L’etica oltre l’evento 9788874627387


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L’etica oltre l’evento
 9788874627387

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Discipline filosofiche

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Mariapaola Fimiani L’etica oltre l’evento

Quodlibet

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Prima edizione: settembre 2015 © 2015 Quodlibet srl Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) isbn 978-88-7462-738-7 Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione (DISUFF) dell’Università di Salerno. Discipline filosofiche Collana diretta da Stefano Besoli Comitato scientifico: Pedro Manuel dos Santos Alves (Universidade de Lisboa), Vincenzo Costa (Università degli Studi del Molise), Fabrizio Desideri (Università di Firenze), Massimo Ferrari (Università di Torino), Elio Franzini (Università degli Studi di Milano), Douglas Hofstadter (Indiana University), Luca Illetterati (Università di Padova), Roberta Lanfredini (Università di Firenze), Eugenio Mazzarella (Università Federico II di Napoli), Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari di Venezia), Dominique Pradelle (Université Paris-Sorbonne), Frédéric Worms (École normale supérieure – ENS, Paris) I volumi pubblicati nella collana sono stati sottoposti a procedura di peer-review

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Indice



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Prefazione

11

1. Una sintesi contrastiva

31

2. L’umano in sonno

47

3. Genealogia e ascesi

61

4. La cognizione della vita

85

5. La follia. Per una logica dell’ossimoro

99

6. Il dono e il terzo

117

7. Lo spazio minimo e il miracolo

137

8. Per un dualismo bizzarro

149

Indice dei nomi

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Prefazione

La questione del «dualismo bizzarro», che nell’espressione di Deleuze propone la domanda sulla stranezza misteriosa dell’essere due, conclude il volume. In realtà ne riepiloga la continuità, ne ripete una linea che lo inizia e lo attraversa. Qual è il codice della «bizzarria» nel modo di intendere il due? Perché può ritenersi centrale, per la custodia di questo dualismo, il pensiero di Kant? Qual è il senso differenziato del trascendentale? Come accade lo spostamento dalla dualità alla molteplicità? Qual è il valore della dispersione nella vita e nella follia? E che cosa lega la malattia e il morboso al duale? Ancora, a quali condizioni la «cosalità» è luogo del dualismo? E infine, perché la singolarità, per conservare il due, deve farsi lavoro di un’arte? Le risposte a queste domande tracciano una sequenza testuale, anche discontinua nei temi, ma omogenea nella ripetizione del nocciolo teorico che la ricompone, la «bizzarria» del legame duale. Altrettanto omogeneo è l’uso, palese o nascosto, di quello speciale neo-kantismo riconoscibile nel pensiero di Foucault. Che cos’è la verità o che cosa significa pensare resta, in realtà, l’interrogativo primario che impone di chiarire preliminarmente il carattere duale del nesso tra il dato e il concetto, tra recettività e spontaneità. La fondazione kantiana di una «finitudine costituente», che ha segnato l’apertura della modernità, prova a sottrarre l’umano alle due versioni riduttive del legame tra l’empirico e il razionale, all’idea di un «infinito costituente» che riduce il dato al concetto e a quella di una «finitudine costituita» che assimila il concetto al dato: l’infinito costituente si associa al dogmatismo razionale, la finitudine costituita, al contrario, scioglie nell’evidenza empirica

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prefazione

ogni componente riflessiva. La finitudine costituente riassume, in Kant, la dualità irriducibile dello schematismo immaginativo. L’immaginazione produce lo schema come luogo di una sintesi tra dato e concetto, dove la sintesi dice, dei termini del due, una omogeneità al tempo stesso reale e impossibile. L’empirico e il concettuale sono in senso proprio un essere duale, solo perché il due indica una componibilità incomponibile, l’unità dissociata, la necessità di un terzo intimo ed estraneo, un legame del nonlegame. Dunque, il terzo del due è solo l’essere indeterminato e impossibile, l’esposizione di una condizione oscura e misteriosa. Se il legame dell’empirico e del trascendentale è, per Kant, nello schematismo dell’immaginazione, la coesistenza del due, questa è l’apertura di ciò che è insieme ma, al tempo stesso, anche separato ed è la condizione che dice lo squilibrio fondamentale dell’umano. Il sapere di un raddoppiamento in forme asimmetriche o di un terzo senza forme fa dell’uomo un essere de-forme. L’inutilità dello schema e l’assimilazione del due coincidono con l’alterazione della finitudine costituente e con la sparizione del pensare. La verità e il sapere sono, infatti, solo la oscurità «bizzarra» del due. È la répétition, la ripetizione in quanto duplicazione, redoublement, a immettere una sincope nella continuità, una sospensione nell’omogeneo, una frattura che coagula, non solo una creazione innovativa ma una trama scomposta. Ripetere è accettare e frantumare il continuo, ed è fare del due un molteplice, del duale uno spazio largo e dissociato, lo spazio di un «archivio», che dice come la bizzarria del duale sia accoglienza, analisi e critica interminabile della complessità plurale. La bizzarria del duale è preparatoria dell’accesso al molteplice, dove il limite non è il vuoto della trasgressione, ma la coscienza oscura e complicata della posizione del pensare in un campo. E saperne lo strato, la trama, è occuparne lo squilibrio. Dunque, se il trascendentale è il punto scompositivo del duale – è l’«altro» dall’empirico –, nella pluralità del campo non può sottrarsi all’essere in posizione, all’essere «altro» perché, al tempo stesso, compositivo e dissociativo, attivazione reale di un movimento nel molteplice. Il trascendentale, per la bizzarria del legame tra i molti, è solo, perciò, una «casella vuota», un nodo

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prefazione

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singolare che muove gli spostamenti plurimi, la composizione scomposta dello spazio e del tempo. Così, per la vita e per la follia, spesso assimilate alla ripetizione fluente dei singolari e alla movimentazione continua del trasgressivo, va ripensato il modo della «scissura originaria», del duale componibile e incomponibile, della scissura non ancora aperta alla «scissura della scissura», alla dissociazione e all’assimilazione dei termini del due. E come per l’umano, oggetto dell’antropologia, così per la vita e per la follia, per la biologia e per la psichiatria, non va smarrita l’«apertura» dell’identità e della disgiunzione, del conoscere e del pensare, della cognizione e della riflessione, dell’analisi e della critica, della scienza e della filosofia. Il «sonno evenemenziale» è il rischio mortale della contemporaneità, quando l’evento, l’événement, «cade in sonno» perché è divenuto prodotto e strumento della cognizione, si è fatto esso stesso oggetto, camuffato e nascosto, delle nuove scienze e si esibisce come dirompenza, innovazione o immediatezza trasgressiva. La sregolatezza non è rivoluzionaria, il limite non è il rifiuto. Va, piuttosto, ripensato il tessuto reale di una speciale esperienza, che è cognitiva e trasformativa, ricognitiva e innovativa, un’esperienza che è il chiasma di una «trama dimostrativa» e di una «trama ascetica». Pensare l’esistenza concreta, allora, non è pensare la vita o pensare la morte, ma è pensare l’esistenza spossata o il piegamento reale di una pulsione, la condizione contenuta e plurima della singolarità sottratta alla differenziazione pura e alla dispersione dirompente. Pensare la piega è esperienza della «clinica», paradigma dell’«archeologia del sapere». Non è il Vitale né il Mortale, ma è il Morboso, che, in quanto passaggio tra i due, esprime e rafforza, come l’«archivio», la «bizzaria» del molteplice e ne fa il mistero di una tessitura. Non è la potenza di una forza né il limite della pura assenza, non è l’affermazione né la negazione, ma è la forza dismessa, la potenza contenuta da una complessità che la frena, a produrre il corso delle cose. La cosa non è l’oggetto di un soggetto, la proiezione di un potere illimitato, ma solo un campo mobile o la tensione attiva di forza e ambiente, energia e contesto. È una trama che s’incontra e non si assimila. È lo spazio della imprevedibilità dell’agire.

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prefazione

La cosa non è la corrente dell’evento, la pura fluenza evenemenziale. Non è l’evento che accade, che è là, il suo venire a noi e l’imporsi di una parvenza. Non è l’evento-immagine che assorbe nell’inganno visionario l’attesa di uno spettatore passivo destinato all’«anedonia». La cosa è l’evento e l’evento è l’intreccio di un accadere plurale, esposto ad un’azione e ad un’arte. Aperta alla «freccia nel presente» la dispersione archeo-genealogica dell’archivio è la pluralità del due, sospesa a un terzo oscuro e misterioso, all’attivazione del trascendentale, casella vuota o lavoro di un’arte, al tempo stesso, creativa, disgiuntiva o contrastiva. Pensare è, dunque, accogliere la complessità della cosa e attivarne la mobilità col doppio gesto dell’analisi archivistica e dello strappo del lavoro di un’arte.

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1. Una sintesi contrastiva

1. Un doppio cerchio disegna l’immagine della modernità. Due opposte direzioni curve la descrivono, quella del movimento della filosofia verso i saperi positivi e l’altra, parallela e contraria, dei saperi a loro volta consegnati alla critica riflessiva. La teoria e il dato si legano in quell’avvio del novum che è, appunto, il moderno. La domanda sul nesso tra filosofia e scienze può considerarsi, da questa prospettiva, la domanda sul senso stesso della modernità. Che cosa mantiene la solidità e lo spessore del cerchio e che cosa minaccia di spezzarlo, svuotandone la fragile e difficile continuità, in due archi paralleli, simmetrici e speculari nell’esito finale? Che cosa può salvare della modernità quel modo, quell’ora, quella frattura del presente che distacca definitivamente il moderno dal racconto metafisico classico? Con la nascita delle scienze umane la riflessione sul cogito si piega a una speciale analitica della finitudine. Il pensiero non può evitare di riconoscersi nell’apertura a una irriducibile «cavità predisposta» – diceva Foucault in Les mots et les choses a proposito della nascita del moderno1 –, affidandosi, perciò, ai risultati positivi, concreti e variabili dei saperi dell’uomo, e insieme sottraendosi ad essi nell’esercizio della funzione critica e riflessiva. Non c’è dubbio che la nascita e lo sviluppo delle scienze umane hanno consumato l’idea di una quadrettatura spontanea delle cose2, di un mondo come «reticolo incolore»3, di un ordine co1

M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it., Rizzoli, Milano 1967, p. 337. Ivi, p. 328. 3 Ivi, p. 335. 2

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l’etica oltre l’evento

stante e predisposto, e hanno, così, archiviato la vera metafisica dell’essere. Le procedure specifiche di conoscenza della vita, del lavoro, del linguaggio dell’uomo – la biologia, l’economia, la linguistica – aprono una interrogazione speciale – aggiungeva Foucault –, quella sull’«essere tale che in esso verrà acquistata conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza»4. L’uomo è per i saperi speciali oggetto di conoscenza, ma resta, insieme, soggetto che conosce: accade, con le scienze umane, che «i contenuti empirici della conoscenza liberano […] le condizioni che li resero possibili»5. La figura dell’uomo è, così, una «figura paradossale», è «sovrano sottomesso» e «spettatore guardato»6. È un potere di rappresentare che, al tempo stesso, si insedia in un «ingombro empirico»7 che ne è la «irriducibile anteriorità»8. L’umano è quella singolare simmetria dissimmetrica che trattiene insieme la sintesi e il limite e che costituisce l’affaire antropologico-critico. Dunque, la riflessione sul cogito non si sottrae all’addensamento dei contenuti finiti dei saperi, non può evitare di contaminare la riflessione filosofica con la pratica della via lunga dei linguaggi, per ripetere l’espressione di Ricoeur9. Ma la direzione opposta, che ridisegna il cerchio del legame tra filosofia e scienze, impone anche che i saperi positivi siano, a loro volta, oggetto della interrogazione critica e della elaborazione teorica, dove la filosofia, sottraendosi alla pura positività dei dati, indica le condizioni di validità e di apparizione, pratica il limite e la negazione. Così, il doppio movimento circolare di co-appartenenza del filosofico e del cognitivo esige una congiunzione e una disgiunzione, un reciproco affidamento e una comune legittimazione. Fra le due grandi guerre, a partire dagli anni Venti e Trenta del Novecento, il consumo delle tavole di valori, dei grandi sistemi e dei principi astratti affida a un piano di concretezza, e 4

Ivi, p. 343. Ivi, p. 347. 6 Ivi, pp. 336-337. 7 Ivi, p. 347. 8 Ivi, p. 338. 9 P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, trad. it., pref. di A. Rigobello, Jaca Book, Milano 1977, p. 24. 5

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1. una sintesi contrastiva

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dunque alle ricerche delle scienze umane, la risposta a una «crisi di civiltà». Al tempo stesso, la riflessione filosofica s’impegna in un forte esame critico di ciò che denuncia come obiettivismo e riduzionismo scientifico. Così il dibattito sulle scienze segnala il rischio di inversione dell’empirico e del positivo nell’astrazione di costanti identitarie, nell’analiticità neutra di un sapere che occulta la conservazione e il dominio. I risultati scientifici prosciugano il movimento vitale – dialettico, dicevano i francofortesi – della cosa stessa. La pura osservatività dell’oggetto non può sottrarsi alla forza dell’«interpretazione filosofica»10 o dell’«interpretazione impropria»11: la potenza della teoria è chiamata a contrastare l’indurimento dell’«essenziale» in ciò che è divenuto, sottraendosi all’esercizio di quel pensiero astratto che è, diceva Horkheimer, «la specifica miseria del presente»12. La Crisi delle scienze europee di Husserl, che rinvia l’apertura fondamentale di ogni forma di razionalizzazione alle cosiddette «operazioni intenzionali costituenti», resterà, nel corso del secolo, un riferimento centrale della critica ai saperi positivi e alla condivisione di una «ovvietà dello scienziato», a una pratica spontanea della scienza, incapace di mettere in problema il senso, le origini, il destino della propria concettualizzazione. La Krisis husserliana costituisce il primo forte bilancio di una cultura in crisi, di un tempo di incertezze e di fallimenti che vedeva coincidere la delusione e lo smarrimento per la caduta dei grandi principi e delle teorie dell’assoluto con una generalizzata disposizione alle filosofie dell’irrazionale e dell’ineffabile. La causa del fallimento di una cultura razionale – commentava Husserl nel testo del 1935 – non sta nel razionalismo in quanto tale, ma «nel suo decadere a “naturalismo” e a “obiettivismo”»13. Interrogare 10 J. Habermas, Antropologia, trad. it. in Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli Fischer 14, a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano 1966, p. 20. 11 Th. W. Adorno, Introduzione a Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di H. Maus e F. Fürstenberg, trad. it., Einaudi, Torino 1972, p. 48. 12 M. Horkheimer, Considerazioni sull’antropologia filosofica, in Id., Teoria critica. Scritti 1932-1941 (I), a cura di A. Schmidt, trad. it., Einaudi, Torino 1974, pp. 197-201. 13 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di W. Biemel, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1961, p. 358.

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l’etica oltre l’evento

la scientificità della scienza è il compito proprio della teoresi filosofica, laddove il «positivismo decapita per così dire la filosofia»14. Il compito della filosofia non è, allora, semplicemente un compito di esplicitazione delle diverse modalità di metodo e di procedura nel complessivo processo di oggettivazione indicato dalle scienze, ma consiste nell’assumere una distanza critica capace di segnalare l’eccedenza e lo scarto tra ciò che è, che il sapere scientifico riordina e rende presente, e ciò che ad esso non è riducibile e che forse lo fonda e lo orienta. In altri termini, conclude Husserl, l’atteggiamento teoretico alimenta una «prassi di genere nuovo»: una critica «di qualsiasi vita e di qualsiasi fine della vita, di tutte le formazioni culturali e di tutti i sistemi culturali che già sono sorti nel corso della vita dell’umanità e dei valori che li reggono espressamente o implicitamente»15. La critica non si fa ostacolo e opposizione alla scienza, ma segnala il rischio della contrazione della complessità reale, dell’essere e del pensare, il rischio della riduzione alle oggettività costruite e prodotte dai sistemi di conoscenza, dai regimi di verità, sia pure metodicamente e storicamente variabili. La critica interdice l’assimilazione della teoria al dato, della verità alla osservabilità e ideazione del fatto. La congiunzione-disgiunzione di verità e metodo, di teoresi e cognizione, rinvia, così, alla congiunzione-disgiunzione della filosofia e della logica, dell’ontologia e dell’epistemologia, della comprensione dell’Essere e dell’analisi dei linguaggi razionali. È opportuno aggiungere una riflessione. La domanda filosofica sull’Essere si è imposta al punto di massima evoluzione e, al tempo stesso, di massima insufficienza delle procedure razionali acquisite, con l’effetto di sospendere di queste il primato, l’unità, l’orientamento e l’uso. E questa domanda è spesso pervenuta a un doppio ordine di convinzione, che ci siano, cioè, una comprensione originaria dell’Essere e una comprensione derivata dei linguaggi e, dunque, che una ontologia fondamentale sia all’origine della legittimità e delle modalità delle scienze degli enti. Ogni linguaggio razionale risulta, così, definito nella sua collocazione, funzione e campo di dipendenza dalla preliminare 14 15

Ivi, pp. 37-39. Ivi, p. 341.

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1. una sintesi contrastiva

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soluzione della questione dell’Essere. E, più in generale, la complessiva concezione della scienza trova la sua misura nell’idea dell’Essere che ne è a fondamento. La visione apocalittica della tecnica – la tecnica intesa come processo anonimo e incontrollabile di riduzione calcolistica e strumentale – è, forse, l’esito più radicale dell’idea, diffusa in larga parte del pensiero filosofico novecentesco, che la violenza sia in prima istanza una violenza logica, una violenza impositiva dei sistemi di oggettivazione e di razionalizzazione, e che questa violenza sia effetto di una dimenticanza essenziale, non tanto delle «operazioni costituenti» e del «mondo della vita», come voleva Husserl, quanto dell’Essere inassimilabile all’ente e al sistema degli enti, una dimenticanza denunciata nell’oblio dell’Essere dall’ontologia heideggeriana. Bisognerebbe ricordare il discorso di Heidegger sull’essenza della tecnica moderna e sul suo carattere dispositivo, su quel sapere che «dispone» – che accumula per disporne – l’ente ricondotto all’oggettività rappresentabile, a ciò che «sta innanzi», perché un subjectum, o, cartesianamente, la «certezza del rappresentare» – dicono gli Holzwege – ne è il fundamentum inconcussum veritatis16. L’essenza della modernità è la scienza moderna che fa tutt’uno con l’essenza della metafisica moderna. E la scienza è conoscenza di ciò che si apprende in anticipo – di ta matemata17, dalla radice del verbo mantano, che vuol dire imparo a memoria, riconosco –, perché la scienza è rappresentazione del mutevole e, insieme, è il «portarlo a stabilità», è il porre la costanza e la regola del mutamento; ed è la certezza del cogito – della sovranità della ragione che esclude il suo contrario –, è la «certezza del rappresentare» che fa del «rappresentato» un mondo ridotto alla sua «immagine» o alla sua «fissità», perché sia disponibile per l’uomo calcolante. «L’ente nel suo insieme», dunque, «è perciò visto», continua Heidegger, «in modo tale che diviene ente soltanto in quanto è posto dall’uomo che rappresenta e produce»18. Al contrario, nel mondo greco, – e in ciò consiste la sua grandezza 16 M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it., presentazione e traduzione di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 94. 17 Ivi, p. 74. 18 Ivi, pp. 87-88.

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l’etica oltre l’evento

– l’«ente non diviene essente per il fatto che l’uomo lo intuisca nel corso della rappresentazione intesa come percezione soggettiva. È piuttosto l’uomo ad esser guardato dall’ente […] compreso e mantenuto nell’aperto dell’ente, sorretto da esso, coinvolto nei suoi contrasti e segnato dal suo dissidio»19. Restituire l’ente all’ «aperto» dell’Essere significa, rammemorando l’Essere, cogliere quella verità che, come vuole l’etimo greco di aletheia, si mostra nascondendosi, si presenta e si ritrae20. Per questo il tempo della scienza e della tecnica si accompagna all’«oblio dell’Essere» cui Heidegger oppone l’Andenken, il rammemorare, come «pensiero meditante» e «parola poetica»21. La verticalità della differenza apre una differenza ontologica che fa dello scarto tra l’Essere e l’ente l’autentico spazio della Verità, laddove il «fondo» della tecnica induce all’oblio e a quel pericolo supremo che è l’oblio dell’oblio, alla stessa dimenticanza della dimenticanza della differenza ontologica22. L’Essere è, dunque, in principio e si nasconde in quel segretum che spinge il sapere a percorrere la via dell’interpretazione interminabile e a replicare la poeticità originaria del linguaggio. L’ente in quanto singolare, nell’apertura dell’Essere, è solo il singolare come punto esclusivo di accoglienza dell’invisibile o, anche, come attimo di rivelazione e di salvezza, in coerenza con una visione nichilistico-estetizzante o messianica del reale. La sottrazione dell’Essere e della sua comprensione allo stato di un principio originario, indicibile e assente, che oscilla tra una fonte energetica e un deus absconditus, può, dunque, essere soltanto garantita dalla mescolanza con la forma dei saperi, con la scelta, come si diceva, di quella concomitante via lunga dei linguaggi che decide della storicità e della dicibilità dell’Essere, senza per ciò assimilarlo alle procedure razionali. Il fatto che lo stesso lavoro di produzione e scomposizione dei concetti scientifici penetri nella regione dell’Essere e concorra al ripensamento dell’Essere consegnato così alla sua finitudine, attivando la circolarità dell’ontologia e della logica, dà conto degli 19

Ivi, pp. 89-90. M. Heidegger, Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Torino 1976, p. 9. 21 Ivi, pp. 25-27. 22 Ivi, pp. 20-21. 20

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effetti talora translinguistici e filosofici di alcune scienze speciali: basti pensare alla psicoanalisi, alla linguistica, all’etnologia, come quei saperi che non si sono limitati a produrre nuovi oggetti di conoscenza, ma che hanno sollecitato ed esemplarmente praticato nuovi modi di pensare23. Dunque, un corretto rapporto tra filosofia e scienze esige che permanga tra i termini dei percorsi circolari invertiti – come si diceva all’avvio del discorso – una oscillazione inarrestata, un dislocamento ininterrotto, per ciascun cerchio, tra l’idea e il fatto, tra la teoria e il dato, tra la forza e la forma, tra il trascendentale e l’empirico, tra il pensare e il conoscere o tra il filosofico e il cognitivo. Solo questa oscillazione consuma l’identità della scienza e l’identità di un fondamento incondizionato. 2. Il legame filosofia-scienze occupa, dunque, lo spazio dell’umano – oggetto e soggetto di conoscenza –, che può dirsi, così, come nell’espressione foucaultiana, un allotropo empirico-trascendentale24, dove il dato e la teoria si uniscono e al tempo stesso si contrastano. Il termine «allotropia» traduce il francese doublet. Trasferisce, cioè, in un più addensato composto di forme diverse l’essenziale lemma le doublet, che vuol dire il raddoppio, il duplicato, la ripetizione. È, infatti, la répétition – termine, com’è noto, carico di sfumature teoriche nel contesto della novecentesca filosofia della differenza – che segnala il reciproco piegarsi del trascendentale nell’empirico e dell’empirico nel trascendentale. Ed è la répétition – mi riferisco ai commenti foucaultiani del testo del ’61, a lungo inedito, l’Introduction à l’Anthropologie de Kant25 – ad assumere variazioni di senso nell’intreccio kantiano di antropologia e critica. 23 In tal senso Foucault parlava di una «sovraelevazione trascendentale» delle scienze umane (Le parole e le cose, cit., p. 390). 24 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 343. 25 Oggi edito in premessa all’edizione francese della kantiana Anthropologie in pragmatischer Hinsicht: E. Kant, Anthropologie d’un point de vue pragmatique, précedé de Michel Foucault, Introduction à l’Anthropologie, Présentation par D. Defert, Fr. Ewald, F. Gros, Librarie Philosophique J. Vrin, Paris 2008 (trad. it., M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, trad. di M. Bertani e G. Garelli, Einaudi, Torino 2010).

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La répétition esprime il senso di una ripetizione differente, di uno spostamento dell’altro nell’altro, di un movimento che conserva del due un legame, per dirla con Deleuze, di «sintesi disgiuntiva»26, un nesso che unisce ma, al tempo stesso, sposta e rinnova, «uno spazio in cui si distribuisce la differenza», lo spostamento e il travestimento «nella ripetizione». E ancora: «il teatro della ripetizione si oppone al teatro della rappresentazione, come il movimento si oppone al concetto». Perciò il ripetuto è sempre il «messo in atto invece d’essere conosciuto»27. Ma la répétition può smarrire il senso della disgiunzione nella sintesi del due e prosciugarsi nel puro raddoppio dell’identico, nell’assimilazione del due nell’uno. Ed è proprio il differente significato della ripetizione, quello che smarrisce lo spostamento irriducibile a vantaggio di una congiunzione identitaria dei «ripetuti», che può farci intendere le ragioni per le quali la figura, prima richiamata, del doppio cerchio descritto dal legame filosofia-scienze si spezza in un due archi, così divisi e, al tempo stesso, assimilati dalla assoluta specularità residuale della frattura. In altri termini, se della congiunzione antropologico-critica non si preserva insieme la separazione, è inevitabile che prevalga, per l’antropologia e per la critica, come ai due lati di uno specchio, una «natura della natura umana» o «una verità della verità». Ed è inevitabile – dicevano le conclusioni de Les motes et les choses – che il sonno dogmatico si prolunghi in quella narcosi del pensare nelle scienze dell’uomo che è il sonno antropologico28. Ma riassumiamo i passaggi. La répétition anthropologico-critique non intende, nel kantismo, subordinare la ricerca positiva sull’uomo alla purezza del trascendentale. Intende piuttosto attivare un movimento dinamico tra il trascendentale e l’empirico che sia coerente con la sequenza delle quattro domande della Logik (alle tre domande critiche segue la Was ist der Mensch?) 26 Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, trad. it., Feltrinelli, Milano 1975, p. 49 (il corsivo è mio); cfr. anche G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, traduzione e introduzione di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 82. 27 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it., Introduzione di M. Foucault, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 24, 31 (il corsivo è mio). 28 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 367.

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indicative di una indissociabilità, nel doppio lavoro circolare, del trascendentale e dell’empirico29. Secondo questa tesi, la intenzione dell’Antropologia kantiana non è tanto nel misurarsi ai risultati della Critica (e magari misurare il rischio delle Facoltà di sottoporsi all’illusione e all’errore) quanto nel provare a produrre uno speciale raddoppiarsi nella Critica, esserne appunto una répétition – la répétition anthropologico-critique –, esserne un raddoppiamento, le redoublement, che mantiene una «simmetria dissimmetrica della sintesi e del limite», dove la ripetizione resta l’apparizione simultanea del Duplicato (Double)30, la congiunzione disgiunta del duplicato, la sua, deleuzianamente, sintesi disgiuntiva. Sicché, la posizione della kantiana Anthropologie nei confronti della elaborazione delle Critiche va esaminata sia da un punto di vista strutturale che genetico. Se il discorso antropologico è, cioè, strutturalmente indissociabile dal lavoro critico, non è irrilevante riconoscere come la stesura dell’Anthropologie sia maturata lungo un tratto temporale che va dagli scritti precritici all’Opus Postumum. L’attenzione antropologica accompagna l’intero percorso kantiano, seppure con una sequenza difficile, a strati, con l’accumulo di manoscritti, annotazioni, versioni differenti, che hanno incalzato la maturazione della critica trascendentale. Dunque, un’immagine concreta dell’uomo ha conservato un «coefficiente di stabilità» al fondo dell’impresa critica di Kant, così come quest’ultima ha segretamente sostenuto, con una «finalità oscura e ostinata», la ricerca antropologica31. Solo una «falsa antropologia», sostiene Foucault, tradisce la congiunzione disgiunta dell’elemento critico e dell’elemento antropologico, della teoria e del dato, del teorico e del cognitivo. Non c’è dubbio che alla Critica, la quale perviene a ciò che è condizionante dell’attività fondatrice, l’Antropologia risponde con l’inventario di ciò che vi mostra il non-fondato e il condizionato. Laddove la «falsa Antropologia» – si legge nell’Introduction – fa scivolare «verso un cominciamento, verso un arcaismo 29 Le quattro domande della Logik sono riprese sia nell’Introduzione (cit., pp. 54-55) che ne Le parole e le cose (cit., p. 366). 30 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 365. 31 M. Foucault, Introduzione, cit., p. 11.

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l’etica oltre l’evento

di fatto o di diritto, le strutture dell’apriori, l’Antropologia di Kant ci dà un’altra lezione: ripetere l’apriori della Critica […] in una dimensione veramente temporale»32. La répétition anthropologico-critique lascia, dunque, del kantismo l’eredità di una ingiunzione: per la simmetria dissimmetrica dei due contrari, dell’empirico e del trascendentale, va mantenuta la «separazione», per evitare la «confusione»33. L’«apparizione simultanea del Duplicato» non può far dimenticare lo «scarto infimo ma invincibile, contenuto nell’“e” dell’arretramento e del ritorno, del pensiero e dell’impensato, dell’empirico e del trascendentale, di ciò che è dell’ordine della positività e di ciò che è dell’ordine dei fondamenti»34. Ma va aggiunto che la potenza separante dell’e è tutta nella ingiunzione a mantenere il valore contrastivo nella unione degli opposti, i quali non si immedesimano con l’effetto identitario dell’«illusione antropologica» e dell’«illusione trascendentale»35, secondo una logica analitica, e non attendono l’elemento terzo della sintesi, secondo una logica dialettica. Dopo Kant e fino a Nietzsche si è dato un rapporto di dissociazione e, al tempo stesso, di immedesimazione tra filosofia e scienze – la frattura del cerchio in due archi spezzati speculari, come si diceva –, che ha prodotto, appunto, il tradimento della ingiunzione kantiana. Accade che la «duplicazione empiricotrascendentale» smarrisce la potenza e la complessità dell’e che raddoppia, del doublet originario, dell’allotropia, praticando la répétition o il redoublement come effettiva «confusione», come sovrapposizione e assimilazione dei due poli della congiunzione. Così, «la funzione trascendentale» – è il commento conclusivo de Les mots et les choses – «copre col proprio imperioso reticolo lo spazio inerte e grigio dell’empiricità: inversamente i contenuti empirici si animano, si sollevano a poco a poco, si drizzano, e vengono immediatamente sussunti in un discorso che ne allontana la presunzione trascendentale». Accade, così, un ritorno all’ingenuità precritica, che fa valere solo il «discorso vero», livellando l’empirico e il trascendentale. Con la questione della 32

Ivi, p. 69. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 366 (il corsivo è mio). 34 Ivi, p. 365. 35 M. Foucault, Introduzione, cit., pp. 92-93. 33

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«natura umana», che è divenuta «natura della natura» cui corrisponde una «verità della verità», le scienze dell’uomo si fanno carico di un nuovo progetto metafisico. O, piuttosto, sono in realtà gli stessi agenti che lo producono e lo rafforzano. La filosofia si assopisce «d’un sonno nuovo; non più quello Dogmatico, ma quello dell’Antropologia»36. Certamente il passaggio dal sonno dogmatico al sonno antropologico è la replica della metafisica nell’antropologia, ma è anche e soprattutto lo spostamento dall’accettazione passiva di presupposte identità al riconoscimento di identità prodotte dal conoscere, è il passaggio dalla replica di una «quadrettatura spontanea delle cose» nell’età classica all’assimilazione del pensare ai risultati dei saperi nell’età moderna. Da questa osservazione è opportuno riflettere su un effetto non secondario. Per le profonde trasformazioni delle procedure scientifiche contemporanee, è legittimo pensare che l’evento, le pur événement, sia esso stesso, come le costanti che ha combattuto, effetto di una pura cognizione e condivida, perciò, il cadere in sonno del teorico e del filosofico. Si pensi alla biologia molecolare, alle neuroscienze, ai nuovi modelli della fisica e della termodinamica, per non dire delle neotecnologie e delle scienze della comunicazione e dell’informazione, di tutti i codici che occupano la tessitura dell’esistenza, ricondotta, come si è detto per la vita post-umana, al «soggetto ibridato», al campo di una «cartografia personalizzata» di «saperi situati», al cyborg come cifra del vivente37. Così, la svolta evenemenziale dei saperi può, oggi, suggerire che il problema dell’assopirsi del pensare, e dell’esposizione al controllo del conosciuto che tale assopirsi comporta, non riguardi soltanto la dimensione dell’ordine e della norma, ma anche quella del disordine e della fluenza. In tal caso, ancor più il problema della disgiunzione fra i termini non può riguardare lo spostamento differenziale contro il persistere della costante e della legge. Deve, piuttosto, investire il tipo di rapporto che lega e separa il teorico e il cognitivo, la riflessione filosofia e il sapere scientifico. 36

M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 366-367. D.J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, trad. it., introd. di R. Braidotti, Feltrinelli, Milano 1995. 37

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l’etica oltre l’evento

Il carattere evenemenziale della nuova cognizione e degli esiti recenti delle scienze umane legittima le analisi microfisiche dei sistemi di verità e dei sistemi di potere. Dà conto delle tesi sulla «governamentalità»38 e sulla biopolitica, che denunciano l’effetto strategico di un controllo e di una disposizione totale del singolare e dell’irrepetibile. Sposta i termini della manipolazione e dell’occupazione dei poteri dal piano della legge, della norma e della sovranità, al piano di processi invasivi e solo apparentemente anonimi e neutrali, infiltrati nella liquidità degli eventi sostanzialmente per distruggerli. La punta estrema della singolarità non è, così, sottratta alla figura dell’assoggettamento, che penetra, oggi, il «corpo stesso del divenire»39. La frammentazione cognitiva consente di dire che il potere è produttivo e reticolare, pervasivo fino ai punti minimi, invisibile e nascosto, «attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche»40. Resta un dubbio a inquietare l’apparire nelle scienze dell’uomo di una ontologia della frammentazione. È vero, dirà Foucault, che le scienze umane sono state «continuamente animate da una sorta di mobilità trascendentale» e non hanno cessato «di esercitare nei propri riguardi un recupero critico». Ma quanto, ci si chiede, quel sapere differenziale, annunciato nell’«ontologia dell’annullamento degli esseri» che domina da lontano l’«avvenire della biologia»41 e che non intende «fondare il fenomeno» ma «dissiparlo e distruggerlo», vale anche come 38 Il concetto di «governamentalità» è introdotto e discusso da Foucault nei Corsi al Collège de France rimasti a lungo inediti (cfr. Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Edition établie sous la direction de F. Ewald et A. Fontana par M. Senellart, Gallimard-Seuil, Paris 2004; trad. it., Feltrinelli, Milano 2004; Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France. 1978-1979, Edition établie sous la direction de F. Ewald et A. Fontana par M. Senellart, Gallimard-Seuil, Paris 2004; trad. it., Feltrinelli, Milano 2005). La governamentalità definisce il campo strategico delle relazioni di potere nella loro assoluta mobilità e reversibilità. È la razionalità immanente ai micropoteri e, per questo, «non ha realtà che non sia evenemenziale», è una «generalità singolare» (cfr. il rinvio ai manoscritti di M. Senellart, Nota del curatore, in Sicurezza, territorio, popolazione, trad. it. cit., pp. 290-291). 39 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 34 (il corsivo è mio). 40 Intervista a Michel Foucault, in Id., Microfisica del potere, cit., p. 16. 41 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 297.

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critica? Quanto questo sapere sollecita il «recupero critico» che è proprio della pratica di un «trascendentale»? E quanto, al contrario, questa forma di positività ha il potere di assimilare a sé «la “filosofia” che le spetta»?42 La filosofia evenemenziale non può tradire lo sforzo di rottura dei saperi contemporanei, ma non può neppure rinunciare allo scarto da questi, a una riflessione sul trascendentale che imponga un esercizio del pensare a distanza da ogni cognizione dell’evento, capace, perciò, non solo di accogliere l’evento ma di portare all’atto il suo divenire. Queste riflessioni ci indicano tre tipologie o tre significati per il termine répétition. Un primo tipo di ripetizione indica la pura duplicazione, il raddoppio che restituisce una copia, che rafforza la specularità e l’identità della teoria e del dato. Un secondo tipo riprende della répétition il senso deleuziano della pura fluenza, di una ripetizione differente, la imprevedibilità nel ripetuto di uno strappo singolare, lo stato di una affermatività multipla. Un terzo tipo di ripetizione assume, insieme alla congiunzione e alla sintesi, l’elemento contrastivo più che quello disgiuntivo. Tra la teoria e il dato, tra la filosofia e le scienze, si dà un rapporto che, nel rifiutare l’assimilazione, privilegia il contrasto più che la semplice disgiunzione, dal momento che ciascun termine della polarità non è solo differente dall’altro, ma è in posizione di negatività e di opposizione, sia pure di una opposizione ossimorica e non dialettica. Secondo la terza tipologia della ripetizione è possibile, infatti, pensare al prevalere, per la répétition anthropologico-critique, di una logica dell’ossimoro, di una logica che sappia, cioè, conoscere la coesistenza contrastiva di elementi indeterminabili, inconfondibili, ma anche oppositivi e non dialettici. 3. Può essere opportuno, infine, fare qualche riflessione su come il legame tra filosofia e scienze – un legame nella sua forma sana e produttiva, quella che, come si diceva, ne segnala una sintesi contrastiva, una unione che vive della sospensione reci42

Ivi, p. 302.

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proca – abbia accompagnato, in particolare nel Novecento, la trasformazione del trascendentale. Una trasformazione segnata da una comune e costante de-soggettivazione. Sia la tradizione filosofica post-fenomenologica che quella post-strutturalista hanno, senza dubbio, consumato, nel corso del Novecento, il teoreticismo di una coscienza sovrana, di un io pensante, di un cogito adatto a legittimare l’apriori formale. In questa direzione – quella del consumo del principio originario astratto – la ricerca di un apriori materiale ha orientato all’attenzione per l’evento, l’irripetibile e il dispersivo, compatibile con una nozione di soggetto privato della sua identificabilità. In tal senso de-soggettivato è assimilato a un movimento incomponibile, anche assegnato, talvolta, a una singolarità impersonale e pre-individuale. Così come lo spostamento dell’analisi alla complessità dei processi anonimi – basti pensare all’apriori storico di Foucault – sembra dissociare definitivamente il trascendentale dal soggettivo. Vorrei ricordare come la ricerca di Aldo Masullo, in particolare in Struttura soggetto prassi, un testo del ’61 (poi riproposto in seconda edizione nel 1994), abbia trovato nella trasformazione del trascendentale il suo nucleo speculativo forte43. Quella di Masullo è un’analisi che muove dalla riflessione sull’apriori materiale, sul fenomeno assoluto della fenomenologia husserliana e posthusserliana (si pensi al consumo del teoreticismo in Sartre e Merleau-Ponty), e che si impegna ad elaborare una nuova nozione di trascendentale associandolo all’attualità del vissuto o al patico, alla paticità. La dottrina del trascendentale trova, così, espressione nella filosofia del patico, che è a sua volta effetto di un complesso confronto con le scienze speciali. Masullo insiste sull’influenza delle ricerche, già in Husserl, di psicologi come Brentano e Stumpf. Ed è la trasformazione strutturale dei linguaggi ad esser centrale per comprendere la trascendentalità del patico e la inversione, con esso, del rapporto 43 A. Masullo, Struttura soggetto prassi, II ed., ESI, Napoli 1994; per gli sviluppi della interrogazione sul trascendentale in una filosofia del patico rinviamo, tra i numerosi testi dell’autore, a Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza, Donzelli Editore, Roma 1995, a Paticità e indifferenza, Il Melangolo, Genova 2003 e al più recente La libertà e le occasioni, Jaca Book, Milano 2011.

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tra la struttura e l’evento, il tutto e la parte. La biologia e la psicologia – pensiamo ai riferimenti alle teorie di Weizsäcker –, così come l’antropologia e la sociologia – e a questo proposito vanno ricordati i confronti significativi con Lévi-Strauss e Marcel Mauss –, sono quei saperi positivi che danno forza, riferimento e sostanza alla tesi del triplo circolo del vivente (movimentopercezione/ organismo-ambiente/ soggetto culturale-mondo storico) o alla densità e alla complessità di un Erlebnis che è adatto ad invertire il rapporto strutturale tra l’insieme e la parte: nel vissuto il singolo si fa condizione dell’insieme e il soggetto, così «de-soggettivato» o privato della sua centralità astratta, si fa improvvisazione strutturante di una prassi reale. Anche in Deleuze il ripensamento del trascendentale muove da una serie di considerazioni sulla linguistica strutturale e sull’uso semiologico del simbolo. Lo strutturalismo, che ha segnato, com’è noto, un’ampia parte dei saperi otto-novecenteschi, dalla biologia alla psicologia e alla psicoanalisi, alla filologia, alla sociologia e all’etno-antropologia, scopre – dice Deleuze in un interessante ma poco letto saggio sullo strutturalismo44 – il terzo regno del simbolo, oltre la vecchia e persistente dissociazione del reale e dell’immaginario o del fatto e dell’ideale, dell’empiria e della teoria. Questo tipo di simbolo si costruisce unitamente ad alcune condizioni rilevanti: 1) l’elemento simbolico di una struttura è un senso che è «necessariamente e unicamente di “posizione”», dal momento che si installa in un «ordine di prossimità», e dunque il senso è sempre il risultato della «combinazione di elementi che non sono di per sé significanti», perché ciascuno è, a sua volta, sempre un effetto e un risultato; 2) il valore significativo del simbolo è, perciò, effetto della catena di significanti o del «sistema di singolarità corrispondente a(i) […] rapporti che traccia lo spazio della struttura»; 3) alla domanda «che cos’è che coesiste nella struttura?», la risposta è: «Tutti gli elementi, i rapporti e valori di rapporti, tutte le singolarità propri del campo considerato. Una tale coesistenza non implica alcuna confusione, alcuna 44 G. Deleuze, Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in F. Châtelet (a cura di), La filosofia del XX secolo, vol. VIII, trad. it., Rizzoli, Milano 1975, pp. 194 sgg. (nelle citazioni che seguono il corsivo è mio); poi G. Deleuze, Lo strutturalismo, trad. it., a cura di S. Paolini, SE, Milano 2001.

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indeterminazione: sono rapporti ed elementi differenziali che coesistono in un tutto perfettamente e completamente determinato»; 4) il simbolo riserva sempre una casella vuota: «L’oggetto=X non si distingue dal suo posto, ma è proprio di questo posto spostarsi continuamente, così come è proprio della casella vuota di saltare di continuo». Sicché, nel simbolo, il senso rinvia a un non-senso che non è tanto «assenza di significato» quanto, piuttosto, «eccesso di significato»45. Per l’uso semiologico del simbolo, questo eccesso di significato non esprime la straordinarietà del mostrarsi dell’essere, ma dà conto dell’istituirsi di un sistema reticolare dove si produce, insieme, la distanza e l’incontro, la penetrazione e la dissimmetria tra l’unità e il molteplice, tra il sistema e l’evento, tra l’ordine e l’invenzione, tra la stabilità e il movimento. I saperi strutturali non replicano né mostrano, ma producono l’identico e il differente, le costanti ripresentative e le espressioni inventive. È proprio il produrre un eccesso di significato a convergere con la pratica del trascendentale, intesa, questa, secondo la critica deleuziana al kantismo, come un esercizio trascendente ed anonimo. La riflessione sul kantismo e sul trascendentalismo, come è esposta in Différence et répétition, apre, infatti, a quello che Deleuze chiama un esercizio disgiunto delle Facoltà. È necessario, dice, che il trascendentale sia «fatto rientrare in un empirismo superiore», che «non può essere indotto dalle forme empiriche ordinarie così come appaiono nelle determinazioni del senso comune»46. Un «ricalco del trascendentale sull’empirico» si limita a replicare la tradizione dogmatica. Per la concordia delle Facoltà nel trascendentalismo kantiano si «ritrova la stessa confusione di innalzare al trascendentale una semplice figura dell’empirico, salvo poi a fare cadere nell’empirico le vere strutture del trascendentale»47. Lo strappo del trascendentale dall’empirico consiste, dunque, nell’assumere l’empirico nella sua dirompenza e nell’esercitare il pensiero come ciò 45 Sul legame tra lo strutturalismo, la casella vuota e l’eccesso di significato si veda di G. Deleuze anche Logica del senso, cit., pp. 69-71. 46 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 232. 47 Ivi, pp. 250-251. Diverso, come diremo (cfr. pp. 143 sgg.), sarà il giudizio su Kant a proposito dello schematismo dell’immaginazione nel corso dell’85 (G. Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault 1985-1986, trad. it., Introd. di M. Guareschi, Ombre Corte, Verona 2014).

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che sospende l’ordine e la forma del senso comune, per «raggiungere l’ennesima potenza come l’elemento del paradosso nell’esercizio trascendente»48. Il tratto trascendente non porta il trascendentale fuori dal mondo, ma dice come «l’esercizio trascendente non va ricalcato sull’esercizio empirico»49. Ad un «empirico superiore» si unisce e si separa un trascendentale che, nell’«esercizio trascendente», si alimenta della disgiunzione e al tempo stesso la produce. Il «campo trascendentale» – dirà Logique du sens – non somiglia «ai campi empirici corrispondenti» e, al tempo stesso, non si confonde «con una profondità indifferenziata». Sottratto alle identità della coscienza e dell’oggetto il trascendentale occupa l’«impersonale» e il «preindividuale» e ha a che fare con la distribuzione nomade di singolarità. La forma impersonale del trascendentale impedisce «di concepire il trascendentale a immagine e somiglianza di ciò che si presume fondi», si sottrae al «circolo vizioso, in base al quale la condizione rinvia al condizionato di cui essa ricalca l’immagine». Il «si differisce da quello della banalità quotidiana», perché è «il si delle singolarità impersonali e preindividuali»50. L’anonimato processuale degli eventi e la loro forza energetica, il potere della casella vuota, non impediscono a Deleuze di pensare nell’esercizio del trascendentale il contributo dell’ «uomo libero», l’attivazione di un soggetto, certamente anch’esso impersonale e pre-individuale, che non lascia all’evento la sua effettuazione «senza operarne, in quanto attore, la contro-effettuazione», senza esserne il commediante o senza fare dell’evento, di ciò che è là, il ripetuto e il recitato51. Uno spostamento verso la processualità anonima e verso un valore di posizione della potenza del trascendentale, in coerenza con la tradizione poststrutturalista, si può leggere anche in Foucault. Il punto di avvio della riflessione foucaultiana, che include l’esame dei sistemi di verità e dei sistemi di potere, è il fare storia, è la storiografia, è la pratica di un sapere positivo che sembra sfuggire a una conversione di carattere strettamente filosofico. 48

G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 229-230 (il corsivo è mio). Ivi, p. 232. 50 G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 96-98. 51 Ivi, pp. 134-136. 49

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La riflessione sulla concretezza dell’umano non può che misurarsi con le procedure del fare storia e, dunque, con l’idea di storia che queste procedure comportano. Il filosofico – come è possibile intendere dall’avvio introduttivo de L’Archéologie du savoir – coincide con la pratica di una storiografia (archeologia, nel lessico dell’autore) che descrive non più una storia globale, ma una storia generale, adatta a registrare non tanto le «serie» (il termine è, com’è noto, di tradizione strutturalista) quanto la complessità e la scomposizione dei «quadri», cioè «tutto lo spazio di una dispersione»52. In realtà l’interrogativo filosofico – o anche la domanda su che cosa faccia di una storia una filosofia, di un lavoro scientifico uno spostamento filosofico – incalza, tuttavia, ai margini delle pratiche dei saperi. Dopo qualche anno dalla pubblicazione dell’Archéologie, in un colloquio con Giulio Preti del 1972, Foucault dichiarava la sua indecisione a condividere la teoria del trascendentale, ma al tempo stesso anche a tener fermo la pura pratica della conoscenza storica. Leggiamo: «Ecco, io non sono kantiano o cartesiano appunto perché rifiuto una identificazione a livello trascendentale fra soggetto e io pensante. Sono convinto che esistano, se non proprio delle strutture, delle regole di funzionamento della conoscenza che sono sorte nel corso della storia e all’interno delle quali si collocano i vari soggetti». Si resta kantiani o husserliani se si accetta l’idea di una coscienza trascendentale costituente, come voleva Preti. «In tutta la mia ricerca», è l’osservazione inequivocabile di Foucault, «io mi sforzo invece di evitare qualsiasi riferimento a questo trascendentale, che sarebbe una condizione di possibilità per qualsiasi conoscenza […] cerco di assumere un distacco sempre maggiore per definire le condizioni e le trasformazioni storiche della nostra conoscenza. Cerco di storicizzare al massimo per lasciare meno spazio possibile al trascendentale. Non posso escludere» – aggiunge – «di trovarmi un giorno di fronte ad un residuo non eliminabile, che sarà il trascendentale»53. In realtà il trascendentale ritorna proprio 52

M. Foucault, L’archeologia del sapere, trad. it., Rizzoli, Milano 1971, pp. 16-17. Cfr. Un dibattito Foucault-Preti, a cura di Michele Dzieduszycki, in «Il Bimestre», sett.-dic. 1972. 53

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1. una sintesi contrastiva

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come residuo, in senso lévi-straussiano. Il residuo è la casella vuota, la differenza spostata, la différence déplacée, inassimilabile al codice della struttura e del sistema. Il trascendentale appare – era apparso (l’Archéologie è del 1969; di apriori concreto parla, in realtà, già la Naissance de la clinique nel 1963) – nella nozione di apriori storico associato all’archivio54. È lo stesso sapere storico a segnalare lo strappo dalla struttura pervenendo al sapere raddoppiato e discontinuo del campo archeologico, che è tale perché apre alla ricerca delle tracce e dei monumenti, delle dispersioni evenemenziali, e che, proprio in questo, accede allo spessore del trascendentale, cioè della condizione dei sistemi di verità e di potere. Qui il trascendentale o l’apriori storico, che apre il doppio strato nel volume dell’archivio, quello terminale e quello preterminale, è adatto a descrivere non tanto o non solo le condizioni di validità, ma anche e soprattutto le condizioni di apparizione degli ordini e dei disordini di un processo. Tutto questo legittima l’uso dell’espressione, in Qu’est-ce que la critique?, di una desoggettivazione della questione filosofica55. L’immissione del trascendentale nel quadro storico comporta in Foucault – va aggiunto – la centralità dell’elemento conflittuale, per il quale la répétition, come si diceva, non è solo creatività e invenzione ma, al tempo stesso e soprattutto, è forza di contrasto. L’archivio, che addensa il doppio strato del terminale e del preterminale56, è un campo di indagine che attiva il conflitto, se l’archeologia è archeo-genealogia o «memoria delle lotte». L’archivio, come campo non solo di enunciati ma soprattutto di forze, agita nietzschianamente gli scontri e le resistenze: la ricerca si fa «ethos filosofico» – come dirà il commento dell’84 alla Beantwortung kantiana57 –, si fa cioè interrogazione di un campo che è dimora e compito, esige quell’attualità del presente, 54

M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 147. M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli editore, Roma 1997, p. 50. 56 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 88-89, pp. 147 sgg. 57 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, trad. it. a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232, 253-261. 55

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l’etica oltre l’evento

quell’attualizzazione del proprio tempo, che è contrasto a ciò che è perché possa essere altrimenti. Il soggetto dell’ethos, chiamato in causa per la svolta trascendentale dell’analisi storica, è, come si è già detto, de-soggettivato, in coerenza con la de-soggettivazione archeo-genealogica del trascendentale. Il soggetto è, infatti, negli anni Ottanta, quel sé preso nella «cura» permanente di se stesso che è un continuo se déprende de soi-même, scompositivo e decostruttivo del principio soggettivo. Come per Deleuze, anche per Foucault la inevitabile presenza del sé nei processi e nel movimento del trascendentale non ne modifica l’anonimato e l’impersonalità, la riduzione evenemenziale. Aggiunge, magari, un chiarimento ulteriore: che la critica o la riflessione trascendentale non è qualcosa che pratica il filosofo in quanto tale, dall’esterno delle determinate forme di sapere, ma è un lavoro che appartiene a ciascuno all’interno del campo delle proprie competenze specifiche. Dunque, la de-soggettivazione, nel senso del definitivo consumo del principio soggettivo identitario e fondante, è un effetto, sia nella formula del patico sia in quella del processo evenemenziale, che accompagna la penetrazione dei saperi nel discorso filosofico e la loro incidenza nella trasformazione del senso stesso del trascendentale, il quale tuttavia non cessa mai di essere di questi saperi la condizione di possibilità e di esistenza.

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2. L’umano in sonno

1. Nel tempo della desoggettivazione, della estroflessione, del flusso evenemenziale, della pervasività degli ipermedia e del sublime tecnologico, il movimento generale della disumanizzazione, si è detto, è «un fatto oramai in via di compimento», ma al tempo stesso il «postumano» sembra essere «una meta ancora troppo lontana per poterla in qualche modo immaginare»1. Ripensare le questioni dell’etica è una disposizione a interrogarsi ancora sull’umano, ma a partire dalla complessità dei problemi che occupano la estenuazione dell’umanismo. Un lungo ponte di problemi può, forse, ricomporre la frattura radicale che ha spesso diviso il moderno e il post-moderno, l’umanismo e la disumanizzazione, l’antropologia e la lacuna o il «vuoto dell’uomo scomparso»: è un ponte che trattiene il complesso delle implicazioni della kantiana répétition anthropologico-critique come è teorizzata da Foucault. Antropologia e critica, per la ingiunzione di Kant, non potevano che, insieme, unirsi e separarsi, aprendo, così, un enigma difficile da sostenere e facile da tradire. L’enigma di Kant – scrive Foucault ai margini di un commento a Cassirer – non vuol dire la sua oscurità, ma la sua ambivalenza. Il kantismo è l’imperativo di una tensione mai risolta, la difesa di un circolo che non vede mai assimilarsi, pur lasciandoli ruotare insieme, il dato e il pensiero, il limite e la validazione del limite, la passività e la spontaneità. È l’apertura doppia di una critica che è, insieme, riflessione sui sistemi di verità e pensiero dell’essere2. 1 M. Costa, La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell’arte nell’epoca delle nuove tecnologie, Costa & Nolan, Milano 2007, p. 41. 2 M. Foucault, Une histoire restée muette, «Quinzaine littéraire», 8, (1966), ora in Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, I, pp. 546-547.

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l’etica oltre l’evento

Lo speciale nesso suggerito da Kant tra antropologia e critica resta, in realtà, il nodo continuo delle analisi foucaultiane, per un lungo trentennio, suggerendo di queste analisi la definizione di «palinsesto» o riscrittura del kantismo3. La Présentation alla nuova edizione della traduzione francese dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht dà notizia, riferendo di un testo manoscritto, di un corso tenuto da Foucault a Lille nel 1952, dal titolo Connaissance de l’homme et reflexion transcendantale4: si discute del problema antropologico da Kant a Nietzsche, limitando il commento alla Logik del 1800, che del kantismo riassume il legame tra il percorso critico e la domanda sull’uomo. Il Was ist der Mensch? chiude, com’è noto, la sequenza delle interrogazioni critiche5. Nel 1954, in Maladie mentale et psychologie, Foucault denuncia lo stato di una «follia alienata» quando questa si fa «malattia mentale»: «la comparsa, nelle forme del sapere, di un homo psychologicus che detiene la verità interiore» e che «ha sostituito il proprio rapporto con la verità, alienandolo nel postulato fondamentale secondo cui è lui stesso la verità della verità», ha sottratto la follia alla sua «struttura globale» e all’«esperienza fondamentale dell’Insensato»6. Ha convertito, cioè, in un oggetto conosciuto e controllabile, in un dato cognitivo, la mobilità conflittuale della scissura o del fronteggiarsi originario di ragione e sragione. Negli stessi anni, il commento a Binswanger condivide la prospettiva di produrre, con l’analitica esistenziale, una tensione irriducibile tra l’analisi dell’essere uomo e le sue condizioni di 3 Cfr. M. Fimiani, Foucault e Kant. Critica clinica etica (1997), II ed. riveduta, Pref. di F. Gros, Ed. Paparo, Napoli 2013, pp. 15-21. Il suggerimento, seppur limitato ai commenti alla domanda sull’Illuminismo, è di J. Davila, An Exegesis on the Text «Was ist Aufklärung?» as an intellectual Testament of M. Foucault, in International Conference «Foucault: The Legacy», N° spécial Q.U.T., Australia, July 1994. 4 Cfr. la Présentation di D. Defert, F. Ewald, F. Gros alla nuova edizione della traduzione foucaultiana di I. Kant, Anthropologie d’un point de vie pragmatique, preceduta dal testo dell’Introduction à l’Anthropologie de Kant di Foucault, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2008; trad. it. cit., pp. 5-8. 5 Le quattro domande della Logik, che, in apertura, segnalano l’incrocio degli interrogativi della critica con il Was ist der Mensch?, sono riprese in Foucault, Introduzione all’Antropologia pragmatica, cit., pp. 54-55, e in Id., Le parole e le cose, cit., p. 366. 6 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, trad. it. a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 1997, pp. 87, 91, 100.

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2. l’umano in sonno

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possibilità. Solo così il «fatto» umano non si limita ad essere il «settore oggettivo di un universo naturale», ma è «il contenuto reale di un’esistenza che si vive e si mette alla prova». Perciò il senso originario dell’antropologia è di non essere né psicologia né filosofia, perché non è né scienza né speculazione, ma solo la loro complicata congiunzione-disgiunzione: è un «andirivieni, dalle forme antropologiche alle condizioni ontologiche dell’esistenza»7. Il tema di una sorta di «verità ontologica» – come ha suggerito Macherey8 – o, nell’espressione foucaultiana, di un «grado zero» della storia, indicato nella scissura originaria – una scissura tradita dalla scissura della scissura o dallo smarrimento della convergenza-divergenza della ragione e della sragione nella espulsione della follia dalla storia e nel dominio razionale del suo divenire –, occupa la Prefazione alla prima edizione della Storia della Follia del 1961, un testo poi omesso nella seconda edizione del 1972. Con la follia non ancora alienata nell’homo psychologicus va richiamata «l’esperienza indifferenziata» della sragione-ragione, «l’esperienza, non ancora scissa, della scissura stessa»9. Nello stesso anno, il 1961, Foucault deposita la thèse complémentaire pour le doctorat (direttore di studi Jean Hyppolite) dal titolo Introduction à l’Anthropologie de Kant10. Lo scritto rimane a lungo inedito per volontà testamentaria. Nel 1964 la traduzione dell’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, proposta da Foucault per suggerimento di Canguilhem, annuncia, in una nota introduttiva, il progetto di un lavoro sui «rapporti tra pensiero critico e riflessione antropologica»11. 7 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, trad. it. a cura di L. Corradini e C. Giussani, SE, Milano 1993, pp. 16-17; il corsivo è mio. 8 P. Macherey, Aux sources de «L’Histoire de la folie»: une rectification et ses limites, «Critique», 471-472, (1986), p. 770. 9 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. a cura di F. Ferrucci, E. Renzi e V. Vezzoli, Rizzoli, Milano 1963, p. 9. 10 Il testo fu giudicato da Hyppolite l’abbozzo di un libro sull’antropologia, più ispirato da Nietzsche che da Kant. Cfr. sull’accoglienza della commissione di dottorato, la cronaca commentata di D. Eribon, Michel Foucault. 1926-1984, Flammarion, Paris 1989, pp. 133 sgg. 11 Cfr. M. Foucault, Notice historique, premessa alla prima edizione francese dell’Anthropologie, Librarie philosophique J. Vrin, Paris 1964, p. 10.

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l’etica oltre l’evento

Il lavoro filologicamente e teoricamente impegnativo dell’Introduction à l’Anthropologie de Kant è certamente il terreno denso di preparazione delle tesi sulla modernità esposte in Les mots et les choses del 1966: la denuncia del «sonno antropologico» moderno, come approfondimento e replica del «sonno dogmatico» pre-moderno, o della classicità, resta saldamente motivata dal tradimento dell’antropologia kantiana e del suo raddoppiamento nella critica, la répétition anthropologicocritique12. È a partire dall’evidenza di questo tradimento che i sistemi di verità si annunciano fortemente legati ai sistemi di potere. Negli anni Settanta e agli inizi del decennio successivo seguono le analisi archeo-genealogiche di questi intrecci e le prospettive di un’attivazione etico-politica dei conflitti. La domanda iniziale non può, dunque, che riguardare il senso foucaultiano della répétition nella sua specifica applicazione al legame tra antropologia e critica. La variazione semantica della «ripetizione», infatti, può dar conto delle opposte implicazioni di una logica che rafforza o che respinge la conversione dell’antropologia nella sua «illusione» e nel suo «sprofondamento»13. In Les mots et les choses l’affaire antropologico-critico trova la sua premessa nella condizione di apertura della modernità, e cioè nella comparsa dell’uomo sulla scena del sapere. La figura dell’uomo non sfugge alle sintesi dei saperi, ma occupa una posizione ambivalente: l’uomo è oggetto di conoscenza e, insieme, soggetto che conosce. Il paradosso umano è, allora, quello di uno speciale doublet, l’«allotropo empiricotrascendentale»14, che immette nel cuore del kantismo – si legge già nell’Introduction – la «simmetria dissimmetrica della sintesi e del limite»15, l’essenziale répétition anthropologico-critique16. 12

M. Foucault, Introduzione, cit., p. 52 e Id., Le parole e le cose, cit., p. 340. Per i diversi significati della «ripetizione antropologica» si veda in particolare B. Han, L’ontologie manquée de Michel Foucault, Edition Jérôme Millon, Grenoble 1998, pp. 38 sgg. 14 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 343. La traduzione italiana converte in «allotropo», composto di forme diverse, il termine francese doublet, raddoppio, duplicato. 15 M. Foucault, Introduzione, p. 76. 16 Ivi, p. 52. 13

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2. l’umano in sonno

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Perché la répétition conservi la difficile tensione irrisolta o la simmetria dissimmetrica dei due concetti che in essa si raddoppiano, l’empirico e il trascendentale – la «ripetizione» è redoublement dell’empirico nel trascendentale e del trascendentale nell’empirico17, è l’apparition simultanée du Double –18, è necessario far uso, oltre la logica dell’identità e della contraddizione dialettica, di una logica adatta a superare anche le ambiguità della pura decostruzione o dell’affermatività multipla. La congiunzione disgiunta delle analisi empiriche e trascendentali, la répétition anthropologico-critique, è imposta dalla «struttura indissociabilmente prima e seconda» dell’esistenza finita, perché l’uomo non è né l’ «uomo natura» né l’uomo «soggetto di pura libertà»19. Solo la répétition che conserva il suo enigma è, dunque, capace di dissuadere da un redoublement, da un doppio, che sovrappone e inverte l’elemento di natura e l’elemento trascendentale, da una répétition per così dire tradita da una domanda sull’uomo contratta nell’assimilazione dell’«illusione antropologica» e dell’«illusione trascendentale», perché impegnata a perseguire l’obiettivo di una «natura della natura umana» e di una «verità della verità»20. Tra Kant e Nietzsche accade che la «duplicazione empiricotrascendentale» tradisce il doublet originario, ignorando la irriducibilità e praticando la répétition come «confusione» dei due poli della congiunzione. 2. Dunque, il sonno dell’umano non è altro dallo stato di un’assoluta simmetria del pensare con la pratica scientifica e dall’accettazione di una esclusiva verità dei contenuti della cognizione, con la simultanea rinuncia ad ogni esercizio dissimmetrico della pratica teorica e filosofica. Il sonno antropologico è, da questa prospettiva, la quiete della teoria e della filosofia, rimasta muta nei saperi e nei loro effetti di verità. È il tradimento dell’ingiunzione kantiana, che esige 17

M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 347. Ivi, p. 351. 19 M. Foucault, Introduzione, cit., p. 48. 20 Ivi, pp. 92-93. 18

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l’etica oltre l’evento

sempre l’incontro, ma, al tempo stesso, la distanza tra il teorico e il cognitivo. Così, solo il «vuoto dell’uomo scomparso» o lo «sradicamento dall’antropologia» può ancora attivarci la questione dell’umano, diceva Foucault orientato da un singolare kantismo nicciano21. Tornare a pensare l’umano, per questi esiti, non può che coincidere con una pratica di pensiero capace di dissolvere gli effetti rigidi dei saperi dell’uomo, di quelle costanti cui si assimila una «verità della verità». E dunque, solo l’avvio di uno scavo aperto da Nietzsche può disfarsi della confusione tra il medesimo e l’altro e lasciar apparire la vita singolare, l’evento, la forza, l’irriducibilità della variazione minima, la vibrazione e la fluenza. Appena più tardi, nel 1970, in un ampio commento a Deleuze, Foucault affianca alla denuncia dello «sradicamento» antropologico l’invito convinto all’esercizio di un pensiero adatto a produrre la decisiva «evizione» categoriale, lo spazio di un pur événement, la mobilità della singolarizzazione e delle innumerevoli vite, la différence déplacée22. Le analisi che seguiranno, negli anni Settanta, sulla microfisica dei sistemi di verità e dei sistemi di potere, sulla «governamentalità» e la biopolitica, e che denunciano l’effetto strategico di un controllo totale del singolare e dell’irrepetibile, rilanciano la necessità di continuare a riflettere sulla répétition anthropologico-critique, l’urgenza di tornare a pensare la questione della congiunzione-disgiunzione dell’empirico e del trascendentale. Nel progetto di un’archeo-genealogia microfisica prende corpo l’ipotesi che l’evento, le pur événement, sia esso stesso effetto di una pura cognizione, perché immesso nel cuore delle elaborazioni delle scienze contemporanee. L’evento, convertito dalla cognizione in effetto scientifico, dispone l’assimilazione a sé di ogni critica e di ogni potenza del pensare, di ogni teoria e di ogni filosofia, replicando gli effetti metafisici dei saperi della «natura umana». La metafisica, nell’apparire cognitivo dell’evento, ripete l’accettazione di ciò che, non più identico ma differente, si impone ancora come il tal qual è. 21

Ivi, p. 94 e Id., Le parole e le cose, cit., pp. 367-368. M. Foucault, Theatrum philosophicum, Introduzione alla trad. it. di G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. XI-XV. 22

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2. l’umano in sonno

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Non è difficile, allora, pensare che il sonno antropologico si sposti e si trasformi in una sorta di sonno evenemenziale e che la différence déplacée condivida, nel post-moderno, il rischio dogmatico del sopore e della narcosi della modernità23. I riferimenti alla decisività dell’evento nei differenti ambiti disciplinari sono frequenti in Deleuze, tanto da renderne difficile un resoconto esauriente e adeguato. Si pensi solo ai ripetuti supporti che la differenza e la ripetizione deleuziana trovano in Ruyer, Monod, Prigogine, per citare i più noti. Il confronto tra differenziazione ed effetti di verità, tra processi di singolarizzazione e sistemi di conoscenza, è presente in Foucault fin dall’archeologia dello sguardo medico e dagli interessi per la nascita della biologia. La biologia molecolare di Ruffié incrocerà, più tardi, le tesi sulla biopolitica. Un dubbio, senza apparente risposta, inquieta, in Les mots et les choses, l’apparire di una ontologia della frammentazione nella scienza del vivente, anche se è pur vero, dirà Foucault, che le scienze umane sono state «continuamente animate da una sorta di mobilità trascendentale» e non hanno mai cessato «di esercitare nei propri riguardi un recupero critico»24. La messa in sonno della singolarità del vivente e l’assimilabilità dell’événementiel alla pura funzione cognitiva, con la conseguente «confusione» dell’empirico e del trascendentale, del sapere positivo e della filosofia, segnano la continuità, per questi problemi, tra moderno e post-moderno, e impongono, per rilanciarne una difformità, di ripensare il pensare. Impongono di discutere dello spazio di distanziamento del filosofico dalla pura cognizione dell’evento e di provare a indagare il luogo rinnovato, e sottratto ai saperi, della potenza e della volontà dell’atto, le condizioni di un «passare all’atto» – l’espressione è di Deleuze, poi ripresa da Stiegler25 – o di una pratica del trascendentale, oltre la ri-cognizione, che possa segnare il movimento di una effettiva attualizzazione. 23 Cfr., per una prima discussione del problema, M. Fimiani, Le sommeil événementiel, in Artmedia X. Ethique, esthétique, communication technologique dans l’art contemporain ou le destin du sens, Actes du Colloque International, Paris, 12-13 décembre 2008, L’Harmattan, Paris 2011. 24 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 390. 25 Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 16; B. Stiegler, Passare all’atto, trad. it. a cura di E. Imbergamo, prefazione di R. Esposito, Fazi Editore, Roma 2005.

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l’etica oltre l’evento

Una linea uniforme, come si diceva, sembra rovesciare la fin troppo acquisita frattura tra il moderno e il post-moderno, assimilando, nel nome del trionfo della cognizione, l’umano e il post-umano. La riattivazione, col passare all’atto, nello scenario evenemenziale, di una congiunzione-disgiunzione dell’empirico e del trascendentale, o della cognizione e della teoria, è, dunque, la condizione per rilanciare la discontinuità e proporre l’avvio di un pensiero dell’uomo post-metafisico26. La pratica di una dimensione del teorico non assimilato alla cognizione dell’evento riapre il problema di una simmetria dissimmetrica del sapere e del pensare, così come del pensare e dell’operare. Il pensare in quanto operare non è un fare in vista dell’utile, dello scopo, del risultato, ma è sempre solo un produrre il movimento e il conflitto, in quanto apertura etica e politica al proprio presente. La riflessione sul trascendentale, che impone al pensare un esercizio di distanza da qualsiasi cognizione dell’evento, orienta la filosofia evenemenziale a non tradire lo sforzo di rottura dei saperi, ma anche a non rinunciare allo scarto da questi, sollecitando una pratica teorica capace non solo di accogliere l’evento, ma di portare all’atto un divenire etico dell’evento. 3. Riattivare la «separazione» e impedire la «confusione» tra l’empirico e il trascendentale, sottrarre l’événement al puro apparire singolare, descrivere le condizioni per un divenire etico dell’evento, ha significato, per alcuni momenti della filosofia della differenza, non solo ridiscutere il senso del trascendentale, ma anche mettere in problema il nesso tra il virtuale e l’attuale, due nozioni in cui la crisi della metafisica moderna ha convertito la coppia concettuale del possibile e del reale, assegnando alla virtualizzazione e alla attualizzazione dimensioni proprie dell’esercizio filosofico. 26 La tesi di un umanesimo post-metafisico aperto dal kantismo e legato alla progressiva promozione dell’Antropologia affiancata alle tre Critiche è efficacemente argomentata da A. Renaut, La place de l’Anthropologie dans la thèorie kantienne du sujet, in L’année 1798. Kant et la naissance de l’anthropologie au siècle des Lumières, sous la direction de J. Ferrari, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1997, pp. 49-63.

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2. l’umano in sonno

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Il ripensamento del trascendentale e l’approccio ai temi del virtuale e dell’attuale, oltre che alle forme del loro legame, sembrano proporre, con esiti diversi, un doppio percorso, una linea orizzontale e una verticale. La disposizione orizzontale della spinta che lega il virtuale all’attuale descrive un atto, un’attualizzazione, un fare atto e un farsi atto, più vicino alla inventività e alla creatività. È una linea che vincola il senso e la direzione dell’atto allo spostamento, alla ripetizione come ri-presentazione, alla révenance e alla différance, alla trasgressione, al gesto irruttivo e al lampo imprevedibile dell’istante. La disposizione verticale complica il momento inventivo o immaginativo, concentrandolo sulla stessa elaborazione del tipo d’atto e riarticolandolo con un’analisi genealogica, lenta, scompositiva del processo, che smarrisce la fluenza dell’essere in generale per tagliarne un complicato luogo di partizione. All’interno di un campo le forze di resistenza trovano una posizione o, meglio, un ri-posizionamento consapevole di antagonismo, di conflittualità, di politicità. Ed è la linea dell’ontologia dell’attualità che descrive l’ethos come «freccia sagittale nel presente». In questi contesti il virtuale non può limitarsi a descrivere lo stato di derealizzazione, simulazione, illusorietà della fluenza, con gli esiti apocalittici della sparizione dell’atto, del vivente, dell’affettività, presi e neutralizzati in una condizione anestetica generalizzata. Si pensi alle diagnosi di Baudrillard e di Virilio27. Il virtuale diviene, piuttosto, la riserva della potenza e della produzione del dinamismo. È infatti necessario chiedere «che ci si sforzi di sviscerare, di pensare e di capire la virtualizzazione in tutta la sua complessità», ha detto Lévy, dal momento che, contro ogni tradizione filosofica, il compito del pensare, oggi, non è di indagare il modo del passaggio dal possibile al reale e neppure dal virtuale all’attuale, quanto di intraprendere un cammino op27 Cfr. J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, trad. it. a cura di E. Grazioli, Giancarlo Politi Editore, Milano 1988 e Id., La guerre du golfe n’a pas eu lieu, Editions Galilée, Paris 1991; P. Virilio, Estetica della sparizione, trad. it. a cura di G. Montagano, Liguori Editore, Napoli 1992 e Id., L’incidente del futuro, trad. it. a cura di R. Prezzo, Raffaello Cortina, Milano 2002.

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posto, che analizzi «la trasformazione inversa, quella in direzione del virtuale»28. L’ascendenza di queste tesi è indubbiamente deleuziana. Il trascendentale è, per Deleuze, solo un’energia che si attualizza in figure dissimili dal potenziale effettuato. È l’esercizio di una forza, di una vis (cui si legherà il concetto di virtus, di virtuale), che disloca sempre la sua attualizzazione. «Il più profondo è la pelle», perché una superficie profonda appare nel senso29. La filosofia sembra avere il compito, allora, innanzitutto di «generare “il pensare” nel pensiero»30, di rianimare il carattere «idiota»31 e «intempestivo» del pensare, di richiamare il pensare al «creare»32, a quell’«operazione selettiva» che fa del pensare il «passare all’atto», un «produrre nell’opera un movimento»33. L’esercizio del trascendentale-trascendente attiva, dice Deleuze, una memoria trascendentale, quell’ennesima potenza che è il «memorandum» e, insieme, l’«immemorabile». È solo questa memoria che «costringe a sua volta il pensiero ad afferrare ciò che può essere solo pensato»34. Il pensare è, così, «ripetizione», differenza senza concetto, «potenza propria dell’esistente», «ostinazione dell’esistente nell’intuizione». Ed è l’intuizione che fa dell’oggetto solo un «recitato», un «ripetuto, messo in atto invece d’essere conosciuto»35. Il tema dell’intuizione apre il volume su Bergson – Le bergsonisme è del 196636 –, un testo che certamente vede incrociarsi le questioni del bergsonismo e i punti forti del pensiero di Deleuze37: la «durata ontologica», i processi di differenziazione radicale, i 28 P. Lévy, Il virtuale, trad. it. a cura di M. Colò e M. Di Sopra, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 2. 29 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 98. 30 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 240. 31 Ivi, p. 213. 32 Ivi, p. 240. 33 Ivi, pp. 20-21; il corsivo è mio. 34 Ivi, p. 183; cfr., sull’esercizio «trascendente» della memoria, pp. 228-229, 234-235. 35 Ivi, pp. 30-31. 36 G. Deleuze, Il bergsonismo, trad. it. a cura di F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1983. 37 Sull’ispirazione bergsoniana del pensiero di Deleuze è convincente il testo di A. Badiou, Deleuze. «Il clamore dell’essere», trad. it., Einaudi, Torino 2004.

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2. l’umano in sonno

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diversi livelli di contrazione e di tensione, il pluralismo generalizzato, la simultaneità dei flussi, la esteriorità della distribuzione del continuum, il riconoscimento di una profondità che trasporta lo spostamento locale, il complesso intricarsi dello spazio-tempo, il rifiuto della dialettica per una percezione fine e sfumata della molteplicità, il concetto stesso di alterazione. È nel contesto delle discussioni su Bergson – più che in Différence et répétition, che pure ne riferisce38 – che si elabora la nozione del virtuale. La scomposizione del «misto», della mescolanza dello spazio e della durata come condizione dell’esperienza, ci rivela «due tipi di “molteplicità”», una, dello spazio, discontinua e attuale, l’altra, della durata, virtuale e continua39. Il virtuale è la durata, ma, «in quanto si attualizza, sul punto di attualizzarsi», è «inseparabile dal movimento della sua attualizzazione», conciliando in sé eterogeneità e continuità40. C’è, dunque, «sempre estensione nella durata, e sempre durata nella materia»: «e la materia non è mai abbastanza distesa da divenire puro spazio, per non avere più il minimo di contrazione in base al quale partecipa e appartiene alla durata»41. Nelle conclusioni si fa chiaro il peso della esclusione del possibile e della scelta del virtuale. Il possibile non ha realtà – si legge – così come il virtuale non è attuale, ma il virtuale «in quanto tale possiede una realtà». La virtualità, ripete Deleuze da Proust, è «reale senza essere attuale, ideale senza essere astratto»42. Non tutti i possibili si realizzano. Una limitazione, questa, per la quale si ritiene che alcuni possibili «siano respinti o impediti, e che altri “passino” nel reale». Il virtuale, al contrario, non deve realizzarsi, ma solo «passare all’attuale», «e le regole dell’attualizzazione non sono più la somiglianza e la limitazione, ma quelle della differenza o divergenza e della creazione». Dunque, il virtuale per attualizzarsi non deve «limitare», ma deve «creare». «Lo specifico della virtualità è di esistere in modo d’attualizzarsi differenziandosi»43. 38

G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 165-168. G. Deleuze, Il bergsonismo, cit., pp. 31-32. 40 Ivi, pp. 36-37. 41 Ivi, p. 82. 42 Ivi, p. 91. 43 Ivi, pp. 91-92. 39

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l’etica oltre l’evento

Si aprono, così, le condizioni per un’etica del mimo. Il pensare, con la saggezza dello stoico, non soltanto comprende e vuole l’evento, non soltanto lo attende, ma lo seleziona. A partire da un «evento puro», dirige e raddoppia l’effettuazione, «misura la mescolanza con l’aiuto di un istante senza mescolanza»44. L’etica del fare opera, del passare all’atto, è anche un farsi «Operatore» o quasi-causa di ciò che si produce in noi nel volere l’evento45. L’evento non è semplicemente ciò che accade (accadimento), ma è in ciò che accade: è sempre effetto di un «raddoppiamento» dell’effettuazione nella contro-effettuazione. I «figli dei propri eventi» sono anche commedianti, replicanti, doppiatori. Il commediante dei propri eventi è colui che raddoppia l’«effettuazione cosmica» con un’altra «singolarmente superficiale, tanto più netta, tagliente e pura per questo, che viene a delimitare la prima», serbando «dell’evento soltanto il contorno o lo splendore». Il commediante, il mimo, «rimane nell’istante per interpretare qualcosa che non cessa di anticipare e di ritardare, di sperare e di ricordare», aprendosi al ruolo «impersonale e preindividuale» e giocando il paradosso del ruolo e del non-ruolo46. L’evento, con il pensare, è, dunque il recitato, il messo in atto47. Se è vero che il «si differisce da quello della banalità quotidiana», perché è il «si delle singolarità impersonali e preindividuali», è pur vero che «l’uomo libero» ha colto «l’evento stesso, perché non lascia che si effettui in quanto tale senza operarne, in quanto attore, la contro-effettuazione»48. La superficie profonda occupa, malgrado la difformità seriale e volumetrica, un movimento orizzontale, si diceva, non lontano da un puro agencement che, per Deleuze, può far cenno – come scriveva a Foucault – alle «linee di fuga» senza distinguerne all’interno le effettive «resistenze»49. 44

G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 132. Ivi, p. 133. 46 Ivi, pp. 134-135. 47 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 31. 48 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 136. 49 Su questo si vedano le note di carattere personale e confidenziale, affidate da Deleuze a François Ewald perché le trasmettesse a Foucault, redatte nel 1977, poco dopo la pubblicazione de La volonté de savoir. Sono date alle stampe solo in «Magazine littéraire» (ottobre 1994) con il titolo Désir et plaisir; trad. it. in G. Deleuze, 45

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2. l’umano in sonno

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4. Foucault prospetta una seconda linea di passaggi dal virtuale all’attuale. Si diceva di una disposizione verticale. Questa non si esaurisce nella vibrazione orizzontale, ma dispone l’incremento minimo e la differenza spostata all’interno di una costruzione a scatole, volumetricamente più complessa della già dilatata immagine del «cono» bergsoniano, del misto spazio-tempo che pure dà spessore alla memoria immemoriale del mimo. L’atto di alterazione è innanzitutto il movimento che impegna la prova di soggettivazione etica, la cura di sé, che, come dice Deleuze, in Foucault non è il rilancio del soggetto-persona o del soggetto-fondamento, ma è anch’esso solo il «modo intensivo» di un evento50. La soggettivazione – il trasformarsi del sé, del vivente singolare, in un soggetto etico – è sempre anche un se déprende de soi-même, un ripetersi distanziandosi. È un operare, un passare all’atto, che fa del soggetto etico il commediante di se stesso. Il puro accadimento della vita diviene un evento, si fa etica, perché è l’effetto di un Operatore, di una quasi-causa dello stile singolare di esistenza. È coerente dire, come fa Foucault, che l’etica, per questo profilo, abbandonando la morale dei codici e dei comportamenti, è propriamente un’estetica dell’esistenza51: la vita è opera evenemenziale di se stessa, in quanto questa vita si fa pensiero, e il pensare è laddove appare il senso dell’evento. Il vivente singolare è esposto all’affezione e all’autoaffezione, è trattenuto e al tempo stesso liberato dal pre- e dal trans-individuale52. Così la nuda vita – la vita com’è detta, aggiungiamo, dai saperi della vita – sa sottrarsi al sonno: esercita la forza dell’immaginazione (il sogno «uccide il sonno e la vita che si addormenta»53, dice il commento a Binswanger) e fa valere la potenza della vivification Divenire molteplice, introduzione e cura di U. Fadini, Ombre Corte, Verona 20022, pp. 77 sgg. 50 G. Deleuze, Pourparlers, trad. it. a cura di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 133. 51 Sono le ben note tesi annunciate in M. Foucault, L’uso dei piaceri, trad. it. a cura di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 15-27. 52 Per l’importanza della lettura del kantismo, proposta da Foucault nell’Introduction à l’Anthropologie de Kant, in riferimento non solo alla critica dell’antropologismo, ma anche e soprattutto alla elaborazione della nuova etica, dei temi della cura e della Dietetica, cfr. M. Fimiani, Foucault e Kant. Critica clinica etica, cit. 53 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., p. 51.

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l’etica oltre l’evento

(dell’animazione, ma anche della creazione di vita), del Geist, di un belebendes Prinzip54: se «la mente fosse immobile la vita entrerebbe in stato di sonno, vale a dire nella morte», si legge ancora nell’Introduction à l’Anthropologie55. Ma tutto questo è solo una prima scatola che s’incastra, nel gioco di equilibri instabili e compromessi, con le altrettanto complicate e scomposte scatole dei sistemi di verità e dei dispositivi di potere, nel movimento rischioso e difficile di quella triangolazione che, per Foucault, riassume il concetto di esperienza: soggettivazione, verità, potere56. Il passare all’atto complica, qui, l’alterazione e la creazione, immettendola in quella «prova di evenemenzializzazione» che Foucault assegna all’analisi dell’archeo-genealogia57. Il lavoro di scavo non è, allora, l’agitazione della memoria immemoriale che assegna al lampo dell’istante la densità del passato-futuro. È una lenta e circoscritta dissepoltura delle tracce che generano le cose e gli uomini, i saperi e i poteri, in cui è sempre preso il passare all’atto. È il saper pensare a partire dalla scomposizione degli strati terminali e preterminali dell’archivio58. In modo suggestivo e richiamando la nozione kantiana di archeologia, Agamben ha recentemente suggerito l’assegnazione della dimensione del «virtuale» al tessuto di scavo dell’archeologia foucaultiana59. Attualizzare il virtuale, nelle tesi foucaultiane, è allora come duplicare l’atto, che è, insieme, stilizzazione del sé e analisi cri54

M. Foucault, Introduzione, cit., pp. 44-45. Ivi, p. 34. Per la distanza tra saperi della vita e «vita filosofica» cfr. M. Fimiani, La vie en sommeil, «KLESIS – Revue philosophique», 8, La Biopolitique, (2008), pp. 48-61. 56 M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 10. 57 La critica, nella prospettiva di un superamento del carattere fondativo del trascendentale, deve convertirsi da analitica delle condizioni formali in una «épreuve d’événementialisation», una prova di produzione di eventi o di un «campo d’immanenza di singolarità pure» (cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., pp. 52-53, 57). 58 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 88-89, 147-153. 59 G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 82 sgg. Il testo di Kant richiamato da Agamben è Über die Fortschritte der Metaphysik, lo stesso cui fa riferimento Foucault rivendicando, contro l’ipotesi di un’assimilazione a Freud, l’ispirazione kantiana dell’uso del termine «archeologia» (cfr. M. Foucault, Monstrosities in Criticism, «Diacritics», I, 1, 1971, ora, in versione francese, in Id., Dits et écrits, vol. II, cit., p. 221). 55

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2. l’umano in sonno

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tica del presente. Perché, nel lessico di Foucault, è il taglio, nel presente, tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare – il pensare come «freccia sagittale» – la effettiva «ontologia dell’attualità» come ethos filosofico, come dirà nei testi sull’Illuminismo60. L’«ethos filosofico» è praticabile solo nel corso di una trasformazione permanente del vivente in «vita filosofica», in una vrai vie che immette ciascuno nelle relazioni microfisiche d’amore e di conflitto per la cura comune del mondo. È in questo che si produce quel delicato e incerto passaggio dalla certezza alla verità dell’etica, che consente di evocare espressioni di un hegelismo dal quale forse Foucault non è del tutto lontano61.

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M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., pp. 253-261, 217-232. Sui rapporti di Foucault con alcuni temi della fenomenologia hegeliana, in particolare per le tesi di un riconoscimento amoroso e conflittuale, cfr. M. Fimiani, Le véritable amour et le souci commun du monde, in Foucault. Le courage de la vérité, coordonné par F. Gros, Puf, Paris 2002 e Id., Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, Ombre Corte, Verona 2007. 61

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3. Genealogia e ascesi

1. Roussel, nevrotico ossessivo curato da Janet, attrae la ricerca archeologica. Il problema, per Foucault, non è stabilire se l’opera di Roussel sia o meno l’opera di un folle, ma capire come e a quali condizioni il linguaggio di Roussel possa figurare all’interno di un funzionamento generale del linguaggio letterario. Il problema è, ancora prima, precisare il funzionamento del linguaggio letterario così come si è prodotto con la nascita della ragione storica e del suo contrario, la follia. Che cosa ne è del linguaggio letterario, della parola poetica, del gesto artistico, a partire dall’età classica? L’avvento della ragione è accompagnato dall’istituirsi della «solitudine sovrana» del linguaggio: il pensiero si fa scienza universale dell’ordine e il linguaggio il sistema dei segni che lo rappresenta. La ragione storica dispone, così, la forma binaria del linguaggio nel nesso esauriente e fisso significante-significato: «immensa riorganizzazione della cultura di cui il periodo classico è stato la prima tappa, la più importante forse, giacché proprio su di essa incombe la responsabilità della nuova disposizione nella quale siamo ancora sistemati – giacché proprio essa ci separa da una cultura in cui il significato dei segni non esisteva, assorbito com’era nella sovranità del Somigliante; ma in cui il loro essere, enigmatico, monotono, ostinato, primitivo, scintillava entro una dispersione infinita. Più nulla nel nostro sapere e nel nostro modo di riflettere ci ricorda questo essere. Più nulla, salvo forse la letteratura – e anch’essa in una forma più allusiva e sghemba che diretta»1. La parola letteraria svela la riapparizione dell’es1

M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 58.

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l’etica oltre l’evento

sere vivo del linguaggio, allude all’infinito movimento dell’essere perduto, si colloca in forma sghemba nei pressi, nei vuoti, del linguaggio della ragione, spinge a un esistere grezzo «obliato a partire dal XVI secolo». Nell’età moderna la letteratura indubbiamente riattiva il movimento infinito dei segni, «l’essere del linguaggio» e la sua «dispersione infinita», «compensa», non «conferma», il funzionamento significativo del linguaggio, tuttavia, vale solo come «contro discorso» e pone la sua autonomia nella diversità della parola. È un limite, come l’esperienza del folle. Come la follia, la letteratura è assenza d’opera, una «figura» che contiene «la prodigiosa riserva di senso», trattiene il senso. «La follia apre una riserva lacunosa che designa e fa vedere quella cavità in cui lingua e parola si implicano, si formano l’una a partire dall’altra e non dicono nient’altro se non il loro rapporto ancora muto»; così la letteratura, a partire dalla fine del secolo XIX, sospende «il regno della lingua in un gesto attuale di scrittura»2. Riflettendo, nella Préface à la transgression, sull’esperienza del limite e della trasgressione, Foucault indica nell’intreccio teorico che nomina Bataille, Blanchot, Klossowski, il compito nuovo che la filosofia e il sapere sono destinati a svolgere, quello di pensare «un’origine senza positività e un’apertura che ignora le pazienze del negativo. Nessun movimento dialettico, nessuna analisi del costituito e del suo fondamento trascendentale può essere d’aiuto alla possibilità di pensare una simile esperienza o addirittura di accedere a questa esperienza»3. Un’esperienza che è l’estremo del possibile, secondo la nozione batailliana che bene indica, per Foucault, «il momento in cui il linguaggio, arrivato ai suoi confini, fa irruzione fuori di se stesso, esplode e si contesta radicalmente nel riso, nelle lacrime, negli occhi sconvolti dall’estasi, nell’orrore muto ed esorbitato del sacrificio; e rimane così al limite di questo vuoto, parlando di se stesso in un linguaggio secondo dove l’assenza di un soggetto sovrano disegna il suo vuoto essenziale e frantuma senza tregua l’unità del discorso»4. 2 M. Foucault, La follia, l’assenza di opera, trad. it. in appendice a Id., Storia della follia, II ed., Rizzoli, Milano 1976, pp. 633, 634. 3 M. Foucault, Prefazione alla trasgressione, in Id., Scritti letterari, trad. it. a cura di C. Milanesi, Feltrinelli, Milano 1971, p. 61. 4 Ivi, p. 69.

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3. genealogia e ascesi

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La letteratura, come la follia, pratica quell’esperienza trasgressiva che vince l’unità del discorso, che scuote il regno della ratio come della langue. Eppure non è rivoluzionaria, dirà l’archéologie. Soltanto coloro che temono di essere privati di «quella tenera certezza, così consolante, di poter cambiare, se non il mondo, se non la vita, almeno il loro “senso” con la sola freschezza di una parola che venga soltanto da loro e resti all’infinito il più possibile vicina alla fonte […] non vogliono lasciarsi sfuggire anche quello che dicono, quel piccolo frammento di discorso – parola o scrittura, poco importa – la cui fragile e incerta esistenza deve portare la loro vita più lontano»5. Le formazioni discorsive, territorio archeologico, «sono fatti di segni; ma fanno molto di più che utilizzare questi segni per designare delle cose. È questo di più che li rende irriducibili alla langue e alla parole»6. Il gesto attuale della scrittura, dunque, che sospende il regno della lingua non può essere effettivamente rivoluzionario. Il terreno di lotta aperto dall’Archéologie du savoir è irriducibile all’apertura di un «mutismo fondamentale», di un radicale non-detto, di quell’essere «segreto» che «scintillava entro una dispersione infinita». I due temi: «la scrittura è il rimosso» e «la scrittura è a pieno diritto sovversiva» sembrano «tradire» – sarà la conclusione di Foucault – «un certo numero di operazioni che bisogna denunciare severamente»7. Il gesto letterario, artistico, folle, l’esperienza del limite restano insufficienti ed enigmatiche, si espongono, secondo l’archeologo, a un radicale fraintendimento. La nozione di esperienza ritorna, dopo gli anni sessanta, alla distanza di un decennio, in Au de là du bien et du mal. L’esame del metodo archeologico è compiuto. Va rafforzandosi il programma di un atteggiamento genealogico diffuso: la «polemizzazione» del sapere, voluta dall’archeologia, confluisce nella généalogie come memoria storica delle lotte e riattivazione dei saperi assoggettati. «La società futura si comincia a delineare forse attraverso esperienze come la droga, il sesso, la vita comunitaria, un’altra coscienza, un altro tipo di individualità», si dice nella conversazione del ’718. 5

M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 238. Ivi, p. 60. 7 M. Foucault, Gli intellettuali e il potere, in Id., Microfisica del potere, cit., p. 115. 8 M. Foucault, Al di là del bene e del male, in Id., Microfisica del potere, cit., p. 68. 6

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l’etica oltre l’evento

La domanda è allora: quale passaggio teorico tra l’esperienza del limite e l’esperienza prefigurante una società futura segna l’archeologia del sapere? Perché l’archeologia non può accettare che veramente rivoluzionaria sia la follia o l’arte? La sospensione delle false unità e delle sintesi preconcette è compiuta dalla ricerca archeologica nell’assumere, innanzitutto, come proprio territorio di indagine i frammenti monumentali, quegli eventi discorsivi che sono veramente enunciati soltanto se vengono assunti nella loro consistenza di singolarità esistenti, come ciò che è effettivamente detto. Archiviare è, dunque, come già per Nietzsche fare genealogia, essere in una prossimità controllata, alla quale non sfuggono le «trasparenze familiari», la quasi «invisibilità dell’esserci». Archiviare è una descrizione di enunciati che non può coincidere con l’analisi della lingua e l’analisi del pensiero. Lingua e pensiero inducono, infatti, a una cattiva infinità: all’infinità enumerativa delle parole spiegabili in base alle leggi costruttive del codice o all’infinità di un principio generatore cui si assegna la verginità della sottrazione radicale, quel mutismo fondamentale che apre la possibilità dell’espresso. Gli enunciati non si associano a nessuna forma di interiorità: non sono infinitamente e illimitatamente interni a un ideale di costruzione formale, così come non si internano in un principio infinito o in «un’apertura» e «una differenza più fondamentale». La esteriorità è essenziale agli enunciati: di questi il lavoro archeologico deve accendere la coesistenza, la finità, la rarità. L’enunciato appare all’archeologo «come un bene – finito, limitato, desiderabile, utile – che ha le sue regole di apparizione, ma anche le sue condizioni di appropriazione e di messa in opera; un bene che conseguentemente, dal momento che ha un’esistenza […] pone il problema del potere; un bene che costituisce, per natura, l’oggetto di una lotta, e di una lotta politica»9. È facile intuire come l’enunciato prefiguri, qui, pienamente la nozione di forza, immessa dalla genealogia nelle zone di guerra di tutti contro tutti e dentro il corpo del potere. La continuità tra archeologia e genealogia consente, allora, di porsi ancora un’altra domanda. Che cosa deriva, per il pensiero genealogico che ha 9

M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 139-140.

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3. genealogia e ascesi

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a che fare con il potere e il desiderio, dall’esclusione archeologica della doppia cattiva infinità? Se l’analisi degli enunciati non riguarda il campo infinito della emanazione strategica e sussumente del codice, della langue rispetto alle paroles, se la funzione enunciativa non si assolve nell’essere spiegabile per una tavola di differenze, anche gli avvenimenti dello stato di guerra, cioè le forze, non sono riducibili alle infinite e infinitamente enumerabili molecole occupate da una strategia articolata. Il Potere non è ovunque: non c’è un rapporto di internità tra le forze del campo e le leggi di costruzione che vi si insediano. Lo stato di occupazione è solo una figura «stagliata» sullo sfondo delle differenze esteriori, delle forze come poteri. Il Potere è solo l’effetto egemonico degli scontri tra i poteri. Se poi non c’è neppure una lacuna omogenea, un fondo unitario senza fondo, che interna gli enunciati, «l’infinita continuità del discorso e il suo segreto essere presente a se stesso nel sempre rinnovato meccanismo di un’assenza», se non c’è «un mormorio inesauribile che anima dall’interno la voce che si sente», anche la descrizione delle forze in lotta non può riconoscerle come semplici tracce di un profondo, inesauribile movimento di liberazione, di un vuoto che «mina dall’interno» tutto ciò che, espresso o esistente, è presenza repressiva o effetto strategico. Una nozione unitaria e sintetica dei criteri di comprensione (o, come dice Foucault, una nozione giuridico-discorsiva del potere) porta a due conseguenze opposte e inadatte alla descrizione delle forze (del desiderio, dice Foucault): «o alla promessa di una “liberazione”, se il potere ha sul desiderio solo una presa esterna, o se è direttamente costitutivo del desiderio, all’affermazione: siete tutti già presi in trappola»10. Come gli enunciati, le forze non ammettono la riduzione a un sistema o a una scaturigine, entrambi infiniti, l’uno per la infinita presenza, l’altra per la infinita assenza. È per questo che, ne La volonté de savoir, il desiderio non può promettere l’assoluta liberazione e il potere non può spingersi fino alla trappola mortale: ciò in linea di diritto, i margini di spostamento fra trappola e liberazione, o, in termini più espliciti, il prevalere di un effetto 10

M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it., Feltrinelli, Milano 1978, p. 74.

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di egemonia e di repressione o di un effetto rivoluzionario, attengono a una questione di fatto. Comunque, l’effetto di dominio «non scomparirà come la fiamma di una candela quando ci si soffia sopra», risponde Foucault in un’intervista del ’7511. 2. Questa sorta di positivismo romantico, di positivismo rarefatto, come ha detto Deleuze del lavoro dell’archivista, è un’arte medica, clinica, diagnostica. Lo sguardo medico, nei progressivi spostamenti dalle forme della medicina classificatoria alla clinica, all’anatomia patologica e alla fisiologia, è senza dubbio una modalità enunciativa singolare, privilegiata, nell’area delle ricognizioni epistemiche dell’archeologia. La medicina, al suo punto più maturo, la fisiologia, dispone, per Foucault, una grammatica di sintomi per la quale il male è ricondotto a uno spazio, agli organi del vivente, a delle regioni inevitabili in cui si insediano i processi sintomatici, in cui la malattia prende esistenza e diventa comprensibile. Ma il morboso, col suo volume singolare, è la condizione stessa dell’esistenza singolare, l’unico modo di essere della finitudine: questa nasce al sapere, come sua figura, dall’incontro del tempo assoluto della vita con lo spazio assoluto del cadavere. «L’individuo […] non è dato al sapere se non al termine d’un lungo movimento di spazializzazione […] Bergson imbocca una strada del tutto sbagliata quando cerca nel tempo e contro lo spazio, in un’apprensione dall’interno e muta, in una folle cavalcata verso l’immortalità, le condizioni grazie alle quali è possibile pensare l’individualità vivente»; la morte «infallibilmente compensa la sorte […] è al contrario costitutiva di singolarità; solo in essa l’individuo si realizza»12. Non vale il bene contro il male, il male contro il bene, da quando l’abisso al di sotto del male è «emerso nella luce del linguaggio», da quando la malattia si è staccata «dalla metafisica del male cui, da secoli, era apparentata», da quando «ha potuto staccarsi dalla contro natura e prender corso 11 M. Foucault, Disciplina e democrazia, trad. it. in Id., La società disciplinare, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano 2010, p. 90. 12 M. Foucault, Nascita della clinica, trad. it. a cura di A. Fontana, Einaudi, Torino 1969, pp. 195-196.

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3. genealogia e ascesi

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nel corpo vivente degli individui», divenire la vita concreta come inevitabili spazi regionali della clinica. «Di qui l’importanza del Morboso. Il Macabro implicava una percezione omogenea della morte, una volta varcata la soglia. Il Morboso autorizza una percezione sottile del modo in cui la vita trova nella morte la sua figura più differenziata. Il morboso è la forma rarefatta della vita; nel senso che l’esistenza si spossa, s’estenua, nel vuoto della morte; ma anche nel senso che vi assume il suo volume strano, irriducibile alle conformità e alle abitudini, alle necessità acquisite; un volume singolare, che definisce la sua assoluta rarità»13. Il privilegio del morboso sta nel porsi come luogo di una percezione prossima, sottile, delle esistenze non vinte né vincenti, ma spossate, non misurate da un principio di assoluta salvezza o di assoluta perdizione, dalla vita o dalla morte. Sottratta alle oscillazioni dei principi unitari infiniti, alle fasce omogenee contrapposte della vitalità e della mortalità, il vivente, il malato, si muove sotto le conformità e le abitudini, le necessità acquisite, è irriducibile ai sistemi formali: ne è l’archivio. Le innumerevoli vite aperte dallo spazio del morboso sono, come gli enunciati, le singolari esistenze della moltiplicazione archeologica. Lo sguardo medico è infatti già uno scavo sotto i nostri piedi e il lavoro archeologico è un’attività diagnostica. Il reticolo della malattia prefigura gli spazi regionali del campo archeologico prima e ancora più dell’invasione capillare del Potere. La dislocazione del male non è il movimento in periferia dell’assoggettamento generalizzato, ma la frantumazione archivistica. Le forme e il sapere del potere, le sue figure storiche e la scienza politica costituiscono, infatti, sistemi terminali cui deve applicarsi, come per l’episteme classica e le scienze dell’uomo nell’età moderna, la descrizione archeologica: sesso, arte, politica sono i campi possibili delle altre archeologie14. Il potere come forma di dominio e di egemonia è certamente un sistema terminale. È «proprio l’eterogeneità del potere», «come esso nasca sempre da altro che se stesso»15, che lo rinvia 13

Ivi, p. 196. M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 219-221. 15 Cfr. Intervista a P. Pasquino (febbr. 1978), Precisazioni sul potere. Risposta ad alcuni critici, in «Aut Aut», nn. 167-168, 1978, p. 9. 14

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l’etica oltre l’evento

ad un apriori storico, che fa del sapere del potere e della riflessione genealogica sui «divieti e sui valori» una ricerca archeologica dal «volume complesso», a due strati. Le relazioni di potere sono degli effetti di superficie, come i sistemi formali che si inscrivono nel campo enunciativo, «che nascono incessantemente come effetto e condizione di altri processi». Il rapporto sfondo/figura, regole di coesistenza/leggi formali, dispersione eventuale/costruzione, mette in opera, nel metodo archeologico, una sorta di doppia quadrettatura, l’una mobilissima e profonda, l’altra fortemente strutturata e di superficie. L’archivio è, infatti, il sistema difficilmente esauribile nella descrizione, ma certamente finito per la quantità di enunciati che vi coesistono, il sistema «che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli», è il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati. Un sistema che «non è estraneo al tempo», che indica nelle sue regolarità le reciproche, fluidissime dipendenze tra oggetti, concetti, modi enunciativi, posizioni soggettive, scelte tematiche e strategiche, istituzioni, processi economici e sociali, forme di comportamento, sistemi di norme, tecniche, modi di caratterizzazione. Quelli che l’archeologia descrive, anche solo nell’ambito discorsivo, come «“sistemi di formazione” non costituiscono lo stadio terminale dei discorsi, se con questo termine intendiamo i testi (o le parole) così come si presentano col loro vocabolario, la loro sintassi, la loro struttura logica o la loro organizzazione retorica. L’analisi rimane al di qua di questo livello manifesto, che è quello della costruzione compiuta»16. Si analizzano dei sistemi «che rendono possibile le forme sistematiche definitive»: il preterminale è la dispersione spaziale della coesistenza enunciativa, non la «vita ribollente» mai catturata, è un intenso spessore che rimane, al fondo dei discorsi, nella «dimensione del discorso». Sottrarsi alla soggezione sistematica, ai meccanismi di costrizione, alle consuetudini definite, al dominio delle forme, alla dimenticanza dei loro inizi, non fa toccare il flusso della vita e del desiderio, l’automatismo creativo, la sregolatezza della «scrittura», i vuoti dell’inconscio, le ebbrezze psicoanalitiche, impegna piuttosto a 16

M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 88.

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3. genealogia e ascesi

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un lavoro paziente di decifrazione e a una difficile analisi di posizioni, che non durano quanto il soffio su una candela. Tutti gli equivoci su che cosa si debba intendere per «nascosto», rimosso e allontanato, affidato qui alla dissepoltura dell’archeologo, permettono di «“psicoanalizzare” a buon mercato quel che dev’essere l’oggetto di una lotta»17. 3. I sistemi preterminali, il terreno trasparente degli enunciati che l’archeologo con lo sguardo prossimo deve rendere opaco, l’inconscio che viene «alla luce del linguaggio», le inscrizioni semplici degli eventi velati dal bagliore della «luce intensa» delle forme, sono in un certo senso il limite, qui chiarito come lo sfondo della discorsività; la moltiplicazione delle pratiche discorsive e non-discorsive dispiegate dall’archivio è l’esplicitazione di quella esperienza che l’Histoire de la folie animava come rinuncia «alla comodità delle verità terminali». L’appropriazione archeologica degli eventi dispersivi sembra, però, spostare la nozione di esperienza da un piano di evanescenza trasgressiva, di eccezione dal possibile, come il mutismo del folle o la parole dell’artista, limite vuoto dell’esistenza storica, a un piano di generalizzazione e di espansione crescente della pratica delle esperienze che tendono, appunto, «a delineare forse un’altra coscienza, un’altra individualità». L’esperienza del limite, della pura deriva dalla ragione classica, si è amplificata, con la riflessione archeologica, nella pluralità delle pratiche discorsive e nelle coesistenze degli enunciati archiviati. Non più esclusa dall’esistenza storica ne diviene il tessuto reale: le esperienze divengono gli enunciati effettivamente detti, le pratiche storiche effettivamente esercitate, le stesse scelte strategiche. La strategia è, per l’archeologo, il complesso delle maniere di rendere operante un campo, rispetto alle quali una strategia intesa come programma coordinato di forze è un effetto complessivo e risultante di costellazione. Le esperienze sono le movenze strategiche in un campo diffratto, dove ogni resistenza trova, fuori dalle astratte unità programmatiche, la propria posizione in un punto annodato, nella rete, di altri elementi e di 17

M. Foucault, Gli intellettuali e il potere, in Id., Microfisica del potere, cit., p. 115.

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l’etica oltre l’evento

altre istanze (tra queste il desiderio, dice Foucault). Il desiderio, che non è preso in una trappola mortale ma non è neppure la promessa della liberazione, è un momento, solo un momento, nel gioco che fa di una forza elementare un’esperienza per un futuro di «socializzazione reale». L’archeologia sottrae, così, l’esperienza alla sua identificabilità con l’esistenza soggettiva e il vissuto individuale, con l’esercizio dell’immaginario come tale, con una interiorità risolutiva e sintetica, che Foucault, in verità, aveva rifiutato fin dalle note introduttive a Binswanger. Come già per la critica alla fenomenologia e al freudismo, implicita nelle analisi sul sogno del ’54, per il metodo archeologico il soggetto non può essere, in ogni forma, un principio sintetico. Non è una funzione unificante, né universale né singolare, né una soggettività trascendentale né una coscienza vissuta costituente. In nessun modo, una funzione cognitiva o un soggetto individuale concreto può esaurire la connotazione del soggetto del campo enunciativo. Questo, il soggetto, si frantuma in valori di posizione, assunti da individui, da sottoindividui, prevalentemente indifferenti alle funzioni mutevolissime del campo archeologico, ma proprio da queste definiti soggetti. Non è il loro essere individui concreti, la loro coessenziale situazionalità, il loro gesto immaginativo o creativo, a farne dei soggetti, ma la posizione, aperta dal campo di volta in volta differente, instabile, divergente, diffratta, che vanno a occupare. Nell’analisi archeologica «le diverse modalità di enunciazione, invece di rimandare alla sintesi o alla funzione unificatrice di un soggetto, ne manifestano la dispersione. Nei diversi statuti, nelle diverse posizioni che può occupare o ricevere quando tiene un discorso. Nella discontinuità dei piani da cui parla». Quello del soggetto è «un posto determinato e vuoto che può essere effettivamente colmato da individui differenti; ma questo posto, invece di essere definito una volta per tutte […] varia». La funzione del soggetto enunciativo è, infatti, indubbiamente una funzione determinata, ma non «necessariamente la stessa da un enunciato all’altro; nella misura in cui infine un unico individuo può occupare di volta in volta, in una serie di enunciati, diverse posizioni e assumere la parte di soggetti differenti»18. 18

M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 109.

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3. genealogia e ascesi

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Un soggetto può riferirsi a più individui reali e un individuo reale può essere più soggetti. L’iniziativa soggettiva assume, come ogni evento enunciativo, una forte carica mobilitante, perché prende ed è preso in quel campo del discorso archeologico che non ne è la manifestazione, ma «un insieme in cui si possono determinare la dispersione del soggetto e la sua discontinuità con se stesso»19. Affrontare il problema del soggetto, secondo Foucault, definendone ogni volta posizioni e funzioni, significa sfuggire alla «soggezione trascendentale» ma anche alla magia consolante delle metafore eternizzanti della vita o della «continuità intenzionale del vissuto». Significa anche promuoverne un atteggiamento fondamentalmente antisistematico: lo strutturalismo con le sue tavole costrittive di differenze potrebbe riprodurre l’attività sintetica e manipolatoria di una ragione nascosta, la ricerca archeologica descrive invece delle positività che «non si impongono dall’esterno al pensiero degli individui», né «vi risiedono dentro e preventivamente». Le positività dell’archivio «costituiscono piuttosto l’insieme delle condizioni secondo cui si esercita una pratica», del «campo in cui si articola (senza costituirne il centro)» l’iniziativa dei soggetti, delle «regole che mette in opera (senza che le abbia inventate né formulate), delle relazioni che le servono da supporto (senza che ne costituiscano il risultato ultimo né il punto di convergenza)». Parlare, per un soggetto archeologico, significa fare qualcosa, «fare un gesto complicato e costoso»20. 4. Quando, nel discorso, ne va del soggetto? Quando parlare significa fare qualcosa o un gesto complicato e costoso? Esigono questo gesto e pongono le condizioni di questo fare, evidentemente, la diagnosi e lo scavo archeologico, come la memoria storica della genealogia. Per essere un fare archeologico, un’attivazione genealogica di enunciati minorizzati o mai detti, la pratica discorsiva deve essere una meditazione. Ogni discorso, infatti, «è costituito da un insieme di enunciati che sono prodotti ciascuno nel 19 20

Ivi, p. 66. Ivi, pp. 235-236.

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loro luogo e nel loro tempo, come altrettanti avvenimenti discorsivi. Se si tratta di una pura dimostrazione, questi enunciati possono essere letti come una serie di avvenimenti legati reciprocamente secondo un certo numero di regole formali; quanto al soggetto del discorso, esso non è per nulla implicato nella dimostrazione: resta in rapporto a questa fisso, invariante e per così dire neutralizzato. Invece una “meditazione” produce, come altrettanti avvenimenti discorsivi, nuovi enunciati che comportano una serie di modificazioni del soggetto enunciante […] Nella meditazione il soggetto è senza posa alterato dal proprio movimento; il suo discorso suscita effetti al cui interno egli è preso». Il lavoro archeologico attiene, si è visto, al «volume complesso» dei sistemi preterminali e dei sistemi terminali, in questo caso a una «specie di “chiasmi” in cui le due forme del discorso si incrociano», all’insieme e all’intreccio, dice Foucault, «della trama dimostrativa e di quella ascetica»21. Meditazione e ascesi, alterazione del soggetto per via del proprio movimento, pratica che mette in opera nuovi eventi che suscitano «effetti al cui interno» il soggetto «è preso», sono le modalità mobilitanti contro l’effetto egemonico di una dimostrazione che manovra per il suo mantenimento. Ciò che discrimina la forza, la presenza elementare nel campo di lotta di tutti contro tutti, dall’esperienza che spinge la «società futura», la «socializzazione reale», è allora il loro valore di posizione: la postazione per un effetto d’insieme, solo in futuro descrivibile come rivoluzione compiuta e non prefigurata come sistema; l’occupazione dei posti in un «diagramma rivoluzionario», nella quadrettatura mobilissima e profonda che impedisca alle quadrettature strutturate e di superficie di mantenere effetti egemonici e costrittivi; l’individuazione e la pratica di linee di schieramento dove il soggetto, come ogni evento del campo, combatta la definitività di regole di costruzione e il loro dominio; l’esclusione della trama dimostrativa che si fa valere come modello e come verifica. Le esperienze sono le forze che tessono la trama ascetica della meditazione. Sono punti dislocati e irregolari, privati forse 21 M. Foucault, Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, trad. it. in appendice a Id., Storia della follia, II ed., cit., pp. 652-653.

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3. genealogia e ascesi

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di un programma strategico ma orientati da una comune precomprensione meditativa; sono punti di cui possono darsi raggruppamenti e forme di omogeneità ma come secondari effetti momentanei. Fra tutte le resistenze, come dice Foucault, «possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali»22, si può forse dire che solo la nozione di esperienza condensa la consapevolezza e il movimento realmente oppositivo rispetto all’istituirsi di quelle rigidità sistematiche che l’archeologo chiamava soglie di epistemologizzazione e che il genealogista ha identificato con la forma dei divieti e degli assoggettamenti. La meditazione è la pratica del discorso (ma, per estensione, di ogni formazione, discorsiva e non discorsiva) che lega a un inevitabile chiasma l’arroganza della dimostrazione. Ma la meditazione, il nocciolo dell’esperienza, che associa all’enunciato dimostrativo l’enunciato meditativo, la novità e la diversità che la dimostrazione espelle dalla pura esecuzione delle regole costruttive, nasce su quella stessa consapevolezza genealogica che è anche la sostanza del lavoro dell’intellettuale rivoluzionario, dell’analisi intellettuale delle linee di fragilità e dei nodi di attacco. I punti che rendono operanti le possibilità della «socializzazione reale» di un campo di lotta sono, allora, sempre insieme punti intellettuali ed esperienti. Se l’intellettuale ormai non lavora più «nell’“universale”, l’“esemplare”, il “giusto ed il vero di tutti”, ma in settori determinati ed in punti precisi» in cui lo collocano la sua condizione professionale e la sua condizione di vita, ha «guadagnato una coscienza concreta ed immediata delle lotte», ha «incontrato problemi ch’erano specifici», ha indicato luoghi dettagliati di intervento, ha anche effettivamente praticato «lotte reali, materiali, quotidiane» – la radicalità è sempre fisica, dice Foucault –, compie in prima persona un’esperienza. Così l’esperiente, che pratica nuovi eventi, nuovi effetti, «al cui interno […] è preso» il suo stesso movimento, una «nuova coscienza, un altro tipo di individualità», compie sempre implicitamente un lavoro intellettuale di conoscenza dei profili e delle soglie di costrizione. L’analisi è presente fin dentro i nostri comportamenti 22

M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 85.

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l’etica oltre l’evento

quotidiani, mentre le operazioni quotidiane, le lotte reali sono i reali valori di posizione dell’analisi. L’esperienza non è più il gesto esemplare e l’illusione dell’immediatezza trasgressiva, così come la riflessione non è una coscienza anticipata e organica di forze omogenee di un’«universalità» reale e presente ancora in «forma oscura e collettiva». La pratica meditativa delinea, allora, il futuro di un’abitudine genealogica diffusa, è forse il segnale di una probabile mutazione, non ancora descrivibile come insieme, di una futura sintesi tra teoreticità molecolare ed esperienza generalizzata. La sintesi di riflessione ed esperienza è indubbiamente una linea d’avvio che attraversa l’apertura in atto, così come l’archeologia si definiva una linea d’avvio, tra le altre, entro una mutazione teorica avviata dal ripensamento della finitudine. L’archeologo non è, o almeno non crede di essere, un soggetto secondo, un soggetto che pensa fuori delle complesse relazioni territoriali nelle quali è preso. Delle pratiche archeologiche, dice Foucault, è possibile solo fare un provvisorio bilancio e non un’estensione formale di metodo. Gli stessi confini archeologici, che potrebbero fare «stagliare» la figura discorsiva dell’archeologia, costituiscono per il presente un’area privilegiata ma incircoscrivibile. L’archeologia è, come ogni lavoro intellettuale, un’esperienza e una pratica meditativa che si colloca, forse, entro l’inevitabile regione – tra le altre inevitabili regioni della vita rarefatta – della storiografia. Eppure, come accade per ogni pratica e per ogni discorso, esercita un effetto ideologico su altre pratiche e altri discorsi, su eventi e formazioni. Ha certamente aiutato lo spostamento in direzione genealogica delle analisi delle formazioni «dei divieti e dei valori», ha indicato che nuovi comportamenti, nuove individualità, nuove esperienze possono nascere soltanto da una preliminare scelta meditativa.

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4. La cognizione della vita

1. Forse un giorno il secolo sarà deleuziano, abbandonerà il circolo, cattivo principio del ritorno, abbandonerà l’organizzazione sferica del tutto, perché è sulla linea dritta e labirintica che tutto ritorna. Così Foucault annunciava, nel 1970, il suo commento a Différence et Répétition e a Logique du sens1. Pensare l’avvenimento acuto o la differenza spostata, le irregolarità intensive o le indefinite ripetizioni, l’affermatività multipla e la disgiunzione, la dissoluzione dell’io, significa spostare il pensiero «alla punta estrema della propria singolarità» e, insieme, sottrarlo alla «figura dell’assoggettamento»2. Nel decennio che segue, il progetto archeologico aprirà alla storia frammentata come al «corpo stesso del divenire»3, alla genealogia e alla memoria delle lotte4, alla questione del potere «governamentale». Si dirà che il potere è produttivo e reticolare, pervasivo fino ai punti minimi, invisibile e anonimo, «attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche»5. In questo contesto il confronto con Deleuze sui problemi dell’agencement de désir e del flusso evenemenziale rimarrà irrisolto. Come distinguere le «linee di fuga» e le «punte di deterritorializzazione» dai dispositivi di potere e dai loro effetti? È 1 M. Foucault, Theatrum philosophicum, «Critique», n. 282, nov. 1970, ora in Dits et écrits, cit., pp. 75-76. L’apertura del testo, qui riassunta, manca nella traduzione italiana. 2 M. Foucault, Theatrum philosophicum, trad. it. cit., pp. X-XII. 3 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in Id., Microfisica del potere, cit., p. 34 (il corsivo è mio). 4 M. Foucault, Difendere la società. Corso al Collège de France. 1976, ed. it., a cura di M. Bertani e A. Fontana, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, p. 23. 5 M. Foucault, Microfisica del potere, cit., p. 16.

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l’etica oltre l’evento

una domanda difficile, che, per Deleuze, è destinata a rimanere sostanzialmente inevasa6. Disposto all’interno del pensiero della dispersione il problema foucaultiano resterà – nella seconda metà degli anni Settanta – l’occupazione capillare della singolarità, ostinatamente spostato sulle condizioni della sua resistenza. I corsi tenuti al Collège de France in quegli anni attivano il largo dibattito, tuttora in corso, sulle forme della biopolitica. La svolta governamentale del potere, associata al far vivere7, alla produzione, alla sollecitazione e all’incremento della vita singolare, ne definisce il controllo, ne regola le condotte, descrive campi strategici seriali e delocalizzati, dove è, tuttavia, aperta la sfida delle contro-condotte e dei contro-poteri che decide la dimensione «politica» delle vite8. Il vivente è il traversamento di «veridizioni epistemiche» e, al tempo stesso, resta il possibile agente di resistenza alle trame di occupazione che si alimentano della singolarità prodotta. Gli effetti del discorso foucaultiano sulla biopolitica aprono uno scenario dinamico, dove i poli della disgiunzione sembrano essere la vie en sommeil, la vita in sonno, la sua narcosi, e la vita in atto, la sua rianimazione. Il sonno della vita affianca, dunque, il passaggio dal potere sovrano al potere microfisico, a quel governo delle vite che produce, si diceva, lo slittamento da una «veridizione giuridica» a una «veridizione epistemica». Non sono le leggi a legittimare 6 A commento de La volonté de savoir, nel 1977, Deleuze affida a François Ewald una serie di note di carattere personale e confidenziale indirizzate a Foucault, pubblicate poi col titolo Désir et plaisir, in «Magazine littéraire», solo nell’ottobre del 1994; trad. it. in G. Deleuze, Divenire molteplice, cit., pp. 77 sgg. 7 Il faire vivre, il «far vivere» o il fare la vita, è espressione che appare già in La volontà di sapere (cit., p. 122) e che ritorna in Difendere la società (cit., p. 160: «… ecco apparire, con la tecnologia del bio-potere, con questa tecnologia sulla popolazione e sull’uomo in quanto essere vivente, un potere continuo, scientifico: il potere di far vivere»). Sulla nuova arte di governo come produzione e consumo di libertà cfr. Nascita della biopolitica, cit., p. 65. 8 «Niente è politico, tutto è politicizzabile, tutto può diventare politico. La politica non è niente di più e niente di meno di ciò che nasce con la resistenza alla governabilità, la prima sollevazione, il primo fronteggiarsi» (manoscritto senza titolo inserito tra le lezioni febbraio-marzo di Nascita della biopolitica, di cui riferisce M. Senellart, Nota del curatore, in M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 291).

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4. la cognizione della vita

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il controllo ma i sistemi di verità, non i divieti ma le serialità cognitive9. Se torniamo agli anni Sessanta, il problema della cognizione della vita e del suo possibile passare all’atto è elaborato e discusso all’interno di una scelta teorica forte, quella di un kantismo radicale ed enigmatico. A Kant va riconosciuta una sovversione, sfuggita anche alla critica fenomenologica: la sottrazione all’evidenza dell’oggettività, l’abbandono della rappresentabilità integrale, «il ritirarsi del sapere e del pensiero al di fuori dello spazio della rappresentazione»10. Il kantismo è l’abisso di una rottura che segna la soglia della modernità. È l’avvio di una riflessione sulle condizioni del pensare en dehors, al di fuori del quadro delle identità e delle differenze. È la congiunzione del tema trascendentale con la «svolta antropologica» e l’«analitica della finitudine». L’uomo propone, con Kant, la condizione paradossale di soggetto determinante e di soggetto determinato, ed è sempre effetto di un complesso misurarsi di Critica e Antropologia. Questa singolare répétition antropologico-critica suggerisce l’idea di un decentramento deciso del criticismo e il divenire stesso del senso del trascendentale. Dunque, il kantismo si dispone alla nascita del problema foucaultiano della vita. Prepara, da lontano, le condizioni per decifrare un nuovo, più invasivo e più ingannevole dogmatismo assoggettante: la riduzione della vita alla sua pura cognizione, adatta a moltiplicarla e a sollecitarla, e insieme a mascherarne la cancellazione. 2. In un corso tenuto all’Università di Lille nel 1952 Foucault discuteva il problema antropologico da Kant a Nietzsche, limitandosi a commentare la Logik del 1800, che del kantismo 9 Per il nesso tra governamentalità e formazione di verità, a proposito della biopolitica interna al liberalismo economico, cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 37-40. 10 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 262-263. A proposito della radicalità del kantismo e della critica alle tesi su Kant proposte dalla Krisis husserliana, rinviamo al commento di G. Lebrun, Note sur la phénoménologie dans Les Mots et les Choses, in Michel Foucault philosophe, Editions du Seuil, Paris 1989, pp. 33 sgg.

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riassume il legame tra il percorso critico e la domanda sull’uomo. Il Was ist der Mensch? chiude, com’è noto, la sequenza delle interrogazioni critiche11. Nel 1964 la traduzione della kantiana Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, proposta da Foucault per suggerimento di Canguilhem, annunciava, in una nota introduttiva, il progetto di un lavoro sui «rapporti tra pensiero critico e riflessione antropologica»12. Già le conclusioni dell’Introduction à l’Anthropologie de Kant – un testo esordiente, inquieto e irregolare, troppo a lungo rimasto inedito – denunciavano le ragioni dell’«illusione antropologica» di cui, più tardi, Les mots et les choses imporranno il consumo e lo «sprofondamento». Ma soltanto la consapevolezza – si è commentato13 – che una nuova configurazione del sapere avrebbe compiuto lo spostamento dall’età della rappresentazione a quella dell’antropologia, annunciando di questa l’emergenza e la probabile sparizione, poteva lasciar raccontare la grande questione che la duplicazione kantiana dell’empirico e del trascendentale affida al pensare. Non è eccessivo ritenere, allora, che, per Foucault, proprio la rilettura di Kant sia stata in grado di aprire il problema: come tornare a pensare l’umano a partire da una soglia segnata dall’estenuazione dell’umanismo. È su questa soglia che si mostra l’enigma di Kant. È l’«enigma kantiano» – scriveva Foucault nel 1966 – a sollevare nella nostra memoria due grandi figure e a liberare una doppia nostalgia: all’età greca chiediamo di chiarirci il nostro rapporto con l’essere e al secolo XVIII di rimettere in questione le forme e i limiti del nostro sapere14. Se il pensiero contemporaneo è votato allo «sradicamento dall’Antropologia», questo è dato nell’esercizio di una «critica generale della ragione» che sa declinare, proprio come Kant, un pensiero radicale dell’essere e l’interrogazione sui limiti del pensiero15. Il critici11 Le quattro domande della Logik (in Kant’s Gesammelte Schriften, Walter de Gruyter, Berlin-Leipzig 1900 sgg., p. 26) sono riprese sia nell’Introduzione (cit., p. 54) che ne Le parole e le cose (cit., p. 366). 12 Cfr. Notice historique, premessa alla prima edizione francese dell’Anthropologie, cit., p. 10. 13 D. Defert, Fr. Ewald, F. Gros, Présentation, cit., pp. 8-9. 14 M. Foucault, Une histoire restée muette, cit., pp. 546-547. 15 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 367.

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smo kantiano, ripensato con l’Anthropologie, ha indicato la validità dei limiti e, insieme, i limiti della validità16. Dunque, la nascita della modernità è inquietata da un evento, la comparsa dell’uomo sulla scena del sapere. È la tesi maturata ne Les mots et les choses, premessa all’analisi dei rapporti tra pensiero critico e riflessione antropologica. La biologia, l’economia, la filologia sottraggono il «reticolo incolore»17 delle rappresentazioni alla quadrettatura spontanea delle cose18 e interrogano quell’«essere tale che in esso verrà acquistata conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza»19. Occorre cercare le sintesi empiriche «proprio là dove la sovranità trova il proprio limite, cioè nella finitudine dell’uomo, finitudine che caratterizza sia la coscienza sia l’individuo che vive, parla, lavora»20. La figura dell’uomo, che non può sfuggire alle sintesi dei saperi, occupa, così, lo spessore di una posizione ambivalente, oggetto di conoscenza e soggetto che conosce. L’effetto è l’apparire di un «sovrano sottomesso» e di uno «spettatore guardato». L’uomo è il potere di rappresentare, ma, al tempo stesso, «sorge in una cavità predisposta», si insedia in una «irriducibile anteriorità»21. Le «forme concrete dell’esistenza finita», che riassumono i contenuti determinati dei saperi empirici, dicono, perciò, della comparsa dell’uomo «a titolo di figura della finitudine», una «figura paradossale» perché «i contenuti empirici della conoscenza liberano, ma a partire da sé, le condizioni che li resero possibili». Così, l’uomo non è la trasparenza del puro pensiero né una passività inaccessibile alla coscienza, ma è l’enigma e l’indecisione, un passare irrisolto che va dall’atto pensante e dal «puro possesso» al disordine dei contenuti e delle esperienze concrete, all’«ingombro empirico», dove il pensiero 16 A proposito della inscrizione del lavoro foucaultiano nella tradizione critica inaugurata da Kant e di come l’antropologia abbia scavato nel cuore del pensiero kantiano il problema del limite si veda il recente saggio di R. Nigro, Foucault e Kant: la critica della questione antropologica, in Foucault, oggi, a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 278 sgg. 17 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 335. 18 Ivi, p. 328. 19 Ivi, p. 343. 20 Ivi, p. 366. 21 Ivi, pp. 336-338.

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è sempre esposizione all’essere, all’impensato e alla minaccia di ciò che gli sfugge22. È questa sfida, quella di inseguire uno strano «allotropo empirico-trascendentale»23, un decisivo doublet, che mette alla prova il kantismo nell’analisi di un campo ambivalente: la domanda critica di Kant parla della sovranità di un sapere e di un volere, ma si incrocia e attraversa l’inchiesta antropologica che sfida la validità, che descrive i vincoli e le dipendenze, le condizioni concrete dell’operare delle leggi della ragione. Il quadro teorico irrinunciabile è, per l’essenziale duplicazione dell’empirico e del trascendentale, di questi la congiunzione, ma anche la «separazione»24. Il percorso kantiano non può che essere duplice e parallelo, critico e antropologico. L’Anthropologie in pragmatischer Hinsicht accompagna, dunque, l’intero lavoro critico, dice Foucault. La «geologia profonda» dell’Anthropologie dà conto di un movimento contemporaneo «tanto di ciò che precede la Critica, quanto di ciò che la compie e di ciò che presto la liquiderà»25 e di un orientamento costante che unisce gli scritti precritici all’Opus postumum26. Un’immagine concreta dell’uomo ha conservato un «coefficiente di stabilità» al fondo dell’impresa critica kantiana. Quest’ultima, a sua volta, ha segretamente sostenuto, con una «finalità oscura e ostinata», la sua ricerca antropologica. Per questo dall’inchiesta antropologico-critica può nascere un «homo criticus» diverso da quello che lo ha preceduto: la Critica «aggiungerebbe al suo carattere specifico di “propedeutica” alla filosofia un ruolo costitutivo rispetto alla nascita e al divenire delle forme concrete dell’esistenza umana» e un’altra «verità critica dell’uomo» apparirebbe dalla preliminare critica alle condizioni di verità27. La dispersione temporale dell’io, immesso in un mondo che ne avvolge l’esistenza reale, che «contenendola, al contempo la 22

Ivi, p. 347. Ivi, p. 343. 24 Ivi, p. 366. 25 M. Foucault, Introduzione, cit., p. 13. 26 Ivi, pp. 13, 55 sgg. 27 Ivi, p. 11. 23

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trattiene e la libera»28, resta, nel testo foucaultiano dell’Introduction, il nodo essenziale del kantismo. In una prospettiva antropologica, la verità «prende figura», per Kant, solo attraverso una «dispersione temporale delle sintesi», perché non trova mai la sua «forma primitiva», i momenti apriori della sua costituzione, «né lo choc puro del dato». Trova la sua «forma originaria», piuttosto, all’interno di un «flusso temporale» e di un «sistema linguistico» al loro «punto zero»: la verità nasce solo in ciò che è veramente temporale e realmente scambiato29. È la tensione duplice della nozione di tempo, interna alla ripetizione critico-antropologica, che ne modifica profondamente il senso. Il tempo della Critica, forma dell’intuizione e del senso interno, assorbe la molteplicità del dato in un’attività costruttiva e offre «il diverso solo in quanto già dominato nell’unità dell’Io penso». Il tempo dell’Anthropologie «è invece garantito da una dispersione che è insormontabile», che non riguarda il puro dato e la passività sensibile, ma la stessa dispersione «dell’attività sintetica rispetto a se stessa»30. Il tempo della Critica assicura l’unità dell’originario, quella unità che potrà indurre al pensiero dell’origine come «ontologia dell’infinito»31, come estenuazione della verità nella «verità della verità»32. Il tempo dell’Anthropologie è la dispersione delle sintesi e la possibilità «sempre rinnovata di vederle sfuggire le une alle altre». Il tempo della Critica si pone nella dimensione dell’Ur, dell’origine inalterabile, il tempo dell’Anthropologie occupa il dominio del Ver, della possibilità di portare a compimento e di mettere insieme, ma anche di deviare la direzione e di scomporre la determinazione acquisita. Infine, il tempo dell’Anthropologie non è più ciò in cui, attraverso cui e per cui si fa la sintesi, ma è ciò che «corrode» la stessa attività sintetica. E questa corrosione è la perdita della sovranità a vantaggio di una «incertezza paziente, fragile, compromessa»33. 28

Ivi, p. 59. Ivi, p. 77. 30 Ivi, p. 66. 31 Ivi, p. 89. 32 Ivi, p. 93. 33 Ivi, pp. 66-67. 29

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l’etica oltre l’evento

Alla Critica che perviene a ciò che è condizionante nell’attività fondatrice l’Anthropologie risponde con l’inventario di ciò che «può esserci di non-fondato nel condizionato». Nella «regione antropologica» non c’è sintesi «che non sia minacciata»: il dominio dell’esperienza è come attraversato all’interno da pericoli che non riguardano il «superamento arbitrario», ma «lo sprofondare su di sé»34. Dunque, laddove la «falsa Antropologia» fa scivolare «verso un cominciamento, verso un arcaismo di fatto o di diritto, le strutture dell’apriori», l’antropologia kantiana «ci dà un’altra lezione: ripetere l’apriori della Critica nell’originario, vale a dire in una dimensione veramente temporale»35. La congiunzione dissociata delle analisi empiriche e trascendentali, la complicazione del lavoro insieme antropologico e critico, è imposta dalla «struttura indissociabilmente prima e seconda»36 dell’esistenza finita, perché l’uomo non è né l’«uomo natura» né l’uomo «soggetto puro di libertà». Che la domanda sull’uomo possa mantenersi attiva solo all’interno di una speciale disposizione antropologico-critica era una convinzione già chiara nel commento a Binswanger del 1954. Il «“fatto” umano» – scriveva Foucault – non è «settore oggettivo di un universo naturale, ma il contenuto reale di un’esistenza che si vive e si mette alla prova, si riconosce e si perde in un mondo che è al tempo stesso la pienezza del suo progetto e l’“elemento” della sua situazione»37. Perciò il compito filosofico di un’antropologia che voglia sfuggire al dogmatismo speculativo e all’empirismo positivistico e naturalistico delle scienze è di mostrare come l’inchiesta empirica debba sempre nutrirsi di una «riduzione trascendentale»38: un nesso di distinzione e di penetrazione tra l’analisi concreta e la critica trascendentale 34

Ivi, p. 50. Ivi, p. 69. 36 Ivi, p. 48. 37 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., p. 16. Per il senso della lettura foucaultiana di Binswanger e per la congruità dell’interesse fenomenologico e della scelta genealogica rinviamo al commento di E. Basso, Fenomenologia e genealogia. A partire da Foucault lettore di Binswanger, in Foucault, oggi, cit., pp. 252 sgg. 38 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., pp. 82-83. 35

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ha l’obbligo di guidare la corretta impostazione della domanda antropologica, sottratta a quel puro raddoppiamento empiricocritico connivente con il doppio errore dell’astrattezza speculativa o della riduzione positiva. La duplicazione dell’empirico e del trascendentale che non tradisce l’ingiunzione kantiana della «separazione» spiega la centralità della sequenza, posta dalla Logik, delle tre domande critiche e della domanda sull’uomo. La questione antropologica va posta attraversando la questione critica e recuperando, perciò, il dominio e l’effetto di quella che può definirsi la répétition anthropologico-critique39. L’unica capace di dissuadere da quel redoublement che sovrappone ed inverte, per l’«illusione antropologica» e l’«illusione trascendentale», l’elemento di natura e l’elemento fondamentale, perseguendo l’obiettivo di una «natura della natura umana»40. La «duplicazione empirico-critica» dopo Kant ha, però, smarrito la irriducibilità dei poli della congiunzione. Accade, allora – sono le conclusioni di Les mots et les choses –, che «la funzione trascendentale copre col proprio imperioso reticolo lo spazio inerte e grigio dell’empiricità». È il ritorno dell’ingenuità precritica nell’analitica della finitudine, che fa valere il «discorso vero» livellando l’empirico e il trascendentale. Svuotando il senso della «separazione» dell’empirico e del trascendentale, la comparsa dell’uomo nei saperi moderni produce la duplicazione, ma anche la confusione. Mostra la corrispondenza del dato dell’esperienza e di ciò che la rende possibile. Così la filosofia si assopisce in un sonno nuovo, «non più quello del Dogmatismo, ma quello dell’Antropologia»41. Il «sonno antropologico» è, allora, la quiete della teoria, che resta muta nei saperi e negli effetti di verità. È il tradimento di quella ingiunzione critica kantiana che esige l’accordo e, al tempo stesso, la distanza tra il teorico e il cognitivo, tra la filosofia e le scienze. La loro assimilazione, in ogni forma, produce letargo e passività. 39

M. Foucault, Introduzione, cit., p. 61. Ivi, p. 92. 41 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 367. 40

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Dal punto di questa diagnosi il sonno antropologico è, dunque, inerzia del pensare. Questo sonno accenna più profondamente, si vedrà, al sonno del vivente, all’assopirsi e al perdersi della vita. Ma in che senso questo pensare in sonno rischia di convertirsi nel sonno della vita? E in che senso il sonno della vita impone un movimento nel pensiero? 3. Non c’è dubbio che lo «sradicamento dall’antropologia» è – rileggendo Kant – l’avvertimento di Nietzsche. Dispone l’uomo in quella «lacuna» incolmabile che resta il «vuoto dell’uomo scomparso»42. È qui che appare la vita singolare, l’evento, la forza, la irriducibilità della variazione minima, la vibrazione fluente del post-umano. È qui l’avvio, nel nome di Kant, del pensiero evenemenziale che pratica le biais du paradoxe e l’éviction des catégories, l’inizio di quel mutamento nel pensare che produce la mobilità della singolarizzazione e le irrepetibili vite singolari. Ma forse la pura accensione dell’agencement merita una problematizzazione, se non riesce a sottrarre il vivente singolare agli stessi effetti metafisici dei saperi della «natura umana», se non evita per la différence déplacée il rischio del sonno che questa aveva creduto di combattere. Il contesto più maturo delle tesi foucaultiane sulla microfisica dei sistemi di verità e dei dispositivi di potere, sulla maturazione di un campo biopolitico che, oltre le forme dei totalitarismi e le specifiche veridizioni epistemiche, descrive e produce l’effetto strategico di un controllo totale dell’irrepetibile, non può evitare di sollecitare un rilancio della questione del doublet, dell’allotropia, o della congiunzione-disgiunzione dell’empirico e del trascendentale. Non può sottrarsi all’ipotesi che l’evento, immesso nel cuore delle elaborazioni cognitive contemporanee – si pensi alla biologia, alle neuroscienze, alla fisica e alla termodinamica, per non dire delle neotecnologie e delle scienze della comunicazione e dell’informazione –, assimili a sé ogni critica e ogni potenza del pensare, esoneri la teoria e la filosofia, replicando gli effetti metafisici dei saperi della «natura umana». 42

Ivi, p. 368.

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Non è difficile pensare che il sonno antropologico si sposti e si trasformi in un sonno evenemenziale, e che la différence déplacée condivida, nel post-moderno, lo stato del sopore e della narcosi della modernità. In altri termini, la svolta evenemenziale dell’intero sistema dei saperi può, oggi, suggerire che il problema dell’assopirsi del pensare non riguardi più la dimensione dell’ordine e della norma, ma quella del disordine e della fluenza. Il rischio di un sonno evenemenziale impone, allora, di ripensare il pensare. Impone di discutere dello spazio di distanziamento del pensiero dalla pura cognizione dell’evento. Suggerisce di provare a indagare il luogo rinnovato, e sottratto ai saperi, della potenza e della volontà dell’atto, di un «passare all’atto»43 dove il dinamismo si sposta oltre la ri-cognizione e l’accettazione di ciò che è e imponga di rimettere in problema l’elemento trascendentale in quanto condizione – seppur «de-soggettivata»44 – di ciò che si sottrae al puro essere tal qual è. Il confronto tra differenziazione ed effetti di verità, tra processi di singolarizzazione e sistemi di conoscenza, è presente, in Foucault, in tutta evidenza e negli stessi anni delle riflessioni sulla répétition anthropologico-critique, proprio in riferimento ai saperi della vita, nell’esame della nascita della biologia e nell’archeologia dello sguardo medico. Proseguirà, più tardi, per la biologia molecolare e sarà il coerente sostegno decisivo alle tesi sulla biopolitica e sul suo intreccio con il liberalismo e il neoliberismo. La biologia di Cuvier e le analisi della percezione anatomico-clinica, ancor più la fisiologia e le analisi funzionali, più in generale l’attenzione alle analisi micrologiche del vivente, provano, tutte, a restituire nei saperi la frammentazione della vita. Non c’è dubbio che le scienze umane, dice Foucault, nel porre l’enigmatica coesistenza dell’oggetto e del soggetto del conoscere, hanno segnato una doppia apertura. Da un lato, sono state «continuamente animate da una sorta di mobilità trascendentale» e non hanno cessato «di esercitare nei propri riguardi un

43 L’espressione è deleuziana (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 21), poi ripresa da B. Stiegler, Passare all’atto, cit. 44 Sulla «desoggettivazione» del trascendentale si veda di Foucault, in particolare, il breve testo Illuminismo e critica, cit., p. 50.

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recupero critico»45; dall’altro, nella «Piega» della duplicazione assimilante dell’empirico e del trascendentale, «la filosofia si è assopita d’un sonno nuovo»46. Nell’assopirsi del pensiero nella fluenza piuttosto che nella costanza, la doppia apertura – quella dell’esercizio della critica e quella della sua «duplicazione» nella cognizione – segnala, allora, un confine sottilissimo e talora indistinguibile, l’inganno dell’identità fra la cognizione della vita e la vita in atto, l’illusione dell’assimilazione di immediatezza e liberazione. Così, un nuovo dogmatismo, oltre il sonno antropologico, sembra insinuarsi nella forma del sonno della vita, della vie en sommeil, all’interno di quel sapere, inaugurato da Cuvier, che dissocia vita e natura. Con la biologia di Cuvier, dice Foucault, scompare la «natura» come spazio omogeneo delle identità e delle differenze ordinabili47. Si produce, piuttosto, uno sganciamento dell’identità dalle differenze, perché queste rispondono ad un piano di organizzazione estremamente variabile, per il quale «l’essere biologico si regionalizza e si autonomizza» e «il vivente si avvolge su se stesso, rompe le proprie prossimità tassonomiche, si strappa all’ampio piano vincolante della continuità»48. Si apre uno «spazio senza continuità essenziale. Spazio che fin dall’inizio si dà nella forma del frazionamento»49. La differenza, così, non ha più una funzione «catenaria» tra le specie, non colma «il vuoto tra essere ed essere», non si situa «nell’interstizio degli esseri per collegarli»50, ma si produce come l’effettivo «enigma» della vita51. L’animale, a cui l’uomo è intrecciato per intero in quanto esistenza corporea52, è la «discontinuità radicale»53, dal momento che la vita sottrae l’essere all’essere, apre l’essere al non-essere. L’animale «si mantiene ai confini della vita e della morte», per45

M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 390. Ivi, p. 367. 47 Ivi, pp. 290-291. 48 Ivi, pp. 296-297. 49 Ivi, p. 294. 50 Ivi, p. 295. 51 Ivi, p. 300. 52 Ivi, p. 376. 53 Ivi, p. 298. 46

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ché la vita si mostra come «una divorazione perpetua» immessa, com’è, in un «movimento che la destina alla morte»54. La vita così descritta è «selvaggia» e lascia apparire un’«ontologia selvaggia», l’idea di un essere, cioè, che si dà soltanto nel moto che lo destina al non-essere. E in questo la vita ha un «valore radicale», perché non è altro dagli «esseri dispersi» che «si formano per un istante, si arrestano, la rapprendono». L’«ontologia selvaggia non svela tanto ciò che fonda gli esseri quanto piuttosto ciò che li porta un istante ad una forma precaria e segretamente già li insidia all’interno per distruggerli»55. Un interrogativo conclude l’analisi della svolta biologica di Cuvier. Quanto quel sapere differenziale, annunciato nell’«ontologia dell’annullamento degli esseri», che, «considerata nella sua profondità archeologica», domina da lontano l’«avvenire della biologia»56, vale anche «come critica della conoscenza»? Dal momento che «non si tratta tanto di fondare il fenomeno» ma di «dissiparlo e distruggerlo», di esercitare quel «recupero critico» che è il permanere nei saperi della pratica di un «trascendentale» seppur «de-soggettivato»? Quanto questa forma di positività e la svolta biologica hanno assimilato a sé «la “filosofia” che le spetta»?57 Sarà forse opportuno, allora, ancora chiedersi: quale filosofia, in quanto ripetizione antropologico-critica, spetta a quella positività biologica che annuncia, con un sapere della dispersione, proprio il punto di inflessione che ha compiuto, dopo Nietzsche, l’arretramento dall’identità e ha «portato la finitudine dell’uomo a convertirsi nella sua fine»?58 Quanto la positività biologica ha aperto «il pensiero della finitudine prescritto come compito alla filosofia dalla critica kantiana» e che «forma ancora lo spazio immediato della nostra riflessione»?59 E quanto, al contrario l’«ontologia selvaggia» replica il nuovo dogmatismo di una metafisica della vita? 54

Ivi, p. 300. Ivi, p. 301. 56 Ivi, p. 297. 57 Ivi, p. 302. 58 Ivi, p. 412. 59 Ivi, p. 411. 55

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Il testo foucaultiano sembra qui aprirsi ad una difficile ambivalenza. La filosofia evenemenziale non può tradire lo sforzo di rottura dei saperi del vivente, ma forse non può neppure rinunciare allo scarto da questi. Non può evitare una pratica «trascendentale» che imponga il mutamento nel pensare, l’esercizio di una teoria sottratta al redoublement di qualsiasi cognizione della vita. Non può sottrarsi, da un lato, all’ impegno di scomposizione genealogica di ogni sistema di verità, come vuole l’archeo-genealogia, e, dall’altro, alla pratica quotidiana di una «riflessività» intransitiva che, nell’ultimo Foucault, unirà il sè e la verità nel circolo di un divenire etico della vita. Dopo l’Introduction e prima de Les mots et les choses, anche l’archeologia dello sguardo medico, nella Naissance de la clinique, assegna alla medicina moderna la produzione delle innumerevoli vite, con la conversione del vivente nel malato, laddove la vita è sempre all’incrocio con la morte. Il vivente singolare trova la sua effettiva esistenza nella regione del morboso, non nel vitale né nel macabro, che fuori del loro incrocio restano principi sintetici e astrattamente includenti. «Il Macabro implica» – scrive Foucault – «una percezione omogenea della morte. Il Morboso autorizza una percezione nel modo in cui la vita trova nella morte la sua figura più differenziata; il morboso è la forma rarefatta della vita, nel senso che l’esistenza si spossa, s’estenua, nel vuoto della morte, ma anche perché vi assume il suo volume strano, irriducibile alle conformità e alle abitudini, alle necessità acquisite; un volume singolare, che definisce la sua assoluta rarità»60. Ed è nel corso della trasformazione del sapere medico che lo spazio della malattia diviene il campo proprio dell’apparire della assoluta singolarizzazione del vivente. Anche per il sapere medico una cesura segnala la malattia che prende corpo61 ed è la svolta da una «spazializzazione primaria» a una «spazializzazione secondaria». Per la prima, la malattia si offre in un tableau, in un quadro nosografico delle essenze classificate, «uno spazio profondo […] che da lontano le comanda»62 60

M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 196. Ivi, p. 23. 62 Ivi, p. 17. 61

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e che raddoppia in una contro-natura il corso della natura. Per la seconda, si produce lo spostamento dallo spazio piatto e omogeneo delle classi ad un sistema geografico di masse differenziate63, dove irrompe l’opacità del corpo e dove il cuore della malattia è indicato dalla sintassi del significante64. La clinica offre uno sguardo che, non assimilato alla logica del linguaggio, restituisce come «verità quel che è stato prodotto secondo una genesi»65. L’irruzione della morte, del cadavere e della dissezione anatomica addensa, poi, lo sguardo medico, che dalle superfici sintomatiche della clinica affonda nel volume delle sedi organiche e tissulari dell’anatomia e acquista l’andamento della localizzazione e della diramazione. La medicina anatomico-clinica si fa decifrazione dei sintomi e lettura delle lesioni66, dove lo sguardo insegue il tragitto delle masse organiche e il loro muoversi morbosamente67. E infine, la fisiologia e le analisi funzionali, a partire dai lavori di Broussais del 1816, avviano l’osservazione del movimento complesso dei tessuti reagenti e individuano la sofferenza come il rapporto della vita singolarizzata di un organo con un agente o con un ambiente, come una spinta reattiva ad un attacco, come influenzamento e reticolo tra elemento e elemento. Il morboso non è altro, così, che il movimento di una vita singolare e un reticolo differenziale68. Qui l’esperienza clinica si fa «esperienza lirica»69, perché allo sguardo medico è concomitante un linguaggio che sfugge alla forma della parola e che lambisce «quella regione di sabbia che è ancora dischiusa alla chiarezza della percezione, ma non lo è più alla parola familiare»70. Il sapere medico, come quello biologico, esibisce un potere irruttivo, dirompente, d’étonnement. Gli anni Settanta indagano esplicitamente le microanalisi e i micropoteri. L’analisi delle forme del potere incrocia, si è detto, 63

Ivi, p. 23. Ivi, pp. 108-109. 65 Ivi, p. 53. 66 Ivi, p. 157. 67 Ivi, p. 161. 68 Ivi, p. 224. 69 Ivi, p. 224. 70 Ivi, p. 194. 64

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l’etica oltre l’evento

la questione governamentale e il suo legame con la verità. Segnala il passaggio decisivo dall’anatomo-politica del corpo umano alla «biopolitica» della specie, dalla disciplina dei corpi alla regolazione delle popolazioni71. Se la biopolitica è annunciata come governo di «un insieme di esseri viventi e coesistenti, che presentano dei tratti biologici e patologici particolari, e che pertanto dipendono da saperi e tecniche specifici»72, il potere sulla vita è assegnato al quadro generale del liberalismo73 che non può non misurare la forza effettiva del governo dall’efficacia della gestione delle forze dei viventi: non vale più la classificazione e l’esclusione delle vite, ma la sollecitazione e il loro accrescimento. Su queste premesse il passaggio dalla veridizione giuridica alla veridizione epistemica delle forme governamentali del potere non poteva che alimentarsi e insieme promuovere un sapere frazionante e dispersivo. La biologia – per la quale Cuvier, si diceva, ha segnato l’avvenire – si rinnova e accompagna il prodursi di quella positività, discorsiva e non discorsiva, che mostra tra i suoi effetti di superficie le forme di una sostanziale occupazione delle innumerevoli vite. L’attenzione alla biologia molecolare di Jacques Ruffié e alle sue proposte per l’analisi delle specie sembra denunciare la convergenza del nuovo sapere e del nuovo potere. L’analisi delle razze, trama epistemica del totalitarismo, appare inutile e insufficiente per il potere microfisico. Dalle pagine significative di Ruffié a proposito del problema delle «razze umane» bisogna trarre, dice Foucault, un orientamento importante. La specie non deve essere definita da un prototipo, ma da un insieme di variazioni. Il polimorfismo genetico non costituisce una decadenza. Una popolazione non può essere definita sulla base dei suoi caratteri morfologici manifesti. La biologia molecolare consente di individuare dei fattori da cui dipendono le strutture immunologiche e il gruppo enzimatico delle cellule. I saperi della vita sono in grado di restituire, così, l’idea di un’umanità «in cui non esistono razze che si giustappongono, ma dei “nugoli” di popolazioni» o «insiemi di variazioni, che non cessano di farsi e di disfarsi». Ciò 71

M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 123 ; Difendere la società, cit., p. 209. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 269. 73 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 35 sgg. 72

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4. la cognizione della vita

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non interessa solo la bio-storia, ma «una “bio-politica” che non sarà quella delle divisioni, delle conservazioni e delle gerarchie, ma quella della comunicazione e del polimorfismo»74. La dispersione micrologica della nuova concettualità biologica e, più in generale, di una nuova cognizione della vita non suggerisce, per Foucault, la liberazione dei flussi libidinali e delle straordinarietà energetiche di certa filosofia evenemenziale75, ma ci fa attenti a come forme nuove di occupazione della vita siano affidate a nuovi indici epistemologici della positività. Dunque, non solo il sapere della «natura della natura umana» è un fondo bloccato e disposto, perché privato della inassimilabilità della cognizione alla teoria e alla filosofia. Anche la vita singolare, pensata dai saperi nel modo della «differenza spostata», è bloccata e impedita nel suo movimento di resistenza all’occupazione. La vita molecolare pensata, così, entra in sonno, si spegne, perché, appiattita sui saperi, è espropriata della teoria e della sua pratica critica. Ancora una volta, nell’apertura dei saperi della non-identità, i saperi e la filosofia hanno il compito, indicato da Kant, di combinarsi e di separarsi. E non a caso la vita pensata e la vita che si pensa, la vita esaminata dai saperi e la vita a questi sottratta da un altro pensare, suggeriscono all’etica foucaultiana degli anni Ottanta l’idea della «vera vita» e della «vita filosofica» come cura di sé e attualizzazione del mondo. Perché la vita si risvegli è necessario, dunque, un altro sapere, una duplicazione separante, come voleva Kant, o uno strappo della filosofia dalla cognizione. Ed è questa rottura che impone, si diceva, un’altra riflessività e che apre l’interrogazione etica, dove Foucault suggerisce sostanzialmente di incrociare la de-soggettivazione del trascendentale e la ri-soggettivazione dell’evento. La dimensione etica, nell’ultimo Foucault, acquisterà uno spessore teorico che apre uno spazio più largo, quello della vita 74 M. Foucault, Bio-histoire et bio-politique, in «Le Monde», n. 9869, 17-18 octobre 1976 (sur J. Ruffié, De la biologie à la culture, Flammarion, Paris 1976), ora in Dits et écrits, cit., III, pp. 96-97. 75 Esemplare è il riferimento a Ruyer e a Monod, a proposito dell’inconscio molecolare, di Deleuze e Guattari (L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it., Introduzione di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, pp. 325 sgg.).

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l’etica oltre l’evento

politica, dove appunto s’incrociano la decifrazione archivistica e la elaborazione del sé, l’attivazione etica della forza e l’immissione dell’atto nei «quadri» incomponibili del tempo storico. Negli anni Ottanta solo le pratiche etiche plurali possono aprire la problematizzazione del presente e l’attualizzazione del mondo, l’épreuve d’événementialisation. L’essere altrimenti non può che essere effetto di concrete relazioni mobili e amicali, sostenute dall’intreccio difficile, affettivo e riflessivo, di atti di verità o di pratiche «parresiaste»76. La vita, come la resistenza e la contro-condotta, è a chiare lettere affidata a una speciale terapia – le souci de soi – che sappia modificare la forza e ri-soggettivare l’evento. E questo therapeuein porta con sé il senso dell’esercizio, dell’operare, del rapporto alla potenza e alla negatività77. Sono i tratti che danno sostanza all’«estetica dell’esistenza» e che restano, per il vivente singolare, il nocciolo della «soggettivazione»78. Questa rilancia l’esercizio di una Kunst, la pratica del Gemüt e la presenza del Geist, nozioni kantiane che, vent’anni prima, l’Introduction aveva voluto commentare con convinzione. 4. Pensare la vita è dunque anche pensarsi. E questo è la lontana premessa dell’Anthropologie. Lo spazio che rende possibile un’antropologia – si legge nell’Introduction – è certamente la «regione» nella quale l’osservazione di sé non accede né a un soggetto in sé, né all’Io puro della sintesi, ma a un me che è presente nella sua verità fenomenica. E tuttavia questo me non è estraneo al soggetto determinante, giacché si dà nella forma dell’essere affetto da se stesso: la forma del tempo accoglie una dispersione dell’io, una sua determinabilità senza privarlo della sua capacità determinante, esprime 76 Sull’atto di verità e l’esercizio della parresia antica, sulle sue implicazioni di una pratica della convivenza e dell’agire etico-politico rinviamo a M. Fimiani, Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, cit. 77 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Collège de France. 1981-1982, trad. it., Feltrinelli, Milano 2001, pp. 10, 89. 78 Sono le tesi compiutamente elaborate ed esposte in L’uso dei piaceri, cit., e La cura di sé, trad. it., Feltrinelli, Milano 1984.

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4. la cognizione della vita

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l’unità concreta della passività e della sintesi, di ciò che è affetto e di ciò che è, insieme, il determinante di questa affezione, offre una natura abitata dalla presenza della libertà «che si esercita» in quella «cavità predisposta» – come si leggerà ne Les mots et les choses – che è il campo di una «passività originaria»79. Il tema dell’autoaffezione è elemento costitutivo del soggetto finito e condizione, nel kantismo, della centralità del problema dell’antropologia pragmatica: questa si propone di indagare non ciò che la natura fa dell’uomo, ma ciò che l’uomo fa, può fare e deve fare di se stesso. «Questo tema è stato senza dubbio, sin dall’origine, il nucleo stesso della riflessione antropologica, e l’indice della sua singolarità»80. L’autoaffezione è, dunque, l’autoproduzione in divenire del soggetto, sospesa al governo di se stessi, alla capacità dell’animo (die Eigenmacht des Gemüts) di padroneggiare le rappresentazioni, i sentimenti, i desideri, le passioni, di controllarne l’uso e l’abuso (Gebrauch oder Missbrauch). Il Gemüt – commenta Foucault, richiamando il testo kantiano del Von der Macht des Gemüts – esercita sul movimento vitale, sulle pulsioni e sui pensieri, un suo potere di governo e di padronanza che ne fa il garante della vita, impedendo che la vita si infiacchisca e cada in letargo, che la vita si blocchi, restituendole la «giusta mobilità». In tal senso il Gemüt è maître de sa pensée e al tempo stesso maître de ce mouvement vital81. Per questo è possibile, allora, definire «filosofica» l’arte medica e la morale una sorta di «Universalmedizin»82. Il Gebrauch esprime un particolare uso della vita, perché l’usage, per Kant, è sottratto al livello dell’attualità tecnica e collocato in un doppio sistema: di obbligazione nei confronti di se stessi e di rispettosa distanza nei confronti degli altri83. La fiacchezza e la malattia non costituiscono, per la kantiana medicina morale, una patologia che i mezzi e la tecnica di un «puro ragionatore» sono chiamati a rimuovere. Materializzano, piuttosto, la regione antropologica delle «sintesi spon79

M. Foucault, Introduzione, cit., p. 25. Ivi, p. 36. 81 Ivi, p. 34. 82 Ivi, p. 32. 83 Ivi, p. 36. 80

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l’etica oltre l’evento

tanee e passive del corpo»84 affidate all’arte di usare la vita, a una speciale Kunst das menschliche Leben zu verlängern85, dove anche il Gemüt non è semplicemente ciò che è, ma è ciò che fa di se stesso86. L’animo, il Gëmut, ha qualcosa che l’apparenta alla vita e che lo lega alla presenza del Geist87. Il Geist è un «essenzialmente ritratto»88 che, durch Ideen, impegna alla serietà di un lavoro infinito. È l’esperienza del limite che segna la centralità del Geist. È il Geist che opera un decentramento paradossale del pensiero in rapporto a se stesso. Ed è nel Geist il profilo di quell’«originario» che «non è il realmente primitivo», ma «è il veramente temporale», cioè ciò «che è là dove, nel tempo, la verità e la libertà di appartengono»89. È il Geist che precede la stessa fondazione critica, restituendole una solida anteriorità e una radicale esposizione al mondo90. Il mondo, dove l’uomo s’apparaît à lui même – dice ancora Foucault nell’Introduction, commentando l’Opus postumum –, è la «flessione su di me del Ganz», di qualcosa per cui il «concetto di mondo» è assimilato al «complesso dell’esistenza» (der Begriff der Welt ist der Inbegriff das Daseins)91. È il «concetto del complesso», è Begriff des Inbegriffs92. È una triplice struttura che può esprimersi nell’essere sorgente, dominio e limite. Source, domaine, limite: termini che Foucault ama far corrispondere ai compiti che la Logik assegnava al filosofo, Quellen, Umfang, Grenzen. Per la Logik la filosofia deve saper determinare le fonti del sapere, l’estensione del suo uso possibile e i limiti della ra84

Ivi, p. 35. La Kunst, speciale arte della vita, è negazione della passività originaria e esercizio che ha il compito sia di costruire «al di sopra» e «in contrasto con» il fenomeno (Erscheinung) un’apparenza (Schein), sia di dare all’apparenza la pienezza e il senso del fenomeno. È dunque potere di negazione reciproca di Schein e di Erscheinung (ivi, p. 67). 86 Ivi, p. 44. 87 Ivi, pp. 42-43. 88 Ivi, p. 46. 89 Ivi, p. 69. 90 La lettura del Geist nel commentario foucaultiano è decisiva per comprendere la linea di divisione e di oscillazione all’interno del kantismo stesso (B. Han, L’ontologie manquée de Michel Foucault, cit., p. 61). 91 M. Foucault, Introduzione, cit., pp. 58-59. 92 Ivi, p. 59. 85

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4. la cognizione della vita

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gione93. Ma l’essere del mondo, Begriff des Inbegriffs, in quanto sorgente, dominio e limite, esprime anche una triangolazione che segnala la coesione delle parti della Critica, perché recupera la trilogia interna alla prima critica – sensibilità, intelletto, ragione – e la vincola all’animazione del Geist. Il mondo è sorgente della sensibilità, è dominio dell’intelletto, è limite della ragione, e cioè correlazione trascendentale tra passività e spontaneità, tra necessità e libertà, tra ragione e spirito (Vernunft-Geist)94. Il concetto di mondo vincola, così, il criticismo all’impensato, in coerenza con la répétition antropologico-critique. È questo concetto di mondo che, già nell’Introduction, anticipando il commento alla kantiana Beantwortung del 1984 e le tesi dell’«ontologia dell’attualità», apre l’idea del presente, del proprio mondo, come di ciò che avvolge l’esistenza reale e ne è l’effettivo «sistema di attualità». Il mondo «è dato in un sistema di attualità che comprende ogni esistenza reale. Esso comprende questa esistenza sia perché è il concetto della sua totalità, sia perché è a partire da questo che essa sviluppa la sua realtà concreta»95. Qualche anno prima, nel 1954, Foucault scriveva: «L’immaginario non è un modo dell’irrealtà, bensì un modo dell’attualità, una maniera di prendere in diagonale la presenza per farne emergere le dimensioni primitive»96. Dunque, il Geist è il «ritratto», il ritrarsi delle origini, dell’inassimilabile inizio, ed è, insieme, un belebendes Prinzip, la «vivification» che conferisce al Gëmut la forza dell’«uso», del Gebrauch, e la «figura della vita»97. Sicchè se «la mente fosse immobile la vita entrerebbe in stato di sonno, vale a dire nella morte»98. La persona morale è, così, preservata e, insieme, anche sempre compromessa99, perché la cura di sé, la terapia della vita, manovra 93

Ivi, pp. 59-62.

94 Ivi, p. 63. A proposito dell’analisi del concetto di mondo e della funzione coesiva

delle parti della Critica cfr. R.R. Terra, Foucault lecteur de Kant: de l’anthropologie à l’ontologie du présent, in L’année 1798 – Kant. Sur l’Anthropologie, cit., pp. 164-165. 95 M. Foucault, Introduzione, cit., p. 59. 96 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., p. 78. 97 M. Foucault, Introduzione, cit., p. 43. 98 Ivi, p. 34. 99 Ivi, p. 28.

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l’etica oltre l’evento

una malattia che coincide con la stessa esistenza concreta e singolare, con un soggetto incarnato e finito che appare nello spazio di incontro di una passività e di un’attività, nel movimento di un’autoaffezione, non lontano, per Kant, dallo schematismo dell’immaginazione e che Foucault non esita a chiamare il lavoro del sogno: il sogno è un rimedio alla morte ed è luogo di risveglio della vita. «Solamente il sogno impedisce di morire quando si dorme»100. Se il sogno – aveva scritto nel commento a Binswanger – è il movimento originario dell’immaginazione, esso restituisce all’uomo la sua libertà radicale ed è il «punto originario a partire dal quale la libertà si fa mondo» e il mondo «si costituisce come il luogo della sua storia»101. Il sogno, infatti, «uccide il sonno e la vita che si addormenta»102. È la vita in atto e «il movimento della libertà»: «manifesta in quale maniera si costituisce come responsabilità radicale nel mondo, o come si dimentica e si abbandona alla caduta nella causalità. Il sogno è la rivelazione assoluta del contenuto etico»103. La pratica singolare e intrasferibile della vrai vie o della vita filosofica si riserva, dunque, quella distanza incolmabile della potenza della teoria, adatta a raddoppiare il pensato della vita nella vita che pensa se stessa. E questa pratica è l’eticità del vivente come complessità dell’esperienza, che è la dove si fa manovra della triangolazione soggettivazione-verità-potere, dirà L’usage des plaisirs104. Così il pensarsi della vita, in tensione con la vita pensata, lo stato di un irrinunciabile doublet, è, a sua volta, un doppio passare all’atto. Il muovere la vie en sommeil, l’atto del risveglio è soggettivazione, cura, produzione di sé, e, insieme, ri-soggettivazione dell’evento, critica archeo-genealogica, produzione di mondo. Passare all’atto è piegamento della forza e movimentazione dell’archivio105. 100

Ivi, p. 34. M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., p. 47. 102 Ivi, p. 51. 103 Ivi, p. 48 (il corsivo è mio). 104 M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 10. 105 Il passare all’atto è atto di estetizzazione e atto di liberazione, perché intreccia il farsi etico della forza singolare e, come voleva L’archéologie du savoir, la scom101

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4. la cognizione della vita

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Uscire dal sonno evenemenziale significa, allora, pensare l’atto come un movimento nel pensiero. Significa, come diceva Heidegger, ritrovare la dignitas in un «agire» che non è altro dal pensare altrimenti, dall’affidare il pensiero al suo «elemento», all’essere che «può (vermag) il pensiero» e che lo ama, alla «tacita forza» dell’«essere, come ciò che vuole bene e che può (das Vermögend-Mögende)»106. Significa riappropriarsi dello spazio di un’«etica originaria», dove il «dimorare» del pastore, più che «condurre un gregge», è l’effettivo condursi di una vita singolare107, che sa trovare, restituita «all’asprezza del suo destino», lo stimolo per uscire dalla pigrizia e per comprendere «che c’è propriamente azione efficace» solo «laddove c’è resistenza»108.

posizione degli strati terminali e preterminali dell’archivio (L’archeologia del sapere, cit., pp. 88-89, 147-153). 106 Per un’etica come movimento nel pensiero resta ancora centrale il testo di Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Id., Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987. 107 Rinviamo alla lettura di J.-L. Nancy, L’«etica originaria» di Heidegger, trad. it., Cronopio, Napoli 1996 (il saggio riprende parzialmente un articolo scritto per il Dictionnaire d’éthique, allora in corso di pubblicazione presso le Presses Universitaires de France). 108 Il riferimento è al testo della Davos Disputation zwischen Ernst Cassirer und Martin Heidegger del 1929, presentato da Heidegger in Appendice alla quarta edizione di Kant und das Problem der Metaphysik (cfr. l’edizione italiana Kant e il problema della metafisica, Introduzione di Valerio Verra, Laterza, Bari 1985, Appendice II, p. 232).

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5. La follia. Per una logica dell’ossimoro

1. Le analisi di Michel Foucault sulle pratiche di reclusione, di disciplinamento e di controllo della follia – dalle forme di repressione manicomiale a quelle di addolcimento, lenimento o «trattamento morale» del disagio – hanno accompagnato le più ampie questioni dell’intreccio tra il sapere e il potere e hanno sollecitato, fin dagli anni Settanta, interessi e discussioni in ambiti specialistici, in particolare in aree di competenza giuridica e psicopatologico-psichiatrica. Credo che possa essere utile, da una prospettiva filosofica, indicare qualche spunto di riflessione spostato su orizzonti più generali, su temi di carattere teorico ma non per questo meno sensibili agli interrogativi frequenti dell’attualità. Che cosa, ad esempio, si debba intendere per differenza singolare è una questione che ha dominato la riflessione del Novecento e che ha indicato nella filosofia della differenza, della decostruzione, del post-umanismo, una linea di pensiero prevalente ed ambigua, che sollecita ancora, agli inizi del nuovo millennio, l’attivazione di una critica e un’adeguata sospensione di giudizio. Non è, perciò, di poco interesse provare a capire come il problema del nesso verità-potere si misuri con un ripensamento della nozione di singolarità. Quali siano le origini e i destini dei sistemi di verità e dei dispositivi di potere è un interrogativo che, per Foucault, non può evitare di disporsi nel contesto di una domanda sullo statuto e sulla condizione dell’esistenza singolare, più in generale sul senso dell’evento, dell’enunciato e della forza. Nei testi dei primi anni Sessanta – nelle premesse, cioè, alle analisi che seguiranno sull’intreccio tra la verità e il potere – la singolarità in quanto tale si fa presente sulla scena della sofferenza, della follia e della malattia.

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l’etica oltre l’evento

Per poter intendere lo spessore della convergenza tra singolarità e follia è opportuno aggiungere, preliminarmente, che, nel discorso foucaultiano, sembra profilarsi una novità d’uso del pensare, la prova di una superamento decisivo della logiche acquisite, della logica dell’identità e della logica della contraddizione, nella pratica, di fatto, di una nuova logica, che potrebbe dirsi logica dell’ossimoro, la prova di un uso ossimorico del concetto. Che cosa vuol dire che un concetto esprime un ossimoro? L’ossimoro è una figura retorica adatta, in qualche senso, a valorizzare il conflitto, riproponendolo, diversamente dall’identità che lo nega e dalla dialettica che lo immobilizza, nella forma di un conflitto dinamico e momentaneo, perché interdice certamente l’autoriferimento della determinazione identitaria ma anche la polarità dissociativa e/o la trialità ricompositiva. In altri termini, la figura dell’ossimoro va distinta da quella dell’antitesi. L’antitesi è del tutto interna alla logica dialettica. La dialettica propone un concetto, la tesi, che acquista forza dalla disposizione simmetrica del suo contrario, l’antitesi. Al primo termine fa da contrasto un secondo termine, che rafforza la scissione e la denota come definibile e fondamentale. Per questo lo scontro tra identità opposte e determinate si consuma nell’esercizio della reciproca negazione, della pura negatività distruttiva, o si risolve prospettando un terzo termine esterno, anch’esso identitario, dato come sintesi conciliativa. La figura dell’ossimoro contiene, invece, nella medesima locuzione, il paradosso della compresenza di significati contraddittori: non distingue e non separa i significati, piuttosto li coagula e li addensa, testimoniando un senso e una verità irriducibili alle definizioni. L’ossimoro – che potrebbe anche dirsi sdoppiamento, duplicazione, rédoublement, ripetizione di un senso nel suo contrario (dal greco oxùs, acuto, furbo e moròs, stupido, ottuso; va detto anche che il significato del lemma oxumoròs è «acutamente folle») – segnala non più la contrapposizione antitetica o dialettica, ma una forte ambiguità semantica, una unione ingegnosa di contrari, che si lega spesso anche al bisogno del più profondo, dell’inapparente e dell’indicibile. L’ossimoro prova a dire, dunque, il dinamismo di una tensione, che resta estranea alla logica identitaria, sia essa analitica che dialettica, una tensione, perciò, prodotta da elementi

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5. la follia. per una logica dell’ossimoro

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scomposti di una trama mobilissima e trasformativa. Sicché, più in generale, la ricerca ossimorica non intende determinare o negare, ma descrivere e sollecitare quel conflitto che è solo il quadro momentaneo di una «mobilità generale». Foucault chiamerà «mobilità generale» lo spazio della storia, associato, come dirò, proprio alla scena della malattia e dell’attitudine diagnostica. È questo speciale uso ossimorico del concetto di follia e di malattia – e non solo (vedremo come questo riguardi anche i concetti di esperienza e di cura) – che segnala, in Foucault, un approfondimento decisivo della nozione di differenziale e di singolare, un approfondimento adatto a produrre certamente lo spostamento dalla logica analitica e dialettica, ma anche e soprattutto la distanza dal trionfalismo della decostruzione e della dissolvenza. Dalla prospettiva di una logica dell’ossimoro, la differenza singolare saprà dire, infatti, non tanto la vibrazione fluente di un flusso o il miracolismo di un tempo storico assimilato all’immediatezza dell’evento che accade, quanto il volume denso e difficile dell’unità e del molteplice, del sistema e dell’evento, dell’occupazione e della liberazione, e, per questo, la stratificazione geologica di campi tanto complicati e scomposti quanto conflittuali. Ma che cosa vuol dire l’ossimoro della follia? Che cosa vuol dire l’ossimoro della malattia? Fare un uso ossimorico della follia vuol dire assegnare al suo concetto un addensamento significativo che non accetta di dissociarsi nell’antitesi tra il trasgressivo e il disciplinato, tra la forza dirompente e la normalizzazione. Vuol dire, piuttosto, lasciar intravedere nel concetto di follia la complessità intrecciata del contrasto, una complessità che, interna alla storia della modernità occidentale, riattiva una forza mobilitante, e non meramente sottrattiva, nei confronti dell’effetto identitario dei saperi e dei poteri. 2. Nella Prefazione del 1960 alla prima edizione della Storia della follia – un testo poi omesso nella seconda edizione del 1972 – Foucault scrive che la follia è «esperienza indifferenziata» della sragione-ragione, è «esperienza, non ancora scissa, della scissura

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l’etica oltre l’evento

stessa»1. In tal senso essa è, potremmo aggiungere, voce di una scissura ossimorica, originaria e fondativa, dove sragione e ragione si tengono in una tensione irrinunciabile. Ma nel testo del ’60 si legge anche: la follia è una sorta di «grado zero» della storia. La storia stessa «non è possibile se non si basa su un’assenza di storia», su quell’«oscura regione» che è «sabbia percorsa e subito dimenticata», «parola» che «non è linguaggio», «gesto» che «non è opera». Infatti, nel divenire della storia appare, in verità, la «scissura della scissura», la perdita di quel «fronteggiarsi originario»2 che è convergenza contrastiva di ragione e sragione. La «scissura» come concetto ossimorico – diversamente dal divenire antitetico, e cioè dalla «scissura della scissura» – è, così, lo spazio dell’origine, e questo sembra assegnare alla follia non un ruolo al margine, non tanto un «meno» o un «nulla» ai bordi del prevalere storico della normazione e della razionalizzazione, quanto, come ha detto Macherey, la funzione di un richiamo costante alla sua «verità ontologica»3. Scrive Foucault nell’ultimo capitolo di Malattia mentale e psicologia, un testo del ’54: «Si dovrà un giorno tentare uno studio della follia come struttura globale – della follia liberata e disalienata, restituita in un modo o nell’altro al suo linguaggio di origine», al linguaggio della scissura, dove c’è qualcosa «che parla della differenza e che evoca la differenziazione»4. «Scissura», in quanto legame originario della ragione e della sragione, traduce il termine francese partage, che – seppure sinonimo di fente, crepa, incrinatura – vuol dire, appunto, come in un lemma ossimorico, insieme separazione e condivisione. Significativamente, il testo conclude denunciando la perdita della «scissura», convertita nella «scissura della scissura» o nel carattere impositivo e identitario dell’esercizio razionale. Ed è questa perdita che segna la caduta della libertà e dell’etica: «dal momento in cui»- si legge in Malattia mentale e psicologia – «il grande confronto tra la Ragione e la Sragione 1

M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 9. Ivi, p. 16. 3 P. Macherey, Aux sources de «L’Histoire de la folie»: une rectification et ses limites, «Critique», cit., p. 770. 4 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 87. 2

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ha cessato di abitare la dimensione della libertà, dal momento in cui per l’uomo la ragione ha cessato di essere un’etica», la ragione, scissa dalla follia, si è dato «il diritto di essere natura della natura e verità della verità». Nel contesto storico di una ragione che detta la verità della verità non resta della follia che il silenzio o il lampo, l’urlo di Nietzsche, di Artaud, di Roussel5, il gesto trasgressivo, letterario, imprendibile. Della follia resta solo l’enigma di una esteriorità che è «assenza d’opera»6. La follia è, così, l’impotenza di un chiamarsi fuori, dove l’operare è un non-operare, perché già definitivamente privato della libertà e dell’eticità. Il folle, anche quando, con la modernità, è sottratto all’internamento e alla reclusione ed è preso nei dispositivi di disciplinamento e di controllo governamentale, è escluso dalla libertà: alla fine del XVIII secolo, con la nascita dei saperi psicologici e psichiatrici, non si assiste – si legge nelle conclusioni della Storia della follia – «a una liberazione dei folli, ma a un’oggettivazione del concetto della loro libertà»7. I temi della libertà e dell’etica s’incrociano coerentemente, già nel testo del ’54, con la questione del mondo. Nel dominio della ragione che impone la «verità della verità», la sottrazione della libertà e dell’etica è anche, sempre, sottrazione di mondo: il mondo proprio, l’idios kosmos8, l’invenzione di mondo, – che il commento a Binswanger, negli stessi anni, assegnerà all’immaginazione ed al sogno9 –, l’incidenza sul mondo con un proprio mondo, è risospinta in una insignificante privatezza «che nessuna oggettività può garantire», con l’imposizione di un mondo reale che lascia avvertire «l’universo» solo come rifugio e come «destino»10 e che assegna al malato la irrealizzazione del proprio presente11. Tuttavia, se è vero che solo nel divenire della storia si smarrisce l’ossimoro della scissura originaria, è pur vero che, per sottrarsi 5

Ivi, p. 101. M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 612; II ed., cit., p. 626. 7 M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 596. 8 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 65. 9 Cfr. M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., pp. 11-85. 10 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 97. 11 Ivi, p. 41. 6

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alle antitesi del fuori e del dentro, alla follia ridotta al vuoto e alla ragione saldata al pieno dei sistemi impositivi e assoggettanti, «solo nella storia» – avverte precocemente Malattia mentale e psicologia – «si può scoprire l’unico a priori concreto da cui la malattia mentale ricava […] le sue necessarie figure»12. Solo la storia può restituirci, infatti, l’idea di una densità contrastiva e duplicata degli opposti, l’ingegnosa tessitura di contrari che dà senso all’unità e all’opposizione, al sensato e all’insensato. Solo la storia può attrarre una radice che non dissoci la pura trasgressione dalla pura imposizione, che non riproponga principi di legittimazione di un’assoluta liberazione o di una trappola totale. «Fare storia della follia» – si legge ancora nella Prefazione alla prima edizione della Storia della follia – «vorrà dunque dire: condurre uno studio strutturale dell’insieme storico – nozioni, istituzioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici – che tiene prigioniero una follia il cui stato selvaggio non può mai essere recuperato in se stesso»13. E, soprattutto, fare storia della follia vorrà dire non solo ricostruire «una storia della conoscenza», una storia del sapere che l’ha inclusa, ma anche e soprattutto lasciare emergere i «movimenti rudimentali di un’esperienza»14. Sono questi movimenti che, in quanto «tracce», – si legge in apertura de La follia, l’assenza d’opera – «faranno parte di configurazioni che a noi […] sarebbe impossibile disegnare, ma che saranno nel futuro le indispensabili griglie attraverso le quali render leggibili, noi e la nostra cultura, a noi stessi»15. Di questi «movimenti rudimentali di un’esperienza» va fatta, dunque, «archeologia», dice la Prefazione, va indagata la «connessione» che è «al di sotto del linguaggio della ragione»16. La domanda che si impone alla storia della follia è, infatti: dove «potrebbe condurci un interrogativo che non seguisse la ragione nel suo divenire orizzontale, ma che cercasse di rintracciare nel tempo questa costante verticalità che, per tutto il corso della cultura europea, la confronta a ciò che essa non è, la misura alla 12

Ivi, p. 97. M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 16. 14 Ivi, p. 15. 15 M. Foucault, Storia della follia, II ed., cit., p. 626. 16 M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 11. 13

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propria mancanza di misura?»17. È qui anticipato un lessico che qualche anno dopo proverà ad esporre i fondamenti teorici di una trasformazione radicale di come fare storia e filosofia insieme, e dunque di come pensare il divenire e il differenziale. L’archeologia del sapere, del 1969, che apre la stagione degli anni Settanta sui problemi dell’intreccio tra i sistemi di verità e i dispositivi di potere, segnalerà tempestivamente il limite del carattere «molto enigmatico» che il concetto di esperienza aveva conservato nella Storia della follia, un peso e una enigmaticità che lasciava ancora pensare – è il commento di Foucault – a un «soggetto anonimo e generale della storia»18. La sottrazione del concetto di esperienza all’«enigma» di una «Esteriorità» fondativa fuori della storia e la elaborazione di una sua complessità ossimorica, adatta a riprendere la convergenza contrastiva di ragione e sragione, consentono di spostare l’analisi della follia dal tema di una sregolatezza «fondamentale», di cui – come diceva Blanchot – solo i poeti e gli artisti possono essere ancora i testimoni, le vittime o gli eroi19, al campo del volume storico dell’archivio e alle prospettive archeo-genealogiche delle lotte. 3. Anche per il concetto di esperienza, dunque, è giusto provare a elaborare una logica dell’ossimoro. Sarà necessario comprendere come possa dirsi che l’esperienza è un evento, una singolarità, un punto differenziale, denotabile non solo come la indicibilità di un fuori, ma come un fuori e come un dentro, come un vuoto e come un pieno, un silenzio e una parola, un negativo e un positivo, una differenza spostata e una affermatività. Sarà necessario dire, cioè, come l’esperienza non sia solo la ribellione alle norme, la sottrazione al codice di un linguaggio o a una razionalità imposta, ma come sia anche un enunciato reale, presente, attivo, dinamico, dunque non solo una forza rivoltosa e 17

Ibid. M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 23-24. Sull’«enigma di questa Esteriorità» si veda anche Id., Storia della follia, II ed., cit., p. 626. 19 M. Blanchot, Michel Foucault come io l’immagino, trad. it., Costa & Nolan, Genova 1988, p. 10. 18

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sottrattiva, ma una forza di posizione, interna alla trama complessa di una «storia generale»20. Il concetto di esperienza, non più assimilato alla indicibilità, al grido di dolore o all’urlo del gesto letterario, produce così il passaggio decisivo dell’idea del differenziale dall’esperienza-limite, o contraddittoriamente indifferenziata, a un concetto di esperienza che acquista tutta la positività dell’enunciato, della forza reale e dell’evento antagonista in un campo reale di conflitto. La scissura, o il legame originario della ragione e della sragione, per l’archeologia del sapere, non è più solo il richiamo ad una ontologia della differenziazione, ma occupa il campo concreto del fare storia, della ricostruzione e della mobilitazione dei quadri enunciativi, della rianimazione di una trama cartografica, di un complicato quadrillage, di una doppia quadrettatura, stratificata e volumetrica, di sistemi terminali e di sistemi preterminali21. La prima quadrettatura è strutturata e di superficie, la seconda è mobile e profonda, perché lo scavo archeologico lascia affiorare le tracce come condizione di apparizione dei sistemi. Qui, la scissura come origine non è l’esperienza indifferenziata ma è la complessità stratigrafica dell’archivio22. Archiviare vuol dire aprire lo spazio di una guerra totale, dove non è mai dato il trionfo dell’assoluto Potere o quello dell’assoluta Liberazione. Gli enunciati sono esposti a una variabilità continua, perché sottratti ad ogni analisi di principi includenti, come, ad esempio, la struttura o una infinita fonte energetica. Qui il grido del folle si converte in esperienza generalizzabile e il futuro di una socializzazione reale è affidata alla pratica di una esperienza. Questa, infatti, da «esperienza indifferenziata», di cui parlava la Storia della follia, si fa esperienza di lotta e trasformazione di mondo. L’esperienza, dunque, è un evento concreto, decifrabile come forza reale immessa nel corpo del Potere e nello spazio dinamico dei poteri, ed è tale perché esprime un nocciolo meditativo, è l’effetto e il piegamento di una forza che non si limita ad essere tal 20

M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit, p. 17. Ivi, pp. 88-89. 22 Ivi, pp. 147 sgg. 21

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5. la follia. per una logica dell’ossimoro

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qual è, ma diviene. La forza libera non è pura trasgressione o rifiuto, ma una più complessa indocilità ragionata che pratica analisi e decisione, all’interno di una rete di contenimenti e di limitazioni23. L’esperienza si fa, così, effettiva forza etica e opera di se stessa – come diranno negli anni Ottanta le tesi di un’«estetica dell’esistenza». L’esperienza sarà, allora, per la nuova etica, la triangolazione espressa dal nesso tra soggettivazione, sistemi di verità e dispositivi di potere, si legge nell’introduzione a L’usage des plaisirs24. Sarà l’intreccio di tre poli tematici della riflessione filosofica, l’aletheia, la politeia e l’ethos, il polo della verità, il polo del potere e del governo, il polo del soggetto morale e della sua formazione, aggiungerà il Corso del 1984, Le courage de la vérité25. Infine, l’esperienza sarà quell’atto etico-politico che avrà trasformato la «costante verticalità» della follia26 in una «freccia sagittale nel presente», e dunque nell’«ontologia dell’attualità» e nell’«ethos filosofico», di cui parla il noto commento dell’84 alla Beantwortung kantiana27. 4. Anche il concetto di malattia, si diceva, documenta uno speciale uso ossimorico del concetto, una sua ambivalenza insemplificabile, che ci aiuta a capire, in Foucault, il senso dell’esistente singolare, del differenziale e della valorizzazione del conflitto. La Nascita della clinica, che, nel 1963, affianca alla storia della follia la storia del sapere medico, ha come sottotitolo, nell’edizione originale, Une archéologie du regard médical, un’archeologia dello sguardo medico28. Il carattere doppio del genitivo che lega archeologia e medicina – o il senso oggettivo e soggettivo del genitivo – può aiutarci, forse, ad intendere il valore ossimorico dello spazio della malattia. Il genitivo oggettivo ci fa capire 23

M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 40. M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 10. 25 M. Foucault, Il coraggio della verità. Corso al Collège de France. 1984, ed. it. a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 74-76. 26 M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 11. 27 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., pp. 253-261. 28 M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Presses Universitaires de France, Paris 1963. 24

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che lo scopo del testo è di restituire la storia archeologica di un sapere, del sapere medico, perché l’archeologia fa della medicina il suo oggetto; il genitivo soggettivo sembra alludere al carattere intrinsecamente archeologico del sapere della malattia, laddove alla medicina appartiene l’esser proprio dell’archeologia: è lo «sguardo medico» ad offrire al sapere storico-archeologico il modello di un sapere che pratica un’analisi disgiuntiva di ciò che sa e di ciò che pensa, restituendo una decifrazione complessa il cui effetto non può ricomporsi nelle forme della normalizzazione e dei codici. Il sapere medico apre, così, un sapere ossimorico, un sapere che produce, come ogni sapere, una oggettivazione, e un sapere che la nega e la scompone, perché è un linguaggio che prova a dire un ambito specifico di conoscenza, con le sue regole e le sue sintassi, ma che, insieme, trova nella malattia un evento che lo contrasta e gli sfugge. La malattia – dice Foucault – è, infatti, una regione dove il percepito nella sua singolarità sfugge anche alla forma della parola, dove il dire lambisce «una sabbia» ancora «dischiusa alla chiarezza della percezione, ma non […] più alla parola familiare»29, dove sembrano coincidere l’esperienza clinica e l’esperienza lirica, dove lo sguardo medico è analisi archeologica. Sappiamo che, secondo la descrizione foucaultiana, il divenire della medicina moderna supera la pura nosografia delle essenze classificate – dove la malattia raddoppia la natura in una contronatura – e che dallo spazio piatto e omogeneo delle classificazioni, o di un dire che precede il vedere, si sposta al volume delle masse differenziate, quando la malattia prende corpo30 e restituisce allo sguardo le mobilissime e sfuggenti grammatiche dei sintomi31. Poi la dissezione anatomica dei corpi, l’esame delle patologie tissulari, con Bichat32, la fisiologia e le analisi funzionali, a partire da Broussais, dicono che la sofferenza è sempre il segno di «innumerevoli vite»33, ciascuna in rapporto con un agente e un ambiente, è sempre spinta reattiva ad un attacco, in29

M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 194. Ivi, p. 23. 31 Ivi, pp. 106 sgg. 32 Ivi, p. 155. 33 Ivi, p. 195. 30

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5. la follia. per una logica dell’ossimoro

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fluenzamento reticolare, antagonismo generalizzato tra elemento e elemento34. Così il sapere medico ci dice che è nel morboso – non nel vitale né nel macabro – che appare la dispersione delle esistenze singolari. Il Macabro e il Vitale implicano, infatti, una «percezione omogenea» della morte e della vita. Solo il Morboso «autorizza una percezione sottile del modo in cui la vita trova nella morte la sua figura più differenziata. Il morboso è la forma rarefatta della vita; nel senso che l’esistenza si spossa, s’estenua, nel vuoto della morte; ma anche nel senso che vi assume il suo volume strano, irriducibile alle conformità e alle abitudini, alle necessità acquisite; un volume singolare, che definisce la sua assoluta rarità»35. Nel morboso si apre una percezione prossima e sottile delle esistenze non vinte né vincenti, ma spossate. È col morboso, con la malattia e con la sofferenza che si produce la forza piegata, quel piegamento che non lascia la forza, il vivente, il singolare tal qual è, ma lo prende, lo muove, lo fa divenire, in un movimento di relazione che la clinica – anche nel suo etimo: la radice greca clino indica il piegarsi – introduce come nesso di passività e attività. La «vecchiezza della clinica», voluta da Ippocrate, richiama, infatti, la flessione fondatrice della vita: «prima di essere un sapere, la clinica era un rapporto universale dell’umanità con se stessa»36. Qui l’ontologia delle forze piegate si fa anche descrizione archivistica della dispersione antagonista di esistenze singolari mitigate, piegate, immesse in una trama mobile e irriducibile alle normalità, alle «conformità e alle abitudini, alle necessità acquisite» e all’esigenza sistematizzante di un sapere. La diagnostica, dunque, è un sapere che ha a che fare con la «mobilità generale» ed è la diagnostica che dà senso ossimorico al sapere medico della malattia, che è al tempo stesso, oggettivazione di un sapere e critica di questa oggettivazione. La diagnosi riguarda, infatti, ciò che si svolge attualmente, a differenza dell’anamnesi e della prognosi che si affacciano sul passato e sul futuro. Ma l’attuale è un presente carico del suo 34

Ivi, p. 218. Ivi, p. 196. 36 Ivi, p. 70. 35

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svolgimento, della sua storia, del suo poter essere altrimenti. L’attualità, come la malattia, è incodificabile. La malattia – suggerisce Foucault in un colloquio del ’66 – non trasmette messaggi, ma produce rumore. Il medico – aggiunge – non ha a che fare con un corpo o con un’anima, tanto meno con una generica astrazione dell’«essere umano», ma è all’ascolto difficile di un rumore: «il a affaire à du bruit». Il medico non può attendere che cessi il rumore, perché questa cessazione coincide solo con la guarigione o con la morte37. Perciò diagnosticare è sempre un sapere che, come il sapere archeo-genealogico, esige «dominio di se stessi e del linguaggio», coraggio e decisione nel corso di una «mobilità generale»38. Così, è nella malattia, in quanto ossimoro concettuale, che trovano coesistenza dinamica due significati contraddittori: il paradigma medico è pratica di oggettivazione del vivente e lo scavo archeologico è critica di ogni paradigma cognitivo. Con il tema della malattia convivono, dunque, un sapere che controlla la vita e un sapere che aspira a liberarla. 5. Il controllo e la liberazione coesistono, coerentemente, anche nel concetto di cura. La nozione di «cura» occupa, è noto, la questione delle tecnologie del sé ed è al centro del discorso foucaultiano che, dalla metà degli anni Settanta, riaccende, dopo l’apparente cancellazione da un contesto teorico di esaltazione dei processi, il problema della soggettivazione, di un nuovo soggetto o del suo essere derivato, prodotto, divenuto. Il lemma della «cura» tiene insieme il significato della cura pastorale cristiana e quello della cura antica e dunque sia le pratiche di assoggettamento che quelle di liberazione. La tradizione della cura pastorale cristiana rafforza l’idea della direzione di coscienza, di una guida permanente all’esame di sé che, come voleva la finalità monastica, porta alla rinuncia e al

37 M. Foucault, Messaggio o rumore?, trad. it. in Archivio Foucault. 1. 19611970, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 133-136. 38 M. Foucault, Pour une morale de l’inconfort, «Le Nouvel Observateur» n. 754, 23-29 avril 1979, pp. 82-83, poi in Dits et écrits, cit., III, pp. 783-787.

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5. la follia. per una logica dell’ossimoro

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sacrificio di sé39. Una tradizione che si prolunga nella modernità e che si trasferisce al medico, all’alienista che pratica il controllo e la terapia, la cura e la custodia del folle. Alle origini della psichiatria moderna, si affiancano alla reclusione e alla repressione, all’internamento e all’esercizio del «potere di sovranità», i dispositivi del «potere disciplinare» e dell’«istanza normalizzatrice» prodotta e alimentata dalla nascita delle scienze dell’uomo. Con la cura e la custodia, si dice, Pinel ha tolto le catene con un gesto non libertario, ma funzionale all’immissione dei folli nelle maglie di un reticolo disciplinare che li vede curabili e obbedienti40. Più in generale il potere microfisico moderno si fa, progressivamente, da repressione e interdizione, da sacrificio del sé, effettiva produzione di un’emergenza positiva, teoretica e pratica del sé, col supporto di un «antropologismo permanente»41. Allora, fino alla sollecitazione e al controllo delle variazioni minime, la cura e la produzione del sé sono, al tempo stesso, moltiplicazione e distruzione delle esistenze singolari, uso della loro produttività collettiva e, insieme, cancellazione del loro dinamismo reale. La tradizione della cura antica, espressa soprattutto dall’epimeleia seautou socratica, – le souci de soi, dirà l’etica foucaultiana – persegue, al contrario, l’enkrateia e la sophrosune, la padronanza di sé e la saggezza, la condizione attiva e la moderazione. Ed è questa cura che si propone come nucleo della nuova etica42. 39 Sulla cura pastorale e sulla rottura del Cristianesimo con la stessa tradizione orientale ed ebraica cfr. di M. Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragione politica, trad. it. in Id., Biopolitica e liberalismo, introd., trad. e cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 107-146; e Sicurezza, territorio, popolazione, cit. Per una più ampia discussione sui problemi della singolarizzazione e del potere pastorale rinvio a M. Fimiani, Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, cit., in particolare il capitolo Il divenire della vita, pp. 11 sgg. 40 Per la trasformazione dei sistemi di controllo della follia e dell’esistenza singolare nel corso dello sviluppo moderno dei saperi dell’uomo si veda in particolare, oltre alle analisi già note della Storia della follia, la recente edizione del Corso di lezioni, rimasto a lungo inedito, sul sapere psichiatrico (M. Foucault, Il potere psichiatrico, Corso al Collège de France 1973-1974, trad. it., Feltrinelli, Milano 2004). 41 M. Foucault, About the Beginning of the Hermeneutics of the self. Two Lectures at Dartmouth, nov. 1980, «Political Theory», 21, 2, may 1993, pp. 198-227. 42 M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., pp. 9-56; per il tema della cura antica ed ellenistico-romana si vedano anche La cura di sé e L’ermeneutica del soggetto.

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l’etica oltre l’evento

La cura etica che si impegna a fare della propria vita una vita riflessa e attiva, una vita coraggiosa – come dirà l’esame del tema della parresia antica –, una vita che sa sfidare il pericolo e sa dire la verità, che sa praticare l’invito alla cura e sollecitarne la duplicazione e la convivenza multipla43. Condizioni, queste, di una comune cura del mondo, di una cura capace di andare oltre se stessi e riafferrare il kairos, il momento opportuno, la concretezza dell’operare. Unite nell’obiettivo etico della cura di sé, della cura degli altri e della cura del mondo, possono dirsi «tecniche cliniche» – dirà Foucault a proposito della parresia etica di Socrate – l’arte medica, l’arte del navigare e la vita filosofica44. Dunque il compito medico non è quello di una guida permanente dell’altro, ma di una cura comune – senza che si dissocino il curante e il curato – la quale sia finalizzata alla trasformazione del proprio sé e del proprio mondo. Il therapeuein – richiamava dagli antichi Foucault nei corsi degli anni Ottanta – è il servizio, l’esercizio, il mettersi alla prova dell’operare, ma è anche il servizio del culto reso a una divinità.45 È l’andare oltre, il farsi arte del se déprende de soi-même, o, come voleva Socrate, il farsi demone e amore.

43 Sul tema della parresia cfr. il Corso dell’84, Il coraggio della verità, cit., ma anche Discorse and Truth. The Problematization of Parrhesia, libera trascrizione del corso tenuto a Berkeley nell’autunno del 1983, curata nel 1985 da J. Pearson, Department of Philosophy della Northwestern university Evanston; pubblicato in olandese nel 1989; trad. it., Discorso e verità nella Grecia antica, a cura di A. Galeotti, Introduzione di R. Bodei, Donzelli editore, Roma 1996. 44 M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, cit, pp. 73-74. 45 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 10-11, 89; Id., Il coraggio della verità, cit., pp. 99 sgg.

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6. Il dono e il terzo

1. La ricchezza e la frammentazione degli scritti di Marcel Mauss hanno sempre sollecitato il lettore all’uso di un archivio flessibile, alla creazione di concetti in risposta alle domande del proprio tempo, più che alla ricostruzione di una teoria prevalente e infedele. Così è stato per l’Essai sur le don e per i testi sulla magia, sul sacro, sul corpo. La filosofia del Novecento ha proiettato, nella rilettura, una sponda concettuale – inquietata e talora contraddittoria – al bisogno di consumo della metafisica identitaria, dello scambismo utilitario, della logica strumentale e tecnicistica, delle astrazioni del soggettivismo e dell’oggettivismo, della verità appropriativa e dispositiva, della logica classificatoria e gerarchica del potere. Il valore del dono conserva la forza di scomposizione per le omologie del patto, della contrattazione, dell’utile. Il donare manca delle costanti condivise e delle norme imposte. La simultaneità delle parti cede alla imprevedibilità di ciò che è sottratto alla presenza. La domanda critica concentra, così, sulla filosofia del dono il contrasto alla costante, alla normazione, alla prevedibilità del conosciuto. Lo spazio teorico di evidenza che accompagna questa domanda è, soprattutto, quello della effrazione, della disgiunzione, della dissoluzione. L’accesso alla singolarità estrema, alla sfera dell’événementiel, accoglie il donare come sottrazione alla figura dell’assoggettamento. E dunque, il dono è potere di perdere, dissipazione energetica, dispendio improduttivo, insubordinazione della vita, dépense1. È «figura dell’impossibile», 1 G. Bataille, La nozione di «dépense», in La parte maledetta, trad. it. a cura di F. Rella, Bollati Boringhieri, Torino 1992; per una più analitica discussione della

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contrazione dell’oikonomia del circolo nell’istante della cessione, interdizione reale dello scambio2. E ancora: il dono è effrattivo, si sottrae alla reciprocità usuraia, vincola a un obbligo mimetico, alla sua riproduzione, e il suo «destino biologico» fa del donare un cedere che produce un cedere3. E dove munus è radice di communitas, l’in-comune è solo un sentirsi uniti perché mancanti, feriti, infettati, consanguinei in quanto debitori, perché il debito, inestinguibile, non sollecita la restituzione ma segnala il dovere, l’obbligo all’atto transitivo del dare4. Dunque il dono è esposizione, vertigine, spasma nella «proprietà», associata, questa, alle identità irrigidite e speculari del soggetto e dell’oggetto, dell’anima e del corpo, della persona e della cosa,5 alla rigidità di quel doppio registro che il donare confonde. Il prevalere della disposizione dissipativa su quella ordinativa – la doppiezza del gift, nutrimento e veleno6, suggerisce e sollecita lo spreco ma anche lo scambio – tradisce l’enigma della triplice obbligazione (a dare, a ricevere, a ricambiare) che apre sostanzialmente l’espropriazione e la singolarità al campo del legame e delle coesistenze. Il legare, nel dono impossibile, nel dono di niente7, consegue, allora, agli effetti del dono a vita che è dono a morte:8 il potlàc, modello della distruzione dei beni cedu-

lettura del dono come «dispositivo di fluttuazione» rinvio a M. Fimiani, L’arcaico e l’attuale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, in part. pp. 117 sgg. 2 J. Derrida, Donare il tempo, trad. it., Premessa di P. A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 1996. 3 R. Guidieri, On loan & sacrifice. An anthropological critique to the gift, Capodarco Fermano, Moresco 1997. 4 R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. 5 È una dissociazione che ancora accompagna, per Esposito, le riflessioni contemporanee che provano a consumare l’inversione della biopolitica nella tanatopolitica (R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007). 6 M. Mauss, Saggio sul dono, in Teoria generale della magia e altri saggi, Introduzione di Cl. Lévi-Strauss, trad. it., presentazione di E. De Martino, Einaudi, Torino 1965, pp. 162, 267; l’esame del doppio significato del termine gift, nelle antiche lingue germaniche, è svolto nel breve scritto Gift, gift (1924), trad. it. in M. Granet e M. Mauss, Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975. 7 J. Douvignaud, Le Don du rien, Stock, Paris 1977. 8 Cfr. G. Nicolas, Du don rituel au sacrifice supreme, La découverte / M.A.U.S.S., Paris 1996.

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ti che trascina il donatore, sfiora il sacrificio del dio9 e il suicidio dell’eroe celtico10, condizioni coerenti per negare il contro-dono o il dono dell’altro, la forma temuta della reciprocità conflittuale o conciliativa. La comunialità del debito e la fusione dei singoli esplicitamente contrastano l’alleanza identitaria del contratto, ma ne condividono, nella sostanza, il delitto fondatore, lo schema verticale del sacrificio, l’illimitatezza della potenza e l’imposizione reale. La fluenza vibratile del rivenire, della ripetizione differente, della révenance, della différance, sembra spostare, cedere, ma non incontrare11, e ripropone l’eccesso come orizzonte obbligante. Al di là dei rischi e delle contraddizioni di una teoria del dono come esclusivo dispositivo di fluttuazione, ciò che impone di mutare la domanda critica sul valore del donare – o sul senso rinnovato, oggi, del suo paradigma – è lo stato delle nuove condizioni del potere e la consapevolezza di come queste siano inevitabilmente assimilabili alle pieghe del sapere. Sapere e potere mostrano, rispetto alla modernità matura, combattuta per le classificazio-

9 L’immedesimazione del sacrificante e della vittima cancella l’intermedio e rende impossibile l’attesa del contro-dono (M. Mauss, Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio, in Le origini dei poteri magici, trad. it., Club del Libro Fratelli Melita, la Spezia 1981, p. 146; il Cristo, con un «colpo di genio», ha moralizzato il meccanismo del debito nel «dovere morale» e nella coscienza della colpevolezza, è il commento di Derrida, Donner la mort, in L’ethique du don. Jacques Derrida et la pensée du don, Colloque de Royaumont, déc. 1990. Essais réunis par J.-M. Rabaté et M. Wetzel, Transition, Paris 1992, pp. 104-106). 10 Con il rituale del banchetto, presso i Celti, si consuma il suicidio dell’eroe che sfugge con la morte ad ogni controprestazione: il dono a vita che è dono a morte si mostra nel gesto parossistico del martire come assoluta potenza, che così replica il dono senza contro-partita (cfr. M. Mauss, Su un testo di Posidonio. Il suicidio, controprestazione suprema, in M. Granet, M. Mauss, Il linguaggio dei sentimenti, cit., pp. 73 sgg.). 11 Non a caso già nel quarto capitolo di Donner le temps, del 1991, Derrida non si sottrae alla questione dell’incontro con l’altro, affrontando il tema del «perdono», poi ripreso nei seminari a partire dalla fine degli anni Novanta e nel confronto con Ricoeur sul problema del riconoscimento (si segnalano in proposito gli incontri organizzati nel 2001 da «France-Culture»; P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, trad. it. a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. XVIII). Politiques de l’amitié, del 1994, apre più decisamente il tempo di un’attenzione «ossessiva», come si è detto, alle questioni dell’ospitalità, della testimonianza, del perdono, della giustizia (J. Derrida, A. Dufourmantelle, Sull’ospitalità, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 7).

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l’etica oltre l’evento

ni identitarie e per la disciplina delle norme, una trasformazione profonda che non può eludere un’inchiesta sul tratto impositivo dell’eventuale e del singolare. La invasività del campo evenemenziale – che connota un’intera cultura del postumano – merita un’interrogazione su come il contrasto della ripetizione differente al soggettivismo e all’oggettivismo rischia di trasformarsi nel compimento e, insieme, nel mascheramento di un nuovo antropologismo umanistico o di una nuova metafisica dell’umano. La metafisica, per la quale la filosofia perisce, è quella che si fa preda – diceva Heidegger – di una «fisica intesa nel senso più vasto», di una sorta di «fisica della vita e dell’uomo»12, che preannuncia l’im-posizione e la mantiene nascosta, che ripete l’impiegabile pur rinunciando «al tipo di conoscenza (Vorstellen) esclusivamente rivolto agli oggetti»13. L’uso tecnico del pensare non è vincolato, allora, solo alla produzione dei mathemata, alla costanza nel mutamento e alla fissità dell’ente, ma, «in senso più vasto», all’assicurarsene, al farne «il territorio dell’aggressione»14. Sottrarsi al fondamentum inconcussum veritatis, perché non ci sia estinzione e sospensione di ogni filosofia, non vuol dire solo consumare il cogito e scomporre il soggetto, ma provare a provocare un movimento nel pensiero e sottrarlo, più in generale, alla pura cognizione. È un «passare all’atto», è un agire che sposta il pensare nel suo «elemento», in ciò che «può» o nella «radura» dell’essere15, perché sottragga l’ente al suo tal qual è. Metafisica e antropologismo convergono nel tradimento dell’ingiunzione kantiana di un radicale doublet: il raddoppiamento dell’antropologia e della critica, la répétition anthropologico-critique. L’assimilazione dei saperi, che includono il pensare in una «cavità predisposta», e del pensare, che, «sovrano sottomesso», a questa cavità si sottrae, è la cancellazione, per Kant, di un’ «allotropia» insopprimibile, ed è, con essa, la replica del «sonno dogmatico» premoderno nel «sonno antropologico» della modernità16. 12

M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 56. Ivi, p. 17. 14 M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 95. 15 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., pp. 267 sgg. 16 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 336-338, 366-367. 13

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Il dogmatismo sembra avere, così, una linea di continuità che insegue ogni espulsione della teoria, della filosofia, della critica, nella forma della sua riduzione alla cognizione, alle forme dei saperi e ai loro effetti di verità. Da questa prospettiva, il sonno dogmatico investe non solo il sapere che fornisce una «natura della natura umana» e che definisce rappresentazioni o costanti osservative, ma, in forma più generalizzata e insidiosa, penetra il sapere dell’evento, la narrazione evenemenziale, il racconto dell’imprevedibile, che, oggi, sembra occupare sempre più l’intera scena della svolta in atto dei saperi. La différence déplacée, l’estrema punta della singolarità, è sempre più invasiva dei processi di cognizione. La termodinamica e l’esame dei processi entropici parlano di un tempocreazione, di una irreversibilità di tipo innovativo e produttivo, di processi complessi e mobilissimi, di «strutture dissipative» fortemente esposte a condizionamenti esterni, rapidamente acquisitive e reagenti a fluttuazioni minime. Così come è l’evento che decide delle elaborazioni cognitive della biologia molecolare, della possibilità delle mappe genomiche, degli sviluppi delle neuroscienze, delle neotecnologie, delle scienze della comunicazione e dell’informazione. I saperi si muovono come per un «ascolto poetico», per una descrizione dell’irrepetibile, fino al consumo paradigmatico e all’anarchismo epistemologico. Non è più sufficiente che il pensare si ritragga dallo spazio della rappresentazione, ma è forse necessario che metta più radicalmente in problema lo spazio della cognizione o della pura descrizione di ciò che è, della comunicazione interminabile dell’accadere. La svolta evenemenziale dell’intero sistema dei saperi suggerisce che il problema dell’assopirsi del pensare – la questione dell’oblio dell’agire come movimento nel pensare – non riguardi più la dimensione dell’ordine e della norma, ma quella del disordine e della fluenza. La conferma di un sonno evenemenziale è, poi, evidente nelle analisi delle nuove forme di potere. È a partire dagli anni Ottanta, e dalle riflessioni sulla biopolitica e sulle derive del neoliberismo globale, che la svolta «governamentale» del potere ha reso evidente lo slittamento decisivo da una «veridizione giuridica» a una «veridizione epistemica» del potere, oltre all’intreccio del potere sovrano col potere microfisico. Non sono più le leggi a legittimare

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il controllo ma i sistemi di verità, non i divieti ma le serialità cognitive. La micrologia descrive campi strategici seriali e delocalizzati, funzionali a un anonimo predisporre, all’efficacia di una sovranità ceduta in quell’incremento energetico che è il far vivere, il produrre, il sollecitare, il diffondere la vita singolare, già sempre presa, nel suo essere tal qual è, nell’infinità processuale e nella fluenza mercantile del controllo. Il nuovo dogmatismo assoggettante ha, così, l’obbligo dell’abbandono della rappresentabilità integrale e la necessità di disporre la vita singolare secondo una cognizione adatta a moltiplicarla, a sollecitarla e, insieme, a mascherarne la cancellazione. Oltre le specifiche veridizioni epistemiche che hanno prodotto, come si è sottilmente argomentato, l’inversione della biopolitica in tanatopolitica per le forme dei totalitarismi del Novecento17, le veridizioni epistemiche che, oggi, accompagnano l’occupazione dell’irrepetibile promuovono ed accelerano, dunque, un sapere frazionante e dispersivo. Alla bioeconomia e al mercatismo, che oggi occupano le discussioni sulla biopolitica, non si adatta più la metafora della piazza o del forum, ma «la corrente, il flusso, la massa d’acqua liquida» che il «denaro digitale» lascia scorrere «rapida senza acquisire forma definita», tenendo «sotto controllo l’eccesso, l’eccedenza, il disordine»18. La forza effettiva del potere governamentale si misura non dall’esclusione del nemico, ma dall’inclusione del frazionato e dell’assopito. L’esuberanza vitale e la sovranità del desiderio mancante trovano alimento nei dispositivi cognitivi del potere «miracolistico» e narcotizzante. È decisiva la moltiplicazione dell’evento, ma anche la sua «futilizzazione»: il suo compimento si mostra nell’anedonia e nei trucchi della valorizzazione del singolare predisposti dalla «cupola» dei poteri globali19. In questo scenario è difficile richiamare una riappropriazione energetica nell’homo reciprocus, capace di spostare il donare dal puro debito del mancante all’attivo desiderio dell’altro e di sottrarsi alla condizione dell’homo psychologicus, trascinato dall’in17 Si veda ancora di R. Esposito, Terza persona, cit., in particolare il capitolo primo, La doppia vita (la macchina delle scienze umane), pp. 25 sgg. 18 L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, pref. di R. Esposito, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 118, 144. 19 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009.

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finito desiderio del vuoto20 e, perciò, associato all’indifferenza dell’equivalente universale, se poi il dono resta cessione, generosità, solidarietà, «dono a distanza», apertura a un fuori che è solo il limite di spinte acquisitive21. C’è da chiedersi se un pur legittimo e rinnovato appello a una morale del dono – alla sua psicologizzazione e antropologizzazione – non debba interrogarsi sulla necessità di ripensare una ontologia del dono, il senso d’essere e di pensare che il paradigma del dono è in grado di lasciare che sia. Anche lo sforzo di restituire al donare la centralità dell’apertura all’alterità, associando al dono l’amicizia, il perdono, l’ospitalità, la testimonianza, proclama solo la responsabilità dell’accoglienza di un «altro dell’altro» ed espone in una speciale etica del dono la possibilità di andare oltre la morale del debito22. Dell’ontologia del dono permane la sua irrinunciabilità all’impossibile e all’interdizione del ritorno: il «terzo», in quanto condizione della reciprocità, rischia di restare l’esterna e astratta conciliazione, dirà Derrida, una composizione che appartiene solo alla sfera del diritto. Il faccia-a-faccia resta, come il perdono, lo spazio dell’impossibile.23 Il mimetismo dell’incontro è certamente sospeso dall’evento, da un impersonale accadere. It’s rains24. 20 E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001, in part. pp. 161 sgg. 21 Sull’equivoco rapporto di carità e mercato si veda ancora L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, cit., pp. 137 sgg. 22 Un’etica del dono è, in Derrida, l’appello ad una responsabilità illimitata, a un’ospitalità incondizionata, a una esposizione all’evento dell’altro, che ci convocano davanti a una Legge e a una Giustizia oltre il Diritto (C. Dovolich, Per Jacques Derrida. Amicizia e ospitalità, in «B@belonline», n. 2, 2006, pp. 51-53). 23 «Dans le face-à-face avec l’autre – infiniment autre – qui engagè ma responsabilité […] le tiers est déja là: le juridique, l’éthique, le politique» (J. Derrida, Le contraire du semblable, in «l’Humanité», 21 décembre 2002). Così il «perdono puro», senza scambio e senza condizioni, «è una follia dell’impossibile» (Il secolo e il perdono, 1999, trad. it. in B. Moroncini, La lingua del perdono, Filema, Napoli 2007; si veda anche di Derrida, Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, ed. it. a cura di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2004). Ma sulla funzione e l’ambivalenza dell’etica e del terzo nell’accoglienza dell’unicità dell’altro rinviamo al complesso confronto con Lévinas (J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, trad. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998). 24 Cfr. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 275. Per una intensa discussione del «terzo» come «impersonale» rinviamo a R. Esposito, Terza persona, cit., pp. 127 sgg.

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l’etica oltre l’evento

Il ripetersi del sonno dogmatico nel sonno evenemenziale sembra, così, mostrare un rinnovato dualismo speculare e appropriativo: apparente e assimilativa è la dissociazione – nel dono come dono di niente – tra il flusso desiderante, la disposizione effrattiva e dissolvente del vivente singolare, e la riduzione del mondo al «questo è un fatto», a un processo senza dimensioni e senza mediazioni perché contratto nell’imprevedibile e nell’impossibile, tradotto, come si diceva, nei flussi del miracolismo e del traumatismo dell’informazione e della comunicazione. All’esteriorizzazione del sé corrisponde la «sovranità del significante» o il «simulacro» – diceva Baudrillard25 – che è la derealizzazione del mondo. Si replica, dunque, per l’événementiel, quella dualità che, dissociando e assimilando il soggettivo e l’oggettivo, aveva fatto di questo rapporto di simmetria e di mimetismo il tratto teorico più identitario e appopriativo della modernità. La potenza della forza desiderante come luogo del nuovo pensare ha divorato, nel post-moderno, la densità e il limite delle cose nel mondo, presumendone la valorizzazione e l’estetizzazione nella incondizionatezza dell’immaginario. La verità di questa potenza è, forse, solo la gloria e il consenso intorpidito di una sconfinata platea imperiale26. Non c’è dubbio che il rinnovato interesse per la lettura stoica del dono risponda al bisogno di una interiorizzazione morale del debito, in un mondo che, nella sua infinita dispersione, non può che appellarsi a una coscienza vagamente libertaria, la cui verità è, come diceva Hegel, solo una disperante «coscienza disgregata»27. In una scena di narcisismo e di decostruzione imperiale è inevitabile che alla crisi del legame sociale si risponda con un appello al dono unilaterale e alla disposizione morale 25 Sulla simulazione e il dono effrattivo si legga di J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it., Feltrinelli, Milano 1979, in part. p. 52. 26 In questa direzione sarebbe utile e suggestiva una lettura del nesso tra «teologia politica» e «teologia economica», come nelle recenti tesi di G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007. 27 Sulla continuità, nella Fenomenologia dello Spirito, tra le figure dello «stoicismo» e della «coscienza disgregata» e sulle ambiguità della libertà stoica ai fini di un ripensamento dell’incontro con l’altro e della lotta per il riconoscimento rinviamo a M. Fimiani, Erotica e retorica. Foucault e la lotta per il riconoscimento, cit..

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dell’intenzione buona. È l’intenzione attiva di fare del bene, per Seneca, e non la cosa donata che decide del dono. Beneficium non munus è il lemma giusto per il De beneficiis. L’ingratitudine non è di ostacolo al benefattore, che, negando l’attesa della restituzione, vuole sottrarsi al riconoscimento, alla gloria, all’onore, al prestigio, che associano il «nobile» al mercante e all’usuraio. Il munus e la munificenza agonistica, al contrario, non accedono al beneficio per l’altro, ma solo al trionfo del donatore. Ne esprime l’orgoglio e l’arroganza, producendo lo schiacciamento dell’altro28. Ma il dono della buona intenzione, dello spirito interiore di una virtù, non riesce ad evitare di riproporre la figura imperiale, il donatore unico, il favore dall’alto, l’unilateralità e il «regime di grazia»29 – quella gratia che Benveniste esclude dal dono30. La virtù del singolo ripete la cessione gratuita e replica, comunque, un sistema intransitivo e verticale. Il dono puro, il dono dell’anima pura, il dono interiorizzato, non lascia evidenza all’altro. L’altro non è più là, presente, ma deve esser solo dedotto a partire dall’io31. L’effetto più coerente è, infine, che all’autocertezza del sé e alla decostruzione delle cose – alla fortezza di una libertà che, come per lo stoico, è tale solo se accoglie e insieme dimette il mondo – consegue una mutazione decisiva e distruttiva del movimento del donare. Il dono unilaterale, il kharisma, perde la seduzione e si fa persuasione – peitho32. Così la morale del dono, rilanciata a partire dalla tradizione classica imperiale, non si sottrae al mimetismo e all’assimilazio-

28 J.-J. Goux, Don et altérité chez Sénèque, in «Revue de Mauss», n. 8, 1998, p. 118. 29 M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, trad. it., Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006, pp. 333 sgg.; sul dono secondo il De beneficiis di Seneca cfr. pp. 352 sgg. 30 E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I, ed. it. a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, pp. 151-153. 31 M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, cit., p. 359. 32 Ivi, p. 341. La centralità del rapporto tra politica e grazia si produce, commenta Hénaff, intorno a una concezione dello spazio pubblico che «colloca il favore in uno schema del quale si può generalizzare la portata» (p. 343).

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ne, all’«unanimismo esaltato»33 della dissolvenza e della sparizione e, con esso, al mimetismo e alla impositività del duale, confinando l’elemento terzo nell’astrazione categoriale o nella sintesi della conciliazione dialettica. L’elemento terzo, chiamato a rompere il mimetismo dell’io-tu e del sé-mondo, va allora ridiscusso assumendo l’intera composizione del paradigma del dono e riproponendo, per il problema del legare, la forza del «regno delle cose»34. Una riflessione sulla cosa donata, come condizione concettuale del donatore e del donatario, può, così, provare anche a rispondere a quel bisogno di movimento nel pensiero – si diceva – che è un passare all’atto, un agire, o un disinnescare il dispositivo assimilante della spettralità generalizzata come nuova forma di orizzonte obbligante. 2. È noto come, oltre gli effetti dissolventi o impositivi del potlàc, Mauss abbia insistito su La force des choses, significativa espressione che intitola un paragrafo dell’Essai sur le don35. Tornare sulla forza delle cose consente di leggere nel dono un modello di legame – tra gli uomini e tra gli uomini e le cose – che apre il pensare alla centralità di un esterno reale, di un transito complesso che definisce la perifericità degli attori e il protagonismo della cosa36. Il dono si fa essenzialmente apparizione di un intermedio, di un frammezzo – la «falsa moneta» inequivalente –, coerente con la centralità di un reale presistemico e con il bisogno di ri-realizzazione del mondo. Nel due del legame fusionale, che ha inutilmente contrastato il due del legame pattuitario, il dono immette l’elemento terzo. S’insinua, così, un tratto concettuale, nella descrizione del rituale arcaico, che appare marginale anche a chi ne riferisce e lo documenta – «è oscuro», dice Mauss, «l’intervento di una

33

Ivi, p. 173. Così J. Bazin, La chose donnée, in «Critique», nn. 596-597, 1997, p. 8. 35 M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 227. 36 Cfr. M. Fimiani, L’arcaico e l’attuale, cit., in particolare il cap. Il sacrificio e l’avvicinare della cosa, pp. 131 sgg; e La forza delle cose, in Philia, a cura di M. Fimiani, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 281. 34

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terza persona»37 –, ma che decide dell’effettiva potenza della cosa donata. Il racconto del saggio maori, di nome Ranaipiri, al missionario etnologo Elsdon Best, dice come sia inevitabile, per lo «spirito di una cosa», per lo hau, che una cosa ricevuta in dono torni al donatore solo dopo essere stata ceduta a una terza persona38. Perché un terzo, nello scambio rituale? Lo hau – che sembra altro dal potlàc distruttivo, ma che è pur sempre forza di incremento minimo e indecidibilità del donato – non interviene, si è detto, nei rapporti a due, non rischia l’alleanza semplice, ma muove un percorso più complesso che meglio esprime il carattere reticolare del donare39. La terzietà chiamata in causa dallo spirito maori della cosa donata è, in realtà, doppia: non è solo quella del terzo attore, ma anche quella del taonga o del vaygu’a. Ciò che mi obbliga nel dono ricevuto, dice il racconto maori, è che il taonga ha una forza propria, «è che la cosa non è inerte» anche se abbandonata dal donatore: è lo hau che «insegue tutti i detentori»40. I taonga, infatti, sembrano dotati di individualità, sono dono e falsa moneta, anche a prescindere «dalla loro relazione con il proprietario»41. Così come i vaygu’a, per Malinowski. I vaygu’a sono animati «da una specie di movimento circolare»: la cosa viene donata a condizione «di usarla per un altro, o di trasmetterla a un terzo, “compagno lontano”, murimuri»42. È per questo che i vaygu’a non sono «semplici pezzi di moneta» o pura moneta fuori corso – mezzi per l’effetto ordinativo del donare e per le alleanze rituali –, ma esibiscono nella presenza singolare la posizione e l’intreccio complesso di un mondo: ciascuno di essi «ha un nome, una personalità, una storia, perfino un romanzo»43. Il terzo attore – secondo donatario nel racconto di Ranaipiri – restituisce, rende, senza conoscere il destinatario o il primo dona37

M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 170. Ivi, pp. 168 sgg. 39 J.T. Godbout, A. Caillé, Lo spirito del dono, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 167. 40 M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 170. 41 Ivi, p. 171. 42 Ivi, pp. 190-191. 43 Ivi, pp. 191-192. 38

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tore. Nel circolo del cedere e del ricambiare gli attori sono assenti ciascuno per l’altro, ma, al tempo stesso, legati dallo «spirito della cosa». Il terzo uomo è, allora, la condizione di una terzietà decisiva, la terzietà della cosa, che apre e impedisce la dualità immedesimativa del donatore e del donatario. L’elemento terzo che riattiva il legame non è il terzo attore, ancora compatibile con il circolo riparatorio della cessione, ma è il transito di cose eterogenee, il passare dell’intermedio. Un medio, o un terzo, che non è fondamento essenziale né concettualizzazione ordinativa, non è medio ontologico né medio logico. È, piuttosto, medio reale. È il passare che si va facendo e il venire in presenza di un passare, è il ritaglio del presentarsi. È la cosa che, riducendo la vertigine della sparizione, si fa «segreto supporto»44 del legame mutilato e trattenuto, trivalente ed esclusivo del due. Nel richiamare il carattere simbolico del dono cerimoniale si è insistito con efficacia sul bisogno di una incancellabile «innocenza materiale»45, del sum-bolon, divorato, nel mondo della sparizione dell’inestimabile, dalla macchina mondiale della produzione. Il simbolo, proprio della cerimonia, è l’elemento materiale – la tessera spezzata – che avvia il riconoscimento fra gli uomini. Per questo il dono non è animale46. È l’elemento materiale che, come il gioco per i giocatori, chiama la sfida, il rischio e la mossa alternata. E questa materia è un quadro terzo che lascia essere gli attori. Il dono non può omettere la trivalenza. Nel dono è il tre che produce il due e non viceversa, come invece accade per la dialettica, dove il tre è prodotto a partire dal due47. 44 L’espressione è foucaultiana e inserisce l’attualità di un mondo, spazio dell’ethos filosofico, a supporto reale del rapporto amoroso (M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., pp. 242-243). 45 M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, cit., pp. 36-37. 46 Ivi, pp. 189-191. Diversamente – commenta Karsenti – la lettura hegeliana di Kojève ha definito antropogeno il desiderio del desiderio, perché il desiderio umano non è mai orientato verso le cose, verso la soddisfazione e il possesso, legittimando, così, il gioco lacaniano dello specchio, la batailliana «negatività senza impiego», la vita come attività di pura perdita, la teoria del dono come desiderio di niente (cfr. B. Karsenti, L’uomo totale. Sociologia, antropologia e filosofia in Marcel Mauss, trad. it., Il Ponte Editrice, Bologna 2005). 47 M. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, cit., pp. 194-195.

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Ma che cosa s’intende per cosa quando è cosa donata? Perché la domanda sulla cosa incontra le radici del problema di come il passare all’atto, l’agire, sia quel movimento nel pensiero adatto a sottrarsi alla immediatezza e alla presentificazione, all’assimilazione – per la costanza e per la fluenza – della filosofia alla cognizione, della critica alla legittimazione del tal qual è? Pensare, diceva Heidegger, è rispondere all’appello dell’essere nell’ente, all’essere che si dona, all’Es gibt, rinviando il pensiero della cosa al pensiero della cosalità della cosa. La cosa non è solo ciò che è a portata di mano (das Vorhandene), è anche la complessità di un mondo e, infine, è l’incondizionato o il tornare nel nascondimento del manifestarsi di un mondo48. La cosa donata non è esperienza o immagine, né singolare né collettiva, ma è lo spazio di una Quadratura, di un Geviert, di un movimento di appropriazione transpropriante49, dove appare l’inconsueto e dove le cose agiscono l’una sull’altra50. Dove è possibile, per il pensare, interrogarsi su ciò che «ancora avviene»51. L’«esser-cosa della cosa»52 è un venir incontro 53 ed è l’aprirsi della storicità di una decisione: il senso della risposta alla domanda «che cos’è una cosa» non è una proposizione, ma è la determinazione del mutamento di una posizione riguardo all’ente54. La cosa e la sua terzietà non rinviano, dunque, all’immediatezza del c’è, ma alla profondità di un manifestarsi, a quella tramatura d’essere che dell’essere è la «partizione», la sua stratigrafia geologica e topografica. La cosa ha un «cuore di pietra» con cui ci si scontra, un cuore di «giacimenti» e di «discrezioni»55. La cosa si situa nel campo dell’archivio – per adottare la nozione di Foucault – perché ne condivide lo spessore determinato, dove si riconquista la mobilità aperta e conflittuale dell’événement e 48 M. Heidegger, La questione della cosa, trad. it. a cura di V. Vitiello, Guida editori, Napoli 1989, pp. 42-43. 49 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 119. 50 M. Heidegger, La questione della cosa, cit., p. 67. 51 Ivi, p. 75. 52 Ivi, p. 45. 53 Ivi, p. 65. 54 Ivi, p. 81. 55 J.-L. Nancy, Un pensiero finito, trad. it. a cura di L. Bonesio, Marcos y Marcos, Milano 1992, p. 147.

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dove si apre lo spazio della memoria delle lotte. Ogni cosa non è mai disgiunta – diceva Nietzsche – da un «sormontare, un signoreggiare» e dunque da un «riassettare». «“Evoluzione” di una “cosa”» – aggiungeva – è «il susseguirsi di processi d’assoggettamento svolgentisi in tale cosa, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro, con l’aggiunta delle resistenze che continuamente si muovono contro»56. La tessitura e l’attesa, la complessità e l’agire dicono, dunque, per la teoria del dono, la decisività della cosa come dell’elemento terzo nel legame tra gli attori del mondo. Una terzietà, quella della cosa, che elabora una «frattura fondatrice», un «fondo» prolifico ed esuberante di «intensità insopportabile»57, un terreno di apparizione archeogenealogico, che L’archéologie du savoir assegnerà, più tardi, alle analisi di una «storia generale» dei sistemi di verità e dei dispositivi di potere. Il percorso delle riflessioni di Mauss sul «regno delle cose» si arricchisce di una singolare stratigrafia di testi, intensi e discontinui, sul sacrificio, sulla magia, sul corpo e, più direttamente, sulle condizioni dell’agire. È possibile, qui, provare solo a elencare le convergenze concettuali e rafforzative per ciascuno dei campi di discussione. Così, le analisi sul sacrificio rifiutano il rito della comunione totemica, del pasto della vittima che fonda un patto verticale di sangue, per discutere di un’idea di sacrificio che assegna la consacrazione, o il passaggio di qualcosa dal profano al sacro, alla processione della cosa che transita58, che trasmette la qualità della cosa sacra secondo uno schema rituale complesso: il passare della cosa, nell’atto sacrificale, non prescinde dagli elementi, dai luoghi, dagli strumenti del sacrificare, dalle speciali procedure, incrociate e orizzontali, di entrata e di uscita. Lo scopo del sacrificio non è il rafforzamento di una forza illimitata, ma la riduzione e il contenimento della potenza e della terribilità della forza. Con il «limitar56 F. Nietzsche, Genealogia della morale, vol. VI, t. II dell’Edizione critica delle Opere complete, condotta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1972, II ed., pp. 276-277. 57 B. Karsenti, Marcel Mauss. Le fait social total, Puf, Paris 1994, pp. 126-128. 58 Cfr. M. Mauss, Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio, trad. it. in Le origini dei poteri magici, cit., p. 49.

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la, dirigerla, domarla»59, nel rito sacrificale, è data la condizione di un legame possibile tra esseri, dimensioni, differenze, che possono «penetrarsi pur rimanendo distinti»60. Per la ritologia, la cosa magica non esprime una legge di causalità simpatetica che fonda la catena di singolarità diffuse di una unità indistinta, ma può meglio dirsi «rappresentazione impersonale concreta»61. «Ogni cosa dotata di proprietà è, per suo carattere, una specie di rito»62: non è un punto semplice o un elementare apparire, ma una densità, un addensamento, una complicatio-explicatio che concentra la cifra, l’anagramma dell’intero campo di forze dove la proprietà della cosa si mostra e si muove. La cosa assume, così, la tensione attiva dell’energia e del contesto, della forza e dell’ambiente63. Il rituale fa della cosa il complesso movimento del mana. Ed è il mana ad essere l’apertura ulteriore della cosa, una sorta di «materia trascendentale»64, di categoria fondamentale dell’essere che assegna verità ed esistenza reale al mondo magico, che istituisce legami e produce posizioni di realtà. «La nozione di mana», per la teoria generale della magia, è «quella specie di categoria […] che dà fondamento» al sapere magico e impone, insieme, ordine e movimento alle cose, «separa le une, unisce le altre, stabilisce linee di influenza e limiti di isolamento»65, produce i nessi di contatto e di contrasto fra le cose, «il posto relativo e il valore rispettivo delle cose», la loro «differenza di potenziale»: «le cose, infatti, agiscono le une sulle altre proprio in virtù di queste differenze» e «l’idea di mana non è altro che l’idea […] di queste differenze di potenziale»66. Il mana è movimento di cui c’è sempre un residuo da descrivere67 ed è luogo di una con59

Ivi, p. 80. Ivi, p. 145. 61 M. Mauss, Saggio di una teoria generale della magia, cit., pp. 74 sgg. 62 Ivi, p. 103. 63 Ivi, p. 99. 64 Per ciò che si sottrae alla categorizzazione del trascendentale in quanto «puro “fuori”» cfr. E. Vitiello, Heidegger, Kant e il problema della cosa, in H. Heidegger, La questione della cosa, cit., p. 29. 65 M. Mauss, Saggio di una teoria generale della magia, cit., p. 124. 66 Ivi, p. 123. 67 Ivi, pp. 98 sgg. 60

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tingenza circoscritta, spazio di una memoria possibile di quanto la storia può lasciare oscurare o lasciare apparire. La sua persistenza scompositiva ne fa un milieu réel, un «fatto sociale totale»68 o il «circolo delle cose stesse»69. Così, il donare e la centralità della force des choses muovono il passare all’atto, l’agire, aperto al manifestarsi e al nascondersi di una trama che s’incontra e non si assimila. Pensare è agire, è donare, è dare e ricevere. È il tessuto di ogni vita70, perché è accettare e muovere il groviglio delle cose. È il movimento della «mano», che, monstrum, mostra e si mostra, e che non lascia dissociare corpo e anima, vita e persona71. Il corpo vivente è, per Mauss, traversamento di codici, complessità di «tecniche», è multiplo, seriale, dinamico, è una singolare «simbolica dello spirito»72. Così come la persona è, per il suo stesso etimo, maschera, ma solo nel senso di un’«immensa mascherata» senza valore appropriativo73: è decorazione e ornamento74, è danza mascherata75, è abilità e travestimento momentaneo, è fugacità di un soggetto incarnato e prodotto, spinto al confine del significante supremo, ma a questo sottratto da una soglia che lo vede sempre sporgersi su un mondo. Dunque, solo una «genealogia», diceva Mauss, ci restituisce un «caleidoscopio di disposizioni», che può nascondere il mistero di una mescolanza, le secret de ce mélange76, e che esige, contro 68

M. Mauss, Saggio sul dono, cit., pp. 286 sgg. M. Mauss, La Prière, in Oeuvres, a cura di V. Karady, Minuit, Paris 19681969, vol. I, p. 400; si veda anche di Mauss Sociologie (con P. Fauconnet), in Oeuvres, cit., vol. III, p. 163. 70 J. Starobinski, A piene mani. Dono fastoso e dono perverso, trad. it., Einaudi, Torino 1995, pp. 3-4. 71 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it., pref. di G. Vattimo, Sugarco Edizioni, Milano 1978, pp. 108-109; si veda il decisivo commento di J. Derrida, La mano di Heidegger, trad. it. a cura di M. Ferraris, Laterza, Bari 1991, pp. 50-51. 72 M. Mauss, Le tecniche del corpo, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, cit., p. 393. 73 M. Mauss, Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella dell’«io», in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, cit., pp. 360 sgg. 74 M. Mauss, Manuale di etnografia, trad. it., Jaca Book, Milano 1969, p. 85. 75 Ivi, p. 100. 76 M. Mauss, Divisions et proportions des divisions de la sociologie, in Oeuvres, cit., vol. III, p. 202. 69

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ogni utopia o conservazione, un orientamento diagnostico77. La scommessa a superare lo stato conservativo di «passività» o di «rivolta»78 è solo la pratica di una «disposizione molecolare»79, un’attenzione micrologica, per accogliere e insieme mobilitare, esaminare e resistere, dal momento che il volere e il poter essere altrimenti si annuncia sempre sul terreno del già esistente80.

77

M. Mauss, La Nation, in Id., Oeuvres, cit., vol. III, p. 579. M. Mauss, L’Action socialiste, in Id., Écrits politiques, Textes réunis et présentés par Marcel Fournier, Fayard, Paris 1997, p. 72. 79 Ivi, p. 80. 80 M. Mauss, Intervention à la suite d’une communication de J. Ray: «La Société des nations en tant qu’organe général, universel et permanent de la vie inernationale», in Id., Oeuvres, cit., III, p. 638. 78

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7. Lo spazio minimo e il miracolo

1. Le riflessioni sulle attuali forme della comunicazione confermano che la mentalità del nostro tempo è sempre più segnata da un diffuso miracolismo, dalla percezione che il mondo ridotto a una continua fluenza di minimi è sostanzialmente la scena del miracolo. La radice «mirus», il sorprendente o il meraviglioso, legittima l’assoluta unicità o la straordinarietà del singolo, del minimo, dell’irriducibile, e, insieme, il farsi presente di un potere. L’insignificanza e la potenza segnano, infatti, il miracoloso, che è, perciò, al tempo stesso, l’essere «nulla» e l’essere «di più». Il fatto singolare è sottratto all’ordine e alla spiegazione, è l’insensato, ma è anche promosso a un valore. La sottrazione all’ordine è il farne un senza ragione, un non ordinario, un disordinato, un impossibile, dunque un fatto senza mediazione e senza elaborazione, irrazionale e isolato, perciò qualcosa di banale e di futile, dove il minimo è il minore: la futilizzazione dell’evento è l’avvertimento esclusivo di «questo è il fatto», del puro dato contratto nell’istante inspiegabile di un processo senza dimensione e senza tempo. L’assoluto presente, il presentismo, cancella il passato e il futuro, altera e consuma la «storia» e il «fare storia»1. La promozione al valore è, al contrario, il riconoscimento del singolare come superiore al generale o al comune. Il singolare non è solo ciò che è ridotto, non è solo ciò che è privato del ge1 La «futilizzazione» dell’evento e la cancellazione della storia nel «presentismo» sono, com’è noto, i due nodi centrali delle tesi di Perniola sui «miracoli della comunicazione» (M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., pp. 60, 23-38).

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l’etica oltre l’evento

nerale e del comune, ma è ciò che è accresciuto, ciò che è il carico di una valorizzazione e dunque l’esposizione al miracolo. Il singolare miracoloso è, così, l’istante investito di futilità e di valore. La catastrofe dell’accadere o la dissipazione del reale, la sua fluenza decomposta – com’è data dagli attuali strumenti comunicativi – non consuma, ma attiva una insopprimibile potenza valorizzante. Il nucleo catastrofico è certamente altro, è un’alterità che non spiega ma che fa essere l’accadere. È ciò che fa dell’accadere l’inspiegabile e l’impossibile, e che, al tempo stesso, dà valore, senza ragione, all’infinito molteplice. Quest’alterità può essere assolutamente estranea, esterna, assente, ed essere, perciò, potere sovrano invisibile, sovranità che penetra ogni punto del differire, ogni immagine singolare, ogni pezzo o reliquia, attivandone il sacro e il prodigioso, promuovendolo ad oggetto di debito e di culto. Qui l’identità si ripropone non più come l’ordine razionale che attraversa la trama concettuale e ordinativa dell’empirico, secondo una congiunzione-disgiunzione orizzontale dell’uno e dei molti, ma come l’Uno invisibile e indicibile che la teologia associa all’apofatismo e alla tradizione politica della decisione sovrana, secondo una congiunzione-disgiunzione verticale che coniuga imperialismo e governamentalità2, compatibile con il modello populista e carismatico, con la subordinazione della massa ad un capo. Un tempo il miracolo, o l’impossibile, richiamava la negazione del tal qual è e la sottrazione all’utile – come in Bataille, ricorda Perniola3 –, dove l’esperienza della sovranità era assimilata al dispendio, all’atto di una vita non limitata ai sistemi ma «immenso travaglio di abbandono, di scorrimento e di tempesta»4. Oggi il miracolo è il valore dello stato di fatto, di un minimo istantaneo senza senso, senza legami, senza dinamismo. È soltanto un c’è che, in quanto tale, acquista valore. La realtà è, dunque, un reliquiario, uno spazio di minimi di culto, di reliquie, dove si attiva uno speciale «immaginario

2 Cfr. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, cit. 3 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., p. 7. 4 G. Bataille, La nozione di «dépense», cit., p. 56.

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della presenza»5, una «conversione dello sguardo» che afferra l’«apparire rudimentale», un «esser-là» di frammenti e di sopravvivenze investiti di onore e di stima: la cosa visibile è raddoppiata nella favola e nel sacro, lasciando così convergere la banalità e il valore. Il culto della reliquia conferma, dunque, un’eccessiva presenza della presenza, dove «c’è mancanza solo al fine di dovervi porre rimedio». Rafforza la inevitabilità del resto e del residuo per la potenza sovrana, tanto da sollecitare il richiamo alla necessità dell’assenza, del vuoto, del nulla, nella reazione apofatica del protestantesimo contro il culto cattolico della «paccottiglia delle reliquie»6. Lo scorrimento e l’evidenza del banale assorbono, perciò, un valore che minaccia e consuma la stessa sovranità che lo produce, e apre il paradosso dell’eccesso della valorizzazione del singolo ai limiti della sparizione della fonte assente della potenza. L’invenzione delle reliquie, l’apparire del culto del minimo, rischia di trasferire, così, la spinta del desiderio dall’assenza alla presenza, da Dio all’oggetto materiale, dal sovrano al «ricambio suntuoso», in coerenza con il prevalere di una logica della «circolazione di beni» e del «mercanteggiamento corrente»: la sovranità assente è riversata in residui singolari, trasformabili, equivalenti e scambiabili. È qui evidente «la necessità di cominciare a pensare che cosa può separare fondamentalmente l’economia dalla teologia»7. La dissolvenza del teologico e la sparizione della sovranità segnalano uno spostamento decisivo da un nesso verticale a un nesso orizzontale, all’essere uniti e separati dei punti di un flusso, che, oltre la prima e oramai superata orizzontalità dell’incrocio del razionale e dell’empirico, oltre lo schema ordinativo del comune e del diverso, dispiegano solo il movimento della frammentazione, dell’apparire e del venire a noi. È la «presenza della presenza» che non rinvia a un’assenza, che non esce dal flusso, ma che produce il valore del futile, del banale, del minimo, in 5 J.-M. Rey, La religione come istanza critica, a cura di M. Fimiani, Paparo editore, Napoli 2013, p. 67. 6 La paccottiglia delle reliquie è il titolo del secondo capitolo del testo di Rey (ivi, pp. 57 sgg.). 7 Ivi, p. 77.

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virtù del suo puro accadere8. La forza del valorizzare è, così, interna al minimo, è propria della presenza, perché il valore non va oltre la estetizzazione del sentire. Il valore del banale, del frammento insignificante e del senza ragione, si contrae nella sua esclusiva e concentrata capacità di attrazione e di seduzione, allo scopo di sollecitare una sensibilità esaltata, esagerata, disposta all’avvertimento dello stupefacente e del miracoloso. Il sentire è occupato ed espropriato da un nuovo miracolismo, quello del trans-estetico, che sollecita l’accrescersi della sensazione più che il senso della bellezza9. Lo spostamento orizzontale della differenza minima preserva nel minimo la potenza del miracolo e la sua valorizzazione. Ciò che separa l’economia dalla teologia è, dunque, il processo di estetizzazione del reale, è il rinvio dell’economico all’estetico, ad un’arte dell’apparire associata a un’esperienza anche alienante del sentire, alle sensazioni cariche ed esaltate, attratte non più dal bello ma dalle «marche» commerciali. La conversione estetica del miracolismo si concentra sulla presenza singolare e può anche stimolarne la spinta allucinatoria, può esaltare l’idolatria del c’è e la posizione mercantile. Così il capitalismo di seduzione oppone al teologismo rinnovato la linea orizzontale dell’edonismo consumistico, della mercificazione del sentire, del torpore e dell’anedonia10, di una estetizzazione anestetica di differenze equivalenti, dove la valorizzazione non è più di un Dio-sovrano ma del puro essere-accanto del differente, della sua istantanea ripetizione. L’accadere non espone più individui ma solo mutanti potenziali, definisce lo «stadio frattale del valore» e l’opera d’arte lascia il posto alla «feticizzazione della nullità», al «valore mercantile» del minimo e dell’istante, esaltandone i caratteri della sorpresa, della stranezza, della liquidità, della irrealtà, di una «meravigliosa com8 Sul permanere del teologico-politico nella cultura occidentale e sulla funzione di interruzione e discontinuità di un pensiero del differire si veda l’importante contributo di R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. 9 G. Lipovetsky, J. Serroy, L’esthétisation du monde, Gallimard, Paris 2013; il testo teorizza una sorta di «capitalismo di seduzione». 10 L’espressione è di M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., p. 129.

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mutabilità», poiché «tutti gli effetti sono possibili e virtualmente equivalenti», al tempo stesso mostruosamente stranieri11. È inevitabile porsi una domanda sul significato proprio dell’accadere come fonte di valorizzazione, se dal modo di intendere l’accadere, o la frammentazione dei minimi, dipende la posizione del valore, il senso del miracolo, diviso tra l’attrazione della merce e lo stupore del nuovo, tra l’edonismo consumistico e l’interruzione creativa. È giusto, allora, chiedersi: la fluenza dell’accadere è dispersione dissipativa e linea di occupazione di un’estetica alterata o trans-estetica, finalizzata a produrre lo stupefacente, l’attraente e il seduttivo, per l’inseguimento del piacere e del desiderio rinnovato di possesso e di consumo? O piuttosto la dispersione è decostruzione creativa, sospensione e spostamento, répétition, sincope della fluenza, attivazione dell’evento, perciò irriducibile all’esser-là, effettivo movimento del produrre, reale dinamica del differenziarsi, luogo dell’attendere? 2. La dispersione miracolistica del minimo non produce solo la sparizione del tempo e della storia, con la conseguente alterazione della storiografia, ma, per lo sviluppo delle nuove tecnologie e per l’ubiquità dell’evento, consuma la stessa dimensione spaziale, trasforma profondamente l’arte e il sapere dello spazio. L’architettura e l’urbanistica si espongono a una mutazione al limite della loro scomparsa. Qual è la condizione dello spazio urbano, oggi? Qual è il suo destino? È ancora possibile conoscere e progettare uno spazio pubblico e i modi di vivere di un collettivo? Sono le domande che occupano, alla fine del millennio, le riflessioni sulla spazialità. È convinzione diffusa che lo spazio urbano sia da tempo privato di forma e di storia, di coerenza e di contesto. La sparizione 11 J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, cit., pp. 42 e 10-11. «La Grande Sparizione […] non è più quella della trasmutazione virtuale delle cose, ma quella […] di una polverizzazione a catena della coscienza in tutti gli interstizi della realtà […] È per la stessa ragione, per essersi confusa sempre più con la banalità oggettiva che l’arte, smettendo di essere diversa dalla vita, è divenuta superflua»(J. Baudrillard, Perché non è già tutto scomparso?, trad. it., Castelvecchi, Roma 2013, pp. 19-20).

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di un prima e di un poi, la contrazione dello spazio-tempo in un adesso privo di un qui, la scomparsa, per il dominio dell’ubiquità e dell’istante, di ogni spostamento, impediscono il riconoscimento dei luoghi. Il riconoscimento è appiattito, perciò, su una vaga sensazione di assuefazione allo «spazio dei quartieri» in una città divenuta «agglomerazione», «Metacittà», «memoriale dei tragitti dell’oggetto passeggero che improvvisamente sono diventato – io, il soggetto, questo cittadino programmato dalla sua motricità, così come dal sistema viario dei quartieri»12. Con la disintegrazione della città storica e della urbanizzazione tradizionale, il privilegio gerarchico del centro sulla periferia perde il suo significato, «a favore di una configurazione morfologica inapparente, in cui il Nodale succede al Centrale, in un ambiente elettronico preponderante, dove la “tele-rilevazione” favorisce lo spiegamento di una eccentricità generalizzata, periferia senza fine»13. L’habitat non è quasi più altro che un abito, un piano ridotto che contrae ogni volume di contesto, «che combina intimamente l’esterno e l’interno»: il Dentro non è altro che la «fodera satinata» del Fuori. Evocando Simondon e Deleuze, Virilio cita da Valéry: «Ciò che vi è di più profondo nell’uomo, è la pelle»14. In un tempo contratto nell’istante e dominato dal pixel, punto luminoso dell’ottica elettronica e parte minima dell’immagine, alla crisi delle Grandi Narrazioni segue la crisi dei Piccoli Racconti, del raccontare i minimi, e con essa la crisi di ogni dimensione15. Con i punti senza dimensione e con gli istanti senza durata, l’immagine, profondamente trasformata, è assolutamente instabile ed è presente solo «per la sua fuga». Nasce una sorta di «video-città»16 e l’elemento architettonico va alla deriva. Le «strutture dissipative» investono le tradizionali configurazioni 12 P. Virilio, Città panico. L’altrove comincia qui, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2004, pp. 12-13. 13 P. Virilio, Lo spazio critico, trad. it., Edizioni Dedalo, Bari 1998, p. 126. 14 P. Virilio, Città panico, cit., p. 110. Cfr. in proposito G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 97. L’urbano come materialità di pura superficie, di pelle, è espressione anche di Rem Koolhaas (cfr. F. Chaslin, Architettura della Tabula rasa. Due conversazioni con Rem Koolhaas, ecc., trad. it., Mondadori Electa, Milano 2003, p. 81). 15 P. Virilio, Lo spazio critico, cit., p. 22. 16 Ivi, p. 88.

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geometriche e architettoniche17. L’interrogazione sul futuro di una post-architettura occupa il dibattito sulla modernità, partecipe di un «fenomeno di derealizzazione»18. In questo scenario non è tanto la fluenza dei minimi la scena del miracolo, quanto il «capolavoro in negativo», «per sottrazione», la vera rottura della concatenazione di una normalità quotidiana, e cioè «l’incidente intempestivo», la manifestazione estrema, la creazione del panico, per via di una singolare «estetica della scomparsa»19. Da questa prospettiva un «miracolo laico»20 esplode, come rottura di continuità di un flusso sostanzialmente inavvertito e sedato. Solo l’insorgere imprevisto conquista emotivamente, prestandosi, per una «mitologia dell’evento», al «montaggio teatrale» dell’informazione e dei media, laddove l’«infinitamente piccolo» è facile occupazione di un anonimo «corso delle cose», di «trasformazioni silenziose», lente e regolari, continue e globali, che non avvertiamo e che si lasciano pensare, oltre ogni capacità di opposizione e di confronto aperto, come l’«indeterminabile della transizione»21. La teletrasmissione, i canali telegrafici ed elettronici producono, dunque, incontenibili sconfinamenti del funzionamento urbano, diffusione ed «evaporazione» della città, «flocculazioni e ondulazioni dei bordi e dei nuclei»: la città «si dilata e si nebulizza», dice Nancy, «si mette in rete e si diffrange, si ricopre di villosità», perché la sua «proliferazione frattale» ne fa solo una «materia spugnosa»22. Le tesi di Rem Koolhaas raccontano lo stato estremo della sparizione urbana nella Città Generica. L’esito del processo post-metropolitano non è la trasformazione del luogo, ma la sua totale rovina. La scomposizione areale è, in effetti, la sua decomposizione, ne è la riduzione a Junkspace, a spazio spazzatura23. I nuovi pae17

Ivi, p. 74. Ivi, p. 18. 19 P. Virilio, Città panico, cit., pp. 31-33. 20 Ivi, p. 32. 21 F. Jullien, Le trasformazioni silenziose, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2010, pp. 109 sgg. 22 J.-L. Nancy, La città lontana, trad. it., Ombre Corte, Verona 2002, pp. 38-39. 23 R. Koolhaas, Junkspace, trad. it. a cura di G. Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006. 18

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saggi delle megalopoli mondiali mostrano bruttezza, abbandono, fallimento formale, funzionale, sociale24. Il lucido osservatore può anche diventarne il profeta, affascinato da una loro «bellezza eccitante», dal loro apparire prodigioso25. È opportuno, dice Koohlaas, «esacerbare, non sciogliere» il complicarsi e il dilagare degli accadimenti26, sospendere l’«inutile resistenza» e il rifiuto sterile: oltre gli intenti prescrittivi vanno captate e descritte le mutazioni in atto27. Queste trovano nel «labirinto consumistico» del commercio l’«invisibile cemento della nuova condizione urbana»28, nell’uniformità e nella neutralità dello spazio aereoportuale il modello della città, sciolta perciò nella «condizione dell’essere di passaggio»29: l’effetto non è il vuoto e la carenza, ma il disordine e la «discarica»30, l’aprirsi di una «carcassa», di uno Junkspace «sgargiante» e non «memorabile»31. Lo spazio spazzatura espone l’accumulo, non la gerarchia, l’addizione, non la composizione32, la proliferazione senza forma, solo un rigurgito33. La liberazione della città dalla storia e la completa «evacuazione della sfera pubblica» fa della Città Generica uno spazio senza strati, uno spazio liscio senza spessore, senza profondità34. L’idea della «stratificazione, dell’intensificazione, del completamento le è estranea: non ha strati. Il suo prossimo strato si colloca da qualche altra parte, subito accanto»35. Alla desertificazione dell’urbano risponde la Bigness, l’ipotesi della Grandezza, il gesto di un’«architettura estrema», l’idea di un «dimensionamento» dell’edificio, di «strutture più alte e più 24 È un tema costante nel dialogo con François Chaslin (cfr. F. Chaslin, Architettura della Tabula rasa, cit., p. 38). 25 Ivi, pp. 41-43. 26 Ivi, p. 45. 27 Ivi, p. 61. 28 Ivi, p. 75. 29 R. Koohlaas, Junkspace, cit., pp. 35-36. 30 F. Chaslin, Architettura della Tabula rasa, cit., p. 78. 31 R. Koohlaas, Junkspace, cit., p. 67. 32 Ivi, p. 66. 33 Ivi, p. 69. 34 Ivi, p. 34; è un chiaro riferimento ai temi deleuziani del «liscio» e dello «striato» in Mille plateaux, esplicitamente richiamati nelle risposte a Chaslin (F. Chaslin, Architettura della Tabula rasa, cit., p. 70). 35 R. Koohlaas, Junkspace, cit., pp. 56-57.

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profonde – più grandi – come mai prima ne erano state concepite», apparentemente adatte a una programmazione infinitamente più ricca: «superata una certa massa critica, un edificio diventa un Grande Edificio». Ma in realtà nella Bigness l’«“arte” dell’architettura è inutile»36. La Bigness esiste senza tessuto e senza contesto. La distanza «tra nucleo e involucro cresce al punto che la facciata non può più rivelare ciò che avviene all’interno». La Bigness trasforma, perciò, la città «da una sommatoria di evidenze in un accumulo di misteri. Ciò che si vede non corrisponde più a ciò che realmente si ottiene»37. Il Grande Edificio contiene una sorta di «alchimia programmatica»38, una proliferazione eterogenea di eventi in un unico contenitore, un intero apparato di montaggio: «ibridazioni/vicinanze/attriti/accavallamenti/sovrapposizioni»39. Nella «radura» della città uniforme, privilegia la neutralità e l’impersonalità, la verticalità e la «densità dell’isolamento»40. Lo Junkspace è uno spazio orfano, senza autore, e tuttavia sorprendentemente autoritario41: è una ragnatela senza ragno, che non riduce la tirannia ma la rende solo inconsapevole42. C’è una indiscussa continuità – è il commento di Lyotard – tra il nazismo e la politica delle telecomunicazioni. È il nazismo ad avere avviato l’inversione del rapporto tra arte e politica, ad avere usato un’arte che prendesse il posto della politica: i nazisti hanno fatto «un uso esteso, sistematico, del mito, dei media, della cultura di massa e delle nuove tecnologie al fine di realizzare la mobilitazione totale delle energie in tutte le sue forme»; nella democrazia moderna persiste il principio secondo cui «l’opinione delle masse deve essere sedotta e condotta da ciò che potrei chiamare procedure “telegrafiche”, dai diversi tipi di “iscrizione a distanza” che permettono di descrivere e di prescrivere. E, in questo modo, il nazismo ha vinto: come mobilitazione totale»43. 36

Ivi, pp. 13-15. Ivi, p. 15. 38 Ivi, p. 21. 39 Ivi, p. 18. 40 Ivi, pp. 39-40. 41 Ivi, p. 88. 42 Ivi, p. 75. 43 J.-F. Lyotard, L’inumano. Divagazioni sul tempo, trad. it., pref. di F. Ferrari, Lanfranchi editore, Milano 2001, pp. 106-107. 37

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Può la mobilitazione totale sottrarsi all’uso della seduzione e del controllo allucinatorio? È possibile associare la fluenza a una movimentazione critica e alla libera ripetizione del nuovo? A quali condizioni la mobilitazione fa del valore e del miracolo il luogo dello stupore e dell’interruzione creativa? 3. Non è mancato, tra i filosofi della differenza, lo sforzo di pensare il minimo come singolarità sottratta alla dispersione del consumabile ovvero come inaccessibile lavoro di un’arte. Il minimo è traccia di una «macchina» – diceva Deleuze – che muove l’oscillazione tra caos e ritmo; il singolare è, infatti, caosmos, dunque passaggio, transito, un «durante»44. Nel movimento del minimo si dà il «concatenamento», l’intreccio di ritmo e caos, ovvero di territorialità e di deterritorializzazione, di contenuto e di espressione45. La «macchina» è «un insieme di punte che si inseriscono nel concatenamento in via di deterritorializzazione, per tracciarne le variazioni e le mutazioni». Le «macchine» sono «chiavi singolari che aprono e chiudono un concatenamento, un territorio»46. Il concatenamento territoriale non è separabile, perciò, «dai passaggi e dai ricambi che conducono verso altri concatenamenti». La deterritorializzazione è sempre annuncio di un’altra territorializzazione47. Il territorio è «la prima cosa che faccia concatenamento» e il concatenamento territoriale «continua a passare in altri concatenamenti»48. È in gioco una «macchinica», un fare mac44 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma 2010, pp. 380, 400. 45 Ivi, p. 597. 46 Ivi, pp. 400-401. 47 La deterritorializzazione è condizione per un’estetica dello spazio se è oltre la logica dell’assoluta identità e dell’assoluta negazione. Argine alla barbarie globale e garanzia di una educazione estetica, il tema privilegiato delle culture extraeuropee, e in particolare del pensiero giapponese – ha segnalato Perniola –, è l’«estetica dell’ambiente» oltre l’«estetica dell’armonia» e l’«estetica del conflitto»: «l’aidagera [ciò che sta in mezzo] implica una distanza spaziale che separa cosa da cosa, indicando tuttavia che noi possiamo incontrarci nell’intermezzo» (M. Perniola, L’estetica contemporanea, Il Mulino, Bologna 2011, pp. 221-222). 48 G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 390-392.

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china, un «engineering molecolare» che può farci comprendere come non ci sia un inizio da cui muove una successione lineare, ma solo «densificazioni, intensificazioni, rafforzamenti, innesti», «sovrapposizione di ritmi disparati, articolazione dall’interno di un’inter-ritmicità, senza imposizione di misura o di cadenza», perché «l’inizio comincia sempre nel mezzo, intermezzo»49. Lo spazio è, insieme, dimora ed estraneità, luogo stabile e trasferimento, territorio e deterritorializzazione, incrocio di fatto tra spazio striato e spazio liscio, tra spazio «sedentario» e spazio «nomade»: «lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato, lo spazio striato è costantemente trasferito, restituito a uno spazio liscio»50. Lo spazio liscio non vuol dire omogeneo, è un «anti-tessuto», un «groviglio delle fibre ottenute per follatura»: è piuttosto uno «spazio amorfo, informale»51. Lo spazio liscio è il puro caos, sottratto ad ogni ritmo, ad ogni composizione e organizzazione di senso; tradisce un atteggiamento mimetico nei confronti del reale, riproduce ciò che è là; assimila il dislocarsi alla rovina di ogni creazione e di ogni resistenza al presente, impedisce il venire dell’evento e di un’arte che lo produce. Perciò la destratificazione brutale – avverte Deleuze – rischia di essere suicida: le esclusive linee di fuga sono linee di morte e di distruzione che coprono il fascismo52. Gli spazi lisci, «con il più strano dei rovesciamenti», controllano, così, la terra striata, perché tracciati e occupati «da potenze d’organizzazione diaboliche»53. Lo spazio liscio o la deterritorializzazione continua non è mai «sufficiente per salvarci»54. Con la dislocazione, sottratta alla deterritorializzazione assoluta e trattenuta nel transito ritmo-caos, l’architettura vive come «arte della dimora e del territorio»55. 49

Ivi, pp. 395-396. Ivi, p. 564. 51 Ivi, pp. 565-566. 52 Ivi, pp. 595-598. 53 Ivi, p. 569. 54 Ivi, p. 589. 55 Ivi, p. 396. Il richiamo all’architettura come «macchina produttrice di senso» è ripreso, negli stessi anni, da Guattari:«L’opera genera una mutazione del contesto orientandolo in senso contrario rispetto alla comune comprensione e in ragione della sua singolarità» (F. Guattari, Architettura della sparizione, trad. it., Mimesis, Milano 2013, p. 16). 50

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Ma che cosa è l’arte? È ritmo e intervallo critico: «si tratta di mantenere a distanza le forze del caos che bussano alla porta»56. Vi è territorio quando alcune componenti d’ambiente cessano di essere «funzionali» per divenire «espressive», quando si produce espressività del ritmo. La territorializzazione è lo stesso «atto del ritmo divenuto espressivo», è il divenire espressivo del ritmo. Se è vero che «possiamo chiamare Arte questo divenire», il territorio non è altro che «effetto dell’arte»57. L’arte è liberazione di «materia di espressione» e ogni cosa può esserlo. C’è come un automovimento delle qualità espressive, che non sono solo impressioni e emozioni soggettive. Le qualità espressive possono dirsi firme. E la «firma» non è la «costituzione di un soggetto», ma solo di una «dimora» e del suo «nome proprio». Perciò «l’arte non è riservata all’uomo», «l’arte non aspetta l’uomo per iniziare ad essere»58. Il concatenamento territoriale eccede la logica duale dell’unotutto ed esclude l’alterità assoluta di un inesistente al di là, per aprirsi, invece, ad un immanente altrove, al transito tra segni e forze, cose ed eventi. Il fatto artistico è un avvenire oltre il significato, atteso e non previsto, è l’improvviso venire dell’evento, è il minimo che si fa senza ragione, la delocalizzazione come produzione del nuovo. L’arte, répétition e creazione, è, insieme, il movimento della territorialità e il movimento del pensiero. Lo stupore dell’invenzione è effetto oggettivo e soggettivo. Deleuze rifletterà su che cosa significa pensare tra arte e filosofia59. La centralità delle arti spaziali nel contrasto all’autorità filosofica e al logocentrismo è indiscussa, secondo Derrida. La decostruzione è impegnata «in campi detti artistici, visuali o spaziali»60. Compito della spazializzazione è de-teologizzare, deontologizzare la chóra, restituirla al suo essere posto, spostamen56

G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 387. Ivi, p. 383. 58 Ivi, pp. 383-387. 59 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. it. a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 1996. 60 J. Derrida, Adesso l’architettura, trad. it. a cura di F. Vitale, Scheiwiller, Milano 2008, p. 43. 57

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to61. La chóra non può dirsi presente, ma non è al di là dell’essere, è una restanza, è il luogo di una «resistenza infinita»62. Se si vuole liberare la spaziatura dai suoi limiti antropologici, antropomorfici e teologici, bisogna parlare di «traccia, marca, pista», bisogna spostarsi dal discorsivo allo scritturale, al testuale, dal lineare al locale63. L’architettura non appartiene alla città o a un progetto urbanistico. Bisogna liberare la forma architettonica per ritrovarla, bisogna strapparla all’origine senza metterla in questione64. L’architettura è scrittura dello spazio, oltre la «metafisica della presenza» e oltre l’assenza e il religioso – la tonalità teologica e quella heideggeriana rinviano solo, nel confronto con Peter Eisenman, al vuoto, al nulla. La decostruzione della scrittura architettonica non è negativa, ma è legata all’affermazione; non ha il vincolo del passato, ma non può cancellare la memoria di un archivio65. La dislocazione, dunque, non è pura dispersione: c’è sempre un’opera, un pezzo d’opera, l’opera come resto. E c’è un pezzo d’opera ogni volta che «un evento sopraggiunge», ogni volta che c’è «produzione di un’opera» come «più di quello che significa»: il pezzo d’opera è il suo eccesso. L’opera come resto significa «che la si può ripetere, rivedere […] essa è là in aggiunta a tutto ciò che essa significa»66. Il farsi resto d’opera è, insieme, decostruzione e costruzione, non è solo il dissociare o il disarticolare ma è anche il «venire del constructum»67. Così, l’opera, il pezzo d’opera, il suo resto, è la sua bellezza, è l’opera d’arte, che resta «effetto di trascendenza», desiderabile ma inaccessibile e inconsumabile, è un «gioioso lavoro del lutto»68. Perciò la scrittura architettonica, se traccia contro ogni presentabilità, si 61 Ivi, p. 204. Per la chóra come «far posto», «dare luogo» si veda anche di Derrida, Stati canaglia, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 14-15. 62 J. Derrida, Fede e sapere, trad. it. in La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 23. 63 J. Derrida, Adesso l’architettura, cit., p. 89. 64 Ivi, pp. 114 sgg. 65 Ivi, pp. 136-137. 66 Ivi, p. 48. 67 Ivi, p. 65. 68 Ivi, p. 59.

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fa anche «esperienza del supremo», che è «al di là dell’alto, è il sublime»69. Nella complessità dell’opera come pezzo, come resto, si fa presente il «pensiero architettonico», che non consente di distinguere tra teoria e prassi. Il pensiero è «già un pensiero […] proprio al momento architetturale»70. E, come tale, il pensiero è in eccesso, non è esaurito dalla filosofia:«è necessario dire che c’è pensiero, qualcosa che produce senso […] qualcosa che eccede il discorso filosofico e interroga la filosofia […] va oltre la filosofia». Ciò che l’architettura crea «non può essere governata dalla filosofia. Quindi qui c’è pensiero. Ogni volta che c’è un movimento, un evento […] il pensiero è coinvolto». Pensare vuol dire «andare nell’esperienza dell’opera, vale a dire, che il pensiero è incorporato in essa»71. Il pensiero è dentro ogni pezzo d’opera, anch’esso come resto: l’«atto performativo» con cui qualcuno s’impegna in qualcosa non è certamente riducibile a ciò che questo qualcosa significa, ma è anche solo la firma di un evento che sopraggiunge, ne è un «resto esteriore»72. Sotto questo profilo il pensare è «“l’aspettativa”, la struttura dell’attendere, la struttura dell’accoglienza», è, dunque, anche e soprattutto, il decidere l’attesa, è la «decisione» responsabile che non può mancare al venire dell’evento73. Il pensiero, associato a uno stare dentro i pezzi d’opera, occupa, dunque, una posizione d’intervallo, di transito tra l’oggettivo e il soggettivo, è il movimento stesso dell’opera e, insieme, una condizione di attesa, di decisione, di responsabilità. È una dimensione creativa e innovativa che è pratica artistica e riflessività, contenuto ed espressione, evento ed attesa. 69

Ivi, p. 100. Ivi, p. 83. 71 Ivi, pp. 61-62. 72 Ivi, p. 47. 73 Ivi, p. 67. Non estranea all’atto performativo e alla funzione del pensare e del soggettivo è la teoria deleuziana del «mimo» e del «paradosso del commediante» (cfr. G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 132-135). «Quando manca la coscienza del sapere o l’elaborazione del ricordo», scriveva in Différence et répétition, «il sapere così com’è in sé non è altro che la ripetizione del suo oggetto, ed è recitato, vale a dire ripetuto, messo in atto invece d’essere conosciuto» (Id., Differenza e ripetizione, cit., p. 31). 70

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Il pensiero, in qualche senso, raddoppia il venire dell’evento. Il pensiero non è solo un pezzo d’opera, è anche la radice della scelta dell’attesa, è il luogo della condivisione responsabile. Il pensiero attiva il movimento, lascia venire l’evento, ma è anche pensiero del pensiero, perché è sempre consapevolezza di un «assioma d’incompletezza» che esige una «decisione responsabile»: «l’accettazione di una città da de-ri-costruire […] è l’accettazione di quello che un logico chiamerebbe forse un assioma d’incompletezza […] Una città deve restare aperta al fatto che essa sa che non sa ancora che cosa sarà: bisogna inscrivere, e come un tema, il rispetto di questo non-sapere nella scienza e nella competenza architettonica e urbanistica […] lo svolgimento di un programma o la messa in opera di un “progetto” non è mai una decisione responsabile […] la decisione responsabile qui non è mai, in ultima istanza, quella degli scienziati e dei tecnici, degli urbanisti e degli architetti, ancora meno degli esperti di economia, del turismo, delle tecniche della comunicazione»74. Dunque, l’esercizio attivo e consapevole del pensiero lascia ripensare lo stesso concetto di filosofia. L’atto filosofico ripete il pensare l’evento, o l’evento che viene, perché ne è anche scelta consapevole. È scelta della ripetizione e della trasgressione «a vantaggio di una realtà più profonda e più artistica». E la répétition è il miracolo: «Se la ripetizione è possibile, essa inerisce al miracolo piuttosto che alla legge»75. Pensare filosoficamente non vuol dire conoscere e spiegare, elaborare il generale, ma produrre il singolare, il miracoloso, cioè creare concetti: la filosofia è creazione di concetti e il concetto è il caos diventato pensiero, è un «caosmos mentale»76. Ogni «creazione è singolare e il concetto come creazione propriamente filosofica è sempre una singolarità»77. La filosofia non è una soluzione ai problemi, ma è «inventore di problemi». I compiti della filosofia sono, innanzitutto, chiarire la scelta di esistenza e di pensiero, spiegare la distanza tra il potere e la verità, fare chiarezza sul valore 74

J. Derrida, Adesso l’architettura, cit., p. 248. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 12. 76 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 211. 77 Ivi, p. XIII. 75

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dell’eccezione: bisogna «essere in grado di parlare di ciò che è straordinario»78. La parola filosofica «manca la verità […] parla al margine»79, dunque è solo un desiderio. «La parola desiderio […] deriva dal latino de-siderare, il cui primo significato è constatare e lamentare il fatto che le costellazioni, i sidera, non danno segnali, che gli dei non indicano niente negli astri»: «la filosofia, in quanto appartiene al desiderio […] comincia quando gli dei tacciono»80. E tuttavia la filosofia non è una «“semplice” passione», perché è «quel desiderio che si piega su di sé, si riflette», è, perciò, desiderare il desiderio, è desiderio del desiderio81, è riflessività vivente, è vita che si pensa. Il pensiero della differenza ha restituito, a suo modo, il senso di un’esperienza di pensiero, ha condiviso «una scomparsa del pensiero come pensiero dello strapiombo, dell’annuncio “del soggetto dell’oggetto”, e la sua trasformazione, la sua tra-svalutazione in soggetto senza oggetto, in soggetto dell’esperienza del pensiero», sollecitando la filosofia a riproporsi come prova del movimento reale82. Quale sia il senso di questa prova, come impegno nell’attualità del presente, è forse ancora tutto da comprendere. Il pensiero non è «testimone o garante dell’evento», la testimonianza non è mai dell’atto recettivo dell’evento, ma solo ed esclusivamente dell’«evento “stesso”», di una «“presenza” inafferrabile e innegabile di un qualcosa […] che “di volta in volta” accade»83. La posizione di un pensatore, di un filosofo, non è tanto quella di registrare e far essere l’evento, quanto quella di scegliere, impegnarsi, mettersi alla prova. Provare è, infatti, rapportarsi all’altro senza assimilarlo e, insieme, esporsi, entrare nel gioco. La produzione dell’evento non è la prova dell’evento. La produzione è il farsi e il divenire, la prova è la 78 A. Badiou, S. Žižek, La filosofia al presente, trad. it., Il Melangolo, Genova 2012, p. 11. 79 J.-F. Lyotard, Perché la filosofia è necessaria, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 58. 80 Ivi, p. 41. 81 Ivi, p. 61. 82 J.-L. Nancy, Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, trad. it., Postfazione e cura di T. Ariemma e L. Cremonesi, Ombre Corte, Verona 2008, p. 78. 83 J.-F. Lyotard, L’inumano, cit., pp. 105-106.

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7. lo spazio minimo e il miracolo

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sfida e il rischio che taglia e interrompe. L’événementialisation è un processo spontaneo, di attivazione, di vibrazione, di creazione, che è condizione e premessa di un’épreuve d’événementialisation84. Questa, come dirà Foucault, è un taglio verticale, sagittale, nel presente. È un ethos filosofico che immette nell’attualità l’impegno e la rottura dell’Aufklärung85, è la spinta di una trasformazione complessa del campo storico e dell’archivio86, è la prova, l’épreuve, nell’esperienza della triangolazione del sapere, del potere e dell’etica, per il difficile lavoro di un’estetica dell’esistenza87. La ripetizione, allora, cede la «sintesi disgiuntiva» al contrasto, e il miracolo, o la valorizzazione del singolare, appare, forse, oltre l’arte, nella sfida e nell’impegno etico-politico88. 4. All’ambivalenza di senso dell’estetizzazione del sentire corrisponde, dunque, un’ambivalenza di senso del miracolismo. Il richiamo all’estetica ha radicalizzato, nel mondo contemporaneo, la dimensione orizzontale della valorizzazione. Questa può essere un accrescimento del senso della bellezza dell’evento o, al contrario, solo una produzione attraente di mercificazione e di consumo del flusso. La sensibilità può farsi scelta di «una realtà più profonda e più artistica», diceva Deleuze89, ma può anche alterarsi nella esaltazione passiva di un istante equivalente e insensato. Il fatto è artistico perché è la sua bellezza, desiderabile perché inaccessibile e inconsumabile, ma può essere anche solo l’oggetto fuggevole del piacere, del godimento e del consumo. Il minimo come lavoro di un’arte è, allora, movimentazione del nuovo o pura dispersione del consumabile. 84

M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 53. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo, cit., pp. 217-232, 253-261. 86 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., pp. 93-153. 87 M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., pp. 9-37. 88 Per una discussione sulla dimensione etico-politica del singolare, sulla sua valorizzazione e sul suo antagonismo, rinviamo al nostro L’arcaico e l’attuale, cit., in part. pp. 205 sgg.; e, per le ragioni di uno spostamento dalla disgiunzione a una sintesi contrastiva, a Le sommeil événementiel, cit., pp. 97-109. 89 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 12. 85

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l’etica oltre l’evento

Allo stesso modo il miracolo, l’evento miracolistico, inspiegabile e straordinario, di cui può solo dirsi «questo è un fatto», «impossibile e pur c’è» – Impossible et pourtant là –, è la futilizzazione dell’evento e, nell’espressione di Baudrillard, la pura «feticizzazione della nullità», ma può anche farsi, sfuggendo al presentismo, luogo denso, complesso, movimentato dell’attesa, della scelta dell’attesa, seppure dell’attesa del niente. Il miracolo, l’esserci senza ragione, il «tal qual è», trova proprio nell’espressione di Bataille, Impossible et pourtant là, quella indecisione e ambiguità che consente di aprire il miracolo, pur inspiegabile e senza connessione, a un futuro oltre il presente, o a un presente oltre il presentismo, e dunque all’attesa di qualcos’altro. Il là francese, infatti, a differenza della traduzione italiana del qui – «impossibile e tuttavia è qui» –, è, al tempo stesso, qui e là, presenza e lontananza. L’avverbio francese là è ambivalente ed è per questa ragione che si fa uso del là, invece di ici o di un puro essere qui. Essere qui è essere là, in quanto, insieme, essere qui e là. Il là francese, dunque, indica nel fatto un altro che è oltre il fatto, segnandone l’apertura verso una pluralità di memorie e di attese, assegnandolo a una «scrittura geroglifica» di nicciana memoria90, ad un contesto complicato di «pergamene ingarbugliate»91, agli inizi incomponibili di geroglifici orientali92, a un sapere complesso, che apre alla filosofia o all’esposizione della prova, che riapre la storia oltre la cronaca e la comunicazione, che ci fa attori di un taglio nel presente e di un nuovo agire. Ma l’attesa che annuncia il là miracolistico è un’attesa che sfuma nel nulla, perché associata al riso93. E il sorridere è un’attesa vigile, ma sottratta al progetto, al risultato, all’utile e al dominio. Per questo è un’attesa esposta al niente. 90

F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 220. Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, cit., p. 29. 92 Per i riferimenti a Bataille a proposito dell’evento inpossibile, per le implicazioni dell’ambiguità di senso della versione francese Impossible et pourtant là, per i riferimenti alla cultura orientale di un’attesa senza futuro prevedibile, si veda ancora M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., pp. 5 sgg. e pp. 135-136. 93 Ivi, pp. 7-8. 91

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7. lo spazio minimo e il miracolo

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In tutto ciò che eccita il riso – scriveva Kant – dev’esserci qualcosa di assurdo. «Il riso è un’affezione, che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve in nulla […] Il fatto ci fa ridere […] ma soltanto perché la nostra aspettazione era tesa, e d’un tratto si è ridotta a niente». È il legame dell’attesa col nulla che attribuisce senso e valore all’attesa: «E si noti bene questo, che l’oggetto atteso non deve risolversi nel suo contrario positivo – perché questo sarebbe sempre qualche cosa […] -, ma deve risolversi in nulla»94. Così l’attesa del niente è coerente con l’etimo del miracolo. Mirus, latino, è il meraviglioso, il sorprendente, ma, per una comune radice indoeuropea, rinvia al greco meidiào, che vuol dire «sorrido», e dunque «mi pongo in attesa del niente». L’attesa sorridente è, allora, quell’apertura reale che è incrocio del sé e del mondo, in uno spazio intermedio sottratto al dominio dell’uno e dell’altro. È un’attesa che lega il nuovo agire a un infimo inizio95. È un attendere che sceglie l’attesa e ne fa un inizio minimo, un evento senza progetto, un’agire che è incisione nel presente e atto di movimentazione, ma senza dimensione: è il nuovo che vive del niente e che, perciò, resta infimo96. È un atto di «sartoria»97 che strappa il miracolo alla futilità e che conserva un valore «paradigmatico»98. Il nocciolo dell’infimo inizio di un sapere, che è incisione nell’evento e vita filosofica, è, allora, la prospettiva dell’attesa, ma, come si diceva del riso, dell’attesa del niente. Dell’attesa che è propria dell’agire e del non-agire. Di quell’attesa senza 94 I. Kant, Critica del giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, rev. V. Verra, Laterza, Bari 1963, § 54, pp. 195-196. 95 L’espressione dalla tradizione cinese è ripresa da M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., p. 135. 96 «Proprio perciò alla filosofia resta moltissimo da fare. Secondo il pensiero tradizionale cinese, anche all’interno della più dominante e soverchiante entità vi è un “infimo inizio”, che è l’opposto dell’insieme che lo contiene, qualcosa che è ancora in stato germinale, ancora impercettibile nella sua esiguità, da cui comincia un mutamento radicale» (Ivi, p. 135). 97 Ivi, p. 38. Per un’analisi del pensiero della piega come pensiero della «veste» e «libidine indumentale» rinviamo al nostro Sunousia. Filosofia in comune, Guida Editore, Napoli 2011, pp. 25 sgg. 98 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, cit., p. 8.

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l’etica oltre l’evento

oggetto che rende padroni del non-agire, padroni del wu-wei99, cioè attenti e vigili per le piccole azioni e le sospensioni delle azioni, per i piccoli passi o per un voler sapere, sentire, agire, che è anche un farsi sapere, farsi sentire, farsi agire. Padroni nel mezzo, sempre tra il dentro e il fuori, padroni della «terza strada»100.

99

Ivi, p. 136. «Tra l’impotenza del dover essere (che non è) e l’idolatria del fatto compiuto (che spesso ha soltanto l’apparenza di essere tale), c’è una terza strada che è appunto quella dell’estetico […] Dinanzi al poeta, all’artista e al cultore di estetica, si apre perciò un’alternativa: o monaco o minorato. Per trovare un’altra strada, bisogna interrogare più a fondo gli antecedenti storici che costituiscono lo sfondo su cui la nozione di disinteresse estetico si forma, vale a dire: l’interesse mondano e il distacco religioso» (M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, pp. 67-69). 100

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8. Per un dualismo bizzarro

1. L’elaborazione cognitiva dell’informazione e della comunicazione, diversamente dai saperi scientifici, non è solo esposta al rischio di una identificazione della conoscenza e del pensiero, del dato e della teoria, della rappresentazione e della critica. Di questa assimilazione esibisce, piuttosto, la certezza. Il processo cognitivo delle telecomunicazioni è un corso omogeneo, esclusivo dell’alterità. La rovina della realtà, della scienza e del pensare – di ogni elemento estraneo all’informazione e alla comunicazione – è, innanzi tutto, l’effetto della pervasività di una forza fondante, che è la potenza dell’immagine. L’immagine, al tempo della rivoluzione tecnettronica – si è detto –, dissolve la possibilità del simbolo o di ogni rinvio di sé da se stessa1. La svolta evenemenziale, con la riduzione della realtà ad immagine, non si limita, così, ad esporre la trasformazione dal generale al singolare dell’oggettività scientifica, ma descrive una linearità omogenea ed evaporata, un flusso di immagini che è solo lo scorrere di singolarità o il muoversi di eventi al tempo stesso irripetibili ed equivalenti. Con le nuove tecnologie e la diffusione globale del mercatismo, l’immagine singolare manca di ogni trascendenza critica, di ogni valore artistico, di ogni straordinarietà mutante, perché privata di senso. Rinvia soltanto alla simulazione, è solo un simulacro, è copia senza l’originale, anzi non è copia perché non può esserlo di qualcos’altro: l’immagine della simulazione non riproduce un prototipo ma lo dissolve, non è copia di un model1

Cfr. M. Perniola, La società dei simulacri, Cappelli Editore, Bologna 1980,

p. 15.

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l’etica oltre l’evento

lo ma rimanda ad un’altra immagine, non comunica cultura, ma solo decorazione e pubblicità2. Il valore di esposizione delle cose, il loro puro essere visibile, fa del mondo in immagini uno spettacolo. E lo spettacolo è «l’affermazione dell’apparenza» e la rovina del reale. La centralità dell’apparire come parvenza, come simulacro, è solo il far vedere. La parvenza non ha altro da sé, non è una «decorazione sovrapposta», è piuttosto il cuore dell’«irrealismo», è la sparizione del reale3. Lo spettacolo privilegia il senso umano della vista, ma è anche ciò che sfugge all’attività umana, è ciò che la assimila all’immediatezza dell’unità veduto-vedente: perciò lo spettacolo è un «monologo elogiativo», l’autoritratto del potere4, e restituisce delle immagini un «catalogo apologetico»5. L’ipervisibilità si associa a una trasparenza che elimina ogni forma di distanza, di ambiguità, di seduzione. Quella dell’immagine è un’evidenza «pornografica», non attraente né allusiva, ma contagiosa e infettante, senza distanza6. La trasparenza dell’immagine non tollera lacune, pudore, inconscio, alcuna crepa che possa complicarne il puro apparire7. Le immagini – senza parole, senza ricordo, senza fantasia – assimilano anche la percezione tattile a un sentire del tutto assorbito alla «continuità epidermica» dell’occhio e dell’immagine, una continuità che è la «fine della distanza estetica dello sguardo»8. Le «immagini pornografiche» sono stridenti, chiassose, esibite. Sottratte a ogni pausa riflessiva «servono soltanto all’eccitazione e al soddisfacimento immediati»9. Nel presente visivo, privo di negatività, ogni cosa è nuda ed esposta all’esser consumata. Ogni cosa è l’erosione della «cosalità della cosa», di memoria heideggeriana, di quella cosalità 2

Ivi, p. 24. Sono le tesi elaborate già negli anni Sessanta da G. Debord, La società dello spettacolo, Pref. di C. Freccero, trad. it., Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, pp. 54-56. 4 Ivi, p. 59. 5 Ivi, p. 82. 6 Byung-Chul Han, La società della trasparenza, trad. it., nottetempo, Roma 2014, p. 46. 7 Ivi, pp. 12 sgg. 8 Ivi, p. 29. 9 Ivi, p. 50. 3

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8. per un dualismo bizzarro

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dove la «cosa» è il far avvenire la «quadratura» – o la trama mobile dei legami tra la terra, il cielo, i mortali e i divini – e dove l’immagine occupa, rinviando all’altro, sempre lo spazio di un disvelamento10. Per l’immagine spettacolare, lo spettatore è colui che «non fa che guardare per sapere il seguito» ma «non agirà mai»11. Lo spettacolo pubblicitario ci avvolge e ci prosciuga in un benessere che è l’appagamento falsato del proprio desiderio di essere accolti, del voler essere «amati dall’oggetto», del voler esser presi nel circolo dell’«effusione» e del «calore comunicativo» delle immagini12. Il flusso delle immagini, «questa sintesi semplificata del mondo sensibile», è l’«eterna sorpresa arbitraria», è la «corrente» che non lascia tempo alla riflessione, ma solo alla «sottomissione permanente» e all’adesione «a ciò che è presente». Il discorso spettacolare «isola sempre da ciò che mostra la cornice, il passato, le intenzioni, le conseguenze. Quindi è totalmento illogico»13. La virtualizzazione dell’essere spettacolare, la sua immagine-apparenza, il suo essere irreale ha consumato il passato, il futuro, il contesto, il vissuto e l’azione. E consuma la scienza, anch’essa ridotta a strumento di spettacolarizzazione, teatro ambulante. Con le immagini si smarrisce, infatti, l’autonomia scientifica. La scienza non ha più il compito di capire il mondo e cambiarlo: le si chiede soltanto «di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa». Sotto una veste «ammodernata e arricchita» la scienza riprende, come lo spettacolo, «le antichissime tecniche dei teatrini ambulanti – illusionisti, imbonitori e protettori»14. Così, gli spettatori sono «quelli che hanno l’idiozia di credere di poter capire qualcosa, non servendosi di ciò che è loro 10 Cfr. di M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., in part. pp. 5-27, 109-124; e Sentieri interrotti, cit., pp. 71 sgg. I riferimenti ad Heidegger sono in Byung-Chul Han, La società della trasparenza, cit., p. 69; ma si veda anche A. Fabris, Etica e comunicazione nella società dello spettacolo, in La vita spettacolare. Questioni di etica, a cura di R. Fanciullacci e C. Vigna, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2013, p. 59. 11 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 203. 12 J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, trad. it., Bompiani, Milano 2009, pp. 217-218. 13 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 207. 14 Ivi, p. 216.

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l’etica oltre l’evento

nascosto, ma credendo a ciò che è loro rivelato!»15. Il vedere è il credere, non il pensare. La visibilità luccicante, l’apparire apparente, l’autonomia dell’immagine assimila e immedesima l’oggetto e il soggetto, ed esibisce la instabilità dell’equivalente, del senza senso, dell’ininterrotto e dell’ordinario. Il flusso ha perso la forza della narrazione16, è un processo più additivo che narrativo – l’addizione è più trasparente della narrazione17 –, è solo un vuoto passaggio che vive della rovina della realtà, dello spazio, del tempo, dell’oggetto, del soggetto, della scienza, dell’arte, della cultura e della comunità. L’espulsione dello spazio-tempo, nelle attuali tecnologie, è l’effetto di un flusso acceleratissimo senza opposizioni e relazioni, di un scorrere rapido che, come volevano i francofortesi, è la «somma di eventi idioti», una «mappa catastale», il passaggio rapido che vieta ogni «attività mentale»18. Il tempo della produzione spettacolare è il tempo del consumo istantaneo, è il succedersi infinito di intervalli omogenei, è il cronometro dello scambiabile19. Lo spazio è la frequenza di posti diversi e, insieme, la garanzia della loro equivalenza. Lo spazio delle immagini mercificate viene ad ogni istante modificato e ricostruito «per avvicinarsi al massimo della monotonia immobile»20. Il tempo-spazio ridotto a frazioni di secondo è, così, anche furto di sogni: il sogno, sempre forma dell’altro, è rubato nell’illusione di una realizzazione immediata del tutto e subito21. Gli automatismi e la velocizzazione non permettono riflessioni e pensieri, ma li comprimono «in strettoie fatte di botta e 15

Ivi, p. 229. «Lo spettacolo si trasforma in uno spot: esso non ha più una storia, non è più una narrazione, non presenta più un senso. Il tempo della narrazione si contrae nell’istante, nell’attimo del contatto tra l’interesse sollecitato e il qualcosa di curioso» (A. Fabris, Etica e comunicazione nella società dello spettacolo, cit., pp. 61-62). 17 Byung-Chul Han, La società della trasparenza, cit., p. 53. 18 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it., Einaudi, Torino 1966, p. 136. 19 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 141. 20 Ivi, pp. 151-152. 21 G. Ghidelli, La comunicazione come spettacolo. Di cosa?, in La vita spettacolare, cit., pp. 198-199. 16

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risposta», rapide, sterili e violente. Le immagini, per la velocità tecnologica della nostra contemporaneità, sono adatte «a una costante scarsità di attenzione e a velocissimi ritmi nella percezione e nella cognizione»22. Ogni attenzione si consuma fino a sparire, sicché del naufragio non siamo spettatori lucreziani, sicuri e distaccati, ma, oggi, «il naufragio lo viviamo dall’interno»23. Ci perdiamo nella corrente degli eventi ridotti alla parvenza di infiniti mutanti. Così è in atto anche la sparizione dell’opinione pubblica che, con la tecnocrazia, non è né critica né plebiscitaria e acclamativa, ma è solo «una massa inerte, implosiva, frantumata, atomizzata che si difende dai media attraverso l’esercizio dell’apatia»24. Dunque, il rinnovamento tecnologico, il segreto generalizzato, il falso indiscutibile e l’eterno presente25 caratterizzano la nostra società modernizzata. Così come la «normazione» si trasforma nella «normalizzazione»: l’immagine non comunica la norma, ma la normalità, non è adatta alla propaganda ma all’intrattenimento, non all’approfondimento ma alla futilità, non impone codici, doveri e leggi, ma «incita alla licenza», spostando fino a cancellarlo il confine di ciò che «è lecito e decente», dove il godimento spettacolare, prigioniero del narcisismo, occupa una dismisura che ne fa un «edonismo puro di natura essenzialmente predatoria»26. La comunicazione per immagini contrae, oggi, realtà e pensiero, conoscenza e critica, nella pura esibizione dell’accadere del c’è o del tal qual è, nella produzione e nel controllo nascosto della corrente inarrestabile di eccezionalità equivalenti, dove la répétition, il raddoppiarsi, in quanto flusso della parvenza, non è attiva differenziazione, non è il venire del nuovo, ma solo una equivalenza mimetica del qui ed ora. Nell’immagine-parvenza, che ha divorato l’intuizione spaziotemporale e ogni forma riflessiva o categoriale, c’è, dunque, la 22

F. Pintarelli, Su Facebook, www.duepunti.org, pp. 33-34. Ivi, p. 38. 24 M. Perniola, La società dei simulacri, cit., p. 49. 25 Cfr G. Debord, La società dello spettacolo, cit., pp. 196-197. 26 C. Chiurco, La vita spettacolare come moderno dispositivo dell’osceno, in La vita spettacolare, cit., pp. 214-215. 23

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sparizione del pensare: senza percezione e senza concetto non si pensa. La complessità dello schematismo di Kant sparisce e l’immaginazione si perde nelle immagini. 2. La nozione di schema in Kant – ha commentato Deleuze – denota una dimensione misteriosa e nascosta che regge un «dualismo bizzarro»27. Il lavoro dell’immaginazione, infatti, – non la potenza dell’apparire o il flusso delle immagini – conferma la irriducibilità e la complessità di un legame tra intuizioni e categorie, recettività e spontaneità. Lo spessore del sapere, come sintesi di passività e attività, si alimenta di un essere duale, della congiunzione e della disgiunzione, del rapporto e del non-rapporto. Non consente l’assimilazione o la simmetria del due. La dualità del sapere sembra avere, per Kant, un profilo chiaro già nella Introduzione alla Logica trascendentale: «Se la r e c e t t i v i t à del nostro animo – ossia la sua capacità di ricevere rappresentazioni, in quanto esso viene modificato in qualche maniera – è da noi chiamata s e n s i b i l i t à, per contro, la facoltà di produrre in modo autonomo rappresentazioni, ossia la s p o n t a n e i t à della conoscenza, è l’intelletto. La nostra natura è costituita in modo tale, che l’ i n t u i z i o n e non può mai essere altrimenti che s e n s i b i l e, ossia contiene soltanto il modo in cui noi siamo modificati da oggetti. La facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, per contro, è l’ i n t e l l e t t o. Nessuna di queste due facoltà dev’essere anteposta all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche»28. E tuttavia queste inseparabili facoltà sono al tempo stesso separate. «Entrambe queste facoltà o capacità non possono inoltre scambiare le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e i sensi non possono pensare nulla». Ma il sapere esige la loro «riunione», tutelandone la dualità: la conoscenza è 27 Cfr. G. Deleuze, Il sapere, cit., p. 33. Il testo di Deleuze è impegnato a provare uno speciale neo-kantismo foucaultiano: la irriducibilità dell’intuizione e del concetto anticipa, secondo l’autore, la relazione visibile-enunciabile in Foucault. 28 I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, traduzione e note di Giorgio Colli, Einaudi, Torino 1957, p. 109.

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8. per un dualismo bizzarro

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solo l’effetto sintetico di un movimento che deve rendere possibile la separazione. Malgrado la sintesi, infatti, «non vi è motivo» – aggiunge Kant – «di mescolare il contributo dei due elementi: sussiste una ragione rilevante, piuttosto, per separarli accuratamente e distinguerli l’uno dall’altro. Di conseguenza, noi distinguiamo la scienza delle regole della sensibilità in generale, cioè l’estetica, dalla scienza delle regole dell’intelletto in generale, cioè la logica»29. È la «finitudine costituente» dell’uomo che impone la irriducibilità di intuizione e concetto. In ciò Kant «ha annunciato una nuova epoca». «Alla ripartizione dell’età classica, l’infinito costituente e la finitudine costituita, Kant oppone il punto di vista di una finitudine costituente» e «se la finitudine è costituente, l’apertura, la disgiunzione, tra l’intuizione e il concetto è irriducibile e non potrà essere superata»30. Tra i due, per negarne la dissociazione e insieme trattenerla, è necessario un terzo, ma senza forma, una sorta di dimensione misteriosa e nascosta, un elemento incomprensibilmente omogeneo ad entrambi, di cui, tuttavia, mantiene l’apertura, la dualità come «squilibrio fondamentale dell’uomo»31. La terzietà di uno «schema» è solo il fare due, quando il dualismo si presenta come «una sorta di passaggio verso un fine ultimo: scoprire l’unità più profonda»,32 quando il permanere del due è, in realtà, preparatorio a una «distribuzione della molteplicità»33. Se «i concetti puri dell’intelletto sono del tutto e t e r o g e n e i in confronto alle intuizioni empiriche […] com’è possibile la s u s s u n z i o n e delle intuizioni sotto tali concetti, e quindi com’è possibile l’a p p l i c a z i o n e della categoria alle apparenze»?, si chiedeva Kant34. È evidente che debba «sussistere un terzo elemento, il quale occorre che sia omogeneo, da un lato rispetto alla categoria, e dall’altro lato rispetto all’apparenza, in modo da rendere possibile l’applicazione della categoria all’apparenza. Questa rappresentazione mediatrice […] dev’essere da un lato i n t e l l e t t u a l e, dall’al29

Ibid. G. Deleuze, Il sapere, cit., p. 165. 31 Ivi, p. 161. 32 Ivi, p. 228. 33 Ivi, p. 231. 34 I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 218. 30

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l’etica oltre l’evento

tro lato s e n s i b i l e. Tale rappresentazione è lo schema t r a s c e n d e n t a l e»35. Lo schema è soltanto «un prodotto della capacità di immaginazione»36 – «un’arte nascosta nella profondità dell’anima»37 – e giacché la sintesi dell’immaginazione «non mira affatto ad una singola intuizione […] lo schema allora dev’essere nondimeno distinto dall’immagine»: «a fondamento dei nostri concetti sensibili puri stanno non già immagini degli oggetti, bensì schemi»38. Lo schema, dunque, non è un’immagine, è «la regola di produzione di ogni immagine come corrispondente o conforme al concetto»39. Lo schematismo dell’immaginazione è un’arte misteriosa, produttiva di un elemento terzo informale e insieme omogeneo a due elementi irricomponibili, di cui è chiamato a tessere il rapporto del non-rapporto o il non-rapporto del nonrapporto. «Alla fine, l’uomo diventa deforme nel senso etimologico della parola, cioè dis-forme, zoppica su due forme eterogenee e non-simmetriche, ricettività dell’intuizione e spontaneità dell’“io penso”»40. Il mondo della produzione e della comunicazione altera lo schematismo kantiano cancellandone il dualismo bizzarro, spezzando il due nell’uniformità degli effetti, delle immagini così ridotte a parvenze, o nell’identità di uno schema definito in anticipo che assimila i particolari fungibili. L’industria culturale – commentano i francofortesi – «si è sviluppata col primato dell’effetto […] sull’opera, che una volta portava l’idea e che è stata liquidata con essa»41, con l’evidenza dell’immediato senza senso, oltre il gioco del due, oltre il dualismo dell’opera, oltre la coesistenza degli irriducibili, dell’intuizione e del concetto, della recezione e della spontaneità. L’industria ha sottratto allo schematismo kantiano il compito di riferire la molteplicità sensibile 35

Ibid. Ivi, p. 220. 37 Ivi, p. 221. 38 Ivi, p. 220. 39 G. Deleuze, Il sapere, cit., p. 185. 40 Ivi, pp. 178-179. 41 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 135 (il corsivo è mio). 36

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8. per un dualismo bizzarro

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ai concetti fondamentali: essa «attua lo schematismo come primo servizio del cliente»42. L’atrofia dell’immaginazione e della spontaneità del consumatore culturale è l’effetto della produzione, che vieta «l’attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti»43. «Gli estremi che si toccano» – è la conclusione, a proposito della negazione dello stile – «sono trapassati in una torbida identità, l’universale può sostituire il particolare e viceversa»44. 3. La sottrazione a ogni «dualismo bizzarro», il consumo di ogni essere due, di qualsiasi rinvio di un c’è all’essere altro, riguarda lo spettacolo, ma anche lo spettatore, colui che guarda, contempla e perciò non vive45. Il vissuto individuale è, per le neotecnologie, assimilato a un mimetismo globale, senza accesso critico al passato e al futuro, al fantastico e all’immaginario, a qualsiasi dimensione che lo apra a un al di là dell’eccitazione e del soddisfacimento immediato, oltre l’edonismo e il narcisismo solitario. Tra le condizioni delle telecomunicazioni si è esaltata la creatività dell’utente e al tempo stesso se ne è denunciata l’illusorietà. In una società in cui la produzione è immateriale, per la spettacolarizzazione e poi per la rivoluzione digitale, il farsi evento è mettere in gioco un capitale intellettuale o una forza creativa. La nuova crescita rinvia a una creatività a molte dimensioni, immessa in dispositivi complessi e molteplici che rendono possibili processi di trasformazione46. Nel digital marketing diventiamo tutti creatori47. Una delle caratteristiche della società avanzata 42

Ivi, p. 134. Ivi, p. 137. 44 Ivi, p. 140. 45 «L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato […] si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio» (G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 63). 46 Cfr. M. M. Mapelli, Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook, trad. it., Prefazioni di G. Giorello e di U. Margiotta, Mimesis, Milano 2010, pp. 25 sgg. 47 P. Peretti, Marketing digitale. Scenari strategie strumenti, Apogeo, Milano 2011, p. 312. 43

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l’etica oltre l’evento

è che, soddisfatti i bisogni primari, le persone mirano alla creatività e all’autorealizzazione: nella «loro complessità di esseri umani, credono nella dimensione spirituale dell’uomo e prestano ascolto ai loro desideri più profondi»48. E tuttavia, come la visione, la creazione non si sottrae alla strumentalizzazione e alla dipendenza: si è divenuti creativi solo per essere pedine di un processo di produzione immateriale49. L’autodeterminazione creativa supporta una solitudine vuota, malgrado lo stato dell’iper-connessione in cui vive, oggi, il soggetto digitale. La perdita della dualità, o del legame tra due elementi irricomponibili, investe ogni apertura all’altro. In tal caso, a un altro soggetto. Anche l’apertura duale io-tu si scompone nell’identità del narcisismo. È quanto evidenzia la «retorica della rete»50 o l’ambiguità della democrazia elettronica. Con quale senso del collettivo è compatibile l’essere in rete? Quale rapporto io-tu consente il «navigare»? In che senso l’essere in rete vuol dire condividere un rapporto di scambio? Sono le domande che segnano di incertezza l’era digitale. È la moltitudine, non la maggioranza, ad esprimere, oggi, l’idea del collettivo. «La popolazione dei nuovi nativi digitali» – si è detto – «è completamente diversa dalla maggioranza passiva della fine del secolo scorso. Non vuole un notiziario preconfezionato, ma cerca su internet le notizie che gli interessano […] Non si limita a ricevere, ma mette in evidenza sul web i suoi contenuti: notizie, filmati, blog e commenti»51. La maggioranza rappresenta la parte quantitativamente superiore e come tale trae la sua forza dalla quantità e non dall’identità dei singoli. La moltitudine riesce a coniugare quantità e individualità: la moltitudine è, al contrario 48 P. Kotler, H. Kartajaya, I. Setiawan, Marketing 3.0. Dal prodotto al cliente, all’anima, Gruppo 24 ore, Milano 2010, p. 27. 49 «Un’intera generazione ha vissuto attraverso i suoi occhi l’illusionismo di uno spettacolo che […] stava per invadere le nostre vite, cambiando la nostra sensibilità e i nostri valori […] Quegli stessi che parlavano di lavoro salariato e plusvalore, che credevano al materialismo come unica chiave di lettura della società, sono diventati “creativi”, pedine di una società in cui la produzione è soprattutto produzione immateriale» (C. Freccero, D. Strumia, Introduzione a G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 7). 50 Cfr. F. Pintarelli a proposito della mancanza di dissenso in rete, rivelativa di una «ideologia della positività» (Su Facebook, cit., p. 28). 51 C. Freccero, Televisione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 133.

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8. per un dualismo bizzarro

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della maggioranza, un plurale che è anche singolare, è «un insieme di singolarità». La moltitudine, diversamente dalla maggioranza, non esclude la personalizzazione. «Se gli anni ottanta hanno segnato il passaggio dal concetto di classe al concetto di maggioranza, l’avvento del digitale segna il passaggio dalla maggioranza alla moltitudine»52. Il carattere creativo e solitario dell’io permane nell’insieme indeterminato dei molti. E tuttavia il nesso tra il singolo e il collettivo è carico di problemi. «La Rete» – per i nativi digitali, spazio prevalente se non esclusivo del legame – «di certo promuove la diffusione di una nuova cultura del dono», e tuttavia «quella di dare vita a comunità immaginate, che non sempre necessitano di relazioni tra gli individui»53, resta una caratteristica della rete che non va sottovalutata. Uno dei paradossi della nostra epoca – ha sostenuto Bauman –, al tempo della «modernità liquida», è il tenere insieme la ricerca affannosa di legami e la spinta al rifiuto di ogni stabilità: è «proprio perché siamo disponibili ad “amicizie e unioni profonde”, proprio perché lo desideriamo più forte e disperatamente che mai, che i nostri rapporti sono pieni di rumore e furore, carichi di ansia e in perenne allerta»54. L’attesa di un legame si accompagna, spesso, al prosciugamento dell’affezione, ed è per questo che il rapporto in rete, intimo e freddo al tempo stesso, è inseguito e onnipresente. Ci sentiamo soli, ma abbiamo paura dell’intimità, e questa alimenta in rete solo connessioni facili, fragili ed effimere: le connessioni digitali ci offrono l’illusione della compagnia senza gli «impegni dell’amicizia»55. Cooperazione e condivisione sono le parole chiave dello scambio digitale, che tuttavia, segnate dall’anonimato, non conducono alla creazione di legami. Forniscono solo l’idea di far parte di un gruppo, di un insieme di persone a cui ci accomunano aspettative, interessi, visioni del mondo, senza che questo comporti una effettiva relazione. La condivisione allude a uno spazio mentale, il cyberspazio, che di fatto non consente di con52

Ivi, p. 134. M. Aime, A. Cossetta, Il dono al tempo di Internet, Einaudi, Torino 2010, pp. 120, 121. 54 Z. Bauman, L’arte della vita, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2009, p. 32. 55 S. Turkle, Insieme ma soli, Codice edizioni, Torino 2012, p. 22. 53

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l’etica oltre l’evento

vivere «l’esperienza in senso pieno, venendo meno la fisicità e tutto il corredo di emozioni e di codici fondati sul linguaggio del corpo»56: ciò che segna l’avvento dell’informatica è, infatti, «l’emancipazione del flusso delle informazioni dal movimento dei corpi»57. Le comunità in rete sono, così, pseudo-comunità, «aggregazioni spersonalizzate», interazioni «di carattere limitato e senza un elevato grado di coinvolgimento»58. E se è vero che tra i membri delle comunità on-line non si stabiliscono relazioni ma connessioni, queste prevedono solo il contatto tra punti spersonalizzati e anonimi. L’effetto è che tale forma di scambio altera e consuma il modello oblativo, è vicina al «dono senza relazione» ed è «simile allo scambio di mercato, dove le transazioni avvengono tra due o più funzioni, nella maggior parte dei casi ignote l’una all’altra»59. Lo scambio in rete è, dunque, fittissimo, senza misura, ma freddo e anonimo. Il rapporto del sé con i molti è, così, prosciugato, nella connessione, in nome di un patto mercantile, dove il plurale è la somma di punti equivalenti e il singolare, autoriferito, annega nel molteplice e non è mai la concretezza complessa del duale. Sicché, la «bulimia sociale» spinge a un accumulo di contatti, che, tuttavia, si rivelano «essere nulla di più che sterili indirizzi»: la rete, dove tutti sono connessi con tutti, ha «lo stesso valore e la stessa utilità di un elenco telefonico»60. Nel contesto della riduzione digitale la relazione reale, il bisogno di essere due, oltre il consumo dell’uno e dei molti, resta solo l’utopia di una dimensione etica. Ma c’è ancora spazio per l’etica? Ci si è chiesto. O anche l’etica si trasforma in una serie di tecniche adattative? La tentazione del fatalismo attraversa l’etica dell’«adattamento», dell’adeguazione all’ordine delle cose. Forse è ancora possibile «interagire criticamente con ciò che ci coinvolge e ci travolge» e di questa interazione «ritenerci ulteriormente e propriamente responsabili»61. 56

M. Aime, A. Cossetta, Il dono al tempo di Internet, cit., p. 93. Z. Bauman, Voglia di comunità, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2001, p. 14. 58 M. Aime, A. Cossetta, Il dono al tempo di Internet, cit., p. 92. 59 Ivi, pp. 108-109. 60 Ivi, p. 118. 61 A. Fabris, Etica e comunicazione nella società dello spettacolo, cit., pp. 68-69. 57

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Indice dei nomi

Adorno, Th.W. 13, 140, 144 Agamben, G. 44, 106, 118 Aime, M. 147, 148 Ariemma, T. 132 Artaud, A. 89 Badiou, A. 40, 132 Basso, E. 68 Bataille, G. 48, 99, 118, 134 Baudrillard, J. 39, 106, 121, 134, 139 Bauman, Z. 147, 148 Bazin, J. 108 Bazzicalupo, L. 104, 105 Benveniste, E. 105, 107 Bergson, H. 40, 41, 52 Bertani, M. 17, 61 Bichat, X. 94 Binswanger, L. 32, 33, 43, 56, 68, 81, 82, 89 Blanchot, M. 48, 91 Bodei, R. 98 Bonesio, L. 111 Braidotti, R. 21 Brentano, F. 24 Broussais, F. 75, 94 Byung-Chul, Han 138, 139, 140 Canguilhem, G. 33, 64 Carboni, M. 126 Cassirer, E. 31, 83 Chaslin, F. 122, 124 Châtelet, F. 25

Chiodi, P. 15 Chiurco, C. 141 Colli, G. 112, 142 Colò, M. 40 Corradini, L. 33 Cossetta, A. 147, 148 Costa, M. 31 Cremonesi, L. 132 Cuvier, G. 71, 72, 73, 76 Davila, J. 32 Debord, G. 138, 139, 140, 141, 145, 146 Defert, D. 17, 31, 32, 64 Deleuze, G. 7, 18, 25, 26, 27, 30, 36, 37, 40, 41, 42, 43, 52, 61, 62, 71, 77, 122, 126, 127, 128, 130, 131, 132, 133, 142, 143, 144 De Martino, E. 100 Derrida, J. 100, 101, 105, 114, 128, 129, 131, 132 Di Sopra, M. 40 Douvignaud, J. 100 Dovolich, C. 105 Dufourmantelle, A. 101 Dzieduszycki, M. 28 Eribon, D. 33 Esposito, R. 37, 71, 100, 104, 105, 120 Ewald, Fr. 17, 22, 31, 32, 42, 62, 64

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indice dei nomi

Fabris, A. 138, 139, 140, 148 Fadini, U. 43 Fanciullacci, R. 139 Ferrari, F. 125 Ferrari, J. 38 Ferraris, M. 114 Ferrucci, F. 33 Fimiani, M. 32, 37, 43, 44, 45, 78, 100, 106, 108, 119 Fontana, A. 18, 22, 52, 61, 77 Foucault, M. 11, 12, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 68. 69, 71, 72, 74, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 85, 87, 88, 90, 91, 92, 93, 94, 96, 97, 98, 102, 106, 110, 133, 134 Fournier, M. 115 Freccero, C. 138, 146 Freud, S. 44 Fürstenberg, F. 13

Hegel, G.W.F. 106 Heidegger, M. 15, 16, 83, 102, 111, 113, 114, 139 Hénaff, M. 107, 110 Horkheimer, M. 13, 140, 144 Husserl, E. 13, 14, 15, 24 Hyppolite, J. 33

Galzigna, M. 65, 93 Garelli, G. 17 Gargiulo, A. 135 Ghidelli, G. 140 Giorello, G. 145 Giussani, C., 33 Godbout, J.I. 109 Goux, J.-J. 107 Granet, M. 100, 101 Grazioli, E. 39 Gros, F. 17, 32, 45, 64 Guareschi, M. 26 Guarino, L. 43 Guattari, F. 18, 77, 126, 127, 128, 131 Guidieri, R. 100

Lebrun, G. 63 Lévi-Strauss, C. 25, 100 Levinas, E. 105 Lévy, P. 39 Liborio, M. 107 Lipovetsky, G. 120 Lyotard, J.-F. 125, 132

Habermas, J. 13 Han, B. 34, 80 Haraway, D.J. 21

Imbergamo, E. 37 Janet, P. 47 Jullien, F. 123 Kant, I. 7, 8, 17, 19, 20, 26, 31, 32, 33, 34, 35, 38, 43, 44, 63, 64, 65, 66, 67, 69, 70, 77, 79, 81, 82, 83, 102, 113, 135, 142, 143 Karady, V. 114 Karsenti, B. 110, 112 Kartajaya, H. 146 Klossowski, P. 48 Koolhaas, R. 122, 123, 124 Kotler, P. 146

Macherey, P. 33, 88 Malinowski, B. 109 Mapelli, M.M. 145 Margiotta, U. 145 Marzocca, O. 97 Masullo, A. 24 Maus, H. 13 Mauss, M. 25, 99, 100, 101, 108, 109, 110, 112, 113, 114, 115 Merleau-Ponty, M. 24 Milanesi, C. 48 Monod, J. 37, 77

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indice dei nomi

Montagamo, G. 39 Montinari, M. 112 Moroncini, B. 105 Nancy, J.-L. 83, 111, 123, 132 Napoli, P. 29 Nicolas, G. 100 Nietzsche, F. 20, 22, 32, 33, 35, 36, 50, 61, 63, 70, 73, 89, 112, 134 Nigro, R. 65 Odello, L. 105 Pandolfi, A. 29 Paolini, S. 25 Pasquino, P. 22, 53 Pearson, J. 98 Peretti, P. 145 Perniola, M. 104, 117, 118, 120, 126, 134, 135, 136, 137, 141 Petrosino, S. 105 Pintarelli, F. 141, 146 Polidori, F. 32, 101 Preti, G. 13, 28 Prezzo, R. 39 Pulcini, E. 105 Prigogine, I. 37 Proust, M. 41 Rabaté, J.-M. 101 Ray, J. 115 Rella, F. 99 Renaut, A. 38 Renzi, E. 33 Revel, J. 96 Rey, J.-M. 119 Ricoeur, P. 12, 101 Rigobello, A. 12 Roussel, R. 47, 89 Rovatti, P.A. 100 Ruffié, J. 37, 76, 77 Ruyer, R. 37, 77

Sartre, J.-P. 24 Schmidt, A. 13 Seneca 107 Senellart, M. 22, 62 Serroy, J. 120 Setiawan, J. 146 Simondon, G. 122 Socrate 98 Sossi, F. 40 Starobinski, J. 114 Stiegler, B. 37, 71 Strumia, D. 146 Stumpf, C. 24 Terra. R.R. 81 Turkle. S. 147 Vaccaro. S. 52 Valéry. P. 122 Vattimo. G. 16, 114, 129 Verra. V. 83, 135 Verdicchio, S. 43 Vezzoli, V. 33 Vigna, C. 139 Virilio, P. 39, 122, 123 Vitale, F. 128 Vitiello, V. 111, 113 Volpi, F. 83 Weizsäcker, R. von 25 Wetzel, M. 101 Žižek, S. 132

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Quodlibet Studio



analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione Imre Toth, La filosofia della matematica di Frege. Una restaurazione filosofica, una controrivoluzione scientifica



campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi

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Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi Stefania Napolitano, Clinica della differenza sessuale. Fantasma, sintomo, transfert



campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo A ciascuno il suo genoma Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica



campi della psiche. filosofie dell’inconscio

Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte



dietro lo specchio

Andrea Zucchinali, Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico



discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi Girolamo De Michele, Felicità e storia

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Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma

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Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762 Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 Marco Tedeschini, Adolf Reinach. La fenomenologia, il realismo Mariapaola Fimiani, L’etica oltre l’evento



estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel

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filosofia e politica

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700)



filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi



il pensiero etico e religioso

Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia

lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno

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Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana

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Massimo Giuliani, Per un’etica della resistenza. Rileggere Primo Levi Angela Borghesi, Una storia invisibile. Morante Ortese Weil



lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino e Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain Matteo Majorano (a cura di), La giostra dei sentimenti



lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina Ilaria Tani, Lingua e legame sociale. La nozione di comunità linguistica e le sue trasformazioni



scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio



scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei “Promessi Sposi” Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali

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Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali



teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell’iperrealismo

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