soggettivo, strisciante, umbratile che Ginzburg riconosce sia di fatto subalterno e lo sia all’interno di qualsiasi campo disciplinare. […] del resto, se scusate la citazione, all’inizio di un libro illustre della tradizione occidentale è scritto, parlando di medicina, che l’esperienza è la conoscenza delle cose individuali, mentre l’arte, cioè il sapere regolato, è la conoscenza degli universali” 104. Va riconosciuto a Ginzburg di aver messo in luce un oggetto di sapere storico normalmente censurato e rimosso, cioè l’esistenza di forme di razionalità diversa e tuttavia dotate di una loro efficacia e compattezza, e ritengo che, se si vuol parlare di metodi storiografici o di una epistemologia della storia, siano di altro ordine i problemi che occorre porsi. Non solo e non semplicemente una querelle fra microstoria e macrostoria: non è qui evidentemente una questione di scala degli oggetti, ma di modelli teorici e in ultima analisi si tratta allora di porsi le questioni dei valori di verità, della potenza conoscitiva degli strumenti, della generalità necessaria per la conoscenza e anche, se vogliamo, per la prassi. Continua Vegetti in maniera a mio avviso del tutto condivisibile “Possiamo anche pensare che concetti come quello di modo di produzione,

1.6. Il legame perduto: la scuola di Francoforte e la tradizione dei British cultural studies. Per molto tempo la tradizione britannica dei cultural studies ha, volontariamente o meno, ignorato la maggior parte degli studi condotti dalla scuola di Francoforte106 stigmatizzandoli come elitisti e riduzionisti. I teorici della teoria critica, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso,

Croce 1938. Questo problema è stato affrontato in molti interventi da Gabba 1997, 1999a, 2001 sul pericolo o l’oppurtunità di poter utilizzare le fonti scritte di III sec. a.C. per l’interpretazione archeologica della prima Roma; così anche Fraschetti 2007; contra Carandini 1997, 2008 criticato da Bietti Sestieri 2000a in termini archeologici. 103  Ginzburg 1984, p. 148. 104  Vegetti 1980, pp. 16-18. 101  102 

Eco 1982, pp. 40-44. In realtà un’ipotesi non così sbagliata stando agli sviluppi successivi sull’argomento, Matte Blanco 1988; Bateson 1997. 106  Kellner 1989; 1995. 105 

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L’ideologia degli archeologi portarono avanti la critica agli aspetti uniformanti e standardizzanti della produzione culturale di massa tipica del capitalismo tecnologico di seconda era; consideravano la produzione culturale inglobata anch’essa dentro le dinamiche messe in atto per legittimare l’esistenza della società capitalista, in un complesso sistema di autoriproduzione della società industriale che trasformava ogni aspetto della cultura in un puntello ideologico per creare un nuovo individuo consumatore. In questa direzione andavano gli studi di Adorno sulla musica popolare107, quelli di Lowenthal sulla letteratura e le riviste di propaganda108 e quelle di Herzog sulle soap opera radiofoniche109. La volontà di studiare l’industria culturale, così delineata nel suo blocco fuso, nasceva da un’urgenza politica ed intellettuale. Essi volevano investigare il contesto politico-sociale e i meccanismi della nuova società consumatrice che avevano di fronte (esigenza intellettuale), comprendendo i motivi che avevano permesso alla classe operaia, base della rivoluzione socialista nello scenario marxista classico, di essere assorbita nelle nuove forme di capitalismo (esigenza politica). Lo scontro con il pensiero di Marx e la sua riformulazione furono lo stimolo per proporre nuove prospettive di emancipazione politica e sociale rispetto a quelle che avevano miseramente fallito. Vittima dell’emergere dei fascismi europei, la scuola di Francoforte trasse nuova linfa dal suo esilio in America, a contatto com’era con il capitalismo imperante di tipo “fordista”, produttore non solo di beni materiali ma anche di stili di vita, comportamenti; in breve, di un’ideologia di massa. Dal punto di vista analitico, l’individuo, per motivi storici e socioeconomici, si dissolveva nel magma della società affamata di beni.

della società capitalista; una strada, questa, che invece la scuola di Francoforte aveva ritenuto non più percorribile e di cui analizzava il fallimento. La seconda stagione dei British cultural studies prese avvio con la formazione nel 1963, presso l’Università di Birmingham, del Centre for Contemporary Cultural Studies da parte di Hoggart e Stuart Hall; i successivi vent’anni verranno considerati il periodo classico dei cultural studies. La nuova linea tracciata condivideva molte delle conclusioni (meno le analisi o i metodi) della scuola di Francoforte. Pur spesso non citandola esplicitamente113, l’accento veniva posto, come già per i sostenitori della teoria critica, sull’integrazione della classe operaia nella nuova classe dei consumatori, sul declino della sua coscienza rivoluzionaria detonatrice e, in ultima istanza, sul fallimento del progetto marxiano. Il ruolo della nuova cultura industriale di massa veniva unanimemente riconosciuto come strumento della nuova egemonia capitalista. A dar corpo a questa serie di riflessioni venivano utilizzati con disinvoltura sia Gramsci (e il suo concetto di egemonia), sia Althusser114, per i quali in sostanza, rispetto alla volgarizzazione del pensiero di Marx, l’ideologia riacquistava un ruolo determinante così come la relazione che l’immaginario espresso dal soggetto intrattiene con le reali condizioni della sua esistenza115. Una differenza incolmabile restava fra le due scuole rendendole però in un certo senso complementari: l’una, quella dei cultural studies britannica, tesa a far emergere dalle dinamiche di massificazione quei fenomeni contrappuntistici di resistenza all’uniformazione, l’altra impegnata in uno sforzo nichilistico ad accentuare il processo di omologazione inarrestabile sulle forme ideologiche di dominazione.

I primi British cultural studies emersero in un periodo di poco successivo, in quello che è stato poi battezzato periodo della tarda logica del capitale o post-fordismo110, caratterizzato da un più variegato e conflittuale processo di formazione culturale. Le forme di cultura descritte nella prima fase dei British cultural studies a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso erano scosse da un significante stato di tensione sociale, sia in Inghilterra che in Europa, tra la vecchia classe operaia e l’emergente blocco uniforme e massificato dei consumatori111. Il progetto iniziale, sviluppato da Richard Hoggart, Raymond Williams e E. P. Thompson aveva forti implicazioni politiche, volendo preservare il blocco storico della classe operaia britannica dalla dissoluzione massificante, restituendogli coerenza e donandogli una coscienza di classe che non aveva mai avuto112. Tutti gli studi così orientati volevano attaccare la cultura di massa e fare della cultura sociale della classe operaia una forza progressiva di cambiamento, con il fine ultimo di una sua mobilitazione reale che scardinasse le disuguaglianze

Operativamente tale differenza si concretizzava in un’attenzione maggiore dei cultural studies alle forme di opposizione alla cultura dominante, quali potevano essere le subcultures, i movimenti giovanili e ancora quegli aspetti resilienti della cultura della classe operaia che potevano portare a un cambiamento sociale radicale116. Questo atteggiamento ebbe però delle conseguenze. Portò ad ignorare da un lato le forme di cultura “alta” che erano state invece al centro della critica della scuola di Francoforte, in favore di forme “popolari” di cultura e tralasciando tutti i fenomeni d’avanguardia (espressionismo, dadaismo e surrealismo) che invece un certo grado di forza detonante potevano esercitare sulle dinamiche sociali, e dall’altro a ignorare il modernismo come fenomeno totale, ricacciandolo in blocco117. In altre parole, il risultato fu uno schiacciamento spesso acritico su tematiche esclusivamente postmoderne. Se questa Per questo complesso rapporto tra le due scuole Kellner 1997. Hall 1999. 115  Dico a ragione riacquistata. Si veda Carandini 1979. 116  In questo senso va vista la fortuna di Herbert Marcuse, uno dei pochi fra i membri della Scuola di Francoforte che si occuparono di queste forme periferiche di resistenza culturale, rispetto per esempio ad altri, fra tutti Adorno. 117  Kellner 1997, p. 14. 113 

Adorno 1962. 108  Lowenthal 1982. 109  Herzog 1941. 110  Jameson 1984. 111  Per una breve storia della “working-class” in Inghilterra e il rapporto con il blocco egemone al potere Anderson 1964. 112  Anderson 1964, pp. 30-33. 107 

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. poteva essere una risposta coerente alla nuova era del capitalismo globale, in cui il tema dell’intensificata spinta al consumo si intrecciava con una nuova base sociale maggiormente informata e potenzialmente più reattiva alle dinamiche egemoni rispetto ai decenni precedenti, la controindicazione era però “a tendency to decenter, or even ignore completely, economics, history and politics in favor of an emphasis on local pleasures, consumption, and the construction of hybrides identities from the material of the popular. This cultural populism replicates the turn in postmodern theory away from Marxism and its alleged reductionism, master narratives of liberation and nomination, and historical teleology”118. In nome di questo presunto riduzionismo economico (ancora una volta il grande malinteso marxiano), il legame pur flebile con la scuola di Francoforte e con Marx fu reciso definitivamente, e con lui la critica all’ontologia kantiana che, come vedremo, avrà delle conseguenze inaspettate anche sull’archeologia. Un Marx che fra gli autori “moderni” era quello che più avrebbe impedito di considerare la modernità come un blocco granitico restituendola alla sua complessità dovuta119. Nell’ansia di dar ragione del passaggio tra fordismo e post-fordismo e, particolarmente in Inghilterra, di spiegare l’“autoritarismo populista” thatcheriano120, non veniva tenuto conto dei fattori economici che sostenevano ed esprimevano l’ideologia thatcheriana o, se si vuole, della formazione economicosociale nel suo insieme121. Questo schiacciamento sul culturale derivava da una scomposta fibrillazione alla ricerca di spiegazioni e da un’ansia di superamento delle condizioni presenti che mettessero fine alla frustrazione di cui erano vittime gli intellettuali occidentali nel periodo reganiano-thatcheriano, con conseguente perdita del loro ruolo civile. E nel tentativo di rincorrere le ragioni di questa perdita drammatica al limite dello psicodramma collettivo, il postmoderno veniva salutato come un’epoca nuova, di cambiamento, di fine del capitalismo più feroce ormai giunto nella sua fase “tarda”. Un capitalismo in declino che preannunciava il sorgere di nuove forme di società più umane e solidali di cui quegli intellettuali sarebbero stati i portavoce.

neanche quella affrontata attraverso categorie culturali sembra efficace. Il rischio è quello di vedere in un elemento residuale il segno di un cambiamento strutturale, di un mutamento storico, con conseguenze nefaste per la periodizzazione stessa123. Fra i due sistemi vi è anche un compromesso morfologico fatto di categorie “dure” come quella di formazione economico-sociale. 1.7. Il fantasma del postmoderno. La problematica relativa al postmoderno in ambiente britannico arrivò relativamente tardi a turbare le certezze dello storico (e poi dell’archeologo), trovando più che altro ostilità o indifferenza. Le prime riflessioni sul tema datano intorno ai primi degli anni Novanta del secolo scorso, quando si avviò un dibattito sul tema nella rivista Past and Present124. Per circa un decennio non si ebbero però ulteriori accenni all’argomento. Fino a che nel 1998 un articolo di Patrick Joyce tornava a ritessere le fila del discorso perduto125. Il disagio avvertito dall’ambiente accademico degli storici era profondo. Come già ricordato, il postmoderno chiedeva una riflessione più stringente sul moderno, sul rapporto tra passato e presente e sul ruolo di quest’ultimo nella formazione del secondo. Ma, soprattutto, chiedeva alla storia di mettere in causa alcune delle sue certezze più radicate come lo statuto oggettivo del fatto storico. Dieci anni prima uno storico americano alle prese con le stesse problematiche, incalzato dalle domande dei postmodernisti, ne riaffermava sostanzialmente la validità: “At the very centre of the professional historical venture is the ideal of ‘objectivity’. It was the rock on which the venture was constituted, its continuing raison d’être […]. The assumptions on which it rests include a commitment to the reality of the past, and to truth as correspondence to that reality; a sharp separation between knower and known, between fact and value, and, above all, between history and fiction. Historical facts are seen as prior to and independent of interpretation […]. Truth is one, not perspectival. Whatever patterns exist in history are ‘found’, not ‘made’ […]. The objective historian’s role is that of a neutral, or disinterested judge”126. Venivano riaffermate così anche le vecchie prerogative della professione di storico127.

La società non si è però sgretolata, né l’intellettuale sembra aver riacquistato le sue prerogative. Come conseguenza però si ebbe una frettolosa liquidazione del moderno come periodo storico, relegato in uno spazio altro e lontano, schiacciato non meno del postmoderno dentro un angusto spazio carico di pochi e ben riconoscibili (e soprattutto estranei) attributi. Il problema della periodizzazione si ripresenta ancora una volta; in questi termini “Postmodernism would also be involved in how we historicize modernity”122 . E se è vero che la periodizzazione fatta attraverso il succedersi di modi di produzione differenti non sembra più percorribile,

La reazione in Gran Bretagna fu sostanzialmente quella di ignorare il dibattito; una posizione che aveva anch’essa le sue profonde motivazioni. La controversia sul termine era sentita come il principale motivo per ignorare il postmoderno128. Mettendo però in questione l’oggettività Giardina 1999, pp. 160-161. Joyce 1991; Stone, Spiegel 1992. 125  Joyce 1998 lo ha chiamato non a caso “the return of history”, in risposta alle affermazioni di uno dei teorizzatori del postmoderno, che molto enfaticamente aveva più volte annunciato la fine del sociale e della storia, Baudrillard 1983, 1983a. 126  Novick 1988, pp. 1-2. 127  Come ricorda Joyce 1998, pp. 208-209, nella battaglia tra postmoderni e tradizionalisti, vi era nel mezzo chi praticava onestamente la propria disciplina senza sentire l’esigenza di fare troppa teoria. 128  Un’antologia del termine si può trovare in Lyotard 1984; Harvey 1989; Laudan 1990; Rose 1991; Roseman 1992; Cahoone 1996; 123  124 

Ivi, p. 15. Non è un caso che Thomas 2004 nella sua trattazione della modernità come periodo unitario, eviti di citarlo, così come Nietzsche. 120  Hall 1999. 121  Sereni 1970; Simoni 2006. 122  Joyce 1998, p. 215. 118  119 

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L’ideologia degli archeologi storica, pur tenendosi in disparte era la storia stessa a essere colpita nel suo nucleo pulsante scuotendone le fondamenta. Era impensabile non percepirne i duri contraccolpi anche a distanza. Lentamente l’oggettività storica scivolava in un’altra corrente filosofica a essa affine, il realismo, trovando così riparo. L’assalto al logocentrismo bipolare del pensiero che aveva prodotto rigide opposizioni come oggettivo/soggettivo costringeva a prendere coscienza con gli aspetti più marginali del pensiero, con gli ibridi, le alterità in senso assoluto, al livello d’analisi e al livello ontologico, col ruolo dialogico e relazionale che il passato e il presente instaurano attraverso la mediazione del discorso storico129. Di qui il ruolo centrale nei postcolonial studies. Ma il quadro di sostanziale indifferenza, fatte salve alcune tematiche che entrarono di forza nelle accademie, non mutava. Il problema risiedeva nella percezione e nella ricezione di alcuni cardini del pensiero moderno. La grande difficoltà di penetrazione di questioni come la periodizzazione del moderno e il conseguente fatto di percepirlo come un blocco monolitico dotato di sue proprie e specifiche caratteristiche, reso cioè ben identificabile e riconoscibile, trovava nel Regno Unito alcuni ostacoli di origine strutturale130; o meglio, il moderno come categoria veniva percepita con qualità differenti dalla maggior parte delle altre esperienze europee o statunitensi, dove il dibattito invece era vivo e aspro. L’attacco lanciato da postmodernisti come Baudrillard, Lyotard e Derrida alla teoria sociale moderna e alle narrative storiche era diretto ad alcune caratteristiche della tradizione moderna individuate nel pensiero uniformante del soggetto razionale, con pretese di coerenza non più sostenibile e che affondava le sue basi nel positivismo e nell’illuminismo settecentesco.

disinteresse per l’illuminismo fosse dovuto al fatto che i processi che questo innescava altrove, in Inghilterra erano già in opera da tempo sotto altre forme e potenzialità133. Così, al momento dell’esplosione postmoderna, fu subito chiaro che “the postmodernists have treated the modern tradition too one-sidely and monovocally, focusing almost entirely on its excesses and errors. For while positivist and hyperrationalist elements abound in their works, modern social theorists also developed themes pointing to the limits of their assumptions that anticipated the postmodern critique. […] Consequently, while postmodernists address some problematic features of modern theory, their caricature of the tradition and radical break with the approach ignores the extent to which it continues to provide resources for the projects of understanding social reality and promoting social reconstruction”134. In sostanza non si riconosceva la critica alla modernità. Una delle conseguenze più visibili dell’intermittente ricezione dell’illuminismo fu la mancata distinzione fra la figura dell’intellettuale e quella del professionista storico, che si basava su una delle distinzioni cardine dell’illuminismo, cioè quella fra storia e filosofia. Una mancata definizione della natura dell’intellettuale che affondava nel vecchio empirismo della cultura inglese (su cui ritorneremo) schermato da alcuni eccessi. Colin Gordon, insieme ad altri, esaminando la difficile ricezione del pensiero di Foucault nella cultura inglese ma penetrato in maniera massiccia negli Stati Uniti insieme a Derrida, Deleuze ed altri poststrutturalisti135, ne riconduceva le cause proprio all’invisibilità dell’illuminismo nella tradizione di pensiero britannica, ammettendo anche come la mancata costruzione dell’intellettuale come figura autonoma, distinta da uno status e con un ruolo ben preciso che aveva avuto corso in tutta Europa, fosse un fenomeno storico e sociologico peculiare della cultura inglese136. Le conseguenze vi furono a livello civile. L’intellettuale inglese praticava una certa neutralità etica nei confronti della società civile e nei confronti degli indirizzi politici. Il suo isolamento dall’impegno civile era assordante e il suo ruolo pubblico incerto e contraddittorio137. Come non ha mancato di rilevare Joyce, “The professionalization of knowledge in the late l9th century, of which the emergence of professional history was a part, accelerated these tendencies, emphasizing the utilitarian, empirical and meliorative dimensions of knowledge, particularly in relation to intellectuals’ orientation to politics and the state. This went hand-inhand with the growth of the cult of ‘objectivity’ in history. A rather unproblematic understanding of the social seems to have been a consequence of this”138. Descrivendo la

Tuttavia, in Inghilterra parlare di illuminismo come di un movimento unitario e soprattutto influente risulta una contraddizione in termini. Robert Wokler notava che, ancora nel 2001, l’Oxford English Dictionary definiva la voce “Enlightenment” come “superficial intellectualism marked by insufficient respect for authority and tradition” e colui che lo pratica “who philosophizes erroneously”131. L’illuminismo, tantomeno quello di tipo scozzese, non fu percepito sin da suoi esordi in maniera articolata e chiara, e non servì da base per riflessioni sull’ordine sociale e politico o per considerazioni filosofiche come invece era stato per paesi come Germania e Francia, mentre in Italia la questione non era stata mai posta in maniera filosofica seria132. È stato spesso notato come il sostanziale Docherty 1993; Appleby 1996; per una sintesi delle rivendicazioni dei postmodernisti e una critica Antonio, Kellner 1994. 129  Su questo rapporto dialogico su tutti Ricœr 1983-1985, 2000a, 2000b. 130  Joyce 1998. 131  Wokler 2001, p. 418. 132  Alcuni distinguo vanno comunque fatti anche in seno al continente. Mentre per la Francia non vi è alcun dubbio sul ruolo che giocò l’illuminismo come pensiero fondante, in Germania, le tensioni politiche e l’atteggiamento anti-francese, portarono presto la cultura egemone tedesca su posizioni anti-illuministiche (Kulturgeschichte). In Italia il discorso si fa ancora più complesso. L’illuminismo ebbe da subito forti difficoltà a penetrare. Solo successivamente col positivismo maturo e il neopositivismo alcune riflessioni dell’illuminismo furono assorbite. La lettera di Madame de Staël, apparsa nel 1816, fu il primo tentativo di

scuotere in senso illuminista la cultura italiana ed è significativo che si intitolasse “Sulla maniera ed utilità delle traduzioni”. 133  Joyce 1998, p. 217. 134  Antonio, Kellner 1994, p.127. 135  Su questo fenomeno di massiccia penetrazione di Foucault, Derrida e Deleuze negli Stati Uniti, si veda la recente analisi di Cusset 2003. 136  Burchell, Gordon, Miller 1991. 137  Per un inquadramento del problema del ruolo degli intellettuali in Inghilterra Collini 1991. 138  Joyce 1998, p. 218.

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. ricezione del pensiero di Bauman, due dei campioni della critica alla modernità, Richard Kilminster e Ian Varcoe, hanno sottolineato le difficoltà incontrate nell’ambiente accademico inglese rispetto alle altre esperienze europee139. Questa difficoltà risiedeva nella visione storica di una società schiacciata sulle istituzioni statali che la privava di complessità, legata in ultima analisi alla corretta definizione del rapporto tra filosofia e storia, distinzione a sua volta dipendente dalla ricezione del pensiero foucaultiano. Come notava ancora una volta Gordon, la storia veniva allontanata dalla filosofia creando un’afasia per cui i filosofi britannici erano portati a ignorare la storia della filosofia e gli storici a ignorare il pensiero filosofico e la teoria della storia in nome di esigenze empiriche e utilitaristiche140. Queste considerazioni non sono prive di significato per il tema che qui ci interessa se consideriamo il fatto che il pensiero postmoderno è un pensiero altamente filosofico. Alla luce di queste considerazioni non stupisce la mancata ricezione delle tematiche postmoderne come fenomeno intellettuale per eccellenza, visto il lungo divorzio intercorso in Inghilterra tra storia e filosofia141.

critica neoliberale conservatrice degli anni Ottanta, la storia accademica e sociale inglese scivolava lentamente a destra in anticipo di almeno un decennio rispetto a tutto il continente europeo. Le caratteristiche del nuovo ambiente culturale e della nuova storiografia conservatrice tendevano a inibire la riflessione teorica, a identificare lo Stato come istituzione con la società e a deprivare l’individuo di autonomia o di atteggiamenti devianti dalle linee uniformanti della società-blocco145. Questo creava un vuoto di strumenti concettuali, proprio mentre sopraggiungeva il postmoderno criticato vigorosamente anche dall’ambiente progressista. Come non manca di notare ancora una volta Joyce, “While in the 1980s other disciplines had been much less parochial than previously, the intellectual insularity of ‘British History’ has been remarkable. Conservative history was at the root of this, with its fetishization of contingency and its distrust of theory. This temper of the 1980s has been a further reason for the slow progress of postmodernism, explaining why, when it has taken hold, it has tended to replay arguments seen earlier in other disciplines.”146. L’eclissarsi del paradigma della storia sociale ha lasciato un vuoto che non è stato colmato dal postmoderno.

Resta da spiegare come, alla difficile e stentata ricezione in campo storico di temi postmoderni, corrisponda un precoce e profondo radicamento di tali temi nell’archeologia britannica e anglo-americana in genere.

Il concetto di “sociale”, nella scrittura della storia britannica, è stato spesso messo in relazione con la sua stessa storia sociale. L’emergere tra gli anni Sessanta e Settanta della cosiddetta “social democracy”, che aveva le sue radici nel tardo periodo vittoriano e nella tradizione liberale progressista, rappresentò il floruit per gli studi di questa disciplina in Inghilterra. Sotto l’influenza del marxismo di stampo britannico, centrale per l’analisi della società, erano penetrati i concetti di classe, esperienza e cultura fondati sulle riflessioni delle forze trasformatrici scaturite dalla rivoluzione industriale142. Col progressivo eclissarsi della “social democracy”, legata politicamente al Labour Party, socialmente alla working-class in via di dissoluzione ed economicamente al sistema produttivo manifatturiero143, ci fu un arretramento della storia sociale intesa in senso progressista144. Con l’emergere della

Negli Stati Uniti la situazione si presentava più fluida. Il polifonismo presente nell’ambiente accademico statunitense favorì lo sviluppo di tematiche postmoderne. In questo meccanismo di ricezione ebbero parte fondamentale i subaltern and postcolonial studies, e qui il debito nei confronti del lavoro di Edward Said resta immenso147. Tali polifonismi e polimorfismi teorici, uniti a una naturale sensibilità ricettiva alle differenze oltre che da una certa tradizione filosofica (per così dire post-kuhniano), provenivano dalla particolare storia sociale dell’America che affondava le proprie basi in un multiculturalismo strutturale derivante dall’imperialismo economico e culturale. Le politiche nazionali “identitarie” fondate sulla promozione (non senza conflitti) delle differenze si riflettevaon nella pratica storica. Movimenti di rivendicazione delle minoranze marginali come quello femminista o afroamericano crearono il terreno per un’entusiasta ricezione del postmoderno in diversi campi del sapere accademico come forme di resistenza politica e culturale alla situazione sociale ed economica reale degli Stati Uniti e delle Americhe in generale, dove la disuguaglianza e discriminazione era inverata in prassi politica148. Agli inizi degli anni Novanta del secolo

Kilminster, Varcoe 1996. Burchell, Gordon, Miller 1991; Gordon 1996, pp. 262-263. 141  Joyce 1998, p. 219. 142  Johnson 1979; Joyce 1994, pp. 159-161. 143  Anderson 1964; Johnson 1979: 144  Gli eventi politici succedutisi dopo la creazione del New Labour Party e la sua vittoria nel 1997 hanno lasciato profondi traumi tra gli intellettuali di sinistra inglesi. La vittoria del Labour non ha compensato il dissenso nei confronti delle nuove premesse su cui si fondava il nuovo progetto politico. Era chiaro che qualcosa stava cambiando nelle politiche progressiste, un cambiamento che avvicinava il partito alle posizioni conservatrici. Per molti le parole che Tony Blair pronunciò durante la campagna elettorale sulla politica delle nazionalizzazioni, risuonarono come un tradimento. Volendosi distinguere dalle vecchie politiche del partito infatti affermò che “there is no overriding reason for preferring

the public provision of goods and services, particularly where those services operate in competitive market, then the presumption should be that economic activity is best left to the private sector, with market forces being fully encouraged to operate”, e conclude “New Labour is now the party of business”, per le parole di Blair, ma anche in generale su questo argomento si veda Wickham-Jones 2003, p. 37 e anche David 2000, p. 326. 145  Anthony Giddens, sociologo e deputato inglese del Labour in quegli anni, l’inventore della terza via, tra liberismo e socialismo in economia (economia sociale), era anche il teorico di una structuring theory, che imbrigliava l’individuo (debole) all’interno di una struttura che non poteva e non era in grado di modificare. 146  Joyce 1998, p. 220. 147  Said 1995. 148  Novick 1988 specie il capitolo II.

1.8. Comparando Stati Uniti e Regno Unito: alcune riflessioni.

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L’ideologia degli archeologi scorso, l’ascesa della nuova destra conservatrice sembrò lentamente inibire l’apertura al dibattito di temi come marginalità, differenza, pluralità149. Il volume collettivo di Appleby, Hunt e Jacobs150 intitolato Telling the Truth about History è sintomatico di questa tendenza. Il postmoderno veniva neutralizzato nelle sue tematiche più scomode e conflittuali, rielaborato e riconsegnato a una nuova ideologia conservatrice, pluralista ma liberale e identitaria, nutrendo sia la nuova classe dirigente sia la sua politica tesa a rafforzare lo Stato-nazione in patria e all’estero. Dall’altro il postmoderno diventava facile capro espiatorio per le contraddizioni interne alla società americana e per le inquietudini dovute ai nuovi assetti internazionali, minando così sia le convinzioni della classe dirigente democratica, sia gli intellettuali e le teorie favorevoli a politiche tese al riconoscimento delle differenze151. In Telling the Truth about History, il tema dell’oggettività della storia, così fortemente criticato negli anni precedenti dalla filosofia post-kuhniana152, riemergeva e si ripresentava sulla scena senza apparentemente aver subito nessun danno, al servizio della costruzione di una nuova identità di un diverso Stato-nazione non più ottocentesco153.

questo sistema di riproduzione borghese-aristocratica157. La celebrazione della storia nazionale identificata con quella delle grandi famiglie d’Inghilterra, l’identificazione tra storia e verità, la continua riproposizione ed esaltazione della continuità dei valori e dei metodi del sapere, sono stati alla base di questi meccanismi di riproduzione. La “colonizzazione” della storia per questi fini identitari e politici di classe sembra essere stata la causa della sua lenta ma inesorabile separazione da tutte le altre discipline: l’arte e la filosofia ma, fatto ancor più grave, tra la storia e le altre scienze sociali. Questo produsse anche una separazione tra storia come rappresentazione e storia come realtà, segnando il definitivo trionfo di una sola realtà, unica, lucente e soprattutto vera: “a separation that made history a discourse of ‘the real’, in the sense that the textual operations of history, sup-pressing the authorial and fictive aspects of writing, worked to produce an unproblematically real world which could therefore be taken as history’s desideratum, and its guarantee”158. Il ritorno della teoria (neo-) moderna per come l’hanno intesa Clifford Geertz e Jurgen Habermas, ovvero come un sistema culturale ideologico e scientifico159, è stato messo in relazione con il ritorno di una certa cultura reazionaria nell’era post-positivista e con il sorgere della new right americana. Secondo Jeffrey Alexander, teorico di questo ritorno al moderno negli studi americani di teoria sociale, essa si distinguerebbe in alcuni precisi dispositivi per organizzare e ordinare la realtà: 1) le società sono concepite come sistemi coerenti in cui i subsistemi sono intimamente legati; 2) l’evoluzione storica è divisa in due tipi di sistemi sociali, uno tradizionale e uno moderno, che determinano il carattere dei sottoinsiemi; 3) il moderno è costruito e si riferisce all’organizzazione delle società e della cultura occidentale, che sono tipizzate e categorizzate in forme ben definite, individualista, democratica, scientifica, secolare, stabile, e che concepisce una divisione di genere molto accentuata; 4) nei confronti del processo storico la modernizzazione non concepisce cambiamenti rivoluzionari o comunque non favorisce i cambiamenti; 5) la teoria moderna è concepita come un più generale processo adattativo e pervasivo che si attua attraverso strategie ben precise (democratizzazione, secolarizzazione, industrializzazione) e che attua la sua riproduzione attraverso la scienza e il sistema educativo160.

Tracciando questo quadro impressionistico sulla ricezione del postmoderno negli Stati Uniti e nel Regno Unito, si ha la percezione del profondo legame che sussiste ancora tra la formazione e la trasformazione dello Stato-nazione all’appropriazione del sapere e al controllo egemonico della storia come chiave ideologica di controllo del potere a tutti i livelli154. Queste affermazioni circa la discussione tra moderno, post e neo-modernismo non sono anacronistiche visti gli ultimi sviluppi sul tema che legano inestricabilmente il ritorno a concetti “moderni” una nuova stagione di nazionalismi155. Nel Regno Unito questa dinamica sembra aver avuto particolari sviluppi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, le cui conseguenze sono percepibili anche adesso e ben analizzate da Reba Soffer156. Studiando la formazione della classe dirigente inglese nelle istituzioni britanniche dal 1870 fino alla fine della Seconda guerra mondiale, l’autrice ha messo ben in evidenza il legame tra disciplina educativa esercitata nei luoghi di formazione delle élites ed esercizio del potere. L’insegnamento della storia nelle due principali e prestigiose università inglesi, quelle di Oxford e Cambridge (spesso considerate una sola entità e indicata col nome di “Oxbridge”), si è rivelata alla base di

Alexander è convinto che vi siano degli elementi validi dal punto di vista funzionale, soprattutto in termini di un aumento generale di libertà e democrazia, sostenendo che “there are functional and not merely idealistic exigencies that push social systems toward democracy, markets, and the universalization of culture, and that shifts toward ‘modernity’ in any subsystem create considerable pressures on the others to respond in a complementary way (enfasi mia)”. Rispetto agli imbarazzi dei teorici di

149  Per questo tema si veda il volume speciale di Journal of Social History 24 1995: Social History and the American Political Climate Problems and Strategies. 150  Appleby, Hunt, Jacobs 1995. 151  È di questi stessi anni lo scontro tra Samuel P. Huntington e Edward Said sul tema del “Clash of Civilizations”. Sulle critiche di Said su quello che lui considera un mito si veda https://www.mediaed.org/transcripts/ Edward-Said-The-Myth-of-Clash-Civilizations-Transcript.pdf. 152  Sulla lunga tradizione americana critica nei confronti dell’oggettività storica Novick 1988. 153  Joyce 1998, p. 222. 154  Su questo argomento rimane essenziale Hobsbawm, Ranger 1983. 155  Su questo si veda Alexander 1995, pp. 93-96; contra Giddens 1982, p. 144, che afferma invece “modernization theory is based upon false premisses’. 156  Soffer 1994.

Ivi, p. 12. Joyce 1998, pp. 225-226. 159  Geertz 1973; Habermas 1987. 160  Alexander 1995, pp. 65-66. 157  158 

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Modernismi e postmodernismi. Una questione di tempo. sinistra ad ammettere il fallimento delle società socialiste e alle generali aporie tra teorie rivoluzionare e il trionfo del capitale, il vantaggio principale degli approcci conservatori sarebbe quello che “the rational is the real”161. La difesa di questo sistema è totale. Una volta depurato da un certo determinismo storico e da certi vecchi sapori imperialisti, può ritornare, rivisitato, a guidare gli indirizzi intellettuali e politici, ammantando coloro che lo mettono in pratica di una calda assoluzione: “Despite their ideological intent, the most important of them rarely confused functional interdependence with historical inevitability”162. Il ripensamento dell’opera di Marx e la teoria della “social democracy” scuoteranno queste certezze dell’obiettività ma contingenze di carattere politico e socioeconomico, in un periodo di incubazione del postmoderno, riporteranno la critica neoliberale conservatrice su posizioni di riflusso rispetto a questo punto. La storia nazionale e politica ritornava a orientare le ricerche. Dopo lo shock dell’era tatcheriana, la geografia del postmoderno in Inghilterra e in Europa ha ripreso a svilupparsi con vigore, riprendendo il filo del discorso perduto163. Nonostante le somiglianze che intercorrono tra le due storie nazionali, la ricezione del postmoderno si fece strada in Gran Bretagna circa un decennio dopo che in America alla fine degli anni Novanta. Si faceva largo tra le pieghe del profondo anti-essenzialismo concettuale che pervadeva la cultura britannica da ormai caratterizzarne gli orientamenti e rendendola sensibile ai concetti ibridi, ai meticciati di ogni tipo o, per meglio dire, ricettiva a cambiamenti repentini di formulazioni teoriche. Di lì a poco però, con il crollo delle Twin Towers, una nuova configurazione socioeconomica si andava costruendo a livello globale, gravida di nuove ed inaspettate conseguenze sul destino dei singoli paesi e dei singoli individui, popolata di vecchi fantasmi coloniali ed imperiali. Il postmoderno rivelava tutte le sue difficoltà di fronte a questi nuovi equilibri vacillando nelle sue proposizioni. Chi aveva abbracciato l’arrivo del postmoderno salutandolo come una nuova era di leggerezza e di democrazia globale si doveva ricredere. La fine politica ed etica del postmoderno è la presa di coscienza della sua inconsistenza anche a livello di strumento analitico-teorico. La sua dissoluzione in luogo non solo di una nuova oggettività, presunta o pretesa, dava origine a una nuova storia tesa alla ricerca di nuovi strumenti d’analisi e nuovi significati concettuali in cui imbrigliare la realtà e organizzare il futuro, lasciandoci come eredità più significativa l’urgenza di storicizzare il moderno lasciato ormai a nervi scoperti.

Ivi, p. 68. Ibidem. 163  Ivi, pp. 228-230. 161  162 

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2 Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. In cronologia il mondo degli uomini (e in alcune versioni, l’intero universo) è una sola, onnicomprensiva gerarchia; cosicché spiegare perché ogni ente che ne fa parte sia causa, dove e quando, in effetti, è, equivale eo ipso a spiegare qual è la sua funzione, in che misura la svolge, e quale posto tale funzione occupa nella gerarchia che costituisce l’armoniosa struttura complessiva della piramide. Se un tale quadro della realtà è veritiero, allora una spiegazione storica, come qualsiasi altra spiegazione, dovrà consistere soprattutto nella collocazione degli individui, gruppi, nazioni, specie, nel punto loro destinato nella configurazione universale. Conoscere il luogo cosmico di una cosa o chi è, e cosa fa, e nello stesso tempo offrire di ciò una spiegazione. Essere e avere valore, esistere e avere la funzione (e compierla con maggiore o minore successo) sono allora una medesima cosa. La configurazione d’insieme, e solo essa, fa esistere e durare, conferisce uno scopo, in altre parole dà valore e significato al mondo. Capire è percepire configurazioni […]. Quanto più un evento o un atto o una personalità vengono presentati come necessari e inevitabili, tanto meglio li riterremo spiegati, tanto più ammireremo l’ingegno dell’autore di tale spiegazione, tanto più ci sentiremo vicini alla verità. Si tratta di un atteggiamento profondamente antiempirico1. Isaiah Berlin 2.1. Archeologie: processualismo e postprocessualismo.1

con l’archeologia “storica”4. Tutto il quadro teorico che presenterò si svolgerà nello spazio argomentativo e concettuale dei temi esposti e venuti alla luce nel capitolo I, per meglio inquadrare gli sviluppi che quei temi hanno avuto nella riflessione teorica e pratica dell’archeologia.

In questo capitolo tracceremo a grandi linee il contesto dell’archeologia angloamericana degli ultimi trent’anni. Tralasceremo di proposito la genesi della New archaeology e le sue tendenze, per concentrarci subito sulla messa in causa di alcuni suoi punti fondanti (archeologia processuale) e sulla contestazione massiccia di tutto il movimento processuale da parte di alcuni studiosi della scuola di Cambridge (postprocessualismo). Ciò che ci preme qui non è fare un’ennesima storia del conflitto e delle relative posizioni2 ma mettere a fuoco il processo di insorgenza del postprocessualismo come momento oppositivo e il suo riflusso quasi immediato, con momenti di reazione anche violenta, analizzando la dinamica retorica del conflitto insieme a quella della riconciliazione, con tentativi da una parte e dall’altra di primeggiare negli ambienti accademici; mettendo in luce altresì la reificazione del dibattito in ambiente angloamericano, nella contrapposizione spesso asfittica tra processualismo e postprocessualismo, all’interno di dinamiche “discorsive” che rappresentano, con gradi diversi e momenti alterni, le due grandi posizioni del dibattito scientifico: per semplificare estremamente, quella “oggettiva” e quella “relativista”, quella più vicina alle scienze “dure” e quella più simile alle scienze sociali3. In questo processo di ricognizione tralascerò spesso tutta una serie di posizioni e di prospettive “globali” che si trovano nello stesso panorama accademico anglofono e altrove in Europa e che più volte (ma non sempre) coincidono

2.2. Dalla New archaeology all’archeologia processuale: una questione di sfumature? La New archaeology nacque formalmente durante il convegno dell’American Anthropological Association tenutosi nel 1965 a Denver e organizzato da Lewis e Sally Binford5. In quell’occasione venivano formulati alcuni principi cardine della New archaeology in contrasto con l’archeologia “tradizionale” praticata sino ad allora6 4  Il termine “historical” ha un significato leggermente diverso in ambito anglofono, rispetto a quello europeo, volendo significare l’archeologia coloniale nel nuovo continente. Qui verrà usato e manterrà il significato più generale di un’archeologia che si avvale (non solo) del sistema delle fonti scritte, e che ha una certa familiarità con i problemi storici nel suo complesso, con la pretesa di essere essa stessa storia. Per tale differenza sul termine e una sua critica si veda Manacorda 2004a. 5  Binford 1962, 1964; Binford, Binford 1968; Clark 1963, 1968; Flannery 1967, 1973; sulla figura e il ruolo di Clark, Smith 1997; sui primi sviluppi dell’approccio funzionale della New Archaeology, Trigger 2008, pp. 314384; sul ruolo delle scienze e dell’utilità delle leggi nella spiegazione archeologica, che animava il dibattito in quegli anni, si veda Fritz, Plog 1970; Kendall 1969; Martin 1971; Watson, Le Blanc, Redman 1970. 6  Il rapporto che l’archeologia angloamericana intratterà, da questo momento in poi, con il lemma “tradition” sarà in larga misura negativo. In riferimento proprio a questo momento di rottura, considerato come sinonimo di un’archeologia asfittica, poco innovativa ed antiquaria, si vedano le interessanti osservazioni di Osborne 2008. In questo senso “tradition” viene (a volte, ma non sempre, come sostiene Osborne) utilizzato da Trigger 1978, p. 218, 228, mentre Clarke 1968, p. 186 proponeva un uso analitico della categoria, “an archaeological unit constituting the overall system expressing the multilinear time-trajectory of an archaeological entity”. La connotazione negativa avrebbe trionfato, nonostante la proposta di Clarke, con conseguenze immaginabili sulla percezione dell’archeologia classica in ambito anglofono, ben presto identificata con quel vecchio modo di praticare, così a lungo contestato. Sul ruolo dell’archeologia classica negli Stati Uniti da ultimo Dyson 2001.

Berlin 1955, pp. 13-15. Per una ricostruzione completa basti citare Renfrew, Bahn 2006 e Trigger 2008, pp. 386-483, con relativa bibliografia. 3  Anche se non mancano coloro che hanno cercato di ribadire le radici ‘razionali’ del postprocessualismo Van Pool, Van Pool 1999. 1  2 

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L’ideologia degli archeologi che si basava epistemologicamente sul relativismo e particolarismo culturale di Franz Boas7 radicato nella tradizione della Kulturgeschichte tedesca. Le tendenze della nuova archeologia contestavano l’approccio della vecchia archeologia storico-culturale8 che operativamente si limitava a creare delle sequenze associative tra una certa manifestazione o prodotto materiale e una determinata cultura.

e principale linea evolutiva. La giustificazione era che, nel lungo periodo, le culture più evolute inevitabilmente assorbono e rimpiazzano quelle meno evolute, parlando in certi termini di successo e fallimento11. La spiegazione del cambiamento risiedeva in un determinismo tecnologico legato alla fiducia nel progresso sociale. Un altro teorico neoevoluzionista, l’antropologo Julian Steward, concepiva un evoluzionismo alternativo a quello di White, multilineare e differenziato, in cui la variabilità dei sistemi culturali e la loro trasformazione era determinata da fattori eminentemente ecologici, contro il determinismo tecnologico-progressivo di White12. Nonostante a Steward, in maniera maggiore che a White, interessasse estremamente il metodo comparativo e combinatorio dei dati e dei tratti culturali, entrambi condividevano la medesima convinzione che si dovessero spiegare più le regolarità e le uguaglianze che le differenze e gli “unique, exotic, and non-recurrents particulars”13 frutto del caso e della storia. Marshall Sahlins ed Elman Service tentarono di riconciliare i due approcci mettendo in relazione l’evoluzione generale e unilineare connessa col concetto di progresso con quella specifica legata all’adattamento multivariato ed adattivo. Partendo dai dati etnografici, concepirono un modello altamente teorico ed astratto, quello della famosa sequenza degli stadi evolutivi delle società14. Ciò che si era guadagnato in potenza esplicativa sincronica e generale si era definitivamente perso in dimensione storica e particolare.

Il clima di generale ottimismo che pervadeva la classe media americana nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale, dovuta all’emergere di una nuova stagione di progressi tecnologici e di crescita economica, si rifletteva in un generale benessere della società dando vita a un rinnovato interesse verso i meccanismi e i processi che stavano alla base del cambiamento sociale. Questo si tradusse in breve in una nuova stagione legata all’evoluzionismo culturale che sosteneva una visione ecumenica e progressiva del cambiamento. Il neoevoluzionismo in antropologia, negli anni Cinquanta del secolo scorso, nasceva in risposta al fallimento del diffusionismo culturale e tecnologico già messo in discussione dalla teoria culturale di Boas, la quale metteva sullo stesso piano, e in maniera indipendente, diverse culture ma riaffermando in maniera netta l’inevitabile traguardo che dovevano perseguire tutte le società, quello della civiltà e della democrazia, ovviamente di stile occidentale. Nell’archeologia americana questa nuova riformulazione sopraggiungeva dopo una stagione critica in cui le scoperte materiali riguardanti i nativi americani avevano posto non solo problemi interpretativi ma avevano anche messo l’accademia “bianca” d’America di fronte alle proprie responsabilità politiche ed etiche.

I temi cruciali con cui si trovarono a confrontarsi i new archeologi e archeologhe erano gli stessi: quello della dimensione temporale e quello delle cause del cambiamento delle società in senso evolutivo. Nonostante il neoevoluzionismo non fosse particolarmente ben visto nell’ambiente accademico anglo-americano, non ultimo per essersi in tempi non sospetti inspirato alle idee di Marx15, l’interesse per le regolarità e le generalizzazioni delle sue formulazioni trovavano consonanza con quelle che allora erano le esigenze degli archeologi: le spiegazioni dei cambiamenti culturali in termini adattivi, ecologici e legati al cambiamento dei regimi di sussistenza e alla demografia erano ben congeniali al tipo di dati che l’archeologia (in particolare preistorica) andava collezionando e rappresentava un’alternativa valida alla prospettiva idealista di stampo boasiano, le cui spiegazioni erano intimamente legate alla presenza di fonti che dessero ragione delle credenze e dei comportamenti, come quelle scritte, che nell’archeologia americana mancavano totalmente16. Inoltre, molte sfumature dell’approccio neoevoluzionista furono recepite ed esaltate dalla tradizione funzionalista

La scoperta alla fine del secolo di una cultura del Midwest, denominata poi dei mound builders, responsabile della costruzione di complessi tumuli funerari, era stata considerata “a non-indian race that was alleged to have been more enlightenment than the present Indians”9. L’approccio storico culturale che si rifaceva a Boas aveva ovviamente messo in crisi questa spiegazione allogena e diffusionista. Il neoevoluzionismo riproponeva sotto altre forme la preminenza del modello di sviluppo occidentale dando una spiegazione delle devianze in termini di stadi differenti di sviluppo ma che inevitabilmente erano destinati a convergere verso quel medesimo modello. In questo senso si spiega il più duraturo successo delle teorie neoevoluzioniste di Leslie White che programmaticamente oltrepassava l’esperienza boasiana per contrapporre direttamente il suo evoluzionismo al diffusionismo del secolo che lo precedeva10. In termini teorici White sviluppava il concetto di teoria generale dell’evoluzione ignorando deliberatamente le influenze ambientali e culturali sullo sviluppo della cultura, tracciando una sola

11  White 1959. Da ultimo Godelier 1999, p. 19: “Expliquer l’histoire c’est découvrir dans quelles conditions socio-économiques apparaissent de nouvelles structures, donc mettre en chantier une théorie qui sera au service de l’anthropologie comme de l’histoire. […] que l’on soit évolutionnisme ou pas, l’histoire et aussi évolution”. 12  Steward 1955. 13  Ivi, p. 209. 14  Sahlins, Service 1960. 15  Trigger 2008, p. 391. 16  Trigger 2008, p. 391.

Trigger 2008, pp. 386-387. Ivi, p. 393. 9  Trigger 1981, p. 142. Per la controversia e sul ruolo dell’archeologia nella costruzione della visione dei nativi americani Trigger 1980, 1990. 10  È indicativo in questo senso l’articolo di White 1945. 7  8 

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. e dalla teoria dei sistemi di cui si imbeveva l’archeologia angloamericana. Quando Steward affermava che ogni aspetto della cultura e della società in genere deve essere analizzato come una “indipendent recurrence of cause and effect”17 si adattava benissimo alla teoria dei sistemi e al funzionalismo della New archaeology. E, quando un altro antropologo neoevoluzionista, Marvin Harris, accusato di un certo determinismo economico di stampo marxiano18, affermava che la teoria diffusionista era un “non principle”19 si accordava bene con la spasmodica ricerca di un’alternativa al diffusionismo imperante da cui usciva l’archeologia americana.

Dal punto di vista della pratica archeologica l’obiettivo era di correlare specifici aspetti della cultura materiale a determinate ricorrenze adattive nel comportamento umano, ottenendo variabili costanti. Per fare questo si praticava dal punto di vista logico un procedimento deduttivo rigoroso che derivava dalla pratica del (neo-) positivismo di Carl Gustav Hempel24. Secondo l’epistemologo berlinese le azioni umane erano prevedibili e osservabili al pari dei fenomeni studiati dalle scienze naturali: una sorta di monismo metodologico che unificava tutte le scienze sotto una stessa logica d’indagine tesa alla ricostruzione razionale (terminologia introdotta da Rudolf Carnap) ed empirica dei fenomeni sociali25. Spiegare e predire i fenomeni erano due obiettivi strettamente connessi che implicavano la conoscenza delle cause e si realizzavano in una stessa forma-tipo: la sussunzione di casi individuali sotto le leggi generali. Questo collegamento intimo tra nuova archeologia e pensiero positivista non è solo rilevante a livello storiografico ma spiega anche le due anime della sua epistemologia. Da una parte l’evoluzionismo e la teoria dei sistemi di Herbert Spencer e dall’altro l’empirismo di Stuart Mill, confluito nelle varie forme di naturalismo e determinismo ecologico. Il concetto di teoria dei sistemi fu introdotto in archeologia dal lavoro di P. J. Watson in Explanation in Archaeology (1971) che proponeva di considerare l’interazione tra cultura e ambiente come un sistema composto da parti interdipendenti l’una dall’altra, permettendo di ricostruire i processi e le trasformazioni in termini di equilibrio ed autoregolamentazione tra le parti26, inteso quindi ecologicamente (fattori esterni di cambiamento) più che in termini storici (fattori interni)27. Usando la pratica etnografica sulle società primitive moderne come campo di verifica delle ipotesi28, la nuova archeologia si prefissava l’obiettivo di diventare una scienza sperimentale. La corrispondenza diretta tra la cultura materiale e i modi di organizzazione della società ebbe un campo di applicazione privilegiato nell’archeologia delle necropoli da cui nacque la famosa Ipotesi 8 di Binford-Saxe29.

Un altro motivo di convergenza si aveva a livello storico e politico. Coltivando l’idea che i cambiamenti culturali sopravvenissero attraverso stimoli esterni di tipo ecologico-adattivo, gli antropologi neoevoluzionisti continuavano a sostenere l’idea che la tendenza dell’uomo e della società fosse in ultima analisi conservativa, per non dire regressiva, smorzando la componente marxiana del cambiamento, inteso come lotta tra classi per il controllo del potere e delle risorse e come rivoluzione che sovverte l’ordine costituito20. Questo imbrigliamento di alcune implicazioni del pensiero di Marx si adattava benissimo in un ambiente culturale e sociale anticomunista, pesantemente influenzato dal maccartismo21. Gli archeologi neoevoluzionisti sostenevano a loro volta che tutti i cambiamenti, in ogni parte del sistema, erano causati da fattori ecologici e non sociali. Questa visione sosteneva una concezione ideologica contemporanea che, se da un lato atrofizzava le soluzioni di trasformazione e cambiamento della società ed inibiva il ruolo dell’individuo in questi cambiamenti, dall’altra favoriva la visione profetica e liberatrice dell’iniziativa personale in senso evolutivo, e quindi convergeva con l’idea che si aveva della società occidentale. Come ha giustamente sottolineato Bruce Trigger in proposito, “they [gli archeologi] continued to believe that evolution from hunting-gathering to modern industrial societies was a progressive and liberating process, even if they now thought that it shake human behaviour rather than came about as a result of human agency”; una concezione connessa con “the development of capitalism from an early entrepreneurial stage, when individual initiative was highly valued, into a corporate phase, dominated by large, bureaucratically managed companies within which the individual was no longer idealized as responsible for bringing about economic growth”. Questo in termini intellettuali corrispondeva a un compromesso: “may have made the concept of ecological determinism more acceptable”22. Da qui poi sarebbero derivate le accuse di un certo atteggiamento reazionario e antistorico23.

Hempel 1942; Hempel, Oppenheim 1948. Sparti 2002, pp. 63-69; Leone 1972. 26  Leone 1972. 27  Sulla diffusione della teoria dei sistemi in archeologia Bertalanffy 1950; Flannery 1968, 1972; Maruyama 1963; Watson, Le Blanc, Redman 1971; Wright, Johnson 1975. Si veda anche Trigger 2008, pp. 418-430. 28  Da qui “Archaeology as Anthropology” di Binford 1962. 29  Saxe 1970 e Binford 1971; O’Shea 1984. La tesi di dottorato di A. Saxe riproposta qualche tempo dopo in un lavoro su di una popolazione mesolitica dello Wadi Hafa in Sudan, propone una serie di ipotesi ancora una volta testate su alcuni riscontri etnografici ripresi dalla letteratura antropologica. Le conclusioni alle quali Saxe perviene sono molto vicine a quelle di Binford e, al di là di formalizzare nelle sue “ipotesi” alcune affermazioni che nelle analisi del suo predecessore non erano apertamente esplicitate, - come l’assunto (o il pregiudizio) che le culture più “semplici” abbiano rituali funerari meno articolati rispetto alle società complesse e gerarchizzate - il contributo più rilevante dato al dibattito sull’esegesi delle evidenze funerarie è costituito dalla sua ottava ipotesi. In essa lo studioso americano afferma che cimiteri e necropoli (o per usare la farraginosa terminologia di Saxe “Formal disposal areas exclusively for burials of the dead”) sarebbero gestiti da dei gruppi corporati che, per mezzo di questo controllo, legittimerebbero il proprio diritto di accesso esclusivo ad alcune risorse cruciali attraverso il passare delle generazioni. Tale ipotesi fu poi riformulata da Goldstein 1981, p. 59: “Se viene definita un’area delimitata, destinata esclusivamente ai defunti, allora ci si trova probabilmente di fronte a una cultura che ha una struttura per gruppi chiusi secondo il modello della discendenza lineare”. 24  25 

Steward 1955, p. 182. Godelier 1984. 19  Harris 1969, pp. 377-378. 20  Sul concetto di evoluzionismo ecologico e sua applicazione in archeologia O’Brien 1996 e da ultimo Murray 2002. 21  Price 1993. 22  Trigger 2008, pp. 396-377. 23  Ivi, p. 409. 17  18 

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L’ideologia degli archeologi La tenuta di questa corrispondenza era garantita dalla pratica della middle-range theory. Nella sua formulazione originaria30 tale teoria prevedeva che se si fosse registrata attraverso l’osservazione etnografica una qualche corrispondenza tra manufatto e comportamento adattivo-funzionale, in presenza dello stesso manufatto con analoga funzione in un contesto archeologico, si doveva necessariamente dedurre la stessa corrispondenza osservata nel caso etnografico. Successivamente Binford riformulò la teoria in senso ipotetico-deduttivo, in senso cioè più probabilistico31. La riformulazione scaturiva dall’osservazione che le invarianti correlative tra cultura materiale e comportamento umano acquistavano un più alto grado di tenuta esplicativa se mediate da invarianti fisiche e biologiche nell’interazione uomo-ambiente, come il ruolo giocato dalla quantità d’energia o di lavoro necessari per la sopravvivenza32. Questa constatazione di una certa debolezza dell’approccio nomotetico e tafonomico escludeva ancora di più il mondo delle idee, dei simboli e dell’immaginario dall’archeologia, rivelatosi ancor di più sfuggente a qualsiasi tipo di controllo scientifico. Il rifiuto della dimensione ideale del comportamento umano, della spiegazione interna al cambiamento e la diffidenza verso gli aspetti psichici dell’individuo presenti nella New archaeology dei primi anni degli anni Settanta sono il risultato del rifiuto della dimensione diacronico-storica in luogo di una sincronico-comparativa. Questo rifiuto è legato al sovrapporsi di antropologia ed archeologia, frutto sia della natura del contesto archeologico statunitense, sia del rifiuto programmatico e ideologico della storia culturale e, non ultimo, della forte ostilità che caratterizzò la ricezione del pensiero di Marx33. La domanda se l’archeologia dovesse o meno essere antropologia o essere niente34 poneva seri interrogativi su che tipo di differenze ci fossero tra le generalizzazioni che era in grado di fare l’archeologia e quelle possibili in seno ad altre scienze sociali, come l’antropologia. L’archeologia poteva solo proporre delle correlazioni il cui campionario era fornito dall’osservazione diretta e verificabile della pratica etnografica. Si veniva così a creare una differenziazione netta tra la middle-range theory dell’archeologia e la high theory delle scienze sociali. Questa distinzione fu notata da alcuni archeologi non a caso di tendenze marxiane: Irving Rouse distinse tra interpretazione analitiche e sintetiche35, Carl-Axel Moberg differenziò tra archeografia e archeologia in senso stretto36 e Leo Klejn sottolineò a più riprese come i dati archeologici andassero compresi nel loro significato specifico prima di operare qualsiasi inferenza in senso generale37. Fu in seguito a queste sollecitazioni che Binford riformulò la sua middle-range theory.

Un particolare che spesso viene tralasciato sulla natura della middle-range theory è che essa rappresentava una procedura di interfaccia interpretativa tra le ipotesi formulate nel presente e la ricostruzione delle dinamiche nel passato38. La registrazione dei dati archeologici crea un insieme di informazioni che ci restituiscono uno static record nel presente. Essendo l’archeologia interessata alla ricostruzione di un record “dinamico” nel passato, la middle-range theory costituisce un ponte di comunicazione tra un presente statico, quello del dato archeologico, e un passato dinamico, quello dei processi umani non più osservabili. Un meccanismo che parte dal presente con ipotesi generali per comprendere il passato, in un ciclo che ritorna continuamente dal passato al presente, dalla teoria al dato, e che rende tale approccio in qualche modo ancora valido39. Ciò che restava fuori da questa procedura erano gli aspetti non-generali dei processi non formalizzabili. Il ritorno nel passato dinamico lasciava inalterato l’alto grado di generalizzazione attribuito all’ipotesi nel presente. 2.3. Dall’archeologia processuale alla perdita dell’innocenza. Il legame che univa archeologia, rifiuto della dimensione diacronica e pratica della comparazione antropologica era il frutto di una certa pratica di procedimento analogico che stava caratterizzando l’archeologia statunitense. Non a caso Binford sosteneva che “history as the model for archaeological investigations is […] totally inappropriate”40. In termini di procedure analitiche di pensiero, invece, l’analogia è essenziale per lo studio dei dati archeologici, essendo il procedimento che permette attraverso un fenomeno materiale (il dato) di risalire ad una proprietà sconosciuta: “The unknown property is inferred based on the fact that it is observable among source phenomena that are visibly similar in at least some respects to the subject”41. Il nesso tra metodo analogico, storia e antropologia aveva una lunga tradizione42. Lentamente però si verificò “a change in the analytical goal of Americanist archaeology—from one focused on historical questions to one focused on ahistorical anthropological questions—resulted generally in expanded use of ethnographic analogy and particularly in an increased use of general comparative analogy”43. In questo senso ciò che veniva espulso dall’analisi era il valore della continuità culturale44 e la possibilità che questa potesse contribuire alla spiegazione del cambiamento storico. Abbracciando definitivamente l’evoluzionismo ortogenetico di White e Steward, lo studio del passato in quanto tale perdeva il suo significato, essendo possibile rievocarlo nel presente attraverso l’osservazione etnografica e con notevoli implicazioni ideologiche e politiche nel rapporto tra la società americana e il passato culturale indigeno, in questo

Binford 1962. Binford 1978. 32  In tal senso Sahlins 1972, 1976, 1981. 33  In generale Bloch 2004, p. 124, che nota come il rapporto con Marx in America fosse “for the most partly one of mutual ignorance and partly one of hostility”; per l’archeologia in particolare e Marx in ambiente anglofono Patterson 2003. 34  Willey, Phillips 1958. 35  Rouse 1972. 36  Moberg 1976. 37  Klejn 1970; 1975; 1995. 30  31 

Su questo punto si veda Johnson 1999, pp. 48-49. A favore Trigger 1995; contra Raab, Goodyear 1984. 40  Binford 1986, p. 401. 41  Lee Lyman, O’Brien 2001, pp. 303-302. 42  Ampolo 1986; Finley 1975. 43  Lyman, O’Brien 2001, p. 329. 44  Willey 1953. 38  39 

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. modo totalmente e programmaticamente soffocato: “the relatively low prestige accorded history in the United States is related to American history (our collective escape from Europe) and the ‘present-mindedless’ for American culture (enfasi mia)”45.

non sempre tenuto nella giusta considerazione. Binford creava un principio d’indeterminazione per l’archeologia simile a quello di Heisenberg per la fisica. Controllare le distorsioni, ma soprattutto decidere quando fermarsi nel processo di controllo all’indietro nel tempo, prevede di stabilire e conoscere prima dell’analisi quale sia la realtà, il nucleo dei fatti che deve emergere. Questa riflessione ha inevitabilmente delle ripercussioni sulle modalità interpretative e sulle capacità di ricostruzione del contesto archeologico. Il passato e il record archeologico sono statici e non possono essere in alcun modo utilizzati per interpretazioni nel presente dinamico. La sfida epistemologica di Binford era quella di usare la natura statica dei dati archeologici per negare la possibilità di testare empiricamente le ricostruzioni del passato54. La behavioural archaeology non era in grado di creare un corpo teorico adatto a mettere in relazione la natura statica e dinamica delle coppie dato/interpretazione e passato/ presente55. La cultura così risulterebbe altamente pervasiva, in grado di enculture persone e cose, tesa costantemente alla sua continua riproduzione. Qualsiasi disordine nel normale e lineare processo di riproduzione sarebbe causato dall’ambiente esterno, costringendo la “cultura” a deviare dalla sua normale riproduzione e ad adattarsi. Riproduzione e adattamento sarebbero dunque due meccanismi in continua dialettica scaturiti dall’interazione tra interno (cultura) ed esterno (ambiente). Il legame tra sistemi e visione funzionale dell’azione umana diventa così inevitabile, privilegiando la long running systems change ed escludendo qualsiasi tipo di azione intenzionale prodotta dall’attore individuale56. La replica di Schiffer non affrontò però con completezza il panorama teorico disegnato da Binford. Più che concentrarsi sull’impossibilità stessa di ricostruire il passato (reconstructivism), Schiffer si limitò a ribadire l’importanza di controllare le distorsioni del dato archeologico, neutralizzando il problema teorico posto da Binford con una soluzione metodologica57.

Le contestazioni alle prime rigide formulazioni della New archaeology, ma anche dell’archeologia processuale, non tardarono ad arrivare dagli stessi esponenti del movimento. Oltre alle nuove formulazioni di Binford sulla middlerange theory, le perplessità riguardavano la possibilità di ricavare dall’analisi incrociata dei dati archeologici con le osservazioni etnografiche una correlazione tra “a behaviour and a belief”46 precedentemente esclusa. In questa direzione andavano i lavori di Michael Schiffer nella costruzione della behavioural archaeology47 e quelli di Colin Renfrew in senso cognitivo; qui si riconosceva all’ideologia una forza attiva all’interno della società e della politica, così come religione e aspetti simbolici non erano estranei alla formazione e trasmissione dei dati48. In risposta alle posizioni di Schiffer, Binford sostenne in un articolo che questo tipo di inferenze fossero possibili solo ed esclusivamente in presenza di quella che veniva chiamava la “Pompeii premise”49, ovvero nel caso eccezionale in cui il contesto archeologico fosse risultato totalmente inalterato nelle sue relazioni materiali e simboliche, come nel caso di Pompei, e in questo modo totalmente decrittabile. Schiffer al contrario era convinto che si potessero ottenere dal contesto archeologico quei significati e quelle relazioni che erano giunte sino a noi alterate praticando una rigorosa ricostruzione sperimentale dei processi di formazione e alterazione dei depositi archeologici coadiuvati dall’analisi etnografica50. A ben vedere ciò che ancora era messo in discussione era la possibilità di ricavare dal contesto archeologico il sistema culturale che l’aveva prodotto e la possibilità di ottenere sperimentalmente questa correlazione attraverso l’etnografia. La reazione di Binford non era diretta a rifiutare completamente la distorsione provocata dai processi di formazione ma piuttosto, come nota Tim Murray, alla preoccupazione “that behavioural archeology re-committed archaeology to a inductivist, empiricist and recostructionist strategy, in sum to place stress on the limitations of the archaeological record for the pursuit of anthropological goals”51. La diffidenza verso l’empirismo non è rivolta al metodo in sé ma all’utilizzo di questo per giustificare le proprie premesse teoriche52. Da qui la ricerca di un contesto disciplinare spurio da qualsiasi a priori dove analizzare il dato archeologico53. Questo punto non va tralasciato poiché è cruciale nel dibattito ma

Su questa incomprensione si andranno poi a innestare le contestazioni postprocessuali. Per Schiffer il tempo costituisce la più evidente delle distorsioni, da controllare ancora con il metodo sperimentale e con l’etnografia. Per i postprocessuali sarà invece il tempo trascorso, schiacciato e divenuto presente, a rappresentare il maggior fattore di controllo. Si comprende così come “Archaeology must be fundamentally reflexive discipline. Whetever we learn about people’s lives in the past should make us reflect upon the context within which we conduct archaeology in the present, and vice versa. Whatever analytical frameworks we use in order to understand the past should equally be turned onto present (enfasi mia)”58.

Kohl 1993, p. 14; Trigger 1989, p. 19. Trigger 2008, p. 509. 47  Schiffer 1972, 1985; 1988. 48  Renfrew 1982, 1998; Renfrew, Bahn 2006. 49  Binford 1981. 50  Schiffer 1985. 51  Murray 1999, p. 17. 52  La riflessione sul corretto utilizzo dell’empirismo è un tema cruciale in ambito angloamericano. Spesso, in nome dell’empirismo, vengono praticate spregiudicate generalizzazioni ad alto gradiente teorico. Su questo punto ritorneremo poi nelle conclusioni. 53  Binford 1983, p. 415. 45  46 

Ma la contestazione, o quanto meno alcune riformulazioni decisive, arrivava dall’ambiente britannico facente capo Binford 1983, pp. 7-17; Murray 1999, p. 18. Binford 1983, p. 215. 56  Ivi, pp. 222-223. 57  Schiffer 1985, 1987. Secondo Murray 1999, p. 21, utilizzando una certa dose di common-sense. 58  Thomas 1996, p. 234. 54  55 

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L’ideologia degli archeologi alla tradizione funzionalista di Grahame Clark e alla scuola di Cambridge59. In Gran Bretagna la situazione era leggermente diversa rispetto a quella d’oltreoceano. David Clarke, formatosi a Cambridge, sviluppò le sue riflessioni chiave in maniera indipendente rispetto all’archeologia new e processuale americana. Sebbene egli stesso si definisse un “nuovo” archeologo, condivideva con Binford e la scuola solo alcuni punti, tra cui l’opposizione totale nei confronti della passata archeologia storicoculturale60. Clarke si opponeva alla maniera ingenua in cui alcuni archeologhe e archeologi britannici legati a quella tradizione mettevano in opera le loro interpretazioni senza prima aver analizzato in maniera rigorosa i dati archeologici da cui trarre conclusioni di tipo sociale61. Per Clarke questo tipo di narrative storiche erano “an irresponsabile art form”62. In Analytical archaeology, un decennio circa prima di Schiffer, Clarke si poneva l’obiettivo di combinare il potenziale delle nuove elaborazioni scientifiche quantitative e statistiche con l’analisi etnografica, per ricostruire il contesto sociale e cognitivo del passato. Le sue analisi abbracciarono la teoria sistemica utilizzata dalla new geography sviluppata negli anni Sessanta dai geografi Richard Chorley e Peter Haggett dell’Università di Cambridge 63. Era sul terreno dell’archeologia processuale che le due tradizioni trovavano un punto di comunicazione comune, nel credere cioè che attraverso l’uso rigoroso di analisi quantitative si potesse non solo ricostruire dinamiche adattive ma ricostruire tutto il sistema simbolico e cognitivo delle società passate. Tuttavia, nella tradizione britannica il legame tra analisi scientifica e quantitativa e il tentativo di ricostruire narrative di valore storico non fu mai interrotto del tutto. Nel lavoro di Clarke si può individuare bene questa attenzione per la dimensione storica. In Analytical archaeology l’interesse primario per l’antropologia americana si limitava a rivalutare la straordinaria quantità di dati raccolti dall’indagine di Boas sulle varianti linguistiche e culturali delle società indigene nordamericane. Era dunque in questa nuova attenzione per la raccolta quantitativa che si doveva seguire la tradizione americana64.

sociale e politica delle società, secondo una prospettiva unilineare neoevoluzionista con la distinzione tra forme più semplici e forme più complesse67. Come Clarke, Renfrew condivideva l’aspetto quantitativo e geografico dell’analisi dei manufatti, nello specifico sia per la ricostruzione e l’origine del commercio nell’area egea68, sia per la ricostruzione degli aspetti cognitivi che sottostavano all’uso e alla costruzione dei manufatti, intesi come “the mind behind the artifact in the practical terms of its usage rather than the more abstract terms of its symbolic meaning (enfasi mia)”69. Entrambi, però, fedeli a una certa tradizione britannica e a una penetrazione più solida del pensiero di Marx, non considerarono mai la possibilità della ricostruzione e le generalizzazioni di tipo evolutivo come due posizioni totalmente inconciliabili70. Il famoso articolo di Clarke intitolato Archaeology: the loss of innocence (1973) inaugurava la lunga stagione di ripensamento sulla nuova archeologia71. In quell’articolo divenuto celebre, la perdita d’innocenza non era riferita alla bontà delle conquiste metodologiche effettuate dalla New archaeology quanto piuttosto sulle nuove questioni che andavano poste. La straordinaria quantità di dati accumulati e il proliferare di studi regionali aveva reso chiaro che gli schemi evolutivi generali modellati sugli studi di Steward, Sahlins e Service non davano ragione della straordinaria molteplicità dei casi rilevati circa le culture preistoriche. Il problema erano gli obiettivi da ripensare. Ma non solo. Come ricorda Clarke: “The loss of disciplinary innocence is the price of expanding consciousness; certainly the price is high but the loss is irreversible and the prize substantial. Although the loss of disciplinary innocence is a continuous process we can nevertheless distinguish significant thresholds in the transitions from consciousness through self-consciousness to critical self-consciousness and beyond”72. Questa autocritica era riferita alla presa di coscienza che ormai sul piano accademico e scientifico si profilavano diversi filoni e scuole di pensiero alternative e in competizione tra loro. La perdita d’innocenza era la perdita di una presunta unità della disciplina e la conseguente disintegrazione di una linea dominante ed egemonica di pensiero che scaturiva proprio dalla proposizione di paradigmi alternativi dell’interpretazione archeologica: “Instead, classes of data and approaches are treated in terms of alternative models and rival paradigms; […] This process is also marked by the emergence of competitive individualism and authority, since the individual’s living depends on the reputation he achieves as a focus in the media or by innovation and intensive work in a specialist field. The politics and sociology of the disciplinary environment increasingly develop this ‘authoritarian’ state in which each expert has a specialist territory such that criticisms of territorial

Rispetto a Clarke, Colin Renfrew era stato molto più influenzato dall’archeologia americana per via un prolungato periodo di studi negli Stati Uniti durante gli anni della sua prima formazione65. Renfrew acquisì molto di più l’orientamento positivista dell’archeologia processuale e abbracciò con molta disinvoltura il neoevoluzionismo e la teoria sistemica, avendo come obiettivo quello della costruzione di leggi generali del comportamento66. In questo senso vanno gli studi di Renfrew sull’evoluzione Smith 1997. Trigger 2008, p. 430. 61  Clarke 1968, pp. 12-14. 62  Idem 1973, p. 16. 63  Chorley, Haggett 1967. 64  Clarke 1968. 65  Sull’importanza del soggiorno statunitense di Renfrew si veda l’intervista di Bradley 1993. 66  Renfrew 1982. 59  60 

Renfrew 1973. Renfrew 1969; 1975; contra Sarianidi, Khol 1979. 69  Trigger 2008, p. 435; Renfrew 1982. 70  Trigger 2008, p. 436. 71  Clarke 1973. 72  Ivi, p. 6. 67  68 

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. observations are treated as attacks upon personalities”73. L’approccio doveva essere più metodologico e meno paradigmatico74.

di equilibrio sistemico, la mancanza della componente dinamica dei processi di trasformazione e l’impossibilità di concepire i sistemi nella loro unità interattiva. I primi a muovere simili osservazioni furono Stuart Piggott e Peter Ucko, i quali però, pur ammettendo che vi fosse qualche significazione tra corredo funerario e selezione sociale, contestavano sia qualsiasi tipo di equivalenza automatica sia la possibilità di qualsiasi tipo di decodificazione affidabile. Vi era uno scarto non misurabile tra comportamenti umani e possibilità della loro rintracciabilità nel contesto archeologico. Si trattava cioè di rintracciare il meccanismo che dal reale portava al segno. Il rischio dell’approccio nomotetico era quello di giungere a posizioni bloccate nella decifrazione degli aspetti simbolici e di perdere quindi in complessità.

Queste frizioni ideologiche “gradually becomes a seriously counterproductive vestige of a formerly valuable disciplinary adaptation by means of which authorities mutually repelled one another into dispersed territories, thus effectively deploying the few specialists over the growing body of data”75. Le considerazioni di Clarke saranno profetiche su quello che stava per divenire una delle più dure contrapposizioni disciplinari dell’archeologia angloamericana. Una contrapposizione le cui riconciliazioni sono di là da venire e forse non sono neanche più cercate. Ma un altro scenario si profilava per l’archeologia e ancora a distanza di anni emerge con forza da quelle affermazioni di Clarke: il rischio per l’archeologia o per le varie archeologie di rimanere tra loro isolate nell’analisi del proprio esclusivo corpo di dati, con le proprie teorie, i propri metodi e con l’inevitabile afasia anche nei confronti della società civile. La democratizzazione del sapere non ha ancora acquisito ad oggi la forza deflagrante che ci si aspettava. Incapaci di comunicare e di avere un ruolo civile, gli archeologi si isolano e si ignorano reciprocamente.

L’obiettivo era quello di uscire dall’aporia teorica distinguendo la formulazione di “generalizzazioni” da quella di “norme”79. Già nel 1973 C. L. Redman sottolineava come nella nuova archeologia coabitassero due anime, una nomotetica che sottometeva i realia a leggi rigorose e una “più viva, quella processualista, che sottolinea i limiti di quest’approccio e tende alla ricostruzione di sistemi strutturati per simulazione a partire dall’osservazione del concreto”80. Ancora più riduttivi risultavano i paradigmi empirico-descrittivi in cui la struttura si dissolve nella somma dei caratteri del reale. Ma nella ricerca di elementi unificanti tra contesti diversi, e di conferme alle intuizioni di partenza, questo genere di approccio, così facendo, dimostra di avere in campo archeologico, e soprattutto in ambito pre- e protostorico, scarsa capacità di presa sulla specificità dei fenomeni. Alla fine, come ebbe a sottolineare Bruno d’Agostino “Molto spesso le conclusioni somigliano in maniera preoccupante agli enunciati di partenza; tra questi due poli, le situazioni concrete, il reale atteggiamento delle comunità umane, appaiono come schiacciati dal peso della dimostrazione che sono chiamate a sorreggere ed è la stessa utilità dell’analisi ad essere posta in causa (corsivo mio)”81.

2.4. Il momento del disincanto: la critica postprocessuale. Non fu un caso che le critiche più dure all’archeologia processuale scaturirono dall’ambiente britannico e in special modo dalla scuola di Cambridge dove, rispetto ad Oxford, allignava un atteggiamento anticonservatore a cui la New archaeology era associata76. Tuttavia, il processo di iso-orientamento di alcune tematiche dell’archeologia processuale aveva attraversato tutto il decennio dei Settanta del secolo scorso. In particolar modo antropologi di varia formazione come Edmund Leach e Peter Ucko77 e alcuni archeologi di posizione marxista come Rowlands e Gledhill, partendo dagli studi funerari, avevano messo in discussione il divario esistente tra rituale funerario osservabile a livello etnografico e documentazione archeologica; in generale quindi, a essere discussa era la corrispondenza tra record archeologico e interpretazione78. L’interesse per l’ambito funerario era legato al tentativo di fare archeologia dell’antropologia del mondo antico. La critica alla New archaeology e all’archeologia processuale era la stessa che veniva rivolta al neofunzionalismo ecologico da posizioni diverse. In gioco vi era il concetto

La cosciente e sistematica contrapposizione all’archeologia processuale in tutte le sue varianti fu però sistematizzata e resa esplicita all’inizio degli anni Ottanta da un allievo di David Clarke, Ian Hodder. Partito da posizioni fortemente processuali82, in una serie di lavori successivi Hodder mise a punto quella che poi avrebbe chiamato con grande fortuna in un articolo del 1985 l’“archeologia postprocessuale”83. Significativamente la nuova corrente si poneva sia in alternativa e superamento delle posizioni processuali (post-), sia in connessione filogenetica con i movimenti postmoderni e decostruzionisti assorbiti dalla nuova antropologia culturale britannica84.

Ibidem. Recentemente Brown, Witschey, Liebovitch 2005 hanno coniato il termine di Fractal Archaeology per dar ragione di questa multivocalità della disciplina. 75  Trigger 2008, p. 436.. 76  Wallace-Hadrill 2000; Goldstein 2004. 77  Leach 1977; Ucko 1969. 78  Cuozzo 1996, pp. 3-4; Trigger 2008, pp. 444-443.

Bezerra de Meneses 1983, p. 11-19. D’Agostino 1985, p. 50. 81  D’Agostino 1985, pp. 57-58. 82  Hodder 1978. 83  Hodder 1982, 1982a, 1982b, 1984, 1985. 84  Geertz 1965, 1973; Clifford 1988; Sahlins 1976 che rigettò completamente le sue vecchie posizioni neoevoluzioniste.

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L’ideologia degli archeologi L’approccio ipotetico-deduttivo della middle-range theory riformulata da Binford per risolvere lo scarto tra evidenza e comportamento evidenziato da Schiffer94, veniva rifiutato in blocco e per contro si proponeva una serie variegata di soluzioni teoriche prese a prestito dalle altre scienze sociali. Qui l’influenza del movimento di critica al neopositivismo è ben rintracciabile, e a tal proposito Anthony Giddens sosteneva che chiunque fosse in attesa di un insieme di leggi newtoniane della società non solo stava attendendo un treno che non sarebbe mai giunto ma che era anche nella stazione sbagliata95.

Gli aspetti più duri della critica in seno all’antropologia erano rivolti al funzionalismo sociale di Malinowski e Radcliffe-Brown portato avanti da Leach e Glucksmann85 e successivamente confluito in archeologia attraverso la teoria dei sistemi. Per il funzionalismo “non è decisiva né l’origine storica né il tipo di istituzione considerata: la questione cruciale riguarda la funzione che l’istituzione assolve, ossia il modo in cui opera nel contesto sociale cui appartiene”86: funzione come contributo al mantenimento della struttura sociale. Questa era in ultima analisi l’eredità della forte influenza esercitata da Émile Durkheim in Inghilterra, per il quale la realtà sociale ha il primato sull’individuo: essa non è la somma di azioni individuali ma ha una provenienza esterna e un carattere coercitivo e obbligante87. Ogni sistema è caratterizzato dalla capacità di tracciare un confine con l’ambiente circostante, con ciò che gli è esterno, per mantenere una coerenza esterna. Il concetto dei sottoinsiemi in equilibrio costante tra loro non dava spiegazioni soddisfacenti né della formazione delle strutture e del loro cambiamento né della modalità di interazione tra loro e né, in ultima analisi, della relazione tra individuo e struttura. In gioco vi era il concetto di equilibrio e di trasformazione della società rimesso in discussione dalle nuove analisi del pensiero di Marx portate avanti dalla scuola marxista francese88.

Il richiamo dell’archeologia postprocessuale alla specificità della cultura era una conseguenza della visione multiculturale e policentrica scaturita dagli studi postcoloniali che mettevano in discussione la visione egemonica dell’occidente nelle sue forme di evoluzione unilineare; ma si tratta anche di un ritorno parziale della dimensione storica, con il recupero da un lato delle idee di Boas e dall’altro del filosofo idealista della storia e storico Robin George Collingwood96. 2.4.1. Interpretazioni archeologiche: gli oggetti di studio. Successivamente le posizioni postprocessuali andarono ulteriormente precisandosi. Proprio Ian Hodder, nel tentativo di sottolineare gli aspetti propositivi e non solo di contestazione nei confronti dell’archeologia processuale, parlò in due opere successive di archeologia contestuale97 e di archeologia interpretativa98. La Contextual archaeology accentuava la rete di significazione che esiste tra gli elementi del contesto archeologico in una data unità di tempo e di spazio e il rapporto di significazione simbolico interattivo tra individuo e cultura materiale, mentre l’Interpretative archaeology poneva invece l’accento sul momento di ricomposizione e ricostruzione dei significati, vedendo nella cultura materiale un vero e proprio testo da decifrare, prendendo a prestito concetti e teorie dalla semiotica e dalla linguistica99. Intesa in questo senso, l’interpretazione non può che essere ermeneutica nell’accezione datagli da Schumpeter, Dilthey e Gadamer100 e poi ripresa da Giddens, Geertz e Ricoeur101. L’interpretazione ermeneutica è la decodificazione di un linguaggio, l’instaurazione di una rete di significati traducibili da un sistema di linguaggio ad un altro attraverso un effetto di straniamento e di ricostruzione contestuale. Tale atteggiamento è rivolto

Il cambiamento non è esterno e di tipo adattivo89 ma interno e culturale; sia l’individuo che la cultura materiale stessa giocano quindi un ruolo attivo nella costruzione dei significati90. Vi era dunque uno slittamento ermeneutico dalla ricerca della funzione verso la ricerca dei significati, e il rapporto tra dati archeologici e ricostruzione sociale tramite un corpo teorico non era più diretto ma diveniva problematico e mediato, ermeneutico appunto e metaforico91. La cultura non doveva essere considerata come mero epifenomeno della realtà, un’interfaccia tra l’organismo umano e l’ambiente fisico e sociale che interagiscono tra loro a scopo adattivo92, ma se ne doveva restituire la pluralità e la specificità rispetto a nuovi meccanismi di interazione. In tal senso veniva rifiutata ogni pretesa nomotetica-additiva e generalizzante (la retorica della quantificazione) e si ridimensionava la possibilità comparativa tra culture, dati, e contesti diversi ritenuti unici. Così facendo, a ridimensionarsi era anche il ruolo dell’antropologia rispetto all’archeologia, e se ne contestava tanto l’identificazione quanto il debito teorico di quest’ultima nei confronti della prima, nel tentativo di restituire all’archeologia la sua legittima autonomia.93

anthropological theory. Archaeologists have their own methodology and ethnologists have theirs; but when it comes to theory, we all ought to sound like anthropologists”, salvo poi l’anno successivo invocare un corpo teorico indipendente per l’archeologia e rifiutare le sue posizioni precedenti, segno che lo shock postprocessuale fu profondamente avvertito (Flannery, Marcus 1983, pp. 361-362). 94  Schiffer 1976. 95  Giddens 1979, p. 15. 96  Hodder 1986, pp. 95-102. Da ultimo su Collingwood, Stagestad 2020. 97  Hodder 1986. 98  Hodder 1996. 99  Hodder 1989, pp. 250-269; Hodder 1991a. 100  Sparti 2002, pp. 143-155. 101  Giddens 1982, 1984, 1987; Geertz 1987, pp. 337-396; Ricœur 1986, pp. 177-184.

Leach 1977, pp. 161-170; Bloch 1985, p. 143. Sparti 2002, p. 204. 87  Durkheim 1895. 88  Althusser 1965; Godelier 1973, 1984; Godelier, Séve 1970 sulla polemica delle modalità di trasformazione strutturale in Marx e le interrelazioni con lo strutturalismo. 89  Hodder 1982, pp. 1-2; Hodder 1986, p. 19. 90  Hodder 1992. 91  Shanks, Tilley 1997, pp. 57-60; Tilley 1990a. 92  Hodder 1982a, 1982b. 93  Il riferimento all’identificazione di Binford 1968 è ovvia. Tuttavia anche Flannery 1982, pp. 269-270 riteneva che “[…] there’s only 85  86 

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. alla decodificazione delle molteplicità di significazione messe in comunicazione tra di loro attraverso rispettive attribuzioni di senso. In questa operazione l’intero è premessa e prodotto della comprensione della parte (circolo ermeneutico). L’obiettivo dell’ermeneutica è quello di incrementare i significati ed espandere le condizioni di comunicabilità tra testi, azioni e culture altrimenti distanti: connettere il passato con il presente. Dopo lo straniamento iniziale vi è la fusione delle temporalità. Per il filosofo americano Richard Rorty l’ermeneutica non corrisponde nemmeno più al nome di una disciplina ma ad una speranza: la speranza che la pluralità dei punti di vista e le possibilità comunicative fra essi si sostituiscano ad un’epistemologia volta a scoprire la verità102. Mentre per Rorty l’esigenza di comunicazione è l’imperativo imposto dall’incommensurabilità delle culture in dialogo, per Gadamer è una questione di riconciliazione tra passato e presente: una nuova etica sociale che si liberava dalle teorie unificanti che contemplano la possibilità di controllare e prevedere il comportamento delle persone. Non sfuggiranno qui diversi atteggiamenti che saranno poi alla base di quelle archeologie “minoritarie”, come le archeologie indigene o di genere sviluppatesi dai postcolonial and gender studies, tese al pluralismo multiculturale e alla dissoluzione dell’egemonia occidentale caratterizzate da un certo atteggiamento politically correct, laddove le forme di opposizione e resistenza venivano isolate e rigettate103.

In questo quadro della significazione tra realtà e strumenti per indagarla o pensarla si inserisce il richiamo al pensiero di Collingwood. Quando la storia rientra a far parte della riflessione archeologica negli anni Cinquanta, Glyn Daniel, Stuart Piggott e Christopher Hawkes non seguiranno però il filosofo della storia fino in fondo e distingueranno ancora tra fatti ed interpretazioni, creando un’archeologia in cui i dati ne costituiscono ancora il cuore106. Tale distinzione, nei postprocessualisti, andrà sempre più affievolendosi in una neo-kantiana coincidenza tra realtà e rappresentazione in cui soggettività interpretativa e realtà si confondono. La particolare attenzione portata da Hodder sul rapporto tra struttura e sistema sociale, e tra cultura materiale, ideologia e simbolismo viene da questi tentativi olistici di ricostruzione delle dinamiche di trasformazione della società ricavabili dal dato archeologico. In The Domestication of Europe107 Hodder mette in pratica una sorta di struttural-simbolismo di stampo lèvistraussiano costruendo relazioni oppositive bilaterali e binarie (maschio/femmina; domus/agrios; natura/cultura) come schema teorico interpretativo del sistema. Il suo era un tentativo di mettere in comunicazione le diverse tradizioni dell’archeologia anglo-americana e di far comunicare le diverse anime che scaturivano dalle scienze sociali, dal post-strutturalismo di Barthes e Derrida all’antropologia di Geertz e Godelier108.

Volendosi rifare alle esperienze di alcuni archeologi britannici attivi negli anni Cinquanta, Hodder cercava una riconciliazione sia con il pensiero di Marx, tramite la ripresa di Gordon Childe e dunque della problematica marxiana del ruolo attivo dell’ideologia, sia attraverso Glyn Daniel, per rinsaldare il legame tra archeologia e storia in chiave anche di autoriflessività della disciplina (compresa la storia dell’archeologia)104. La volgarizzazione del pensiero di Marx era stata portata avanti dai più influenti rappresentanti del movimento neoevoluzionista, sia in America che in Gran Bretagna. Antropologi influenti come Marvin Harris e Marshall Sahlins erano entrambi profondamente antimarxisti. Entrambi credevano che per Marx la sovrastruttura fosse un epifenomeno delle circostanze economiche e naturali. Sahlins in particolare riteneva che vi fossero due Marx, il filosofo e il crude materialista che crede vi sia qualcosa dietro la rappresentazione dei fenomeni. In realtà sembrano esservi piuttosto due Sahlins: “one who believes that there is a reality beyond concepts, as implied by most of his other work, and another who, like the Irish philosopher Bishop Berkeley, believes that there is not”105. Sia Harris che Sahlins tenevano rigorosamente separate idea e materia, concetto e realtà. Non che per Marx fossero la stessa cosa, ma certo sosteneva che vi fosse un rapporto intimo di reciproca costruzione e influenza.

Lo strutturalismo di Lévi-Strauss utilizzato da Hodder era il tipo di strutturalismo linguistico di Saussure, in parziale contrasto con lo strutturalismo sociologico o macrosociologico delle strutture sociali di Durkheim e della tradizione storica inglese. Uno strutturalismo che affronta la dinamica endogena dei fenomeni non della loro genesi ma anche mettendo in relazione la grammatica strutturale che li ordina. Dunque “Come programma teorico che pone al centro della sua indagine lo studio delle ripetizioni, lo strutturalismo corrisponde al campo non della diacronia ma della sincronia e dell’atemporalità. La struttura non si costituisce nel corso del divenire storico ma piuttosto reagisce e si oppone alla contingenza di tale corso, imponendogli la propria legge formativa ed organizzatrice (la storia stessa, rispetto ad una struttura, è una specie di immensa riserva di variazioni interne) (corsivo mio)”109. La storia veniva invocata ma solo parzialmente reinserita nel discorso archeologico dai postprocessualisti. 2.4.2. Conoscere il passato: il soggetto a portata di mano. L’uscita di Re-Constructing Archaeology110 e Social Theory and Archaeology111 di Michael Shanks e Christopher Tilley, portava agli estremi alcune Trigger 1998, p. 4. Hodder 1990; per una critica da ultimo Johnsen, Olsen 1992. 108  Barthes 1966; Derrida 1967; Hodder 1989, pp. 250-269. 109  Sparti 2002, p. 225. La struttura di Saussure è immanenza di un ordine e uno schema astratto analogo alla sintassi del linguaggio. 110  Shanks, Tilley 1987a. 111  Shanks, Tilley 1987b. 106  107 

Rorty 1986; Sparti 2002, p. 162. Hodder 1986, pp. 120-121; Hodder 1992, p. 135; Trigger 1980. 104  Hodder 1986, pp. 1-2; soprattutto Childe 1925, 1951; Daniel 1950; Gathercole 1971. 105  Bloch 2004, p 137. 102  103 

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L’ideologia degli archeologi riflessioni condivise con l’archeologia contestuale ma ponendosi al di là e oltre questa e precisando come nel panorama dell’archeologia postprocessuale si andassero diversificando le posizioni112. Lo spostamento definitivo dallo strutturalismo all’ermeneutica è chiaro nell’opera di Shanks e Tilley. Il mondo da comprendere non è più quello fisico ma quello pensato e percepito dal pensiero e dall’azione dell’uomo, carico di segni semici e simboli, sia nel passato che nel presente. Il solo modo per comprendere è tradurre i due linguaggi semici attraverso il procedimento ermeneutico che pervade ogni orizzonte di senso: “The hermeneutics involved in working within the modern discipline of archaeology […] the hermeneutic of living as an active social agent within contemporary society […] the hermeneutics involved in studying alien cultures – cultures which principles of meaning and understanding will be different from those prevailing within contemporary society – […] the hermeneutic involved in transcending the past and the present”113.

La nozione di potere mutuata dai lavori di Michel Foucault117 si connette con lo studio delle forme di normalizzazione e di disciplina del soggetto, con il concetto di corpo “docile” e con quello di negoziazione tra diverse forme e relazioni di potere118. Alla luce di questo approccio sarà rimesso in discussione anche il grande tema dei meccanismi di riproduzione e di cambiamento delle società. Se le archeologhe e gli archeologi di ascendenze marxiste daranno ragione soprattutto delle cesure e dei cambiamenti, per quelli postprocessuali saranno piuttosto le continuità di sistema ad aver bisogno di nuove spiegazioni una volta messo in discussione lo strutturalismo119. Sarà per la grande influenza delle idee di Foucault (ed in parte per la scuola marxista francese) e per il nuovo ruolo da lui disegnato per l’ideologia che il concetto di egemonia gramsciano riacquisterà nuova popolarità. È all’influenza di Foucault, e al suo particolare interesse per le dinamiche di potere e i meccanismi di contrattazione nella formulazione del discorso, che si devono certe posizioni estreme dell’archeologia postprocessualista in termini di costruzione ed interpretazione del passato: operata socialmente dall’archeologo nel presente, l’interpretazione fa parte di questa continua negoziazione del discorso-potere. Prendendo a prestito la concezione di epistéme foucaultiana, intesa come l’insieme di relazioni che in una data epoca danno luogo a pratiche discorsive che formano un paradigma epistemologico120, archeologi post-strutturalisti come Shanks, Tilley e Ucko hanno concepito la ricostruzione storico-archeologica come una rappresentazione, o meglio come una interpretazione, operata totalmente alla luce del contesto sociale presente, in cui la realtà del dato archeologico non rappresenta che una resistenza alla formulazione delle teorie: “networks of resistance to theoretical appropriation”121. Una resistenza che ha un potere di contrattazione limitato se confrontato alla forza delle interpretazioni erronee. Nessun tipo di base empirica può far sì che una teoria si possa dire corretta o meno122; l’unico modo per invalidare una teoria è dimostrare la sua illogicità secondo il principio di non contraddizione123. Questo avrebbe provocato inevitabilmente un’esplosione e una frammentazione di significati e punti di vista sul passato tutti semanticamente validi e non falsificabili, riducendo in qualche modo l’interpretazione archeologica a pratica politica. Da qui le accuse di soggettivismo e relativismo estremo che sarebbero giunte anche dalla parte più moderata dell’archeologia processuale soprattutto nordamericana124.

Il discorso sull’ideologia veniva affrontato alla luce delle dinamiche strutturanti di Giddens e Bourdieu. L’individuo, nelle vecchie formulazioni funzionaliste, non era escluso totalmente, semplicemente si autoregolava in base a certe condizioni del sistema. Adesso il soggetto veniva liberato nelle sue potenzialità poietiche all’interno delle dinamiche di potere a cui era sottoposto, sia nel passato che nel presente. L’agente diveniva il soggetto attivo delle sue pratiche all’interno della struttura. Per Giddens l’agency è l’azione che il soggetto sceglie di mettere in pratica e di far valere (enacted) tra quelle possibili all’interno della struttura. Bourdieu sottolinea invece l’aspetto coercitivo che la struttura esercita sull’individuo che non lo rende completamente libero di agire. Eppure in ultima analisi, per Bourdieu, a differenza di Giddens, il corpo diventa un accumulatore di azioni di resistenza che possono scardinare la struttura. Questo spiega la maggiore influenza esercitata da Bourdieu a livello politico sul programma postarcheologico proprio per la sua particolare concezione di habitus come resistenza al potere strutturante114. Acquisisce così importanza non solo l’individuo ma il corpo fisico come interfaccia tra il soggetto e la struttura, come potente fonte di simbolismo e parte della costruzione sociale della realtà115, dando avvio agli studi di embodiment e agency in archeologia116. È da notare qui come la concezione dell’individuo emerga nella cultura angloamericana e si esprima in tutta la sua capacità d’azione e d’iniziativa grazie al sostegno della tradizione liberale che la pervade, ma sempre mutila, perché interpretata in chiave di mantenimento del sistema e mai come forza capace di sovvertirlo.

La questione del timing, oltre che essere una dimensione essenziale per una disciplina come l’archeologia, è diventata in questo caso la piattaforma dove si è consumato lo scontro

112  Per un tentativo di fare chiarezza sulle differenti anime dell’archeologia processuale si veda Preucel 1991, pp. 1-268; Hodder 1986, pp. 156-160; Earle, Preucel 1987, p. 501; Shennan 1989, pp. 327-356; Trigger 2008, pp. 444-478; Patterson 1989, pp. 555-566; si veda anche Cuozzo 1996, 2000; Johnson 1999, pp. 102-108 ha invece sottolineato in vari punti gli aspetti convergenti dei differenti indirizzi, ribaditi da Chapman 2002, pp. 226-227. 113  Shanks, Tilley 1987a, pp. 103-114. 114  Bourdieu 1972. 115  Shanks, Tilley 1982, p. 134. 116  Barrett 1994; Thomas 1991.

Foucault 1969, 1977. Tilley 1990b. 119  Shanks, Tilley 1987b, p. 212; Cuozzo 1996, p. 13. 120  Foucault 1967, p. 217. 121  Shanks, Tilley 1987a, p. 104. 122  Ivi, pp. 114-115; Shanks, Tilley 1989; Lampeter Archaeological Workshop 1997. 123  Miller, Tilley 1984, p. 151; Shanks, Tilley 1987b, p. 195; Tilley 1990b, pp. 338-340; Ucko 1989, pp. XIX-XX; si veda anche Ucko 2009. 124  Trigger 2008. 117  118 

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. tra processualisti e postprocessualisti. La concezione del “tempo” condensa in sé i termini del dibattito nelle sue parti essenziali. Il rapporto tra presente e passato125, tra tempo individuale e di sistema, tra interpretazione e realtà, tra staticità del contesto archeologico e dinamismo della narrazione archeologica nel presente che, spostato sul piano temporale, diventa anche una questione politica di una certa rilevanza sull’appropriazione del passato e sulla sua legittimità paradigmatica per la società contemporanea. Il tentativo di separare definitivamente il tempo passato del contesto archeologico con il tempo presente dell’interpretazione e dell’etnografia, operato da posizioni processuali126, aveva come obiettivo quello di rendere i dati sufficientemente autonomi e di considerare l’archeologia una disciplina autonoma dalle altre scienze sociali. In queste distinzioni le archeologhe e gli archeologi postprocessuali non vedevano solo un depotenziamento delle possibilità teoriche che offriva il continuo dialogo con la teoria sociale contemporanea in genere, ma vedevano l’atto cosciente di recidere il filo che univa i dati empirici dal loro significato, reificando il passato e rendendolo una distesa di segni muti127. Reificare il passato in una sua dimensione temporale propria e solida costituiva “a crucial part of a logocentric ontological conspiracy to locate the past in the past, to create a reverence for a contrived arche”, proprio attraverso la manipolazione della dimensione temporale: “the exclusive presence of a linear chronology at the expense of alternative and suppressed temporalities” maschera “ideological operation to promote the former expression of conceived time as absolute and indipendent” neutralizzando il passato e rendendolo politicamente irrilevante per il presente128, ma soprattutto stabilendo una gerarchia di potere in cui il presente giudica il passato e lo domina secondo un atteggiamento che R. Squair chiamerà “the privilege of retrospect”129.

soggettiva della ricostruzione del passato gettava ombre sull’oggettività del dato e sull’imparzialità dei metodi e dei giudizi dichiarati dall’archeologia processuale. In una posizione più conciliante si poneva Hodder che pur riconoscendo la posizione relativista e polifonica dell’interpretazione del passato ribadiva come questo punto non si risolvesse solamente con la decostruzione e nella riproduzione dei dibattiti contemporanei. Il passato doveva, per lui e non solo, mantenere un certo grado di autonomia e doveva essere dialetticamente correlato al presente133. Pur riconoscendo che la costruzione del passato avviene politicamente ed eticamente nel presente – dinamica che aveva messo in luce Foucault a proposito dell’interazione tra conoscenza, verità e potere – tuttavia non si poteva accettare che tale costruzione si esaurisse in una manipolazione ideologica delle sue componenti essenziali 134. Le reazioni alla critica postprocessuale non tardarono ad arrivare. L’individualismo aveva raggiunto le sue estreme conseguenze sospinto dalla teoria dell’intenzionalismo e aveva espanso il “contesto” trasformandolo non solo in una spazio temporale e topografico ma in un luogo in cui agiscono alcuni criteri condivisi di interpretazione e azione, per cui ciò che conta è il complesso attore-azione. In senso esplicativo ogni macroteoria è riducibile in termini di proprietà individuali, e in quello semantico la validità dei predicati sociali generici risulta dalle relazioni complesse tra singoli individui in cui il discorso con cui si esprimono, si organizzano e interagiscono diventa la chiave interpretativa135. 2.5. Rigettare le critiche. Ciò che veniva rigettato da parte dei processualisti erano le critiche che per motivi ideologici e politici i

Per l’archeologo marxista Mark Leone la costruzione del passato non sarebbe altro che una manipolazione ideologica operata dalle classi dominanti per mantenere il potere e garantirsi il monopolio della tradizione a scopo di auto-legittimazione ed auto-riproduzione130. Più estreme le posizioni di John Barrett per cui le interpretazioni archeologiche e storiche sarebbero totalmente soggettive; continui tentativi di disporre della realtà, del passato e della tradizione, attraverso la quale si stabilisce l’egemonia politica131. La posizione relativista132 e totalmente

“relativiste”, opponendosi con verità assolute. “To be more specific – dichiarava Geertz – I want not to defend relativism, which is a drained term anyway, yesterday’s battle cry, but to attack anti-relativism, which seems to me broadly on the rise and to represent a streamlined version of an antique mistake. Whatever cultural relativism may be or originally have been […], it serves these days largely as a spectre to scare us away from certain ways of thinking and toward others”, Geertz 1984, p. 263. Si deve perciò distinguere tra relativismo totale, pseudo relativismo e relativismo pluralista, per non confondere relativismo con solipsismo logico, facendo del tema della ricerca della Verità una questione privata (Sparti 2002, p. 275). Da ultimo Fabio Dei ha analizzato, secondo una prospettiva socio-politica, le recenti retoriche anti-relativiste, attribuibili a due filoni diversi di pensiero, quello teocon e quello facente capo agli studi postcoloniali, ma entrambe alla fine convergenti. Ricorda Dei come “Entrambe le prospettive si presentano come soluzioni ai dubbi, alle oscillazioni e alle contraddizioni di una troppo debole teoria sociale “postmoderna”. Entrambe partono da un’istanza forte di posizionamento etico-politico […] e una più o meno esplicita filosofia della storia, basata sulla contrapposizione tra un indistinto “Occidente” e il resto del mondo. Entrambe presuppongono una concezione universalista del soggetto umano, nel quale la diversità trova posto solo come deviazione o distorsione. Oggi [le pretese di oggettività e neutralità del positivismo] finisce per giocare un ruolo opposto: lo si usa come baluardo di assunti altrimenti insostenibili. In un simile quadro lo spettro del relativismo è agitato con la funzione di blindare sistemi conoscitivi”, Dei 2008, p. 47, trasformando la scienza in ideologia. 133  Hodder 1991a, p. 30; Hodder 1992, p. 160. 134  Hodder 1992, pp. 160-164. 135  Sparti 2002, pp. 259-260.

Per una recente sistematizzazione dei termini Gardner 2004. Bailey 1983, 1987; Binford 1983; Binford, Sabloff 1982; Fletcher 1992; Murray 1993, 1997; Murray, Walker 1988. 127  Sulla separazione tra archeologia e scienze sociali, si vedano le critiche di Shanks, Tilley 1987b, pp. 120-125; Squair 1994, pp. 92-113; Thomas 1996, p. 36. 128  Squair 1994, p. 93. 129  Ibidem. 130  Leone 1982, pp. 742-760, 1984, pp. 25-36; Leone, Potter, Shackel 1987, pp. 283-302. 131  Barrett 1994, p. 168. 132  Il termine porta con sé numerosi significati ed un lungo dibattito. Il debito pagato nei confronti di Geertz, soprattutto per i concetti di “relativismo culturale” e “antropologia interpretativa”, da parte dei postprocessuali è evidente (Hodder 1991b). Tuttavia Geertz contestava coloro che cercavano di negare la pluralità insita nelle formulazioni 125  126 

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L’ideologia degli archeologi postprocessualisti facevano a talune conquiste teoriche e metodologiche dell’archeologia processuale, ritenute da loro invece operativamente valide. Tale opposizione ideologica, per i processualisti, era stata possibile attraverso la mancata distinzione tra archeologia processuale e New archaeology. Erano state cioè attribuite all’archeologia processuale prospettive e assunti che non tenevano conto delle riformulazioni che erano state operate e che ignoravano il contesto sociale e storico in cui erano nate le prime formulazioni della New archaeology, così come i successivi riorientamenti136, semplificandone il quadro evolutivo generale. La critica aveva riguardato tre aspetti fondamentali: 1) il concetto di culture come adattamento all’ambiente; 2) quello di material culture come prodotto passivo; 3) i meccanismi dell’explanation tesi alla ricostruzione di leggi generali attraverso il metodo ipotetico deduttivo.

dell’archeologo141: se si accetta che ogni interpretazione non è totalmente oggettiva (poiché la natura del dato è reale ma non oggettiva), si deve però accettare che questo abbia anche un qualche grado d’indipendenza rispetto alla deformazione interpretativa. Questo concetto di indipendenza in riferimento all’oggetto reale è strumento teorico chiave delle riflessioni della Wylie. In questo senso se non esiste un’interpretazione definitiva, l’archeologo ha però il dovere e la capacità di escludere e scegliere tra interpretazioni alternative, di fare una scelta che ha a che vedere con la prassi e con il posizionamento teorico e politico142. Inoltre, la contrapposizione oggettivo/ soggettivo, relativo/assoluto, mutuata dall’opposizione moderno-postmoderno, andava ripensata criticamente143. Il relativismo totale non è una via praticabile poiché confonde la molteplicità delle interpretazioni con il solipsismo logico che fa della verità una questione privata e va ben distinto dal relativismo moderato e pluralista144. Lo stesso Geertz, a cui le accuse di soggettivismo, idiozia etica e cecità estetica rivolte all’approccio relativista parevano insensate e sintomo della paura di perdere il privilegio del monopolio della verità145, sosteneva di non essersi mai lasciato influenzare dall’argomentazione “che, essendo la completa obiettività impossibile […], tanto vale lasciar libero sfogo ai propri sentimenti. […] Come dire che, non esistendo un ambiente perfettamente asettico, tanto vale esercitare chirurgia in una fogna”146.

Nell’introduzione a un volume collettivo pubblicato nel 1993 dal significativo titolo Archaeological theory: who sets the agenda?, che riuniva tutta una serie di articoli piuttosto ostili all’archeologia postprocessuale, Norman Yoffee e Andrew Sherratt rifiutavano programmaticamente questa reificazione dell’archeologia processuale in un’unica categoria, sostenendo che: “What post-processual archaeologists claim to be ‘processual’ is, of course, a jarring collage. While it may be intellectually amusing to fit Schiffer and Binford into the same frame, it is only unlettered arrogance that forces Flannery into the same family unit”137. Le critiche che muovevano da posizioni postprocessuali erano già state elaborate in seno all’archeologia processuale: “Futhermore, there is nothing new in the attack on funzionalism and the quest for cultural laws. Boasians of more than a halfcentury ago and structural-funzionalists on precisely these terms”138. Vista in questi termini ovviamente venivano del tutto accantonati i punti in comune tra i due approcci ed esaltate da entrambe le parti le visioni inconciliabili. A essere rifiutati erano anche gli spunti tratti dalla riflessione postmoderna provenienti dalla letteratura e dall’antropologia culturale. La cultura non era esclusivamente composta di rappresentazioni e simboli come voleva buona parte dell’antropologia139, e sebbene la cultura non fosse più vista come diretto riflesso del comportamento umano ma come parte di un complesso sistema di comunicazioni, strategie e meta-linguaggi140 ne veniva negata la totale decrittabilità attraverso teorie prese in prestito da altre discipline: l’explanation non poteva ridursi a mera retorica o alla fiction, né alla spasmodica ricerca di teorie innovative. La filosofa (e archeologa) Alison Wylie, figura assolutamente straordinaria e molto spesso ignorata nel panorama europeo in generale, ribadiva la resistenza indipendente esercitata dal complesso dei dati archeologici alle formulazioni teoriche

L’accusa di relativismo culturale per i postprocessualisti coincideva con il ritorno della storia in archeologia in termini di “idealismo”. Le basi epistemologiche dell’archeologia come scienza andavano ribadite, così come il ruolo adattivo riservato all’ambiente geografico147, e in questi termini doveva continuare a essere visto il ruolo della spiegazione storica a cui molti postprocessualisti si richiamavano. Per Earle e Preucel la storia intesa in senso postprocessuale andava rigettata: “many new archaeologists have discounted the importance of history and of historical explanations. While this has been a disservice to the discipline, we reject the idealist position, adopted by Hodder and to some extent by the structural Marxists, that the driving force for cultural change is the individual motivation, a product of historically structured values.”148. Posizioni da cui a più riprese lo stesso Hodder Mentre però per Wylie 1995 la resistenza esercitata dal dato ha un valore positivo, di resistenza nei confronti dell’immaginazione o delle sovrainterpretazioni, per Squair 1994 questo non è che un limite alla teoria e alla capacità di interazione tra le interpretazioni archeologiche e i modelli delle altre scienze sociali. 142  Wylie 1982; 1993, 1993, 1996, 2000. 143  Wylie 2003. 144  Kohl 1993; Sparti 2002, p. 275. 145  Geertz 1989, p. 12. 146  Geertz 1987, p. 70. 147  Watson 1991; Watson, Leblanc, Redman 1971. 148  Earle, Preucel 1987, p. 509. Sostenere che lo struttural-marxismo veda nell’individual motivation la forza responsabile dei cambiamenti culturali, ci pare alquanto impreciso ed azzardato. La complessità del meccanismo di trasformazione sistemica sostenuta dagli strutturalmarxisti è ben esemplicato in Godelier 1984, pp. 215-216, Passeron 2006, pp. 169-170, e dalla polemica su questo punto tra Maurice Godelier e Lucien Sève, Godelier, Sève 1970, pp. 49-97. L’incontro tra il concetto di struttura marxiana e quello sostenuto dallo strutturalismo, non pone solo 141 

Yoffee, Sherratt 1993, p. 5; Kohl 1993. Yoffee, Sherrat 1993, p. 4. 138  Ibidem. 139  Geertz 1973; Geertz 1987, p. 2. 140  Hodder 1986. 136  137 

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. aveva provato a prendere le distanze149. Di questo tipo di incomprensione la storia dell’epistemologia (e della postepistemologia) è piena: anche Latour e Foucault dovettero difendersi dalle stesse accuse, il primo in un articoletto intitolato in maniera significativa Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, e l’altro dedicando un intero corso al Collége de France (tenuto nel 1984 e pubblicato con il titolo di Le Courage de la Vérité) a difendersi dalle accuse di relativismo150. In posizioni meno deterministe si trovava Bruce Trigger per cui, sulla scia del geografo Paul Vidal de La Blache, l’ambiente, anche caratterizzando un luogo d’interazione e a volte di costrizione per l’uomo, non determinava comportamenti culturali da esso ricavabili come costanti151.

Collinwood”155. Per chi aveva già visto queste dinamiche operanti altrove, il dibattito tra archeologia processuale e postprocessuale nell’archeologia angloamericana lasciava la sensazione di un “déjà vu all over again”156. 2.6. Le ragioni profonde di una opposizione e la loro riconciliazione mancata. Christopher Chippindale ha tentato dal canto suo, invece, di ricostruire la base intellettuale da cui si sviluppavano sia l’archeologia processuale sia le critiche che gli erano mosse da parte dei postprocessualisti, tentando di isolare le motivazioni che le spingevano ad assumere posizioni alternative l’una rispetto all’altra, di capire la validità di queste alternative e se fossero praticabili entrambe o mutualmente escludenti. Per fare questo Chippindale partiva dalla constatazione che nell’ambiente archeologico operano tre distinti atteggiamenti “socio-psicologici”: 1) per prima cosa l’archeologia postprocessuale soffrirebbe di una preposterous tendency e di una ambition patently, poi disattesa, a porsi come unica e più complessa alternativa esplicativa. Pretestuosa poiché “no single approach can tell all”; disattesa poiché, come ricorda lo stesso Hodder, “archaeology now appears hopelessly difficult”157. Una ambizione di cui soffriva anche l’archeologia processuale ma in maniera dichiarata e non sottilmente mascherata dietro il pluralismo politicamente corretto; 2) l’altro atteggiamento caratteristico sarebbe la deference “embedded into the disciplinary foundations since the beginning”. Così come l’archeologia classica è perennemente in cerca di liberarsi dalla deferenza verso la storia dell’arte e la storia (vs. le fonti scritte), “american archaeology is perpetual junior in an unequal partnership with a generaling anthropology: Prehistory, since its beginnings a century ago, has thought of itself as wanting to become a science, an attitude affirmed again by the spirit of the New archeology. Insofar as science is systematic knowledge, almost all academic disciplines are science”. E sarebbe per lo stesso meccanismo che l’archeologia postprocessuale avrebbe reagito contro la deference avvertita nei confronti dell’archeologia processuale allora dominante, entrando subito in un altro meccanismo di deference stavolta nei confronti delle scienze sociali e della social theory158; 3) l’ultimo carattere espresso dalla post-archeologia sarebbe la consumption, l’atteggiamento dettato dal mercato editoriale e da quello sociale a far proprie idee correnti e alla moda (fashionable) così da suscitare interesse nel lettore e nelle altre comunità scientifiche159. Se l’obiettivo è quello di sostituirsi ad una linea dominante all’interno della propria disciplina, è più facile trovare riconoscimento accademico usando un linguaggio condiviso con altre discipline e in polemica con le soluzioni precedenti. Ma su questo punto torneremo nelle conclusioni.

Sulle stesse posizioni scettiche riguardo alla Radical Critique postprocessuale si trovava l’antropologo marxista Philip Khol che faceva sue le affermazioni di Binford152, per il quale una realtà esterna al di fuori dell’interpretazione dell’archeologo esiste, seppur riflessa in modo imperfetto nel contesto archeologico. Kohl, in quanto archeologo marxista, sottolineava come tutte queste considerazioni avanzate dall’archeologia processuale fossero ben presenti nel pensiero di Marx, a cui Childe molto tempo prima aveva dato espressione in campo archeologico153. Nella sua prospettiva il rischio era quello del riduzionismo culturale, una mistificazione completa delle dinamiche socioeconomiche che dava vita ad un’idolatria culturale (culturology) “in which peoples differ simply because they differ, their cultures irreducibile Platonic essences, given that somehow exist outside the stream of historical experience”154. Avendo praticato le sue ricerche in Unione Sovietica, Kohl aveva avuto la possibilità di confrontarsi precocemente con l’archeologia materialista sovietica e con le critiche all’interpretazione del pensiero marxiano che si erano sviluppate nell’ambito dell’antropologia e dell’archeologia europea. L’accusa rivolta all’archeologia angloamericana era quella di ignorare la tradizione europea, soprattutto quella filosofica e storica, cedendo così al richiamo di figure e posizioni ormai superate. Notava infatti Kohl: “If we should consider prehistory as an extension of history, the ultimate longue durée, and if we need intellectual gurus for guidance, I suggest we read practicing historians who have reflected soberly on their craft and the limitations of their data. M. Bloch and E. H. Carr strike me as far batter guides for archaeologists than

problemi di proprietà ed attributi, ma arriva a discutere anche il difficile rapporto Hegel-Marx e la questione della necessità storica. Ancora una volta non è una questione di scala, ma di epistemologia. 149  Hodder 1987, 1991. Questa fu una sorte toccata a molti. Sia M. Foucault, col suo ultimo corso al Collège de France sulla parrasia tenuto nel 1984, ma anche B. Latour con il suo scritto Why has critique run out of steam? del 2004, furono costretti in qualche modo a fornire precisazioni sulle loro posizioni teoriche contro ogni utilizzo marcatamente ermeneutico del loro pensiero. 150  Latour 2004; Foucault 2009. 151  Trigger 1997. 152  Binford 1986. 153  Kohl 1993, p. 16; sulle stesse posizioni Trigger 2003. 154  Ibidem.

Ivi, p. 17. Ibidem. 157  Hodder 1986, p. 178; Chippindale 1993, p. 31. 158  Ibidem. 159  Chippindale 1993, p. 32. 155  156 

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L’ideologia degli archeologi Dal punto di vista teorico si poneva il tema della riflessività160, uno dei problemi ancora irrisolti dall’epistemologia contemporanea insieme a quello ontologico. L’oggetto è al tempo stesso prodotto e indagato secondo il principio del doppio livello ermeneutico, e la nostra conoscenza dell’oggetto ne influenza la ricomposizione nel presente161. Molti oggetti indagati, come sosteneva John Searle, sono creati da noi nel presente e reinseriti nel passato162. Per alcuni processualisti il problema di distorsione sull’interpretazione del passato, provocato dalla realtà sociale in cui opera l’archeologo nel presente, è risolvibile. Per Bruce Trigger lo è in due modi ben distinti163. Da una parte praticando una buona storiografia dell’archeologia (attività in cui egli fu impiegato lungamente ed in modi tuttora ineguagliati)164 per non cadere in discussioni teoriche circolari e riproporre problematiche archeologiche già esauritesi e consumate, apprezzando i mutamenti storici del pensiero archeologico e la relazione tra contesto presente e ricostruzione del passato. Dall’altra praticando un’archeologia teorica che sia il frutto di un corretto uso dei concetti, dei termini filosofici o delle teorie prese in prestito dalle altre discipline165, facendo della storiografia e della filosofia due discipline strettamente affini. A tal scopo il suo obiettivo era quello di “espandere” la riformulazione della middle-range theory di Binford166 alla luce delle critiche postprocessuali. La middle-range theory si è rivelata molto utile – sostiene Trigger – sia per inferire relazioni funzionali-adattive tra comportamento umano, cultura materiale ed ambiente, sia per ricostruire dinamiche evolutive simili tra diverse società (cross-cultural regularities)167. E tuttavia la cultura è idiosincratica, particolare e irripetibile. Espandere la middle-range theory alle specificità e alle molteplicità culturali significa sfuggire all’anarchismo metodologico ispirato a Paul Feyerabend e fatto proprio dalla postarcheologia168 attraverso la sistematizzazione sempre crescente dei dati archeologici169: “Despite archaeological interpretations always being influenced, and probably strongly so, by their social milieu, the constraint of evidence and the refinement of methodology help to limit the effects of this bias”170. In altre parole, l’evidenza archeologica rappresenterebbe una variabile indipendente prodotta in completa autonomia nel passato e costituisce una “realtà” fisica e simbolica che in

un certo grado pone delle resistenze a qualsiasi tentativo di interpretazione erronea dell’archeologo, in modo molto simile alle riflessioni di Wylie sull’indipendenza della realtà materiale171. Trigger intendeva però fondare questo suo realismo non sulla filosofia analitica e pragmatica ma recuperando da una parte la tradizione marxista di Childe, la dialettica tra cultura e struttura socioeconomica e il valore dell’approccio storico172, e dall’altra mantenere ciò che di buono il processualismo aveva apportato in termini di standardizzazione delle procedure metodologiche. La figura di Bruce Trigger è stata oggetto di una riflessione collettiva all’indomani della sua morte avvenuta nel 2007173, che la restituisce a tutta la sua complessità. Tra i tanti interventi quello di Ian Hodder cerca di ricollare le posizioni di Trigger all’interno del dibattito fra processualisti e postprocessualisti174, con l’intento non troppo nascosto di cooptarlo alla causa di questi ultimi. Ma il compito riesce a metà poiché il pensiero di Trigger non si fa imbrigliare facilmente. Sostiene Hodder che Trigger si dichiarasse un materialista (o piuttosto, dico io, un realista)175 e contro l’iperrelativismo. Nonostante egli “has long been ahead of the game”, Trigger sarebbe stato più vicino all’archeologia postprocessuale britannica che alla New archaeology americana176: “He favours a systemic or functional view of culture, and he is also very critical of the culture-historical view that language, culture, race, and social unit coincide”, e tuttavia egli “was determined to show that history had much to offer”177. Le sue posizioni si distanziavano nettamente da quelle di Binford. Mentre quest’ultimo utilizzava “the values of Hempelian hypotesis”, Trigger sosteneva che lo studio della preistoria fosse dato dal dialogo tra “evidence and the social science that are used to intepret”178. Questa citazione, presa da un libro di Trigger pubblicato nel 1968, per Hodder “describes perfectly a hermeneutic, dialectical (?) approach. It tries to transcend subject-object dichotomies, and it opens the way for the recognition that different pasts are produced as the result of different dialectical interaction”179, da qui sarebbe derivata la grande influenza di Trigger sullo stesso Hodder e l’archeologia postprocessuale. Mi pare che non sia così. Hodder confonde la constatazione che la storia è socialmente costruita con la possibilità di indagare il passato nelle sue dinamiche reali, allentando così la tensione verso la verità.

Hodder 1989; Tilley 1989. Sparti 2002, pp. 237-243. 162  Searle 1996. 163  Sebbene la complessa personalità di Trigger non sia etichettabile facilmente come processuale o postprocessuale (e questo è vero per molti archeologi), tratteremo in questa sezione le sue idee, proprio perché si oppose ad alcune derive postprocessuali in nome di un relativismo “pluralista” (Murray 1999). Di recente sulla figura di Trigger e le implicazioni delle sue visioni si veda il volume collettivo Williamson, Bisson 2008, in particolare in questo stesso volume Hodder 2008, McGuire 2008. 164  Trigger 1978, 1980, 1981, 1994, 2001, 2003, 2008. 165  Trigger 1981, 1998, 2003. 166  Cfr. Cap. I 167  Usate dallo stesso Trigger nel comparare sette civiltà del globo, Trigger 1993a, 2003b. 168  Feyerabend 1978; Trigger 1995, p. 450; Tschauner 1996. 169  Trigger 1995, p. 455. 170  Ivi, p. 456.

Su queste posizioni Trigger 1980, 2008, pp. 470-471; Leone 1982; Wylie 1982, 1992, 1996, 2000. 172  Trigger 1993b. 173  Williamson, Bisson 2008. 174  Hodder 2008. Lo stesso Trigger aveva esposto con chiarezza le sue posizioni nell’edizione del 1996 del suo A History of Archaeological Thought, si veda in particolare Trigger 2008, pp. 484-548. 175  Lo dichiara Trigger stesso, Trigger 1998, p. 23: “Realism is a messy and eclectic epistemology, embracing the study of processes and emergent properties as well as of what can be observed directly; interested in causality as well as correlation; and trying to incorporate mind into a system of knowing that also involves sensory experience and entities that are external to the observer. Its principal and overwhelmingly important virtue is that it treats mind, senses, and external reality in an interrelated fashion”. 176  Hodder 2008, p. 18. 177  Ibidem. 178  Trigger 1968, p. 91. 179  Hodder 2008, p. 18.

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Modernismi e postmodernismi (2). I termini del problema in archeologia. Immediatamente però Hodder contesta a Trigger di essersi improvvisamente ritirato da quelle feconde posizioni in concomitanza con lo sbocciare del postprocessualismo, ritornando a sostenere la vecchia opposizione oggettosoggetto. Per dimostrare l’arretramento Hodder ricorda che, pur dichiarandosi materialista, Trigger giunge a criticare il marxismo, “too narrow, expressing a preference for an approach that attempts to account for historical diversity”, mitigando il materialismo “with historical context”. Questa affermazione è, a mio avviso, poco condivisibile. Perché mai il materialismo e la storicità del contesto dovrebbero essere separate o mitigarsi a vicenda come se fossero incompatibili? Non si è chiesto Hodder se non è Trigger a essersi ritirato verso posizioni conservatrici ma piuttosto l’archeologia postprocessuale a essersi spinta troppo oltre quelle posizioni? Non è possibile che l’oscillazione di alcune posizioni di Trigger sull’archeologia nell’arco di quarant’anni siano dovute proprio a talune derive che le sue intuizioni stavano prendendo? Lo stesso capitò a Thomas Kuhn: sconcertato da alcune interpretazioni che riducevano il suo pensiero a pura sociologia della conoscenza dichiarò di rifiutare il relativismo e di non accettare il dissolvimento di concetti come verità e ragione o la subordinazione della ricerca a considerazioni politiche180.

contraddicono Hodder cita anche Colin Renfrew che prima sostiene che i dati non sono oggettivi in senso assoluto, salvo poi dichiarare che in quanto “value-free can validate or falsify our own (subjectively produced) hypothesis”184. Non c’è contraddizione se immaginiamo il value-free semplicemente come una tensione verso cui si deve puntare. Come si evince da questa discussione la dicotomia tra soggetto e oggetto è al centro del dibattito e vedremo come alcune nuove prospettive stanno tentando di risolverla185. Ma vediamo anche come permanga costante il suo riflesso nello scontro accademico, nell’opposizione tra processualisti e postprocessualisti che, lungi dall’essere arrivata a un punto di riconciliazione, ha però affinato i suoi strumenti retorici che non risparmia neanche i morti. Nota Matthew Johnson nella sua Archaeological Theory: An Introduction che le dichiarazioni di superamento e di sintesi fatte dalle opposte fazioni, tanto da Ian Hodder quanto da Colin Renfrew e Paul Bahn nel loro noto manuale, forse non sono altro che espedienti metanarrativi che, attribuendo alle proprie posizioni capacità concilianti ed olistiche in nome di una ritrovata unità teorica e disciplinare, in realtà reclamano per sé una nuova e più forte egemonia accademica attraverso la retorica dell’equilibrio. Ha ragione da vendere Johnson nell’affermare che “there is nothing in the middle of the road, only white lines and dead armadillos”186.

Per Hodder vi è una contraddizione di fondo anche tra la critica al relativismo di Trigger e le dichiarazioni che lo stesso fa sul fatto che le archeologhe e gli archeologi spesso costruiscano le proprie idee sul passato calcando quelle che i loro predecessori si sono fatti su di esso, piuttosto che sulle evidenze sulle quali quelle conclusioni si basano181. Criticare questo punto non significa affermare che sia così e non possa essere altrimenti. Constatare che il procedimento iperrelativista esiste non significa non poterne sfuggire. Trigger ammette che ci sia una tensione irrisolta tra dato e intepretazione, tra soggetto che la produce e realtà su cui si fonda: “If subjective factors intervene at every level in the interpretation of the past, so too does archaeological evidence. […] we are moving here towards a position in which subject and object are defined in relation to each other rather than as separate entities”182. Riconosciuta la valenza del soggetto nell’interpretazione bisogna inibirla accumulando sempre più evidenze archeologiche. Questa dicotomia irrisolta è alla base di chi cerca di conciliare le due archeologie e di chi cerca dei compromessi tra processualismo e postprocessualismo183. La permanenza di tale aporia provoca quelle contraddizioni verbali a cui Hodder si appiglia per criticare l’arretramento di Trigger dalle sue prime posizioni postprocessuali: tale arretramento infine sarebbe dovuto al tentativo di Trigger di definire e distinguere la sua personale posizione teorica all’interno del panorama archeologico; una questione retorica e non sostanziale dunque. Tra i tanti che si Busino 1999. Hodder 2008, pp. 20-21. 182  Trigger 2008, p. 407. 183  Come Hegmon 2003 o Renfrew 1989.

Renfrew 1989; Hodder 2008, p. 22. Thomas 2004 la fa derivare dalla dicotomia tra ontologia ed epistemologia, tra corpo e mente. 186  Johnson 1999.

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3 Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. Inesattezza e dimenticanza delle differenze decisive. Il particolare viene scambiato per l’insieme, una lontana analogia per il compimento della verità, e il mantice svuotato di una grande parola viene imbottito secondo la moda del tempo. Robert Musil 3.1. Inventare o inventariare le differenze?1

considerata come polo sociodinamico in cui varie forze di spinta interagiscono tra di loro, dando vita poi a delle trasformazioni percepibili.

Secondo quanto anticipato nell’introduzione, questa sezione sarà dedicata all’analisi del dato quantitativo che, nel nostro caso specifico, sarà costituita dall’analisi testuale (paradigmatica e sintagmatica) dei contenuti di alcune riviste. Gli articoli analizzati costituiranno la nostra base materiale da cui partire per continuare il discorso sui rivolgimenti e i posizionamenti epistemologici ed ermeneutici in seno all’archeologia. Essi saranno categorizzati e inventariati in modo da procedere a una comparazione tra le diverse tradizioni accademiche e teoriche nella speranza di cogliere le differenze e le similitudini. La differenza di prospettiva e intenti tra le diverse riviste e articoli all’interno di esse verrà ridotta a livello analitico affinché sia possibile creare un insieme di fonti che possa essere considerato omogeneo, comparabile e dunque attendibile. Uno dei maestri del metodo comparativo in storia e in antropologia del mondo antico, Marcel Detienne, sostiene in maniera convincente che ogni tipo di comparazione è attendibile in termini di espressione delle differenze2. Nello specifico si tratta però di creare dei gruppi coerenti di dati e di variazioni di temi all’interno di un medesimo sistema, per poi mettere in relazione questi sistemi tra loro. In altre parole, portare la comparazione a un altro livello d’analisi. Forse non tutto è comparabile o meglio, forse, i profani della comparazione, i novizi alle prime armi, dovranno usare un po’ di cautela.

Le riviste sono state scelte secondo criteri di rappresentatività basati su dei ranking di pubblicazione il più possibile oggettivi e di diffusione della rivista; resta comunque un certo grado di arbitrarietà poiché a volte si tratta di riviste che (soggettivamente) si sono considerate paradigmatiche, cioè legate a una tradizione e una autorevolezza riconosciuta nell’ambiente archeologico, altre volte invece di riviste scelte per la loro accessibilità ai fini dell’analisi che ha come scopo ultimo quello di confrontare e comparare le differenze ed inventa(ria)rle. Ogni rivista è stata “caratterizzata” secondo la sua storia e i suoi intenti come rappresentativa di un tema specifico che qui ci interessava mettere in “frizione”. Il lavoro ha previsto la ricognizione di una serie di articoli pubblicati su alcune riviste archeologiche, approssimativamente tra il 1980 e il 2010, raggruppati in cinque macrotopiche: (1) nazionalità dei ricercatori; (2) periodi studiati; (3) obiettivi delle ricerche; (3) materiali utilizzati; (4) metodi; (5) aree geografiche. Ogni macrotopica e le sue trasformazioni saranno il pretesto per considerazioni più generali circa i sommovimenti disciplinari e teorici. Consapevoli che “The different conceptions people have of the surrounding world is, in a way, a logical conclusion of their background knowledge, as well as an image conditioned by their modes of engagement and experiences with the many types of media picturing reality”, e che questa condizione “is true of most of our daily routines, as it is also of some of our archaeological research questions and perspectives”3, procederemo sapendo che la conoscenza non è “naturale” ma eminentemente storica. I differenti orientamenti esposti e i soggetti studiati hanno una connessione con l’ontologia dei ricercatori e con le loro inclinazioni personali ma fanno anche parte di un contesto socioeconomico in cui il singolo e l’istituzione sono in mutua posizione relazionale. In questi termini, “a social dimension is unachievable unless we organise experience and delimit the range of meanings from which the surrounding world is clarified, typified and explained. This implies that significance does not depend on the

Tenendo conto di questo si è ritenuto più proficuo comparare all’interno di uno stesso periodo i risultati ottenuti e poi mettere in relazioni le “variazioni” occorrenti all’interno di un medesimo spazio temporale e riflettere sui rapporti reciproci di variazione. Allo stesso modo si è poi proceduto non solo ad analizzare le “variazioni” intercorrenti tra le singole tematiche scelte ma anche a vedere la variazione di una singola tematica, il suo sviluppo o il suo arretramento in rapporto alle altre, attraverso lo span temporale della suddivisione in periodi. Questo ci permetterà di capire la validità del rapporto tra una data tematica così come è stato proposto da vari autori in termini di periodizzazione o argomento, intesa come divisione in spazi discreti in cui occorrono delle trasformazioni sostanziali. Si potrà percepire così la dinamica individuo, coordinante e tendenza centrifuga all’interno della rivista, 1  Per questo concetto si veda Veyne 1976; Scheid 2002; per una critica del metodo Hartog 1978, 1982. 2  Detienne 2000.

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Soledad Mallía, Solange Vidal 2009, p. 2.

L’ideologia degli archeologi compiere un survey degli articoli della rivista pubblicata dalla scuola integrati dalle monografie pubblicate dalla British School at Rome 10. Il volume del centenario non è interessante solo perché presenta all’interno degli articoli dichiaratamente storiografici simili allo studio che stiamo sviluppando. La seconda parte del volume ha infatti degli articoli “classici” di studi e ricerche che può indirettamente dare l’idea degli interessi correnti e dello stato di salute di temi, discipline e metodi proprio per la sua alta rappresentatività simbolica. Ma su questo aspetto torneremo nello specifico più avanti. Ci basti qui tenere presente che il volume, nel suo complesso, sarà il nostro costante termine di paragone e di confronto, anche per la sua funzione dichiaratamente “ideologica”.

cognitive activity of the ‘subject’, but on a set of socially constructed codes that are reshaped and transformed according to the manner in which the web of social actors is configured or altered […]”4. Citando Salazar Ramos, “La ‘razón de ser’ de las cosas y de sus relaciones se fijan a través de un determinado sistema de ordenamiento, de una específica serie de organizaciones y de una cierta red que las entreteje y les configura su sentido y significación. Fuera de este sistema, las cosas y sus relaciones perderían sentido y significación”5. Una buona analisi statistica e un solido corpo di dati sono l’inizio per l’analisi di sistema. 3.2. Alcune riviste e il loro “contesto”. Papers of the British School at Rome. La scelta di analizzare gli articoli qui pubblicati non sarà finalizzata a una ricostruzione esaustiva dei cambiamenti e dei percorsi intrapresi all’interno della rivista in tutta la sua completezza. La dimensione temporale e sociale sarà solo parzialmente affrontata data la vastità dei fattori presenti. Dal punto di vista storiografico, la rivista è stata oggetto già di illustri sintesi. Sia la breve analisi di Timothy Peter Wiseman6 dalla fondazione nel 1901 sino al 1988, sia il recente volume di Andrew Wallace-Hadrill pubblicato in occasione del centenario della fondazione della British School at Rome7 hanno ben coniugato e integrato l’un l’altro le tendenze scientifiche presenti all’interno della scuola con il quadro sociopolitico. Vale la pena qui di tenere presenti i tre obiettivi della scuola già ricordati da Wiseman pubblicati da un comitato provvisorio il 25 ottobre 1899: “The first aim of the School shall be to promote the study of Roman and Greco-Roman archaeology in all its departments, and of palaeography […]. It shall be also, in the most comprehensive sense, a School of Roman and Italian Studies. Every period of the language and literature, antiquities, art and history of Rome and Italy shall be considered as coming within the province of School”8.

La suddivisione in spazi discreti di tempo corrisponderà a quelle dei diversi direttori succedutesi: Graeme Barker (1984-1988), Richard Hodges (1989-1995) e infine Andrew Wallace-Hadrill (1996-2010). Tale suddivisione non è né arbitraria né di comodo. Rappresenta invece, per alcuni autori, la chiave di lettura dei cambiamenti avvenuti all’interno dell’Accademia Britannica, in termini di tematiche e di metodi archeologici11. Le topics invece sono state di volta in volta formulate a partire dagli articoli stessi, cercando di differenziare il più possibile la complessità degli approcci e degli intenti. Quando questi vengono esplicitati dall’autore l’incasellamento è facile e privo dei rischi di semplificazione eccessiva. Nel caso di una ricerca dichiaratamente multi-periodo o multi-metodo, si è cercato di individuare, se possibile, al di là dell’intenzione pluralista dell’autore, quale fosse l’orientamento seguito ed eventualmente porlo sotto una determinata tematica. I dati raccolti saranno poi comparati con altre riviste archeologiche e monografie specifiche e con riviste europee a vocazione mediterranea. L’intento è quello di comparare le varie riviste per verificare lo stato dell’archeologia classica nel panorama europeo e angloamericano, tenendo presente le recenti tendenze alla ricerca di un’unità disciplinare e di una “identità” tutta europea12.

Richard Hodges invece ha dedicato una piccola monografia all’importante figura di Thomas Ashby, primo scolaro della scuola, direttore tra il 1906 e il 1925 e allievo di Francis Haverfield9. In occasione del centenario della fondazione, nel 2001, una sezione del volume dei Papers di quell’anno veniva completamente dedicata ad alcuni aspetti storiografici e tematici degli ultimi cento anni che aveva attraversato la scuola. Mentre le monografie di Wiseman e Wallace-Hadrill si presentavano come lavori tipicamente storiografici, basati sulla ricostruzione delle personalità presenti negli anni all’interno dell’accademia e principalmente basate su un lavoro d’archivio attraverso l’Annual Report to Subscribers, la sezione del volume del centenario si proponeva come intento dichiarato quello di

Accordia Research Papers. Come si autodefinisce la rivista sul sito ufficiale “The Accordia Research Institute was founded in 1988 to promote research into all aspects of early Italy. It is now in its seventeenth year. Its name embodies the concept of agreement (Italian accordo). The name Accordia is a construct, and was conceived as an acronym – Academic Co-ordination Centre [for the] Organisation [of] Research [into the] Development [of] Italy [from] Antiquity. Accordia was originally based at the Department of Mediterranean Studies, Queen Mary Wallace-Hadrill 2000 La stessa suddivisione è presente in Potter, Stoddart 2001 e WallaceHadrill 2001. In Potter, Stoddart 2001, pp. 6-16, la correlazione tra un direttore con forte personalità e gli indirizzi presi dalla scuola è particolarmente evidente nei casi di Thomas Ashby e Bryan WardPerkins, a cui vengono dedicati singoli paragrafi, mentre il periodo 19752000, viene raggruppato in un’unica sezione. 12  Su questa ricerca di un’identità tutta europea dell’archeologia Harding 2009; Kohl 2002; 2008; Kristiansen 2008a; Murray 1996; Renfrew 1992. 10  11 

Ivi, p. 4. Salasar Ramos 1994. 6  Wiseman 1990. 7  Wallace-Hadrill 2001; si veda anche Wallace-Hadrill 2000, pp. 283288. 8  Wiseman 1990, pp. 3-4. 9  Hodges 2000; Smith 1931; Wiseman 1990, n 3, p. 3. 4  5 

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Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. & Westfield College, University of London. It now operates in association with the Institute of Archaeology UCL and with the Institute of Classical Studies, School of Advanced study and the University of London. One of the strengths of Accordia has been the encouragement of international co-operative research, especially between British and Italian scholars (enfasi nostra)”13. La rivista si presenta come un utile termine di paragone in molteplici sensi. Essendo pubblicata dall’UCL rappresenta un polo accademico diverso in relazione ai Papers, con sede in un’altra capitale europea, Londra, ma afferente allo stesso background della tradizione britannica. In termini di intenti conoscitivi gli Accordia si propongono di promuovere gli studi sul e del territorio dell’Italia in tutti i suoi aspetti. In questo caso early Italy sta a significare non l’Italia preclassica ma l’Italia premoderna nel suo insieme, studiata from Antiquity, come sta ad indicare l’acronimo. In termini cronologici e tematici si crea cioè uno stesso e coerente spazio di paragone con il nostro soggetto di studi. Un altro aspetto è la presenza nelle due riviste, spesso, degli stessi autori. In questo modo risulta interessante capire le differenze argomentative e di soggetto, tra articoli appartenenti a un medesimo autore ma su piattaforme comunicative differenti, con differente tradizione e propositi. Infine, l’esplicito intento di creare un forte legame di collaborazione e interazione accademica tra due tradizioni di studi può essere utile per capire il livello di influenza o egemonia tra temi e metodi delle due scuole e con quali varianti all’interno di ciascuna scuola si preferisce dialogare14.

autorevole del postprocessualismo. In questa sede non ci interessa capire se gli intenti dichiarati da Robb siano stati rispettati e tradotti in realtà. Piuttosto si prenderà la rivista come cartina tornasole per lo sviluppo delle tematiche postprocessuali. Ci concentreremo anche su di essa per vedere come sia mutato l’intento iniziale della rivista, al cui riguardo si dichiarava: “CAJ has no restriction on period or place, and we are happy to receive material from any part of the world. Recently published papers have spanned the whole range of archaeology from the Lower Palaeolithic to Colonialism, and from the Pacific to Central Asia, from Maya cities to Neolithic northwest Europe”. All’inizio cioè più globale dal punto di vista tematico, cronologico e geografico e successivamente (Robb) riconciliante a livello teorico. European Journal of Archaeology. L’EJA è pubblicato dall’European Association of Archaeologists a partire dal 1993 (fino al 1997 come Journal of European Archaeology volumi 1-5) trimestralmente (aprile, agosto e dicembre) e si pone come obiettivo quello di promuovere “open debate amongst archaeologists committed to a new idea of Europe in which there is more communication across national frontiers and more interest in interpretation (corsivo mio)”, pubblicando ricerche che promuovano “not only new empirical data and new interpretations of the past but also […] debate about the role archaeology plays in society, how it should be organized in a changing Europe, and the ethics of archaeological practice”; e in cui “All periods are covered; papers, review articles, interviews and short ‘debate’ pieces are all sought” 15. L’articolo 2 dello statuto, aggiornato al 2007 e pubblicato on line, stabilisce gli scopi dell’associazione: 1. promozione dello sviluppo della ricerca archeologica e scambio di informazioni tra archeologi europei; 2. promozione della gestione e interpretazione del patrimonio archeologico europeo; 3. promozione di appropriati standard etici e scientifici del lavoro archeologico; 4. promozione degli interessi della figura dell’archeologo professionista in Europa; 5. promozione della cooperazione con altre organizzazioni. All’articolo 5 si stabilisce inoltre che l’inglese è la lingua ufficiale di lavoro dell’associazione durante l’assemblea annuale e gli incontri del Comitato esecutivo16. L’associazione si propone di creare quindi non solo una nuova idea di Europa ma di creare dei criteri giuridici, istituzionali e professionali condivisi che presiedano all’esercito della professione di archeologo e di promuovere ricerche che siano condotte secondo un determinato codice etico e che abbiano come finalità la promozione e la costruzione di un’archeologia europea. A tale scopo l’EEA ha redatto un codice deontologico di condotta che definisca il ruolo dell’archeologo nei suoi compiti di responsabilità pubblica, che regoli i suoi rapporti e i compiti nella società, ma anche con la ricerca

Cambridge Archaeological Journal. “The Cambridge Archaeological Journal is the leading journal for cognitive and symbolic archaeology. It provides a forum for innovative, descriptive and theoretical archaeological research, paying particular attention to the role and development of human intellectual abilities and symbolic beliefs and practices. Specific topics covered in recent issues include: the use of cultural neurophenomenology for the understanding of Maya religious belief, agency and the individual, new approaches to rock art and shamanism, the significance of prehistoric monuments, ritual behaviour on Pacific Islands, and body metamorphosis in prehistoric boulder artworks. In addition to major articles and shorter notes, the Cambridge Archaeological Journal includes review features on significant recent books. The Journal has a distinguished editorial board that includes British, American and Australian scholars of international repute”. Così John Robb, uno degli editor in chief, definisce in breve i propositi e la natura della rivista. Sebbene la rivista fondata nel 1991 sia pubblicata dal McDonald Institute for Archaeological Research, con un impianto decisamente processuale-scientifico guidato per tanti anni da Renfrew ed ora da Barker, ben presto è diventata una delle piattaforme di confronto fra i due indirizzi, e poi voce

15  https://www.e-a-a.org/EAA/Navigation_Publications/EJA/EAA/ Navigation_Publications/EJA.aspx. 16  https://www.e-a-a.org/EAA/About/EAA_Statutes/EAA/Navigation_ About/EAA_Statutes.aspx?hkey=7d37ed82-d905-40e9-9377742d728acaad, dove si possono anche leggere nel dettaglio i criteri che presiedono alla scelta delle pubblicazioni nell’EJA.

https://www.accordia-research.org/. La scuola italiana ad esempio possiede al suo interno diverse anime, con diversa distribuzione geografico-accademica, come messo ben in evidenza da Guidi 2002. 13  14 

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L’ideologia degli archeologi scientifica la propria professionalità e che stabilisca dei principi di condotta nella pratica dell’archeologia sul campo. Lo scopo di questo codice è di stabilire criteri deontologici per i membri da seguire nell’adempimento delle loro responsabilità sia nei confronti della società che dei loro colleghi professionisti. Sarà interessante misurare il ruolo dell’archeologia e degli archeologi classici nella costruzione di questa “nuova Europa” archeologica. Per quanto concerne questa ricerca l’EEA pubblica anche la rivista on line The European Archaeologist, in cui recentemente è stato pubblicato un breve articolo in cui Leonardo García Sanjuán presenta i dati di una ricerca “bibliometrica” sui libri recensiti all’interno dell’EJA. La ricerca dimostra un netto sbilanciamento nei confronti delle pubblicazioni anglofone mentre l’EJA dovrebbe incentivare la lettura di ricerche scritte in altre lingue europee: “some EJA readers or subscribers – potrebbero percepire questo sbilanciamento - as a symptom of cultural or scientific “imperialism”, whereby only approaches and research from English-speaking countries are considered as valuable”17. L’altro dato che emerge è che il gender balance, che in un editoriale John Chapman sperava nel 2001 di portare presto al 50:50, non è stato raggiunto e continua la netta predominanza di male authors/editor18.

Statement” pronunciato da uno degli editori della rivista, Bernard Knapp. La rivista si propone, secondo Knapp, sia come luogo di “mediazione” culturale, essendo il Mediterraneo un campo d’osservazione privilegiato dei fenomeni di interazione fra culture diverse sia nel presente che nel passato, sia come luogo di ricomposizione disciplinare tra il così detto Great Divide angloamericano a base antropologica e l’Old World (or “Classical”) archaeology20. La particolarità della rivista risiede nei frequenti editoriali che costantemente misurano lo stato e il successo di questi propositi con l’obiettivo di correggere o stimolare nuovi sviluppi. In uno di questi update della rivista, pubblicato nel 1994 a sei anni dalla sua fondazione, si lamentano alcune controtendenze rispetto agli obiettivi di covering. In senso disciplinare viene registrato uno shift verso la preistoria egea e in termini di copertura geografica uno verso il Mediterraneo orientale. In entrambi i casi gli ambiti di ricerca dei due editori: “At the same time, we note some gaps that need filling, and some biases in need of correction, if JMA i sto achieve its mission being a journal or fuse and importance to all sorts of archaeologist with mediterranean interests”21. In un successivo editoriale pubblicato nel 1999 gli editori ricordano ancora ai potenziali contributi della rivista che gli obiettivi rimangono gli stessi, “unchanged since its first issue”, con la speranza “to include more article dealing with the Roman, Byzantine, Islamic, Ottoman, Medieval and Early Modern archaeology of the Mediterranean world (corsivo mio)”22. Ritorneremo sulle difficoltà di copertura di questa rivista.

Journal of Mediterranean Archaeology. Pubblicato a partire dal 1988, sul “manifesto” del sito ufficiale della rivista si leggono alcuni obiettivi programmatici che riguardano le tematiche: “JMA […] publishes materials that deals with, amongst others, the social, politicoeconomic and ideological aspects of local or regional production and development, and of social interaction and change in the Mediterranean. We also encourage contributions dealing with contemporary approaches to gender, agency, identity and landscape, and we welcome material that covers both the theoretical implications and methodological assumptions that can be extrapolated from the relevant archaeological data”; i periodi affrontati (temporal scope): “JMA welcomes manuscripts from any period of Mediterranean prehistory and history, from the Palaeolithic to the Early Modern”; così come lo spazio fisico dell’indagine (The geographical focus) riconoscendo al Mediterraneo una forma ben specifica e codificata “from Gibraltar and the Iberian Peninsula in the west, to the Jordan Valley and Egypt in the east; from the mountain chains that fringe the diverse coastal plains of northern Mediterranean to the Atlas Mountains of the Maghreb and the Saharan desert cultures that impact on the Mediterranean’s southern shores”19. L’enfasi è posta sui nuovi approcci dell’archeologia contemporanea, “on […] gender, agency, identity and landscape” e su articoli che affrontano “theoretical implications and methodological assumptions”. Ancora più interessante risulta l’“Editorial

Mélanges de l‘École Française de Rome. Sul sito ufficiale della scuola si leggono alcune dichiarazioni di intenti sul programma scientifico relativo alla scuola e l’accento è posto sul suo ruolo istituzionale  : “L’École française de Rome est un établissement public de recherche et de formation à la recherche sous tutelle du ministère chargé de l’enseignement supérieur et de la recherche”. Gli scopi primari dell’istituzione sono le ricerche nel campo della storia, dell’archeologia e delle scienze sociali nel Mediterraneo in generale e in particolare per l’Italia (come è ovvio aspettarsi), ma soprattutto per le zone del Maghreb e i paesi rivieraschi dell’Adriatico. Questi aspetti della ricerca scientifica sono uniti a una costante e capillare azione di formazione dei giovani ricercatori francesi e stranieri (“Ses opérations donnent lieu à des échanges scientifiques dans le cadre d’ateliers et de séminaires, voire de colloques, et s’articulent avec l’organisation de sessions de formation doctorale et la collaboration à des expositions”). Useremo alcuni aspetti dell’École Française de Rome per compararli a quelli della British School at Rome come istituzione omologa di un altro stato europeo e portatrice di un’altra tradizione accademica23. Knapp 1996. Knapp, Cherry 1994, p. 3, editoriale 22  Knapp, Cherry 1999, p. 5, editoriale. 23  Sono attualmente disponibili e consultabili sul web tutti i volumi dal 1881 al 1999 su http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/revue/ mefr. Mentre sono consultabili con accesso riservato le edizioni dal 2001 in poi su http://digital.casalini.it.

17  García Sanjuán 2010, p. 28. Per questo si veda anche Kristiansen 2001, pp. 41-42 che ricorda “reviews […] influence not only your own readings, but also the choice of books ending up in the reading lists for students” e Kristiansen 2008b in generale sulle dinamiche globali e locali delle pubblicazioni archeologiche. 18  Chapman 2001. 19  https://journals.equinoxpub.com/JMA.

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Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. The Annual of the British School at Athens. La rivista è pubblicata annualmente dalla British School at Athens fondata nel 1896. Nello statuto della scuola, redatto dal comitato straordinario riunitosi in sessione plenaria il 18 giugno 2009, tra i vari obiettivi e le direttive amministrative stabilite, sono di particolare interesse alcuni punti: (1) “The purpose of the British School at Athens shall be to promote the study of Greece in all its aspects. It shall be its aim in particular to provide facilities for those engaged in research into the anthropology, archaeology, archaeometry, architecture, art, environment, geography, history, language, literature, religion and topography pertaining to Greek lands in all periods including modern times. (enfasi mia)”; inoltre (2) “the School shall offer facilities to members of universities, museums, and other bodies, and to bona fide independent writers and researchers, especially for those in the British Isles, the Commonwealth, Greece and other countries of the European Union.”; tra i compiti di cui il direttore della scuola è direttamente responsabile vi è quello di stabilire (24-i) “the mission, strategy and objectives of the School” e di (36-v) “develop and foster the academic life of the School, and to maintain academic standards”; la scuola inoltre si impegna a pubblicare annualmente l’ABSA, il quale (41) “shall contain reports of fieldwork conducted by the School and of research that Members carry out. The School shall also publish an account of fieldwork and research in Greece such as is currently embodied in Archaeology in Greece and other monographs on research in Greece”24. La comparazione con l’ABSA sarà utile proprio perché la BSA rappresenta un’istituzione omologa alla BSR nei propositi e nel tipo di pubblicazione, occupandosi entrambe di archeologia classica ma in contesto greco.

national and regional in scope, but research themes and bibliographies in journals are also predominantly local and national (including a strong tendency towards monolingual readings)”27. Questa conclusione segue e ripropone in parte gli studi sul legame tra archeologia e formazione degli stati nazionali più volte riproposti da Diaz-Andreu e altri28. Ma se resta valida per la nascita dei nazionalismi del primo Novecento forse il discorso non mantiene la sua validità nella situazione contemporanea, sebbene via sia consapevolezza di essere in una fase in cui la delusione per una globalizzazione mal riuscita possa riproporre fenomeni di contrazione regionale e di cementificazione identitaria paragonabili a quelli in opera per tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento. Ma su questo punto non spingiamoci oltre e continuiamo a esporre i dati a nostra disposizione. Dei 285 articoli visionati tra il 1984 e il 2009 in termini assoluti nei PBSR, ad esempio, risulta nettissima la prevalenza di autori di provenienza angloamericana, seguiti da quelli italiani, francesi e tedeschi (fig. 3.2). L’opposizione fondamentale è ovviamente quella tra autori operanti in istituzioni britanniche e quelli europei continentali. Gli autori provenienti da università britanniche risultano essere in prevalenza anche sommando tutti gli autori di altre aree europee. Scarsa, se non del tutto assente, è la presenza di autori americani o provenienti da altri paesi anglofoni, così come di autori di altri paesi extraeuropei. L’analisi delle variazioni anno per anno conferma la regolarità della sproporzione con l’eccezione dell’anno 2004, in cui gli autori italiani risultano in maggior numero rispetto agli inglesi. Ma la significatività di tale fenomeno va subito ridimensionata. Il numero degli autori italiani è concentrato in soli due articoli ma scritti a più mani; di qui la sproporzione.

3.3.1. Nazionalità degli autori e lingue franche: qualche riflessione.

Dallo stesso tipo di confronto ne esce ridimensionato anche l’aumento in termini assoluti degli autori italiani rispetto a quelli di altre nazionalità nel quinquennio 20042009. L’andamento analizzato anno per anno appare lo stesso degli altri, con minime variazioni che se sommate creano l’impressione di una prevalenza significativa della presenza italiana (fig. 3.3).

In molti casi l’analisi della distribuzione percentuale delle nazionalità degli autori in una rivista può non essere indicativa di alcunché. Per essere più espliciti, può essere solo un divertente gioco di numeri a volte carico di pregiudizi. Può non significare nulla, o può essere utilizzato specie nel caso di riviste angloamericane per lamentele pretenziose circa l’egemonia culturale esercitata dal mondo anglofone da parte di chi si sente ignorato e relegato alla periferia economica e culturale25. A volte è così, altre volte no. In altri casi un’analisi del genere è servita, come nel recente studio di Kristian Kristiansen26, per denunciare lo spiccato nazionalismo linguistico e culturale delle maggiori riviste presenti in Europa e per reclamare un’archeologia di respiro “europeo” e internazionale rifuggendo dai “localismi” (fig. 3.1). Conclude nel suo studio Kristiansen che “In summary, the publication structure of archaeology is predominantly

Analizzando il rapporto tra nazionalità degli autori e lingue utilizzate negli articoli, la preponderanza anglofona appare ancora più evidente. Scompaiono del tutto gli autori tedeschi che scrivono in madrelingua, mentre gli articoli scritti in francese e in italiano si riducono drasticamente rispetto alla loro effettiva presenza come autori, confermando l’inglese come lingua internazionale accademica (fig. 3.4). L’uso dell’inglese per gli articoli non è probabilmente imposto per chi voglia sperare di vedere la propria ricerca pubblicata, cosa che invece può accadere in altre riviste, come ad esempio nell’European Journal of Archaeology che pone l’uso dell’inglese come

24  Lo statuto è consultabile interamente su https://www.bsa.ac.uk/wpcontent/uploads/2018/07/Statutes-23.2.2016.pdf. 25  Su tutti Carandini 1997 e risposta di Wiseman 2000, 2001, 2009. 26  Kristiansen 2008a.

27  28 

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Kristiansen 2008a, pp. 21-22. Diaz-Andreu 2007; Diaz-Andreu, Champion 1996.

L’ideologia degli archeologi

3.1. Grafici sulle lingue utilizzate in riviste appartenenti a contesti culturali e linguistici diversi nello studio di Kristiansen 2000a.

3.2. Grafico generale sulle nazionalità degli autori presenti nei Papers of the British School at Rome.

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Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.3. Grafico sulle variazioni delle nazionalità degli autori presenti nei Papers of the British School at Rome.

espressione di “identità” accademica, come segno della forza della propria tradizione culturale e della propria ricerca. È probabilmente il desiderio e la speranza di essere integrato nella comunità scientifica di quel segno culturale che lo spinge a dimostrare di poter comunicare, come altri ricercatori, in una lingua che da tutti, pur tra i silenzi, viene considerata come requisito base, essenziale, minimo per essere accettato all’interno della comunità. Rispetto alle conclusioni di Kristiansen, l’analisi “linguistica” qui prodotta, proprio per il particolare contesto di una rivista operante in un ambiente alloctono, ci dice che l’operazione culturale di internazionalizzazione (ma solo a livello linguistico) da lui auspicata è in atto o, vista da un’altra prospettiva, continua con successo il processo di egemonia culturale (e di conseguente provincializzazione culturale) portato avanti dalla tradizione angloamericana. Non che questa “internazionalizzazione” sia necessariamente negativa. L’adeguamento linguistico è anche apertura, volontà di farsi intendere e di comunicare oltre i propri confini nazionali le proprie posizioni, mettendo da parte un po’ d’orgoglio e accettando che nessuno più è disposto o capace o messo nelle condizioni di padroneggiare e intendere un idioma differente dal proprio. L’internazionalizzazione a livello linguistico non significa necessariamente adeguamento culturale. Da questo punto di vista più che la lingua è indicativa la presenza o meno di diverse nazionalità, portatrici di altri e alternativi approcci.

3.4. Grafico generale sulle lingue utilizzate nei Papers of the British School at Rome.

prerequisito base per la pubblicazione di un articolo. Tale omologazione è evidentemente un processo spontaneo messo in atto dagli stessi ricercatori di madre lingua non inglese. L’abbandono del proprio idioma, pur non incoraggiato programmaticamente all’interno della rivista, è progressivo e pare per ora irreversibile. Le motivazioni sono molteplici. L’autore è preso da un “complesso” di internazionalizzazione che va a ridimensionare quei meccanismi di salvaguardia della propria lingua come

Le condizioni socioeconomiche in cui si formano i processi educativi sono mutate: diverso è il sistema d’istruzione, diverse sono le priorità, le velocità di mutamento dei paradigmi interpretativi e ormai le egemonie. La tradizione delle pubblicazioni collettive, scritte ognuna 43

L’ideologia degli archeologi nel proprio idioma, resiste solo in alcuni ambiti ristretti e ben delimitati, portata avanti da ricercatori “organici” in grado di padroneggiare non solo lingue diverse ma discipline ed epistemologie differenti, frutto di una diversa cultura e di un diverso sistema educativo figlio dell’inizio del Novecento. Dall’altra la lingua inglese presenta notevoli vantaggi di sintesi concettuale, così che l’articolo ne diviene il luogo privilegiato di espressione, una strategia e un metodo che unisce pregnanza semantica a sintesi sintattica. Probabilmente c’è del vero in chi vede in questa predominanza anglofona, che si registra anche sfogliando molto spesso la bibliografia di questi stessi autori, un certo atteggiamento da “imperialismo culturale”, come ricordano Carandini e Cecconi29, specie in casi in cui vengono avanzate ipotesi che possono essere considerate come nuove e innovative proprio perché non tengono conto di tutta una bibliografia esistente sullo stesso argomento e che magari a quelle conclusioni era già arrivata, e che si era ignorata per il solo fatto di essere stata scritta in una lingua diversa dall’inglese30. Non solo dunque non leggibile praticamente, ma non ritenuta degna proprio per il fatto di non essere stata tradotta.

In questo caso però l’egemonia linguistica ha molteplici cause, di cui questo tipo di imperialismo culturale può essere, al limite, una conseguenza, ma che si basa su “affinità” che si radicano in una condivisa epistemologia e un “linguaggio” comune sulla concezione della storia e dei metodi per indagarla non facilmente mutuabile attraverso i normali canali della traduzione linguistica. Come abbiamo visto l’atteggiamento è psicologico, culturale, sociale e pratico. Prendiamo ad esempio un’analoga analisi sui Mélanges della Scuola Francese a Roma fatta tra il 1999 e il 2009. Nessuno potrebbe negare il forte nazionalismo francese, statuale e culturale, l’orgoglio della lingua e della influente tradizione francese negli studi di antichistica. Eppure, in questo caso, i dati ci indicano una maggioranza di autori italiani e di scritti in italiano rispetto a quelli francesi anche computando insieme gli autori e gli scritti di altre nazionalità (fig. 3.5). Sorprende, sul totale degli articoli esaminati, la minoranza degli autori francesi rispetto agli altri; una sproporzione che tra un decennio e l’altro risulta accentuarsi notevolmente a favore degli autori italiani, mentre la proporzione degli autori di altre nazionalità resta invariata. Normalmente l’autore scrive l’articolo nel suo proprio idioma.

Carandini 1997; Cecconi 2006. Su queste posizioni da ultimo Emanuele Greco in Carandini, Greco 2007. Parlando delle finissime analisi di Ettore Lepore sull’espressione eremos chora come propaganda utilizzata dai greci nella storia della colonizzazione nell’Italia meridionale (le terre erano giuridicamente, non biologicamente deserte), Greco spende dure parole su questa “egemonia”: “Ora proprio in questi giorni arriva in biblioteca il libro (stampato da Routledge, a Londra, e non presso le edizioni del circolo sociale di Roccacannuccia!) di una certa Tamar Hodos che nel capitolo introduttivo esibisce le sue riflessioni sulla storia degli studi ed attribuisce ad Irad Malkin la innovativa riflessione sulla eremos chora. Ora, il guaio è che, se si trattasse di plagio sarebbe una scorrettezza enorme e niente più, ma così non è purtroppo, si tratta di conquiste autonome, ci arrivano da soli poverini, non copiano, ma si mettono le penne del pavone scatenando il ridicolo per aver scoperto verità storiografiche a volte anche con mezzo secolo di distanza dal momento in cui altri sono arrivati a quelle conclusioni (e nel frattempo) sono andati avanti)”, e altrove parla “degli scollacciati discorsi anglosassoni che siamo costretti a sciropparci, noi che per amore (ormai infantile, direi) della completezza leggiamo le loro cose senza essere minimamente ripagati di tale moneta (tanto peggio per loro)”, p. 128. Recensendo il primo volume della rivista fondata da Carandini e Greco (Workshop di archeologia classica. Paesaggi, costruzioni, reperti. Annuario internazionale), Vincent Jolivet afferma “Gageons que le titre de ce nouveau journal en agacera plus d’un: était-il véritablement nécessaire de célébrer les noces de l’anglais workshop avec l’italien archeologia classica, fût-ce pour souligner le caractère international, et trendy, de l’entreprise? Le débat est loin d’être essentiel, et l’on aurait tort de s’arrêter à cette première impression -même si l’on peut se demander s’il n’y a pas une contradiction implicite entre l’idée même d’un workshop, l’arrière-boutique encombrée de la production artisanale ou artistique et, métaphoriquement, intellectuelle ou scientifique, et la forme nécessairement figée d’un ouvrage sur (beau) papier, ou d’une publication en ligne qui n’autorise pas l’échange à la différence, par exemple, du BMCR. Ce dernier offre un bon exemple de véritable workshop, grâce à sa formule qui permet de discuter avec rapidité sur un thème donné et, le cas échéant, d’instaurer un dialogue direct entre l’auteur d’un ouvrage et celui de son compte rendu; l’étape suivante devrait être l’intervention directe, dans ces débats, des usagers du site. […] Force est de reconnaître que la première livraison de la revue ne reflète pas, loin s’en faut, son caractère international (presque tous les auteurs sont italiens), et sa volonté d’ouverture pluridisciplinaire (presque tous les articles portent sur des questions de topographie, traitées selon une approche fondamentalement classique)”. Talune affermazioni, come quelle di Greco che attaccano altre tradizioni accademiche, sarebbero proprio dovute all’incapacità della rivista di essere veramente internazionale, dal paradosso di volerlo esserlo, di aspirarvi ma al tempo stesso di sfuggire al dibattito chiudendosi in un contesto autoreferenziale, http://bmcr.brynmawr.edu/2006/2006-02-37.html.

La comparazione tra le due riviste risulta ancora più significativa se si tiene conto dell’omologia profonda tra i due istituti promotori di queste pubblicazioni, entrambi aventi come fine quello di rappresentare la propria tradizione culturale in un paese straniero e di concorrere all’avanzamento degli studi nel medesimo. La differenza sostanziale è che l’Accademia Britannica promuove e pubblica nei suoi Papers anche studi di arte ed architettura mentre i Mélanges qui esaminati sono quelli dedicati esplicitamente all’antichità secondo un orientamento storico-archeologico tipico della scuola francese (fig. 3.6)31.

29  30 

Ci sono forse all’opera comunanze di intenti e affinità culturali e di metodi profonde che uniscono o che impediscono la comunicazione e la collaborazione. La sensazione di disagio che si prova a dividere la stessa dimora con chi concepisce la realtà con estremi difficilmente conciliabili o traducibili in un’altra epistemologia spinge forse a ricercare naturalmente legittimazione e consenso all’interno di sistema accademico affine e condiviso. L’elemento di disturbo rappresentato dal fattore esterno e straniero è ancora più dirompente nell’ambiente accademico che, pur nel suo continuo sforzo di presentarsi innovativo, culturalmente aperto e intellettualmente e socialmente apolide, resta uno dei contesti più fortemente conservatori e intolleranti. Se prendiamo un’altra rivista britannica come gli Accordia Research Papers, con base in Inghilterra (a Londra più precisamente) ma con l’obiettivo programmatico di studio dell’Italia antica, notiamo subito che la proporzione tra autori anglofoni e autori di altre nazionalità appare più I Mélanges, pubblicati dal 1881, dal 1970 si sono divisi tematicamente in due sezioni, una dedicata all’antiquité ed un’altra ai moyen-ages et temps modernes. 31 

44

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.5. Grafico generale sulle nazionalità degli autori presenti nei Mélanges de l’École française de Rome.

in equilibrio. La già ricordata intenzione programmatica degli Accordia di incoraggiare la collaborazione internazionale “especially between British and Italian scholars”, sembra rispettata. Da notare due particolari interessanti. La maggior parte degli autori italiani presenti nella rivista fanno parte e lavorano in università inglesi, e quindi più che di collaborazione internazionale è forse più corretto parlare di cooptazione e assorbimento nei quadri accademici. Secondo particolare da rilevare è che tutti gli articoli, nessuno escluso, sono scritti in lingua inglese (fig. 3.7). Se prendiamo per esempio una rivista come Journal of Mediterranean Archaeology tra l’anno della sua pubblicazione fino al 2008, rivista che ha tra i suoi obiettivi il multilinguismo programmatico32, notiamo come siano presenti in una proporzione significativa autori israeliani e greci (fig. 3.8). Questo dipende in larga misura dalla volontà di rappresentare geograficamente il Mediterraneo nella sua interezza e, come già ricordato da Bowersock33, nel classico asse ovest-est trascurando l’asse nord-sud. Da notare ancora una volta la preponderante presenza di autori inglesi e quella altrettanto notevole di autori israeliani, segno di un interesse privilegiato per tematiche mediorientali. Gli articoli ancora una volta sono interamente scritti in lingua inglese.

3.6. Grafico sulle variazioni delle nazionalità degli autori dei Mélanges de l’École française de Rome.

and the British Contribution to Italian Archaeology”. Attraverso l’opera di Glyn Daniel A Hundred Years of Archaeology (1950) sulla storia dell’archeologia in Europa, ma soprattutto come direttore in quel periodo della British School at Rome, Hodges tracciava per grandi linee la storia dei contributi di metodo e teoria della scuola britannica in Italia proponendo prospettive comuni per il futuro. Le maggiori contraddizioni si rivelano essere quelle tra madrepatria e istituti all’estero. L’importanza attribuita in generale al periodo romano risulta minima: “after all – ricorda Hodges – although we ammassed a great empire ourselves, and explicitly sought to reinforce its outward

3.3.2. Periodi e periodizzazioni come indizio di mutamenti paradigmatici. Nel 1990 Richard Hodges pubblicava sulla rivista Accordia un articolo dal titolo “Glyn Daniel, the Great Divide, 32  33 

Messo in evidenza da Alcock 2005. Bowersock 2005.

45

L’ideologia degli archeologi

3.7. Grafico generale sulle nazionalità degli autori degli Accordia Research Papers.

3.8. Grafico generale sulle nazionalità degli autori del Journal of Mediterranean Archeology.

appearance by references to the ancient world, our education and political machinery was rather more keenly disposed toward the ideal of Greek democracy. This may go some way towards explaining the history of British archaeology in Italy”34. Non solo venivano ignorati da Daniel due tra i più influenti archeologi italiani dell’inizio del millennio scorso, Rodolfo Lanciani e Giacomo Boni, ma venivano accantonati e restavo poco conosciuti sia Thomas Ashby sia John-Bryan Ward-Perkins che tanta parte ebbero nello sviluppo dell’archeologia britannica in Italia e nella storia della British School35. Se la noncuranza nei confronti di Ashby si spiega come conseguenza della considerazione di questo non come archeologo professionista ma piuttosto come archeologo amatoriale al pari di Augustus Hare, autore di Walks in Rome (1893), l’oblio in patria di WardPerkins risulta ancora più sorprendente considerato il fatto che progetti come il South Etruria Survey non avevano nessun precedente in Inghilterra così come altrove.

Papers, segno che quest’ultima e l’archeologia classica sono e continuano a essere in qualche modo identificate. Prosegue Hodges: “These shifts are to some extent reflected in the contents of the Papers of the British School at Rome. Most notably, one can see the decline of classical archaeology – from a peak that has gone unnoticed by Glyn Daniel – and the subsequent growth of medieval archaeology (corsivo mio)”36. Sulle riflessioni finali di Hodges e le possibili strade da percorrere da lui proposte vi torneremo più avanti. Per adesso accontentiamoci di verificare tale assunto. Dal primo istogramma prodotto, mettendo a confronto tra loro le variazioni tra i periodi studiati nel corso di tre periodi differenti corrispondenti ad altrettanti direttori, si nota un incremento in percentuale degli studi a soggetto “romano” rispetto a quelli “medievali” o “moderni” e un incremento, solo però in termini assoluti, di articoli con argomento esplicitamente “romano”. Accorpando però sotto la medesima voce “post-classico” lo studio dei periodi prima suddivisi in “medievale”, “moderno” e “contemporaneo” si noterà come progressivamente le ricerche a soggetto “classico” lascino spazio a quelle di epoche successive, già durante il periodo in cui Richard Hodges è direttore. La sproporzione aumenta poi notevolmente durante la direzione della scuola da parte di Wallace Hadrill, un classicista (fig. 3.9).

Le riflessioni di Hodges ci interessano qui non solo per il soggetto trattato, che ha punti in comune con il nostro (l’influenza dell’archeologia britannica in Italia), ma soprattutto perché sono prodotte da chi in quel momento rivestiva un ruolo istituzionale (direttore della British School) espressione di determinati rapporti, e inoltre perché fatte da un dichiarato medievista. L’articolo diviene ben presto una riflessione sugli shifts accorsi nell’archeologia britannica e sui cambi di orientamento nella linea editoriale dei Papers. Da ultimo il discorso di Hodges diviene una discussione sullo stato dell’archeologia classica visto attraverso l’Accademia Britannica a Roma e attraverso i

34  35 

Appare così evidente che l’influenza esercitata dagli orientamenti disciplinari del direttore della BSR non pare più di tanto influenzare il fenomeno già a suo tempo descritto da Hodges, e visibile negli articoli pubblicati sui

Hodges 1990, p. 83. Ivi, pp. 85-86.

36 

46

Hodges 1990, p. 89.

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.9. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati nei Papers of the British School at Rome, con differenti direttori.

Papers, anche se con caratteristiche diverse da quelle da lui descritte. Ma cerchiamo di andare più in profondità al fenomeno.

confrontano, forse per la natura delle problematiche che suscita, tutta una serie di paradigmi controversi: dall’identità, alla natura delle strutture socioeconomiche; dal valore periodizzante di queste strutture, al ruolo della cultura e della storia dell’arte come categorie analitiche. Concetti come declino e caduta, come long-term change o come storia delle ideologie ben si prestano a essere indagati e chiariti attraverso lo studio della tarda antichità37. Tali prospettive inevitabilmente spingono per studi multiperiod e multi-disciplinary a scala regionale, dunque non deve sorprendere il parallelo aumentare di ricerche dirette in questo senso. L’aumentato interesse per la tarda antichità si è tradotto nello sforzo di tracciarne i confini non solo cronologici ma metodologici anche in archeologia. Nei volumi collettivi della serie Late Antique Archaeology (LAA) dedicati a svariati temi della tarda antichità38, alcuni studiosi si sono uniti nello sforzo di definire una specifica e autonoma disciplina archeologica di questo periodo39. Nel definire gli scopi e i metodi di un’archeologia del tardo antico emerge l’inevitabile movimento di emancipazione e differenziazione con quei periodi e con quelle archeologie in cui prima era assorbita e identificata e con cui adesso, nel tentativo di distinguersi, entra in conflitto. Luke Lavan, uno tra i più attivi nella definizione di questa autonomia, nel suo articolo introduttivo al primo volume della serie

A ben vedere, dopo un momento iniziale in cui il periodo romano risulta essere l’argomento più studiato sul totale rispetto agli altri periodi, si nota lentamente una contrazione. Tale recessione, se si osserva con attenzione le proporzioni, non è tanto dovuta all’avanzare dell’interesse per il periodo medievale che, tra il 1984-88 e il 1988-1995, sembra non avere sostanziali variazioni in proporzione al totale. Ciò che colpisce è invece l’aumentare degli studi riguardanti il periodo “moderno” e quelli “multi periodo”, con un incremento delle ricerche sulla storia della storiografia o dell’archeologia, nonché delle biografie, che abbiamo considerato sotto la voce “altri periodi”. Successivamente, tra il 1995 e il 2010, la contrazione non riguarda più il periodo romano ma investe gli argomenti sul periodo medievale che in proporzione calano notevolmente, vedendo ancora una volta l’aumento di temi moderni già precedentemente lievitati e un’esplosione di articoli a soggetto contemporaneo. In questo stesso lasso di tempo si nota la comparsa sostanziale di soggetti legati alla tarda antichità. Il declino dell’archeologia classica del periodo romano come soggetto di studio è confermato da questi dati ma non a favore degli studi medievisti, quanto piuttosto ad un generale interesse per temi post-classici legati soprattutto alla tarda antichità. Il dilagare di studi nella fase tardo antica fa parte di un rinnovato interesse sulla periodizzazione di questo particolare periodo storico e sulla definizione di un’archeologia della tarda antichità. In esso si concentrano diverse aspirazioni scientifiche e ideologiche in cui si

Cameron 2003; Wickham 2003. Sino ad ora i volumi sono dodici pubblicati tra il 2003 e il 2018 (Brill, Leiden Boston). 39  Da notare che mentre si liquefanno, si decentrano e si atomizzano gli studi e le periodizzazioni di temi e periodi della romanità, una volta solidi e granitici come la ‘romanizzazione’ o l’‘età imperiale’, acquistano una nuova coerenza quei periodi e quelle tematiche una volta considerate come liminali. Il precario, il transeunte, il dinamico e l’impalpabile acquistano solidità e definiscono con sicurezza il limite del proprio ambito. 37  38 

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L’ideologia degli archeologi LAA, parla esplicitamente della necessità di “giustificare” questo specialismo esplicitando le tappe e i tempi della sua formazione, gli sforzi sostenuti (“Late Antique Archaeology has been slow to emerge”), quale teoria adottare e a quale tradizione di studi richiamarsi. Ma ciò che deve emergere con nitida chiarezza sono le tensioni oppositive che la definiscono in rapporto con le altre archeologie. Ed è qui che emerge il rapporto conflittuale con l’archeologia classica, dalle cui grinfie l’archeologia tardo antica è dovuta sfuggire per distinguersi ma con maggiori difficoltà che da quelle dell’archeologia medievale. Infatti “Late Antique Archaeology sits most comfortably as a sub-period whitin Roman Archaeology, not as part of Western or Byzantine medieval studies […]. Nevertheless, there are some arguments for distinguishing late antique from Roman archaeology as a whole. […] In terms of urban, religious or military archaeology. Here, long-term changes within Roman society and external pressure create a recognisably distinct late antique situation”40. La ricerca di auto legittimazione, di autonomia di metodi41 e di caratteristiche peculiari hanno prodotto conflitto anche con l’altra grande branca rappresentata dall’archeologia cristiana che contiene elementi di entrambe le tradizioni42. Lo sforzo profuso nel cercare di stabilire un buon impianto teorico per l’archeologia tardo antica gioverebbe anche all’archeologia classica, dove è noto come l’attenzione per la teoria “it is strinking”43. Sostiene sempre Lavan che la scarsa penetrazione della teoria nell’archeologia classica e tardo antica è intellettualmente “to be regretted” e che gli sforzi “eroici” del Theoretical Roman Archaeology Conference non sono stati sufficienti a colmare la lacuna teoretica44. Tuttavia, vi sono delle attenuanti per queste mancanze e la cautela dell’archeologia storica mediterranea sembra giustificata: “it is very difficult to transpose the interpretative tools developed primarily in prehistory to a cultural zone rich in texts. Here interpretation is largely bounded by information from written sources and many approaches widely accepted elsewhere in archaeology can seem inappropriate in their terminology and presupposition (corsivo mio)45. La vera sfida dell’archeologia tardo antica praticata nel Mediterraneo rispetto a quella classica non è a livello teorico ma di metodo. A tal proposito per Lavan esisterebbero varie tradizioni accademiche che si affronterebbero nel campo metodologico dell’archeologia. Una con epicentro a Parigi e sostenuta in Inghilterra dall’Università di Oxford che si potrebbe definire

“continentale”. Gli studiosi afferenti a questa tradizione tendono ad avere una formazione tradizionale basata sull’istruzione classica “in ancient languages or art history”. Per loro il ruolo dell’archeologia è da considerarsi fairly minor ed il loro intellectual landscape è dominato dalle fonti letterarie. L’archeologia è trattata come an extension of art history and architecture e solamente la filologia is king and serious history. Questa visione si rifletterebbe nella pratica archeologica e nella scelta dei siti da indagare secondo i criteri della monumentalità (monumental urban centres, or rural monasteries and villas) trascurando the habitations of poor. Tale tradizione sarebbe estremamente empirica, non incline to wide-ranging intellettual speculation, e quindi la visione angloamericana per cui la storia delle fonti scritte è una collezione di mezze-verità pronte per essere spazzate via e demolite dalla forza devastante dell’archeologia has no room here. Nonostante faccia base a Parigi tale tradizione ignorerebbe la lezione delle Annales e tutti i maggiori pensatori poststrutturalisti che pure hanno operato a Parigi46. Per questa tradizione gli oggetti e le architetture vanno studiate for their own sake piuttosto che come artefatti, come fonti about people who used them. La metodologia archeologica è conservativa e datata. L’unica cosa che fa di buono questa tradizione è produrre useful works of reference. L’altra tradizione ovviamente è quella “atlantica” con base negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nel nord Europa. Coloro che si rifanno a questa tradizione, che nell’Europa continentale ha preso piede soprattutto nell’archeologia del primo medioevo, si distinguono per high quality of their fieldwork, whether excavation or survey; le loro pubblicazioni sono continue e con serious artefactual studies. Questa scuola archeologica produce massive quantities of new information è more question-based e per lei il dato empirico è subordinato agli scopi (data should not dominate). Continua ancora Lavan “having strong concepts and methodology is more important than having read all previous bibliography”: qui la lunga riflessione tra teoria ed enciclopedia sfugge completamente47. Dunque, la nota abitudine delle archeologhe e degli archeologi angloamericani a ignorare spesso la bibliografia europea sarebbe data dalla forza della loro metodologia. Da questa deriverebbe anche lo scetticismo dell’uso delle fonti scritte e l’abitudine ad attaccare lavori anche di alta qualità, data la loro propensione iconoclasta più che conservatrice48. Vi è infine una tendenza a convergere in questa nuova disciplina sia da parte di studiosi romani soliti a frequentare questo periodo liminale della romanità (periferico dal punto di vista del periodo), sia da parte degli studiosi dell’alto medioevo che devono dar ragione di continuità o rotture rispetto al periodo precedente. Autori in cerca di identità, di un’altra possibilità o semplicemente attirati dalla novità di una nuova disciplina da definire e a cui contribuire, vergine e priva di blasone accademico ed

Lavan 2003, pp. VII-VIII. 41  Lavan 2003, pp. VIII-X. 42  Ivi, pp. XIII-XIV. 43  Ivi, p. IX. 44  Si veda per una recensione del TRAC Laurence 1999. Recentemente Mark Pitts ha operato una ricognizione sistematica degli articoli della rivista (Pitts 2007), mettendo in luce come nell’archeologia romana la teoria si tramuti inevitabilmente nel discorso sull’identità e sulle questioni della romanizzazione e dei cambiamenti culturali. Tale fenomeno è probabilmente dovuto al monopolio esercitato dagli studiosi britannici nel dettare l’agenda dei temi, con forte impronta processuale, affrontati durante le conferenze annuali del TRAC e dunque nella rivista (identità, agency, social archaeology ecc.). Per l’uso della categoria analitica di identità in archeologia Jones 1995; Meskell, Preucel 2004; per una critica del concetto di identità rimane essenziale Remotti 2010. 45  Remotti 2010. 40 

Fletcher 1992. Si veda le pertinenti riflessioni di Pucci 1994. 48  Lavan 2003, pp. XII-XII. 46  47 

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Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. aperta a nuove acquisizioni; autori attirati dal fascino irresistibile di plasmare una tradizione. La tarda antichità si sta popolando di nuove e motivate figure professionali che ne stanno facendo il campo di originali e feconde riflessioni sia in campo metodologico che teorico.

del Bronzo (fig. 3.11). Gli articoli come quello di R. Guglielmino sui primi contatti Egei in Apulia durante tutto il Bronzo52, o come quello di H. Dawson sulle strategie della colonizzazione delle isole mediterranee durante lo stesso periodo53, sono tesi alla ricostruzione delle prime dinamiche di popolamento attivatesi nel Bronzo in Italia e in tutto il Mediterraneo. In termini assoluti gli articoli dedicati alla preistoria rappresentano la maggioranza, con 30 articoli sul totale analizzato dalla nascita della rivista ad oggi. I contributi dedicati a temi di archeologia classica rappresentano sul totale analizzato il secondo campo d’interesse della rivista. La maggior parte dei contributi sono dedicati nello specifico al periodo romano repubblicano, ad eccezion fatta di quelli di J. Moreland54 sul de-popolamento nella tarda antichità e quello di R. Laurence55 sui riti legati alla figura dell’imperatore nell’interazione tra paesaggio e polis. Restando in ambito classico è da sottolineare come nessun articolo sia dedicato alla Magna Grecia o ai Greci in Italia. Fanno eccezione l’articolo di G. Saltini Semerari dedicato però al tema dell’espressione di genere nei corredi funerari e della prima acculturazione greca in Basilicata nell’età del Ferro nelle comunità autoctone così dette “omeriche”56, e quello di F. Iacono sui rituali funerari delle comunità del Salento. Il primo articolo è il solo che, in quasi un decennio, nomina esplicitamente nel titolo i “Greci” mentre il secondo li menziona per opposizione, occupandosi di “Burial and Society in the non-Greek Salento (corsivo mio)”. La maggior parte degli studi a tema “classico”, ma sarebbe più corretto dire di argomento “romano”, sono condotti attraverso l’utilizzo di fonti scritte, mentre è bassissima la percentuale di ricerche condotto con metodologie prettamente archeologiche frutto di scavi o studio di materiali. Particolare attenzione è dedicata nella rivista alle indagini multiperiodo tradotte in termini strategici in ricognizioni sistematiche di vaste aree, come quella condotta da C. Malone ed altri nell’isola di Malta57, e quelle sulla cultura etrusca, con presenza massiccia di autori come S. Stoddart o V. Izzet impegnati in questi tipi di studi, l’uno archeologo e l’altra storica.

Se si deve ricontestualizzare oggi l’affermazione di Hodges circa l’avanzare dell’archeologia medievale su quella classica, e nello specifico su quella del periodo romano, va però sottolineato come lo stretto rapporto di opposizione tra le due archeologie continua a permanere. Se consideriamo l’andamento anno per anno degli articoli, si noterà il sistematico alternarsi fra quelli a tema romano e quelli a tema medievale. A ogni “picco” a soggetto romano corrisponde sistematicamente uno di segno opposto a soggetto medievale e viceversa (fig. 3.10). Segno questo che le due discipline vengono avvertite come opposte, alternative, escludenti l’una con l’altra. Esemplare è il volume pubblicato nell’anno del centenario dei PBSR (2001) proprio per la sua valenza ideologica, in cui ad un picco di 6 articoli con argomento medievale corrispondono solo due a soggetto romano. La prima parte del volume è dedicata proprio alla storia delle ricerche condotte dalla BSR, analizzate non solo attraverso le pubblicazioni dei Papers ma anche attraverso le pubblicazioni di monografie e studi d’archivio, che integrano e completano le riflessioni parziali deducibili dagli articoli. Dei tre articoli sulla storia della storiografia archeologica della BSR quello di Chris Wickham è dedicato interamente agli studi medievisti portati avanti nella BSR49 mentre quello di Timothy Potter e Simon Stoddart accorpa da un lato gli studi preistorici a quelli dell’archeologia classica, romana in particolare, e dall’altro identifica quest’ultima con i più vasti Landscape studies50 . L’articolo di Ruth Whitehouse sugli studi di gender nell’Italia preistorica stride rispetto al tono generale dei Papers, sempre piuttosto avari sul soggetto di “genere”51. Dai tre articoli sulla storia degli studi della BSR, ora esaminati nell’anno del centenario, non passerà inosservata l’autonomia riservata ai Medieval studies rispetto a quelli classici. Non solo accorpati a quelli preistorici ma integrati e identificati nella tradizione dei Landscape studies. Un’ultima osservazione va fatta, riflettendo ancora sulla significatività di questi articoli raccolti nel volume del centenario: non sfuggirà che tutti e tre gli articoli, rappresentativi di tutta la storia degli studi della BSR, sono articoli riguardanti l’archeologia. Il che la dice lunga sull’identificazione, almeno ideale, di questa disciplina con lo scopo e gli obiettivi attribuiti alla BSR, nonostante gli articoli a tema specificatamente archeologico non siano la maggioranza.

Scarso interesse è dedicato alla tarda antichità e al medioevo che a partire dal 1995-1996 scompaiono come temi di ricerca senza farvi più ritorno. Progressivamente, invece, il periodo preistorico sembra cedere lentamente il passo a studi sul periodo romano ed etrusco, fino al 20072009, biennio in cui non si registra nessun articolo a tema specificatamente preistorico, mentre il tema classicoromano subisce un progressivo aumento in termini di numero di articoli a partire dal 1999. È da ricordare comunque che l’andamento ambivalente dell’interesse per il periodo preistorico, analizzato pubblicazione per

Procedendo con le nostre comparazioni tra riviste vediamo come il periodo privilegiato da una rivista come Accordia sia decisamente quello preistorico, e in particolare l’età

Guglielmino 2004-2006. Dawson 2004-2006. 54  Moreland 1993. 55  Laurence 1993. 56  Saltini Semerari 2009; per una critica della visione delle società protostoriche e arcaiche in Italia, laziali e non, come società “omeriche”, si veda Ruby 1995 come tendenza ellenocentrica. 57  Malone et alii 2001-2003. 52  53 

Wickham 2001. Potter, Stoddart 2001. 51  Whitehouse 2001. 49  50 

49

L’ideologia degli archeologi

3.10. Grafico sulle variazioni annuali tra i periodi studiati nei Papers of the British School at Rome.

3.11. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati negli Accordia Research Papers.

pubblicazione, non elimina l’impressione egemonica che scaturisce dall’analisi generale. Inoltre, dalla pubblicazione del volume precedente a quello del 20072009, il tema preistorico aveva fatto registrare il suo acme con ben 5 articoli su un totale di 8 (fig. 3.12).

tra il 300 a.C e il 300 d.C.58. Gli altri sono tutti contributi riguardanti la Grecia, scritti per la maggior parte da I. Morris e A. Snodgrass. Di quest’ultimo è anche il solo articolo di argomento esplicitamente “teorico”. Riprendendo il famoso scritto del 1962 di T. Kuhn sui cambiamenti delle strutture scientifiche59, Snodgrass si interroga sui meccanismi di paradigm shift operanti nell’archeologia classica60. Per fare

Se prendiamo il Cambridge Archaeological Journal (fig. 3.13), su un totale di 264 articoli visionati, soltanto 13 risultano dedicati all’archeologia classica, e di questi solo uno al periodo romano, quello di Charles R. Ortloff sul sistema di rifornimento idrico della città di Petra nel periodo compreso

Ortloff 2005. Kuhn 1970. 60  Snodgrass 2002, argomento già trattato in Snodgrass 1987, pp. 16-17. 58  59 

50

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.12. Grafico generale sulle percentuali dei periodi studiati negli Accordia Research Papers.

3.13. Grafico generale sulle percentuali dei periodi studiati nel Cambridge Journal of Archaeology.

“Any such fundamental re-orientations as, say, the rejection of the ‘Indo-European hypothesis’, are absent”63. Tutti esempi tratti dall’archeologia o dalla storia greca e, come ricorda Snodgrass, “to say nothing of the Roman”64. Anche in questo caso la presenza di contributi che hanno come argomento la preistoria è la maggioranza e colpisce che siano quasi i tre quarti degli articoli pubblicati sino a questo momento, con una parte rilevante riservata all’America Precolombiana.

questo prende come esempio alcuni momenti cruciali di dibattito e crisi della tradizione consolidata, sia nel metodo, come il sistema di ideato da Sir John Beazley per lo studio dei vasi attici a figure rosse e nere, “whereby a substantial proportion of these could, for the first time, be definitively organized: that of associating each of them with the individual hand which had been responsible, not for their shaping, but for their surface decoration”61, sia a livello epistemologico, come i volumi di Martin Bernal sulle radici Afroasiatiche della civiltà classica62, notando che 61  62 

Snodgrass 2002, p. 181. Bernal 1987, 1991.

63  64 

51

Snodgrass 2002, p. 190. Ivi, p. 192

L’ideologia degli archeologi La stessa preponderanza si registra analizzando il Journal of Mediterranean Archaeology. Qui il periodo preistorico non è solo il più studiato ma anche quello che negli anni conosce il più elevato aumento in termini assoluti di articoli. L’interesse per altri periodi, in equilibrio fino al primo quinquennio di vita della rivista (1988-1993), vede nei due successivi lustri un aumento sostanziale di articoli interessati al periodo “contemporaneo”. Il primo volume dell’anno 1999, ad esempio, è interamente dedicato al ruolo della pratica archeologica come attività intellettuale e politica nella postmodernità, con un interessante intervento di T. C. Patterson (su cui torneremo) che analizza il ruolo dell’archeologo come intellettuale attraverso la categoria gramsciana di egemonia. Gli altri articoli si occupano di questioni storiografiche o giuridiche, come quello di S. C. German sulla storia delle pubblicazioni degli scavi del palazzo di Minosse a Knossos e il rapporto tra fotografie e finzione65 e l’analisi di Atakuma sul regime giuridico turco in materia di beni culturali66.

born some fruit”71. Queste continue difficoltà lamentate attraverso gli editoriali rivelano una difficoltà a coprire e rappresentare sia diacronicamente che geograficamente l’intero Mediterraneo. In questo caso lo spettro geografico e cronologico vanno a coincidere. Ma è anche, in ultima analisi, un’incapacità di rappresentare un centro di potere accademico attrattivo. Dello stesso tenore è la rivista European Journal of Archaeology con una preponderanza di ricerche sulla preistoria stimate in poco più della metà sul totale degli articoli analizzati editi tra il 1998 e il 2010 (fig. 3.15). Nella rivista l’archeologia classica gioca un ruolo da comprimaria. In questo caso è interessante notare come un quarto degli articoli siano dedicati all’analisi non di periodi “storici”, ma d’attualità archeologica (che abbiamo raggruppato sotto “altro”). Molti sono studi di storiografia archeologica, come quello di Olivier sul ruolo ideologico riservato all’archeologia durante il regime di Vichy72, o quello di Diaz-Andreu sul discorso della costruzione delle etnicità dell’età del Ferro Iberico visto attraverso la storia degli studi spagnola come una particolare modalità di distinzione e ricostruzione della cultura materiale73. L’intero secondo fascicolo del 2009 è dedicato alla figura di Gordon Childe, mentre i fascicoli 2 e 3 del 2007 affrontano il rapporto tra archeologia e comunicazione attraverso tipi diversi di mass media. Un altro tema molto affrontato e discusso è quello della gestione, a livello istituzionale e giuridico, del patrimonio archeologico europeo. Ma su questi temi vi torneremo nella sezione apposita con approfonditi commenti. Voglio spendere ancora due parole sulla presenza massiccia di articoli, riferimenti e commenti riguardanti i lavori di Vere Gordon Childe. L’EJA è impegnato non solo a costruire un’identità europea a livello disciplinare e istituzionale (un’archeologia europea), ma anche a praticare un’archeologia dell’Europa, intesa come oggetto coerente di studio. Questioni come quella dell’identità culturale europea, della coerenza istituzionale, dell’uniformità giuridica delle figure professionali e del patrimonio condiviso sono obiettivi del presente che passano attraverso la legittimazione del passato, in una sorta di circolo ermeneutico tutto particolare.

Da notare anche come, progressivamente, gli articoli “preistorici” fagocitino interamente gli articoli dedicati ad altri periodi fino a raggiungere un picco in termini assoluti nel 2008 con 9 articoli su un totale di 10, anche a scapito del tema contemporaneo che dal 2005 al 2006 subisce un drastico calo. Infine, va segnalata la quasi inesistente presenza di articoli dedicati alla tarda antichità o al medioevo, quest’ultimo assente in maniera definitiva a partire dal 2004 (fig. 3.14). Queste tendenze erano già chiare agli editori della rivista. Come già ricordato altrove, in una ricognizione sistematica della rivista nel 1994, dopo soli sei anni di vita, Knapp e Cherry notavano some gaps that need filling e riguardo alla natura di queste mancanze si auguravano di accogliere più articoli che trattassero “with the Roman, Byzantine, Islamic, Ottoman, Medieval and Early Modern archaeology of the Mediterranean world”. La preoccupazione maggiore era quella di non dare l’impressione che “that is a journal aimed primarily at archaeologists with interests in the pre- and protohistory of the eastern Mediterranean (corsivo mio)”67, riferendosi soprattutto alla preistoria Egea, campo di studio dei due editori68; e ancora nell’editoriale del 1996 dichiaravano che “This is the Journal of Mediterranean Archaeology, not a Journal of Eastern Mediterranean”69. Tuttavia, l’intenzione di colmare alcune lacune della rivista a distanza di anni falliva se i due editori erano costretti a ribadire ancora nel 1999 a “all potential contributors of this journal’s editorial goals, unchanged since its first issue (corsivo mio)”70. Se da un lato “The themes, periods and regions […] follow the trends we noted (and lamented) three years ago”, dall’altro “our call for papers dealing with non-prehistoric topics, and particularly with the central and western Mediterranean in any period, seems to have

Questa coerenza emerge ed è costruita nella preistoria europea, che è uno dei punti di maggior frizione e interesse all’interno della rivista, piuttosto che nell’Impero Romano o nel medioevo carolingio. Come già aveva intuito Colin Renfrew in uno dei primissimi interventi sul neonato European Journal of Archaeology74, nella preistoria europea si concentrano pretese d’identità comune e si condensano coerenze e comunanze di tratti culturali e strutture socioeconomiche. Non sfuggirà che questa visione di un’unità europea sin dall’età del Bronzo fosse presente in maniera compiuta già in Gordon Childe, non solo a livello culturale ma soprattutto politico-istituzionale. Influenzato

German 2005. Atakuma 2010. 67  Knapp, Cherry 1994, p. 3, editoriale 68  Alcock 2005, p. 331. 69  Ivi 1996, p. 5. 70  Knapp, Cherry 1999, p. 5, editoriale. 65  66 

Ibidem. Olivier 1998. 73  Diaz-Andreu 1998. 74  Renfrew 1992. 71  72 

52

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.14. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati nel Journal of Mediterranean Archaeology.

3.15. Grafico generale sulle percentuali tra i periodi studiati nell’European Journal of Archaeology.

and at the same time seeking to subjugate one another, had nonetheless surrendered their economic independence by adopting for essential equipment materials that had to be imported”76. Lo sviluppo del Bronzo europeo era visto da Childe come conseguenza della prossimità all’Egitto e alla Mesopotamia che avrebbe spiegato come mai “they [gli Europei] not remain illiterate Stone Age barbarians as the Red Indians and the Papuans”77, conseguenza di un certo diffusionismo e della spiegazione ex oriente lux. Su queste orme l’intento della rivista è concentrarsi

dai lavori di Christopher Hawkes sulla particolarità del Bronzo europeo in rapporto a quello egeo75, concludeva il suo The Prehistory of European Society con queste parole significative: “In temperate Europe by 1500 BC had been established a distinctive politico-economic structure, such as had esiste a thousand years earlier in the Aegean, but nowhere else in the Bronze Age world. An International commercial system linked up a turbulent multitude of tiny political units. All these, whether citystates or tribes, while jealously guarding their autonomy,

76  75 

Hawkes 1962.

77 

53

Childe 1958, p. 172. Ivi, p. 7.

L’ideologia degli archeologi alla formazione della città antica, ovvero a quel fenomeno che segnò per sempre le sorti dell’Occidente e polarizzò su di sé la storia degli studi dell’antichità e dell’archeologia in questo contesto geografico. Probabilmente l’assenza di autori come Morris e Snodgrass non è casuale. Essi, e in generale la scuola di Cambridge, sembrano sostenere con forza il quadro di un forte declino economico e insediativo durante il passaggio tra epoca micenea e arcaica, una discontinuità ricavata dall’indagine archeologica, mentre la tendenza generale della British School at Athens sembra quella di mitigare tale declino sottolineando invece gli aspetti della continuità. Questa esclusione è forse dovuta anche al fatto che i due archeologi vengono percepiti come legati ai metodi e ai concetti dell’archeologia processuale, in un contesto profondamente conservatore com’è quello degli studi sulla Grecia79. Scrive a tal proposito Ian Morris che esiste “a methodological distinction between a textbased model of the 500 years after the destruction of the (Mycenaean) palaces as a Heroic Age, and an artefactbased model of it as a Dark Age”80, mentre la posizione sostenuta dalla BSA sulla questione è ben riassumibile da quella sostenuta da Papadopoulos, uno degli autori più presenti all’interno della rivista: “What is a mirage is the Dark Age and the deliberate distance maintained between the second millennium and the culture of Classical Greece […] Greek civilization . . . would certainly be better served if the spectre of the Dark Age, a phantom that has haunted the ‘musty confines of Cambridge’ […] for too long, is finally laid to rest”81. Questo è un esempio di conflitto tra potere editoriale ed egemonia accademica, un oblio “orizzontale” e “verticale” da parte di una rivista che si schiera in un dibattito storico-archeologico.

sull’altra grande questione sollevata da Childe, ovvero sull’unicità dell’esperienza europea rigettando proprio il diffusionismo e l’orientalismo. Come ancora una volta ricorda Renfrew, “Europe is the only continent in which there was a true Bronze Age – that is to say ‘barbarian’ or pre-urban Bronze Age”78. Lentamente però si nota che l’attenzione dedicata alla preistoria e protostoria come coagulo di identità diminuisce nel corso degli anni in maniera drastica, vedendo un aumento degli articoli a tema giuridico-patrimoniale riguardanti protocolli di gestione del patrimonio archeologico comunitario (fig. 3.16). Questo slittamento è dovuto probabilmente non ad una perdita di legittimazione della ricerca dell’identità europea nell’età del Bronzo ma ad una sua più probabile sistematizzazione e formalizzazione. Esaurita la parte di legittimazione ideologica subentra quella di organizzazione legale e di istituzionalizzazione a livello politico e legale, almeno degli istituti archeologici, università e organismi predisposti alla gestione, secondo una linea che cerca da anni di unificare l’Europa a livello economico e costituzionale. Un’altra interessante comparazione può essere fatta tra i PBSR e l’Annual of the British School at Athens per le ragioni già ricordate. Da subito si nota una preponderanza quasi totale di articoli dedicati al periodo pre- e protostorico, in particolare al Bronzo egeo. Una parte fondamentale hanno, nonostante tutto, le ricerche di archeologia classica, mentre ridotta è la presenza del medioevo, degli studi bizantini e in generale del periodo postclassico. In archeologia classica la maggior parte degli articoli sono dedicati alla Grecia classica rispetto a quelli dedicati al periodo romano (fig. 3.17). Dall’analisi del volume del centenario (1996) emerge la conferma della solida presenza di studi dedicati alla Grecia classica, leggermente incrementata rispetto alla tendenza generale. Ideologicamente il riferimento alla classicità (greca) sembra conservare ancora tutta la sua importanza, mentre non si registrano in questo volume articoli riguardanti la storia della scuola come accadeva nel volume del centenario dei Papers. Lentamente l’equilibrio tra soggetto preistorico e classico sembra ristabilirsi, anche se non attraverso un sostanziale aumento di articoli a tematica “classica”, bensì con una progressiva e notevole contrazione degli articoli sul periodo preistorico. In questo contesto colpisce la mancanza, all’interno della rivista, di autori come Ian Morris e Anthony Snodgrass che, come più volte ricordato, sappiamo essere molto attivi nel campo dell’archeologia classica del mondo greco, sensibili a questioni teoriche e di metodo, ma evidentemente percepiti come appartenenti a un altro background accademico (fig. 3.18).

3.3. Lo spazio geografico e lo spazio del potere accademico. Come già ricordato, l’analisi dello spazio geografico coperto dalle ricerche non è un banale esercizio statistico, ma può dare indicazioni utili sulla geografia di pertinenza e d’interesse, e dunque contribuire ad una mappatura della presenza di una data tradizione accademica. Se si vuole può anche rappresentare un particolare “paesaggio di potere” in cui agiscono forze e tendenze in continua frizione tra loro e alla ricerca di un’egemonia. Va anche considerato il fatto che, spesso, a un dato luogo o comprensorio geografico di studi è spesso legata una determinata tematica, degli obiettivi epistemologici e scientifici cari ad una certa tradizione. È questione di ingerenza o concorrenza paradigmatica. Nel caso dei Papers tale paesaggio geografico d’interesse si invera principalmente sul territorio italiano attuale. È interessante notare come vi trovino spazio, in certa misura e a fasi alterne, ricerche di respiro mediterraneo (fig. 3.19).

Il generale prevalere della preistoria si alimenta e trova le sue ragioni di legittimazione nell’accesa discussione intorno alla natura del primo Ferro greco a proposito dei Dark Ages e sulle trasformazioni e le condizioni che dettero vita

78 

Dyson 1989. Morris 1996, p. 123. 81  Papadopoulos 1993, pp. 195-197; nello specifico Papadopoulos contesta la stratigrafia del Kerameikos di Atene sostenuta in Morris 1987 ed in generale rigetta tutta l’interpretazione dell’età del Ferro greca fornita da Morris e da Whitley 1991; la controreplica in Morris 1993. 79  80 

Renfrew 1992, p. 159.

54

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.16. Grafico sulle variazioni tra i periodi studiati nell’European Journal of Archaeology.

3.17. Grafico generale sulle percentuali tra i periodi studiati nell’Annual of the British School at Athens.

Un esempio è il lavoro di Carmen Arangui e Ricardo Mar sulla trasformazione in palazzo di un santuario locale a Lixus (Mauretania) in età Augustea82. La maggior parte degli studi sono dedicati a Roma e all’Italia meridionale. In una proporzione simile si trovano gli articoli di ricerche svolte nel Lazio e quelle che si articolano su tutto il territorio italiano. Un esempio di queste ricerche “italiche” è l’articolo di Ulrike Roth sul ruolo economico della vilica (la moglie del vilicus, lo schiavo manager della villa) nelle strutture rurali dell’Italia romana, per riconsiderare 82 

poi l’economia della villa nel suo insieme sostenendo per questa figura un vero ruolo professionale di co-gestione manageriale insieme al vilicus83. Un’altra area fortemente indagata è ovviamente l’Etruria. A partire dal South Etruria Survey di Ward-Perkins sino, come già ricordato, alle nuove ricerche di Helen Patterson, Simon Kay, Martin Millett e Simon Keay, coadiuvati da alcune équipes italiane, l’Etruria (in particolare l’Etruria meridionale-laziale) è stata oggetto di intense ricognizioni

Aranegui, Mar 2009.

83 

55

Roth 2004.

L’ideologia degli archeologi

3.18. Grafico sui periodi presenti nel volume celebrativo del centenario della fondazione della British School at Athens.

3.19. Grafico delle variazioni annuali dei contesti geografici studiati nei Papers of the British School at Rome.

e di numerose pubblicazioni in linea con la tradizione della BSR. Tale tradizione agisce non solo nella pianificazione di nuovi progetti scientifici ma anche con l’edizione ex novo di dati e materiali provenienti dalle ricognizioni degli anni Cinquanta e Sessanta, arricchendo il quadro con nuove considerazioni84. Tale continuità si esprime sia nei Papers, come il recente articolo di Helga Di Giuseppe

sulla comparazione tra Etruria settentrionale ed Etruria meridionale alla luce dello studio della ceramica a vernice nera proveniente dallo scavo di Ward-Perkins nel teatro romano di Volterra85, sia con monografie intere dedicate alla rivalutazione di quelle ricognizioni86. Ovviamente, accorpando Lazio ed Etruria, quest’area sarebbe diventata la più rappresentativa dopo la città di Roma rispetto a quello che si sarebbe ottenuto separando l’Etruria in

84  Patterson et alii 2000; Kay, Witcher 2004; Cascino, Di Sarcina 2005; Cascino, Di Giuseppe, Patterson 2013; Patterson, Di Giuseppe, Witcher 2020, pp. 12-24.

85  86 

56

Di Giuseppe 2005. Patterson 2004.

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. una regione d’interesse autonomo. Poco rappresentate sono le ricerche nell’Italia settentrionale e nelle isole: rispettivamente undici e nove articoli sono dedicati allo studio di queste regioni. Per le isole solo un articolo è dedicato alla Sardegna, quello di W. G. Cavanagh e R. R. Laxton sulle tecniche di costruzione dei nuraghi87, mentre gli altri sono centrati sulla Sicilia romana e medievale (fig. 3.20). Al tema della distribuzione geografica delle ricerche della BSR, S. Stoddart dedicava due pagine nell’articolo edito nel volume del centenario dichiarando che: “The region of Rome – for reasons related to practical concerns (for example, the siting of the British School) and the centrality of classics – has provided a major pole of attraction for research, even in the fields of landscape and prehistory. Such a focus should not disguise the substantial activity of British researchers – more or less in collaboration with the British School – in the south, the north and the islands.”88 A tal proposito Stoddart sottolinea ancora una volta come l’esempio del South Etruria survey abbia influenzato lavori simili, ma meno conosciuti, in Italia meridionale89, come le ricognizioni di D. Trump a La Starza ripetute poi a Malta e in Sardegna90. Stoddart è consapevole che: “British work in other regions is underrepresented in the pages of the British School at Rome, but the direct and indirect influence of School has been important” e che le ricerche in nord Italia generalmente sono pubblicate altrove91.

3.20. Grafico generale sulle percentuali dei contesti geografici studiati nei Papers of the British School at Rome.

l’Oriente rispetto all’Occidente, mentre è completamente ignorata o quasi l’Africa e le regioni Settentrionali, fatta eccezione per la Gallia. Tra le regioni occidentali la più rappresentata è la Spagna (fig. 3.22). Come già accennato sopra, la divisione orientata in senso Est-Ovest era già stata presa in considerazione da G. W. Bowersock in un articolo frutto di un incontro e di una discussione tenuta alla Columbia University di New York sull’opera di N. Purcell e P. Horden (The Corrupting Sea), e in particolare sulla distinzione fatta tra una storia del o nel (in/of) Mediterraneo. Bowersock riflette, attraverso il riferimento alle fonti antiche, sul senso geografico, ideologico e semiotico dell’orientamento est-ovest rispetto a quello nord-sud per gli antichi, fornendo anche una breve e concisa spiegazione della concentrazione degli studi moderni orientati anch’essi secondo degli assi ben precisi. “Historians – ci dice Bowersock – of both classical and late antique have a natural tendency to view the world they study as fundamentally divided into East and West. The reasons are obvious. Greeks were in the east, Romans in the West. The Roman Empire brought the parts together for some centuries before the successors of Constantine divided it definitively once again. Christianity perpetuated the split between East and West, and papal authority in the West confronts the eastern patriarchs down this day. This division has taken the Mediterranean Sea as its nodal point, largely for reasons of communication and commerce” e prosegue: “In scholarly literature the West tend to include the northerly regions, such as Gaul, Germany and Britain, as well as the western Balkans. The eastern Balkan countries, such as Bulgaria and Romania, tend to be incorporated into the eastern Mediterranean orbit, along with Turkey and the Near East. Even North Africa is divided into East and West with Juba’s Mauretania counting as a western kingdom

Queste pubblicazioni si trovano infatti negli Accordia Papers, dove vi è una discreta presenza di lavori e ricerche localizzate nel nord Italia, sia grazie alla presenza delle ricerche di Mark Pearce (editor degli Accordia insieme ad altri come Wilkins e Ridgway)92, sia a quella sistematica dei reports di scavo del progetto alto-medio Polesine/ basso Veronese condotto da un’équipe angloitaliana diretta da Armando de Guio, John Wilkins e Ruth Whitehouse. Eguale attenzione è riservata al Sud Italia e alle ricerche che abbracciano tutta la penisola, specialmente l’Etruria (fig. 3.21). Colpisce la cospicua e numerosa presenza di ricerche condotte nelle isole minori del Mediterraneo che contribuiscono a colmare un gap di conoscenze in termini di popolamento, strategie economiche, vita quotidiana, colonizzazione e mutamenti sociali93. Resta chiaro il profondo vuoto rappresentato dal resto del centro Italia, con l’eccezione, come detto, dell’Etruria e di Roma. Una buona e completa copertura geografica sembrano avere gli articoli del JMA. La più vasta copertura è riservata alla Grecia, seguita da Cipro e dall’Italia e dal Levante. Se raggruppiamo le zone in ampie aree geografiche vediamo come sia di gran lunga rappresentato Cavanagh, Laxton 1987. Potter, Stoddart 2001, p. 20. 89  Ibidem. 90  Trump 1957, 1963; sulla Sardegna ancora Trump 1983, 1990. 91  Potter, Soddart 2001, p. 21. 92  Pearce 1993. 93  Stoddart 1997-1998; Malone et alii 2001-2003; Dawson 2004-2006. 87  88 

57

L’ideologia degli archeologi

3.21. Grafico generale sulle percentuali dei contesti geografici studiati negli Accordia Research Papers.

3.22. Grafico generale sulle percentuali dei contesti geografici studiati nel Journal of Mediterranean Archaeology.

despite its Hellenic character, wheres Libya is joined with Egypt as part of the East. This is a distinction enshrined today in the Arabic terms Maghreb and Mashriq”94.

cui “testi” sono la cultura materiale, questo è un abili che non regge a lungo le pressioni esercitate da aree totalmente ignorate che reclamano il loro posto nella storia. Tale tensione emerge bene dal caso del JMA, il cui intento programmatico è proprio di ricostruire un’archeologia mediterranea coerente e completa. Gli editori a più riprese hanno avuto modo, attraverso gli editoriali, di lamentare il permanere di alcune geografie egemoni e di aree sottorappresentate95.

Va aggiunto che probabilmente non sono solo gli storici dediti a questa tendenza ma, evidentemente, anche gli archeologi. La cosa strana è che mentre per gli storici l’asse est-ovest è in parte fisiologicamente imposto dagli stessi autori antichi, che secondo Bowersock orientavano la propria geografia fisica e mentale costruendo su di essa giudizi e concezioni etiche e politiche, per l’archeologia, i

Come ricorda W. V. Harris in un articolo del volume che riunisce gli interventi della conferenza tenuta alla

94  Gli interventi del colloquio sono stati poi raccolti in un volume collettivo, Harris 2005; Bowersock 2005, p. 167.

95 

58

Cherry, Knapp, 1994, 1996, 1999, editoriali.

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. Columbia, la definizione stessa, geografica, diacronica, politica ed etica di un Mediterraneo come oggetto coerente e unitario per lo studio della storia antica è lontana dall’essere stabilita96. E forse non così fruttuosa come hanno capito a loro spese Horden e Purcell nella loro mastodontica opera97 tesa a frammentare il Mediterraneo in sub-contesti discreti98, per poi ricreare, a mio avviso, la stessa unità e coerenza di braudeliana memoria che la loro opera intendeva disintegrare (fig. 3.23). Da un lato la frammentazione spaziale è controbilanciata dalla continuità temporale, ad esempio bollando come luogo comune il declino economico alla fine del mondo antico99, ma “not all historical commonplaces are false, and much of the evidence is in any case material”100. Per restare solo all’unità geografica del Mediterraneo essa è ovviamente una costruzione, ma con una base naturale solida101. Tale base naturale crea delle idiosincrasie tra storia ecologica e storia culturale del Mediterraneo. Se non è possibile dare una definizione canonica, si possono però tracciare dei confini per ciascun periodo. Il vino e l’olio costituiscono l’unità climatico-geografica del Mediterraneo rispetto all’anomalia Mesopotamica. Il soggetto dell’opera di Horden e Purcell è “human history of the mediterranean Sea and its coastlands”102 e qui si crea subito un problema di delimitazione dovuto alla vaghezza della parola “coastlands”, come se il Mediterraneo non comprendesse ad esempio valli e bacini come quelli del Reno o del Danubio o terre molto interne non bagnate dal mare. Probabilmente ha ragione Bloch nell’affermare che “l’unitè de lieu n’est que désordre. Seul l’unitè de problème fait centre”103.

3.23. Assi geografici privilegiati negli articoli del Journal of Mediterranean Archaeology.

they know, who their students know, the perceived status of the journal, its circulation figures and accessibility, what languages it accepts”; l’altro filtro è “The strength of existing and competing journals”105, le cui azioni di influenza e prestigio tendono a creare dei fenomeni di concentrazione di pubblicazioni di un periodo o una zona geografica piuttosto che in un’altra. Le riviste rivelano un’accresciuta organizzazione tematica e geografica secondo egemonie accademiche d’influenza e, seguendo le dicotomie (politiche e culturali) presenti nel contesto del Mediterraneo moderno, tendono sempre più a riprodurre nello studio del Mediterraneo antico i “present-day traumas” e le divisioni venute a crearsi all’indomani della fine della Guerra Fredda: “north/south divide (rich/poor; western/non-western; Christian/Islamic) and its increasing characterization as a region of economic inequality, demographic imbalance and migration, youth frustration, and environmental loss”106. La più evidente di queste dicotomie, usate come categorie analitiche per lo studio del passato, è quella tra Christiendom, Islam e Judaism venuta a sostituire dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001 quella organizzata intorno all’opposizione dei due blocchi statunitense e sovietico. Questa conclusione della Alcock è calcata sulle teorie del politologo statunitense Samuel P. Huntington organizzate intorno alla dicotomia Occidente/Oriente islamico e sul concetto di “scontro di civiltà” (The clash of civilization), rifiutato interamente da Edward Said in un recente ciclo di conferenze107. In questo

A questo punto mi pare arrivato il momento di riflettere sull’efficacia della “copertura” sincronica (geografica) e diacronica (di periodo) delle riviste a carattere Mediterraneo. In una recente analisi sull’ “esplosione” di pubblicazioni di riviste a carattere “mediterraneo”, Susan Alcock ha messo in evidenza proprio una difficoltà di covering, obiettivo dichiarato di molte pubblicazioni104. Tutte le riviste prese in esame dalla Alcock rivelano una tendenza “to feature contributions on Greece, the Levant, and the Aegean, or on Italy, far more often than, say, pieces on Spain, or Southern France, or (certainly) North Africa” e “The Islamic Mediterranean has been habitually under-represented”. Questa tendenza si produce per l’azione di alcuni “filtri”: “the more obvious of filters would include who editors are, where they are based, who Harris 2005. Horden, Purcell 2001; per le critiche a quest’opera Abulafia 2001; D’Hautcourt 2001; Driessen 2001; Fentress, Fentress 2001; Hodges 2001; Laurence 2001; Shaw 2001; Glick 2002; Squatriti 2002; Peters 2003; per una replica sistematica alle critiche Horden, Purcell 2005. 98  Horden, Purcell 2001, pp. 160-172; commenti sullo sgretolamento del paradigma Mediterraneo in Bresson 2005. 99  Ivi, p. 152. 100  Harris 2005, p. 25 ma anche Ward-Perkins 2005. 101  Ivi, p. 4. 102  Horden, Purcell 2001, p. 9. 103  Bloch 1934, p. 81. 104  Alcock 2005. 96  97 

Alcock 2005, p. 334. Ivi, p. 335. 107  Huntington 1996. Il libro, frutto della riflessione sviluppata in un precedente articolo pubblicato nel 1993 (The Clash of Civilizations?), non ha più il punto interrogativo. Come ha ricordato recentemente il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I “Some have pointed to a modern ‘clash 105  106 

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L’ideologia degli archeologi scenario va ripensata l’atomizzazione a cui è sottoposto il Mediterraneo come luogo reale e ideale. Vista nel quadro del più generale declino del concetto d’unità mediterranea e del Mediterraneo come luogo di ricomposizione di conflitti e culture, la scomposizione di tale unità e la parcellizzazione della storia del Mediterraneo risultano essere a rischio di potenziali manipolazioni per fini politici e strategici. Il Mediterraneo deve ripensare il suo ruolo di laboratorio (politico e storico) delle differenze in un’era di estremismi, come microcosmo globale di contatti e interazioni, come regione storica di tensioni ed integrazioni culturali e come piattaforma di comunicazione tra religioni e lingue diverse.

Qui mi preme fare alcune precisazioni sui criteri utilizzati per inventariare “gli obiettivi” delle ricerche che ci saranno utili per ragionamenti puntuali su temi che ci preme mettere a fuoco. Posto che lo stile, inteso come individualità dell’artista e dell’opera, e l’iconografia, anonima ma profondamente sociale, sono aspetti differenti ma certamente interconnessi, lo strumento analitico privilegiato qui è certamente quello iconografico. Come ricorda A. Carandini l’iconografia “al contrario dello stile, accomuna più mani e maniere, dura nel tempo e si integra facilmente con le vicende collettive di una società. È questo il modo più elegante per risalire dalle superfici lavorate della creatività del singolo a quei contenuti di pensiero, valore e significato che sono serviti per realizzarle”110. L’importanza dello stile e del singolo non è poi uguale per tutte le epoche e tanto meno quello della personalità artistica e del grado di rilevanza estetica attribuitole, specie per l’antichità111. Si sono fatte coincidere insieme due caratteristiche espresse da questi due particolari approcci all’immagine: l’una più utile per lo studio dell’antichità, l’altra più adatta alla modernità. Come nella natura bipolare del comportamento umano, linguistico o psichico, caratteristiche come similarità/contiguità e procedimenti come divisione/unificazione agiscono in campi semantici differenti ma complementari. Simili alla metonimia e alla metafora, iconografia e stile si sono raggruppati insieme: l’iconografia pura è più archeologica e metonimica, mentre lo stile è più affine alla storia dell’arte e alla metafora, ma sono pur sempre due meccanismi basati sulla medesima logica binaria112. Vedremo poi che tipo di significato acquista questa prevalenza dell’iconografia all’interno del nostro inventario delle differenze.

Dal punto di vista concettuale, per la Alcock, la frammentazione degli studi mediterranei e la loro patente difficoltà a mantenere una prospettiva globale e un’unità può essere risolta al livello teorico e pratico riflettendo sulla recente terminologia introdotta da Horden e Purcell che crea un cambio di prospettiva negli studi del Mediterraneo. Secondo gli autori di The Corrupting sea la sensazione di un’apparente irriducibile frammentazione sarebbe dovuta all’ostinazione di perseguire ricerche che siano in the Mediterranean. Una nuova e più solida unità deve ricostruirsi sulla diffusa “connettività” di persone e luoghi, sul dinamismo delle piccole e molteplici connessioni. L’unità è data in questo modo dall’esplosione delle frammentazioni che si muovono e interagiscono come in un liquido, spostando la prospettiva sul Mediterraneo come “soggetto” storico di studio globale, puntando ad una storia of the Mediterranean108. La globalizzazione univa (principalmente da un punto di vista economico), creando l’illusione distopica di una riconciliazione (storica, sociale, politica), mentre il suo vacillare e recedere come concetto frammenta l’umanità e fa sorgere muri.

Un’altra categoria utilizzata per l’analisi è quella di scavo e ricognizione archeologica. Come già specificato è difficile credere che di per sé l’operazione archeologica sia una topica, cioè il fine di una ricerca e non piuttosto il mezzo per accedere e illuminare o eventualmente creare o interpretare, una problematica circa il passato. Tuttavia, si è voluto isolare le operazioni di scavo e di ricognizione come tematica a parte per due ragioni, una interna e una esterna. Quella interna è che spesso si è notato che molti articoli erano il risultato della scarna cronaca di scavi e ricognizioni effettuate senza alcuna indicazione sull’obiettivo della ricerca, sul ruolo delle operazioni di scavo e ricognizione all’interno del progetto, o senza premesse metodologiche o strategiche di qualsiasi tipo. Un esempio positivo di inquadramento tematico e metodologico di una ricerca può essere lo studio di Patterson, Di Giuseppe e Witcher sulla ripresa di questioni cruciali sviluppate nell’ambito del South Etruria come la periodizzazione del popolamento in Etruria attraverso le “tre presunte crisi”, utilizzando nuovi dati raccolti con il Tiber Valley Project113.

Resta il fatto che la presenza di riviste a carattere Mediterraneo, pur nelle loro innumerevoli difficoltà e mancanze, incoraggiano al superamento delle barriere geografiche, culturali e intellettuali, in vista di un progetto politico che fornisca “one viable form of interface, a framework for connection and dialogue across such barriers in the present”109. 3.4. Obiettivi delle ricerche: campi di indagine e scelte accademiche. L’analisi delle “topiche” dei PBSR ci dà l’idea di quel contrasto a cui già abbiamo accennato tra l’immagine della rivista come essenzialmente archeologica e una realtà che invece tende più verso la storia e le arti figurative: l’argomento in assoluto più trattato è quello iconografico con studi dedicati allo stile e più in generale alla storia dell’arte.

Carandini 1996, pp. 235-236. Su questi temi decisivo Settis 1986, 1989. 112  Su questo argomento ancora Carandini 1996, pp. 237-240 e sull’identificazione come procedimento logico tra metonimiaarcheologia e storia dell’arte-metafora; sulla differenza tra metonimia e metafora Henry 1975. 113  Patterson, Di Giuseppe, Witcher 2020; Patterson, Di Giuseppe, Witcher 2004. 110 

111 

of civilizations’ as inevitabile. We who live at the crossroads disagree – indie, we are living proof that different cultures and differents faiths can co-exist in peace”, da Lister 1997, p. 72. 108  Ivi, p. 336; Horden, Purcell 2000, pp. 2-3, p. 9. 109  Alcock 2005, p. 336.

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Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni. ragionare sul loro significato. L’iconografia, che abbiamo visto essere l’argomento più presente e affrontato nei Papers in termini assoluti, subisce un cambiamento significativo nel periodo della direzione di Wallace-Hadrill rispetto alle altre tematiche. Il progressivo aumento a cui assistiamo nell’intervallo 1989-1995 diviene un incremento quasi esponenziale nell’intervallo successivo (1996-2009). L’economia invece subisce la sorte opposta. Dopo essere stato il tema più affrontato nel periodo 1984-1988, tra il 1989 e il 1995 resta sostanzialmente stabile, mentre aumentano di contro architettura, scavi e ricognizioni archeologiche, iconografia e studi propriamente storici. Tra 1996 e il 2009 l’economia subisce una flessione sia in termini numerici assoluti sia in rapporto agli altri temi e insieme alla prosopografia è l’unico tema a diminuire rispetto ai periodi precedenti nonostante l’aumento assoluto degli articoli. Nello stesso periodo subiscono un aumento significativo anche ricognizioni e scavi, architettura, biografia, storia della storiografia archeologica e l’identità e aumentano gli articoli riguardanti i contatti culturali e la topografia. Diminuiscono, oltre all’economia, l’interesse per l’ideologia e per gli studi prosopografici. Si nota anche come i contributi di carattere economico scompaiano definitivamente dalla rivista a partire dal 1994 per poi ricomparire flebilmente (al massimo due articoli) tra 2002 e 2005, per essere poi messi da parte. Ciò mentre l’iconografia raggiunge negli stessi anni tre picchi significativi (1998, 2003 e 2008) in cui risulta di gran lunga l’argomento più affrontato. Uniforme risulta l’andamento negli anni della topica dell’architettura, punto stabile e identitario della BSR.

Un’importanza non dissimile sembrano avere all’interno dei Papers topiche come quella economica, terreno di confronto spesso duro tra la scuola “sostantivista” britannica, che fa capo a Finley e Polanyi, e quella “formalista” italiana, che più che al formalismo antropologico deve le sue posizioni alla sua tradizione marxiana114. Un altro argomento che spicca prepotentemente dall’analisi degli articoli è quello dell’architettura. Tra questi è da notare che tra quelli dedicati agli aspetti architettonici in senso strutturalecostruttivo o all’architettura in genere come evoluzione delle forme e degli stili, pochissimi riguardano l’antichità. La maggior parte riguardano il medioevo115 o l’epoca moderna. Quando l’architettura si affaccia al passato è per rivendicare il ruolo paradigmatico assunto da certi canoni architettonici dell’antichità, come sembra dimostrare l’analisi di L. Cellauro sul canone di Vitruvio e sulla sua influenza sulle teorie del Rinascimento italiano all’interno della dinamica socioeconomica architetto/patrono116. Sull’antichità si svolgono ricerche topografiche vecchio stile o, se si vuole, di urbanistica antica nuovo stampo dove l’obiettivo primario è la ricostruzione filologica dell’ubicazione di tale o di talaltro monumento nello spazio dell’Urbe rispetto alle indicazioni delle fonti dei testi antichi come localizzazione dei volumi architettonici, oppure lo studio dei toponimi (fig. 3.24). Questa attenzione per l’urbanista rispetto allo studio degli elevati in senso costruttivo e stratigrafico, e non solo iconografico, riguarda tutti i periodi. Se questo è dovuto al pessimo stato di conservazione in elevato delle strutture classiche, il ritardo in questo campo rispetto all’archeologia medievale e all’archeologia dell’architettura come disciplina autonoma non è più giustificabile117.

Dall’analisi del volume del centenario si nota che, oltre gli articoli dedicati alla storia delle ricerche archeologiche della BSR (la maggioranza), tutte le topiche più rappresentative dei Papers sono presenti in ogni caso anche solo con un articolo. Ancora una volta l’iconografia fa sentire il suo peso insieme ai temi di storia delle religioni. Le altre topiche sono presenti tutte con un articolo (identità, architettura, biografia, scavi e ricognizioni, topografia, contatti culturali, fig. 3.26). Ovviamente la presenza di studi sulla religione antica, avvertita come tematica rappresentativa dei Papers così come appare dall’analisi del volume del centenario, può essere una coincidenza o una forzatura operata da chi scrive. Ma può anche essere indice di un’identificazione concettuale tra temi: religione in luogo, per esempio, di ideologia intesa in senso generale come storia delle idee, che risulta invece trascurata e poco presente in tutti i Papers. L’opposizione cultura/economia, struttura/infrastruttura può risultare banale e logora, ma questo non vuol dire che non sia tuttora operante, od operante in momenti del passato in maniera così profonda da riverberarsi nel presente, come poi vedremo nelle conclusioni. Ancora una volta creare confronti e comparazioni può aiutare il percorso che qui si sta tracciando. Come già ricordato ciò vale non tanto per spiegare alla luce di un termine di paragone le ragioni della presenza o meno di certe topiche, ma per creare quell’inventario delle differenze che diventa la griglia concettuale e materiale che contiene le coordinate

Un impatto diverso, ma comunque degno di essere segnalato, hanno topiche come quella prettamente storiografica, quella religiosa, quelle riguardanti l’organizzazione sociale e politica delle società antiche e ovviamente quelle topografiche (fig. 3.25). Spiccano tra gli altri, con buona percentuale sul totale, gli articoli a carattere biografico dedicati alle personalità e agli studiosi che hanno collaborato con la BSR. Da segnalare, infine, la scarsa presenza di articoli riguardanti la storia della storiografia archeologica, quelli sull’identità o sull’ideologia, ma anche articoli di crono-tipologia o di datazione archeologica. Passando all’analisi delle variazioni intercorse nel tempo per ogni singola tematica, e per ognuna di queste della variazione del rapporto reciproco, possiamo tentare di isolare alcuni mutamenti significativi e fissarli per poi 114  Per tutti valgano gli assidui dibattiti e confronti con lo stesso Finley, sulla rivista italiana OPUS. Per la differenza tra formalismo e sostantivismo ai fini dello studio della storia e dell’archeologia antica Andreau 1987, 1988, 1995; Carandini 1975, 1979; Lo Cascio 1999. 115  Coates-Stephens 1997; Barclay-Lloyd 1997, 2004. 116  Cellauro 2004. 117  Si veda ad esempio il recente Atlante delle tecniche costruttive romane frutto di uno sforzo condiviso tra diverse Università (https://acor. huma-num.fr/).

61

L’ideologia degli archeologi

3.24. Grafico generale degli argomenti trattati nei Papers of the British School at Rome.

3.25. Grafico delle variazioni sugli argomenti trattati nei Papers of the British School at Rome, con diversi direttori della scuola.

all’interno delle quali muovere il filo dei nostri pensieri. Allora il perché, il come ed il quando procedono come cursori all’interno di questa griglia, sovrapponendosi, addizionandosi o eliminandosi, creando reti di relazioni logiche, alternative o isomorfiche nel senso e nel valore esplicativo; in questo caso usando ancora una volta le riviste scelte e così scomposte come strumenti e indici di determinate differenze.

seguiti da quelli riguardanti l’organizzazione sociale e politica delle società antiche. Non deve ingannare l’organizzazione delle tematiche che abbiamo affrontato precedentemente nei Papers, in cui si era tenuto diviso il sociale dal politico. Accorpando le due topiche e confrontandole con le linee tematiche seguite nel JMA, si vede che l’interesse per questo tipo di ricerche non è dissimile nelle due riviste. Anche nei Papers il tema dell’organizzazione “sociopolitica” sembra avere un ruolo fondamentale, almeno in termini assoluti di articoli dedicati al tema (fig. 3.27). Proseguendo nell’analisi dei temi

Nel Journal of Mediterranean Archaeology gli studi più affrontati sono quelli dedicati alla storia dell’archeologia, 62

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.26. Grafico degli argomenti presenti nel volume celebrativo del centenario della British Academy.

3.27. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli del Journal of Mediterranean Archaeology.

più presenti all’interno del JMA si rileva che gli studi di cultura materiale, quando esplicitamente richiamata come tematica nei propositi dell’autore e della ricerca, hanno un ruolo non differente. Affine a questo tema, ma leggermente diverso per scopi e metodi, è quello del cultural change che affronta i cambiamenti nella cultura materiale. Gli studi sull’economia sono sostituiti dalle ricerche che hanno come tema lo “scambio”, una caratteristica che provoca anche uno slittamento di significati e termini dall’economico allo scambio e alla ridistribuzione, che ovviamente ci dà delle indicazioni ben precise sul tipo di linea seguito in questa

rivista; lo slittamento alla fine è anche quello anche da posizioni “formaliste” a quelle “sostantiviste” in materia di economia. Seguono poi studi di interazione uomoambiente, quelli sull’identità e sulla colonizzazione qui intesa come le prime fasi di popolamento e migrazione di popoli nel bacino Mediterraneo. Rispetto ai Papers poco peso hanno qui topiche che lì rivestivano grande importanza, come l’iconografia, la storia dell’arte, l’architettura o gli scavi e le ricognizioni. Giocano una parte importante invece temi quali le 63

L’ideologia degli archeologi costruzioni di crono-tipologie e, connessi a questa impostazione, anche gli studi relativi a datazioni assolute, dendrocronologiche e isotopiche. Si notano poi, strettamente legate tra di loro, due tematiche su cui avremo modo di ritornare diffusamente: le analisi del paesaggio e quelle ‘percettive’, ma diremmo più correttamente di archeologia della percezione, intesa come percezione soggettiva dello spazio fisico e semiotico nel passato. A questa è ovviamente legata la tematica della agency, della stratificazione sensitiva dell’individuo nel tempo. Un cambio significativo nelle sorti editoriali del JMA è rappresentato dall’ingresso a partire dal 2006 di Peter Van Dommelen come co-editore della rivista insieme a Cherry e Knapp. Van Dommelen, come ricordano i due storici editori, si interessa di rural Mediterranean, field survey, regional settlement studies and analysis of survey finds (especially pottery); geograficamente è specialista in western Mediterranean and Tyrrhenian island; cronologicamente di late prehistoric and early historic periods e interessato a teorie antropologiche che si richiamano alla so-called postcolonial theory, con conseguenze evidenti sull’emergere di tematiche postmoderne nella rivista118.

riflessione filosofica in archeologia, a quella sull’uomo e la società, e al rapporto tra cultura materiale e azione individuale. Nell’European Journal of Archaeology la maggioranza degli articoli sono dedicati ai temi dell’economia-scambio con quello slittamento-sovrapposizione precedentemente accennato. Questi sono significativamente seguiti, in termini assoluti, dagli studi e riflessioni dedicati al patrimonio archeologico europeo. La maggior parte di essi tentano di dare una definizione formale e sostanziale di cosa sia questo patrimonio comune dell’Europa comunitaria, sia in termini di gestione che di organizzazione istituzionale, sia per la costruzione di un codice di norme giuridiche (ma non solo) condivise in materia di tutela che in termini di definizione del patrimonio culturale. Un ruolo chiave (e non è da escludere anche in questo caso in una prospettiva comunitaria, politica, europea) ha la storia dell’archeologia e gli studi sull’organizzazione sociopolitica. Seguono quelli sulla religione antica e di interazione culturale in particolare sull’identità. Strettamente connessi con la storia archeologica sono gli articoli dedicati al ruolo dell’archeologia nella costruzione degli stati nazionali durante l’Ottocento, ma anche nella formazione dell’ideologia delle dittature novecentesche (fig. 3.29).

Negli Accordia Papers si rileva invece una prevalenza di ricerche di grande respiro che si occupano di temi contemporanei, indicate qui come ricerche “multiple”. Notevole è anche la presenza di articoli che si occupano di storia delle religioni. Una costante presenza in tutti i numeri è quella della ricostruzione socio-politica di articoli che si occupano di genere e identità nel mondo italico antico, soprattutto preistorico ed etrusco, ma anche di ricerche sulla prima colonizzazione di questa parte del Mediterraneo, cioè delle prime presenze micenee e minoiche in Italia, oltre a studi sulle datazioni assolute dell’età del Ferro in Italia; un problema questo recentemente riaperto e in continua evoluzione119. In misura minore registriamo anche la presenza di studi dedicati a questioni di economia antica, di storiografia vera e propria e di storia dell’archeologia (fig. 3.28). Si affacciano in questo particolare contesto anche temi non incontrati fino a questo momento. Una piccola parte delle ricerche sono dedicate alle analisi delle lingue italiche antiche, a eccezione del latino, grazie alle ricerche di John Wilkins sull’argomento. Anche se non in una quantità rilevante, all’interno degli Accordia, sembrano avere spazio anche ricerche che implicano il ricorso a modelli ripresi dalla teoria sociale e antropologica; l’esigenza cioè di creare modelli, se non predittivi, almeno analiticodescrittivi di certe parabole evolutive o di certe dinamiche interattive uomo-uomo, uomo-ambiente, società e culturamateriale. In questa stessa linea si inseriscono gli articoli che propongono le applicazioni in campo archeologico di modelli matematico-statistici, demografici oppure dedicati a certi aspetti numerici della cultura materiale (quantità assolute, rapporti tra forme, ecc.). Naturalmente sulla stessa linea si inseriscono anche quelli dedicati alla 118  119 

Più in generale appare forte l’attenzione per le dinamiche che influenzano lo studio del passato attraverso la lente del contesto presente e di come questo non ne possa a sua volta prescindere. Molti articoli sono sui controversi usi cui può essere soggetta la storia da parte dell’archeologia, eventualmente manipolata e usata per scopi propagandistici e legittimatori e di come possa essere distorta e interpretata maliziosamente o continuamente piegata e “colonizzata”, per usare un termine usato da Jesper Svenbro120. Il presente si ripiega sul passato investendolo di significati ulteriori, sovrainterpretandolo, nel senso di aggiungere a esso coerenze, casualità e connessioni che lo rendano significante ai nostri occhi. Un problema di verità e di realtà, di interpretazione e spiegazione, che sta al centro da sempre della riflessione storica. In ultima analisi vi è coinvolto anche il ruolo dello studioso in rapporto al suo contesto presente, la sua etica messa di fronte al grande baratro del passato che non c’è più e che va riesumato in maniera artificiosa attraverso una elaborazione intellettuale che è anche mistificazione. Un problema di responsabilità ma anche di metodo e di epistemologia. Illustri studiosi e studiose si sono confrontati con quest’argomento con risultati alterni. Nelle conclusioni si tenterà di inquadrare perlomeno lo spazio che, a nostro avviso, non bisogna valicare. Altri argomenti e topiche sono quello della mobilità e della costruzione di cronotipologie dei manufatti. Colpiscono poi i cinque articoli dedicati alla fenomenologia. La topica fenomenologica è diventata negli ultimi anni

Cherry, Knapp 2006, p. 3, editoriale Bettelli 1994, 1997; Pacciarelli 1996; Sperber 1980.

120 

64

Svenbro 1979.

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.28. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli degli Accordia Research Papers.

3.29. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli dell’European Journal of Archaeology.

autori e presentati nella rivista. Del resto, l’EJA non è una rivista che fa riferimento a un’istituzione accademica che promuove ricerche sul campo e in ogni caso privilegia la raccolta e la pubblicazione di dati altamente elaborati ed affinati, frutto anche di ricerche decennali piuttosto che studi preliminari. L’alto grado di elaborazione e d’analisi che abbraccia tematiche e problemi a largo respiro sono le caratteristiche che accomunano tutte le ricerche presenti nella rivista.

molto presente in archeologia, in particolare quella di Martin Heidegger e Edmund Husserl121. Nessuna o scarsa rilevanza hanno a questo punto la storiografia e l’architettura, la teoria sociale o l’interesse per la datazione assoluta, e in generale l’utilizzo delle scienze in archeologia. Colpisce anche l’assenza di studi in cui siano presenti notizie di scavi o resoconti di ricognizioni archeologiche vere e proprie. Tutto sembra basarsi sullo studio di dati raccolti in ricerche precedenti dagli stessi

121 

Più interessante è sembrato in questa sistematizzazione impropria e parziale di alcune differenze e di alcuni termini

Si veda Levy 1996; Hamilton et alii 2017; Tonner 2018.

65

L’ideologia degli archeologi soffermarci più da vicino e in maniera più dettagliata su quelle differenze concernenti il Cambridge Journal of Archaeology rispetto alle altre riviste. Insistiamo sul fatto di dover stabilire differenze piuttosto che analogie o omologie, per il pericolo che quest’ultima operazione porta con sé. Solo maneggiando bene la materia attraverso le sue innumerevoli sfaccettature e implicazioni se ne resta alla giusta distanza. Ma non è il nostro caso. In questa particolare circostanza si ammetterà però che l’attenzione particolare dedicata al CJA nasce da una scelta diciamo programmatica già ricordata altrove: in quanto termine di differenza principale rispetto alla corrente postprocessuale o processual-plus, come l’ha chiamata Michelle Hegmon per sottolineare più la filiazione processuale che la conseguenza del suo superamento122. Un pre-giudizio motivato però dalla conoscenza dei fattori storici e contestuali, di relazione che ne hanno permesso la nascita, i termini della sua genesi, con l’intento poi di monitorarne e seguirne lo sviluppo e l’evoluzione. Ma vi è un’altra ragione alla base dell’interesse particolare dedicato al CJA e che potremmo chiamare “post-giudiziale” perché nata retrospettivamente. Subito si è cercato di mettersi al riparo dal fare qualsiasi analogia grafica e numerica o anche interpretativa, riportando tutto ancora una volta sul piano più sicuro e “secco” della differenza. L’omologia evidente, ad esempio con i Papers, è la grande percentuale di articoli a carattere iconografico che rappresenta in entrambi le riviste la tematica più presente (fig. 3.30). La differenza è che tale convergenza di intenti parte da premesse teoriche e di metodo irriducibili e inconciliabili, simili nel mezzo ma incomparabili nei fini.

su temi religiosi. Un’inversione di tendenza si registra all’inizio degli anni 2000, quando l’iconografia riacquista il suo primato condividendolo con il tema “ideologico” (fig. 3.31). Lo stesso aumento, a partire dal 2001 riguarda l’interesse della rivista per articoli di teoria pura, mentre sparisce quello per le origini e l’evoluzione della specie umana molto forte nei primi anni di vita della rivista. Spariscono anche gli articoli dedicati alla tecnologia, dunque più specificatamente dedicati alla cultura materiale, dopo una temporanea crescita fino alla fine degli anni Novanta, e insieme a questo calo notiamo anche l’eclissarsi delle notizie di scavi o ricognizioni, comunque già flebili dai primi anni. 3.5. Il supporto materiale della ricerca e le rotture epistemologiche: un esempio dai PBSR Concludiamo questa analisi serrata occupandoci del supporto materiale, veicolo, fine o solo mezzo delle ricerche archeologiche prendendo ad esempio i soli PBSR come campione rappresentativo di certe tendenze. I supporti più utilizzati nelle ricerche condotte nei Papers sono certamente quelli che noi abbiamo qui definito come “artefatti” (ceramica, strutture abitative, mosaici, affreschi etc.), che rappresentano il 37% del totale. Circa un terzo invece si riferisce all’utilizzo delle sole fonti scritte (29%), seguite dallo scavo e dalla ricognizione (14%), intese come operazioni materiali. Vengono poi l’utilizzo combinato (mi si passi il termine) o integrato di fonti scritte e artefatti insieme, di reperti faunistici e botanici, insieme alle prospezioni geofisiche e per ultimo l’utilizzo di fonti etnografiche (fig. 3.32).

Stabilita questa correlazione, questa analogia, si cerca di creare il campo di comparazione all’interno della topica stessa creando la tensione continua verso la differenza. Da un’uguaglianza scaturisce così subito la ricerca delle caratteristiche proprie legate a quel particolare fenomeno in un dato contesto, archeologico o bibliografico che sia. L’iconografia è usata, ad esempio, o perlomeno sta ad indicare sicuramente, due fenomeni differenti provenienti da due diversi backgrounds e instauranti diversi rapporti di forza con le altre tematiche (l’epistemologia, le tensioni, gli autori e la tradizione accademica). Appare evidente la presenza delle tematiche postprocessuali. Dopo l’iconografia riscontriamo un grande numero di articoli dedicati agli aspetti religiosi, all’ideologia, all’identità e alla agency, e un buon numero alla teoria, soprattutto teoria sociale. Seguendo l’andamento annuale di queste tematiche si nota una certa linearità e coerenza nel tempo. Meno stabile è l’attenzione per argomenti linguisticocognitivi e teorici. Entrambi sembrano registrare un aumento decisivo all’incirca negli ultimi cinque anni. Si nota un progressivo incremento di articoli dedicati alla religione e all’identità/agency e di temi linguisticocognitivi a partire dagli anni 1996/2000 e una diminuzione negli stessi anni dell’interesse per l’iconografia, al cui picco negativo ne corrisponde uno di segno opposto ma

Tra 1988-95 e 1996-2009 aumenta la distanza in termini assoluti tra l’utilizzo di artefatti e documenti scritti concepiti come fonti separate e indipendenti, diminuisce l’utilizzo dei resti botanici e faunistici, mentre accresce quello dei dati ottenuti dalle prospezioni geofisiche, alla cui lettura o comunicazione vengono dedicati lunghi e dettagliati articoli (fig. 3.33)123. L’uso integrato di fonti scritte e materiali, sostanzialmente stabile a partire dal 1984, subisce un crollo negli ultimi dieci anni per sparire definitivamente nel 2005, mentre aumentano le ricerche geofisiche pressappoco nello stesso periodo. Quelle dedicate a scavi e ricognizioni tradizionali aumentano progressivamente e ininterrottamente a partire dalla metà degli anni Novanta fino al 2009, ma senza mai raggiungere all’interno dei singoli volumi i picchi raggiunti invece dall’uso di fonti materiali e scritte separatamente. Tra questi due tipi di fonti vi è evidentemente un rapporto, ma più che essere concepito come integrato al livello operativo risulta piuttosto gerarchico ed oppositivo. Non sfuggirà come, sia dall’osservazione di ogni singolo volume che dall’andamento di questi due supporti nel tempo, al picco positivo di uno corrisponde quello negativo dell’altro, segno evidente di una relazione escludente (fig. 3.34).

122  Hegmon 2003; su questa linea anche Watkins 2003; per un commento di queste posizioni Moss 2005 con replica di Hegmon 2005.

123 

66

Keay et alii 2000.

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.30. Grafico generale degli argomenti studiati negli articoli nel Cambridge Journal of Archaeology.

3.31. Grafico sulle variazioni degli argomenti studiati nel Cambridge Journal of Archaeology.

in quanto classi di materiali, mosaici e affreschi (18%). Il 16% sul totale è rappresentato dalla ceramica e il 12% da supporti epigrafici (marmi, stele funerarie ecc.) studiati per ricerche prosopografiche o soltanto in termini di classica emendatio e recentio. Il 9% è l’indice dedicato alle sculture, mentre solo il 2% è coperto da studi di numismatica che vedono cioè l’utilizzo esclusivo delle monete. Solo l’8% delle ricerche e degli studi fa perno invece sull’uso integrato di più fonti, mentre il 2% degli articoli fa uso di fonti che noi abbiamo considerato come “altre”, litica o ad esempio l’utilizzo di fotografie aeree di archivio (fig. 3.35).

A questo punto viene da chiedersi quali siano nello specifico gli artefatti utilizzati nei singoli studi, cioè in che percentuale essi si distribuiscano, non tanto nel tempo, quanto nel loro rapporto specifico, e in alcuni casi come quelli più complessi e sfaccettati della ceramica o della numismatica capire come siano utilizzati nell’affrontare e chiarire problemi storici e archeologici. La maggior parte degli artefatti risultano quelli afferenti a strutture architettoniche che rappresentano sul totale degli articoli visionati esattamente un terzo (33%). Non sorprende il fatto che subito dopo si riscontrino tra i più utilizzati e analizzati 67

L’ideologia degli archeologi

3.32. Grafico generale delle metodologie utilizzate per le ricerche negli articoli dei Papers of the British School at Rome.

3.33. Grafico delle variazioni delle metodologie e tipo di fonte utilizzate per le ricerche negli articoli dei Papers of the British School at Rome, con diversi direttori.

Ci siamo soffermati poi sul rapporto intercorso tra l’uso di determinati manufatti, come ceramica e monete, e lo studio delle tematiche per cui venivano utilizzati. Questo approfondimento analitico è scaturito da un’istanza operativa che le stesse classi di materiali esprimono. La diversificazione del loro utilizzo ci ha costretto a costruire un grafico che la esprimesse. L’artefatto, del resto, può essere interrogato in maniera molteplice per rispondere a temi e problemi anche semanticamente differenti. La ceramica, rappresentativa sul totale in maniera molto più solida della numismatica, condivide con quest’ultima la carica di molteplicità e si presta particolarmente a queste

relazioni artefatto-problema, proprio per i diversi significati di cui è portatrice. Questo interessante rapporto artefattotematica si unisce a un’altra questione di cui si è voluto testare il gradiente di utilizzo, quella dell’andamento della stagione tipologico-classificatoria. La domanda è: quale ruolo ha la ceramica nel mutato modo di fare archeologia e nella costruzione del discorso archeologico post(post) processuale? Il 63% degli studi ceramici condotti nei Papers tra 1984 e 2009 sono dedicati a studi di tipo economico si direbbe di impostazione sostantivista, come si è visto altrove 68

Inventario delle differenze. Dati, criteri e comparazioni.

3.34. Grafico delle variazioni reciproche tra le metodologie e le tipologie di fonti utilizzate per le ricerche negli articoli dei Papers of the British School at Rome

3.35. Grafico generale delle percentuali dei supporti materiali studiati negli articoli dei Papers of the British School at Rome.

moneta con scopo iconografico (fig. 3.36). Nessuna o scarsa attenzione è dedicata invece a studi di tipo cronotipologico, della riproposizione cioè ad un migliore inquadramento di nuove sequenze ceramiche finalizzato alla datazione o alla definizione di nuove funzioni cultuali, politiche o culturali.

per altre riviste in calo progressivo. Il 17% coinvolge la ceramica e lo studio epigrafico, di graffiti dunque, marchi di fabbrica, bolli, tituli picti, ecc. col solo scopo di lettura o prosopografico o di attribuzione a individui o a serie. L’8% delle ceramiche vengono utilizzate a scopo iconografico, dunque concentrandosi sulle decorazioni presenti sul supporto. Per la numismatica invece il rapporto è invertito rispetto alla ceramica. Solo il 4% di indagini numismatiche è utilizzato per tematiche economiche, mentre l’8% si concentrano sulla leggenda presente sulla 69

L’ideologia degli archeologi

3.36. Grafico delle percentuali di studi presenti negli articoli dei Papers of the British School at Rome che utilizzano l’instrumentum secondo un determinato approccio.

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4 Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio. Dislocare la parola, è fare una rivoluzione. Roland Barthes1 La rivoluzione non è un atto tumaturgico, è un processo dialettico di sviluppo storico. A. Gramsci 4.1. La comparsa del Journal of Roman Archaeology1

anglofoni (fig. 4.1). Le altre nazionalità sono divise in ordine decrescente in quella italiana (10%), francese (7%), tedesca (5%) e spagnola (4%). Un 9% sul totale è riservato ad altre nazionalità (rumena, serba, polacca etc.) e un altro 10% ad articoli scritti a più mani da autori di differenti provenienze. Se ci addentriamo nel dettaglio volendo verificare all’interno della compagine anglofona la proporzione che esiste tra le due diverse sponde dell’Atlantico si noterà una leggera preponderanza degli autori britannici (fig. 4.2). Occupandoci invece dell’andamento di queste proporzioni nel tempo, nell’intervallo compreso tra il 1988 e il 1992 gli autori britannici risultano la maggioranza assoluta con una evidente sproporzione sugli altri. Quelli francesi superano in numero quelli americani che eguagliano quelli spagnoli e italiani. Nel quinquennio successivo (1993-1997) si ha invece un picco di autori americani, una parallela diminuzione di quelli britannici e un aumento sostanziale di “altre” nazionalità e articoli redatti in équipe.

Pubblicato negli Stati Uniti a partire dal 1988 (lo stesso anno di nascita del JMA), il JRA è divenuto rapidamente una rivista di primaria importanza e un punto di riferimento per chi si occupa di archeologia del mondo romano e non solo, soprattutto per la riconosciuta qualità degli articoli. Dall’editoriale pubblicato on line si possono leggere i propositi e gli obiettivi della rivista riguardo ai limiti cronologici: “The journal will be concerned with Italy and all parts of the Roman world from about 700 B.C. to about A.D. 700. It will exclude the prehistoric period but include the Etruscan period”; quelli geografici: “It is intended to be Mediterranean-wide in its coverage, and is not intended to give priority to any particular geographical regions within the Roman world”; linguistici: “Contributions will be printed in any of the following languages: English, French, German, Italian, and Spanish”; e tematici: “Articles should be of interest to a broad cross-section of Roman archaeologists and historians. They may be syntheses with bibliography of recent work on a particular aspect of Roman archaeology; or summaries with bibliography of recent work in a particular geographical region; or articles which cross provincial or other boundaries in their subject matter; or articles which are likely to be of interest to a broad range of Roman archaeologists for their theoretical or methodological aspects”.

A partire dal 1998 fino al 2009 sembra di poter isolare alcuni trend il cui andamento risulta meno sincopato rispetto al decennio precedente. Lentamente, ma progressivamente, la presenza americana si affievolisce mentre quella britannica, senza subire significative variazioni, tra il 1993 e il 2009 si stabilizza a poco meno di 1:3 del totale (27%). Un aumento continuativo a partire dal 1997 si ha nella presenza degli autori italiani che si stabilizza al 16% sul totale nel quinquennio 2004-2009, andando quasi ad eguagliare quella americana che si ferma al 18%. Dopo un incremento nel quinquennio 1998-2003 la presenza di autori francesi, tedeschi e di “altre” nazionalità diminuisce nell’intervallo successivo fino a attestarsi rispettivamente al 3%, al 6% e al 7%, mentre la quantità di autori spagnoli decresce notevolmente fino a raggiungere il 2% sul totale. Un vero e proprio balzo in avanti subiscono gli articoli scritti in collaborazione tra autori di nazionalità differenti, che passano dal 6% nel quinquennio 1998-2003 al 21% in quello successivo, segno che il JRA incoraggia questo tipo di articoli provenienti di solito da ricerche frutto della sinergia di più istituzioni accademiche (fig. 4.3).

Anche se la rivista “does not intend to publish preliminary excavation reports” è presente una sezione dedicata a comunicazioni di questo tipo e a studi che hanno a che fare più intimamente con la pratica archeologica o con lo studio dei materiali (le Archaeological notes); in generale l’interesse è rivolto verso “All aspects of archaeology, by the broadest interpretation of that word, will be relevant for inclusion, including historical material which has an archaeological component or which is likely to be relevant for archaeologists”; inoltre una parte cruciale è riservata alle recensioni e commenti di libri, articoli e altri eventi che concernono l’archeologia romana2. Si è dunque andati a verificare tali propositi visionando 229 articoli pubblicati tra il 1988 e il 2009. In termini assoluti la stragrande maggioranza (più della metà) degli autori presenti nella rivista risultano essere 1  2 

Le conseguenze della collaborazione tra ricercatori e istitu­ zioni diverse si possono apprezzare se si analizzano gli idiomi degli articoli pubblicati. Nonostante il proposito di pluralismo linguistico dichiarato nell’editoriale programmatico, gli articoli scritti in lingue che non siano l’inglese sono solo un

Barthes 1966. http://www.journalofromanarch.com/editorial.html.

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L’ideologia degli archeologi

4.1. Grafico generale sulle nazionalità degli autori presenti nel Journal of Roman Archaeology.

4.2. Grafico sulle nazionalità degli autori raggruppate per blocchi linguistico-culturali nel Journal of Roman Archaeology.

1:10 sul totale e in ogni singolo volume non superano mai il numero di 2, a eccezione del volume pubblicato nel 1995 in cui compaiono 5 articoli di cui 2 in francese e 3 in spagnolo. La relazione tra l’internazionalizzazione degli autori che scrivono un solo articolo e la scarsa o inesistente presenza di articoli scritti in altri idiomi rispetto all’inglese ci è data anche dalla constatazione che a partire dal 2005 l’uso di altri idiomi scompare (fig. 4.4)3.

Com’era prevedibile la stragrande maggioranza degli articoli hanno come contesto d’indagine il periodo romano; la sola segnalazione che si può fare è quella che l’altro periodo più trattato è il tardo antico che rappresenta il 6% sul totale con 14 articoli (fig. 4.5).

3  Cosiderando che nel volume del 2009 compare un articolo in spagnolo di A. Monterroso Checa (Magni nominis umbra (Lucan, BCiv 1.135) entre onomástica y topografía en torno al theatrum Pompei, 29-45), si

deve però tenere presente che lo stesso volume contiene ben 17 articoli rispetto ad una media generale di 10 articoli a volume. La sproporzione resta comunque alta.

La geografia del JRA vede come campo privilegiato d’indagine l’Italia, seguito dalle ricerche che riguardano

72

Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio.

4.3. Grafico delle variazioni di nazionalità tra autori degli articoli del Journal of Roman Archaeology.

Se ragioniamo sulle variazioni a intervalli quinquennali intercorse tra il 1988 e il 2009 e le confrontiamo con quelle annuali, l’importanza dell’Italia come spazio di concentrazione degli sforzi viene confermato. La Gallia subisce lentamente una contrazione mentre acquista importanza la Britannia a partire dal 1998. In generale si registra una diminuzione di ricerche su specifici contesti geografici in favore di analisi iconografiche, economiche o sociali che hanno l’intero impero romano come prospettiva d’indagine. La rinnovata attenzione sulla Britannia romana passa attraverso articoli e autori che richiamano tematiche e approcci postcoloniali, come la comparazione di J. Webster6 tra sistema schiavistico romano in Britannia e quello praticato nelle Americhe o in ogni caso attraverso approcci postprocessuali come l’articolo di M. van der Veen che, attraverso lo studio dei residui di alcune piante usate per scopi alimentari, studia i cambiamenti e le diversità del consumo di cibo proponendo una sorta di embodiment di quest’ultimo in cultura materiale (fig. 4.7)7.

4.4. Grafico sulla presenza della lingua inglese rispetto agli altri idiomi nel Journal of Roman Archaeology.

La particolarità del JRA è che esiste e è consultabile sul sito ufficiale un indice dettagliatissimo degli articoli organizzato per topics8. Ovviamente qui non si è seguito quell’indice procedendo secondo la classificazione più volte discussa e proposta, così che ad esempio gli articoli che lì si trovano sotto la voce Mosaics si trovano qui accorpati a quelli sotto la voce Portraits in un’unica categoria che è quella dell’arte-iconografia. Allo stesso modo articoli che nel sito vengono messi sotto la “topica” Vitruvius saranno

tutto il mondo romano, come ad esempio quella di R. P. Duncan-Jones sull’impatto della peste durante il regno di Antonino4 o quelle di W. Scheidel e A. Wilson sugli indicatori di una possibile crescita economica nel mondo romano5. L’Oriente rappresenta il terzo polo d’attrazione della rivista mentre le altre zone geografiche sono presenti all’incirca nelle medesime proporzioni (fig. 4.6).

Webster 2009. Van der Veen 2008. 8  http://www.journalofromanarch.com/articlestopic.html. 6 

Duncan-Jones 1996. 5  Scheidel Friesen 2009; Wilson 2009.

7 

4 

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L’ideologia degli archeologi

4.5. Grafico dei periodi studiati negli articoli del Journal of Roman Archaeology.

4.6. Grafico dei contesti geografici studiati nel Journal of Roman Archaeology.

qui insieme a quelli della “topica” Baths, ricongiunti sotto la medesima categoria di architettura. Dall’analisi così organizzata emerge che proprio quest’ultima è la topica principale della rivista in modo molto marcato, con una precisa volontà di richiamarsi al tema “architettura” come intento programmatico sin dal titolo. Seguono poi gli articoli che affrontano il tema economico, leggermente spostati verso posizioni diciamo “formaliste”, quelli che si occupano di iconografia e infine un particolare tipo di ricerca che nel grafico abbiamo denominato come city/ landscape ma che più propriamente Pierre Leveau, proprio

in un articolo pubblicato nel JRA, ha definito sitologie9: la pratica cioè di descrivere, analizzare e interpretare un contesto archeologico ristretto, un sito appunto o un comprensorio. Presenti in quantità nettamente inferiori sono da segnalare poi le ricerche dedicate allo sviluppo della tecnologia del mondo antico, quelle sugli studi di topografia antica,

9 

74

Leveau 1996.

Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio.

4.7. Grafico delle variazioni tra i contesti geografici presenti negli articoli del Journal of Roman Archaeology.

Diminuiscono gli articoli sulla storia delle religioni, quelli sulle descrizioni “sitologiche” e le ricerche sul paesaggio delle ville; aumenta invece la romanizzazione, gli studi sul sistema schiavistico-mercantile antico e sull’organizzazione sociale e militare dell’esercito. Nel quinquennio 2004-2009 il peso rispettivo di ogni singola tematica presa in esame si stabilizza secondo le proporzioni riportate nel grafico di figura 4.9, in cui la “triade” relazionale economia-tecnologia-demografia occupa il 23% del totale, mentre l’iconografia il 16% e 19 è la percentuale dell’architettura. Sitologia e tecnologia si attestano rispettivamente al 10 e al 7%.

principalmente in Oriente, come quello di McKenzie su Alessandria o quello di Karamut e Russell sulla città di Nephelis in Cilicia10, il tema della romanizzazione e della storia delle religioni e quello dello sviluppo del sistema della villa, analizzato a partire della sua penetrazione nel contesto provinciale fino alla sua crisi, come nell’articolo di T. Lewit sulla contrazione tra V e IV sec. d.C. (fig. 4.8) 11 . Mi preme sottolineare in questo quadro come molti degli articoli sulla tecnologia siano impostati per affrontare il tema dell’innovazione del mondo antico12, dunque non la tecnologia da un mero punto di vista tecnicoingegneristico ma inquadrata nel più ampio contesto della natura dell’economia antica, come ad esempio l’articolo di Kevin Greene sul rapporto tra innovazioni ottenute nel mondo romano e soluzioni tecnologiche sviluppate nel medioevo13. Inoltre, a tal proposito, sarà interessante notare che i soli articoli che trattano esplicitamente di “teoria” e modelli riguardano proprio l’ambito economico; tra questi quello di Woolf sul World-System Analysis di Immanuel Wallerstein e la sua applicabilità all’impero romano, di Whittaker sulla consumer-city e quello di Greene sull’uso di modelli statistici nello studio della ceramica14.

L’analisi dei materiali ci dà delle proporzioni più equilibrate tra l’utilizzo di varie serie documentarie o uso integrato di esse. I manufatti sono i più utilizzati col 43% sul totale; l’uso di fonti scritte, dello scavo e della ricognizione si attestano entrambi al 13%, mentre al 20% arriva l’uso integrato di fonti scritte e fonti materiali e al 9% l’uso integrato di più serie. Solo il 2% è rappresentato dall’utilizzo o lo studio esclusivo di reperti faunistici e botanici (fig. 4.10). Dal grafico di figura 4.11 invece si deduce un costante incremento degli artefatti come serie documentaria privilegiata, mentre più altalenante è l’andamento di quelle ricerche e di quegli articoli che usano entrambe le serie, quelle scritte e quelle archeologiche. Interessante è anche notare il progressivo e costante aumento degli studi a base documentaria multipla, che cercano cioè di integrare fonti scritte, scavo, studio dei materiali e dei reperti botanici e faunistici al fine di ottenere una storia “totale” sotto il punto di vista degli approcci, e il parallelo calo dell’utilizzo esclusivo delle fonti scritte.

Tali tendenze sembrano consolidarsi col passare degli anni. L’architettura diminuisce drasticamente in favore degli studi a carattere iconografico e di storia dell’arte. L’interesse per gli aspetti tecnologici rimane stabile mentre cresce quello per temi economici tout court parallelamente agli studi sulla demografia antica connessi con l’economia. Mckenzie 2000; Karamut, Russell 2004. Lewit 2004. 12  La questione rimonta a Finley 1965 sino all’ultima messa a punto proprio del discorso finleyano in Greene 2000. 13  Greene 1994. 14  Greene 2005; Whittaker 1990; Woolf 1990. 10  11 

Se andiamo più a fondo e analizziamo nel dettaglio il rapporto tra le due serie documentarie per eccellenza 75

L’ideologia degli archeologi

4.8. Grafico sugli argomenti trattati negli articoli del Journal of Roman Archaeology.

4.9. Grafico delle variazioni tra gli argomenti studiati nel Journal of Roman Archaeology.

dell’archeologia classica si registra un’alta percentuale dell’uso dell’epigrafia sul totale delle fonti utilizzate attestato al 41% (fig. 4.12). Di quest’ultima il 28% utilizza l’instrumentum come categoria d’analisi per lo studio storico; se prendiamo a esempio quella particolare classe ceramica rappresentata dalle anfore, a partire dal 1999, notiamo nel tempo una flessione fino al definitivo eclissamento, per riapparire in un solo articolo nel 2009 (fig. 4.13).

L’importanza che col tempo sembra acquisire la rivista (al di là della qualità delle ricerche in esso pubblicate), è confermata dall’aumento progressivo del numero di articoli (qui non sono contati gli Archaeological notes) segno che la sua “potenza” editoriale è accresciuta col tempo e sempre più sono gli autori che ambiscono a vedere un proprio articolo pubblicato sul JRA (fig. 4.14). Ma l’indice del vero e proprio fenomeno di attrazione che esercita la rivista è nell’esplosione delle recensioni di libri, colloqui o nuove 76

Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio.

4.10. Grafico delle metodologie e tipi di fonti utilizzate per le ricerche presenti nel Journal of Roman Archaeology.

4.11. Grafico delle variazioni tra le metodologie e le fonti utilizzate per le ricerche del Journal of Roman Archaeology.

ma sono anche strumento, aggiungo io, di reale propagazione egemonica. Le recensioni producono e influenzano le opinioni, creando intorno a una problematica consenso o dissenso, andando a formare la base culturale su cui esercitare e con cui riprodurre tale egemonia, indirizzando gli studenti verso certe letture piuttosto che altre.

riviste. Prima pubblicate in un unico volume insieme agli articoli e agli Archaeological notes, le recensioni vengono raccolte in un solo e autonomo volume a partire dal 1999. Kristian Kristiansen in più interventi ha sottolineato come le reviews siano indice di un’accresciuta e reale autorevolezza di cui gode una rivista, per cui gli autori cercano legittimazione da parte di un’autorità che li elevi al loro “rango” e che li accolga in quella potente e riconosciuta comunità scientifica15,

15 

Nell’anno in cui il JRA subiva il suo sdoppiamento pubblicando in due volumi distinti gli articoli e le recensioni e accrescendo così la sua forza editoriale, gli editori del JMA salutavano “the remarkable success of the Journal

Kristiansen 2001, 2008b.

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L’ideologia degli archeologi

4.12. Grafico delle tipologie di supporto materiale utilizzato per le ricerche del Journal of Roman Archaeology.

4.13. Grafico degli articoli che utilizzano come specifica fonte materiale le anfore.

of Roman Archaeology (launched in the very same year as JMA)”, ma mettevano in guardia “about its impact on the ability of a journal such as JMA to provide a chronologically balanced sample of current research, Mediterranean-wide (enfasi mia)”16. In sostanza la preoccupazione di Knapp e Cherry era quella che l’accresciuta autorevolezza del JRA attirasse sempre più archeologhe ed archeologi classici e soprattutto romanisti verso di sé, con conseguenze nefaste

16 

per gli obiettivi di “copertura” totale ambiti dal JMA, condannando quest’ultimo a veder sottorappresentato il periodo romano e l’Occidente mediterraneo. A distanza di dieci anni questa preoccupazione si è materializzata in qualcosa di più per il JMA che ne ha messo a rischio la stessa sopravvivenza. In un appello diffuso a tutte le più importanti università (tra cui quella di Cambridge) i tre editori Cherry, Knapp e Van Dommelen dichiaravano di trovarsi “in a curious and frustrating position”, poiché non vi sono sufficienti manoscritti offerti alla rivista per la pubblicazione del volume di dicembre 2010 (JMA 23.2,

Cherry, Knapp 1999, p. 5.

78

Posizionamenti e rivoluzioni. Un esempio.

4.14. Grafico sull’incremento del numero totale degli articoli pubblicati nel Journal of Roman Archaeology.

which will thus, of course, be late, and likely will not appear until February 2011). Lo sconcerto degli editori è palpabile: “Given the reputation that JMA has achieved over the past (nearly) quarter century (or, perhaps, because of that reputation?), it is hard to understand why we have no copy. All three of us do whatever we can at conferences, workshops or visits to other institutions to promote the journal and to encourage submissions”. Gli editori non si capacitavano di queste difficoltà, dando come spiegazione che la forte reputazione della rivista avesse potuto scoraggiare gli studiosi a mettere le proprie ricerche al giudizio e all’approvazione del JMA, e cercarono poi di venirne a capo con opere di convincimento e pubblicità nelle università.

ma in più con la forza di un progetto politico identitario e un’azione capillare di costruzione del consenso sia a livello giuridico che istituzionale. Come già ho avuto modo di accennare, questi movimenti sono il segno che il Mediterraneo come oggetto di studio, come luogo di potere disciplinare ma soprattutto come spazio di riconciliazione delle differenze, ha esaurito definitivamente la sua forza aggregante che si è spostata al centro dell’Europa. L’unità del Mediterraneo si è disgregata di fronte ad una Europa che tenacemente cerca le radici culturali della sua unità politica (e metodologica)18. L’unità dell’archeologia europea non è data dagli obiettivi di una ricerca ma da un progetto identitario, il che personalmente non mi fa ben sperare. In questo quadro non sorprende che l’EJA si tenga ben alla larga dal periodo romano. Non tanto perché sia imbarazzante (in odore di politicamente corretto) in un’epoca post(post)coloniale costruire l’identità dell’Europa sull’immagine negativa che porta con sé l’“impero”, un’immagine coercitiva, accentrata e statica che mal si concilia con la ricerca odierna di un’unità “plurale” del vecchio continente. Infatti, il movimento centrifugo postcoloniale che ha liberato le storie delle singole province dall’attrazione delle prospettive romano-centriche è stato solo il punto d’avvio. Un altro meccanismo “identitario” più profondo ha fatto sì che l’Impero romano non potesse fornire le basi e il modello per l’odierna identità della nuova Europa. Ma piuttosto bisogna considerare che le province così liberate (per cui o si fa un’archeologia comparata delle province romane o non si fa archeologia) sono state assorbite e integrate nella storia nazionale di ogni singolo stato

Alla luce di quanto visto qui forse questa situazione sorprende un po’ meno. Il JRA ha attirato su di sé un gran numero di archeologhe e archeologi classici non solo romanisti e anche alcuni protostorici. L’EJA dall’altro lato ha invece convogliato su di sé un numero sempre maggiore di archeologhe e archeologi preistorici e medievali che sono trasmigrati dal Mediterraneo all’Europa attraverso l’efficace e sistematica opera di promozione e di organizzazione promossa dall’EEA (conferenze, colloqui, ecc.), la quale ha visto nel frattempo aumentare i suoi iscritti17. L’EJA garantisce cioè quella copertura geografica e cronologica a cui anche il JMA ambiva, La politica del consenso messa in atto dall’EEA si basa sull’allargamento della base sociale e culturale. Ad esempio, per intervenire ad un colloquio o essere invitati ad esporre un proprio lavoro al congresso annuale dell’EEA è sufficiente pagare una quota d’iscrizione e mandare un brevissimo abstract. A più persone è concesso di intervenire più ampio sarà il consenso e più larga l’attenzione alle iniziative e alle pubblicazioni dell’associazione.

17 

18 

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Biehl, Gramsch, Marciniak 2002; Minta-Tworzowska 2010.

L’ideologia degli archeologi europeo19, così che la storia della Britannia romana si inserisce in perfetta continuità e in evoluzione con la particolare storia dell’Inghilterra. Ai tempi dei romani i Romano-British erano più British che romani. Si capisce dunque come mai l’unità europea venga costruita a partire dalla più plurale e multietnica, ma al tempo stesso condivisa, cultura materiale del Bronzo europeo, rispetto alla monolitica e piatta cultura romana imperiale. Il Bronzo europeo è rimasto immune dalle forti nazionalizzazioni e dal nuovo processo di colonizzazione del passato, fenomeni di cui invece ha sofferto e soffre la storia romana in Europa. Ma soprattutto, come ebbe a affermare Paul Veyne in un’intervista sulle ragioni che lo spinsero a dedicarsi allo studio della civiltà greco-romana, il concetto di identità non aveva diritto di cittadinanza presso i greci e i romani: “l’Antiquité se caractérise par l’absence de susceptibilité identitaire: c’est une civilisation mondiale diffusée partout, la civilisation grecque dont Rome est la version en langue latine. D’où l’absence de drames ethniques, puisque ne s’est pas encore produite cette coïncidence de l’ethnie et de l’État qu’on appelle la nation. Quel soulagement!”20.

19  Per fare solo un esempio della complessità di tale fenomeno di incorporazione dell’Antichità all’interno della più vasta storia nazionale, si veda, per la Francia e la Germania, il contributo di Reddé, Von Schnurbein 2008 sul valore che col tempo hanno acquisito luoghi simbolo come Alesia o Teutoburgo nella costruzione dell’identità nazionale; per una recensione del volume Wells 2009. In Francia in particolare è indicativa la diatriba sull’identificazione esatta del sito di Alesia rivendicato da numerose comunità sul suolo nazionale sostenute dall’archeologia “non-ufficiale”, Reddé 2004. In Francia poi si è verificato in storiografia il lento slittare dell’identificazione come antenati, prima con i Carolingi e poi, a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo, con i Galli; su questo tema Detienne 2008; Mazza 2005; Nicolet 2003; Zecchini 2000. A tal proposito Christian Godineau, titolare della cattedra di Antiquité Nationale al College de France (nata nel 1905) tra il 1984 e il 2010, nell’ultimo anno del ciclo di lezioni affrontò proprio il tema del senso e dell’utilità dell’uso del patrimonio archeologico nel quadro della fabbricazione dell’identità nazionale, mettendo anche in discussione l’esistenza stessa di una tale cattedra. Allorché Godineau si ritirò per motivi di anzianità, l’insegnamento al College fu soppresso. 20  L’intervista è ripubblicata in Veyne 2005, p. 17. Sulla costruzione di radici identitarie nell’antichità classica Bettini 2000, 2001, 2005. Maurizio Bettini analizzando il libro XII dell’Eneide dimostra in maniera convincente come Virgilio ‘costruisca’, letteralmente, un’identità romana, attraverso la manipolazione delle genealogie per collegare le radici romane a quelle mitiche di Troia. Si chiede Bettini se Virgilio sia poi riuscito a ricostruire l’identità romana e quella latina. La risposta è no: “Dov’erano questi romani così troiani, così puri, così Iulii? Certo essi non esistevano da nessuna parte fuori dall’Eneide. […] Per definire i Romani come popolo, e stringerne i legami con gli Iulii, egli fondò l’identità di entrambi su una purezza troiana che non era mai esistita; mentre ridusse la parentela con i latini – una delle poche cose certe che c’erano dell’identità romana – distinguendoli genealogicamente (e geneticamente) dai Romani. Dell’identità ‘incompiuta’ dell’Italia romana fa parte anche questo tentativo di costruirne una troppo compiuta”, Bettini 2005, pp. 99-100.

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5 Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia. Forse piuttosto che parlarvi di come ho scritto quello che ho scritto, sarebbe più interessante che vi dicessi i problemi che non ho ancora risolto, che non so come risolverò e cosa mi porteranno a scrivere. Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e m’accorgo che quello che m’interessa è un’altra cosa, ossia, non una cosa precisa ma tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell’argomento determinato e tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un’ossessione divorante, distruggitrice, che basta a bloccarmi. Per combatterla, cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato dall’infinitamente piccolo, come prima disperdevo nell’infinitamente vasto. Italo Calvino1 Der liebe Gott steckt im Detail Aby Warburg 5.1. Frammenti da un manifesto.1

divenuto manifesto suo malgrado, tardi e completamente fuori contesto. In quel suo articolo (Archaeology as Anthropology) Binford non pensava minimamente di fondare una archeologia “nuova” né di porre le basi per una nuova pratica archeologica, almeno intesa nel senso che acquisì nel corso dei decenni successivi. Citato molto spesso, pezzo pregiato ed immancabile in una bibliografia, alle volte ci si è scordati di leggerlo con attenzione. La rottura con l’archeologia precedente voleva essere una proposta procedurale di come passato e presente dovessero comunicare, attraverso la congiunzione teorica rappresentata dal corpo epistemologico dell’antropologia sociale. Questo per la preistoria perlomeno e per l’archeologia americana, operante in un contesto “nazionale” molto particolare3. Lentamente la riflessione teorica portata avanti da Binford è stata spostata sul piano tecnico e da questo nuovamente sul piano teorico, ma stavolta con premesse del tutto diverse che non ricalcavano lo spirito del discorso originario. È stato questo il meccanismo che ha generato la polemica con i postarcheologi. Ma non solo questo, come avremo modo di spiegare. Stessa sorte è toccata all’articolo di Bintliff e Snodgrass sull’Urban survey teorizzato per alcune città della Grecia e non solo4. Nato come un articolo che a partire da alcuni casi particolari esaltava le potenzialità della ricognizione anche in contesto urbano, monopolizzato fino ad allora dallo scavo archeologico, è diventato molto più tardi il manifesto di rivendicazione di tutta la Landscape archaeology, contro la tirannia dello scavo in tutti i contesti archeologici del Mediterraneo.

Vi è un oggettivo problema nel definire che cosa sia un manifesto programmatico di una disciplina o di un movimento artistico. È una dichiarazione d’intenti, un progetto per il futuro, la formalizzazione di linee guida da seguire o più spesso la definizione di pratiche e paradigmi da abbandonare. Di solito il manifesto è dichiaratamente sovversivo, concepito come una rottura insanabile con quello che fino ad allora è stato il paradigma dominante. Il manifesto è anche per questa sua vena iconoclasta molto spesso confuso, inorganico, provocatore e caotico, distruttivo per lo più e ben poco costruttivo; può essere pensato e concepito come tale o può, come succede il più delle volte, diventare manifesto successivamente, quando le teorie o le scuole che prendono corpo da esso si formalizzano intorno all’idea da cui credono di essere generate. Ricostruendo la propria genealogia si addensano intorno a un punto e un’origine ideale. È l’ossessione del (Wunder) Ursprung (origine) che balena all’improvviso come una rivelazione e che tramuta una frase o uno scritto in un manifesto postumo, alla ricerca del fondamento originario, della provenienza di un’idea, del momento della sua nascita. È un gioco di prestigio, un artificio, un segreto di fabbricazione, un’operazione di magia nera2. In archeologia, a mio avviso, è questo il caso del ben noto manifesto della New archaeology di Binford Calvino 1993, p. 77. Su questi concetti di origine e genealogia nella storia, si veda l’introduzione della Genealogia della morale II, 6 e 8 di Nietzsche. Utile Foucault 1977, pp. 29-40 sulla differenza tra i diversi termini Ursprung (origine), Entstehung (provenienza), Herkunft (atto di nascita). Per il rapporto tra i diversi momenti genealogici e la storia Ivi, p. 40. Per Foucault “La genealogia, al contrario [… disvela] non la potenza anticipatrice di un senso, ma il gioco casuale delle dominazioni”, non c’è teleologia ma casualità, p. 38. Con tutte le cautele del caso è il concetto già espresso da Weber con la metafora del dado “truccato”, Bodei 1978. Alla probabilità e al controllo imposto dalla creazione dell’ideal-typus, si sostituisce il momento genealogico. Per Weber, teniamolo a mente, vi è un largo spazio tra caso e necessità, un ventaglio di frequenze non uguali tra fenomeni di uno stesso genere, Bodei 1978, p. 1427. 1  2 

C’è un legame tra uso disinvolto della genealogia, realtà storica “solida” e la sua dissolvenza5. Non importa l’origine strutturale, la realtà, ma il suo fraintendimento

3  Lo metteremo anche noi in vetrina come un pezzo pregiato, Binford 1962. 4  Bintliff, Snodgrass 1988. 5  Bradley 2002.

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L’ideologia degli archeologi e la sua mistificazione. Non per disvelare o correggere ma per assurgere il mito mistificato ad oggetto storico, in quanto esso diventa la costruzione, il riflesso e l’eco realmente operanti. Per capirsi: a Foucault non interessava ciò che veramente aveva detto Karl Marx (ossessione invece per Althusser) o Marcuse6, ma ciò che si era detto sui loro scritti, come erano stati interpretati e le costruzioni che dal loro pensiero erano scaturite successivamente. La realtà (di una teoria o della storia) non c’è non perché si sia deciso di metterla da parte ma semplicemente perché non è mai esistita o irrilevante. Almeno intesa in senso assoluto. E tantomeno esiste un discorso di verità sulla realtà. Comprensibilmente un archeologo si trova a disagio di fronte alla fine della storia proclamata dal postmoderno, se non altro perché ha a che fare con una cultura materiale che è solida, con i resti che stanno lì, tangibili, al tempo stesso fuori da noi e dentro di noi ma prodotti in un tempo e in uno spazio fisico esterno, “altro” da noi. È il discorso su questa “materia” che si introietta. La storia e il contesto archeologico tradotti in un testo scritto o in immagini o ricostruzioni tridimensionali sono come lingotti di ferro rifusi in nuove forme. Del resto, il testo nel momento in cui è scritto e compiuto sfugge al controllo del suo autore; donato in pasto al mondo viene inevitabilmente riscritto un milione di volte da chi lo legge e da chi ne sente parlare. Non appartiene più al suo autore e il grado di verità stabilito nel testo immediatamente muta di segno. La realtà che si cercava di raccontare, la storia, il discorso e la narrazione, già mille volte manipolati nella testa del loro interprete continuano il loro processo di trasformazione. A mutare e a cambiare sono i soggetti della responsabilità etica che sono chiamati a stabilire questo grado di verità storica. Il ricercatore, lo studioso, l’amatore, il pubblico, l’ideologo o la società civile si caricano di una responsabilità etica. È politica questa? Non lo so. Ma non spingiamoci oltre. Si parlava di Binford. Come e se citarlo.

tutte. Qualcuno che cita in bibliografia, piuttosto che leggere di prima mano un testo non fa altro che mettere in pratica alcune delle aporie e dei meccanismi retorici e argomentativi su cui si basano le scienze sociali. Vi è qui tutta la logica delle “rivoluzioni scientifiche nelle scienze umane”, un racconto che ancora deve essere scritto e che non ha niente a che fare con Kuhn. Ma su questo vi torneremo nelle righe conclusive. Un manifesto può diventare un solido paradigma che cade appena qualcuno si prende la briga di rileggerlo con occhi attenti. È per questo che qui affronteremo alcuni manifesti recenti (tra i tanti), apparsi nelle riviste prese precedentemente in esame, nella speranza di chiarirne la portata rivoluzionaria paradigmatica ed egemonica. 5.1.1. Archeologia, simmetria e atti poietici. Nella nostra analisi di riviste e giornali dedicati all’archeologia sia anglo-americana che europea (cfr. cap. III), si sono rinvenuti una serie di articoli pubblicati negli ultimi anni, da cui sono deducibili due distinti (ma non troppo) “manifesti” archeologici che ben esemplificano due tra le principali tendenze teoriche di questi ultimi anni. In questo caso siamo autorizzati a considerarli come manifesti programmatici poiché la parola “manifesto” compare nel titolo stesso e scaturisce dalle intenzioni degli autori di stabilire un momento di rottura con le prospettive fin qui utilizzate. Uno risale al 2007 e comprende una serie di articoli pubblicati su World archaeology dedicati a quella che gli autori chiamano “archeologia simmetrica” dal sapore latouriano7. Tale prospettiva “simmetrica”, che io accomuno alle posizioni fenomenologiche e all’origine degli approcci neo-ontologici e neo-materialisti imperanti in questo momento in archeologia8, viene portata avanti da un gruppo di transfughi postprocessuali formatisi a Cambridge e ora di base quasi tutti negli Stati Uniti, tra l’Università di Stanford e la Brown. Tra i transfughi illustri ricordiamo inoltre Hodder, Shanks e Gonzàlez Ruibal9. Il dibattito poi è cresciuto e si è alimentato attraverso discussioni libere su blog e piattaforme multimediali diversificate, nonché attraverso una pioggia di pubblicazioni sull’argomento.

Occupiamoci della citazione in sé. Il fatto che si citi, senza leggere, non vuole essere una polemica sterile. Non si vuole certo qui accusare senza fare nomi di un meccanismo di cui sicuramente è vittima questo stesso elaborato. Mi interessa qui stigmatizzare un certo uso ed un certo tipo di citazione. È la citazione come legittimazione, l’autorevolezza a portata di mano, costruita in poche righe che va ridotta, invece che quella costruita in anni di duro lavoro, spulciando testi, immagini, materiali, ristudiando di nuovo il già stabilito e letto. C’è dunque un uso buono e un uso cattivo di questo modo di procedere (e qui non si vuole asserire di farlo correttamente). Altre volte l’errore, la manipolazione originaria e l’autorevolezza che porta con sé la citazione si accumulano nel tempo e negli anni reiterando paradigmi ed interpretazioni maldestre che lentamente diventano tossiche come acido che corrode ma che, ancor più faticosamente e lentamente, si riesce a sgretolare. Come si diceva non è semplice cavillosità ma fa parte di un meccanismo che riguarda l’evoluzione e la formazione dei paradigmi delle scienze umane

L’altro manifesto, uscito nello stesso anno sul Cambridge Archaeological Journal, prende avvio da un articolo che sintetizza e riunisce in forma coerente tutta una serie di istanze e procedure portate avanti in archeologia sia all’interno della rivista stessa che dal lavoro promosso dal McDonald Institute for Archaeological Research di Cambridge, notoriamente espressione di una forte tradizione processuale. Tali temi, dunque, sono condivisi in parte sia dai post-archeologi, legati soprattutto alla riflessione di Michael Shanks e ai suoi studi su arte e archeologia in Grecia arcaica10 ma, anche in connessione Olsen 2006; Webmoore 2007; Witmore 2007. Hiks, Beaudry 2010; Hicks 2010; Olsen 2010: Kristiansen 2017. 9  Gonzàlez Ruibal 2007a; 2007b. 10  Su arte e archeologia in Grecia durante l’arcaismo Shanks 1995. Molto più diffuso Shanks 1999, su arte e interpretazione archeologica per la nascita della polis in Grecia. Sullo stesso argomento Shanks 1998. Sull’archeologia classica come disciplina Shanks 1992, 1996. 7  8 

6  Il riferimento è ovviamente al celebre libro di Perlini, Che cosa ha veramente detto Marcuse Roma, 1968.

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia. filogenetica, con gli ultimi lavori di Colin Renfrew sullo stesso tema in preistoria11. Il manifesto si propone in ultima analisi di indagare le possibilità operative offerte dallo studio e dalle metodologie impiegate per l’analisi dell’arte contemporanea, intesa come arte tout court soprattutto nelle sue caleidoscopiche manifestazioni visuali e digitali12. Ci interrogheremo sul momento storico e sul perché questi due manifesti siano usciti contemporaneamente.

di mezzi che lo compone. La ricerca è dunque mediazione nel senso ermeneutico ma anche mediatico: “Here, in a symmetrical attitude, this translation into medium is recognized as a dynamic process- with ‘the past’ existing in its re-presentation; with text being the process of inscription; with medium being the process of mediation. We can also call this a poetics (corsivo mio)”17. La mediazione stessa è dunque un processo creativo che concerne la ricostruzione, la riproduzione e il disvelamento di relazioni e connessioni. Il passato non è un oggetto o un dato ma una rete di relazioni che continuamente mutano e si ricostituiscono, così come con la memoria è la rievocazione del sistema di relazioni passato-presente in essa concentrati: “we re-evaluate the significance of the past in the light of what is happening to us now, through the past circulating around us, and so we come to retell the past in a new way”18.

5.1.2. Simmetria e (ri)contestualizzazione: la fine del soggetto e l’era post-umana. Cominciamo dall’articolo “simmetrico” di Michael Shanks. Come già sostenuto altre volte13, Shanks ritiene che il passato ed il presente siano morfologicamente simili, prodotti di un medesimo processo. La simmetria è dunque una qualità temporale ma anche una relazione perduta da ricucire: “Symmetry here also holds that we are not essentially different from those people and those remains we study. We are all bound up in different kinds of relationship with the materiality of the world, whether working to make artifacts, ourselves, or to forge narratives out of memory artifacts. There is a continuity between the process of making that archaeologists study and the archaeological process of working upon remains of the past”14.

In questo quadro l’archeologia contestuale19 non basta più a riconoscere queste complesse connessioni tra reti di rapporti. L’archeologia contestuale, infatti, opera ricostruendo una tipologia ben determinata di rapporti, cioè “quelle situazioni in cui uno o più oggetti e o le tracce (materiali e immateriali) di una o più azioni si presentano in un sistema coerente nel quale le diverse componenti si collocano in un rapporto reciproco nello spazio e nel tempo sulla base di relazioni di carattere funzionale (e culturale)”20. Questo può avvenire solo in un passato concepito come dato e reale, in un contesto realmente definito e concluso. Con il continuo percolamento del passato nel presente, e viceversa vi è invece un movimento, un processo continuo, una mediazione che trasforma il passato in un manufatto e dunque anche in una ricostruzione continua dei sistemi di fenomeni distribuiti e delle reti che lo formano, che si sfaldano e si risaldano. La realtà nel suo insieme perde di profondità spaziale e temporale e diventa un magma incandescente in perenne trasformazione. Ecco perché l’atteggiamento simmetrico è per Shanks distribuzione e (ri)contestualizzazione. Il contesto del passato non è contestualizzato per sé ma per e nel presente contesto della ricerca, ricontestualizzato cioè doppiamente contestualizzato.

L’archeologia simmetrica è al tempo stesso una visione complessiva, un approccio, un’attitudine e un processo creativo: “The past is constantly being recreated because the past is a process, a trajectory, a genealogical relationship with present and future”, senza che questo però comprometta l’ontologia del passato stesso15. La simmetria è riconoscere come i frammenti del passato percolino continuamente nel presente, formandolo, costruendolo e influenzando come vera e propria modalità in cui nel presente viene costruito il passato. Ecco perché Shanks parla di (ri)produzione e rappresentazione del passato. Quest’ultimo a sua volta ha un ruolo attivo nella rappresentazione e costruzione stessa del presente16, dotato com’è di una forza involontaria e inanimata che lo sospinge sino alle soglie del presente e oltre. La ricerca archeologica così concepita è anche mediazione e traduzione dei resti archeologici in testo, in immagine e materia, in qualcos’altro da sé, ma che è sempre uguale a sé stesso, in un nuovo linguaggio e in significati comprensibili al presente, grazie e attraverso un network

L’archeologia simmetrica non è una nuova scoperta, ci tiene a ribadire Shanks, ma possiede una lunga genealogia (altro termine chiave per definirla). Tale genealogia parte dal presocratico Eraclito, passando per Marx (il primo Marx ci tiene a ricordare Shanks) attraverso la “Hegel’s philosophy of internal relations”21 (si immagina la dialettica Hegeliana, dunque). Ma la genealogia stabilita dall’autore abbraccia tanto Foucault e Derrida così come Adorno e Benjamin, i cui nomi rimandano a “familiar

11  Renfrew 2003; Renfrew, Gosden, Demarrais 2004b, quest’ultimo non a caso pubblicato dal McDonald Institute, proprio su archeologia ed arte; Renfrew, Gosden, Demarrais 2004a indaga invece i meccanismi che intercorrono tra cultura materiale, le cose e la mente umana. Un ripensamento (rethinking) della materialità che coinvolge l’aspetto cognitivo, ma che stabilisce anche l’atto creativo della mente nei confronti del mondo materiale, il suo modo di concepirlo, plasmarlo e di relazionarsi con esso. 12  Cochrane, Russell 2007. 13  Shanks 1992, 1996, 1997, 1998, 1999, 2004, 2005; Shanks et alii 1995; Shanks, Tilley 1987a, 1987b, 1989. 14  Shanks 2007, p. 591; su questo punto della continuità tra formazione del record archeologico e formazione del presente Lucas 2001. 15  Shanks 2007, p. 591. 16  Ivi, p. 592.

Shanks 1992; 2000. Shanks 2007, p. 593. 19  Quella per capirsi, delineata in più lavori successivi da Hodder 1982a, 1982c, 1986, 1987a, 1990a,1991b, 1991c. 20  Manacorda 2004a, p. 6. 21  Shanks 2007, p. 593, citando in bibliografia McGuire 1992 per la ricezione di questa tradizione in archeologia. 17  18 

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L’ideologia degli archeologi connections”22. In ultima analisi la simmetria è un termine che riassume e compendia buona parte dell’approccio della filosofia occidentale degli ultimi cento anni. Ma non solo. Ispirata profondamente alla concezione estetica dell’arte contemporanea la simmetria avrebbe a che fare anche con la “human self-construction and technical co-creation”, con la “technoscience and post-humanist thought (in the humanities) – dismantling the essentialist distinctions between humans and machines”23 cioè con la sociobiologia. Soggetto e oggetto, passato e presente, ricerca archeologica e reperti, sarebbero tutti artefatti, costruzioni, reti di rapporti, financo identità. Questo processo, come più volte ricordato, implica sia il passato che il presente. La genealogia, che ci ricorda Shanks “is continuity and connection without implying necessary identity or sameness” (ma in riferimento all’“intellectual genealogy” non alla natura del dato archeologico o all’uomo in quanto agente), rischia di eclissare la profonda diversità che intercorre tra interpretazione (parola invisa all’autore) e realtà passata: ancora una volta è l’inventario delle analogie a prevalere, e la continuità. Un’analogia che si rivela ben più profonda in questo caso, non solo operante a livello di oggetto nella sua qualità ontica, ma anche a livello ermeneutico, ovvero di metodo ed epistemologico, facendo coincidere il processo di indagine e di formazione del discorso sul passato con il passato stesso. Non c’è più la tensione correttiva rappresentata dalla realtà materiale e dal corpo solido delle tracce archeologiche24.

Curiosa la chiosa finale di Shanks che sentenzia: “Perhaps ultimately a symmetrical attitude hinges upon conceptions of historicity – what it is to be an historical agent – for its underlying premise is that historical process is best understood as the outcome of human creativity: a dispersed creativity belonging to collective assemblages that denies the conventional (Cartesian) distinctions between maker and artifact, design and realization, individual and cultural context.”29. Storicismo e creatività dunque. La ricostruzione del passato è un atto creativo perché creativo e poetico è l’oggetto dello studio, ovvero la storia con la sua materialità e la sua necessità socio-tecnologica. L’individuo, appena fatta la sua comparsa nel post-mondo, viene riassorbito in un nuovo sociale, in una collettività diversa e in una storia bio-dinamica, tecno-mentale, micro-fisica senza potere30. Il concetto di genealogia è il concetto chiave per esprimere tutto il ragionamento. Del resto, si insiste molto sul fatto che l’archeologia simmetrica non sia una nuova scoperta e che soprattutto non sia un ennesimo imprestito dagli altri campi di studio. Nonostante si basi sulle riflessioni di numerosi filosofi della scienza come Thomas Hughes, Donald Mackenzie, Pierre Lemonnier, Mike Schiffer, Michel Callon e certamente Bruno Latour31 la simmetria non è un concetto o un paradigma ma un termine sintetico che esprime una funzione: essa metterebbe in discussione “the character of disciplinary coherence and suggests some new kinds of crossdisciplinary articulation” fino a divenire quasi un imperativo morale32. Ciò che mi interessa mettere in luce è la continuità epistemica che si cerca di esprimere attraverso il ricorso alla genealogia della storia, una continuità che non è transizione unilineare da una forma all’altra ma connessione istantanea tra passato e presente. L’immagine è quella del tempo che si ripiega su sé stesso come lo spazio di Einstein. Non si rompe con il passato ma non si germina da esso; si crea piuttosto una accelerazione semantica in un punto preciso del passato che assurge istantaneamente a tradizione33, invertendo uno

Gli strumenti teorici su cui questi assunti sono basati sono quelli già ampiamente analizzati di Latour25, Callon e Law26 e le loro riflessioni sulla fine dell’individuo e sulla sua inevitabile fusione e riproduzione con e tramite la tecnologia con la parte materiale dell’esistenza, attraverso cui l’individuo e la società agiscono, si esprimono e trasformano l’ambiente intorno a sé nell’era post-umana, post-umanista o postuma27. L’intenzione, lo ribadisco, non è quella di reificare l’uomo ma piuttosto quella di umanizzare la cosa. Il post-umano-umanesimo-postumo è inteso nell’archeologia simmetrica non come l’annullamento dell’individuo ma di un certo tipo di individuo, quello che utilizza la logica cartesiana, l’individuo razionale, analitico, che deve lasciare il posto a un ente espanso in cui si addensano rapporti e reti di relazioni multiple così fitte da dissolverne la sostanza. Tali reti si inverano attraverso un processo di embodiment e si veicolano attraverso la potenza dell’emozione, della percezione e della creatività28.

is difficult to conceive of without an onthological framework where subject and object are set apart. As an act, a doing, embodiment necessarily implies the possible existence of a prior phase of separation (‘non-embodiment’) when mind and matter existed apart. In other words, things, bodies, nature, originally, are not part of the social, but may eventually be included and endowed with history and meaning by some human generosity: donor culture (enfasi nostra)”, Olsen 2007, p. 584; Tilley 1994; Tilley 2004. Damasio 1999 sull’importanza delle “sensazioni empatiche” nella comprensione della storia; ibidem 1994 sugli “errori” della logica cartesiana che trascurerebbe gli strumenti di accesso diretto al mondo esterno; Hayles 1999. 29  Shanks 2007, p. 594. 30  Foucault 1977. 31  Callon, Latour 1992; Latour 1991, 2005. 32  Shanks 2007, p. 594. 33  Il procedimento è quello della costruzione della genealogia delle prime aristocrazie greche alle soglie della storia analizzato da Bruno Snell. Queste, fuoriuscite da un’epoca incerta di cui non si conservava la memoria (Dark Ages), si trovarono a dover fondare la propria legittimità attraverso un’operazione genealogica che ne sancisse i privilegi nella sacralità del passato eroico. La connessione era a un tempo funzionale e visiva, e i monumenti micenei erano il segnacolo di un passato glorioso ormai perduto e lontanissimo nel tempo il cui ricordo era stato reciso dai secoli bui. Ecco che la connessione si faceva istantanea, un ricongiungimento con quei monumenti visibili nel presente, ma il cui significato era incomprensibile nel passato. La genealogia è un atto intenzionale che colma un vuoto di memoria, una mancanza di significato e uno sforzo per creare una connessione istantanea ed emotiva che formi un’identità, Snell 1997.

Shanks 2007, p. 593. Ivi, p. 594. 24  Per questo concetto di “tensione” correttiva operata dal contesto materiale della ricerca sulle speculazioni teoriche si veda Trigger 2008; Wylie 1985, 1992, 1993, 1994, 2000; contra Fotiadis 1994. 25  Latour 1991, 1999, 2005. 26  Callon, Law 1997. 27  Hayles 1991, 1999 sulla condizione “post-umana”. Per il concetto di società postuma Garcés 2017. 28  L’embodiment è l’atto di stabilire una relazione quasi-sociale con il mondo materiale, con l’obiettivo di dare concretezza alle relazioni sociali astratte, il che equivale quindi a operare una socializzazione del mondo. Secondo la “vecchia” ontologia ciò che andiamo ad analizzare in realtà sono le relazioni sociali: “The very notion of embodiment, which etymologically refers to the act by which a soul or spirit is invested with a physical form, 22  23 

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia. dei meccanismi più consolidati nella teoria archeologica anglo-americana. L’altra filiazione genealogica è quella dello storicismo – di quale storicismo si tratti non ci è dato di sapere – inteso secondo l’estetica crociana, mi verrebbe da dire, vista la presenza della creatività e dell’atto po(i) etico come strumento operativo di analisi e interpretazione della storia. Estetica e idealismo ancora una volta. Un altro legame dichiarato è istituito con la dialettica hegeliana e con, ovviamente, l’arte contemporanea, specialmente col design e con la “contemporary fine art (sic)” portando a compimento alcune prospettive che l’archeologia post-processuale aveva già formulato intorno a questi temi: ponendo stavolta l’accento sul processo di mediazione viene inoltre ribadito che l’archeologia è prima di tutto un atto politico34. Alcuni punti programmatici esposti durante gli anni Ottanta dall’archeologia postprocessuale sono evidentemente maturi e pronti per essere formalizzati e normalizzati in un approccio (o atteggiamento) veramente olistico, sia per metodi e obiettivi che per padri nobili, con validità ecumenica per tutta l’archeologia. Tutto questo è possibile grazie all’operazione genealogica che ancòra le affermazioni simmetriche a una solida base filosofica che comprende gran parte dei padri del pensiero occidentale postmoderno (e non), e che dunque risulta così epistemologicamente inattaccabile. Fra questi padri viene incluso anche Marx. Più esattamente il “primo” Marx, quello che per intendersi non aveva ancora messo la dialettica di Hegel a camminare nella giusta posizione35.

L’affinità tra i meccanismi interpretativi dell’ermeneutica filosofica e dell’archeologia era già stata notata da Giddens: “If there are two disciplines, then, whose intersection concerns the limits of presence, there are surely those of archaeology and hermeneutics: archaeology because this is the subject par excellence which is concerned with relies or remains, the bric-a-brac washed up on the share of modern times and left there as the social currents within which it was created have drained away; hermeneutics, because all survivals of a ‘conserved past’ have to be interpreted, regardless of whether they are pots or texts, and because this task of discovering is conceptually and methodologically undistinguishable from mediating the frames of meaning found in coexisting culture”38. In generale però, l’ho già ricordato precedentemente, tale connessione passa e si struttura attraverso la filologia ottocentesca grazie alla figura dell’antropologo tedesco Franz Boas e della sua influenza nella tradizione antropologica anglo-americana39. L’articolo “ermeneutico” di Olsen parte dalla constatazione di questa affinità per sviluppare un discorso in tre parti con cui cerca di contestare Hodder e il suo approccio contestuale e cercare di rimettere quello ermeneutico al centro dell’interpretazione archeologica. La prima parte traccia una breve storia della “prima ermeneutica” da Friedrich Schleiermacher (1768-1834), passando per Johann Gustav Droysen (1808-1884) fino a Wilhelm Dilthey (1833-1911), sulla via già tracciata da Johann Gottfried Herder (1744-1803)40. Alla base vi è il criterio secondo cui l’unica forma di indagine storica legittima è nella capacità di rivivere dall’interno situazioni e costumi di una determinata collettività. Questo è possibile in quanto chi indaga fa parte del divenire storico e, in quanto parte del medesimo processo che produce i fatti storici, è in grado di comprenderli: si ha in sostanza a che fare con lo storicismo che portò poi al primo Methodenstreit nelle scienze sociali e alla definizione della separazione epistemologica tra queste e le scienze cosìddette ‘dure’. L’obiettivo era quello di arrivare a procedure metodologiche proprie e indipendenti rispetto alle scienze naturali. Da qui la distinzione introdotta da Droysen tra Verstehen (comprendere), procedimento proprio delle scienze umane, e Erklärung (spiegare) utilizzato nelle scienze naturali basate sul principio di causalità. Dilthey infine formalizzò definitivamente il concetto di Verstehen che tanto peso ebbe nella storia degli studi sociali. Passato dal momento soggettivo dell’Erlebnis e dell’immedesimazione empatica, di uno psicologismo quasi mistico, Dilthey arrivò lentamente all’indagine “comprensiva” di certi fenomeni storico-culturali41. La comprensione di un fenomeno è resa possibile grazie ad affinità storico-culturali condivise col fenomeno studiato, grazie a una coerenza del contesto, a una continuità categoriale tra passato e presente42. Dal punto di vista

5.1.3. Simmetria ed ermeneutica del sospetto: la fine del sociale e del culturale. L’altro scritto che analizzeremo in breve è quello dell’archeologo e preistorico Bjørnar Olsen dell’università di Tromsø in Norvegia che insieme a Shanks, a Webmoor e Witmore ha definito l’archeologia simmetrica nelle pagine di World Archaeology e dunque lo utilizzeremo per precisare quella che mi sembra essere la vera genealogia che sta alla base di questa svolta teorica in archeologia. Olsen non è nuovo a riflessioni su temi postmoderni in archeologia preistorica36. Ciò che mi preme mettere in luce qui è, però, il particolare percorso di questo autore, percorso che parte proprio dall’utilizzo della critica ermeneutica nell’interpretazione archeologica fino a giungere alla simmetria e fondersi in essa, dandoci anche un’idea più precisa di quale epistemologia si componga questa simmetria, e alla sua egemonia accademica, che investe in parte anche il contesto continentale europeo. Nel 1992 lo stesso Olsen, insieme ad Harald Johnsen, pubblicava un articolo su American Antiquity37 che si prefiggeva di criticare l’archeologia contestuale di Ian Hodder nella sua variante strutturalista proprio contrapponendole l’ermeneutica (quella di Gadamer) come metodo di più alto livello esplicativo contestuale.

Giddens 1987, p. 357. Ampolo 1986; Finley 1975. 40  Johnsen, Olsen 1992, pp. 419-423. 41  Sparti 2002, pp. 45-46. 42  Ivi, n. 4, p. 46. 38 

Joyce et alii 2002; Shanks 2007, p. 592. 35  Le Point 2009. 36  Johnsen, Olsen 1992; Olsen 1991, 2001, 2006. 37  Johnsen, Olsen 1992. 34 

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L’ideologia degli archeologi una rete di relazioni “antica”, reale, solida e soprattutto vera che deve essere ricostruita nei suoi legami originari. Il secondo è quello che va dal presente verso il passato. Ed è qui che secondo Olsen l’archeologia contestuale fallisce nel suo intento. Hodder al riguardo dell’influenza che può avere il contesto in cui agisce, pensa e scava l’archeologo nel presente, è alquanto ambiguo. Se asserisce che vi è una relazione dialettica tra passato e presente, che il passato è interpretato attraverso un discorso nel presente48, altrove afferma la possibilità di comprendere un evento nella sua interezza prescindendo dal contesto presente49. Le condizioni della comprensione stanno tutte nel passato. Queste separazioni successive sono possibili, separando il metodo (ermeneutica) dall’epistemologia50. Un’ambiguità simile si ritrova in Collingwood, tra storicismo e poststrutturalismo51.

operativo il com(cum)prendere la parte attraverso il tutto e viceversa (il doppio circolo ermeneutico) è possibile attraverso la mente oggettiva, il luogo superiore dove instaurare la connessione di senso, concetto questo ereditato da Hegel. La seconda parte riguarda la critica dell’approccio contestuale dei primi lavori di Hodder, legati al pensiero del filosofo e storico inglese Robert G. Collingwood43. Sostanzialmente Hodder viene accusato di far uso dei metodi della prima ermeneutica nello studio dei fenomeni passati, nonostante la presenza di alcune riflessioni derivanti dal marxismo, dallo strutturalismo e dal poststrutturalismo. Questo porta, secondo Olsen, a delle a-simmetrie inaccettabili, tra passato e presente e tra ragioni interne e esterne di un dato evento e in ultima istanza tra natura e cultura, tra scienze naturali e umane, e quindi tra metodologie differenti. L’obiettivo principale di Hodder, seguendo il “comprendere” contestuale, sarebbe quello di formalizzare gli strumenti in grado di catturare la concezione di un dato evento, o dei significati concentrati nelle espressioni di cultura materiale, nei termini e negli orizzonti di senso concepiti dalle società preistoriche. È la struttura che si oppone al divenire storico e arriva intatta fino a noi, divenire in cui noi siamo dentro e perciò capaci di tradurla.

Nella terza e ultima parte vengono chiariti questi limiti52. Oltre all’accusa di idealism, già avanzata da alcuni critici dell’approccio contestuale53, Olsen aggiunge un simultaneo objectivism. La pretesa cioè di trascendere il proprio contesto storico e culturale accedendo direttamente a quello antico e ottenendo così una storia “totale” attraverso la mente oggettiva54. Questo è possibile poiché i paradigmi con cui si costruisce l’interpretazione del passato derivano e sono parzialmente costruiti in continuità con esso. In The Domestication of Europe Hodder costruisce logicamente il suo inventario di strutture (domus, foris, agrios) che hanno attraversato la storia. Formatesi nel basso Paleolitico55 esse sono giunte fino a noi e sono divenute patrimonio condiviso della cultura Indo-Europea, corrispondenti ad altrettanti significati e bisogni, come quello di conforto domestico, paura del selvaggio, ecc., logicamente plausibili nel presente; esse corrispondono a funzioni già espresse nel passato. Continuità e forza della tradizione agiscono contemporaneamente. Il pericolo è anche quello di etnocentrismo o cultorocentrismo.

Dice Hodder a più riprese: “An individual in the past is situated in this historical frame, and interpretes the cultural order from within its perspective. The archaeologist seeks also get ‘inside’ the historical context, but the jump is often a considerable one”44; “Rather than translating the text into something other itself, the aim is, as far as possible, to understand it in its own terms”45; “By ‘contextual’, I mean an analysis which attempts to ‘read’ or interpret the evidence primarily in terms of its internal relations rather than in terms of outside knowledge. In particular an emphasis is placed on internal symbolic relations rather than on externally derived concepts of rationality”46; “Interpretative approaches at least try to understand the other in its own terms in that they look for internal rather than external criteria of plausibility in order to support their arguments”47.

Per Olsen e Johnsen il punto è “more how we understand than what we understand”56 e questo fa parte della questione ontica più che epistemologica (c’è Heidegger qui). È la sostituzione della grammatica della logica causalista (perché è avvenuto x) e di quella essenzialista (che cos’è x) con quella semantica (che cosa è x in rapporto a y). Ovvero l’ermeneutica come linguaggio che decostruisce e ridimensiona la portata dei concetti generali, liberandosi della tirannia delle teorie unificanti. Anche se non citato da Johnsen e Olsen (anche in scritti successivi) queste sono le posizioni di Richard Rorty. Per Rorty non vi è differenza tra scienze naturali e sociali. Il

Problemi di relazione strutturale, intesa come grammatica del passato traducibile nel presente. C’è un doppio movimento di comprensione. Il primo va dall’esterno, dall’evento fisico e dalla manifestazione materiale al disvelamento di un universo di senso, di cui la cultura materiale è espressione. Questo è possibile grazie alla rete di relazioni stabilite dall’oggetto nel suo contesto dato, spazialmente e cronologicamente ben definito, in cui le relazioni fisiche sono espressioni di relazioni simboliche e di pensiero espresse nel medesimo contesto. Vi è dunque

Hodder 1986, p. 170. Ibidem. 50  Hodder 1991b, 1991c. 51  Skagestad 2005 su alcune caratteristiche del pensiero di Collingwood. 52  Johnsen, Olsen 1992, pp. 428-432. 53  Barret 1987; Binford 1987; Trigger 2008 “It is only when we make assumptions about the subjective meaning in the minds of people long dead that we can begin to do archaeology”, Hodder 1986, p. 79. 54  Hodder 1986, p. 124. 55  Hodder 1990a, pp. 283-293. 56  Johnsen, Olsen 1992, p. 433. 48  49 

Johnsen, Olsen 1992, pp. 423-428. Hodder 1987a, p. 7. 45  Ivi. 1987a, p. 8 46  Hodder 1990a, p. 21. 47  Hodder 1991b, p. 15. 43  44 

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia. sospetto ermeneutico subentra allorché si contemplano teorie in grado di prevedere il comportamento umano. Si diviene allora sospettosi, diffidenti e insoddisfatti57.

monolitici, ma si pongono in comunicazione e a poco a poco si mescolano e si confondono. Non è solo la fine della storia, ma è la fine della realtà che non sia attimo presente, sensibile, respiro, dolore, momento irripetibile, costruito, vissuto, esperito solo ed esclusivamente nell’hinc et nunc59. Si capisce che Olsen concepisce in questi termini il momento ermeneutico allorchè si incontra con l’archeologia. Entrambi i metodi permetterebbero di “understanding or interpreting textual manifestations without the immediate presence of or access to, the societies in which the text originated”60.

Tra epistemologia e ermeneutica non vi è separazione sostanziale, ma differenza di atteggiamento. L’ermen­ eutica non è più una disciplina, ma una speranza di comunicazione, un invito alla decodificazione con l’altro, lontano da noi nello spazio e nel tempo, lontano dall’epistemologia che invece si affanna alla scoperta della verità. Bisogna quindi espandere all’infinito il terreno della comunicazione tra testi e azioni distanti nel tempo e nello spazio piuttosto che fornire una corretta interpretazione dei medesimi. La separazione si riconcilia successivamente nello schiacciamento e nell’intersezione spaziale e cronologica tra presente e passato. Il fatto che Olsen si affidi all’ermeneutica più matura di HansGeorg Gadamer non è un caso. Quest’ultimo infatti non solo traduce in un linguaggio comprensibile il registro fortemente allusivo della fenomenologia di Martin Heidegger (di cui vedremo l’importanza nell’archeologia contemporanea più avanti), ma soprattutto perché, mentre Rorty sottolinea l’incommensurabilità (che si traduce in speranza), Gadamer spinge alla riconciliazione con la semantica del passato che tende alla convergenza e alla comunione con esso: “Per questo il sogno che Gadamer proietta sull’ermeneutica appare quello di rimetterci in condizione di dialogare con il passato della nostra tradizione culturale, perseguendo un’intesa virtualmente illimitata. Nel suo esito estremo l’ermeneutica raggiunge, oltre agli interlocutori effettivi, anche quelli potenziali, in una sempre maggiore integrazione di prospettive, un’integrazione di prospettive, un’integrazione assicurata dalla comunità della comunicazione alla quale, in quanto uomini parlanti, già da sempre apparteniamo”58. Inoltre, rispetto agli ermeneutici romantici, Gadamer non considera il contesto in cui opera lo studioso come ostacolo per lo studio del passato ma come fattore attivo nel processo di interpretazione. La prima ermeneutica era considerata un insieme di strumenti metodologici in grado di colmare la distanza tra fenomeno storico e interpretazione nel presente, in grado di porre rimedio ai fenomeni di distorsione originati dall’incommensurabilità tra i due contesti, che provoca pregiudizi e incomprensioni. La presa di coscienza della “nostra storicità” viene spostata da Heidegger da un piano metodologico a uno ontico, esistenziale. Questo impulso va riconosciuto a Heidegger e a lui va riconosciuto anche di aver restituito al passato un ruolo nel processo di formazione della comprensione. Legandosi a questo, Gadamer concepisce la distanza tra passato e presente non come un ostacolo, ma come premessa produttiva e feconda tra i due contesti temporali. Anche se è produttiva, tuttavia, questa “distanza” resta in qualche modo ancora mediata.

5.1.4. Simmetria e ricomposizione. Uomini in cose, cose in uomini. L’archeologia simmetrica non sarebbe un ennesimo paradigm shift in archeologia né un tentativo di risolvere la diatriba processuale vs postprocessuale, ma una vera e propria ricomposizione ontologica61. La separazione radicale tra soggetto e oggetto, tra uomo e cosa, tra sociale e naturale e tra azione e idea è un’opposizione fasulla creata dal pensiero moderno, che procede logicamente per diairesis, dividendo la realtà in spazi discreti, disgregando e segmentando il mondo per renderlo più maneggevole al controllo e all’analisi. L’archeologia simmetrica è, più correttamente forse, una nuova ecologia dell’ontologia che parte dalla mescolanza e non dalle separazioni62. La stessa frammentazione disciplinare di cui è vittima l’archeologia sarebbe dovuta a questa logica che tutto separa: un’ontologia relazionale che sospende l’epistemologia e la separazione epistemologica nelle sue modalità di accesso al mondo esterno. L’epistemologia separa mentre l’ontologia (nuova) riunisce. L’archeologo, perciò, deve rivisitare o re-inserire nel suo orizzonte di senso alcuni concetti chiave. 1) Pratica. Si chiede Witmore: “How do archaeologists relate to the material world? Here, epistemology, sadly, has been, and continues to be, one of our greatest stumbling blocks. This is because it is largely based upon an absurdly oversimplified understanding of the relationship between the world and words, facts and interpretation, data and theory. So long as we take for granted definitions of what it is to be human, what an ‘object’ is, what constitutes an agent or even how archaeologists constitute knowledge, we will continue to be drawn into spiraling controversies, which merely repeat polar shifts every generation or so”63. È la nebbia dell’amnesia moderna, che s’insabbia nei soliti e ripetitivi gesti intellettuali64. La soluzione del cortocircuito è la sospensione dell’epistemologia 59  All’interno dell’orientamento ermeneutico si confrontano diverse posizioni circa lo statuto dell’interpretazione. Essa può essere intesa come prestazione eccezionale, che si fa necessaria quando i normali strumenti di indagine falliscono, o, come sostiene Gadamer, essa va sempre applicata a prescindere; anche Sparti 2002, n. 1, p. 147. 60  Johnsen, Olsen 1992, p. 423; Giddens 1987, p. 357. 61  Webmoor 2007a; Witmore 2007. 62  Witmore 2004; 2006; González-Ruibal 2007a; Webmoor, Witmore 2005, 63  Witmore 2007, p. 549; Serres, Latour 1995. 64  Witmore 2004; 2006.

Ciò che vediamo assottigliarsi adesso è esattamente questa distanza. Non solo passato e presente non sono più blocchi 57  58 

Olsen 2006. Sparti 2002, p. 163.

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L’ideologia degli archeologi 5) Tempo. L’archeologia avrebbe trattato il passato sempre come un’unità demarcata, distinta e separata70, tra un “noi” nel presente e un’alterità situata, conclusa e stratificata nel passato. Ma il passato non è solo un parametro esterno, un’unità di misura, ma è sinuoso, turbolento, reversibile e percolante. Il passato non è totalmente passato, ma sopravvive in molteplici manifestazioni nel presente, modificandolo, come la viabilità romana sopravvive e modifica l’urbanistica delle città odierne. Il passato è fabbricato, entropico, sedimentato, continuamente costruito e eroso, si sedimenta e frana all’improvviso, mescolandosi continuamente col presente71.

e l’attenzione ai dettagli locali. L’interpretazione archeologica e la pratica archeologica sono non soltanto il frutto dell’interpretazione soggettiva, situata nel e dal soggetto, ma prodotta da multiple fields (fig. 5.1) che interagiscono tra di loro, in cui gli oggetti giocano la loro parte attiva (le foto, la trowel, la scrivania, ecc.); il campo dell’attività non è solo quello “archeologico”, ma si espande fino a comprendere il laboratorio, i cataloghi e i lettori di questi, che contribuiscono a co-creare l’interpretazione. 2)  Agency. In una concezione simmetrica il concetto di agency65 è l’espressione più evidente dell’asimmetria congenita delle scienze sociali che tende a considerare gli oggetti come mediatori secondari e come prodotti esclusivi dell’azione intenzionale dell’uomo. Ancora una volta non c’è separazione tra l’individuo di per sé e l’oggetto in sé: non c’è azione umana senza oggetto come non c’è archeologo senza piccone66. Non c’è uno strumento con cui l’uomo si serve nella messa in pratica delle sue concezioni o relazioni col mondo ma diverse agencies umane e non-umane.

6) Uomini e cose. L’archeologia simmetrica tende a eliminare la gerarchia umanistica per tornare alle cose. Ma non solo alle cose nel passato e del passato, ma alla materialità con cui ci si esprime e si esiste nel presente, con cui si indaga il passato (trowel, piccone etc.), con cui si documenta (foto, disegni), con cui si concettualizza (CAD e GIS) e infine con cui si interpreta e si restituisce al flusso dell’interpretazione e della stratificazione (libri, cataloghi, la rete web). Il cyberspazio, il cyberuomo ed il cybercontesto. Non le cose sono generate dall’uomo e a acquistano senso attraverso e per mezzo di esso, ma piuttosto è l’uomo che si esprime e interagisce con i suoi concetti e l’idea del mondo esterno attraverso le cose senza le quali sarebbe muto. Sono le cose il vero linguaggio, il mediatore, la modalità di espressione. Non è più il linguaggio che media tra l’idea e i realia, ma le cose tra linguaggio e concetto. Il ritorno alle cose deve essere multivocale e multisensoriale. “Without over-simplifying the world with an impoverished vocabulary of contradictory bifurcations, symmetry implies a profitable suite of perspectives and practices for recognizing the impact of things, ordinarily denied a stake in the modernist myths of the world. A symmetrical archaeology understands how human beings live with (to be distinguished from in) the world in terms of mixtures and entanglements. Such an understanding opens up new realms of possibility and new potentials for invention, which free us from the conceptual burdens associated with such a modernist predicament. This new ecology is full of possibilities for understanding what it is to be human; how the pasts are entangled in the present, how they have intimacy and relevance beyond being understood as obsolete or outmoded heritage”72.

3)  Traduzione e mediazione. La traduzione della realtà polisemica del passato, in un linguaggio comprensibile nel presente, avviene tramite la mediazione dei supporti materiali e a qualsiasi livello, dallo scavo alla pubblicazione. Molteplicità dei mezzi, delle relazioni e delle materialità, della cui qualità l’archeologo si deve preoccupare; una responsabilità etica che investe poi l’intepretazione del contesto archeologico. There is more understanding than meaning. Importa più capire che donare senso e significato; in questo senso importano meno i significati che l’uomo attribuisce alla realtà materiali, delle connessioni che gli oggetti instaurano tra loro e con l’uomo e il loro grado di influenza sulla rete di relazioni ontiche67. 4)  Cambiamento. Il meccanismo dei processi di cambia­ mento non è esclusivamente radicale, event-oriented revolution. Nel caso della discussione sulle origini dell’agricoltura tra Mesolitico e Neolitico si dà per assodato che vi sia stato un cambiamento radicale, una scoperta ed un’origine. Questa concezione sarebbe legata alla concezione storicista moderna “around what it is to be human and how humans in turn relate to the world”. Secondo la prospettiva simmetrica il processo sarebbe il complesso stabilirsi di relazioni tra uomo e nuove specie di colture68, tra entità diverse, e non certo un mutamento dovuto e concepito dalla modalità dell’uomo di strutturare la società69.

Secondo l’interessante ipotesi di Olsen vi sarebbe una lunga e prolungata disaffezione da parte delle scienze sociali, antropologia in testa, per il mondo materiale e le “cose” in genere che diviene poi la riproposizione di una prolungata asimmetria73. Anche quando la cultura

65  Si veda Robb 2004 per tale concetto negli studi di cultura materiale in generale, e, in particolare, Robb 2010. 66  Witmore 2007a, pp. 552-553. 67  Witmore 2007a, p. 554, anche se rimane qualcosa di ineffabile che non riusciamo a mettere in connessione, Shanks 1997. 68  Witmore 2007a, p. 555. 69  Si veda Barker 2006, pp. 1-41, per una discussione approfondita degli approcci al problema, e pp. 278-283 sui modelli attuali di diffusione dell’agricoltura. In questo senso Barker ha una posizione netta: considera il tema dell’origine dell’agricoltura un campo privilegiato per monitorare il difficile e complesso rapporto tra teoria e pratica archeologica. Barker

parla di “agricultural revolution” e dichiara “if we are to understand why prehistoric foragers decided to become farmers, we also have try to imagine how they must have viewed their world and their places within (corsivo mio)”, 3. 70  Witmore 2007a, p. 556; Lucas 2005; Shanks, Tilley 1992; Thomas 2004. 71  Serres, Latour 1995, pp. 1-60; Witmore 2007a, 2006. 72  Witmore 2007a, p. 559. 73  Olsen 2007.

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia.

5.1. Schema che rappresenta i fattori che intercorrono alla formazione di un’interpretazione storico-archeologica.

materiale entrò a far parte del linguaggio dell’archeologia in funzione contrastiva al mainstream delle scienze sociali che la escludeva dal suo orizzonte investigativo74, gli oggetti rimasero sempre l’espressione di qualcos’altro. Se questi avevano una vita, essa era e poteva essere solo e soltanto una vita “sociale”, secondaria e epifenomenale rispetto alla loro “cosalità”75. Tracciando la “genealogia” di questo modo di trattare con le cose, Olsen rintraccia la sua connessione nella grande influenza dell’ontologia kantiana che costituisce la “main reason why the materiality of things still is being kept firmly at arm’s length is that a thing-hostile ontology continues to inform dominant approaches in material culture studies: an ontology that since Kant, at least, denied any direct access to things, and which has since surfaced as a skeptical attitude in which the material is always treated with suspicion and never allowed more than a provisional and derivative existence”76. Il mondo esterno come mera superficie senza alcuna potenza performante e nessun potenziale. Per usare la terminologia kantiana il mondo esterno resta un mezzo e non un fine. L’esilio delle cose sarebbe poi stato perpetuato dalla non completa comprensione della fenomenologia di Heidegger e Merleau-Ponty, autori più volte richiamati dai material culture studies per ricostituire nelle cose, e per le cose, una nuova ontologia. “The new study of things was to be a social concern, dedicated to the understanding of ourselves and others humans” restavano cioè ancorati alla vecchia concezione asimmetrica ed è qui che l’archeologia

post-processuale (contestuale) avrebbe fatalmente fallito77. In questo senso i noti lavori di Chris Tilley, Barbara Bender e altri78 avrebbero continuato a privilegiare e enfatizzare una visione idealista e costruttivista del paesaggio antico ponendo al centro la dimensione socio-simbolica, esperienziale e concettualizzante dell’uomo sociale, in uno sforzo mimetico che fa coincidere colui o colei che percepisce con il percepito, con in più la connessione necessaria tra passato e presente attraverso la condivisione dello stato di essere umano. In questo utilizzo dell’empatia come categoria analitica e interpretativa allo stesso tempo, che capisce, com-prende e condivide, l’antropologia risulterebbe (ancora una volta) la disciplina privilegiata a cogliere tale connessione esplicativa come disciplina empirico-emozionale che coglie l’azione umana nel passato molto più della filosofia, attraverso l’esperienza della quotidianità e l’etnografia79. Ovviamente questa riduzione al soggetto, al soggettivismo che riduce la storia e la realtà all’analisi di ciò che l’uomo pensa di essi e alle modalità con cui percepisce e media col mondo esterno, non convince i sostenitori dell’archeologia simmetrica80. L’obiettivo per i sostenitori della simmetria è quello di mettere fine alla diaspora degli oggetti eliminando la distinzione che vi è alla base di questo movimento centrifugo, la distinzione tra soggetto e oggetto provocata dalla malata ontologia kantiana e dallo scetticismo cartesiano, e mantenuta da un eccesso di umanismo che avrebbe addomesticato e fagocitato il materiale nella sfera culturale. L’archeologia simmetrica è il punto di partenza

Il volume edito da Miller 1998 si intitolava proprio Material Cultures. Notoriamente Appadurai 1986 in The Social Life of Things, in cui l’autore dichiara che gli oggetti “have no meanings apart from those that human transactions, attributions and motivations endow them with”, 1986, p. 4. Per la “cosalità” Bodei 2008. 76  Olsen 2007, p. 580. 74 

Ivi, p. 582. Tilley 1994, 2004; Bender 1993, 2002; Ashmore, Knapp 1999. Critiche puntuali a questo approccio già in Bintliff 2009. 79  Miller 2005. 80  Olsen 2007, p. 585. 77 

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L’ideologia degli archeologi per risolvere il dualismo dell’archeologia anglo-americana tra idealists/constructivists versus scientific realists che si basa su una falsa distinzione ontologica81.

che scrutano gli oggetti”83. Dunque, in pratica, rimane sotto traccia il congedo dall’epistemologia che su questa separazione si basava.

Le implicazioni di questo atteggiamento simmetrico sono diverse. Proviamo ad isolarne alcune. Per prima cosa l’arrivo dell’era post-umana, in cui vige la sfiducia nell’economia liberale e nella possibilità dell’uomo di agire, modificare e prevedere gli sviluppi del grande meccanismo innescato a livello globale su cui non è più in grado di esercitare nessun tipo di controllo. Tutto questo si traduce nella mancanza quindi di sicurezza di fronte a “proprietà” di sistema le cui connessioni sfuggono. In questo scenario le “cose”, gli “oggetti”, appaiono sempre più non i mezzi con cui l’uomo si appropria delle risorse e modifica per i propri fini la realtà esterna, ma vere e proprie ed indipendenti “entità” con le quali bisogna scendere a compromessi. Oggetti vivi, con specifiche proprietà, prometei liberati e immessi nel circuito delle relazioni “attanti”, per usare gli stessi termini di Latour. La realtà esterna modifica dunque anche i termini di sviluppo e cambiamento, interviene nelle mutazioni storiche: “If there is one historical trajectory running all the way down from Olduwai Gorge to Post-Modernia, it must be one of increasing materiality: more and more tasks are delegated to non-human actors, more and more actions mediated by things. Only by increasingly mobilizing things could humans come to experience ‘episodes’ of history such as the advent of farming, urbanization, state formations, industrialization and post-industrialization”82.

Inoltre ci pare di intuire che questa prospettiva simmetrica opponga all’antropologia sociale un’archeologia tutta materiale che attraverso un lungo percorso dimentica l’uomo in carne ed ossa, l’individuo e di conseguenza il sociale, per “tornare” a un mondo popolato di oggetti, ponendola come disciplina privilegiata atta a superare le separazioni puriste e a farsi portatrice di un ottica post-umana che significa anche il superamento e l’affrancamento dell’archeologia anglo-americana dall’antropologia in termini concettual-teorici e filosofici. La colpa dell’antropologia è di aver dimenticato gli oggetti e di averli relegati a accessori del sociale. Si ribalta a distanza di più di quarant’anni il cardine dell’archeologia anglo-americana, quell’identificazione in termini di bagaglio teorico e di metodo con l’antropologia fissato dal famoso articolo di Binford. Non più “archaeology is anthropology or it is nothing”84 ma piuttosto il contrario: o l’antropologia diviene archeologia o non è niente. Questo a mio avviso è stato possibile anche per la peculiare trasformazione verificatasi in seno alla disciplina antropologica. In breve, l’antropologia si è allontanata dall’etnografia85, disintegrata e assorbita, in sostanza disinnescata nei metodi e nei concetti dalla pervasività della globalizzazione che, raggiungendo anche le ultimi propaggini delle comunità più isolate, ha defraudato l’antropologia del suo oggetto di studio classico. Se per Lévi-Strauss i Tropici erano già allora Tristi, per Sahlins erano definitivamente scomparsi. In un ultimo geniale tentativo Godelier cerco teoreticamente di riconciliare questo strappo tra etnografia e analisi capitalista con la sua teoria struttural-marxista, ma il nervo ormai era scoperto86. Questa omogeneizzazione orizzontale e spaziale dovuta alla globalizzazione ha provocato anche un movimento verticale in cui la dimensione temporale è riemersa improvvisamente in un fenomeno accelerato di iso-orientamento temporale globale. L’antropologia si è così ritrovata ad occuparsi dell’uomo “odierno” inserito nelle dinamiche e nelle trasformazioni globali, spalmato sulla superficie del pianeta e reinserito nella temporalità del presente. Il tempo accantonato e raffreddato dall’antropologia nello studio delle società “primitive” è rientrato violentemente scompaginandone le certezze e i metodi. Così l’antropologia ha perso i suoi confini disciplinari, sovrapponendosi alla sociologia da un lato e schiacciata dall’altro dall’archeologia dell’era postumana, incapace finora di ripensare le proprie priorità e i propri oggetti di indagine, rifiutandosi di adeguarsi ai metodi con cui l’archeologia a lungo si è cimentata nello studio e nell’analisi degli artefatti87.

Questo implica anche il ritorno di un certo neo(neo)evoluzionismo ambientale e un neo(neo)-darwinismo, in cui la forma sociale si disintegra insieme all’individuo, apparso tardi sulla scena e subito riposto nel cassetto. Dall’umanizzazione e alla riduzione culturale adesso tutto si reifica; dalle cose in uomini agli uomini in cose. Il ritorno della spiegazione neoevoluzionista significa il ricomparire delle costrizioni e dei limiti imposti dalla realtà esterna in termini ambientali per spiegare i cambiamenti culturali. Ora però questi limiti non condizionano solo i cambiamenti strutturali di lungo periodo, ma si impongono nella vita di tutti i giorni attraverso le costrizioni materiali imposte dalla presenza di oggetti e artefatti prodotti dall’uomo. La nuova concezione della cultura materiale crea un paesaggio frastagliato composto da una moltitudine di oggetti che condizionano l’uomo fin nella più minuta e insignificante azione quotidiana. Natura e cultura si identificano, animato e inanimato si sovrappongono, esterno e interno, scienze sociale e scienze naturali si ricompongono in maniera unitaria non sul piano dei fini e dei metodi ma su quello ontologico della natura degli oggetti. In questo senso ci pare utile ricordare quanto diceva Wilhelm Windelband (1848-1915) nel contesto del primo Methodenstreit: “Non in una differenza di oggetti va colta la distinzione bensì nelle rispettive metodologie

81  82 

Sparti 2002, pp. 33-62, per un richiamo storico alla Methodenstreit. Willey, Phillips 1958, p. 2. 85  Per una storia della teoria dell’antropologia, Harris 1969; Ortner 1984 e da ultimo Herzfeld 2001; Ellen 2010. 86  Lévi-Strauss1955; Sahlins 1993; Godelier 1984; sullo strutturalmarxismo Friedman 1974; Nugent 2007. 87  Stark 2003. 83  84 

Webmoor 2007, p. 564. Olsen 2007, p. 586.

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia. Rimane il dubbio di come si traduca nella pratica archeologica tutta questa serie di rivendicazioni. Di sicuro la simmetria come capacità di accedere al reale è calcata da quella concepita da Bruno Latour che nel frattempo pone le basi per alcune critiche fondamentali al postmoderno e al moderno, riprese all’inizio del Ventunesimo secolo da alcuni archeologi: 1) la critica all’ontologia di Kant. Dice Latour: “Les choses-en-soi deviennent inaccessible pendant que, symétriquement, le sujet transcendantal s’éloigne infiniment du monde […]. Les hybrides ont bien droit de cité, mais uniquement comme mélanges des formes pures en égale proportion […] Kant multiple les étapes afin de passer du monde lointain des choses au monde encore plus lointain de l’ego” ; 2) la critica al procedimento dialettico : “C’est la grandeur de la dialectique d’avoir tente une dernier fois les cercles complet des prémodernes en englobant tous les êtres divins, sociaux et culturels, afin d’éviter la contradiction du kantisme entre le rôle de la purification et celui de la mediation. Mais la dialectique c’est trompee de contradiction” ; 3) la critica alle soluzioni trovate dai postmoderni che credono ancora nella separazione tra “le monde matériel et technique d’un cote et les jeux de langage des sujets parlant de l’autre”. Solo una cosa positiva si può dire dei postmoderni dopo di loro non c’è più niente, essi marcano la fine. Come dicono gli inglesi (almeno gli storici e non gli archeologi) essi sono la fine della storia pur credendoci ancora88.

di evoluzione dei modi di produzione degli strumenti litici, regolati da leggi proprie diverse da quelle biologiche dell’uomo, che creano anche nuove periodizzazioni attraverso un nuovo concetto di tipologia tecno-culturale. Questa constatazione ha portato Boëda a parlare di convergenza evolutiva fra tecniche utilizzate in varie parti del globo durante il periodo preistorico da vari tipi umani. Tecnica e biologia seguono linee evolutive indipendenti e non causali ma interdipendenti: “L’homme crée la technique et la technique est pour l’homme un facteur d’évolution et d’individuation incontournable auquel il ne peut que se plier, la technicité des objets étant régie par des ‘lois’ d’évolution propres à la structure des objets. Au fur et à mesure de l’évolution, l’interaction est de plus en plus prégnante. Au point de devenir particulièrement sensible dans nos sociétés modernes. Aujourd’hui, en effet, les lignées d’objets modernes sont perceptibles à l’échelle d’une génération, voire d’un individu. Cela n’avait jamais été le cas auparavant, a fortiori durant la préhistoire où l’échelle d’une lignée était de l’ordre du millénaire voire plus”90. L’uomo e la tecnica sono in co-evoluzione. L’uomo crea la tecnica e questa influenza l’uomo sia attraverso leggi che le sono proprie sia con il suo potenziale strutturale evolutivo. Questa co-evoluzione non è lineare dal punto di vista tecnico ma costituita da cicli successivi e differenti retti da leggi evolutive indipendenti: “De ce fait, il existe un lien entre les techniques des hommes de la préhistoire et les techniques des hommes de l’histoire”91.

I postmoderni hanno allargato lo scarto tra soggetto e oggetto occupando il centro e abbandonando gli estremi e separando l’Essere dagli esseri, l’ontologia dall’ontico. Le dichiarazioni di “simmetria” e di ricongiungimento ontologico paiono per ora solo dei buoni propositi senza alcuna idea di come si debba metterli in pratica a livello pratico archeologico. A tal proposito negli ultimi anni (e senza nessun riferimento alla simmetria o all’ontologia) una soluzione è stata offerta dal paleontologo francese Eric Boëda e la sua scuola, attraverso una riflessione teorica e un discorso che ci pare di poter far rientrare in quell’urgenza di rimettere l’oggetto al centro dell’indagine, ma in forme del tutto nuove che ne esaltino anche le potenzialità d’agente nei confronti dell’uomo. Muovendo dalle riflessioni di Leroi-Gourhan sulle tecniche di produzione degli strumenti litici in preistoria, Boëda voleva ribaltare la sua constatazione che ogni tecnica è costituita antropologicamente, una posizione antropocentrica che faceva prevalere il biologico sul tecnico89. L’obiettivo era di isolare l’oggetto dall’uomo che l’ha prodotto concentrandosi sull’evoluzione intrinseca di ogni singola tecnica che dà forma all’oggetto, cercando di comprendere i meccanismi e le implicazioni di tale evoluzione. Boëda contesta di Leroi-Gourhan il determinismo funzionale, ovvero la concezione che ogni oggetto evolva verso forme sempre più efficaci all’evolversi di funzioni progressivamente più complesse. Il lavoro di rimessa in discussione delle tipologie litiche è partito dalla constatazione che vi è una linea indipendente 88  89 

Questa sembra un’applicazione pratica della simmetria senza manifesto simmetrico. Essa si svolge sviluppando un lungo lavoro di studio degli oggetti, partendo dalla loro tipologizzazione secondo prospettive nuove. Questa parte “enciclopedica” pare manchi nell’archeologia anglo-americana che a ogni piè sospinto annuncia nuove svolte filosofiche e paradigmatiche in archeologia senza una solida base materiale. Che poi a mio avviso la storia, l’uomo, l’oggetto e l’epistemologia siano e restino fondamentalmente asimmetrici, è un altro discorso. 5.2. Manifesti e ricomposizioni: visualizzare l’archeologia92. L’altro manifesto dichiarato di cui mi voglio occupare è l’articolo di Andrew Cochrane e Ian Russell (Visualizing Archaeologies: a Manifesto) pubblicato sul Cambridge Archaeological Journal nello stesso anno di quello “simmetrico”, offrendo, da questa coincidenza, motivi e spunti di convergenza e di riflessione. Anche l’anno e il luogo di pubblicazione acquistano per il mio discorso una valenza particolare e spingono a fare l’inventario delle differenze tra i due manifesti. Vale la pena di ricordare che a Cambridge si affrontano (fisicamente, in due dipartimenti distinti) le due grandi tradizioni dell’archeologia angloIvi, p. 50. Ivi, p. 63. 92  Per la recente esplosione digitale e visuale dell’archeologia come mezzo ed espressione di molteplici applicazioni (produzione del testo, rappresentazione, comunicazione ma anche interpretazione) si veda da ultimo Boast 2002 con bibliografia. 90  91 

Latour 1991, pp. 77-78. Boëda 2005, p. 46.

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L’ideologia degli archeologi La linguistic turn non segna solo una svolta semantica di una portata detonante, ma anche l’inizio del postmoderno, basato su premesse post-strutturaliste. Non ci soffermeremo ulteriormente sulle basi teoriche di questa teoria critica. Basti qui ricordare che questa attenzione al linguaggio non è nuova né tipicamente postmoderna97. Tralasciando la poliedrica personalità di Wittgenstein che molto fece in questa direzione98, gli stessi assunti di Carl Gustav Hempel avevano un carattere metateorico. Simbolo della svolta neopositivista della prima metà del Novecento, Hempel è stato, proprio per questo suo “ritorno” al positivismo, associato epistemologicamente alla svolta scientista che diede vita alla New archaeology99. Quella di Hempel è in effetti una logica della spiegazione che si basa sulla correlazione fra due complessi di asserzioni: quello incaricato di spiegare (explanans) e quello che descrive i fenomeni da spiegare (explanandum). La relazione è una relazione di implicazione, simile a quella argomentativa, che rimanda ad un modello linguistico (fig. 5.2)100.

americana: l’archeologia antropologico-preistorica con sede al McDonald Institute, al cui interno convivono le due anime (o quello che ne resta) dell’archeologia processuale e postprocessuale, e l’archeologia classica con sede alla Faculty of Classics. Questa separazione fisica è eco di quella divisione concettuale che è stata chiamata la contrapposizione tra la Great Tradition versus the Great Divide93. La contrapposizione cioè tra la tradizione degli studi classici e l’archeologia preistorica bifronte, la prima tesa a delucidare i processi culturali e la seconda tesa alla produzione di leggi sulla dinamica culturale. Come notava già Renfrew: “it is not a divide solely in the geographical area of study. It is a divide also between the anthropological tradition in America on the one hand, where the archaeology of the Americas is invariably taught within departments of anthropology, and the classical tradition on the other”. E inoltre, “The Great Divide is not, of course, restricted to the United States and Canada. In Britain, however, the division is a three-way one: we can claim two divides. The first is anthropology versus the rest. For in Britain, archaeology is not traditionally counted a part of anthropology and anthropologists (generally of the social variety) have to muster greater reserves of patience in order to talk with archaeologists than they generally seem to have at their command. The second division is classical archaeology versus prehistoric archaeology, partially bridged in recent years by the common ground of Mycenaean studies”94. Renfrew concludeva che pur potendo recuperare una tale separazione in contesto anglo-americano attraverso lo studio dell’arte e delle fonti scritte, la tradizione avrebbe potuto ricomporre la dicotomia solo parzialmente e con il passare dei decenni avrebbe anzi visto restringersi ulteriormente il suo ruolo e il suo spazio d’azione. Tale incapacità da parte della tradizione di colmare la distanza non sarebbe il riflesso della più generale opposizione tra scienze naturali e scienze sociali e neanche sarebbe dovuta alla mancata applicazione di “new scientific techniques in archaeology that the Great Tradition is falling behind – ma piuttosto – in the development of new ideas and in that acute awareness of the need for coherent and explicit theory which is the most positive and characteristic feature of the New Archaeology”95.

Nel manifesto di Cochrane e Russell, questa lunga parabola postmoderna legata al linguaggio sembra interrompersi in archeologia e cercare altre vie d’espressione, altri “linguaggi” di cui servirsi. Un segno dei tempi e della fine del postmoderno. Forse. Gli autori dichiarano “the importance and the need to express theoretical concepts in a format which is not constrained by linguistic concept”. Ovviamente qui si stanno battendo strade alquanto rischiose poiché si teorizza la dissoluzione del linguaggio stesso nel momento in cui se ne creano di nuovi. E ovviamente si dà per scontato che cambiando il linguaggio mutino di conseguenza gli assunti teorici e l’applicazione pratica di essi. Forse niente è cambiato, tutto ruota ancora intorno al linguaggio. La volontà è quella di “express theory which is often written and turn to the visual as a means of promoting a visual literacy of archaeological theories, methodologies and narratives. This simultaneously acts as an invitation for practitioners who feel constrained themselves by this discourse in archaeological theory to seek to transcend linguistic cultural barriers by embracing the visual”101. Intorno a questa “archeologia visuale”, che si esprime attraverso immagini per lo più digitali, è costruito tutto l’articolo. La scomposizione visuale per pixel è trasferita anche nella costruzione stessa dell’argomentazione: “The formatting of argument as fragments in their own context not only allows readers the freedom to absorb discussion in whichever order they please, but also moves us, as authors, nearer to an experimentation with surrealist textual montage, that disrupts particular linear and systemic flows of explanation”102.

5.2.1. Il rifiuto del linguaggio. Dopo almeno un trentennio di discussione circa la “svolta” linguistica96 e i suoi effetti si assiste oggi a una “crisi” della riduzione semantica prodottasi. Dacché il linguaggio era divenuto la forma privilegiata di espressione del reale e dunque la sua forma concreta di organizzazione, l’analisi del “discorso” aveva sostituito quella delle condizioni materiali dell’esistenza e delle relazioni materiali con cui il corpo sociale si organizzava.

Palmer 1993, p. 63 ha definito tutto l’impianto postmoderno un “old politico-intellectual hat”. 98  Wittgenstein 1990, 1998. Il ritrattamento delle sue posizioni “linguistiche” avvenne dopo il suo ritorno a Cambridge fra il 1932 e il 1935; Ambrose 1979. 99  Trigger 2008, p. 400. 100  Sparti 2002, pp. 74-75. 101  Cochrane, Russell 2007, p. 3. 102  Ivi, p. 4. 97 

93  Renfrew 1980; per una rivisitazione della questione Harding 2005; Muscarella 2009. 94  Renfrew 1980, pp. 291-292. 95  Ivi, p. 292. 96  Si veda per gli effetti del linguistic turn in ambito anglo-americano Cerutti 1997; per il legame tra questo ed il rifiuto del materialismo marxiano Palmer 1993.

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia.

5.2. Schema sulle procedure argomentativo-deduttive che contribuiscono a creare un’interpretazione storico-archeologica.

L’intenzione è quella di uscire dalle trappole del linguaggio, delle interpretazioni, dalle linguistic fallacies o dalle thought-traps, per non soccombere alla treachery o alla conspiracy of language. Muovere da quella che Shanks ha chiamato a “‘poetic’ approach to archaeology, and beyond discourses of ‘counter-modern’, ‘non-modern’, ‘a-modern’ and ‘pre-modern’ (corsivo mio)”103. Credere in “a real past as an observable phenomenon” è un’illusione, nonostante si ammetta il doppio stato epistemologico dell’archeologia tra “natural science and humanity”. Si badi bene che non si parla di scienza sociale, ma di humanity, nel senso di poetry, sculpture and art attraverso le relazioni contemporanee tra archeologia e immagini, attraverso la quale l’archeologia si esprime (disegni, immagini tridimensionali, layers, ecc.), “we may generate broader understandings of the complex negotiations that may have existed in the past, while celebrating the potential for archaeological expressions in contemporary society” e dar ragione delle negoziazioni nel presente tra discorso non-accademico (pubblico) e ufficiale (accademia), in cui si costruisce il passato.

Questo fallimento non si deve però tradurre in un ritorno ad una process-driven scientific methodology ma piuttosto si deve tradurre nell’accettazione della sfida umanistica e delle potenzialità espressive delle narrative delle ricerche archeologiche: “We feel – continuano gli autori – that archaeological research must be reincorporated into the discourse of visual cultural theory and artistic expression”106. Un ritorno all’arte, dunque, suggerito dal fatto che nel mondo contemporaneo l’esperienza umana è sempre di più mediata, costruita e fruita, attraverso le immagini (digitali, televisive, catodiche). Ma di che tipo di arte si tratta quella richiamata dai due autori? 5.2.2. Arte visuale e tradizione. Sorprendono alcune cose. L’intento è quello di sviluppare un certo tipo di concetto di arte107 che sia un’arte tout court, non solo “the product of talented people who are often inspired by genius, madness or taste” ma in un senso più ampio. Riprendendo una recente definizione di Renfrew l’arte è “any painting or sculpture or material object that is produced to be the focus of our visual contemplation or enjoyment”108, cioè si considera arte qualsiasi atto poietico dell’uomo non riducendola a puro formalismo descrittivo, estetico e rappresentazionale, con proprietà formali. Questa filiazione è messa in atto dai due autori per ottenere degli obiettivi precisi. A dispetto della pretesa di rifarsi a un concetto dell’arte ampio e neutro, si costruisce, o meglio, ci si riferisce a un certo tipo di arte. Un’arte che non sia Classica e Canonica109, che non sia quella formalizzata dalla tradizione estetica del Rinascimento riconcettualizzata

La ricerca di un nuovo linguaggio è necessaria alla luce della stagnazione del dibattito attuale e del fallimento in blocco del postprocessualismo104 nel risolvere i problemi epistemologici dell’archeologia, riconoscendogli però il merito di aver messo in luce le carenze dell’approccio scientifico processuale. Il problema è che il postprocessualismo, nonostante le sue buone intenzioni, affonderebbe la logica delle sue preposizioni ancora nel pensiero “moderno” e il suo fallimento corrisponderebbe al fallimento delle spiegazioni “testuali” per risolvere problemi epistemologici e ontologici in archeologia105.

Ibidem. Si legge a pagina 5 un’affermazione curiosa e di difficile comprensione in termini di filiazione: “Deriving the term ‘art’ from the Old French ‘ars’”. 108  Cochrane, Russel 2007, p. 5; Renfrew 2003, p. 66. 109  Per il termine ‘classico’ e la sua storia Citroni 2007, per il significato di ‘canone’, ‘codice’ e il rapporto tra memoria e concezione del passato Assman 1997. 106  107 

Ibidem. Sottolineato recentemente da John Bintliff e Mark Pearce nella sessione da loro organizzata all’incontro dell’European Association of Archaeologists del 2006, dal titolo “The Death of Archaeological Theory”. 105  Cochrane, Russell 2007, p. 5. 103  104 

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L’ideologia degli archeologi attraverso il recupero dell’antico110, ma che sia il più possibile vicina alla concezione contemporanea dell’arte, intesa nel suo senso a-moderno, pre-moderno, ovvero (ci si passi i termini), primitivo, primordiale, diretto, puro e spontaneo. Affermano i due autori in una nota: “Outside the discipline of archaeology, there is a large body of knowledge encompassing art history. Most of this discourse, however, addresses art in a specific cultural context of literate societies, and is therefore of limited use within some archaeological milieu (e.g. prehistoric studies). […] The trend is to create a framework for artistic study that demonstrates relationships between the image and its social meanings (Layton 1991). This orthodox art-historical application informs little of indigenous and pre-Renaissance European contexts, and more of Western notions of universal human ‘culture specific’ and ‘periodspecific’ aesthetics (corsivo mio)”111.

preistorici paiono mettere in atto questo ultimo e definitivo meccanismo di assorbimento delle prerogative classiche eliminando proprio il concetto di tradizione come categoria analitica e assorbendo la storia dell’arte antica. L’arte diventa il “vero” linguaggio umano, più della parola e delle fonti scritte, in sostanza dei “classici”. Non più The Great Tradition contro The Great Divide. Una volta riassorbito il conflitto rimane l’archeologia tout court contro la tradizione e, per ostensione, contro l’archeologia classica. Queste intenzioni ci paiono confermate dal riferimento nel manifesto alle avanguardie di inizio Novecento, tra le quali spicca l’insistenza sul movimento artistico del Futurismo italiano114. Caratteristica di queste avanguardie era l’intenzione di sovvertire l’ordine costituito insieme ai concetti stabiliti nelle accademie dai professori e dagli antiquari orientati sui canoni antichi. Un attacco cioè alla tradizione attraverso la potenza deflagrante della poesia e dell’arte come espressione istintuale e a-formale. Per tutto l’articolo si trova la parola “expression” intesa come pratica dell’arte (archeologica), come atto poietico, nel tentativo “to free art from quotation”, liberarla dal peso della tradizione filologica. E immaginiamo per liberare anche l’archeologia dal peso delle citazioni e dall’enciclopedia. Un attacco al passato, alla storia e alla filologia. Questo “pictorial turn” (ennesimo turn nelle scienze sociali)115 si basa sulla concezione che la ricerca sia un atto creativo e che la pratica dello scavo archeologico sia una performance116, così come la fruizione di una pubblicazione archeologica è un atto di critica letteraria. Intesa come esperienza esistenziale di individui che agiscono nella storia e con la storia. Un individuo che è unità di mente e natura, di soggetto e oggetto, che pensa attraverso immagini e che crea immagini pensando e agendo117.

In questo modo si ottengono due obiettivi. Uno è quello di comprendere sotto il termine arte anche la rock-art e quella megalitica (operazione legittima), attraverso un’operazione genealogica che mette direttamente in comunicazione il presente contemporaneo al passato umano pre-logico. E questo interessa soprattutto i preistorici e la loro disciplina. Questo stato pre-logico e pre-moderno ha come seconda conseguenza quella di decostruire il concetto occidentale di arte, decolonizzarlo dall’eurocentrismo, renderlo politicamente neutrale e utilizzabile anche in contesti non occidentali (in una operazione degna dei postcolonial studies). Ad esempio, gli aborigeni dell’Australia settentrionale non possiedono nel loro linguaggio una parola che definisca il concetto di “arte” così come la intendiamo “noi” nella nostra civiltà, pur possedendo delle espressioni “artistiche”112. Ovviamente qui non si vuole certo negare che gli aborigeni non possano avere o anche non avere un contro-concetto o una concezione diversa di ciò che noi intendiamo per arte. Sembrano però rischiose alcune delle operazioni sopra descritte, come la costituzione del legame arte/ presente, arte/primitiva, arte/vera, investito di una qualche forza primordiale dirompente per l’archeologia. Ma ciò che stupisce ancora di più è l’attacco rivolto all’arte “tradizionale” e dunque alla “tradizione” in genere, a cui un certo tipo di storia dell’arte era finora legata. Tale attacco cerca di rendere l’arte in qualche modo finalmente libera dalla zavorra dell’antico e renderla totalmente nuova, cioè contemporanea, ovvero preistorica, primitiva. Questo è dovuto al difficile rapporto con la tradizione in genere in ambito culturale anglo-americano113, ma anche a un tentativo da parte dei preistorici di appropriarsi in maniera esclusiva del concetto di arte da cui erano stati esclusi finora: un’arte rifondata, vera in quanto primitiva, preistorica, a-tradizionale e pre-moderna. Dopo aver separato l’archeologia dai classici ed esserne appropriati, i

5.2.3. Immagine e conciliazione. Per esemplificare i concetti espressi nel manifesto, per visualizzarli, Cochrane e Russell danno l’esempio di alcuni fotomosaici che, attraverso la potenza dell’immagine, si pongono come luogo privilegiato di sintesi e di concettualizzazione. L’immagine è composta da migliaia di pixels che ospitano all’interno delle celle migliaia di altre immagini, diventando metafora dell’eterogeneità che compone la realtà. Questa metafora può essere utile sia per rappresentare la multivocalità di una disciplina o di un dibattito, sia per rappresentare la complessità di una problematica archeologica senza necessariamente separare o privilegiare una sua componente. Operazione tipicamente argomentativa, legata cioè alla natura del linguaggio, la visualizzazione risolve armonicamente i conflitti. 114  Ci sorprende questo riferimento alla cultura italiana dopo tanto anglocentrismo. Ci sorprende forse un po’ meno, che il nome di Marinetti sia trascritto in maniera scorretta: “Fillipo Tomasso Emilio Marinetti”, p. 4. 115  Cochrane, Russell 2007. 116  Shanks 2004, per l’archeologia come performance, ma anche Hodder 1991b, 2003. 117  Per il concetto di storia “esistenziale”, Vernon 1994.

110  Si veda Settis 1986, 1989 sulle procedure di recupero dell’arte antica e il suo riuso come paradigma per il presente. 111  Cochrane, Russell 2007, n. 10, p. 16 112  Ivi, n. 9, p. 16. 113  Trigger 1984; Osborne 2007; Hingley 2001a, 2001b.

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Archeologia, empirismo, ermeneutica e fenomenologia. Così, ad esempio, l’immagine di Sir Mortimer Wheeler, “one of the most iconic British archaeologists”, può essere scomposta in centinaia di immagini legate alla sua figura. Esplorando ogni immagine ci si squaderna il paesaggio di idee e di cambiamenti che hanno attraversato l’archeologia per merito di Wheeler e seguendo le sue orme, in una sorta di ri-costruzione di una nuova tradizione. Questa nuova tradizione è telematica, virtuale, pubblica. Le immagini infatti sono il risultato di un “unfiltered searches for the words ‘Warfare’, ‘Still Digging’, ‘Civilizations’, ‘National Museum’ and ‘Stratigraphy’ through the Google ‘Image Search Engine’”118. Allo stesso modo il quadro del dibattito teorico in archeologia può essere rappresentato attraverso l’immagine di uno dei suoi più conosciuti esponenti, Julian Thomas, scomposta e ricomposta con il medesimo procedimento. La “cosmogonia teorica” di Thomas si trova frammentata nelle immagini-celle che formano il suo ritratto insieme ad altre che rappresentano posizioni teoriche differenti e che convivono in uno stesso spazio giustapposte in una nuova coerenza che ne preserva le peculiarità.

in gioco immagini che richiamano il forte significato simbolico che evocano gli Elgin Marbles: significati politici, “identitari”, meccanismi di appropriazione del passato medesimi ma anche responsabilità morali personali e collettive coinvolte nell’appropriazione ideale e materiale dei marmi. Ciò che però più colpisce è vedere l’antichità disintegrata dall’immagine virtuale. Non perché l’antico sia sacro e inviolabile ma per gli obiettivi che vuole raggiungere; non per i modi ma per i fini. Se ci convince il proposito di richiamare le archeologhe e gli archeologi “to participate in active and dynamic methods of visual expression” senza per questo reclamare “a Dadaist archaeology or a Futurist archaeology or indeed a surrealist archaeology” attraverso “a re-engagement of archaeology with the history and contemporary practice of the visual arts”121, ci convincono meno le manie iconoclaste e la demolizione della “tradizione” nel tentativo di crearne un’altra attraverso il medesimo meccanismo delle citazioni (stavolta casuale e visuale). E non ci convince neanche il richiamo ad una logica pre-moderna con l’illusione che questa (quella dei primitivi) sia la sola in grado di restituirci un’unità ontologica tra soggetto e oggetto, tra idea e materia, tra sacro e profano122. Crediamo di aver a che fare con entità ben definite e nette come moderno, pensiero prelogico, arte. Nel passaggio brusco da un nominalismo di linguaggio a un essenzialismo di comodo, pare non vi sia spazio per dei compromessi di buon senso tra gli estremi del positivismo volgare e dell’idealismo di maniera. E ancor meno ci convincono i tentativi di riconciliazione, parte di una retorica tesa a costruire una nuova ortodossia, proclamandosi al di sopra delle parti.

“Just as each excavated deposit is characterized by a particular position in the composition and sequence of a site, digital and visual information is used to create a pattern or montage against which other elements of interpretation can be studied. In doing so, the Wheeler Photomosaic further illuminates how seemingly disparate elements from the world, when viewed from an appropriate perspective and distance, can generate new understandings and thoughts”119. La fruizione dell’immagine diventa un atto di appropriazione simultaneo attraverso il bricolage e le sovrapposizione di “piani”, “concetti” e punti di vista anche irriducibili, in uno stesso spazio virtuale. Lo sforzo di riconciliazione visiva e concettuale passa attraverso il processo di esplorazione delle “‘cell-images’ themselves and question their role within the composite whole—leading to questions of both the images and their own involvement in personal and national expressions of cultural identity and conflicts over images of civilization. This piece also highlights the conflict of issues of ownership of images and control of the methods of representation”. Tale scomposizione diventa infine un atto politico: “In this conflict, we acknowledge the challenge to conceptions of copyright and intellectual property, and cite the tradition of artistic appropriation of publicly accessible images as responsible acts of subversion; such is the nature of collage”120. È lo smantellamento dell’appropriazione delle icone a fini della lotta disciplinare e della legittimazione delle proprie idee attraverso il meccanismo della citazione. Una moderna e digitale decolonizzazione del passato. Tale rottura con i meccanismi di appropriazione del passato e della tradizione è ben presente nel fotomosaico operato sulla Metopa XXVII del frontone meridionale del Partenone. Nelle celle che compongono la Metopa entrano

Cochrane, Russell 2007, p. 8. L’antropologo Jack Goody ci ha insegnato che il pensiero “razionale” non è una prerogativa della modernità, e che noi, i moderni, non siamo meno religiosi di altri, Goody 1977. 121 

Cochrane, Russell 2007, p. 13. 119  Ivi, pp. 13-14. 120  Ivi, p. 12. 118 

122 

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6 Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo). In altri termini non le categorie più astratte precedono storicamente l’insieme concreto, ma la funzione predominante delle categorie più astratte precede la loro funzione subordinata. Dunque la storia stessa opera l’inversione della direzione del suo movimento, non l’ordine logico di esposizione della storia capovolge l’ordine storico di esposizione, ma il corso storico medesimo capovolge l’ordine sia logico che cronologico dei suoi processi anteriori invertendone la tendenza e quindi la predominanza. G. Prestipino1 6.1. Marx, Kant, Hegel e l’archeologia angloamericana.1

supporto empirico. Qui “empirico” è riferito unicamente alla presenza di una base materiale e documentaria della ricerca e non alla possibilità di verificare empiricamente un fenomeno. La riproducibilità del contesto storico non è ovviamente oggetto di una discussione. L’empirismo raddoppiato (redoubled empiricism) è invece un empirismo di “secondo livello” che cerca di sfuggire alla trappola del dogmatismo riflettendo consapevolmente ed empiricamente sulla costituzione dei concetti nelle loro relazioni specifiche3. Questo vorrebbe ottenere anche l’ultimo orientamento simmetrico. Ritornare alle cose in un’era post(post)moderna, postprocessuale, ma soprattutto post-teorica4. La fine dell’epistemologia, il rifiuto di essa e il ritorno all’ontologia sono indizi di un percorso che si cerca di intraprendere5.

Ci proporremo in questo capitolo di approfondire alcuni temi strettamente filosofici venuti alla luce dalle teorie recenti nate in seno all’archeologia alla fine del postmoderno, e in particolare mi riferisco all’influenza dell’ontologia kantiana e dell’incomprensione della fenomenologia di Heidegger che sta alla base dell’archeologia simmetricoontologica, così come il tema della riduzione al soggetto del linguaggio e del discorso archeologico sulla percezione del passato, derivato direttamente dall’archeologia postprocessuale. Cercheremo però di andare oltre e indagare il fenomeno in profondità per capire la peculiarità di tali oscillamenti teorici in archeologia nel quadro di differenti tradizioni culturali, filosofiche e accademiche. Per fare questo toccheremo temi filosofici, argomentando come soprattutto il rifiuto del materialismo dialettico di Marx abbia giocato un ruolo nella riduzione alla spiegazione culturale, permettendo poi a coloro che lo aveva ignorato di proclamare impunemente il “ritorno” alle cose dopo un lungo esilio2. Vedremo che questo esilio è circoscritto ad un contesto culturale preciso e che all’inizio del nuovo millennio, in alcuni casi, sembra ancora perpetuarsi.

6.1.2. Le conseguenze della morte di Marx. L’ipotesi che qui si avanza è che le difficoltà teorico-pratiche registrate dall’archeologia postprocessuale, simmetrica e neo-ontica di dar ragione del rapporto tra “cose” e “uomo”, tra la materialità segnica e l’intenzionalità, tra materiale e sociale, dipendono dal rifiuto (o dal cattivo uso) del pensiero di Marx nella tradizione archeologica angloamericana6. Da qui anche l’acribia verso i paradigmi tipici della modernità e il pensiero razionale cartesiano7 da più parti additato come il vero male8.

6.1.1. Empirismo raddoppiato. Il progetto empirista nasce con l’intento di voler eliminare le assunzioni non verificabili e prive di supporto empirico per combattere il dogmatismo. Questo fa parte soprattutto della tradizione britannica e anglo-americana in generale. Il disagio che provoca spesso l’accostamento tra un dichiarato atteggiamento empirico e una forte tendenza alla generalizzazione e alla teoria, proprio in quel contesto di studi, nasce dal fatto che, in ultima istanza, l’empirismo, dichiarandosi “empirico”, crea comunque concetti e paradigmi a cui si riferisce in maniera inconsapevole, nonempirica e dunque dogmatica. Questo è ancora più evidente in una disciplina come l’archeologia dove la presenza di dati a livello sia qualitativo che quantitativo è sostanziale. Ma questo non impedisce di fare asserzioni, creare carriere e interi dipartimenti accademici privi di qualsiasi 1  2 

Vari sono i motivi di questo processo. Non si vuole sostenere qui la totale ignoranza nella tradizione accademica anglo-americana del pensiero di Marx. 3  Secondo Davidson 1986, pp. 307-308 l’empirismo senza dogmi non avrebbe più il diritto di essere chiamato tale, mentre per Murray 2009, p. 117 il progetto doppio-empirista rientra coerentemente nell’iniziale progetto filosofica. L’attacco ai dogmi dell’empirismo logico era già stato mosso da Quine (e al positivismo dunque). Da una parte la distinzione analitico-sintetica e dall’altra (quella che qui ci interessa), quella carattere dato e non interpretato dei fatti osservati, Quine 1969. 4  C’è che ha parlato di fine dell’epistemologia (Sparti 2002) e chi come Bintliff, Pearce 2011 esplicitamente di ‘morte della teoria’ . 5  Jameson 2003. 6  Kellner 1989, 1995, 1997 per il rapporto tra Marx, teoria critica nella dialettica moderno post-moderno. 7  Antonio, Kellner 1994: Eagleton 1996; Foster 1996. Per l’archeologia Hamilakis 1999a. 8  Per tutti valgano Thomas 1995, 1996, 2004; Thomas et alii 1996; Johnson 1999; Knapp 1996, per l’archeologia. In generale Alexander 1995; Mclennan 1996; Rosema 1992; Salasar Ramos 1994.

Simoni 2006, p. 166, n. 42. Vanni 2017.

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L’ideologia degli archeologi formazione economico-sociale12. C’è una più profonda incompatibilità tra pensiero marxiano e temi postmoderni e tra empirismo britannico e concetti marxiani13. In questo senso il postmoderno segna la definitiva morte di Marx14.

Riprova dell’interesse per il Marx filosofo, economista, politico e storico sono la presenza di autorevoli riviste che agiscono sul solco di quella tradizione. In campo storico si ricorderà qui Past&Present fondata nel 1952 da un gruppo di storici marxisti tra cui E. P. Thompson, Christopher Hill, Eric Hobsbawm9 o in campo politico ed economico la New Left Review. Per l’archeologia basti qui ricordare gli statunitensi Thomas C. Patterson, Mark Leone e Phil L. Khol10. Né si vuole sostenere che una riproposizione di qualsivoglia archeologia neo(neo)marxista sia la soluzione per riconciliazioni o cambiamenti paradigmatici da mettere in agenda per l’archeologia del nuovo millennio. La difficoltà di penetrazione nella tradizione antropologica e archeologica anglo-americana di alcune tematiche marxiane ha innescato alcuni “ritorni” o derive teoricopratiche11. Per evitare schiacciamenti di senso è bene precisare che il concetto di deriva epistemologica rende bene l’idea del movimento percorso dall’archeologia nell’era postmoderna. Una deriva durata fino ad oggi ma che dopo un lungo navigare scorge in lontananza la nave che fa ritorno al porto del materialismo, che ritorna alle cose non senza aver perduto alcuni importanti capisaldi che ci preme qui ribadire.

Ma vediamo più nel dettaglio quali sono queste incompatibilità in riferimento all’archeologia. Due sono ben note: (1) la presenza di categorie “forti” e la tendenza alle generalizzazioni del pensiero marxiano contrastano con la parcellizzazione postmoderna e con la volontà di far prevalere il pensiero “debole”15. Le grandi ricostruzioni paradigmatiche sono accantonate. Da qui anche il programma più volte ricordato di creare un inventario delle differenze, una volta persa la forza delle categorie unificanti. Differenziare, constatare le unicità contestuali più che com-prendere; (2) l’attenzione posta sulle basi materiali-produttive, sul modo di produzione, sull’infrastruttura viene intesa come una dominazione logica di potere e consequenziale della base materiale su quella ideologica. La realtà delle sovrastrutture, delle idee, della politica e della cultura deve essere ricondotta alle sue vere ragioni produttive e materiali. La realtà storica deve essere studiata smascherando i rapporti di potere (cioè di sfruttamento e di appropriazione dei mezzi di produzione) celati dalle sovrastrutture ideologiche. Così inteso il pensiero di Marx è d’ostacolo agli obiettivi postmoderni che fanno dell’ideologia non un epifenomeno delle strutture economico sociali ma una forza attiva e ben operante; noi ne aggiungiamo una terza: (3) la convinzione che Marx non si sia mai potuto liberare dell’idea hegeliana della storia secondo la quale diverse ere si succedono nell’umanità seguendo l’ordine di sviluppo dello spirito che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Come aveva già notato Gramsci parlando delle affermazioni di Georges Sorel, tale affermazione non si giustifica ed è azzardata: “Nel materialismo storico la qualità è però strettamente connessa alla quantità e anzi in questa connessione è la sua parte originale e feconda. L’idealismo ipostatizza questo qualcosa, ne fa un ente a sé, lo spirito, come la religione ne aveva fatto la divinità. Ma se è ipostasi quella della religione e dell’idealismo, cioè l’astrazione arbitraria non procedimento di distinzione analitica praticamente comodo per ragioni pedagogiche, è anche ipostasi quella del materialismo volgare che divinizza la materia”16.

Il pensiero di Marx viene rigettato per motivi ideologici e politici. In ultima analisi perché è una critica al capitale e al funzionamento della società capitalista, in sostanza a quella formazione economico-sociale in cui Stati Uniti e Gran Bretagna sono più profondamente coinvolti. Questo in generale il motivo di come mai anche nei suoi anni di più intensa rivisitazione e fecondità (anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) il pensiero marxiano non risulterà mai dominante. Ma laddove alcune tematiche erano penetrate anche in archeologia, con l’avvento del postmoderno se ne è registrato l’arretramento. Ancora una volta è lo shock politico-ideologico che gioca il ruolo maggiore in questa disaffezione. Con la caduta del Muro s’infrange il sogno socialista, prova che le “previsioni” di Marx si erano rivelate errate. Questo minerà sia il Marx storico che il Marx economista, il filosofo e teorico di un certo modo di praticare le “scienze” sociali, ma soprattutto il Marx marxista, il politico. I sovvertimenti del “Secolo breve” metteranno in discussione anche la portata delle strutture “forti” da lui elaborate. Strutture capaci di dar ragione in storia delle periodizzazioni e della dinamica dei cambiamenti e delle continuità come il concetto di

Come si è più volte ricordato in questa sede, il secondo punto prevede una “volgarizzazione” di Marx su quelle che sono state definite posizioni vetero-marxiste,

Santucci 1970. Leone 1995; Leone et alii 1987 su archeologia e capitalismo; anche gli studi di Patterson 1986, 1989, 1990, 1999, 2000, 2003. Quest’ultimo particolarmente interessato al ruolo della dialettica materialista in archeologia e, sulla scia di Gramsci, alla funzione dell’archeologo come intellettuale. Mark Leone ha definito crypto-marxists coloro che utilizzano le riflessioni di Marx anche in termini di discorso sul potere, senza rifarsi esplicitamente a lui, Leone et alii 1987, p. 757. Si vedano anche i contributi di Maurer 2006; Rowlands 1984 e i volumi collettanei di Spriggs 1984 per una panoramica sul rapporto tra categorie marxiane ed archeologia nel contesto anglo-americano. Whickam 1988, 2007 sulla storia e gli storici marxisti. 11  Per queste difficoltà in antropologia Bloch 2004. In archeologia Patterson 2003. 9 

10 

Sereni 1970. Sul peso della figura di Sereni nella tradizione storicomarxiana italiana Giardina 1997, 2007. 13  In controtendenza dal punto di vista di questa incompatibilità qui supposta, si veda l’articolo di Jameson 1984 e poi il successivo libro del 1991 in cui l’autore non solo analizza la logica postmoderna attraverso il pensiero e le categorie marxiane, ma, attraverso queste, pone le basi del superamento di essa. Per i limiti di questo ultimo obiettivo di Jameson si veda Luperini 2005. 14  Jameson 2009. 15  Vattimo, Rovatti 2010. 16  Gramsci 1975, pp. 447-451. 12 

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Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo). “Si tratta di farle apparire come avvenimenti sul teatro delle procedure”23. Come già ricordato non si contesterà qui né la base filosofica né la validità di un tale metodo ma semmai le conseguenze di tale prospettiva alla prova della ricerca storica. Seguendo Foucault, il grado di “realismo” e di verisimiglianza di un fatto storico non conta. Non conta se una cosa è avvenuta e in che modo ma conta solo come è stata costruita nella storia. Un esempio eccelso di questo tipo di storia è quello operato dallo storico francese Paul Veyne, fortemente influenzato da Foucault24 e contro cui, non a caso e da posizioni opposte, si sono scagliati sia Andrea Carandini che Arnaldo Momigliano25.

per intendersi, prima dell’esegesi althusseriana17. In archeologia, nel panorama italiano in particolare, uno dei primi a mettere a frutto questo marxist turn è stato Andrea Carandini, che ci ha ricordato come per Marx struttura e sovrastruttura si influenzino mutevolmente e in maniera indiretta18. Ma soprattutto ha ricordato la grande lezione marxiana della storicità non solo dei sistemi produttivi a cominciare dal capitalismo, ma di tutte le forme di potere, di lotta e di cultura19. 6.2. L’ideologia e la struttura: Foucault-Veyne e Marx. Spostiamo il ragionamento di luogo e disciplina ma senza andare troppo lontano. Riferendoci alla seconda incompatibilità prima analizzata, bisogna sottolineare che essa non significa solo un preponderante spostamento dallo studio di fenomeni economici a quelli culturali e ideologici, ma che è anche un’operazione di logoramento e infine di eliminazione dell’ideologia stessa. Questa eliminazione della categoria logica dell’ideologia dalla storia è dovuta a Michel Foucault. Egli acquisì una grande influenza sul movimento postmoderno specialmente negli Stati Uniti20 dove lo si è preso anche a punto di riferimento per lo studio della storia21. L’ideologia come parola compare difficilmente negli scritti di Foucault e a buona ragione. Per il filosofo francese è l’ideologia il vero oggetto di studio della storia che egli chiama episteme e la logica del cambiamento strutturale è quella del conflitto di potere: “il grande gioco della storia sta in chi si impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di quelli che le utilizzano […] e le rivolgerà contro quelli che le avevano imposte” 22. La storia è cioè lo studio dei sovvertimenti, delle sostituzioni delle regole, della trasformazione dei dominati in dominanti attraverso rivoluzioni ideologiche. Interpretare la storia non è svelare il nocciolo duro che sta sotto la parvenza dell’ideologia ma scovare genealogicamente l’origine di una data interpretazione: interpretare l’interpretazione. La genealogia deve essere la storia delle rivoluzioni interpretative come emergenze d’interpretazioni diverse:

In uno dei suoi ultimi lavori sulla cristianizzazione dell’Impero romano e sulla questione delle radici cristiane dell’Europa moderna26, Veyne significativamente intitolava il capitolo chiave del suo discorso “L’idéologie existe-t-elle?”27. Il concetto espresso è quello che “Le Pouvoir, serait-il léniniste, est le premier à croire à ce qu’il dit et cela lui suffit. […] Il faudrait donc tenter d’éclaircir la notion obscure d’idéologie”28. Il caso specifico studiato da Veyne è la religione romana e il trapasso dal paganesimo al cristianesimo attraverso l’atto simbolo della conversione di Costantino e la nascita della religione cristiana come religione di Stato. Gli atti chiamati a spiegare tali sovvertimenti non nascondono fatti più “seri” nel loro fondo, non sono mistificazioni che celano un significato più vero. Non sono manipolazioni ideologiche che nascondono i crudi meccanismi della realtà per legittimare relazioni di potere che relegano una parte del corpo sociale in posizione subalterna. Ma sono invece realia a cui anche i loro stessi protagonisti hanno creduto: “L’histoire ne se réclame plus d’une transcendance. La sécularisation du pouvoir en est une conséquence parmi d’autres. L’histoire ne se dévide pas entre une époque ancienne où la religion soutenait le pouvoir et l’époque actuelle ou le Pouvoir est désacralisée, désenchante, mais entre une époque ancienne ou les rois étaient supérieurs en nature a leurs sujets; et notre époque ou rois et présidents ont l’aspect d’homme comme les autres”29. È un problema di prammattica. Non è la propaganda o la comunicazione distorta, possibile attraverso l’appropriazione dei mezzi di produzione (e di comunicazione), a mantenere i rapporti di potere “c’est de la pragmatique linguistique où le locuteur s’impose, non à travers le contenu ‘idéologique’ de son message (chrétien, marxiste, démocratique…), mais pour la position dissymétrique et supérieure que, quand parle, il prend devant son auditoire”30. Dunque, conclude Veyne, la nozione di ideologia contiene due errori. Il primo è quello di credere che il contenuto preceda logicamente la posizione occupata dal significante all’interno dei

17  Per la portata del lavoro di ri-contestualizzazione di Marx in chiave dell’interpretazione storica si veda Vilar 1973. 18  Carandini 1975, 1979a, 1979b. Il ruolo di Carandini, pur con critiche, è riconosciuto da Peroni 1976-77 nella recensione ad Archeologia e Cultura Materiale. Nonostante alcune affermazioni di dissenso che Peroni rivolge a Carandini (“leggermente petulante”, “irrita l’indulgenza verso di sé”, “poco credibile candore”, “fraterna cattiveria un po’ sospetta”), riconosce che quest’ultimo ha messo per iscritto ciò che si sarebbe potuto e dovuto scrivere molto tempo prima (da qui una certa irritazione). Ed infine sempre Peroni ammette: “come tutto ciò che segna, senza remissione, la fine di qualcosa, esso è un fatto traumatico”, p. 657. 19  Su questa tradizione nell’archeologia italiana Guidi 2001; mentre sul ruolo rivestito dall’Istituto Gramsci per lo sviluppo di prospettive innovative su certe tematiche storico-archeologico Giardina 2007 e Duplà Ansuategui 2001. 20  Cusset 2003. 21  È noto il tentativo di Christopher Tilley di far conciliare Foucault e l’archeologia con lo strutturalismo in generale, Tilley 1990a, 1990b, 1990c. Recentemente il concetto di ‘potere’ in senso foucaldiano ha conquistato anche buona parte dell’archeologia italiana (De Guio 2001). Si veda per il rapporto tra filosofia e storia in Foucault e per le differenze sostanziali tra paradigma congiunturale-semiotico di Ginzburg e genealogia, anche il volume Aut Aut 1980. Esiste infatti anche un Foucault storico (dell’epistème). 22  Foucault 1977, p. 38.

Ivi, p. 41. Due libri dedicati al filosofo-amico, Veyne 1979, 2008. 25  Carandini 1979a; commenti sull’operazione epistemologica di Veyne anche in De Certeau 1972. 26  Veyne 2007. 27  Ivi, pp. 225-248. 28  Ivi, p. 226. 29  Ivi, p. 232. 30  Ivi, p. 234. 23  24 

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L’ideologia degli archeologi rapporti di potere. Il secondo che vi sia una separazione tra dominati e dominanti, tra realtà diverse, tra cultura ed economia. In verità, l’individuo, il gruppo e il potere sono inestricabilmente tessuti insieme. Non c’è bisogno di creare un’ideologia o un messaggio ideologico per nascondere i veri intenti. E parimenti non c’è bisogno di studiare la storia presupponendo questa separazione. Costantino si convertì perché credeva veramente nell’atto della conversione intima in quel dato momento. Non fu un tentativo di legittimazione popolare o di attirare i favori del potere ecclesiastico. “L’intellectualisme – derivato dai sofisti e perpetuato dal pensiero razionale – et l’individualisme empêchent d’apercevoir cette épaisseur obscure de la socialisation”31 e conclude “Ce qu’on appelle idéologie est un peu d’huile dans les rouges, ce n’est pas un message qui fait obéir, mais seulement un plaisir, une pragmatique qui lénifie des peuples soumis par ailleurs”32. L’impero pagano faceva della religione lo stesso uso che ne facevano gli individui. Non vi è alcuna continuità funzionale né di natura tra cristianesimo e paganesimo. Questa religione assai leggera (una sorta di laicità ante litteram) costringerà Costantino e l’Impero a dei doveri nei suoi confronti che prima non erano pensabili. Non sarà l’Impero ad utilizzare la religione ma l’opposto. “Les empereurs païens n’avaient pas eu besoin d’une religion pour souvenir leur régime. Il leur est arrive de rendre un culte particulier à un dieu qui leur avait procuré la victoire”33. Non bisogna credere che progressivamente si è separato il sacro e il profano, la religione e la politica, come conquista dei nostri tempi. Gli antichi avevano ben presente la distinzione. La religione era dappertutto, senza però esigere troppo34.

Il paradigma indiziario è inspirato alla semiotica medica e alla sintomatologia, condivisa con i metodi di indagine di Morelli, Sherlock Holmes/Conan Doyle e Freud36. Ad ogni segno corrisponde un sintomo e una patologia (nel nostro caso storica). Ci sarebbe un ordine di grandezza tra fenomeni e segni di superficie e fra sintomi e realtà in profondità. L’uno è il segno rivelatore dell’altro: quest’ultimo in grado di importanza, rappresenta il vero obiettivo dello storico. Ora, secondo Foucault, segno e sintomo sono la stessa cosa. Quest’ultimo non sarebbe altro che il supporto morfologico dell’altro. Ogni sintomo è un segno, ma non tutti i segni sono sintomi37. Questo è uno spostamento di senso non indifferente. Si contesterebbe cioè la connessione tra una realtà profonda di cui i dettagli culturali sarebbero solo epifenomeni. “Sotto gli avvenimenti – dice Foucault – si darebbe un’altra Storia, più vera, più reale e più seria, che scorre sotto la storia”38. Per il filosofo francese i colpevoli sono presto scoperti: Hegel, Feuerbach e Marx39. Al di sotto del paradigma indiziario vi sarebbe una concezione della storia totalizzante, sensata, consapevole, ragionata, nascosta nei suoi profondi meccanismi e permeata di senso a tutti i livelli e raggiungibile attraverso questi. Un circolo ermeneutico dove la parte, il frammento e la superficie rappresentano il segno, mentre il tutto che risiede in profondità è il sintomo. Un circolo che stabilirebbe dunque delle gerarchie di senso verticali attraverso la semiotica, che altro non sarebbe che un’analogia applicata40, non solo orizzontale, nella sua versione spaziale e diacronica (passato e presente), ma anche di valore (alto/basso). Per lo storico di professione l’alternativa al paradigma semiotico-congiunturale sarebbe il metodo chiamato dell’“evidential paradigm”41 praticato da Auguste Daupin, un altro famoso detective della letteratura creato da Edgar Allan Poe42. Secondo questo metodo di indagine, un oggetto materiale, un’evidenza o una traccia non mascherano nulla al di sotto di essi. Non vi è superficie o dettaglio, né una rete di relazioni verso una realtà più profonda43. Il segno corrisponde quasi sempre al sintomo e cercare di intensificare porta fuori strada. Ma vi è di più. In termini di contesto archeologico ad esempio, un oggetto, un coccio o una moneta appartengono esclusivamente al contesto dove sono stati trovati. Non esiste un contesto “altro” da ricostruire perché inaccessibile. Il lavoro dello storico, in questo modo, è stabilire delle serie di reti di relazioni possibili che si articolano attorno all’oggetto. Ancora: la storia e l’evento si svolgono completamente in “superficie”; non siamo in grado di conoscere più a fondo o meglio di Tucidide la Guerra del Peloponneso, possiamo

Questo, politicamente, impone che non vi sia un potere da contrastare, disuguaglianze da sovvertire, false ideologie che coprono lo stridulo rumore dell’ingranaggio di dominazione, ma rende tutti complici del medesimo meccanismo di potere. La lotta di classe è qui lontana anni luce. Ma torniamo alle incompatibilità di cui sopra. 6.2.1. Paradigmi a confronto: superficie/profondità vs. segno/sintomo. Nel capitolo primo abbiamo brevemente analizzato il “paradigma indiziario”, nell’ambito di quella che è stata definita la crisi della ragione. Crisi che, come abbiamo avuto modo di vedere, diventa in archeologia un vero e proprio attacco al pensiero razionale definito come cartesiano e moderno. Il paradigma indiziario è stato da molti considerato il nuovo slittamento paradigmatico in storiografia che, riducendo la scala dell’indagine, dava ragione dell’azione dell’individuo piuttosto che della struttura35. Abbiamo già visto che le cose non sono così semplici.

Ginzburg 1979. Si veda brevemente Carandini 1991; Pucci 1994 sulla prova in archeologia e 2000 per il paradigma indiziario. 37  Foucault 1966, pp. 284-291. 38  Foucault 1969, p. 159. 39  Foucault 1966, p. 89; su questi temi si veda ora Burgio 2018. 40  Rebello Cardoso 2003, pp. 6-7. 41  Ivi, p. 2. 42  Poe 1938. 43  Rebello Cardoso 2003, p. 13. 36 

Ivi, p. 236. Ivi, p. 237. 33  Ivi, p. 245. 34  Ivi, p. 247. 35  MUIR: http://mamaynooth.freeservers.com/muir.htm. 1, definito come “a reduction of the scale of historical research in order to isolate and test the abstractions of social thought”. 31  32 

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Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo). solo porre nuove domande che Tucidide non si è posto44, così da creare una “nuova” serie di eventi e di intrecci (creare? inventare? supporre?). Domande che provengono dal presente. L’evento è semplice, lineare, così come lo vediamo e lo incontriamo. La nostra ostinazione a rifiutare la banalità della storia e a voler riempire di senso il mondo e il passato diventa un affanno a complicare le cose. Sostiene la Cerutti che “L’approche sémiologique qui reconnaît dans le langage un système de signes (et pas seulement un système symbolique qui renverrait à des signifiés préexistants) ne nie pas que ceux-ci soient structurés en métaphores (signifiants) qui se réfèrent à quelque chose d’autre (signifié). La sémiologie met plutôt en discussion notre approche naïve, selon laquelle la différence entre objet désigné et instrument de désignation serait seulement une différence de catégories, entre un phénomène réel et un épiphénomène, une ‘représentation’…”45.

dei misteri d’iniziazione Bacchici ma a scene di vita quotidiana di una matrona romana, simili a quelle raffigurate nelle nozze Aldobrandine in Vaticano. Le scene di iniziazione sono tutte state agilmente attribuite a momenti “tipici” della vita quotidiana di una matrona, a cominciare da quelle di vita coniugale o a scene di toletta. La presenza di Dei e di oggetti sacri all’interno dell’affresco dipenderebbe esclusivamente dal legame che ciascun oggetto intrattiene con un Dio tramite la funzione che esprime e le caratteristiche che possiede, riconducibili a certe situazioni tipiche e stigmatizzabili della quotidianità49. “La fresque n’est ni cultuelle ni même proprement religieuse : les croyances bachiques sont ici le prétexte à un jeu artistique sur des réalités très quotidiennes et socialement conformistes.”50. Il mistero dell’affresco della villa sarebbe stato fabbricato dunque attraverso un’operazione d’intensità ovvero un’operazione di misconoscimento della quotidianità51.

6.2.2. Sovrainterpretazione ed epigenesi. Banalità, quotidiano ed anacronismo controllato.

Tale sovrainterpretazione coinvolge spesso anche la “modernità” e si tradurrebbe nei continui annunci sul futuro radioso o sulla catastrofe che ci attende. Nel 1963 Bourdieu e Passeron, sul numero 211 di Temps Modernes, denunciavano i sociologues des mythologies e le mythologies des sociologues come i nuovi profeti delle catastrofi che annunciano l’ingresso dell’umanità in un mondo tanto nuovo quanto funesto, quello della massificazione, della fascinazione dei media, della televisione, dell’alienazione attraverso il culto degli oggetti e l’ingresso nel nichilismo52. Da allora gli annunci catastrofici si sono susseguiti mentre aspettiamo ancora la fine del capitalismo ormai giunto al crepuscolo, ma che sorprendentemente si performa, resiste e si rinnova continuamente. Si calunniano i propri tempi, inquietando i propri contemporanei attraverso la retorica della catastrofe e della decadenza, per ignoranza storica, diceva Flaubert.

Questo procedere ha delle conseguenze a livello interpretativo. Sparita la profondità non c’è nulla da rivelare, o meglio, da rivelare c’è solo la quotidianità e la “banalità” della storia. Banalità come quotidianità appunto e non come dis-valore. Solo le nostre domande sono incessantemente “intense” circa l’oggetto di studio. Se pensiamo a uno scavo, a un contesto archeologico, spesso il racconto della quotidianità ci sfugge in luogo della ricerca di un’intensità di significati da attribuire. Quando non si pratica l’intensità non si riesce a fare altro che descrivere. Il problema è dunque come “spiegare” la banalità in modo che non sia solo descrizione. Verso il 1956 si svolse un dibattito acceso tra archeologhe e archeologi francesi a proposito del simbolismo supposto delle scene mitologiche che decoravano i sarcofagi grecoromani che spesso illustravano dottrine relative all’aldilà. Una parte accusava l’altra. L’una di mancare di sensibilità religiosa e l’altra di sovrainterpretare e di attribuire significati derivanti da cecità interpretativa. Le scene raffiguranti miti legati alla morte (come quella di Adone per esempio), non rappresenterebbero l’allegoria della morte, intesa e concepita consapevolmente, ma piuttosto un fenomeno a carattere estetizzante e non necessariamente funebre: “les païens n’intensifiaient pas chrétiennement la mort, bien au contraire.”46. L’immagine spesso esprime più che comunicare, diverte, maschera, abbellisce, nel senso inteso da Ernst Gombrich47 ed è assertoria così come specificato da Jean-Claude Passeron48.

La sovrainterpretazione è attribuire esotismo alla storia, meravigliarsi di quanto l’altro nel tempo e nello spazio sia “diverso” ma al tempo stesso vicino a noi. Non vicino nel senso di simile ma “comprensibile” attraverso i nostri valori e le nostre categorie. In termini operativi questo si realizza in una procedura di “anacronismo controllato” praticato da storici di rango, come ad esempio Peter Brown. Nel suo libro su Sant’Agostino Brown praticherebbe una sovrainterpretazione quando scrive che Agostino divenne amico di un gruppo di manichei proprio come un gruppo di studenti di Oxford diventava segretamente comunista 49  Per un’analisi puntuale dell’affresco in questi termini Veyne 1996, 1998, pp. 5-37, mentre sulle nozze Aldobrandine Veyne 1998, pp. 38-45. 50  Veyne 1996. 51  Veyne 1996, “la surinterprétation consiste à fabriquer de fausses intensités, que ce soit pour exalter l’avenir radieux, pour accabler la présente décadence ou simplement par espoir du merveilleux ou d’un catastrophisme satirique qui fait mouche à tout coup. On les fabrique en intensifiant le sens allégué, au moyen d’un télescopage des instances. On les fabrique aussi en s’imaginant que l’intensité est le régime de croisière de la quotidienneté ; que celle-ci s’abolit dans l’éclat de l’exotisme: procédé littérairement louable chez Victor Segalen, car il en naît de la poésie.”. 52  Bourdieu, Passeron 1963; Veyne 1996.

Secondo questo criterio Paul Veyne ha potuto “rivedere” l’iconografia del famoso affresco della Villa dei Misteri a Pompei attribuendolo non già alla rappresentazione Veyne 1996. Cerutti 1996. 46  Veyne 1996. 47  Gombrich 1983. 48  Passeron 1995, 1996. 44  45 

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L’ideologia degli archeologi verso il 1930, o quando afferma che l’aristocrazia romana tradizionalista continuava a donare spettacoli anche dopo l’interdizione dei culti pagani proprio come le grandi famiglie borghesi continuavano a farsi vedere all’Opera nelle grandi capitali europee per dimostrare che niente era cambiato53. Due procedure di straniamento sono in atto. Allontanare attraverso l’analogia e la familiarità e, viceversa, rendere vicino a noi ciò che in realtà è fuori dal nostro orizzonte di senso. La banalizzazione restituirebbe l’autenticità di senso al passato attraverso una analogia col presente che, tuttavia, è più suggerita che argomentata. Ciò che sembra lontano ed esotico si avvicina alla nostra portata cognitiva attraverso una pennellata di familiarità.

realtà che nella sua quotidianità e familiarità ci nasconde il suo significato. Goffman notava l’indifferenza dimostrata sovente dai fedeli in Chiesa durante la funzione, senza che questi contravvenissero a qualche regola fondamentale del rito o del dogma religioso. Così come l’intensità, l’assorbimento, l’attenzione esagerata sono segni di conformismo e banalità, la distrazione e l’indifferenza rivelano l’esistenza e l’autorità di uno spirito oggettivo che non ha bisogno di coinvolgimento emotivo o collaborazione da parte degli individui. La troppa trasparenza provocata dall’intensità sovrainterpretativa diviene inevitabile.58 La società, o la forma sociale, viene dunque trattata come un individuo, unico, immobile, il cui pensiero sembra precedere l’azione. I primi a parlare di religione non in termini istituzionali ma di religiosità furono Georg Simmel e Max Weber, intendendo la religiosità come inclinazione individuale ed universale alla dipendenza nei confronti di Dio. Caratteristiche universali che sorpassano le differenze culturali per ricongiungersi in una dimensione unica transeunte. In ultima analisi, per sorpassare la dicotomia tra natura e cultura, tra religione istituzionalizzata e quella funzionale-rituale e pratica, convergendo verso una dimensione che è quella individuale, comportamentale e psicologica dell’Uomo vicina alla sensibilità Cristiana e legata alla società Occidentale moderna. L’istituzione della religione è “ideologia”, ovvero un modo di controllare la folla, una corruzione della religione, mentre la religione individuale (in senso protestante, così come l’ha definita Friedrich Schleiermacher 1768-1834) resta pura, originale, vera e profonda (non nel senso di “bassa” ma di “intensa”). La dicotomia tradizionale oggetto-soggetto si ricompone riunendo i due domini, quello culturale ed emozionale e concretamente facendo coincidere la religione istituzionalizzata con quella psicoemozionale59. La sua evoluzione e il suo significato vengono intensificati attraverso la concentrazione in quelli che sono momenti diversi e singoli di una medesima e continua trasformazione. La storia in tutte le sue forme e nei suoi soggetti, nelle idee e nelle forme sociali o nelle ideologie, non è lo sviluppo di un germe che cresce ma il risultato di un’epigenesi, un susseguirsi cioè di tappe imprevedibili guidate dal caso60. Nessuna di queste tappe e componenti imprevedibili (che ci piace pensare in termini morfologici) sono l’una più originale o autentica rispetto all’altra. Nessuna gerarchia di valore ma neanche nessuna

L’altra procedura di banalizzazione, definitiva e permanente, è applicata all’individuo nell’espressione della sua agency, procedimento che è consustanziale alla scrittura della storia così come l’abbiamo vista nelle sue varianti micro e psicoumane54. L’intensità dell’interpretazione, sotto il falso nome di coscienza collettiva, la si applica a tutti gli attori e a tutti i momenti della storia facendola passare per il gioco colto messo in pratica da qualche sapiente55. Sarebbe questo il caso del Dasein di Heidegger e del suo spirito oggettivo come luogo dove imbrigliare l’essere metafisico espanso, o del sogno della reificazione e dell’oggettivazione di Hegel e Marx, mentre tutto è invece momentaneo ed esteriore. Ricorda René Char che un poeta non è tale che esteriormente ed in determinati momenti sempre differenti. Allo stesso modo l’uomo non è tale in rapporto all’Essere ontologico pur situato storicamente (Heidegger) ma, come ci ricorda Georg Simmel, in quanto l’uomo si scopre altro da sé. I greci hanno creduto ai loro Dei ma solo in parte, solo un po’. Perché non c’è intensità, visione unica, veritiera, non c’è risposta. Hanno creduto un po’, solo un po’, perché la religione è mista, eterogenea, non è una cosa univoca con una sostanza veramente “religiosa” che si ponga come termine di paragone per misurare il nostro grado di religiosità. Non importa il messaggio, il significato del simbolo ma l’esteriorità, la funzione, diciamo il rito, reso essenziale non per il suo senso condiviso ma per la sua quotidianità e la “docilità” dell’uomo. L’antropologo Gregory Bateson, a proposito del popolo dei Naven, scriveva che spesso si arriva a ignorare totalmente il significato di una cerimonia poiché si pone l’accento sulla funzione come modo di riproduzione della realtà e dello stato presente delle cose, come logica di mantenimento dei rapporti di potere e degli atti quotidiani per rassicurarsi in fondo 56.

Goffman 1981. È in questi termini che viene criticata la polis religion, soprattutto da studiosi inglesi e tedeschi, Gordon 1990; Sourvinou-Inwood 1992; Woolf 1997; Bendlin 2000, come religione istituzionale e istituzionalizzata, oggettivizzata, mentre diviene centrale la religione individuale, vissuta interiormente, contra Scheid 2002. Per intendersi non la religione di Minerva o Giove, ma quella di Mitra o delle divinità celtiche. Identità, radici, individualismo, mito e religione (con)fusi in un marasma concettuale. Esotismo e autenticità ed ancora una volta riconoscimento e straniamento insieme. A tal proposito dice Bendlin 2000, p. 121 “Despite the fact that the traditional Schleiermacherian notion of religion is a creation of the eighteenth century, no one has doubted its validity when it is applied to, for instance, Christian belief systems in the Middle Ages”. Anacronismo controllato? 60  Passeron 1991; Veyne 2007, pp. 266-267. Si veda per il concetto di ‘caso’ Bodei 1978 su Max Weber. 58  59 

Quindi sovrainterpretare è credere di vedere delle intensità57 quando invece queste sono ingannevoli e sporadiche. Ma è possibile anche il contrario, ovvero non poter far a meno di sovra-interpretare e intensificare una 53  Brown 1972; commenti sull’operazione storiografica di Brown riguardo al tardoantico anche in Cracco Ruggini 1988. 54  Veyne 1996. 55  Ibidem. 56  Bateson 1997. 57  Geertz 1973 sulla descrizione “densa”.

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Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo). cronologia relativa tra quei momenti. La storia ancora una volta ci appare dissolta. Nel tempo nessuna precede l’altra, l’una può tornare, riemergere dal presente, tornare nel passato e così via.

Per sintetizzare si possono indicare tre ordini di problemi: (1) in primo luogo la storia e l’archeologia interpretativa appaiono come un genere raro, più nelle intenzioni che nella pratica, da un lato dedito all’eccessivo e deliberato ipersfruttamento di una e una sola fonte (o classe di fonti) e dall’altra all’utilizzo di metodi e risorse presi in prestito da un’esegesi laicizzata66. In questo senso il testo, il coccio, la fonte vanno restituiti alla loro esigenza scientifica propria e al loro contesto, restituendone la “criticità”; (2) in secondo luogo il metodo semiotico, procedendo attraverso l’analogia e la sostituzione della prova con l’indizio, moltiplica le potenziali interpretazioni dei lettori successivi (intentiones lectorum), stimolando un’inflazione interpretativa che solo un’altrettanto moltiplicarsi della documentazione può metterci nelle condizioni di controllare; (3) terzo, il ricorso a referenze lontane, a comparazioni estranee al contesto spaziotemporale dell’indagine diminuisce il grado di pertinenza delle differenze eventuali, che se vogliamo, risponde male al criterio di “economia” dell’indagine enunciato da Eco non rendendo l’interpretazione necessariamente sovrao iper- ma certo “dispendiosa” in termini di energie e dispersione di senso67.

6.2.3. L’interpretazione è un pique-nique? Per il teorico della letteratura Jonathan Culler è necessario difendere la sovrainterpretazione. Come la maggior parte delle attività intellettuali l’interpretazione risulta interessante nel momento in cui viene spinta alle sue estreme conseguenze. L’interpretazione moderata, sostiene Culler, esprime consenso e può avere valore in certe circostanze, ma è di poco interesse”61. È la posizione radicale del decostruzionismo e della libertà illimitata della lettura e dell’interpretazione d’un testo o di una fonte che recupera l’ipertrofia del soggetto storico di origine nietzschiana caratteristico della storia «sperimentale» di fine secolo. Secondo una formula di Tzvetan Todorov, il testo e la storia non sarebbero così null’altro che un piquenique dove l’autore mette le parole e il lettore ordina il senso. Umberto Eco ha messo ben in evidenza questo procedimento, sottolineandone i limiti pur non negando al lettore un ruolo attivo nell’interpretazione e definendo tre registri di intenzionalità: l’intentio auctoris, l’azione cosciente o sub-cosciente del produttore del documento; l’intentio lectoris, l’appropriazione libera che effettua il consumatore; l’intentio operis, che si dipana dal testo stesso, dalla sua sintassi, dal suo vocabolario, dalla sua costruzione e dal suo contenuto62. Il limite alla libertà dell’interpretazione e dell’interprete è posto dal testo medesimo. Al di là della falsa coscienza che si sprigiona dai processi creativi dell’autore e di cui il lettore e l’autore stesso si nutrono, esiste l’intenzione del testo. Uno spazio delimitato al riparo dalle sovrainterpretazioni e i malintesi: tra la storia della produzione di un testo (o di un artefatto), le tentazioni dell’interprete e la deriva delle letture future c’è qualcosa di concreto a cui possiamo appigliarci63. Continua Eco che esiste uno spazio di ragionamento (popperiano) in cui non possiamo decidere quali siano le interpretazioni migliori, tuttavia però possiamo decidere quali siano quelle sbagliate64. Vedremo più avanti che questo riferimento a Popper ha a che fare molto con l’archeologia. Come qualcuno ha notato già, quella di Eco è un’etica dell’interpretazione, un discorso morale sulla responsabilità che egli riassume nella citazione maliziosa del famoso passo di Orazio, rivolto al pubblico anglofono65: est modus in rebus, sunt certi denique fines,/ quos ultra citraque nequit consistere rectum. Anche Lucien Febvre vedeva nell’anacronismo la più comune e sterili delle sovrainterpretazioni.

6.3. L’uomo e il singolo. Riprendiamo qui il filo del discorso sulla difficile penetrazione del pensiero di Marx e su alcuni punti che a nostro avviso sono stati poco tenuti in considerazione (uno di questi è il ruolo del singolo e dell’individuo nel discorso marxiano) alla luce di quanto teorizzato nel “quaderno M” dei Grundrisse dove viene per la prima volta concepito organicamente il ciclo produzione-distribuzione-consumo. Proprio quando il postmoderno e la decostruzione portavano alla ribalta l’uomo e la sua agency al di qua e al di là dell’Atlantico, nel continente europeo si procedeva alla “liberazione” di Marx dai marxismi volgari. Ripartire nuovamente da Marx significava lasciare in secondo piano il ruolo dell’azione umana in luogo di quella forma sociale che metteva a disagio i post-processualisti. L’uomo singolo – metafisico – resta fuori dalla forma sociale intesa in senso marxiano perché esso la contraddice se concepita come formazione economico-sociale68. L’individuo rimane dunque fuori anche dalla descrizione perché rappresenta di per sé un’eccezione al sistema teorico-pratico concepito da Marx. Infatti “La produzione come fine a sé auto-limitato non può che essere il rifiuto ideologico di una razionalità privata elaborata da segmenti esclusivi della società in movimento, nel tentativo di arginare un processo ed affermare un potere duraturo sui fattori della produzione”69. Se il sistema lavoroproduzione non è teso alla sua autoproduzione, l’uomo tende continuamente a farlo in maniera ideale e ideologica, teoreticamente, fisiologicamente ed anche culturalmente.

Culler 1996, p. 102; Boutier, Boutry 1996. Eco 1992a, pp. 71-80; 1992b, 1992c. 63  Eco 1992a; Collini 1992. 64  Contra Passeron 2006 secondo il quale le scienze sociali sono uno spazio del ragionamento “non-popperiano”: le argomentazioni su cui si basano non sono cioè falsificabili. Per un commento si veda Lepetit 1993 sulla coerenza semantica come unico requisito del ragionamento delle scienze sociali. 65  Boutier, Boutry 1996. 61  62 

Hodder 1991b. Boutier, Boutry 1997, p. 174. 68  Sereni 1970, Giardina 2007. 69  Solinas 1976-1977, p. 36. 66  67 

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L’ideologia degli archeologi La lotta alla razionalizzazione (in senso weberiano) e al razionale passa anche da qui. Ma quella dell’individuo e della cultura (e poi vedremo dell’identità) è la conseguenza più che la premessa di quella difficoltà di cui sopra. La difficoltà di riunire oggetto e soggetto.

fa tra oggettivismo purista (o razionalismo moderno) e soggettivismo purista (che include tanto l’empirismo britannico quanto la filosofia critica di Kant) si possono comprendere le differenti tensioni prodotte rispetto al discorso sull’oggettività, l’oggetto e la realtà (e nel nostro caso alla storia). A questo proposito Marx, attraverso il suo empirismo raddoppiato, supererebbe le separazioni puriste attraverso la concezione della sua forma sociale e grazie alla causalità formale. Seguiamo più da vicino questo ragionamento fatto da Patrick Murray circa il superamento dell’economia classica e neoclassica da parte di Marx73. La tesi è che le separazioni tra l’empirico e il concettuale abbiano non solo conseguenze nella comprensione del pensiero marxiano ma che portino soprattutto conseguenze pratiche. Il razionalismo moderno, prendendo in considerazione solo ciò che è puramente concettuale a discapito dell’empirico, può tener conto delle forme sociali oggettive ma fa difficoltà ad analizzarle empiricamente. Il soggettivismo, d’altro canto, nega completamente il concetto di forma sociale oggettiva poiché teorizza la completa sufficienza concettuale (in termini di produzione e di unità operativa) del soggetto: in questo modo un concetto soggettivo non può inverarsi in una forma sociale oggettiva74. Qui, nello specifico, ci interessa più la presenza di queste due tradizioni puriste che la procedura di superamento da parte di Marx nella teoria economica.

Il modello imbriglia il sociale ed esclude l’azione dell’individuo; di qui il rifiuto dei paradigmi della forma sociale come quello di Marx. Questo contrasto è portato avanti al livello accademico dalla nuova generazione che guida la cosìddetta scuola di “Oxbridge” (Oxford e Cambridge) che detta le linee dominanti nella cultura antichistica britannica. L’ostilità contro i paradigmi sociali può dipendere dalla persistenza del pensiero liberale inglese che tende a ridurre tutto alla decisione personale e alla libera iniziativa. Oppure a una reazione generazionale fisiologica interna all’accademia contro le posizioni della generazione precedente, che ha l’obiettivo di distinguersi e legittimarsi rispetto ad essa per poi sostituirla, ma anche da un atteggiamento eminentemente de-costruttore che trae compiacimento estetico dalla contemplazione della bellezza del gesto iconoclasta che incrina paradigmi e certezze. Baluardi, questi ultimi, di ricerche e convinzioni intime che se sconquassati e derisi si incrinano e si svelano in tutta la loro fragilità, dando così l’impressione a chi credeva in loro di essere stato vittima per trent’anni di un’allucinazione, scatenando insomma uno psicodramma collettivo. Costruzioni piccolo-borghesi, eurocentriche ed asfissianti si dirà, che meritavano di essere cestinate dopo che non hanno saputo conciliare la storicità (necessaria) e la necessità (storica) dell’azione individuale (unica e casuale) con i cambiamenti strutturali di lungo periodo. È da questo corto circuito che è nato il postmoderno, dalla frizione tra individuo e struttura, dalla discrasia del loro modo e del loro tempo di trasformazione sempre in bilico tra mutamento casuale e quello causale, tra caso e necessità, tra storicismo ed epigenesi. Al centro del dibattito restano le modalità di trasformazione della società e il processo di transizione o rivoluzione da uno all’altro70.

6.3.2. Empirismo moderno. L’empirismo si contrappose alla dottrina razionalista delle idee innate secondo la quale attraverso l’intelletto e la comprensione (distinta dalla sensazione e dall’emozione) si potessero acquisire delle verità sul mondo75. L’idea degli empiristi circa i concetti è di base nominalista: i concetti sono totalmente soggettivi e non oggettivi. Francis Bacon giungeva alla conclusione che le forme non sono che proiezioni della mente76. Nella Sacra famiglia Marx afferma che il nominalismo è l’elemento centrale del materialismo inglese ed in generale la prima espressione del materialismo non-maturo77. Empirico e concettuale si separano sia in Bacone che in Hobbes e Locke. Tale impostazione dicotomica ha sempre percorso la tradizione di pensiero britannica in un continuo cortocircuito provocato dal tentativo di mediare tra nominalismo ed essenzialismo78. A questa continua contraddizione si devono i capovolgimenti improvvisi e le acrobazie verbali che fanno degli empiristi i più tenaci concettualizzatori79. Lo stesso Locke, nel suo Saggio sull’intelligenza

6.3.1. Purismi logici e forma sociale. La posizione di Marx circa la forma sociale contrasta completamente con la forma di pensiero che caratterizza il razionalismo, l’empirismo britannico e il kantismo. Ci si contrappone cioè alle separazioni puriste (purits splits)71 che costituiscono le colonne portanti della filosofia occidentale e della cultura scientifica odierna tra il concettuale e l’empirico, il soggettivo e l’oggettivo, tra la natura e la cultura72. Tali separazioni puriste si rifanno a campi filosofici contrapposti: per semplificare, da una parte Hegel e la dialettica, dall’altra Kant e le sue forme di separazione del pensiero e del modo di comprendere la realtà. Seguendo la distinzione che lo stesso Hegel

Murray 2009. Ivi, p. 121. 75  Ci ricorda giustamente Murray di maneggiare con cautela concetti come “razionalismo moderno” e “empirismo moderno”. Questi sono solo idealtipi filosofici e nessun pensiero o filosofo appartiene interamente all’una o l’altra corrente o pensiero filosofico, Murray 2009, n. 14, p. 124. 76  Bacone 1620, p. 91. 77  MEOC, IV, p. 142; sull’importanza della nuova edizione degli scritti marxiani Fineschi 2008. 78  Qui è ancora essenziale Popper 2002 sulla differenza tra essenzialismo e nominalismo, anche se da rigettare la sua critica allo storicismo. 79  Murray 2009, p. 126. 73  74 

70  Recentemente Renfrew 2009 ha lamentato proprio un affievolirsi della ricerca dei processi che sovraintendono ai cambiamenti della società, collegando questo fenomeno con un parallelo affievolirsi della teoria archeologica. 71  Collins 1972, p. 14. 72  Murray 2009, p. 119.

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Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo). umana, sembra contraddirsi nella sua oscillazione tra nominalismo ed essenzialismo. Prima afferma che il generale e l’universale non sono realia ma creature dell’intelletto fatte per il suo uso e soltanto due paragrafi dopo si scorge a difendere il soggettivismo sostenendo la validità dell’operazione dell’intelletto che si fonda sulla somiglianza delle cose80. I concetti sono pure opere della ragione ma anche determinate da un’oggettiva somiglianza alle cose. Anche in Hume (come abbiamo già visto) esiste una separazione che nega il principio di causalità e di connessione necessaria: quando la individua egli la classifica come abitudine, come sentimento soggettivo che tramite consuetudine proiettiamo nel mondo oggettivo. “L’identità concepita da Hume tra puramente soggettivo e rigorosamente non oggettivo lo porta a rifiutare l’idea dell’oggettività delle connessioni causali. Ma questa considerazione scioccante porta con sé una fenomenologia poco chiara nella quale saltano fuori elementi puramente soggettivi. Ogniqualvolta sentiremo parlare di puramente soggettivo – lo sentiremo spesso in relazione alla nozione neoclassica di utilità – cercheremo di vedere dove una tale distinzione razionale, particolarmente quella tra il soggettivo e l’oggettivo, è stata ipostatizzata in una supposta separazione. “Così, con tutti i suoi attacchi pieni di baldanza e di buone intenzioni contro il razionalismo moderno, l’empirismo moderno tralascia la questione di fondo del purismo e si mette sotto il gioco delle vane astrazioni della forma mentis soggettivista (corsivo mio)”81. La tesi qui sostenuta per l’argomento che ci interessa è vedere il dualismo processuale e postprocessuale come riproposizione di questo dualismo purista, ovvero come il tentativo continuo di riconciliare la tensione tra nominalismo ed essenzialismo; un dualismo radicato nel profondo dell’empirismo britannico. Il postmoderno, anche se nato fuori da questa frizione, è proseguito in archeologia e nelle discipline storiche sul binario di questa dicotomia “empirico-razionale”, nella definizione ontologica tra dato e concetto, nella connessione tra questi due momenti e nella ricerca della loro relazione necessaria, amplificando ed accentuando le separazioni puriste poi oggettivatesi in due distinte tradizioni accademiche. È il paradosso di Hume, non a caso definito così da Kant che, variando sul tema del soggettivismo, ha dato all’empirismo britannico l’illusione della sua risoluzione. Ora dopo il post-(moderno e processuale) si cerca di nuovo di venire a patti con queste separazioni battendo nuove vie (come abbiamo visto “simmetriche” o “visuali”).

sensazione e, in terzo luogo, il significato […] di in sé pensato, di ciò che c’è, a differenza di ciò che è soltanto pensato da noi e quindi ancora distinto dalla cosa stessa o in sé”82. Kant, cioè, dando per buona l’identità tra percezione e oggettività stabilita da Hume, nella Critica della Ragion Pura stabilisce che la conoscenza passa attraverso il soggetto e la sua esperienza. Lo spazio e il tempo sono non empirici, puramente soggettivi, così come i concetti dell’intelletto sono necessari alla sintesi dell’esperienza. Il dato puramente empirico non può essere determinato prescindendo dai concetti dell’intelletto e dalle forme della sensibilità. Quindi il mondo fenomenico si costruisce attraverso l’interazione di queste due procedure83. Questo si avvicina al rifiuto delle separazioni puriste, ma solo parzialmente. Poiché l’oggettività che Kant dona alle categorie soggettive allontanandosi dall’empirismo moderno è un’oggettività di secondo tipo e non di terzo, ovvero l’oggettività critica fa sì che le cose siano oggettive così come ci appaiono (fenomeni) e non come sono in sé (noumeni). Questa ontologia azzoppata, bisogna notare, confluisce in certa archeologia riflessiva e postmoderna. Verrebbe qui da dire che il relativismo di certi atteggiamenti “intuitivi” nei riguardi della costruzione della storia e certi soggettivismi che vediamo proliferare (il presente che costruisce il passato, ecc.) non sono dovuti ad un ritorno dell’idealismo e del romanticismo ma sono l’espressione più profonda dell’empirismo. In ultima analisi, volendo così criticare il pensiero forte, il razionalismo cartesiano e dunque la modernità84 si arriva all’applicazione logica del razionalismo puro. Per questo mi sento qui di rifiutare lo “schema” evolutivo del pensiero archeologico proposto da Sherrat e Trigger e recuperato da Kristiansen che vede l’alternarsi di atteggiamento “romantico” e “positivista” o idealista e razionale (fig. 6.1). Un ciclo che descriverebbe il cambiamento avvenuto nei paradigmi antropologici e archeologici durante gli ultimi 260 anni85. Ritorniamo a Kant che, come abbiamo avuto modo di constatare, ha fortemente influenzato il pensiero angloamericano86: pur garantendo un’oggettività fenomenica alle categorie e alle forme soggettive non riesce a colmare l’abisso invalicabile le separa dalla realtà che le rappresenta, come aveva già notato Hegel e un precoce Marx. Il tentativo ultimo di mettere al riparo i concetti dell’intelletto da aporie euristiche, tralasciando il solco che separa i fenomeni dalle cose in sé, fallisce tuttavia nel superamento dell’empirismo e nella risoluzione

6.3.3. Del falso rifiuto della separazione purista proposta da Kant. Hegel attribuisce all’oggettività tre significati ben precisi: “In primo luogo, significa ciò che è presente esternamente a differenza di ciò che è soltanto soggettivo, opinato, sognato, ecc.; in secondo luogo, ha il significato, stabilito da Kant, di universale e necessario a differenza del contingente, particolare, soggettivo, proprio della nostra 80  81 

Enciclopedia 41. Murray 2009, p. 128. 84  Per questa critica in archeologia si veda Johnson 2004; Thomas 1999 e dibattito collettivo sulla rivista Modernism/Modernity 7 1 (2004). Sul relativismo ed oggettività in archeologia e narrazione del passato come atto politico Archaeological Dialogues 1 (1998). 85  Sherratt 1996; Trigger 1996; Kristiansen 1996, 1998, 2008a. 86  La prevalenza di Kant rispetto a Hegel si è però prodotta successivamente nel pensiero anglofono. Kant è stato posto come base filosofica nel momento in cui è stato allontanato il pensiero di Marx che comportava un recupero di Hegel. 82  83 

Locke 1690, pp. 20-21. Murray 2009, p. 127.

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L’ideologia degli archeologi

6.1. Grafico sull’alternanza tra approccio idealista e illuminista, secondo lo studio di Kristiansen 2008a.

dell’enigma humiano87. Allora più che riconciliare Reason and Romance forse dovremmo, nella prassi, riconciliare tempo e spazio, alla ricerca di un nuovo cronotopo che sia al tempo stesso anche una soluzione teorica88.

cambiamento90. Rinnegare la separazione tra empirico e concettuale (così James, Waismann, Quine) corrisponde al pragmatismo umanista in cui anche le verità e le sostanze sono prodotti umani. Preso il linguaggio e il discorso come modo di conoscere, fabbricare e manipolare la realtà, essa dipende (e così la scienza) sia dal linguaggio che dall’esperienza che si fa in essa91. Il linguaggio non distorce ma fa parte del reale e delle modalità di accesso ad esso, ma certo non tutto è linguaggio. Gli empiristi postdogmatici e i pragmatisti non negano che vi sia una componente soggettiva e una oggettiva ma che sia vano tentare di separare i due momenti. E aggiungo, è poco produttivo ridurre l’uno all’altro o tentare di unificarli attraverso l’eliminazione dell’uno o dell’altro aspetto (come il postumanismo o il tentativo di ridurre l’uomo a un artefatto). È qui importante sottolineare che seppur incapaci di separare la realtà dalla costruzione di essa da parte del soggetto nel presente, è possibile distinguere razionalmente. Questo era il significato della prima tesi di Marx nelle Tesi su Feuerbach, dove nella forma sociale e nella causalità formale si risolveva questo rapporto: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi è che l’oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte, la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell’intuizione; ma non come attività sensibile umana, prassi; non soggettivamente. Di conseguenza il lato attivo fu sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall’idealismo – che naturalmente non conosce l’attività reale, sensibile in quanto tale”92.

6.3.4. La forma sociale. Critiche all’empirismo? No, alle separazioni. Seguendo Kant il soggettivismo presuppone l’esistenza di una cosa anche senza stabilirne alcuna determinazione. Seguendo invece la tradizione aristotelica ripresa da Hegel e da Marx, la cosa in sé (oggettiva) non è separata da ciò che la cosa è per noi (soggettivo): il per sé e il per noi sono momenti inestricabili, ma non nel senso che ciò che è per noi è anche per sé, schiacciato sul soggetto, piuttosto che ciò che è reale e in sé è anche per noi. Il contenuto, il significato del segno, la patologia sono cose che ci interessano da vicino. Messa da parte la distinzione tra soggettivo e oggettivo noi siamo interessati al contenuto di una cosa che non è più soggettivo di quanto sia oggettivo89. In generale la domanda che cosa x è per y ci convince fino ad un certo punto. È un po’ come la stratigrafia relativa rispetto a quella assoluta. L’importanza dei rapporti relativi e contestuali è di primaria importanza, ma poi inevitabilmente il quadro si amplia e si àncora, pur rimanendo cursorio sia nei significati che nelle posizioni temporali e spaziali. A noi, in termini storici, interessa l’individuo ma interessa anche la forma sociale determinata. Due operazioni fondamentali cerchiamo di sviluppare quando facciamo storia ed archeologia: (1) determinare in che modo una cosa è in relazione ad altri contenuti/contesti ma anche stabilire in quella rete di rapporti la sua forma di valore, la sua morfologia per usare una terminologia mazzariniana; (2) modificare, ovvero capire come si comporta qualcosa che è reale o è stato tale, che ha cioè ha avuto una forma ed è sottoposto ad un

Non esiste un “ciclo” (eventualmente tra idealismo e materialismo) e non esiste un’opposizione tra processualismo e postprocessualismo, né la possibilità e né l’esigenza di una sua ricomposizione o superamento93.

Ivi, p. 132. Quine 1951, p. 40. 92  MARX MEOC V, p. 3. 93  Marx ha tentato di superare la dicotomia idealismo-materialismo attraverso la forma sociale, poi vedremo come. 90  91 

Murray 2009; Hegel Enciclopedia 4; MARX MEOC 1, p. 11. Su questo punto Vanni, Saccoccio, Cambi 2021. 89  Così ancora Hegel da Murray 2009, p. 131. 87  88 

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Oltre il post, il neo e l’iper. Le radici culturali di una presunta separazione (a freddo). L’una non deve sopraffare o sostituire l’altra attraverso operazioni di egemonia culturale attraverso il consenso accademico e la proliferazione di pubblicazioni. È ridondante anche la denominazione di post- e la moltiplicazione dei suoi innumerevoli epigoni, poiché dà l’idea di un avanzamento che non c’è94. Se c’è un’oscillazione, più che una sinusoide, sarebbe più corretto immaginarla come una spirale che si attorciglia in uno spazio sferico tridimensionale in espansione come l’universo, al cui interno i rapporti continuamente si modificano tra passato e presente e tra le loro componenti, mentre il tempo espande e la conoscenza e le possibili reti di rapporti si accumulano. Se c’è un’oscillazione tra oggettivo e soggettivo è la prosecuzione di questa separazione purista che ogni volta viene risolta facendo prevalere una parte sull’altra senza successo. Basterebbe ammettere che entrambe le componenti sono realtà di cui nessuna prevale sull’altra o spiega meglio la storia o la natura. Esse sono presenti sia a livello epistemologico che operativo e costituiscono la morfologia del reale. Nessuno ha paura del relativismo (per riprende il titolo di un famoso saggio di Geertz) ma neanche della possibilità di “controllare” il reale per comprenderlo. Non c’è netta separazione tra struttura e sovrastruttura, non c’è mai stata e certo Marx non la concepiva95. L’allergia alla tipologia e ai paradigmi non ci deve indurre a demolirli e a liquidarli come inutili per la “bellezza” del gesto decostruttore. Se la loro utilità ha perso di forza dobbiamo impegnarci a costruirne di nuovi secondo nuove sensibilità, nuove prospettive e soprattutto nuovi dati, pena la riproposizione di una separazione che non esiste96.

“concentrazione” di azioni umane ma rimane il fatto che tale categoria è funzionale nel comprendere la storia antica perché significativa per quel contesto. Non c’è una sola ed unica periodizzazione ma una dialettica di forme. Anche il pensiero di Foucault come abbiamo visto pone dei rischi e si presta ad equivoci. Ci tiene a ribadire Paul Veyne che “Pour Foucault comme pour Nietzsche, William James, Austin, Wittgenstein, Ian Hacking et bien d’autres, chacun avec ses propres vues, la connaissance ne peut pas être le miroir fidèle de la réalité ; […] Foucault ne croit pas à ce miroir, à cette conception ‘spéculaire’ du savoir ; selon lui, l’objet en sa matérialité ne peut pas être séparé des cadres formels à travers lesquels nous le connaissons et que Foucault, d’un mot mal choisi, appelle ‘discours’. Tout est là. Mal comprise, cette conception de la vérité comme non-correspondance au réel a fait croire que selon Foucault, les fous n’étaient pas fous et que parler de folie était de l’idéologie (corsivo mio)”98. Euristicamente è meglio partire dal dettaglio delle pratiche, da quello che uno dice e fa; è più fecondo che partire da un’idea generale ben conosciuta, poiché si rischia di attenersi esclusivamente a ciò che questa idea dice senza percepire le differenze ultime e decisive99; partire cioè dalle fonti, materiali e scritte. Nella diffidenza che ormai abbraccia gli universali, i paradigmi e i concetti, e impossibilitati a opporre un sistema che metta in rapporto corretto il dato e il concettuale, il postmoderno popola la storia di fantasmi che sono solo l’ombra della verità. In questo panorama è nato il malinteso sul pensiero di Foucault. Parlando di “discorso” si è creduto di poter eliminare qualsiasi verità dal reale. Lo stesso Foucault ha precisato il procedimento corretto da mettere in pratica nell’interazione tra storia e costruzione dei paradigmi atti a studiarla, negando, per così dire, sé stesso: si deve non passare gli universali alla prova della storia ma passare la storia attraverso un pensiero che rifiuta gli universali100. Se l’ideologia è discorso non vuol dire però che non esista.

Nominalismo ed essenzialismo se si vuole non sono separabili. La romanizzazione può, sotto la spinta dei decostruttori, cambiare il suo nome (rivoluzione culturale, creolizzazione etc.) ma rimane una morfologia, un processo che ha una sostanza. E del resto non è solo un fatto nominale, poiché il cambio di nome è espressione del disagio dovuto all’inefficacia del suo potere esplicativo di fronte a una morfologia. In questo senso non c’è discorso di potere, non c’è evoluzione, né comprensione dei modi di cambiamento delle forme senza strutture e paradigmi forti. Si può disintegrare un paradigma o una categoria interpretativa, come fanno Horden e Purcell, con la categoria di “città”97, concependola come “densità” e

Un altro malinteso si è andato a creare sulla frizione tra il procedimento di astrazione e il dato su cui essa si basa o che cerca di spiegare: l’attitudine a confondere descrizione con spiegazione. L’astrazione è un procedimento legittimo ma, come intuiva Émile Durkheim, non significa fare di tanti frammenti una ragione che dà valore alla realtà osservata. Per Durkheim tali ragioni sono di tre tipi: (1) ipotetiche, (2) congetturali e (3) a scatola chiusa (boite noire)101. Quelle a scatola chiusa possono essere a loro volta formate attraverso proposizioni descrittive passate per esplicative con nessuna corrispondenza al reale o tautologiche, ma tutte e tre tendono a vedere una correlazione laddove non esiste102. Ed è altrettanto vero che se non si riesce a

94  A proposito della proliferazione delle post-archeologie e postparadigmi, De Guio 2001. 95  Sulla frizione che si crea tra struttura e sovrastruttura nel tentativo di farle interagire, mi si permetta qui di ricordare la “soluzione” sviluppata da Maurice Godelier, rispetto alle sue primissime posizioni in materia (Godelier 1984, 1999): la differenza non è più quella tra delle istituzioni ma tra delle funzioni. Le due grandi forze che interagiscono e si influenzano per la trasformazione nella Storia sono l’economico e il politico, Godelier 1999, pp. 170-179. Se pensiamo all’Impero romano è attraverso un atto politico (la guerra d’espansione) che un sistema produttivo è stato imposto e non il contrario. Antonio Gramsci è stato il primo ha capire come per Marx le ideologie sono sì una realtà operante, “ma è la realtà sociale, nella sua struttura produttiva, che crea ideologie”, Gramsci 1975, pp. 436-437. 96  Interessante su un nuovo concetto di tipologia “tecno-culturale” si veda Böeda 2005. 97  Che deriva dalla convinzione che la città antica (la polis) subì un inesorabile declino dopo la battaglia di Cheronea.

Veyne 2009, p. 14. Ivi, p. 19. 100  Foucault 1994, p. 56. 101  Durkheim 1970. 102  Sul discorso di Durkheim sulla buona e cattiva astrazione Boudon 2006. 98  99 

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L’ideologia degli archeologi concettualizzare vuol dire che il problema (storico) non è stato risolto correttamente e sta cominciando a marcire. “L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un conosci te stesso come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario”103. Per questo è importante studiare la storia dell’archeologia come dato storico, che è anche un modo per esplicitare le proprie premesse teoriche, euristiche ed epistemologiche riguardo la storia e l’archeologia; un modo anche di concepire il rapporto tra fonti asimmetriche, così da donare alla critica la possibilità di replicare attraverso la presenza di molteplici fattori che hanno contribuito al racconto storico-archeologico, dalla realtà storica materiale, alla genealogia del pensiero e della tradizione accademica da cui si guarda il passato e si scrive nel presente, fino al contesto politico attraverso il quale si concepisce il futuro. Solo così è possibile fare storia e archeologia senza la pretesa di raccontare il vero, né di raccontare la storia perché vera per noi.

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Gramsci 1975, p. 1376.

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7 Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. Ripetutamente Gramsci afferma […] la necessità di collocare il presente sullo sfondo storico per comprenderlo e per orientarsi in esso (quindi ai fini di un agire consapevole, efficace, razionale: per la prassi). In questo senso la filosofia della praxis è uno storicismo (un nuovo storicismo, realistico e immanentistico, cioè privo di ipoteche “aprioristiche”, speculative). A. Burgio1 7.1. Archeologia Classica e Antiquity.1

scorso. Eccezioni erano rappresentate dalla presenza di autori che già precedentemente avevano pubblicato nella rivista e il cui lavoro aveva già avuto risonanza altrove, come Whitehouse, Cunliffe, Snodgrass, Bintliff4.

In un articolo pubblicato su Antiquity nel 2002, Nicola Terrenato analizzava il peso dell’archeologia classica all’interno della rivista attraverso una survey degli articoli in essa pubblicati dalla sua nascita fino al 20002. Il contesto dello studio risultava particolarmente interessante e indicativo per alcune macrotendenze messe in luce proprio attraverso le pagine della rivista. La rivista rappresentava un luogo privilegiato di analisi per l’autorevolezza acquisita nel tempo presso archeologi di ogni periodo e formazione. Per chi si occupava di archeologia classica Antiquity rappresentava il punto più dinamico e avanzato del dibattito disciplinare, capace di immettere nuova linfa e combattere la vecchia visione dominante mettendo in luce anche le mancanze teoriche e dialogiche dell’archeologia classica rispetto alle altre archeologie: “Senior Classicists may have thought more highly of other journals specializing in the sub-discipline, but for a lot of young Turks like myself ANTIQUITY had always been for archaeology what Nature was for the hard sciences. We thus concluded that if papers dealing with the Greek and Roman world were rather infrequent in the journal, this was simply another reflection of the systemic shortcomings of our sub-discipline”3. Si trattava dunque di una sfida soprattutto generazionale oltre che disciplinare.

In sostanza Terrenato vede nell’arretramento dell’archeologia classica all’interno della rivista Antiquity l’esempio di una più generale parabola della disciplina archeologica5. Si denota quindi un’omologia tra l’andamento del peso che l’archeologia classica ha nella rivista e quello registrato nella storia dell’archeologia del Ventesimo secolo. Questo spostamento verso le tematiche legate al Mar Egeo all’inizio degli anni Cinquanta si dovette principalmente ad alcuni eventi particolari e a scoperte archeologiche di primaria importanza che in quegli anni venivano fatte: ad esempio quando nel 1953 Ventris e Chadwick riuscirono a decifrare la lineare B fu proprio attraverso le pagine di Antiquity che ne dettero annuncio6; ma tali spostamenti di tematica erano dovuti anche a dinamiche più globali legate a sovvertimenti di paradigmi disciplinari. A tal proposito, più interessante ancora è il collegamento che Terrenato fa tra questo fenomeno di arretramento durante gli anni Cinquanta e il suo successivo consolidamento, avvenuto negli anni Settanta, con la penetrazione in archeologia del metodo comparativo propugnato da White e Willey. Metodo comparativo che era anche nuovo paradigma che spingeva a ragionare in termini di evoluzionismo culturale (cross-cultural changes)7 e che avrebbe avuto come conseguenza più evidente la separazione tra archeologia classica e processuale, portandole a ignorarsi e escludersi vicendevolmente: “When David Clarke eventually announces that the emperor has no clothes, those who would rather avoid such unpleasant revelations have been getting ready to leave the party for a generation or so”8. Due sono le cause addotte da Terrenato per spiegare questo fenomeno e corrispondono a due caratteristiche dell’archeologia classica come disciplina: 1) il background necessario per praticare la disciplina (conoscenza delle lingue antiche, dell’arte, dell’architettura e della storia greca e romana) veicolato dal sistema educativo primario

L’analisi metteva in luce un lento declino degli articoli a carattere “classico” in favore di quelli dedicati al Bronzo egeo e alla civiltà Minoica e Micenea. L’inizio del declino dell’archeologia classica all’interno della rivista cominciava sin dagli anni Cinquanta, per poi completarsi definitivamente a partire dagli anni Settanta del secolo Burgio 2018, p. 298. Terrenato 2002. Un’analisi bibliometrica simile è stata fatta da Stephen Dyson comparando American Antiquity e l’American Journal of Archaeology come due modi distinti di affrontare l’archeologia classica. AA sarebbe in un certo senso più sensibile alle innovazioni rispetto all’AJA estremamente conservativo e legato alla disciplina filologica. Questa distinzione sarebbe di natura istituzionale: “It is worth noting that four out of the five leaders of the American Antiquity list are state universities and that their geographical distribution covers the whole of the country. In contrast, the top AJA institutions are all centered on a narrow band of the east coast of the United States between Cambridge and Philadelphia”, Dyson 1985, pp. 460-461. In generale sul ruolo dell’archeologia classica in ambito anglo-americano Dyson 1998, 2006 e 1993 su archeologia classica e New Archaeology. 3  Terrenato 2002, p. 1104. 1  2 

Ivi, pp. 1107-1108. Ivi, p. 1105. 6  Ventris, Chadwick 1953. 7  Bentley 1996; Eerkens, Lipo 2007. 8  Terrenato 2002, p. 1108. 4  5 

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L’ideologia degli archeologi e il suo peso per la generale formazione degli studenti nella tradizione anglo-americana rispetto ad altre (tedesca, francese e italiana); 2) lo storicismo insito da sempre nello studio dell’archeologia classica, refrattario alle ricostruzioni di ampio respiro, alla teoria e all’utilizzo della comparazione e all’utilizzo della spiegazione evolutiva e teso piuttosto “to the collation of detailed and often eventbased narratives”9.

della storia nazionale. Come ricordava Crawford il debito pagato nei confronti di Roma, nella formazione culturale e istituzionale dell’odierna Inghilterra, è di natura ideologica: un mito che impedisce e ostacola la costruzione di narrative archeologiche integrate16. Nonostante i suoi propositi però, “the colonialist bias is still with us and in the journal. So when we try to treat Greece and Rome like any other cultural context we hit an invisible intellectual barrier that prevents any contamination”17.

L’archeologia classica ha mantenuto un peso egemone fino a che ha avuto un suo ruolo nel discorso fondativo e ideologico delle società occidentali10. All’antichità si guardava come al momento in cui furono poste le basi delle conquiste più importanti della modernità, come la democrazia e il pensiero scientifico. Nel momento in cui ebbe inizio la decolonizzazione del presente11 e acquistava piede una prospettiva globale, quelle particolari “radici” classiche vennero recise e persero di senso, trasformando l’archeologia classica in una branca della più ampia archeologia globale. Ma quando venne il momento di abbandonare l’esclusività rappresentata dallo studio dell’antichità classica e farsi carico di questo arretramento e perdita di primato, l’archeologo classico rimaneva saldo nelle sue posizioni estraniandosi dal dibattito. Mentre l’archeologia cambiava completamente la sua strada, l’archeologia classica rimaneva seduta sulla sua pila di vecchi libri in una sorta di esilio volontario, la cui conseguenza più evidente sarebbe stata quella del rifiuto del metodo comparativo12. Solo il nascente interesse per l’Egeo poteva ricomporre la divisione “mostly because Minoans and Mycenaeans are too far removed and have been discovered too recently to be heavily encrusted with ideological overtones”13, come aveva già notato Renfrew14. Nessun altro tentativo di ricomposizione è stato fatto o sembra in procinto di essere riproposto su basi più solide e concettuali.

Alla fine Terrenato tiene a specificare che il suo non è “a desperate appeal for the return of a Golden Age when the Classical lamb dwelt with the archaeological lion”18, né l’afflizione che “Classical archaeology was down-sized”19. Se l’archeologia classica ha perso il suo ruolo fondante, la sua carica ideologica, è perché sono mutate le basi e la natura delle società occidentali. La decolonizzazione ha privato della sua unicità l’antichità classica restituendole però libertà da manipolazioni politiche e etiche, avanzando in metodologie e in prospettive di ampio respiro. Il problema è però come mai, una volta diventata un’archeologia come tante, è stata isolata, esiliata, oppressa, piuttosto che integrata e incorporata come un elemento interattivo del dibattito più generale nato in seno alla disciplina tutta? È ancora questa sua carica ideologica a rappresentarne l’eterna condanna? In una società più globale, che non si identifica più con i valori delle società classiche, lo studio di quelle civiltà non ha veramente più niente da offrirci? Per Terrenato c’è una cosa che ancora ci può insegnare quel mondo e che noi non abbiamo imparato a gestire, ed è proprio come affrontare l’uso politico della storia e dell’archeologia20. Se c’è una cosa che la teoria dell’evoluzione culturale non riesce a spiegare è il passato di chi quelle teorie le costruisce e l’autorefenzialità a lungo andare diventa tossica. 7.2. Compare il comparabile. L’esempio demografico ed economico.

Qui la differenza tra Stati Uniti e Inghilterra è marcata. Infatti, in America la distinzione disciplinare tra archeologia classica e archeologia antropologica è netta e evidente. Non vi è né confusione né esigenza di ricomposizione. L’antropologia fornisce metodi, teorie, autolegittimazione e fondamenti ideologici, mentre il richiamo al passato classico non ha alcun valore etico-sociale o politico. Geograficamente e storicamente a contatto con altre zone del mondo l’America è stata la prima a procedere con più forza alla segregazione dell’archeologia classica15. Più complessa si presenta la situazione in Inghilterra, dove il passato romano gioca un ruolo nella costruzione

La comparazione, come si è visto, è un affare che riguarda le fonti, o meglio la mancanza di fonti circa un problema o un periodo. Detto più esplicitamente è una procedura che in archeologia entra in azione allorché si ha una lacuna nelle fonti scritte. È un problema che riguarda l’epistemologia e la metodologia. In sostanza se c’è relazione tra fonti documentarie e modelli, se questi ultimi Terrenato 2002, p. 1110; Crawford 1928. Sul peso dell’educazione classica nel sistema educativo britannico si veda il dibattito apparso nei Papers from the Institute of Archaeology (Hall 2004). Per Martin Millett la questione “is the place of Roman archaeology (and Classical archaeology more broadly) within European archaeological traditions. Although there are differences in emphasis and variations in how the academic boundaries are drawn, there are few of our European neighbours whose universities do not give considerable prominence to teaching and research in the archaeology of the Classical world (within which I include the Roman provinces)”, pp. 12-13. E di conseguenza il ruolo rispetto alle altre archeologie. 17  Terrenato, p.1111. 18  Ivi, p. 1104. 19  Ivi, p. 1111. 20  Si veda su questo tema in generale per la storia Hartog, Revel 2001, per l’archeologia Diaz-Anreu 2007; Diaz-Andreu, Champion 1996. 16 

Terrenato 2002, p. 1109. Per gli Stati Uniti Dyson 2001 per l’Inghilterra Hingley 2001a; Alcock, Osborne 2007. 11  Sul discorso coloniale ed archeologia nel Mediterraneo, si veda Van Dommelen 1997, 2000. 12  Qui ci permettiamo di aggiungere che lo storicismo non ha come conseguenza il totale rifiuto del metodo comparativo ma, piuttosto, l’utilizzo di una comparazione storica tra contesti morfologicamente equipollenti. Compare il comparabile dunque. 13  Terrenato 2002, p. 1109. 14  Renfrew 1980. 15  Tentativi di ricomposizione si intravedono in Wiseman 1980, 1989, 2002. 9 

10 

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Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. possono supplire alla mancanza delle prime. Gli ingenui sono coloro che si fidano delle fonti e gli scettici coloro che di queste diffidano. I primi stentano a perdere la loro innocenza, mentre gli altri sono bloccati dall’ipercritica che sublimano attraverso l’esercizio della comparazione.

comparazione. Ma se questa è una posizione estrema, altrettanto impraticabile ci sembra la comparazione tout court libera e estetica più volte proposta dall’antropologo del mondo antico Marcel Detienne: “Plutôt que de ‘comparer ce qui est comparable’, formule vide longtemps reprise par certains historiens, il convient de construire des analogies efficaces d’une discipline au d’un domaine de pensée à l’autre, comme l’a fait l’anthropologie avec succès”28. Il rischio, come abbiamo visto, è di sovrainterpretare andando a creare anacronismi. Più innocuo pare un comparativismo (anche quello in qualche misura storicistico) tra realtà morfologicamente affini. La comparazione deve più servire a trovare il diverso che l’analogo per sfuggire alla vocazione congenita del metodo comparativo: la generalizzazione29. Il punto è quello di verificare la comparazione e per farlo non si può che procedere comparando serie documentarie diverse. Ed è qui che interviene l’archeologia con tutta la sua forza detonante. Se le fonti letterarie possono sempre essere ri-lette e re-interpretate, è anche vero che solo la documentazione archeologica può, in maniera sostanziale, andare a integrare, chiarire e rettificare le fonti letterarie. Con l’epigrafia e i papiri, o con le ricostruzioni storiche attraverso i soli documenti archeologici, aumentano la qualità della comparazione e la qualità delle nostre “storie”. Se è possibile una storia con le sole fonti letterarie, ne è possibile una anche con la sola documentazione archeologica, con i soli artefatti30. Vi è una storia “totale” a cui siamo eticamente chiamati e che non dobbiamo ignorare, una storia “sistema” che compara tutti i tipi di fonti disponibili. In questo quadro l’archeologia deve ancora esprimere il suo potenziale.

Un esempio di queste due procedure avviene negli studi demografici del mondo antico dove opera la nota contrapposizione tra “rialzisti” e “ribassisti”21, una contrapposizione che rispecchia quella più generale tra approccio “primitivistico” e uno di tipo “modernistico”22. Come ricordato da Ian Morris per il mondo greco e da Carmine Ampolo per quello romano, seppur in termini diversi23, la vera discussione è tra sostantivisti e formalisti, ovvero se sia legittimo o no utilizzare le categorie economiche contemporanee per lo studio dell’antichità. Per parafrasare Marx e il titolo di un ormai dimenticato libro di Andrea Carandini, l’anatomia dell’uomo può aiutarci a capire quella della scimmia24. Il problema è dunque come usare le fonti e come gestire il metodo comparativo. Il desiderio di rinchiudersi nell’uso esclusivo di una tipologia di fonti, da un lato, e quello di limitarne l’uso, dall’altro, facendo ricorso alla comparazione antropologica e ai modelli, rivela due pregiudizi di fondo. L’uno equivale a usare aprioristicamente le categorie contemporanee, l’altro a considerare l’antichità come qualcosa che non ha nulla a che fare con il mondo contemporaneo e neanche col mondo moderno agli albori della società industriale25. Lo stesso Finley, in Anthropology and the Classics, ha rifiutato la comparazione selvaggia sostenendo che essa deve essere fatta tra società strutturate in maniera omologa26.

Forse hanno ragione Terrenato e Lo Cascio nel sottolineare la contrapposizione fra il blocco storicismo/dettaglio/ differenza e quello empirismo/generale/analogia. Chi si richiama al contesto, alla storia, tende a sottolineare le differenze tra un contesto e l’altro. Il dato empirico acquista senso in quanto parte di un “sistema” con le relazioni che lo costituiscono. E sono questi sistemi così costruiti a essere comparati. Il dato empirico puro, nella tradizione anglo-americana, trova la sua rete di relazioni attraverso l’analogia e la comparazione con altri dati31. Il baratro aperto da questo tipo di comparazione (nel tempo e nello spazio) viene coperto dai modelli teorici. Come ricorda Jean Andreau non ci deve sorprendere se a volte ci scopriremo più empirici dei sudditi di Sua Maestà32.

I conti vanno fatti con ogni tipo di serie documentaria necessaria alla ricostruzione storica. In ultima analisi, bisogna ritornare a discutere delle fonti, dei documenti, come già ricordava Momigliano. A ben vedere è questo che ha trascurato tutto il postmodernismo in storia e in archeologia, soprattutto in ambito anglo-americano, privilegiando i modelli e le comparazioni al dibattito sulle fonti27. Alcuni ritengono che le regole di controllo delle fonti non siano più necessarie. Il presupposto è che queste siano talmente inaffidabili, contraddittorie e che se ne possa prescindere. Ipercritica e scetticismo aiutano, ma fino a un certo punto. Esistono delle contraddizioni reali e profonde tra serie documentarie di cui bisogna dar ragione senza eliminare o nascondere la contraddizione. E qui entra in gioco la comparazione. In Italia c’è un certo scetticismo riguardo alla comparazione rispetto ad altre tradizioni accademiche forse legato al retaggio di un certo storicismo. Se si parte dal presupposto che ogni fenomeno storico va spiegato di per sé, cade ogni fondamento della

Detienne 2008, p. 19. Lo Cascio 1999, p. 371. 30  Come ricorda Manacorda 2004a, uno dei primi esempi di storia interamente archeologica fu il lavoro di A. Tchernia, Le vin de l’Italie Romaine 1986. 31  Sui vari tipi di comparazione in storia resta fondamentale il volume collettivo di Rossi 1990. 32  Scrive Andreau 1992, p. 173, a proposito dei metodi deduttivi e comparativi utilizzati dai “nos collègues et amis britannique” negli studi sull’attività finanziaria privata d’epoca romana: “Ces méthodes ont surpris ou coque plus d’un continental, à commencer par moi. Elles consistent à raisonner sur les vraisemblances et les cohérences de l’époque étudiée, ainsi que sur des analogies, - quitte à confronter par la suite, avec les donnes fournies par la documentation, les conclusions résultant des ces raisonnements. Étrange époque, ou nous autres, Italiens ou Français, nous révélons enfin plus empiriques que les sujets de sa Gracieuse Majesté…”. Sull’empirismo dell’archeologia francese Adouze, Leroi-Gourhan 1981; Cleziou et alii 1991; Olivier 1999; Olivier, Coudart 1995; Adouze 1999. 28  29 

21  Da ultimo Vera 1999, su questo tema: per le tesi ribassiste notoriamente Scheidel, Friesen 2009; per quelle rialziste Lo Cascio 2006 22  Si veda Harris 1993 e da ultimo Hobson 2013. 23  Ampolo 1999. 24  Carandini A. 1979, L’anatomia della scimmia, Roma. 25  Ivi, p. 273. 26  Finley 1975; una panoramica del suo pensiero in Jew, Osborne, Scott 2016. 27  Cerutti 1997. Questo disinteresse per le fonti, sostituite dal discorso, è stato da subito il carattere della discussione postmoderna in Inghilterra.

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L’ideologia degli archeologi L’aporia sta nel conciliare comparazione e contingenza storica.

della c.d. critica temperata, mantiene una certa diffidenza, ma non tanto nella possibilità di accedere al passato attraverso l’archeologia, quanto nei confronti del cattivo uso del procedimento combinatorio di serie documentarie differenti o nel desumere da fonti scritte, correlazioni reali con documenti archeologici38. Il riferimento al tentativo di Carandini di procedere a una mito-stratigrafia è chiaro e non mascherato da parte del Gabba. La ricostruzione di Carandini, del resto, si spinge oltre quelli che possono essere le normali problematiche dialettiche tra fonti scritte e archeologiche. Egli tenta non solo di mettere in comunicazione diretta la documentazione archeologica con le fonti scritte tradite, ma di dipanare il multiforme nocciolo di miti e leggende sulle origini di Roma in esse fusi, sovrapposti, mescolati39.

È questo il senso di quanto scrive Foraboschi sulla diffidenza verso la comparazione che deriva dalla certezza (idealista e storicista) che ogni evento si debba spiegare da sé33. Io ci vedo anche il sogno dell’unicum, l’amore per l’evento e l’eccezionale e per l’interpretazione originale mai detta. In realtà la vera sfida è raccontare il banale, il seriale e il quotidiano della vita del passato. Non c’è solo differenza tra storia evenemenziale e storia di ampio respiro, ma anche tra storia banale ed evenemenziale e longue durée. Dar voce, cioè, a quei gesti che nella storia si sono ripetuti sempre uguali a sé stessi: ogni atto e ogni oggetto, ogni storia nella sua serialità iconica è comunque una scoperta. Il problema è che si crea un’opposizione/ identificazione a ciò che già esiste, alla storia già raccontata prima da qualcun altro. La vera sfida sarebbe fare storia nel vuoto.

Non sfuggirà quindi che la dose di storicismo che pervade la nostra tradizione di studi, e che ostacola il ricorso alla comparazione, si mescola con un certo positivismo (e il conseguente peso del pensiero marxiano), impedendo di pensare il passato come un “discorso” interamente dominato da dinamiche linguistiche. Il passato, che ci piaccia o no, è composto da fatti che si sono svolti in un certo modo e che avevano un significato, che noi riusciamo a coglierlo o meno. La tematica delle fonti deriva dalla scuola tedesca della Quellenkritik (Leopold Von Ranke per intendersi). Marcello Barbanera ha più volte ricordato come, arrivata a un momento di svolta, l’archeologia italiana scelse di seguire la tradizione idealistica e storicista tedesca più che procedere alla costruzione di una sua propria tradizione su basi completamente nuove. Difatti nell’epoca post-unitaria la percezione del decadimento della scuola italiana e della supremazia dell’Altertum si tradusse nell’ antitesi fra pratica e modello e in ultima istanza fra teoria e prassi; tra l’alternativa di rinnovare l’archeologia italiana secondo un suo percorso autonomo e indipendente o importare un modello40. Il progetto di Giuseppe Fiorelli (Napoli, 7 giugno 1823 - 28 gennaio 1896) di creare una scuola teorico-pratica a Pompei era finalizzato alla formazione di una classe di funzionari dotati di preparazione scientifica e esperienza pratica, secondo esigenze dettate dalle particolari condizioni in cui versava l’archeologia in Italia. Fiorelli non era contrario al modello tedesco ma era ben consapevole che in Italia mancava un’organizzazione equivalente di insegnamento ginnasiale e una struttura universitaria anche solo paragonabile a quella tedesca, la quale poteva contare sulle innumerevoli e poderose ramificazioni dell’Altertum. La scelta di Emanuel Löwy per la cattedra di Archeologia e Storia dell’arte antica a Roma “fu la risposta degli antichisti italiani ai reiterati dibattiti sulla questione del rinnovamento dell’Archeologia”41; fu scelta cioè l’applicazione di un modello allogeno non contestuale e un’impronta filologico-estetica che privilegiava il rapporto con la storia dell’arte che l’organizzazione

7.3. Il problema epistemologico delle fonti: soluzioni a confronto nell’archeologia postmoderna. Una delle maggiori preoccupazioni metodologiche di Arnaldo Momigliano riguardava il rapporto che legava documento e fatto, realtà e espressione della medesima. Per lui vi era un solo modo per superare la “ricostruzione” arbitraria e stabilire un alto tasso di verosimiglianza con quanto accaduto nel passato, dedicando cioè “Un’atten­zione primaria alla attendibilità delle testimonianze, alla loro interpretazione e al valore di prova che esse comportano”, come “necessaria integrazione di ogni ricerca che voglia salvaguardarsi dalla falsificazione ideologica”34. Anche per questo criticava fortemente Weber, più attento, secondo Momigliano, a stabilire “l’ammissibilità di certe procedure, come la creazione di tipi ideali, l’analisi di possibilità alternative anche se non verificatesi in un processo storico reale, e il significato del giudizio di valore” piuttosto che alla corrispondenza tra documento e fatto. Il punto essenziale della critica del documento sembra essere anche al centro della riflessione di Emilio Gabba sulla possibilità di ricostruire, al di là delle fonti di III-I secolo a.C., una storia delle origini di Roma attraverso l’archeologia35. Fu l’indagine archeologica a mettere fine alle tendenze ipercritiche e allo scetticismo, ma non a infrangere il “muro del suono” del III secolo a.C.36. Quando nel 1899 Ettore Pais pubblicava il monumento dell’ipercritica (la sua Storia di Roma), Giacomo Boni scoperse il lapis niger. L’archeologia, nelle sue prime battaglie con la storia ufficiale, trovò sostegno e autorevolezza nella metodologia antropologico-comparativa37. Il Gabba, rappresentante Foraboschi 1999a, 1999b. Momigliano 1973 (1984b), p. 851. 35  Da qui le critiche al lavoro di Carandini, Gabba 1996, 1999a, 2001. Per i termini del confronto tra le due posizioni Fentress, Guidi 1999, anche per la questione tra fonti scritte ed archeologiche. 36  Carandini, Greco 2007; critiche in Ampolo 2013 con puntualizzazioni a favore dell’approccio archeologico in Carafa 2014. 37  Un rapporto che forse è meno difficile di quanto si pensi, Ampolo 1986, p. 131. 33  34 

Gabba 2001. Per questo si veda Carandini 1997. 40  Barbanera 2000, p. 45; sulla figura di Löwy si veda Rossi 2013. 41  Barbanera, p. 50. 38  39 

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Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. strutturale e culturale italiana non poteva sostenere. Ben presto avrebbe trovato nell’idealismo crociano la sua forma di legittimazione e la sua giustificazione filosofica, lasciando l’archeologia italiana fuori dalla riflessione stratigrafica e dalla filosofia della storia42. Quest’ultimo va considerato però un passaggio successivo poiché “La dicotomia di teoria e prassi era prima pratica piuttosto che ideologica”43. Quello che mancava era un vero e proprio discorso che fosse appropriato al lavoro delle archeologhe e degli archeologi italiani e soprattutto che ne riflettesse le reali strutture culturali e mentali44, a cui però a mio avviso si può tentare adesso di rimediare, esplicitando queste caratteristiche più che rigettarle, per rifondarle attraverso uno studio puntuale della storiografia archeologica. La prova che sia stato fallimentare inseguire progetti teorici nati altrove è evidente nella mancata ricezione della New archaeology in Italia45, un’inadeguatezza che si è trasformata in compiacimento e poi nella sensazione, con l’ascesa dell’archeologia postprocessuale, che in fondo avevamo ragione e che lo storicismo non era poi stato una disgrazia. Riflettendo recentemente sul dibattito nell’archeologia classica in Italia, Terrenato ricorda che non prendendo l’archeologia processuale seriamente gli archeologi classici italiani “found a reassuring justification for altogether skipping the positivistic phase again, as they had done at the turn of the century. The truth was that, for those select few who found it nice to have a theoretical affiliation, post-processualism became a convenient new label to stick on the same old idealist historicism”46.

primo dopoguerra49. Non scordiamoci che in fondo Ranke condivise idee profondamente romantiche e considerò la storia come campo di azione di forti individualità animate da forze morali e spirituali, nella cui interazione lo storico poteva intravedere il riflesso dell’armonia universale. Un’armonia che a livello politico si attuava nell’integrazione delle nazioni europee in un Impero50. Il dibattito sulle fonti rimase per un lungo periodo fuori dalla disciplina, per ritornare alla fine del millennio sotto nuove forme, di fronte alla definitiva disintegrazione del postmoderno. Non è un caso che al positivismo processuale sopravvissuto in archeologia e proveniente da oltreoceano fosse subito contrapposto lo storicismo postprocessuale di derivazione britannica. 7.4. Quale storicismo per l’archeologia classica? Lo storicismo è la situazione che sorge dal processo di selezione, spiegazione e valutazione dei fatti che emergono dalla documentazione selezionata51. Più precisamente una posizione storicista implica l’ammettere che gli avvenimenti del passato debbano essere visti, spiegati e ricostruiti da un punto di vista determinato o almeno condizionato dalla nostra singola e mutevole collocazione dentro la storia52. La qualità storica ci tocca direttamente e ci motiva ad esplicitare le nostre condizioni storico-sociali in cui operiamo, una volta ammessa la distorsione che queste provocano. Condizione che la post-archeologia accetta ma che non vuole controllare, sostituendo il momento della distorsione con quello della creazione e dell’atto poietico. Lo storicismo è una dottrina confortevole, come ricorda Momigliano, perché implica la panacea del relativismo, la tautologia del proprio punto di vista, l’unità interpretativa assicurata dalla coerenza del soggetto. C’è di più: questo implica l’estensione dell’interpretazione a tutti gli aspetti del momento d’indagine, soggetto indagante compreso. C’è dunque un legame profondo tra archeologia così detta interpretativa e storicismo. Questo però non comporta che la storia sia solo (o in gran parte) retorica, come vorrebbe Hayden White53.

In Inghilterra e negli Stati Uniti vi sono due componenti separate e distinte (a volte intimamente legate) nella formazione della tradizione scolastica nella storia. Quella che si rifà allo storicismo tedesco, che pone nella discussione delle fonti la base della disciplina, e un’altra essenzialmente positivista e centrata sulla scoperta di leggi generali che governano il cambiamento storico47. La dialettica storicismo/positivismo, che nella tradizione mediterranea si bilancia in qualche modo grazie al ruolo giocato dalla tradizione classica, in Inghilterra, ad esempio, la si annienta proprio a causa dell’influenza della storiografia tedesca e a un arretramento del positivismo48. Di conseguenza sembrano venire meno alcune concezioni fondamentali, come l’idea che si possa praticare una storia scientifica ed autonoma (di qui lo scarso appeal suscitato poi da Marx). Ernst Fuchs ha spiegato questo arretramento dal positivismo con il lungo processo di professionalizzazione della figura dello storico (almeno in Inghilterra) variamente condotto dai due centri di potere accademici di Oxford e Cambridge e durato fino almeno al

Il problema della verità storica è un tema serio e non di secondaria importanza per le implicazioni teoriche, politiche e etiche che comporta nel presente. Ridurre la storia a retorica è possibile solo eliminando la prova, che non è mai un gesto innocuo come ci ricorda Ginzburg54. Commentando in un carteggio con Michel de Certeau il 49  Fuchs 2000. Lo storicismo tedesco rappresenta un evoluzionismo di segno differente rispetto a quello inglese. Quello tedesco studia l’evoluzione specifica delle differenti culture e la loro interazione. Nello storicismo vi è la variante diffusionista (teoria delle aree, kulturkreise) e quella legata alla teoria idealista dello spirito e alla storicità delle culture di Ernst Cassirer (1874-1945). Il fatto che fosse la prima variante diffusionista a prevalere in ambiente britannico ha contribuito all’accantonamento della storicità, Kellner 2004. 50  Delogu 1994, p. 38. 51  Momigliano 1984a. 52  Ivi, p. 456. 53  White 1978; Momigliano 1984b su White, retorica e prova. 54  Ginzburg 1984.

Terrenato 2000, p. 15. Barbanera 2000, p. 48. 44  Terrenato 2000, p. 19. 45  Su tale difficoltà Bietti Sestieri 2000a, 2000b; Terrenato 2005. 46  Terrenato 2005, p. 41. 47  Goldstein 1983, 2004. 48  Parker 1983. Questo arretramento dal positivismo fu poi alla base del rifiuto del concetto di cultura materiale introdotto da Lamprecht (18561915). 42  43 

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L’ideologia degli archeologi caso del negazionista Robert Faurisson, il quale metteva in discussione l’esistenza delle camere a gas e l’idea di una soluzione finale lucidamente elaborata in seno all’ideologia nazista, l’ebreo e storico del mondo antico Pierre Vidal-Naquet rifletteva più profondamente sul senso dell’oggettività storica e sulla consistenza del passato. In sostanza Vidal-Naquet si chiedeva se, alla fine, contro la dissoluzione delle verità, e per sfuggire alle mistificazioni, non ci restasse che l’indispensabile ricollegarsi a quest’anticaglia che noi chiamiamo reale, cioè a quello che è veramente accaduto55. Non è un caso che tali temi venissero trattati proprio in un carteggio con Michel de Certeau. Quest’ultimo aveva posto per primo il problema della scrittura soggettiva della storia, poi portata alle sue estreme conseguenze in Francia da Paul Ricoeur e altrove da White56. A de Certeau rimandava il titolo del famoso volume collettivo della seconda generazione delle Annales, Faire de l’Histoire. Per François Hartog questi anni segneranno per sempre la definitiva perdita dell’identità della storia e una sua crisi (in senso positivo per Hartog). Il rapporto tra epistemologia e storia della storiografia segna la vittoria dello sguardo retrospettivo (se si vuole storico), che sostituisce alla storia creativa, la storia che riflette su sé stessa, alla storiografia dunque, la storia della storia57.

L’archeologo può doppiamente e nuovamente rivisitare lo storicismo. In un articolo dimenticato, Santo Mazzarino ripercorreva la storia del termine e del problema dello storicismo. Così come “ellenismo” non significa originariamente una devianza orientalizzante rispetto agli Elleni e all’ellenico, ma profonda aderenza ai suoi valori, così lo storicismo dovrebbe indicare – alla greca – un’adesione convinta al divenire storico60. L’accezione negativa legata al pericolo che la storia si trasformasse in relativismo fu ribaltata nella nostra cultura dal lavoro di Benedetto Croce. L’operazione di riabilitazione riuscì agganciando il concetto (non-greco) di una linearità della storia che procede in modo provvidenziale (cristiano), fondando l’adesione alla storia su base fideista. Progresso e provvidenza si ricomponevano attraverso una storiografia etico-politica in cui la filosofia della prassi entrava solo in via subordinata. L’idea di progresso applicata alla storia contrasta con il classicismo che fa del momento antico (nel caso del Croce “greco”) un momento paradigmatico per il presente, sovvertendo anche la gerarchia aristotelica che vedeva nella poesia l’espressione dell’universale, mentre la storia come campo specifico del particolare. Per Croce la storia aveva l’individuale per soggetto e il particolare per predicato e, in quanto espressione di uno Spirito provvidenziale (non necessariamente in senso cristiano), la storia era anche universale.

Tornando allo storicismo, non c’è interpretazione che non si basi su categorie o ipotesi che appartengono allo storico o all’archeologo come soggetto sociale, che è tenuto a conoscerle nella loro completezza, poiché non tutti i modelli e non tutte le ipotesi sono uguali e non falsificabili, ma si può sempre scegliere tra un’ipotesi o una categoria più soddisfacente di un’altra. Inoltre, l’ipotesi può mutare o essere sostituita man mano che l’analisi procede. È dunque decisivo studiare il mutamento attraverso i sovvertimenti continui di strumenti e di paradigmi. Lo strutturalismo, nonostante ci abbia provato, non è riuscito a farci uscire definitivamente dalle secche dello storicismo, perché il concetto di permanenza e continuità non può dar conto di una realtà che muta tanto più velocemente quanto più ammettiamo la nostra stessa mutevolezza di prospettiva. Ecco perché si preferirà sempre Marx a Lévi-Strauss. Lo storico e l’archeologo dovranno sempre considerare che fra loro in quanto soggetti-interpreti e i fatti nudi si trova il documento come medium ermeneutico, “Di conseguenza, lo storico si preoccuperà meno della propria inevitabile collocazione nella storia che della collocazione storica della documentazione di cui dispone, comprendendo in essa gli storici precedenti”58. Così Momigliano voleva rivisitare lo storicismo. Ma non necessariamente. Non bisogna né aver paura del relativismo59 né cedere alla tentazione di trovare in esso un caldo conforto, allorché non si riescono a maneggiare con sicurezza e rigore le fonti e si scaricano su di esse ogni responsabilità.

La drammatica contraddizione (che per Croce era anche lacerazione intima) notata da Gramsci tra progresso ed esemplarità dell’antico, tra movimento della storia e staticità della tradizione, si risolveva nel primato della storia etico-politica a discapito di quella economica, e della storiografia moderna rispetto a quella antica. Il ricorso al valore paradigmatico viene neutralizzato e sconfessato dalla fede nel progresso dell’umanità (non tecnologico ma umano) che continuamente torna a tentare il presente. Ma fra classicismo e storicismo assoluto non c’è mediazione possibile. Una tensione, questa, che ha permesso al classico di sopravvivere alle “miserie dello storicismo” ma che nella tradizione anglo-americana è risultata meno equilibrata e non controbilanciata dall’ingresso della prassi marxiana. La crisi dello storicismo così inteso era alle porte. Venuta meno l’idea di progresso e di provvidenza, lo storicismo è sopravvissuto nella sua versione relativista, quella che Popper condannava senza comprendere fino in fondo e che forse ha oscurato il discorso sulle fonti in ambito anglofono. Ma ormai il valore paradigmatico dell’antichità si era dissolto e, così neutralizzato, l’antico poteva tornare ad essere comparato, e uno storicismo idealista non era più possibile dopo la rivoluzione della prassi. In ogni caso tra l’idealismo crocio-gramsciano e quello di Collingwood a cui si era richiamata l’archeologia postprocessuale mancava a quest’ultima il doppio movimento di tensione tra classico/storicismo e storicismo/prassi. Marx ha tentato con il suo materialismo storico di superare l’opposizione tra idealismo e storicismo. Del materialismo

Vidal-Naquet 1980. 56  Ricoeur 1983-1985, 2000. 57  Hartog 1988, 2003, pp. 12-15. 58  Momigliano 1984b, p. 462. 59  Dei 2008; Geertz 1984. 55 

60 

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Mazzarino 1960.

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. storico però è stata data più importanza al primo termine, mentre Marx è essenzialmente uno storicista61. La concezione storicista nasce dalla lotta ideologica sul terreno dello scontro tra ideologia borghese e rivoluzione intellettuale popolare. Il materialismo cerca di criticare sia l’ideologia borghese che quella aristocratica, liberandosi da ogni ideologismo per la conquista reale del mondo storico che è l’inizio di una nuova civiltà. Come ricorda Walter Benjamin è però lo storicismo delle categorie astratte ad aver vinto come filosofia del moderno.

incommensurabili tra loro nella modalità propria di risolvere problemi e di organizzare i rapporti degli uomini col mondo esterno, non rappresentano un progresso suscettibile di attestare l’oggettività del mondo reale. Tanto più che l’archeologia “riflessiva”62, o il “tournant historique” di Hartog, ma anche tutte le riflessioni che si richiamo al pensiero di Latour operano questo slittamento dallo studio del passato alla riproduzione (anche sperimentale) e allo studio delle condizioni sociali presenti in cui si costruisce l’interpretazione, proprio per l’inconsistenza delle categorie stesse che utilizzano63. L’oggetto di questi approcci è la storia in action nel momento in cui è prodotta nel presente e non la storia liberata dalle manipolazioni del processo produttivo, col fine, a mio avviso, di controllare il mercato dei beni simbolici della conoscenza. La validità delle proposizioni risiede così nella loro credibilità ottenuta attraverso rapporti di forza e strategie comunicative. Tutto però si complica se non si separa il momento della creazione da quello dell’argomentazione, quando si postula che la pratica storica (e scientifica) è garantita solo dal principio di simmetria (trattare parimenti il vero dal falso, la natura e la società, il sociale e il tecnico, gli oggetti animati e gli oggetti inanimati, gli uomini e le cose) e mai dall’analisi logica o dal dato empirico, dalle fonti e dai materiali64.

L’archeologia ha due modi per rifondare lo storicismo. Sia portando avanti l’espansione della storicità a tutti gli aspetti dell’umanità, sia stabilendo una relazione fisica col contesto antico attraverso la prassi e il medium del paesaggio storico. Durante lo scavo l’archeologo si stabilisce una relazione diretta tra la sua storicità, carica di quei paradigmi e ipotesi del presente, e il contesto fisico parzialmente recuperato e cristallizzato nella documentazione archeologica. Il collegamento tra presente e passato è fisico, non interpretativo, mediato attraverso le relazioni che l’archeologo, come soggetto-interprete, instaura “fisicamente” (non percettivamente, si badi bene) con il contesto cronotemporale. All’interno di questa rete relazionale l’archeologo è un etno-socio-soggetto che può essere interrogato e controllato direttamente. Durante ogni momento dello scavo è anch’egli un dato, un documento interpellabile e collocabile a ogni istante e la cui prospettiva cangiante è parte del sistema. Non è più allora questione di distorsione provocata dalla mediazione stessa, né di creazione operata dal soggetto, ma si tratta di aggiungere un coefficiente all’equazione storicointerpretativa, di tener conto ovvero di una variabile in più all’interno di un contesto passato che nel momento in cui riviene alla luce diviene immediatamente anche presente-attuale. Il presente fa parte di quel particolare contesto-realtà-passato che è diverso dal passato da interpretare. Ci sono due passati dunque. Uno reale, nel passato (mi si passi il bisticcio di parole), in cui il soggetto e il presente sono necessariamente, cronologicamente e epistemologicamente distanti e irriducibili, e un altro passato, quello del deposito archeologico, cristallizzato e contestualizzato, al cui interno l’archeologo rimette in funzione e riattiva una rete di rapporti, rendendolo operante di nuovo, ma nel presente. La completezza di questi rapporti può darsi solo all’interno del contesto archeologico (inteso nel suo senso più ampio di paesaggio del cronotopo) e durante l’interazione con esso. La ricostruzione avviene dall’interazione tra questi due passati.

Poco prima di morire lo stesso Kuhn, sconcertato da alcune interpretazioni che riducevano il suo pensiero a pura sociologia della conoscenza, dichiarò di rifiutare il relativismo e di non accettare il dissolvimento di concetti come verità e ragione o la subordinazione della ricerca a considerazioni politiche65. Questa presa di posizione non sortì alcun effetto tra coloro che si rifiutavano di distinguere i fattori sociali e ideologici dagli aspetti scientifici. 7.5. Historical Archaeology e Archeologia Classica. Il problema dell’archeologia classica è sostanzialmente un problema di rapporto tra fonti scritte e fonti materiali. Quando l’archeologia intercetta le fonti produce una doppia tensione tra archeologia e storia e tra archeologia classica e archeologia pre- e protostorica. Questa tensione metodologica produce anche degli scontri disciplinari alimentati da accuse di ingerenza o di uso maldestro delle fonti. Alcuni protostorici che ad esempio condividono con l’archeologia classica una buona fetta di storia, una zona condivisa di studio dove fonti scritte e materiali si incontrano, dove archeologia “pura” e archeologia storica interagiscono, si sono interrogati su questi temi a più riprese. Anna Maria Bietti Sestieri, a proposito della possibilità di poter ricostruire le dinamiche storiche tra Bronzo e Primo Ferro in Italia, anche attraverso l’utilizzo di quel poco che dicono le fonti scritte su questo periodo, ha sostenuto che piuttosto che tenere presenti i

La preoccupazione del Momigliano che si perdesse di vista il processo di formazione del binomio contesto/ fonti nel passato, in luogo della formazione del contesto/ interpretazione nel presente, era giustificata e resta a mio avviso al centro del dibattito ma va risolta in altro modo. Nell’era post-kuhniana (anch’essa ahimè post), i paradigmi, mutevoli nel tempo, incomparabili e

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Per una definizione di reflexivity in archeologia, Johnson 1999, p. 281. Da ultimo si veda su Latour e il dibattito sulle sue posizioni Busino 1999, 2002. 64  Busino 1999, p. 729. 65  Ivi. 62  63 

Gramsci 1975, pp. 433-444.

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L’ideologia degli archeologi risultati delle recenti sistematiche ricerche archeologiche “our classicist colleagues would more or less entirely dismiss them in favour of the use of literary sources as the only legitimate tool for their reconstruction”. C’è ovviamente qui anche un problema di definizione di un campo disciplinare autonomo. Continua la Bietti Sestieri, infatti, che ciò che si chiede è che la protostoria sia a tutti gli effetti considerata un campo autonomo di indagine, separato e strutturalmente differente dalla storia, e che le fonti letterarie non siano “the most reliable documents for any attempt at reconstructing this inherently irrational and confuse period”66. Contemporaneamente a queste affermazioni sono apparsi sugli Accordia Research Papers (2007-2008) due articoli che presentavano pressoché lo stesso leitmotiv. Uno di Simon Stoddart a proposito della concezione del corpo della società etrusca, dove si rimprovera gli storici e gli archeologi classici di essere refrattari al metodo antropologico-comparativo e di limitare le potenzialità della cultura materiale proprio per la loro ostinazione nel tenere in conto le fonti scritte67. L’altro di Giulia Saltini Semerari, anch’esso interessato al tema del “corpo”, ma qui analizzato nel contesto della pratica funeraria e dell’ideologia eroica nel sud dell’Italia da una prospettiva di gender. In sostanza alcune pratiche e oggetti funerari attribuiti normalmente all’ideologia eroica maschile sarebbero espressione di status femminile. Afferma la Saltini Semerari: “I hope to have demonstrated that assumptions about indigenous social organization based on classical archaeologists’ and ancient historians ideas […] can seriously hinder an accurate understanding of such society” e continua “it seems that particularly in the context of classical archaeology, archaeologists are usually more comfortable when integrating male grave goods such as weapons”68. Sorprende però che l’archeologia classica sia considerata equivalente, per metodi e idee, alla storia antica. In questo caso in particolare è interessante notare che se una volta l’accusa di trascurare aspetti di gender era rivolta in generale a tutta la categoria dei white protestant male archaeologists, adesso sembra rivolta esclusivamente alla sub-disciplina dell’archeologia classica.

una tensione intorno a un problema teorico o storico, nell’incapacità di risolverne le aporie si è tentati di trovare soluzioni nominaliste trovando un nuovo termine, ma senza preoccuparsi del concetto che nasconde o evoca, rendendolo però operativo sul piano linguistico. Questo meccanismo è ben operante con il problema della “romanizzazione”. L’insofferenza per il termine dimostrata dall’archeologia anglo-americana, al limite dell’antipatia personale (“I have come to detest” è arrivata a dire Susan Alcock)69, deriva dal movimento di disgregazione del quadro omogeneo relativo all’assimilazione delle culture provinciali nella più vasta compagine imperiale romana. Un movimento simile alla decolonizzazione che metteva da parte il politicamente scorretto discorso imperialista, periferizzando e scomponendo le particolarità di interazione di ogni singolo contesto provinciale70. Il discorso sull’imperialismo nell’antichità è, a mio avviso, un falso problema71. L’esplosione degli studi sulle province romane, la disgregazione del discorso su Roma come centro di emanazione e di coercizione militare ed economica, o come fulcro decisionale di assimilazione politica e sociale, libera i contesti provinciali in unità semi-autonome pronte per essere utilizzate localmente e integrate a tutti gli effetti nelle storie nazionali72. In sostanza, per una nuova colonizzazione della storia. La riprova di questo falso problema imperialista è nelle bibliografie di chi vi si scaglia contro. Citare Francis Haverfield, storico vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, per legittimare tale discorso significa ignorare un secolo di dibattito sulla questione73. La soluzione non è infatti quella di sostituire il termine con altri, attraverso il procedimento

Alcock 2001, p. 227. Sul concetto di romanizzazione Desideri 1991; Inglebert 2005, pp. 422-453; Cecconi 2006, pp. 81-84; per una bibliografia esaustiva, da ultimo Janniard, Traina 2006, pp. 74-79. Su posizioni decisamente decostruzioniste Mattingly 2002, 2004 e Woolf 1992a, 1994, 1995a, 1998. Nota Inglebert 2005, p. 424, “S’il n’y pas eu de politique romaine d’assimilation, la «résistance» apparaît en grande partie comme une illusion contemporaine liée à la décolonisation”. Sull’imperialismo Frézouls 1983; Gabba 1977; Gaillard 1983; Harris 1979, 2007; Holleaux 1921, pp. 306-334; Lasserre 1983; Nicolet 1978, 1983; North 1981; Garnsey, Saller 1987, pp. 189-203 ; Mattingly 1997 ; Clemente 1999. Per Le Roux 2004, p. 310, “La «romanisation » demeure un outil méthodologique indispensable parce qu’elle est la condition de la continuité d’une histoire de la conquête et de l’Empire intégrée dans une structure d’échanges, de dialogues et de refus qui en font la substance. En outre, la romanisation est une des approches nécessaires de l’histoire de Rome comme structure de pouvoir et de gouvernement, comme État et comme société, comme identité multiculturelle qu’elle éclaire et permet de mieux comprendre : le paradoxe de la critique a été d’évacuer totalement le centre par lequel, qu’on le veuille ou non, tout se tenait, même s’il ne déterminait pas tout. L’histoire des sociétés provinciales ne s’arrête pas aux portes de la politique et ne commence pas avec la culture et le quotidien, par ailleurs difficiles à appréhender. C’est à mieux comprendre les phases proprement dites de la romanisation qu’il faut s’atteler et à mesurer les changements augustéens dont les facteurs et les fondements demeurent en partie obscurs sous l’aveuglant constat d’un changement de comportement et de point de vue de la part de tous, Romains et autres. La romanisation fut fille de la paix autant que de la guerre et des résistances”. Contra Woolf 1998. 71  Dumasy 2005. 72  Thébert 1978 già parlava di deromanizzazione a proposito del Nord Africa romano; Bènabou 1976, 1978; Fentress 1979; Sheldon 1982; sul legame tra costruzione dell’identità e storia romana Walkbank 1972; Terrenato 2001. 73  Freeman 1997. 69  70 

Credo che vi sia un problema terminologico di fondo che nasconde un tema reale. Tra nominalismo e essenzialismo assoluto però può esserci una terza via. Quando si avverte 66  Bietti Sestieri 2000a, p. 9. Il riferimento è evidentemente alla polemica con Carandini 1997 e alla sua reinterpretazione dello scavo dell’Osteria dell’Osa e del periodo protostorico a Roma e nel Lazio. Bietti Sestieri 2000a, 2000b per i termini delle differenti posizioni e Bietti Sestieri 1996 per i dati della necropoli dell’Osa da lei indagata. 67  Stoddart 2007-2008. Come esempio di uso corretto delle fonti scritte e della comparazione antropologica Stoddart prende il lavoro di Meskell, Joyce 2003 sui Maya. Così anche Bietti Sestieri 2000a. 68  Saltini Semerari 2007-2008, pp. 130-131. La studiosa dà per scontata la comparazione tra ideologia funeraria guerriera delle società italiche con quelle così dette “omeriche”. A tal proposito Pascal Ruby si chiede: “D’un cote, si l’essentiel des aspects homériques retenus comme valides pour décrire la situation Latiale ou étrusque archaïque concerne le don […] n’est-il pas possible de dépasser ce comparatisme, ce recours à l’illustration de l’épopée, pour attendre une analyse anthropologique de pratique […]?”, Ruby 1993, p. 780. Sulla complessità dell’interazione tra pratiche funerarie indigene e greche in Italia meridionale, nelle dinamiche di rielaborazione o rifiuto di esse, D’Agostino 1985 e Cuozzo 1996, 2000 con prospettiva di gender.

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Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. anacronistico. Creolizzazione74, ibridazione75, rivoluzione culturale76, métissage77 o bricolage culturale78 vogliono forse più evocare un’immagine nuova per dar ragione della complessità del fenomeno, in luogo di quella evocata dal termine romanizzazione, reso meno dinamico proprio perché sovraccaricato di senso, che teorizzare un nuovo strumento euristico. Nel tentativo di metaforizzare ciò che non si riesce a concettualizzare si incappa in un’aporia. Ma su questo punto torneremo più avanti in dettaglio. Ci basti qui sottolineare come gli anglofoni siano, di fronte a una questione del genere, più nominalisti degli europei continentali, tesi cioè più ad un continuo e frenetico ripensamento terminologico di fronte alle difficoltà di un paradigma esplicativo che a un atteggiamento essenzialista. Sarà forse dovuto ad una maggiore dimestichezza con il concetto di ideal-typus weberiano presente nella tradizione culturale europea.

tra cultura e azione, tra etnostoria ed etnografia e tra presente e passato85. Dall’antropologia praticata nel presente l’historical archaeology acquista in potenza comparativa e analogica86, mentre dall’archeologia la capacità di studiare gli oggetti (che nell’antropologia è assente) e nel confrontarsi con le fonti. Comparazione e analogia come modalità operative, ma ancora una volta manca un discorso sul rapporto tra fonti scritte e materiali. L’uso del termine è limitativo, ristretto alla formazione del mondo coloniale, nel quale eurocentrismo, capitalismo e modernità appaiono come elementi indissociabili e strettamente collegati all’espansionismo europeo. In realtà tale dicotomia è forse troppo rigida e costringe la storia lungo percorsi asfittici in cui società premoderne e moderne risulterebbero relativamente omogenee. Secondo Daniele Manacorda si dovrebbe procedere a una riunificazione delle varie archeologie storiche, possibile all’interno di una più vasta disciplina archeologica (storica)87. A tal proposito egli suggerisce una definizione più larga e flessibile di historical archaeology “dando enfasi alla presenza di fonti scritte piuttosto che al colonialismo europeo e alla nascita del capitalismo, e chiedendo un approccio interdisciplinare al passato, che non si limiti a combinare varie fonti di evidenza, ma rechi anche attenzione a non porre le società letterate in opposizione a quelle illetterate, secondo le quali i documenti scritti possono operare come un mezzo di comunicazione nelle società”88. E questo è vero anche forse per la protostoria e l’archeologia classica.

Tornando all’archeologia storico-antropologica mediter­ ranea bisogna operare un distinguo. Per archeologia storica non s’intende qui l’archeologia come scienza storica, ma come archeologia dell’età storica79 dove, come abbiamo visto, il problema della comunicazione fra le serie documentarie risulta essere chiave. La nostra archeologia storica non è però l’historical archaeology anglo-americana. Il termine nasce negli Stati Uniti ed è applicato quasi esclusivamente al Nuovo Mondo80. L’historical archaeology è giunta a identificarsi con il periodo post-preistorico (dal Quindicesimo secolo in poi) come lo studio del mondo moderno, caratterizzato da una sola economia, quella capitalistica, pre-europea e coloniale. Mark Leone l’ha definita un’archeologia storica del capitalismo81, identificandosi all’interno di un sistema mondiale coerente, organizzato su tutto il pianeta con forme politiche ed economiche simili82. Questa prospettiva globale fa sì che l’historical archaeology venga collegata alla disciplina storica ma ancor di più, e ancora una volta, all’antropologia83. Per Leone l’historical archaeology ha a che fare “with modern society or with its direct historical foundations […] people, places, and processes tied up with the Industrial Revolution, the founding of the modern English-speaking world, or directly with modern Americans” e l’antropologia “has a special way of analyzing our society”84. Secondo Paynter tale disciplina occupa una posizione liminale tra storia ed antropologia,

La proposta che sembra venire alla luce è quella di mettere da parte la sub-disciplina nota come “archeologia classica” per costruirne una più comprensiva, di più ampio respiro, che avrebbe come base proprio la questione del rapporto tra fonti scritte e materiali. Un’archeologia storica intesa come terreno d’indagine espanso, al cui interno andrebbero a confluire alcune delle tensioni irrisolte dell’archeologia mondiale: il rapporto tra fonti, quello tra analogia e storicismo, tra antropologia e storia, tra preistoria e storia, tra antropologia e archeologia e quello tra archeologia storico-antropologica mediterranea e tradizione classica; e infine, aggiungo io, quella tra processualismo e postprocessualismo. Dal punto di vista operativo, per usare termini familiari alla tipologia e alla classificazione, si tratta di procedere a una ricomposizione etica più che emica, proprio per questo movimento di com-prensione. Questa ridefinizione di una archeologia più storica che classica sarebbe necessaria per la natura stessa di quest’ultima, nata non dalla storia ma bensì dall’antiquaria e dalla storia dell’arte, in un movimento che la porterebbe a ricomporsi proprio con la storia dalla quale è stata troppo a lungo separata89.

Webster 1997, 2001. Van Dommelen 1997. 76  Wallace-Hadrill 1989; Woolf 1998. 77  Gruzinski, Rouveret 1976; Gruzinski 1999; Le Roux 2001, 2006 ; critiche in Traina 2006. 78  Terrenato 1998. Per Terrenato, Keay 2001 il termine va mantenuto in mancanza di uno di equivalente portata analitico-esplicativa. Ma l’insoddisfazione è palese. 79  Per questo distinguo Manacorda 2007, p. 86. 80  Orser, Fagan 1995; Little 1997; Funari, Jones, Hall 1999; Paynter 2000, 2000a; Lee Lyman, O’Brien 2001; si veda Beaudry 2009 e Majewski, Gaimster 2009 sui compiti etici che l’archeologia storica è chiamata ad affrontare. 81  Leone 1995. 82  Manacorda 2007, p. 86; Funari, Jones, Hall 1999, p. 3. 83  Per il forte legame con l’antropologia Paynter 2000. 84  Leone 1977, p. XXI. 74  75 

Paynter 2000, p 4. Lee Lyman O’brien 2001 87  Manacorda 2007, p. 87, 2008, pp. 13-29, n. 43, 264; contra Carandini 2005 per cui l’archeologia classica avrebbe ancora una sua ragione di esistere in quanto disciplina autonoma. 88  Manacorda 2007, p. 87. 89  Strazzulla 2000; Manacorda 2008, p. 33. 85  86 

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L’ideologia degli archeologi In questo modo si rimetterebbe al centro del dibattito uno di quei temi metodologici e epistemologici centrali delle archeologie storiche mediterranee e europee, trascurato, forse per motivi storici e culturali, in quella angloamericana: il tema appunto sul tipo di sistema di fonti debba utilizzare l’archeologia storica che è uscito irrisolto dalle pagine del manuale di C. Renfrew e P. Bahn90. Si ritiene in genere che l’archeologia possa trovare gli spazi tra parole e cose, sovvertendo i racconti costruiti attraverso la documentazione scritta o completandoli laddove risultano lacunosi91. Un tentativo anche di ricomporre la dicotomia tra diverse polarità: tra discorso, retorica della storia e realtà materiale del passato; tra soggetto ed oggetto; tra idea e prassi; tra explanans ed explanandum; tra struttura e individuo; e tra strutturalismo e poststrutturalismo. Nonostante la sintesi sia auspicabile ma non obbligata, non dobbiamo dimenticare che le diverse serie di fonti sono il risultato di processi sociali diversi e che è rischioso mescolare, ovvero combinare, informazioni provenienti da due serie documentarie diverse durante il processo conoscitivo. Tenere separate le serie è necessario come è necessario anche mitigare una distinzione troppo rigida. L’epigrafia dell’instrumentum, e l’epigrafia in generale, possono essere un esempio di questa mitigazione in cui fonte scritta e fonte materiale sono fisicamente la medesima cosa, verso quella che si può definire un’archeologia dei documenti92.

l’abbandono del tema delle fonti. L’archeologia avrebbe potuto dar voce a quei soggetti che risultano quasi invisibili nei documenti scritti, resi accessibili dallo studio dei resti materiali, dando voce ai “people without history” di Eric Wolf95. In questa ricerca di definizione disciplinare, nell’aspirazione a ritagliarsi un ruolo simile a quello della più forte archeologia preistorica, si incuneano poi con facilità i temi postmoderni. Non sfuggirà che i temi del poststrutturalismo, come la rinascita dell’individuo, si connettono proprio con questa prospettiva. Di qui l’attenzione più volte rimarcata nelle ricerche sulla peasant people o sulla peasant economy con un’attenzione al contesto rurale laddove le fonti non vi sono96. Se questa attenzione era in Italia alimentata da un contesto politico che trovava nel marxismo la sua base ideologica, altrove era la agency a guidare questo movimento di ruralizzazione della storia97. Ancora una volta struttura contro singolo. In questo modo si è creduto di poter fare a meno della storia e di poter utilizzare proprio quella comparazione mutuata attraverso l’historical archaeology praticata oltreoceano. Jane Webster, con l’obiettivo di sostituire l’ormai inutile e logoro paradigma della romanizzazione, prende a prestito quello di creolizzazione, utilizzato per spiegare i fenomeni di sincretismo religioso in ambito coloniale98. L’obiettivo è quello non solo di sostituire un termine con un altro, ma attraverso il suo utilizzo evocare e materializzare in un contesto altro tutta la forza esplicativa che porta con sé e che accentua fenomeni di resistenza. Se si può essere d’accordo che l’utilizzo della comparazione/analogia/anacronismo offra spunti per indagare fenomeni di negoziazione e resistenza, come quelli in atto durante l’espansione romana e la successiva formazione di una cultura imperiale a base provinciale, è significativo che all’inizio del Ventunesimo secolo si affermi che: “Perhaps it is time, then, to shift the study of intercultural contact […] away from élites, on whom so much work has focused, to other social categories; the urban poor, the rural poor, and that technically most invisible of social groups in the ancient world, the enslaved (enfasi nostra)”99. Non si capisce se l’accusa è rivolta nei confronti della storia (élites/fonti scritte) da parte dell’archeologia (poor people/fonti materiali) o se sia fatta da un’archeologia anglo-americana/nuova/materiale a un’altra archeologia europea/tradizionale/storica. Nel primo caso è ingenuità, nel secondo si tratta di ignorare un trentennio di dibattito sul tema proprio da parte delle archeologie europee. Interessante a tal proposito è quanto afferma l’archeologo britannico Richard Hingley, riguardo

La tensione testualità-materialità del sistema di fonti antico, che si ripresenta nella dicotomia testualitàoralità nella storia contemporanea, è la tensione tra storia e archeologia, tra storia e antropologia e oggi tra materialità ed oralità. Il rigetto della questione delle fonti, del loro rapporto, è certo dovuto a specifiche ragione storiche in cui è nata l’archeologia angloamericana, a ragioni fisiologiche di contesto e a ragioni di emancipazioni disciplinari. Per questo l’archeologia preistorica è sempre stata identificata con l’archeologia tout court di là e di qua dall’Atlantico93 o, perlomeno, la sola in grado di emanciparsi dalla tirannia della storia e sviluppare un percorso autonomo verso narrazioni totalmente archeologiche attraverso fonti esclusivamente materiali. Rispetto alle archeologie praticate su società dotate di documenti scritti, “Prehistoric archaeology has been characterized by dramatic oscillations between evolutionary and anti-evolutionary perspectives and by a general failure to recognize that history and evolution are complementary rather than antithetical concepts” 94. Per l’historical archaeology, ma anche per l’archeologia classica, vi è un puntello ideologico in più per sostenere

Wolf 1982. Hingley 1989, 2003, 2005, p. 8, parla di “educated élite males within the Roman Empire”; Mattingly 1996. Questo condizionamento ideologico è stato particolarmente forte per l’avvio e il consolidamento dell’archeologia medievale, Augenti 2003. 97  È questo il senso del fiorire alla fine degli anni Ottanta di studi romanisti sul ruolo delle economie domestiche, di sussistenza e tutto il dibattito sui free peasants (Garnsey, Salleres 1987; Whittaker 1988), rispetto a quelle formazioni economico-sociali più complesse, come il sistema schiavistico-mercantile, che prevedevano mercati e scambi e che dunque si prestavano bene all’utilizzo di concetti marxiani. Si veda ora per questo dibattito Launaro 2011. 98  Webster 1997; 2001. 99  Webster 2001, p. 223. 95  96 

90  Manacorda 2004; 2007; 2008, p. 229. Su questa complessa relazione si veda anche il ruolo operativo della scelta di “mostrare la storia”, Settis 1984 91  Hall 1999. A tal proposito Augenti 2003, cita il caso di Monte Barro per l’archeologia medievale, che ha fornito preziose indicazioni sulle fortificazioni tardo antiche dell’Italia settentrionale, risultando pressoché sconosciuto dalle fonti; anche Manacorda 2007, n. 23, p. 98. 92  Manacorda 2000a, 2004, 2007, p. 89. 93  Klejn 1995; un ripensamento recente Tylor 2008. 94  Trigger 1989, p. 19.

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Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. l’uso delle fonti antiche per lo studio del periodo romano: esse sarebbero inaffidabili e inutili, ci mentirebbero e ci darebbero un’idea distorta del mondo antico, in quanto basate su translations100. Ma non è tutto. Sempre Hingley ribadisce che la romanizzazione è un termine anacronistico e poco efficace. Il modo per comprendere meglio le dinamiche nel Mediterraneo antico nell’era postcoloniale e di comprenderlo in modo adeguato è la teoria della globalizzazione. Nel sostenere ciò prende come punto di riferimento il libro Impero di Michael Hardt e Antonio Negri101 e le loro considerazioni sull’analogia dell’Impero globale diretto da Roma e quello statunitense, almeno a livello di costruzione ideologica del consenso. Nel volume di Hardt e Negri le teorie del pensiero politico romano sono riprese a partire dall’opera di Polibio, che per tutto il libro è collocato all’epoca degli imperatori romani (sic). Antonio Negri è risultato essere uno dei cento intellettuali più influenti del pianeta102, e forse è davvero così. Va anche bene che se stimolati da problemi della modernità si ripensino strumenti e problemi nello studio dell’antichità. Il punto però, come ricorda Giovanni Cecconi, è che si ha un’idea forse confusa di uomini e problemi103, ma soprattutto un’idea non chiara di quale siano i punti e gli snodi della disciplina archeologica su cui concentrarsi. A tal proposito, essere romani è una questione formale e legale, non eminentemente culturale104.

non perde autonomia ma acquista in forza esplicativa, metodologica ed epistemologica e in autorità sociale. Quest’ultima è quella che ci permette di essere ascoltati e di incidere sulla società. La sensibilità verso questa problematica, come ricordato, non è nuova nella tradizione di studi europea e mediterranea. Nel 1984, in un’introduzione a un volume sulla centuriazione romana, Salvatore Settis parlava, a mio avviso correttamente, della procedura di mostrare la storia più che di narrarla106. Uno slittamento terminologico ricco di implicazioni che ci interessa qui puntualizzare. “Mostrare la storia” significa vedere come la porta d’accesso a un aspetto particolare del mondo antico conduca, dove possibile, a leggere i materiali e a visualizzare i testi antichi. Tale prospettiva cerca di ristabilire il valore e il giusto peso a tutte le serie documentarie. La tentazione di sovvertire le gerarchie resta in piedi, così quella di marcare nettamente i confini disciplinari. Mostrare la storia non significa sovvertire una gerarchia per sostituirla con un’altra, ma piuttosto stabilire una modalità (gerarchica) di comunicazione producendo meccanismi di mutuo controllo tra le procedure che aumentino da un lato il dato empirico complessivo e stringano dall’altro le maglie interpretative e congetturali. L’accumulo e il moltiplicarsi dei dati espande semanticamente le ipotesi ma ne restringe anche la grammatica. L’aumento dell’efficacia delle congetture così prodotta diminuisce la quantità dei dati significativi. “Nel lungo periodo, progressive correzioni di tiro del tipo ora delineato conducono a mutamenti del quadro d’insieme presumibilmente più profondi e duraturi di quelli prodotti dal solo accrescersi numerico dei dati. In questo senso è evidente che il gioco tra le fonti (sia in senso quantitativo che qualitativo) su cui ogni interpretazione è fondata, non solo – come si è già detto – modifica radicalmente il quadro d’insieme, ma moltiplica gli strumenti di verifica e rende più vasta e più solida la griglia delle probabilità che ci serve, lo vogliamo o no, da costante modello mentale. Una potenzialità esplorata solo in piccola parte è, in questa direzione, quella dello scavo: se non altro, per la quantità straordinariamente grande di dati che esso può offrire, e per la qualità di oggetti tangibili, che si offrono come tramite immediato fra chi li ha prodotti e usati e noi che li studiamo”107. In queste poche righe si trovano molti dei termini finora portati alla luce lungo il percorso sin qui intrapreso. Mostrare più che narrare significa non ridurre l’archeologia storica a retorica o a semplice dinamica del linguaggio. Vi sono qui molte procedure che funzionano da solidi anticorpi nella ricerca archeologica e che prese con la dovuta cura avrebbero permesso altrove di contrastare una certa deriva poststrutturalista: 1) dissolvere la gerarchia tra fonti sia in senso orizzontale (archeologia/storia, materialità/ testualità) sia in senso verticale (dignità del monumento/ umiltà del coccio); 2) vedere il monumento e l’oggetto come modo di mostrare i propri strumenti di analisi, rendendo esplicite le procedure di studio e di controllo

Una tale convergenza tra historical archaeology e archeologia storica mediterranea può ampliare i punti di convergenza e restituire unità alla disciplina o, se non unità, almeno un terreno di confronto tra le diverse archeologie storiche, un linguaggio e problemi comuni, reinserendo l’archeologo classico nel dibattito più ampio che riguarda tutta la disciplina archeologica. Per fare ciò bisogna interrompere l’autoesilio e reintegrarsi. Questo sforzo è necessario poiché nessuno ha sentito la nostra mancanza o ci verrà a pregare di ritornare. Abbandonare forse la definizione di archeologia classica e con essa il peso ideologico della tradizione ormai neutralizzato e abbracciare quindi nuove questioni per ristabilire alcune priorità che interessano la disciplina. Se il tema del volume di Renfrew e Bahn era lo sciogliersi delle gerarchie tra fonti105 nel tentativo di iso-orientare i vari sistemi, non si devono perdere di vista i rapporti e le tensioni tra questi problemi. Equalizzare non vuol dire che si possa far a meno di uno o dell’altro. In questo caso gli ingenui ci sembrano gli archeologi anglo-americani e gli scettici quelli storici. Il punto non è se si possa o meno fare storia con l’archeologia ma che si possa far a meno di un determinato sistema di informazioni. L’archeologia Hingley 2003, p. 114. Hardt, Negri 2001. 102  Franceschini, E. “Ecco I cento grandi”, in La Repubblica 24/09/2005, 57. 103  Cecconi 2006, p. 91. 104  A chi ogni volta obiettava sul fatto che si dovesse discutere in termini di “cultura”, durante le sue conferenze John Scheid era solito rispondere provocatoriamente che non si poteva definire culturalmente la romanitas (Qu’est-ce que c’est romain?). 105  Ma anche Settis 1984, p. 15 va nella direzione di dissolvere la gerarchia tra fonti scritte e materiali. 100  101 

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Settis 1984. Ivi, p. 14.

L’ideologia degli archeologi relative alle testimonianze, favorendo così la lettura dell’interpretazione e rendendo più dinamici e repentini i mutamenti di prospettiva e di paradigma; vedere, non come contemplazione dell’antico fatto di clamorose opere d’arte o monumenti mastodontici ma come messa in pratica del codice con cui si esprime la società odierna, dove le immagini e le cose esplodono più delle parole e dove l’oggetto materiale e tangibile può essere usato come porta d’accesso al passato; 3) mostrare è anche tradurre il punto di vista dello specialista in un linguaggio nuovo (visivo ed immediato) per offrirlo a un pubblico più vasto che, coinvolto anch’esso nell’operazione di attribuzione dei significati e nel monitoraggio delle procedure, diviene soggetto attivo nella tensione euristica della conquista del dato e nell’esercizio delle procedure di controllo108; 4) visualizzare la storia e l’archeologia come modalità di ricomposizione simmetrica del contesto antico al grado dei sensi umani, senza che questo implichi una disgregazione e una perdita della possibilità di controllare la formazione del dato.

è segno evidente che l’archeologia praticata sia in contesto esclusivamente italiano (Accordia) sia in più ampi contesti mediterranei (MJA) ha come tratto distintivo l’uso quasi esclusivo e privilegiato di una serie documentaria. In entrambe le riviste è poi evidente l’esiguo spazio riservato all’utilizzo combinato delle due serie, rispettivamente il 4 e il 2% (fig. 7.4-7.5). Non sembra casuale il fatto che in queste riviste, al preponderante ruolo occupato dall’utilizzo delle fonti materiali e allo scarso peso relativo del rapporto tra serie documentarie diverse, corrisponda in entrambi i casi un interesse maggiore riservato all’epoca preistorica rispetto al periodo classico. Nel caso degli Accordia il rapporto è circa 1:2, mentre nel caso del JMA addirittura 1:13 (fig. 7.6). Probabilmente i fenomeni sopra descritti sono facce diverse del medesimo problema. Nel caso degli Accordia e del JMA vi è a mio avviso un evidente separazione epistemologica, delle cui dinamiche si è accennato altrove, la quale non solo identifica metodologicamente l’archeologia con l’utilizzo esclusivo di un certo tipo di serie documentarie ma concettualmente tende a identificare l’archeologia come disciplina con quella preistorica. In questo senso lo scarso interesse alla questione delle fonti è confermato dalla totale assenza (come nel caso del JMA) o nella scarsa rilevanza data agli studi epigrafici (fig. 7.7).

7.6. Le riviste e l’archeologia classica Tale aporia epistemologica risulta con forza dalla ricognizione condotta sulle riviste. Nei PBSR, ad esempio, in termini assoluti le ricerche effettuate attraverso l’uso delle fonti materiali (37%) sopravanzano quelle effettuate con fonti scritte (29%), confermando sostanzialmente questa dicotomia superata attraverso un equilibrio in peso specifico (fig. 7.1). Poco peso sul totale hanno invece le ricerche effettuate utilizzando la combinazione di entrambe le serie documentarie (14%). L’opposizione dell’utilizzo delle due serie tra 1984 e 2009 traspare ancora più esplicitamente dal grafico sulla variazione in intervalli quinquennali. A un picco positivo dell’una ne corrisponde necessariamente uno di segno opposto dell’altra, sintomo che all’interno dell’economia della rivista sono concepite come alternative quasi in un rapporto di mutua esclusione. Da notare infine le ultime variazioni sul tema. Si assiste a un aumento costante degli articoli che utilizzano la documentazione materiale; questi risultano più del doppio di quelli che fanno uso di fonti scritte e che subiscono un crollo. In concomitanza con questi fenomeni si nota anche una diminuzione sostanziale di quelli che fanno uso di entrambe le serie (fig. 7.2) delle prospezioni geofisiche e delle ricognizioni. Il tracollo dell’utilizzo dei documenti scritti corrisponde al parallelo diminuire dell’interesse per le ricerche storiografiche che su questi si fondano, segno anche questo della concezione separata tra discipline e metodi che stiamo mettendo in luce e che identifica storia con fonti letterarie (fig. 7.3).

Per i Papers le cose sono più complesse. All’aumento dell’utilizzo delle fonti materiali non si registra un calo dell’interesse per il periodo classico; al contrario (fig.7.8) si assiste invece a un contemporaneo declino del medioevo tra l’intervallo 1999-2003 e 2004-2009, dovuto forse all’effetto del passaggio della direzione alla BSR da Hodges a Wallace-Hadrill. Questo non deve trarci troppo in inganno. Se esaminiamo le proporzione tra 1988-1995 (Hodges) e 1996-2009 (Wallace-Hadrill) fra i diversi periodi, vediamo che sul totale il periodo romano resta invariato al 36%. Mentre si registrano sostanziali variazioni di proporzione reciproca tra periodo medievale, moderno e contemporaneo. Tra i due intervalli sopra menzionati il periodo medievale perde consistenza sul totale (dal 27% al 17%) a vantaggio di un aumento sia del periodo moderno (dal 10 al 18%) sia di quello contemporaneo (dallo zero al 7%). In generale il periodo postclassico finisce per sopravanzare quello romano, come abbiamo già visto. L’analisi dettagliata dei materiali (Fig. 7.9-7.10) ci dipingeva un quadro ben preciso. Modificando leggermente i termini e accorpando mosaici, pitture, scultura e gli studi ceramici e numismatici dedicati allo studio figurativo sotto un’unica voce “Iconografia” (storia dell’arte), facendo altrettanto secondo la tipologia Epigrafia/Instrumentum, si vede che il quadro si precisa ulteriormente. Il 30% dei materiali sono utilizzati a fini di studi iconografici e di storia dell’arte, il 33% per studi di architettura, mentre solo il 15% fanno parte di quella categoria Epigrafia/ Instrumentum, così importante per la ricomposizione e la ricostruzione del rapporto tra fonti documentarie diverse e essenziale per l’archeologia storica (fig. 7.11).

Diverso ma speculare è il dato ricavabile dalle altre riviste con esplicita impostazione archeologica come gli Accordia Papers o il Journal of Mediterranean Archaeology. In entrambi il rapporto tra utilizzo di fonti scritte e fonti materiale è all’incirca 1:3. Questo squilibrio

108 

Ivi, p. 16.

120

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti.

7.1 Grafico sulle percentuali degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche dei Papers of the British School at Rome, secondo l’opposizione epistemologica.

7.2. Grafico sulle variazioni degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche dei Papers of the British School at Rome, secondo l’opposizione epistemologica.

7.7. Archeologia e testi tra le due sponde dell’Atlantico.

processuale-postprocessuale. La situazione si è tradotta poi in competizione accademica109. Tra Stati Uniti e Regno Unito si è creato uno scollamento nelle tempistiche di penetrazione del postmoderno, con un decennio di differenza tra le due compagini che è poi sfociato in un differente modo di ripensare, alla fine del postmoderno, il rapporto tra archeologia e testi.

Come si è cercato di argomentare vi è un legame tra postmoderno e un certo discorso intorno alle serie documentarie. Tra le due sponde dell’Atlantico il penetrare delle problematiche postmoderne si è tradotto in una separazione accademica ed epistemologica tra archeologia e storia, che a sua volta si è sovrapposta e innestata nelle separazioni puriste, dando luogo all’opposizione

109 

121

Carver 2002, p. 467.

L’ideologia degli archeologi

7.3. Grafico sulle variazioni degli argomenti affrontati nelle ricerche dei Papers of the British School at Rome.

7.4. Grafico degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche degli Accordia Research Papers, secondo l’opposizione epistemologica.

La differenza, ricorda Martin Carver, non risiede nel diverso metodo con cui vanno indagati i testi e la cultura materiale110, ma piuttosto nel diverso processo di formazione di queste due tipologie di documenti e nel messaggio che veicolano: “The interesting differences lie in the message, rather than the media”111. In questo modo cade anche la distinzione tra l’archeologia adatta

a raccontare “people without history” e la storia adatta a raccontare quella delle classi dirigenti, così come viene a cadere per l’historical archaeology il legame con il capitalismo112, verso un’archeologia più globale nell’applicazione e unita nel metodo113. L’archeologia storica non si differenzierebbe per una metodologia propria quanto per le domande che si pone114. Continua

110  Qui si preferisce mantenere però una certa separazione dei metodi di indagine specifici afferenti alle due serie e parlare piuttosto di differente “natura”. 111  Carver 2002, p. 485.

Funari, Jones , Hall 1999. Carver 2002, p. 473. 114  Johnson 1999. 112  113 

122

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti.

7.5. Grafico degli approcci metodologici utilizzati nelle ricerche nel Journal of Mediterranean Archaeology, secondo l’opposizione epistemologica.

7.6. Grafico sui periodi studiati negli articoli del Journal of Mediterranean Archaeology.

Carver: il problema per l’historical archaeology al di qua e al di là dell’Atlantico si pone quando si cerca di imporre il proprio approccio e il proprio punto di vista rispetto alle altre archeologie o alla storia text-oriented. Tale tensione impositiva crea anche un problema di legittimità e autorità tra discipline in competizione. Ma a differenza di Hodder e Renfrew115 non dipenderebbe dalla mancanza di un coherent theoretical framework quanto piuttosto dal non avere “new vision of the past based on new discoveries”, 115 

ribadendo la sostanziale estraneità dell’archeologia storica a qualsiasi impianto teorico generale, mantenendola ben ancorata alla pratica116. Non bisogna insistere sulla

116  Del resto un arretramento della pratica della teoria archeologia è avvertito come necessario anche dallo stesso Ian Hodder che afferma : “Pheraphs a final trend that can be recognized as archaeologists face widening debate in a new global context concerns the embedding of theory in practice. It is widely recognized that as archaeology moved through culture-historical to processual to post-processual phases, archaeological theory became more and more rarified and divorced from practice (corsivo mio)”, Hodder 2002, p. 87.

Hodder 1992, p. 170; Renfrew 1981.

123

L’ideologia degli archeologi

7.7. Grafico sui periodi studiati negli articoli degli Accordia Research Papers.

7.8. Grafico sui periodi studiati negli articoli dei Papers of the British School at Rome.

divisione intellettuale, teorica e metodologica tra textuser e earth-mover, tra l’atto di pattern-seeking analitico e quello interpretativo analogico, ma vederli piuttosto come due momenti consecutivi di un medesimo progetto che ammette il carattere eterogeneo delle fonti e delle evidenze nei periodi storici117. 117 

Pare che in ambito anglo-americano l’historical archaeology stia diventando non solo un fecondo terreno di riconciliazione per il discorso delle fonti e tra discipline diverse (storia e archeologia), ma anche un catalizzatore capace di attivare un nuovo e produttivo rapporto con l’antropologia che potrebbe da questo incontro con la materialità articolare un nuovo discorso sulla storia delle popolazioni senza forme di documentazione scritta.

Carver 2002, p. 488; Orser 1999.

124

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti.

7.9. Grafico sulle percentuali dei supporti materiali utilizzati negli articoli Papers of the British School at Rome.

7.10. Grafico sulle percentuali degli approcci legati allo studio dell’instrumentum negli articoli Papers of the British School at Rome.

e comparazione. Material, behavioural e cognitive approach si ricompongono grazie all’integrazione di ricerca archeologica, documentaria e etnografica; interagiscono attraverso un vigore ibrido che è anche il costante flusso in cui si formano le epistemologie e gli strumenti operativi e che è anche il movimento per una ricomposizione della falsa separazione tra archeologia processuale e postprocessuale nelle sue tre varianti119. Il

“Today the potential of historical archaeology research is unquestionable for addressing historical (particular), anthropological (nomothetic), and legal questions from a material-behavioural-cognitive perspective”118, in grado di rimettere in comunicazione storicismo 118  Rathje et alii 2002, p. 513. Ovviamente la distinzione tra storia, come studio del contingente (storicismo), e antropologia, come studio del generale-nomotetico (comparazione), andrebbe giustificata ulteriormente. Mi pare che non vengano invece riconosciuti abbastanza i tentativi che sono stati fatti, di applicare una diffusa metodologia comparata in storia, oggetto del bellissimo volume edito da Pietro Rossi sul tema (Rossi 1990).

119  Leone, Potter 1988 ; Orser, Fagan 1995 ; Rathje et alii: 2002, p. 515; Orser, Fagan 1995.

125

L’ideologia degli archeologi

7.11. Grafico generale sui supporti materiali utilizzati secondo un determinato approccio epistemico negli articoli dei Papers of the British School at Rome.

material-behavioural-cognitive approach non è totalmente nuovo (soprattutto per l’archeologia americana) ma è la summa dei risultati raggiunti dall’archeologia processuale e postprocessuale nell’indagine dell’interazione tra archeologia comportamentale e cognitiva a partire da osservazioni fatte nel presente e da ricostruzioni delle espressioni della cultura materiale e del deposito archeologico del passato120. In questo senso la potenza esplicativa della comparazione etnoarcheologica non andrebbe limitata al contesto di appartenenza in cui è stata prodotta, ma dovrebbe abbracciare contesti diversi. L’obiettivo è quello di isolare una serie di relazioni materiali, cognitive e comportamentali distinte e coerenti da un contesto specifico, così da poterle comparare con un record archeologico distante nel tempo e nello spazio121. Il concetto di cultura va reso liquido e liberato dalle sue coordinate spazio-temporali.

Per fare un esempio (eminentemente americano) il 14% degli articoli pubblicati nella rivista Historical Archaeology tra 1988 e 1998122 riguardano il Ventesimo secolo e solo il 2% sono rivolti a materiali di, al massimo, cinquant’anni più vecchi della data di pubblicazione. Il vuoto che si viene a creare è anche un vuoto legislativo. Nell’Archeological Resourses Protection Act del 1979, che regola la legislazione in termini di patrimonio culturale negli Stati Uniti, si legge che “no item shall be treated as an archaeological resource […] unless such item is at least 100 years of age”; si crea un black hole e “bit by bit the 50year gulf between archaeology and contemporary societies is being obliterated”123. Queste per l’archeologia sono ovviamente posizioni estreme ma che ci danno il grado dei sommovimenti e delle riflessioni in cui è implicata l’archeologia storica in questo momento se inquadrata nel contesto più ampio delle reti di relazioni con cui ci si deve confrontare una volta imboccata la strada del dialogo con altri contesti disciplinari. Una seconda e più forte loss of innonence che frantuma la barriera del suono del presente e che per l’archeologia storico-antropologica mediterranea può risultare traumatica fino alla perdita di quella poca identità di cui disponeva.

A questa ricomposizione partecipano anche il passato e il presente, ma in una prospettiva del tutto nuova, operativa e non interpretativa, come finora era stata posta anche in questa sede. L’archeologia storica, concepita come l’applicazione del metodo archeologico a tutte le società dotate di una documentazione scritta, finisce per coinvolgere anche il presente. Riconosciuto che l’archeologia è un metodo di indagine, rimane da decidere fin dove ci si possa spingere nel suo utilizzo. È stato notato che inevitabilmente si crea una zona d’ombra tra passato (recente o prossimo che sia) e presente; un vuoto all’interno del quale l’archeologia oscilla nel dubbio; se e dove sia legittimo indagare, fin dove sia possibile parlare di passato e se l’archeologia debba indagare solo un tipo di passato lontano e concluso. 120  121 

L’irruzione dell’archeologia come metodo di indagine del presente presenterebbe unlimited potentials: permetterebbe di dire qualcosa in più sulle società contemporanee da un punto di vista eminentemente archeologico, attraverso lo studio della “nostra” cultura materiale; inoltre mentre In Italia ci si è spinti solo fino a parlare di archeologia post-medievale, di cui si occupa una rivista omonima fondata nel 1997 (Mannoni 1997). 123  Rathje et alii 2002, p. 498. Queste posizioni sono quelle portate avanti dall’Università di Tucson (Arizona) sulla cultura materiale delle società contemporanee a partire dal pionieristico progetto Garbage Project, Rathje 1974. 122 

Rathje, La Motta, Longacre 2002, p. 515. Ivi, p. 506.

126

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. per il passato le condizioni di riproducibilità delle condizioni in cui si è formato un record archeologico sono limitate a ciò che è accaduto, nel presente avremmo a disposizione un laboratorio “for a contemporary study of what is happening” in cui verrebbero riprodotte naturalmente quelle condizioni cinetiche di diversità che nel passato sono reificate124. Ancora una volta passatostaticità contro presente-dinamicità? Non proprio. Il laboratorio del presente serve per creare quell’inventario (delle somiglianze) e quegli strumenti comparativi con cui poi poter dar ragione di un contesto in cui queste reti di relazioni non sono ricostruibili nella loro interezza, perché deficitarie e mute risultano essere alcune fonti fondamentali per capire. Ciò che comporta quel “what is happening” sembra esattamente la ricerca di quell’archeologia in action ispirata a Latour e che sopra si è criticato. Ma ciò che più gioverebbe all’archeologia nello sforzo di documentare il black hole sarebbe l’altissimo di grado di duttilità e dinamicità che acquisirebbero i suoi strumenti e i suoi paradigmi: “unlike archaeologists who study the Classical Maya or Etruscan Italy, both of which retain relatively stable places in time, the time coordinates of study for the archaeologist of contemporary society are constantly changing. In fact, no matter how quickly such archaeologists turn data observations into analyses and interpretations, the society they have just characterized will already have morphed into something else”125. Mi pare che su queste condizioni il dialogo auspicato da Manacorda, benché difficile, non sia del tutto impossibile. La sfida va accolta su un altro piano: quello delle fonti e della metodologia propria dell’archeologia storica e, più in generale, sul piano dell’allentamento dell’opposizione purista tra soggettivismo e oggettivismo, tra comparazione sincronica e storicismo, e tra uso dell’analogia e produzione delle differenze. Da quanto visto fin qui, Charles Orser ha proposto una definizione di un’archeologia storica globale tesa a riconoscere il carattere eterogeneo della sua documentazione specifica e che poggia su tre caratteristiche: 1) essa è mutualistic, poiché lo sono le relazioni e le connessioni tra soggetto e oggetto e tra tipi diversi di fonti; 2) multiscalar, poiché sia le fonti scritte che la cultura materiale (sia le relazioni sociali che esse implicano) possiedono una rete di relazioni ramificata tanto nel tempo quanto nello spazio e il loro studio necessita di prospettive a differenti gradi e scale; 3) reflexive, per l’attitudine a partire dallo stimolo di problemi indotti dal contesto e dalle relazioni sociali odierne nello studio del passato126.

sembra veicolarsi attraverso l’archeologia storica nella sua più forte espressione globale. La sfida è lanciata tanto alla storia che monopolizza quelle zone dove le fonti scritte sono più abbondanti e più complete quanto alla preistoria egemone, grazie allo sviluppo della sua prospettiva globale e interdisciplinare sostenuta da un solido corpo teorico, condiviso e spartito con la sua alleata di sempre, l’antropologia. Ora queste gerarchie paiono rimescolarsi, o quanto meno ci sembrano meno definitive e in procinto di ridefinirsi e trovare un nuovo equilibrio. In questo quadro l’archeologia classica (o storica che sia), quando la massa magmatica comincerà la sua fase di raffreddamento, dovrà scegliere dove posizionarsi e il linguaggio concettuale con cui esprimersi, pena l’afasia, la perdita di sostanza accademica, di autorevolezza, di nuovi stimoli al dialogo, con il rischio di un arretramento che la ricaccerebbe fuori dal dibattito per un’altra generazione. Non vorrei qui rifarmi a quello che diceva Foucault in termini di potere127, vista la mia diffidenza sul suo utilizzo in storia (per mie mancanze ovviamente), o al Latour “politico”; ma se la realtà è permeata dovunque di rapporti di potere tutto intorno a noi, dentro e fuori, ai quali non possiamo sfuggire ma solo soccombere o vincere, e se la storia non è altro che un susseguirsi di sovvertimenti di questi rapporti di potere, la responsabilità dell’archeologo (classico) in questo momento storico è quella di sovvertire a suo favore l’equilibrio del potere. L’archeologia mediterranea non può da sola né forse quella europea. Ma l’alleanza con l’archeologia storica di tradizione angloamericana potrebbe consentire un tale sovvertimento. A dispetto del famoso cartoon di Paul Bahn128 che immortala bene l’isolamento afasico in cui versa l’archeologo classico rispetto al dibattito egemone anglo-americano, e preistorico in particolare, qualcosa da dire l’archeologia storico-antropologica ancora ce l’ha (fig. 7.12). La vignetta è veritiera per quanto riguarda i rapporti di forza in seno all’intera disciplina, ma non convince fino in fondo l’immagine di auto-isolamento snobistico ed aristocratico che se ne ricava. L’impressione è che vi sia stata piuttosto un’esclusione forzosa dovuta proprio al cortocircuito epistemico scatenatosi a livello teorico, un’esclusione che poi è diventata per l’archeologo classico un caldo e tranquillo rifugio da cui poter di tanto in tanto recriminare il torto subito, nella certezza autoreferenziale di essere nel giusto. Una nuova generazione di archeologici classici però preme per uscire dall’angolo ed essere ascoltata, e freme per confrontarsi e acquisire una nuova e più globale autorevolezza all’interno della disciplina. Per fare ciò, più che proporre nuove teorie o paradigmi, l’archeologia classica deve fare quello che gli riesce meglio, proporre cioè proprie riflessioni in materia di storia del pensiero archeologico, dando il suo contributo alla reflexivity della disciplina. Resta da vedere

Avendo a che fare con entrambe le fonti, l’historical archaeology si pone innanzitutto come il campo di riconciliazione non solo tra archeologie e discipline rivali in contrasto tra loro, ma anche come nuova palestra metodologica nella quale i preistorici sono caldamente invitati per ripensare le proprie prospettive. Il tentativo di sovvertimento del potere accademico è in atto e

Foucault 1977, p. 23, “il grande gioco della storia sta in chi si impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di quelli che le utilizzano […] e le rivolgerà contro quelli che le avevano imposte”. 128  Bahn 1996. Il disegno è di Simon James ed è riprodotto con modifiche in Johnson 1999 nel suo libro sull’archeologia teorica. Per un commento di questa immagine si veda da ultimo Morris 2004, p. 253-256 e Burgers 2009. 127 

Rathje, La Motta, Longacre 2002, p. 521. Ivi 2002, p. 519. 126  Carver 2002, p. 489; Orser 1999. 124  125 

127

L’ideologia degli archeologi

7.12. La contrapposizione tra archeologi processuali e postprocessuali secondo il noto fumetto di Paul Bahn (modificato da Bahn 1996).

poi se la nuova generazione di cui sopra sia equipaggiata di un’attrezzatura solida e adeguata a sostenere il dialogo alla prova dei fatti, il che non ci pare (compreso chi parla). Il rischio è quello che, mentre si aprono spazi comuni di discussione e spiragli per una comunicazione più capillare dai toni più concilianti (tra preistoria e archeologia storica, tra processuale e post-processuale, tra teoria e prassi, tra storicismo e comparazione), si siano gradualmente smarriti i vecchi strumenti senza averli rimpiazzati con dei nuovi altrettanto solidi. E questo vuoto è forse il lascito più tossico del postmoderno.

Per concludere questo paragrafo vorrei spendere ancora due parole sulla tensione epistemica e sulla precaria identità dell’archeologia classica (e storica) di cui parlavamo sopra. La fragilità dell’identità disciplinare (non che se ne debba per forza possedere una, anzi) è dovuta al franare del ruolo della tradizione classica come valore paradigmatico per l’Occidente e al sopravanzare di nuove tradizioni legittimanti (o di un diverso uso della tradizione) differenti nel tempo e nello spazio, sospinte dall’incipiente postmodernismo avversatore della pesantezza della tradizione e promotore della leggerezza, dell’ironia e della dissacrazione130. Nel sistema educativo anglo-americano la perdita di peso dell’educazione classica è riconosciuta generalmente da tutte le differenti posizioni131. L’irrisorio

Mentre si aprono le possibilità di dialogo si restringono le capacità d’azione perché non adeguatamente sostenute da una preparazione storica (e sulla storia della teoria) che potrebbe avere come conseguenza un recul su posizioni di auto-isolamento, viste ancora una volta come isolamento snobistico dell’archeologia classica, come si deduce da un altro cartoon di poco successivo a quello di Bahn (fig. 7.13)129 . La percezione che si ha dell’archeologo classico ancora una volta non sembra mutare nel tempo.

dissolta, o per lo meno è narrata come risolta, non potremo far a meno di notare che quella che riguarda l’archeologo classico rimane invariata. 130  Su questo si veda Settis 2004. Ancora più importante è il volume collettivo recentemente pubblicato sul tema che mette a confronto due concezioni opposte della tradizione, una che ne fa un uso paradigmatico ed esemplare (europea), e un’altra che ne fa un uso dissacratorio ed iconoclasta (quella angloamericana), Grafton, Most, Settis 2010. 131  Rimando ancora alla discussion in Hall at alii 2004, ma anche Shanks 1994, pp. 171-173 con posizioni più sfumate: “Generally, interest in the Classics continues; it is a popular subject in universities, though the language component (for nineteenth-century Hellenists the key to an authentic communion with the ancient Greeks) has become less emphasized.”, 172. Più drastica la visione di Morris 1994 sulla crisi dell’archeologia classica (e soprattutto di quella greca) dovuta proprio alla comparsa del pensiero postmoderno. Attraverso il suo huge epistemic shift il postmoderno avrebbe lasciato priva di adeguate basi intellettuali di legittimazione la disciplina, con la conseguente perdita di autorevolezza. Critico con questa interpretazione Shanks 1996, pp. 108111 che accusa Ian Morris di confondere Postmodernity, Postmodernism e Postmodern attitude. Quest’ultima sarebbe “characterised by a radical scepticism towards the claims of grand theory, towards totalising

129  La violenza del dibattito teorico tra le diverse posizioni si è affievolito (no core/periphery: just fragments). Forse stremate dalla battaglia, le diverse compagini hanno deciso di ignorarsi vicendevolmente osservandosi con sospetto da distanza. Il pubblico (J. Public), se prima era attonito di fronte alla crudezza dello scontro, adesso è sempre più lontano e disinteressato. In questo quadro l’archeologo classico è percepito come un estraneo e posto nuovamente sulla sua pila polverosa di CIL che rivendica, come un mantra rivolto solo a sé stesso, more classical archaeology, nel suo olimpico e granitico isolamento. Se prima si chiedeva cosa fosse all that noise ci viene il sospetto che ora non lo senta più, non perché sia cessato, ma perché si trova ad una distanza siderale per percepirlo. Se la contrapposizione core/periphery si è

128

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti.

7.13. La contrapposizione tra archeologi processuali e postprocessuali nella rappresentazione di M. Johnson (modificato da Johnson 1999).

atteggiamento nei confronti del patrimonio culturale classico ha minato una parte consistente di una qualche (già vaga e umbratile) identità occidentale. È la definitiva vittoria della modernità, del capitalismo e dell’industria meccanica sull’umanesimo. Non ce ne vogliano i colleghi inglesi ed americani, ma buona parte di questa dissoluzione è opera dell’egemonia culturale (ed economica) da loro così ben governata. Il paradosso di questa situazione è che ancora a loro spetta la responsabilità di quel poco che si è fin qui salvato e di ciò che si potrà ancora fare. Non parlo qui del patrimonio culturale di segno ideologico, ormai svanito, masticato, digerito e espulso in qualcosa d’altro, ma del patrimonio reale, fisico e materiale, e di quel pezzo di storia che da questo se ne ricava. Non c’è rimpianto o vagheggiamento ma la consapevolezza di un necessario ripensamento del ruolo del “classico” alla luce delle condizioni attuali. Ridefinire un ruolo diviene ancor più necessario se si ammette che ciò che sopravvive del passato deriva in parte dallo stimolo e dall’interesse che questo suscita nel presente. È dunque una questione di sopravvivenza più che di supremazia paradigmatica del “classico”. Alle innumerevoli incertezze di cui soffre l’archeologia classica (identitarie, ideologiche, di metodo, di prestigio) si aggiunge l’inadeguatezza teorica continuamente sentita nei confronti delle altre archeologie. Non basta essere fedeli all’utilizzo delle

tecniche archeologie e all’esplorazione multipla delle possibilità offerte dalla cultura materiale e dalle nuove tecnologie informatiche. L’archeologia classica viene continuamente accusata di non essere vera archeologia, priva com’è di un coherent theoretical framework132. A questo si accompagnano continuamente le accuse di fare dell’archeologia a metà, text-guided, text-aided o texthindered133. Lo sforzo proteso per la formalizzazione di una teoria coerente è direttamente proporzionale alla volontà di sfuggire a queste accuse e di far conciliare archeologia e storia. Ma resta il fatto che non esiste una teoria generale della cultura materiale più di quanto non esista una teoria dell’analisi testuale e – checché ne dicano i “veri” archeologi – non possiamo sbarazzarci dei testi Questa allergia alla teoria e al dibattito sui processi di cambiamento è stata recentemente ribadita da Colin Renfrew in un colloquio organizzato al CNR sul futuro dell’archeologia, Renfrew 2009, p. 279: “I am not hearing much archaeological theory debated here; I am not hearing much discussion about why things change”. 133  Su Morris e Snodgrass si vedano in questo senso le critiche di Dyson 1989. Un esempio su tutti possono essere le osservazioni che Shanks 1996 muove al lavoro di Morris 1987 sulla nascita della città-stato attraverso lo studio delle pratiche mortuarie e delle necropoli. Al di là della critica generale, per Michael Shanks ciò che importa è che “For Morris, archaeological materials are only a set of formal relationships devoid of meaning. The formal patterning is there (hence the use of abstract and general models of structure and variability), but its meaning must come from outside of archaeology. Here Morris resorted to ethnographic analogy with other societies, but more importantly to literary sources, and in particular Aristotle’s class analysis of ancient society. Material culture is thus epiphenomenal to society and the privileged access to meaning represented by the words of the ancients themselves”. Morris, considerato come un rappresentante dell’approccio processuale in archeologia classica (Dyson 1989), è accusato di ricercare outside of archaeology il senso delle relazioni. Se per gli archeologi preistorici processuali questo si ottiene attraverso la comparazione etnografica, in archeologia classica si ottiene attraverso l’utilizzo delle fonti scritte. Per una risposta alle critiche Morris 1999. 132 

theoretical schemes produced from single and privileged vantage points (for example the claims of positivist Altertumswissenschaft). Instead an openness to difference is celebrated, with multivocality, experimentation and the empowerment of marginal political and cultural constituencies”, 111. Per il peso che l’educazione “classica” riveste nel sistema scolastico inglese Ramage 1992; Murray 2000; Pitts 2003. Interessanti le riflessioni di Novick 1988 sulla professionalizzazione dello storico e il problema dell’oggettività della storia nella tradizione americana.

129

L’ideologia degli archeologi e delle relazioni che questi instaurano (non per volontà nostra) con la documentazione archeologica. Possiamo però cambiare angolazione con cui affrontare il problema. La differenza tra testo e artefatto sembra meno importante delle informazioni che da questi si possono ricavare e della formulazione di domande pertinenti con cui interrogarli. La differenza che conta mi pare sia quella tra etico ed emico, tra espressivo e inerte, tra conscio e inconscio, tra tempo e spazio, tra tutte quelle modalità di espressione rintracciabili in ogni fonte, sia essa scritta, fabbricata o disegnata.

postmoderno si basa su un modello storico semplificato costruito sull’opposizione binaria fra moderno e ciò che lo precede, nell’incapacità di progettare o ipotizzare ciò che segue. Classico vuol dire essenzialmente pre-moderno di cui il postmoderno è una ripresa all’interno di una temporalità lineare assai compressa135. Tale procedimento può essere letto in due modi diversi: (1) il postmoderno libera una forte dose di creatività innescata dalla fine della modernità; congedandosi da essa il postmoderno ricorre all’antico per costruire un nuovo linguaggio in sé compiuto e concluso; (2) le sperimentazioni postmoderne si riducono a un citazionismo autoreferenziale che finisce per innestare richiami a un classico totalmente frainteso e decontestualizzato sul tessuto del razionalismo modernista.

7.8. Archeologie e postmoderno: convergenze e dissonanze. L’inclusione di elementi che si richiamano al “classico” è parte essenziale della poetica del postmoderno, specialmente in architettura e in storia dell’arte. È forse in questa chiave che dovremmo leggere l’aumento di interesse per argomenti a carattere architettonico e iconografico registrato nei Papers nell’ultimo quindicennio (Fig. 7.14) e in generale il predominio di queste tematiche in quelle riviste che al classico si richiamano, come ci è parso di individuare anche nel Journal of Roman Archaeology (fig. 7.15).

A tal proposito ricorda Settis che “Anche la frequente adozione di un registro ironico e dissacratorio che nega il vocabolario ‘classico’ proprio mentre lo usa […] non mostra tanto il pieno dominio delle possibilità espressive di quel linguaggio, quanto la tendenza a reimpaginarlo giocosamente, quasi fosse non eredità storica, ma realtà virtuale. Ma anche in questo caso, come a un più generale bilancio […], le citazioni ‘classiche’, comunque declinate, sembrano avere la funzione (tutt’altro che secondaria) di separare nettamente il linguaggio postmoderno dal moderno (corsivo mio)”136. La frammentazione dell’antico in unità minime rende queste ultime utilizzabili ad arbitrio, ma soprattutto costruisce intorno a noi un paesaggio storico-simbolico di cui non siamo più in grado di decifrare il senso, un paesaggio di segni senza significati, muto, un cimitero di segni che non ci parlano più.

È ancora secondo questa prospettiva che dovremmo decifrare l’aumento di ricerche che fanno perno sull’iconografia e le espressioni artistiche, in quelle riviste come il Cambrige Journal of Archaeology, che si richiamano esplicitamente a tematiche postmoderne o si rifanno all’arte contemporanea come categoria d’analisi per il passato, come abbiamo già analizzato altrove per l’archeologia “visuale” (fig. 7.16). Allo stesso modo si può vedere il parallelo aumento di argomenti specificamente teorici e di quelli legati agli aspetti cognitivi e linguistici.

Questo passaggio interessa per avviare la conclusione. Il carattere iterativo del citazionismo postmoderno e la segmentazione del “classico” non equivalgono all’appropriazione metaforica dell’antico come termine di argomentazione di un discorso che metta in comunicazione passato, presente e futuro tramite quelle procedure di continuità, distanza e conoscenza che recuperano il ruolo dell’antico, indagandolo al tempo stesso secondo nuove prospettive. Facendo questo si vorrebbe democratizzare l’antico (spesso volgarizzandolo), decodificandone il linguaggio e rendendolo in un modo o nell’altro in grado di comunicare nel presente (per contestarlo o accoglierlo). Al contrario l’antico non appare nel discorso postmoderno come termine di argomentazione con tutta la sua unità di senso, ma vi appare segmentato, disseccato e ridotto ad ornamento e perciò non semplicemente volgarizzato, ma banalizzato. Resterebbe da vedere perché il classico è sfuggito a un sano processo di democratizzazione, o meglio come mai ancora una volta la democratizzazione si debba trasformare in una diminuzione di qualità conoscitiva.

È infatti partendo da queste premesse che il “processualcognitivista” Colin Renfrew negli ultimi anni è arrivato a riflettere sui processi logici legati alla formazione delle espressioni artistiche e iconografiche, portando parallelamente avanti il rapporto tra adattamento cognitivo e sviluppo linguistico. Muovendo da posizioni e premesse differenti, le archeologie processuali e postprocessuali sembrano convergere entrambe all’interno del campo di interesse cognitivo dell’arte e dell’iconografia, dove però la storia dell’arte è essenzialmente storia dell’arte contemporanea. Non sorprenderà dunque trovare Colin Renfrew intento a organizzare colloqui sugli ultimi sviluppi nel campo della linguistica (e del DNA) e dell’estetica piuttosto che sull’archeologia vera e propria134. La fine del postmoderno sembra aver ricomposto la frattura.

Ma un’altra e a mio avviso più importante convergenza si sta verificando nell’archeologia classica mediterranea e continentale: un movimento che converge anch’esso, o meglio ritorna alla storia dell’arte e all’iconografia.

Ma il richiamo al “classico” non comporta affatto un progetto di ritorno a esso né implica alcuna gerarchia in cui abbia un ruolo privilegiato. Al contrario il progetto

135  134 

Renfrew 1982a, 2002, 2003.

136 

130

Settis 2004, pp. 22-23. Ibidem.

Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti.

7.14. Grafico sulle tematiche affrontate nei Papers of the British School at Rome.

7.15. Grafico sulle tematiche affrontate nel Journal of Roman Archaeology.

esperienze provenienti da discipline diverse137. L’obiettivo era quello di trovare uno spazio e degli strumenti specifici all’archeologia e farne una disciplina autonoma a tutti gli effetti. Adesso la divaricazione tra archeologia e storia dell’arte sembra aver raggiunto in archeologia classica la massima distanza sostenibile. Ad oggi sorprende l’affermazione di Carandini che dichiara di essere in grado di sostenere in maniera completa e soddisfacente tanto un

Come si è visto altrove, l’archeologia storica in Italia (e non solo) è scaturita proprio dalla lenta e faticosa separazione dall’antiquaria e dalla storia dell’arte. Da disciplina ancella, prima della storia dell’arte e poi della storia stessa, l’archeologia ha cercato di costruire le basi teoriche e metodologiche che la rendessero capace di elaborare strumenti in grado di costruire una storia valida e tutta archeologica. È guardando a questi obiettivi di autosufficienza che nasceva l’esperienza dei Dialoghi di Archeologia, che credevano di fare della buona archeologia giustapponendo in uno stesso luogo fisico (la rivista)

Carandini 2008; Greco, Carandini 2007; Facchin 2007; Manacorda 2008; 137 

131

L’ideologia degli archeologi

7.16. Grafico sulle tematiche affrontate nel Cambridge Journal of Archaeology.

discorso tipologico o di metodo archeologico quanto uno sulla storia dell’arte antica138. Questo tipo di formazione culturale è a poco a poco sparita e si è sbilanciata verso la ricerca pratica e la preparazione tecnica e tecnologica. La coerenza della visione e delle problematiche storiche e culturali è garantita da quelle personalità che sono espressione di una formazione culturale organica. Le nuove generazioni di ricercatori (almeno quelli provenienti dalle università non di eccellenza) sono state depauperate degli strumenti concettuali e della preparazione culturale in grado di capire il mondo. E questo non è un bene in generale per la ricerca e per la società. Ma questo fa parte del lungo e profondo processo di tecnicizzazione e atomizzazione del sapere imposto dall’organizzazione capitalista in cui siamo immersi.

una feconda possibilità di rinnovamento per l’archeologia classica. Un ritorno, dunque, alla storia dell’arte e alla filologia dopo l’immersione nell’antropologia e nella scienza che ne ha diluito la sostanza. Conclude Schnapp: “The future of classical archaeology is not confined to the study of landscape, funerary practice or production techniques; rather, it comprises a new approach to its traditional topographic, architectural and iconographic sources. Indeed, the laicization of Altertumswissenschaft is an achievement which by no means should imply its abandonment”141. La soluzione per sfuggire alle secche del tecnicismo e dallo status quo è per Schnapp un movimento all’indietro che recuperi la formazione culturale storico-filologica e storico-artistica dell’Altertumswissenchaft. In questo senso a mio avviso va visto anche il recente richiamo di Andrea Giardina alle categorie “forti” per la periodizzazione del tardo antico. Piuttosto che vedere il suo richiamo a categorizzazioni solide come un ritorno alle categorie marxiste sulla scia della tradizione italiana in antichistica (identificata dai lavori dell’Istituto Gramsci) 142, mi pare che l’accento vada posto sul rischio, ricordato da Giardina, di interpretare la storia attraverso le trasformazioni culturali, tralasciando invece i cambiamenti strutturali. Il risultato è quello di vedere negli elementi residuali il segno di un cambiamento storico con conseguenze elefantiache per la periodizzazione. A ragione, dunque, Giardina ha parlato di “esplosione di tardo antico” e della necessità di tornare all’analisi delle morfologie e delle strutture come “modo di produzione” o “formazione economico-sociale”, anche in

Ian Morris ha sottolineato come attualmente l’archeologia classica si trovi in una sorta di stasi metodologica e teorica, in un anestetico status quo. Questo sarebbe dovuto a un eccessivo tecnicismo analitico quando invece “the data should be taken as means rather than as an end in itself”139. Dal canto suo Anthony Snodgrass ha ricordato come la salute della disciplina dipenda dall’abilità di tenere il giusto equilibrio tra differenti discipline e, soprattutto nel caso dell’archeologia classica, di non perdere il legame con la filologia140. Tuttavia, la tensione tra archeologia classica e archeologia tout court si è risolta a scapito della prima, che ha perso la propria preminenza. Ma la tensione tra archeologia e storia dell’arte è ancora presente. Per Alain Schnapp questa tensione deve essere vista come Carandini 2008. Morris 1994, p. 45. 140  Snodgrass 1985, 1987; sui paradigmi in archeologia classica Woolf 1990, 2004 e l’importante volume collettaneo di Malkin 2005. 138 

Schnapp 2002a, pp. 432-433. Ma anche Schnapp 1981, 1982, 2002, 2009. 142  Come invece ha visto Dupla Ansuategui 2001.

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Una prassi senza teoria? L’archeologia classica alla prova dei fatti. chiave di superamento delle gerarchie. Questa esplosione è perciò parte di un generale movimento di dissoluzione dei paradigmi, di frammentazione delle categorie e del passato in genere operato dal postmoderno come conseguenza della crisi della ragione e della messa in discussione del pensiero razionale. La reazione, nei due casi sopra descritti, è quella di arretramento e di recupero di categorie e metodi lasciati lungo il cammino143. Un’altra reazione di fronte alla liquefazione del postmoderno è quella di abbracciare le potenzialità di questa esplosione delle gerarchie e delle categorie analitiche non per istituirne nuove, ma per seguire e lasciarsi andare nel movimento di disgregazione, come si è visto per l’archeologia simmetrica e visuale. In questa seconda reazione, la tradizione, il classico e l’enciclopedia sono un peso ed una zavorra alla leggerezza e liquidità dei processi conoscitivi.

dobbiamo prepararci a cambiare. È in questa prospettiva che ci è sembrato utile affrontare i punti di tensione presenti nell’archeologia classica anglo-americana e in parte in quella europea: per essere preparati, quando sarà il momento, a definire i nuovi strumenti conoscendo le variabili in campo e le loro dinamiche di interazione. Mettendo a punto lavori storiografici come questo, forse, potremo anche avere voce in capitolo nella ricerca delle soluzioni che concernono le aporie della disciplina e occuparci del futuro della stessa. Concludo con una citazione di Romano Luperini, fra i primi a collegare il movimento di recupero di vecchi elementi analitici all’esaurirsi del postmoderno verso la ricerca di nuovi equilibri: “Ci penserà la storia dei prossimi anni a trovare canali e modi perché possa di nuovo articolarsi un pensiero contrastivo. […] ben vengano dunque prese di posizione ed esperimenti non moderni o tardo moderni. Possono essere non il segno di una regressione e neppure di una delle tante operazioni di restyling del postmoderno, ma annunci che una fase di lunga stagnazione si sta estinguendo”144.

Tra i due momenti personalmente io preferisco il primo. Se non un ritorno, perlomeno una piccola battuta d’arresto pare necessaria, se non altro per vedere a che punto è la liquefazione, quanto abbiamo perso, cosa dobbiamo tornare a recuperare, in maniera tale da rivedere la direzione che dobbiamo intraprendere, così da percepire i cambiamenti avvenuti intorno a noi e riflettere su gli strumenti più adatti da portare con noi. L’arresto è necessario per tracciare la strada futura e indice di un cambiamento imminente. Per gestire e governare questo cambiamento dovremo essere lucidi e, credo, anche passare da uno stato liquido ad uno solido per non essere travolti trascinando con noi il passato e il futuro. Questo movimento di regressione è probabilmente il sintomo che il postmoderno si sta esaurendo. Il ritorno al fatto (all’oggettivo e al controllo filologico e rigoroso dei testi, alle categorie “forti”) vuole contrastare la deriva decostruzionista proponendo nuove combinazioni di vecchie soluzioni. L’incapacità di trovare nuove strade è il segno che una fase nuova è iniziata o sta per iniziare, perché il nostro modo di rappresentarci il mondo non corrisponde più alla realtà effettiva e le nostre categorie d’analisi poste moderne si rivelano inservibili. Poiché il postmoderno sembra giunto al crepuscolo e alla sua fase di delirio 143  Giardina 1999, 2000, 2007 con bibliografia e discussioni. A tal proposito vorrei qui far notare come in questo ‘ritorno’ a Marx, l’antichistica italiana pare non essere sola. Commenti in Vanni 2016. Nella sessione del TAG (Theoretical Archaeological Group. 32nd annual meeting of the Theoretical Archaeology Group Bristol, 17th-19th Dec 2010) è comparsa per la prima volta una sessione dedicata proprio a Marx intitolata Marxism in archaeology, reprised: the continuing relevance of power, ideology and structural change for an interpretive and socially engaged archaeology. L’obiettivo della sessione era quello di recuperare il pensiero e le riflessioni di Marx così come le sue categorie, con l’esplicito scopo di porsi “in the interstitial space between objectivism/relativism, idealism/materialism, explanation/emancipation and emphasizes the interrelationships (both complementary and contradictory) that linked production, social organization, power and ideology in the past. It thus showcases the ways that Marxian analyses transcend the conceptual boundaries created during the processual/post-processual debate (corsivo mio)”. Non tutti vogliono overcome l’opposizione New/postarchaeology. A favore Bintliff 1993; 2000 mentre contrari sono Johnson 1999 e Thomas 2000, p. 168: “I do not think that different archaeologies could or should be reduced to a single common framework of belief and practice, agreeing about what we should study how we should study it”.

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Luperini 2005, p. 13.

8 Archeologia, democrazia e autorità. […] l’idée que, dans les conflits de la société civile avec elles-même qui ont en dernière analyse leur origine dans la «religion de la propriété privée» et auxquels 1’État «politique» n’apporte qu’une solution formelle (alimentant son propre intérêt particulier, bureaucratique), s’annonce la possibilité d’une vraie démocratie (ou d’une «démocratie contre l’Etat», non étatique et non représentative) dans laquelle le pouvoir législatif se «réalise» en «s’abolissant», c’est-à-dire se transforme en association. Etienne Balibar1 8.1. Democrazia e autorità.1

una nuova egemonia in luogo di quella dominante, più che di frantumare ogni tipo di monopolio e di dissolvere l’autorità4. Per fare questo si procede non attraverso la formulazione di un programma alternativo, di un confronto serrato sui metodi e sulle premesse teoriche, ma piuttosto fuggendo i luoghi (accademie, università, ecc.) e le procedure tradizionali della formazione del sapere (dato, indizio, argomentazione, congettura, ecc.), trasferendoli in uno (non)spazio diverso dove le regole sono inefficaci. Sul web non vigono le normali procedure di controllo del dato e dell’argomentazione attraverso l’incrocio di enciclopedia e congettura; l’autorità e la legittimazione si formano secondo altri criteri che, fluidi e volatili, sono difficili da individuare e formalizzare. L’illusione, tuttavia, risiede nel pensare che in rete si democratizzi il sapere favorendo il pluralismo proprio attraverso il disturbo dei meccanismi di potere e di autorità insiti nella costruzione e nella gestione del passato. Il web non è produttore né di nuovo sapere diretto né di procedure di controllo sui meccanismi di formazione di esso. Il movimento è ancora quello inverso che parte dalla realtà esterna a quella interna del web, e non viceversa. L’autorità e la visione egemone si crea ancora al di fuori della rete ma tramite la rete se ne può amplificare e rafforzare il potere reale. In tutto questo meccanismo ne soffre la verità, anche se questo termine può per molti risultare desueto e sintomo di un atteggiamento reazionario insieme a parole come controllo ed egemonia.

Come abbiamo visto, il venir meno del valore paradigmatico della tradizione crea dei problemi di riorganizzazione del valore del patrimonio antico e della stessa utilità nell’archeologia classica. Questi attacchi alla “classicità” partono dalle constatazioni che l’archeologia “is as much about the present as about the past” e che “archaeology as an open construction of the present directed to the future rather than the past-the-way-it-was”2, e sono conseguenti alla dissoluzione della razionalità e dell’oggettività moderna operata da posizioni postmoderne. Michael Shanks, tra gli altri, considera le critiche nei confronti delle posizioni decostruzioniste (come quelle di Bintliff e Renfrew ad esempio) come un disperato tentativo di reazione da parte di una “dispossessed Humanities (dispossessed by the success of science) in search of a new empire; an imaginary world of the interpreter’s creation which will flatter low and popular (democratic?) tastes (corsivo mio)”3. C’è dunque una relazione intima tra i rapporti di potere nelle discipline e nelle loro accademie (in cui si disintegra il monopolio della conoscenza con la conseguente ricerca di nuove strategie di legittimazione e autorità), il processo di democratizzazione del sapere in termini di accesso (e di creazione del sapere stesso) e la riconsiderazione del valore del passato classico. Come si è visto nel caso estremo della frantumazione digitale della tradizione operata da Cochrane e Russell, il passato non appartiene più a pochi professionisti e intellettuali che decidono cosa studiare e come restituirne il senso alla collettività. Il passato e il valore paradigmatico del passato (e questo vale ancor più per l’archeologia classica) si frantumano in migliaia di significati-pixels che moltiplicano le loro combinazioni perché si moltiplicano gli attori che a queste ricomposizioni sono chiamati a partecipare. Il mezzo che sta alla base della frammentazione e ricomposizione è quello digitale mentre il luogo fisico e metaforico della trasmissione dei significati diventa il web. Su di esso ogni autorità e ricostruzione oggettiva si dissolve e si pluralizza. Mi sembra però che il previsto effetto detonante del web sia ancora di là da venire e che si assista a questo riguardo o a una distrazione retorica o a un’illusione. La distrazione in questo caso sarebbe data dal tentativo retorico di costruire

Detto altrimenti, il cyberspazio non è un altrove “online” separato dalla “realtà” offline; il cyberspazio è qualcosa che viene costruito dalle interazioni delle persone. Le condizioni dell’esistenza stessa delle loro interazioni sono sicuramente legate a una serie di competenze 4  In questo senso va visto anche il progetto dell’archeologia simmetrica che usa i forum di discussione sul web come mezzo di propagazione delle proprie idee. E così Michael Shanks ha messo in rete a disposizione tutta le sue opere, sotto forma di multipli saggi che rispondono a delle parole chiave. Digitando su un motore di ricerca parole come Postprocessual, Classical Greece, Symmetrical Archaeology, è facile imbattersi nelle opere di questi stessi autori, magari negli stessi articoli frantumati e ripetuti all’infinito nei concetti e nelle parole in una sorta di colonizzazione del web. Se pur, si badi bene, l’intenzione a mio avviso è corretta, quella cioè di liberare il sapere e di democratizzarlo. Il rischio è che più che alla qualità si badi ad istituire una egemonia non più basata sugli strumenti della retorica, dell’argomentazione e della preparazione disciplinare, ma attraverso gli strumenti del cyberspazio. Questo però lo può fare un’università come Stanford e non certo una come Siena, ad esempio.

Balibar 2011, p. 257. Shanks 1996, p. 172. 3  Ivi. 1  2 

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L’ideologia degli archeologi market (corsivo mio)”8, che per Carver acquista un senso positivo9. L’effetto sarebbe quello di rompere i multidisciplinary groupings accademici di vario genere in luogo di un più democratico e salutare multi-disciplinary e multitheoretical approach che, pur suscettibile di superficialità e semplificazioni, è anche il più produttivo contro le insidie e le ansie del poststrutturalismo. La consacrazione accademica deve passare anche per il gradimento del pubblico e il confronto pluralistico con esso.

culturali e a una certa dotazione materiale. Ma come queste competenze e dotazioni vengano impiegate dipende da virtù civiche (che sono disgiunte dalle altre competenze culturali per finalità analitiche) all’interno delle quali si trova una determinata nozione di agency civica che si può ricondurre alla dimensione sociologica di cultura politica5. Vedremo che conoscenza e etica vanno a coincidere così6. La rete viene vista ad esempio da Martin Carver come vero luogo di democratizzazione del sapere dove il potere dell’accademia si sgretola, specialmente l’autoreferenzialità prodotta negli ambienti dell’archeologia classica.

Per Carver è tempo di tornare (shift back) a un relativismo non etico ma di prospettiva, che è anche quanto di più sano abbia apportato la critica postmoderna. Nella definizione di A. Andrén il postmoderno appare in tutta la sua carica innovativa e positiva come espressione di radical pluralism and lack of consesus in cui il potere economico non è più concentrato in un luogo ma è diluito nelle infinite relazioni globali e così allenta il suo potere coercitivo su cose e persone, tra le quali si instaurano rapporti more intensive than before proprio grazie ai global media che rompono le barriere dello spazio e del tempo10. Per questa ragione conclude Carver “the pursuit of capitalism or methodological unity or a controlling theory belong to yesterday’s agenda. In a post-imperial age, poetry rules (corsivo mio)”11. In realtà il postmodernismo (e il postprocessualismo), ricorda Bintliff, è sintomatico di un’accresciuta remoteness dell’individuo dalle fonti di potere e non il contrario, come il cartoon di Johnson esemplifica12. Diluendo il potere e allontanandosi da esso non se ne scardinano le basi ma se ne rafforzano le strutture di controllo, diminuendo parallelamente le capacità d’azione e di rivolgimento.

Le nuove forme di comunicazione globale e di accesso alla conoscenza attraverso gli electronic media hanno prodotto un nuovo tipo di scrittura archeologica “neither fact nor fiction, but imaginative foot-noted reconstruction, hot science, poetic argument, a good read” che deve “propel the partecipants out of their epistemological bog and into the public sector, where they are most likely to be obsessed”7. L’ipertesto ha cambiato la forma e la struttura della ricerca a tal punto, secondo Carver, che l’iniziativa e il potere reale sono passati da chi scrive a chi legge. Se prima una ricerca valida dipendeva dalla capacità di convincere “with fine words and progressive argument that the conclusion of an authority was the right one”, adesso un lettore può con il potere che gli spetta (the tedium of listening) privare dell’autorità il ricercatore o l’intellettuale e pretendere che il problema gli sia presentato nella sua forma deconstrutta e fluida (cioè banale?). Questo è possibile poiché le ricerche sono sottoposte a un regime di altissima competizione proprio in quanto forme virtuali-globali di conoscenza il cui valore reale è costituito dal numero dei lettori che riescono a raggiungere, da quello delle citazioni o dei visitatori che attirano, non dalla coerenza dei metodi e dalla forza delle prove ma dall’indice di gradimento. La conseguenza più evidente di questo fenomeno è la de-professionalizzazione accademica “in the sense that the official, the expert, the authorized, and their corollaries, the regulated and the institutional are living way to a democratization of the intellectual world through the ballot box and the

L’effetto di disintegrazione delle informazioni e della democratizzazione operata dai nuovi media avrebbe effetti positivi sulle opportunità e sul regime che governa le pubblicazioni e aiuterebbe a rompere i meccanismi di potere accademico e economico che essi esprimono. Sarebbe possibile quindi una globalizzazione without commercial and linguistic imperialism (ma come?) che sia benevola e che rappresenti un progetto condiviso da tutta l’umanità e non l’espressione dell’egemonia del capitale occidentale sul resto del mondo13. Se i dati e le discussioni teoriche vengono rese accessibili su Internet si sviluppa una nuova comunità scientifica che stimola creative reading e creative writing e crea un’archeologia che metta da parte la teoria e la critica specialistica per scrivere history e literature. In questo quadro le pubblicazioni

5  Pizzorno 2008 sulle interazioni tra sfera pubblica, costruzione del consenso e potere immaginario delle dinamiche online/offline. 6  Criticare un sistema partendo da considerazioni morali ed etiche significa criticarlo per le qualità che veicola e rappresenta e non per la logica che presiede al suo funzionamento. Altresì significa attraverso una liquidazione morale credere di poter liquidare il sistema senza capirne le connessioni funzionali che lo mantengono in vita. Questo dipende dall’identificazione tra etica e conoscenza. In questo senso un esempio paradigmatico proviene dalla sociopolitica. Uno dei primissimi studi sulla nascita del Movimento 5 stelle in Italia ha affrontato la questione del legame tra le dinamiche di riproduzione sociale e l’agglomerazione del consenso, con le conseguenze (in questo caso nel meccanismo della politica) del fraintendimento tra conoscenza (di un sistema) e la sua condanna morale (Cappelli 2010). La narrazione prevede che, partendo da critiche morali e stabilendo un atteggiamento di opposizione etica nei confronti dell’intero sistema politico e del partitismo, si possa rifiutarlo e smantellarlo. La denuncia morale non può prescindere dalla conoscenza del sistema che lentamente ingloba, frantuma e assorbe il movimento attraverso quelle stesse logiche che rifiuta eticamente ma non contrasta sul piano sistemico. 7  Carver 2002, p. 491.

8  Ivi, p. 490. Per Carver la specializzazione è ottima cosa al livello della ricerca, ma pessima per scopi pedagogici; l’inverso invece sarebbe per la multidisciplinarietà. 9  Sul concetto di ‘professionalizzazione’, Burgers 2009. In realtà questo termine, non ha acquisito il significato di ‘specializzazione’ in ambito anglo-americano, ma è inteso per definire dei “professionisti della disciplina”, cioè accademici, coloro che hanno acquisito l’autorità in un campo disciplinare. Dal campo del metodo il senso è spostato sul piano del potere e dell’autorità. 10  Andrén 1998, p. 141; per una critica Antonio, Kellner 1994. 11  Carver 2002, p. 491. 12  Bintliff 1993, 2000, 2008. 13  Contra Giddens: http://news.bbc.co.uk/hi/english/static/events/ reith_99/

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Archeologia, democrazia e autorità. cartacee sono ridotte al minimo di pochi readable books (?) con una diminuzione notevole degli stress accademici che seguono alle pubblicazioni. Le performances accademiche devono cioè essere giudicate con nuovi metodi in cui se the numerical parameters of a success costituiscono un non-senso altrettanto senza senso le autoreferenziali peerreviews. La validità e l’utilità di un lavoro deve essere costruita in both professional and in the public mind14.

del sapere (professionalizzazione) e mantenerla con la creazione di una più compatta e condivisa ideologia della comunità scientifica internazionale. Sarebbe da un lato la democratizzazione del sapere che ha dissolto le prerogative dei chierici laici e diminuito la loro professionalità19 e dall’altro l’appropriazione indebita del passato operato dalla società in senso localista, con effetti negativi sulla neutralità del sapere e della ricerca. La dissoluzione democratica va contrastata blindando la costruzione del sapere riservata a una classe di professionisti, per poi democratizzare solo al momento della comunicazione.

Globalizzazione e postmoderno coincidono, così come coincidono democratizzazione del sapere e frantumazione dell’autorità e delle gerarchie. Queste dinamiche sarebbero espresse e veicolate (prodotte o pubblicizzate?) dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Continua a non convincermi la de-colonizzazione anche della globalizzazione trasformata in madre benevola che dona possibilità a tutti i suoi figli, né l’identificazione tra democratizzazione e diffusione globale delle informazioni tramite Internet. Si parla di performance of academics e non di ricerca, ma soprattutto si dice che i new methods per giudicarla si trovino nel ballot box and the market, come se il valore di una buona indagine archeologica si decidesse col televoto.

Al centro della discussione vi è il rapporto sempre più critico tra archeologia classica e società contemporanea. Salvatore Settis ha sottolineato proprio come la società occidentale abbia re-inventato e reinterpretato il “classico” nella formazione di una nuova “identità”15. La critica postcoloniale invece, secondo Gert-Jans Burgers, considerando il rapporto col mondo classico come radice e costruzione legittimante del colonialismo europeo16, ha lasciato (almeno tra le archeologhe e gli archeologi nord-europei) un vuoto che ha innescato un fenomeno di alienazione dal classico17. Come conseguenza nell’archeologia classica internazionale questo ha portato a un certo disinteresse per le questioni di tutela e di comunicazione al pubblico. Secondo Kristiansen ciò è dovuto alla diffusione di una tendenza “localista” (in luogo dell’internazionalismo degli anni Sessanta e Settanta) che si traduce poi nel legame particolare che ogni nazione instaura con la propria storia e il proprio patrimonio archeologico18. Per evitare l’appropriazione indebita e “localistica” e la costruzione di leggende o pseudo-storie a carattere campanilistico e nazionalista, per Kristiansen si dovrebbe tornare da un lato alla professionalizzazione e dall’altro alla neutralizzazione della storia attraverso il contesto internazionale. L’obiettivo è cioè la riappropriazione delle prerogative della costruzione

La professionalità e la neutralizzazione sono invece vagliati in maniera critica da Andreina Ricci20 che li considera punti di partenza di una nuova progettualità tesa a stimolare la partecipazione dei cittadini alla comprensione, alla gestione e alla tutela del patrimonio storico culturale. La professionalizzazione tende a creare questo senso di alienazione e a fossilizzare la storia e il territorio, a imprigionarli e a esiliarli dalla vita quotidiana. Si formano luoghi-relitto che non parlano il linguaggio dinamico della realtà in movimento21. Come sottolinea Barbara Bender nella sua valutazione dei parchi britannici: “Generally speaking those involved conservation, reservation and mummification of the landscape attempt to freeze the past, attempt to make it something excavated, packaged, presented – something over and done with. They create origin myths rather than a sense of ongoing historical process”22. Sulla stessa linea Daniele Manacorda propone di abbassare il peso pedagogico della concezione della nostra presenza nella società perché, sostiene, le nostre convinzioni da strumenti di analisi non divengano gabbie improprie o dogmi capaci di generare comportamenti etologicamente prevedibili23 e, aggiungo io, incomprensibili ai più. Ma tra professionalizzazione e democratizzazione assoluta vi è una terza via, quella di un patto sociale comune ottenuto nel campo della tutela e dell’attribuzione di senso al patrimonio culturale. Il dialogo non si consuma a livello dei metodi o delle professionalità (l’archeologo può stare tranquillo), o a quello dell’interpretazione che si deve svolgere attraverso conoscenze specifiche, ma al livello dell’attribuzione del senso. Ed è in questa fase successiva che il presente inteso come corpo etico-civico-sociale entra in contatto con il passato. Non nella fase della ricerca ma in quella della tutela, della valorizzazione e della progettazione24. Il passato e il paesaggio rugoso25 fatto di materialità e tempo diventano la base materiale attraverso e con cui immaginare il futuro e la riproduzione come corpo sociale. Ecco perché non mi convince il fatto che il passato abbia a che vedere più con le esigenze coltivate nel presente che

14  Carver 2002, p. 492. Un solo rischio vi sarebbe nel potenziare il ruolo del lettore nella costruzione del consenso, che la vita del ricercatore diventerebbe “a personal compaign of special pleading for the individual”. Non capisco come si possa abbracciare la frantumazione del postmoderno o del moderno liquido senza poi accettarne anche le conseguenze individualizzanti che ne conseguono. 15  Settis 2004. 16  Van Dommelen 1997; Webster 1997; Mattingly 1997; 2004. 17  Burgers 2009, p. 29. 18  Kristiansen 2008; Burgers 2009, pp. 32-33.

Per il concetto del tradimento dei chierici Luperini 2006-2007. Ricci 2006. 21  Burgers 2009, p. 36. 22  Bender 1992, p. 735-736. 23  Manacorda 2009a. 24  Non è un caso che il recente dibattito sul future dell’archeologia, già ricordato (Quale futuro per l’archeologia?), sia incentrato sulla tutela e valorizzazione. 25  Cevasco 2013.

8.2. Archeologia (classica) e società.

19  20 

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L’ideologia degli archeologi con la ricostruzione di un passato realmente avvenuto, con il rischio di legittimare la scomparsa di quei passati e paesaggi inattuali e poco interessanti per il presente. La legittimità, quella sì, si crea nel presente. È attraverso il rapporto di senso che la società instaura con il passato che l’archeologo o lo storico sono legittimati a indagarlo, preservarlo e obliterarlo. Ma questo non ha nulla a che vedere coi metodi o con le interpretazioni che a esso si danno e che devono rimanere indipendenti.

sua prospettiva, ma anche per l’efficacia di tale approccio nello studio globale della società che su essa si basa. La potenzialità dell’archeologia e della figura dell’archeologo risiedono nella quantità e nella qualità delle relazioni di cui sono investiti. Il contesto in cui operano è il risultato di temporalità di segno multiplo che si incontrano (passato-presente) e di procedure interpretative polise­ miche (storicismo-comparazione/teoria-prassi) in spazi ideali e fisici morfologicamente differenti (paesaggiocostruzione di senso). Sono convinto che l’archeologia si occupa dell’uomo, che attraverso l’oggetto si esprime e dona senso al mondo e che attraverso esso costruisce i rapporti e le funzioni della sua riproduzione come società. Il vantaggio e il suo limite rispetto alla filosofia o alla storia è che agisce in un contesto le cui coordinate sono tangibili e materiali (il paesaggio, il coccio, un muro, uno strato) e come nessun’altra disciplina l’archeologia dialoga con istituzioni e società in modalità pragmatiche, sia al livello della ricerca (permessi, finanziamenti), sia a quello della comunicazione (pubblicazione). Un discorso a parte andrebbe fatto nell’analizzare le ragioni del fallimento della costruzione di tale ruolo intellettuale nella società. Il motivo credo risieda nel fatto che mentre si costruivano le basi per un ruolo dell’archeologo come intellettuale era proprio il senso e il ruolo di quest’ultimo che perdevano nella società il loro significato29.

Un approccio in questo senso è adottato ad esempio nella carta ICOSMOS (Inernational Council on Monuments and Sites) curata dall’Ename Center for Public Archaeology and Heritage Presentation che definisce i principi interpretativi del patrimonio culturale mondiale a livello di autenticità, integrità intellettuale, responsabilità sociale e rispetto del significato culturale del contesto26. La dinamica di costruzione/responsabilità sociale ha come luogo fisico e metaforico il territorio e il paesaggio, dove si incontrano presente e passato, professionalità e comunicazione e dove si costruisce la nuova democrazia del futuro così come un nuovo modo condiviso di rapportarsi col passato. Il sapere non sta custodito nell’ivory tower delle accademie e neanche disperso nelle larghe maglie della rete ma è a portata di mano fuori dalle nostre case, lungo le strade che ogni giorno percorriamo, nei nostri gesti quotidiani e nel territorio con cui ogni giorno interagiamo e verso cui abbiamo una responsabilità etica e sociale. Questo paesaggio è fatto di presente e di passato, è il nostro patrimonio storico-culturale nella cui restituzione di senso siamo tutti chiamati a partecipare: “la restituzione di senso è una funzione individuale e collettiva, che si manifesta nella somma dei comportamenti e delle scelte degli individui, cittadini, istituzioni: non può esistere una struttura sovra determinata che decida quale sia il senso da dare a un bene culturale e come questo senso debba poi essere restituito. La valorizzazione è una funzione sociale: compito della mano pubblica sarà quello di garantire che si manifesti nel modo più libero, fatte salve le funzioni di tutela che alla mano pubblica spettano”27.

La proposta di Kristiansen è tesa alla conquista di una nuova legittimità e si basa su due caratteristiche che sono l’autonomia e l’internazionalizzazione per un corporativismo universale. Questa visione della conquista di legittimità del campo intellettuale attraverso un processo di autonomizzazione e internazionalizzazione era fatta risalire da P. Bourdieu all’età di Flaubert e di Baudelaire e si esemplifica in un episodio decisivo: l’affaire Dreyfus. È a partire da questo momento, a suo dire, che gli intellettuali cominciano a intervenire nella vita politica in quanto tali, ossia “con un’autorità specifica fondata sulla appartenenza al mondo relativamente autonomo dell’arte, della scienza e della letteratura, e su tutti i valori associati a tale autonomia-disinteresse, competenza, ecc”30. L’intellettuale-legislatore descritto da Z. Bauman invece trae la sua origine nell’età dei Lumi ed è già perfettamente delineato alla fine del Settecento da Fichte che parlando della “missione del dotto” la identifica nel “controllo supremo sul progresso effettivo del genere umano nel suo complesso” e nel “continuo promuovimento di questo progresso”31. Al dotto, o intellettuale che dir si voglia, è riconosciuta un’autorità che va al di là delle sue competenze specifiche e che riguarda invece il progresso dell’umanità, vale a dire il campo universale dei valori etici e civili. Se così, allora l’archeologo potrebbe partecipare al dibattito nel momento in cui e se (e di quale tipo di intellettuale) la società odierna ne sentisse il bisogno.

8.3. Archeologie e Autorità. In questo quadro a mio avviso il ruolo dell’archeologo nella società va ripensato e potenziato. Il contesto in cui opera fa di lui a tutti gli effetti un nuovo tipo di intellettuale alle soglie della fine del postmoderno. Nella grande quantità di bibliografia messa al vaglio ho trovato solo una discussione su questo punto che merita qui di essere ripresa. In un fascicolo pubblicato nel 1999 sul Journal of Mediterranean Archaeology Yannis Hamilakis poneva il problema della definizione di un nuovo tipo di intellettuale che avesse come modalità di costruzione del senso proprio l’approccio storico-stratigrafico dell’archeologico28. Non solo per i metodi e le teorie sviluppate nello studio del passato che fanno della materialità il perno fondante della http://www.enamecharter.org. Burgers 2009, n. 17, p. 38. Manacorda 2009a, p. 261. 28  Bartu 1999; Hamilakis 1999a, 1999b; Hodder 1999; Patterson 1999.

Su questo tema Luperini 2006-2007. Bourdieu 2004, p. 428; Luperini 2006-2007. 31  Bauman 1992b; Luperini 2006-2007.

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Archeologia, democrazia e autorità. Non esiste più l’intellettuale organico caro a Bourdieu, autorevole e legittimato, capace di mediare e gestire culturalmente i processi sapere-potere. Per Gramsci, molto più acutamente, “organico” significava perfettamente integrato al potere, in esso e con esso. In questo modo si vengono a creare delle tensioni e delle contraddizioni tra sapere, intellettuale e società: (1) viene meno la distinzione fra fatti oggettivi, di cui si occuperebbe la scienza, e valori, di cui si occuperebbero invece la religione e la politica. Il nesso fra conoscenza e valori si fa sempre più stretto. Lo sviluppo stesso della ricerca scientifica fa acquisire ai lavoratori della conoscenza una dimensione etica. Il legame fra acquisizioni della conoscenza e perseguimento di retti comportamenti individuali e collettivi tende a porre in primo piano il valore etico della ricerca intellettuale; (2) la diffusione della conoscenza è condizione indispensabile per produrne di nuova. Si può elevare l’estensione della comunicazione e dell’ informazione e moltiplicare la produzione di linguaggio solo a patto che si innalzi progressivamente il livello a cui si svolge il lavoro di consumo delle informazioni stesse. Detto in altri termini: la produzione di conoscenza ha una natura prettamente sociale che può entrare in conflitto con la sua riduzione a merce a scopi di profitto per singoli individui o per singole corporazioni; (3) i lavoratori della conoscenza, pur svolgendo un compito essenziale al funzionamento dei grandi apparati tecnologici e delle istituzioni pubbliche, sono sempre più privati di qualsiasi riconoscimento sociale e di valore pubblico. Contribuiscono alla produzione sociale di senso e alla elaborazione dei valori, ma all’interno di meccanismi che ne disgregano e ne maciullano le funzioni intellettuali, togliendo loro ogni potere effettivo e ogni riconoscibilità sociale33.

La proposta di un corporativismo universale e l’autonomia degli intellettuali presuppone l’universalismo dei valori; il loro stesso corporativismo acquista agli occhi di Bourdieu un rilievo universale sino a diventare un obiettivo da conquistare e difendere. Bourdieu intende salvaguardare gli intellettuali dalle ingerenze del potere economico e politico e metterli nella condizione di accrescere il loro potenziale critico nei confronti dei gruppi dominanti. Tuttavia finisce per porre in secondo piano due aspetti della questione: quello storico-sociale e quello ideologicoculturale. “Il ceto intellettuale ha una sua dinamica che va considerata all’interno dei rapporti di classe complessivi, senza separarla dai movimenti dei gruppi di potere, dal vario aggregarsi e disgregarsi del blocco sociale dominante e di quello dominato e dunque dal conflitto delle ideologie e delle interpretazioni del mondo che si confrontano in ogni momento storico. In questa situazione l’autonomia del campo intellettuale è un processo contraddittorio e precario, sottoposto a spinte e controspinte, continuamente inquinato e minacciato, e comunque interpretabile in direzioni di segno opposto a seconda delle condizioni storiche e delle ideologie dominanti”32. Gramsci vedeva nell’autonomia intellettuale un modo per sottrarsi all’impegno pratico e distanziarsi dal mondo civile e della storia. La cultura non si produce per partogenesi ed è difficile credere che il corporativismo universale possa avere una funzione nella società. Tutto sta a vedere se il tradimento dei chierici sta nell’impegno civile o nel disimpegno da esso. Il potere del linguaggio e il linguaggio del potere tendono a unificarsi tanto nel sistema economico produttivo (dove il settore guida è quello delle merci immateriali e della produzione delle informazioni e del linguaggio) quanto nel sistema politico. Il sapere-potere dei singoli intellettuali come ceto (o classe per sé) è selezionato e filtrato da apparati tecnologici, da enormi complessi produttivi o anche da istituzioni pubbliche (quella educativa, per esempio) che risultano peraltro sempre più deboli e sempre più dipendenti, giacché quei complessi produttivi si erigono davanti a loro come modelli da imitare e a cui uniformarsi. Potremmo dire che il sapere-potere degli intellettuali si liquefà all’interno di questi apparati, si frantuma in essi che ne decidono o largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di comando integrati, nazionali e multinazionali insieme, non hanno alcuna possibilità di controllo su di essi. Si riducono a semplici lavoratori della conoscenza costretti a fare i conti con una perenne instabilità, mobilità, flessibilità e dunque a sviluppare un’elevata capacità di conversione. La cultura umanistica, sminuzzata e ridotta a insieme di informazioni e di saperi, può ora acquisire persino un nuovo valore in quanto componente di una formazione di base variamente interdisciplinare e fungibile, capace di adattarsi a condizioni diverse e di fornire alcuni strumenti interpretativi.

8.4. Archeologie nelle marginalità. La marginalità degli intellettuali è in palese conflitto con la loro funzione nel sistema delle comunicazioni e delle informazioni. Essi concorrono, seppur da posizioni subordinate, con la produzione sociale di senso che fa coincidere conoscenza e valori, sapere ed etica. Quando Edward Said, rifacendosi apertamente alla lezione gramsciana, scrive che il rischio della nuova figura dell’intellettuale è di scomparire “in una miriade di particolari” e di diventare una “nuova figura professionale”, un ingranaggio tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere, coglie esattamente il tramonto del grande corporativismo intellettuale34, tracciando però le basi per una nuova figura d’intellettuale35. Il nuovo intellettuale è inserito nei nuovi complessi produttivi in posizione subordinata o esterno ad essi; si configura come un outsider, un dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo può e deve essere animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione è pubblica ed etica, provocatoria, deve sfidare le ortodossie e soprattutto “trovare la propria ragione d’essere Luperini 2006-2007, p. 177. Said 1995, pp. 9-27. 35  Said 2000, pp. 502-503 33  34 

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Queste osservazioni in Luperini 2006-2007, pp. 170-171.

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L’ideologia degli archeologi nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate”36. Non c’è più mediazione e controllo da una posizione di centralità ma da una marginalità che diviene metafora di tutte le altre marginalità, rendendolo potenzialmente organico a un processo storico di lotta per la liberazione. Il passaggio da legislatore a interprete può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, dell’interdisciplinarità, della conoscenza critica della differenza. Traduttori, insegnanti, giornalisti e, aggiungo io, archeologi stanno diventando tutte figure prossime alla soglia la cui caratteristica principale è agire ai margini di discipline diverse37. L’archeologia è per sua natura come abbiamo visto una disciplina soglia.

La prima antinomia tra scavo e storia vuole ricordarci che la formazione storico-culturale si deve accompagnare alla conoscenza dei meccanismi che presiedono alla formazione dei contesti e che rispondono ad altre leggi che non agiscono sul piano storico. La cultura materiale, pur essendo culturalmente connotata, si forma e si trasforma secondo leggi fisiche. A me pare che a questa prima antinomia si sia sostituita lentamente quella tra formazione storicoculturale e formazione tecnologica e è avvenuta proprio quella sovrapposizione tra tecnologia e metodologia che tanto si temeva. La formazione specialistica ha inglobato interamente tecnologia e metodologia, trasformando la ricerca pura in tecnologia e questa in metodologia della ricerca applicata. La professionalizzazione è avvenuta cioè a livello tecnico e non culturale e storico. È in questo senso che sono andate sviluppandosi le ricerche attraverso le tecniche geofisiche che hanno ormai in alcuni ambienti sostituito lo scavo, portando Martin Millet, in un convengo a Cambridge tenutosi nel 2010 proprio su questi temi, a lamentare un eccessivo tecnicismo e una perdita delle problematiche e della sintesi storica e archeologica. L’antinomia tra formazione culturale e formazione tecnologica è mediata in ambito anglo-americano da quella tra archeologia come disciplina storica e strumenti concettuali propri delle discipline scientifiche. Nell’archeologia storicoantropologica mediterranea l’antinomia tra formazione culturale e formazione tecnologica sostituisce quest’ultima e sembra dissolversi in quella tra formazione culturale e formazione specialistica, sbilanciandosi verso quest’ultima. La separazione tra archeologia e Altertum si è trasformata in quella tra formazione storico-culturale e formazione tecnico-specialistica. Il risultato è stato quello di democratizzare il sapere, ma solo quello tecnologico e metodologico, indebolendo quello capace di operare grandi sintesi storiche e ottenendo l’effetto contrario di quello perseguito dal postmoderno. L’esplosione delle gerarchie ha sfibrato il tessuto conoscitivo e la tenuta della ricerca storica mantenendo il potere della conoscenza nelle mani della vecchia accademia (dei professori di vecchia generazione) o arroccandola nei luoghi del sapere d’eccellenza, e non liberandolo. Questo quadro è particolarmente chiaro nell’organizzazione accademica francese. Gli scavi classici effettuati dalle università sono condotti da tecnici di scavo ma che hanno al vertice della direzione scientifica professori formatisi per lo più all’École Normale Supérieure in lettere classiche (tra i quali Olivier de Cazanove e Michel Reddé). Questi ultimi mantengono la coerenza della sintesi storica e vivo il rapporto tra fonti scritte e fonti materiali, mentre quella metodologica e tecnica è assicurata dai professionisti dello scavo. In questo senso va vista la separazione nell’archeologia francese tra scavi condotti dalle università e quelli operati dall’INRAP (Institute Nationale d’Archéologie Préventive) che distinguono la ricerca pura dalla ricerca applicata39.

Sul discorso della formazione e della didattica mi preme portare alla luce alcune riflessioni. In un recente intervento Daniele Manacorda sintetizzava cinque termini antinomici per fare da cornice al tema della formazione che caratterizzano lo statuto attuale della disciplina e alcune riflessioni e approcci su di essa: (1) scavo e storia. Ovvero la tensione tra le procedure e le metodologie di scavo (l’alfabetizzazione necessaria all’uso di strumenti concettuali propri delle discipline scientifiche) e centralità della formazione storico-culturale. L’obiettivo è quello di evitare una specializzazione storico-culturale sprovvista di strumenti di controllo delle procedure che trasformano il dato in fonte archeologica; (2) passato e presente. Ovvero la relazione tra addetti ai lavori e società. L’obiettivo è quello di rafforzare i legami con la contemporaneità sul fronte della restituzione di senso, in un equilibrio continuo tra tutela del patrimonio e lo scardinamento dei loro confini; (3) testi materiali e testi scritti. Ovvero la tensione tra sistemi di fonti diversi che ci allontana dallo specialismo e ci avvicina all’analisi contestuale e quindi in ultima analisi alla filologia, alla restituzione delle lacune e alle ricostruzioni. Il coraggio di formulare congetture è un’assunzione di responsabilità che ci avvicina al pubblico; (4) formazione specialistica e formazione culturale. Ovvero la tensione tra summa erudito-concettuale (tipo logicamente e funzionalmente connotata) e quella manualistica e storica (generalmente e storicamente connotata). L’obiettivo è quella di dotare gli studenti di quella preparazione culturale necessaria alle sintesi storiche tesa anche a sovvertire il procedimento della didattica universitaria che lascia ai giovani arare il campo della specializzazione monografica e agli anziani quello delle generalizzazioni; (5) formazione culturale e formazione tecnologica. Ovvero la tensione concettuale tra tecnologia e metodologia, perché quest’ultima non si dissolva nella prima. L’obiettivo è quello di stabilire una corretta gerarchia tra formazione scientifico-culturale e quella scientifico-tecnica, tra ricerca pura e ricerca applicata38.

Gras 2009 ha recentemente riflettuto sull’esperienza dell’archeologia preventiva in Francia (INRAP), sottolineando come il momento della ricerca scientifica legata agli scavi preventivi sia notevolmente incrementata. In generale Gras 2000 sul bilanciamento che vi deve essere nella formazione dell’archeologo tra metodologia, storia, tecnologia e metodo antropologico. 39 

Said 1995, p. 26. Qui si incontrano le riflessioni di Said, Luperini e le affermazioni di Manacorda sull’importanza di agire liminarmente, Manacorda 2004. 38  Manacorda 2009, pp. 44-47. 36  37 

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Archeologia, democrazia e autorità. Quello che mi pare si debba sottolineare è che la democratizzazione del sapere in archeologia (e in generale) sia stata condotta in maniera errata, frammentando l’organicità della conoscenza storica e dotando le nuove generazioni di archeologhe e archeologi classici di conoscenze tecniche ma non degli strumenti concettuali necessari per affrontare il nuovo panorama dell’archeologia storica, divenuta un’archeologia dinamica, un’archeologia delle complessità e delle relazioni40. L’archeologia anglo-americana compensa l’eccessivo tecnicismo con il rapporto stretto che intrattiene con la scienza, colmando teoreticamente il vuoto che la separa dalla storia attraverso i concetti dell’antropologia. Si tratta di scegliere come sostenere concettualmente l’archeologia storicoantropologica mediterranea: se non con l’antropologia almeno con la formazione culturale umanistica che invece è stata messa al bando sostituita dal GIS e dal georadar. Il punto è che bisogna dotare le nuove generazioni di archeologhe e archeologi di entrambe le conoscenze perché ne vale dell’autonomia della ricerca e del ricercatore. Si tratterebbe di giungere a una vera democratizzazione del sapere archeologico, non una democratizzazione zoppa che crea archeologi a metà e che permette loro un accesso solo parziale agli strumenti della conoscenza depauperandoli ancora di più della propria indipendenza. La conoscenza così resta ancora strumento di potere confinata in poche casematte.

futuro nel passato, esempio negativo di un ciclo storico che si sarebbe ripetuto: “The evolution of the Ancient world has a lessons and a warning Our civilization will not last unless it be a civilization not of one class, but of the masses. The Oriental civilization were more stable and lasting than Greco-Roman, because being chiefly based on religion. They were nearer to the masses. Another lesson is that violent attempts at leveling have never helped to up lift the masses. They have destroyed the upper classes, and resulted in accelerating the process of barbarization”. Ma come un fantasma risorto dal passato per tormentarlo, al presente resta un problema tuttora irrisolto con cui confrontarsi continua Rostovtzeff: “Is it possible to extend a higher civilization to the lower classes without debasing its standard and diluting its quality to the vanishing point? Is not every civilization bound to decay as soon as it begins to the penetrate the masses? (corsivo mio)” 44. Quella di Rostvtzeff non mi pare una visione totalmente elitaria ma pone un problema reale con cui ancora ci troviamo a dover fare i conti. La questione non è tanto se sia giusto o no extend a higher civilization to the lower classes quanto se sia possibile without debasing its standard. Tale perdita di qualità per Rostovzeff (diluting its quality to the vanishing point) è data dal fatto che mentre il sapere e la civiltà penetrano nelle masse, contemporaneamente si dissolve la upper class custode e produttrice di questi alti standard della conoscenza e contemporaneamente diminuisce l’autorevolezza della medesima e dell’alta cultura in generale. È possibile cioè trovare un altro luogo dove tali standard possano essere mantenuti e rafforzati nel momento in cui le masse attirano verso di sé il bisogno di conoscenza? È possibile che questo luogo si sposti all’interno delle masse stesse e che in esse si rafforzino le qualità della cultura? Ad oggi pare che ciò non sia possibile. Alla massificazione corrisponde l’isolamento dell’élite culturale che si sente allo stesso tempo custode del sapere sotto assedio e delegittimata. Non si è stati capaci di operare una democratizzazione efficace del sapere che mantenesse degli standard qualitativi alti e di creare una piattaforma di confronto fra i due tipi di cultura. Lo psicodramma è però collettivo e riguarda sia la vecchia classe privilegiata sia quella che spera nell’ascesa sociale attraverso la cultura.

Sugli effetti della (presunta o meno) democratizzazione della cultura durante il Basso Impero, Santo Mazzarino ha scritto pagine illuminanti41. Particolarmente sensibile alle asimmetrie evolutive dei processi, Mazzarino era interessato agli effetti che la democratizzazione della cultura aveva avuto nella tarda antichità. La prospettiva era quella di chi, attento alle distonie, ai colori non complementari e alle diverse velocità, percepiva due culture distinte42. Pur tenendosi lontano da qualsiasi giudizio di valore, Mazzarino percepiva immediatamente il limite di quel fenomeno nel mancato cambio tra cultura e politica. Il tema si ricollegava all’interrogativo lasciato senza risposta da Michail Rostovtzeff nell’ultima pagina della sua Social and Economic History of the Roman Empire43. Rostovtzeff, riflettendo sulla crisi e la fine del mondo antico, si chiedeva se questa non fosse stata provocata dalla diluizione della cultura delle élites in quella delle masse, ritrovandovi l’inesorabile destino che attendeva la società borghese. Massificazione, civilizzazione e democratizzazione del sapere erano messi in stretta relazione col concetto di decadenza e di crisi. In quella pagina ancora una volta (e forse per l’ultima) l’antico era immortalato nel suo valore paradigmatico e esemplare, ma non più come punto inarrivabile della civiltà occidentale bensì come monito e destino, come

Ad oggi il concetto di democratizzazione ha essenzialmente acquisito un’accezione positiva. Non si trova praticamente da nessuna parte alcun politico o ideologo che ne denunci i rischi. Al limite, meno si mette in pratica più se ne devono esaltare le qualità. L’idea che la democratizzazione sia “ascendente” e non “discendente”, che sia necessariamente portatrice di progresso, si è imposta. Ma lo spettro della democratizzazione perniciosa e regressiva non è scomparso completamente, ha semplicemente subito uno scarto designando delle nuove classi pericolose, una nuova massa informe da cui difendersi, quella degli immigrati e dei gruppi etnici stranieri. La dimostrazione di questo processo

Brogiolo 2007; Volpe 2018. Recentemente sul concetto mazzariniano di democratizzazione della cultura nell’età tardo antica, si veda il volume monografico Antiquité Tardive 9, 2001 e soprattutto i contributi di Andrea Giardina e JeanMichel Carrié. 42  Mazzarino 1974; commenti in Carrié 2001; Giardina 2001, p. 292. 43  Sul legame tra Mazzarino e Rostovzteff, Giardina 1999b. 40  41 

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Rostovtzeff 1971, p. 541.

L’ideologia degli archeologi ideologico è offerta dalle forme attuali della propaganda nazional-populista operata dagli stati occidentali che ripropongono invariata nella sostanza la coincidenza perfetta tra democrazia e allargamento dei diritti (fra cui quello dell’accesso alla cultura) ai nuovi soggetti sociali alloctoni, con la stessa retorica antidemocratica sviluppata dopo la Rivoluzione francese fino alla Seconda guerra mondiale. Il meticciato e l’ibridazione come eliminazione delle qualità migliori e dei “migliori” e che identifica la perdita dell’identità culturale con la decadenza morale. Il modello del livellamento culturale, intellettuale e artistico delle classi detentrici della paideia classica ad opera delle classi rurali primitive, e la vecchia teoria del declino e della caduta del mondo antico (da Hume a Gibbon fino a Rostovtzeff) si ripropone sotto altre forme e investe nuovi soggetti sociali. La democratizzazione riappare come causalità storica, come regressione e perdita di qualità. Su questa analisi politica Rostovtzeff stabiliva il suo concetto di una falsa democratizzazione confiscata dall’ineguaglianza del regime liberale e dipingeva al contempo un’analisi catastrofista dell’evoluzione culturale. Vi era per lui una “buona democratizzazione” costituita dalle forme politiche rappresentative, opposta ad una “cattiva”, quella del tentativo violento di imporre l’uguaglianza. Secondo la sua riflessione politica la civiltà potrà sopravvivere solo a condizione di procedere come un’evoluzione di massa e non di una sola classe.

e elitiste dell’aristocrazia, parallelamente i fattori della democratizzazione hanno continuato a produrre i loro effetti ad altri livelli della vita collettiva47. Da questo punto di vista più che una diluizione di una cultura nell’altra si deve vedere “la cultura” come nuovo luogo d’incontro e confronto fra classi dominanti e classi dominate. La forza di tale visione (quale sia il periodo storico a cui la applichiamo) sta nel definire in modo dinamico i rapporti tra diverse classi sociali e nella concezione del rapporto fra élite e masse: non come giustapposizione e conflitto fra due mondi chiusi l’uno rispetto all’altro ma come coesistenza attiva e creativa di influenze e ridefinizioni reciproche. Il mondo antico offre alla riflessione contemporanea una comparazione (“comparabile”) al livello di contrasto tra viscosità collettiva e malleabilità individuale, tra società chiuse nel loro particolarismo “identitario” e individui “transnazionali” per vocazione o per necessità. La moltiplicazione e la molteplicità dei punti di contatto tra culture diverse, e l’esistenza di diverse culture a differenti livelli che operano e si formano in “zone” periferiche (fisiche e sociali) capaci di coltivare la loro permeabilità, facilita non solamente i fenomeni di acculturazione ma ancora una volta la fabbricazione di fenomeni di democratizzazione e di produzione culturali “mutanti”48. Il filosofo e sociologo francese Raymond Aron non nascondeva la sua preferenza per l’ordine sociale stabilito e per i privilegi dell’establishment. Quando Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron pubblicarono Les héritiers49, un atto d’accusa e denuncia contro le istituzioni scolastiche francesi che favorivano i rampolli della classe privilegiata50, Aron li rimproverò di andare nella direzione dei tecnocrati che rimpiangono che i cervelli popolari siano lasciati allo stato brado mentre potrebbero essere utili alla collettività51. Per Aron la democratizzazione reale del sapere aveva un costo finanziario e sociale insostenibile. Mettere a coltura delle terre incolte sarebbe stato più costoso che reclutare tra i privilegiati quelle poche menti vivaci necessarie per far funzionare la collettività. Inoltre, l’ascensione dei figli del popolo avrebbe creato un’idiosincrasia sociale. I privilegiati, abituati ai loro vantaggi, avrebbero sofferto nel vedere i loro privilegi messi in discussione e la loro autorità depotenziata, mentre nella classe popolare si sarebbe diffusa la frustrazione nel constatare che non tutti avrebbe fruito dei benefici dell’ascesa sociale. I primi sentiranno cosa perdono e si spoglieranno dell’autorità e i secondi si sentiranno frustrati e diverranno infelici nel non poter raggiungere ciò che prima non conoscevano. Naturalmente per Aron il dramma più intenso è quello provato dalla classe dei privilegiati. Distinguendo tra alienazione marxista e stato di mancato possesso, tra il

Il rapporto di Mazzarino con Rostovtzeff culminava e si concludeva intorno al concetto di democratizzazione della cultura, ponendo anche le basi del suo superamento nella sua accezione negativa45. Mazzarino trasformava la democratizzazione “catastrofica” in “positiva”, ponendo l’accento sul processo di interazione tra due modelli culturali alternativi e paralleli e attirando l’attenzione sulla composizione di nuove classi sociali o nuovi vettori sociali e culturali in cui quei modelli si incarnavano. Il paradigma della democratizzazione come diluizione della cultura elitaria in quella delle masse riposava sulla convinzione che vi fosse una dicotomia, un baratro insanabile, tra classi superiori e classi inferiori secondo un modello a due livelli separati. La democratizzazione “positiva” ristabiliva un rapporto nuovo tra questi due livelli restringendo l’opposizione e facendo di tale processo una categoria d’analisi alla luce della quale andava rivista l’evoluzione dell’intero corpo sociale. Le culture “locali”, popolari, si esprimevano secondo lo stesso movimento drammatico in cui erano coinvolte le classi superiori, palesandole e rendendole competitive in nuove forme originali secondo una relativa unità morfologica46. Le élites e il demos, coinvolti in eguale misura nel processo di democratizzazione, erano vittime allo stesso modo di perdite insanabili e fruitori di nuove prospettive derivanti dal processo d’interazione. Se politicamente durante il tardo antico si sono ridotti gli spazi democratici che l’autonomia della città garantiva, e se socialmente si sono rinforzate le caratteristiche elitarie 45  46 

Carrié 2001, p. 46. Ivi. 49  Bourdieu, Passeron 1964. 50  Com’è noto soprattutto Pierre Bourdieu denunciò il sistema di privilegi che stava alla base del reclutamento classista praticato all’École Normale Supériure dove si formò, e dell’ambiente accademico del Collège de France, Bourdieu 2004. 51  Veyne 1995, pp. 57-58. 47  48 

Giardina 1999b, p. 126. Ivi, p. 128.

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Archeologia, democrazia e autorità. trovarsi privati di qualche cosa e non averla mai posseduta, la vera sofferenza è quando si è defraudati di quel che si possedeva già.

dell’archeologia classica, salvo poi negargli l’accesso alla professione a causa della sua mancanza. E neanche fargli credere che tali mancanze nella sua formazione umanistica siano compensabili esclusivamente con la formazione tecnologica. L’accesso al potere gli sarà limitato così come la sua libertà di individuo e di ricercatore. Fino ad allora saremo autorizzati come Rostovtzeff a guardare con sospetto alla democratizzazione come retorica.

Il senso di frustrazione per Zygmut Bauman è invece prodotto e diffuso dal liquefarsi del legame da essere individuo de iure e diventare individuo de facto. Esiste cioè un ampio e crescente divario tra l’essere giuridicamente e potenzialmente in grado di essere padroni del proprio destino e le possibilità reali di mettere in atto le proprie scelte individuali. Essere individuo de iure significa non potere incolpare nessun altro della propria miseria e delle proprie sconfitte se non l’accidia e l’indolenza dell’inazione. Vivere quotidianamente con il rischio dell’autocondanna e della disistima di sé non è questione di poco conto52: “Allorché si tengono gli occhi puntati esclusivamente sulla propria performance e li si distoglie dallo spazio sociale in cui le contraddizioni dell’esistenza individuale vengono collettivamente prodotte, uomini e donne sono naturalmente tentati di ridurre la complessità della loro condizione al fine di rendere le cause della propria miseria intellegibili e dunque affrontabili e suscettibili di rimedio. […] semplicemente, non esistono efficaci ‘soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche’, e così la mancanza di soluzioni possibili deve essere compensata con soluzioni immaginarie”53.

Nel 1880 veniva data alle stampe Bouvard et Pécuchet l’opera postuma e incompiuta di Gustave Flaubert. I protagonisti sono due impiegati borghesi che si ritirano in campagna dopo che uno dei due entra in possesso di una cospicua eredità. Liberi ormai dalle pene finanziarie i due decidono di seguire le proprie inclinazioni individuali e iniziano un’escursione totale nel sapere teorico e pratico (nous ferons tout ce que nous plaira). Esplorano il terreno della conoscenza come viaggiatori nel tempo, sperimentando le delusioni, le frustrazioni e le sconfitte che sono soliti provare i dilettanti. Il progetto però si interrompe bruscamente quando Bouvard è arrestato e accusato di immoralità. In realtà l’arresto viene a interrompere la condizione di inadeguatezza in cui i due si erano venuti a trovare. Entrambi confessano l’un l’altro il desiderio di tornare a fare i copisti e così, dopo essersi fatti costruire una scrivania a due posti, ils s’y mettent…

A mio avviso questo divario tra individuo de iure e de facto (che per Bauman va colmato dalla politica e dall’individuo cittadino) è un punto cruciale che ci deve ricordare come non si deve perdere di vista il risanamento di quello spazio sociale di produzione delle contraddizioni che non possono essere risolte che collettivamente54. Ma non è il solo punto. Se la frustrazione è dovuta alla non corrispondenza tra ampia possibilità teorica dell’individuo di agire e ridottissima capacità d’azione reale, questa è in parte dovuta anche alla perpetuazione dell’“inganno democratico”. Lasciando perdere l’aspetto eminentemente “politico” della retorica e dell’ideologia democratica, su cui Luciano Canfora ha scritto delle pagine illuminanti55, quella “culturale” ha creduto di poter dotare una sempre più larga parte della popolazione dei benefici della conoscenza come strumenti per passare dalla condizione de iure a quella de facto e godere del privilegio dell’ascesa sociale. Questo non sarà possibile finché non si creeranno delle vere condizioni paritarie a livello economico di accesso alla cultura (e non sembra quella la direzione, tutt’altro), ma soprattutto fino a quando alla democratizzazione del sapere non corrisponderà un accresciuto standard qualitativo del tipo di formazione culturale. Tutto sarà inutile finché il sistema (la politica? il cittadino?) non garantirà tale coerenza. Non si può far credere a un ragazzo uscito da un istituto professionale di potere far a meno della conoscenza della lingua latina nella pratica

Fallito il tentativo di vivere la scienza e di metterla in pratica, Bouvard e Pécuchet preferiscono trascrivere acriticamente le informazioni da un testo all’altro, schiacciati dal peso della loro mediocrità. Quella che loro intraprendono è la parabola della deludente esperienza della società borghese in cui i bourgesois conquérants finiscono col divenire le vittime maldestre della loro stessa mediocrità. Ogni atto teso alla conoscenza finisce con l’appiattirsi nel grigiore dei luoghi comuni, ogni disciplina scientifica e ogni campo del sapere si mutano da fonti di speranza e di potere in cause di disordine, rovina e sconforto. Per Flaubert la rigenerazione della società borghese ormai in decadenza sarebbe arrivata da una civiltà nuova e da un nuovo spirito puro proveniente dall’Asia56. Per me tale rigenerazione è percorribile attraverso una funzionale pratica della democratizzazione del sapere che mantenga e accresca la qualità degli strumenti della conoscenza, aprendo concretamente ad altri soggetti sociali la definizione e la fruizione di tali strumenti e coinvolgendo una sempre maggiore base sociale nella loro costruzione. (Ap)punti per una conclusione futura 1.  Dicotomie. La dicotomia tra archeologia processuale e postprocessuale dipende, in ultima analisi, dalle separazioni puriste (purits splits) insite fisiologicamente all’interno dell’empirismo britannico e anglo-americano in genere, sostenute dal pensiero di matrice kantiano. Nella nostra disciplina, l’ampio ricorso al discorso e alle categorie di Kant è a mio avviso la conseguenza del

Bauman 2000, pp. 31-32. Ivi, p. 31. 54  Su questi temi di Cittadinanza come soluzione filosofica e politica fondamentali le riflessioni di Balibar 2011. 55  Canfora 2004, 2009. 52  53 

56 

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Su questo punto Said 2002, p. 116.

L’ideologia degli archeologi 6.  Fluidità. Vi è attualmente una fase di arretramento rispetto alla fluidità del postmoderno e al trionfo del pensiero “debole” verso la ricerca di categorie “forti”, non solo da parte di tradizioni culturali rimaste sempre un po’ scettiche di fronte alla decostruzione indiscriminata, come è il caso di quella continentale europea, ma anche da parte dell’esausta discussione in ambito anglo-americano. Questa fase di arresto e di arretramento si traduce anche in una serie di convergenze: la prima convergenza si sta producendo proprio in direzione di un ritorno al pensiero di Marx e al recupero di alcune sue categorie: la sua concezione di forma sociale è ripresa come modalità per superare i purismi logici ed è proceduralmente in grado riconciliare archeologia processuale e postprocessuale. Quest’ipotesi è presa adesso in seria riconsiderazione dall’archeologia anglo-americana. La seconda convergenza si sta verificando al livello “iconografico”: da posizioni teoriche e disciplinari diverse, le varie archeologie stanno convergendo verso la storia dell’arte, come questo studio ha provato a dimostrare. Tuttavia, questo arretramento porta con sé anche implicazioni ontologiche che, come abbiamo visto, al di là dei problemi di un nuovo realismo, rischiano ancora una volta di non poter sfuggire alla coerenza del soggetto trascendente. È fra queste rugosità teoriche che va prodotto un nuovo cronotopo entro cui ricostruire il nostro paradigma. Un discorso in parte simile potrebbe essere affrontato circa la presunta ‘crisi’ della dialettica o del falso uso di essa in storia e in archeologia per spiegare i processi di cambiamento strutturali.

rifiuto del pensiero di Marx e dunque dell’altro grande ed opposto filosofo che a Marx era legato, cioè Hegel, e dunque un rifiuto di alcune fondamentali implicazioni del suo pensiero a livello storico ed epistemologico. Tale diffidenza, come si è visto, è politica ma anche culturale: il travisamento e l’irrigidimento del pensiero marxiano è dovuto alla tardiva e difficile penetrazione nell’ambiente accademico anglo-americano del ripensamento operato dalla “teoria critica” tedesca e dai suoi epigoni. 3.  Separazioni. Le separazioni puriste hanno come conseguenza più evidente l’inconciliabilità tra dinamiche di cambiamento strutturale e azione individuale. Queste sono le principali questioni portate alla luce dal movimento/ fase/momento postmoderno e la base della sua critica al pensiero razionale moderno: separazione tra soggetto ed oggetto, tra esterno ed interno, tra passato e presente e tra interpretazione e verità storica. L’inconciliabilità tra l’individuo e la struttura in cui questo agisce e che in parte contribuisce a creare si traduce nelle idiosincrasie della scrittura della storia, che produce una storia a due velocità e a due differenti scale. 4.  Postmoderno e Archeologie. Il postmoderno e l’archeologia postprocessuale hanno creduto di poter rispondere a tali idiosincrasie attraverso il soggettivismo interpretativo, ricostituendo l’unità e la simmetria dell’oggetto e del soggetto grazie alla coerenza ontologica del soggetto che interpreta. Il dibattito postmoderno ha coinvolto in maniera marginale, e con un decennio di ritardo rispetto agli Stati Uniti, la disciplina storica in Inghilterra, mentre ha avuto larga e precoce diffusione in tutta l’archeologia praticata fra le due sponde dell’Atlantico. Questa precoce sensibilità alle problematiche postmoderne è dovuta alla marcata separazione che esiste tra archeologia e storia che, come si è cercato di argomentare in questo lavoro, si traduce metodologicamente e epistemologicamente nell’irrisolto discorso intorno alle diverse fonti documentarie. Ma non solo. Abbracciare la postmodernità significava per l’archeologia affermarsi ulteriormente come disciplina autonoma rispetto alla storia.

7.  Globalità. In questo quadro l’archeologia classica può ripensare e rinnovare il suo ruolo al livello di archeologia globale; e in special modo l’archeologia classica italiana (storico-antropologica) e mediterranea può rinnovare e rinnovarsi nelle prospettive, facendo valere la sua familiarità con il pensiero di Marx ed il suo legame (allentato ma mai del tutto interrotto) con l’Altertumswissenschaft. Non si tratta di riproporre vecchie soluzioni per nuovi problemi, ma di ribadire con chiarezza taluni strumenti euristici che non possono essere accantonati. Nella disgregazione che ha coinvolto il Mediterraneo come luogo d’unità disciplinare e nella perdita del suo valore paradigmatico come laboratorio politico e culturale della nuova Europa57 l’archeologia classica può ridare a questo spazio un senso rinnovato, ristabilendolo a livello dell’unità di problema, come luogo, come paesaggio teorico e prassi civile. In particolare, l’archeologia deve, a mio avviso, avere la forza di proporre e contestare una certa archeologia occidentale dalle sue fondamenta. Mentre questa è intenta a cercare un’identità e delle radici nel passato e una nuova legittimità giuridica e istituzionale nel presente, l’archeologia mediterranea può e deve mettere in discussione questa ricerca, riproponendo il Mediterraneo e l’esperienza antica come contro-identità. Rifondare l’Europa su basi multiculturali nuove e in questo senso ridonare senso paradigmatico all’antichità. L’arretramento del progetto globalista ha ridotto gli spazi di interazione e le speranze

5.  Marginalità. La sostanziale marginalità dell’archeologia classica nel dibattito processuale e postprocessuale deriva in parte dal poco peso che certi temi privilegiati negli studi sulla postmodernità hanno avuto in questa disciplina, sublimati nella tensione fonti scritte-fonti materiali e contenuti da un certo tipo di storicismo. L’archeologia classica si è in parte indebolita da questi confronti tra postmoderno e moderno, perdendo efficacia sia come disciplina tra discipline, sia a livello civico ed etico. Credendo di perdere legittimità ha creduto di perdere anche la sua sostanza. Tuttavia vi è una marginalità, per così dire, ‘positiva’ che è quella che la pone come disciplina limite, al contatto cioè tra diverse sfere epistemiche ed ermeneutiche e dunque, in realtà, potenzialmente adatta a coltivare e innescare svolte paradigmatiche. Questa marginalità è in parte storica e accademica ma anche consustanziale al tipo di serie documentarie che le sono proprie.

Critiche al concetto euristico di Mediterraneo erano presenti già in De Piña Cabral 1989. 57 

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Archeologia, democrazia e autorità. di comunità, ma agire localmente pensando globalmente resta un punto di principio difficilmente negoziabile. Forse adesso potremmo dire più correttamente, pensare radicalmente agendo temporalmente, salvando così ciò che resta di quella prospettiva rivoluzionaria ed arricchendola di senso nel presente (e nel futuro).

L’oggetto è soggetto e viceversa. L’oggetto è un nonoggetto e il soggetto dal canto suo è un non-umano. La smaterializzazione adesso riguarda non più il paesaggio ma il soggetto che lo trasforma, ovvero la formazione economico-sociale ed in ultima istanza l’uomo stesso. È l’archeologia del post-umano.

8.  Riconciliazione nella prassi. È ormai chiaro che la tensione tra postprocessuale e processuale non tiene più, come si è reso manifesto dalle recenti discussioni intorno alla materialità del paesaggio antico. La dicotomia tra moderno e postmoderno nasce evidentemente da tendenze radicate in tradizioni accademiche, filosofiche e storiche molto più profonde. La smaterializzazione del paesaggio in termini di ‘patrimonio’ da conservare e oggetto da studiare, portata avanti da certe tendenze eminentemente culturaliste, ha raggiunto le sue vette più alte con lo spatial turn nato in seno alla tradizione geografica anglo-americana, ponendo l’accento sugli aspetti percettivi e visuali del soggetto che interagisce con il mondo fisico, con un modo di intendere il rapporto tra soggetto e oggetto sia sintagmatico che paradigmatico, derivato principalmente da una certa parte di fenomenologia58. Lo spatial turn ha certamente avuto il merito di mettere al centro lo ‘spazio’ come luogo fisico ma soprattutto simbolico dell’agire umano, rimettendo in discussione lo spazio cartesiano geometrico e misurabile, rivelando anche la debolezza di alcuni strumenti euristici e aprendo lo spazio a nuove riflessioni tra locale e globale, culturale e materiale. Lo spazio così inteso non è solo uno spazio fisico ma un fenomeno visivo e percettivo59. La categoria di paesaggio nasce sulla scia di questa svolta culturalista, contribuendo a dotare tutte le discipline che si approcciano in qualche modo all’ambiente di un nuovo strumento teorico, rivelando tuttavia immediatamente la prospettiva riduttivamente simbolica di questa categoria d’analisi, imponendo da subito la riflessione circa la potenzialità di metodologie alternative di analisi sostantiviste e processuali.

10.  Soluzioni teoriche. Lo spazio, ci rammenta Michel Foucault, è quel luogo dove il soggetto prende posizione per generare il suo discorso sulla realtà. Ma è anche spazio reale, territoriale, suolo fumante. I vecchi confini cadono ma nessuno si è dato pensiero di definirne dei nuovi secondo criteri logici. E allora questa nuova svolta spaziale si concretizza nel riempire gli spazi vuoti: dalla visione sitocentrica alla visione contestuale si passa al concetto di continuum archeologico. Riempire lo spazio vuoto di conoscenza attraverso l’acquisizione e la copertura ‘totale’ del paesaggio, ovviamente grazie allo sviluppo di nuove tecnologie per l’acquisizione dei dati (estensive) e per l’elaborazione delle interpretazioni e per la gestione dei livelli stratificati di cui il paesaggio è composto (intensive). Con il GIS la visualizzazione del paesaggio cambia ancora di magnitudo e non è più una rappresentazione diretta, un’esperienza del soggetto (dal presente, nel passato), ma una terza materialità, del tutto nuova, storicamente ed intellettualmente prodotta61. Un paesaggio terzo, non culturale né materiale, ma feticcio, che tiene insieme diverse spazialità e diverse temporalità. Non si tratta allora più di opporre la settlement pattern analysis alla cultural landscape archaeology, né di riconciliare Reason and Romance ma di tenere insieme spazio e tempo62. 11.  Rotture. E allora se l’archeologia ha rappresentato una rottura epistemologica nel ricondurre al rango di fonte storica il terreno stesso63, è solo lo spazio fisico a tenere insieme il culturale con il materiale, la natura come ente attivo e il sociale come processo in un continuo e incessante movimento trasformativo. Nel paesaggio, inteso come medium reale, il sociale pone le basi materiali e ideali per la sua riproduzione, lo trasforma, lo oblitera, lo preserva, produce conoscenza, opera le sue scelte politiche e culturali e dal canto suo il paesaggio reagisce, si degrada, si rigenera, risponde agli stimoli secondo modalità sue proprie di cui non possiamo non tenere conto, collassando o ponendo soluzioni. È la prassi a tenere insieme tutto questo. La prassi come pratica archeologica, intesa come modalità morfologica di agency sociale. In questo posizionamento teorico il paesaggio non è più un semplice oggetto di studio o un prodotto dell’attività umana ma diventa una soluzione euristica da un lato e uno ‘spazio’ epistemologico dall’altra.

9.  Materialismo raddoppiato. Il ritorno a una fase di grandi narrative, stimolate da innovative metodologie archeologiche e dall’accumulo di quantità sempre crescenti di dati computabili, fa parte di un movimento che potremmo definire neo-materialista in cui siamo tutti coinvolti. Le tendenze culturaliste, post-processuali, ermeneutiche e fenomenologiche sviluppatesi in seno all’archeologia anglo-americana e nord-europea hanno risposto e abbracciato il ritorno al materialismo proponendo a livello teorico una svolta simmetrica60. La simmetria è una simmetria eminentemente fenomenologica, legata alle riflessioni di Husserl, ma ancor più di Heidegger. Per l’archeologia simmetrica l’oggetto non esiste al di fuori della sua relazione con il soggetto che l’ha pensato: una brocca non possiede alcuna materialità se non è concepita insieme all’attore che la impugna e la usa.

11.  Tempo e spazio. Il cronotopo ci sembra uno strumento di analisi più denso e forse più adatto alle nuove esigenze

58  Deniels, Cosgrove 1988; sulla genealogia di questa ‘svolta’ si veda Torre et al. 2008. 59  Olwig 2002. 60  Witmore 2019 con bibliografia.

Verhagen 2018. Sherratt 1996. 63  Per riprendere un termine caro a Gaston Bachelard: Bachelard 1977. 61  62 

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L’ideologia degli archeologi ‘spaziali’. Il concetto di contesto, attraverso il quale l’archeologia ha operato e continua a operare ricucendo brillantemente la cosità della cultura materiale con lo spazio storico che l’ha generata e assemblata, e dunque con la temporalità, forse comincia a soffrire di un difetto ‘strutturalista’ nel confrontarsi con l’elefantiasi spaziale e temporale che adesso sta investendo lo studio del paesaggio. Il cronotopo, riprendendo le parole di Bachtin, è “l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente”, è il luogo elettivo in cui “si uniscono in modo singolare le serie spaziali e temporali dei destini e delle vite”, diremmo nella nostra prospettiva, delle società umane, della storia. Nel cronotopo, ovvero nel paesaggio, ha luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e concretezza. Il tempo si fa denso e compatto e diventa fisicamente percepibile. Lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio e della storia. Ancora con le parole di Bachtin “I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura”64. In questo modo la portata semiotica, significante, attraverso cui veicola una certa parte dell’esperienza, assume una forma segnica prodotta nel/con/dal paesaggio stesso. Con buona pace di hegeliani o heideggeriani dell’ultima ora, vogliamo ribadire con forza che l’archeologia e il cronotopo sono tutto fuorché simmetrici. È anzi l’ asimmetria, la differenza, la continuità della discontinuità a caratterizzarli65. 12.  Cronotopi. La negoziazione continua tra presente/ passato, micro/macro, culturale/materiale, crea ma anche oblitera spazi multipli, plurali, significanti che diventano vere e proprie eterotopie66, spazi altri che si trovano però ben radicati intorno a noi e non nel soggetto trascendente. La tensione tra società umana e paesaggio, inteso come suolo reale, materiale, vivo e pulsante, rimane in parte irrisolta. L’archeologia può ambire a essere una delle prassi per accedere alla conoscenza di questo cronotopo. E allora la rifondazione materiale dello spazio e dell’archeologia passa attraverso la saldatura in luoghi ad hoc, nel e del paesaggio, di tempo e spazio. Ricucire la storia materiale significa dotare lo spazio di tempo, posizionarlo e posizionarci in un posto morfologicamente significante. Non si tratta di oltrepassare il post-, riproporre un neo-, rifondere insieme processuale e culturale, ma elettrificare le connessioni materiali e simboliche del cronotopo/paesaggio. Alla rinnovata esigenza materialista che investe questa nostra disciplina alla fine del postmoderno, rigettando il culturalismo semiologico, bisogna comunque rifuggire dalla tentazione di rifondare un progetto modernista iperprocessualista. La portata ontica del paesaggio teorico, fisico, vissuto è una sfida che l’archeologia deve accettare e per cui deve proporre delle soluzioni a livello di prassi. 64  Bachtin1979, pp. 231-232; su questi temi Tagliagambe 1986; Lenzini 2020. 65  Hodder, Lucas 2017; Vanni, Saccoccio, Cambi 2021. 66  Foucault 1984; Fall 2004 per l’uso del concetto di eterotopo in geografia.

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BAR IN TERNATIONA L SE RIE S 3050 ‘This book may prove useful for anyone wishing to deepen their understanding of the main trends of archaeological research. … Considering the lack of cultural openness of much of the archaeological production, the richness of the critical panorama offered by the volume could contribute to de-provincializing the discourses. The implicit proposal of a rediscovered historicism attempts to overcome the great divide between processualism and post-processualism.’ Professor Bruno D’Agostino, Università di Napoli “L’Orientale” (Emeritus)

Il libro si concentra sulle dinamiche che intercorrono tra i diversi approcci epistemologici e teorici in archeologia, all’interno di specifiche tradizioni accademiche e filosofiche. In particolare il discorso affronta quattro temi generali: il problema della teorizzazione della condizione postmoderna, nel suo significato per la storia del pensiero archeologico; la possibilità di percepire i cambiamenti egemonici nel pensiero archeologico attraverso dati empirici raccolti da riviste accademiche, per comprendere le tendenze teoriche più recenti nate nelle archeologie mediterranee e angloamericane; il sorgere di alcuni paradigmi in archeologia nel quadro del tardo postmodernismo, cercando di spiegare più profondamente alcune differenze teoriche nei due ambienti filosofici e accademici; infine il ruolo dell’archeologia classica nell’ambito di questo posizionamento ermeneutico, cercando di indagare anche la questione della tradizione e della funzione etica e civile dell’archeologia nella società contemporanea. This book focuses on the relationship between diverse epistemological and theoretical advances in archaeology within different academic and philosophical traditions.  Edoardo Vanni ha conseguito un dottorato in Medotologia della Ricerca Archeologica ed è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Siena. Tra i suoi temi di ricerca la teoria archeologica, le trasformazioni del paesaggio antico in particolare i sistemi agro-pastorali in Italia tra età romana e medioevo. Edoardo Vanni holds a PhD in Archaeological Method and Theory. At present he holds a post-doctoral fellowship at the University of Siena. His areas of interest include archaeological method and theory, ancient landscape, salt production and pastoralism in Italy. He is the co-director and field supervisor of several archaeological projects, covering various periods and themes.

Printed in England