L'esercizio della democrazia 8875781583, 9788875781583

Questo volume inaugura una collaborazione tra Codice edizioni e Biennale Democrazia, progetto civile e culturale che sta

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Italian Pages 54 [42] Year 2010

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Table of contents :
Indice......Page 42
Frontespizio......Page 2
Il Libro......Page 4
Lezione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano......Page 6
Concetto e concezioni......Page 20
La «ferrea legge dell’oligarchia»......Page 22
Democrazia e luoghi del potere......Page 24
La democrazia e i mezzi del potere......Page 26
Che cosa pensare? Una vuota ideologia?......Page 28
Un regime di possibilità......Page 29
Possibilità ed effettività della democrazia......Page 31
Valori della democrazia......Page 32
Le parole della democrazia......Page 34
La verità dei fatti......Page 36
Democrazia e filologia......Page 37
Conclusioni......Page 38
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L'esercizio della democrazia
 8875781583, 9788875781583

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Giorgio Napolitano, Gustavo Zagrebelsky

L’esercizio della democrazia

Questo volume è il primo della collana Biennale Democrazia, manifestazione realizzata dalla Città di Torino Giorgio Napolitano, Gustavo Zagrebelsky L’esercizio della democrazia Progetto grafico: studiofluo srl Impaginazione: Maria Beatrice Zampieri Redazione: Daiana Galigani Coordinamento produttivo: Enrico Casadei © 2010 Codice edizioni, Torino ISBN 978-88-7578-158-3 Tutti i diritti sono riservati

Questo volume fa parte di una serie di pubblicazioni che raccolgono i testi delle lezioni e delle conferenze tenute nel corso di Biennale Democrazia, manifestazione culturale realizzata dalla Città di Torino che nel 2009 ha avviato un fondamentale lavoro di indagine sul senso e sul valore del concetto di democrazia. Non si tratta solo di un modo di rievocare e celebrare un aspetto importante della storia italiana: l’iniziativa di Biennale Democrazia, e i libri che ne derivano, sono prima di tutto un vero e proprio strumento per la formazione, la diffusione e la realizzazione di una pratica democratica quotidiana, consapevole, partecipata, all’altezza dei problemi della contemporaneità. L’odierno panorama mondiale è infatti strettamente reticolare, interconnesso e internazionale; viviamo in un contesto in cui eventi che si verificano in una parte del pianeta si riverberano ovunque, e in cui è impossibile isolare i Paesi l’uno dall’altro: pensiamo all’11 settembre, e alle conseguenze che ha avuto a livello globale in termini di vita democratica. Per questo motivo Biennale Democrazia parla di democrazia nel mondo, e sappiamo che la democrazia ha bisogno di uguaglianza, e che l’uguaglianza è strettamente collegata alla giustizia, e che quest’ultima, infine, si coniuga su dimensioni sovranazionali. I grandi fenomeni migratori che stiamo osservando in questi anni ne sono una prova concreta e ineludibile. Le conferenze, come i libri, raccolgono così spunti ed elementi solo apparentemente disparati e lontani tra loro, che nell’insieme offrono invece un quadro ricco, organico: l’intento non è quello di affrontare questioni di teoria politica, bensì di cogliere e descrivere le condizioni materiali e quotidiane della vita democratica. Le ambizioni sono grandi, come grande è la sfida. L’impegno richiesto, a tutti, è di considerare la democrazia non solo una semplice formula politica, ma un patrimonio comune e prezioso, da alimentare quotidianamente. La convinzione è che iniziative come “I libri di Biennale Democrazia” offrano utili strumenti di lettura e analisi della realtà.

L’esercizio della democrazia

Lezione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Spero non stupisca che io parta, in questa mia riflessione, da un racconto personale. Sono in effetti convinto che non sia superfluo ricordare – anche con il contributo di chi può dare testimonianza (oltretutto per età) – di quale storia sia figlia la nostra democrazia repubblicana, e quella Costituzione che ne rappresenta insieme lo spirito, l’impalcatura e la garanzia. Non è superfluo, vista la leggerezza con cui si assumono oggi atteggiamenti dissacranti e si tende a mettere in causa un patrimonio di principi che ha costituito per l’Italia un’acquisizione sofferta, collocandola nel grande solco del pensiero e del progresso liberale e democratico dell’Europa e dell’Occidente. Avevo appena compiuto diciott’anni, quando il 25 luglio del 1943 fui, come tutti gli italiani, raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante, imprevedibile notizia della caduta di Mussolini. Imprevedibile anche nella forma, che aveva un sapore di rito antico, da lungo tempo dimenticato: accettazione, da parte del capo dello Stato, delle dimissioni del capo del governo. Si seppe poi che il dimissionamento di Mussolini era stato provocato dal fatto, anch’esso inaudito, di un voto di sostanziale sfiducia adottato, con sorprendente procedura democratica, dal massimo organo dirigente del partito al potere, di cui Mussolini era sempre stato arbitro assoluto. Al fondo di quei pur imprevedibili eventi vi era naturalmente una crisi profonda via via maturata nel rapporto tra il Paese e il fascismo, a cominciare dal suo capo, per effetto dell’andamento disastroso della guerra da lui irresponsabilmente voluta, e del peso sempre più insopportabile delle sofferenze inflitte alla popolazione. Di questo ero stato anch’io testimone e partecipe vivendo l’odissea dei cento bombardamenti che avevano colpito la città di Napoli. La notizia della caduta di Mussolini e del suo governo suscitò perciò un immediato senso di liberazione: dal fascismo e, ci si illuse, dalla guerra. Torno con la mente a quella sera, e ancora ricordo come condivisi con

l’amico che mi era più vicino quel momento di eccitazione e di euforia. Avevamo già da tempo maturato, insieme con altri della nostra generazione, non solo la più radicale contrapposizione al fascismo, ma anche la convinzione, cui pure non era stato facile giungere, che la salvezza per l’Italia potesse venire solo dalla sconfitta ad opera delle forze alleate. E in effetti fu determinante l’avvicinarsi delle forze anglo-americane dalla fine del 1942 al territorio italiano, fino a invaderlo e percorrerlo a partire dalla Sicilia. Le posizioni cui ero venuto aderendo, da quando nel primo semestre del 1942, frequentando l’ultimo anno di liceo a Padova, avevo scoperto la politica e l’antifascismo, potei ritrovarle e approfondirle nel gruppo di giovani di cui entrai a far parte iscrivendomi all’Università di Napoli. Ma quelle posizioni non potevano abbracciare e prevedere le conseguenze che avrebbe avuto il ritiro dell’Italia sconfitta dall’alleanza con la Germania nazista. All’indomani della liberazione di Napoli dal terrore tedesco e dell’arrivo delle truppe alleate alla fine di settembre del 1943, ebbi la percezione più diretta della condizione durissima in cui era precipitata la mia città, chiamata a vivere, dopo la liberazione, l’esperienza dell’occupazione americana: un’esperienza caotica e febbrile, per il «saltare del coperchio», secondo il ricordo e la descrizione dell’allora giovanissimo scrittore Raffaele La Capria, per il cessare della lunga «costrizione del regime, della guerra, dei bombardamenti quotidiani, della paura, della fame, dell’isolamento»1. La realtà del Paese era questa – non facile oggi da immaginare per chi non ne abbia personale memoria come me, e perciò ho voluto rievocarla – ed era quella della guerra che (lungi dal concludersi secondo le speranze del 25 luglio) continuava a flagellare il resto dell’Italia rimasta nel cerchio dell’oppressione nazista, da Roma in su, lasciando dovunque un’eredità di lutti e di macerie. Fu quindi da una realtà disperante che si dovette partire per rifondare la democrazia in Italia. Valgano le scarne, drammatiche frasi annotate nel suo diario, il 15 dicembre 1943, da un grande intellettuale antifascista, Benedetto Croce, identificatosi da studioso con la causa dell’unità italiana e con la storia dello Stato unitario: Sono sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente, è distrutto. Sopravvivono solo nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire, senza più guardare indietro, frenando il rimpianto.2

In effetti, quelle forze ideali si manifestarono nello stesso non breve tempo dell’occupazione tedesca nel centro-nord – in un’Italia “tagliata in

due” – attraverso lo sviluppo della Resistenza in armi e di una generosa mobilitazione di popolo in nome della libertà, dell’indipendenza, della dignità della patria italiana. Ma, finita la guerra, l’avvenire andava affrontato avviando la ricostruzione materiale del Paese paurosamente sconvolto e immiserito, e ripristinando condizioni essenziali di governabilità democratica. E questa prima tappa fu percorsa sotto la guida dei governi di coalizione antifascista che si succedettero tra l’aprile del 1944 e il 1945, a liberazione dell’intera Italia ormai conclusa. Le tappe successive furono quelle che scandirono un impegno di ricostruzione, non meno necessaria e vitale, sul piano politico e statuale. Con la creazione della Consulta Nazionale3 si diede vita a un organismo rappresentativo, ancorché non elettivo, del risorto pluralismo politico. Con l’istituzione del Ministero per la Costituente4 si gettarono le basi di quella che avrebbe dovuto essere la missione di un’assemblea eletta dal popolo con il mandato di adottare una Carta costituzionale. Infine, con il riconoscimento del diritto delle donne a votare e ad essere elette, già nelle prime libere elezioni amministrative, si predisposero le condizioni perché le decisive prove del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente si svolgessero finalmente, per la prima volta nella storia d’Italia, a suffragio universale5. Così rinacque la democrazia in Italia, su basi più ampie e solide che mai nel passato; e rinacque in pari tempo con il ricostituirsi dei partiti, dei sindacati, di altre organizzazioni sociali e libere associazioni, di organi di stampa indipendenti e rappresentativi di una pluralità di opinioni; rinacque con il crescere di una partecipazione senza precedenti dei cittadini alla vita pubblica. Non voglio, sia chiaro, suggerire un’immagine idilliaca di quegli anni da cui sarebbero scaturite la scelta della Repubblica e la Costituzione. L’acquisizione degli ideali e dei principi democratici non fu né immediata né incontrastata; e dinanzi al rinascente ruolo dei partiti sorse anche un movimento per contestarlo (il Fronte dell’Uomo Qualunque6) e non senza successo. Ma non c’è dubbio che si mise in moto un processo irresistibile, dall’alto e dal basso, di riedificazione democratica. Coronamento di tale processo fu l’elaborazione – in un clima di straordinario fervore intellettuale e politico, attraverso il confronto e l’avvicinamento tra le diverse forze politiche e correnti culturali accomunate dall’antifascismo – della Costituzione repubblicana. Il confronto in Assemblea Costituente e il suo approdo finale, il testo

votato da una maggioranza del 90 per cento il 22 dicembre 1947, furono, certo, profondamente segnati dalle dure lezioni del passato (il crollo dello Stato liberale, l’avvento di una dittatura personale e di partito, la scelta fatale delle guerre di aggressione); ma essi rispecchiarono nello stesso tempo il tendenziale dinamismo della società italiana in condizioni di ritrovata libertà, e lo slancio popolare verso un nuovo e più giusto ordine economico e sociale, verso un assetto autenticamente democratico. La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere. Essa fu preparata da indagini a tutto campo e da cospicue pubblicazioni del Ministero per la Costituente, che esplorò tra l’altro le costituzioni e le leggi elettorali dei principali altri paesi, mettendo a confronto le esperienze altrui e le condizioni del nostro Paese. La Carta che scaturì dall’Assemblea Costituente nacque dunque guardando avanti, guardando lontano: essa seppe – partendo da esperienze drammatiche, di cui scongiurare ogni possibile riprodursi – dare fondamenta solide, e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell’Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell’opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche; quelle prospettive furono affidate a uno sforzo sapiente, nelle formulazioni e negli indirizzi della Carta, per tenere aperte le porte del nuovo edificio alle imprevedibili evoluzioni e istanze del futuro. I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, ma sprigionarono sempre da impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola. Principi e diritti. Principi da cui ispirare la legislazione, la giurisprudenza, i comportamenti effettivi di molteplici soggetti pubblici e privati; diritti da garantire, anche attraverso il ricorso alla giustizia, e da rispettare nel concreto dei rapporti sociali e civili. Questo è un punto sul quale vale la pena di insistere. La Costituzione non è una semplice carta dei valori. Essa ha certamente una forte carica ideale e simbolica, capace di ispirare e unire gli italiani. Ma i suoi ideatori mirarono a farne un corpo coerente di principi e norme che avessero, senza eccezione alcuna, «un valore giuridico come direttiva e precetto al legislatore e criterio di interpretazione per il giudice». Con queste parole si espresse il Presidente

della Commissione dei 757, che in seno all’Assemblea Costituente aveva predisposto il progetto di Costituzione; e la prima sentenza della Corte Costituzionale istituita nel 1955 stabilì che anche le disposizioni cosiddette programmatiche contenute nella Costituzione avevano rilevanza giuridica. Insomma, la Costituzione repubblicana non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte, ma nemmeno si limitò a formulare valori nazionali, storico-morali, unificanti. La nostra, come ogni altra costituzione democratica, è legge fondamentale, architrave dell’ordinamento giuridico e dell’assetto istituzionale. E in quanto tale va applicata e rispettata: applicata non una volta per tutte, ma in un processo inesauribile di adesione a nuove realtà, a nuove sensibilità, a nuove sollecitazioni. Così l’hanno intesa e applicata governi e parlamenti della Repubblica, così l’ha intesa, e ha vegliato sul suo rispetto, la Corte Costituzionale. È legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito e viene “disciplinata” la stessa volontà sovrana del popolo8. Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta costituzionale, là dove recita: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Una volta, cioè, che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l’elezione di un’assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, e rispetta i limiti che essa gli pone. Questa è caratteristica essenziale della moderna democrazia costituzionale, quale si è voluta fondare in Italia con il più ampio consenso, alla luce delle esperienze del passato e con l’occhio rivolto ai modelli dell’Occidente democratico. Comune a quei modelli, pur nella loro varietà, è il senso dei limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell’investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa. Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa, ben al di là di una superficiale e generica attestazione di lealtà: rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità, e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell’espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di

quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza e tutela dei diritti dei cittadini. Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l’affermazione della sua intoccabilità. Ho già detto delle potenzialità che presentano principi e indirizzi introdotti nella Costituzione repubblicana in termini tali da tenere le porte aperte al futuro: è perciò giusto e possibile avere della nostra Carta una visione dinamica, scavare in essa per coglierne tutte le suggestioni attuali. Si deve così far vivere la Costituzione: come in sessantanni si è già, attraverso molteplici contributi, teso concretamente a fare. Nello stesso tempo, va ancora una volta ripetuto che gli stessi padri costituenti vollero prospettare possibili esigenze e precise procedure di revisione della Costituzione. Il testo entrato in vigore il 1° gennaio 1948 è stato d’altronde già toccato, già riveduto in decine di articoli, qualcuno dei quali, in anni recenti, di notevole rilievo, e in un intero Titolo della seconda parte9. E su ulteriori revisioni il discorso è non solo pienamente legittimo, ma per generale riconoscimento obiettivamente fondato. Ad una revisione più ampia della Costituzione si lavorò concretamente in Parlamento nel 19931994, nel 1996-1997 e nel 2004-2006, sulla base di procedure esse stesse integrate rispetto a quelle segnate nell’articolo 13810. Nessuno di quei tre tentativi di riforma – relativi alla seconda parte della Costituzione, e cioè all’Ordinamento della Repubblica – è, in diverse circostanze e per diverse ragioni, andato a buon fine; ma le forze politiche presenti in Parlamento convergono largamente sulla necessità che quell’ordinamento richieda di essere riveduto e adeguato in più punti. Non si può solo denunciare il rischio che esso sia stravolto. Si ricordi che se ne postulò, nel modo più autorevole già dopo le elezioni del 1992, una revisione che (disse l’allora appena eletto Presidente della Repubblica11) incidesse «nell’articolazione delle diverse istituzioni»: ridefinendone i caratteri, le prerogative, il modo di operare dell’una o dell’altra, e ridefinendo gli equilibri tra esse. Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo – nell’esercizio del ruolo attribuitomi dalla Costituzione – esprimere indicazioni di merito e suggerire ipotesi di soluzione, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di

realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, per le quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata stagione costituente. Non c’è da ripartire da zero; non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, da tendere a conflittualità rischiose e improduttive. Occorre che da tutte le parti si dia prova di consapevolezza riformatrice e senso della misura. Non c’è da ripartire da zero, anche perché, sia attraverso revisioni parziali della Carta del 1948, sia attraverso innovazioni nelle leggi elettorali e nei regolamenti parlamentari – nonché in rapporto a cambiamenti prodottisi nel sistema politico – i termini di diverse questioni sono già sensibilmente mutati. È in corso una visibile evoluzione, in senso regionalistico federale, della forma di Stato; e in quanto alla forma di governo, pur essendo essa rimasta parlamentare, non trascurabili sono le nuove modulazioni che ha già conosciuto. Nell’ambito della forma di governo parlamentare, che è quella di gran lunga prevalente in Europa, sono possibili, e in effetti si sono espressi, equilibri diversi tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e potere legislativo, e anche tra questi due poteri e quello giudiziario. La Costituzione italiana del 1948 fu certamente contrassegnata da un’accentuazione delle prerogative del Parlamento rispetto a quelle del governo. Le esigenze di stabilità e di efficienza decisionale di quest’ultimo rimasero allora in secondo piano. Ma molte cose sono via via cambiate già negli anni Ottanta, con le riforme dei regolamenti parlamentari, e sempre di più a partire dagli anni Novanta, con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia; e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare (in un suo recente scritto) «oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento». E allora, è del tutto legittimo politicamente, ma partendo da questi dati di fatto (e dunque senza cadere in enfasi e polemiche infondate), verificare quali concreti elementi di ulteriore rafforzamento dei poteri del governo, e di chi lo presiede, possano introdursi sulla base di motivazioni trasparenti e convincenti. Quel che è risultata, anche di recente, condivisa e percorribile è di certo

l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, e il coronamento dell’evoluzione in senso federale (da tempo in atto, come ho ricordato) con l’istituzione di una Camera delle Autonomie in luogo del Senato tradizionale12. Ne scaturirebbe anche una razionalizzazione del processo legislativo, e con essa quel “legiferare meglio” che viene giustamente sempre più spesso, e finora invano, invocato. Vorrei però a questo punto allargare la visuale della mia riflessione per cogliere – al di là dello specchio spesso deformante delle dispute politiche strettamente italiane – questioni e dilemmi che attraversano, e già da tempo, il discorso sulla democrazia in Occidente. Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche: nelle quali, a una crescente complessità dei problemi e ad un tendenziale moltiplicarsi delle domande e dei conflitti, non corrispondono capacità adeguate di risposta, attraverso decisioni tempestive ed efficaci, da parte delle istituzioni. Nell’affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all’inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia «il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza», esso stava finendo per assumere un segno opposto, «non l’eccesso ma il difetto di potere»13. E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema, che «la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie»14. Un monito, quest’ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle principali istituzioni del liberalismo – concepite in antitesi ad ogni dispotismo – tra le quali, nella classica definizione dello stesso Bobbio, la garanzia dei diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità. Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile (esplicitamente o di fatto) sull’altare della governabilità, in funzione di «decisioni rapide, perentorie e definitive»15 da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli

fa16, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica. Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento, a proposito della quale penso si possa dire che non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica; ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature, e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto con il territorio e con gli elettori. In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare. Grande è certamente la difficoltà del governare in condizioni di pluralismo sociale, politico e istituzionale, e ancor più in presenza, oggi, della profonda crisi che ha investito le nostre economie. Ma non c’è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l’apporto della rappresentanza. E a ciò non si sfugge nemmeno nei sistemi politico-istituzionali che sembrano assicurare il massimo di affermazione del potere di governo affidato a una suprema autorità personale. Mi riferisco naturalmente a sistemi e modelli autenticamente democratici come quello presidenzialista degli Stati Uniti d’America; dove, al di là del mutare o dell’oscillare, nel tempo, dell’equilibrio tra Presidente e Congresso, a quest’ultimo, cioè alla rappresentanza parlamentare, nella sua netta separazione dall’esecutivo, viene riservata sempre un’ampia area di influenza e di intervento – e in definitiva l’ultima parola – nel processo deliberativo. Anche nei momenti, aggiungo, di emergenza e urgenza nazionale, come ci dicono le vicende del complesso rapporto, sul terreno legislativo, tra il nuovo presidente, la nuova amministrazione americana e il Congresso degli Stati Uniti. Si parla da tempo, e spesso, di crisi della democrazia rappresentativa, in riferimento all’indebolirsi delle sue istituzioni e della fiducia che in esse ripongono i cittadini. Ma da più parti si sono venute positivamente proponendo concezioni più ampie, che vedono – si è scritto – «la rappresentanza come processo che connette la società e le istituzioni», che affidano alla politica le responsabilità di un legame operante «tra l’interno e l’esterno delle istituzioni politiche», l’attivazione di una «corrente comunicativa» – espressione molto felice di una nostra studiosa – «tra società

civile e società politica»17. E in questo senso si è in effetti venuto aprendo il campo di ricerche e proposte interessanti per giungere a forme concrete di democrazia partecipativa e deliberativa diffusa: forme concrete sperimentabili in particolar modo attraverso il raccordo tra assemblee elettive regionali e locali, e realtà associative e canali di consultazione e di coinvolgimento dei cittadini, in trasparenti processi decisionali. Non una datata contrapposizione ideologica, cioè, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta; ma uno sforzo di integrazione tra istituzioni nell’esercizio delle loro funzioni e prerogative, ed espressioni di un più vasto moto di partecipazione democratica a tutti i livelli. L’esigenza di suscitare la vicinanza e l’adesione – non passiva, ma vigile e propulsiva – dei cittadini alle istituzioni democratiche, e l’esigenza di evitare un fatale indebolimento di queste ultime per effetto di tendenze al distacco, alla sfiducia, all’indifferenza da parte dei cittadini, appare complessa come non mai nell’attuale fase storica; ed è questo l’ultimo punto che vorrei brevemente toccare. È in atto da tempo un passaggio dalle dimensioni nazionali della sfera decisionale a dimensioni ultranazionali, europee e globali: e c’è da chiedersi se sia praticabile in questo nuovo contesto quella che si è venuta costruendo in Occidente come democrazia rappresentativa. Questa si impose, ha osservato un eminente studioso dei sistemi democratici, Robert Dahl18, con il passaggio storico dalle città-Stato agli Stati nazionali: si è ora in presenza di un cambiamento altrettanto importante per la democrazia, per effetto del passaggio delle decisioni pubbliche a dimensioni transnazionali. Vengono di qui interrogativi di fondo sulla possibilità di controllare democraticamente le organizzazioni internazionali e le decisioni prese a quel livello. E questi interrogativi stanno assumendo, appare chiaro, una stringente attualità. Sulle risposte ipotizzabili il dibattito è aperto in tutta la sua complessità, ma io desidero richiamare l’attenzione su un processo che è già in atto e che può rappresentare un approccio fecondo al discorso sul governo della globalizzazione: parlo del processo delle integrazioni regionali, continentali o subcontinentali che si è concretamente prodotto in Europa, ma tende a prodursi anche fuori d’Europa. La Comunità e quindi l’Unione Europea hanno rappresentato forme originali, da oltre cinquant’anni a questa parte, di esercizio condiviso della sovranità al livello sovranazionale. Ed è peraltro un fatto che alla crescita di questa esperienza, dai primi trattati tra i sei paesi fondatori19 in poi, si è

accompagnata la preoccupazione di un deficit democratico, in quanto le decisioni che si concentravano in istituzioni come la Commissione e il Consiglio sembrarono a lungo sfuggire a un controllo democratico – a differenza, si diceva, delle istituzioni tradizionali degli Stati nazionali. Ma essendo un fatto irreversibile la perdita da parte di questi ultimi di quote crescenti della loro sovranità, imponendosi sempre di più – e mai come oggi questa ci appare un’esigenza imperiosa – decisioni e politiche comuni al livello europeo, non poteva non sorgere la questione del dar vita e forza a istituti e forme corrispondenti di democrazia sovranazionale. Ebbene, questa esigenza, dopo essere rimasta per non breve tempo largamente insoddisfatta, ha via via trovato sbocco nel rafforzamento dell’investitura e del ruolo del Parlamento europeo. Non si può certo dire che ogni insufficienza, ambiguità e contraddizione sia stata risolta. Ma passi in avanti decisivi sono stati compiuti: dall’elezione diretta, a suffragio universale, del Parlamento europeo, all’attribuzione, che gli è stata sempre più riconosciuta, di poteri determinanti nella formazione delle leggi dell’Unione, e anche di più incisive funzioni di indirizzo e di controllo nei confronti dell’esecutivo, identificato nella Commissione di Bruxelles. Il Parlamento europeo si sta dunque affermando come l’istituzione sovranazionale per eccellenza e come garante della legittimità democratica dell’Unione: dovrebbero esserne consapevoli gli elettori chiamati di qui a poco a votare per il Parlamento di Strasburgo20. Speriamo che si parli di ciò nella campagna elettorale, e non di meschine vicende di politica interna. Nello stesso tempo, con il Trattato costituzionale poi abortito21 ed egualmente, però, con il Trattato di Lisbona di cui si sta completando la ratifica22, si sono aperte nuove possibilità di cooperazione e sinergia tra istituzioni europee, segnatamente il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali; e nuove possibilità di comunicazione e di dialogo strutturato tra istituzioni europee e società civile. Non a caso dunque l’esperienza dell’integrazione europea viene ormai assunta come riferimento, anche sotto il profilo della governabilità democratica, per gli analoghi processi che si avviano in altri continenti e per le strade da intraprendere sul piano globale. L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea, è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea Costituente e fu di fatto anticipata nel

lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta23. Per consolidare, far vivere e crescere la democrazia in Italia, e in un mondo in così impetuosa trasformazione, bisogna non solo “presidiare” la Costituzione, tutelare e riaffermare i principi e i diritti che essa ha sancito alla luce di dure lezioni della storia; bisogna di continuo calarla nel divenire della società italiana e anche della società internazionale. Sappiamo – lo vorrei dire in modo particolare ai più giovani – quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro Paese: orizzonti di libertà e di uguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano via via nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia, e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto. Nelle settimane che hanno seguito la tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza delle risorse umane, vere e proprie preziose riserve di energia, su cui il Paese può contare, in uno spirito di unità nazionale. Se ne può trarre, io credo, un buon auspicio anche per il manifestarsi, più in generale, di quella sensibilità democratica e di quell’impegno dei cittadini a sostegno dei principi e degli indirizzi costituzionali di cui ho appena indicato la necessità. Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri – perciò, oggi, di lì ho voluto partire – si è mostrata capace. L’occasione per mostrarcene ancora capaci è data dalla crisi profonda che ha investito, in un contesto mondiale nuovo e complesso, l’economia e la società italiana. L’appello è ad esserne, ciascuno di noi, pienamente all’altezza. 1

Raffaele La Capria, Napoli ‘44, vennero gli americani e ci rubarono subito le ragazze..., in “Corriere della Sera”, 13 agosto 1999, p. 29. 2 Benedetto Croce, Taccuini di guerra, 1943-1945, a cura di Cinzia Cassani, Adelphi, Milano 2004. 3 La Consulta Nazionale, convocata da Ferruccio Parri e riunitasi per la prima volta il 25 settembre del 1945, fu un’assemblea provvisoria investita del compito di sostituire il Parlamento finché non si fossero svolte le prime elezioni regolari (ovvero quelle in cui si scelsero i membri dell’Assemblea Costituente, il 2 giugno 1946). 4 Il Ministero per la Costituente, istituito sotto la guida di Pietro Nenni nel luglio del 1945, ebbe il compito di redigere la legge elettorale per l’Assemblea Costituente, curarne la convocazione effettiva,

raccogliere il materiale e promuovere gli studi per i lavori dell’Assemblea. Restò attivo fino al 2 agosto 1946. 5 Il suffragio universale, principio in virtù del quale sono chiamati a votare uomini e donne che abbiano raggiunto la maggiore età, fu applicato in Italia per la prima volta il 2 giugno 1946, in occasione dell’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente e del referendum istituzionale in cui si scelse tra monarchia e repubblica. 6 Il Fronte dell’Uomo Qualunque prese le mosse dal giornale “L’Uomo qualunque”, fondato nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Fu un movimento, e dal 1946 anche un partito politico, che intendeva dar voce “all’uomo della strada” in un’ottica di sfiducia nei confronti del sistema partitocratico. Dopo una prima fase di successo perse consensi a seguito del suo appoggio alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, fino al suo scioglimento nel 1948. 7 La Commissione dei 75, istituita il 15 luglio 1946 al fine di elaborare, proporre e redigere il progetto di Costituzione della Repubblica italiana, e presieduta da Meuccio Ruini, fu così battezzata perché composta da 75 membri scelti dell’Assemblea Costituente, i cosiddetti padri costituenti. 8 Si faccia riferimento a due opere pubblicate da Maurizio Fioravanti: Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari 2009, e Il valore della Costituzione, Laterza, RomaBari 2009. 9 Il Titolo V (Le Regioni, le Province, i Comuni) contenuto nella Parte Seconda della Costituzione (Ordinamento della Repubblica) è stato oggetto di revisione nell’ottobre 2001. Con la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 sono stati modificati e in parte abrogati gli articoli dal 114 al 132, incidendo in modo significativo sulla ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni a statuto ordinario, e sulla nozione stessa di repubblica (nuovo art. 114 Cost. it.). 10 Si fa riferimento alla legge costituzionale n. 1 del 6 agosto 1993 («Funzioni della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali e disciplina del procedimento di revisione costituzionale»), alla legge costituzionale n. 1 del 24 gennaio 1997 («Istituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costi tuzionali») e all’iter che si è concluso con il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006, avente come oggetto le «Modifiche alla Parte Seconda della Costituzione» e respinto dalla maggioranza dei votanti. 11 Oscar Luigi Scalfaro, eletto il 28 maggio 1992. 12 È nelle intenzioni del legislatore proseguire nell’iter di modifica della seconda parte del Titolo V, anche per quel che concerne gli articoli 55-57 della Costituzione (istituzione di un Senato federale, detto appunto Camera delle Autonomie, in grado di raccordare il Parlamento al mondo delle autonomie territoriali). Un primo tentativo di modifica non ha superato il vaglio del già citato referendum che si è svolto il 25 e il 26 giugno 2006. 13 Norberto Bobbio, Liberalismo e democrazia, a cura di Franco Mammi, Simonelli Editore, Milano 1985, p.103. 14 Bobbio, Liberalismo e democrazia, cit., p. 105. 15 Bobbio, Liberalismo e democrazia, cit., p. 104. 16 Henri-Benjamin Constant de Rebecque (1767-1830), scrittore e politico francese, elaborò una teoria di monarchia costituzionale secondo cui il potere reale (detto potere neutro) avrebbe dovuto ricoprire un ruolo essenziale nel limitare e riequilibrare i poteri degli altri organi statali, ed essere al contempo privato del potere esecutivo, affidato invece al Consiglio dei Ministri. La responsabilità di governare sarebbe dunque ricaduta su questi ultimi e non sul Re; il quale, secondo questa ottica, “regna ma non governa”. 17 Nadia Urbinati, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Laterza,

Roma-Bari 2006. 18 Robert Alan Dahl (Inwood, 17 dicembre 1915), politologo statunitense e professore emerito presso l’università di Yale, è considerato il decano degli studiosi americani di scienze politiche. Tra le sue opere, Prefazione a una teoria democratica, Einaudi, Torino 1994; Quanto è democratica la Costituzione americana?, Laterza, Roma-Bari 2003 e La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 2005. 19 Italia, Germania, Francia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, firmatari del Trattato istitutivo della CECA nel 1951, dei Trattati di Roma istituivi di CEE ed EURATOM nel 1957 e del Trattato di fusione del 1965. 20 A partire dal 1979, ogni cinque anni e contemporaneamente in tutti gli Stati membri, si tengono le elezioni per eleggere gli eurodeputati in rappresentanza di quasi 500 milioni di abitanti dell’Unione Europea. Qui si fa riferimento alle settime elezioni del Parlamento di Strasburgo, ad oggi le più grandi elezioni transnazionali della storia, che si sono svolte tra il 4 e il 7 giugno 2009. 21 L’iter di ratifica del Trattato costituzionale che avrebbe consentito l’entrata in vigore della Costituzione europea (e dunque la sostituzione dei diversi trattati esistenti che costituivano la base giuridica dell’Unione Europea), iniziato nel febbraio 2005, si sarebbe dovuto concludere entro la fine del 2006; ma è stato congelato nello stesso anno a causa degli esiti negativi dei referendum in Francia (29 maggio) e nei Paesi Bassi (1 giugno). Quasi tutte le innovazioni previste dalla Costituzione, comunque, sono state incluse in un Trattato detto di riforma, in seguito denominato Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. 22 Il Trattato di Lisbona (firmato nel Monastero dos Jerònimos a Lisbona il 13 dicembre 2007 dai capi di Stato e di governo dei paesi membri dell’Unione Europea) è stato redatto in sostituzione della Costituzione europea (bocciata a seguito degli esiti negativi dei referendum francese e olandese del 2005) ed è entrato ufficialmente in vigore il 1° dicembre 2009. Il suo iter di approvazione ha subito un’accelerazione affinché entrasse in vigore entro la fine del 2009, anno in cui si sono svolte le elezioni del nuovo Parlamento europeo. Quando il discorso del presidente Napolitano è stato pronunciato mancavano ancora le ratifiche di Polonia, Irlanda e Repubblica Ceca, intervenute a pochi mesi dalla fine dell’anno. 23 Art. 11 Cost. it.: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo»[corsivo nostro].

L’esercizio della democrazia Lezione del Presidente di Biennale Democrazia Gustavo Zagrebelsky

La democrazia in cui viviamo è come l’aria che respiriamo. Non ci si fa caso fino a quando viene a mancare o diventa tossica. Concetto e concezioni In qualunque definizione di democrazia appropriata al concetto, ai cittadini è attribuita una funzione attiva nelle decisioni che li riguardano. Le forme e i limiti possono essere diversi, ma questa è una condizione senza la quale di democrazia è improprio parlare. La definizione più compiuta (e utopistica) è certamente quella della democrazia come pieno “autogoverno” dei cittadini che Rousseau, all’inizio del Contratto sociale, enuncia come programma della sua ricerca: «Trovare una forma d’associazione […] attraverso la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero tanto quanto lo era prima»1. Ma appartiene alla democrazia anche il potere riconosciuto ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti, di farne valere la responsabilità in caso di malgoverno, cioè di porre limiti all’onnipotenza dei governanti, e di sostituirli, se del caso, secondo procedure accettate, basate sulla misura del consenso, e dunque non violente. Tutte queste concezioni possono sembrare qualcosa di meno dell’autogoverno, ma rientrano tuttavia nel concetto di democrazia. Anzi, per qualcuno sono le sole realistiche, l’autogoverno popolare appartenendo al mondo dei sogni2. Dicevo “definizione appropriata al concetto”, perché nel campo politico i concetti sono spesso manipolati, per fini, per l’appunto, politici. Le parole della politica sono ambigue, come si spiegherà più avanti, perché sono parole del potere e per il potere, sono cioè parole strumentali. Questa ambiguità si constata facilmente proprio con riguardo alla democrazia quando la si

definisce, normalmente con aggettivi qualificativi, non come governo del popolo ma come governo per il popolo. Così la «democrazia cristiana», agli inizi del Novecento, era definita «l’impegno cattolico per il popolo, avente come scopo il conforto e l’elevamento delle classi inferiori»3, lo «studium solandae erigendaeque plebis» dell’Enciclica Graves de communi del 1901, di papa Leone XIII. In questo senso, della parola “democrazia”, anzi di “reale”, “vera”, “sostanziale democrazia”, contrapposta alla democrazia “solo formale” dei regimi liberali, si poterono fregiare anche il regime sovietico (“democratico è tutto ciò che serve agli interessi del popolo”), il fascismo (“democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria” al servizio della nazione) e tutti i regimi più violenti e arbitrari del mondo che, dopo avere privato i cittadini dei loro diritti, si sono autoproclamati e si autoproclamano sinceri amici e difensori del popolo. In questo semplice scambio di preposizioni, dal governo del popolo al governo per il popolo, sta la capacità mimetica della parola “democrazia”. Paradossalmente, anche le autocrazie, perfino le teocrazie, cioè le autocrazie spinte al massimo livello, come in certe repubbliche islamiche, possono presentarsi come democrazie, talora anzi come le “vere democrazie” contrapposte a quelle occidentali “degenerate”; e a questo punto, è ovvio, la confusione e l’inganno diventano totali e insuperabili. Ancora più intollerabile stravolgimento del concetto è la definizione della democrazia come governo per mezzo del popolo. A questo proposito, per comprendere la corruzione del concetto basta pensare che essa attrarrebbe nel campo della democrazia le jacqueries dei contadini in Francia, i sanfedisti del cardinale Ruffo, i pogrom dei cristiani fanatizzati contro i villaggi ebraici dell’Europa centrale, i milioni di morti delle guerre “di popolo”. Basti così. Ci si può invece domandare per quale motivo oggi chi esercita funzioni politiche tenga tanto a qualificarsi democratico, a costo di simili violenze lessicali e concettuali. La democrazia, fin dall’inizio della riflessione sulle forme del vivere insieme, è stata associata all’idea della massificazione, della mediocrità, dell’edonismo, del materialismo, dell’arbitrio e della violenza del numero senza qualità, dunque a una costellazione di valori negativi. Per quali motivi, allora, è diventata oggi una parola magica, lo shibboleth4, il passaporto senza il quale non si è ammessi al consesso dei popoli, dei governanti e degli Stati civili? Perché, in breve, è diventata un titolo di rispettabilità al quale nessuno, oggi, può rinunciare? Lasciamo per ora in sospeso la risposta.

Un concetto non sperimentato né sperimentabile Una volta che si sia preso atto dell’inganno perpetrato attraverso il rovesciamento del concetto, e della necessità di rimetterlo diritto, resta la difficoltà che – se non concettualmente, certo praticamente o, come si dice, “sperimentalmente” – la democrazia deve sempre fare i conti con una mutazione le cui cause sono endemiche, cioè interne alla democrazia stessa: la mutazione oligarchica. Questa mutazione, come esito inevitabile, è denunciata concordemente dai critici della democrazia; i critici, per usare ancora queste categorie che a molti paiono desuete, sia di destra sia di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l’ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori. Nella teoria classica delle forme di governo, l’oligarchia, come governo dei molti impotenti da parte di pochi potenti, sta, per così dire, in mezzo tra la monarchia, il governo di uno, e la democrazia, il governo dei molti o di tutti5. Questo, in teoria. In pratica, si conoscono solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, più o meno strutturate, più o meno gerarchizzate e centralizzate: ma sempre e solo oligarchie. Questo è vero con riguardo alla monarchia, non essendo nemmeno immaginabile un regime che si regga sul potere concentrato in uno solo. Quello che appare come il monarca in realtà è sempre l’espressione di un gruppo organizzato che, in vario modo, lo sostiene e, contemporaneamente, lo tiene imbrigliato. Ma è vero anche con riguardo alla democrazia. L’esperienza storica mostra che la democrazia, nella sua forma pura o pienamente realizzata – la democrazia, per esempio, secondo la definizione di Rousseau già citata – di fatto non esiste e non è mai esistita, se non in effimeri «momenti di gloria», come si esprime Joseph de Maistre. Questi momenti sono quelli iniziali dell’instaurazione del potere popolare che abbatte le strutture gerarchiche del passato; sono momenti negativi e distruttivi, non positivi o costruttivi. Sono perciò, per l’appunto, momenti effimeri; e i critici della democrazia non mancano di argomenti, storia alla mano, per avvertire che «in generale, ogni governo democratico non è che una fugace meteora il cui fulgore esclude qualsiasi durata»6 e che questo momento fugace di ebbrezza che genera distruzione rischia di doversi poi pagare caro e a lungo. La «ferrea legge dell’oligarchia»

La critica nei confronti della democrazia, in quanto regime dell’illusione, e la critica nei confronti del pensiero democratico, in quanto mistificatore della realtà, si comprendono per mezzo di quella che è stata detta la «ferrea legge dell’oligarchia» che è alla base di tutte le numerose concezioni elitiste del potere. Quell’espressione, coniata da Robert Michels7 con riferimento alla sociologia dei partiti politici socialisti, vale però in generale a indicare, in ogni organizzazione sociale, e tanto più nelle organizzazioni sociali di grandi numeri e dimensioni, la tendenza irresistibile alla formazione di gruppi dirigenti ristretti che ne assumono la guida. I grandi numeri hanno bisogno dei piccoli numeri. I pochi conducono, i molti seguono. Le élites non sono di per sé in contrasto con la democrazia. Sono conciliabili. Anzi, si può facilmente sostenere che la democrazia, in quanto non semplicemente il potere del bruto numero, per poter funzionare abbia bisogno di élites in competizione tra loro per poter organizzare, canalizzare e mobilitare le energie disperse nei grandi numeri, cioè per renderle operanti. Ma le cose cambiano assai quando l’élite si trasforma in oligarchia, cioè si chiude su di sé, aspira all’inamovibilità e si cristallizza. Quando ciò accade, il principio maggioritario, che è l’anima della democrazia, si rovescia nel principio minoritario, che è nell’essenza dell’autocrazia. Orbene, la tendenza delle democrazie, in assenza di antidoti, a produrre élites politiche (classi dirigenti) e la tendenza di queste a trasformarsi in oligarchie (caste) non è astratta teoria. È constatazione di fatti reali e diffusi, non difficile da farsi. Perfino il modello classico, la democrazia ateniese, sotto questo aspetto deve essere demitizzato; e in realtà lo fu, e ferocemente, da Aristofane, ad esempio descrivendo il contrasto tra i due demagoghi de I cavalieri (il salsicciaio e Paflagone) per il controllo di un demos piuttosto rimbecillito. Già all’epoca d’oro della democrazia del V secolo si trattò, pur in una piccola città (niente a che vedere con i grandi Stati del nostro tempo) di oligarchia, la cui testa era occupata da Pericle, il “principe della democrazia”, come si è detto con un ossimoro. E il popolo applaudiva poiché, a iniziare da Clistene, il primo riformatore democratico, i capi si curavano di «assicurarsi il suo favore» (prosetairízomai), cioè di trasformarlo in massa di clienti8. Si noti: in democrazia il “favore”, cioè la fiducia, è qualcosa che deve essere meritato e che lega i capi ai cittadini. Secondo ciò che si racconta della democrazia ateniese erano i capi a mettersi al sicuro, legando i cittadini a sé. In che modo? Lo spiega Aristotele, raccontando del contrasto tra Cimone e Pericle e

dei mezzi usati dall’uno e dall’altro per prevalere9. Cimone, che disponeva di un patrimonio principesco, «offriva splendidamente liturgie pubbliche e manteneva pure molta gente del suo demos. Chiunque volesse poteva recarsi a casa sua ogni giorno e prendere quel che gli occorreva. Inoltre, nessuna sua proprietà aveva recinzioni, sicché chi voleva poteva approfittare dei frutti». Pericle, che non poteva permettersi tutto questo, semplicemente svendette le cariche pubbliche, dando origine, dice Aristotele, all’immoralità dei magistrati e, dice Socrate, alla corruzione dei costumi10. Il favore fu acquistato, con il patrimonio privato (Cimone) e con quello pubblico (Pericle). In entrambi i casi si trattò, insomma, di corruzione in senso tecnico. In questo rapporto di democrazia rovesciata, cioè di potere che procede dall’alto, il popolo è semplicemente una massa di manovra da sedurre e utilizzare in una guerra tra oligarchi che si svolge senza regole, anzi talora contro le regole (come nel caso della vendita di cariche pubbliche), in luoghi e con mezzi che nulla hanno a che fare con la democrazia. Sui luoghi e sui mezzi della democrazia rovesciata è da fermare un poco l’attenzione. Democrazia e luoghi del potere I luoghi del potere, innanzitutto. I luoghi d’elezione dell’oligarchia sono quelli dove il potere si nasconde, per sua naturale tendenza. Il potere non ama la pubblicità, la luce del sole. «Il segreto sta nel nucleo più interno del potere» è un detto pregnante di Elias Canetti11 che può essere letto anche così: il potere sta nel nucleo più interno del segreto. I luoghi dove si svolgono le pratiche che più contano sono anche quelli meno esposti alla vista del pubblico. Gli arcana imperii non sono prerogativa soltanto degli Stati assolutistici, non sono solo l’espressione della ragion di Stato. C’è anche, per così dire, una “ragion di potere” che mira ad avvolgersi nel segreto e a proteggersi dagli sguardi indesiderati. Naturalmente, ciò vale rispetto all’esercizio del potere, non rispetto all’ostensione di sé dei potenti, del loro essere, della loro indole e loro stile di vita privata. L’esteriorità esibita dai potenti non è la pubblicità dei loro atti, e può convivere facilmente con la segretezza. Il “privato”, quando lo si ritenga opportuno e utile, può infatti essere messo in pubblico, e sempre più spesso lo è, anche artatamente e spudoratamente, senza che ciò incrini la segretezza del potere; anzi la rafforza, perché serve ad alimentare tra gli spettatori l’idea che alla resa dei conti si è tutti uguali, le aspirazioni e le difficoltà della vita ci

uniscono tutti, non c’è nulla da nascondere e, quindi, nulla che si possa pretendere che sia svelato. Il “potere invisibile” è invece uno dei grandi problemi e delle maggiori difficoltà della democrazia: il regime che non può fare a meno della “trasparenza del potere”. Come non ricordare, in proposito, la glasnost,“trasparenza” appunto, che della politica di democratizzazione dell’Unione Sovietica di Gorbaciov (1986) doveva essere uno dei capisaldi, anzi una pre-condizione? Norberto Bobbio ha scritto, su questo tema, pagine fondamentali12, ispirate alla formula trascendentale dell’autorità (cioè del diritto pubblico) di Kant: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è conciliabile con la pubblicità, sono ingiuste»13. Le azioni di cui si vuol celare la massima, cioè il motivo che le promuove, sono sottratte al controllo della ragione o dell’opinione pubblica, e perciò sono per definizione sospette: si ha il diritto di supporre che, se quella massima fosse conosciuta, forse l’azione non potrebbe decentemente essere compiuta. Il segreto protegge dagli scandali del potere. Si comprende che i cosiddetti poteri forti siano anche quelli meno visibili; ma in democrazia, al contrario, oportet ut scandala eveniant, cioè è necessario che li si possa portare in pubblico, affinché “facciano scandalo” e così impegnino la responsabilità dei governanti di fronte all’indignazione dei governati. Se poi il potere invisibile è anche un potere che, a sua volta, può vedere tutto di tutti, come è nella tendenza dei regimi totalitari – e come l’attuale sviluppo della tecnologia informatica permette in misura crescente – l’impunità, qualunque cosa si faccia, è garantita, e il rovesciamento antidemocratico del rapporto tra governanti e governati è completo. L’immagine più chiara è quella dell’orecchio di Dionisio, l’antro delle latomie che amplificava i discorsi, dove venivano rinchiusi i nemici di Gerone, tiranno di Siracusa, il quale, secondo la leggenda, tutto poteva vedere e udire rimanendo nascosto. L’Onnipotente, d’altra parte, non è forse colui che nessuno ha mai visto, e che a sua volta è onnisciente, onnipresente, onnivedente? Tutto si può dire, ma non certo che il rapporto tra Dio e le sue creature sia un rapporto democratico. La formula di Canetti, «il potere sta nel nucleo più interno del segreto», invita a fare un passo ulteriore: essa suggerisce l’idea di gradi successivi tra la visibilità totale, il potere alla luce del sole, e l’invisibilità totale, il potere che si svolge nelle tenebre. L’immagine delle quinte teatrali, del potere “dietro le quinte”, rende bene l’idea. L’ultima, quella più interna, protegge il

nucleo; man mano che si procede verso l’esterno, cioè verso il pubblico degli spettatori, la visibilità aumenta. Ma, con la visibilità, anche l’illusorietà: ciò che si vede, come sul palcoscenico del teatro, è una “rappresentazione”, ciò che si vuole che si veda, e non ciò che dovrebbe e potrebbe essere visto in assenza delle quinte. La democrazia, come hanno detto i suoi denigratori da Platone in poi, è una teatrocrazia: sulla scena si spacciano valori di cui dietro le quinte ci si fa beffe tranquillamente, e spesso volgarmente, come ci capita di constatare quando qualcuno parla, senza esserne al corrente,“a microfono aperto”. Le procedure della democrazia cadono allora in rituali. Il loro significato non è il controllo del potere, ma è la copertura del potere attraverso l’illusione. Il Parlamento, centro della vita democratica, diventa uno schermo che riflette immagini fasulle del potere effettivo che cerca di legittimarsi presentandosi a un pubblico di bocca buona, come il prodotto di libere discussioni dei rappresentanti del popolo; mentre, al contrario, è la più o meno efficiente longa manus di un potere oligarchico nascosto. E così, alla fine, quando non serve più nemmeno come schermo, dopo che lo si è umiliato e riempito di uomini e donne senza valore e capaci solo di assecondare, lo si può perfino sbeffeggiare come luogo di «ludi cartacei»14, di esercizi discutidores15, di fannulloni che fanno perdere tempo a chi vuole decidere con tempestività ed efficacia. La democrazia e i mezzi del potere I mezzi, ora. Dietro le quinte si giocano partite senza regole la cui posta è il governo delle società. Contano l’audacia, l’astuzia, talora l’inganno e il ricatto, la capacità delle combinazioni, le alleanze, le mediazioni. Tutto questo è forza, che non ha nulla a che vedere con il diritto che celebra i suoi riti nelle procedure visibili della democrazia. Ma di che sostanza è fatta questa forza? A seconda delle epoche, si intrecciano in equilibri variabili forze che fanno leva sulle aspirazioni primordiali degli esseri umani: paure e speranze, onore, benessere materiale. Il medium più potente, ciò che unifica tutto e di tutto è misura, oggi è indubitabilmente il denaro: pecunia regina mundi16, la ricchezza ottiene tutto, tutto può misurarsi in denaro, nulla sembra sottrarsi alla sua forza. Questa è l’ideologia del nostro tempo. Non c’è bisogno di spendere parole: con il

denaro si può comperare sicurezza, speranza, onore proprio e altrui e, naturalmente, benessere e perfino felicità. Il denaro muove il mondo, almeno il “nostro” mondo, come un tempo lo muovevano le fedi o le paure religiose, le ambizioni dinastiche, la gloria e la potenza delle nazioni, le missioni storiche di classi, etnie, popoli ecc. (quand’anche esse non fossero, a loro volta, mascheramento di interessi materiali). Su tutto ciò non c’è nemmeno bisogno di soffermarsi. Oggi la potenza del denaro si è resa perfino immateriale, incorporea, mistica, attraverso il capitale finanziario la cui forza spira dove vuole, attraverso lo spostamento di “quote” che crea ricchezze e causa miserie al di sopra di ogni confine, controllo e regole. La refrattarietà del denaro a sottoporsi a regole è tale che – ultima mossa della disperazione – sembra non restare altra risorsa che il patetico appello al senso etico dei finanzieri, cioè all’etica negli affari contro l’etica degli affari. Nella difficoltà di far valere il diritto, sembra non esserci di meglio che i “valori”! Dove il denaro è la misura di tutte le cose, tutto è potenzialmente in vendita al miglior offerente, compresa la politica, compresa la democrazia. L’esposizione della democrazia a questo genere di corruzione si vede con tanta maggior chiarezza se la si guarda, ancora una volta, dal punto di vista della sua natura oligarchica; e la si concepisce, secondo la celebre visione economica di Joseph A. Schumpeter17, riferita in origine alla società americana, come competizione tra élites per la conquista del mercato dei voti. Per chi ha patrimoni da investire, ovvero i magnati della finanza (siano essi persone fisiche o società di capitali), la democrazia può diventare un’impresa; un investimento, per i vantaggi d’ogni genere che ne potranno derivare, più fruttuoso di altri esclusivamente finanziari. E così la democrazia può essere “rovesciata” in oligarchia del denaro18, cioè plutocrazia o governo dei ricchi. Tutti i regimi democratici si preoccupano di evitare questo rischio; per esempio, prevedendo come reato il voto di scambio, il voto che si ottiene, approfittando della condizione di bisogno dell’elettore, promettendo favori19. Un tempo, forse, l’esito delle elezioni dipendeva da questo genere di corruzione, per così dire, spicciola. Oggi ci sarebbe da sorridere se si pensasse che questo sia il modo di condizionare gli esiti elettorali. In certe situazioni si fa ancora così, ma in generale l’influenza del denaro sulle opinioni e i comportamenti politici segue strade molto più sofisticate e diffusive, rispetto alle quali il codice penale ha poco o nulla da dire. Si tratta dei mezzi della comunicazione pubblica; mezzi molto sofisticati, sottoposti a

innovazione tecnologica continua che, soprattutto, richiedono investimenti ingenti che sono nelle possibilità solo di pochi. Chi vince le elezioni è, oggi, in tutto il mondo “avanzato”, solo chi dispone di questi mezzi e, con l’aiuto di specialisti della comunicazione politica, li sa meglio utilizzare. Che cosa pensare? Una vuota ideologia? Che cosa dobbiamo concludere? Che la democrazia, se mai è stata in qualche tempo e in qualche luogo possibile, non lo è nelle società del nostro tempo? Che l’oligarchia, cioè il dominio dei pochi sui molti, è la realtà alla quale non possiamo sfuggire? Che le forme della democrazia sono pure apparenze ingannevoli? Che la democrazia, per riprendere un’espressione famosa, fa promesse che non può mantenere20 ed è quindi un regime fedifrago? Siamo qui riuniti per sentirci dire questo? Che i neri, che per la prima volta in Sud Africa facevano la fila con emozione davanti ai seggi elettorali, di cui parla l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu21, fossero degli illusi, e che nulla sarebbe destinato a cambiare, come pensavano i bianchi che li guardavano ironicamente seduti nei loro caffè, da sempre a loro riservati? Che gli italiani che hanno combattuto il regime fascista e poi, a liberazione avvenuta, facevano disciplinatamente la fila per votare, ancora tra le macerie della guerra, non sapessero quel che facevano? Che i movimenti per la democrazia in tutto il mondo lavorino semplicemente per nuove forme di asservimento, per passare da un’oligarchia a un’altra? Come dobbiamo considerare il fatto che il linguaggio della democrazia è diventato il linguaggio universale delle relazioni politiche del nostro tempo, un puro e semplice fatto d’ipocrisia politica, un atto di deferenza a un simulacro senza contenuto? Di concetto idolatrico, Idolbegriffe, infatti, ha parlato Küchenhoff22. Un realista scettico potrebbe perfino dire così, che la portata universale assunta dalla parola “democrazia” ha come presupposto proprio la sua insignificanza. La democrazia sarebbe un autoinganno, addirittura di dimensione mondiale23, una vuota parola d’ordine che i popoli hanno inventato per darsi rassicurazioni una volta distrutte le altre legittimazioni del potere. In una parola, la democrazia come ideologia. Perché la democrazia, malgrado tutto, ha potuto diventare l’unica parola legittima della politica? La risposta si trova nella storia della cultura e delle ideologie politiche e, in particolare, nella fine della credenza nei principi

trascendenti e nelle autorità che a questi si richiamano, nel governo delle umane società. In Europa, innanzitutto, si è trattato della vicenda che, a partire dalle lotte rinascimentali contro il potere della Chiesa nel governo civile, sotto il nome di secolarizzazione, ha portato al rovesciamento del principio di legittimità del governo civile dalla sovranità divina in temporalibus alla sovranità popolare. Quest’ultima si è accompagnata, come all’altra faccia della medaglia, al principio di uguaglianza; che, a sua volta, ha sconfitto l’antica visione gerarchica della società, da sempre associata invece all’idea del potere che procede dall’alto. Orbene, sovranità popolare e uguaglianza tra gli esseri umani sono gli ideali politici della democrazia. Per quanto il secolarismo sia contestato e si stia facendo avanti un ambiguo “post-secolarismo”, cioè una rinascente teologia politica che tende alla restaurazione del divino nella politica di quaggiù, il mondo attuale, a quanto sembra, non è pronto ad accettare “ideologicamente” un ribaltamento come questo, che metterebbe in crisi la democrazia come unico regime legittimo. Fino a quando quei principi (sovranità popolare e uguaglianza degli esseri umani, cioè i due sommi principi delle rivoluzioni della fine del XVIII secolo) resteranno fermi, e fino a quando quelli opposti (trascendenza del potere e gerarchia sociale) non avranno di nuovo, in qualche non impossibile reincarnazione, guadagnato spazio nella coscienza sociale, c’è da credere che la democrazia resterà la parola d’ordine di ogni teoria politica e di ogni uomo politico rispettabile, ad onta di tutte le diverse realtà che essa è capace di accogliere e, qualche volta, occultare o mistificare. Ma davvero dobbiamo pensare che stiamo parlando solo di illusioni? Non può essere necessariamente così, non deve essere necessariamente così. E, in effetti, non è così. Un regime di possibilità Quanto precede ci rende consapevoli della posta in gioco. In poche parole, si può dire così: l’oligarchia è il regime del potere monopolizzato, mentre la democrazia è il regime del potere diffuso tra tutti o, almeno, tra il maggior numero possibile. Il fatto che il potere diffuso tra tutti o tra i grandi numeri sia un ideale, non realizzabile se non in momenti eccezionali e destinato a generare dal suo seno sempre nuove oligarchie, come la storia insegna, mostra innanzitutto una cosa: che la democrazia è un sistema di governo perennemente in crisi. Sul tema “crisi della democrazia”, in Italia e

in altri paesi, in ogni momento della loro storia democratica, sarebbe non difficile ma impossibile fornire una bibliografia completa. L’essere in crisi è la sua condizione naturale. Se oggi ci interroghiamo in proposito, come se fosse una novità, è solo a causa di memoria corta. Soprattutto, quell’ideale sempre insidiato non significa che la democrazia sia un falso scopo, come credono coloro che, ragionando sulla “natura del potere”24, sostengono che l’oligarchia, in una forma o in un’altra, è il destino di ogni tempo e di ogni popolo, e tanto vale rassegnarsi e abituarvisi. Essi, così facendo, alla democrazia come ideologia, cioè come apparato di idee ingannatrici, finiscono per contrapporre un’altra ideologia, un’ideologia antidemocratica molto diffusa che accomuna reazionari e rivoluzionari. Sull’ostilità alla democrazia vi è una naturale concordanza, una coincidentia oppositorum, anche se poi le speranze ch’essi ripongono nelle “loro” oligarchie divergono. Una concezione realistica della democrazia come regime dell’inclusione politica ci dice invece che, ammessa l’illusorietà della sconfitta definitiva delle oligarchie in un regime politico che non debba più fare i conti con esse, non è affatto insensato operare per ridurne il peso e la presa, cioè per combatterle e, con ciò stesso, diffondere la democrazia. In breve, la democrazia non è un regime consolidato, assestato, sicuro di sé. Dove c’è consolidamento, assestamento, sicurezza del sistema di potere, lì in realtà c’è oligarchia; anche se, eventualmente, sotto mentite spoglie democratiche. Democrazia è invece conflitto perenne per la democrazia e contro le oligarchie sempre rinascenti nel suo interno. L’ideale democratico pienamente realizzato e dispiegato à la Rousseau, secondo la citazione riportata all’inizio di questo scritto, è irrealizzabile; ma l’aspirazione ad avvicinarvisi o a non allontanarvisi più di quanto già si sia lontani, cioè a difenderla, è tutt’altro che insensato. La democrazia è il regime in cui esistono le condizioni della democrazia. È un regime della possibilità, non della rassicurazione. Se poi si considera che la sua aspirazione è l’inclusione nella vita politica attiva, si comprende che l’ideale democratico dovrebbe essere l’ideale degli esclusi. La salvezza, in ultima istanza, viene dagli esclusi. Quali siano le condizioni di possibilità della democrazia è ben noto: sono condizioni procedurali e condizioni sostanziali che si traducono in diritti di partecipazione e in diritti che condizionano, rendendola possibile ed efficace, la partecipazione politica. Se il diritto di voto non è riconosciuto a tutti, non

c’è democrazia. Ma che cosa vale il diritto di voto senza la libertà di opinione politica, il diritto di fondare movimenti e partiti politici, il diritto di conoscere senza inganni la realtà delle questioni sulle quali si vota, il diritto di sapere chi sono coloro per i quali si vota, e quali sono gli interessi effettivi che li muovono nella sfera politica, dietro quelli sbandierati pubblicamente? Che cosa vale il diritto di partecipare alla vita pubblica se non è garantito il diritto a condizioni di giustizia che consentano a tutti di disporre di tempo ed energie per dedicarsi, oltre che alle loro esigenze primarie di esistenza, alle questioni comuni? Che cosa vale la democrazia se i cittadini non sono nelle condizioni di istruzione e cultura per comprendere la natura dei problemi su cui si esprimono e i contenuti delle proposte sottoposte al loro giudizio? Che cosa vale la loro partecipazione se coloro ai quali essi conferiscono il potere di governo sono in condizione di distorcerlo a fini personali, se non anche criminali? Che cosa è la democrazia senza controlli, senza indipendenza della magistratura e senza libertà di stampa, di critica, di satira politica? Sono solo alcune delle domande (retoriche) che possono farsi sulle condizioni che permettono alla democrazia di essere qualcosa di serio, qualcosa per cui vale la pena di impegnarsi, di dare qualcosa di se stessi e della propria esistenza. Sono solo alcune domande, ma sufficienti a comprendere che la democrazia non è una formuletta astratta di organizzazione politica, bensì una concezione impegnativa della vita in comune. Possibilità ed effettività della democrazia La democrazia è un insieme di diritti, dunque. Ma non basta. I diritti sono soltanto possibilità. Si possono fondare partiti e movimenti politici; ma se nessuno lo fa? Si può partecipare alla discussione dei problemi comuni; ma se nessuno crea le occasioni per discutere, e se i discorsi non sono discussioni ma monologhi? Si può votare; ma se non si va a votare? Si possono pubblicare e leggere giornali; ma se nessuno li pubblica, o nessuno li legge? Si può fare informazione politica senza censure; ma se ci si autocensura per piaggeria verso i potenti? In breve, la democrazia è una cornice di possibilità; ma, come in ogni altra forma di governo, la cornice deve essere riempita di un ethos conforme. La Ciropedia di Senofonte era l’etica per il re di Persia; il Principe di Machiavelli, l’etica del despota rinascimentale; la Politica estratta dalle

proprie parole della Sacra Scrittura di Jacques Bénigne Bossuet, l’etica del sovrano delle monarchie assolute. Invece, per la democrazia, sembra che non esista un problema analogo; che i cittadini, una volta diventati tali, da schiavi e sudditi che erano un tempo, siano per natura portati ad essere buoni sovrani di se stessi. Non è affatto così, come sappiamo dalla storia delle democrazie che si sono suicidate democraticamente, cioè attraverso le proprie stesse mani. I classici insegnano che non bastano buone cornici politiche, cioè buone costituzioni, ma che occorrono anche uomini buoni che, dentro la cornice, agiscano secondo lo spirito del quadro, secondo il suo ethos. La migliore delle costituzioni nulla può se gli uomini che la mettono in pratica sono corrotti o si corrompono o, comunque, non ne sono all’altezza. La dottrina dei cicli costituzionali25, che accompagna fin dai primordi, come una maledizione, la riflessione sulle forme di reggimento politico, il loro sorgere, il loro decadere e il loro morire, è fondata sulla capacità corruttiva degli uomini circa le istituzioni e quindi, in definitiva, sulla preminente importanza dei primi sulle seconde. In altro luogo ho cercato di esporre per esteso, a partire dal senso comune, una specie di decalogo dell’etica democratica26: l’adesione a principi e valori contro il nichilismo; la cura della personalità individuale contro le mode, l’omologazione, il conformismo e la massificazione; lo spirito del dialogo contro la tentazione della sopraffazione; il senso dell’uguaglianza e il fastidio per il privilegio; la curiosità e l’apertura verso la diversità contro la fossilizzazione e la banalità e contro la tendenza a guardare ogni cosa da una sola parte, la nostra; la diffidenza verso le decisioni irrimediabili che non consentono un successivo ripensamento; l’atteggiamento sperimentale contro le astrazioni dogmatiche; il senso dell’essere maggioranza e minoranza, dei compiti e delle responsabilità corrispettivi; l’atteggiamento di fiducia reciproca, che rifiuta di vedere in ogni cosa complotti e in ogni avversario un capro espiatorio; infine, la cura delle parole. Ciascuno di questi punti meriterebbe una trattazione particolare. Relativamente alla questione sviluppata in queste riflessioni – la corruzione della democrazia in oligarchia – il primo e l’ultimo meritano un’attenzione particolare. Valori della democrazia

La democrazia è un modo di stare insieme. Ma si può stare insieme al solo fine di stare insieme? Può lo stare insieme essere al tempo stesso mezzo e fine? Se fosse così, non sarebbe la democrazia un puro non senso? In verità, si sta insieme in quanto esiste uno scopo comune. Scopo e senso coincidono. La democrazia, del resto, è per l’appunto quella forma di convivenza che si spiega e giustifica in quanto essa dà ai cittadini il diritto di agire per perseguire fini politici, che è un altro modo di esprimere il senso dello stare insieme. Per questo la caduta delle idee generali, delle aspirazioni collettive, dei programmi politici – in una parola la diffusione dell’apatia – tutto ciò, è nemico della democrazia. Prima o poi essa sembrerà un peso, una complicazione. Caduta la tensione ideale, che cosa resterà? Resterà, questo sì, l’aspirazione all’autoaffermazione, cioè la lotta per il puro potere. Ma la lotta per il potere non sa che farsene della democrazia. La conquista del potere per il potere fa a meno della filosofia, delle idee generali, delle buone intenzioni, dei programmi; le idee vengono dopo, come copertura di un potere acquisito. I fatti, l’azione, il movimento, il coraggio, lo sprezzo delle concezioni del mondo vengono prima di ogni giustificazione. All’inizio, pragmaticamente, c’è qualcosa per tutti; a condizione che, almeno, si sia condiscendenti al nuovo che avanza. Il potere nascente, secondo una prassi ormai troppo nota per non essere smascherata, ama presentarsi come né di destra né di sinistra; oppure simultaneamente di destra e di sinistra, onnicomprensivo, cioè inevitabilmente vuoto. «Ho orrore dei dogmi. Non potrebbe esservi un dogma nel Partito fascista»: parole di Mussolini al momento della conquista del potere, prima delle dottrine dello Stato etico27. Nelle fasi iniziali, la contraddizione è forza. La possibilità di affermare oggi quel che si era negato ieri e si negherà domani è la liberazione dagli impacci. Solo dopo l’ideologia di Stato, con i suoi sacerdoti e custodi, sarà il cemento spirituale del potere conquistato e costituito. La democrazia è libero confronto di idee e programmi. I suoi nemici sono, da un lato, il nichilismo del puro potere e, dall’altro, l’assolutismo della verità dogmatica. Il nostro tempo della democrazia è in bilico tra questi opposti pericoli, l’opportunismo e l’ideologia; oggi più l’opportunismo, domani forse più l’ideologia. Ad onta delle confusioni concettuali, occorre dire che la democrazia, come forma d’insieme, è relativista28. Si fa confusione quando si sottopone il relativismo a una caccia alle streghe, come se equivalesse a un’indifferenza

etica, a “una cosa vale l’altra”, ad apatia morale: ciò cui meglio si addicono le parole “indifferentismo” o “nichilismo”. Il relativismo della democrazia consiste nel rifiuto, da parte delle istituzioni, di abbracciare a priori una qualunque ideologia, una qualunque idea di verità assoluta; proprio perché solo in tal modo si consente il libero pensiero e lo sviluppo delle concezioni della vita buona che nascono dalla società, a cui cioè si consente di non essere nichilista. È il contrario, dunque, di ciò che dicono i suoi critici. Così inteso, il relativismo non è affatto la corruzione della democrazia, ma la sua linfa vitale29. Naturalmente, l’affermazione del carattere relativista della democrazia incontra un limite in una sorta di principio di non contraddizione: essa non può essere relativista rispetto alle sue stesse premesse, ai principi su cui si basa. Qui deve valere l’assolutismo e la difesa intransigente dai pericoli che le vengono dai suoi nemici, coloro che si richiamano all’antidemocrazia. Anzi, una volta che la democrazia sia concepita non come pura procedura ma come sostanza di valori politici (l’uguaglianza e la giustizia sociale, la libertà, la solidarietà e l’inclusione sociale, la tolleranza ecc.) può diventare un fine di se stessa. Anzi, deve diventarlo, perché diversamente si trasformerebbe in un mezzo come un altro per la conquista del potere e per l’abolizione della democrazia; un mezzo, in certe condizioni storiche, addirittura più invitante, perché meno violento di altri. Le parole della democrazia Ogni forma di governo usa gli argomenti adeguati ai propri fini. Il dispotismo, ad esempio, usa la paura e il bastone per far valere il comando dell’autocrate30. La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco. Lo strumento di questa circolazione sono le parole. Si comprende come, in nessun altro sistema di reggimento delle società, le parole siano tanto importanti quanto lo sono in democrazia; e quindi che la parola, per ogni spirito democratico, richieda una cura particolare: cura particolare in un duplice senso, quantitativo e qualitativo. Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter

pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana31 e la sua cura della parola, l’esigenza di impadronirsi della lingua? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario; se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà all’argomento, al logos migliore, ma al più abile parolaio, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza, per così dire, nella distribuzione delle parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno»32. Ecco anche perché una scuola ugualitaria è condizione necessaria, indispensabile, della democrazia. Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il confronto delle posizioni sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole; no al profluvio che logora e confonde. Esemplare è la prosa di Primo Levi. Uno dei pericoli maggiori delle parole per la democrazia è il linguaggio ipnotico che seduce le folle, ne scatena la violenza e le muove verso obiettivi che apparirebbero facilmente irrazionali, se solo i demagoghi non li avvolgessero in parole grondanti di retorica. Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere; altrimenti il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi»33, il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell; la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza34. E significa affermare la sovranità della cosa detta sulla sovranità della parola, separata dalla sua verità e trasformata così in mezzo onnipotente di sottrazione al discorso del suo contenuto di verità. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue maledizioni (Isaia 5, 20), ammoniva: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce

in amaro». I luoghi del potere sono per l’appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a cominciare proprio dalla parola “politica”. Politica viene da pòlis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. È l’arte, la scienza o l’attività dedicata alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli Stati, di politica coloniale ecc. «Questa è un’epoca politica» si è detto, «la guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare»35. Il detto di Clausewitz «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»36 (che colloca, sì, la guerra in un contesto politico, ma la qualifica espressamente come mezzo diverso da quelli politici) è diventato un lasciapassare per un radicale tradimento del concetto: la celebre definizione di Karl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amiconemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse37 è forse l’esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, semmai, la definizione essenziale non del politico ma, propriamente, del bellico, cioè del suo contrario. Ancora: la libertà, che ai giorni nostri assume il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro pre-potenza e i loro privilegi. La giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d’ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione. E ancora: legge di mercato per sfruttamento; economia sommersa per lavoro nero; guerra preventiva per aggressione; pacificazione per guerra; governare per depredare; deserto per pace38. Quanto alla parola “democrazia”, già abbiamo constatato i rovesciamenti di significato quando la si definisce come governo del, per o attraverso il popolo. Questi esempi mostrano la regola generale da cui proviene tale perversione delle parole della politica: il passaggio da un campo all’altro, il passaggio dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono e viceversa. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai? degli inermi o dei potenti? La verità dei fatti

Affinché sia preservata l’integrità del ragionare e la possibilità di intendersi onestamente, le parole devono, oltre che rispettare il concetto, rispettare la verità dei fatti. I regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc sono dittature ideologiche. Sono l’estrema violenza nei confronti degli esclusi dal potere che, almeno, potrebbero invocare i fatti, se anche questi non venissero loro sottratti. Non c’è manifestazione d’arbitrio maggiore che la storia scritta e riscritta dal potere. La storia la scrivono i vincitori, è vero, ma la democrazia vuole che non ci siano vincitori e vinti, e che quindi la storia sia scritta fuori dalle stanze del potere, e non in quello che ancora Orwell definiva il Ministero della Verità39. Sono regimi corruttori delle coscienze “fino al midollo” quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell’ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la «realtà non è più la somma totale di fatti duri e inevitabili, bensì un agglomerato di eventi e parole in costante mutamento, nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso» secondo l’interesse al momento prevalente40. Per questo la menzogna intenzionale, cioè la frode – strumento che vediamo ordinariamente presente nella vita pubblica –, dovrebbe essere considerata il peggior crimine contro la democrazia, peggiore anche dell’altro mezzo del dispotismo, la violenza, che almeno è manifesta. I mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e forse anche simpaticamente spregiudicati uomini politici, ma come corruttori della politica. Democrazia e filologia La cura delle parole in tutti i suoi aspetti è ciò che Socrate definisce filologia. Vi sono persone, i misologi, che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c’è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante»41. In questo sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro c’è un grande pericolo, che ci espone ad ogni genere di inganno. Le nostre parole e le cose non devono “andare su e giù”. Occorre un terreno comune oggettivo su cui le nostre idee, per quanto diverse siano, possano poggiare per potersi confrontare. Ogni affermazione di dati di fatto

deve essere verificabile e ogni parola deve essere intesa nello stesso significato da chi la pronuncia e da chi l’ascolta. Chi mente sui fatti dovrebbe essere escluso dalla discussione. Solo così può non prendersi in odio il ragionare e può esercitarsi la virtù di chi ama la discussione. Una volta stabilito il terreno comune, allora non bisogna intestardirsi, né lasciar correre, ma confrontare le posizioni con l’atteggiamento spirituale che ancora Socrate ci indica quando dice che chi ama il dialogo si rallegra di essere scoperto in errore, cioè di avere constatato che la sua visione iniziale delle cose era unilaterale, dunque difettosa. È stato detto con ragione che «nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così com’è “realmente”, si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato»42. Il che è tanto più vero in quanto complessa è la realtà delle odierne società e complicata la sfida che ne viene alla democrazia. Se invece di fronte a posizioni diverse dalle nostre di solito reagiamo malamente, e consideriamo una sconfitta, addirittura un’umiliazione, l’essere colti in fallo, se quella virtù non è dunque affatto in onore, è perché ci lasciamo dominare da orgoglio, vanità, protervia, partito preso: tutte cose che hanno nulla a che fare con l’etica della democrazia. Se non possiamo ricordare un solo caso di uomo politico che abbia pubblicamente riconosciuto le buone ragioni del proprio interlocutore e ammesso il suo errore o torto, allora dobbiamo tristemente prendere atto della distanza che separa la concezione della politica di chi ci governa dalla democrazia. Conclusioni Mi pare di avere argomentato a sufficienza la tesi che la democrazia non è soltanto un abito esteriore di regole, ma è anche un atteggiamento interiore che dà corpo alle istituzioni; che non c’è democrazia senza un ethos conforme e diffuso; che lo scheletro, fatto di regole, è importante ma non sufficiente; che la più democratica delle costituzioni è destinata a morire, se non è

animata dall’energia che è compito dei cittadini trasmetterle. L’articolo 1 della Costituzione definisce l’Italia una repubblica democratica. È una norma dal doppio volto: per una parte, è una descrizione della forma politica, delle istituzioni democratiche; per l’altra parte, è una norma programmatica che invita all’azione per la democrazia. Istituzioni e azione sono ugualmente indispensabili. Due sono i modi di prosciugare la democrazia: chiuderne le condotte e spegnerne il desiderio. Rendersi conto di questa implicazione che ci riguarda tutti e mettere in gioco le nostre responsabilità è lo scopo e il presupposto di ogni discorso sulla e per la democrazia. 1

Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social ou principes du droit politique (1762), Il contratto sociale, Einaudi, Torino 1994. 2 Karl Popper, The Open Society and Its Enemies (1945), La società aperta e i suoi nemici, vol. II, Armando Editore, Roma 2004, pp. 210 ss. 3 Umberto Benigni, voce Christian Democracy, in Catholic Encyclopedia, Appleton, New York 1908. 4 Con il termine “shibboleth” si indica una parola o un’espressione impiegata come segno distintivo di una certa comunità linguistica per la sua difficoltà di pronuncia da parte degli stranieri. 5 Nella concezione moderna la democrazia è il governo “di tutti”, cioè del popolo tutto. Nella concezione antica la democrazia era il governo del demos, da intendersi il “popolo minuto”, o anche dei poveri, contrapposto all’oligarchia (o aristocrazia) come governo dei ricchi; era cioè il governo dei molti, o dei più, in quanto, di fatto e per lo più, i poveri sono più numerosi dei ricchi. Ma la democrazia non si sarebbe trasformata in oligarchia se, per ipotesi, vi fossero stati più ricchi che poveri. Aristotele in Politica, 1279b, dice così: «La ragione sembra dimostrare che l’essere pochi o molti sovrani nella pòlis è un elemento accidentale, l’uno delle oligarchie, l’altro delle democrazie, dovuto al fatto che i ricchi sono pochi e i poveri sono molti dovunque […] mentre ciò per cui realmente differiscono tra loro la democrazia e l’oligarchia sono la povertà e la ricchezza: di necessità, quindi, dove i capi hanno il potere in forza della ricchezza, siano essi pochi o molti, ivi si ha oligarchia; dove invece lo hanno i poveri, la democrazia: e tuttavia capita, come abbiamo detto, che quelli siano pochi, e questi molti». 6 Joseph de Maistre, Etude sur la souveraineté (1794), in Oeuvres complètes de Joseph de Maistre, tomo I, Vitte, Paris 1924, p. 495. 7 Robert Michels, Zur Soziologie des Parteiwesens in der Modernen Demokratie (1911), Sociologia del pensiero politico nella democrazia moderna, il Mulino, Bologna 1956. 8 Erodoto, Storie, V, 66. 9 Aristotele, La costituzione degli Ateniesi, XXVII, 3-5. 10 Platone, Gorgia 515e: «Io sento dire che Pericle li rese infingardi [gli Atenie si], vili, chiacchieroni e avidi di danaro, dacché egli per il primo li abituò a riscotere una paga da’ fondi pubblici». Il discorso di Socrate si volge poi in evidente ironia: «Quest’altro però non lo sento dire, ma lo so di sicuro io […]: che da principio Pericle era l’idolo di tutti; e gli Ateniesi, mentre erano peggiori, non lo colpirono di nessuna condanna infamante; ma poiché, grazie a lui, divennero ottimi, sulla fine della sua vita lo condannarono per peculato, e mancò poco non proponessero per lui la pena di morte, considerandolo evidentemente un malvagio». 11 Elias Canetti, Masse und Nachte (1960), Massa e potere, in Opere 1932-1973, Bompiani, Milano 1990, p. 1331.

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Norberto Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, pp. 74 ss.; nonché Id., in Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore Veca, Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 27 ss. 13 Immanuel Kant, Zum Ewigen Frieden (1795), Per la pace perpetua, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, II ed., UTET, Torino 1965, p. 330. 14 «Ludi cartacei» fu l’espressione usata da Benito Mussolini (in un’assemblea pre-elettorale tenutasi al Teatro dell’Opera di Roma nel 1929) per definire le procedure elettorali applicate nelle democrazie rappresentative. Il riferimento in particolare era alle elezioni del 1924, in occasione delle quali, pur uscendone sconfitto, il fronte dell’opposizione mantenne alcuni seggi in Parlamento. 15 Juan Donoso Cortés, Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo (1850), Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, Rusconi, Milano 1972. Donoso Cortés disprezza la democrazia parlamentare come espressione liberale della clasa discutidora. 16 Petronio, Satyricon, 14. 17 Joseph Alois Schumpeter, Kapitalismus, Sozialismus und Demokratie (1942), Capitalismo, socialismo e democrazia, ETAS, Milano 2001. 18 Questa è la tesi, argomentata in un libro dalla non sorprendente fortuna di Sheldon S. Wolin (non un rivoluzionario, ma un professore emerito dell’università di Princeton, che si ispira al pensiero di Tocqueville), dal titolo Democracy Incorpored. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2008. In Italia gli studi sull’influenza e sul rapporto denaro-democrazia sono pressoché inesistenti, se si escludono quelli di Ernesto Rossi, I padroni del vapore, Laterza, Roma-Bari 1955, ed Eugenio Scalfari, Razza padrona, Feltrinelli, Milano 1974. Ancora sugli Stati Uniti, si veda Kevin Phillips, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano, Garzanti, Milano 2005. 19 È il caso di colui che «per ottenere a proprio o altrui vantaggio il voto elettorale o l’astensione, offre, promette o somministra denaro, valori o altra utilità o promette, concede, o fa conseguire impieghi pubblici o privati a uno o più elettori, o, per accordo con essi, ad altre persone, anche se l’offerta venga sotto qualsiasi pretesto dissimulata» (art. 96 t.u. 30 marzo 1957, n. 361 sull’elezione della Camera dei Deputati). 20 Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, cit., p. 8. 21 Desmon Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 1999. 22 Helmut Küchenhoff, Möglichkeiten und Grenzen begrifflichen Klahrheit in der Staatsformenlehre, Duncker und Humblot, Berlin 1967, p. 654. 23 La forza d’espansione della democrazia è talora espressa in “ondate”: Samuel P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione del XX secolo, il Mulino, Bologna 1991. Si tratterebbe di ciò: una prima “ondata” ha portato le costituzioni americane e francesi della fine del Settecento; una seconda, le costituzioni del secondo dopoguerra del XX secolo; una terza, le costituzioni seguite alla caduta postuma dei regimi fascisti sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale, a iniziare da quella portoghese del 1974. Ma ora si dovrebbe parlare di quarte e quinte ondate, con riferimento alle vicende dell’Est europeo, di paesi che si sono dati o a cui sono state imposte costituzioni vere, o sedicenti democratiche, in Africa e in Asia. 24 Il riferimento più immediato è allo scritto recente di Luciano Canfora che porta questo titolo (La natura del potere, Laterza, Roma-Bari 2009). 25 Ad esempio Platone, Repubblica, VIII-IX; Polibio, Storie, VI, 4; Cicerone, Repubblica, XLIIXLIII. 26 Gustavo Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007.

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Denis Mack Smith, Mussolini, Rizzoli, Milano 1981, pp. 178 ss.; Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1965, pp. 3 ss. 28 Hans Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie (1929), La democrazia, il Mulino, Bologna 1981, pp. 143 ss., 264 ss. e 452 ss. 29 Sull’uso ideologico della parola “relativismo” come arma contro la libertà di pensiero, riflessioni piane e chiarificatrici si trovano in Arrigo Levi, Un paese non basta, il Mulino, Bologna 2009, pp. 176181. 30 Montesquieu, Esprit des lois, 1748, libro VIII, capitolo XXI. 31 Barbiana è un piccolo paese di montagna compreso nel comune di Vicchio, nel Mugello. Grazie all’iniziativa di Don Lorenzo Milani, negli anni Cinquanta e Sessanta vi ebbe luogo il primo tentativo di scuola a tempo pieno della storia italiana, nonché un celebre atto di critica nei confronti dei sistemi educativi tradizionali, accusati di favorire le classi più abbienti, sfociato nella celebre opera citata più avanti nel testo. 32 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967, p. 96. 33 Platone, Fedone, LXIV e LII. 34 George Orwell, Nineteen Eigthy-Four (1949), 1984, in Romanzi, vol. II, Mondadori, Milano 1994, pp. 1087 ss. 35 George Orwell, Writers and Leviathan (1948), in England Your England, London, Secker & Warburg, 1954, p. 17. 36 Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano, Einaudi, Torino 1999, p. 3. 37 In proposito, Robert Sternberger, La parola politica e il concetto di politica, in Id., Immagini enigmatiche dell’uomo, il Mulino, Bologna 1991, pp. 151 ss. 38 Questi ultimi spunti in Ivano Dionigi, Cittadini della parola, in Daniele Del Giudice, Umberto Eco, Gianfranco Ravasi, Nel segno della parola, Rizzoli, Milano 2005. Le due ultime trasformazioni delle parole sono una citazione del celeberrimo «il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano imperium, e dove fanno il deserto lo chiamano pace» di Tacito (Agricola 30,4). 39 In 1984 lo Stato immaginario di Oceania descritto da Orwell è governato da quattro ministeri. Il Ministero della Verità si occupa della propaganda e dell’informazione, e la facciata della sua sede (dichiaratamente ispirata alla Senate House della University of London) riporta i tre slogan del Socing, il Partito Socialista Inglese:«La guerra è pace», «La libertà è schiavitù» e «L’ignoranza è forza». 40 Così Hannah Arendt, The Aftermath of Nazi-Rule. Report from Germany (1950), Ritorno in Germania, Donzelli, Roma 1996, p. 30, nel descrivere la situazione morale di un popolo asservito e assuefatto alla propaganda menzognera. 41 Platone, Fedone, LXXXIXa. 42 Hannah Arendt, Was ist Politik? Aus dem Nachlass (1993), Che cos’è la politica?, Einaudi, Torino 2006, p. 40. Nelle sue parole risuona la considerazione del Corifeo nell’Antigone di Sofocle, in cui è racchiusa una chiave interpretativa dell’intera tragedia: «questo prodigio del destino considero da ogni lato» (es daimónion téras amphinoò tóde, v. 376-7), dove si esprime l’esigenza di apertura alla comprensione sia della complessità delle cose umane, sia della parte di verità che ciascuna delle ragioni unilaterali può contenere in sé.

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Frontespizio Il Libro Lezione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano L’esercizio della democrazia. Lezione del Presidente di Biennale Democrazia Gustavo Zagrebelsky Concetto e concezioni Un concetto non sperimentato né sperimentabile La «ferrea legge dell’oligarchia» Democrazia e luoghi del potere La democrazia e i mezzi del potere Che cosa pensare? Una vuota ideologia? Un regime di possibilità Possibilità ed effettività della democrazia Valori della democrazia Le parole della democrazia La verità dei fatti Democrazia e filologia Conclusioni

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