L'esercito dell'imperatore. Storia dei crimini di guerra giapponesi (1937-1945) 9788871808079

È durata otto anni – dal 1937 al 1945 – la guerra scatenata dal Giappone in Asia orientale e nel Pacifico, ma ancora ogg

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L'esercito dell'imperatore. Storia dei crimini di guerra giapponesi (1937-1945)
 9788871808079

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Opera pubblicata con il contributo del Ministero francese della Cultura- Centro na­ zionale del libro. Ouvrage publié avec l'aide du Ministère français chargé de la Culture- Centre na­ tional du livre. Titolo originale: L'armée de l'Empereur Traduzione dal francese di Gianluca Perrini Copertina di Dada Effe - Torino

© 2007 Arrnand Colin, Paris © 2009 Lindau s.r.l.

corso Re Umberto 37- 10128 Torino

Prima edizione: maggio 2009

ISBN 978-88-7180-807-9

J ean-Louis Margolin

L'ESERCITO DELL'IMPERATORE Storia dei crimini di guerra giapponesi 1937-1945

A

mia madre, Andrée Margolin, che mi ha insegnato a essere uno spirito indipendente.

[ ] Qui e là, in ogni buco nero Vedo tutti quegli occhi morti che si aprono: Sono le anime delle vittime che guardano, Anime erranti, esuli; Sono rannicchiate qui, in un angolo E tacciono spaventate. Qui le colse la lama dell'ascia[ . . ]. Ed eccole, tremanti colombe destinate all'ecatombe, Raggomitolate le une sulle altre sotto il tetto, Che ti guardano a lungo con i loro occhi muti, Senza voce, che da te non esigono né richiedono nulla, Limitandosi a pronunciare in silenzio l'antica domanda Che non è mai giunta in cielo, Né potrà mai giungervi: «Perché?». E ancora: «Perché?». Chayyirn Nachman Bialik, La città del massacro* . . .

.

*Da : Anthologie de la poésie yiddish: le miroir d'un peuple, a cura di Charles Dobzynski, NRF-Poésie Gallimard, Par ìs 2000, p. 72. B ìal ìk (1873-1934) scrisse questa poesia in seguito al pogrom d ì Ch ì�ìn au.

Prefazione

Yves Ternon

L'8 agosto 1945, due giorni dopo l'esplosione della bomba di Hiroshima, le potenze alleate firmavano l'accordo di Londra che stabiliva lo status del Tribunale militare internazionale incaricato di giudicare i principali criminali di guerra nazisti. Per un anno, questa istituzione risiedette a Norimberga e scrisse la storia dei crimini del nazismo, aprendo nel contempo la strada alla crea­ zione di un diritto penale internazionale. Poco dopo, per due an­ ni, un tribunale di Tokyo espose i misfatti dell'esercito giappone­ se. Gli storici europei prestarono poca attenzione a quel processo, che pure offriva una visione complementare delle violenze avve­ nute durante la guerra. Essi erano maggiormente interessati a ca­ pire che cosa fosse stato il nazionalsocialismo: non riuscivano però a trovare un modello cui fare riferimento. Il fascismo italia­ no e il comunismo sovietico non potevano reggere il paragone con il totalitarismo tedesco. Certamente, il controllo capillare del­ lo Stato su tutte le strutture della società apre la strada a qualun­ que eccesso. Ma è proprio nell'eccesso che gli Stati criminali si di­ stinguono gli uni dagli altri; occorre quindi dare un nome a quei crimini: crimini di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio. Perché tanti Stati hanno compiuto omicidi di massa senza spin­ gersi fino all'estremo rappresentato dal genocidio? A questa do­ manda si può rispondere soltanto esaminando l'origine, la natu­ ra e l'estensione delle violenze perpetrate da uno Stato bellige­ rante, perché è proprio in guerra che cadono le ultime barriere , morali; quando ai soldati viene permesso o ordinato di uccidere;

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si scatena una violenza che si autoalimenta e si radicalizza man mano che il conflitto evolve. La violenza di guerra giapponese (1937-1945) è senz'altro singolare, ma non al punto da essere uni­ ca, e rappresenta in questo senso un caso da manuale. Essa è con­ sistita in crimini diffusi, senza essere incentrata - come nel caso del nazismo - su un evento unico, la Shoah. Soltanto uno storico a conoscenza della storia del Giappone e al tempo stesso in gra­ do di analizzare il fenomeno della violenza di massa - un tema, questo, su cui si è cominciato a riflettere approfonditamente da appena vent'anni - poteva intraprendere un simile studio. Aven­ do a lungo coltivato questo campo delle scienze umane, Jean­ Louis Margolin contribuisce in modo essenziale, con il presente volume, alla storia degli Stati criminali del XX secolo. Il suo libro permette di evitare la riduzione dei crimini giap­ ponesi a pochi luoghi comuni, come il massacro di Nanchino (analizzato dall'autore con il rigore e l'obiettività che caratteriz­ zano tutta l'opera), gli esperimenti dei medici dell'Unità 731 o la prostituzione militare, con le «donne di conforto» che accompa­ gnavano l'Esercito imperiale. Per la prima volta, il lettore italiano ha la possibilità di istituire un parallelo tra il modo di compor­ tarsi in guerra di due sistemi totalitari contemporanei, due Stati che hanno compiuto i propri misfatti con la complicità di un or­ dine pubblico assassino: è lo Stato ad aver conferito agli autori degli omicidi di massa il loro potere di distruzione; la violenza è stata il frutto di un sistema politico. Gli uccisori hanno agito al­ l'interno di una gerarchia, in una legalità che ordinava, tollerava e copriva le loro azioni. Tuttavia, l'ideologia che ha condotto a ta­ li crimini non era la stessa in Germania e in Giappone. Da una parte, c'era la lealtà a un Imperatore mitizzato e inaccessibile, proveniente da una stirpe la cui origine si perdeva nella notte dei tempi; dall'altra un personaggio, Hitler, spuntato dal nulla in una Germania moralmente ed economicamente a pezzi, umiliata e in preda a pulsioni revansciste. In Giappone, il regime si è milita­ rizzato a partire dall'inizio del XX secolo. I militari, provenienti dai clan feudali, diventano poco per volta padroni del paese, sen­ za tuttavia formare una dittatura e permettendo all'Imperatore di

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conservare il ruolo di fonte di ogni potere. Hirohito è il garante di quegli ufficiali, non il loro ispiratore. Hitler, al contrario, si fab­ brica il proprio partito e il proprio Stato, facendone una policrazia, ossia un complesso di apparati decisionali in cui l'ultima parola, sempre e in ogni caso, spettava a lui. L'ideologia giapponese mo­ stra sì influssi stranieri, ma mantiene la propria specificità, iden­ tificandosi nel «dogma nazionale» (kokutai). Da questo punto di vista, il totalitarismo nipponico appare più efficace, perché più fa­ cile da accettare. Attraverso l'inquadramento ideologico, la mani­ polazione delle menti, una disciplina feroce e l'odio entrambi i re­ gimi ottengono il consenso popolare che apre la strada all' omici­ dio di massa. Ma è nel comportamento in guerra che i due regimi mostra­ no le somiglianze più vistose. Entrambi gli eserciti pianificano con la stessa coscienza della propria superiorità razziale l'orga­ nizzazione e l'occupazione dei territori conquistati. Essi compio­ no assassini di massa così numerosi ed efferati che vittime e car­ nefici perdono lo status di esseri umani: gli uni, perché agli oc­ chi dei loro uccisori o tortura tori non sono altro che oggetti - ma­ ruta «ceppi» o stilcke «pezzi» -, gli altri, perché non hanno più al­ cun freno morale né alcun senso di colpa. Tuttavia, questi mas­ sacri di milioni di persone non si equivalgono dal punto di vista del reato commesso. Sia i giapponesi che i tedeschi - in questo caso aiutati dai movimenti estremisti dei paesi da loro occupati - hanno compiuto, a un grado estremo, tutti i crimini di guerra e contro l'umanità definiti come tali dal diritto internazionale, in particolare uccisioni, stermini, riduzione in schiavitù e altri com­ portamenti disumani. Nei confronti dei cinesi, i giapponesi han­ no raggiunto vette di raffinata crudeltà, come questo libro testi­ monia abbondantemente; esiste tuttavia un reato specifico che non hanno commesso, forse perché non ne avvertivano la neces­ sità: il genocidio. Certamente, i massacri di Nanchino (1937) inaugurano un ciclo di uccisioni di massa - il cui scopo princi­ pale era spargere il terrore tra la popolazione civile onde poterla controllare facilmente con il minor numero possibile di effettivi -, ed è vero che il carattere organizzato degli assassinii, l'identi-

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ficazione di categorie di vittime da selezionare, di gruppi umani di cui sbarazzarsi, le decapitazioni a catena, le esecuzioni con le mitragliatrici restringono di molto il margine tra crimine contro l'umanità e genocidio. Quando nessun principio viene rispetta­ to; quando si uccide e si mutila senza distinzione di età o di ses­ so e ogni atto di ostilità nei confronti di un soldato giapponese scatena una distruzione su larga scala; quando, nella sconfitta, si trucidano tutti i civili - come a Manila -, la distinzione tra crimi­ ne di guerra e genocidio diventa estremamente labile. Tuttavia, essa resiste: infatti, non v'è traccia di un piano organizzato di di­ struzione di un gruppo umano identificato come tale tra i crimi­ ni dei giapponesi. Si può istituire un paragone tra la guerra nel Pacifico e il con­ flitto sul fronte russo: in entrambi i casi si è trattato di guerre to­ tali, condotte da due Stati criminali. Va però detto che l'idea del­ la guerra e del guerriero non è la stessa per i soldati tedeschi e per quelli giapponesi. Il soldato giapponese non concepisce l'idea di tornare a casa vinto. La lealtà all'Imperatore lo conduce al sacrifi­ cio supremo, percepito al tempo stesso come un onore e una for­ tuna. Il soldato giapponese non si arrende: uccide i feriti, i mala­ ti, i prigionieri di guerra, poi uccide se stesso. Per lui il suicidio è un atto banale, un'arma durante il combattimento, una necessità nella disfatta. Per il soldato nazista la vita degli altri non conta; per il soldato nipponico, è la vita a non contare: si può parlare di una cultura della morte, più che dell'assassinio. Dopo la guerra, i processi hanno fornito agli storici materiale sufficiente per conoscere e comprendere i due regimi. Tuttavia, il Giappone ha beneficiato di numerose circostanze che hanno con­ tribuito a mascherare i suoi crimini: in primo luogo, l'uso di un'arma (a Hiroshima e a Nagasaki) che ha terrorizzato il piane­ ta, trasformando i giapponesi in vittime; in secondo luogo, il compromesso che ha preservato la figura dell'Imperatore; infine, l' onnipresenza della Shoah, crimine estremo per eccellenza. Og­ gi, per esempio, tutto lascia credere che la Germania sia definiti­ vamente guarita dal nazismo. Il Giappone, invece, non è ancora vaccinato dal periodo della dominazione dei militari. Pur non ne-

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gando i crimini dei loro nonni, molti giapponesi li giustificano, ne sminuiscono la portata o addirittura ritorcono le accuse contro gli Alleati. La storia militare del Giappone si trasforma nel crogiuo­ lo della memoria nazionale. Ancora recentemente, presso il san­ tuario di Yasukuni, un primo ministro onorava le anime di tutti i soldati morti per la patria, comprese quelle dei criminali, che, ne­ gli otto anni di durata della guerra, furono legioni 1• Se c'è un li­ bro che può aiutare a prendere coscienza delle sofferenze inflitte dall'esercito dell'Imperatore e a scongiurare un relativismo che sconfina nel negazionismo, è proprio il presente volume.

1 Il riferimento è a Koizumi Jun'ichi ro, che ha visitato il santuario di Ya­ sukuni sei volte (a partire dal 13 agosto del 2001) in qualità di primo mi­ nistro, suscitando le ire della Cina e della Corea. Di fronte alle critiche si è giustificato sostenendo la natura privata di quelle visite; tuttavia, ha fir­ mato il registro del santuario qualificandosi come «Koizumi, p rimo mini­ stro del Giappone)) [N.d.T.].

Introduzione

Vorrei scusarmi di tutto cuore per le atrocità che so­ no state commesse. Generale Tojo Hideki, primo ministro dal 1 941 al 1 944, messaggio d'addio rilasciato la sera prima dell'esecuzione al cappellano buddhista della prigione di Sugamo, dottor Hanayama 1•

Una guerra immensa e terribile Delle tre grandi guerre del XX secolo, quella che infuriò per ot­ to anni di seguito in Asia orientale e nel Pacifico è sicuramente la meno conosciuta in Occidente 2• Le sue vere dimensioni sono ignote al grande pubblico; generalmente, è nota soltanto la guer­ ra del Pacifico, scoppiata il 7 dicembre del 1941 (ora locale p in se­ guito all'attacco contro Pearl Harbor: eppure, per quella data, il conflitto sino-giapponese, cominciato il 7 luglio 1937, aveva già superato la metà della sua durata totale. Se è vero che le opera­ zioni decisive furono condotte in gran parte dagli americani, i soldati nipponici che conobbero i campi di battaglia della Cina furono più numerosi di quelli che servirono nel Pacifico. Si com­ batté a lungo anche nei territori continentali del Sudest asiatico, in Birmania in particolare 4; in quell'area, tuttavia, furono piutto­ sto gli alleati di Washington a sopportare il peso dei combatti­ menti, a cominciare dai britannici. Occorrerebbe che si affermas­ se anche da noi l'espressione «guerra d'Asia e del Pacifico», adot-

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tata dalla nuova scuola storica giapponese: essa ha il vantaggio di non ridurre il conflitto a uno scontro esclusivo tra Stati Uniti e Giappone. È perlomeno paradossale che la guerra del Vietnam sia spesso meglio conosciuta di quella di cui ci occupiamo in queste pagine, la quale ha causato un numero di vittime dieci volte superiore ri­ spetto al conflitto vietnamita e ha interessato direttamente popo­ lazioni circa dieci volte più numerose. Queste cifre permettono di istituire un paragone con le devastazioni causate dalla Germania nazista: infatti, si calcola che gli abitanti delle zone occupate dal Giappone fossero tra i 370 e i 440 milioni 5, mentre la Germania (senza contare i suoi alleati), non è mai arrivata a controllare più di 225 milioni di persone 6• Il numero di morti causati dalla guer­ ra d'Asia e del Pacifico è decisamente più difficile da stabilire. Werner Gruhl, autore di uno degli studi più approfonditi sulla questione, l'ha stimato in 27 milioni, che possono arrivare a 36 nel caso si tenga conto anche del teatro nordafricano 7. Tuttavia, que­ sti numeri sono fortemente dipendenti dai dati relativi alle perdi­ te subite dall'Unione Sovietica e dalla Cina: nel primo caso, le ci­ fre sono state più volte modificate al rialzo; nel secondo, il disac­ cordo è ancora più marcato. L'unico dato sufficientemente degno di fede si riferisce ai caduti dell'esercito (guerriglieri comunisti esclusi): si può dunque affermare che siano morti da 3 a 4 milio­ ni di uomini, secondo che si scelga di seguire la stima cinese o quella giapponese 8• Il numero delle vittime civili è assai più in­ certo, sia a causa dell'estrema arretratezza amministrativa della Cina pre-comunista sia per un problema di fondo: non è chiaro se occorra inserire nel computo i morti di fame delle province toc­ cate dalla guerra, pur sapendo che le carestie erano allora fre­ quenti anche in tempo di pace (il che spiegherebbe perché, già ne­ gli anni 1946-48, l'ONU abbia stimato il totale delle perdite subi­ te dal paese in 9 milioni, mentre la valutazione del governo di Nanchino parla di 15 milionP, cifra questa adottata da Gruhl e che a noi non pare inverosimile). In ogni caso, a partire dai primi anni '80 del secolo scorso, la querelle tra Cina e Giappone sulla memoria ha prodotto due nuovi conteggi da parte di Pechino: i

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decessi cinesi legati alla guerra sono così passati a 24, poi a 3 5 mi­ lioni, cifra oggi ufficiale, che farebbe della Cina la principale vit­ tima dell'intera seconda guerra mondiale, e del teatro asiatico il più sanguinoso del conflitto. Rimane tuttavia un certo scetticismo di fronte a simili dati poco affidabili. Anche adottando stime basse (sempre che questo aggettivo sia appropriato), la distanza tra le perdite subite dal Giappone (3 mi­ lioni di morti) e quelle patite dai suoi avversari o dalle sue vitti­ me (24 milioni secondo Gruhl) è assai grande 10• Ciò è dovuto sen­ za dubbio alla superiorità delle truppe nipponiche rispetto agli eserciti cinesi e all'assenza di combattimenti nelle principali isole dell'arcipelago giapponese; tuttavia, fuori dal Giappone, la schiacciante preponderanza delle vittime civili (20 milioni su 24) lascia intravedere il tipo di guerra praticato da Tokyo. Circa 5 milioni di persone sarebbero state assassinate, e il lavoro forzato avrebbe liquidato altri 2 milioni di civili. Altri 13 milioni sareb­ bero morti a causa della fame e delle malattie prodotte dal con­ flitto 11• Più la guerra andava avanti, più pesanti si facevano le perdite, soprattutto per via della penuria generalizzata: circa 5 milioni di civili dei paesi occupati morirono tra gli ultimi mesi del 1944 e l'agosto del 1945 12• L'ammontare settimanale di deces­ si (giapponesi inclusi) può essere stimato in 57.000 nel 1942, 97.000 nel 1944 e 149.000 nel 1945 13• Le due bombe atomiche, per quanto orribili, non provocarono dunque perdite equivalenti a quelle occorse in una decina di giorni di guerra. D'altra parte, le atrocità e l'efferatezza furono onnipresenti nel conflitto: nel pre­ sente volume ne sarà data ampia documentazione.

Amnesia, ipermnesia Eppure, l'Occidente pare aver messo da parte quell'immensa e spaventosa guerra un momento dopo che essa è stata vinta (ve­ di il cap. 12). Persino negli Stati Uniti la guerra europea è infini­ tamente più presente, sia all'università che nei media. Ancora più sorprendentemente, il dibattito sulla memoria si è sviluppato at-

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tomo alle esplosioni nucleari e all'internamento di alcune decine di migliaia di nippo-americani da parte dell'amministrazione Roosevelt (vedi il cap. 4), così come sull'attacco a Pearl Harbor. Le sole vittime asiatiche prese in considerazione sono dunque le giapponesi, e l'atteggiamento è cambiato soltanto in minima par­ te in seguito al riemergere del dibattito su Nanchino. Un simile disinteresse, tra l'altro, è stato dimostrato anche dalle ammini­ strazioni americane che si sono succedute. Così, si è dovuto at­ tendere il 1996 perché a sedici vecchi criminali di guerra giappo­ nesi fosse interdetto il soggiorno negli Stati Uniti. Eppure, dopo l'introduzione di tale misura nel 1979, oltre 60.000 ex nazisti o col­ laborazionisti erano stati colpiti da questo divieto 14• Tuttavia, i fatti, come le cifre, non ammettono repliche: i giap­ ponesi rappresentano soltanto un ottavo delle vittime asiatiche del conflitto, che a loro volta sono il 40% del totale delle perdite della guerra d'Asia e del Pacifico. I caduti occidentali (australiani com­ presi), per parte loro, sono appena 1'1-2% del totale 15: essi, in ogni caso, sono stati oggetto di un'attenzione che sarebbe ingiusto defi­ nire sproporzionata, ma che dà la misura della scarsissima consi­ derazione in cui sono tenute le vittime asiatiche dei giapponesi. Uno degli scopi fondamentali di questo libro consiste nel dar loro finalmente il posto che si meritano. Non che qui i prigionieri occi­ dentali siano trascurati, beninteso: la bibliografia relativamente corposa a essi dedicata permette di conoscere le loro vicende in modo sufficientemente preciso e completo; il comportamento dei giapponesi nei loro confronti è infatti spesso rivelatore dello spiri­ to con il quale gli occupanti gestirono i rapporti con gli abitanti dei paesi occupati tra il 1937 e il 1945. I grandi cantieri in cui detenuti europei e lavoratori forzati asiatici si trovavano a volte vicini, per­ mettono di notare grandi somiglianze nei sistemi usati con gli uni e con gli altri: le differenze giocarono sempre a sfavore degli asia­ tici. Inoltre, per una ragione che attiene alla consuetudine alla scrit­ tura tipica degli occidentali da una parte, e alla difficoltà di con­ servare documenti in Asia dopo il 1945 dall'altra, gran parte delle testimonianze di cui disponiamo sugli autoctoni derivano proprio da osservatori stranieri (vedi in particolare il cap. 5).

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Se l'Occidente, con l'eccezione dell'Australia, ha scelto di ab­ bandonarsi a una sorta di amnesia, lo stesso non si può dire di numerose vittime asiatiche del Giappone. Si è persino tentati di parlare di ipermnesia, almeno nel caso della Cina e della Corea del Sud, dove argomenti come il massacro di Nanchino (cap . 5) o la prostituzione forzata (cap. 9) infiammano le opinioni pubbli­ che e, talvolta, le folle. L'insufficiente ammissione dei propri cri­ mini passati da parte del Giappone è più che mai al centro delle difficili relazioni tra i paesi del Nordest asiatico. Inoltre, un buon numero di tensioni e conflitti tra i più ricorrenti in Asia orientale può essere attribuito all'occupazione nipponica o ai suoi strasci­ chi. Pensiamo, per esempio, a due tra le più serie minacce per la pace nel mondo, che hanno origine nella brusca e mal gestita de­ colonizzazione seguita alla disfatta giapponese: la divisione del­ la penisola coreana e il contenzioso che vede opposti la Cina e Taiwan. Nel Sudest asiatico, l'occupante si servì spudoratamente delle divisioni etniche o religiose, trasformando gli antagonismi in rivalità e odio: le relazioni tra birmani e karen, tra malesi e ci­ nesi, tra cristiani e musulmani in alcune regioni dell'Indonesia si sono così durevolmente guastate. In senso lato, inoltre, il model­ lo militare, nazionalista e autoritario offerto dal Giappone degli anni '40 ha influenzato, in misura maggiore o minore, gran parte dei regimi (compresi quelli di ispirazione comunista) del dopo­ guerra fino agli anni '80. Gli «anni giapponesi» sono indispensa­ bili alla comprensione della storia dell'Asia orientale dopo il 1945 (capitoli 6 e 12).

In guerra contro i civili Come si sarà capito, lo scopo di questo libro non è presentare la guerra d'Asia e del Pacifico nel suo complesso. Le questioni strategiche o tattiche, gli armamenti, i combattimenti vi figure­ ranno soltanto in funzione accessoria, quando citarli sarà indi­ spensabile alla comprensione dello scatenarsi di una violenza non propriamente guerresca, che ha rappresentato un aspetto es-

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senziale degli otto anni di durata del conflitto: come abbiamo vi­ sto, le vittime civili sono state quattro volte più numerose di quel­ le militari; se è vero che in certa misura sono da attribuire alle azioni di guerra vere e proprie, gran parte - probabilmente la maggior parte - di loro è stata sacrificata con cognizione di cau­ sa, senza la benché minima considerazione per le loro pene, an­ che nei casi in cui la sofferenza non era lo scopo principale dei giapponesi. La lista delle morti provocate (per fame e sfinimento) o inflitte (uccisione dei prigionieri, massacro dei civili) è triste­ mente lunga. Inoltre, tra i sopravvissuti, vi sono milioni di perso­ ne che hanno sopportato terribili prove fisiche o morali che spes­ so - come l'esempio dei prigionieri di guerra australiani ci con­ sente di affermare (vedi il cap. 7) - hanno abbreviato la loro esi­ stenza. In questa vasta categoria, dai contorni per forza di cose meno marcati rispetto alla precedente, spiccano le donne violen­ tate o costrette a prostituirsi. Come in ogni guerra, i belligeranti si resero responsabili di mi­ sfatti, ma esiste un'enorme sproporzione tra i due campi. Quand'anche si decidesse di considerare - ma non è il nostro caso - crimini di guerra tutti i bombardamenti, classici o nucleari, sulle città giapponesi (400.000 morti: vedi il cap. 4), aggiungendovi alcu­ ne centinaia di migliaia di civili o militari giapponesi coinvolti loro malgrado nei combattimenti (come a Okinawa) o ai quali era stato impedito di arrendersi, arriveremmo al massimo a una cifra pari a un decimo delle persone assassinate e distrutte dalla fatica e dalla fame che non sopravvissero all'occupazione nipponica. Soprattut­ to, presso i giapponesi, saltano agli occhi la sistematicità nel com­ mettere atrocità, l'impunità per i criminali peggiori e un totale di­ sprezzo nei riguardi delle vittime: atteggiamenti in netto contrasto con il modo di comportarsi degli eserciti alleati. Non dovrà stupire né risultare offensivo il fatto che il presente studio si concentri sul primum movens della guerra in Asia e nel Pacifico: l'esercito giap­ ponese e il sistema politico-ideologico che lo controllava. D'altra parte, i giapponesi dell'epoca fecero di tutto per con­ vincersi di essere caratterizzati da un'unicità e un'incommensu­ rabilità che li liberava - così credevano - dalle regole della com-

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pagine umana. L'immenso conflitto fu scatenato nel nome di un solo uomo, o piuttosto di una divinità nebulosa, che aveva molti portavoce e parlava pochissimo: l'Imperatore. Il processo di ar­ caizzazione, inaugurato verso la fine dell'era Meiji in concomi­ tanza con una nuova ondata di xenofobia, portò a una rifeudaliz­ zazione, se non del sistema politico, almeno della società (vedi il cap. l}. Senza che il ruolo attivo del sovrano sia accresciuto in ma­ niera sensibile, la sua figura assume una connotazione che non aveva più avuto fin dalla fine del primo millennio della nostra era: egli diventa un sovrano assoluto, ma soprattutto infallibile, intangibile e immanente in tutto ciò che riguarda il Giappone (ve­ di a questo riguardo il cap. 3). Come conseguenza logica di ciò, nel 1928 le forze armate, che fino ad allora erano definite sempli­ cemente «giapponesi» o, come in Occidente, «nazionali», diven­ nero patrimonio personale di Hirohito: il ministro della guerra, il generale Araki Sadao, idolo degli estremisti, le ribattezzò «arma­ ta dell'Imperatore» (kogun). La tappa successiva fu la pubblica­ zione, nel luglio del 1940, del documento ufficiale intitolato Basi della politica nazionale: il termine generico Teikoku (Impero), che poteva applicarsi sia al paese di Hirohito che a quello di Napo­ leone I, fu sostituito da Kokoku (il paese del Tenno), parola che sot­ tolineava il particolarismo nipponico. L'adozione di questo ter­ mine aveva anche il vantaggio di evitare al Giappone l'accusa di imperialismo (teikokushugi). Il passo finale coincise con l'inizio della guerra nel Pacifico: il rescritto che fungeva da dichiarazione fu firmato da Hirohito come Tenno, un appellativo riferito unica­ mente al sovrano del Giappone; al contrario, gli imperatori Meiji e Taisho avevano sottoscritto le dichiarazioni di guerra del 1894, del 1904 e del 1914 in qualità di Kotei, un titolo che poteva appli­ carsi anche a Nicola II o a Francesco Giuseppe 16•

Innovazioni nel campo della violenza in guerra Era doveroso concentrarsi sulle vittime, specialmente civili, trattandosi di un conflitto costellato di innumerevoli atrocità:

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d'altra parte, questo orientamento è confacente al profondo rin­ novamento della storiografia della guerra manifestatosi da una ventina d'anni, almeno in Francia. Esso ha interessato, in primo luogo, un conflitto considerato abbastanza «pulito», la prima guerra mondiale. L'équipe dell'Historial de Péronne (Annette Becker, Stéphane Audoin-Rouzeau 17 ...) , basandosi sui lavori di George Mosse e collaborando con una nuova generazione di sto­ rici europei, ha messo in evidenza la barbarie cui si sono abban­ donati i soldati e le atrocità perpetrate nei confronti dei prigio­ nieri di guerra e dei civili appartenenti ai paesi occupati. Con­ temporaneamente, il progresso negli studi relativi alla Shoah ha permesso di appurare che le complicità nel genocidio sono state molte più di quanto si credesse e le decisioni a proposito dello sterminio non erano prese da una sola persona. In particolare, è stato riconsiderato in maniera notevole il ruolo criminale svolto dalle unità regolari della Wehrmacht 18• I concetti di violenza in guerra, violenza di massa e cultura della guerra sono ormai radi­ cati nella nostra visione, profondamente negativa, di conflitti nei quali il destino dei militari era legato a filo doppio a quello dei ci­ vili. Questa visione è costantemente aggiornata dalla sopravvi­ venza, su scala mondiale, di un duro scontro che - con l'aiuto del terrorismo - non risparmia alcuna regione o popolazione del pia­ neta. Nonostante alcuni lavori pionieristici di cui sarà dato conto in seguito, la guerra d'Asia e del Pacifico è ancora assai poco stu­ diata da questo punto di vista. Per esempio, si è dovuto attendere il 2005 per assistere alla pubblicazione del primo studio d'insieme sul lavoro forzato sotto la dominazione giapponese, fenomeno pe­ raltro della massima importanza 19 (vedi il cap. 9). La mentalità e il comportamento quotidiano dei soldati giapponesi possono essere percepiti soltanto attraverso le testimonianze, in quanto nessuno ha ancora intrapreso uno studio analogo a quello condotto da Omer Bartov sulla Wehrmacht 20• Per quanto riguarda le atrocità, generalmente si cerca di stabilire chi abbia dato gli ordini e quale sia la catena delle responsabilità. Si tratta beninteso di questioni importanti, che tuttavia tralasciano il problema centrale: capire che cosa abbia reso possibili crimini tanto efferati.

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Avremmo senza dubbio dato prova di presunzione se avessi­ mo preteso di fare un resoconto completo delle diverse forme di violenza che si sono manifestate durante le guerre nipponiche: ciò avrebbe significato prendere in esame, lungo un arco di otto anni (quattordici nel caso della Manduria e della Cina settentrio­ nale), tutto quanto è successo in una ventina di paesi. Ovviamen­ te, molti fatti gravi su scala etnica o nazionale non hanno trovato spazio nel presente libro, vuoi per ignoranza e mancanza di infor­ mazioni attendibili, vuoi per evitare fastidiose e pesanti ripetizio­ ni. Classificare atrocità spesso multiformi nel modo meno arbi­ trario possibile non è un compito facile. Nel caso particolare di Nanchino è parsa preferibile una presentazione di tipo monogra­ fico, dal momento che i fatti del dicembre 1937 hanno rappresen­ tato un concentrato di quasi tutto ciò di cui i militari giapponesi erano capaci. Inoltre, Nanchino rappresenta un caso eccezionale per la qualità delle informazioni in nostro possesso, nonché per la sua importanza simbolica e politica nelle discussioni sui crimini di guerra nipponici. Infine, si trattava non tanto di evitare la pe­ ricolosa fascinazione del male, quanto piuttosto di tenerla a di­ stanza, per cercare di spiegarla a tutti i livelli possibili: a lungo, medio e breve termine, dal punto di vista del sistema politico, delle logiche militari, dei «gruppi primari» 21, degli individui. Un simile progetto, a quanto mi risulta, non è mai stato tentato su questo argomento, almeno fino a ora. Mi hanno spinto a intraprenderne la realizzazione tre decen­ ni di frequentazione dei diversi territori percorsi dalle armate imperiali e, soprattutto, una quindicina d'anni spesi a studiare la questione della violenza politica di massa nell'Asia orientale del XX secolo. Il libro nero del comunismo 22 mi ha permesso di occu­ parmi della violenza istituzionalizzata dei regimi totalitari e di constatare la spaventosa radicalità dei processi repressivi e omi­ cidi in Estremo Oriente. Dal punto di vista dell'intensità del bombardamento ideologico, della ferrea irreggimentazione degli individui, della rutinizzazione di umiliazioni e brutalità, la ver­ sione asiatica del comunismo è insuperabile. Non sono rimasto stupito più di tanto scoprendo nel Giappone militarista caratte-

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ristiche parzialmente analoghe: l'ambiente sociale e il quadro ideologico sono abbastanza simili. I comunisti giapponesi si alli­ nearono quasi tutti all'ideologia e al regime militarista, con uno zelo sconosciuto altrove (vedi in proposito il cap . 3). Sono torna­ to più volte a occuparmi della repressione maoista e soprattutto del caso estremo rappresentato dal comunismo genocida della «Kampuchea democratica» di Pol Pot 23• In senso inverso, ho esa­ minato l'orrore del grande massacro dei comunisti indonesiani (1965), durante il quale le vittime furono a volte decapitate con sciabole da samurai 24• Ho tentato infine una valutazione compa­ rata delle violenze coloniali europee e giapponesi in Asia 25: ho constatato come il Giappone abbia assunto un atteggiamento di identificazione con il colonialismo europeo, dimostrandosi d'al­ tro canto incapace di ricorrere al compromesso e alla modera­ zione. Lo studio comparato di queste forme di violenza estreme ha facilitato la collocazione delle brutalità giapponesi nella giu­ sta prospettiva.

La storiografia giapponese occupa un posto centrale Nel preparare il presente lavoro, ho scoperto l'importanza del­ la storiografia giapponese relativa alla guerra d'Asia e del Pacifi­ co. Essa è senz'altro la più cospicua, ed è stata attraversata da ac­ cese discussioni su punti essenziali, sia per quanto attiene alla ri­ costruzione dei fatti che per ciò che concerne la loro interpreta­ zione. In ciò non v'è nulla di sorprendente, visto che l'argomento in questione tocca in primo luogo il Giappone, paese che, tra l'al­ tro, è dotato di una solida rete di università ed è oggi retto da una costituzione democratica. Tuttavia, in Francia - e non solo, a quanto sembra - si è affermata l'abitudine di accusare gli storici giapponesi di non fare il proprio lavoro 26 e di essere un branco di negazionisti; inoltre, viene sollevato il sospetto che i «revanscisti» nipponici abbiano messo in atto una specie di complotto del ter­ rore contro chiunque attenti alla gloria dei loro eserciti e alla me­ moria dell'imperatore Hirohito. Si tratta di accuse del tutto prive

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di fondamento, benché sia vero che in Giappone il revisionismo è assai più aggressivo che in Germania e il negazionismo si espri­ me liberamente e abbondantemente sui giornali, nei manga, o in certi luoghi della memoria (ma assai meno nelle scuole e nelle università: vedi il cap. 11). Non si può dar conto in poche righe dell'enorme mole di stu­ di prodotti dalla storiografia giapponese a proposito degli «anni terribili», né questo è lo scopo del presente volume; tuttavia, al­ cuni cenni serviranno a dare un'idea della sua ampiezza. Nei due decenni successivi al 1945 il tema della guerra è stato tratta­ to, più che dagli storici - che notoriamente preferiscono lavorare a una certa distanza di tempo dai fatti - dagli artisti (in partico­ lare i registi cinematografici) e, soprattutto, dagli scrittori della «generazione bruciata>> (yakeato seidai). Molti di loro avevano in­ dossato la divisa: la loro disperazione e il loro frequente impe­ gno a sinistra li portarono a dipingere a tinte particolarmente fo­ sche e con crudo realismo i metodi utilizzati dai giapponesi nel conflitto. Non mostrarono la minima reticenza nemmeno di fronte al cannibalismo (vedi il cap . 4). La rivista «Bungei Shunju» raccolse un migliaio di manoscritti di soldati semplici, per con­ testare l' «egemonia della memoria» prodotta dalla pubblicazio­ ne dei ricordi di ufficiali superiori notevolmente screditati. Uno dei più importanti esempi di questa letteratura è rappresentato dai sei volumi (pubblicati a partire dal 1956) sulla guerra in Man­ ciuria scritti dall'ex sottufficiale Gomikawa Jumpei. Nel 1957, Tominaga Shozo raccontò le devastanti operazioni sanko in Cina, nonché le decapitazioni «a scopo educativo» di prigionieri cine­ si (vedi il cap . 6). Già nel 1955 un'équipe di storici marxisti ave­ va pubblicato una Storia del periodo Showa 27, dai toni molto criti­ ci, che divenne un best seller 28• Ancora prima, il grande politolo­ go e filosofo della politica Maruyama Masao aveva cominciato la sua brillante serie di analisi sul fascismo, il militarismo e il na­ zionalismo giapponesi (vedi in proposito il cap. 3). Poco per vol­ ta, tuttavia, l'attenzione si spostò sulle sofferenze del Giappone postbellico e sulle responsabilità dell'occupazione americana (conclusasi nel 1952) riguardo la difficile situazione del paese:

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questo atteggiamento è sfociato nelle lamentele insistite sulle de­ vastazioni causate dai bombardamenti americani, in primo luo­ go su Hiroshima e Nagasaki 29• Era probabilmente inevitabile che questa autocommiserazione sfociasse in un articolato revisionismo storico 30 • Il fondatore di questa corrente fu Hayashi Fusao, che, tra il 1963 e il 1965, si de­ dicò alla riabilitazione della «guerra per la Grande Asia dell'Est» (questa espressione era stata proibita dagli americani) 31 • Egli la interpretava come l'ultimo episodio di una «guerra dei Cent'An­ ni» scatenata contro l'Asia dall'Occidente con la prima guerra dell'Oppio (1839-1842). In quest'ottica, l'aggressione giapponese diventava un'azione difensiva e assumeva il senso di una lotta di liberazione dell'Asia. Contro questa tesi, Ienaga Saburo rese po­ polare attraverso i suoi libri e i suoi manuali per le scuole una vi­ sione assai critica del Giappone militarista e dei suoi crimini (ve­ di il cap. 11). Insieme ad altri storici di sinistra, egli propose la di­ zione «guerra dei Quindici Anni»: secondo questa visione, il ciclo delle violenze aveva inizio con l'occupazione giapponese della Manduria, avvenuta nel 1931. I1 1965 fu anche l'anno di fonda­ zione di una Società di storia militare attestata su posizioni «cen­ triste»: essa non negava le atrocità, ma le «spiegava» sulla base del contesto guerresco 32• Nel 1972, la riapertura delle frontiere da parte della Cina, che stabilì relazioni diplomatiche con il Giappone, permise a Honda Katsuichi di condurre la prima inchiesta approfondita sul terre­ no, uscita a puntate sull'importante quotidiano «Asahi Shim­ bun» con il titolo Chagoku no Tabi (Viaggi in Cina). In essa l'au­ tore raccolse un cospicuo numero di testimonianze inedite di vit­ time dell'esercito imperiale e riaccese il dibattito, mai del tutto sopito, sulla portata e il significato del massacro di Nanchino (vedi il cap. 5). Da quel momento, almeno tra gli storici di pro­ fessione, vige un accordo di principio sulla gravità dei fatti. Lo sforzo documentario è proseguito, per esempio, con la pubblica­ zione, nel 1987 e sempre da parte di «Asahi Shimbun», di nume­ rosi volumi di testimonianze, terribili e strazianti, dei lettori 33• A partire dagli anni '80, come in molti altri paesi, il boom di stori-

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ci ha portato alla nascita di numerosi sottocampi specializzati in seno al vastissimo settore della storiografia del conflitto. Soltan­ to nel periodo tra il 1983 e il l987 sono apparsi diversi studi sul­ le élite militari, sul ruolo dell'Imperatore e della famiglia impe­ riale, sull'esercito (dal punto di vista della teoria delle organiz­ zazioni e del management), sull'economia di guerra, sulla Cina occupata (in particolare sono state studiate la penetrazione eco­ nomica giapponese e, grazie alla documentazione cinese, la Re­ sistenza), sui governi collaborazionisti, sui crimini nipponici (con particolare riferimento all'uso di gas tossici), sull'esistenza di un fascismo giapponese e sulle sue caratteristiche, sul proces­ so di Tokyo. L'ultimo degli argomenti elencati rimanda alla più ampia questione - esplicitamente affrontata - delle responsabi­ lità del Giappone e della natura della guerra da esso condotta, che dev'essere definita «di aggressione». Si è discusso anche sul nome da assegnare al conflitto, e l'espressione «guerra dei Quin­ dici Anni » ha preso sempre più piede34• Quasi tutti i dibattiti internazionali che si sono aperti (per esempio sulla prostituzione sotto minaccia, sul lavoro forzato ecc.) o che sono stati notevolmente approfonditi (i fatti di Nan­ chino, i massacri, la memoria) negli anni 1990 e 2000 hanno avu­ to origine in Giappone: è dunque del tutto assurdo accusare quel paese di aver cercato di soffocarli. Inoltre, molti giovani storici giapponesi vantano una carriera internazionale e conoscono l'in­ glese (parecchi insegnano in università anglosassoni): ciò ha per­ messo loro di far conoscere le proprie ricerche all'estero. Oggi, per ognuno dei campi succitati, possiamo fare affidamento su esperti come Yoshimi Yoshiaki, Tanaka Yuki, Yamamoto Masahi­ ro, Sato Shigeru, Yoshida Takashi 35 ecc. La preparazione degli sto­ rici giapponesi riguardo a ogni aspetto della guerra non ha egua­ li: prova ne sia che le loro opere sono tradotte sempre più spesso, almeno in inglese. Non tenerli nel debito conto sarebbe stato im­ perdonabile: nelle pagine che seguono si troverà ampia eco dei loro lavori.

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Le fonti sono sufficienti ? Tuttavia, la documentazione di provenienza giapponese non sarà certo la sola di cui ci serviremo. Per realizzare un progetto come il presente volume, tenendo conto delle larghe zone d'in­ certezza e delle divergenze che tuttora esistono, è stato indispen­ sabile far ricorso a tutte le fonti disponibili. In particolare, è risul­ tato essenziale confrontare, ogni volta che ciò è stato possibile, il punto di vista dei boia con quello delle vittime, senza dimentica­ re i racconti degli osservatori neutrali (missionari, diplomatici ecc.), numerosi (e presenti persino in villaggi cinesi fuori mano) tra il 1937 e la fine del 1941, quando furono in gran parte inter­ nati. Nel caso di alcuni avvenimenti, come il massacro di Nan­ chino (dicembre 1937, vedi il cap. 5), saranno presentati ordini e rapporti di unità giapponesi, diari personali di militari nipponici, testimonianze di vittime cinesi, diari intimi o lettere private di missionari e uomini d'affari occidentali, documenti diplomatici e, infine, articoli di giornalisti presenti sul posto. Quando le testi­ monianze concordano tra loro - è questo, sostanzialmente, il ca­ so di Nanchino -, pur essendo la cultura e gli interessi dei testi­ moni diversi, anche profondamente, i fatti possono essere rico­ struiti con un elevato grado di sicurezza. Inoltre, le differenze esi­ stenti, in particolare, tra i commenti a un avvenimento aiutano a cogliere il significato che esso ha avuto per ognuna delle parti in causa, permettendo, a volte, di spiegarlo. Una simile fortuna è ra­ ra: per molti fatti disponiamo di un'unica fonte di informazioni, o comunque di testimonianze provenienti dalla stessa parte. È questo il caso dei campi di detenzione, poiché i guardiani giap­ ponesi si sono conformati alla legge universale secondo la quale i boia, per ragioni facilmente comprensibili, parlano poco. I reso­ conti dei processi, da questo punto di vista, ci sono di grande aiu­ to. In tribunale, i torturatori, i carcerieri e coloro che davano gli ordini furono messi a confronto con le vittime sopravvissute e, al tempo stesso, poterono contare su una difesa corretta (infatti si registrarono numerose assoluzioni per mancanza di prove suffi­ cienti: vedi in proposito il cap. 11). Ebbene, l'appurare la verità

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sulla base del contraddittorio non porta a constatare divergenze significative rispetto ai racconti unilaterali, che sono dunque da ritenere, in linea di massima, degni di fede 36• Il buon senso e, soprattutto, la legge di Finagle («se qualcosa di brutto può prodursi, prima o poi si produrrà in serie») sono spesso indispensabili per discernere ciò che è vero da ciò che è falso o, più frequentemente, dubbio. Tuttavia, il buon senso non è infallibile: la reazione di una mente razionale di fronte alla let­ tura di informazioni sul cannibalismo o sulla vivisezione dei pri­ gionieri, sul loro uso per allenarsi con la sciabola o la baionetta è improntata all'incredulità. Ci si augurerebbe che si trattasse sol­ tanto di macabre fantasie o delle inevitabili esagerazioni della propaganda. Occorre che tali informazioni provengano dagli au­ tori stessi di quei crimini (sotto forma di testimonianze dirette o contenute in archivi militari e giudiziari) e che siano, soprattutto, sufficienti per quantità e diversità di provenienza perché si sia obbligati a prestar loro fede. A dire il vero, nella maggior parte dei casi non c'è spazio per il dubbio, perché i militari mancano di spirito di iniziativa e i boia di immaginazione. Da un capo all'al­ tro dell'immenso impero di guerra del Giappone, le somiglianze colpiscono assai più delle differenze: si nota una totale, abietta uniformità di lessico, strutture e comportamenti che si estende fi­ no alle umiliazioni, alle punizioni corporali e alle menzogne 37• Ciò non vuol dire che il trattamento riservato ai nemici catturati sia stato ovunque il medesimo: a differenza degli occidentali, i prigionieri cinesi vennero per lo più massacrati; a Nanchino, ci­ vili e militari cinesi furono trattati in modi assai diversi rispetto a quanto creduto da numerosi autori. In ogni caso, a condizione di possedere sufficienti informazioni su situazioni paragonabili, è possibile distinguere la norma dall'eccezione, che potrebbe rive­ larsi un errore o una bugia, e che, di conseguenza, si evita di prendere in considerazione, in particolare in un'opera di sintesi come il presente volume. Ma le informazioni riguardo ai temi qui trattati sono suffi­ cienti e facilmente accessibili? Sapendo che una parte considere­ vole degli archivi militari giapponesi fu distrutta nel lasso di tem-

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po intercorso tra la capitolazione e l'arrivo delle forze americane d'occupazione; essendo conscio del fatto che la guerra d'Asia e del Pacifico aveva suscitato negli storici un'attenzione assai infe­ riore rispetto alle guerre europee del XX secolo; conoscendo, infi­ ne, la scarsa propensione della maggior parte degli asiatici per gli scritti di carattere intimo, nell'intraprendere tale lavoro temevo di essere costretto a lasciare nell'ombra vaste porzioni di questa complessa storia. Ebbene, compiendo ricerche in un numero si­ gnificativo di biblioteche europee e asiatiche, sono riuscito ad ac­ cumulare agevolmente una cospicua mole di documenti. In par­ ticolare, mi ha stupito la quantità di testimonianze pubblicate, che, ovviamente, provengono in gran parte da occidentali, gene­ ralmente anglofoni; ma disponiamo di tre grosse raccolte tradot­ te dal giapponese, nelle quali si trova traccia di numerosi reso­ conti provenienti dalla Corea del Sud, da Singapore, dall'Indo­ nesia e dalle Filippine. Anche la bibliografia più recente comin­ cia a interessarsi in profondità al vasto campo delle memorie di guerra, che non è possibile ridurre al binomio boia /vittime 38• Ho integrato queste fonti con alcuni colloqui; inoltre, Internet mette a disposizione un gran numero di documenti «grezzi», te­ stimonianze o immagini (manifesti di film della propaganda di guerra, fotografie d'epoca, monumenti, musei . . . ) accanto a una quantità di siti di discussione o propaganda la cui utilità è me­ no immediata 39• Nell'affidarsi a una documentazione essenzialmente anglofo­ na si poteva correre il rischio di concedere eccessivo spazio alla sorte degli occidentali (che, lo ricordiamo, hanno rappresentato soltanto l'l % circa delle vittime), con particolare riguardo ai pri­ gionieri di guerra. Mi pare comunque che tale problema non sus­ sista: infatti, i documenti pubblicati in inglese su altre questioni sono numerosi quanto quelli dedicati agli occidentali, senza con­ tare che molte opere di storici o politologi asiatici sono scritte di­ rettamente in questa lingua; inoltre, i grandi convegni si svolgo­ no per la maggior parte esclusivamente in inglese, anche quando gli occidentali non sono che un'esigua minoranza tra i parteci­ panti 40 • Sebbene questo materiale rappresenti soltanto una picco-

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la p orzione delle varie produzioni sèìentifiche nazionali, offre co­ munque la possibilità di accedere a molti dei lavori più significa­ tivi. È chiaro, comunque, che un'investigazione della letteratura nelle varie lingue dell'Asia orientale permetterebbe di avere un quadro più completo di quello qui presentato; va però detto che accontentarsi di una bibliografia in giapponese o in cinese com­ porterebbe altri rischi, per superare i quali occorrerebbe padro­ neggiare a dir poco una mezza dozzina di lingue asiatiche assai diverse le une dalle altre.

Le atrocità all'epoca e oggi Si può restare stupiti del fatto che, in un'opera che si presenta come un'investigazione sulle violenze di guerra nipponiche, alle atrocità vere e proprie sia dedicata appena la metà dei capitoli (dalS al lO): in realtà, occorreva evitare di suscitare nel lettore un senso di disgusto e di gratuità. Si trattava non tanto di mostrare, quanto di aiutare a capire: ecco spiegata la presenza di quattro ca­ pitoli «espositivi», di cui due (l e 3) descrivono il quadro istitu­ zionale, sociale, politico e ideologico che ha prodotto la «bestia immonda» del crimine di massa. Altri due (2 e 4), dedicati al per­ corso verso la guerra e alle modalità del conflitto, analizzano il le­ game esistente tra una diplomazia al servizio di una dottrina ba­ sata sull'aggressione, la violenza della guerra alla quale essa ha inevitabilmente condotto e i crimini di guerra che l'imbarbari­ mento generalizzato ha portato con sé. Dei sei capitoli centrali, due (7 e 8) descrivono il calvario dei prigionieri occidentali, sia militari che civili. L'arcipelago concentrazionario giapponese è stato creato per la loro detenzione. La sorte degli asiatici è stata spesso ancora più funesta: a Nanchino, per esempio, i militari ci­ nesi catturati sono stati immediatamente massacrati (vedi il cap. 5). Tuttavia, Nanchino non ha rappresentato un'eccezione: ai sac­ cheggi sono seguite atrocità un po' dappertutto, tra la Manduria e Giava (vedi il cap. 6). Non tutti morivano, ma molti erano du­ ramente colpiti: il lavoro forzato si trasformò spesso in schiavitù

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e, talvolta, in assassinio, mentre una logica improntata al sac­ cheggio sistematico precipitava poco a poco nella carestia le re­ gioni più popolose del mondo. Un altro aspetto di questa mul­ tiforme politica fondata sulla rapina è rappresentato dalla prosti­ tuzione militare (vedi il cap. 9). Il capitolo 10 tratta delle brutalità e delle umiliazioni quotidiane, nonché dell'intossicazione della Cina da parte dell'occupante, che usò la droga come strumento di governo. Gli ultimi due capitoli (11 e 12) trattano del periodo suc­ cessivo ai crimini, con le epurazioni, i processi, la riabilitazione dei criminali di guerra (nel caso del Giappone), l'insegnamento, la memoria e i suoi effetti politici, sia nell'arcipelago sia presso gli ex nemici dei giapponesi, alcuni dei quali sono ancora suoi av­ versari. Nel momento in cui scriviamo (dicembre 2006), Shinzo Abe sta costituendo, per la prima volta dal 1945, un Ministero della Difesa, proprio mentre gli storici cinesi e giapponesi tenta­ no di riannodare, a Pechino, un difficile dialogo: come si vede, è fin troppo chiaro che il crudele passato che ci accingiamo a rac­ contare è quanto mai presente.

1Citato in «Far Eastem Economi e Review», vol. 96, n. 21, 27 maggio 1977, p . 20. 2 La spiegazione è semplice: con l'eccezione di Cina e Australia, tutti i pae­ si belligeranti di parte alleata subirono perdite assai più pesanti contro la Germania che contro il Giappone; la Germania attaccò direttamente nu­ merose grandi città occidentali, fuori portata per il Giappone (l'episodio di Pearl Harbor e il bombardamento di Darwin, nel nord dell'Australia, costituiscono delle eccezioni); infine, da qualche decennio, la centralità sempre crescente della Shoah nella storiografia della seconda guerra mon­ diale marginalizza ulteriormente gli avvenimenti d'Asia e del Pacifico. 3 A Tokyo, come da fuso orario, erano già le 8.00. 4 I giapponesi andarono incontro al loro peggior disastro dopo quello del­ le Filippine. 5 L'incertezza riguarda soprattutto la Cina: i fronti erano instabili, le zone di guerriglia che sfuggivano al controllo giapponese erano di notevole ampiezza e gli sfollati furono decine di milioni (vedi il cap . 6).

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6 Peter Duus, lntroduction, in Peter Duus, Ramon H. Myers, Mark R. Peat­ tie (a cura di), The Japan Wartime Empire, 1931-1945, Princeton University Press, Princeton 1996, p. XIII: Werner Gruhl, The Great Asian-Pacific Cre­ scent of Pain, in Peter Li (a cura di), Japanese War Crimes: The Search far Ju­ stice, Transaction Publishers, New Brunswick-London 2003, p. 245. 7 Gruhl, The Great Asian-Pacific Crescent of Pain ci t., pp. 244-257. Altri auto­ ri, basandosi su una nuova stima delle vittime sovietiche, valutano in me­ dia le perdite occorse sul teatro occidentale in 42 milioni. Cfr. il sito di Matthew White, http: / /users.erols.com /mwhite28/warstatl.htm "Jonathan D. Spence, The Search of Modern China, W.W. Norton, New York­ London 1999, p. 435. 9 John W. Dower, War without Mercy: Race and Power in the Pacific War, Pantheon, New York 1986, pp. 295-296. '" In Europa la situazione è analoga: 7 milioni di morti per la Germania e i suoi alleati, 29 per i loro avversari. 11 Gruhl, The Great Asian-Pacific Crescent of Pain ci t., pp . 250-251 . 1 2 lvi, p. 253. " Pur con un margine di errore del 30%, si tratta di un trend assai netto. lvi, p. 255. 14 George Hicks, Japan 's War Memories: Amnesia or Concealment?, Ashgate, Aldershot (UK) 1997, p. VII. '5 Gruhl, The Great Asian-Pacific Crescent of Pain ci t., p. 257. 1 6 Kimitada Miwa, Japanese Policies and Concepts far a Regional Order in Asia, 1938-1 940, in James W. White, Michio Umegaki, Thomas R. H. Havens (a cura di), The Ambivalence of Nationalism: Modern Japan between East and We­ st, University Press of America, Lanham-New York-London 1990, pp. 152154. 1 7 Cfr. in particolare 14-18: Retrouver la guerre, Gallimard, Paris 2000. 1 8 Cfr. in particolareThe Storiography of the Holocaust, a cura di Dan Stone, Basingstoke & Palgrave-Macmillan, New York 2004. 19 Paul H. Kratoska (a cura di), Asian Labor in the Wartime Japanese Empire: Unknown Histories, M.E. Sharpe, Armonk (NY) 2005. 20 In L'armée de Hitler, Hachette Littérature, Paris 1999. 21 Riprendiamo qui la felice espressione di Omer Bartov. 22 Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Margolin et al., Il libro ne­ ro del comunismo: crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998. 23 Si veda in particolare La Cambodge des Khmer rouges: de la logique de guer­ re totale au génocide, «Vingtième Siècle>>, n. 77, gennaio-marzo 2003, pp. 318.

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24 Indonésie 1965: un massacre oublié, «Revue intemationale de politique comparée», vol. 8 (L'Utilisation politique du massacre), n. l, primavera 2001, pp. 59-92. 25 Colonial Violence Compared: Japan and the West in Asia, in Korean Studies in

the Era of Reconciliation and Cooperation: Proceedings of the 2"d World Congress of Korean Studies, Academy of Korean Studies-Peking University, Beijrng­

Seoul 2005. 26 Sulla base di questa pretesa carenza, uno dei manuali di preparazione ai concorsi per l'assunzione di professori di storia e geografia giustificava, nel 2003, l'assenza di autori giapponesi, pur vertendo la domanda in par­ te sulla guerra d'Asia e del Pacifico. 27 Showa è il nome dato al regno di Hirohito. 28 George Hicks, Japan 's War Memories: Amnesia or Concealment?, Ashgate, Aldershot (UK) 1997, pp. 24-25. 29 Ian Buruma, The Wages of Guilt: Memories of War in Germany and Japan, Jo­ nathan Cape, London 1994, pp. 51-52. 30 Fino a quel momento, esso si era manifestato esclusivamente attraverso le gesta eroiche narrate con compiacimento da alcuni ex ufficiali. 31 Gli americani avevano imposto la dizione «guerra del Pacifico», presa dalla lingua inglese. Si comprende la volontà di rompere con la termino­ logia della propaganda militarista, ma l'espressione scelta fa riferimento esclusivo al conflitto tra Tokyo e Washington, permettendo ai negazioni­ sti nipponici di eludere la questione della guerra in Cina, teatro della stra­ grande maggioranza delle atrocità. 32 Hicks, Japan's War Memories cit., pp. 26-29. 33 Questo materiale è stato parzialmente tradotto in inglese in Frank Gib­ ney (a cura di), Senso: The Japanese Remember the Pacific War - Letters to the Editor of «Asahi Shimbun», M.E. Sharpe, Armonk (NY) 1995. 34 Kisaka Jun'ichiro, Recent Japanese Research on the Second War, «Historical Studies in Japan», 1983-1987, 1990, pp. 245-259 (rivista curata dal National Committee of Japanese Historians) . 35 I loro principali lavori in inglese figurano nella bibliografia o nelle note. 36 Vale la pena di notare che, nei processi, le divergenze tra le testimonian­ ze delle vittime e il giudizio finale non riguardano tanto i fatti quanto le responsabilità individuali: secondo alcuni un certo guardiano sarebbe sta­ to un feroce bruto, mentre altri testimoniano di essere stati da lui salvati. D'altra parte, i detenuti non avevano sempre una percezione chiara della catena gerarchica: si veda in particolare Gavan McCormack, Apportioning the Blame: Australian Trials for Railway Crimes, in Gavan McCormack, Hank

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Nelson (a cura di), The Burma-Thailand Railway: Memory and History, Silkworm Books, Bangkok 1993. >7 Lo stesso accadde con i sistemi di repressione nazisti e comunisti. Pro­ babilmente tutto ciò va fatto risalire, al di là delle logiche burocratiche ti­ p iche della modernità, a un elemento comune a quei regimi, ovvero il to­ tali tarismo. '8 Karl Hack, Kevin Blackburn, National Memories and Forgotten Captivities, Routledge-Curzon, London 2007. 39 Cinesi e giapponesi, per esempio, si affrontano in una vera e propria g uerra telematica a proposito di Nanchino . .o Questa non è una novità: in occasione del summit della Grande Asia del­ l'Est, tenutosi a Tokyo nel novembre del l943, si dovette far ricorso all'in­ glese come lingua franca.

L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

Capitolo l Il breviario dell'odio

Soldati, Noi siamo il vostro Comandante in capo. Noi vi ve­ diamo come Nostre membra, e voi considerateCi come il vostro Capo: in tal modo, tra noi vi sarà la più profonda intimità. Possiamo proteggere l'Impero, mostrarCi degni della benevo­ lenza celeste e rinnovare le gesta dei Nostri Antenati soltanto a condizione che voi, soldati, eseguiate il vostro compito con la massima dedizione. Se la maestà del Nostro Impero non si af­ ferma, anche voi condividerete, in proporzione, la Nostra tri­ stezza; se viceversa il valore e la gloria delle Nostre armate brillano fulgidi, condivideremo l'onore. Se fate tutti il vostro dovere, così da essere una sola cosa con Noi, e vi impegnate a proteggere lo Stato, il popolo del Nostro Impero godrà eterna­ mente dei benefici della pace e la maestà del Nostro Impero ri­ splenderà nel mondo. Esortazione imperiale a uso dei soldati (1882) 1

Una tradizione di violenza ? Dal suo ingresso nella storia (VI secolo) fino all'XI secolo, il Giappone è stato ben diverso dall'immagine di nazione militari­ sta e spietata consolidatasi in seguito. In principio, esso è retto be­ ne o male da un potere centralizzato sul modello cinese, il quale si sforza, con successo, di contenere le crescenti rivalità tra i gran­ di feudatari. Come nell'impero di Mezzo, che per l'arcipelago nipponico dell'epoca rappresenta un modello, il mestiere delle

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

armi non gode di particolare considerazione e vige una certa ge­ nerosità: dopo la rivolta di Sumitomo (941), l'Imperatore rassicu­ ra a proposito dei propri sentimenti paterni sia coloro che sono ri­ masti fedeli al governo sia i ribelli vinti e fatti prigionieri, e ordi­ na che siano dette preghiere in memoria di tutte le vittime 2• Esser preso prigioniero non fa certo piacere, ma non è considerato una vergogna: all'epoca, il suicidio del vinto non è una norma. Du­ rante tre secoli e mezzo, nessun cortigiano o funzionario è con­ dannato a morte 3, le agitazioni di civili sono assai rare (non sono segnalate rivolte o conflitti interni dal 764 fino alla fine del X se­ colo), e le guerre contro nazioni straniere sono del tutto scono­ sciute; le città non sono fortificate e gli eserciti sono dotati soltan­ to dello stretto necessario. La pax nipponica dell'ultimo quarto del I millennio è forse la più completa che il mondo abbia conosciu­ to, vista la sua durata. Si registrano alcune dure lotte di clan, ma la violenza sembra concentrata presso la «frontiera» della colo­ nizzazione, che, a spese dei primi occupanti dell'arcipelago, gli ainu, avanza progressivamente verso nord. Tuttavia, a partire dall'XI secolo, comincia a delinearsi il codi­ ce del guerriero più tardi sintetizzato nel bushido, che proclama il disprezzo della morte (la propria e l'altrui . . . ) e la fedeltà al pro­ prio signore. Le passioni che si fanno via via strada presso la nuo­ va aristocrazia feudale sono, secondo lo storico George Sansom, la gelosia, la collera, l'orgoglio, la rapacità e la crudeltà. La scon­ fitta del clan Minamoto nel conflitto contro i Taira (1156) rappre­ senta in qualche modo un punto di svolta: ai figli del capo vinto viene dato l'ordine di uccidere il proprio padre e una cinquanti­ na di membri del clan sono uccisi a sangue freddo. Un celebre ro­ manzo epico, lo Heike monogatari (Racconto del clan Taira, XIV se­ colo) dà testimonianza di nuove vette di orrore: nel 1185 i profu­ ghi del clan Taira, vinti a loro volta, sono braccati; i primogeniti vengono decapitati (una morte ignominiosa) e i più giovani sono annegati o bruciati vivi 4• La morale del guerriero si oppone sem­ pre più apertamente ai principi buddhisti di moderazione e di nonviolenza. I piaceri carnali sono esaltati come ricompensa le­ gittima dell'eroe, mentre la fuga, l'inganno e il massacro degli av-

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ve rs ari sono considerati peccati di assai minor entità rispetto alla mancanza di lealtà verso il proprio signore. La compassione nei confronti di un nemico coraggioso esiste, ma le donne non hanno diritto a nessun riguardo particolare; i prigionieri di guerra non sono sistematicamente uccisi, ma nemmeno esiste alcuna regola che imponga clemenza nei loro confronti: al contrario, portare al sovrano le teste mozzate dei dignitari nemici vale normalmente una ricompensa, mentre non è contemplata la liberazione dietro riscatto 5• Il suicidio dei vinti, così frequente nel XII secolo, serve dunque non soltanto a lavare l'onta della sconfitta, ma anche a evitare una sorte funesta. L' autoimmolazione può assumere pro­ porzioni massicce: per esempio, nel 1247, i cinquecento difensori della fortezza del clan Miura, sconfitti dai reggenti Hojo, com­ mettono suicidio nel monastero di Hokkedo 6• Nel 1333 la fortuna volta le spalle ai vincitori: quattrocento di loro si tolgono la vita, sempre in un tempio; alla cattura della loro capitale, Kamakura, nel monastero di Toshoji ha luogo un altro olocausto volontario, mentre gli edifici governativi bruciano, dati alle fiamme dagli ul­ timi Hojo 7• Altre azioni che avrebbero fatto rabbrividire i nobili del perio­ do precedente diventano, se non legittime, almeno accettabili: è questo il caso dell'uccisione di ambasciatori stranieri, perpetrata più volte (in particolare nel 1369) a spese di inviati degli impera­ tori della Cina e soprattutto, nel 1275, ai danni dei latori della ri­ chiesta di sottomissione ai mongoli di Kublai Khan (1215-1294): tale atrocità li convinse a tentare nuovamente, nel 1281, l'invasio­ ne del Giappone, già fallita una prima volta nel 1274 grazie al­ l'aiuto del «vento divino>> o kamikaze. Nel 1160, la condanna a mor­ te, da parte del capo del clan Taira, di un monaco che aveva com­ plottato contro di lui, provoca ancora una forte indignazione 8; tut­ tavia, nel 1571, l'uomo forte del momento, Oda Nobunaga (15341 582) 9, può permettersi di devastare completamente il monastero dell'Enryakuji a Kyoto: tutti gli edifici sono incendiati e non vie­ ne dato scampo né alle donne né ai bambini. La sorte dei monaci dello Heirinji, colpevoli di aver accolto le spoglie del suo grande nemico, Takeda Shingen (1521-1573) è terribile: sono bruciati vivi

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(1582) . La chiesa buddhista Hokke (Nichiren), che era sì potente ma non costituiva un pericolo dal punto di vista militare, è per­ seguitata e alcuni dei suoi membri laici sono giustiziati come ri­ belli 10 • Circa ventimila fedeli della scuola buddhista ikko, da par­ te loro, sono bruciati vivi nelle loro fortificazioni, pur avendo di­ chiarato di essere pronti alla resa (1574) 11 • È pur vero che essi rap­ presentavano una temibile fazione armata, dalle connotazioni po­ litiche assai marcate, ed è altresì vero che i monaci stessi ormai da lungo tempo davano il cattivo esempio: già nel l081 due grandi monasteri della stessa corrente buddhista Tendai erano in conflit­ to tra loro e l'Onjoji, vinto, era stato saccheggiato e bruciato com­ pletamente 12• Le atrocità compiute dai monaci-soldati contro i lo­ ro colleghi sono aumentate in seguito. Il buddhismo Zen, in piena ascesa all'epoca, trova singolari ar­ gomenti per giustificarne la violenza. Il grande monaco Gido af­ ferma, naturalmente, che uccidere è un grave peccato; d'altra par­ te, però, la meditazione deve passare attraverso l'abolizione del­ le nozioni di bene e male, poiché tale «distinzione» limitativa è fonte di errori e di incompletezza 13• Il suo interlocutore favorito, lo shogun 14 Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408), non può che sen­ tirsi incoraggiato da simili insegnamenti: non è un caso che lo Zen, che insiste sulla padronanza del proprio corpo, sia diventa­ to la religione favorita dei guerrieri. La crudeltà e la spietatezza sembrano essere divenute virtù cardinali: i pirati catturati nel XV secolo sono bolliti vivi; gli isti­ gatori di numerose rivolte contadine sono tutti giustiziati. La co­ siddetta Guerra Onin (1467-1477) è considerata la più terribile del tenebroso «medioevo» giapponese: essa comincia con vio­ lentissimi combattimenti nella stessa capitale imperiale, Kyoto, ove si riempiono otto grossi carri con le teste degli uomini ap­ partenuti alla distrutta «Armata dell'Ovest» 15• Toyotomi Hi­ deyoshi (1536-1598), che sostituisce Nobunaga nel ruolo di pa­ drone del Giappone, si dimostra, durante la vecchiaia, non me­ no crudele del suo predecessore: ordina al nipote Hidetsugu di suicidarsi, dopodiché ne fa esporre la testa mozzata e fa percuo­ tere a morte pubblicamente i suoi tre_ bambini e una trentina di

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donne della sua casa 1 6 • Dopo la sua morte, il nuovo shogun, Tokugawa Ieyasu (1543-1616) stermina il suo clan: nel 1615 mi­ gliaia di teste dei Toyotomi fiancheggiano la strada che conduce da Fushimi a Kyoto; i bambini non sono sempre risparmiati: uno 7 di loro, dell'età di otto anni, viene decapitato pubblicamente 1 • Nel 1651, il tentativo di colpo di stato di un gruppo di ronin (sa­ murai senza padrone) è represso ferocemente: i cadaveri dei sui­ cidi sono oltraggiati, intere famiglie sono crocifisse o, come mi­ sura di «clemenza», decapitate, bambini compresi 1 8• Tuttavia, a partire da quest'epoca, un nuovo gruppo è vitti­ ma di atrocità di ogni genere: i cristiani. Dapprincipio, i missio­ nari portoghesi sono tollerati, ma il loro successo presso alcuni ambienti aristocratici e l'aiuto accordato al loro gregge preoccu­ pano Hideyoshi, che li espelle formalmente nel 1587. I primi martirii risalgono al 1597: sette francescani e diciannove disce­ poli giapponesi sono mutilati, trascinati come esempio da Kyo­ to a Nagasaki - loro roccaforte - poi crocifissi a testa in giù 19• I Tokugawa inaspriscono questa politica: nel 1622 a Nagasaki si registrano 55 esecuzioni (ma tra il 1613 e il 1 626 le vittime sono state almeno 750 20) e, soprattutto, il massacro di quasi tutti i cir­ ca 20.000 contadini cristiani rivoltosi di Shimabara (Kyiishii) nel 1638 21• Il cattolicesimo è sopravvissuto a fatica e nella più asso­ luta clandestinità. Questa atmosfera di estrema violenza era destinata a esten­ dersi al di là dei confini dell'arcipelago nipponico. Dal 1592 al 1598 Hideyoshi traccia una lunga scia di incendi e uccisioni at­ traverso la Corea, alla cui conquista affida la propria gloria. Il suo decesso pone fine all'avventura, ma prima di morire egli ha an­ cora il tempo di decapitare 8000 soldati coreani subito dopo lo sbarco e, successivamente, nel 1598, 38.000 soldati coreani e cine­ si giunti a dare manforte agli invasi. Si delinea un'industria della morte il cui fetore ha già qualcosa di moderno: ogni militare giap­ ponese si vede assegnare una «quota>> minima di tre nasi coreani da spedire in Giappone, in un'atmosfera di competizione tra gli eserciti dei clan giapponesi. La «tomba>> di questi nasi (tra 100.000 e 200.000) nel tempio Hokoji di Kyoto costituisce ancora oggi

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un'attrazione turistica 22• D'altra parte, sembra che circa 100.000 coreani siano stati deportati e inviati nell'arcipelago senza spe­ ranza di ritorno in patria: in maggioranza, si trattava di donne avvenenti, ma vi erano anche specialisti di tutti i tipi (letterati, tessitori, stampatori ecc., e, soprattutto, porcellanai, che hanno fondato in Giappone un'industria divenuta ben presto di qualità eccelsa) 23• Il disprezzo fortemente venato di razzismo dei giappo­ nesi nei confronti dei coreani era destinato a provocare, in segui­ to, un altro massacro: 6000 persone originarie della penisola sono state massacrate nel 1923, in occasione del terremoto che ha scon­ volto Tokyo, con il pretesto che avrebbero tentato di approfittare del sisma per fomentare una sommossa 24; in questo gesto possia­ mo lecitamente vedere il sacrificio di capri espiatori.

L'epoca moderna: una violenza «ciclotimica» Dopo due secoli caratterizzati da una maggiore tolleranza gra­ zie agli shogun Tokugawa, rassicurati dal consolidamento del proprio potere, la Restaurazione Meiji era destinata a far rinasce­ re la violenza, anche se su scala assai ridotta in confronto agli or­ rori che avevano caratterizzato il secolo XVI: ritroviamo quindi le lotte tra clan aristocratici (migliaia di insorti xenofobi sono mas­ sacrati nel 1863 a Totsugawa e a Ikuno; di rimando, nel 1868 un numero equivalente di sostenitori dei Tokugawa è sterminato a Edo), le persecuzioni nei confronti dei cristiani (specialmente a Nagasaki, nel 1864) e la violenta repressione delle rivolte conta­ dine con l'esecuzione dei «complottardi», anche quando questi hanno agito, come nel 1868, per conto della fazione vittoriosa 25• Non si deve peraltro pensare che i giapponesi siano caratte­ rizzati da un'atavica propensione a uccidere, sebbene ristretta ai soli periodi feudale e post-feudale. In effetti, i prigionieri di guer­ ra, anche asiatici, sono stati trattati abbastanza bene fino alla Grande Guerra inclusa. Durante il conflitto degli anni 1894 e 1895, i 1 790 cinesi catturati furono immediatamente rilasciati, in cambio della promessa di non prendere più le armi contro il

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Giappone. Dieci anni dopo, a 79.000 prigionieri russi venne cor­ risposta una paga doppia rispetto a quella del fante giapponese, quando la convenzione dell' Aja (1899) raccomandava la parità, e le loro perdite furono trascurabili (circa 600 morti, compresi i de­ cessi dovuti alle ferite riportate sul campo di battaglia) 26• Il gene­ rale Danilov, spedito a Tokyo dopo la guerra per supervisionare le operazioni di rimpatrio, si sentì in dovere di «esprimere la [sua] profonda gratitudine alle autorità giapponesi per il tratta­ mento riservato ai prigionieri russi», e il suo governo effettuò un'importante donazione alla Croce Rossa nipponica, che si era occupata di loro 27• Secondo l'infermiera volontaria britannica T. E. Richardson: «I giapponesi trattavano [i russi] più come ospiti d'onore che come prigionieri» e facevano il possibile per rispetta­ re le loro abitudini alimentari: non davano loro riso, ma pane ne­ ro e bianco, burro, sottaceti e carne in abbondanza . . . I carcerieri reclutavano professori per insegnare a leggere e scrivere ai pri­ gionieri analfabeti. Una distrazione era rappresentata dal canto corale 28• All'epoca, dunque, il Giappone, agli occhi dell'opinione pubblica internazionale, è un modello in materia di servizi sanita­ ri per gli eserciti e di applicazione delle norme umanitarie che la conferenza dell' Aja ha cominciato a delineare. Addirittura, secon­ do alcuni storici, dal momento che l'esercito russo era anch'esso ben equipaggiato sul piano medico, il conflitto russo-giapponese si configura come la prima guerra della storia le cui morti sareb­ bero da imputare alle battaglie piuttosto che alle ferite mal curate, alle malattie o al cattivo trattamento dei prigionieri. Le modeste operazioni condotte dal Giappone nel corso della prima guerra mondiale confermano quanto appena esposto: i cir­ ca 4600 tedeschi fatti prigionieri nel 1914 nei loro possedimenti in Cina e nel Pacifico dal Giappone alleato dell'Intesa non hanno la­ mentato perdite sensibilmente più elevate rispetto a quelle subite dai prigionieri russi, benché la loro cattività sia durata quattro an­ ni. I campi in cui erano detenuti sono stati visitati regolarmente dalla Croce Rossa; inoltre, hanno potuto organizzare un'orchestra s infonica e insegnare la musica, nonché l'arte della fabbricazione della birra, ad alcuni giapponesi. La straordinaria passione che i

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giapponesi nutrono nei confronti della Nona sinfonia di Beetho­ ven deriva proprio dai prigionieri tedeschi, ai quali si deve la pri­ ma esecuzione giapponese dell'opera, il 1° giugno 1918. Dopo la fine del conflitto, il campo di detenzione, ormai considerato come un importante luogo di scambi culturali, venne trasformato in un museo, col nome di «parco del Villaggio tedesco», in cui, oggi, la musica dell'Inno alla gioia accompagna i visitatori 29• Il pubblico giapponese, da parte sua, non ha biasimato più di tanto i 1800 mi­ litari giapponesi fatti prigionieri nel corso del conflitto russo-giap­ ponese: un gruppo di soldati nipponici, rilasciati nel 1906, duran­ te il viaggio di ritorno fu accolto calorosamente dalla comunità giapponese di Singapore; lo stesso entusiasmo si manifestò al loro arrivo in Giappone, a Kobe 30• Comunque, non si deve contrapporre in modo caricaturale la condotta di guerra del Giappone dell'epoca Meiji con il com­ portamento da esso tenuto durante la seconda guerra mondia­ le. La repressione della grande rivolta contadina Tonghak, in Corea, da parte delle truppe giapponesi nel 1894, causò all'in­ circa 50.000 morti: i massacri che produssero questo bilancio vennero ordinati dal quartier generale di Hiroshima 31• Inoltre, esistono indizi relativi a un eccidio di vaste proporzioni ai dan­ ni di civili cinesi, perpetrato nei giorni immediatamente suc­ cessivi alla presa - ottenuta praticamente senza sparare un col­ po - di Port Arthur (Dàlian in cinese), il 21 novembre 1894 32• Al­ cuni corrispondenti della stampa occidentale, pur nel comples­ so favorevole al Giappone «civilizzato», reagirono con forza. Per esempio, il 12 dicembre, James Creelman scrisse sul «New York World» : Gli abitanti, indifesi e senz'armi, sono stati massacrati nelle loro ca­ se, e i loro corpi mutilati in maniera indescrivibile. Durante quei tre giorni ha regnato una furia omicida senza limiti. L'intera città è sta­ ta saccheggiata e sono state compiute spaventose atrocità, che han­ no macchiato la società giapponese, ripiombata nuovamente nella barbarie. Ogni tentativo di giustificare quanto è successo è viziato da malafede: i dettagli sono tali da far inorridire il mondo civile. I

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corrispondenti stranieri, sconvolti da quello spettacolo, hanno ab­ bandonato in massa l'esercito giapponese. 33

Nel prosieguo dell'articolo è descritta una lunga serie di atro­ c ità, per lo più compiute servendosi della sciabola e sostanzial­ mente confermate dalle testimonianze dei militari giapponesi, i quali tentano però di giustificarle - come avviene spesso in que­ sti casi - attribuendone la vera responsabilità alla crudeltà e all'i­ pocrisia del nemico: [Secondo il riservista di prima classe Kubota Chuzo] i nemici [ . . . ] che non riuscivano a fuggire si travestivano talvolta da contadini, talaltra si nascondevano in case cinesi, altre ancora correvano di tetto in tetto come formiche in fuga 34 • Entrando a Port Arthur, tro­ vammo la testa di tm prigioniero giapponese montata su tm palo ligneo. La vista di quella mutilazione ci colmò di rabbia e furore, al ptmto che volevamo soltanto fare a pezzi qualrmque soldato cine­ se. Li uccidemmo tutti, anche quelli che vestivano abiti civili. Nel­ le strade c'erano così tanti cadaveri che camminare diventava dif­ ficile. Trovammo e uccidemmo almeno due soldati nemici per ogni casa; l'intera città odorava del loro sangue [ . . . ] . Inchieste condotte in seguito hanno stabilito che uccidemmo anche più di quaranta donne: in effetti, nel buio non le potevamo distinguere, ed erava­ mo furibondi a causa della barbarie cinese che si era manifestata ai nostri occhi. 35

Colpisce il contrasto tra queste atrocità e il comportamento te­ nuto nei confronti degli europei, considerati «civilizzati». Il Giap­ pone, tutto sommato, vuole dimostrare di appartenere al loro ste sso mondo, come testimoniano, tra le altre cose, lo sviluppo di un a rete ferroviaria, l'apertura di un parlamento (1890) o l'ado­ zione di modi e vestiti occidentali. In compenso, il resto dell'Asia è tenuto a distanza: nei suoi confronti, il comportamento «nor­ male» dell'epoca si traduce in sfruttamento coloniale o in inter­ venti all'insegna dell'imperialismo. I sentimenti di xenofobia e razzismo più virulenti non sono riservati ai «bianchi» ma agli

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asiatici: come vedremo, questo atteggiamento è ancora in parte presente allo scoppio della seconda guerra mondiale. Sebbene punti a essere un esercito moderno, l'armata giappo­ nese dell'era Meiji si propone altresì di preservare la continuità con i valori tradizionali dei guerrieri dell'arcipelago. Abbiamo menzionato la «via del guerriero», o bushido. Essa riposa tradizio­ nalmente su sette elementi: l'onestà, il coraggio (che deve essere accompagnato da capacità di discernimento: non è bene sacrifi­ carsi per una causa triviale), l'umanità (in particolare verso i de­ boli o i nemici sconfitti), la generosità, la sincerità, l'onore (ogni mancamento genera una vergogna che può anche condurre alla morte), la lealtà, che presuppone un'obbedienza non cieca 36• Il Codice di condotta militare stampato sotto forma di editto nel 1882 dall'Imperatore stesso si rifà alle virtù sopraelencate, pur mettendo al primo posto la sincerità, il che costituisce una prima deviazione in direzione dell'utilitarismo. Tuttavia, è specificato che il coraggio non deve ostacolare l'amore e il rispetto degli al­ tri. Le lettere dei soldati che hanno partecipato alla guerra russo­ giapponese testimoniano che una certa moderazione, all'epoca, esisteva ancora: in tali documenti non si trovano l'esaltazione del sacrificio o il culto fanatico dello Stato e dell'Imperatore 37• Il ge­ nerale Nogi Maresuke (1849-1912), da parte sua, viene duramen­ te criticato e infine esonerato a causa delle dure critiche sollevate dalle sue «ondate umane» 38, lanciate invano contro la ben difesa Port Arthur. Ciò non ha impedito a Nogi di essere chiamato a fa­ re da precettore al futuro imperatore Hirohito e di diventare og­ getto di un culto popolare per aver commesso suicidio rituale in occasione dei funerali dell'imperatore Meiji (1912). Nel XX secolo il bushido si trasforma da modello ispiratore in feticcio, pur subendo rimaneggiamenti dal punto di vista del con­ tenuto. Si segnalano, per esempio, casi di suicidi di ufficiali che non erano riusciti a recitare correttamente il codice del 1882: un samurai tradizionale, a questo proposito, avrebbe parlato di stu­ pidità più che di coraggio. Soprattutto, la lealtà diventa la virtù più importante: il suo oggetto, però, non è più un capo conosciu­ to personalmente, come nel lungo ciclo delle guerre feudali, né la

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nazione o lo Stato come nell'era Meiji, ma un Imperatore inacces­ sibile e mitizzato, di cui qualunque superiore gerarchico è visto come un rappresentante 39• Da ciò derivano un culto dell'obbe­ dienza cieca e l'insistenza sulla necessità di un sacrificio che po­ co alla volta passa dal rango di ultima risorsa a quello di grande onore, se non addirittura di suprema felicità. Quando l'esito del­ la guerra nel Pacifico comincia a farsi più incerto per il Giappone, alcuni genitori benpensanti ritengono - riallacciandosi alla pro­ paganda ufficiale - di augurare ai propri figli «di non tornare vi­ vi». Si insiste sul conseguimento della vittoria a qualsiasi prezzo, sulla conservazione, in qualunque circostanza, di uno «spirito combattivo»: da qui proviene l'esecrazione dell'idea stessa di ri­ tirata o di resa che ha condotto l'esercito giapponese a perdere buona parte delle sue forze, le quali non erano state fatte ripiega­ re a tempo debito. «Spirito» che ha reso inoltre estremamente dif­ ficile la resa dei soldati nipponici e ha prodotto uno sconfinato disprezzo nei confronti dei prigionieri di guerra nemici. Questo cambiamento è dovuto a una complessa serie di cause, alcune delle quali saranno esaminate in seguito. Tuttavia, nell'esercito, la svolta si produce nel corso dei primi vent'anni del XX secolo, allorché gli ufficiali di estrazione samurai vengono rimpiazzati sempre più spesso da comandanti di estrazione modesta, gene­ ralmente contadina, appena usciti dalle scuole militari: costoro diventano ben presto il nerbo del nuovo spirito imperialista e totalitario.

Meiji, uno Stato di guerra ? Nel 1868 giunge al potere un gruppo di giovani samurai ori­ ginari del sud del paese, alla testa di forze che lottano per la re­ staura zione del potere imperiale. Ebbene, pur essendo un pro­ dotto delle guerre feudali, lo shogun da essi deposto esercitava un potere assai più burocratico (e poliziesco) che militare. I suoi vincitori sono destinati a lasciare un segno durevole, con la rimi­ litarizzazione di un regime che, tra l'altro, deve fare i conti con i

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temibili imperialismi dell'Occidente. Il loro prestigio e la loro non rara longevità (Saionji Kinmochi, 1849-1940, ultimo sopravvissu­ to dei grandi «oligarchi» o genro del paese, si spegne soltanto al­ la vigilia della guerra del Pacifico) assicurano, oltre all'attenzione dei monarchi successivi, la capacità di formare e disfare i gover­ ni, anche quando non vi partecipano; il loro potere si esercita at­ traverso la presenza nel Consiglio privato del sovrano, composto principalmente da suoi ex primi ministri. Oligarchi per natura, contribuiscono a ridurre drasticamente il diritto di voto fino al 1925 (e anche allora per iscriversi alle liste elettorali occorreva es­ sere un maschio, avere almeno trent'anni e avere una residenza stabile da almeno un anno) e a limitare fin verso il 1912 il campo del parlamentarismo. Essendo militari, oltre che uomini politici, provvedono a piazzare membri dei loro clan feudali alla testa de­ gli stati maggiori (Satsuma per l'armata di terra, Choshii per la marina): tutto ciò dura fino agli anni '30, contribuendo ad ali­ mentare un'atmosfera di clientelismo e di feroci rivalità. Orga­ nizzano la colonizzazione, da parte di altri samurai, della mac­ china amministrativa a tutti i livelli, assumendo la guida della fetta dell'economia a controllo statale (di minor entità dopo il 1880). Infine, tra il 1872 e il 1873, costituiscono un potente eserci­ to di coscritti, ispirato al modello della Germania imperiale e do­ tato di strutture e armi moderne; esso permette di integrare effi­ cacemente all'apparato statale i samurai privati dei loro privilegi, offrendo altresì all'industria ancora balbettante l'occasione di ac­ caparrarsi ghiotte commesse. Nel 1894, un terzo della spesa pub­ blica è destinato all'esercito di terra e alla marina. In seguito, ognuno dei conflitti ai quali partecipa il Giappone (guerre contro la Cina, contro la Russia e contro la Germania) ha rappresentato un'occasione per aumentare il budget militare (41% della spesa tra il 1911 e il 1920), che, quando la pace è ristabilita, non torna più al livello di partenza. In conseguenza di ciò, l'industria pesante, fondata sullo Stato o da esso massicciamente finanziata e soprattutto giustificata da preoccupazioni di sicurezza nazionale, diventa redditizia. Essa era naturalmente divenuta appannaggio dei samurai-imprendi-

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tori, mentre i mercanti si orientavano piuttosto verso l'industria leggera (soprattutto tessile), garanzia di guadagni immediati. L'i­ nizio era stato stentato: la reputazione delle sciabole giapponesi non poteva sopperire alla mancanza di una produzione metallur­ gica di massa. Per la durata di un'intera generazione il Giappone era stato costretto a importare non soltanto acciaio (182.000 ton­ nellate tra il 1898 e il 1900, contro una produzione nazionale di appena 2000 tonnellate), ma anche ponti, navi, munizioni ecc. Soltanto nel 1895, in piena guerra, la Dieta decide la realizzazio­ ne di un'acciaieria e le officine Yawata (situate nell'isola meridio­ nale di Kyushu) aprono nel 1901; nel 1913 la produzione, pur pro­ tetta e sovvenzionata dallo Stato, ammonta a sole 216.000 tonnel­ late. Il Giappone riesce a provvedere soltanto a un terzo del suo fabbisogno, equivalente all'l% della produzione americana di ac­ ciaio . . . e lo stesso vale per gli altri campi: fino al 1893 quasi tutte le navi moderne sono acquistate all'estero; la produzione su lar­ ga scala di macchinari non parte prima del l913. Come si vedrà, il Giappone raggiungerà uno standard di tipo europeo in occa­ sione del primo conflitto mondiale. Non desta quindi meraviglia il fatto che questo Stato, il quale si preoccupa in primo luogo di creare piccoli soldati piuttosto che buoni cittadini, sia così fortemente caratterizzato in senso autori­ tario, come attestano il culto della gerarchia e dello spirito di cor­ po. Il progetto fondamentale dei «rivoluzionari» del 1868 non era forse permeato di spirito nazionalista e guerriero? Il loro slogan preferito è fukoku kyohei (arricchire il paese, rafforzare l'esercito) e la loro ambizione non è diversa da quella degli xenofobi terrori­ sti del 1850, il cui motto era sonno joi, ovvero «riverire l'Impera­ tore e cacciare i barbari» (in questo caso gli occidentali). Sempli­ cemente, hanno capito che per raggiungere lo scopo occorre esse­ re pazienti, spendendo tutto il tempo necessario a impadronirsi delle tecniche e dei metodi dell'avversario, per usare contro di lui le sue stesse armi. Non si progettano seriamente rapporti basati sull'uguaglianza o intese durature con gli altri paesi, anche se la logica degli accordi diplomatici produce alla lunga individualità e interessi che puntano al loro mantenimento o alla loro estensio-

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ne. Da questo punto di vista, il Giappone è perfettamente attrez­ zato per poter entrare nel circolo ristretto delle grandi potenze che, in quell'epoca, si spartiscono il mondo. Tuttavia, l'esperien­ za dell'Europa, a cominciare dai trattati di Westfalia (1648), le ha instillato (salvo eccezioni!) l'arte di limitarsi nelle proprie ambi­ zioni e l'accettazione di compromessi; tutte cose che sulle quali il Giappone, a causa del lungo isolamento, dimostra evidenti diffi­ coltà 40• Infatti, quando gli è possibile, passa da una prudenza che sconfina nella sottomissione a un'arroganza che presuppone che l'unico nazionalismo legittimo sia quello nipponico: dopo tutto, quale altro paese è retto da un dio vivente (tale è considerato l'Imperatore del Giappone 41)? Le missioni di studio inviate dagli oligarchi all'estero dopo il 1868 sono state sedotte in modo particolare dal modello politico­ militare prussiano, esteso all'intera Germania nel 1871 : esso sem­ brava assicurare durevolmente la presenza di un esecutivo forte, incentrato sul sovrano e caratterizzato da concessioni in larga mi­ sura esclusivamente formali alla politica moderna (estensione del suffragio, parlamento rappresentativo, voto del bilancio 42 ). Tale modello ha segnato la scuola 43, l'addestramento militare (eserci­ tazioni molto severe, punizioni corporali . . . ) e più ancora la vita politica. L'imperatore Meiji introduce l'obbligo di una formazio­ ne e di un'uniforme militari per tutti i membri maschi della fa­ miglia imperiale, rompendo in tal modo con la tradizione esclu­ sivamente letteraria e artistica che si addiceva in passato ai nobi­ li di altissimo rango, conformemente al concetto cinese del «non agire» 44• La Costituzione Meiji (1889), in vigore fino al 1945, introduce un parlamento parzialmente eletto; tuttavia, il suffragio è censi­ tario fino al 1925 e il potere legislativo è ripartito tra due camere, delle quali una, la Camera dei Pari, è nominata dall'esecutivo. Inoltre, sul modello prussiano, è stabilito un legame diretto tra gli stati maggiori e il sovrano: i loro capi, che in linea di principio de­ vono rendere conto soltanto al monarca, formano la Conferenza imperiale, che decide su guerra e pace e si riunisce regolarmente tra il 1941 e il 1945; inoltre, nel 1878 (cinque anni prima della Ger-

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mania!), i ministri della Guerra (armata di terra) e della Marina godono del diritto di accesso (estremamente ristretto 45) all'Impe­ ratore, scavalcando il primo ministro, al quale, pertanto, in gene­ rale non si sentono subordinati 46• Essendo militari e, a partire dal periodo tra le due guerre, militari di carriera, sono di solito no­ minati e revocati da loro pari, ai quali possono essere sottoposti dal punto di vista gerarchico. Da ciò deriva, di fatto, una sorta di diritto di veto sulla formazione dei governi (nessun ufficiale ac­ cetta il portafoglio propostogli) nonché il potere di farli cadere (attraverso le dimissioni di tutti i ministri militari). Tutto questo dà vita, come a Berlino, a una cricca politico-militare che circon­ da il sovrano, e che sfugge a ogni controllo parlamentare e in gran parte a quello del primo ministro, se questi è un civile. La diffe­ renza consiste nel fatto che in Germania l'imperatore (o il cancel­ liere, nel caso di Bismarck) assume generalmente un ruolo di coordinamento tra il potere militare e quello civile, mentre il com­ portamento cui si attiene per principio il sovrano nipponico è im­ prontato al riserbo e all'astensione da qualunque intervento, sal­ vo in circostanze del tutto eccezionali 47• La stretta vicinanza dello stato maggiore al Tenno (l'Imperatore) assicura infatti ai capi del­ le forze armate una libertà d'azione quasi totale, dacché il potere politico non può opporsi a quanto viene presentato come la vo­ lontà del sovrano 48• Fino agli anni '30 i militari non abusano di quest'arma assoluta, la quale però costituisce un pericoloso osta­ colo a qualunque forma di democratizzazione e lascia di fatto li­ bero corso alle fantasie aggressive degli alti ufficiali. Tra il 1890 e il 1920 erano stati pazientemente introdotti alcu­ ni elementi di parlamentarismo: il loro successivo indebolimento è da imputare in massima parte all'onnipotenza di un esercito tra sformatosi nel rifugio degli elementi più estremisti e non abi­ tuato a render conto delle proprie azioni al potere politico. L' au­ tono mia dell'armata del Kwantung è quasi incredibile: decide da so la di rinforzarsi usando truppe di stanza in Corea, crea di na­ scosto il laboratorio specializzato in ricerche batteriologiche di Pingfan (vedi il cap. 6), e il suo capo è anche il potentissimo «am­ ba sciatore» (di fatto governatore) giapponese nel Manchukuo (in

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cinese: Manzhougu6; in giapponese: Manshii-koku); è lo stesso esercito che, con Tojo, colonizzerà, nel 1941, il governo di Tokyo. In occasione del sacco di Nanchino, nel 1937, i diplomatici giap­ ponesi sono sommersi di note di protesta di residenti e diploma­ tici stranieri; tuttavia, lo stesso Ministero degli Esteri è già ridot­ to, all'epoca, al rango di cassetta delle lettere a uso dei veri pa­ droni del paese. L'egemonia dell'esercito è resa ancora più forte dall'onnipresente Kempeitai (fondata nel 1881), polizia militare responsabile, tra le altre cose, del controspionaggio, della censu­ ra e, a volte, delle licenze rilasciate alle prostitute. I militari non devono più preoccuparsi del giudizio dei civili: l'impunità, per loro, è totale. D'altra parte, l'esercito comincia assai presto a imbrigliare la società civile. Nel 1910, sotto il diretto controllo dei militari, è fon­ data un'Associazione di riservisti i cui effettivi aumentano man mano che il servizio militare si generalizza. Il numero dei coscrit­ ti raddoppia tra il 1905 e il 1921 49• Le sezioni locali raggiungono in breve tempo anche i paesini più piccoli e, nel 1914, si estendo­ no anche ai luoghi di lavoro. Accanto alle attività propagandisti­ che, è organizzato un corso di addestramento militare per i futu­ ri combattenti e un programma ginnico per mantenere in forma i veterani. Lo statuto dell'Associazione è molto chiaro: Al nostro ritorno a casa, grazie alla nostra virtù, dobbiamo in­

fluenzare le giovani generazioni, trasformandoci in cittadini mo­ dello, non esitando a svolgere il ruolo di possente braccio destro dell'Imperatore. [ . . ] Dobbiamo [ . . ] realizzare il nostro ideale, fa­ cendo sì che tutti i cittadini siano soldati. 50 .

.

In seguito, tra il 1914 e il 1915, i ministeri dell'Esercito, del­ l'Interno e dell'Educazione mettono in piedi un'Associazione na­ zionale della gioventù, che comincia a federare una miriade di club locali. Essa si propone di «popolarizzare i valori patriottici e di servire agli interessi della nazione», in particolar modo attra­ verso la formazione morale, l'educazione fisica e la preparazione militare. Un'Associazione di donne patriottiche esisteva fin dal

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1 9 0 1; nel 1905 contava 450.000 membri e aveva contribuito al so­ s te gno delle truppe impegnate nella guerra contro la Russia. Si trattava peraltro di un movimento essenzialmente elitario e poco i mp e gnato politicamente. Per questo motivo, nel 1932, i militari e i p oli tici a loro vicini fondano una nuova Associazione delle don­ ne p er la difesa nazionale, che arriverà a contare 8 milioni di ade­ renti nel 1938 e 10 milioni nel 1941, divenendo, nel febbraio del 1942, il nucleo del raggruppamento di tutte le organizzazioni femminili nell'Associazione delle donne per il Grande Giappone. L'iscrizione diverrà praticamente obbligatoria per tutte le donne sposate e per le nubili che abbiano almeno vent'anni. Lo scopo è fornire lavoro alle famiglie degli uomini mobilitati, aiutare la pre­ parazione e il corretto svolgimento delle esequie ai caduti, orga­ nizzare conferenze e proiezioni di film al fine di diffondere le idee militariste, condurre con successo campagne a favore del rispar­ mio, della frugalità e contro il lusso, collaborare al censimento an­ nuale di coloro che possono essere mobilitati e all'esame dei gio­ vani e dei riservisti, accompagnare e festeggiare i soldati sia quan­ do partono che al loro ritorno, occupandosi di assistere i feriti. 51

Sfuggire alle strette maglie di questa rete è impensabile, so­ prattutto nei villaggi più piccoli.

L'armamento dell'animo Il Giappone dei primi anni del XX secolo è contrassegnato da una vera e propria «invenzione della tradizione», una volontà di ritornare a un passato idealizzato, ma strumentalizzato concreta­ mente a beneficio dei responsabili politici che orchestrano il mo­ vimento. Di certo, questa operazione fonda la propria credibilità su l recupero di elementi autentici, ripresi in massima parte dalla cultu ra degli antichi guerrieri, dalle scuole buddhiste Zen o Ni­ chiren 52 aventi un largo seguito, e dal vetusto fondo animista tar­ divamente sistematizzato con il nome di shinto. Tuttavia, questi

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elementi sono selezionati e rielaborati a tal punto che il risultato è soltanto vagamente imparentato con ciò che pretende di aver ri­ suscitato. Allo stesso modo, il guazzabuglio pagano-wagneriano che il nazismo si porta dietro è assai lontano dall'antica religione dei germani. Tuttavia, in Giappone gli elementi recuperati erano stati dimenticati solo in parte e da meno tempo, ed esercitavano ancora un'attrazione irresistibile su quasi tutti i giapponesi; essi, contadini o discendenti di contadini, erano fortemente attratti dall'invito a partecipare alla cultura (o pretesa tale) dei loro anti­ chi signori: si tratta di una simbolica promozione tanto più ap­ prezzata se si pensa che, nel periodo tra le due guerre mondiali, l'ascesa sociale era impossibile, per effetto delle crisi economiche che si sono succedute e, in seguito, a causa del gigantesco pro­ gramma di armamento (vedi sotto). Il culto dell'Imperatore continua a svilupparsi. Le sue basi sono scritte nella Costituzione del 1889, il cui primo articolo menziona la presenza, alla testa dello Stato, di «una linea eterna e ininterrotta di imperatori». Gli articoli 4 e 19 fanno del sovra­ no la fonte di tutti i poteri e il capo supremo degli eserciti: dal momento che egli non è un militare, si intuisce quanto grande sia il potere dei militari, del quale abbiamo già avuto modo di parlare. Tuttavia, resta un'ambiguità irrisolta: l'Imperatore è un monarca costituzionale o si situa al di sopra delle leggi? La pri­ ma interpretazione pare trionfare durante la «democrazia del­ l'era Taisho» (1860-1912), quando i partiti parlamentari sembra­ no prevalere sugli oligarchi, che muoiono uno dietro l'altro: l'e­ minente professar Minobe Tatsukichi (1873-1948), giurista del­ l'Università imperiale di Tokyo, presenta l'istituzione imperiale come un organo dello Stato. Non è per niente d'accordo il suo avversario Hozumi Yatsuka (1860-1912), che all'epoca ricopre un ruolo marginale: il Tenno è lo Stato. Con l'avvento dei milita­ ri questa tesi trionfa: nel 1935 Minobe, che pur aveva abiurato la sua fede nella democrazia parlamentare un anno prima, viene addirittura accusato di lesa maestà, è costretto a dimettersi da tutti gli incarichi e dalla Camera dei Pari ed è ferito da alcuni militanti nazionalisti. Due tra i suoi principali libri sono proibì-

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ti, mentre agli studenti sono offerti soltanto più volumi che esal­ tano l'unità dell'Imperatore e dello Stato. Tsuda Sokichi, storico dell'università di Waseda, è cacciato dal suo posto per aver mes­ so in discussione la validità delle cronache dell'VIII secolo, che fanno risalire la continuità imperiale al 660 a.C. 53• Durante la guerra, i soldati cercano con la bussola la direzione di Tokyo per gridare il loro famoso «Banzai!>>. Nei teatri, ogni rappresenta­ zione ha inizio con l'esecuzione dell'inno nazionale e con un ri­ spettoso inchino in direzione del Palazzo, raffigurato su un mu­ ro della sala. I passeggeri dei treni di periferia devono compie­ re lo stesso gesto alla vista del luogo sacro. Mettere in discus­ sione la filiazione diretta della dinastia dalla dea Amaterasu (la divinità shintoista del sole), fondatrice del Giappone, diventa molto pericoloso. Infatti, l'esaltazione della nazione è indissolubilmente legata a quella del sovrano. Già nel 1935, le due camere del Parlamento adottano una risoluzione che proclama il Giappone centro vitale del mondo e l'Imperatore, di natura divina, centro del Giappone; si pretende che egli preesista allo Stato, il quale, quindi, procede da lui. L'ideologia che trionfa in quel momento preconizza una «restaurazione Showa» radicale quanto quella dell'era Meiji e in­ tende bandire il «pensiero straniero» a vantaggio di una «filoso­ fia giapponese» 54: soltanto la scienza e la tecnica straniere hanno ancora diritto di cittadinanza. Un potente istituto per lo studio dello spirito e della cultura della nazione lavora in stretta con­ nessione con il Ministero dell'Educazione allo scopo di trasmet­ tere il Nippon seishin (spirito del Giappone) alle giovani genera­ zioni. Progressivamente, le opere straniere sono ritirate dalle bi­ blioteche . . . La frattura con il Giappone aperto degli anni '20, che vibrava al ritmo del jazz e divorava i romanzi anglosassoni 55, de­ ve essere totale. Eppure, come spesso accade in simili casi, !'«autenticità» na­ zionalista prende a prestito surrettiziamente molte cose dall'este­ ro. Per esempio, Kita Ikki, ex socialista, ispiratore del tentativo di colpo di stato militare del febbraio 1936 (e per questo giustiziato), plagiando Mussolini dipingeva il Giappone come una «nazione

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proletaria», impegnata in un inevitabile confronto con le «nazio­ ni plutocratiche» anglosassoni. Il darwinismo sociale offre un supporto al disprezzo manifestato nei confronti della Cina e del­ le nazioni asiatiche «decadenti», di cui il Giappone pieno di for­ za vitale, bontà sua, si degnerebbe di farsi carico. Esso giustifica altresì, durante la guerra, i discorsi sulla necessità di una lotta al­ l'ultimo sangue per la supremazia nel bacino del Pacifico e su scala mondiale tra «gialli» (sotto il comando di Tokyo) e bianchi. Il nietzscheismo (o le sue forme imbastardite) permette, invece, l'esaltazione della forza virile, il culto della violenza che non si deve arrestare di fronte a nulla, la glorificazione estetizzante del gesto del guerriero. L'ideologia dominante è quella del kokutai, termine che all'e­ poca è ripetuto di continuo, ossessivamente, e che spesso si tra­ duce con «spirito nazionale» o «dogma nazionale» : in ogni caso, esso contiene in sé tutti i valori e le istituzioni che nessuno ha il diritto di mettere in discussione 56• Il Giappone è descritto come una grande famiglia gerarchica riunita attorno a un imperatore­ dio, dalla quale ogni dissenso dev'essere eliminato e che deve es­ sere retta dal concetto centrale di lealtà assoluta nei confronti del superiore. Sul piano esterno, si insiste sul carattere fondamental­ mente originale del paese, sulla sua vocazione naturale a guidare il mondo, e innanzitutto l'Asia, che deve prima di ogni altra cosa essere liberata dall'influenza europea: «Irradiare la nostra grande virtù su tutta la terra, fare del mondo una sola famiglia, ecco la missione che ci è stata affidata dai nostri antenati imperiali e alla quale noi ci dedichiamo giorno e notte», precisa il rescritto impe­ riale pubblicato in occasione della firma, nel settembre del 1940, del patto che dà vita all'Asse Berlino-Roma-Tokyo 57• Nel 1941, l'opuscolo ufficiale del Ministero dell'Educazione, La via del sud­ dito, una sorta di breviario politico degli anni della guerra 58, pre­ cisa quanto segue: Ciò che noi abitualmente chiamiamo «vita privata» è, in ultima analisi, la via del suddito. Come tale, essa ha un si gnificato collet­ tivo, nella misura in cui o gni atto privato è compiuto dal suddito

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come espressione dei suoi umili sforzi per assistere il Trono [ . . . ] . Inoltre, non dobbiamo mai dimenticare che, anche nelle nostre vi­ te personali, siamo legati all'Imperatore e dobbiamo essere mossi dal desiderio di servire il nostro paese. 59

Il generale Araki Sadao, leader carismatico della destra milita­ re - e dei putschisti - negli anni '30, scrive da parte sua che l'Im­ peratore è «l'eterno zenit del Vero, del Buono e del Bello, attra­ verso ogni età e ogni luogo» 60• Si nota dunque una fusione tra eti­ ca e politica, tra singolo e collettivo, intorno all'Imperatore, visto come un pilastro impossibile da abbattere e perfetto per defini­ zione. Allorché una simile ideologia acquisisce i mezzi per poter­ si imporre, significa che siamo alle soglie del totalitarismo. Tra questi mezzi vi è, beninteso la repressione, che svolge un ruolo centrale (vi ritorneremo sopra nel capitolo 3). Tuttavia, il controllo degli spiriti, se ben attuato, rappresenta il mezzo meno costoso e più efficace. Facendo leva su una società imbrigliata in una rete dalle maglie assai strette, voluta dagli shogun Toku­ gawa, e sull'idea di Stato morale tipica della tradizione confu­ ciana, fin dai primi anni '30 le autorità sottopongono i propri concittadini a un inquadramento ideologico che diventa di anno in anno sempre più duro nonché latore di un messaggio via via più radicale. Così, nel 1937, un giornale lancia un concorso per canti militari. Le due composizioni vincitrici contengono versi di questo tenore: «Afferriamo il fucile e la sciabola punitivi», «Co­ me potrei morire senza aver compiuto un'azione eroica?» e per­ sino «Incoraggiato a ritornare a casa morto» 61 • L'inno della Mari­ na, Umi yukaba (Se andrò per mare), che risuona alla radio ogni­ qualvolta si verifica una morte «eroica>>, contiene queste tremen­ de parole: «Se andrò per mare sarò un cadavere lavato dall'ac­ qua; se andrò per monti, sarò un cadavere nell'erba. Ma se mo­ rirò per l'Imperatore, non rimpiangerò di essere morto>> 62• Ai nuovi nati vengono affibbiati nomi altisonanti come «Vittoria» o «C onquista» 63•

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La fabbrica dei piccoli soldati La scuola è il primo obiettivo dell'ideologia militarista. Il no­ me stesso dell'istituzione corrispondente al ciclo primario è cam­ biato: le scuole elementari diventano scuole nazionali. Già nel di­ cembre del 1937, il principale sindacato degli insegnanti, di sini­ stra, viene disciolto; nel novembre del 1940 è introdotto, come in altri settori, un corporativismo ispirato al modello italo-tedesco. L'addestramento militare (per i soli ragazzi), inaugurato nel 1917 e generalizzato nel 1925, dura quattro anni per un totale di 400 ore; esso si svolge nelle scuole stesse ed è impartito da ufficiali. Nel corso dell'ultimo anno, vengono usate armi vere. Poco alla volta, la libertà pedagogica scompare: gli insegnanti sono incitati (anche dai loro allievi, divenuti ormai in gran parte nazionalisti) ad abbandonare il calendario occidentale e a segnare le date sol­ tanto sulla base del calendario giapponese 64; a partire dal 1943, i collegi perdono la facoltà di scegliere tra più manuali e i pochi in­ segnanti che rifiutano di servirsi di opere imbevute di propagan­ da sono spesso arrestati o sollevati dall'incarico 65• Durante la guerra del Pacifico, i curricula sono sempre più semplificati, per far posto all'addestramento militare e alla formazione tecnica o pratica (soprattutto per le ragazze), e la durata dell'obbligo sco­ lastico è ridotta. Infine, nell'ottobre 1943, studenti e liceali di età superiore ai 17 anni sono mobilitati per l'esercito e obbligati ad abbandonare, almeno provvisoriamente, i loro studi. La pressione ideologica è fortissima: i cristiani (che rappresen­ tano l'l% circa della popolazione), considerati come una sorta di potenziale quinta colonna dell'imperialismo occidentale, sono a volte perseguitati e incoraggiati all'apostasia. A partire dal 1941, le domande poste agli esami obbligano i candidati a farsi propa­ gandisti o a denunciarsi, con argomenti di questo tipo: «Discute­ te della necessità dell'espansione oltremare>>. Nelle scuole si mol­ tiplicano le gare di slogan, i migliori tra i quali sono inviati alle truppe impegnate in guerra affinché servano loro da stimolo. Già nel 1933, il libro di lettura del primo anno della scuola primaria si apriva con la frase: «l soldati avanzano». In un sussidiario per gli

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ann i successivi si può leggere la lettera di una madre che rimpro­ vera al figlio di non essersi messo in prima linea durante i com­ battimenti. Il manuale di storia del 1944, invece, comincia con il racconto della creazione del Giappone da parte degli dèi e dell'o­ rigine, anch'essa divina, della dinastia regnante, narrato come se si trattasse di fatti storici accertati. Ipotizzare che questi racconti p otessero essere semplici allegorie era impensabile: avrebbe si­ gnificato incorrere nel delitto di lesa maestà. Nei cortili delle scuole, durante la ricreazione, si gioca ai «Tre eroi-bombe di Shànghai» 66• C'è anche la storia edificante di un trombettiere del­ la guerra russo-giapponese che sarebbe stato ritrovato morto do­ p o la battaglia, con una pallottola nel cuore, rigido ma ancora in piedi e con il suo strumento in bocca. Bambini di sette anni si re­ cano a scuola cantando: Spalla contro spalla, con il mio fratello maggiore, oggi vado in classe, Grazie ai soldati, grazie ai soldati, Che hamw combattuto per il nostro paese, per il nostro paese. 67

Per quanto riguarda i giorni feriali, che per la maggior parte fanno riferimento a un calendario fortemente politicizzato (anni­ versario dell'avvento del primo imperatore, Jimmu; giorno del­ l' Esercito; giorno della Marina; e, soprattutto, anniversario del­ l'Imperatore regnante), diventano occasioni per esibirsi in canzo­ ni e letture patriottiche: la nazione si confonde con il suo esercito. Tra le lezioni destinate ai bambini più piccoli figurano argomenti come «la classificazione delle navi da guerra>>, «le bandiere di se­ gnalazione», «giocare ai soldati» o «mio fratello parte per il fron­ t e » . Nel corso degli ultimi due anni del ciclo primario, circa la metà delle letture è rappresentata da testi dai contenuti netta­ mente propagandistici. In essi si parla soltanto del Giappone, del­ le sue colonie, del Manchukuo o dei paesi occupati; il resto del mondo, per i giovani giapponesi, non esiste 68• Un documento pedagogico dell'epoca descrive come trascor­ re la giornata in una scuola primaria modello:

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[Dopo un momento di meditazione collettiva, interrotto da una si­ rena], il direttore sale su una predella e si rivolge sia agli insegnanti che agli allievi, dicendo: «Inchinatevi. . . State dritti. Giratevi verso oriente e inchinatevi in direzione del Palazzo imperiale. Pregate in silenzio». Il direttore va verso l'altare, davanti al quale si arresta di­ cendo: «Inchinatevi leggermente. Pregate di nuovo. Battete le ma­ ni due volte». I pensieri e le azioni degli insegnanti e degli allievi sono ormai una cosa sola. Ognuno si mostra naturalmente attento. Parole di purificazione. Parole di adorazione del Divino. [Poi c'è la lettura del rescritto imperiale del 1890 sull'educazione - vero e proprio manifesto del kokutai -, seguita dall'entrata in classe e da una nuova preghiera silenziosa.] Infine, [ . . . ] il rappresentante di classe dà la seguente istruzione: «Inchinatevi». Si volta verso l'immagine del Palazzo imperiale posta di fronte agli allievi: «Inchinatevi lentamente e profondamente». Allora, in ogni classe, viene recitata, umilmente ma con fermezza, la promessa: «Noi siamo tutti figli di Sua Maestà l'Imperatore. Sforziamoci di studiare come accrescere la nostra lealtà. Giuriamo di marciare sul cammino che ci è stato tracciato. Noi siamo i figli di Sua Maestà l'Imperatore. Mostriamo la nostra forza morale e la nostra risolutezza. Giuriamo di rafforzare la Via imperiale. Noi siamo i figli di Sua Maestà l'Imperatore. Collaboriamo amichevolmente tra noi allo scopo di studiare le di­ scipline letterarie e militari nel modo più serio possibile. Giuriamo di diventare i pilastri della prosperità dell'Asia». 69

Sul modello del generale Nogi, alla domanda: «Qual è il vo­ stro più grande desiderio?», i bambini devono rispondere: «Mo­ rire per l'Imperatore!» 70 •

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Le Chiese collaborano con la sciabola È particolarmente grave il fatto (unico tra i belligeranti del se­ condo conflitto mondiale) che le varie Chiese presenti in Giappo­ ne si siano opposte soltanto in minima parte a una propaganda che incitava all'odio e all'assassinio. È in qualche modo com­ prensibile che lo shinto sia rimasto - nel migliore dei casi - in si­ lenzio. In epoca feudale, questo insieme di credenze poco artico­ late e di pratiche magiche aveva finito per confondersi con il buddhismo, al punto da condividere con esso i templi. Il gruppo dirigente del 1868 decretò la loro separazione, per tentare di fare dello shintoismo una religione nazionale, che avrebbe potuto emarginare il buddhismo, i cui templi cominciarono a essere de­ moliti. Tuttavia, quest'operazione di sradicamento, troppo com­ plessa - e condotta sotto lo sguardo dell'Occidente - si rivelò un insuccesso: nel 1882 si decise dunque di puntare su un'opzione più modesta, attraverso la costituzione, accanto allo shinto tradi­ zionale impregnato di sciamanesimo, di uno shintoismo di Stato (il kokka shinto), il cui oggetto era il culto imperiale e la venera­ zione degli spiriti dei guerrieri 71• I santuari kokka shinto seguirono le truppe nelle loro spedizioni: le tracce di quegli edifici sono an­ cora visibili a Taiwan, a Singapore 72 e in diverse isole del Pacifi­ co. I loro rituali erano in linea con la fumosa mistica nazionalista di cui abbiamo già parlato. Tuttavia, all'atto della liberazione, i popoli delle colonie e dei territori occupati distrussero la maggior partè di quei simboli aborriti. In quanto allo shintoismo tradizio­ nale, la sua natura essenzialmente propiziatoria e il suo carattere intrinsecamente giapponese non lo incitavano a contestare coloro che pretendevano di incarnare lo spirito nazionale. Per parte lo­ ro, le diverse obbedienze cristiane riunivano meno di un milione di giapponesi, che la lunga esperienza di persecuzioni spingeva alla prudenza. Eppure, è proprio dal loro ambiente che è stata re­ clutata buona parte dei pochi «resistenti» al militarismo. Ma come ha reagito il buddhismo, fautore, in teoria, della nonviolenza più di ogni altra religione e nel quale, poco o tanto,

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si era riconosciuta la maggior parte dei giapponesi e dei loro di­ rigenti? Anch'esso ha avuto i suoi (rari) spiriti liberi, ma la stra­ grande maggioranza dei religiosi e dei pensatori laici buddhisti capitolarono di fronte al kokutai, quando non lo difesero con ze­ lo e con inventiva. Cominciamo da quelli che semplicemente ri­ verirono i potenti del momento. Il libro Il buddhismo protettore del­ Ia nazione, pubblicato nel gennaio del 1938 e firmato dalle massi­ me autorità del buddhismo nipponico, proclama: «Tutto ciò che il buddhismo giapponese fa si basa sugli ordini dell'Imperatore. In questo esso si distingue dal buddhismo dei paesi stranieri [ . . . ] . Venerare i Tre Gioielli significa venerare gli ordini dell'Im­ peratore senza fare domande>> 73• Tuttavia, simili ragionamenti spesso arrivarono a giustificare sul piano teologico le peggiori violenze, in particolare quelle legate all'invasione della Cina, in­ trapresa a partire dal luglio 1937. L'organizzazione pan-buddhi­ sta Myowa kai dichiarava, cinque giorni dopo l'inizio delle osti­ lità: «Ai sudditi del Giappone imperiale, pieni di venerazione per la politica imperiale di salvaguardia dell'Oriente, è affidata la missione di farsi carico di un miliardo di schiavi affrancati [ . . . ] . Siamo pronti a operare per la mobilitazione spirituale della popolazione>> . Il 28 luglio questa posizione è spiegata in termini più chiari: Desiderando stabilire una pace eterna nell'Asia orientale, diamo li­ bero corso alla grande benevolenza e alla compassione che caratte­ rizzano il buddhismo, che agisce talvolta con indulgenza, talaltra energicamente. Non abbiamo altra scelta se non quella di usare l'e­ nergia benigna consistente nell'«uccidere una persona perché mol­ ti possano vivere» [ . . . ] . Quando una guerra è in accordo con i suoi valori, il buddhismo non si accontenta di approvarla, ma le offre un sostegno che si avvicina all'entusiasmo. 74

Ancor più in là si spinge un'opera del 1937, La concezione buddhista della guerra, scritta da due eruditi zen (scuola soto), i quali introducono un concetto originale:

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Quando la situazione è tale per cui l'umanità si trova nell'impossi­ bilità di fermare le guerre, non c'è altra scelta se non quella di con­ durre guerre compassionevoli, che diano vita a se stessi e ai nemi­ ci. Attraverso la guerra compassionevole, le nazioni possono mi­ gliorarsi e la guerra stessa finisce per scomparire. 75

È ancora più ·sconcertante il fatto che, pochi mesi dopo le deca­

p itazioni a catena di prigionieri cinesi che hanno caratterizzato la p resa di Nanchino (vedi in proposito il cap. 5), l'erudito Suzuki Oaisetsu (1870-1966) abbia potuto pubblicare in inglese un volume sp esso ristampato e acclamato in Occidente, Zen Buddhism and its Injluence on ]apanese Culture, nel quale afferma senza imbarazzo: La sciabola, pertanto, ha una duplice funzione: da un lato, deve di­ struggere tutto ciò che si oppone alla volontà del suo proprietario; dall'altro, deve sacrificare tutte le pulsioni che possono scaturire dall'istinto di conservazione. La prima funzione è strettamente im­ parentata al patriottismo o, talvolta, al militarismo; la seconda, in­ vece, ha una connotazione religiosa e concerne lealtà e abnegazio­ ne. [ . . . ] La spada, di conseguenza, si identifica con l'annientamen­ to di tutto ciò che ostacola la pace, la giustizia, il progresso e la compassione umana.

Per liberare l'uccisore da ogni senso di colpa, sono necessari raffinati esercizi di equilibrismo dialettico: Nel caso dell'uomo che usa la spada perché vi è obbligato [ . . . ], non

è lui che uccide, ma la spada stessa. Egli non nutre alcun desiderio

di far del male a chicchessia, ma il nemico si presenta, e si trasfor­ ma da sé in vittima. È come se la spada stessa assolvesse automa­ ticamente alla sua funzione di giustizia, che è una funzione di mi­ sericordia [ . . . ] . Quando ci si attende dalla spada che essa svolga un tale ruolo nella vita, essa smette di essere un'arma di difesa o uno stru mento di morte e colui che la usa diventa un artista nel senso più alto del termine, impegnato nella creazione di un'opera perfet­ tamente originale. 76

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Il caso Inoue: le ambiguità dell'estremismo Non è tutto. I monasteri buddhisti servono da rifugio per gli attivisti della destra più o meno radicale, della quale a volte so­ no addirittura roccaforti. Assai rivelatore a questo proposito è il lungo verbale dell'interrogatorio giudiziario di Inoue Nissho (1 886-1967), che aveva organizzato l'assassinio, nel 1932, di re­ sponsabili politici ed economici di primo piano, tra i quali il pri­ mo ministro Inukai Tsuyoshi (ucciso il 15 maggio) 77• Inoue, ex combattente della rivoluzione cinese ed ex spia giapponese, si era convertito verso il 1920 al buddhismo del Sutra del Loto, pro­ mosso in Giappone da Nichiren. Egli giustifica i suoi omicidi nel nome del «principio di compassione: uccidere una persona per sal­ varne molte. È il principio che abbiamo seguito uccidendo Inoue Junnosuke e Dan Takuma 78• Li abbiamo uccisi per salvarli dalla loro malefica avidità e per salvare il Giappone da uomini malva­ gi come loro». Tuttavia, prima di darsi al terrorismo, Inoue aveva già con­ dotto un'azione politica strettamente legata alla predicazione buddhista: infatti, nel 1928, era diventato prete del nuovo tempio «dell'Edificazione della rettitudine e della protezione della nazio­ ne», destinato «a onorare l'imperatore Meiji e il santo Nichiren» . Il contatto con gli abitanti del villaggio, già poveri e in poco tem­ po ridotti in rovina dalla crisi del 1929, lo convince dell'inutilità della Costituzione e dei partiti, del carattere nefasto delle élite politiche, economiche e persino militari -, e della necessità di una Restaurazione Showa radicale quanto quella dell'era Meiji. Mi dedicai alla costruzione di un movimento evangelico di massa, destinato a risvegliare la nazione dai veleni dell'influenza occiden­ tale che infettava gravemente il Giappone degli anni '20: il mate­ rialismo decadente, il liberalismo, l'individualismo, il marxismo, e l'insistenza del pensiero occidentale sulla logica e sulla ragione, che conduce a false distinzioni, mentre in realtà tutte le cose del­ l'universo non sono che una cosa sola.

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queste righe non c'è nulla che non possa essere sottoscritto d alla destra radicale degli anni '30, civile e più ancora militare. Tuttavia, Inoue rimane un «battitore libero», una sorta di anar­ di destra difficilmente controllabile. Certamente, egli am­ co i ch mira il generale Araki, che ha incontrato, e che tutti i putschisti e i terroristi dell'epoca sognano di vedere al potere. Tuttavia, egli de testa le «cricche militari» che vedono tra le loro fila la maggior pa rte degli ufficiali: «In caso di colpo di Stato militare, mi ripro­ metto di uccidere i generali che l'avrarmo compiuto con le mie mani». Ancor più sorprendentemente, Inoue resta fedele ai suoi vecchi compagni d'arme del continente e, a proposito dell' offen­ siva giapponese in Manduria (settembre 1931), scrive: «Non ave­ va senso uccidere tutti quei cinesi, dal momento che i veri nemi­ ci del Giappone erano le sue élite dirigenti». Molti punti del suo programma - che, come egli stesso ammette, è vago - non di­ spiacerebbero a un estremista di sinistra: In

Rinnovamento significa abolire il governo dei partiti, nazionaliz­ zare la grande industria allo scopo di controllare gli zaibatsu 79, da­ re ai poveri le terre di proprietà imperiale, accordare più poteri al­ le comunità locali affinché sbrighino i loro affari, abolire la polizia militare (Kempeitai), la polizia del pensiero 80 e gli altri strumenti di repressione statale. Dobbiamo abolire il paraggio e la camera dei Pari, veri bastioni del privilegio.

Leggendo queste righe si capisce come in Giappone sia potuta esis tere una forte mobilità tra i due estremi dello spettro politico: d a sinistra a destra negli anni '30, da destra verso sinistra dopo il 1 945. La distanza tra le due ideologie, tuttavia, è sempre grande: Ho agito in favore dei poveri e dei deboli. Anche i comunisti pro­ clamano di fare lo stesso. E tuttavia, vogliono svilire lo Stato impe­ riale, mentre io ho tentato di difendere il kokutai e di riformare lo Stato, a beneficio di tutti i poveri delle città e delle campagne, com­ presa la piccola borghesia, che è in difficoltà e teme di perdere quel poco che ha.

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È impensabile contestare il potere dell'Imperatore: al contra­ rio, esso dev'essere rafforzato, a scapito dei suoi «cattivi consi­ glieri>>. La sensibilità di Inoue lo spinge verso un neotradizionali­ smo che assume la forma di un misticismo romantico rivolto al passato e alla ricerca identitaria: «Costruire un ordine politico e sociale più egalitario, fondato sul benessere del popolo, non ser­ virà assolutamente a niente se non facciamo rivivere i valori del passato giapponese». Tali valori sono, nell'ordine: i miti dello shintoismo, le verità del buddhismo, lo spirito di cooperazione delle comunità rurali e, soprattutto, il kokutai, associato alla Casa imperiale. L'antimo­ dernismo finisce per confondersi con il nazionalismo: Dobbiamo riscoprire tutto ciò che i giapponesi hanno fatto e crea­ to, cose che sono state messe da parte a causa di una demenziale infatuazione per la modernità. Soltanto così il Giappone, armato della verità universale del Sutra del Loto, questa grande forza vi­ tale dell'universo, avrà i mezzi per compiere la sua missione stori­ ca, che consiste nell'unificazione del mondo e nell'instaurazione della pace mondiale. 81

La visione di Inoue, paradigmatica dell'attivismo di estrema destra tra il 1935 e il 1936, è piena di contraddizioni, le quali però aiutano a comprendere la moderazione dell'esercito e dell'appa­ rato statale - della giustizia in particolare 82 - nei suoi confronti, almeno fino al putsch tentato nel febbraio del 1936. Esse spiega­ no altresì perché siano state tenute a distanza alcune teste calde, troppo tentate da un radicalismo rivoluzionario che spaventava le élite, ai cui margini si muovevano generalmente gli attivisti (vedi il cap. 3). Costoro erano riusciti a rendere inoperante il fra­ gile parlamentarismo nipponico e a screditare la liberaldemocra­ zia, in primo luogo terrorizzandone gli esponenti più influenti. Tuttavia, il compito di costruire l'ordine nuovo in cui speravano non è toccato ai militanti radicali. Molti aspetti del loro messag­ gio sono stati recuperati e infusi nel nuovo Giappone militarista1 per poi essere portati anche nei lontani territori da esso occupati:

i L B R E VIARIO DELL'ODIO

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ciò, però, è avvenuto per via gerarchica, in un quadro istituzio­ nale fondamentalmente immutato, nel quale le élite tradizionali non erano state messe in discussione. Del radicalismo di destra sono stati adottati elementi come l'integralismo nazionalista, la miti zzazione del passato e della cultura, la santificazione della v iolenza e del sacrificio. Tuttavia, a una volontà di trasformazio­ ne soprattutto· rivolta verso l'interno si è sostituita la messa in di­ scussione dei rapporti di forza internazionali, che ha generato un imperialismo aggressivo. In questo senso, sebbene quasi di mala­ v oglia (almeno nel caso della tendenza facente capo a Inoue), gli attivisti di estrema destra hanno dato un forte contributo alla mi­ litarizzazione degli animi e alla glorificazione della brutalità che hanno caratterizzato il periodo della guerra. In ogni caso, non si può trascurare l'apporto di questa pecu­ liare interpretazione della liberazione buddhista, nei confronti della quale i dirigenti giapponesi si comportano con tranquilla condiscendenza. Una specie di compendio di queste idee viene espresso dall'ambasciatore a Berlino, Kurusu Saburo, in occasio­ ne della celebrazione del patto tripartito alla presenza di Hitler: Il pilastro dello spirito del Giappone risiede nel bushido. Sebbene il bushido si serva della spada, la sua essenza non consiste nell'ucci­ dere le persone, ma piuttosto nell'usare la spada che dà loro la vi­ ta. Usando lo spirito di questa spada, ci proponiamo di contribui­ re alla pace nel mondo. 83

Il generale Okubo Koichi, nel 1937, durante un dibattito orga­ ni zz ato da una rivista buddhista, trova comodo giustificare in ter­ mini zen l'obbedienza cieca nei confronti dei superiori: [Il soldato] dev'essere una sola cosa con il suo superiore. Invero, egli deve diventare il suo superiore. Allo stesso modo, deve diven­ tare l'ordine che riceve: in altre parole, il suo io deve sparire. Così, sul campo di battaglia avanzerà quando gli si dice di avanzare [ . . ] . Se, al contrario, pensa d i andare incontro alla morte e quel pensie­ ro condiziona le sue azioni, sarà incapace di battersi in modo effi.

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

cace. È dunque necessario che egli sia in grado di agire liberamen­ te e senza ostacoli. 84

Guai a chi dà l'impressione di opporsi, anche nel modo più flebile, alla «volontà dell'Imperatore», come la diffondono i mem­ bri dello stato maggiore che proclamano di esserne gli interpreti. In una società che non ha mai dato molta importanza a una mo­ rale trascendente, il fine giustifica i mezzi, il coraggio è più ap­ prezzato della bontà e il sacrificio per il capo è tenuto in maggior conto della carità nei confronti del debole. D'altra parte, dal mo­ mento che ogni forma di pensiero dissidente (sia al di fuori sia al­ l'interno del kokutai) è stato progressivamente soffocato fin dagli anni '30, è inevitabile la deriva verso il totalitarismo, il quale si ac­ compagna sempre a un naufragio morale, nel quale ogni valore etico è annullato, alterato o, nel migliore dei casi, strumentalizza­ to per servire allo Scopo che il Potere si è prefissato.

La fortezza militare, baluardo della giapponesità L'esercito è il cemento della nazione e lo scudo dell'Imperato­ re. È inattaccabile per definizione, poiché costituisce l'ossatura e l'obiettivo del rinnovamento intrapreso nel 1868; dopo il 1920 es­ so comincia a estendere capillarmente il proprio controllo sulla società, in particolare attraverso l'intermediazione delle sezioni locali, che sono presenti dappertutto, e dell'Associazione nazio­ nale dei riservisti (vedi sopra), i cui iscritti aumentano rapida­ mente: infatti, dopo il 1910, le esenzioni dalla coscrizione, fino ad allora numerose, divengono rare. Già nell'ultima fase dell'era Meiji (1905-1912) compaiono i se­ gni di un potente riarmo ideologico, che annuncia gli anni '30: so­ no infatti già presenti il nazionalismo parossistico e sempre più antioccidentale, l'insistenza sul culto dell'Imperatore e il militari­ smo, il tutto versato nel concetto-contenitore di kokutai. A questo proposito, è assai rivelatrice l'esecuzione per «lesa maestà» (con­ sistente nella partecipazione a un complotto fallito il cui obietti-

IL BR EVIARIO DELL'ODIO

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vo, a quanto pare, era il principe ereditario), nel 1911, del mona­ co buddhista (appartenente alla scuola soto della chiesa zen) Gu­ do Uchiyama (1874-1911). Gudo, in effetti, si era fatto notare per un pamphlet, Manuale a uso dei soldati dell'impero, nel quale incita­ va i coscritti a disertare in massa; inoltre, negava la divinità del­ l'Imperatore. Il carattere particolare delle sue azioni è sottolinea­ to dalla scomùnica senza appello inflittagli dalla scuola soto, così come dalla violenza della repressione antisocialista 85, che non ha s uscitato praticamente nessuna protesta: nella storia moderna del Giappone, il complotto è un evento eccezionale. Siamo proprio nel periodo di formazione dei diversi corpi dell'esercito (tra il 1909 e il 1912), contrassegnato da una presa di distanza rispetto ai modelli francese e tedesco seguiti fino ad allora e da una profonda rivalutazione dell'ideologia arcaicizzante del bushido: si insiste sullo «spirito» del combattente, sul disprezzo per la tecni­ ca, sul culto della vittoria da conseguire a qualunque prezzo 86• L'esercito svolge un ruolo di primo piano nel processo di ritorno al passato, attraverso il quale si tenta di far rivivere i «veri valo­ ri» dell'antico Giappone, e se ne attribuisce ad alta voce il merito. Quando, nel 1938, l'Imperatore si reca in visita presso il santuario di Yasukuni, il quotidiano in lingua inglese «Jap an Times» ne dà conto con accenti mistici: [I soldati], santificati sotto forma di kami 87, diventano dèi incarica­

ti di proteggere l'Impero. Non sono più esseri umani. Sono dive­

nuti i pilastri dell'Impero. Nella loro casa di Yasukuni non vengo­ no distinti né dal rango né da altro. Generali e soldati non sono più militari, ma «pilastri», ed è proprio in quanto tali che l'Imperatore e l'intero popolo tributano loro un culto. 88

Nel 1935, con un provvedimento apparentemente più folclori­ stico, a tutti i militari viene imposto di portare la spada da samu­ rai: ecco spiegate le bizzarre immagini dei piloti dell'attacco a Pea rl Harbor che si introducono nei minuscoli abitacoli degli ae­ rop la ni cingendo la spada. Ma l'arcaismo si manifesta anche nel culto dell'arma bianca «virile» (baionetta inclusa), con la quale si

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

sventrano e si decapitano i nemici (vedi in proposito i capp. 4-7) o ci si uccide per sfuggire alla vergogna della sconfitta. È questa la visione spietata - nel vero senso del termine - teorizzata dai re­ sponsabili dell'esercito. Già nel 1895, in occasione del conflitto con la Cina, il ministro della Guerra aveva proibito categorica­ mente alle truppe di arrendersi, qualunque fosse la situazione in cui si trovavano: vittoria o morte, senza vie di mezzo. Nel 1928, uno dei suoi successori, il generale Araki Sadao, sistematizza questi metodi nel suo Principi di base dell'armata imperiale: nell'«ar­ mata dell'Imperatore» (kogun: il termine è una novità dell'ideolo­ gia neo-feudale) è proibito persino pronunciare le parole «difen­ siva» e «ritirata», oltre, naturalmente, a «resa» 89• Il generale Tojo, nell'opuscolo del Ministero dell'Esercito intitolato Sull'essenza e i progressi della Difesa nazionale (1934), pone come epigrafe una ci­ tazione di Clausewitz: «La guerra è il padre della creazione e la madre della civiltà» 90• Sia Araki che Tojo pretendono di restaurare l'antica «via del guerriero»; in realtà, la impongono, attraverso la coscrizione, a tutti i giapponesi. L'assoggettamento a questa ideo­ logia dalle conseguenze nefaste conquista una società che nei seco­ li passati era stata ben lungi dall'essere unita nella venerazione dei valori legati al militarismo. Esso, tuttavia, viene vissuto da molti ­ soprattutto tra i più poveri e i più emarginati 91 - come una note­ vole, seppur simbolica, promozione sociale: costoro sono infatti in­ vitati a condividere l'etica del samurai. Da gente da niente che era­ no, si sentono nobilitati, al punto di accettare di versare il proprio sangue, se non con entusiasmo almeno di buon animo: è il prezzo da pagare per essere stati elevati socialmente. Negli anni '30, l'esercito è considerato il sale della terra, come si evince da dichiarazioni e documenti ufficiali: «L'armata costi­ tuisce l'essenza della nazione, al cui interno occupa il posto prin­ cipale», afferma la direttiva sull'educazione delle forze armate 92• Il disprezzo nei confronti dei civili è fortissimo: per designarli si usa un termine che si può tradurre con «provinciali» (ma anche con «tangheri», «zotici» ecc.); grazie alla loro vicinanza all'Impe­ ratore, i militari rappresentano invece il «centro» del paese. Il ge­ nerale Araki, nel già menzionato libro-manifesto, insiste sulla

iL B RE VIARIO DELL'ODIO

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«di stanza esistente tra il livello di moralità delle forze armate e quell o del resto della società, fatto che rende difficile l'adegua­ m ento dei militari alla società quale essa

è

oggi» 93• Lo spirito di

co rpo, indissolubilmente legato a questo senso di superiorità,

è

rafforzato quotidianamente da rituali collettivi, simili a quelli in vigore nelle scuole (vedi sopra). Così, ogni mattina, ci si volge in dir ezione del Palazzo imperiale, per convenzione situato a Est, perché il suo inquilino discende dalla dea Amaterasu, dunque rappresenta il sole che sorge. Ci si inchina e si prega brevemente in silenzio, dopodiché vengono recitate le «Cinque Dottrine im­ periali», le quali costituiscono l'elemento centrale di un

ai

soldati

Rescritto

che, malgrado la lunghezza, ogni coscritto deve cono­

scere a memoria : in questo testo vengono celebrati il patriottismo, il rispetto dell'etichetta, il coraggio in battaglia, la sincerità, la so­

brietà 94• La gerarchia militare gioca altresì sulla rivalità tra i vari cor­ pi; si tratta di un fenomeno che si riscontra anche altrove, ma che in Giappone assume toni esasperati, creando molte difficoltà di coor­ dinamento nel conflitto contro gli americani. Maruyama Masao, mobilitato in Corea, doveva recitare ogni mattina le seguenti paro­ le: «Dei diversi corpi dell'esercito, la fanteria

è la componente prin­

cipale: essa costituisce il nucleo della loro unione»; un suo commi­ litone, soldato semplice come lui, si compiaceva di scorgere in que­ sta formula la «propria» superiorità nei confronti dei marinai 95• Ma­ ruyama constata il trionfo di un «sezionalismo», fondato non tanto sulla sopravvivenza di rapporti feudali - spiegazione troppo sem­ plicistica, che prende per oro colato l'arcaismo professato dai mili­ tari - quanto piuttosto sulla quasi totale esclusività che caratterizza

le relazioni verticali, nelle quali la sola cosa che conti

è di rimanere,

anche soltanto simbolicamente, il più possibile vicini all'Imperato­

re, e dove la solidarietà orizzontale non riesce a imporsi.

L'esercito come scuola del crimine ? La prevalenza della verticalità spiega anche come mai la fero­ c e disciplina vigente nell'esercito sia, bene o male, accettata, no-

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

nostante i torturatori siano spesso altri soldati, semplicemente più anziani, dunque superiori dal punto di vista gerarchico 96• So­ litamente, le violenze sono di carattere psicologico, e tendono a umiliare i soggetti presi di mira piuttosto che a infliggere loro fe­ rite fisiche. Durante le riviste, per esempio, se la tenuta del sol­ dato lascia a desiderare, è frequente che gli vengano strappati tut­ ti i bottoni dall'uniforme: in tal caso, egli è obbligato a trovarne di nuovi e a cucirli entro la mattina seguente 97; se viene notata la benché minima traccia di fango sulle sue calzature, invece, gli viene imposto di fare un giro per la caserma con le scarpe che gli penzolano sotto il mento, appese saldamente ai lacci da lui tenu­ ti con i denti: durante il percorso, deve fermarsi a spiegare a ogni gruppo di soldati la sua «colpa>> 98• Tralasciamo di soffermarci sul­ le punizioni più barocche, come quella denominata «la cicala», che prevede che il soldato salti da una branda all'altra o quella detta del «ciclista», che impone di pedalare, gambe all'aria, ap­ poggiandosi a due lettini: la prova è «abbellita» da ordini come «salutare!», che inevitabilmente causano una rovinosa caduta. Si moltiplicano a piacere gli appelli notturni; al risveglio, i soldati sono obbligati a rifare la branda e a infilare l'uniforme impecca­ bilmente in cinque minuti. Ma le mortificazioni non si fermano qui. È forse esistita una sola unità dell'esercito imperiale che non praticasse l' «addestra­ mento a ceffoni»? La violenza, universale e permanente, ritorna come una litania in tutte le testimonianze dei soldati. Alcuni uffi­ ciali arrivano persino a fare ragionamenti di questo tipo: «Non vi percuoto perché vi odio. Vi percuoto perché mi state a cuore. Cre­ dete che mi spelli le mani e me le faccia sanguinare perché soffro di attacchi di follia?» 99• Questo modo di ragionare non è lontano dalla «compassione attraverso la spada» predicata dai buddhisti dell'epoca 100• Altri pretendono che la violenza «aumenti la capa­ cità di combattere» delle nuove reclute o instilli in loro lo «spiri­ to della Marina». In realtà constatiamo che questa mentalità si av­ vicina molto a quella dei gangster (termine usato da Saito Mut­ suo a proposito dei «nonni») o di bruti sadici. È consuetudine pic­ chiare a mani nude (con una predilezione per gli schiaffi, ma i pu-

fL BREVIARIO DELL'ODIO

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gni non sono affatto rari), oppure servendosi di cinture, scarpe di cuoio, bastoni, mazze da baseball e di tutto ciò che capita a por­ tata di mano. Si percuote il viso; lo si fa sanguinare se il caso è più «serio». Vengono prese a bastonate natiche e gambe, fino a pro­ vo carne la tumefazione e a rendere la pelle violacea o nera. Al mi­ nimo segno di resistenza, spesso si scatena un intero gruppo di «nonni». La cosa ricomincia ogni giorno, almeno nel primo pe­ riodo, quando è necessario «fare il mazzo» ai nuovi arrivati; in se­ guito, queste torture divengono meno frequenti, ma possono es­ sere praticate persino sul teatro delle operazioni militari. Un pre­ testo si trova sempre, ma il boia ne fa anche a meno, se manca di fantasia. Le punizioni sono frequentemente somministrate collettiva­ mente, secondo il sistema di origine cinese (biiojiif) di correspon­ sabilità, che si rivedrà all'opera in altre circostanze: esso ha il van­ taggio di accrescere le tensioni all'interno del «gruppo primar�o» dei soldati giunti insieme, spesso dalla stessa località. Il soldato Sakata Tsuyoshi, che non sembra esser stato trattato particolar­ mente male, riferisce di aver ricevuto in totale 264 colpi durante il periodo del suo servizio 101 • Saito Mutsuo individua lucidamen­ te le conseguenze mentali che quei trattamenti comportano per la vittima: Non mi ricordo una sola notte passata senza che qualcuno sia sta­ to percosso per qualche motivo. Durante i primi giorni, beninteso,

la cosa ci faceva arrabbiare, ciò nonostante non vi fu mai alcuna se­ ria reazione. La spiegazione di questo fatto è semplice: dal risve­ glio al momento in cui ci coricavamo, non avevamo mai neanche cinque minuti per pensare. Sapete che cosa succede agli esseri umani quando sono privati di tempo per riflettere? Diventano macchine. Il sistema puntava proprio a questo. Perdemmo ogni sentimento di autostima e di orgoglio per i nostri successi. Erava­ mo abbandonati ai due istinti primari: mangiare e dormire. 102

la

Saito dimentica di aggiungere che il «lavaggio del cervello» e reificazione dei soldati rendevano altrettanto facile il passaggio

L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

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all'atto criminale nei confronti dei civili o dei prigionieri di guer­ ra nemici. Sembra che coloro che hanno elaborato l'addestramen­ to militare dell'esercito imperiale nipponico abbiano deliberata­ mente scelto questo tipo di sistema: «I soldati devono odiare gli ufficiali», si trova scritto in alcune istruzioni.

In battaglia,

questo

odio dominato dalla paura sarà rovesciato addosso al nemico 103 •

Come se non bastasse, le azioni criminali coperte dalla gerar­ chia in seno alle stesse unità giapponesi non costituiscono casi ec­ cezionali: possono essere la conseguenza di una sessione di per­ cosse in cui, pur senza premeditazione, i tortura tori hanno esage­ rato con la violenza. Un futuro universitario racconta così, nei suoi taccuini, una punizione collettiva inflitta nel cuore dell'ulti­ mo inverno di guerra, nel Giappone centrale. Il plotone

è costret­

to a restare seduto per sei ore sul freddo asfalto; poi, per ordine del tenente, si scatena la violenza:

Posso sentire orribili rumori, rumori di colpi, grida, urla, rumore di vetro che si rompe. Posso sentire il rumore di tavole di legno che scricchiolano, di qualcuno che cade, di qualcuno preso a calci, e il ru­ more sordo, minaccioso, dei bastoni o dei pugni che colpiscono qual­ cosa di molle. Tra le domande urlate e le risposte del soldato, posso sentire un'altra voce, quella di un ufficiale che si rivolge a noi con una specie di predica. Non abbiamo mangiato nulla. Fa incredibilmente freddo [ . ]. Se questo incidente avesse avuto luogo sei mesi più tar­ di, questo tenente non si sarebbe congedato vivo dall'esercito. 104 . .

In

effetti, quel giorno, un amico del narratore ha avuto il cra­

nio fratturato a causa dei colpi e non si

è

più ripreso . In un altro

caso, un caporale ha demolito sistematicamente un coscritto, che aveva semplicemente fatto uso di un pronome personale troppo poco militare per parlare di lui. Colpito ripetutamente al viso, tra­ scorse quattro mesi in ospedale . Questo soldato, dopo aver com­ messo qualche errore grossolano, divenne lo zimbello dell'unità: ai suoi commilitoni era imposto di percuoterlo collettivamente, fino a farlo crollare a terra, ed essi svolgevano questo compito chi con maggiore chi con minore entusiasmo .

IL BRE VIA RIO DELL'ODIO

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In

alc uni casi, le violenze assumono i contorni di omicidi pre­ m e d i tati : un soldato aveva commesso l'errore imperdonabile, in una l e ttera alla famiglia - evidentemente sottoposta a censura d i lam entarsi dei ripetuti cattivi trattamenti di cui era stato fatto o g ge tto, a causa del fisico particolarmente esile: Il giorno seguente, fummo convocati presso il campo dove si svol­

gevano gli esercizi. Il comandante della compagnia giunse e prese la parola. Dichiarò: «In questa compagnia abbiamo un soldato che non è leale nei confronti del suo paese», e ci lesse i passaggi incri­ minati contenuti nella lettera. Fu tutto ciò che fece. Non ordinò al­ cuna punizione, non era necessario. Ritornammo al nostro adde­ stramento, e la giornata proseguì normalmente fino alla sera e al momento in cui furono spente le luci. Fu allora che i veterani arri­ varono e ordinarono al coscritto di seguirli all'esterno.

La vittima rientrò in fin di vita, e perì all'ospedale 105 • Non bi­ sogna essere troppo gracili, ma nemmeno troppo alti o troppo an­ ziani. Se, in più, un soldato è stato un intellettuale o un opposito­ re di sinistra finito in prigione per le sue idee, sottufficiali e «non­ ni » hanno tutte le ragioni per rendergli la vita difficile, con qua­ lunque pretesto («non mi piace il modo in cui mi guardi», dice uno) e sfruttando la ricca combinazione di brutalità e umiliazioni perfezionata al massimo dall'esercito giapponese. Nel caso che abbiamo appena riportato si trattava di un comando logorante e pericoloso, alla frontiera tra la Manduria e l'Unione Sovietica, do­ ve il sentimento di solidarietà avrebbe dovuto prevalere. Eppure, co sì non è: «Molti soldati si suicidarono. Molti altri disertarono. Tr attandosi di una zona di frontiera, le sentinelle portavano fuci­ li già carichi». E siamo soltanto nel 1938 106 . . .

Molle psicologiche e sociali che facilitano il passaggio all'azione Fin qui abbiamo insistito sui meccanismi in grado di spiegare l' ascesa al potere di una cricca di fanatici estremisti, capaci di im-

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

porre la propria volontà ai loro subordinati. Tuttavia, riallaccian­ doci al vecchio dibattito sulla Germania nazista, possiamo lecita­ mente domandarci se non vi sia stata una colpa collettiva, condi­ visa da tutti i giapponesi. Abbiamo a disposizione un gran nu­ mero di esempi di entusiasta partecipazione ai peggiori orrori; al contrario, è desolante notare quanto pochi siano stati gli episodi di resistenza, ancora più rari che nella Germania di Hitler. Sol­ tanto attraverso gli strumenti dell'antropologia possiamo illumi­ nare la zona d'ombra che alberga - evidentemente in proporzio­ ne variabile da una persona all'altra - in ogni giapponese, e che ha ricoperto gran parte dell'Asia. Vanno considerati in particola­ re due segni piuttosto specifici. Il primo è che non si tratta di ca­ ratteristiche atemporali: non ci sarebbe bisogno di fare questa precisazione se i giapponesi non fossero uno di quei popoli orien­ tali che per molto tempo sono stati ritenuti «immutabili», e che talvolta hanno giocato su questa pretesa caratteristica, se non al­ tro per mettere a tacere coloro che pretendono di capirli e di ap­ plicare nei loro confronti gli stessi criteri di giudizio usati per qualunque altra comunità umana. I tratti che tenteremo di indi­ viduare nel Giappone di quegli anni funesti sono stati costruiti storicamente - anche se si tratta, in questo caso, di una storia lun­ ga -, e sono assai meno predominanti presso le giovani genera­ zioni di questo primo scorcio di XXI secolo. Comunque, l'insula­ rità del Giappone, accentuata dal suo lungo isolamento dal resto del mondo, durato fino alla metà del XIX secolo, spiega il loro ra­ dicamento persistente e pressoché universale in una società par­ ticolarmente omogenea sul piano culturale. La famiglia, la scuola, l'impresa, i diversi gruppi ai quali non si può fare a meno di appartenere e a cui si è legati da un com­ plesso sistema di obblighi formano intorno all'individuo una re­ te a maglie particolarmente strette. Essa produce conformismo, timidezza, ma anche, più positivamente, fedeltà, correttezza ed efficacia. Peraltro, nelle filosofie dell'Asia orientale non esiste una vera trascendenza: è pressappoco tutto permesso, a condizione che non sia in conflitto con gli obblighi sociali. Nessuno stigmatizza l'al­ colismo o le diverse forme di sessualità, neanche le più devianti:

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s i a mo ben lontani dal puritanesimo protestante. La colpa è meno p re se nte che in altre società, ma la vergogna nei confronti del g rup p o è una molla potente. Gli obblighi legati al rispetto dei va­ r i doveri sono generalmente sufficienti a respingere negli angoli de l tempo, dello spazio e delle preoccupazioni le diverse pulsio­ n i ch e, come ogni altro essere umano, anche il giapponese avver­ te. Tuttavia, se egli è posto in un momento eccezionale (una guer­ r a ), in un luogo eccezionale (qualunque paese straniero, visto che l'a rcipelago nipponico è vissuto a lungo ripiegato su se stesso), in un gruppo eccezionale (l'esercito, che in pratica vive separato dal 7 mondo 10 ) , ed è convinto - perché così gli hanno detto i suoi capi - che le peggiori violenze siano meritorie e patriottiche, il risulta­ to rischia di essere assai pericoloso, e la liberazione delle pulsio­ ni che spingono allo stupro, al sadismo e all'assassinio sarà pro­ porzionata alla tensione di cui si sentiva vittima prima di essere arruolato. Esaminiamo ora l'altra importante caratteristica della menta­ lità nipponica: la maggior parte dei giapponesi ha una visione ca­ tegoricamente eccezionalista del proprio paese. Secondo questo modo di sentire, la specificità del Giappone è radicale, al punto che uno straniero non potrebbe mai comprenderne la vera natu­ ra. I giapponesi, in quanto membri di una società fortemente ge­ rarchizzata, tendono a interpretare il mondo come una piramide di nazioni, ognuna delle quali occupa il posto che le compete. In cima alla struttura si trova il divino Imperatore: «La politica im­ mutabile del governo giapponese è consistita nell'aiutare tutte le nazioni a trovare il proprio posto nel mondo>> 108, assicurava la no­ ta, con valore di dichiarazione di guerra, indirizzata agli Stati Uniti poche ore dopo l'attacco a Pearl Harbor. Poiché la nazione è la verità ultima dell'universo degli uomini, di cui il Giappone costituisce il perno, è logico che esso venga prima di tutto: esseri umani, risorse, ma anche obblighi e impegni nei confronti dei non-giapponesi. All'occasione, diventano lodevoli virtù anche l'inganno e la doppiezza, che ci si guarda bene dal chiamare con il lo ro nome. Molti riveriti eroi del passato nipponico forniscono e s empi in questo senso. Si pensi, tra gli altri, ai 4 7 ronin, i quali,

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

con varie astuzie, avevano vinto la diffidenza dell'assassino d el loro padrone, al solo scopo di vendicarsi. Il pensatore di tenden­ za marxista Maruyama Masao, poco dopo la fine della guerra, scorgeva in questa mentalità una delle peculiarità degli uomini politici giapponesi: la debolezza di carattere e le esitazioni testi­ moniano la difficoltà di definire una linea chiara assumendosene la responsabilità; la brutalità di certe decisioni dimostra l'assenza del concetto universale di moralità. In appoggio alle proprie tesi, Maruyama cita l'ambasciatore americano Joseph Grew, che aveva vissuto 1'8 dicembre del 1941 a Tokyo e successivamente, nel 1945, aveva svolto un ruolo probabilmente decisivo nella defini­ zione della politica di occupazione: Quando il giapponese accetta i suoi obblighi, non opera necessa­ riamente una restrizione mentale. Semplicemente, nel momento in cui l'obbligo diventa contrario a quelli che ritiene siano i suoi inte­ ressi, egli lo interpreta nel senso a lui più conveniente: nel contesto delle sue percezioni e della sua mentalità, un simile comporta­ mento gli pare perfettamente onesto. [ . . . ] Trattare con una persona che ragiona in questo modo è assai più difficile di quanto non sia avere a che fare con qualcuno che, perfino nell'impudenza, sa di avere torto. 109

Alcune delle analisi che abbiamo esposto provengono da un'opera fondamentale (Il Crisantemo e la Spada) dell'antropologa americana Ruth Benedict (1887-1948), commissionata in piena guerra dall'esercito del suo paese e scritta prima che l'autrice avesse messo piede in Giappone. Questo lavoro, che, ovviamen­ te, in alcune sue parti appare invecchiato, e che ignora plateal­ mente le forze del cambiamento e le contraddizioni interne alla società nipponica, è stato molto criticato. Tuttavia, ci pare che es­ so sia ancora assai illuminante, salvo laddove dichiara che non esistono differenze di mentalità tra i popoli (un'affermazione, questa, che non rientra nel campo dell'osservazione, ma assomi­ glia piuttosto a una fallacia logica). In ogni caso, le tesi centrali della Benedict hanno trovato recenti conferme, persino presso au-

I L BRE VIARIO DELL'ODIO

t o ri gia pponesi non sospetti di compiacenza nei confronti Sta ti Uniti. Per esempio, Tanaka Yuki, nel 1996, scrive:

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degli

La propaganda alleata del tempo di guerra, che descriveva i giapponesi come «schizofrenici» - mansueti tra loro, ma violen­ ti al di là dei confini del loro paese - non era assolutamente pri­ va di fondamento. È altresì vero che ogni nazione imperialista dispone di due standard morali, uno a uso interno e un altro a uso esterno. Tuttavia, il fossato che separava i due standard era probabilmente più profondo in Giappone che nei paesi imperia­ listi dell'Occidente . 1 1 0

Evidentemente, chi non accetta la Weltanschauung della mag­ gioranza e coloro che sono collocati sul gradino più basso della gerarchia sociale devono aspettarsi una violenta punizione, le cui manifestazioni più tipiche sono la xenofobia e il razzismo, che in Giappone raggiungono inusitati livelli di virulenza. In Giappone ne fanno le spese gli immigrati coreani e la «casta im­ pura» dei burakumin. Durante la guerra, si è verificato il para­ dosso per cui i popoli asiatici, che in teoria il Giappone avrebbe dovuto liberare dalla dominazione occidentale e che erano invi­ tati a costituire con lui la «Sfera di co-prosperità della Grande Asia dell'Est», spesso siano stati trattati peggio dei prigionieri occidentali: erano infatti accusati (specialmente i cinesi) di non sottomettersi di buon grado alla volontà dell'Imperatore. Inoltre, come nell'era Meiji, i giapponesi, pur non ammettendolo uffi­ cialmente, erano impressionati dai successi e dalle capacità degli occidentali, odiati ma imitati, mentre gli asiatici, «arretrati», era­ no oggetto di mero disprezzo: un medico giapponese spiegò ad alc uni prigionieri di guerra della «ferrovia della morte» (vedi il cap . 7) che i «coolie [erano] sottouomini, indegni della minima considerazione» 111 • Da questo genere di battute al massacro il passo fu breve.

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1 Citato in Jacques Mutel, Histoire du Japon 1 La fin du shOgunat et le Japon de Meiji 1853-1 912, Hatier, Paris 1970, p. 115. Questo testo è più noto sotto l'appellativo di Rescritto ai soldati (in italiano anche Rescritto imperiale alle Forze Armate o Rescritto imperiale a marinai e soldati, in giapponese Gunjin chokuyu), che adottiamo da qui in avanti. 2 George Sansom, Histoire du Japon - Des origines au Japon moderne, Fayard, Paris 1988, p. 130 (tit. or. A History of Japan to 1334, Stanford University -

Press, Palo Alto [CA] 1958) 3 lvi, p. 223. L'esilio in territori periferici e isolati è considerato il castigo su­ premo. 4 lvi, p, 272. 5 lvi, p. 319. 6 lvi, p. 358. 7 lvi, pp. 418-42 1 . 8 lvi, p. 234. 9 I nomi giapponesi saranno sistematicamente presentati nell'ordine usuale, ossia scrivendo prima il cognome e poi il nome. In questo spe­ cifico caso Oda è il cognome; tuttavia, nell'antico Giappone, come in tutta l'Europa medievale, l'importanza dei lignaggi aristocratici fa sì che i personaggi si distinguano soprattutto dal nome: nell'uso si dice, quindi, Nobunaga. IO lVi, pp. 662-663. n lvi, pp. 651-656. 12 lvi, p. 236. 13 lvi, p. 542. 14 0 «comandante in capo», che instaura il bakufu o «governo della tenda» [in riferimento alle tende nelle quali vivevano i generali durante le cam­ pagne, N.d.T. ] . Questo potere di origine militare soppianta completamen­ te, dal 1192 al 1868, quello dell'Imperatore, cui restano in pratica soltanto funzioni rituali. 15 lvi, p. 598. Si affrontano due coalizioni di daimyo (grandi signori feudali), che si distinguono in base alla loro posizione geografica (est o ovest) ri­ spetto alla capitale. 16 lvi, p. 724. 1 7 lvi, p. 765. 18 lvi, pp. 804-805. 19 lvi, p. 731. 20 lvi, p. 792. 21 lvi, p. 789.

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22 André Fabre, La grande histoire de la Corée, Favre, Paris 1988, pp. 249-260. 2J G avan McCormack, Reflections on Modern Japanese History in the Context of the Concept of Genocide, in Robert Gellately, Ben Kieman, The Specter of Genocide: Mass Murder in Historical Perspective, Cambridge University Press, New York 2003, pp. 276-277. 24 Michio Morishima, Capitalisme et confucianisme - Technologie occidentale et éthiqu e japonaise, .Flammarion, Paris 1987, p. 150 (tit. or. Why has Japan Suc­ ceeded ? Western Technology and Japanese Ethos, Cambridge University Press, New York 1982). 25 Pa ul Akamatsu, Meiji 1 868 - Révolution et contre-révolution au Japon, Cal­ mann-Lévy, Paris 1968. 26 0live Checkland, Humanitarianism and the Emperor's ]apan, 1 877-1 977, St. Martin's Press, London 1993, p. 62. 27 Ivi, p. 62. zB Ivi, pp. 68-70. 29 Michel Wasserman, Le sacre de l'hiver: la Neuvième Symphonie de Beethoven, un mythe de la modernité japonaise, Les Indes Savantes, Paris 2006. 30 Tanaka Yuki, Hidden Horrors: Japanese War Crimes in World War II, West­ view Press, Boulder 1996, pp. 72-73, 211. 3 1 Secondo lo storico coreano Cho Kyon-dal, citato in MacCormack, Reflec­ tions an Modern ]apanese History cit., p. 278. 32 Non bisogna confondere questo avvenimento con l'assedio di Port Arthur (divenuto possedimento russo tra il 1904 e il 1905), un episodio centrale del conflitto russo-giapponese. Tuttavia, la frustrazione per aver dovuto cedere, nel 1895 (e alla Russia!) la strategica penisola di Liaodong, conquistata dopo una dura lotta contro i cinesi, ha contribuito in modo fondamentale ad accrescere la tensione tra i due paesi, che già compete­ vano per il controllo della Corea. 33 Citato in Yamamoto Masahiro, Nanking, Anatomy of an Atrocity, Praeger, Westport (Connecticut) - London 2000, p. 25. 34 Ci troviamo qui di fronte a due tematiche che hanno avuto un notevole peso nella seconda guerra sino-giapponese: l' animalizzazione dell'avver­ sa rio e l'accusa di diserzione, la quale si manifesta sotto forma dell'ab­ bandono dell'uniforme, fatto che implica la cancellazione di tutte le pro­ tezioni garantite ai militari sconfitti. 35 Yamamoto, Nanking cit., p. 26. 36 E si stono molte enunciazioni del bushido. Qui mi baso sulla presentazio­ ne che ne dà Tanaka Yuki (Hidden Horrors cit., pp. 206-207), che non può essere sospettato (a differenza di molti scritti sulle tradizioni giapponesi,

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specialmente nelle lingue occidentali) di compiacenza nei confronti dello spirito marziale nipponico. 3 7 lvi, p. 211. Tanaka sostiene a ragion veduta che non pochi commentatori occidentali si sono lasciati influenzare oltre misura dai militaristi giappo­ nesi, esagerando il carattere tradizionale della loro condotta durante il se­ condo conflitto mondiale. 38 Paragonabili, se vogliamo, alle grandi offensive compiute sul fronte fran­ cese tra il 1915 e il 1917. In cinque mesi di assedio sono stati uccisi o feriti circa 58.000 giapponesi. Dopo il l937 il Giappone ha sperimentato tattiche assai più economiche in termini di perdite, ricorrendo agli assalti in mas­ sa sotto il fuoco nemico soltanto in casi disperati. 39 Eppure, nel 1878, Yamagata Ari tomo, uno dei promotori del rinnova­ mento Meiji e per lungo tempo ministro dell'Esercito e primo ministro, aveva scritto che di fronte a un ordine assurdo i soldati dovevano avere la possibilità di appellarsi a un'autorità superiore. Tanaka, Hidden Horrors cit., p. 209. 4° Come anche la Cina: ma questa è un'altra storia . . . 4 1 La divinità del sovrano rappresenta il concetto alla base del culto che gli è reso fino al 1945; essa giustifica in particolare la sua quasi inaccessibilità e lo rende praticamente inattaccabile. Tuttavia, non ha il significato che potrebbe esserle attribuito in Occidente: esaminando le più antiche ammi­ nistrazioni giapponesi troviamo un Ufficio per gli dèi, che ne fissa il nume­ ro in circa due milioni . . . Dunque, essere un dio non ha di per sé nulla di particolarmente eccezionale, come testimonia il fatto che i sovrani, in qua­ si tutta la storia del paese, hanno avuto una parte modesta. 42 Su questo punto viene ripresa tale e quale una specificità tedesca, ovve­ ro la conferma automatica del bilancio dell'anno precedente nel caso che i deputati non adottino la proposta del governo per l'anno seguente. In tal modo, è garantita, specialmente all'esercito, l'esecuzione senza intoppi dei piani di equipaggiamento. 43 Ancora oggi, gran parte degli studenti liceali giapponesi porta un'u­ niforme che si ispira direttamente ai ginnasi prussiani del XIX secolo. 44 Il Tenno non combatte mai di persona e non commette mai suicidio: ciò basta a provare che non appartiene alla casta dei guerrieri, i soli cui si ad­ dica il rituale del seppuku. Egli ha il compito, ben diverso, di costituire un legame tra la nazione e il Cielo. Molti autori insistono sulla probabile ori­ gine sciamanica della monarchia giapponese, che sarebbe riconducibile al­ la vasta categoria dei . 45 Se si eccettuano alcuni titolari ex offtcio di questo diritto (i due ministri

VIA RIO IL B R E

mi l i ta ri,

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il primo ministro), tutti gli altri devono passare attraverso il filtro ra p p res entato dal Guardasigilli (naidajin) imperiale, che convoca chi vuo­ può sollecitare un colloquio con l'Imperatore). È sufficiente che le (n on si come è successo al marchese Kido Koichi - propenda, anche in i c os tu m o do discreto, per una fazione (nella fattispecie, quella facente capo al ge­ ner ale Tojo Hideki, primo ministro tra il 1941 e il 1944), perché i «dissi­ de nt i>> non possanp più rivolgersi al monarca (si veda il caso del principe Kon oe Fumimaro, che pure era stato due volte capo del governo e capofi­ la della fazione relativamente «moderata>>); inoltre, dal momento che l'Im­ per at ore non esce quasi mai dal palazzo e non si è mai indirizzato diretta­ m ent e al suo popolo prima del discorso del 15 agosto 1945, la separazione p uò essere davvero efficace. ''' Questa è la ragione per cui Tojo desiderava essere il proprio ministro del­ l' Esercito. " Hirohito si è sforzato di paragonare il proprio atteggiamento a quello di un sovrano costituzionale alla maniera britannica; in esso, piuttosto, si de­ ve vedere al tempo stesso la volontà di non compromettersi e quella di conservare la sua aura quasi magica di grande mediatore tra il popolo giapponese e le forze vive dell'universo. Cfr. Peter Wetzler, Hirohito and War: Imperia! Tradition and Military Decision-Making in Prewar Japan, Uni­ versity of Hawaii Press, Honolulu 1998, pp. 11-12. Il principe Saionji pre­ cisa : di Tokyo, e sfocia, a marzo, in un guadagno territoriale per la Thailandia, la quale, in cambio, autorizza segretamente il passaggio di truppe nipponiche sul proprio ter­ ritorio in vista di un attacco alla Malesia britannica. 38 Il governo dei Paesi Bassi si trova in esilio a Londra e mantiene la p ro­ pria sovranità sulle colonie. 39 Il fatto che, dopo l'attacco della Germania all'URSS del 22 giugno, il Giappone non si sia unito all'alleato malgrado le iniziali vittorie tedesche, rafforza ulteriormente la convinzione degli anglosassoni di essere ormai i nemici designati. 40 Naturalmente, i dirigenti giapponesi non potevano esserne a conoscen­ za. Essi hanno sopravvalutato la capacità della Germania di sconfiggere rapidamente la Gran Bretagna e l'Unione Sovietica, mentre hanno so tto­ valutato la capacità dell'America di mobilitare le proprie forze organiz­ zando un contrattacco rapido e massiccio. Si tratta di un sondaggio del Princeton Public Opinion Research, in Iritani, Group Psychology cit., p. 141. 42 Questa leggenda è sorta quasi subito dopo l'avvenimento. Essa è stata creata dai difensori degli ufficiali superiori in servizio alle Hawaii nel di41

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cembre del 1941, puniti per una serie di (discutibili) negligenze, ed è stata ripre sa durante la guerra dall'opposizione repubblicana a Roosevelt. È cu­ ri os o constatare come oggi questa favola continui a trovar credito soprat­ ' tu tto presso la sinistra radicale: per questa corrente d opinione ogni presi­ dente americano è per definizione un pericoloso guerrafondaio. •J Citato in Tarling, A Sudden Rampage cit., p. 76-77. " Dutch (olandese) in inglese.

Capitolo 3 Un fascismo imperiale?

La quintessenza dell'educazione militare è la promozione di un 'attività di patriottismo e di martirio patriottico. Es­ sa ha il compito di rendere il popolo pronto a morire per l'Imperatore in qualunque momento. Il nostro scopo è in­ segnare al popolo a pensare che dev'essere pronto a morire, che non deve avere paura di morire per l'Imperatore [ . . . ]. L'educazione scolastica, da parte sua, comporta la totale obbedienza all'Imperatore e un atteggiamento di assoluta devozione nei suoi confronti. Regolamento della scuola nazionale di Togane, pre­ fettura di Chiba, 1942 1•

Non stupisce che il Giappone sia stato sconfitto: piuttosto, è sorprendente che la sua capitolazione abbia richiesto un tempo così lungo. Infatti, i mezzi con cui esso entra in guerra sono assai più limitati rispetto a quelli su cui può fare affidamento la Ger­ mania, per non parlare degli Stati Uniti. Anche contando le sue colonie - passate, durante la guerra del Pacifico, sotto il controllo del Ministero degli Interni e invitate nel corso degli ultimi mesi de l conflitto a inviare deputati presso la Dieta e soldati al fronte il p aese non supera il mezzo milione di chilometri quadrati. La p opolazione 75 milioni di abitanti, compreso un centinaio di co­ l onie è ancora in massima parte rurale e povera. Le prime uni­ Vers ità moderne appaiono soltanto nell'ultimo terzo del XIX se­ c olo, mentre l'industria ha balbettato fino agli albori del '900. Lo -

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sforzo compiuto per realizzare il progetto bellico è stato, dunque, gigantesco per necessità. I dirigenti giapponesi lo hanno preso in considerazione soltanto a patto che fosse accompagnato, control­ lato e stimolato da una profonda riforma delle strutture dello Sta­ to, ovvero dell'intera società. Naturalmente, il tutto sarebbe do­ vuto avvenire all'ombra di una rinascita dello «spirito del Giap ­ pone)) (Nippon seishin).

L'esercito, l'Imperatore, il consenso L'estirpazione della democrazia 2 La crisi del 1929 è stata fatale alla giovane e fragile democra­ zia giapponese. Essa, infatti, ha colpito con estrema durezza un mondo rurale già in difficoltà da circa un decennio. Per i giappo­ nesi più poveri era facile - anche se non corretto - istituire un confronto tra la propria accresciuta miseria e il potere dei partiti, che all'epoca cominciava a imporsi. I liberali allora al governo ag­ gravarono la situazione, ricorrendo a misure deflazionistiche par­ ticolarmente rigorose, che ottennero l'unico risultato di accelera­ re la spirale depressiva. Molti giovani ufficiali degli anni '20 e '30 provenivano da povere famiglie contadine, per le quali l'esercito rappresentava l'unica speranza di ascesa sociale. La loro indigna­ zione assunse la forma di un anticapitalismo di destra e di un ri­ fiuto del «disordine)) democratico a favore di ciò che conosceva­ no: l'autorità, la gerarchia, il nazionalismo. Nell'esercito si svi­ luppò quindi una corrente «nazionalsocialista)) nel pieno senso del termine, specialmente in seno all'armata «coloniale)) del Guandong, vera e propria fucina di estremismo e ambizione. Questa tendenza si saldò abbastanza rapidamente con le idee di altri gruppi di scontenti: estremisti di destra, ovviamente (come il già menzionato Kita Ikki), spesso contattati attraverso la media­ zione di società segrete espansioniste, come il Fiume Amur o il Fiore di Ciliegio, e giovani funzionari influenzati dalla pianifica­ zione e dal dirigismo all'epoca universalmente considerati la so­ la alternativa progressista al fallimento del liberalismo e indigna-

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ti dal potere straripante di società ancora a conduzione familiare c o me Mitsui o Mitsubishi; infine, socialisti moderati, legati al p rincipio di autorità (come Marcel Déat o Henri de Man in Occi­ dente), che tentavano di uscire dal proprio isolamento. Questa coalizione eterogenea continuava a rappresentare una minoranza, come hanno mostrato tutte le successive elezioni, in occasione delle quali i rappresentanti - più o meno pentiti - dei p artiti tradizionali hanno continuato a spartirsi la stragrande m aggioranza dei seggi; tuttavia, l'apparente coerenza e la novità del suo messaggio impedivano di contrastarla efficacemente. Per­ sino il professar Minobe, teorico della democrazia Taisho, scrive­ va nel 1934 che il sistema politico necessitava ormai di buoni tec­ nici, non più di politici, e che la Dieta doveva limitarsi a ratifica­ re l'operato di un esecutivo libero dal controllo dei partiti 3• Biso­ gna aggiungere che molti si sono adeguati per semplice opportu­ nismo: in effetti, dal 1931 al 1936 i militari estremisti hanno eser­ citato una sorta di diritto di controllo attraverso l'assassinio, «giustiziando» i governanti sgraditi (più di un primo ministro, generali, industriali . . . ) senza timore di ripercussioni giudiziarie. Pretendevano, infatti, di agire spinti dal patriottismo e dalla lealtà nei confronti dell'Imperatore. Mai si erano visti «leali sud­ diti» più indisciplinati. . . Si è anche assistito a ripetuti tentativi di colpo di stato, l'ultimo e il più grave dei quali, il 26 febbraio 1936, ha determinato la caduta di una parte del governo: nell' occasio­ ne l'Imperatore ha sconfessato i putschisti chiedendo, e ottenen­ do, numerose condanne a morte. Ha avuto così termine l'in­ fl u enza della fazione più estremista sull'esercito: la Kodoha (Fa­ zione della Via imperiale), che predicava la superiorità dello spi­ rito giapponese sulla tecnica occidentale, ha dovuto cedere il passo alla Toseiha (Fazione del Controllo), desiderosa di raffor­ zare lo Yamato damashii (spirito dello Yamato 4 ) con una buona d os e di tecnologia. I mezzi utilizzati erano certo destinati a evolvere - all'insegna d i una penetrazione nelle istituzioni esistenti allo scopo di «per­ me arl e» -, ma il fine era invariato: il fascino del dirigismo, l'odio nei co nfronti dei partiti e la mistica nazional-imperiale si sono po-

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co per volta imposti nel cuore stesso del potere. Il fatto che il mo­ vimento fosse ormai diretto da ufficiali superiori (come Tojo) ha permesso che vi si avvicinassero numerosi grandi nobili, come Konoe o Kido, che sognavano di creare - a proprio vantaggio un potere oligarchico debitamente modernizzato. A ciò occorre aggiungere l'attrazione esercitata dall'esterno dal fascismo e del nazismo in piena espansione, nonché dai loro sistemi di mobili­ tazione delle masse. A questo influsso si deve, nel 1937, allo scop­ pio della guerra in Cina, la fondazione di un Movimento per la mobilitazione del morale popolare, destinato a dar manforte al­ l'esercito. In seguito, di fronte al relativo insuccesso di questo progetto, nel 1938 viene lanciato un nuovo partito, che aspirereb­ be ad assorbire (su base volontaria) tutti gli altri: Konoe - allora alla testa del governo - ne assume la direzione insieme a estre­ misti di destra affascinati da Hitler e Mussolini. Tuttavia, l'intrigante primo ministro cambia ben presto le pro­ prie alleanze, dopodiché è costretto a cedere il potere: la sua idea si è rivelata un fiasco. Ciò nonostante, egli la rilancia nel 1940, al­ lorché si rimette in affari e tenta di far capire ai partiti che il suo progetto rappresenta l'unico modo possibile di isolare i radicali «annegandoli» nella massa, e che non si tratta di istituzionalizza­ re il principio del partito unico ma di accettare una sorta di sacra unione, piuttosto stretta, in vista dell'imminente guerra. L'Asso­ ciazione nazionale per il sostegno al trono (ANST) riunisce in bre­ ve tempo gran parte dei parlamentari (la quasi totalità dopo le elezioni del 1942) . Il nuovo movimento è difficile da definire: da un lato, i vecchi partiti vi si dissolvono soltanto formalmente, creando fazioni assai indipendenti, che finiranno per fagocitare i quadri dell' ANST e il suo gruppo parlamentare. Cosa ancor più grave, i gruppi appartenenti alla destra radicale rifiutano l'unio­ ne e continuano a fare politica in maniera indipendente fino al­ l'autunno del 1943 (anche se alcuni loro attivisti sono arrestati ). D'altro canto, gli estremisti presenti in seno all' ANST formano, sia pure su scala ridotta, una sorta di milizia, il «Corpo degli Adulti», spesso composto di ex soldati e destinato a pattugliare le strade delle città alla ricerca di persone che contravvengano al-

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l ' o rdine morale stabilito (per esempio punendo chi insiste a ve­ sti rsi all'occidentale - una sorta di divisa paramilitare kaki è con­ si derata «vestito patriottico» - e a portare i capelli lunghi) . In effetti, i veri vincitori sono probabilmente i funzionari, i quali sono praticamente obbligati ad aderire all'ANSI e il cui c on trollo sulla società risulta ulteriormente accresciuto. Più che di un partito-Stato, occorrerebbe parlare di uno Stato-partito. La g uerra del Pacifico non cambierà di molto tale situazione: i 33 m esi del regno di Tojo rappresentano senza dubbio l'apogeo del­ le velleità totalitarie e dell'integrazione tra tre strutture di potere, ovvero l' ANST, le associazioni di vicinato (tonarigumi), incaricate d i spartire il vitto e di organizzare la difesa civile contro i bom­ bardamenti, e infine la gendarmeria militare, o Kempeitai, che as­ sume le caratteristiche di un' onnipresente polizia politica, alme­ no nelle grandi città. Al contrario, l'ultimo anno di guerra, che ve­ de il ritorno al potere di dirigenti più moderati (soprattutto l'am­ miraglio Suzuki Kantaro, 1867-1948, creduto morto dai sicari che lo avevano colpito nel febbraio del 1937) e le cui difficoltà quoti­ diane assorbono ogni energia disponibile, pare allontanare la po­ po l azione da qualunque partecipazione alla politica, benché la mistica nazionalista non allenti la propria presa.

Una dittatura militare? Come s'è detto, l'esercito è presente a tutti i livelli del potere. Si amo dunque autorizzati a parlare di dittatura militare? E l'Im­ pe ratore rappresenta forse un ostacolo per i militari? La Costitu­ zione del 1889 lo pone in una posizione di eminenza: egli è la sor­ gente di ogni potere, compreso quello militare. Tuttavia, è circon­ d ato di ministri appropriati preposti ad «assisterlo». Tenendo in deb ito conto la parsimonia con la quale il sovrano dispensa le pro p rie apparizioni e le proprie parole, i capi militari, che hanno di ritto a essere ammessi al suo cospetto (vedi il cap. l), in conse­ guenza di ciò hanno altresì la possibilità di strumentalizzarlo, magari nascondendosi dietro la sua autorità per imporre la pro­ pr ia v olontà. Le Conferenze di collegamento in cui vengono per lo pi ù riuniti i capi delle due branche dell'esercito - e che preve-

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dono anche la partecipazione di alcuni tra i ministri più in vista sono, di solito, quelle in cui vengono prese le decisioni 5• La Con­ ferenza imperiale, più solenne e presieduta dal monarca, ha piut­ tosto la funzione di semplice ratifica di quanto è già stato stabili­ to, a meno che non debbano essere discusse questioni di vitale importanza quali l'entrata in guerra o la capitolazione. In ogni ca­ so, Hirohito si tiene costantemente informato, sia attraverso i ti­ tolari di incarichi minori (l'aiutante di campo imperiale, il gran ciambellano, il ministro della Real Casa e - soprattutto - il guar­ diano del Sigillo imperiale, che durante la guerra era Kido Koi­ chi), sia attraverso incontri con responsabili militari e civili. Il quartier generale imperiale, che coordina, come può, l'esercito e la marina, è situato nel Palazzo. Per quanto l'Imperatore sia poco coscienzioso e poco lavoratore - è questo il caso di Showa Tenno -, il suo potere di influenza non è affatto trascurabile. MacArthur e i governanti - sia americani che giapponesi - del dopoguerra, era­ no riusciti a imporre la favola di un sovrano totalmente succube e impotente, onde sminuime la colpa. La sua morte, sopraggiunta nel 1989, ha come liberato la storiografia di un peso, facendo sì che i tac­ cuini di coloro che gli erano stati vicini fossero poco per volta di­ vulgati, dando di lui l'immagine di un capo di Stato spesso inter­ ventista, che non si è mai sognato di spingere alla moderazione. I progetti militari e i principali piani di guerra gli sono sempre stati presentati, né egli ha rinunciato a chiosarli. ll suo carattere riserva­ to e la volontà di non compromettersi - oltre, probabilmnte, alle sue capacità personali relativamente mediocri - gli hanno impedito di imporre le proprie idee, salvo in circostanze eccezionali 6 • L'Imperatore, tra le altre cose, deve evitare di partecipare trop­ po da vicino alle lotte di clan che all'epoca disturbano lo Stato e l'esercito. Da un lato, certamente, c'è l'esercito contro i civili. Ma c'è anche l'esercito di terra contro la marina. Nel primo caso, si tratta dello stato maggiore contro il ministero, in seno al quale l'ufficio per gli Affari Militari (incaricato della mobilitazione) si scontra con l'ufficio per il Servizio militare. All'interno del go­ verno, le frizioni avvengono spesso tra il ristretto Gabinetto di pianificazione e il Ministero dell'Interno, esso stesso, prima della

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g uerra, in polemica con quello della Giustizia (che, paradossal­ mente, era più repressivo) o con il governo del Manchukuo e con var ie autorità di occupazione . . . Il Ministero degli Esteri, piutto­ s to moderato, è vittima - nel 1942 - della creazione di un «Mini­ s te ro della Grande Asia», dipendente da Tojo e destinato a gesti­ re le relazioni con gli «alleati»; le amministrazioni civili dei paesi occupati e le colonie, invece, ormai prive di un proprio ministero, sono assegnate agli Interni. Queste divisioni rendono ancora più fondamentale il ruolo di perno svolto dall'Imperatore, il solo referente considerato da tut­ ti incontestabile. Tojo è il più potente primo ministro che il Giap­ pone abbia mai conosciuto (essendo simultaneamente anche mi­ nistro della Difesa, capo di stato maggiore dell'esercito terrestre e, per periodi più brevi, detentore del portafoglio per gli Interni, dell'Educazione, del Commercio e del Munizionamento, nonché ex capo della Kempeitai in Manduria, dove può contare su una robusta rete poliziesca). Nel febbraio del 1943 egli può proclama­ re di fronte alla Dieta: L'uomo chiamato Tojo non è altro che un umile suddito. Io non valgo in nulla più di voi. La sola differenza tra me e voi è che a me è stata affidata la responsabilità di capo del governo. [ . . . ] Se io bril­ lo, ciò è sicuramente dovuto al fatto che godo della confidenza di Sua Maestà e occupo la presente funzione. Il che mi pone in una ca­ tegoria del tutto diversa da quella dei dirigenti europei comune­ mente noti come dittatori. 7

Questa dichiarazione all'insegna dell'umiltà non è soltanto un se e rcizio di stile: nel luglio del 1944 Tojo è messo in disparte in se­ guito a una banale crisi di credibilità relativa alla terribile scon­ fit t a di Saipan, in seguito alla quale l'Imperatore gli toglie il pro­ pri o sos tegno. A differenza di Mussolini, anch'egli destituito un a nno p rima, Tojo non è né perseguito né imprigionato, ma si uni­ sc e, com 'è costume, al potente gruppo informale degli ex primi minis tri (jushin), consultati in occasione della formazione di ogni nuovo governo.

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Criticare il capo non è un privilegio esclusivo degli apparte­ nenti alla cricca: il l o gennaio 1943, Nakano Seigo, ex segretario generale dell' ANST, pubblica su un grande quotidiano di tradi­ zione liberale, l'«Asahi Shimbun», un articolo nel quale nega a Tojo la qualifica di primo ministro di guerra. Egli fa parte di un gruppo di sei deputati eletti nel 1942 contro il loro vecchio parti­ to. Nell'agosto del l943 costoro accusano per iscritto Tojo di aver stabilito un nuovo shogunato, privando l'Imperatore della sua le­ gittima autorità. Sono arrestati, poi liberati su ordine di un giu­ dice . . . Saito Takao, allontanato dalla Dieta nel 1940 a causa del­ la sua virulenta opposizione a Konoe, viene rieletto nel 1942 no­ nostante la confisca del suo materiale elettorale da parte della polizia 8• In più occasioni i giornali sfidano la censura pubblican­ do (moderate) critiche a proposito della conduzione della guer­ ra. Tali voci si fanno più forti con l'approssimarsi della disfatta. Già nel febbraio del l944, il «Mainichi Shimbun» titola: Non pos­ siamo vincere combattendo con lance di bambù, un'allusione all'ad­ destramento impartito alla popolazione in vista di uno sbarco americano 9 •

La forza del consenso Assai più che da un'intensa repressione (su cui vedi oltre), il Giappone del periodo bellico è caratterizzato da un consenso quasi universale, quali che siano i motivi che lo generano (con­ vinzione, opportunismo o debolezza, spesso le tre cose insieme ). Vi ritorneremo sopra, poiché si tratta di un fenomeno unico al mondo: la stragrande maggioranza dei dirigenti e dei militanti comunisti imprigionati si «pente» e comincia a sostenere il regi­ me militarista, spesso nei suoi aspetti più radicali. Questo discor­ so vale anche per la piccola minoranza cristiana (che rappresen­ tava l'l% della popolazione), dalle cui file provengono quasi tu t­ ti i pochi resistenti - non violenti, soprattutto intellettuali 10 • La scuola filosofica più brillante dell'anteguerra, quella po siti­ vista di K yoto, aderisce massicciamente al conflitto. Quanto agli artisti, anche i più individualisti tra loro si lanciano in una pro­ duzione «patriottica», illustrata all'epoca da numerose esposi zio-

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Nel dicembre del 1943, 522 autori di più di cinquant'anni fon­ dano una «Compagnia di lavoro degli scrittori», i cui membri si rec ano volontariamente presso le fabbriche d'armamenti. Il ro­ manziere Kawabata Yasunari (1899-1972), futuro Nobel per la let­ te ra tura, lavora nel 1945 come bibliotecario in una base di ka­ mika ze n. Tojo invia il seguente messaggio al I Congresso del­ l' A ssociazione patriottica degli scrittori del Grande Giappone (marzo 1943): «Il pensiero dovrebbe diventare una cartuccia e la p enna dovrebbe essere una baionetta, affinché sia vinta la guerra p er la Grande Asia dell'Est» 12• L'efficacia dell'inquadramento ideologico è talmente forte che alcune vittime di Hiroshima ri­ mangono convinte, fino al 15 agosto, che alla fine il Giappone avrebbe vinto. Non la politica perseguita dai dirigenti, quanto p iuttosto le privazioni di ogni tipo, divenute gravissime tra il 1 944 e il 1945, hanno fatto sì che i giapponesi cominciassero a da­ re segni di malcontento 1 3• Offre un'idea della profondità di questo fenomeno la sorpren­ d ente adesione al regime del celebre pittore «Montparno» Fujita ( Fujita Tsuguji, 1886-1968), sodale dei surrealisti, le cui muse ave­ va spesso ritratto, vivendo in Francia pressoché per l'intero pe­ riodo tra le due guerre 14• Aveva tentato un primo ritorno nel pro­ prio paese nel 1933, ma la critica gli aveva riservato un'acco­ glienza fredda. Ritornato una seconda volta nel 1938, accetta nel settembre di quell'anno l'invito rivolto dalla Marina a un gruppo di artisti di visitare il fronte cinese (procedura corrente, anche per scrittori che conservano il proprio spirito critico in seguito all'e­ sperienza 1 5) . Qui, gli capita di assistere ad alcuni combattimenti e, a no vembre, torna in patria trasformato e pieno di entusiasmo: si ge tta a capofitto in un genere per lui totalmente nuovo, ovvero la pittura di scene di battaglie, spesso raffigurate in enormi com­ p o si zioni dalle tonalità cupe. Lavora prima di tutto su ordinazio­ ne d el la Marina, poi diventa uno dei fondatori e un pilastro del­ l ' A ss o cia zione artistica dell'esercito, che poco per volta si fonde �o n l e diverse organizzazioni di artisti patrioti. Va incontro a un 1�m enso successo e partecipa a numerose esposizioni. Il giorna­ h st a fra nc ese Robert Guillain nota la trasformazione del suo

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aspetto: i suoi capelli sono più corti e la sua andatura è marziale 16 • • • Eppure, nell'aprile del 1939, Fujita sceglie di tornare in Francia, senza che gli sia stato ordinato di svolgervi azioni di propaganda. Nel maggio del 1940, nel pieno dello sfacelo francese, riparte e, da settembre, ricomincia a lavorare per l'esercito. I soggetti delle sue opere hanno molto dell'eroismo tragico che pare essere il «prodotto» principale smerciato dalla propa­ ganda nipponica. Il filo conduttore di questo materiale è il sacri­ ficio, piuttosto che la vittoria 1 7 • Il primo quadro da lui dipinto al ritorno dalla Cina esalta la morte gloriosa di un aviatore (l'avia­ zione nipponica subiva all'epoca, peraltro, perdite contenute) . Di ritorno dal suo ultimo soggiorno in Francia, rappresenta l'assalto a mani nude a un carro sovietico in occasione dell'incidente di frontiera noto come battaglia di Khalkhin Gol (o incidente di No­ monhan), persa dal Giappone. L'opera, presentata al secondo Sa­ lone artistico della Guerra sacra, conobbe un tale successo da es­ sere in seguito appesa nel santuario di Yasukuni, consacrato al culto dei soldati defunti. Inoltre, tra le composizioni che hanno contrassegnato l'abbondante produzione di Fujita, si trovano ti­ toli quali Ultima battaglia ad Attu, primo caso di gyokusai, o carica al grido di banzai attraverso la quale una truppa messa con le spalle al muro cerca una morte onorevole 18 • L'ultimo dei suoi grandi quadri di argomento guerresco è I giapponesi di Saipan pre­ feriscono la morte per suicidio al disonore, con riferimento alla scon­ fitta del luglio 1944. Le donne (civili) diventano le principali at­ trici della scena e si immolano, senza esitare, con i propri figli (ma questo particolare è un travestimento propagandistico: la scelta è stata loro imposta in gran parte dai militari) . Fujita ricerca a più riprese la propria ispirazione nei territori occupati dall'esercito, come la Manduria (1940), l'Indocina (1941), la Malesia e Singa­ pore (nel 1942; qui, egli guida un'importante delegazione di pit­ tori, detenendo il rango di ufficiale): non ha mai avuto nulla da dire al riguardo. In ogni caso, Fujita non è stato l'unico tra gli artisti giapp o­ nesi a impegnarsi a fondo in questa equivoca battaglia: è infatti in compagnia dei grandi registi Mizoguchi Kenji (1898-1956) e

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Ku rosawa Akira (1910-1998). Il primo ha glorificato fin dal 1932 in forma di melodramma la conquista della Manduria e l' avan­ z ata verso la Mongolia. I suoi film del periodo bellico esaltano il s acr ificio per una causa superiore; il solo tra questi che sia anco­ ra in circolazione (La vendetta dei 4 7 Ronin, 1941) traspone tale te­ matica in un contesto antico, prendendo spunto da una celebre vicenda. Nell'estate del 1943 Mizoguchi fece una grande tournée co n l'esercito nella Cina occupata. Kurosawa, che ha in seguito tentato di spacciarsi per vittima della censura militare, ha invece sviluppato con assiduità tutti i temi cari alla propaganda, quali l a superiorità dello spirito (ovvero della razza) giapponese; la devozione assoluta degli operai che lavoravano nelle industrie militari ecc. Egli era l'assistente dell'allora ben più noto Yama­ moto Kajiro (1902-1973) e ha ispirato molti dei più grandi suc­ cessi dell'epoca, come La guerra navale. Dalle Hawaii alla Malesia, prodotto in occasione del primo anniversario di Pearl Harbor, o un film del 1944 nel quale sono glorificate le missioni suicide. Per contro, Ozu Yasujiro (1903-1963), pur senza mostrare alcun segno di aperta opposizione, mantiene le distanze rispetto alla propaganda (il che non gli impedisce di continuare a girare 19 ) . Molto meno conosciuto in Occidente è il grande caricaturista politico Kato Etsuro (1899-1 959), il cui percorso è ancora più stu­ pefacente0. Nei duri anni '30, si dimostra uomo di sinistra corag­ gioso e coerente. Al momento dell'entrata in guerra contro la Ci­ na (luglio 1937), non esita a scagliarsi contro i sindacalisti che ce­ d ono alla «sacra unione» o a mettere alla berlina i deputati libe­ rali che accettano di votare bilanci militari esorbitanti. Eppure, ne l 1 939 cambia completamente atteggiamento, sotto l'effetto del­ l ' inci dente di Nomonhan (pubblica a questo riguardo una vi­ gne tta poco umoristica intitolata «Massacrateli fino all'ultimo!») e, in virtù del posto di lavoro che gli viene offerto presso l'uffi­ ci o so giornale anglofono «Japan Times», si convince di rappre­ s entare ormai la «voce del Giappone» 21• Nell'ottobre del 1940 par­ teci pa al lancio della rivista «Manga», la cui prima copertina glo­ ri fic a la recente costituzione dell'Asse. Attraverso i suoi disegni si d e d ic a a colpire il liberalismo, l'individualismo, l'edonismo e

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l'Occidente, esaltando l'Ordine nuovo, prima bandiera del Giap­ pone espansionista. Già nel giugno del 1941 pubblica una raccol­ ta di vignette in cui riassume con virulenza tutte le lagnanze del Giappone nei confronti degli Stati Uniti, presentati come il nemi­ co storico della nazione. L'editore del volume è il colonnello Ha­ shimoto Kingoro (1890-1957), ex putschista, promotore di vari movimenti di impronta fascista. Catalogato come criminale di guerra di classe A (vedi il cap. 11), nel 1946 sarà condannato al carcere a vita. La maggior parte dei suoi amici caricaturisti rom­ pe con lui, e viene accusato di essere un semplice propagandista; il che, tuttavia, non gli impedirà di affermare di essere stato co­ stretto «sotto minaccia armata» a difendere la politica bellica. Do­ po un periodo di confusione, nel 1948 Kato aderisce al partito co­ munista, che serve fedelmente fino alla morte (va detto per inci­ so che il partito non gli domanda nulla sul suo passato) . Con la Guerra Fredda, torna ben presto a versare il proprio veleno sugli Stati Uniti e sui conservatori, loro alleati locali, i quali sono or­ mai semplicemente ritratti con croci uncinate sui vestiti . . . Evi­ dentemente Kato si sente a proprio agio soltanto in seno all'e­ stremismo. A prescindere da queste sconcertanti inversioni di rotta, nella sua opera si nota una costante: il triplice odio nei con­ fronti del liberalismo, dei partiti politici e, naturalmente, degli americani 22 •

Lo splendore imperiale, fine della storia ? La coesione della popolazione nipponica è assicurata assai più dall'inquadramento ideologico che dalla coercizione. Il semplici­ smo contenuto negli slogan potrebbe far dubitare della loro effi­ cacia: essi esaltano di continuo l'Imperatore, glorificano il suo Esercito, lodano il Sacrificio come la più alta realizzazione della persona, proclamano le virtù nipponiche - tra le quali, al primo posto, c'è la capacità di fondersi in un tutto unico -, considerate superiori a qualunque altra, e pertanto in grado di assicurare l'in­ vincibilità a chi le pratichi. I messaggi di questo tipo più diffusi sono: «Cento cuori battono all'unisono»; «Le otto parti del mon­ do sotto lo stesso tetto» 23 (Hakko ichiu). Spetta a Maruyama Masao

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(1 914-1996) il merito, poco dopo la fine del conflitto, di aver mo­ s trato quanto profondamente questa ideologia raccogliticcia sia ri us cita a fare breccia. Dall'era Meiji in avanti l'atmosfera è sem­ p re stata all'insegna di un neotradizionalismo, appena controbi­ lanciato, fino al principio del XX secolo, da una voglia di moder­ nizzazione, che si voleva il più possibile limitata alle tecniche (comprese quèlle riguardanti l'amministrazione), poi, nel corso degli anni '20, da un timido tentativo di democratizzazione. La co­ struzione artificiale di una «religione», lo shintoismo, sulla base di pratiche e credenze sparse e il tentativo di imporla (soprattutto nel decennio tra il 1870 e il 1880) come culto unico ai giapponesi, al prezzo di un vero e proprio sradicamento del buddhismo, sentito come «straniero», costituisce sufficiente materia di riflessione. Ogni scolaro sapeva a memoria e recitava ogni giorno il re­ scritto imperiale sull'Educazione, che intendeva assicurare «la prosperità del Trono imperiale, contemporaneamente celeste e terrestre». Questa formula accenna a una duplice centralità: ognuno definisce se stesso in base alla maggiore o minore prossi­ mità (non necessariamente geometrica!) all'Imperatore non sol­ tanto nello spazio, ma anche nel tempo, poiché l'impero è intrin­ secamente eterno e immutabile. Nel settembre del 1943, il profes­ sar Yamada Takao scriveva sulla rivista «Chuo Koron»: «Se ope­ riamo un taglio lungo l'asse del tempo, gli eventi di 2600 anni fa rappresentano il punto centrale [ . . ] . Gli avvenimenti legati al­ l'imperatore Jimmu 24 non sono conseguenze di vecchie favole, ma fatti che hanno luogo in quel momento preciso» 25• Già nel 1 933 un film di propaganda prodotto dal Ministero d ell a Guerra - allora retto dal generale estremista Araki -, dal ti­ tolo Emergenza in Giappone, presentava uno schema che illustrava l 'assenza di un limite spaziale o temporale a una Via imperiale, la c u i protezione è compito delle Forze imperiali (kogun) 26• Per i na­ zionalisti, il vero senso della storia del mondo (e non soltanto di quella del Giappone) è rappresentato dal riconoscimento pro­ gre ssiv o, da parte di tutti i popoli, dell' «augusta virtù di Sua M aestà ». Di ciò si trova traccia nella sconcertante formula spesso uti l izzata per giustificare l'entrata in guerra del 1941 : «Occorre .

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permettere a tutte le nazioni e a tutte le razze di occupare la po­ sizione loro appropriata» 27, in una struttura gerarchica al cui ap i­ ce c'è il Giappone. Evidentemente, tutto deve passare in secondo piano di fronte a un obiettivo così nobile: «Dal momento che la luce dell'augusta virtù di Sua Maestà giunge a rischiarare il mon­ do intero rendendolo di ciò partecipe, la cosa nota come "diritto internazionale" perde di significato» 28• Ci troviamo di fronte all'esaltazione di un presunto ritorno a un passato mitizzato, estensione indefinita dello spazio di con­ trollo che ne assicura l'eternità: a questa magia, pericolosa e con­ tagiosa, ben pochi hanno resistito, perché essa era conforme al ba­ gno ideologico al quale ogni generazione di giapponesi era stata sottoposta dopo il 1937.

La via giapponese al fascismo È lecito parlare di fascismo nipponico? La domanda può ap­ parire in qualche modo vana, dal momento che vi sono differen­ ze persino tra Germania e Italia. Tuttavia, in questi due paesi vi è un capo incontestato e onnipotente, arbitro indiscusso tra le di­ verse fazioni che caratterizzano il regime. Vi è inoltre un vero e proprio partito di massa, le cui origini si situano nell'opposizione e non nello Stato, e che ha abolito gli altri partiti senza assorbirli. Nulla di simile si riscontra in Giappone, benché, fino al 1943, Tojo sia stato estremamente popolare. Il fatto è che, una volta al pote­ re, i partiti nazista e fascista si sono trasformati a loro volta in or­ gani statali, senza conservare alcuna autonomia o alcun prestigio propri. Un'altra differenza risiede nei forti elementi di continuità con il periodo precedente. In Giappone non si verifica una modi­ fica della Costituzione, né una trasformazione del ruolo dell'Im­ peratore e neanche viene abolita la Dieta. Tale pesante tradizio­ nalismo, che si è ulteriormente consolidato nel corso degli anni '30, ha certamente fatto naufragare i timidi progressi in senso de­ mocratico, ma si è rivelato altresì un solido ostacolo alla messa in atto di qualunque progetto totalitario.

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parziale conservazione del pluralismo Il Giappone si concede il lusso di organizzare elezioni, in par­ te p lu raliste, in piena guerra, nell'aprile del 1942, anche se è fuo­ ri questione opporsi apertamente ai responsabili della crociata na zionale e benché, per la prima volta, si presentino candidati «raccomandati» dalle autorità. In ogni caso, malgrado le pressio­ ni, su 461 seggi 83 sono occupati da personaggi non «raccoman­ dati», ovvero il 1 7% del totale. Tuttavia, dopo il voto, la maggior p a rte degli eletti indipendenti partecipa alla creazione di una branca parlamentare dell'ANST, nota come Associazione politica p er il sostegno al trono. Il partito unico però non convince i giap­ p onesi, e meno ancora è capace di mobilitarli. Nel giugno del 1945, in un paese sconvolto dai bombardamenti, esso si dissolve senza clamore in seno a un'organizzazione civile denominata Corpo di combattimento eroico del popolo, che si prepara a re­ spingere l'atteso invasore. Le transizioni da un governo all'altro (due nel corso della guerra del Pacifico) avvengono senza particolari difficoltà; la vita quotidiana è toccata dalle conseguenze della guerra (privazioni, distruzioni) più che dal tentativo di imporre nuovi costumi. Tali s forzi sono quasi esclusivamente limitati all'aspetto esteriore, a un certo numero di cerimonie patriottiche e a numerosi rituali di devozione nei confronti del Tenno. La relativa moderazione della repressione, almeno nella metropoli, ha lo stesso significato: cer­ ta mente, la libertà di espressione non esiste, ma, se non si è un op­ pos itore dichiarato, in generale il maggior rischio che si corre è di s ub ire una poco piacevole convocazione presso la Kempeitai, di vedere interrotta la propria carriera o di trascorrere un breve sog­ giorno in prigione. Va detto che se non c'è stata troppa repressione è perché non c' era gran che da reprimere. All'infuori di un nutrito manipolo di com unisti e di alcuni coraggiosi cristiani e buddhisti, nessuno ha contes tato il regime, né ha chiesto la pace. Non è esistito alcun movi mento di resistenza, nemmeno non violento, né vi sono sta­ te voci che abbiano incitato alla ribellione. Nessuno tra gli emi­ gra ti imp ortanti ha opposto almeno la propria coscienza morale

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alle male azioni del potere. Ci troviamo di fronte a un consenso senza pari nel XX secolo: da questo punto di vista, il Giappone ha indubbiamente realizzato il totalitarismo più efficace. La capacità del potere di rendere propri satelliti le organizzazioni in principio a esso più sfavorevoli e a cooptare le personalità dotate di mag­ gior indipendenza è invero stupefacente. Un esempio di ciò è for­ nito dalle femministe, che, radunate in una Lega per il voto alle donne, si trasformano in paladine della famiglia tradizionale giapponese per poi fondersi, nel 1937, nella grande Associazione ufficiale delle donne (vedi al riguardo il cap. 1). La loro dirigente, Ichikawa Fusae, nel 1938 non esita a invitare le proprie compagne a riverire la famiglia imperiale compiendo un pellegrinaggio presso il suo tempio tutelare, ovvero quello dedicato alla dea del Sole (Amaterasu) a Ise. Ancora più improbabile risulta l'addome­ sticamento dell'organizzazione dei burakumin 29, la Suiheisha. Nel 1931 tale gruppo aveva denunciato l'intervento in Manduria; si era dichiarato solidale con il popolo cinese e si era detto preoccu­ pato di una possibile svolta fascista. A questa presa di posizione aveva fatto seguito più di un centinaio di arresti. Tuttavia, lo scoppio dell'«incidente cinese» del 1937 conduce alla decisione di «conformarsi allo spirito del kokutai e di contribuire alla prospe­ rità della nazione attraverso il miglioramento della concordia in seno al popolo» 30• Al congresso celebrato nel novembre del 1938 è garantito un totale sostegno alla guerra. Probabilmente, è presso le élite civili, e soprattutto presso i lo­ ro figli, che si osserva la maggiore reticenza (che non vuoi dire re­ sistenza) nei confronti dell'entusiasmo guerresco e della tentazio­ ne del totalitarismo. Per esempio, Iida Momo, egli stesso prove­ niente da una famiglia contadina da poco tempo divenuta agiata grazie ad affari non troppo limpidi, mandato prima in una scuo­ la e successivamente in un'università tra le più esclusive del pae­ se, ci fornisce un'importante testimonianza. Egli descrive studen­ ti sorprendentemente simili a quelli della generazione contesta ta­ ria degli anni '60, caratterizzati da una certa trasandatezza nel ve­ stire e nella cura dell'igiene, da sarcasmo e ribellismo nei con­ fronti dell'ordine costituito; inoltre, essi leggono autori malvisti

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( C e chov, Ibsen, Kierkegaard . . . ) o decisamente proibiti (i marxi­ s ti). Quando, nel 1938, una delegazione della Gioventù Hitleria­ na vi sita uno di questi istituti sfilando al passo dell'oca, gli allie­ vi «li ignorano completamente o gridano loro insulti in una sorta d i g ergo ibrido di tedesco e giapponese» 31• Tra il 1942 e il 1943, in pie na guerra, Momo è iniziato alla lettura degli autori marxisti da un suo ex insegnante, egli stesso laureato presso l'Università im­ p e r i a le di Tokyo. In parte per mera provocazione, egli legge dun­ q ue Lenin sul tram, senza nemmeno nascondere la copertina del libro 32! Se si eccettuano i figli dei politici nazionalisti e un gruppo di studio di Nichiren (vedi il cap. 1), l'atteggiamento dei suoi col­ le ghi studenti nei riguardi della guerra «andava dall'opposizione all'apatia» 33• Per loro il problema era il seguente: Se avessero raggiunto lo scopo al quale aspira qualunque scolaro e fossero divenuti portatori della più alta tradizione intellettuale giapponese, sarebbero probabilmente stati spediti a un fronte di guerra dove avrebbero combattuto, avrebbero sofferto e sarebbero morti. Per loro, ciò non aveva alcun senso. 34 La

polizia del pensiero e i suoi successi In ogni caso, il contrasto con la Germania hitleriana e ancor più con l'URSS di Stalin non deve spingere a sottovalutare il pe­ so della coercizione. La legge sulla Preservazione dell'ordine, vo­ ta ta nel 1925 per attenuare nell'élite i timori suscitati nello stesso ann o dalla concessione del suffragio universale e in seguito ina­ s prit a a più riprese, è stata il principale mezzo attraverso il quale si è esp ressa la repressione legale, di cui è anche il simbolo. Il fat­ to ste sso che sia stata approvata tanto precocemente dimostra, una v olta ancora, l'esistenza di una continuità tra la «democrazia Ta ish o» e gli anni del militarismo. Questa legge si basa su una du­ pli ce tr adizione: la tendenza ad affidare il controllo e la coercizio­ ne a ll' amministrazione - in particolare alla polizia - e non ai tri­ b una li; la sensibilità estrema nei confronti delle idee «devianti», che, per esempio, ha condotto in prigione per due mesi per «di­ s turb o dell'ordine pubblico» l'universitario Marito Tatsuo, il qua-

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le, nel 1920, aveva pubblicato un articolo - peraltro critico - sul pensiero dell'anarchico russo Kropotkin. L'accusa contesta la sen­ tenza, che viene inasprita dopo un secondo processo. La Corte su­ prema conferma la sentenza, ritenendo Marito coinvolto «nella diffusione di pensieri pericolosi» 35• Dopo lunghe discussioni, nel febbraio del 1925 è presentata alla Dieta la legge sulla Preserva­ zione dell'ordine, che rende sistematica la repressione ideologica. Il primo articolo di questo documento individua le persone prese di mira, ovvero «chiunque abbia formato un'associazione che si propone di alterare il kokutai o la forma dello Stato, o si oppone alla proprietà privata». La sanzione prevista comporta fino a un massimo di dieci anni di prigione 36• Ovviamente i comunisti (il cui partito è già fuorilegge) e i loro compagni sono i primi bersagli di questo provvedimento. Nel­ l'inverno tra il 1925 e il 1926 alcuni studenti della prestigiosa Uni­ versità imperiale di Kyoto sono arrestati; tuttavia, la legge entra effettivamente in vigore il 15 marzo 1928, allorché una retata di vaste proporzioni, minuziosamente preparata su scala nazionale, decapita definitivamente il PC, colpito da 1600 ordini di cattura. Contemporaneamente, è organizzato un inquadramento ideolo­ gico permanente: nelle università vengono nominati «sorveglian­ ti allo studio»; gli insegnanti sono vittime di purghe e le associa­ zioni dedicate alle scienze sociali sono disciolte. Soprattutto, la giurisdizione dell' «alta polizia speciale» - cui si addice meglio il nome di «polizia del pensiero» - viene estesa a tutte le prefetture nipponiche, nonché alle principali città straniere frequentate da studenti e intellettuali giapponesi, comprese Berlino e Chicago 37• I suoi poteri di investigazione, rafforzati nel 1932 e, ulteriormen­ te, nel 1941 38, appaiono ancor più notevoli se si considera che agi­ sce in segreto ed è dotata di una vasta rete di informatori: essa rappresenta il più esteso servizio di informazioni di cui il Giap­ pone disponga. Lo Stato, come si vede, sa maneggiare il bastone. Però, è anche più che capace di servirsi della carota: il processo ai 181 più im­ portanti personaggi rastrellati nel 1928, che ha luogo soltanto nel 1931, commina pene assai diverse a seconda che vi siano stati op-

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p u re no pentimento e collaborazione con le autorità da parte de­ g li accusati. Poco alla volta viene istituito un complesso sistema d i incitamento alla «conversione» (tenko): esso riposa in primo luogo su un certo qual rispetto nei confronti degli accusati; a par­ tire dal 1927, infatti, il procuratore generale proibisce severamen­ te pestaggi e torture nei loro confronti 39 (il che significa che, al­ meno in alcuni casi, fino ad allora si ricorreva a queste pratiche). In secondo luogo, la tecnica consiste nell'ascoltarli e nell'incitarli a redigere una dichiarazione più o meno autobiografica. Tale do­ cumento serve a rendere individuali, dunque particolari, i loro casi, ma può anche essere usato come una prova contro di loro qualora si mostrino recalcitranti. Ne consegue un processo spes­ so assai lungo, fatto di interrogatori - che assumono sovente l'a­ spetto di discussioni - o di veri e propri corsi ai quali partecipa­ no anche i precedenti «convertiti». Si verifica il grado di adesione ai principi di pietà filiale e, soprattutto, di lealtà incondizionata nei confronti dell'Imperatore. Il sistema «conversione/riabilita­ zione» è istituzionalizzato dalla legge per la Protezione e il Con­ trollo dei criminali del pensiero, approvata nel 1936: sono ap­ prontati ventidue centri, presso i quali collaborano giudici, pub­ blici ministeri, poliziotti e personale penitenziario. Il loro compi­ to, descritto come «paterno», consiste nel reintegrare al meglio i sospetti nella società, pur mantenendoli sotto controllo al fine di evitare che siano recidivi. Infine, per gli «incorreggibili», un emendamento alla legge (votato nel maggio del 1934) prevede una «detenzione protettiva)) decisa dall'amministrazione, che si as somma alla pena inflitta dal tribunale. I risultati sono impressionanti: su 66.000 persone perseguite tra il 1928 e il 1941, soltanto 5600 sono state giudicate, anche se 9000 sono state poste in libertà vigilata. Gli altri sono in gran parte «convertith) con notevole rapidità 40 • Un bilancio degli an­ ni dal 1928 al 1934 mostra soltanto un 3% di «recidivi)) tra i pri­ gionieri politici liberati 41• Un altro bilancio, parziale, del 1943, ri gu arda 2440 comunisti perseguiti: 1246 si sarebbero piena­ m ente convertiti, mentre i «non corretth) sarebbero stati soltan­ to 3 7. Più del 95% dei circa 500 scrittori impegnati a sinistra si

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sarebbe pentito 42 • Lo sradicamento del comunismo si rivela così efficace che il numero di arresti decresce assai sensibilmente, passando da un picco di 14.600 nel 1933 ai 4000 del 1934, che di­ ventano 1300 nel 1937, poi 800 nel 1940. Questi dati non vanno interpretati come una liberalizzazione del regime: infatti, mentre i condannati rappresentano meno del 3% dei 10.400 indagati del 1931, superano il 50% nel 1939. Il problema è che cominciano a scarseggiare i nemici . . . Al momento della capitolazione, nel 1945, nelle prigioni dell'arcipelago non c'erano nemmeno tremila pri­ gionieri politici. In Giappone, durante la guerra, si è avuta la con­ danna a morte di un solo oppositore politico (ovvero il principa­ le membro giapponese della famosa rete di spionaggio sovietica diretta da Richard Sorge). Occorre comunque aggiungere che un cospicuo numero di interpellati - probabilmente alcune centinaia - è deceduto in seguito alle torture e ai maltrattamenti subiti nei commissariati e nei centri di detenzione 43• In quanto ai non co­ munisti, rappresentano un'infima percentuale tra i perseguitati: si tratta di qualche raro socialista non passato all'ultranazionali­ smo, un pugno di cristiani pacifisti e alcuni militanti di estrema destra, sospettati - non senza qualche ragione, come abbiamo vi­ sto - di condividere molte idee con i comunisti. Non si può fare a meno di considerare notevole la strategia elaborata sulla base della legge del 1925, innanzitutto perché, dal punto di vista del potere nipponico, essa si è rivelata un successo totale: il movimento comunista è stato annientato e l'opposizione è stata disarmata senza spargimenti di sangue o interventi mas­ sicci. Inoltre, i «convertiti» sono divenuti in gran parte propagan­ disti attivi dell'ultranazionalismo e, a volte, del fascismo. Un si­ mile successo è probabilmente ineguagliato: né Mussolini né Hi­ tler, in particolare, hanno potuto sradicare a tal punto l'idea stes­ sa di resistenza dai rispettivi popoli. Infine, la conversione /riabi­ litazione, vera e propria innovazione nel campo del controllo po ­ litico, è all'origine delle procedure di riforma /rieducazione che rappresentano l'aspetto più caratteristico del comunismo cinese e che, in seguito, sono state esportate in Vietnam 44• Sappiamo che il sistema è stato introdotto a Yan'an verso il 1942-43. Esso presen-

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t a il vantaggio di permettere un grado di controllo della società ancora più esteso che in Unione Sovietica, pur spargendo assai rn en o sangue e, dunque, suscitando meno traumi e rancori. Ebbene, alcuni comunisti giapponesi avevano trovato rifugio nella capitale provvisoria di Mao Zédong: hanno forse suggerito qualche idea all'inventivo despota? Oggi siamo in grado di mi­ s urare meglio- l'importanza dei contributi del Giappone militari­ sta all'Asia del dopoguerra (vedi in proposito il cap. 12). Nel ca­ so dei movimenti comunisti cinese o vietnamita, che naturalmen­ te hanno passato la cosa sotto silenzio, è stato cruciale il ruolo di migliaia di ufficiali e di soldati nipponici, che hanno svolto la fun­ zione di istruttori a beneficio delle truppe rivoluzionarie ancora senza esperienza. Probabilmente essi hanno anche insegnato ai comunisti alcune tecniche di governo. I dubbi nascono dal fatto che Mao e Tojo 45 avevano gli stessi riferimenti culturali e politici, che derivavano dal confucianesimo e dai classici cinesi che im­ pregnavano i rispettivi popoli - soprattutto le élite - da secoli. En­ trambi erano desiderosi di imporre un potere tendente al totalita­ rismo, in un contesto moderno di «età delle masse» . Hanno po­ tuto forgiare, indipendentemente l'uno dall'altro, gli stessi stru­ menti, che presentavano il vantaggio di fondarsi su meccanismi intellettuali ben rodati.

Fascisti influenti ma fagocitati dal sistema Pur non potendo affermare seriamente che in Giappone abbia trionfato un fascismo di tipo europeo (di questo i piccoli gruppi di ammiratori nipponici di Hitler e di Mussolini erano perfetta­ mente a conoscenza), è innegabile che fosse in corso un processo di fascistizzazione, almeno dal 1931 (irruzione sulla scena del ter­ rorismo di estrema destra e primo putsch militare di notevole portata). Esso giunge probabilmente al culmine poco prima della caduta di Tojo, nel luglio del 1944. I circoli del potere ammirano l' Ital ia e la Germania e simpatizzano per loro, pur essendo con­ vinti, come abbiamo visto, dell'originalità del proprio modello. La parola d'ordine ricorrente sembra essere: «Nessun nemico a destra» . All'improvviso, anche i moderati, eredi complessati del

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timido liberalismo degli anni '20, si trovano sotto la costante pres­ sione dei gruppi di esaltati che gravitano intorno a loro e che es­ si non hanno il coraggio di allontanare una volta per tutte. Inol­ tre, nel 1930, uno dei pilastri del parlamentarismo, il Seiyukai, crede opportuno allearsi con la destra radicale nella denuncia de­ gli accordi di limitazione degli armamenti navali di Londra, fir­ mati dal governo del suo grande rivale, il Minseito, che, però, aveva fatto lo stesso nel 1928, dopo che il governo Seiyiikai ave­ va firmato il patto Briand-Kellogg di rinuncia alla guerra. Il prin­ cipale movimento socialista legale, il partito socialista delle mas­ se, per parte sua si allinea senza troppa difficoltà al potere attor­ no al 1937, e si entusiasma persino per le velleità di pianificazio ­ ne economica e di opposizione al capitalismo: costituisce, tra l'al­ tro, una delle componenti dell' ANST 46• Gli attivisti, generalmente giovani o di mezza età, sono parti­ colarmente numerosi tra i gradi intermedi dell'esercito. Per que­ sto motivo, essi popolano in larga misura i servizi tecnici degli stati maggiori e gli uffici di pianificazione dei due rami dell'eser­ cito; preparano inoltre i rapporti e i fascicoli per i loro superiori diretti, possono servire da «segretari» in occasione delle riunioni al vertice e influenzano le decisioni cruciali riguardanti il conflit­ to 47 • In più, questi ufficiali fanno causa comune con i loro pari grado più vicini ai campi di battaglia, e ciò fa sì che il loro spirito e le loro aspirazioni penetrino fin nei più alti livelli del potere senza che vi sia bisogno di far ricorso al terrorismo come prima del 1936. Di ciò è testimonianza questa dichiarazione - risalente al maggio del 1939 - del generale Koiso Kuniaki (1880-1950), al­ lora ministro, al barone Harada Kumao, segretario privato del principe Saionji: Per pervenire a una rapida conclusione della guerra dev'essere sti­ pulata un'alleanza difensiva itala-tedesco-giapponese. Gli ufficiali e i soldati sul terreno sono estremamente scontenti dell'aiuto ac­ cordato dall'Inghilterra e dalla Francia a Chiang Kai-shek. Dobbia­ mo tentare di calmarli avvicinandoci alla Germania e all'Italia. In seguito, potremo servirei dell'Inghilterra e della Francia per risol-

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ve re la questione cinese. In caso contrario, gli ufficiali e gli uomini sul terreno non ci obbediranno più. 48 I quadri militari estremisti formano, assieme ad attivisti civili s e sso ancora più estremisti, un ambiente, piccolo ma influente, p c he Maruyama definisce «dei fuorilegge» (o ronin, per riprendere i l vocabolo giapponese appropriato). Essi si distinguono in effet­ ti p e r una forma di anarchismo di destra, un rifiuto di ogni auto­ rità concreta (il continuo riferimento all'Imperatore attiene al regi­ stro del mito), una sorta di culto dandy del «beau geste» nemico di ogni piano coerente e un individualismo che impedirà loro di s p ingersi molto al di là del loro incontestabile potere di distur­ bo 49• Essi odiano i comunisti, ma anche i capitalisti e i partiti p arlamentari. Si tratta di personalità assai simili ai fascisti euro­ p e i loro contemporanei. Tuttavia, Maruyama nota una differen­ za fondamentale: in Europa, i fuorilegge prendono il potere tali e quali, senza rinunciare in nulla al proprio estremismo e senza cambiare i propri comportamenti; David Schoenbaum parla, a questo proposito, di «Rivoluzione Bruna» 50 • Al contrario, in Giappone la rigidità dell'ordine sociale, anche se scossa e vilipe­ sa, è fondamentalmente conservata. Per avvicinarsi al potere, il fuorilegge deve «ufficializzarsi» e, per acquisire una reale auto­ rità, quella dell'eroe popolare ma anche del burattinaio occulto, deve diventare un «altare portatile», un dio vivente portato sulle s palle dal popolo come nelle processioni tradizionali 51• Ciò impo­ ne tutta una serie di concessioni e molta pazienza, perché il per­ co rso è lungo e le insidie sono numerose. Inoltre, in Giappone, le posizioni difese da questo o quel per­ s onaggio spesso corrispondono più alla funzione esercitata che a convinzioni profonde. La solidarietà con i colleghi è considerata pi ù della coerenza delle idee, le quali sono interscambiabili, con­ tingenti: oltre tutto, l'individualità del buon funzionario, anche di altissimo rango, deve passare in secondo piano di fronte al con­ senso (o al preteso consenso) della casta dirigente. Così, il mini­ stro degli Esteri del 1940, Toga Shigenori (1882-1950), giustifica davanti al tribunale di Tokyo il suo discorso entusiasta alla Dieta

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in favore di un patto tripartito al quale assicura di essersi op po­ sto: «Ebbene, in quel discorso pubblico non c'era posto per le m ie inclinazioni e i miei odi personali [ . . ] . Sarebbe più esatto dire che, come ministro degli Esteri del Giappone, ero in una posizio­ ne che mi obbligava a fare un discorso di quel tipo» 52• Quanto a Koiso, successore di Tojo, risponde così allo stesso ti­ po di accusa: «Il modo di fare tipico di noi giapponesi è il seguen­ te: una volta che si è decisa una politica di Stato, il nostro dovere è di consacrare tutti i nostri sforzi alla sua realizzazione, quali che siano le nostre posizioni o i nostri argomenti personali» 53• In queste condizioni, i pochi fascisti che hanno avuto la possi­ bilità di salire tutti gli scalini del potere sono arrivati in cima alla scala abbastanza trasformati, «riverniciati» da conservatori . . . .

Propaganda interna: tra tradizionalismo e fascismo Se si entra nei dettagli dell'impregnamento ideologico, si ri­ trova dappertutto questo fondo tradizionalista, particolarmente appariscente nello stile, ma mescolato a concetti e a una visione del mondo vicini a quelli che caratterizzano il fascismo europeo. La via del suddito (agosto 1941), forse il più importante testo pro­ pagandistico dell'epoca (e largamente diffuso dal Ministero del­ l'Educazione) è da questo punto di vista emblematico. Ne citiamo qui di seguito due lunghi estratti particolarmente espliciti. Il pri­ mo plagia la concezione della storia allora propagandata da Ber­ lino e da Roma, limitandosi a qualche aggiustamento in senso meno eurocentrico: [Dopo il 1918] il Regno Unito, la Francia e gli Stati Uniti si sono vi­ gorosamente battuti per il mantenimento a qualunque costo dello status qua. Simultaneamente, si è sviluppato con forza costante il movimento comunista, che ha come obiettivo la rivoluzione socia­ le da compiersi attraverso la lotta di classe ed è fondato su un ra­ dicale materialismo. Anche il nazionalsocialismo e il fascismo ri­ scuotono un brillante successo: le teorie alla base dei nuovi princi­ pi razziali e totalitari sviluppatisi in Germania e in Italia si pro­ pongono di riparare ai danni causati dall'individualismo e dal li-

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beralismo. Il fatto che tali principi manifestino un grande interesse per lo spirito e la cultura dell'Oriente 54 è cosa degna di nota: indi­ ca infatti la direzione nella quale è avviata la civiltà occidentale e manifesta il sorgere di una nuova cultura. Si può dunque dire con certezza che la storia mondiale è orientata verso l'affondamento del vecchio ordine mondiale. In tal modo, il Giappone ha aperto la strada alla costruzione di un nuovo ordine fondato sui principi della moralità. 55

Il secondo estratto conferma il carattere strutturale del patto tripartito e la centralità dell'opposizione alle potenze anglosasso­ ni, in un momento in cui il Giappone ha appena concluso un ac­ cordo con l'URSS che, per il ministro degli Esteri Matsuoka Yo­ suke (1880-1946), pone le basi per un vasto blocco eurasiatico. Es­ so tuttavia insiste soprattutto sulla superiorità del modello nip­ ponico in una prospettiva quasi messianica che annuncia le futu­ re guerre di conquista: Basandosi sul principio nazionale del sangue e del suolo, la Ger­ mania mira a distruggere la dominazione mondiale della razza an­ glosassone [ . . . ] . Essa si appoggia alla forza della sua rivendicazio­ ne del diritto all'esistenza nazionale, e, in quest'ottica, ha garanti­ to il sostegno e l'obbedienza del popolo alla dittatura nazista, adot­ tando il totalitarismo. L'ideale dell'Italia è rappresentato dalla ri­ costruzione del grande Impero romano e la politica che ne deriva non differisce da quella perseguita dalla Germania: il paese si affi­ da al totalitarismo dittatoriale dei fascisti. A differenza di questi modelli, il Giappone, fin dalla fondazione dell'Impero, ha potuto contare sul regno benevolo di una linea di Imperatori ininterrotta dall'eternità; esso si è ingrandito e si è svi­ luppato come nazione in un'atmosfera di grande armonia, for­ mando un'unica famiglia. Per quanto possano essere diverse le strutture dell'Impero in materia di politica, economia, cultura, af­ fari militari o altro, alla fine sono tutte unificate sotto l'Imperatore, il centro [ . . ] . Il Giappone coltiva l'ideale di rendere manifesto al mondo intero lo spirito dei suoi principi fondanti, secondo i quali .

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«il regno benevolo dell'Imperatore può essere esteso fino al p unto di abbracciare tutto il mondo» (Hakko ichiu) 56• In pratica, non c'è un altro paese che abbia una missione così meravigliosa, elevata, che abbia un senso per il mondo intero. Si può quindi affermare che l'e­ dificazione di un nuovo sistema e di uno Stato che lo difenda non ha altro scopo se non quello di restituire al Giappone la sua prop ria configurazione naturale, aiutandolo a ritornare al suo status origi­ nario di nazione potente. 57

Si sarà notato che La via del suddito non riprende in nulla l'an­ tielitarismo e l'anticapitalismo caratteristici del pensiero di Inoue Nissho (vedi il cap. 1) e degli altri estremisti più o meno fascisti dei primi anni '30. Ma Okawa Shumei (1886-1957), putschista del 1932, ideologo degli attivisti di estrema destra, in seguito perse­ guito dal tribunale di Tokyo, rivela in quale modo si sia verifica­ ta la saldatura con la destra autoritaria «rispettabile» al potere dal 1936 al 1945: Tra capitalismo e socialismo non c'è una lotta basata sui principi. Entrambi i sistemi poggiano sulla stessa idea, e lo scontro verte unicamente sui metodi per realizzarla praticamente [ . ] . Da un la­ to, il capitalismo puro si sforza di limitare il possesso della ric­ chezza a un numero ristretto di persone, cioè al piccolo gruppo de­ nominato classe capitalista; dall'altro, il socialismo si propone di distribuire i beni materiali a un gran numero di lavoratori [ . . ]. Ambedue i sistemi, inoltre, sono concordi nell'attribuire la massi­ ma importanza alle questioni materiali e tendono a vedere nei pia­ ceri materiali la vera felicità dell'uomo; essi dunque ritengono che l'obiettivo dell'umanità risieda nel possesso di abbondanti beni materiali. 58 .

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Come si vede, ogni discussione sulla proprietà e sull' espro­ prio delle ricchezze è disprezzata, rifiutata come immorale e profondamente contraria allo «spirito del Giappone». Certamen­ te, i capitalisti saranno posti sotto stretta sorveglianza: non è pensabile che preferiscano i loro tesori alla patria. Tuttavia, ro-

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ve s ciarli e sostituirli sarebbe «una perdita di tempo» ancora me­ no a cc ettabile: per questa ragione i comunisti in particolare, ma a n ch e alcuni attivisti vicini al fascismo considerati dal regime i d eologicamente affini ai comunisti - e che si ostinano a rimane­ re «al di fuori della legge» -, saranno i soli a subire tutto il peso della repressione.

Propaganda esterna: il liberatore dell'Asia A uso esterno - soprattutto dei paesi occupati -, ai temi mes­ sianici e all'ostilità nei confronti degli anglosassoni si aggiunge un altro argomento: la liberazione dell'Asia e la sua unificazione. Secondo il ministro degli Esteri Tani Masayuki (dicembre 1942), «lo scopo della guerra della Grande Asia dell'Est è di liberare la stessa dal giogo dell'America e della Gran Bretagna [ . . . ] e di con­ tribuire alla pace mondiale attraverso la costruzione di un ordine nell'Asia orientale tale da permettere a tutte le razze e le nazioni che vi si trovano di occupare il posto che spetta loro di diritto e di prosperare insieme» 59• Il suo successore Shigemitsu Mamoru (1 887-1957), nell'ottobre del 1943, è meno pomposo ma più preci­ so. Nel frattempo, il 26 giugno, una conferenza congiunta ha de­ c iso di accordare l'indipendenza - solo in via formale - alla Bir­ mania e alle Filippine, prendendo atto dell'urgenza di fare con­ cessioni alle popolazioni dei territori occupati. In effetti il Giap­ pone deve fronteggiare il contrattacco anglosassone, che in gen­ naio ha già prodotto l'evacuazione di Guadalcanal (isole Salomo­ ne) e l' abbandono dell'offensiva terrestre su Port Moresby, capo­ l u ogo della Nuova Guinea australiana. Il ministro dichiara alla Die ta: Per l'Asia orientale e per i suoi popoli si tratta di un conflitto al­ l'insegna del risveglio razziale: essi combattono una guerra per la rinascita dell'Asia dell'Est. Non bisogna stupirsi del fatto che tutti i suoi popoli si siano levati in massa per partecipare a questa im­ p resa esaltante ed essenziale. [ . . . ] L'attuale conflitto è per noi una guerra di emancipazione nazionale, mentre per il nostro nemico non è altro che una guerra d'aggressione. [ ] La guerra della . . .

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Grande Asia dell'Est è una guerra per la giustizia e per comb atte­ re l'aggressione. È una guerra di liberazione. 60

Siamo abbastanza lontani dalla formula conclusiva di La via del suddito, che rifletteva la visione iniziale di un'Asia posta al ser­ vizio della potenza nipponica e nella quale i popoli dominati non dovevano avere voce in capitolo: «Il Giappone è la fonte della razza di Yamato, il Manchukuo il suo serbatoio e l'Asia orientale il suo campo di riso» 61 • La parola d'ordine emblematica di questa nuova politica è «Sfera di co-prosperità della Grande Asia dell'Est» (Dai-to-a kyoeiken - SCGAE), slogan lanciato nell'agosto del 1940 (nel mo­ mento in cui venivano spedite a Tonchino le prime truppe nip­ poniche) dall'inventivo ministro degli Esteri firmatario del patto tripartito Matsuoka, che si ispirava al pensiero di Okawa Sho.mei (vedi sopra), un convinto panasiatista. Queste idee sembrano prendere forma con la costituzione di un Ministero della Grande Asia (novembre 1942). Nel novembre del 1943, a Tokyo si svolge un «summit della Grande Asia» cui partecipano quasi tutti i capi dei governi collaborazionisti e alleati; una seconda conferenza, te­ nutasi nell'aprile del 1945, vede la partecipazione esclusiva degli ambasciatori di quei paesi, dal momento che la circolazione nel­ l'impero nipponico era diventata estremamente pericolosa. È fin troppo facile sottolineare il drammatico contrasto tra queste belle parole e la sinistra realtà dell'occupazione giappone­ se: di ciò parleremo più avanti e approfonditamente. Eppure, la visione di un Giappone «liberatore dell'Asia» costituisce il prin­ cipale argomento usato da coloro che, dopo il 1945, nell'arcipela­ go o altrove, vogliono difendere in tutto o in parte le loro azioni del tempo di guerra. Essi si appoggiano a una verità incontesta­ bile: la destabilizzazione causata dalla conquista giapponese ha innescato nel Sudest asiatico un processo di decolonizzazione la cui irreversibilità francesi, britannici e olandesi hanno dovuto presto o tardi ammettere. Dimenticano tuttavia un aspetto: il te­ ma della liberazione è comparso soltanto dopo che i nipponici si erano impadroniti della regione; nel migliore dei casi, ciò che il

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Gi app one proponeva ai popoli sotto il suo controllo era assai si­ rnile al sistema cui si è dato in seguito il nome di «neocoloniali­ srn o» . Tuttavia, ancora oggi alcuni asiatici non giapponesi con­ se rvano una struggente nostalgia per il messaggio di emancipa­ z ione in cui hanno creduto. È questo il caso dell'indiana di Sin­ 62 gap ore Romen Bose, ex volontaria nell'Indian National Army • Ell a cita - e riprende a sua volta - la formula di John Jacob, te­ nen te dell'INA: «l giapponesi ci trattavano come loro pari. Un so ttotenente giapponese era tenuto a salutarmi e io salutavo un capitano giapponese. Eravamo trattati da uguali» 63•

Ridefinire il fascismo In conclusione, bisogna tornare alla irritante domanda: fasci­ smo o no? Si sarà già capito che è tutta una questione di defini­ zioni. L'elenco delle maggiori differenze con la Germania e - in misura minore - con l'Italia è troppo lunga perché al regime giap­ ponese possa essere applicata l'etichetta di «fascista», almeno nel­ la sua accezione più stretta. Sono invece più numerosi i punti di contatto con regimi ultrareazionari contemporanei a forte com­ ponente militare, come quelli del generale Franco, del marescial­ lo Antonescu, dell'ammiraglio Horthy o del maresciallo Pétain, che la maggior parte degli storici - infatti - non considera fasci­ sti . . . Tuttavia, il Giappone differisce da queste dittature per due aspetti: da un lato, l'intensità del consenso e l'irreggimentazione della popolazione, simboleggiata dalle associazioni di vicinato (to narigumi, una ogni cinque o dieci famiglie), che l'esercito si im­ pegnerà a esportare nei territori occupati; dall'altro, il dinamismo conquistatore, fondato su un messianismo imperialista. Il caso del Giappone dovrebbe forse spingere ad adottare una definizione più larga di fascismo, che sia meno incentrata sul bino­ mio partito unico/capo carismatico (un aspetto che accomuna il fa­ s cismo al comunismo) e presti maggior attenzione all'ideologia e al ri corso alla violenza. Ebbene, da questo punto di vista i tre poli del­ l' Asse hanno ben più di qualche semplice tratto in comune. In pri­ mo luogo, condividono una mistica nazionalista che deve occupa­ re l ' intero orizzonte affettivo e che degenera facilmente in razzismo

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e odio; sono inoltre accomunati dall'ossessione morbosa nei con­ fronti dell'impresa virile, persino quando essa sfocia nel suicidio 54; per finire, sono legati da un anticapitalismo sentimentale, che tra­ scende in un confuso antimaterialismo. il culto del capo è infatti presente anche in Giappone, benché il suo oggetto non sia un capo reale. Tuttavia, il Tenno ha riunito sulla sua persona sia l'entusiasmo delirante scatenato da Hitler sia i drammi mussoliniani: senza di lui il sistema sarebbe crollato, anche se non era lui a muoveme gli in­ granaggi 65• Come nei regimi fascisti, inoltre, e a differenza dei regi­ mi comunisti, la violenza è assai più massiccia ed estrema all'este­ ro che non nel paese d'origine, dove la mistica della «comunità del popolo» (Volksgemeinschaft) costituisce un freno alla brutalità, dalla quale, fino a un certo punto, sono protetti persino i comunisti. L'al­ tra faccia di questa mistica è rappresentata dall'assenza di qualsia­ si scrupolo che non sia mero opportunismo nell'uso della violenza ai danni degli altri popoli, i quali esistono soltanto per servire i su­ blimi scopi della nazione (o della razza) dominante.

Uno sforzo sovrumano Abbiamo già fornito vari esempi delle strutture e delle tecniche di irreggimentazione e di mobilitazione in uso nel Giappone mili­ tarista. Ci accontenteremo in primo luogo di passare in rassegna qualche aspetto di una quotidianità che evoca le esperienze più to­ talitarie - tuttavia, non parleremo di «totalitarismo» a proposito del Giappone, in considerazione degli elementi reali di pluralismo che sopravvivevano nella vita pubblica e intellettuale 66• Successi­ vamente, mostreremo come il Giappone abbia tentato di battersi ad armi pari con gli Stati Uniti, mettendo in campo tutte le prop rie forze (e quelle delle sue colonie, strettamente integrate alla metro­ poli) con l'obiettivo di costruire una potente industria bellica.

Mobilitazione politica La «Guerra santa» 67 (l'espressione ritorna di continuo nei di­ scorsi) è scandita da una quantità di rituali. A partire dal gennaio

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d el 1942, 1'8 di ogni mese è dedicato alla commemorazione del­ l' att acco a Pearl Harbor: è il giorno del Servizio nazionale per la co struzione della prosperità dell'Asia. In quest'occasione viene le tto parecchie volte il rescritto imperiale dell'8 settembre 1941, si canta, si presta giuramento di combattere fino all'ultimo e i tem­ p li organizzano cerimonie per invocare la vittoria 68• Lo shinto è p iù che mai la religione dello Stato e la partecipazione ai suoi ri­ ti è caldamente raccomandata, mentre le chiese cristiane sono g uardate con il massimo sospetto. Nel gennaio del 1941 le orga­ nizzazioni della gioventù sono fuse sotto l'egida del Ministero dell'Educazione e per i minori di 25 anni l'iscrizione diventa pra­ ticamente obbligatoria: alla fine del 1941 esse contano più di 14 milioni di membri 69• Per quanto riguarda le tonarigumi, non si pu ò evitare di avervi a che fare, dal momento che la distribuzio­ ne delle tessere annonarie passa attraverso di loro. Esse ne ap­ profittano per imporre pesanti prestiti di guerra, per incitare ai contributi volontari e alle corvée «patriottiche» . Si fanno altresì carico di compiti di difesa civile (organizzazione della lotta con­ tro gli incendi), di mobilitazione dei coscritti e di polizia (sorve­ glianza dei movimenti delle persone, rapporti alle autorità). Le tonarigumi sono una struttura piramidale (dieci associazioni di vi­ cinato costituiscono un'associazione locale), che si confonde lar­ gamente con le sezioni dell'ANSI. La polizia non è da meno: [Nel caso che qualcosa fosse sfuggito agli attenti vicini], [ . . ] due volte all'anno si svuotava la casa [ . . . ] e tutto doveva essere dispo­ sto in strada o nel giardino [ . . . ], niente poteva essere riportato den­ tro prima che un ispettore di polizia fosse sufficientemente soddi­ sfatto da rilasciare un certificato. Si interessava in special modo ai miei libri [ . . . ] e scriveva qualcosa sul suo taccuino. 70 .

Un missionario americano è accolto in Giappone da un gen­ da rme che gli pone questa strana domanda: «Ha avuto pensieri pericolosi durante l'anno?» 71• La xenofobia tende a estendersi all'intera popolazione. Gli stranieri, anche se sono originari di

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paesi neutrali o hanno parenti in Giappone, sono sempre p iù spesso confinati in una specie di ghetto, e l'ostilità dichiarata di un gran numero di giapponesi consiglia loro di non uscire di ca­ sa con troppa frequenza 72 • Già prima del dicembre del 1941 gli anglosassoni erano i più ostracizzati: per esempio, nella sc uola d'élite di Iida Momo (vedi il cap . l}, che pure è stata poco toc­ cata dall'ultranazionalismo, una lettrice americana di inglese si scontra con un movimento spontaneo di non-cooperazione da parte dei suoi allievi e deve andarsene in lacrime (non sarà so­ stituita 73) . 11 15 dicembre 1941 il governo bandisce «l'odioso ter­ mine Estremo Oriente» (kyokuto), legato all'imperialismo anglo­ sassone, e lo sostituisce con «Grande Asia dell'Est» (Daitoa), in particolare nella denominazione del nuovo conflitto. Nel no­ vembre del 1943, le nuove cartine del mondo pongono il Giap­ pone al centro 74 . . . La xenofobia colpisce anche i simboli della profonda occiden­ talizzazione cominciata nell'era Meiji: nel 1939 la Dieta stessa proibisce le permanenti. Militanti «patriottiche», che indossano i larghi pantaloni color kaki detti mompe, distribuiscono nelle stra­ de volantini alle donne che osano ancora indossare tacchi alti, cal­ ze di seta e altri indumenti «sconvenienti». Infine, il 1 o novembre 1940, tutti i dancing sono chiusi, vittime dell' «economia di guer­ ra», dopo un'ultima notte di follie 75. Nel dicembre del 1941 i film britannici e americani vengono proibiti; nel 1943 è vietato anche il jazz, peraltro con scarso successo: alcuni piloti kamikaze tra­ scorrono la loro ultima notte ascoltando proprio dischi di questo genere musicale. Il baseball, popolarissimo, è proibito nella pri­ mavera del 1943, ma alcuni seguitano a praticarlo, in special mo­ do nelle università 76. Invece, diversi giornali anglofoni continua­ no le pubblicazioni. Nonostante le richieste in questo senso, l'in­ segnamento dell'inglese, praticamente universale nella scuola se­ condaria, non viene soppresso; ci si accontenta di una riduzione delle ore di lezione dedicate a questa lingua. In quanto al summit della Grande Asia (novembre 1943), che rappresenta l'apogeo del governo Tojo, si svolge in inglese, poiché i leader asiatici non hanno un'altra lingua in comune 77 . . .

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Tuttavia, la mobilitazione si concentra sempre più sul soste­ gno allo sforzo bellico. Il fenomeno è largamente volontaristico, anche se, come sempre in Giappone, è rigorosamente inquadrato. Le scolarette si piazzano agli angoli delle strade e chiedono ai p assanti di cucire un punto sulle «cinture dai mille punti>> desti­ na te ai soldati in segno di solidarietà. «Li ammiravamo come dèi», ricorda una di loro 78• Ai combattenti vengono spediti anche «zaini di consolazione», che contengono la lettera di una giovane «madrina di guerra», libri, dolci e altri regali pagati con gli spic­ cioli delle ragazzine 79• Alcune liceali (compresa una coreana) pos­ sono decidere di recarsi ogni mattina, prima dell'inizio delle le­ zioni, a pregare per la vittoria e, in seguito, di arruolarsi nel cor­ p o delle infermiere di guerra (che non le accetta) 80 •

Mobilitazione economica: al crocevia (1 93 2-19 37) 81 I dirigenti nipponici pretendono che la grande forza del loro paese risieda nello «spirito di Yamato», che anima il popolo che vi abita. Tuttavia, essi sono sufficientemente realisti per sapere che una guerra moderna si vince anche con l'acciaio, il petrolio e una tecnologia avanzata. Per tradizione, essi concepiscono in tal modo l'economia: già nell'era Meiji, si pretendeva di subordinare la modernizzazione e lo sviluppo alle necessità militari. Parecchi governi hanno tentato di usare l'industria per i propri progetti guerreschi, rischiando di far nascere tensioni insormontabili. Se c' è stato un paese che si è preoccupato precocemente di dotarsi di un economia di guerra in tempo di pace, questo è il Giappone, specialmente negli anni '30. Nel contesto di una crescente tensione internazionale, della costituzione di un «blocco dello yen» e dei ripetuti colpi di mano dei militari, una brillante ripresa allontana assai velocemente il paese dalla morsa della crisi esplosa nel 1929. Questo successo è d ovuto in buona parte al lavoro del ministro delle Finanze Takahashi Korekiyo (1854-1936), incaricato di occuparsi dell'eco­ nom ia dal dicembre 1931 fino al suo assassinio, avvenuto in oc­ casione del colpo di stato mancato del febbraio 1936. La sua poli­ tica rompe con l'ortodossia !iberista del decennio precedente,

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senza tuttavia tentare di convertire il paese all'economia piani fi­ cata, sistema che sarà invece perseguito durante il secondo con­ flitto mondiale. Questo dirigismo moderato è un fedele spec chio del clima dell'epoca, e non è troppo lontano dai principi che han­ no ispirato il New Deal di Roosevelt (dal 1933 in avanti). La sp e­ cificità giapponese sta forse nell'aver reagito più precocemente alla crisi. La rottura con la tendenza deflazionista che aveva caratteriz­ zato gli anni '20 è confermata dalla crescita rapida delle spese di bilancio (le entrate passano da 1,74 miliardi di yen nel 1929 a 1,48 miliardi nel 1931, poi a 2,25 miliardi nel 1933, dopodiché si atte­ stano stabilmente su questa cifra). Gli interventi privilegiano l'ar­ mamento e gli aiuti alle zone rurali: le voci di bilancio che li ri­ guardano aumentano del 32% nel 1932. Il deficit, che, beninteso, cresce, è finanziato dall'emissione massiccia di buoni del Tesoro da parte della Banca del Giappone, che li colloca presso istituzio­ ni finanziarie senza peraltro minacciare il mercato finanziario. Il «trittico Takahashi» consiste dunque in una crescita delle spese budgetarie, in un tasso di cambio debole e in tassi di interesse ri­ dotti al minimo. Il sistema funziona. Tra il 1932 e il 1936 le esportazioni au­ mentano del 126%; esse riguardano in gran parte prodotti del­ l'industria tessile (soprattutto cotone e rayon), che traggono van­ taggio sia dalla svalutazione che da importanti sforzi produttivi. Questa crescita, nell'atmosfera fortemente protezionista del tem­ po, dà luogo alle prime controversie commerciali, che oppongo­ no il Giappone alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Gli investi­ menti privati crescono del 109% contro il 58% di quelli di Stato: il rilancio pubblico ha dunque avuto successo soltanto grazie al di­ namismo manifestato dalle imprese private. L'armamento non svolge ancora un ruolo decisivo: nel 1932 esso assicura il 28% del mercato (nel 1936 era soltanto il 18%). Tra gli anni 1925-1929 e gli anni 1935-1939 la produzione industriale raddoppia, mentre i set­ tori più dinamici (siderurgia, industria meccanica e chimica, la­ vorazione della ceramica) la triplicano quasi. In ogni caso, l'azio­ ne dello Stato non è trascurabile: lavori pubblici (per 800 milioni

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di yen) nelle zone rurali e prestiti per un ammontare equivalente ai contadini più indebitati forniscono all'economia uno stimolo al meno pari a quello dato dal settore degli armamenti. Alcune m i s ure protezionistiche rafforzano il notevole aumento dei prez­ z i dei prodotti importati: l'industria metallurgica e l'industria chi mica nazionali ne beneficiano nel 1932, la produzione di mu­ n iz ioni e di automobili nel 1936, mentre lo Stato sovvenziona la m o dernizzazione dei cantieri navali. Tra i settori più importanti spicca la lavorazione del rayon: verso il 1935 le principali ditte giapponesi in questo campo rag­ g iungono la testa delle classifiche mondiali. Industrie «di punta» come quelle che producono macchine utensili, macchinari elettri­ ci, aerei (l'industria aeronautica è massicciamente sostenuta dal­ l'esercito), toccano a volte livelli di eccellenza mondiale, come nel caso della Toshiba e della Hitachi. L'industria pesante (macchi­ nari inclusi) diventa il motore della crescita, progredendo del 1 0% annuo e passando dal 35% del prodotto industriale globale del 1930 al 45% nel 1936. I «nuovi zaibatsu» (Nichitsu, Showa denko e soprattutto Nissan), maggiormente specializzati e tecno­ logizzati rispetto a quelli più antichi (Mitsui, Mitsubishi, Sumito­ mo . . . ) connotano questo periodo con la propria aggressività (i lo­ ro dirigenti sono spesso ex militari e dispongono di importanti contributi pubblici) . Intervenendo in particolare nel settore della chimica, collaborano strettamente con i laboratori universitari e investono nell'impero, in particolar modo in Corea e in Mandu­ ria. La Toyota, che aveva cominciato nel tessile, sviluppa una pro­ pria produzione automobilistica. I rami considerati «strategici» so no stimolati a crescere, ma sono altresì inquadrati dallo Stato: il petro lio nel 1934, il settore auto nel 1936 ecc. Come contropartita pe r i v antaggi fiscali loro concessi e per la compensazione delle eventuali perdite, queste industrie devono accettare il controllo dei lo ro piani e dei loro metodi di produzione, ed essere sempre pro nte a rispondere alle richieste e all' «interesse collettivo» del­ l' e se rcito. Nel Manchukuo e nella parte della Cina settentrionale con­ tro lla ta dall'esercito giapponese del Guandong sono sperimenta-

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te forme molto più radicali di economia pianificata. In stre tta in­ terdipendenza con la metropoli, è posta in essere una vera e p ro­ pria pianificazione: le industrie chiave (un'impresa monop oli sta per settore) sono controllate dallo Stato, nel caso specifico il «go­ verno» manciù e le ferrovie della Manduria meridionale (giap­ ponesi dal 1905), che detengono ciascuno il 30% del capitale; il re­ sto è pubblico, ma le società private non possono accedervi. La coltivazione del riso e il ramo tessile sono scoraggiati, per non fa­ re concorrenza al Giappone. Il grande capitale metropolitano, ostile al progetto, ne determina il fallimento dirottando gli inve­ stimenti verso altre direzioni. Tuttavia, il ferro, il carbone e il sa­ le, che nell'arcipelago nipponico sono presenti in quantità insuf­ ficiente, sono sfruttati a fondo. La scomparsa di Takahashi permette l'irrompere di forme di economia di guerra nello stesso Giappone. Un ambizioso piano pluriennale di armamento è alla base di una crescita del 40% delle spese di bilancio del 1937 (l'esercito assorbe il 60% del to­ tale delle uscite). Le tasse aumentano, come le importazioni di materie prime: dietro le quinte, l'esercito (e in particolare il ge­ nerale Ishiwara Kanji, 1889-1949, «padre» del Manchukuo) in­ terviene sempre più direttamente. Bisogna costruire lo «Stato nazionale di Difesa», dal quale i militari radicali si attendono la salvezza del paese. Il governo Konoe, il cui ministro delle Fi­ nanze, Baba Eiichi (1 879-1946), è un convinto interventista, pu ò essere formato nel giugno del 1937 soltanto dopo aver approva­ to il piano quinquennale di Ishiwara che, nella prospettiva di una guerra contro l'Unione Sovietica, prevede la creazione di una possente industria pesante nel quadro di un «blocco Giap­ pone-Manchukuo» . Di conseguenza, vengono studiati stretti controlli sulle importazioni e sui movimenti di capitali, in mo­ do da far rispettare le priorità definite. L'economia della Man­ duria è retta da un piano quinquennale, nell'ambito del quale il padrone di Nissan ha l'incarico di coordinare l'insieme dell e in­ dustrie pesanti e chimiche.

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Mobilitazione economica: successi e limiti dell'economia di guerra (1 938-1 945) Gli anni che seguono sono caratterizzati dalla ricerca sempre v ana di un punto di equilibrio tra due impulsi contraddittori. Da un lato, i militari e i loro alleati tentano di promuovere un' econo­ mi a dirigista e pianificata al servizio della produzione bellica; dall'altro, i dirigenti degli zaibatsu e le correnti politiche conser­ vatrici mirano al mantenimento della proprietà privata delle im­ p rese, condizione indispensabile, secondo loro, per una gestione efficace. Tuttavia, ciò che più manca è il tempo: la guerra di Cina è scoppiata troppo presto, occorre far fronte a enormi spese im­ mediate per permettere a un milione di soldati di operare con ef­ ficacia sul continente, e simultaneamente bisogna investire in modo massiccio per conservare il vantaggio strategico sul mare nei confronti degli Stati Uniti, che hanno intrapreso il riarmo. La necessità di trovare una sorta di quadratura del cerchio spiega le successive correzioni di rotta. In ogni caso, sono numerosi i per­ denti: in primo luogo, le piccole e medie imprese sono controlla­ te e cartellizzate in maniera forzata; i salari sono bloccati e ven­ gono eliminati i tetti agli orari. Quanto ai consumatori, vittime di un razionamento sempre più stretto, sono obbligati a ricorrere al mercato nero, che si fa tristemente beffe del blocco teorico dei prezzi (e degli affitti) . Il primo ministro Konoe, al potere tra il 1937 e il 1941, è fin dal­ l ' inizio l'uomo dei militari. Nel dicembre del 1937 presenta alla Die ta una «legge di mobilitazione generale», garantendo in tem­ po di guerra la preminenza assoluta dello Stato attraverso le se­ guenti misure: allocazione della manodopera, controllo dei salari e degli orari di lavoro, controllo degli investimenti in macchina­ ri, controllo dei trasporti, del commercio estero e dell'utilizzo del suolo; creazione di associazioni di controllo e di cartelli in tutti i setto ri dell'economia con presenza dello Stato; controllo dei prez­ zi e dei profitti; sovvenzione all'industria bellica; modifica dei cu rricola scolastici in vista della formazione di tecnici da impie­ gare nel settore degli armamenti. La legge è approvata con nu­ merosi emendamenti . . . ma gli ambienti conservatori, ai quali si

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allinea opportunamente lo stesso Konoe, ne bloccano immediata ­ mente l'applicazione: essi ritengono che la campagna di Cina sia stata un semplice «incidente» che in qualche modo è degenerato. I dirigisti ritornano alla carica nel 1940, quando gli squilibri co­ minciano a essere evidenti e la produzione decresce: la prosp etti­ va di un allargamento delle ostilità permette loro di rafforz are i controlli su profitti e dividendi e di aumentare le tasse. I sindacati sono le prime vittime della legge sulla mobilitazio­ ne. Nel luglio del 1938 è costituita, con la benedizione delle auto­ rità, una Federazione patriottica dell'industria. In pratica, essa è diretta da funzionari del Ministero dell'Interno e incoraggia lo scioglimento «volontario» dei sindacati, sostituiti - sul modello corporativo - da «consigli di discussione» aziendali, cui parteci­ pano i padroni e gli operai. Alla fine del 1939 la Federazione con­ ta 3 milioni di membri e, nel luglio del 1940, i sindacati ancora esi­ stenti si fondono in essa 82 • Dopo Pearl Harbor, i militari impongono la presenza di so­ vrintendenti dell'esercito nelle grandi società; le strutture di con­ trollo, di allocazione e di commercializzazione, sia statali sia sol­ lecitate dai cartelli bancari si moltiplicano, causando una notevo­ le confusione e producendo un appesantimento burocratico, sen­ za che l'organismo centrale sia in grado di perseguire una coe­ rente politica di insieme. In realtà, l'esercito e la marina si fanno una costante concorrenza per l'allocazione dei preziosi materiali militari: in alcuni casi, è necessario innalzare un muro divisorio nelle officine che lavorano per entrambi i rami dell'armata nip­ ponica, al fine di evitare reciproci saccheggi. Nel 1943 la costitu­ zione di un Ministero per le Munizioni da parte del governo Tojo dovrebbe servire a regolamentare tale concorrenza, ma la marina accusa il generale di parzialità a favore dell'esercito. Nel momen­ to in cui tutto comincia a mancare, è ragionevole che l'esercito continui ad avere una flotta da trasporto mentre la marina disp o­ ne solamente dei propri camion? I risultati della produzione di guerra sono al tempo stesso im­ pressionanti e insufficienti, di fronte all'enorme potenziale ame­ ricano. A partire dalla fine del 1944, sotto i colpi di maglio dei

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bombardamenti a tappeto, mentre quasi più nulla può essere im­ p ortato, l'economia comincia a sfasciarsi. La principale causa di questa strozzatura è rappresentata dal petrolio: infatti, la produ­ zione interna è scarsa (286.000 tonnellate nel 1943) e le alternati­ ve si rivelano un fallimento pressoché completo, malgrado l'ab­ battimento di centinaia di migliaia di pini per estrarre alcol dalle loro radici. Al termine delle ostilità, le riserve sono calate a 46.000 tonnellate, quasi tutte a disposizione dell'aviazione. L'acciaio, fabbricato con rottami di ferro e minerali di importazione, crolla da 4,5 milioni di tonnellate nel 1943 a 2,7 milioni di tonnellate nel 1944. La guerra è stata persa in gran parte a causa dell'inadegua­ ta produzione navale, che già nel 1942 era appena sufficiente a equilibrare le perdite; in totale, tra il 1941 e il 1945, per 3,5 milio­ ni di tonnellate costruite, si contano 8,1 milioni di tonnellate co­ late a picco (4,4 milioni riguardano i sottomarini) . Come risulta­ to, alla fine della guerra rimangono navi non troppo danneggia­ te per 800.000 tonnellate, mentre nel 1941 la flotta ammontava a 6,4 milioni di tonnellate. L'industria aeronautica sperimenta una crescita enorme: sono prodotti 64.000 aeroplani (tuttavia, alla fi­ ne del 1944, il 70% di questi si rivela inadatto al combattimento) con una punta massima di 2800 apparecchi nel solo mese di giu­ gno del 1944, contro 550 allo scoppio del conflitto; nell'agosto del 1945 ne restano ancora 16.000, ma la maggior parte di loro non può volare, non foss'altro che per la penuria di cherosene 83• I problemi sono al tempo stesso congiunturali e strutturali: man­ cano gli operai specializzati (l'ingresso nelle fabbriche di un mi­ lione e mezzo di operai non qualificati non migliora affatto la si­ tuazione); il sistema delle catene di montaggio non è abbastanza diffuso; la capacità di produzione delle macchine utensili, molte delle quali sono ancora anglosassoni, è decisamente scarsa; si fa troppo affidamento su piccole e medie imprese ultraspecializza­ te: la loro distruzione a causa dei bombardamenti moltiplica le strozzature. Le pesanti spese belliche sono state a lungo riequilibrate dal­ l' aumento delle riscossioni: la tassa speciale sui salari balza dal 10% al 18%, i prestiti obbligatori, l'investimento dei buoni del Te-

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soro nel settore pubblico tramite le onnipresenti associazioni di vicinato, alle quali difficilmente si poteva opporre un rifiuto (e al­ le quali occorre versare tra il 10% e il 20% dei propri guadagni) . In ogni caso, alla fine del conflitto l'inflazione è ormai fuori con­ trollo: la massa monetaria è quintuplicata tra il 1941 e il 1945. I va­ ri prelievi e il blocco dei salari avevano già drasticamente ridotto i consumi familiari a 6 miliardi di yen su un PIL di 84 miliardi nel 1944! Le razioni diminuiscono vertiginosamente (il riso passa da 900 a 400 grammi giornalieri) e molti altri prodotti, dal sapone ai vestiti, dalle padelle alla maggior parte dei medicinali sono sem­ plicemente spariti. Il mercato nero è inaccessibile alla maggior parte delle persone: qui, per esempio, lo zucchero si paga a un prezzo 250 volte superiore a quello ufficiale. Ne deriva un abbas­ samento della razione quotidiana di calorie dalle 2400 del 1941 al­ le 1500 del 1945 (1'11% in meno rispetto alla Germania affamata del 1918). Per quanto concerne il bisogno insaziabile di manodopera, si fa ricorso a qualunque mezzo. In una società ancora assai legata al modo di vita tradizionale, il lavoro salariato femminile è raro: eppure, rappresenta la prima risorsa su cui si fa affidamento. Dal momento che i giovani partono sia per il fronte sia per andare a lavorare nelle fabbriche di armi, la manodopera agricola dimi­ nuisce del 20-30% in media; alcuni villaggi, tuttavia, si trovano a essere completamente spopolati. Molte madri di famiglia rurali devono andare a lavorare nei campi. In seguito, si pensa di im­ piegare gli studenti. A partire dall'agosto del 1941, i liceali sono invitati a trascorrere le vacanze collaborando alla fabbricazione di esplosivi. Nel giugno del 1943 è autorizzata la loro coscrizione immediata, mentre le liceali sono assegnate alla produzione dopo i corsi (peraltro notevolmente alleggeriti) . Esse sono ben pre sto invitate ad allenarsi a maneggiare lance di bambù e a lanciare granate. Persino le allieve handicappate e cieche dovevano ren­ dersi utili, trasportando fucili e sacchi; inoltre, ricevono un adde­ stramento al combattimento proporzionato alle loro capacità 84 Circa due milioni di lavoratori coreani sono condotti nell' arcipe­ lago e centinaia di migliaia di prigionieri di guerra si vedono co• • •

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str etti a lavorare, in spregio alla convenzione di Ginevra. Van­ no ancora menzionate le «corvée» (scavo di rifugi antiaerei, co­ s truzione di fortificazioni costiere - peraltro molto primitive) a lle quali tutti sono obbligati a contribuire negli ultimi mesi del c on flitto. Tuttavia, nel corso dell'ultimo anno di guerra, il sistema si de­ teriora considerevolmente. Fin dall'agosto del 1944 il 30% delle donne e dei giovani lavoratori soffre di una grave malnutrizione: tra le malattie da questa indotte (per esempio il beriberi), il tem­ p o passato a cercare qualcosa da mangiare e gli effetti dei bom­ bardamenti sempre più devastanti, l'assenteismo balza dal 20% dell'estate del 1944 al 50% alla vigilia della capitolazione 85 • Anco­ ra prima di Hiroshima, era diffusa un'atmosfera da fine del mon­ do, come dimostra l'episodio dell'uccisione delle belve custodite allo zoo di Tokyo, eliminate nel timore che potessero scorazzare libere tra le rovine, nel caso i loro recinti fossero bombardati. Tut­ tavia, esse vengono impagliate ed è organizzata una cerimonia buddhista per placare i loro spiriti 86 • • •

Le colonie nel conflitto: un 'integrazione ambigua 67 La conquista di Taiwan (1895) e quella della Corea (1905-1910) erano avvenute all'insegna di gravi violenze: probabilmente, lo 0,5% dei coreani e l'l% dei taiwanesi sono morti negli intensi combattimenti, proseguiti per anni, o nei massacri di civili che li hanno accompagnati, o ancora nelle prigioni degli occupanti. Tut­ tavia, dopo le enormi manifestazioni popolari pacifiche del mar­ zo 1919 che hanno luogo in tutta la Corea, sembra che il liberali­ smo e la tolleranza, allora in auge a Tokyo, conoscano un breve trionfo, con la «politica culturale» della prima metà degli anni '20, inaugurata dal governo di Hara Takashi (1856-1921). Sono adottate misure che mirano ad avvicinare sul piano giuridico e materiale coloni e colonizzati: si cerca di fare in modo che la po­ polazione locale possa adeguatamente esprimersi, beneficiando maggiormente delle leggi giapponesi, mentre prima vigeva un regime di separazione dai colonizzatori. In effetti, fino a quel mo­ mento, il governatore e le forze di repressione, presenti anche nei

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villaggi più piccoli, avevano avuto in pratica potere di vita e di morte sugli autoctoni. A Taiwan l'ostilità nei confronti dei giap­ ponesi è meno forte che in Corea, paese dove rimane una deb ole resistenza armata nelle zone di confine con il Manchukuo: una politica di assimilazione culturale si propone di garantire agli abi­ tanti l'accesso a un'istruzione più avanzata, permettendo loro di occupare gli stessi impieghi dei coloni; anche i matrimoni misti sono incoraggiati. Nel corso degli anni '30, questa visione assimilazionista, ge­ nerosa ma perseguita per troppo poco tempo, è trasformata in una sorta di «totalitarismo coloniale», che risponde ai cambia­ menti in atto nella stessa metropoli. L'idea è ancora quella di fon­ dere i «popoli imperiali», ma questa volta nel contesto di una grande caserma: non si parla più di diritti, ma solamente di do­ veri. La mistica imperiale - quella del Grande Giappone le cui co­ lonie, con i loro «popoli imperiali>>, diventano la «corona esterna» della Grande Asia dell'Est, destinate a combattere e a prosperare insieme - deve rappresentare il legame principale tra colonizza­ tori e colonizzati. Si arriva addirittura al punto di tentare di proi­ bire l'uso delle lingue coreana e cinese, chiudendo a questo sco­ po giornali e scuole non nippofone, imponendo l'abbandono dei cognomi autoctoni (in spregio ad antenati riveriti) a vantaggio di patronimici giapponesi 88• In linea di principio, il processo si com­ pie alla fine del 1942, quando i governatori generali delle ex colo­ nie, nelle quali ormai si applica la Costituzione giapponese, sono posti sotto la responsabilità del Ministero degli Interni. Di conse­ guenza, nel gennaio del 1945, la Dieta decide che 28 deputati sa­ ranno eletti dai taiwanesi e dai coreani 89• La gestione coloniale fino a quel momento simile a quella clas­ sica delle potenze occidentali (sfruttamento delle materie prime, essenzialmente canna da zucchero a Taiwan e riso in Corea) è ri­ voluzionata dalla strategia di sviluppo a oltranza in un contesto semiautarchico adottata tra il 1931 e il 1932; ciò allo scopo di in­ tegrare totalmente le colonie nell'economia metropolitana, attra­ verso una massiccia industrializzazione e lo sfruttamento delle loro risorse minerarie ed energetiche (possenti fiumi), particolar-

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m ente importanti nel nord della Corea. Per contro, la cultura del ri so è scoraggiata, per evitare che nuoccia agli agricoltori giappo­ nesi, notoriamente poveri e non disposti a subire una simile con­ correnza. Anche a Taiwan, che esporta per lo più prodotti agrico­ li, nel 1939 l'industria ha già un fatturato equivalente a quello del settore agricolo. Il mercato coloniale è importante: esso costitui­ sce quasi un quarto delle esportazioni, e più di un quarto delle importazioni della metropoli. Essa, però, non divide affatto i frut­ ti dei propri progressi con i territori da lei dipendenti: sul finire degli anni '30 la produzione idroelettrica coreana è tripla rispetto a quella di Taiwan (per una popolazione pari al doppio), ma sol­ tanto il 12% delle famiglie vive in una casa con l'elettricità, con­ tro il 36% di Taiwan e il 90% del Giappone. Tenuto conto dell'importanza degli investimenti nelle colonie, i risultati economici ottenuti in quattro o cinque decenni sono probabilmente i più impressionanti della storia coloniale mon­ diale. Il fenomeno più importante è rappresentato dall'in du s t ria ­ lizzazione, anche se riguarda soltanto il periodo finale della colo­ nizzazione. Dal 1933 al l938, in Corea, la manodopera è triplica­ ta, il capitale investito raddoppia, la produzione chimica aumen­ ta di ben sei volte: il settore chimico diventa il più importante e fornisce gran parte dei concimi usati in Giappone. Nel 1940 la Co­ rea conta 295.000 operai impiegati in imprese con almeno cinque dipendenti su 23,5 milioni di abitanti. Nel 1938, si contano 225.000 minatori e 193.000 muratori o operai impiegati nei lavori pubblici, corrispondenti al 7% degli impieghi: ciò fa della colonia un territorio all'epoca più industrializzato del Messico o della Turchia, che si trovano ai primi posti tra i paesi semi-sviluppati. La maggior parte dei tecnici e degli ingegneri è giapponese, ma tra le loro file si contano 5200 coreani. Duemila imprese indu­ stria li sono di proprietà coreana, tra le quali ve ne sono di impo­ nen ti: nel 1940, 16 di queste dispongono di un capitale investito sup eriore a l milione di yen (le ditte giapponesi che si trovano in tal e situazione sono 238). Alcuni coreani partecipano all'espan­ si one imperiale. Per esempio, Kim Su-Yeong, che, con la ditta tes­ sile Gyeongseong aveva fondato nel 1919 la più grande società

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manifatturiera di proprietà di un autoctono, nel 1938 apre a Mu k­ den, in Manduria, una fabbrica tessile che conta 3000 operai, do­ tati di macchinari moderni. Le infrastrutture rappresentano un lascito essenziale dell' occu­ pazione giapponese. La rete elettrica coreana si estende a tutto il paese e, nel 1943, può contare su 2 milioni di kW di potenza, so­ prattutto concentrati nelle centrali idroelettriche dei fiumi Yalu (Amnokkang in coreano, Yalejiang in cinese) e Tumen (Duman­ gang in coreano, Tumenjiang in cinese), al confine con la Man­ duria. Nel 1940 la rete ferroviaria della penisola si estende su 5671 chilometri: è la più fitta in Asia dopo quella del Giappone, e vi circola l'equivalente della metà del traffico ferroviario cinese, compresi numerosi trasporti di truppe e munizioni. Sono anche stati costruiti ampi porti e sono state tracciate parecchie strade strategiche. L'educazione è uno dei cardini del sistema. In Corea, al cadere del periodo coloniale, quasi la metà dei ragazzini dai 7 ai 14 anni riceve un'istruzione primaria; il 5-10% di loro ha accesso alle scuole secondarie. Nel ciclo superiore coreano, si contano 4300 studenti autoctoni contro 3100 figli di coloni, e sia Keijo (Seoul) che Taihoku (Taipei) dispongono di una delle quattro università imperiali giapponesi. In ogni caso, è ancora difficile da stabilire un bilancio sociale sufficientemente oggettivo dell'ultimo periodo coloniale. In ge­ nerale, la situazione appare piuttosto tetra: in quarant'anni di tutela, i contadini coreani non proprietari passano dal 38% al 55% del totale; il 40% della produzione di riso coreana è espor­ tata, ma il consumo locale per abitante sembra diminuire. La quantità di calorie giornaliere disponibili, già bassa, non au­ menta o addirittura diminuisce (attestandosi sulle 2000). I tre quarti delle imprese industriali, corrispondenti al 94% del capi­ tale del settore, appartengono a giapponesi. Ci troviamo di fron­ te a un caso paradigmatico di ipersfruttamento quasi scientifico e privo di scrupoli, destinato ad assumere contorni ancora più vasti durante il secondo conflitto mondiale (vedi in propbsito il cap. 9).

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Il peso della miseria esistente nelle aree rurali coreane e le co­ s tri zioni da parte giapponese spiegano il massiccio spostamento ve rso i centri industriali dell'arcipelago in guerra: vi ritorneremo s op ra nel corso del capitolo 9. Tuttavia, la politica di integrazione e di sviluppo, per quanto diseguale, si rivela fruttuosa: non si re­ g istrano rivolte né reticenze nelle colonie, nemmeno di fronte a durissime condizioni di vita. A differenza del Giappone propria­ mente detto, prima dell'inverno 1944-45 (e dell'aprile del 1945 a Taiwan) non si assiste a una mobilitazione generale, ma non per mancanza d'entusiasmo (il quale, tra l'altro, era potentemente sti­ molato da Tokyo) dei colonizzati, che a decine si sforzano di ot­ tenere ogni posto offerto dall'esercito, spesso inviando suppliche scritte con il proprio sangue. Piuttosto, sono i colonizzatori a non mo strare alcun interesse nell'arruolare combattenti considerati inferiori, che non sarebbe prudente inviare al fronte (a differenza di quasi tutte le potenze imperialiste, il Giappone non ha mai for­ mato truppe coloniali) . In totale, comunque, sono stati mobilitati circa 570.000 soldati coloniali, 48.000 dei quali non sono tornati 90• La maggior parte dei taiwanesi e dei coreani ha svolto la funzio­ ne di semplici ausiliari (nel settore della logistica o prestando ser­ vizio come guardie nei campi di prigionia) o di impiegati civili dell'esercito (lavori pesanti, officine ecc.), ragion per cui hanno sofferto relativamente poche perdite 91• Vi sono comunque almeno undici coreani tra gli «eroici dèi volanti», ovvero i kamikaze, tut­ ti volontari. È stato riferito che uno di loro, prima di prendere il volo da Kyushu per non tornare, abbia passato la notte nella sua locanda preferita, canticchiato Arirang (una canzone simbolo del­ l a Corea) e scritto sul registro «Lunga vita a sua Maestà l'Impera­ tore», peraltro in coreano, lingua vietata. Le stesse, sconcertanti, contraddizioni si ritrovano in un altro colonizzato che sposa in pieno la causa dell'impero in guerra. Chén Wu-chén, nato nel 1924 a Gaoxy6ng (Taiwan), dopo il 1945 è stato, nella sua città d'origine, direttore di un'agenzia bancaria. Suo padre, insegnante di cinese in una scuola privata, si era ucci­ so per disperazione quando, nel 1937, i giapponesi avevano proi­ bito le lingue vernacole. Egli stesso aveva terminato il primo ci-

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do di studi in lingua giapponese, ottenendo l'autorizzazione a iscriversi a un college a Tokyo, dove non aveva trovato l'atmo­ sfera di apartheid che regnava a Taiwan tra colonizzatori e colo­ nizzati 92: ciò aveva contribuito a far nascere in lui il sentimento di essere pienamente giapponese. Venne assunto da una compagnia di navigazione di Osaka, che aveva finanziato i suoi studi al liceo e successivamente, in occasione della sua mobilitazione nel 1943 come ausiliario, lo aveva spedito a Manila a svolgere il ruolo di contabile presso un cantiere navale dipendente dalla marina. Egli ha dichiarato che l'ascolto per radio dell'annuncio, da parte del­ l'Imperatore, della capitolazione del Giappone lo aveva «annien­ tato mentalmente» . Continua a considerare giusta la causa giap­ ponese, il cui esercito è per lui il più coraggioso di tuttP3• Il gran­ de intellettuale coreano Yun Chiho (1865-1945), che nel 1896 ave­ va dato vita a un circolo per l'Indipendenza ed era diventato per questo motivo un eroe nazionale, reagisce così, nei suoi taccuini, al bombardamento di Pearl Harbor: si tratta di «un giorno nuovo [ . . . ] per questo Vecchio Mondo! Siamo in presenza di una vera guerra razziale: Gialli contro Bianchi» 94• Il 26 dicembre, alla notizia della presa di Hong Kong, egli rin­ cara la dose: « È dunque caduta - spero per sempre - la cittadella dell'imperialismo britannico in Oriente, con i suoi intollerabili pregiudizi razziali e la sua altrettanto intollerabile arroganza na­ zionale. Il Giappone merita la gratitudine eterna di tutte le razze di colore per aver spezzato le catene del dominio bianco sull'O­ riente» 95• Nel 1945 l'Imperatore ha assegnato a Yun un seggio presso la camera dei Pari della Dieta . . . Il percorso di un'altra eroina coreana, Choe Sunghui (19111969?), è altrettanto complesso, ma decisamente più drammati­ co. Nel 1926, mentre frequenta il liceo a Seoul, la giovane rimane estremamente impressionata dall'esibizione della compagnia di­ retta dal fondatore della moderna danza giapponese, Ishii Baku; lo segue nell'arcipelago nipponico, e da quel momento in poi si ispira allo stile del maestro. Tuttavia, il grande coreografo le con­ siglia di inserire in questo nuovo tipo di danza temi e gesti tra-

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dizi onali della Corea: ciò le vale un successo immenso, che ben p re sto oltrepassa i confini della colonia e persino dell'impero. S u l finire degli anni '30 Choe compie brillanti tournée in Europa e sop rattutto negli Stati Uniti, dove viene presentata come l'am­ ba sciatrice della «cultura dell'Oriente» . È popolarissima anche nello stesso Giappone, dove, usando il nome di Sai Shoki, appa­ rentemente non si fa scrupoli a glorificare attraverso la propria arte la «guerra della Grande Asia dell'Est» fino al 1945. Tutto ciò, p erò, non le impedisce nel 1946 di raggiungere assieme al mari­ to - lo «scrittore proletario» An Mak 96, sposato nel 1931 - la na­ sc ente Corea del Nord, imitata dalla maggior parte dei danzato­ ri coreani di cui lei era la capofila. Negli anni '50 Choe diventa una dignitaria della sfera culturale del regime comunista e ri­ scrive alcune delle sue composizioni per trasformarle in «pièce rivoluzionarie» . Come buona parte dei suoi colleghi, viene «pur­ gata» negli anni '60 e scompare nell'arcipelago concentraziona­ rio. Tuttavia, nel 2003 è stata «riabilitata» . In Corea del Sud, no­ nostante i suoi errori politici, è considerata la madre della coreo­ grafia nazionale moderna 97•

1 Citato in Suzuki Gensuke, L'educazione nazionale del tempo di guerra, Teikyo Shobo, 1942, in Iritani Toshio, Group Psychology of the Japanese in Wartime, Kegan Paul International, New York-London 1992, p. 178. ' Questo sviluppo è fondato in particolare su Gordon M. Berger, Politics and Mobilization in Japan, 1 931-1 945, in Peter Duus (a cura di), The Cam­ bridge History of Japan, vol. 6 (The Twentieth Century), Cambridge Univer­ sity Press, Cambridge 1988, pp. 97-153; W. G. Beasley, Japanese Imperialism, 1 894-1 945, Clarendon, Oxford 1987, pp. 175-249. 3 Duus (a cura di), The Cambridge History of Japan cit., p. 115. ' Primo nome dello Stato giapponese; all'epoca, lo Yamato viene conside­ ra to come un ideale scevro da ogni influenza esterna. 5 Durante l'ultimo anno di guerra, vi si sostituisce un Consiglio supremo _ per la direzione della guerra. Per la prima volta, esso permette al primo mi­ nis tro e al ministro degli Esteri di essere messi almeno parzialmente a par­ te delle maggiori operazioni, il che riequilibra il potere in favore dei civili.

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6 Herbert P. Bix tratta in modo assai esaustivo la questione nel suo Hiroh i­ to and the Making of Modern Japan, Harper Collins, London 2000. 7 Citato in Maruyama Masao, Thought and Behaviour in Modern Japanese Po­ litics, Oxford University Press, London 1963, p. 17. 8 Ben-Amy Shillony, Wartime Japan - A Military Dictatorship ?, in Stephen S. Lange (a cura di), Showa Japan: Politica[ Economie and Social History 192 61989, vol. II (1941-1952), Routledge Library of Modern Japan, London 1998, p. 12. 9 lvi, p. 14. 10 Ai cristiani è generalmente proibito l'insegnamento e la pubblicazione ufficiale dei loro testi; sono inoltre sorvegliati dalla polizia; a parte ciò, non sono, di solito, tormentati in altri modi. Molti di loro continuano tranquil­ lamente a svolgere le proprie ricerche (persino nel caso di marxisti dichia­ rati) e possono talvolta far circolare pubblicazioni a tiratura limitata (ma una tra queste esce in ben 3000 copie!) o, a volte, a periodicità regolare, co­ me i «Quaderni Annuali» di Minobe, vecchia bestia nera dei militari (vedi il cap. l) o come il bollettino di ispirazione pacifista cristiano del grande economista Yanaihara Tadao, il quale, per esempio nel 1940, denuncia le atrocità compiute a Nanchino. Queste attività non hanno nulla di clande­ stino, e devono far fronte a una serie di vessazioni piuttosto che a una ve­ ra e propria repressione. Si veda in particolare Ben-Ami Shillony, Politics and Culture in Wartime Japan, Clarendon Press, Oxford 1981, pp. 126-133; Nobuya Bamba, John F. Howes (a cura di), Pacifism in Japan: The Christian and Socialist Tradition, University of British Columbia Press, Vancouver 1978, in particolare la biografia di Yanaihara. 11 Shillony, Politics and Culture ci t., p. 118. 12 lvi, p. 114. 1 3 Le informazioni contenute nel presente paragrafo provengono soprat­ tutto da Ienaga Saburo, The Pacific War: World War II and the Japanese, 19311945, Pantheon Books, New York 1978, cap. 6. Nel corso del capitolo 11 rie­ vocheremo la figura di quell'infaticabile fustigatore della compiacenza nei confronti dei militari che fu il professar Ienaga. 14 Il «caso» Fujita è investigato da Mark H. Sandler in A Painter of the «Holy War»: Fujita Tsuguji and the Japanese Military, in Marlene J. Mayo, J. Thomas Rimer (a cura di), War, Occupation and Creativity: Japan and East Asia, 19201960, University of Hawaii Press, Honolulu 2001, pp. 188-211 . 15 Questo è in particolare il caso di Ishikawa Tatsuzo che, di ritorno da Nanchino all'inizio del 1938, pubblica sulla rivista «Chuo Koron» un pez­ zo realistico, intitolato Soldati vivi, che crea scandalo e procurerà al suo au-

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N FA SCISMO IMPERIALE ?

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w re un breve imprigionamento, prima di diventare, dopo il 1945, un'ope­ r a emblematica della letteratura di guerra. In questo testo egli non critica i n al cun modo la politica del proprio paese in Cina, né condanna il com­ p orta mento dei militari, attribuito alle necessità e alle contingenze della guer ra; tuttavia, non nasconde nulla di quanto i militari hanno fatto, in p arti colar modo ai civili. '" Robert Guillain, Le peuple japonais et la guerre: choses vues 1 939-1946, Juil­ lard, Paris 1947. Guillain, per decenni corrispondente di «Le Monde» a Tokyo, è stato uno dei rari giornalisti occidentali a trascorrere tutto il pe­ r iodo bellico in Giappone, libero di muoversi fin dopo la caduta del regi­ me di Vichy, che, in Indocina, collaborava con la capitale nipponica. " È assai notevole il fatto che, a partire dell'episodio di Pearl Harbor, la stampa ponga non tanto l'accento sui successi degli aviatori quanto sulla (supposta! ) morte eroica di un manipolo di giovani piloti di minisommer­ gibili, mandati in missione proprio prima del bombardamento con com­ piti di spionaggio o nella speranza di dare il colpo di grazia ai vascelli americani. " Si è trattato del clou dell' «esposizione artistica dello Sforzo risoluto del popolo per la vittoria totale», nel settembre 1943. '" Sul cinema giapponese del tempo di guerra si veda: Kyoko Hirano, ]apa­ nese Filmmakers and Responsibility for War: the Case of Itami Mansaku, in Mayo, Rimer (a cura di), War, Occupation and Creativity cit., pp. 212-233. 211 Rinjiro Sodei, The Double Conversion of a Cartoonist: the Case of Kato Etsu­ ro, in ivi, pp. 235-268. 21 Per inciso, ciò mostra che l'oppressione ideologica non era all'epoca an­ cora così forte . . . 2 2 Un'evoluzione politica almeno altrettanto sorprendente si nota presso il pacifista cristiano Kagawa Toyohiko (1888-1960), il quale, nel 1925, aveva sottoscritto, con Gandhi, Einstein e Romain Rolland una dichiara­ zione contro la coscrizione, poi aveva fondato (nel 1928) una Lega na­ zionale contro la guerra e aveva esclamato: «Oh, potessimo liberarci de­ gli eserciti!». Egli viene arrestato nel 1940 per propaganda contro la guerra: il suo imprigionamento suscita vive proteste negli Stati Uniti, dove Toyohiko compie ancora un viaggio nell'aprile del 194 1 . Tuttavia, a llo scoppio del conflitto, partecipa a trasmissioni di propaganda in lin­ gua inglese e scrive, nel maggio del 1943, una poesia nella quale evoca > dei loro dirigenti. 47 Onishi era stato uno dei pochi ufficiali superiori a opporsi all'entrata in guerra contro gli Stati Uniti, da lui considerata una follia.

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

48 Citato da Saito Mutsuo, in Morris-Suzuki, Showa cit., p. 131. lvi, p . 133. 50 Lamont-Brown, Kamikaze cit., p . 104. 51 lvi, pp. 133-153. 5' lvi, pp. 107-109. ll piano fallì: la «Yamato» fu quasi immediatamente affondata con i suoi 3100 marinai. 53 Igarashi Yoshikuni, Kamikaze, A Mirror of Post-Cold War US-Japan Rela­ tions, in Karl Hack, Kevin Blackburn (a cura di), Proceedings and Papers of

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the Japanese Occupation: Sixty Years after the End of the Asia-Pacific War Con­ Jerence, History Museum, Singapore 2005, p. 172. 54 lvi, pp. 104-106. 55 Dunnigan, Nofi, Victory at Sea cit., p. 256. 56 lvi, p. 105. Era consuetudine che alcuni caccia accompagnassero i ka­ mikaze, per proteggerli dagli aerei nemici e per aiutarli a individuare il bersaglio, poiché spesso i piloti suicidi non avevano imparato a navigare sul mare. 57 Tanto più che, pressappoco contemporaneamente, l'alleato tedesco subi­ sce una serie di sconfitte decisive. 58 Michael Walzer, Guerres justes et injustes: argumentation morale avec exem­ ples historiques, Folio-Gallimard, Paris 2006, p. 477 (ed. or: Just and Unjust Wars. A Moral Argument With Historical Illustrations, Basic Books, New York 1977; ed. it. Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplifica­ zioni storiche, Liguori, Napoli 1994) . Tuttavia, Walzer, analizzando questo caso particolare, giunge a una conclusione diametralmente opposta: sa­ rebbero gli Stati Uniti a essersi resi colpevoli di non aver voluto negozia­ re. L'intera dimostrazione di Walzer è viziata da una sconcertante igno­ ranza del contesto: per limitarci a un solo esempio, egli sembra ritenere che gli Stati Uniti fossero l'unica potenza coinvolta nella guerra contro il Giappone. Si tratta di un errore frequente, che scaturisce dalla visione del tutto americanocentrica tipica dell'intellettualità statunitense di sinistra. 59 James Mackay, The Allied Japanese Conspiracy, The Pentland Press, Durham 1995, p. 78. In questa vasta operazione, condotta dai confini del­ la Mongolia al sud di Sakhalin passando per il nord della Corea sono mor­ ti soltanto 8000 soldati sovietici. 60 0ower, War without Mercy cit. 61 Non includo in questa categoria l'attacco contro Pearl Harbor che, come è noto, ha preceduto di qualche ora la dichiarazione di guerra: il che è da addebitare a un malfunzionamento del servizio di decodificazione del­ l' ambasciata nipponica a Washington e non a una deliberata violazione

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d el diritto di guerra. In ogni caso, si è trattato di un disguido dalle conse­ guenze catastrofiche: l'opinione pubblica americana ha considerato l'at­ tacco più che un'aggressione un tradimento. I giapponesi si erano posti da so li al di fuori del diritto internazionale . . . 62 Bergerud, Touched with Fire ci t., pp. 378-380. 63 lvi, p. 399. b4 Qlive Checkland, Humanitarianism and the Emperor's Japan, 1 877-1 977, St. Martin's Press, London 1993, p. 96 (sottolineato nel testo). 65 Mackay, The Allied Japanese Conspiracy cit., pp. 123-125. 66 Nakayama Juntaro, in Gibney (a cura di), Senso cit., p. 147. 67 Testimonianza di Yasunobu Inamine, in Soka Gakkai, Youth Division, Cries far Peace: Experiences ofJapanese Victims of World War Il, «The Japan Ti­ mes», Tokyo 1978, pp. 68-70. 68 Dower, War without Mercy ci t., pp. 61, 68. 69 Aveva abbandonato l'isolazionismo e le simpatie nei confronti del fasci­ smo per cui era noto negli anni '30. Nel 1944 si è dimostrato assai più di­ sgustato della maggior parte degli americani nei confronti del razzismo contro i «gialli». 70S i tratta forse dello stesso incidente riportato dallo storico della 41 a Divi­ sione americana, Joe Murphy, citato in Bergerud, Touched with Fire cit., p. 420. Il massacro di venti pazienti è giustificato dal fatto che essi erano in possesso di granate con le quali tentavano o di suicidarsi o di uccidere de­ gli americani. In ogni caso, l'episodio è crudele: «La compagnia G non po­ teva esaminare ogni corpo con lo stetoscopio, non quando una pallida ma­ no poteva spuntar fuori e farvi esplodere addosso una granata, Ecco per­ ché la compagnia G prima sparava e soltanto dopo alzava la coperta per esaminare il corpo». 7 1 Dower, War without Mercy cit., pp. 69-71. 72 La propaganda giapponese ha ampiamente sfruttato l'episodio. 73 Dower, War without Mercy cit., pp. 64-65; Bergerud, Senso cit., pp. 487489, cita piuttosto, tra i «souvenir» più apprezzati, le spade, le baionette e le bandierine giapponesi indossate da ogni soldato del Sol Levante. Tutta­ via, egli non mette in dubbio le parole di Dower e include nel suo libro la fo tografia della macabra jeep. 74 Si sa che sotto ogni latitudine l'elemento ricorrente nei discorsi che inci­ tano a compiere massacri o li giustificano è l'animalizzazione della vitti­ ma. Cfr. in particolare Jean-Louis Margolin, Massacres asiatiques, in Guy Ri­ chard (a cura di), L'histoire inhumaine: massacres et génocides des origines à n os jours, Armand Colin, Paris 1992, pp. 231-234.

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75 Bergerud, Touched with Fire cit., p. 412 (sottolineato nel testo). 76 Brackman, The Other Nuremberg cit., p. 262. 77 Dower, War without Mercy cit., p. 66. 78 lvi, p. 67. 79 La somiglianza tra questi avvenimenti non è sfuggita ai contemporanei: in un appello, il 3 novembre 1937, l'Associazione degli amici del popolo cinese, presieduta dal presidente della Camera dei deputati e sindaco di Lione, Edouard Herriot, sottolinea che «la Cina, dopo la Spagna, è vittima dolente della guerra totale, questa forma di barbarie tenuta in grande con­ siderazione dalle potenze fasciste», Comité d'études et de rédaction de l'Association des étudiants chinois de Lyon (Comitato di studi e di reda­ zione dell'Associazione degli studenti cinesi di Lione), La Chine, le fapon et la paix mondiale, Lyon 1937. 80 Shuhsi Hsu, A New Digest of Japanese War Conduct, Kelly and Walsh Li­ rnited, Shànghai-Hong Kong-Singapore 1941, p. 265. Jean Longuet, da par­ te sua, scrive su «Le Populaire», organo della SFIO (Section Française de l'Intemationale Ouvrière) del 6 settembre 1937: «Le atrocità successe nei sobborghi di Shànghiti sono accadute cento volte peggio a Nanchino e a Canton. Il massacro sistematico di migliaia di donne, bambini e civili è proseguito in condizioni di indicibile orrore». La guerra aerea è anche al centro del rapporto del dirigente della CGT (Confédération Générale du Travail) Léon Jouhaux, che, a nome degli Amici del popolo cinese stigma­ tizzava «l'opera di sterminio e di rapina compiuta dal Giappone in Estre­ mo Oriente, i bombardamenti delle città aperte, degli ospedali, la distru­ zione selvaggia dei centri di cultura, delle università, il massacro delle donne, dei bambini, dei vecchi», in Comité d'études cit., p. 152. Le altre atrocità nipponiche, peraltro ben più mortali, passano in secondo piano: infatti, i bombardamenti aerei erano all'epoca una novità. In seguito, han­ no sollevato un'emozione molto minore . . . I testi citati, dovuti a persona­ lità di rilievo, dimostrano tra l'altro che la guerra di Cina era largamente conosciuta: essa sollevò enorme scalpore, inducendo l'opinione pubblica mondiale a prendere massicciamente posizione contro il Giappone (è que­ sto, in particolare, il caso degli Stati Uniti). 81 Hsu, A New Digest of Japanese War Conduct ci t., pp. 240-245. 82 lvi, pp. 232-234. 83 lvi, p. 250. 84 Citato in Dower, War without Mercy ci t., p. 38. 85 ln «Atlantic Monthly», febbraio 1946, citato in Dower, War without Mercy cit., p. 64.

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86 Comunque, gli aviatori americani abbattuti furono abbastanza spesso (anche se non sistematicamente) trattati come «criminali di guerra» e giu­ stiziati fino al 1945. 87 Tes timonianza di Satèi Yoshinori in Gibney (a cura di), Senso cit., p. 152. Egli precisa di non essere mai stato informato dell'esistenza di «crimini di guerra» nel diritto internazionale. "" Bergerud, Touched with Fire cit., pp. 408-409. 89 lvi, p. 410. 90 lvi, pp. 411-412. 9 1 lvi, p. 414. 92 Cfr. per esempio Mackay, The Allied Japanese Conspiracy cit.; Braddon The Naked Island cit. 9' Citato in Bergerud Touched with Fire cit., pp. 423-424. 94 lvi, p. 423. 95 Testimonianza di Jim Litke (41 • Divisione USA), in ivi, p. 425. 96 Il libro ha ottenuto parecchi premi negli Stati Uniti e in Giappone, tra cui il prestigioso Pulitzer. 97 «Patterns of a Race War». 98 Rivelate soltanto nel gennaio del 1944, sebbene voci in proposito circo­ lassero già da tempo tra i combattenti. Se si fosse trattato di fomentare il razzismo antigiapponese, esse sarebbero state rese note fin da subito. 99 Si leggano a questo proposito le sottili analisi di Jacques Sémelin, Purifier et détruire: usages politiques des massacres et génocides, Seuil, Paris 2005; vedi in particolare i capp. 4 e 5. 100 Il che, paradossalmente, fa di coloro che subirono quell'internamento re­ lativamente leggero le vittime di gran lunga meglio indennizzate dell'in­ tera guerra del Pacifico, cosa che ha provocato l'indignazione di molti ve­ terani. 101 Dal momento che Dower (e non solo lui) non si fa scrupolo di attribuire al raz zismo nazista e a quello degli Alleati occidentali la stessa virulenza (in War without Mercy cit., pp. 4-5 ) , possiamo immaginare che il nazismo limitasse le proprie persecuzioni antiebraiche a una parte dell'Europa oc­ cup ata?

w2 All'ep oca ciò non poteva essere rivelato, poiché era necessario non far conoscere ai giapponesi l'efficacia del sistema di decodificazione MAGI C. 1 0' Dunn igan, Nofi, Victory at Sea cit., pp. 382-388. Sottolineiamo ancora che

ca mp i di internamento non assomigliavano in nulla ai campi di concen­ tram ento: nessuno vi morì di fame o a causa di maltrattamenti. 1 04 B e rgerud, Touched with Fire ci t., pp. 404-406. i

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L'ES ERCITO DELL'IMPERATOR E

105 Le disgrazie della Cina hanno continuato in seguito a sollevare indigna­ zione negli Stati Uniti (assai più che in Europa . . . ) e hanno svolto un im ­ portante ruolo nel lento abbandono delle posizioni isolazioniste da parte dell'opinione pubblica. 106 Inoltre, si attaccavano invariabilmente a «giapponese» gli epiteti «dia­ voli» o «cani». 107 lritani, Group Psychology cit., pp. 154-156. 108 Dower, War without Mercy cit., p. 11.

Capitolo 5 Nanchino, culmine o prova generale?

Domanda: «Naturalmente avete fatto prigionieri tra le fi­

le dell'esercito cinese? » Muto: «No. La questione di sapere s e i cinesi catturati do­

vessero essere dichiarati prigionieri di guerra oppure no era un bel problema, che fu risolto soltanto nel 1 938, quan­ do, dal momento che il conflitto in Cina era stato ufficial­ mente ritenuto un "incidente", si decise che i cinesi cattu­ rati non sarebbero stati considerati prigionieri di guerra. » Domanda: «Ma in realtà, ["'incidente" cinese era una guerra oppure no ? » Muto: «In effetti lo era, m a il governo giapponese la con­ siderava un semplice incidente. » Domanda: «Di conseguenza [ .] vi siete attenuti al prin­ cipio di non considerare i cinesi prigionieri di guerra ? » Muto: «Sì. » . .

Trascrizione dell'interrogatorio del generale Muto Akira, vice capo di stato maggiore del Corpo di spe­ dizione di Shànghai (che si impadronì di Nanchino), prigione di Sugamo (Tokyo), 16 aprile 1946 '.

Soltanto recentemente il dibattito internazionale a proposito delle atrocità giapponesi si è concentrato sui massacri avvenuti a Nanchino. Ciò è dovuto in buona parte alla pubblicazione del li­ bro The Rape of Nanking 2, scritto da Iris Chang e uscito nel 1997. Il sottotitolo rivela il tenore dell'opera: The Forgotten Holocaust of

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L'ESERCITO DELL'IMPERATOR E

World War II. Se pensiamo che il termine holocaust, in inglese, è le­ gato perlopiù al genocidio degli ebrei, si comprende dove punti l'autrice, nella quale è manifesta, sia pur implicitamente 3, la vo­ lontà di mettere sullo stesso piano i due fenomeni. Inoltre, la Chang si propone di riportare alla luce un episodio «dimentica­ to», il che equivale a farsi beffe di una considerevole bibliografia sull'argomento, disponibile almeno dall'inizio degli anni '70 (la prenderemo in esame nel corso del presente volume). Va detto che essa è per lo più di provenienza giapponese, dunque è auto­ maticamente priva di valore, almeno secondo alcuni autori di ori­ gine cinese 4• Peraltro, il processo di Tokyo (1946-1948) aveva già riconosciuto i fatti di Nanchino come uno dei più gravi crimini del Giappone, riguardo al quale erano state emesse due delle set­ te condanne a morte 5• Da allora, presso la sinistra giapponese (allora praticamente egemone negli ambienti intellettuali e, stra­ no a dirsi, tra gli storici) il riferimento a Nanchino è sempre ri­ masto vivo. Per esempio, un grande pensatore del dopoguerra, il professar Maruyama Masao, nel 1949, in un saggio pubblicato dalla rivista «Choryo», ricorda «le atrocità come il "sacco di Nan­ chino", davanti alle quali dobbiamo coprirci il volto in segno di vergogna» 6• Anche in Cina una serie di studi, ai quali la Chang fa spesso riferimento, aveva preceduto il suo di qualche anno. Tuttavia, la fama mondiale di Nanchino è un prodotto dell'ultimo decennio, grazie a studi, esposizioni, film (una fiction prodotta a Hong Kong) e a numerosi siti Internet, troppo spesso ridotti a elenchi di accuse non comprovate o improntati a un improbabile negazio­ nismo, quando non si tratta addirittura di forum in cui cinesi e giapponesi si scambiano violenti insulti (in inglese, per capirsi meglio) . L'attacco proviene in gran parte dagli Stati Uniti, soprat­ tutto da americani di origine cinese, spesso giornalisti (come la stessa Iris Chang), evidentemente assai stimolati dall'atmosfera da «gara delle vittime» 7 che si respira di questi tempi. Il rinnova­ to interesse per la questione e, soprattutto, la sua internazionaliz­ zazione, sono altresì evidenziati dall'importanza senza preceden­ ti che essa ha improvvisamente assunto nelle relazioni sino-giap-

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ponesi. A partire dal 1982, infatti, esse appaiono sempre più lega­ te alla lunga disputa sui manuali di storia in uso nelle scuole nip­ poniche. Ogni volta che compare un'opera tacciata a torto o a ra­ gione di revisionismo si verificano seri incidenti diplomatici (an­ che con le due Coree, che si ritrovano per una volta unite nel Ja­ pan-bashing) o manifestazioni di strada e sommosse antigiappo­ nesi, come è avvenuto in Cina nella primavera del 2005. La sem­ plice formulazione di un dubbio a proposito del numero delle vit­ time dei fatti di Nanchino o - peggio ancora - la messa in discus­ sione della cifra ufficiale cinese (300.000 morti) è sufficiente a sca­ tenare l'ira di Pechino. La stampa internazionale, sempre alla ri­ cerca di buoni e cattivi, riprende generalmente senza farsi do­ mande il punto di vista cinese e lo assimila (in parte a ragione, in parte a torto) alla lotta universale contro ogni tipo di negazioni­ smo. Tutt'al più si stupisce del fatto che questa controversia sto­ riografica abbia una così grande importanza per il futuro del ter­ zo polo dell'economia mondiale. Questo «ritorno» di Nanchino non finisce di sbalordire. Da un lato, come abbiamo detto, i massacri del 1937 non erano mai stati dimenticati, anzi. Semplicemente, non era stata loro concessa la po­ sione centrale recentemente accordata 8• Dall'altro, sia che ci si at­ tenga alla stima delle vittime cinesi del conflitto formulata dopo il 1 945 (11 milioni), sia che si prenda per buona la cifra dichiarata dal­ la Cina popolare (35 milioni) e si consideri attendibile il numero uf­ ficiale delle vittime di Nanchino, coloro che sono periti nel massa­ cro rappresentano appena il 3% del totale delle perdite cinesi. Al contrario, il genocidio degli ebrei corrisponde a circa un sesto dei morti causati dalla guerra in Europa e soltanto ad Auschwitz è pe­ rito circa il 20% delle vittime ebraiche. Come si vede, le proporzio­ ni sono assai diverse; inoltre, non siamo nemmeno sicuri che i peg­ giori massacri commessi dai giapponesi in Cina abbiano avuto luo­ go proprio a Nanchino: nel 1944 Changsha ne ha subito uno terri­ b ile, il cui bilancio non è mai stato adeguatamente stimato (anche se probabilmente è di entità minore rispetto a Nanchino). Per con­ tro, è probabile, se si prende per buona la stima che intendiamo proporre per Nanchino e se si accettano le valutazioni correnti per

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

il sacco di Manila dei primi del 1945 (oltre 100.000 morti), che pro­ prio qui i giapponesi abbiano compiuto il loro crimine più esteso. Infine, colpisce la diversità delle valutazioni quantitative delle vit­ time, nonché l'ampiezza delle divergenze dal punto di vista della qualità. In effetti Nanchino è stato di gran lunga il più documenta­ to di tutti i massacri avvenuti in Asia durante la seconda guerra mondiale e, probabilmente, di tutti quelli che nel corso del XX se­ colo si sono svolti in una particolare città del continente. Giornali­ sti, missionari, diplomatici, uomini d'affari stranieri, già abituati a osservare e a tenere diari, ci hanno lasciato un gran numero di re­ soconti: terremo qui in considerazione soprattutto quelli redatti durante o immediatamente dopo lo svolgersi dei fatti, in quanto sono indiscutibilmente i più degni di fede. La (relativa) abbondanza di fonti ha prodotto il paradossale ef­ fetto di attirare un'attenzione così forte su Nanchino da far assu­ mere all'evento una posizione centrale nella storia dei crimini di guerra giapponesi; inoltre, dal momento che il negazionismo nip­ ponico non si è mai arreso, grande è stata la tentazione di usare l'e­ pisodio di Nanchino per combatterlo. Da ciò è derivata una sorta di «effetto lente di ingrandimento», che spinge a nuove misurazioni, sempre più discutibili, del numero delle vittime, a vantaggio del cir­ co politico-mediatico. Un effetto simile è noto nel caso di Au­ schwitz, ancor oggi considerato come il luogo per eccellenza della Shoah, anche se ormai si sa che il numero delle vittime che vi han­ no trovato la morte è appena superiore a quello di Treblinka. Tutta­ via, i sopravvissuti di Auschwitz sono stati sufficientemente nume­ rosi perché qualcuno di loro scrivesse o dipingesse, mentre tutti co­ loro che giungevano a Treblinka erano accolti dalla camera a gas. Detto questo, va sottolineato che le successive stime al ribasso delle vittime di Auschwitz (da 4 milioni a circa l milione) sono state effettuate in gran parte da storici ebrei, e non hanno dato luogo a importanti controversie o - men che meno - ad accuse di revisionismo. Se si esclude una minoranza insignificante di nega­ zionisti, totalmente screditati dal punto di vista intellettuale, a proposito dei fatti essenziali relativi ai crimini nazisti esiste ormai da molto tempo un sostanziale consenso. La situazione è ben di-

NANCHINO, CULMINE O PROVA GENERALE?

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versa in Asia. Nel caso di Nanchino, gli ultranazionalisti giappo­ nesi sono disposti ad ammettere soltanto qualche decina di vitti­ me, mentre i nazionalisti cinesi sono arrivati, per il momento, a proclamare la cifra di 430.000 morti. Questa dura contrapposizio­ ne tende ad accrescere l'ampiezza della «forbice».

I prodromi del dramma

L'attacco alla capitale I l meccanismo che ha condotto ai massacri di Nanchino meri­ ta di essere esaminato, anche se, da parte giapponese, si è abusa­ to del verbo «contestualizzare», come tipicamente accade quando si tenta di relativizzare un crimine 9• La guerra, scoppiata il 7 lu­ glio del 1937 presso il ponte Marco Polo (situato a una quindici­ na di chilometri dal centro di Pechino), aveva raggiunto, nel me­ se di agosto, Shànghai per volere di Chiang Kai-shek stesso, che vi spedì le sue truppe migliori. I giapponesi, in principio costret­ ti sulla difensiva, ricevettero rinforzi sufficienti a spezzare l' ac­ cerchiamento cinese. Così, all'inizio di novembre, la più grande battaglia del conflitto sino-giapponese (che vide coinvolti 700.000 cinesi contro 190.000 giapponesi) terminava con la ritirata delle forze del Gu6mindang, demoralizzate e semiaccerchiate a causa dello sbarco alle loro spalle (il giorno 5) di altre tre divisioni, che costituivano la 110a Armata giapponese. La ritirata assomigliava a una rotta completa: lungo i 270 chilometri che separano il gran­ de porto dalla capitale, Nanchino, non si registrò praticamente al­ cun combattimento. Circa 150.000 militari cinesi erano stati ucci­ si o feriti (senza contare un numero imprecisato di civili presi tra i due fuochi), contro 9000 morti e 40.000 feriti giapponesi. Incon­ testabilmente, la ferocia dei combattimenti suscitò nei nipponici un desiderio di vendetta che portò a una «brutalizzazione» dei lo­ ro rapporti con i cinesi, civili inclusi. Tuttavia, senza bisogno di evocare i combattimenti ancora più violenti e mortali che avreb­ bero segnato gli anni successivi ai quattro angoli del globo, va detto che l'esercito giapponese, già tra il 1904 e il 1905, nel corso

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L'ESERCITO DELL'IMPERATORE

dell'assedio di Port Arthur o nella grande battaglia per Shenyang (Mukden), durante la guerra russo-giapponese, aveva subito per­ dite superiori, eppure si era comportato in modo esemplare con i prigionieri di guerra russi (vedi il cap. 1 ) . Ciò che scioccò i mili­ tari giapponesi a Shànghai (e su questo i loro diari e i loro rac­ conti sono concordi) fu il fatto che i cinesi non avessero rispetta­ to il luogo comune che li voleva codardi, eterni e facili sconfitti. Se si erano difesi così strenuamente, dovevano averlo fatto senza dubbio per malvagità e malevolenza nei confronti dei giappone­ si. Il soldato Ueba annota nel proprio diario: «Come possono i ci­ nesi continuare a combattere con tutte le perdite che subiscono! Li odio !» 1 0• Bisognava fargliela pagare, cento volte tanto se possibi­ le, perché erano usciti da quello che era il loro ruolo prestabilito, di conseguenza non avevano diritto ad alcuna pietà 11 • Questa rea­ zione «di circostanza» dei militari giapponesi si aggiunge a un razzismo strutturale. Il 22 novembre il comandante in capo delle forze di spedizio­ ne nipponiche, il generale Matsui Iwane (1878-1948), aveva chie­ sto a Tokyo (reticente, perché a conoscenza della condizione fisi­ ca e morale delle truppe) l'autorizzazione a scagliarsi contro la capitale cinese, che si trovava ormai a portata di mano 1 2 • Si trat­ tava di sferrare un colpo di maglio tale da schiantare l'esercito ne­ mico, demoralizzando i cinesi quanto bastava per concludere la guerra entro due mesi. Fin dal tardo novembre, le autorità del Gu6mindang cominciarono a preparare Nanchino all'assedio, giungendo perfino a incendiarne i sobborghi 13 situati fuori delle possenti mura che circondavano la città, allo scopo di estendere il campo di tiro e murare le porte, onde evitare fughe di sbandati. Già a settembre la città sapeva che la guerra l'avrebbe investita: sporadici bombardamenti giapponesi (tra cui quello del 28 set­ tembre che colpì con due ordigni di notevole potenza l'ospedale centrale, peraltro debitamente contrassegnato da due grandi cro­ ci rosse, come riferito il giorno dopo in Francia da «L'Humanité») avevano provocato danni limitati e alcune centinaia di morti tra la poco protetta popolazione. Queste azioni avevano avuto so­ prattutto l'effetto di incitare chi poteva permetterselo a fuggire

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dalla capitale. L'esodo divenne torrenziale durante la seconda settimana di novembre, quando si sparse la voce che le difese sta­ vano rapidamente crollando e, soprattutto, che i soldati giappo­ nesi saccheggiavano, violentavano e uccidevano su larga scala ovunque passassero (vedere il cap. 6). La popolazione terrorizza­ ta fuggiva in massa, più lontano possibile dalle direttrici dell'a­ vanzata nipponica. È abbastanza logico che chi risiedeva a Nan­ chino abbia fatto altrettanto, tanto più che già dal 19 novembre Chiang Kai-shek aveva deciso di trasferire la capitale, rifiutando, fino al 12 dicembre, le richieste giapponesi di resa della città: nei primi giorni dello stesso mese, l'amministrazione del Gu6mindang (una buona fetta del milione di abitanti che costi­ tuiva la popolazione) aveva abbandonato la città con registri, ba­ gagli, carri . . . e alcuni tesori provenienti dal palazzo imperiale di Pechino 1 4, per stabilirsi a Hànkou e, un anno dopo, a Ch6ngqìng, situata presso un tratto più alto del corso dello Yangtze. Tutte le testimonianze concordano: allorché la città infine cad­ de (13 dicembre), dopo un simulacro di resistenza che non fece al­ tro che accrescere il panico e la confusione (vi ritorneremo), era­ no rimasti tra i 200.000 e i 250.000 abitanti soltanto, cioè i più po­ veri, che non erano riusciti a fuggire. È importante insistere sul fatto che questa stima era stata fatta prima della caduta della città. In effetti, per Iris Chang e per la maggior parte degli autori cine­ si contemporanei, a Nanchino rimaneva un quarto di milione di civili ancora qualche giorno dopo l'entrata in forze dei giappone­ si. Eppure, sempre secondo loro, i civili erano ancora tra 500.000 e 600.000 la mattina del 13 dicembre 1 5• Secondo la loro ricostru­ zione, il crollo demografico che è seguito alla cattura della città è da attribuirsi interamente ai massacri di civili. Ebbene, nel diario di John Rabe (1882-1950t presidente del Comitato internazionale (vedi oltre), si legge che, dal 28 novembre, «Wang Kopang, capo della polizia, ha dichiarato ripetutamente che 200.000 cinesi con­ tinuano a risedere in città» 1 6 • Non ci si deve mostrare particolarmente stupiti di un simile tasso di defezione. In Francia, nel 1940, l'esodo riguardò una de­ cina di milioni di civili (un quarto della popolazione; molto di più

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nella metà settentrionale del paese), mentre l'esercito tedesco massacrava, violentava e saccheggiava in modo assai più conte­ nuto rispetto alle armate nipponiche. In Cina la paura (purtrop ­ po pienamente giustificata) era tale che i soldati dell'Imperatore assaltarono città per lo più vuote. Il 20 novembre 1937 il quoti­ diano di Tokyo «Asahi Shimbun», a proposito della presa di Suzhou, avvenuta il giorno prima, annotava: «Le circa 500 perso­ ne che erano rimaste in città fecero sventolare bandiere del Sol Levante a ogni porta e festeggiarono l'arrivo delle truppe impe­ riali» 17• Sorvoliamo su questo presunto entusiasmo, che in realtà nasconde a malapena il terrore che quella gente doveva provare, e fermiamoci a considerare la cifra: l'antica e nobile Suzhou fu ca­ pitale della Cina; non possediamo un censimento affidabile per il 1937, ma oggi essa conta oltre un milione di abitanti. Il 21 no­ vembre è catturata un'altra città importante. Ebbene, Honda an­ nota: «Quasi tutti i circa 100.000 civili che vivevano entro le mu­ ra di Wux'f erano fuggiti» 18• Coloro che rimanevano erano soprat­ tutto profughi stremati o soldati cinesi sbandati. Il fenomeno si ri­ peté anche in altre campagne della guerra sino-giapponese e in altre regioni: per esempio a Kaifeng, nello Hénan, nel maggio 1938, al momento dell'entrata in città delle truppe nipponiche erano rimasti soltanto 50.000 dei 300.000 residenti abituali 19• Col­ pisce piuttosto il fatto che Nanchino non sia stata ancor più vuo­ ta, dal momento che erano molti coloro che - funzionari del Guémfndang, intellettuali, studenti - avevano tutte le ragioni di temere l'esercito vittorioso. Il Comitato internazionale e la Zona di sicurezza La stima che assegna a N anchino una popolazione di circa un quarto di milione di persone appare affidabile. In effetti, dal 1 o di­ cembre, l'amministrazione urbana (compresa l'autorità su 450 poliziotti) era stata di fatto affidata dal sindaco Ma Chaojùn a un Comitato internazionale (CI) composto da 15 membri, formatosi il 22 novembre. Esso comprendeva sette americani, quattro bri­ tannici, tre tedeschi e un danese: tutti professori universitari, me­ dici e uomini d'affari. Dal momento che molti di loro partirono

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quasi subito, gli americani e un tedesco, John H. D. Rabe, rappre­ sentante in Cina della Siemens e, per inciso, membro attivo del partito nazista 20, svolsero per parecchi mesi un ruolo essenziale per la sopravvivenza degli abitanti di Nanchino. Su loro iniziati­ va, nel centro cittadino fu rapidamente allestita una vasta Zona di sicurezza sul modello di quella che era stata creata a Shànghai, durante i combattimenti, dal religioso francese Jacquinot de Bé­ sanges, vicepresidente della Croce Rossa locale. Non senza diffi­ coltà, essi ottennero dal Gu6mindang la promessa che la Zona sa­ rebbe stata smilitarizzata, e dai giapponesi la garanzia verbale che le loro truppe l'avrebbero rispettata. Il Comitato dovette però accettare la presenza di soldati cinesi - fino al 13 dicembre arma­ ti -, camuffati alla meglio sotto vestiti civili, nonché numerosi controlli e perquisizioni dei militari giapponesi che li cercavano per arrestarli. I dati forniti dal CI o da persone che con esso hanno collabo­ rato sono in larga misura degni di fede, per due ragioni. Da un la­ to, i membri del Comitato erano figure di grande spessore pro­ fessionale (diversi docenti universitari, tra cui uno storico e un sociologo; medici e responsabili di ospedali o istituzioni educati­ ve ecc.) e umano: tutti diedero prova di un coraggio e di un al­ truismo impressionante, spesso ispirati, soprattutto nel caso degli americani, quasi tutti missionari, da una fede che li spinse a vi­ vere in mezzo ai pericoli. Essi forniscono altresì una dimostrazio­ ne di amore nei confronti della Cina, fondata su una conoscenza del paese che spesso era maturata nel corso di decenni. Tuttavia, almeno all'inizio, non nutrivano sentimenti di ostilità nei riguar­ di dei giapponesi 21 • D'altra parte, il CI aveva i mezzi e anche l' ob­ bligo di censire con la massima precisione possibile i propri «am­ ministrati». In effetti, la scia di ferro e di fuoco delle violenze giapponesi contro i civili spinse i nove decimi almeno degli abi­ tanti di Nanchino rimasti in città a rifugiarsi nella Zona di sicu­ rezza (ZS) . La maggior parte di loro era costituita da donne e bambini; gli uomini, che si sentivano più esposti, erano fuggiti o si nascondevano. Tutte le testimonianze contemporanee descri­ vono come quasi deserto il resto della città. La Zona comprende-

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va soprattutto edifici amministrativi, universitari o ecclesiastici: i profughi vi si precipitarono in gruppi sempre più numerosi, dal momento che le violenze dei giapponesi non accennavano a di­ minuire. Poiché i circuiti commerciali avevano smesso completa­ mente di funzionare, fu necessario che il CI, erede delle impor­ tanti risorse della municipalità, si facesse carico dell'approvvi­ gionamento di gran parte della popolazione cittadina per mesi 22 • A prezzo di un'attività estenuante (di giorno ci si doveva oc­ cupare dell'amministrazione, di notte si era costretti ad alzarsi più volte per tentare di scacciare i saccheggiatori giapponesi in cerca di donne), vivendo quasi permanentemente a fianco degli spauri­ ti abitanti di Nanchino (Rabe ne accolse fino a 601 nel suo giardi­ no e in alcuni locali della sua dimora), quegli stranieri acquisirono una conoscenza precisa di coloro che dovevano nutrire, curare, confortare e proteggere come meglio potevano. Si sforzarono di tenere registri, onde poter in seguito rendere conto della loro ge­ stione. Così, il l o febbraio 1938, la riunione dei responsabili (stra­ nieri o cinesi) dei luoghi d'alloggio gestiti direttamente censì una popolazione di 58.000 persone, il 62% delle quali si trovava su ter­ reni appartenenti a istituzioni americane e il 31% su suolo di pro­ prietà dello Stato cinese 23• In realtà, correndo gravissimi rischi, il CI si era occupato di 80.000 rifugiati. I suoi membri registrarono nel modo più sistematico possibile gli eccessi di cui erano testi­ moni diretti o indiretti, e presero l'abitudine di dame notizia più o meno quotidianamente all'ambasciata del Giappone (dove era­ no ricevuti con una certa cortesia), sperando (apparentemente in­ vano) che essa facesse pressione sui comandanti militarF4• Nella primavera del 1938, Lewis S.C. Smythe, professore all'università di Nanchino, usò le sue competenze nel campo della sociologia per condurre presso gli abitanti della città e dei villaggi circostan­ ti un'inchiesta in piena regola sulle violenze e sugli abusi: aiutato da venti suoi studenti, esaminò un significativo campione della popolazione avvalendosi di un questionario uguale per tutti 25• Non pare il caso di dubitare della buona fede né della compe­ tenza dei membri del CI. D'altra parte, se è vero che le sofferenze di cui erano testimoni li spingevano a una certa parzialità nei

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confronti dei cinesi, erano ricondotti alla prudenza dalla neces­ sità di mantenere rapporti per quanto possibile cordiali con gli occupanti. Dobbiamo quindi concludere che si tratta delle fonti più attendibili, nella misura in cui fino alla primavera del 1938 non fu in funzione alcuna amministrazione pubblica. I principali limiti di questa documentazione sono di natura geografica: per alcune settimane, uscire dalla ZS fu praticamente impossibile per qualsiasi straniero. La conoscenza dei massacri di prigionieri di guerra fuori le mura fu dunque limitata e indiretta, e pervenne al CI attraverso qualche vittima che, «fucilata male>> dai giapponesi e quindi sopravvissuta all'esecuzione, era riuscita a entrare nella ZS per farsi curare. La devastazione di numerosi villaggi dei din­ torni, sul momento, era addirittura ignorata.

Il massacro dei prigionieri di guerra, fonte principale di mortalità Le fonti relative alla tragedia di Nanchino sono numerose, ma spesso contraddittorie. Possiamo ricavare informazioni indirette dallo stato degli effettivi delle unità cinesi coinvolte prima della battaglia di Nanchino, e dopo che i superstiti erano stati assem­ brati (ma non sempre tali dati sono disponibili). Una documenta­ zione diretta è invece rappresentata dai resoconti, ufficiali o me­ no, dei soldati giapponesi sugli avvenimenti; inoltre, possediamo anche alcuni racconti di sopravvissuti cinesi, raccolti dai membri del CI o, molto tempo dopo, da giornalisti, tra i quali merita di es­ sere citato Honda Katsuichi, per il suo lavoro pionieristico e par­ ticolarmente scrupoloso. Infine, ci sono le statistiche relative alle sepolture effettuate dalle organizzazioni umanitarie, in primo luogo la Svastica (Croce) Rossa. Queste fonti pongono tutte pro­ blemi di valutazione quantitativa, come vedremo. In compenso, la veridicità dei fatti da esse riportati è fuori discussione.

Dalla resa allo sterminio I numerosi soldati cinesi - spesso abbandonati dai loro ufficiali fuggitivi - che non avevano voluto (fino al 12 la consegna era di

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«resistere fino all'ultimo») o potuto sottrarsi all'accerchiamento fu­ rono implacabilmente inseguiti e massacrati dai loro vincitori, non solo in combattimento, ma anche a freddo, per interi giorni e setti­ mane. Pochi scamparono a questo destino: persino coloro che ave­ vano creduto opportuno abbandonare la divisa e mescolarsi ai ri­ fugiati civili della ZS furono spesso riacciuffati durante le perqui­ sizioni cui abbiamo già accennato: in queste occasioni, l'attenzione era attirata da un particolare taglio di capelli, e i sospetti erano poi confermati dal segno lasciato dall'elmo sulla fronte, dal fucile sul­ la spalla e dalle armi sulle mani. Il sospettato non aveva diritto al beneficio del dubbio, ma soccombeva al crudele principio secondo il quale «sono meglio due innocenti morti che un ex soldato libe­ ro». Pertanto, la sera dell'ingresso a Nanchino, il comandante del­ la 6a Brigata della 9a Divisione trasmise la seguente consegna: Dal momento che sembra che parecchi tra i soldati vinti si siano mimetizzati in abiti civili, dovrete arrestare ogni persona sospetta e detenerla in un luogo appropriato. [ . . . ] Dovrete ritenere ogni uo­ mo adulto fino alla mezza età un soldato travestito da civile o un disertore, procedendo quindi al suo arresto e provvedendo alla sua detenzione. 26

Va aggiunto che, per concentrarsi meglio sulla protezione dei civili, i membri del CI non si sforzarono oltre misura per opporsi a simili rastrellamenti, che sapevano mortali, ma che non avreb­ bero potuto in ogni caso impedire. Non ci soffermeremo più del necessario sulle sinistre modalità del massacro. I boia, come quasi sempre accade in questi casi, non hanno documentato i «dettagli». Tuttavia, tenendo conto dell'e­ norme entità delle uccisioni e della fretta con cui sono state com­ piute, vi furono decine se non centinaia di persone «solo ferite» 27 e sepolte sotto i cadaveri, le quali riuscirono nottetempo a libe­ rarsi e ad approfittare del fatto che le fucilazioni avvenivano so­ prattutto in riva allo Yangtze per fuggire attraverso il fiume. Inol­ tre, dal momento che i giapponesi non facevano molto per na­ scondere le stragi, vi furono anche testimoni civili.

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Il 13 dicembre, e nei giorni successivi, la maggior parte dei soldati (spesso intere unità) si era arresa senza opporre resisten­ za. Furono altresì abbastanza numerosi coloro che disertarono e indossarono abiti civili, cercando di confondersi tra i profughi. La propaganda giapponese (e ancor oggi i revisionisti) ha molto insistito sulla «slealtà» dei soldati cinesi, che avrebbe suscitato negli eredi dei samurai una reazione di virtuosa indignazione. Bisogna però constatare che la sorte di chi ritenne di affidarsi al diritto di guerra fu esattamente la stessa di chi invece non se ne fidò. Fu dunque l'enormità della condotta giapponese a provo­ care le diserzioni da parte dei cinesi e non il contrario . . . Persino i feriti ricoverati negli ospedali furono rastrellati, brutalizzati, le­ gati senza complimenti e portati via 28 • Tutti, in ogni caso, furono prontamente riuniti in gruppi di centinaia o migliaia di persone per essere condotti in buon ordine e senza particolare discrezio­ ne verso spiazzi già predisposti per loro. Là, in preda all'orrore, furono sottoposti al tiro incrociato delle mitragliatrici. Si faceva ricorso sistematicamente alle baionette, con le quali si infilzava­ no i corpi delle vittime, per vedere se in loro albergasse ancora un soffio vitale: in tal caso, il malcapitato veniva finito con un colpo di pistola. F. Tillman Durdin (1907-1998), del «New York Times», fu uno dei rarissimi occidentali a poter offrire una testi­ monianza diretta: Immediatamente prima di imbarcarmi per Shànghài ho osservato l'esecuzione di duecento uomini sul Bund [in cinese: Wàitan; si tratta di una nota zona di Shànghai, lungo il fiume Huangpii, N.d. T.]. Il massacro durò dieci minuti. Gli uomini furono allineati contro un muro e fucilati. Subito dopo, un certo numero di giap­ ponesi, armati di pistole, marciò tranquillamente tra i corpi cadu­ ti, sparando a quelli che si muovevano ancora. I militari che svol­ gevano quell'orribile compito avevano invitato i marinai di una nave da guerra ancorata al largo del Bund ad assistere alla scena. Un nutrito gruppo di spettatori militari pareva apprezzare molto lo spettacolo. 29

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Altri soldati, riuniti in gruppi meno numerosi, erano decapi­ tati con spade o trafitti dalle baionette. Queste esecuzioni richie­ devano più tempo, anche se erano più esaltanti per i carnefici; inoltre, in questi casi le possibilità che qualche vittima sopravvi­ vesse erano ancor più ridotte, come constata un giornalista giap­ ponese: Mentre tornavo verso la porta di Zhongshan, vidi, per la prima volta, un massacro tanto incredibile quanto brutale. In cima alle mura, alte circa 25 metri, i prigionieri erano posti in fila. Venivano trafitti dalle baionette e successivamente erano gettati nel vuoto. Numerosi soldati giapponesi lucidavano le proprie baionette, lan­ ciavano un forte grido, e affondavano l'arma nel torace o nella schiena dei prigionieri. 30

Che cosa fare dei mucchi di cadaveri? In alcuni casi furono gettati nel fiume, ma si trattava di un compito gravoso. Di conse­ guenza, sui siti dove erano avvenuti i principali massacri, i corpi furono innaffiati con gasolina e bruciati alla meglio (persino in questa fase si contava qualche sopravvissuto) . Si registrò qualche episodio bizzarro, come quello dei vagoni merci riempiti di pri­ gionieri e, a quanto sembra, lanciati nel fiume Yangtze. Tuttavia, come sempre accade per massacri di tale portata, domina il gri­ giore, una sorta di spaventosa routine. Il lavoro fu compiuto in fretta e non (troppo) diligentemente: gli eroi erano stanchi e ave­ vano freddo 31 •

Un massacro ordinato Ciò che appare certo è che il massacro non fu per nulla spon­ taneo. Erano sicuramente stati dati ordini, trasmessi per via ge­ rarchica. Ne conosciamo alcuni, benché in qualche caso siano sta­ ti redatti con l'ambiguità tipica di questo tipo di consegne, alme­ no quando vengono formulate per iscritto. Tuttavia, a volte l'ur­ genza fece passare in secondo piano la prudenza. Per esempio, al rapporto del l o Battaglione del 66° Reggimento fanteria (114a Di­ visione) del 10-13 dicembre, in cui si annunciava la cattura di

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1657 prigionieri il 12, fu data alle 14 del giorno successivo la se­ guente risposta: «Sottoponete a esecuzione tutti i prigionieri in conformità agli ordini della brigata. Per quanto attiene al metodo di esecuzione, si consiglia di dividerli in gruppi di una dozzina, di legarli e di fucilarli uno dopo l'altro» 32• D'altro canto, il diario personale del tenente generale Nakaji­ ma Kesago, comandante della 163 Divisione, è assai eloquente; al­ la data del 13 dicembre espone il suo dilemma: Nella misura in cui la nostra politica consisteva nel non fare pri­ gionieri, ci siamo sforzati di eliminarli non appena li catturavamo. Ma quando ci trovavamo di fronte a una massa di 1000, 5000 o 10.000 uomini, non eravamo nemmeno in grado di disarmarli. Era­ vamo sicuri fintanto che ci seguivano senza alcun desiderio di bat­ tersi. Tuttavia, se avessero dato segni di ostilità, ci saremmo trova­ ti in difficoltà. 33

Da ciò deriva, probabilmente, la volontà di agire di sorpresa, il più in fretta possibile, approfittando della passività, in certo modo sconcertante, dei cinesi, sicuramente dovuta al disorien­ tamento causato dalla repentina disfatta e dalla generale assen­ za degli ufficiali, che spesso avevano abbandonato le proprie truppe. I bersagli, le procedure e i risultati furono dappertutto gli stes­ si, a prescindere dall'unità giapponese coinvolta, dalla vicinanza temporale ai combattimenti o dal comportamento dei prigionieri cinesi. Non si sa di nessun gruppo consistente che sia scampato al massacro per essere trasferito in un ipotetico campo o, chissà, per essere liberato. Al massimo, alcuni singoli ebbero la fortuna di essere utilizzati come coolie dall'esercito nipponico, sempre piuttosto carente dal punto di vista della logistica. Tuttavia, an­ che costoro spesso finirono eliminati, o perché non c'era più bi­ sogno di loro o perché a qualche militare era venuto l'uzzolo im­ provviso di praticare la «caccia al cinese», che non era in alcun modo punita . . .

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Le incertezze del censimento Le difficoltà di valutazione cominciano a manifestarsi quan­ do si affronta il problema della quantità. Partendo dal presup­ posto che la quasi totalità dei soldati cinesi catturati dai giappo­ nesi sia stata trucidata, per calcolare l'esatto numero rimangono cinque incognite, nessuna delle quali è scioglibile in modo del tutto soddisfacente. La più decisiva è forse quella relativa alla consistenza della guarnigione di Nanchino. Sulla carta, essa comprendeva tredici divisioni, oltre a un certo numero di unità di artiglieria e di polizia militare: in tutto, si trattava di 180.000 uomini. Tuttavia, tali unità erano messe assai sovente a dura pro­ va nel corso dei combattimenti, ed erano indebolite ulteriormen­ te dal fenomeno delle diserzioni: infatti, già il 18 novembre, la 160a Divisione aveva perduto il 30% dei suoi effettivi 34• Trala­ sciamo qui di insistere sui problemi posti da stime decisamente in contraddizione tra loro (che variano da un minimo di 35.000 a un massimo di 150.000 uomini); seguiamo invece Yamamoto, che, dopo un'indagine assai accurata, propone una «forbice» che va da 80.000 a 130.000 uomini 35: la prima cifra rappresenta vero­ similmente pressoché il massimo degli effettivi ancora presenti a Nanchino al termine della battaglia 36• La seconda incertezza concerne il numero delle vittime della battaglia di Nanchino. Per i giapponesi, essa fu una passeggiata militare, e costò loro ben poco in termini di caduti, ma i cinesi re­ gistrarono un elevato numero di perdite, stimate da vari autori in 10.000 uomini o più. In effetti, nel campo dei difensori, tutto si svolse in un clima di estrema confusione: 1'11 dicembre, Chiang ordinò la resistenza a oltranza dietro le spesse mura cittadine; il 12, invece, ordinò la ritirata pur non essendo stato lanciato alcun attacco. Il ripiegamento comportava l'uscita da una città ormai quasi completamente investita, e l'attraversamento del vasto fiu­ me Yangtze su piccole imbarcazioni in numero, evidentemente, insufficiente. E poiché non era stato assolutamente preparato (a volte mancavano addirittura gli ufficiali per garantirne lo svolgi­ mento ordinato), per le truppe significò spesso trovarsi in balia del fuoco nemico. La flottiglia nipponica, solidamente posiziona-

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ta sul fiume, fece una carneficina: il combattimento fu talmente a senso unico che si può senz' altro affermare che in quella circo­ stanza si sia verificato un vero e proprio «massacro di guerra» . Tuttavia, dal momento che non era stata dichiarata alcuna resa, qui non vi è nulla da eccepire sul piano del diritto di guerra: qua­ le esercito non sarebbe tentato di approfittare dello squilibrio del­ le forze in campo? Non possediamo maggiori informazioni riguardo gli effetti di­ retti del panico che colpì le forze cinesi il 13 dicembre. Conside­ rando che la maggior parte delle porte era stata murata, uscire dalla città era diventato difficile. Si crearono imbottigliamenti, e nella ressa molti soldati furono calpestati a morte: è noto l'episo­ dio di un carro che nel transitare schiacciò un certo numero di fanti. Altri militari credettero meno pericoloso o più veloce scala­ re le mura, ma le loro corde di fortuna spesso si rompevano o si rivelavano troppo corte. Altri ancora caddero da imbarcazioni so­ vraccariche, finendo nelle fredde acque invernali, oppure anne­ garono tentando follemente di attraversare il fiume a nuoto. Al­ tri, infine, furono mitragliati dalle proprie truppe: ci si era di­ menticati di avvisare alcune unità della decisione di ritirarsi ed esse credevano di far cosa buona punendo i fuggiaschi (le diser­ zioni furono per tutta la durata del conflitto una vera piaga per l'esercito cinese). I caduti sotto il fuoco amico possono essere cal­ colati in un migliaio almeno, ma probabilmente furono di più. La disorganizzazione causò altresì il frequente abbandono di numerosi feriti, il cui numero è difficile da quantificare (ma, in certi giorni del mese di novembre, a Nanchino poteva arrivare a 1700). Il servizio sanitario aveva subito un collasso: una giornali­ sta tedesca riferì che in dicembre 2000 feriti, di cui alcuni molto gravi, rimasero abbandonati per due giorni senza cure presso la stazione ferroviaria. Il numero di questo tipo di vittime, decedu­ te prima dell'entrata in città dei giapponesi, è stimato in 9000 in­ dividui 37• Infine, è difficile calcolare il numero di coloro che riu­ scirono a raggiungere sani e salvi l'altra riva del fiume, ancora controllata dalle forze del Gu6mindang. A seconda delle unità, le perdite variarono, a quanto pare, da un minimo del 35% a un

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massimo del 90%, senza che sia possibile valutare con precisione l'incidenza su queste cifre degli effetti della campagna di Shàn­ ghai, della presa di Nanchino, e delle diserzioni. Malgrado tutto, possiamo ragionevolmente ritenere che le for­ ze cinesi rimaste a Nanchino ammontassero al massimo al 50% degli effettivi di cui in teoria disponevano quelle unità, il che si­ gnificherebbe 90.000 uomini. Da questa cifra bisogna sottrarre un minimo di 20.000 vittime dei combattimenti, del panico e delle carenze di cui soffriva il servizio sanitario. Alcune migliaia riu­ scirono a confondersi tra i rifugiati della ZS 38 o a nascondersi in qualche casa abbandonata, per poi fuggire da Nanchino quando, a partire da febbraio, la tensione cominciò a scemare. Quasi tutti gli altri, come si è detto, furono massacrati. Il loro numero oscilla tra un massimo di 60.000 morti a un minimo di 30.000: per la maggior parte, furono uccisi tra il 12 e il 18 dicembre (il che equi­ vale a una Srebrenica quotidiana per un'intera settimana). Tutta­ via, in gennaio, furono ancora sottoposti a esecuzione da un mi­ nimo di 1500 a un massimo di 5000 «soldati in abiti civili», cattu­ rati in seguito a una serie di rastrellamenti e di perquisizioni. Il metodo deduttivo ci sembra il solo utilizzabile al fine di ot­ tenere un calcolo credibile. Altri autori hanno fatto ricorso a ulte­ riori procedimenti. Molti di loro hanno recensito sistematicamen­ te tutti gli eccidi di cui esistono testimonianze e documenti, som­ mando il numero delle vittime di ogni singolo episodio, e con­ frontando le stime dei sopravvissuti con le indicazioni contenute nei diari di guerra delle unità nipponiche. Con questo sistema, però, si rischia di incorrere nell'errore (di fatto spesso si ottengo­ no stime esagerate). Infatti, in molti casi, le scene dei crimini, vi­ sti i tempi e gli spazi ristretti, sono difficili da individuare: è suf­ ficiente modificare la denominazione di un luogo (cinesi e giap­ ponesi non li designavano obbligatoriamente allo stesso modo), sbagliare di qualche ora, e lo stesso massacro viene contato due volte 39• D'altra parte, salvo poche eccezioni, l'osservatore che fa parte del gruppo tende sempre a sovrastimare spontaneamente l'entità dell'episodio a cui ha assistito. Questa tendenza si nota in occasione delle manifestazioni di piazza e certamente è ancor più

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forte quando ci si trova nella terribile situazione di assistere a una carneficina. Chi può cancellare l'orrore provato di fronte a un cu­ mulo di cadaveri sanguinolenti e semibruciati? Inoltre, non si de­ ve dimenticare che i giapponesi avevano l'ordine di uccidere quanti più soldati vinti nel minor tempo possibile: le unità inca­ ricate di eseguire tale incarico 40 non ebbero il tempo di contare i più affollati contingenti di prigionieri; in più, l'opportunismo nei confronti della gerarchia spinse a esagerare deliberatamente il numero dei prigionieri uccisi. Infine, assieme ai soldati, fu fucila­ to anche un cospicuo numero di civili maschi appartenenti alla stessa fascia d'età (vedi sotto) : si tratta di un altro tipo di crimine di guerra, come vedremo in seguito. Altri autori ancora (spesso gli stessi, in virtù di combinazioni bizzarre e soprattutto assai arbitrarie delle due serie di fonti) han­ no ritenuto di basarsi sulle statistiche, particolarmente dettagliate, delle inumazioni 41• Il tribunale di Tokyo le aveva accettate come prove, senza sottoporle a un esame approfondito e facendone per­ tanto il perno delle proprie valutazioni. La prima serie di infor­ mazioni proviene dalla Svastica Rossa (l'equivalente della Croce Rossa, con il simbolo buddhista al posto di quello cristiano), che operava in stretta collaborazione con il CI, il quale contribuì a fi­ nanziarla. Quest'organizzazione dichiarò di aver sepolto 42.000 corpi tra il mese di dicembre del 1937 e il mese di aprile del 1938. Non v'è ragione di dubitare di questo dato: tenendo conto del pe­ riodo e dei luoghi menzionati, è certo che si riferisce in larghissi­ ma parte a morti violente. Detto questo, non siamo autorizzati ad affermare che i giapponesi abbiano ucciso all'incirca 40.000 perso­ ne. In realtà, a questa cifra andrebbero aggiunti tutti coloro i cui corpi furono gettati nel fiume Yangtze (stando alle testimonianze si tratta di un numero consistente di persone) e sottratte le molte vittime dei combattimenti o del panico. Non era possibile distin­ guere tra le varie cause di morte: pertanto, le pile di corpi che spesso i testimoni raccontano di aver visto presso la porta di Yijiang (o di Xià Guan) e tra le quali (e sulle quali) per qualche tem­ po passarono i veicoli, sono attribuite dagli uni ai morti a causa del panico e dagli altri ai caduti in combattimento 42, mentre per al-

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tri ancora sarebbero il risultato di fucilazioni di massa . . . Infine, va menzionato un problema annesso al precedente: come operare una distinzione tra i cadaveri dei militari (eventualmente senza divisa) e quelli dei civili uccisi insieme a loro? Per riuscire nel­ l'impresa sarebbe stato necessario mobilitare un'intera squadra di medici legali . . . Tuttavia, l'ostacolo più serio è rappresentato dall'impossibilità di conoscere quanti corpi, in proporzione, siano stati seppelliti dal­ la Svastica Rossa. Almeno nel caso degli eccidi di minor entità, le famiglie delle vittime e la popolazione certamente si dedicarono con impegno a dar sepoltura ai morti: inoltre, la Svastica Rossa raggiunse il culmine della propria attività soltanto in febbraio, ovvero due mesi dopo il grosso dei massacri. I giapponesi aveva­ no effettivamente dato il bizzarro ordine di lasciare i corpi dove si trovavano, persino quando giacevano di fronte alle case e nel cuore della ZS, e il divieto di rimuoverli era stato tolto soltanto al­ la fine del mese di gennaio 43: era la politica del terrore, nuda e cruda 44• Tuttavia, per ragioni evidenti, molte persone hanno do­ vuto tentare in qualche modo di sbarazzarsi dei cadaveri al più presto. Il problema è ulteriormente complicato dalla tardiva di­ vulgazione (dopo la fine della guerra, nel periodo in cui si prepa­ ravano i processi) delle statistiche relative alle sepolture effettua­ te da un'altra organizzazione umanitaria buddhista, il Zhongshan Dong. Questa associazione, mai menzionata dai membri del CI né da qualunque altra fonte contemporanea, pre­ tende di aver sepolto nientemeno che 112.000 corpi. La cifra ap­ pare poco degna di fede: la piccola istituzione (quaranta impie­ gati permanenti), fino ad allora poco attiva, dichiara di aver dato sepoltura a quasi 4400 cadaveri al giorno nelle ultime tre settima­ ne di aprile! La Svastica Rossa, dotata di ben altri mezzi, aveva superato (di poco) questa cifra soltanto in due riprese. Inoltre, per quale misteriosa ragione essa avrebbe interrotto ogni sforzo dopo la prima settimana di marzo, seppellendo in seguito appena 6000 corpi? Soprattutto, è difficile spiegare come, proprio a partire dal­ la metà di febbraio, quando la situazione si stava rapidamente stabilizzando, la forte guarnigione giapponese e la commissione

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municipale da essa nominata potessero aver sopportato per altri due mesi una simile mostruosità: 100.000 corpi in decomposizio­ ne nel caldo della primavera cinese e alle porte della città che co­ minciava a riaprirsi. Dobbiamo quindi rifiutare le stime avanzate dal Zhongshan Dong. Comunque, questa associazione, vecchia di 140 anni, non è probabilmente rimasta inattiva, in ogni caso non più di altre organizzazioni ancora meno formali: per esempio, la p iccola comunità musulmana (4% della popolazione) andò in cer­ ca dei propri morti e se ne prese cura 45 • In definitiva, bisogna ri­ conoscere che le statistiche relative alle sepolture non ci permet­ tono di valutare, nemmeno in via approssimativa, il numero del­ le vittime dei massacri.

Terrorizzare la popolazione civile Fin dall'entrata delle truppe giapponesi a Nanchino, gli abi­ tanti ancora presenti e le migliaia di profughi provenienti da al­ tre località intrappolati assieme a loro furono trascinati in un vor­ tice di atrocità di ogni genere, in un'atmosfera di permanente e totale insicurezza, sia per quanto riguarda i beni che l'integrità fi­ sica o la vita delle persone. Le cose peggiori successero sotto Na­ tale, ma anche nei mesi di gennaio e di marzo del 1938 vi furono momenti di recrudescenza. La sentenza emessa a Tokyo contro il generale Matsui contiene un riassunto di queste vicende: I soldati giapponesi hanno commesso massacri di vasta portata e si sono altresì abbandonati a uccisioni individuali, stupri, saccheggi e atti di vandalismo. Sebbene la portata di queste atrocità sia stata contestata dai testimoni giapponesi, le prove in senso contrario provenienti da testimoni neutrali di diverse nazionalità e la re­ sponsabilità indubitabile [dei giapponesi] sono schiaccianti [ . . . ] Durante un periodo di sei o sette settimane migliaia di donne sono state violentate, oltre 100.000 persone 46 sono state uccise, e un nu­ mero incalcolabile di beni è stato rubato o bruciato. 47

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Stupore e agitazione Nemmeno le settimane precedenti i massacri erano state completamente tranquille. C'erano stati i bombardamenti giap­ ponesi. Peraltro, essendo concentrati soprattutto sull'aeroporto, avevano finito per non disturbare nemmeno più il sonno dei ci­ vili. I militari cinesi avevano dato prova della loro propensione al vandalismo e al saccheggio, spesso distinguibile a fatica dal­ la crudele politica della terra bruciata perseguita dai dirigenti del Gu6mindang. All'avvicinarsi dell'attacco nipponico, l' allen­ tamento della disciplina, temuto dai membri del CI (molti dei quali, a Nanchino, avevano sopportato gli eccessi commessi dal­ le truppe vittoriose di Chiang Kai-shek) aveva rischiato di far fallire il progetto di creazione della Zona di sicurezza: numero­ si distaccamenti armati vi si erano infatti stabiliti, e altri milita­ ri minacciavano di bruciare le razioni di riso (affidate dalla mu­ nicipalità al CI) nel quartiere del porto fluviale. Il 10 dicembre era stato necessario organizzare ispezioni congiunte da parte del CI e dello stato maggiore cinese 48• Il 13, con l'ingresso delle forze giapponesi (che trovarono scarsa resistenza), la convinzio­ ne generale era che il peggio fosse stato evitato. Secondo Till­ man Durdin: Quando i giapponesi assunsero il controllo della città intra muros, un enorme sentimento di sollievo invase la popolazione cinese, che sperava nella fine dei terribili bombardamenti e nell'eliminazione della minaccia di gravi disordini creati dalle truppe cinesi. Certa­ mente, si pensava che l'occupazione giapponese sarebbe probabil­ mente stata dura, almeno fintanto che la guerra fosse proseguita. Due soli giorni d'occupazione furono sufficienti per sconvolgere questa prospettiva. 49

Nei suoi taccuini, rivisti in un secondo momento per essere diffusi 50, George Ashmore Fitch, missionario americano nato in Cina e direttore dell'YMCA di Nanchino, dichiara: «Cominciava il regno del terrore, destinato nei giorni seguenti a crescere in quanto a gravità e orrore» 51 • Fin dal 17 dicembre, in una lettera al-

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l'ambasciata giapponese a Pechino, John Rabe, a nome del CI, de­ nunciava senza ambiguità - e con coraggio - i responsabili: !1 13, quando le vostre truppe penetrarono nella città, avevamo ra­ dunato la quasi totalità della popolazione all'interno di una zona che aveva sofferto ben poca distruzione - causata da qualche gra­ nata caduta fuori bersaglio - e nessun saccheggio da parte delle truppe cinesi, nemmeno nel momento della loro ritirata 52• Avevate tutto il tempo di assumere pacificamente il controllo di questo spa­ zio, lasciando che la vita continuasse senza problemi fino alla re­ staurazione dell'ordine nel resto della città. Allora sarebbe stato possibile ripristinare completamente la normalità. I ventisette occi­ dentali presenti e la nostra popolazione cinese sono stati colti del tutto di sorpresa dal regime di furti e assassinii instaurato dai vo­ stri soldati a partire dal 14. 53

Le numerose testimonianze riguardanti quei terribili giorni sono oltremodo sconvolgenti, e offrono in primo luogo immagini di atrocità compiute a trecentosessanta gradi, senza logica e al­ l'unico scopo di instillare il terrore nell'intera popolazione. A que­ sto proposito è istruttivo un passaggio, recante la data del 22 di­ cembre, del diario tenuto dal reverendo americano John G. Ma­ gee, presidente della sezione di Nanchino della Croce Rossa: Quali scene mi è toccato di vedere oggi all'ospedale della torre del Tamburo! Il cadavere di un bambino di sette anni che non siamo riusciti a salvare: il suo ventre era stato trafitto quattro o cinque volte da una baionetta. Poi abbiamo incontrato una donna dician­ novenne, incinta di sei mesi del suo primo figlio, che aveva oppo­ sto resistenza di fronte allo stupro. Era stata pugnalata circa sette volte in faccia e otto volte alle gambe 54i inoltre, abbiamo notato una ferita profonda circa 5 centimetri, a causa della quale ha perso il bimbo. Questa la salveremo. Ho visto una ragazzina di dieci anni che assisteva all'entrata dei giapponesi insieme al padre e alla ma­ dre al sicuro nella nostra Zona per i rifugiati. I militari hanno ucci­ so i suoi genitori e le hanno inflitto un'orribile ferita al gomito, che

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la renderà storpia per tutta la vita. Un'altra donna, impiegata pres­ so l'International Export Company, era in una casa di Xià Guan 55 quando i soldati sono entrati. Hanno ucciso senza motivo tutti gli altri occupanti e le hanno sferrato un terribile colpo di baionetta, probabilmente con l'intenzione di ucciderla. È incredibile che sia sopravvissuta, sebbene, stando al dottor Wilson, abbia perso l'uso di un braccio e di una gamba (in seguito è però deceduta). Un al­ tro, un contadino, è stato trascinato insieme con altre persone ed è stato falciato dalla mitragliatrice, come migliaia di altri civili. Non è morto, ma il dottore mi ha detto ieri che non sopravviverà. 56

Questo cumulo di orrori, descritti con precisione da testimoni inattaccabili (i cui racconti sono talvolta arricchiti - come se non fossero abbastanza eloquenti - da varie atrocità apparentemente prodotte dalla fertile immaginazione cinese in materia 57), sono al­ la base di molte recenti opere sui fatti di Nanchino, come i lavori di Iris Chang o quelli, ancora più inaffidabili, al limite della cari­ catura, che si pubblicano in Cina. In questi testi la cattiveria del­ la soldataglia giapponese è assoluta, al punto che sfida ogni spie­ gazione. Eppure, i cinesi della capitale non sono stati trattati tut­ ti quanti allo stesso modo, anche se quasi tutti hanno vissuto per settimane nel terrore e nella sofferenza. Non esisteva una logica nel commettere i crimini, e si possono individuare bersagli e trat­ tamenti assai diversi.

Caccia ai giovani Gli uomini tra i 15 e i 45 anni conobbero la sorte più crudele. Infatti, a quanto pare, i giapponesi ritenevano che a Nanchino continuasse a nascondersi un gran numero di elementi isolati e di disertori dell'esercito cinese: il 14 dicembre, un colonnello si «la­ vorò» Fitch per un'ora per sapere dove si nascondessero «i 6000 soldati senz' armh> 58• Il 24, sul suo diario si legge la seguente an­ notazione: «Oggi è cominciato il censimento dei cinesi. I militari [giapponesi] dicono che vi sono ancora 20.000 soldati [cinesi] nel­ la Zona e che devono sbarazzarsi di quei "mostri". Mi domando se ve ne sia in tutto un centinaio» 59•

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In ogni caso (c'erano già stati arresti a migliaia, il che spiega la riflessione di Fitch), il giorno 26 Rabe annota: La popolazione degli altri settori della nostra zona è rastrellata a gruppi di centinaia e condotta presso gli uffici preposti alla regi­ strazione. Mi è stato riferito che circa 20.000 persone sono state ar­ restate, parte delle quali sarà impiegata nel lavoro forzato. Fremia­ mo in silenzio di fronte a tali barbarici provvedimenti. Tuttavia, è pur triste dirlo, siamo del tutto impotenti. 60

Ritorneremo in seguito su queste cifre, ma il confronto delle due testimonianze (corroborate da molte altre osservazioni) non lascia spazio a dubbi: i giapponesi intendevano eliminare fisica­ mente i soldati cinesi (in servizio, ex, potenziali . . . ) e agirono di conseguenza, rastrellandoli e massacrandoli in modo sistematico, anche a costo di mettere nel mucchio un numero enorme di civi­ li (la Cina non conobbe mai il servizio militare universale, né la mobilitazione generale). Se c'era tempo o se l'ufficiale responsa­ bile era un poco più scrupoloso della media, aveva luogo una sor­ ta di sommaria selezione, in conformità ai criteri fisici cui si è già fatto cenno. Tuttavia, la cosa più semplice era arrestare tutti colo­ ro che potevano essere soldati cinesi: infatti, fu ciò che accadde, tanto più che lo stato maggiore giapponese sopravvalutava, come abbiamo visto, il numero di soldati ancora presenti a Nanchino. I maschi adulti, già piuttosto rari nella ZS, furono decimati. Il modus operandi è sostanzialmente lo stesso che si riscontra nel caso delle unità disarmate all'atto della presa della città. Fit­ ch descrive nei seguenti termini un' «azione» che ebbe luogo il 15 dicembre: Durante una riunione del nostro personale fu riferito che i soldati [giapponesi] stavano mettendo le mani su tutti quanti i 1300 uo­ mini di un nostro campo situato vicino al quartier generale, allo scopo di fucilarli. Sapevamo che tra loro era presente un certo nu­ mero di ex soldati, ma proprio quel pomeriggio Rabe era riuscito a farsi promettere da un ufficiale che le loro vite sarebbero state ri-

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sparmiate. Ciò che sarebbe successo era sin troppo evidente: gli uo­ mini furono allineati e legati gli uni agli altri a gruppi di circa un centinaio da militari armati di baionette; alcuni indossavano un co­ pricapo, che fu brutalmente gettato in terra. Alla luce dei fari, li os­ servammo marciare verso il loro destino. Non un lamento si è le­ vato da quella moltitudine. I nostri cuori sono diventati grevi co­ me piombo. 61

L'accanimento con cui si dava la caccia agli ultimi militari ci­ nesi ancora liberi spiega il ricorso alla menzogna nei confronti dei membri del CL Ancora più triste è il modo in cui viene sollecitata l'ingenuità dei cinesi. Lo storico Miner Searle Bates racconta in proposito un episodio occorso il 26 dicembre all'università e relativo al censi­ mento dei rifugiati: Su un totale di circa 3000 (uomini) ammassati sui campi da tennis sopra Swazey Hall, 200-300 uscirono dai ranghi dopo che fu te­ nuto un discorso di questo tenore: «Tutti coloro che hanno servi­ to come soldati o che sono stati reclutati per il lavoro obbligato­ rio (fu juh) passino dietro. Le vostre vite saranno risparmiate e, se dichiarate il nome del vostro capo, vi sarà permesso di lavorare. Altrimenti, specialmente nel caso in cui veniste scoperti in sede di ispezione, sarete fucilati» . [ . . . ] Queste parole furono chiara­ mente e integralmente intese da M. Fukuda, M. Tanaka 62, dal sot­ toscritto e da molti membri del personale dell'università. Alcuni cinesi hanno sostenuto che una parte degli uomini che si qualifi­ carono agirono così perché influenzati dalla paura o da una catti­ va comprensione dell'espressione «lavoro obbligatorio» 63, e che tra questi non ci fossero soldati. Attorno alle cinque della sera due o trecento uomini, divisi in due gruppi, furono portati via dalla polizia militare. Il mattino dopo giunse all'ospedale univer­ sitario un uomo trafitto da cinque colpi di baionetta.

Non desta quindi meraviglia il fatto che una parte dei cinesi sia stata sterminata all'arma bianca (ma il 15% delle vittime soprav-

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visse alle ferite) e che altri siano stati gettati vivi in un forno 64• Ciò che colpisce è la totale impotenza dei membri del CI, onestamente ammessa da Rabe. Tutto accadde come se, di fronte a una priorità strategica dello stato maggiore giapponese e a ordini tassativi tra­ smessi per via gerarchica, fosse impossibile opporsi a direttive dalle tragiche conseguenze. In principio gli occidentali tentarono a più riprese di garantire la sicurezza per i militari cinesi cattura­ ti. Avendo fallito, si sforzarono di essere presenti ai rastrellamen­ ti, cercando perlomeno di salvare i civili, a partire dai loro impie­ gati e vicini, e dalla piccola comunità cristiana. A parte qualche ca­ so individuale, il risultato fu un altro fallimento. Oltre una cin­ quantina dei circa quattrocento poliziotti «abbandonati» dalla municipalità fu giustiziata, così come cinque spazzini (due altri, infilzati dalle baionette, riuscirono a trascinarsi fino all'ospedale) e 43 (su 54) impiegati della centrale elettrica rimasti al proprio po­ sto: furono accusati a torto di aver lavorato per il governo del Gu6mindàng 65• Alcuni occidentali (come Charles Riggs, il 16 di­ cembre) vennero addirittura malmenati dagli ufficiali quando fe­ cero capire di essere contrari agli arresti. In definitiva, era ingan­ nando i giapponesi che poteva essere salvato il maggior numero di vite. Le armi e le uniformi dei soldati vinti furono radunate in magazzini di difficilissimo accesso. Alcuni nascondigli furono sco­ perti. In ogni caso, simili atti di resistenza furono assai discreti, dunque rari, e il CI perseguì una politica di inevitabile compro­ messo con le autorità occupanti.

Caccia alle donne Gli occidentali, come vedremo, ebbero vita più tranquilla, in particolare per ciò che riguarda le atrocità commesse contro un altro bersaglio: le donne (soprattutto giovani), colpite da un' on­ data di violenze protrattasi per diversi mesi. Il CI non poté impe­ dire che i crimini di natura sessuale raggiungessero un'intensità probabilmente ineguagliata. Il prudente Bates ha calcolato in 8000 il numero delle aggressioni, ma i suoi colleghi indicano ge­ neralmente la cifra di 20.000. Se si stima che le donne comprese nella fascia d'età più esposta alle aggressioni fossero circa 50.000,

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e se si tiene conto del fatto che molte di loro furono violentate a più riprese, si deve concludere che una percentuale considerevo­ le delle giovani presenti a Nanchino (tra il lO% e il 30%) fu stu­ prata durante un lasso di tempo relativamente breve. Vi furono giorni (o, più precisamente, notti) di dicembre nelle quali i mem­ bri del CI contarono più di mille aggressioni 66 • Poche donne po­ tevano considerarsi al sicuro: nella sola università, la più giovane vittima aveva nove anni, la più anziana settantasei. Le circostan­ ze aggravavano l'entità delle offese subite dalle vittime: i soldati operavano generalmente in piccoli gruppi, dunque gli stupri fu­ rono per lo più collettivi; essi ebbero luogo frequentemente da­ vanti ad altri profughi o sotto gli occhi dei famigliari terrorizzati della vittima, ma nella maggior parte dei casi le donne erano pre­ levate e portate presso le case e gli accampamenti dove i giappo­ nesi si erano stabiliti, per essere rilasciate la mattina seguente (a volte veniva dato loro persino un piccolo regalo . . . ) o, più rara­ mente, molti giorni o parecchie settimane più tardi. In tali casi, potevano servire da domestiche di giorno e da schiave sessuali di notte. In caso di resistenza, la violenza era all'ordine del gior­ no: nemmeno l'assassinio fu raro, sebbene non sia mai stato in alcun modo sistematico 67• Un caso particolarmente orripilante, senza dubbio più estremo che tipico, è riferito 68 da Magee, che lo colloca 1'11 gennaio (dunque un mese dopo l'entrata delle trup­ pe nipponiche) : Ieri all'ospedale ho visto una donna che era stata pugnalata in più punti e la cui testa era stata quasi tranciata. I giapponesi l'avevano prelevata dall'università di Nanchino con altre quattro donne: di­ cevano di aver bisogno di qualche donna per pulire la biancheria e per lavori da cameriera. Secondo il racconto di questa donna, la più bella e la più giovane tra loro era stata violentata circa quaran­ ta volte per notte dopo aver lavato indumenti durante la giornata. Anche le altre lavoravano durante il giorno per poi essere stuprate dieci o venti volte a notte. Un giorno due soldati le hanno detto di seguirli, l'hanno condotta in una casa deserta e lì hanno tentato di decapitarla. Ha un taglio veramente orribile in corrispondenza del

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collo ed è un miracolo che sia viva. Fortunatamente, nessuna par­ te vitale ha subito danni. Questa donna sostiene che alcuni dei re­ sponsabili erano ufficiali. 69

In casi piuttosto frequenti, le donne furono in seguito incitate o costrette a prostituirsi: andavano a cercarle tutte le sere. Questo è il racconto del soldato Tadokoro Kozo, della 114a Divisione: Le donne erano sicuramente le prime vittime. [ . . . ] Sceglievamo un posto al sole, per esempio vicino a un hangar, vi costruivamo una sorta di divisorio sospendendo rami coperti di foglie. Ci procura­ vamo un biglietto rosso chiamato sekken, timbrato dal comandante della compagnia, e attendevamo il nostro turno, con il perizoma 70 sciolto. 71

Per quanto questa pratica sia sinistra, conferiva alle donne una sorta di valore commerciale e le proteggeva (relativamente) dal rischio di essere assassinate. Abbiamo qui la conferma a un preciso studio statistico effettuato da Lewis Smythe su una deci­ na di migliaia di vittime di omicidio compiuto nei villaggi intor­ no a Nanchino nella primavera del 1938: secondo questo lavoro, gli uomini rappresentano oltre i tre quarti delle vittime; il 29% de­ gli uccisi maschi ha più di 45 anni, il che delimita a contrario le fa­ sce d'età suscettibili di portare armi; per contro, 1'83% delle vitti­ me femminili ha più di 45 anni 72, mentre è chiaro che questa fa­ scia d'età è la meno esposta alle violenze sessuali. Le donne an­ ziane, che secondo la convinzione degli abitanti sarebbero state maggiormente rispettate dagli occupanti, avevano spesso il com­ pito di far la guardia alla casa, mentre il resto della famiglia si al­ lontanava in cerca di un nascondiglio. In realtà, molte di quelle custodi perirono durante i saccheggi e gli incendi. D'altra parte, le madri e le nonne tentarono spesso di proteggere le figlie e le ni­ poti, e a loro i soldati non avevano alcune ragioni di fare sconti. Molte testimonianze sembrano confermare che gli omicidi com­ messi nel corso di stupri colpirono i familiari più delle donne vio­ lentate. Quanto agli uomini, se erano sopravvissuti ai rastrella-

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menti iniziali erano rintanati altrove e non furono dunque i più toccati. Magee, per esempio, nota nel suo diario (il 4 gennaio): «La signorina Chen, dell'Orfanotrofio, si inginocchiò davanti a un soldato per cercare di salvare una ragazza, ma fu colpita alla testa dalla sua baionetta. Non si contano le giovani donne che ho dovuto portare all'ospedale per essere curate dopo una simile esperienza» . Con gli uomini, s e s i mettevano in mezzo, gli scrupoli erano ancora minori: Percorsi [ . . . ] un breve tratto fino a una casa cinese dove trovai un gruppo di persone in lacrime. Sembra che alle 4.30 circa un solda­ to giapponese si fosse presentato e avesse tentato di trascinare con sé una donna in una stanza per violentarla. Il marito tentò di soc­ correrla, in modo che ella potesse correre attraverso il locale e fug­ gire da una porta sul retro. Il soldato se ne andò; dopo venti minuti si ripresentò, armato, e uccise il marito della donna. 73

Danni collaterali Se gli omicidi di membri della famiglia, di vicini o amici non furono rari nei casi di stupro, la minima resistenza alla saldata­ glia giapponese, la più infima dimostrazione di reticenza nell' ob­ bedire ai loro ordini 74, come ogni tentativo di nascondersi o di fuggire, poteva condurre alla morte. [I soldati nipponici] uccidevano non soltanto qualunque prigionie­ ro alla loro portata, ma anche un gran numero di cittadini comuni di ogni età. Molti erano abbattuti nelle strade, come si fa con i co­ nigli. [ . . . ] Molti cinesi sono timidi e si mettono assurdamente a cor­ rere quando li si interpella. È quanto occorse a quell'uomo. [ . . . ] I due soldati giappo [sic] non erano più turbati che se avessero ap­ pena ucciso un ratto e non smisero nemmeno per un momento di fumare, di scherzare e di ridere. 75

Questi omicidi, compiuti quasi a caso, costituiscono il secon­ do tipo di violenze contro i civili in quanto tali.

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Il furto e il fuoco L'ultima categoria di violenze perpetrate contro i civili è rap­ presentata dall'attentato ai loro beni. Il saccheggio generalizzato, il vandalismo e, spesso, la distruzione per mezzo del fuoco che seguiva quegli atti resero per mesi impossibile la vita entro la ZS. Occorre tuttavia ammettere che, da questo punto di vista, le au­ torità militari cinesi avevano già indicato la via, praticando un'in­ discriminata politica della terra bruciata: Interi villaggi furono incendiati. Le caserme, le ville del parco del Mausoleo 76, i laboratori di ricerca sperimentale agricola, la scuola di formazione per la polizia e dozzine di altre istituzioni erano ri­ dotte a un cumulo di rovine. Gli incendiari si scatenarono contro i distretti situati nei dintorni della porta del Sud e di Xià Guan (in realtà piccole città autonome) . È stato calcolato che gli incendi mi­ litari dei cinesi causarono la perdita di proprietà per un valore tra i 20 e i 30 milioni di dollari, danno tanto più grave se si pensa che non era stato provocato da mesi di bombardamenti giapponesi. È probabile che i nipponici, con la loro artiglieria e in seguito alla ca­ pitolazione della città, abbiano eguagliato i danni sopra ricordati. 77

A questa testimonianza occorre aggiungerne parecchie altre, riguardanti i saccheggi avvenuti nel momento della ritirata, i quali, però, paiono aver preso di mira soprattutto i magazzini che custodivano le scorte di viveri (e che erano spesso stati chiusi set­ timane prima dai proprietari in fuga), senza che si verificassero particolari episodi di vandalismo né incendi. Ebbene, Bates denuncia, dopo la sua partenza da Nanchino, la distruzione per mezzo del fuoco del 24% dei circa 40.000 immobi­ li e case, mentre i combattimenti ne avevano distrutto soltanto il 2%; inoltre, il 63% di quegli edifici fu saccheggiato 78• In febbraio, Fitch cita l'incendio dei quattro quinti delle botteghe 79• Bates ag­ giunge che gli sventurati profughi furono spesso spogliati delle lo­ ro riserve di cibo e dei loro vestiti (ricordiamo che si era in pieno inverno). A dicembre, alcuni militari penetrarono persino nei ne­ gozi dove il CI distribuiva il proprio riso a un prezzo simbolico e

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si impadronirono sia delle scorte che dei lavoratori: gli esercizi fu­ rono obbligati a restare chiusi per quasi una settimana 80• Il sac­ cheggio e gli incendi delle vie commerciali (nessuna delle quali fi­ gurava nella ZS) furono spesso organizzati metodicamente, sotto il controllo di ufficiali: alcuni cinesi furono obbligati a fungere da coolie 81, mentre convogli di camion militari portavano via il botti­ no, tra cui c'erano persino pianoforti. Poi l'esercito preparava i di­ spositivi di incendio e dava fuoco alle micce. Quando, in primavera, i membri del CI poterono ispezionare la campagna circostante 82, constatarono distruzioni ancora più estese, per quanto fosse difficile dividere le responsabilità tra gli eserciti giapponese e cinese: il 40% delle fattorie era stato bru­ ciato; circa la metà degli attrezzi agricoli e del bestiame era scom­ parsa 83• John Magee si recò presso il cementificio tedesco di Tsih Hsia Shan, i cui proprietari si erano fatti carico di 10.000 profu­ ghi. Vi poté constatare, oltre alla solita caccia alle donne e ad al­ tre esecuzioni di soldati cinesi, più in ritardo rispetto alla città, la distruzione mediante il fuoco dell'SO% delle case lungo le arterie principali e del 40-50% lungo le strade secondarie. I nove decimi dei bufali era scomparso, compromettendo gravemente il futuro raccolto. In quanto alle donne, non osavano uscire di casa, senza contare che si faceva strada un nuovo pericolo sotto forma di banditi e disperati che infestavano le strade tendendo agguati ai contadini 84• Gli ufficiali di alto rango non si privavano del (sostanzioso) pia­ cere di riservare per sé una parte del bottino. Per esempio, il gene­ rale Nakajima, ex capo della Kempeitai, così replicava al generale Matsui, che disapprovava la sua avidità: «Perché preoccuparsi tan­ to del furto di qualche oggetto d'arte, dal momento che stiamo ru­ bando vite e addirittura un intero paese? Quand'anche lasciassimo questi pezzi dove sono, chi potrebbe ancora goderseli?» 85• Al di là del cinismo che implica, una simile risposta rivela le vere intenzioni dei giapponesi (o forse soltanto di alcuni tra loro, i più radicali, i quali peraltro sono coloro alla cui musica si accor­ da il resto dell'orchestra): non si prevede di attuare il massacro in­ discriminato della popolazione cinese; piuttosto, si tratta di pro-

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vocame l'impoverimento, favorendo la disintegrazione del tessu­ to sociale, la distruzione della classe politica e l'indebolimento culturale 86 • Ciò è perfettamente coerente con l'iniziale tentativo nipponico di indebolire la Cina in qualunque sua componente territoriale e politica. In questo senso va altresì letto lo spavento­ so impulso al traffico e all'uso della droga che tanto allarmò i membri del CI (vedi il cap. 10).

Le controversie legate alle cifre I civili furono colpiti in modo assai disomogeneo Molti aspetti della tragedia di Nanchino rimangono tutt'ora controversi, ma la discussione è in gran parte - troppo, come ab­ biamo detto - incentrata sulla questione del numero delle vittime. Dopo aver esaminato lo svolgimento dei fatti, avendo tentato di stabilire quante siano state le vittime militari, occorre tornare, a conclusione del nostro discorso, sul problema dei civili. In primo luogo va osservato che le vittime civili non possono per ovvie ra­ gioni essere state più numerose dell'insieme della popolazione coinvolta. Enunciare questa verità lapalissiana sarebbe fuori luo­ go, se Iris Chang e la storiografia ufficiale cinese non riportasse­ ro cifre superiori a 200.000 o addirittura a 300.000 morti civili, ba­ sandosi sul numero di cittadini di Nanchino presenti il 12 dicem­ bre. Tuttavia, fondandoci sui dati qualitativi già esposti, possia­ mo spingerei ad affermare che non vi fu alcun genocidio, né mas­ sacro indiscriminato di abitanti cinesi della città. Nelle migliaia di pagine di ordini, diari personali (di occidentali o di giapponesi), di lettere, di rapporti (in particolare quelli del CI), note diploma­ tiche o articoli di stampa non si trova il minimo accenno a un ten­ tativo sistematico di cancellare la popolazione di Nanchino. Non si dimentichi che alcuni tra i redattori di tali documenti sono quanto mai severi nei confronti dell'esercito giapponese! Una so­ la categoria di civili sembra in generale destinata alla morte: si tratta degli adulti maschi in giovane età, frequentemente mesco­ lati ai soldati e trattati come loro. Robert Wilson, infaticabile chi-

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rurgo dell'ospedale universitario, aveva intuito correttamente la gravità della minaccia che pendeva su di loro: «E adesso [i giap­ ponesi] ci dicono che nella Zona vi sono ancora 20.000 soldati (da dove prendano questa cifra nessuno lo sa) e che si stanno prepa­ rando a rintracciarli e a ucciderli tutti, il che significa ogni uomo fisicamente sano tra i 18 e i 50 anni presente in città» 87• Da questa annotazione si può concludere che questa fascia d'età maschile contava relativamente pochi membri tra i profu­ ghi, proprio perché era maggiormente in pericolo ed era più mo­ bile delle donne con figli. In effetti, i dati raccolti da Smythe sembrano confermare che la netta maggioranza delle vittime civili appartenga a questo grup­ po. L'esame dei 6600 assassinii e arresti di civili maschi recensiti entro le mura è eloquente: 1100 uccisioni e 4200 arresti (si tratta dei rastrellamenti di «soldati in abiti civili))), ovvero 1'80% del to­ tale, colpirono maschi tra i 15 e i 44 anni. Le donne uccise, di qua­ lunque età, sono stimate in 650 (non si fa menzione di arresti in questo caso) 88• Abbiamo già ricordato i risultati relativi a una par­ te dei dintorni di Nanchino: essi vanno nella stessa direzione, an­ che se la percentuale delle vittime femminili e di quelle maschili di altre fasce d'età è nettamente più elevata. Ciò permette di mi­ surare in parte il livello di efficienza del CI nella protezione dei civili della Zona, a eccezione di coloro che potevano essere consi­ derati soldati in borghese. In totale, su 16.500 sparizioni violente registrate nella città e nei suoi dintorni, gli uomini tra i 15 e i 44 anni di età sono 9500 (ovvero il 57%) e le donne 2500 (il 15% del totale). Queste cifre sono perfettamente compatibili con i dati qualita­ tivi e quantitativi affidabili in nostro possesso, ai quali abbiamo fatto accennato nelle pagine precedenti. Per esempio, i cadaveri abbandonati nelle strade, una costante di ogni spostamento, sono calcolati dai membri del CI in due o tre per caseggiato, il che dà una cifra di un migliaio di persone per la città interna: è molto, ma, se ci trovassimo di fronte a un massacro generalizzato, sa­ rebbe poco. Più significativamente, i dati di Smythe corrispondo­ no alle statistiche sulle sepolture. Infatti, la Svastica Rossa sep-

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pellì 41 .208 uomini, ma soltanto 75 donne e 20 bambini. Il Zhong­ shan Dong, le cui cifre sono dubbie, come si è visto, ma indi­ spensabili fin dal 1946 ai sostenitori di un massacro generalizza­ to, rileva un 97% di cadaveri maschili, un 2% di cadaveri femmi­ nili, mentre i bambini morti sarebbero meno dell'l% 89• In questi dati non c'è nulla che possa sorprendere, se si ammette che le vit­ time furono in gran parte soldati e che tra i civili gli uomini in età di leva erano la maggioranza. Il numero estremamente basso di donne e bambini recensiti tra i cadaveri è altresì logico, se si ac­ cetta l'idea che nella quasi totalità dei casi queste due categorie di persone furono uccise individualmente, a volte nella confusione regnante nelle strade, più spesso nel corso degli stupri e dei sac­ cheggi, in presenza o in prossimità di loro famigliari, vicini o ami­ ci, da cui i loro corpi furono naturalmente raccolti e inumati, sfuggendo così, di solito, a ogni censimento. Il ragionamento non starebbe più in piedi se anche quei familiari, vicini e amici fosse­ ro stati assassinati in gran numero, come sostengono Chang e co­ loro che la seguono su questo terreno. Un ulteriore dato signifi­ cativo è fornito da Shuhsi Hsu, nella sua compilazione semiuffi­ ciale (1941) degli eccessi giapponesi. Egli cita, senza criticarlo, uno studio del giugno 1939 dovuto all' American Aid Committee: un'opera assai dettagliata, secondo la quale la popolazione totale delle nove città principali cinesi occupate dal Giappone (tra le quali figura anche Nanchino) è crollata in meno di due anni da 5.800.000 abitanti a 2.400.000 abitanti. Si tratta di una diminuzio­ ne media del 58%: nel caso di Nanchino (città presso la quale si erano verificati ritorni a partire dal mese di febbraio del 1938) la perdita di popolazione ammonterebbe al 50% 90• Siamo quindi di fronte a due alternative: o il massacro generalizzato di Nanchino non è stato il più ingente, o non ha avuto luogo. Certamente, Smythe e i suoi collaboratori si resero conto di non aver potuto recensire tutte le vittime, malgrado la cura con la quale condussero le proprie inchieste. Fu probabilmente per que­ sto motivo che lo storico Bates, che vi prese parte, fornì in segui­ to una cifra decisamente più elevata (senza peraltro giustificarla in maniera precisa) : «La nostra stima definitiva del numero di ci-

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vili assassinati a Nanchino era di 12.000 morti, nove decimi dei quali uccisi al di fuori di operazioni militari; la cifra comprende­ va anche una notevole quantità di donne, bambini e anziani, cor­ rispondente a una vittima ogni quattro famiglie allora presenti in città» 91• Otto anni dopo, sentito come testimone d'accusa al processo di Tokyo, Bates ripeté pressappoco la stessa valutazione: Il professar Smythe e io concludemmo, in seguito alle nostre in­ chieste, alle nostre osservazioni e alla consultazione degli elenchi dei sepolti, che 12.000 civili - uomini, donne e bambini - di cui era­ vamo a conoscenza 92 furono uccisi all'interno delle mura. Molti al­ tri furono assassinati in città senza che ne avessimo sentore, ma non abbiamo la possibilità di determinarne il numero. Inoltre, mol­ ti altri furono uccisi immediatamente all'esterno della città: si trat­ tava di civili. 93

Notiamo qui un cambiamento: 12.000 non è più considerata una cifra definitiva, ma una base minima di partenza (e le vitti­ me delle operazioni militari scompaiono). Tuttavia, se Bates avesse ritenuto che la sua valutazione iniziale non fosse legata alla cifra reale, non l'avrebbe citata come riferimento serio, spe­ cialmente nella sua qualità di testimone d'accusa a Tokyo. Non ci è giunta conoscenza di alcun nuovo argomento o di alcuna nuova prova che possano indurci a mettere seriamente in di­ scussione le investigazioni del CI, condotte all'epoca degli av­ venimenti da scienziati di valore, che si erano fatti carico della popolazione di Nanchino ed erano sempre presenti nei luoghi dell'azione. Sembra del tutto inverosimile che un massacro di vaste proporzioni come quello evocato dalla Chang abbia potu­ to aver luogo praticamente sotto il loro naso senza che nessuno se ne accorgesse. Persino le esecuzioni dei soldati catturati e massacrati all'esterno delle mura, i quali non erano mai stati sotto la responsabilità dei membri del CI, furono rapidamente conosciute, grazie ai sopravvissuti che riuscivano a raggiungere la ZS e attraverso le operazioni di sepoltura gestite dalla Svasti-

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ca Rossa. In un rapporto iniziale datato 21 marzo, Smythe affer­ mava: «Si stima che 10.000 persone siano state uccise all'interno delle mura di Nanchino e circa 30.000 all'esterno. [ . . ] Riteniamo che i civili corrispondano al 30% del totale» 94• Quanto a Rabe, in una serie di conferenze tenute in Germania dopo essere tornato a Berlino nell'aprile del l938, propose un numero di vittime tra le 50.000 e le 60.000 unità 95• Ci sentiamo dunque in grado di affermare che, secondo ogni verosimiglianza, all'interno delle mura di Nanchino furono ucci­ si tra i 12.000 e i 20.000 civili. Se consideriamo le zone adiacenti (che contano circa 10.000 vittime recensite) la cifra sale a 30.000 o poco più. Si tratta di un massacro di considerevole ampiezza, che ha interessato dal 5% all'8% della popolazione rimasta in città, corrispondente all'l,2-2% della popolazione residente prima del­ la guerra. A titolo di confronto, la «Semaine sanglante» che pose fine alla Comune di Parigi (1871), uccise meno dell'P/o dei pari­ gini e il suo ricordo è ben vivo. Per quanto riguarda casi di po­ polazioni civili deliberatamente assassinate, tra le capitali della seconda guerra mondiale Nanchino può essere confrontata sol­ tanto con Manila o Varsavia, o con Amsterdam, Berlino, Budape­ st, Riga e Vilnius, se contiamo anche gli ebrei condotti nei campi di sterminio. Se, ai 20.000-30.000 civili aggiungiamo i militari (da 30.000 a 60.000), arriviamo a un numero di vittime compreso tra 50.000 e 90.000, di cui il 95% erano uomini. .

Cambiare scala di riferimento ? Resta da precisare un ultimo aspetto. In un Giappone nel qua­ le, a differenza della Cina, la discussione su Nanchino è da tem­ po viva e libera, fondata su argomenti solidi e sull'esame dei fat­ ti, alcuni autori di sinistra, desiderosi di rassicurare i cinesi ri­ guardo alla propria totale contrizione, ma consci dell'inverosimi­ glianza della cifra ufficiale di 300.000 vittime, hanno avuto la pen­ sata di conservare questo numero «feticcio», applicandolo però non alla sola città e nemmeno alle sue immediate vicinanze, ma all'intera area municipale (composta da sei xiàn o «contee»). Eb­ bene, tale area è assai estesa e in larga parte rurale, come avviene

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generalmente per le grandi città della Cina, il cui territorio am­ ministrativo può raggiungere le dimensioni dell' Ile de France o dell'Alsazia. Alcuni autori, come Honda Katsuichi, propongono addirittura di considerare l'insieme del territorio e del periodo dell'offensiva su Nanchino come una cosa sola. Dal momento che lo stato attuale delle nostre conoscenze non permette di avanzare cifre convincenti per aree di tale estensione, simili proposte non fanno altro che rendere più confuso il dibattito. Se ci si prefigge di pervenire un giorno a valutare correttamente il costo umano della guerra 1937-1945 nell'intera Cina, occorre innanzitutto sta­ bilire un bilancio località per località. Colpisce che questo sia pro­ prio il modo di procedere di Honda, che studia la situazione par­ tendo da borghi, villaggi e quartieri, ma si rifiuta di fare altret­ tanto con Nanchino, benché sia uno dei pochi casi in cui si abbia la possibilità di giungere a risultati affidabili per una grande città. Se lo scopo che ci si prefigge è il ristabilimento della verità, non c'è altra strada percorribile. Il fatto che molti autori giapponesi abbiano accettato (sia pur in seguito a forti pressioni da parte di Pechino) di introdurre considerazioni politico-diplomatiche (per­ ché di ciò si tratta) nei loro lavori ha sfortunatamente contribuito a dare un poco di respiro alla corrente revisionista nipponica, che si fonda su basi inaccettabili. Che dire, inoltre, dei risultati di questa estensione spaziale del massacro? Innanzitutto, non mostrano niente di veramente nuo­ vo o di veramente originale. La prima menzione della cifra di 300.000 vittime civili si trova probabilmente in un cablogramma spedito alla propria redazione il 16 gennaio 1938 dal corrispon­ dente a Shànghài del «Manchester Guardian)>, H. J. Timperly. Il messaggio, censurato dai servizi d'occupazione giapponesi, fu ci­ tato a titolo d'informazione in una nota del ministro degli Esteri Hirota Koki (1878-1948) all'ambasciatore giapponese a Washing­ ton. Il documento fu intercettato dai servizi di decodificazione americani e fu parzialmente reso di pubblico dominio il 24 gen­ naio sul «New China Daily», ma falsamente presentato come la «confessione di Hirota». Il nome di Timperly era taciuto 96• Ebbe­ ne, il giornalista inglese parla delle atrocità commesse «a Nanchi-

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no e altrove (elsewhere)», senza aggiungere altro. Un'altra valuta­ zione precoce ed elevata del numero delle vittime civili risulta maggiormente circostanziata: nel 1941 Herrymon Mauer scrisse che «nell'arco di circa un mese [i giapponesi] avevano coperto quasi 200 miglia tra Nanchino e Shànghài [sic], lasciando dietro di sé migliaia di civili assassinati» 97• Le cifre sono del tutto verosi­ mili, anche- se, a quanto risulta, ottenute con metodi poco precisi. Tuttavia, la regione densamente popolata che separa le due gran­ di città è di molte volte superiore a quella della capitale: massacri equivalenti in senso assoluto hanno evidentemente un significa­ to diverso a seconda che colpiscano la sola città di Nanchino o una zona già allora popolata come la maggior parte dei paesi eu­ ropei. L'ultimo argomento degli «estensionisti» è il seguente: le campagne avrebbero subito orrori ancor maggiori rispetto a quel­ li avvenuti in città. È vero che Honda (e altri con lui) fornisce esempi che fanno accapponare la pelle e su cui ritorneremo (vedi il cap. 6). Eppure, anche qui, Smythe viene in nostro aiuto: in una vasta zona rurale nelle vicinanze di Nanchino egli calcola le per­ dite umane in un morto ogni sette famiglie, una stima, cioè, infe­ riore di due terzi a quella precedentemente stilata per Nanchino (un morto ogni quattro famiglie) 98• Per analogia, se ne dovrebbe dedurre un probabile tasso di perdite compreso tra il 3% e il 5% (a Nanchino questo è invece compreso tra il 5% e 1'8%). Per arrivare a 300.000 vittime occorrerebbe dunque un territorio popolato da 6 a 10 milioni d'abitanti. Ancora nel 2005 le zone rurali della muni­ cipalità di Nanchino non contavano più di 2 milioni di residenti. Se ci fidiamo di questa estrapolazione, fragile per definizione, do­ vremmo allora prendere in considerazione un'area estesissima (per esempio quella proposta dall'abile Honda). Ma in quel caso, avrebbe ancora senso parlare del massacro «di Nanchino»?

Il significato di Nanchino

Quale significato si deve dare a questo cumulo di crimini e de­ litti di ogni tipo, che sconcertarono gli osservatori contempora-

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nei, persino coloro che ritenevano di conoscere bene il Giappone e non si facevano illusioni a proposito della durezza del suo spi­ rito marziale? E ancora, come concepire l'orgia di violenze ses­ suali, che, seppur meno mortale dei massacri dei prigionieri di guerra, rappresenta il cuore del trauma subito dalla popolazione?

Né semplice rottura della disciplina, né massacro genocida Ci pare che due opposte interpretazioni debbano essere respin­ te. La prima, avanzata dai revisionisti giapponesi ma anche, in for­ me meno caricaturali, da numerosi altri autori, spiegherebbe gli ec­ cessi con una «rothrra della disciplina» da parte dei soldati nippo­ nici sfiniti da privazioni e sofferenze e desiderosi di vendetta. Se questa spiegazione corrispondesse al vero, parrebbe lecito doman­ darsi come mai massacri come quello di Nanchino, o anche peg­ giori, non siano stati assai più frequenti nella storia delle guerre combattute dagli esseri umani. In ogni caso, come abbiamo visto, fu la gerarchia militare giapponese a organizzare lo sterminio dei soldati cinesi, né essa dimostrò in alcun modo di voler porre fine alle atrocità, di cui era in generale informata. Per esempio, il 20 di­ cembre il generale Matsui annota sul proprio diario: «Mi è stato detto che per un certo periodo i nostri soldati hanno corrunesso qualche furto (si sono impadroniti principalmente di oggetti o mo­ bili) e qualche stupro. Tenendo conto della situazione, è inevitabi­ le che un certo numero di crimini abbia luogo» 99• In queste parole non si legge il minimo rammarico, né si vede alcuna intenzione di porre un freno a quei gravi comportamenti. D'altra parte, uno dei pochi militari giapponesi ad aver criticato apertamente le atrocità di Nanchino, il noto generale Ishiwara Kanji (vedi il cap. 3), denunciò la responsabilità di Matsui riguar­ do il comportamento delle sue truppe 100 • L'8 ottobre 1937 il co­ mandante in capo aveva fatto la seguente dichiarazione: «Le no­ stre baionette, rese più acuminate per sfidare i demoni, sono sul punto di essere sguainate per esercitare la loro influenza divina. Questo affinché l'esercito compia la propria missione di protezio­ ne dei residenti e degli interessi giapponesi, e punisca il governo di Nanchino e i cinesi oltraggiosi» 101 •

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Le rimostranze scritte quasi quotidiane del CI presso i diplo­ matici giapponesi di Nanchino erano trasmesse a Tokyo: la prova di questa conoscenza, sempre negata, svolse un ruolo decisivo nel­ la condanna a morte di Hirota nel 1948 102• Egli infatti informò in proposito con un telegramma (23 dicembre 1937) l'ambasciatore Sait6 103; e Joseph Grew, all'epoca ambasciatore statunitense in Giap­ pone, rivelerà a Bates che Hirota conosceva le lettere del Cl. Ishii ltaro, direttore dell'ufficio per gli Affari dell'Asia Orientale presso il Ministero degli Esteri, annota il 6 gennaio 1938 nel suo diario: Ho ricevuto da Shànghài un messaggio dettagliato a proposito del comportamento violento delle nostre truppe. Il messaggio dice che i furti e gli stupri sono un fenomeno di tali proporzioni da non pa­ terne valutare l'estensione. Ahimè! Davvero è questo l'esercito di Sua Maestà? Si tratta di un serio problema sociale, in quanto è sin­ tomo del livello di degrado morale del popolo. 104

Ebbene, non si trova traccia di alcun intervento del potere cen­ trale, almeno fino al febbraio del 1938, fatto che la sua influenza relativamente scarsa sullo stato maggiore non basta a giustifica­ re. Matsui, al suo ritorno definitivo a Tokyo nel febbraio del 1938, ebbe l'onore di un rescritto imperiale dai toni altamente elogiati­ vi 105• Ciò, tuttavia, non gli impedì di provare qualche rimorso: nel luogo in cui si ritirò, infatti, fece innalzare un santuario shintoista presso il quale fu posta anche la statua buddhista della Miseri­ cordia, in ricordo dei morti giapponesi e cinesi del conflitto; si di­ ce che vi si recasse in meditazione ogni giorno. È probabilmente significativo il fatto che Matsui stesso, 1'8 marzo 1946, durante il proprio interrogatorio in carcere, non ab­ bia in alcun modo invocato a sua discolpa una rottura o un allen­ tamento della disciplina militare: Domanda: «L'accusa sostiene altresì che la disciplina delle truppe che presero Nanchino era pessima.» Matsui: «Consideravo la disciplina eccellente. Ma la condotta e il comportamento non lo erano. »

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Domanda: «[Il comportamento] dei soldati?» Matsui: «Sì.» Domanda: «Si riferisce proprio a Nanchino?» Matsui: «Sì. Penso che ci fossero elementi senza principi [lawless] nell'esercito. [ . . . ] Ho sempre difeso il mantenimento di una stretta disciplina e la punizione dei malfattori (evildoers) . » 106

Il meno che si possa dire è che le presunte istruzioni del co­ mandante in capo non sono state minimamente applicate. Gli uf­ ficiali, che di sicuro non rimasero estranei alle atrocità, si segna­ larono per un'enorme tolleranza nei confronti dei crimini contro i civili, in contrasto con l'estrema severità (per la più piccola in­ frazione alle regole del rispetto gerarchico o per scarso entusia­ smo nelle esercitazioni e in battaglia si scatenavano feroci pestag­ gi, ma non erano infrequenti le condanne ad anni di carcere). L'e­ pisodio relativo al 18 dicembre narrato da Rabe è illuminante: egli si trovava in compagnia di un ufficiale giapponese quando «uno dei miei vicini cinesi arriva e ci annuncia che quattro solda­ ti hanno fatto irruzione in casa sua e che uno di loro è sul punto di violentare sua moglie. L'ufficiale giapponese e io ci precipitia­ mo nella casa del vicino e impediamo che accada il peggio; il sol­ dato riceve uno schiaffo per guancia ed è quindi autorizzato ad allontanarsi» 1 07• In altri casi la «punizione» si limitava all'ordine di mettersi sull'attenti emesso con tono di rimprovero. Per quan­ to riguarda la polizia militare, reclamata a gran voce dal CI, a Nanchino poté dislocare appena 17 uomini e la sua sede si tra­ sformò almeno occasionalmente in luogo di stupri 1 08• I divieti di ingresso scritti in giapponese e stampati dall'ambasciata nippo­ nica per essere affissi sulle porte degli edifici controllati dal CI erano regolarmente strappati dai soldati dediti al saccheggio, i quali, evidentemente, ritenevano di poter compiere i propri mi­ sfatti senza pericolo di subire punizioni: i loro superiori chiude­ vano entrambi gli occhi. I primissimi arresti di soldati da parte della polizia militare per atrocità furono rilevati dal CI soltanto il 30 gennaio, dopo sette settimane di terrore ininterrotto 109• Inoltre, le condanne non furono né numerose né molto severe. Un riser-

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vista fu condannato a 18 mesi di carcere per l'omicidio di una donna cinese; un altro a quattro anni per l'uccisione di un cinese e lo stupro della moglie. Al contrario, minacciare un superiore o infliggere una ferita a un cavallo dell'esercito costavano cinque anni e mezzo di detenzione 110 • • • In tutto, a quanto pare, tra l'ago­ sto del 1937 e il dicembre del 1939 420 soldati giapponesi furono condannati da tribunali militari per stupro o assassinio di donne cinesi, ma nessuno fu giustiziato per tali crimini 111 • Per i soldati più inclini alla brutalità la devastazione di Nan­ chino fu uno splendido momento, tale da compensare l'amarez­ za generata dalla sconfitta finale. È quanto racconta nel 1986 Ozaki Junko, in una lettera inviata al quotidiano «Asahi Shim­ bun» . Alla fine del 1945 la Ozaki era una studentessa che, insie­ me alla madre, tentava di procacciarsi un po' di cibo. Essendosi fermata presso la locanda di un villaggio, le capitò di assistere, ri­ manendone orripilata, a una conversazione tra cinque o sei ex soldati riciclatisi nel mercato nero: Ognuno di loro si vantava delle proprie imprese guerresche. Senti­ re le loro parole era insopportabile. Ridevano sguaiatamente ricor­ dando quante donne cinesi avevano violentato e uno di loro rac­ contò di aver sperimentato fin dove il suo braccio potesse penetra­ re nel corpo di una donna. [ . ] E continuavano, e continuavano. «Dov'è successo?» «A Nanchino, è là che ci siamo divertiti di più. Potevamo fare tutto ciò che volevamo e rubare tutto quello che ci piaceva. » Dissero che quando i soldati si sentivano esausti e dava­ no segni di impazienza durante le marce, i loro ufficiali superiori li esortavano a mostrare un po' di perseveranza, promettendo loro che appena raggiunta la prossima città avrebbero potuto fare tutto ciò che volevano. 112 .

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La coscienza di ciò che essi o i loro camerati avevano compiu­ to a Nanchino lasciò una traccia discreta ma profonda nei milita­ ri giapponesi. Otto anni dopo i fatti, nel marzo del 1945, quando gli americani sbarcarono a Zamami (a ovest di Okinawa), si te­ mette un'inevitabile nemesi:

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I veterani, quelli che erano stati in Cina, spiegarono agli abitanti del villaggio che cosa sarebbe loro successo nel caso in cui gli ame­ ricani avessero occupato l'isola. Usarono i fatti di Nanchino a mo' di esempio. Dicevano: «l giapponesi hanno fatto questo e quest'al­ tro. Gli americani faranno le stesse cose, è naturale. È meglio che uccidiate subito i vostri bambini e che poi vi diate la morte con le vostre mani, piuttosto di diventare oggetti di vergogna e abuso, di degrado e stupro». 113

Non si tratta di un caso isolato: decine di migliaia di donne e bambini giapponesi morirono in questo modo (a Saipan, Iwo Ji­ ma, soprattutto nelle isole Ryukyu . . . ) per espiare un crimine commesso da altri. Questa brutalità allo stato puro, che spiega an­ che la reticenza dei soldati giapponesi ad arrendersi, si era mani­ festata in occasione della marcia trionfale verso la capitale cinese, nel 1937 114 . . . L'unica contromisura in qualche modo efficace contro le atro­ cità fu presa non dall'esercito, ma dall'ambasciata giapponese di Nanchino, costantemente sollecitata dal CI: nove guardie conso­ lari, apparentemente irreprensibili, furono poste all'ingresso di alcuni dei luoghi di riunione dei profughi. Tuttavia, rappresenta­ vano un elemento di dissuasione tragicamente insufficiente: ai soldati bastava spesso scavalcare il muro qualche metro più in là. La prova finale, a contrario, del criminale lassismo della gerarchia giapponese risiede nel fatto che Matsui fu in grado di imporre, sia pure assai tardivamente, un ritorno alla normalità. Per attenerlo gli fu sufficiente rivolgersi ai propri ufficiali superiori in termini così riassunti dal corrispondente del «New York Times» : Era assolutamente necessario [ . . . ] porre un immediato freno a i re­ soconti sfavorevoli sulla disciplina e sulla condotta delle truppe giapponesi nei confronti dei cinesi e dei loro beni, e una disciplina esemplare era particolarmente necessaria, tenuto conto del fatto che l'esercito giapponese doveva affrontare la prospettiva di osti­ lità prolungate prima di portare a compimento la missione del Giappone nell'Asia dell'Est. 1 15

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Si noti che queste righe non contengono alcuna condanna morale dei crimini commessi, che vengono considerati semplice­ mente inopportuni, nella misura in cui la guerra si annuncia lun­ ga. Alcuni ufficiali radicali, come il generale Nakajima, ex capo della Kempeitai, mugugnarono (Matsui se ne ricordò con ama­ rezza nel momento stesso della propria esecuzione 116 ) , ma l' ordi­ ne era troppo chiaro per non essere eseguito. Infine, qualche sol­ dato criminale dovette comparire davanti alla giustizia militare. L'errore inverso, frequente nella letteratura cinese su Nanchino, e che si è in seguito imposto come una sorta di vulgata universale (probabilmente favorita dalla denuncia degli stupri di massa serbi in Bosnia tra il 1992 e il 1995), consiste nell'evocare una politica del­ lo stupro sistematicamente condotta allo scopo di terrorizzare i ci­ nesi (non soltanto a Nanchino) e di spezzarne la resistenza. Si sug­ gerisce addirittura l'esistenza di una strategia genocida, come fa lris Chang quando afferma: «Le violenze sessuali sulle donne si ac­ compagnavano spesso al massacro di intere famiglie» 117• Vi furono casi del genere, ma si trattò sempre di eccezioni. D'altronde, la maggior parte delle donne non risiedeva in famiglia. Inoltre, que­ sta ipotesi cozza contro un fatto acclarato: gli occidentali di Nan­ chino non poterono praticamente opporsi al vasto massacro di sol-· dati cinesi, ma riuscirono a organizzare contromisure abbastanza efficaci contro gli stupri 118, a ottenere l'assegnazione di guardie consolari e a respingere con regolarità i militari che delinquevano (Rabe agitava loro in faccia fieramente il proprio bracciale con la croce uncinata, gesto a suo dire assai efficace) o persino a bloccare una violenza sessuale in corso di perpetrazione, e tutto ciò senza mai essere seriamente aggrediti. Il che non mancò di stupirli: La cosa che di tutta questa situazione ci sbalordisce maggiormente - e ci domandiamo per quanto tempo durerà il miracolo - è che noi, un pugno di stranieri disarmati, possiamo andare avanti e in­ dietro, cacciando i giapponesi dalle aule scolastiche, dalle case de­ gli stranieri, dagli ingressi e dalle camere delle abitazioni cinesi senza che uno solo di noi sia ancora stato ferito. In verità i soldati spesso fuggono. In parte è un puro bluff. 119

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Dunque, nel primo caso esistevano ordini formali, che un esercito disciplinato e controllato esegue inflessibilmente, e nel secondo iniziative individuali, disorganizzate, del tutto tollerate dalla gerarchia, ma di fronte alle quali i soldati erano soli, senza una copertura particolare e, naturalmente, senza l'obbligo di ot­ tenere un determinato risultato. Risulta altresì evidente (benché non ne sia rimasta traccia scritta) che vi dovettero essere ordini strettissimi riguardo alla salvaguardia dell'integrità fisica degli occidentali, che erano o tedeschi, dunque amici, o americani, ov­ vero i primi partner commerciali del Giappone, e a lungo osser­ vatori piuttosto comprensivi dell'espansione nipponica in Asia 120 • Come spiegare altrimenti una simile differenza di trattamento tra costoro e i civili cinesi 121 ?

Strategia e saccheggio Vi sono, pertanto, elementi validi in entrambe le interpretazio­ ni che abbiamo respinto. È vero che, come confermano numerose testimonianze, gli ufficiali trattennero i propri uomini piuttosto che spingerli alla violenza. Ma vi è abbondanza di riferimenti al piacere da questi provato nel seminare la morte, il dolore e la pau­ ra. Ciò pone la più ampia e delicata questione della «cultura della guerra» giapponese e la questione, non meno complessa, del po­ tere del fascismo e del totalitarismo alla fine degli anni '30: ne ab­ biamo parlato e vi ritorneremo sopra. D'altra parte, il fatto che i ci­ nesi siano stati così costantemente e gravemente discriminati ri­ spetto agli occidentali (peraltro anch'essi maltrattati dal 1941 in poi, benché mai in modo paragonabile) e persino agli altri asiatici pone il problema del razzismo dei giapponesi e del loro rapporto di «amore-odio» con il paese che aveva introdotto l'arcipelago nipponico nella storia della civiltà. Un altro punto da considerare riguarda il processo decisionale (relazioni tra potere civile e pote­ re militare e tra le fazioni presenti nell'esercito; ruolo dell'Impera­ tore 122, della sua famiglia e del suo seguito). Non mancheremo di approfondire questi aspetti nel corso dei capitoli seguenti. Nel caso di Nanchino, insisteremo comunque su spiegazioni «a breve termine>>: esse permettono perlomeno di capire ciò che

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l'evento ha (verosimilmente) avuto di eccezionale nell'ambito di quel lungo conflitto durato otto anni, peraltro ricco di ogni sorta di atrocità. Matsui è una delle chiavi per farsi un'idea corretta di quanto successe: era vicino alla pensione e l'impresa doveva es­ sere la sua ultima campagna. D'altra parte, aveva nemici sia pres­ so lo stato maggiore di Tokyo che tra i suoi subordinati (Nakaji­ ma in particolare). Poiché in lui erano ancora freschi, come nella maggior parte dei giapponesi, i ricordi delle facili vittorie ottenu­ te dal 1894 in poi contro i cinesi e non avendo appreso completa­ mente la lezione rappresentata dai duri scontri di Shànghai, cre­ dette possibile una campagna breve e decisiva che, grazie alla sottomissione nel giro di pochi mesi di Chiang Kai-shek, gli avrebbe procurato gloria duratura. La trappola in cui il leader ci­ nese aveva rinserrato le migliori truppe di cui ancora disponeva (Nanchino, chiusa su tre lati dalle anse del Yangtze ma aperta al mare, dunque alle forze giapponesi . . . ) avrebbe tentato qualun­ que stratega. Esisteva, a quanto pareva, la possibilità di schiac­ ciare le truppe cinesi, dalle quali, dopo Shànghai, ci si attendeva come un fatto scontato una strenua resistenza. Tuttavia, la loro ca­ pitolazione senza quasi combattere, avvenuta il 13 dicembre, fru­ strò i desideri di Matsui, che aveva programmato di annientare il nemico in battaglia. Inoltre, dal momento che i giapponesi non avevano elaborato alcun progetto per internare, sostentare ed eventualmente utilizzare in qualche modo una tale quantità di prigionieri di guerra, troppo grande fu la tentazione di annienta­ re il nemico dopo la battaglia, il che oltretutto offriva il vantaggio di provocare diserzioni di massa nell'esercito cinese, ormai de­ moralizzato e terrorizzato. In merito a questa prospettiva Matsui era sicuro di ricevere il sostegno entusiasta di Nakajima e degli ufficiali radicali. Le atrocità perpetrate ai danni dei civili richiedono una spie­ gazione diversa. L'esercito giapponese era sempre stato debole dal punto di vista logistico, e la rapidità dell'offensiva aveva spesso impedito all'intendenza di seguire le truppe, alle quali erano richiesti enormi sforzi, che spesso le spingevano sull'orlo dello sfinimento e della fame. Gli ufficiali avevano pensato bene

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di agitare davanti ai propri uomini la carota del cibo e delle don­ ne, di cui avrebbero goduto in abbondanza nelle città conquista­ te: le unità più meritevoli avevano il privilegio di entrarvi e di «servirsi» per prime. Si era affermata l'abitudine di vivere nelle campagne, e le strade che procedevano verso Nanchino divenne­ ro veri e propri calvari per i civili cinesi depredati, violentati, uc­ cisi. Si comprende quindi il lassismo criminale degli ufficiali di fronte a una preda prestigiosa come la capitale. Anche in questo caso vi era un vantaggio accessorio: terrorizzare la popolazione di una città dal così alto valore simbolico avrebbe insegnato agli altri cinesi a stare al proprio posto, ponendo un freno alla loro in­ solenza e alla loro «mancanza di sincerità» tanto spesso denun­ ciate dalla propaganda nipponica. Similmente, in URSS, nel 1941, proprio nel momento in cui i tedeschi erano convinti di ottenere un successo in tempi rapidi, la loro violenza raggiunse livelli inauditi, in particolare nei confronti dei prigionieri di guerra. Sebbene ciò appaia contrario al senso comune, individui sicuri di sé possono comportarsi assai peggio di disperati che non hanno più nulla da perdere.

Il processo: una tragedia fondante Fino al 1946 l'episodio di Nanchino, che impresse una mac­ chia indelebile sull'impresa giapponese in Cina e smentì, prima ancora che fossero coniati, gli slogan sulla «liberazione dell'A­ sia» all'insegna dei quali i giapponesi avrebbero agito in seguito, fu noto ai giapponesi soltanto come uno dei loro trionfi. Grande fu dunque lo choc quando, il 26 luglio di quell'anno, il coraggio­ so chirurgo Robert Wilson, il primo testimone a essere ascoltato dall'IMTFE (International Military Tribunal for the Far East), presentò il proprio resoconto sulle atrocità, al quale i giornali giapponesi dedicarono titoli cubitali. Gli orrori di Nanchino ri­ vestono dunque molta importanza, perché hanno aiutato gran parte dei giapponesi a prendere coscienza di ciò che era stato il conflitto; inoltre, hanno contribuito alla fissazione del nuovo di­ ritto internazionale a proposito della guerra e della violenza, quale è emerso dai processi di Norimberga e di Tokyo 1 23• Due dei

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sette condannati a morte in occasione del procedimento svoltosi in Giappone si sono visti comminare la pena capitale sulla base del ruolo da essi avuto nelle atrocità di Nanchino 124• Eppure, se­ condo il tribunale, nessuno aveva direttamente le mani sporche di sangue (il che, per Matsui, è discutibile). Le motivazioni dei verdetti evidenziano il processo di trasformazione del concetto di responsabilità. [Nel caso di Matsui] il Tribunale è convinto che [questi] fosse al cor­ rente di ciò che avveniva. Non fece nulla, o perlomeno nulla di ef­ ficace per impedire tali orrori [ . . ] . A sua giustificazione è stato det­ to che in quel momento era malato. Tuttavia, la sua malattia non era sufficientemente grave da impedirgli di condurre energicamente le operazioni militari né di soggiornare per più giorni in città nel bel mezzo delle atrocità, di cui era evidentemente a conoscenza. Egli aveva il potere e il dovere di frenare le proprie truppe e di proteg­ gere gli sventurati abitanti di Nanchino. Deve pertanto essere rite­ nuto responsabile di non aver adempiuto a tale dovere. 125 .

[Per quanto concerne invece Hirota] non c'è prova che abbia ordi­ nato, autorizzato o ammesso i crimini di guerra. [ . . . ] Nella sua qua­ lità di ministro degli Esteri ricevette rapporti riguardo a quelle atro­ cità immediatamente dopo l'entrata delle forze giapponesi a Nan­ chino. Stando alle prove avanzate dalla Difesa, a detti rapporti fu dato credito, e l'argomento fu discusso con il Ministero della Guer­ ra, il quale assicurò che le efferatezze sarebbero cessate. Tuttavia, dopo che tali assicurazioni erano state formulate, per almeno un mese continuarono ancora ad affluire rapporti riguardo alle atrocità. Il Tribunale ritiene che Hirota sia stato negligente nel compiere il proprio dovere, non insistendo a sufficienza davanti al Gabinetto af­ finché fossero prese misure immediate onde porre fine alle atrocità, in mancanza di qualunque altra opzione che potesse far pervenire allo stesso risultato. Egli si è accontentato di assicurazioni che sape­ va essere puramente formali, mentre centinaia di uccisioni, di stupri e di altri gravi crimini erano commessi su base quotidiana. La sua inazione è comparabile a una criminale negligenza. 126

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Citato in Arnold C. Brackman, The Other Nuremberg: The Untold Story of the Tokyo War Crimes Trials, William Morrow, New York 1987, p . 174.

2 Basic Books (USA), 1997; edizione qui utilizzata: Penguin Books, London 1998 (ed. it. Lo stupro di Nanchino. L'olocausto dimenticato della seconda guer­ ra mondiale, Corbaccio, Milano 2000). 3 Il paragone è a volte esplicitato: per esempio, già a p. 5, i morti di N an­ chino sono messi in relazione con i 6 milioni di ebrei assassinati, «ma quei morti sono il prodotto di vari anni di atrocità». 4 Non del tutto da Iris Chang, che ne fa menzione alle pp. 211-213, ma insi­ ste soprattutto su quanto sia difficile dire la verità in Giappone. Più che ser­ virsi dei lavori che pur cita con toni elogiativi (è questo il caso degli studi di Honda Katsuichi), la Chang ne deforma il significato. 5 Iris Chang non ignora questo fatto, dal momento che ne parla alle pp. 172-175 del suo libro. Ella cita uno dei migliori resoconti, ovvero quello dovuto a Brackman, The Other Nuremberg cit., dove un intero capitolo (20 pagine su 400) è dedicato a Nanchino e reca già il titolo di Holocaust in Chi­ na (come si vede, dunque, il paragone non è nuovo). Personalmente, ho dedicato all'episodio molto spazio in un'opera apparsa nel 1992 in Guy Richard (a cura di), L'histoire inhumaine: massacres et génocides des origines à nos jours, Armand Colin, Paris (vedi il capitolo: Massacres asiatiques). 6 Thought and Behaviour Patterns of Japan's Wartime Leaders, tradotto e ripre­ so in Maruyama Masao, Thought and Behaviour in Modern Japanese Politics, Oxford University Press, London 1963, p. 95. 7 Riprendo qui il titolo del bel libro di Jean-Michel Chaumont, La concur­ rence des victimes: génocide, identité, reconnaissance, La Découverte, Paris 1997. 8 Per esempio, nel libro di Shuhsi Hsu, A New Digest of Japanese War Con­ duct, Kelly and Walsh Limited, Shànghài-Hong Kong-Singapore 1941, pubblicato con gli auspici del Consiglio degli affari internazionali del go­ verno cinese di guerra di Ch6ngqìng, al dramma di Nanchino è accorda­ to un posto di rilievo, ma occupa una quarantina di pagine su 273, ovve­ ro è messo sostanzialmente alla pari con Shànghai. Il piano dell'opera non pone in risalto la capitale, poiché è strutturato per temi: ai giapponesi so­ no rimproverate due serie di crimini. I fatti di Nanchino rientrano in otto di esse, ma insieme ad altre città (da tre a sedici secondo i casi) e sono al primo posto in quattro casi soltanto. Ci si potrebbe stupire del fatto che un'opera di questo tipo abbia potuto essere pubblicata a Shànghill nel pie­ no dell'occupazione giapponese, la quale, però, fino allo scoppio della guerra del Pacifico, non concerneva le concessioni straniere: per ironia

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della storia, questi emblematici affronti alla sovranità nazionale cinese funzionarono, tra il 1937 e la fine del 1941, come veri e propri santuari del­ l'anti-imperialismo cinese (compreso quello di matrice comunista), ormai interamente schierato contro il Giappone. Cfr. Marie-Claire Bergère, Hi­ stoire de Shanghai, Fayard, Paris 2002, pp. 321-323. 9 Vengono in mente, a questo proposito, le spiegazioni dominanti date al Terrore dell'anno II fino a François Furet (per esempio, quelle che si tro­ vano nei manuali scolastici francesi dell'epoca), o a quelle date alla vio­ lenza bolscevica fino ai lavori di Dorninique Co las e Nicolas Werth (in par­ ticolare in Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Margolin et al., Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 1998). 1 0 Citato in Yamamoto Masahiro, Nanking: Anatomy of an Atrocity, Praeger, Westport (Connecticut) - London 2000, p. 58. Questo libro, derivato da una tesi sostenuta negli Stati Uniti, è probabilmente a tutt'oggi il più comple­ to e il meglio documentato sulla questione. L'autore, un giovane storico giapponese che insegna negli Stati Uniti, è a maggior ragione credibile quando fornisce numerose informazioni sconcertanti sull'esercito perché - come egli stesso ammette - ha sviluppato una forma di revisionismo moderato, caratterizzato da un forte desiderio di «comprensione» dei cri­ mini del suo paese, che lo porta a relativizzarli. 11 È sconcertante il confronto con il comportamento dell'esercito tedesco in URSS a partire dal 1941, del quale rende conto Omer Bartov in L'Armée d'Hitler, Hachette Littératures, Paris 1999 (ed. it. L'esercito di Hitler. Soldati nazisti e guerra nel Terzo Reich, Swan, Milano 1997): vedi in particolare le pp. 190 e 222-227. 12 Peraltro l'autorizzazione fu concessa soltanto il 1 o dicembre. A dire il ve­ ro, per quella data si trattava ormai semplicemente di ufficializzare un fat­ to compiuto: Matsui aveva aggiunto il proprio nome alla lunga lista dei militari degli anni '30 i quali, in nome del patriottismo e della fedeltà al­ l'Imperatore, ritenevano di avere il diritto di non rispettare la gerarchia e di fare a meno del potere civile. L'insistenza di alcuni storici - di Iris Chang in particolare - nel voler dipingere Matsui come un «buon genera­ le» ingannato da qualche «cattivo subordinato» è del tutto arbitraria. In realtà, come ha dimostrato Herbert P. Bix (Hirohito and the Making of Mo­ dern Japan, Harper Collins, London 2000), dal febbraio del 1936 al luglio del 1945 nella élite al potere regna un consenso pressoché unanime per quanto concerne le scelte strategiche fondamentali, ovvero l'espansioni­ smo, il ricorso alla forza per eliminare qualunque ostacolo, la mobilitazio­ ne totale della popolazione e delle risorse per ottenere i risultati desidera-

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ti. Per il resto, come abbiamo detto nel capitolo 3, le divergenze (talvolta violente, e dalle pesanti conseguenze) si spiegano soprattutto con l'appar­ tenenza a questa o quella struttura (per esempio l'esercito o la marina); le posizioni dei vari dirigenti rispetto al centro del potere possono cambiare, soprattutto in funzione della situazione del momento (è questo il caso di Konoe, primo ministro oltranzista, ideologicamente vicino al fascismo nel 1938 e nel 1940, ma capofila delle colombe nel 1945). In ogni caso, volere a ogni costo distinguere all'interno di questa élite «moderati» ed «estremi­ sti» (tipico difetto dei giornalisti e di quelli che a loro si ispirano, in ogni tempo e in ogni luogo) significa dare una lettura assolutamente illusoria di realtà al tempo stesso più semplici e più complesse. 13 I revisionisti giapponesi enfatizzano grandemente questo episodio, per relativizzare la politica di incendi sistematici perseguita dai loro compa­ trioti (vedi più avanti). 14 0ggi conservati al museo nazionale del Palazzo, a Taib�i Shì (Taipei). 15 Chang, The Rape of Nanking cit., p. 100. 16 Erwin Wickert (a cura di), The Good German ofNanking: The Diaries of fohn Rabe, Abacus, London 2000. Il dato relativo alla popolazione è confermato altresì dalla stampa americana ( «New York Times» del 22 novembre e «Newsweek» del 6 dicembre in particolare), ben prima del 13 dicembre, mentre sul posto c'erano ancora giornalisti che potevano comunicare sen­ za problemi; cfr. Yamamoto, Nanking cit., p. 79, n. 110. 1 7 Citato in Honda Katsuichi, The Nanjing Massacre: a Japanese Journalist Confronts Japan 's National Shame, Penguin Books India, New Delhi 2000, p . 41 . 1 8 lvi, p. 62. 19 Hsu, A New Digest cit., p. 162. 20 Il fatto che un nazista abbia potuto dirigere un'operazione umanitaria a beneficio di una popolazione che non aveva nulla di «ariano», dando pro­ va di grande coraggio e di estrema generosità, non può mancare di sor­ prendere. Senza pretendere di risolvere completamente questo mistero, possiamo indicare qualche elemento che può contribuire a spiegarlo. In­ nanzitutto, occorre rammentare che nel 1937 il nazismo non si è ancora re­ so colpevole di alcun massacro di una certa entità, inoltre, l'antisemitismo (e, più in generale, il razzismo) non ha svolto un ruolo centrale nella con­ quista, da parte del movimento capeggiato da Hitler, dell'opinione pub­ blica tedesca (cfr. Oded Heilbronner, German or Nazi Antisemitism?, in Dan Stone [a cura di], The Historiography of the Holocaust, Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York 2004, pp. 9-23). D'altra parte, la persona più vicina

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a Rabe presso l'ambasciata tedesca è il segretario, il dottor Rosen, anch'e­ gli un nazionalsocialista. Ebbene, Rosen è ebreo: sarà presto radiato ed emigrerà in Inghilterra, prima di concludere la propria carriera come am­ basciatore della Repubblica Federale Tedesca. Un elemento ancora più im­ portante è rappresentato dalla scarsa conoscenza, da parte di Rabe, di ciò che sta accadendo in Germania, da dove manca fin dal 1930, cioè da ben prima dell'ascesa al potere di Hitler. Per lui, il Ftihrer è un «salvatore», e . il NSDAP è prima di ogni altra cosa il «partito dei lavoratori», sincera­ mente proteso al conseguimento del bene comune. D'altra parte, Rabe ri­ tiene utile appellarsi al cuore generoso del Capo: non ha dubbi riguardo al fatto che, una volta informato, egli non farà mancare il proprio aiuto agli sventurati cinesi . . . Le sue illusioni cominciano a infrangersi allorché, all'inizio del 1938, Berlino decide di sostenere Tokyo: il primo effetto pra­ tico di questa mossa è il ritiro di tutti i consiglieri militari presenti in Cina. Rabe rientra in Germania lo stesso anno, deciso a sensibilizzare i funzio­ nari e i dirigenti nazisti riguardo alla propria causa: ha qualche noia con la Gestapo, ma continua a lavorare per la Siemens. Le pagine dei suoi dia­ ri relative ai mesi di aprile e maggio del 1945 menzionano soltanto di sfug­ gita la morte di Hitler. 21 Infatti, prima del 13 dicembre, si temevano soprattutto eccessi da parte delle truppe cinesi in ritirata. Dai giapponesi, che avevano fama di essere un esercito disciplinato, ci si attendeva un rapido ritorno all'ordine. 22 11 CI, nel suo rapporto sull'attività datato al mese di aprile del 1938, pre­ cisa: «Si calcola che 250.000 persone siano penetrate nella Zona. Soltanto poche persone, probabilmente meno di 10.000, sono rimaste fuori. Di que­ sti rifugiati, 70.000 circa furono raccolti in venticinque grandi centri o "campi", alla gestione dei quali il Comitato internazionale cooperò, sia fornendo cibo e combustibili che occupandosi del lato organizzativo», ci­ tato in quella fonte davvero insostituibile rappresentata dalla cospicua raccolta (450 pagine) di testimonianze e di rapporti di membri del CI cu­ rata da Zhang Kaiyuan, Eyewitnesses to Massacre: American Missionaries Bear Witness to Japanese Atrocities in Nanjing, East Gate Book - M.E. Sharpe, Armonk (NY) 2001, p. 414. L'altra fonte importante proveniente dal CI è costituita dai taccuini di John Rabe, tradotti in inglese e pubblicati a cura di Erwin Wickert con il titolo The Good German of Nanking: The Diaries of fohn Rabe, Abacus, London 2000. In quest'opera, ai diari di Rabe sono ag­ giunti rapporti di altri membri tedeschi del CI (Christian Kroger ed Eduard Sperling), nonché importanti estratti di corrispondenza diploma­ tica tedesca.

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23 Ernest H. Forster, Diario, l 0 febbraio 1938, citato in Zhang, Eyewitnesses to Massacre cit., p. 143. 24 11 solo risultato decisamente positivo fu la concessione al CI di un pugno di guardie dell'ambasciata, che protessero efficacemente alcuni rifugi di profughi. 25 Lewis S. C. Smythe, War Damage in the Nanking Area, December 1937 to March 1 938: Urban and Rural Survey, Mercury Press, Shàngha.i 1938. 26 Citato in Yamamoto, Nanking cit., p. 97. 27 In una lettera privata che ricapitola dettagliatamente gli avvenimenti, dal 12 dicembre 1937 alla metà di marzo del 1938, Smythe annota, per il 24 dicembre: «Un altro [soldato] è giunto [all'ospedale della ZS] con una fe­ rita da mitragliatrice alla spalla destra. Assicura di aver fatto parte di un gruppo di circa 4000 uomini che furono fucilati sulla riva dello Yangtze il 16. Circa 30 sono sopravvissuti». Citato in Zhang, Eyewitnesses to Massacre cit., p. 272. 28John G. Magee, nel suo diario (note del 15 dicembre) narra il difficile sal­ vataggio di alcuni sventurati, con l'aiuto (sollecitato) di un ufficiale medi­ co giapponese; vedi Zhang, Eyewitnesses to Massacre cit., p. 170. 29 F. Tillman Durdin sul «New York Times», 9 gennaio 1938. 30 Ricordi di Suzuki Jiro, corrispondente del quotidiano di Tokyo «Nichi Nichi», citati nel sito http : / /www.nankingatrocities.net/ . Non c'è nean­ che bisogno di dire che questo tipo di reportage non avrebbe avuto alcu­ na chance di essere pubblicato sui giornali giapponesi, pieni di articoli che descrivevano la gioia dei cinesi all'idea di avere occupanti così magnani­ mi. Tuttavia, la censura non era priva di falle, come dimostra il caso dello scrittore Ishikawa Tatsuzèi, presente a Nanchino fin dal gennaio 1938 e ri­ cordato nel cap. 3 del presente volume. 31 A Nanchino, in quel dicembre, nevicò. 32 Citato in Yamamoto, Nanking cit., p. 108. 33 lvi, p. 93. 34 lvi, p. 46. 35 lvi, p. 46-48 36 F. Tillman Durdin, sul «New York Times» del 9 gennaio del 1938, aveva valutato la consistenza della guarnigione in soli 50.000 uomini, cifra spes­ so ripresa in seguito, ma che pare fondata su un errore a proposito del to­ tale degli effettivi delle divisioni cinesi (che Durdin ritiene siano stati di­ mezzati durante la battaglia di Nanchino). 37 lvi, p. 84. 38 I membri del CI forniscono parecchie indicazioni a questo riguardo. Per

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esempio Rabe (in Wickert, The Good German cit., p. 262), in occasione del­ la sua partenza da Shànghai verso la fine di febbraio del 1938, riuscì a or­ ganizzare la fuga del capitano Huang Kuànghàn, dell'aviazione cinese, che si faceva passare per il suo domestico e si nascondeva da due mesi presso la residenza di Rabe. 39 Ci riferiamo in particolare al massacro l ai massacri del monte Mufu, presso Nanchino. Il racconto preparato dai responsabili del Gu6mindang nel 1946, in vista del processo ai responsabili, ne cita due distinti, entram­ bi giganteschi (uno sarebbe stato formato da addirittura 100.000 vittime, cifra di per sé inverosimile). In effetti, sembra che i due luoghi distinti (ma vicini) menzionati corrispondano rispettivamente al posto in cui i prigio­ nieri sono stati catturati e a quello dove sono stati trucidati. 40 Non si trattava di unità specializzate nell'assassinio di massa. Nell'eser­ cito giapponese non esisteva un equivalente dell'Einsatzkommando o del­ le SS. 41 Queste statistiche sono riprese integralmente in Yamamoto, Nanking cit., appendici B e C, pp. 295-302. 42 I sintomi del soffocamento da folla possono assomigliare a quelli dell'a­ sfissia provocata dai gas, da qualcuno tirati in ballo senza prove. 43 }ohn Rabe, Quaderni, 31 gennaio 1938, in Wickert, The Good German cit., p. 221 . 44 9 L'isolamento implicava al tempo stesso un approvvigionamento irrego­ lare, razioni ridotte, alimenti talvolta in decomposizione, ma anche la dif­ ficoltà di trovare un'integrazione alimentare presso le scarse popolazioni loc ali; la conseguenza era una crescita dei prezzi al mercato nero. 60 Daws, Prisoners of the Japanese cit., pp. 1 77-179. 61 Kooy, Survivant cit., p. 140. 62 «Più» in malese. 63 Tim Bowden, Changi Photographer: George Aspinall's Record ofCaptivity, Ti­ mes Editions-Marshall Cavendish, Singapore 2005, p. 115. 64 In Haruko T. Cook, Theodore F. Cook, Japan at War, The New Press, New York 1992, p. 116. Si noti il rancore nei confronti degli ufficiali alleati: vi si vede il ricordo del processo a Kasayama, durante il quale gli ufficiali te­ stimoniarono in numero maggiore rispetto ai soldati semplici. 65 N elson, Beyond Slogans, in Hack, Blackburn, Proceedings and Papers cit., pp . 325-326. 66 Checkland, Humanitarianism cit., p. 139. 67 Fujita, Foo cit., p. 310. 68 Il giorno del lancio dell'atomica su Hiroshima. Niente, allora, nell'atteg­ giamento dei giapponesi, indicava un qualunque allentamento della terri­ bile pressione esercitata sulle loro vittime. 69 Checkland, Humanitarianism ci t., pp. 139-143. 70 Linda Goetz Holmes, Mitsui: « We Will Send You to Omuta», in Li (a cura di), Japanese War Crimes cit., pp. 110-111. 71 Questa è la ragione per cui ce ne sono pervenuti così pochi: quello di Frank Fujita, corredato di disegni estremamente precisi, costituisce un do­ cumento eccezionale. 72 e «Sfera di co-povertà>>. In effetti, gli occu­ panti nipponici non fecero altro che sostituirsi agli antichi padro­ ni occidentali, di cui assunsero le abitudini più discutibili, quali il disprezzo per le culture diverse dalla propria, la politica del «di­ vide et impera>> (peraltro da tempo perseguita dai nipponici in Cina), il razzismo e, naturalmente, la violenza in caso di resisten­ za (come in Cina o nelle Filippine). Nelle colonie occidentali con­ quistate rimisero invariabilmente in funzione le amministrazioni che avevano trovato al loro arrivo, accontentandosi di sostituire i dirigenti «bianchi» con giapponesi o collaborazionisti di fiducia. Nell'insieme, il loro apporto consistette in una originale grande incompetenza, alla quale cercavano di ovviare attraverso una cre­ scente brutalità, e nell'interruzione degli scambi che avevano contribuito alla prosperità di regioni come la Malesia o la Cocin­ cina (ma di ciò non erano i soli responsabili). Lasciarono dunque dietro di sé pochi rimpianti e molta mise­ ria. Tuttavia, quando la sconfitta era ormai all'orizzonte, tentaro­ no di accattivarsi i popoli che pretendevano di aver liberato pro­ mettendo o accordando loro l'indipendenza (questa fu la politica adottata in Birmania, nelle Filippine, in Indonesia e in Indocina) . Così facendo - e anche grazie al fatto che tra la capitolazione nip ­ ponica e l'arrivo delle truppe alleate vi fu spesso un periodo di «interregno» della durata di parecchie settimane - i giapponesi innescarono il processo di decolonizzazione; inoltre, contribuiro­ no a screditare il regime del Gu6mindang a vantaggio dei comu­ nisti cinesi, anche se questo risultato certamente non fu voluto. Diverse migliaia di soldati dell'esercito imperiale (tra cui molti

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estremisti di destra) si spinsero oltre: per ostilità nei confronti de­ gli occidentali o per semplice gusto della lotta, dopo il 15 agosto pre ferirono continuare a combattere a fianco dei vari movimenti naz ionali asiatici, persino di quelli diretti dai comunisti; grazie al­ le loro competenze svolsero un ruolo decisivo nella formazione delle prime unità armate di movimenti come il Viet Minh. L' oc­ cupazione giapponese non lasciò dunque intatta l'Asia. Essa fu, sul lungo termine, responsabile sia della sua emancipazione che della sua parziale comunistizzazione. Nell'immediato, tuttavia, instaurò sul piano economico e sociale un regime di sfruttamen­ to e oppressione di rara violenza. Una

nuova suddivisione internazionale del lavoro ?

Come molti altri paesi, il Giappone aveva tratto dalla crisi del 1929 la conclusione che un solido blocco semi-autarchico, co­ struito intorno a una moneta comune, rappresentasse il solo ri­ medio durevole al crollo del commercio internazionale. In questo contesto, nel 1931 aveva intrapreso una nuova espansione impe­ r ialista, concepita di primo acchito come la trasformazione di va­ ste regioni in satelliti dipendenti dalla propria economia metro­ politana. Già nel 1930 Ishiwara Kanji (vedi il cap. 3) lo dice chia­ ramente: Le quattro razze del Giappone, della Cina, della Corea e della Man­ ciuria devono partecipare alla prosperità comune attraverso una suddivisione delle responsabilità: ai giapponesi spetta la direzione politica e l'industria pesante; ai cinesi sono affidate la manodope­ ra e l'industria leggera; ai coreani la produzione di riso e ai manciù l'allevamento. 3

A lla lista furono in seguito aggiunti i mongoli, e la propagan­ da sul Manchukuo esaltò l'«armonia delle cinque razze». Era co­ munque chiaro che esse non sarebbero state poste sullo stesso p i an o: la gerarchia era al centro della visione nipponica del mon-

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do e in cima a essa, naturalmente, stavano il Giappone e il suo Imperatore. Quando il Sol Levante si lanciò alla conquista dell'Asia sudo­ rientale non pensava affatto di «emancipare» i popoli che vi ri­ siedevano. Durante la conferenza imperiale del l o dicembre 1941, alla vigilia dell'entrata in guerra, il ministro delle Finanze dichiarò: In passato, le terre del Sud che saranno teatro di importanti opera­ zioni militari importavano una quantità considerevole di beni: quando le avremo occupate, tali importazioni cesseranno. Di con­ seguenza, per permettere alle loro economie di funzionare normal­ mente, dovremmo fornir loro i beni di cui hanno bisogno; tuttavia, il nostro paese non dispone delle necessarie riserve. Quindi, per un tempo abbastanza lungo, saremo nell'impossibilità di occuparci del livello di vita di quei popoli. Va anche precisato che, se anche emetteremo certificati militari e altre forme di moneta per procu­ rarci beni e manodopera, sarà difficile preservare il loro valore. Tutto considerato, in quelle zone sarà indispensabile adottare per quanto possibile una politica di autosufficienza, in modo da limi­ tare le nostre forniture al minimo necessario per ottenere manodo­ pera, senza prestare attenzione al declino del valore della carta mo­ neta né alla dislocazione economica che ne deriverà. 4

Su questo aspetto l'accordo tra autorità civili e militari era to­ tale. Il vademecum contenente le istruzioni per l' amministrazio­ ne militare dell'Asia sudorientale, preparato tra febbraio e marzo del 1941, era assai chiaro: «Lo scopo principale è ottenere risorse, permettendo, ove possibile, alla popolazione dei territori occupa­ ti di mantenere un tenore di vita sufficiente» 5• Le autorità occupanti seguirono alla lettera una politica che, come minimo, non aveva tra i suoi obiettivi principali il benes­ sere delle popolazioni delle regioni occupate. La situazione, lun­ gi dal migliorare con il tempo, come aveva lasciato intendere il ministro, mostrò un progressivo e costante deterioramento, che subì una forte accelerazione tra il 1944 e il 1945 . Infatti, in quel

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p e rio do, alle difficoltà previste se ne aggiunse un'altra, inaspet­ ta ta, ovvero l'interruzione quasi totale dei trasporti marittimi (gli unici che collegassero quella vasta area) sotto i colpi degli Al­ leati. Il Giappone, in difficoltà, cessò di importare i pochi pro­ dotti di cui aveva mantenuto o stimolato la produzione (petrolio, minerali, carbone). Per le popolazioni locali, che non ricevettero p iù nulla, non vendettero più le proprie mercanzie e non potero­ no nemmeno più comunicare all'interno dello stesso paese (il Tonchino con la Cocincina, Giava con il resto dell'Indonesia . . . ), il disastro fu totale. Il caso del petrolio delle Indie olandesi 6 - obiettivo militare es­ senziale nel 1941 - è emblematico. Bisognava innanzitutto ripa­ rare i grossi guasti causati dagli olandesi e trovare un numero sufficiente di specialisti: la produzione, che nel 1940 ammontava a 65 milioni di barili all'anno, nel 1943 arrivava stentatamente a 50 milioni di barili, di cui solo 15 milioni raggiunsero il Giappo­ ne (5 milioni l'anno successivo). Le esportazioni di minerali di ferro dalle Filippine verso il Giappone sprofondarono a un deci­ mo del livello d'anteguerra; quelle di riso (proveniente dalla Bir­ mania, dalla Thailandia e dalla Cocincina) passarono da 1,4 mi­ lioni di tonnellate nel 1942 a 74.000 tonnellate nel 1944. Inoltre, il surplus della Cocincina non poteva nemmeno giungere al Ton­ chino, che sprofondava nella penuria 7• L'industrializzazione avrebbe costituito un rimedio, ma, per un classico riflesso colo­ niale, il Giappone non voleva alcuna concorrenza alle proprie esportazioni. Alla fine, in ogni caso, furono sviluppati i cantieri navali, al servizio dello sforzo bellico. Ancora prima della paralisi dei trasporti, i giapponesi, con il pretesto dell'applicazione del principio di autosufficienza, si era­ no impegnati nella distruzione di rotte di commercio vecchie di sec oli, che mettevano in relazione aree complementari molto pri­ ma dell'arrivo del primo colonizzatore. Per esempio, l'Indonesia fu divis a in tre grandi distretti, ognuno dei quali doveva pratica­ re l'autarchia, come tutte le altre zone in cui erano state suddivi­ se quelle regioni. Le corvée e il lavoro forzato erano organizzati es senzia lmente su scala locale. Si voleva fare in modo che ogni

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guarnigione giapponese potesse vivere a spese del territorio in cui era stanziata e che solo il Giappone fosse in grado di accede­ re alle risorse, riservando per quanto possibile la rete dei traspor­ ti per i propri bisogni 8 • Ciò produsse, con l'esaurimento delle scorte, una terribile penuria di beni di consumo nelle aree defici­ tarie (come, per esempio, nell'isola di Madura o in Malesia, che negli anni '30 importava i due terzi del proprio fabbisogno di ri­ so), una caduta della produzione e disoccupazione nelle aree ec­ cedentarie, nonché la proliferazione del «contrabbando» tra le di­ verse zone, con la repressione che ne derivava . . . A Giava l'im­ portante produzione di zucchero crollò per mancanza di clienti esterni: da 1 .300.000 tonnellate nel 1942 passò a 84.000 tonnellate nel 1945 9; si trattava della principale fonte di introiti monetari per contadini che sopravvivevano, peraltro faticosamente, grazie ai loro minuscoli appezzamenti. Gli occupanti li costrinsero allo stesso tempo ad adibire una parte delle loro risaie alla coltivazio­ ne di prodotti tessili (per esempio, la produzione di cotone, qua­ si inesistente prima della guerra, poteva contare su 127.000 ettari di terreno nel 1945) e i loro terreni coltivati a manioca dovettero lasciare il posto a piante oleaginose, da cui si tentò di ricavare lu­ brificanti per l'aviazione e un surrogato del cherosene 10 • Più ancora delle altre potenze coloniali, il Giappone diffidò degli autoctoni e fu restio a delegare loro la benché minima fetta di autorità. D'altra parte, poiché il Giappone dal 1880 agli anni '30 era stato uno dei paesi a più forte emigrazione (e di ciò spes­ so oggi ci si dimentica), la riorganizzazione dell'Asia orientale per il suo profitto fu operata grazie a numerosissimi civili nippo­ nici, un tempo residenti in quei territori e ritornati sui camion dell'esercito, spediti dalle loro ditte o animati dal desiderio di tentare per proprio conto la fortuna. Non possediamo una stati­ stica globale; in ogni caso, dopo il 1945 circa 3 milioni di giappo­ nesi furono costretti a tornare nell'arcipelago: l'esodo interessò in particolare la Corea e Taiwan, ma centinaia di migliaia di cittadi­ ni del Sol Levante furono cacciati dai paesi occupati (dalla Cina e dalla Manduria in primo luogo) 11 • Si contarono fino a 100.000 giapponesi a Shànghai e 20.000 a Nanchino, molti più di quanti

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furon o in ogni epoca gli occidentali 12 • Nel febbraio del 1944, al­ rneno 160.000 taiwanesi (su un totale di 5 milioni) si trovavano al­ l 'estero, in gran parte, è pur vero, come impiegati dell'esercito 13• 1 coreani erano ancora più numerosi, in particolar modo in Cina: c i torneremo sopra. Gli zaibatsu nipponici, da parte loro, si preci­ p itarono nella breccia aperta dalla caduta degli occidentali e si ac­ caparrarono il grosso dei settori industriale e minerario. La Mit­ sui da sola rappresentò un quinto degli investimenti giapponesi del tempo di guerra nel Sudest asiatico. Il primo investitore, tut­ tavia, con il 40% del totale, fu la Banca di sviluppo della regione del Sud, strettamente legata all'esercito 14• Per evitare effetti mo­ nopo listici, l'estrazione o la commercializzazione di ogni materia prima era affidata a due operatori principali. In linea di massima, le emissioni di certificati d'acquisto dell'esercito dovevano essere garantiti sui beni confiscati al nemico, in modo da non creare in­ flazione. Tuttavia, abbiamo visto cosa ne pensava il Ministero delle Finanze nipponico 15 • • • La sola cosa che contasse era l'efficienza. Con gran costerna­ zione dei nazionalisti radicali (gli stessi che talvolta avevano agi­ to come «quinta colonna)) dell'impero), le strutture amministrati­ ve e giuridiche furono modificate ben poco, e gli agenti autocto­ ni più zelanti al servizio dei vecchi colonizzatori furono invitati a servire i nuovi padroni: si trattava in alcuni casi di una promo­ zione obbligata, dal momento che in genere gli occidentali erano stati, loro sì, eliminati. L'innovazione più radicale fu il tentativo (poco riuscito, probabilmente per mancanza di tempo) di sosti­ tuire al francese, all'inglese e al neerlandese il nihon-go. Il procla­ m a del comandante in capo giapponese in Indocina seguito al colp o di mano del 9 marzo è eloquente: L'organizzazione amministrativa, le leggi e i regolamenti in vigore devono essere riformati, ma se li accantoniamo prima di aver rea­ lizzato le modifiche previste provocheremo immediatamente l'in­ terruzione del funzionamento della macchina amministrativa del­ l'In docina, alimentando disordini e caos, con grave danno per la si­ curezza della popolazione. [ . ] Pertanto, i funzionari e i notabili . .

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che fanno il proprio dovere con lealtà e si conformano allo spirito dell'esercito giapponese, nonché la popolazione locale, sia autoc� tona che francese, che coopera con loro, sono tutti considerati col� laboratori dell'esercito giapponese, che si prodiga per costruire la nuova Indocina. 16

Coerentemente con queste affermazioni, i giapponesi vietare� no al principe Cuong De (1882-1951), acerrimo nemico dei fran� cesi, nippofilo da sempre e in esilio a Tokyo, di rientrare nel pae� se, preferendogli l'imperatore Bao Dai (1913�1997), assai più malleabile.

Le molte facce del saccheggio e dell'accaparramento Come gli eserciti europei dell' Ancien Régime, le forze impe� riali non trovavano affatto anormale sostentarsi a spese del paese in cui stazionavano. Durante la marcia su Nanchino, il generale Matsui annotò nel suo diario (20 novembre 1937) : «Non dobbia� mo preoccuparci delle vettovaglie, nonostante la mancanza di rifornimenti, poiché nelle zone in cui operano le truppe il riso è abbondante» 1 7 • La X Armata, ancora prima di sbarcare (il 5 no­ vembre), aveva previsto di utilizzare i supporti logistici soltanto per il trasporto delle munizioni. Per il resto, non c'erano proble� mi: «Fortunatamente, tenendo conto delle vaste risorse disponi­ bili nella regione, l'approvvigionamento di cibo è stato general­ mente soddisfacente» 18, nota il rapporto ufficiale della 16a Divi­ sione. Dal momento che mancavano mezzi di trasporto, ci si im­ padronì di tutto ciò che era dotato di ruote, compresi i risciò e i passeggini per bambini. Talvolta furono requisiti persino letti e giradischi 1 9• Naturalmente, ci si impadronì di un gran numero di persone, usate come portatori e coolie di ogni genere, il che creò una certa confusione. Il tenente Miyamoto Shogo, del 65° Reggi­ mento, la descrive in questi termini: «I nostri soldati che si servo­ no dei cinesi, con le loro vacche e i loro cavalli, sono talmente nu­ merosi che a volte ci scambiano per truppe cinesi» 20• Il generale

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Ya ma da ha in seguito precisato che quelle rapine erano compiu­ te s enza la minima autorizzazione e che talvolta i fucili serviva­ no come aste per trasportare i beni saccheggiati 21 ! Si noti che di fron te ad altre forme di trasgressione alla disciplina la gerarchia interveniva con estrema durezza, mentre tollerava il saccheggio generalizzato. La situazione non era migliore nel nord della Cina. Secondo un missionario: In un villaggio, l'esercito di passaggio ha bruciato le porte, le fine­

stre, i mobili, gli attrezzi per arare e altri oggetti; ha divorato o di­ strutto grandi quantità di grano, ha impedito di mietere e ha por­ tato con sé la maggior parte degli animali e dei carri. Ho visto ca­ se su case ridotte allo stato di gusci vuoti. Quando chiedevo agli abitanti se avessero maiali o galline scoppiavano a ridere, ma sem­ brava il riso di persone sull'orlo della follia. Per loro era ridicolo anche soltanto domandare se qualche gallina o qualche maiale fos­ sero sfuggiti agli invasori. 22

Quattro anni dopo, simili comportamenti sono attestati in Asia sudorientale. Li Guangyào, futuro primo ministro di Singa­ p o re , notò che i soldati fermavano i passanti per rubare loro oro­ l o gi o penne. Perquisivano le case con diversi pretesti, ma il loro v ero scopo era saccheggiarle. Si impadronirono delle migliori bi­ ciclette 23• A Timor (Indonesia), nel 1944, malgrado la miseria ge­ nera liz zata, i soldati «acquistarono» bufali dai contadini in cam­ bi o di certificati militari, pur sapendo che quei documenti non av ev a no ormai alcun valore. Di conseguenza, i contadini non po­ terono più coltivare adeguatamente i propri campi 24 • • • Negli ulti­ mi tempi del conflitto, nel nord di Luzon, Hajime Kusaka de­ scri sse così la partenza dell'unità che il suo gruppo era incaricato d i sostituire: In mancanza di camion, usavano vetture trainate da cavalli per tra­ sportare le loro cose, in mezzo alle quali notai una quantità di be­ ni domestici inconsueti per dei militari. Gli abitanti del villaggio

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andavano su e giù, indicando quegli oggetti e identificandoli come loro proprietà. I soldati giapponesi saccheggiavano il villaggio pri­ ma di abbandonarlo. Apprezzavano particolarmente le lampade e non ne lasciarono neanche una dietro di sé. 25

Era meglio lasciarsi depredare senza resistere: il gerente delle Molucche di una piantagione olandese situata a Halmahera (In­ donesia), il quale aveva nascosto i cavalli della cui custodia era responsabile, fu legato e seppellito fino al collo nella sabbia di una spiaggia; dopodichè fu abbandonato a morire 26 • Il saccheggio poteva anche assurgere a politica ufficiale. In tal caso, non prendeva di mira orologi o lampade. Nella città di Hànkou appena conquistata, venne rapidamente formata un' «Associazione per il mantenimento della pace», che sostituì l'amministrazione comunale ed emanò non meno di undici nuo­ ve imposte, tra le quali figuravano una tassa sulla carne e una tas­ sa sui ristoranti. Le banche cinesi della concessione francese furo­ no costrette a versare, sotto minaccia, 100.000 dollari per il so­ stentamento della guarnigione 27• L'arma del ricatto fu usata pres­ soché ovunque: a Singapore, subito dopo la conquista nipponica, venne costituita una Overseas Chinese Association (OCA), sotto la direzione di Lim Boon Keng, prestigioso intellettuale e alfiere del revival culturale cinese. Il suo primo compito consistette nel­ l'imporre alla propria comunità il pagamento di contributi che raggiungevano anche 1'8% del patrimonio individuale, nel caso in cui questo fosse superiore a 1000 dollari locali. In effetti, l'OCA doveva fornire una copertura a tutte le associazioni caritatevoli della comunità, finanziandole. Soprattutto, essa doveva versare agli occupanti, nel più breve tempo possibile, un'enorme inden­ nità di 50 milioni di dollari (che furono pagati il 25 giugno 1942) come «atto di contrizione» per l'opposizione dei cinesi di Singa­ pore al Giappone. Malgrado gli sforzi, l'OCA riuscì a raccogliere soltanto 28 milioni, e dovette farsi imprestare il rimanente della somma da una banca, ovviamente giapponese 28 • • • Allo stesso mo­ do, i cinesi delle Filippine, riuniti d'autorità in un'unica associa­ zione, si videro imporre un contributo di 24 milioni di pesos, il

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d op p io di quanto avevano inviato al governo cinese dopo il 1937. In un anno riuscirono a versare soltanto 10 milioni 29• Nei protet­ to rati britannici del Nord del Borneo la somma richiesta fu pari a 3 milioni di dollari, corrispondenti a circa 15 dollari a persona, ci­ fra considerevole se paragonata con l'imposta di capitazione del­ l 'anteguerra, che, con i suoi 6 dollari a testa, era stata abolita dal­ le autorità perché giudicata troppo esosa 30 • A Giava, unico territorio del Sudest asiatico che prima del 194 1 avesse avuto in parte le caratteristiche di una colonia di po­ p olamento europeo (cap . 8), il Dipartimento di controllo delle proprietà nemiche espropiò le società commerciali occidentali (maggio 1942). Nel mese di luglio fu il turno delle piantagioni (comprese quelle di proprietà di cittadini di paesi neutrali o ami­ ci), sequestrate da un nuovo organismo di confisca. Dal momen­ to che, teoricamente, non si trattava di un cambio di proprietà, non era previsto alcun indennizzo. Nel maggio del 1943, infine, fu costituito uno speciale ufficio preposto a occuparsi degli stock di materie prime e del capitale installato (macchinari, rotaie ecc.). La rete ferroviaria (locomotive comprese) fu parzialmente sman­ tellata (in Malesia in misura maggiore rispetto agli altri territori occupati) a vantaggio delle nuove linee strategiche, come la fer­ rovia Bangkok-Rangoon (cap. 7) . Per quanto riguarda i diamanti, usati, tra l'altro, nell'industria aeronautica, i mercanti e i possi­ denti autoctoni furono obbligati a cederli a prezzo stracciato per evitare di essere trattati come «nemici del Giappone». Quelli ap­ partenenti a stranieri furono posti sotto sequestro: si trattava del­ l ' ennesimo esproprio. Infine, numerosi lavoratori forzati giava­ nesi furono spediti nel Borneo e costretti a scavare, in condizioni terrib ili, nelle miniere di diamanti. Almeno fino al mese di no­ ve mb re del 1942, le unità militari giapponesi si impadronirono anche dei beni privati degli stranieri opportunamente internati, c o mp resi strumenti musicali e porcellane preziose. Per gli orga­ ni s mi u fficiali era estremamente difficile riuscire a condurre ispe­ z ion i all'interno dei loro depositi ben sorvegliatP1 • C ome nel caso dei diamanti in Indonesia, le autorità occupan­ ti t en ta rono di assicurarsi il riso filippino a prezzo bassissimo:

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elessero a proprio strumento la National Rice Growers Coopera­ tive Association (NARIC). A partire dal novembre del 1943, a questo organismo fu data carta bianca sia per fissare i prezzi d'ac­ quisto delle eccedenze che per stabilire quanta parte di raccolto i contadini sarebbero stati autorizzati a tenere per sé. Nella prima­ vera del 1944, la NARIC fu sostituita da una Rice and Com Ad­ ministration (RICOA), che rafforzò ulteriormente il potere di con­ trollo dell'esercito nipponico. A Manila, per esempio, i cereali di­ vennero inaccessibili ai poveri. Si sviluppò un intenso traffico: Era impressionante vedere treni stipati fino ai tetti dei vagoni, con la gente seduta che stringeva con grande cura i propri sacchi di ri­ so. La zona situata tra la stazione di Kalookan e via Tayuman era il ritrovo dei contrabbandieri. Quando il treno ripartiva da Kalookan in direzione di Manila, gli uomini rischiavano la vita saltando dal convoglio con il loro prezioso grano. Si sentiva una successione di suoni sordi, prodotti dai corpi e dai sacchi di riso che cadevano, mentre, lungo le strade, uomini, donne e bambini emaciati, affa­ mati e pallidi guardavano speranzosi quel riso di contrabbando. 32

Allo stesso modo, nella reggenza di Bogor, a Giava, i contadi­ ni erano costretti a consegnare a istituzioni pubbliche dal 40% al 75% del raccolto di riso, a seconda delle dimensioni della loro ri­ saia. Nella vicina reggenza di Banten la percentuale era del 75% per tutti 33• La situazione era perfino peggiore nella regione di Makassar (Sulawesi) : L'esercito imperiale sequestrava 1'80% del riso e delle verdure, si appropriava di quasi tutta la frutta ed esercitava uno stretto con­ trollo sulla produzione di latte. Ogni gallina doveva produrre un numero preciso di uova per i figli del Dai Nippon; se non si rag­ giungeva la quota desiderata i giapponesi infliggevano punizioni immediate e disumane. Di conseguenza, molti volatili furono col­ piti da malattie immaginarie e scomparvero dai kampung34 con i lo­ ro proprietari, che cercavano rifugio nelle foreste e sulle montagne, dove i giapponesi non potevano trovar li. 35

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terrore suscitato dal saccheggio e dalle relative violenze era ch tal e e, ancora nel febbraio del 1946, gli indigeni di Halmahera ( M olucche) non osavano uscire dai loro rifugi nella giungla, do­ v e, p eraltro, soffrivano la fame: infatti, sull'isola si trovavano an­ cora 65.000 prigionieri di guerra nipponici, che attendevano una n ave che li rimp atriasse 36 • I giap p onesi, militari e civili, consolidarono ovunque la p ro­ pria p resenza; essendo protetti dai loro concorrenti p iù pericolo­ si, costruirono senza difficoltà la propria preminenza economica. Era già successo dop o il 1931 a Ha'erb!n, dove, prima dell'occu­ pazione, il 58% del capitale industriale era detenuto da cinesi, il 33% da russi o ebrei e soltanto 1' 8 % da giapponesi. Gli ebrei era­ no attivi nel commercio di cereali e di legname. Tuttavia, già nel 1 9 34, i giapponesi controllavano l'intera produzione navale e si stavano imp adronendo del commercio di granaglie. Nel 1939 es­ si controllavano il 30% del commercio e si erano rafforzati nel campo dell'industria. L'emarginazione economica degli ebrei, ac­ compagnata da attacchi antisemiti in cui ebbero parte i fascisti russi 37 e la Kemp eitai, portò a un'emigrazione verso Tianjm e Shànghai: la comunità scese dai 13.000 membri del 1929 a 5000 nel l939 38 • A Canton (Guangdong), nel 1939, era impossibile com­ prare un p rodotto estero che non p rovenisse dal Giap pone, il quale controllava altresì l'intero traffico marittimo e favoriva le pro p rie esportazioni con l'aiuto di una tassazione discriminato­ ria. Una delle vie con più esercizi commerciali era ormai abitata solt anto da giapponesi. I grandi ristoranti avevano ancora clienti, ma costoro, come i proprietari, erano per lo più nip p onici 39• A Pe­ chi no - dove i cittadini del Sol Levante erano aumentati da 2000 (1 9 37) a 50.000 (1940) - «nella parte orientale della città, un tem­ po p rincipale zona di residenza degli stranieri, sembra ormai di es s e re a Ginza, con le insegne al neon che lampeggiano sopra i n eg ozi, le birrerie, i ristoranti, le case chiuse,_ e le bettole che po­ t rebb ero esser state trapiantate qui da Yoshiwara» 40• L a magg ior parte delle società appartenenti ad autoctoni non f� c onfis cata. Tuttavia, esse dovevano p artecipare allo sforzo bel­ b o de l Grande Giappone (Dai Nippon). Se erano di grosse die

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mensioni, venivano obbligatoriamente associate in modo da for­ mare cartelli detti kumiai, sistematicamente presieduti da uomini d'affari giapponesi (spesso quadri dei grandi zaibatsu dell'arcipe­ lago) e godevano di privilegi monopolistici. Questo sistema per­ metteva di trasformare in satelliti le società locali che coinvolge­ vano dei giapponesi. Costoro, peraltro, si limitarono spesso a re­ gistrare le proficue commesse dell'amministrazione o dell' eserci­ to: il 70% dei mercati pubblici in Indonesia era intercettato dagli zaibatsu e dalle altre grandi società nipponiche 41 • Per contro, i giapponesi nutrivano scarso interesse nei con­ fronti dell'agricoltura: infatti, lasciarono andare in malora la mag­ gior parte delle piantagioni, di cui ebbero bisogno soltanto in ra­ ri casi. Come già a Taiwan per la canna da zucchero 42 e in Corea per il riso, irreggimentarono i contadini senza cercare di espro­ priarli o di rimpiazzarli. Come abbiamo detto, il loro unico gran­ de progetto riguardava la produzione di fibre tessili: andarono incontro a un cocente fallimento. Un'eccezione è rappresentata dalla Manduria: sebbene anche in quella regione la maggior par­ te dei coloni, contro le previsioni, si fosse stabilita nelle città, va­ sti domini furono riservati ai piccoli agricoltori giapponesi (e tal­ volta coreani), incoraggiati a emigrare dall'arcipelago. Un impie­ gato dell'esercito, presente a Ha'erbm nel 1938, ricorda: Scoprii che le terre assegnate al corpo dei volontari e ai gruppi di coloni non erano soltanto spazi incolti, ma includevano molti cam­ pi già coltivati da contadini locali, che erano stati costretti a ven­ derli sotto minaccia. Si diceva che certi coltivatori espropriati aves­ sero formato bande di fuorilegge armati. 43

Gli eserciti di schiavi Non è raro che un paese in guerra sfrutti la forza lavoro dei territori che occupa. La Germania attuò questa politica su scala probabilmente persino più vasta del Giappone. Entrambi i paesi integrarono il lavoro forzato alla propria macchina economica ,

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s oltanto l'impero nipponico se ne servì massicciamente nelle p rop rie operazioni militari. L'esercito giapponese soffriva di gra­ v i ca renze logistiche; pertanto portatori, cuochi, lavandaie e ster­ ratori erano in larga misura arruolati presso le popolazioni loca­ li. Soprattutto in Cina, i giapponesi si trovarono ad avanzare cir­ condati da nugoli di civili, a volte più numerosi di loro. Nel suo famoso racconto, Ishikawa descrive la scena: ma

Nel corso della marcia perdemmo progressivamente molti dei no­ stri cavalli militari, che dovemmo rimpiazzare con cavalli cinesi o bufali acquatici. Contemporaneamente, eravamo circondati da un numero crescente di coolie cinesi. Era una scena strana: vedevamo dei cinesi che ci stavano aiutando ad attaccare Nanchino. Costoro, tenendo i bufali per la museruola, procedevano assai speditamen­ te, scalzi, indossando pantaloni neri fluttuanti foderati di ovatta. I soldati marciavano accanto a loro, fumando, e facevano riposare sulle loro spalle il gomito destro, quello del braccio che teneva il fucile. 44 I lavoratori forzati, comunque, furono in gran parte adibiti a c ompiti più classici, in particolare nel Sudest asiatico, dove ven­ nero impiegati soprattutto nei cantieri militari (ferrovie, aeropor­ ti, vie strategiche, porti ecc.), nelle miniere (in misura minore) e, ta l v olta, in grandi lavori agricoli, come la costruzione di canali di irri gazione. È difficile valutare il loro numero e azzardare qua­ l unque cifra sarebbe vano, perché la situazione non era dapper­ tutto la stessa. Per esempio, in molti casi, il lavoro forzato asso­ migliava al sistema delle corvée a lungo praticato nelle colonie: i co mpiti assegnati erano di breve durata e si svolgevano poco lon­ tan o da casa. Sebbene si tratti di un fenomeno poco studiato, pos­ sia mo ritenere che questo tipo di lavoro coatto sia stato più fune­ sto indirettamente che direttamente: esso infatti intralciava la cu­ r a d ei ca mpi e accelerò l'arrivo della carestia. In ogni caso, inte­ re s sò m asse gigantesche: 2.600.000 persone a Giava per il solo m e se di novembre del 1944 45• D'altra parte, alcuni milioni di la­ V or a t o r i - per Giava si è proposta la cifra di 270.000-300.000 per-

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sone - dovettero partire per recarsi in cantieri lontani, spesso si­ tuati oltremare, dove sarebbero rimasti per mesi o anni. Siamo di fronte a una via di mezzo tra il Servizio di lavoro obbligatorio (SLO) in vigore nella Germania nazista e i kommandos dei campi di concentramento, come confermano le deplorevoli condizioni di vita e l'altissimo tasso di mortalità. Parleremo più avanti della sorte dei lavoratori forzati in Giappone. La Manduria servì probabilmente da laboratorio per mettere alla prova il sistema. Nell'autunno del 1941 tutti i giovani non re­ clutati nell'esercito dovettero servire in un corpo nazionale del la­ voro. In tutto, fino al 1944, 2,56 milioni di mobilitati (tra cui era­ no assai numerosi i vecchi e i bambini, impiegati per colmare i vuoti) lavorarono in cambio di un salario fissato al minimo vita­ le, in condizioni peggiori di quelle familiari ai miseri coolie im­ portati dalla Cina settentrionale 46 : i contadini cinesi preferivano mendicare piuttosto che impiegarsi come coolie. La gestione del­ le persone mobilitate per lavorare (indispensabili sia nelle loro re­ gioni di appartenenza che nel Manchukuo) richiese una pesante organizzazione, considerevoli mezzi di trasporto e talvolta l'uso della coercizione. I lavoratori, scarsamente motivati, si rivelavano poco efficaci. Si giunse a un apparente paradosso: il lavoro ese­ guito sotto minaccia era tutto sommato abbastanza costoso in rapporto ai ricavi ottenuti 47• Metodi di mobilitazione analoghi furono introdotti nella pri­ mavera del 1942 nella Cina settentrionale. A essi si aggiunsero gli effetti della guerra, che continuava a imperversare: 80.000 milita­ ri cinesi prigionieri furono spediti in Manduria (il che, se non al­ tro, evitò loro di essere immediatamente massacrati), assieme a 80.000 civili rastrellati durante le operazioni sanko condotte tra il 1941 e il 1942 (cap. 6) 48 • Si può calcolare che i lavoratori forzati del nord della Cina, tra il 1941 e il 1945, fossero 3 milioni, almeno un terzo dei quali reclutato fuori da quella regione 49• Le persone che possiamo definire, come nel caso di Giava, ro­ mu sha 50, costituirono una sorta di esercito del lavoro. Nel caso della Birmania, dove erano circa 1 77.000, si è parlato di Swea t Army (esercito del sudore); in modo al tempo stesso giusto e am-

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il dirigente nominato dai giapponesi, Ba Maw, li definì «gli iù autentici che la Birmania abbia generato durante il con­ p eroi fl i tt o mondiale» 5 1 • Il governo delle Filippine «indipendenti» tentò d i re golamentare e di limitare per quanto possibile il lavoro for­ za to; nell'aprile del 1944 fu istituita una Labor Recruitment A gen cy, la quale, tuttavia, non fu in grado di fornire gli 80.000 la­ vo rato ri reclamati dall'esercito. Infine, a ottobre, mentre lo sbarco am ericano pareva imminente, le autorità del posto cedettero alle pressioni dei giapponesi, che furono autorizzati a reclutare diret­ tamente gli uomini di cui avevano bisogno 52• In Indonesia, l'at­ teggiamento della maggior parte dei dirigenti nazionalisti fu an­ cor più discutibile: erano tesi a elaborare il proprio progetto di co­ struzione di un sistema politico indipendente e non si fecero mai scrupolo di permettere ai giapponesi di reclutare a Giava - dove la maggior parte di loro risiedeva - un numero di romusha assai superiore che in qualunque altro luogo. È vero che, a posteriori, Sukarno dichiarò, nella sua autobiografia (1965) : «In compagnia dei giornalisti e dei fotografi il Gunseikan (comandante in capo), le autorità civili e io ci recammo a Banten, all'estremità occiden­ tale di Giava, per ispezionare gli scheletri pietosi dei lavoratori schiavi del fronte interno, costretti a faticare nelle miniere di car­ bone e d'oro. Fu terribile» 53• Tuttavia, fino al 1945, i suoi discorsi torrenziali esaltavano la g loria della Sfera di co-prosperità ed egli incoraggiò gli indone­ siani a lavorare con i giapponesi. Eppure, generalmente, i romu­ sha non erano ingaggiati per svolgere attività utili al loro paese. Anzi, a volte accadeva proprio il contrario. Per esempio, a Giava i giapponesi intrapresero lo sfruttamento delle foreste di teak co­ me se si trattasse di un giacimento minerario, rinunciando alla re­ gola stabilita dagli olandesi, che avevano deciso di attendere una maturazione di trent'anni; inoltre, quel legno prezioso fu spesso u sato come combustibile o per rafforzare le difese costiere. Tale la v oro impegnava ogni giorno un migliaio di romusha, prove­ nient i dai distretti vicini 54• Grazie al fatto che i militanti comuni­ s ti in filtrati nell'amministrazione straniera dichiararono nn esu­ b e ro di manodopera, la razione quotidiana da fame (200 g di rib igu o,

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so) poté essere portata a 400 g - e non ci fu alcun problema di re­ clutamento . . . Assai più drammatiche furono le condizioni di lavoro in un cantiere (adibito alla realizzazione di una galleria di drenaggio e abbinato a un altro, nel quale si stava costruendo una prigione fortificata) situato a Na Yama, nella parte sudoccidentale di Gia­ va (non lontano da Blitar), dove, nel febbraio 1945, si verificò un'insurrezione (cap . 6). In quel luogo, secondo una testimonian­ za, faticavano ogni giorno decine di migliaia di romusha, e ogni giorno centinaia di loro morivano. I soli attrezzi disponibili erano martelli e accette. La paga giornaliera bastava appena per com­ prare una porzione di riso, i malati e i morti dovevano essere tra­ sportati dai loro compagni, spesso troppo deboli per camminare: I cadaveri erano visti come semplici scarti senza valore, e questo era un segno dei tempi. Quanto agli scheletri ambulanti, non scioc­ cavano più nessuno. File di individui si allineavano sulla riva del fiume, non per ricevere riso, ma un cucchiaio di corteccia di cin­ chona bollita 55• Le paludi erano infestate dalla malaria. 56

Bisogna aggiungere che a Giava un quinto dei romusha non era nemmeno pagato e che gli occupanti sfruttarono a loro van­ taggio le tradizionali pratiche comunitarie di mutuo soccorso. Si venne a creare un circolo vizioso: le pietose condizioni del lavo­ ro forzato fecero fuggire tutti coloro che potevano, il che accreb­ be i costi della mobilitazione e dell'inquadramento e spinse i giapponesi a inasprire ulteriormente il sistema, suscitando una repulsione ancor maggiore 57• Di conseguenza, all'inizio del 1945 , la popolazione diede segni di un profondo malcontento che preoccupò gli occupanti, i quali risposero con il seguente discor­ so, ampiamente pubblicizzato dalla stampa: «Coloro che tra voi amano gridare che i giapponesi si sono spinti troppo oltre e si la­ mentano della mancanza di cibo hanno una mentalità da sch ia­ vi. Ciò che voi volete è una vita comoda. Il Giappone, invece, vi esorta a far riaffiorare la vostra vera natura accontentandovi di ciò che avete» 58 •

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È lecito dubitare dell'efficacia che un simile discorso poteva su persone affamate . . . ere av La base di reclutamento dei romusha continuò ad allargarsi. Tra il 1944 e i1 1945 furono sollecitate a fornire manodopera per­ s ino alcune piccole isole fuori mano, come Tahulandang, situata a nord di Sulawesi, che nel marzo del 1945 fu costretta a inviare 500 coolie ai cantieri navali di Menado, la capitale regionale. Si poteva essere mobilitati dai dodici anni (in almeno un caso addi­ rit tura a partire da sette anni) ai sessanta. Le donne, fino a cin­ quant'anni, non erano esentate. La selezione era spesso arbitraria, ma a Banjarmasin (Borneo) furono mobilitati i risicoltori che non avevano fornito le quantità di prodotto richieste. Talvolta, per cal­ mare le inquietudini e limitare le «diserzioni», era annunciata una destinazione falsa. Era normale lavorare 9 ore e mezza al giorno, con soli due pasti, per periodi di servizio che duravano in media tre mesi. Si poteva essere smobilitati, ma soltanto a condi­ zione di trovare un sostituto. Il lavoro consisteva spesso nella ri­ parazione di aeroporti bombardati o nella coltivazione del riso destinato alle guarnigioni giapponesi. La mortalità era in genere elevata, in particolare a causa della malaria, del beriberi e della di ssenteria: tra i mesi di giugno e novembre del 1944 queste due malattie uccisero metà dei 400 lavoratori di Manokwari (Nuova G uinea), che erano stati mandati a coltivare il sagù nelle monta­ gne. Sulla base di dati ancora frammentari, la mortalità media dei co olie giavanesi spediti fuori dalla loro isola è stata calcolata al 35%; tuttavia, le organizzazioni ufficiali olandesi, nel l946, ave­ vano contato, nelle loro file, 204.000 sparizioni, ovvero più di due terz i degli effettivi mobilitati: ai cantieri di Sumatra era attribuita circa la metà dei decessi (97.000) 59• I campi dei villaggi, trascura­ ti, re gi stra rono un calo di produzione. Molte persone fuggirono nel le z one isolate dell'entroterra, onde evitare i rastrellamenti. La d enutrizione era una costante ovunque 60• Abbiamo visto che per i prigionieri britannici e australiani del­ A l' si a orientale la ferrovia Bangkok-Rangoon fu l'epicentro del­ l' orrore. Eppure, se le loro perdite raggiunsero la cifra di 12.400 m orti (pa ri al 20% degli effettivi) 61, il tasso di mortalità dei

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200.000-270 .000 coolie asiatici che vi lavorarono 62 fu di cinque volte più elevato (70.000 decessi), anche in proporzione (tra un quarto e un terzo degli effettivi) 63 • In effetti, i romusha subivano, oltre alla sorte comune, mali supplementari. La loro biancheria e i loro vestiti, mai cambiati né lavati, si riducevano ben presto a stracci spesso coperti di parassiti: le epidemie di malattie cutanee imperversavano. Non soltanto, come accadeva anche ai «bian­ chi», i loro carcerieri non facevano praticamente nulla per mante­ nerli in buona salute, ma si sbarazzavano persino sommariamen­ te di alcuni malati considerati incurabili: i lavoratori colpiti da co­ lera o da altre malattie furono abbandonati nella giungla o sepol­ ti insieme ai cadaveri; si verificarono casi di avvelenamento mor­ tale tramite iniezione o per via alimentare. Alcuni furono addirit­ tura bruciati vivi nelle loro baracche, sigillate nottetempo e date alle fiamme; Tan Choon Keng, assistente medico originario di Singapore costretto a compiere questa atrocità dal medico capo giapponese, il dottor Kono, racconta 64: Versammo il petrolio su tutta la superficie del tetto, sui muri in le­ gno e sulle tavole che servivano per dormire. Facemmo più in fret­ ta che potemmo. Non osavo guardarli negli occhi. Sentivo soltan­ to qualcuno di loro mormorare «tolong, tolong» 65• Era uno spetta­ colo penoso. Che Dio mi perdoni. Non ero contento di vederli bru­ ciare vivi. Erano tutti lavoratori asiatici, con le loro mogli e i loro bambini: non potevano più marciare, avevano le unghie nere. Il fuoco avviluppò la baracca, ma io non potevo sentire le grida di quelle persone, a causa dei forti crepitii del legno che bruciava. Il calore era intensissimo e noi corremmo e corremmo. [ . . . ] Dopo questo incidente non smisi più di dire a me stesso: c'è un Dio da qualche parte? Se ci fosse un Dio, non avrebbe permesso che tut­ to ciò accadesse. 66

Anche in buona salute, i romusha erano per i giapponesi «ma­ teriale» di scarso valore. Abe Hiroshi, che fu ufficiale nel cantiere ferroviario, ricorda che i birmani erano pagati una rupia al gior­ no, mentre il cibo per gli elefanti ne costava due: «Tutti si occu-

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p a vano degli elefanti. Anche i soldati giapponesi che percuoteva­ no i birmani non avrebbero mai fatto lo stesso con gli animali» 67• Se la situazione dei lavoratori maschi era drammatica, quella delle loro famiglie era persino peggiore: i romusha erano stati in­ coraggiati a portarle con sé, allo scopo di rendere più facile il re­ clutamento della manodopera. Le promesse dei giapponesi in m ateria di alloggio e cure si rivelarono del tutto menzognere. Per non morire di fame, l'unica risorsa per le donne era rappresenta­ ta dalla prostituzione; quanto ai bambini, il loro tasso di mortalità rasentò il lOO% 68 • Peggio ancora, nei confronti di queste persone «dappoco» il sadismo delle guardie o persino dei medici ebbe li­ bero corso, sotto forma di pestaggi (di malati in particolar modo), stu p ri, torture di natura sessuale e pratica di arti marziali con ma­ nichini viventi. Meno sistematiche furono le violenze contro i pri­ gionieri di guerra, i quali, soprattutto, disponevano di medici p ro p ri, talvolta di grande valore, mentre i loro ufficiali conserva­ vano ancora un certo potere negoziale. Infine, la preservazione di un minimo di coesione e di solidarietà tra commilitoni contribuì a salvare molti malati 69• Non ci fu soltanto una ferrovia della morte. Delle altre si par­ la molto meno, perché i romusha - che scrissero poco e pubblica­ ron o ancor meno - non furono spesso a contatto con i prigionieri di guerra. I giapponesi intendevano collegare l'Oceano indiano al Ma r della Cina attraverso l'istmo di Kra; costruirono dunque una linea ferroviaria a sud di Sumatra, nella regione di Palembang; un'altra a sudovest di Sulawesi e un'altra ancora nella parte occi­ d ent ale dell'isola di Giava (Banten), per servire importanti mi­ niere di carbone. Calcolare il numero delle vittime di quei cantie­ ri è un compito particolarmente difficile; tuttavia, a Sumatra, nel 1 94 5 un gruppo originalmente costituito da 3000 prigionieri bri­ ta nni ci era ridotto a 800 sopravvissuti 70 : si trattava di un tasso di mort alità sconosciuto sulla linea del fiume Kwae («Kwai» nel ti­ tol o de l celebre film), che si estendeva per 220 chilometri nella fo­ re st a e che forse fu la ferrovia più mortale di tutte: il NEFIS, or­ ga ni zzaz ione olandese incaricata dei rimpatri dopo il 1945, trovò s o l t anto 23.000 dei 120.000 romusha che vi avevano lavorato 71 • In

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numerose regioni i rimpatri furono spesso effettuati con molto ri­ tardo, a causa della disorganizzazione generale, degli scontri tra civili e soprattutto della gravissima carenza di mezzi di traspor­ to. I mesi che seguirono la capitolazione giapponese furono spes­ so assai drammatici. Jeanne van Diejen, appena liberata dal cam­ po nel quale era internata, incontrò gruppi di romusha giavanesi abbandonati a Makassar (Sulawesi); ecco come li descrive: Erano seduti lungo le strade, aspettando che un buon samaritano li nutrisse e bendasse loro le braccia ferite o le gambe coperte da ul­ cere maleodoranti. Gli autoctoni li rifiutavano, perciò si rivolgeva­ no a noi. Di solito attendevano due o tre ore davanti alle case da noi occupate sperando che dessimo loro gli avanzi del nostro cibo. Erano infinitamente più male in arnese di chiunque altro in città. 72

La costruzione della ferrovia di Banten, nel periodo 19431944, fu una vera successione di orrori. Tan Malaka, uno dei fon­ datori del socialismo e del comunismo in Indonesia, che lavorò nella miniera di Bayah, dove terminavano i binari, scrisse nelle sue Memorie: A 5 o 6 chilometri da Bayah, sulla costa, c'era un luogo, chiamato Pulau Manak, che tutti temevano. Infatti, pochi romusha ne usciva­ no senza essere infettati da malattie fatali come ulcere purulente, dissenteria e malaria. Ai romusha venivano forniti cibo insufficien­ te e medicine in quantità troppo scarsa; inoltre, il personale che do­ veva occuparsi di loro era inadeguato; malati e moribondi non ri­ cevevano praticamente alcuna cura. Ogni giorno, lungo la strada, si potevano vedere romusha coperti di lesioni infette che si sforza­ vano di raggiungere un luogo pubblico o un edificio vuoto per po­ tersi coricare e attendere la morte. In tutte le città tra Saketi e Jakar­ ta i mercati, i marciapiedi e gli spazi vuoti erano pieni di cadaveri viventi. A volte, nei dintorni di Bayah, erano sepolti fino a dieci corpi in una sola tomba, a causa dell'indifferenza degli ufficiali e della mancanza di becchini. Durante la stagione delle piogge i cor­ pi erano ammassati in fosse parzialmente riempite d'acqua. 73

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A causa della crescente penuria, la razione (teorica) di riso de­ s tinata ai lavoratori forzati scese progressivamente da 400 g a 250 g nel 1945; poco prima della capitolazione era stato deciso di ab­ b as sarla a 200 g. Per costruire quei 90 chilometri di ferrovia o per l avorare nelle miniere erano stati mobilitati circa 90.000 romusha. Almeno 15.000 di loro perirono; secondo altre stime, i morti furo­ no addirittura 70.000 74• I romusha della Malesia erano particolarmente numerosi sulla ferrovia Bangkok-Rangoon: 73.000, ovvero un terzo del totale, mentre il paese, nel 1941, contava soltanto 5 milioni circa di abi­ tanti. Di costoro circa 30.000 (il 37% degli effettivi) perirono 75• Nel 1942, a causa della massiccia disoccupazione che imperversava nella penisola dopo la chiusura della maggior parte delle pianta­ gioni, all'inizio il reclutamento non fu difficile, in particolare presso i tamil (provenienti dall'India meridionale), che costitui­ vano la maggior parte della manodopera. Inoltre, i contratti di la­ voro riguardavano un periodo limitato (tre o quattro mesi) e le condizioni promesse erano allettanti. Tuttavia, quando si vide che il primo contingente di operai non tornava, mentre si diffonde­ vano notizie inquietanti, il flusso dei lavoratori liberi si esaurì. Al­ lora, i giapponesi allargarono il reclutamento alle donne e ai bam­ bini: i minori di dodici anni ricevevano il 40% del salario dei ma­ schi adulti. Ma l'esercito reclamava 100.000 lavoratori: si fece quindi ricorso all'inganno o alla forza bruta (in più della metà dei casi, se dobbiamo credere a uno studio). I militari effettuavano raid notturni nelle piantagioni e rapivano letteralmente gli uomi­ ni. Nelle città, furono annunciate proiezioni cinematografiche gra tuite: quando le sale erano piene, le uscite venivano chiuse e i m aschi adulti erano costretti a salire direttamente sui treni . . . I la­ voratori erano rastrellati anche a casaccio, nei parchi di diverti­ menti o nelle vie. Il risultato fu drammatico, stando al racconto di una vittima: Lavoravo presso la piantagione di Kuala Selangor. Un giorno sta­ vo camminando lungo la strada [ . . . ]; a un certo punto un camion militare giapponese si fermò e i soldati mi dissero qualcosa in giap-

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ponese. Io non capivo. Mi obbligarono a salire sul camion, dove c'erano già altre trenta persone. Indossavo soltanto un paio di cal­ zoni corti e i sandali. Li supplicai di !asciarmi andare a casa per prendere almeno una camicia e una coperta. I soldati rifiutarono; invece, mi portarono a Kuala Lumpur e mi gettarono in un treno merci diretto nel Siam. Quando fummo arrivati a destinazione, co­ minciammo a disboscare una giungla piuttosto densa. Per sette mesi i giapponesi non mi diedero né una camicia né una coperta. Dovevo lavorare nella giungla e dormire sul pavimento di bambù di una capanna, mezzo nudo e senza nulla per coprirmi. 76

In Malesia le condizioni di lavoro potevano essere altrettanto penose: presso un cantiere portuale le autorità mediche rilevaro­ no la morte di tre o quattro lavoratori al giorno, uccisi dalla de­ nutrizione o dalla malaria 77• In tutto, quanti romusha furono vittime di ipersfruttamento? Se dobbiamo credere a Paul Kratoska, un tasso di mortalità tra il 30% e il 40% non sarebbe stato raro 78, in particolare presso i gran­ di cantieri ferroviari. In ogni caso, è evidente che i morti furono centinaia di migliaia, se non milioni. Tra le numerose catastrofi che hanno caratterizzato quel conflitto, la tragedia dei romusha è sicuramente, ancora oggi, la più ignorata. Il

lavoro forzato in Giappone

A differenza della Germania nazista, il Giappone mobilitò fuo­ ri dal proprio territorio la maggior parte dei suoi lavoratori for­ zati. Molti di essi, tuttavia, furono impiegati nelle miniere, nelle fabbriche e nei cantieri dell'arcipelago. In maggioranza si trattò di coreani: nel 1941 erano già 1 .400.000, quasi tutti giunti in Giap­ pone per sfuggire alla miseria; 660.000 arrivarono nel corso dei quattro anni seguenti. Nel marzo del 1945 in Giappone erano pre ­ senti 134.000 minatori coreani, pari a un terzo della manodopera impegnata nel settore: metà di loro era impiegata nelle gallerie di Hokkaido, le più dure 79• Tuttavia, in Corea non si registra l'uso

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p alese della forza constatato, per esempio, in Malesia, o un'as­ senza di remunerazione come in Indonesia. Esistevano invece contratti di lavoro regolari, della durata di due anni. Tuttavia, a p artire dal mese di settembre del 1939, si può parlare di lavoro forzato. Infatti, in generale, i lavoratori non erano liberi di lascia­ re il loro impiego: il tempo di servizio fu spesso prolungato in maniera unilaterale dai datori di lavoro. Se volevano andarsene, gli operai venivano trattenuti sulla base della «mancanza di mez­ zi di trasporto» per la Corea 80 • Inoltre, la maggior parte del loro salario era versata su un conto bloccato fino alla scadenza del contratto: di fatto, avevano accesso soltanto al minimo vitale. Fino al febbraio del 1942 le grandi società nipponiche, in col­ laborazione con il governatorato generale di Corea, poterono re­ clutare direttamente i propri impiegati, che dovevano obbligato­ riamente avere tra i venti e i trentacinque anni d'età. Tuttavia, il numero di contratti firmati fu inferiore di un terzo rispetto al pre­ visto. Inoltre, tra il marzo del 1942 e l'agosto del 1944, della sele­ zione si occupò l'amministrazione coloniale, attraverso l'Associa­ zione coreana del lavoro e ricorrendo talvolta alla polizia. Dal momento che i risultati erano ancora deludenti, il reclutamento fu allargato ai maschi dai 13 ai 50 anni. Nel corso dell'ultimo an­ no di guerra il reclutamento fu militarizzato, in conformità alla legge sulla coscrizione, entrata in vigore nel settembre del 1944. Un migliaio di lavoratori fu inviato verso ogni grande fabbrica di armamenti del Giappone. In ogni caso, l'intensità dei bombarda­ menti sull'arcipelago, che toccavano poco la Corea, incitò a svi­ luppare le industrie della penisola e dunque a mantenere sul po­ sto la preziosa manodopera. In più, gli operai cominciarono a la­ sciare massicciamente il lavoro: nelle miniere di carbone del Kyushu la percentuale di abbandoni raggiunse 1'80% o il 90%. In totale, il lavoro coatto riguardò 810.000 coreani, i quali, tuttavia, non risedettero tutti in Giappone fino al 1945; il 44% fu spedito nelle miniere, il 24% nell'industria e il 18% ai lavori pubblici. Il «clou» fu toccato nel 1944, con 380.000 mobilitati. Nel 1945, inve­ ce, i lavoratori erano poche decine di migliaia 81 • Come altrove, p ochi furono coloro che osarono protestare apertamente. Nel

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maggio 1945, alla Nakajima, una fabbrica aeronautica situata a Handa, una sommossa causata dalla fame si concluse con la mor­ te di cinquanta operai coreani, uccisi a manganellate dalla polizia militare 82 • In tutto, una sessantina di migliaia di coreani figurano tra le vittime delle due bombe atomiche: infatti, a Hiroshima le fabbriche di armi erano particolarmente numerose 83• Il caso delle poche decine di migliaia di cinesi spediti in Giap­ pone ricorda più da vicino la sorte dei romusha. Circa metà di lo­ ro era costituita da prigionieri di guerra, governativi o comunisti, e il comune di Qrngdao (Shandong) rastrellò altresì un certo nu­ mero di vagabondi o di piccoli delinquenti da impiegare nel la­ voro coatto. A partire dal 1943, ogni mese un migliaio di lavora­ tori dovette lasciare il continente. Attirare operai qualificati fu as­ sai più arduo tanto che con loro si fece talvolta ricorso all'ingan­ no. Per esempio, 432 carpentieri furono attirati con la promessa di lavorare in un cantiere navale in cambio di una buona paga: in realtà finirono nelle miniere di Hokkaido 84• Dei 42.000 cinesi re­ clutati a partire dall'aprile del 1943, quasi 4000 morirono prima di arrivare a destinazione e altri 7000 perirono sul posto di lavoro, dove peraltro pochi di loro avevano dovuto trascorrere un perio­ do superiore a due anni 85• Quei lavoratori importati subirono le stesse angherie dei loro colleghi giapponesi (in particolare, privazioni alimentari ed espo­ sizione ai bombardamenti), e in più furono spesso discriminati. Per esempio, presso il cantiere segretissimo in cui si costruiva una sorta di città sotterranea destinato a ospitare il gruppo dirigente (incluso l'Imperatore), i coreani, a differenza degli operai giappo­ nesi, erano obbligati a lavorare dodici ore al giorno e dovevano accontentarsi di una ciotola di sorgo. Il progetto, avviato sotto una montagna a Matsushiro dopo i primi massicci bombarda­ menti (novembre 1944) mobilitò dai 7000 ai 10.000 coreani. A quanto pare, ogni giorno ne morivano cinque o sei 86• Nelle mi­ niere, tra il 50% e il 75% degli incidenti mortali riguardò lavora­ tori coreani, ai quali erano affidati i compiti più faticosi o perico­ losi. Inoltre, il salario di quegli operai era in genere inferiore: nel­ le miniere di Hokkaido guadagnavano meno di 70 yen al mese il

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3 9 % dei salariati giapponesi e 1'87% di quelli coreani 87• Ciò pro­ vo cò una «diserzione» di massa: alla fine del 1942 circa 90.000 la­ vo ra tori erano fuggiti (soltanto 10.000 furono riacciuffati). Du­ rante questo periodo, le diserzioni tra i minatori raggiunsero il 36% 88 . Dalla

destabilizzazione economica al crollo sociale

L'estensione del fallimento gestionale nipponico e del disastro per le popolazioni dei territori occupati si percepisce in modo particolarmente netto osservando l'esempio della città che, dalla metà del XIX secolo, aveva rappresentato il polo economico più dinamico del Sudest asiatico e la cui popolazione godeva del più alto tenore di vita: Singapore. La sua economia era stata sempre fortemente rivolta all'esterno, ma la guerra aveva interrotto le re­ lazioni con la maggior parte dei fornitori e, soprattutto, dei clien­ ti, per lo più occidentali (in primo luogo gli Stati Uniti, grazie al peso dell'industria americana di pneumatici). Le principali pro­ duzioni malesi interessavano poco l'economia di guerra nipponi­ ca, la quale non richiedeva più di 80.000 tonnellate di caucciù na­ turale, mentre nel 1941 la Malesia ne produceva 500.000 tonnella­ te 89; quanto allo stagno, al secondo posto nella produzione locale, il suo sbocco principale era l'industria dello scatolame . . . Certa­ mente, il Giappone richiedeva grandi quantità di minerali di fer­ ro e bauxite (di cui il suo sottosuolo è del tutto privo) e, già pri­ ma dello scoppio del conflitto, assorbiva la quasi totalità della produzione malese, che fu fortemente incoraggiata dopo il 1942; tuttavia, questa estrazione mineraria rimase un'attività seconda­ ri a, sia dal punto di vista della qualità che dell'utilizzo. A partire d al 19 43, e soprattutto con l'avvicinarsi della guerra dovuto allo sb arco americano nelle Filippine (ottobre 1944), il progressivo c oll ass o delle comunicazioni marittime all'interno della sfera gi apponese aggravò la situazione. Pe r Singapore, nonostante il suo status tradizionale di porto fr anco, il primo risultato fu un crollo delle entrate pubbliche (di-

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ritti portuali, varie tasse sulle attività economiche . . . ). Si fece ri­ corso a diversi espedienti (registrazione a pagamento generaliz­ zata delle attività e dei beni - per esempio le biciclette) ma la mi­ sura si rivelò insufficiente. Si scelse allora il presente contro il fu­ turo e fu prodotta una grande quantità di carta moneta. Rapida­ mente, il banana mon ey (così detto dai motivi vegetali che ornava­ no le banconote) stampato dai giapponesi fu svalutato al punto da diventare praticamente carta straccia: al mercato nero, un kati di riso (corrispondente a circa 600 g) raggiunse il prezzo di 3,60 dollari nel dicembre del 1943 e di 108 dollari nell'agosto del 1945. Gli occupanti, che avevano deliberatamente innescato l'inflazio­ ne, fingevano di non percepirla affatto, e continuavano a pagare i propri debiti usando una moneta che non valeva nulla. Si tende­ va a non scegliere più un lavoro in base al salario, ma in funzio­ ne dei vantaggi in natura (con particolare riferimento alle razioni alimentari) che poteva procurare: per esempio, nel 1945, una stec­ ca di sigarette poteva essere rivenduta a 60 dollari, mentre la re­ munerazione mensile di un impiegato regolare non superava i 63 dollari. Come in ogni paese coinvolto in un conflitto, una minoranza di approfittatori si arricchì, a volte considerevolmente: tra costo­ ro si possono citare i concessionari degli occupanti (per esempio i 1004 dettaglianti ufficiali di riso), i beneficiari di commesse pub­ bliche, gli intermediari (tra cui Li Guangyào, appena ventenne 90) e, naturalmente, gli agenti locali degli zaibatsu. Il mercato nero poteva rivelarsi una strada per fare fortuna! Per ostacolarne il processo, o semplicemente per non perdere la faccia, ogni tanto le autorità giapponesi intervenivano, giungendo perfino a organiz­ zare qualche decapitazione pubblica 91 • Tuttavia, la partecipazione di ufficiali giapponesi al mercato nero implicava una tolleranza de facto abbastanza ampia. La situazione della maggior parte della popolazione peggio­ rava di giorno in giorno, e ben presto diventò drammatica. Il ra­ zionamento, istituito quasi subito, divenne drastico. La carne e il pesce erano ormai distribuiti in quantità irrisorie, mentre il burro e la farina erano scomparsi. Il riso, che costituiva la base dell'ali-

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mentazione, scivolò dai 450 g giornalieri a testa consumati del 1 94 1 ai soli 160 g per gli uomini, 120 g per le donne e 80 g per i ba mbini di meno di dieci anni del febbraio del 1944. Parallela­ mente, le importazioni di paddy passarono da 11 .000 tonnellate al mese nel settembre del 1942 a 4400 nel febbraio del 1944, risa­ lendo a 5250 tonnellate in novembre, grazie al fatto che la navi­ g azione sulle giunche era stata nuovamente autorizzata. L'acca­ parramento dei prodotti energetici da parte dell'esercito obbligò g li autobus a circolare a carbonella 92 • Poco alla volta le riserve (sia quelle delle famiglie che quelle dei corpi) si prosciugarono, rendendo il ricorso al mercato nero sempre più difficile e accrescendo la vulnerabilità alle malattie. Il numero di persone morte di malaria aumentò di dieci volte tra il 1 941 e il 1945; le morti causate da malattie della terza età rad­ doppiarono, quelle dovute a dissenteria furono quintuplicate, an­ che a causa, fin dal 1942, dell'interruzione del trattamento del­ l' acqua potabile, dovuta alla mancanza di prodotti chimici ade­ guati; infine, i casi di beriberi, malattia tipica delle carenze ali­ mentari, aumentarono di dieci volte, uccidendo l'l% della popo­ lazione di Singapore tra il 1944 e il 1945, quando diventò la prima causa di morte. In totale, si passò dai 16.000 morti del 1941 ai 43.000 del 1944 93, cioè da un tasso di mortalità del 20 %o a uno del 54 %o 94• Non a caso, il mercato nero della vitamina Bl, efficace contro il beriberi, assunse vaste proporzioni. Le organizzazioni caritative, come la Blue Cross, erano oberate di lavoro. Il 1944 e il 19 45 furono gli anni della grande miseria, drammatici - in pro­ porzione - quanto la carestia vissuta dal Tonchino nel 1945, che peraltro fu più impressionante per la sua subitaneità: in entram­ b i i casi il 10% circa degli abitanti fu falciato dalla malattia. Con­ cl u do questo excursus con una provocazione: Hiroshima, proba­ b il mente, salvò decine di migliaia di vite a Singapore, poiché lo sb a rco alleato in Malesia non era programmato prima del 1946 . . . Un analogo crollo si produsse dappertutto e raggiunse il cul­ mi ne alla vigilia della capitolazione. Le regioni più dinamiche, ossia le più aperte dell'Asia orientale, furono relativamente le più colpite. Tuttavia, nelle zone maggiormente orientate verso l'au-

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tarchia la situazione non era meno grave: si trattava di aree più povere, dove una diminuzione delle risorse, anche di lieve entità, poteva avere conseguenze catastrofiche. Ebbene, dappertutto i giapponesi imponevano il lavoro coatto, nuove gabelle e, spesso, nuove colture. Per questa ragione il Tonchino soffrì più della flo­ rida Cocincina dell'impossibilità di questa a esportare il proprio riso. A Giava, povera e sovrappopolata come il Tonchino, le con­ segne di forniture di riso all'amministrazione furono assai infe­ riori al previsto: nel 1943 mancavano all'appello 500.000 tonnel­ late, salite nel 1944 a 700.000 (un deficit del 36%) 95• Non era più possibile nutrire correttamente i romusha, gli abitanti delle città, i funzionari . . . E i contadini avevano appena il necessario per so­ pravvivere. D'altra parte, la mancanza di prodotti tessili fu parti­ colarmente sentita. In tutto, la Sfera di co-prosperità produceva soltanto il 10% del cotone mondiale, mentre ne assorbiva il 25%. Nonostante la volontà da parte dei giapponesi di sviluppare la coltura delle piante da fibra, i risultati, nel 1945, erano ancora del tutto insufficienti a colmare il deficit. A partire dal 1943 i tessuti e i vestiti scomparvero quasi completamente dai mercati giavanesi. Molte persone dovettero quindi accontentarsi di cenci rappezza­ ti o, nel caso dei più poveri, di foglie di palma cucite insieme; c'e­ ra anche chi andava in giro praticamente nudo. L' amministrazio­ ne distribuiva ai funzionari sacchi di iuta affinché ne ricavassero vestiti. Le foglie di caucciù invendute furono trasformate in gon­ ne 96 • • • Fu colpita la vita economica e sociale: molti non osavano più andare a lavorare fuori di casa; gli studenti rinunciavano a frequentare la scuola e i musulmani disertavano le moschee. Non si trovavano più teli per avvolgere i morti 97• In Malesia la popolazione delle piantagioni scese da 380.000 persone (maggio 1942) a 190.000 (1945). Tra coloro che non erano fuggiti, soltanto 70.000 rimasero attivi, e di questi 28.000 si limi­ tarono a svolgere attività legate all'autosussistenza. Dal momen­ to che si era quasi completamente smesso di bonificare i siti di ri­ produzione delle zanzare (per evitare di consumare prezioso pe­ trolio . . . ) e che la distribuzione di chinino era spesso interrotta (persino a Giava, che pure ne produce in quantità), in Malesia il

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ta s so di mortalità da malaria crebbe di dieci volte a partire dal 1 942 (nel 1939 era pari allo 0,7%o , mentre nel 1942 era già salito al 7,2 %o ): 1'80% delle vittime risiedeva nelle piantagioni. L'esodo dalle campagne assunse dimensioni enormi, proprio mentre i ci­ nesi delle città tentavano di sfuggire alla Kempeitai cercando scampo nelle zone incolte. Secondo un rapporto dell'ispettorato del lavoro dello stato di Kelantan (novembre 1943): «Gran parte dei lavoratori disoccupati, indiani o cinesi, è ridotto alla fame [ ]; alcune tra quelle persone hanno progressivamente raggiun­ to le città, dove sopravvivono mendicando per le vie; le malattie 98 ne fanno strage, per mancanza di assistenza medica» • Un giornalista tamil della Malesia descrive, nel resoconto di un viaggio ferroviario da lui effettuato nel 1943, le orde di bam­ bini indiani dagli occhi spenti e dagli stomaci gonfi che, a ogni stazione, si precipitavano sui resti dei pasti che i militari accon­ sentivano a gettar loro, e che cantavano motivi giapponesi per ac­ cattivarsi i soldati del Sol Levante: «E tutto ciò in Malesia, dove mai si erano visti indiani mendicare nelle stazioni ferroviarie» 99• Secondo alcune stime, la carestia e le numerose privazioni avrebbero causato la morte di 2 dei 50 milioni di abitanti dell'iso­ la di Giava 100 • Allo stesso modo, nel Tonchino, la coltura forzata del cotone a spese delle risaie e la considerevole diminuzione del­ le importazioni di riso provocarono, tra la fine del 1944 e la metà del 1945, una carestia alla quale i comunisti attribuirono 2 milio­ ni di morti. La cifra reale è probabilmente inferiore al milione ma, su u� m quindicina di milioni di abitanti, è comunque catastrofica. La penisola malese lamentò parecchie centinaia di migliaia di vit­ time. Altrove è ancora più difficile ottenere cifre precise, ma è cer­ t o ( e di ciò abbiamo fornito alcuni indizi) che spesso, nel periodo 1 944-45, la penuria e la carestia furono generali nei territori defi­ nit i a sproposito Sfera di co-prosperità, dal Giappone a Giava, p ass ando per numerose regioni della Cina occupata. Molti milio­ ni di civili asiatici morirono per permettere il protrarsi di una gu erra il cui esito qualunque persona ragionevole conosceva già. . . .

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La prostituzione nell'esercito: le donne di conforto Con il massacro di Nanchino le comfort women 101 (prostitute militari) rappresentano il misfatto giapponese oggi più disc usso e più denunciato. In Corea del Sud, in particolare, questo dram­ ma è divenuto un'importante questione nazionale, che ha avuto ripercussioni importanti sulle relazioni diplomatiche nipp o-co­ reane. Ritorneremo a parlare dell'argomento nel capitolo 12. Ep ­ pure, assai più dei fatti di Nanchino, fino al 1990 circa l'arg o­ mento era stato relativamente sottovalutato e aveva suscitato qualche interesse, sia pur per breve tempo, soltanto nei Paesi Bas­ si, subito dopo la guerra 102 • In effetti, le vittime non erano state particolarmente numerose: 200.000 al massimo, anche se è più ve­ rosimile che in tutto siano state tra 50.000 e 100.000 103• Inoltre, se crediamo alle testimonianze, il loro tasso di mortalità non fu mol­ to alto e risultò senz' altro inferiore a quello dei prigionieri di guerra o dei romusha. In particolare, sembra che le donne di conforto siano perlopiù sfuggite alla sottoalimentazione e agli as­ sassinii. La maggior parte dei decessi registrati tra le loro file so­ no dovuti alle stesse cause che uccidevano i soldati: bombarda­ menti, annegamento in seguito al siluramento delle navi su cui viaggiavano, suicidi più o meno volontari di fronte alla disfatta. In ogni caso, è chiaro che numerose donne di conforto (ma non tutte) furono vittime di crimini, comuni o di guerra, non sol­ tanto sanzionati dal diritto attuale, ma anche dalle norme inter­ nazionali in vigore all'epoca, come la Convenzione del 1925 (che vietava il traffico di esseri umani) o gli Accordi dell' Aja (1899 e 1907), che in tempo di guerra proteggono i civili da azioni di for­ za prive di scopi militari. Pertanto, piuttosto che trattare la pro­ stituzione forzata come un fenomeno totalmente distinto dalle al­ tre violenze belliche giapponesi 104, abbiamo ritenuto utile parlar­ ne a conclusione di questo lungo studio sul lavoro coatto. Tra i due fenomeni, in effetti, si notano importanti similitudini, in p ar­ ticolare per quanto riguarda il reclutamento. Per esempio, in Corea, il Corpo delle volontarie mobilitò cen­ tinaia di migliaia di donne, che vennero usate, essenzialmente s ul

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al s ervizio dello sforzo bellico. Tuttavia, alcune di loro quelle assegnate a un lavoro infermieristico - furono e r e se mpio elle «stazioni di conforto», come venivano chiamati i s p e dite n Si calcola che le autorità pubbliche reclutarono militari. b o r delli un te rzo delle ianfu coreane. Non bisogna tuttavia sopravvaluta­ re la l oro efficacia: nel 1941, quando l'armata della Manciuria pre­ te se dal governatorato generale di Corea la «consegna» di 20.000 p r ost itu te, fu possibile procurarne soltanto 8000. I soggetti priva­ ti ch e op eravano nella penisola, sia coreani (la maggior parte) che gi a pp ones i, conservarono il monopolio del grosso del recluta­ 1 05 • Come nel caso dei lavoratori forzati, si fece spesso ri­ men to o all'inganno a proposito della reale destinazione delle per­ co rs sone ingaggiate. Fatto ancor più sconcertante, le ianfu ebbero in gene ra le un contratto di lavoro per un anno o per un periodo di diciotto mesi, anche se in seguito subirono forti pressioni affinché non facessero ritorno in Corea. Per quanto riguarda le remunera­ zioni effettive, anche in questo caso erano in genere bloccate fino alla scadenza del contratto. Infine, ritroviamo qui la stretta colla­ borazione tra pubblico e privato che caratterizzava lo sfrutta­ mento della manodopera coreana in Giappone: trasporto su navi militari con permessi ufficiali; impiego in stabilimenti privati, s p ess o di proprietà di coreani (con l'eccezione dei bordelli situati al fron t e, ognuno dei quali era aggregato a un reggimento parti­ col are), ma supervisione e controllo in mano all'esercito; cliente­ l a quasi esclusivamente militare, onde ridurre al minimo i rischi di contagio venereo e il rischio di spionaggio. Nel l'A sia sudorientale le cose andarono assai diversamente. Là, l o sta tus delle donne ricorda piuttosto quello dei romusha. I m i l i t ar i le reclutarono e le gestirono per lo più in prima persona. I l s ist e ma dell'inganno fu usato in Indonesia (salvo nel caso delle pr osti t ute di professione, che nei bordelli erano numerose), ma ca si d i vi olenza sono attestati nel Borneo. Nell'ex protettorato bri­ t an n ico del nord di quella grande isola, al capo malese Tun Mu­ s � a pha ( p iù ta rdi primo ministro del Sabah) fu chiesto di fornire Si a l a v ora t ori forzati che donne per i soldati. Adducendo a prete­ s to l a pro p ria fede musulmana riuscì a non ottemperare al secon-



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do dei due obblighi, prima di unirsi alla Resistenza 106 • Nelle Fi­ lippine, dove l'ostilità della popolazione era grande, il ricorso al­ la forza fu più frequente. Un'alta percentuale di ragazze aveva meno di quindici anni (mentre in Corea donne di conforto così giovani rappresentavano casi eccezionali) . Per la maggior parte, a quanto sembra, non furono pagate; essendo sprovviste di qua­ lunque contratto, la durata della loro permanenza presso la «sta­ zione» dipese esclusivamente dall'arbitrio dei militari 107• Le con­ dizioni di vita nel bordello erano estremamente dure. Maria Ro­ sa Henson, arrestata a un posto di blocco, fu prima di tutto vio­ lentata da dodici soldati, poi fu usata come oggetto sessuale ogni giorno dalle 14 alle 22. La sorveglianza era continua, persino in bagno; le donne non avevano il diritto di parlare tra loro. Le vio­ lenze furono frequenti 108 • Infine, in Indonesia, ci fu il caso delle 200 o 300 donne olandesi che divennero ianfu. Quel gruppo era costituito in maggioranza da «volontarie» - sebbene le sinistre condizioni di internamento (vedi il cap. 8) contribuirono a con­ vincerle ad accettare un simile lavoro. Almeno 65 di loro furono costrette a prostituirsi: i giapponesi usarono nei loro confronti le armi dell'inganno, del ricatto e della violenza. Nell'agosto del 1942, nel campo femminile di Tantui, ad Amboina (Molucche), approfittarono, per esempio, della confusione creata dalla sco­ perta di uno scambio clandestino di lettere con il campo nel qua­ le erano rinchiusi gli uomini per prelevare la figlia di un com­ missario coloniale e la moglie di un tenente colonnello: «Due giorni dopo [ . . . ] esse ritornarono. Apparentemente non era stato loro torto un capello. Recavano frittelle e banane e sembravano abbastanza allegre. Ma ciò che era accaduto loro era destinato a rimanere per noi un segreto inviolabile» 109 • Un gruppo di 32 infermiere australiane - colleghe di quel le massacrate a Bangka (vedi il cap. 6) - furono energicamente inci­ tate a prostituirsi agli ufficiali nipponici. Poiché si rifiutarono, le razioni alimentari furono loro ridotte, quindi vennero trasferite in un campo più duro, a Palembang (Sumatra) 110 • I giapponesi, pro­ babilmente timorosi di rappresaglie, furono però più prudenti con le donne olandesi che con quelle asiatiche: accadde infatti che

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ma ssicce proteste e il rifiuto di collaborare da parte delle detenu­ te li facessero desistere dai loro propositi. Ad alcune donne fu ch ie sto di firmare un documento in cui dichiaravano di accettare sp ontaneamente di prostituirsi: quelle che rifiutavano venivano p ercosse. Il comando era diviso: la più vasta operazione di que­ sto genere, ovvero l'apertura di due bordelli a Semarang, fu in­ 111 • terrotta in capo a un mese, nel 1944 Tutte le fonti indicano che nel circuito militare le donne di conforto coreane furono le più numerose. Tuttavia, sussistono dubbi riguardo all'entità delle ci­ fre comunemente avanzate a questo proposito (80% o addirittura 90%) 112 • Da una parte, numerose testimonianze parlano di mas­ sicci reclutamenti locali, in Cina, in Indonesia e nelle Filippine, generalmente per brevi periodi e direttamente a opera delle unità militari, che non eseguivano alcun tipo di registrazione; dall'al­ tra, quasi tutti gli autori sembrano sottovalutare la prostituzione gia p ponese, più libera nei movimenti e ancor meno soggetta alle p astoie della burocrazia. Inoltre, i movimenti coreani nazionalisti che hanno fatto della questione delle ex ianfu una bandiera (in questo sostenuti dalla maggior parte degli storici), sono animati da un'evidente volontà di far apparire le donne coreane come le sole vittime della prostituzione forzata. Uno sguardo sulla seconda grande colonia del Giappone per­ mette di comprendere meglio i meccanismi della prostituzione militare, precisandone, di conseguenza, le responsabilità. Infatti, a Taiwan il fenomeno sembra aver avuto un carattere piuttosto marginale. Su 2268 permessi per raggiungere la Cina concessi a donne di conforto prima del luglio 1941, soltanto 405, ossia meno di un quinto, riguardavano le taiwanesi (contro 1182 giapponesi e 681 coreane). In tutto, fino al 1945, furono circa un migliaio 113• L'is ola era dunque una riserva, più che una fonte principale di prostitute forzate. Dal momento che le ianfu seguivano i movi­ menti delle truppe e spesso, nel loro viaggio verso sud, facevano tappa a Formosa, non stupisce la presenza nell'isola di coreane e sop rattu tto di giapponesi (queste ultime erano comparativamen­ te più numerose in Asia sudorientale). Perché dunque le taiwa­ ne si er ano così poche, pur essendo filogiapponesi e fedeli alla

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causa del Grande Giappone almeno quanto le coreane? Questa apparente anomalia permette di sottolineare due particolarità del caso coreano: da un lato, l'importanza delle esportazioni di lavo­ ratori forzati, che non aveva un equivalente a Taiwan (da cui pro­ venivano, nel 1941, 40.000 operai, di cui 8000 spediti in Giappone 114, contro i 324.000 forniti nello stesso periodo dalla Corea 115); dall'al­ tra, una precoce intemazionalizzazione delle locali reti di sfrutta­ mento della prostituzione, che si accompagnò a una massiccia pe­ netrazione coreana in Manduria e nella Cina settentrionale, al se­ guito dell'esercito nipponico (si veda anche il cap. 10). Per esempio, a Hànkou, sullo Yangtze, i residenti coreani, che nel 1937 erano una manciata, salirono a 1614 nel marzo del 1940. Si trattava di commercianti, ristoratori ecc.; alcuni di loro erano im­ pegnati nella prostituzione militare, anche a livello di gestione; tut­ tavia, nel 1939 i bordelli erano 20 e, dal momento che ognuno di lo­ ro ospitava una ventina di ragazze, le coreane coinvolte non pote­ vano essere più di 200 o 300 11 6 • Importanti comunità coreane nac­ quero un po' dappertutto al riparo delle baionette o in simbiosi con esse. La domanda di sesso da parte dei militari è sempre stata for­ te, e la prostituzione ha svolto un ruolo importante nel soddisfar­ la. li caso dei giapponesi non fu diverso: la loro espansione nel Su­ dest asiatico negli anni '20 fu in gran parte fondata sulle karayuki­ san («quelle che vanno all'estero» o, più precisamente, «in Cina»), che verso il 1910 erano circa 22.000. In Indocina, per esempio, era­ no le prostitute più ricercate dai coloni francesi 1 17• Ma i giapponesi, durante la guerra, annoveravano nelle proprie file molti civili be­ nestanti o ufficiali liberi di uscire dalle caserme: ciò permise il fio­ rire di una prostituzione «d'alto bordo», meno dipendente dalla clientela e dalla protezione militari, dunque meno irreggimentata, e meno presente negli archivi dell'esercito sui quali si basano per lo più gli storici delle ianfu. In ogni caso, a Pechino, nel 1938, in un solo mese, le case delle geisha giapponesi ivi stabilitesi e gli altri bordelli fatturarono ben 7 milioni di dollari cinesi 11 8 • Per contro, l'e­ spansione taiwanese sul continente fu più limitata dal punto di vi­ sta geografico, concentrandosi sulle coste della Cina meridionale, dove le truppe giapponesi non erano molto numerose 1 1 9•

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Anche in Corea, assai prima dello scoppio del conflitto, si ri­ s co ntrano somiglianze con la successiva prostituzione militare_ Nel 191 6 fu promulgata una legge attraverso la quale l'ammini­ s t razione regolamentava la prostituzione; essa, da un lato, garan­ tiva una certa protezione alle prostitute (in particolare attraverso la fi ssazione di un'età minima di 17 anni per svolgere quel tipo di attività e - grazie a un emendamento - della durata massima del contratto, che non poteva superare i cinque mesi); dall'altro, ren­ deva più stretti i controlli da parte della polizia e tendeva a con­ finare i bordelli in zone riservate. A partire dagli anni '20, sebbe­ ne la clientela della prostituzione legale fosse in gran parte giap­ ponese (in seguito, essa arrivò a fornire il 90% dei guadagni deri­ vanti da quell'attività), le ragazze erano per lo più coreane e «il numero di reclutatori coreani superò quello dei loro colleghi giapponesi» 1 20 • Furono create complesse reti, che comprendevano coreani, giapponesi e a volte cinesi, uomini e donne, abitanti del­ le città e delle campagne. Tali strutture si svilupparono in lungo e in largo, dal sud di Sakhalin (Karafuto) al nord della Cina: il si­ stema consisteva nel reperire ragazze povere e trasferirle il più lontano possibile dal loro luogo di origine, onde garantire una maggior docilità. Inoltre, fuori dalla Corea, il prezzo di vendita di una ragazza al bordello spesso poteva essere almeno raddoppia­ to . Si fece massicciamente ricorso all'inganno: il trucco più fre­ quente consisteva nel promettere un buon posto di lavoro, gene­ ralmente in Giappone. Si calcola che 1'80% delle prostitute reclu­ tate verso il 1925 fosse stata raggirata in quel modo: inoltre, es­ sendo vergini, il loro valore cresceva. Non di rado una figlia era venduta dai propri genitori (i quali a volte le annunciavano che par tiv a per sposarsi . . . ) o una moglie dal proprio marito o, se que­ sti era assente, dal suocero. La pietà filiale spinse alcune ragazze a pro stituirsi per pagare i debiti dei genitori. Il totale non è lonta­ n o d alla cifra attribuita al fenomeno delle ianfu: 30.000 ragazze ven d ute ogni anno da 5000-6000 agenti soltanto a Seoul, 5000 del­ l e quali spedite all'estero. Infine, la violenza e gli abusi di tutti i ti­ pi furono, a quanto pare, frequenti: i proprietari dei bordelli corea­ ni, n on di rado oppiomani, ebbero guai con la polizia più spesso di

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quanto non accadde ai loro colleghi giapponesi che operavano in Corea. Ciò li spinse sovente a tentare di rilanciare oltre frontiera in Cina e in Manciuria - la propria carriera compromessa 121 • È evidente che questo traffico si giovò di complicità nell' a m­ ministrazione, la quale, peraltro, come mostrano alcuni indizi, era ben lungi dal chiudere completamente gli occhi. Per esempio, nel 1928, un coreano fu arrestato mentre cercava di imbarcare 26 ragazze alle quali aveva promesso un lavoro in una fabbrica, ma che in realtà aveva intenzione di vendere a Hokkaido 122 • Dieci an­ ni dopo, l'atteggiamento delle autorità non era fondamentalmen­ te mutato, nonostante la guerra. In effetti, il 24 marzo 1938, il Mi­ nistero dell'Esercito spedì agli stati maggiori delle armate ope­ ranti in Cina la seguente circolare: Alcune persone dedite al reclutamento, in Giappone, di donne o di altri impiegati per organizzare stazioni di conforto [ . . ] hanno de­ liberatamente e illecitamente sostenuto di avere il permesso delle autorità militari: ciò ha nociuto alla reputazione dell'esercito ed è stato causa di malintesi con la popolazione. Altri personaggi han­ no provocato problemi sociali tentando di reclutare illegalmente, con l'intermediazione di corrispondenti dal fronte, artiste in toumée ecc. Avendo scelto agenti reclutatori poco affidabili, alcuni di loro sono stati arrestati e sono tuttora interrogati dalla polizia: essi devono dar conto dei loro metodi di ingaggio, che confinano con la pratica del rapimento [ . . . }. In futuro, in caso di reclutamen­ to, ogni armata sarà tenuta a rafforzare il proprio controllo selezio­ nando con cura agenti fidati [ . . . }, e dovrà lavorare in stretta colla­ borazione con la Kempeitai locale o con la polizia. 123 .

Tanaka Yuki ha ragione quando scrive che questo documento è la prova del coinvolgimento dell'esercito nell'organizzazione 2 della prostituzione militare: era comunque difficile dubitarne 1 4• Ciò che egli non dice è che il citato testo ci informa a propo sito dell'esistenza di intermediari privati indipendenti, che i milita ri dovevano frenare, piuttosto che incoraggiare, per quanto non su l­ la base di preoccupazioni umanitarie per la sorte delle vittime di

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quel traffico; tali personaggi sono gravemente responsabili de­ gli ab usi che fecero (e fanno tuttora) soffrire molte donne di c onfo rto. Le ianfu sapevano, comunque, che le autorità poteva­ no a volte essere d'aiuto: per esempio, Yi Yongsuk, che lavorava nel Gu andong cinese, descrive il suo litigio con una ianfu giap­ p onese che la insultava per le sue origini coreane: «Le dissi che l 'avrei denunciata alla polizia per discriminazione; la polizia aveva detto chiaramente che dovevamo essere trattate tutte allo 1 25 s tes so modo» • Le donne di conforto non erano prive di qualunque diritto di fronte ai loro clienti: per esempio, il regolamento proibiva la vio­ lenza o l'ubriachezza. Erano ben lungi dall'essere sempre rispet­ tate, ma sembra che le percosse o le torture costituissero l'ecce­ zione piuttosto che la norma. Una ianfu uccise un soldato che, a quanto pare, aveva attentato alla sua vita: le fu riconosciuto di aver agito per legittima difesa e fu assolta 1 26 • Le comfort women rappresentano una delle tante categorie di lavoratrici forzate, e la loro vicenda si inscrive nella storia abba­ stanza sinistra della prostituzione asiatica, e più specificamente coreana, di cui indicano uno sviluppo, caratterizzato in particola­ re dal fenomeno dell'espatrio, che aveva avuto inizio ben prima dello scoppio del conflitto, e dalla concentrazione sulla vastissi­ ma clientela, poco abbiente ma assicurata, rappresentata dai circa 3 milioni di soldati giapponesi di stanza all'estero tra il 1941 e il 1945. Ci troviamo di fronte all'evoluzione e all'adattamento a nuov e circostanze di un sistema preesistente, non a un fenomeno de l tutto inedito. Si tratta di un aspetto che soltanto Song e Ta­ naka sembrano aver considerato seriamente, anche se, per ragio­ ni id eo logiche, esagerano la specificità delle ianfu. Esiste un terzo aspetto, ancor meno studiato, che riguarda la guerra in sé. Abbiamo visto quale grado di brutalità potesse rag­ gi ungere l'esercito imperiale nel corso delle sue campagne, e qua­ li s offerenze abbia causato a due vasti gruppi umani: le donne e i c in esi. Improvvisamente, persone del tutto ben intenzionate e ostili alla prostituzione come i missionari americani di Nanchino d ecisero di contribuire alla costruzione del sistema delle stazioni

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di conforto, che sorse proprio come reazione all'ondata di stupri che aveva terrorizzato la città (cap. 5). Il 25 dicembre 1937, Lewis Smythe descriveva una strana convergenza di interessi: La Svastica Rossa lavora con i giapponesi per tentare di aprire ca­ se di tolleranza, in modo da soddisfare i soldati e gli ufficiali nip­ ponici senza mettere in pericolo le abitazioni private. Ebbene, è sta­ to proprio Searle, sabato scorso, a suggerire del tutto seriamente questa soluzione [ . . . ] . Il signor Xu dice che sono previsti due cen­ tri [ . ], uno per i soldati semplici e l'altro per gli ufficiali. Il tutto sarà organizzato su base commerciale. Il signor Xu dice anche che il signor Wang, che abbiamo assunto come direttore delle opera­ zioni, [ ] ha parecchi contatti negli ambienti di Nanchino. [ . ] Tutti scoppiano a ridere: Searle il campione delle case chiuse! Sear­ le il sostenitore del capitalismo! 127 . .

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In una lettera, che porta la data dell'8 marzo 1938, Smythe pre­ cisa che la funzione primaria della commissione municipale cine­ se designata dagli occupanti era consistita nell'apertura di tre bordelli per i giapponesi, e aggiunge: «Furono molti coloro che benedissero l'evento !», tanto più che le professioniste, o quanto meno le volontarie, non mancarono: i rappresentanti del signor Wang si recarono in un campo che ospitava 10.000 profughe «e, schioccando semplicemente le dita, fecero saltar fuori 28 prosti­ tute !» 128• I lavori di organizzazione procedettero spediti: il solda­ to Ueba registra nel suo diario l'apertura di una casa il l o gen­ naio: 70 prostitute vi ricevevano 500 militari. Verso la metà dello stesso mese cinque camion pieni di ianfu percorsero le vie della città tra gli «evviva! » dei soldati 1 29• Lo sviluppo della prostituzio­ ne non fu relegato alle stazioni di conforto, che ne rappresenta­ vano soltanto una fase, come si è visto nel caso di Pechino. Bates, un anno dopo, annotava in una lettera: «Adesso abbiamo vasti bordelli aperti a tutti, reclamizzati sul giornale ufficiale, e una le­ gione di ragazze disinvolte che fanno le cameriere nei risto ranti; il che, per Nanchino, rappresenta una completa rivoluzione nei costumi» 130 •

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Questo incanalamento della violenza sessuale nella prostitu­ zi one apparve dunque come un male necessario - e in fin dei con­ ti p o co costoso - agli occhi di coloro che intendevano permettere ai cin esi di riprendere una vita normale. Gli ufficiali erano preoc­ c up ati a causa degli stupri di massa anche per altre ragioni, tra cui la mancanza di disciplina delle truppe, la diffusione crescen­ te delle malattie veneree (che avevano devastato il corpo di spe­ dizione giapponese in Siberia tra il 1918 e 1922) e l'ostilità dei ci­ nesi. Non era raro che contadini furibondi si scagliassero contro violentatori isolati, almeno stando a quanto riferiscono Bates e Ishikawa 131 (cap. 6). Alla fine, nel luglio del 1938, il capo di stato maggiore dell'esercito della Cina settentrionale, il generale Oka­ be Naosaburo, spedì istruzioni assai severe alle proprie unità: [Gli stupri] hanno suscitato sentimenti antigiapponesi di inaspet­ tata intensità [ . . ]. Inoltre, non soltanto le violenze sessuali sono at­ ti illegali [ . . . ], ma anche minano l'ordine pubblico e comprometto­ no le operazioni di tutto l'esercito. Devono essere considerati atti di alto tradimento, che attentano alla nazione [ . . . ] . Accanto a uno stretto controllo del comportamento individuale dei soldati, è di vitale importanza fornire strutture per il conforto sessuale. 132 .

In realtà, gli stupri non cessarono, anche perché una «sveltina>> co n una prostituta costava ai soldati un'intera settimana di paga. Né tali violenze furono punite molto più severamente di prima: l ' unica traccia di repressione del fenomeno si trova nelle 21 con­ danne per stupro inflitte a soldati tra i1 1939 e il 1941 133• Ciò non­ stante, se si osserva il fenomeno dei bordelli militari nel contesto complessivo delle atrocità giapponesi, o anche soltanto in quello d ei c ri mini sessuali commessi dalle truppe imperiali, è difficile scor gervi le vette di orrore, il crimine contro l'umanità per eccel­ l enz a o addirittura il genocidio 1 34 denunciati dai nazionalisti co­ reani e dalle femministe. Il sistema, in ogni caso, non era concepito come un mezzo per op pri mere ulteriormente la popolazione, tant'è vero che fu esteso a b e n e ficiari i quali erano a loro volta vittime come le ianfu, ov-

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vero i lavoratori forzati condotti in Giappone. Nell'ottobre del 1942, l'amministrazione da cui dipendeva quella manodopera decise di fornire donne di conforto ai cinesi delle miniere di car­ bone: venne assegnata una donna a ogni gruppo di venti-trenta uomini, un rapporto «più favorevole» di quello in vigore pres so la maggior parte delle unità dell'esercito 135• I minatori coreani im­ portati furono trattati allo stesso modo. Ancora una volta, lo sco­ po era il mantenimento dell'ordine pubblico. Senza dubbio le stazioni di conforto furono soltanto un anti­ doto tutt'altro che perfetto alla violenza. Accadde, è vero, che a volte costituissero piccole oasi di tranquillità in un mondo in fiamme, e che vi nascessero intense storie d'amore. I bordelli non erano necessariamente legati al consumo sessuale, ma potevano anche diventare luoghi di socializzazione, come dimostra a con­ trario questa affermazione di un ufficiale giapponese: «Recente­ mente, con lo sviluppo di altri centri di conforto [ristoranti, caffè ecc.] il numero di stazioni di conforto militari ha cominciato a di­ minuire» 136• Tuttavia, la durezza della guerra in generale e dell'e­ sercito giapponese in particolare si ripercuotevano anche sulle ca­ se di tolleranza, con le file di soldati che attendevano il proprio turno con i pantaloni già abbassati, i sudici materassi «da lavoro}} delle stazioni mobili situate al fronte, la mancanza di intimità, i preservativi militari di marca «All'attacco!}} la proliferazione del­ ' le malattie veneree (alcuni soldati rifiutavano il profilattico, no­ nostante il regolamento), gli aborti cui le donne erano talvolta co­ strette, le percosse e le minacce da parte di alcuni soldati e - più sistematicamente - dei padroni del bordello . . . Ancora peggiori, forse, furono gli stupri iniziali, spesso commessi da ufficiali cui veniva concesso il privilegio di abusare di fanciulle che non di ra­ do erano ancora vergini, con tutto il corollario di pianti, tentativi disperati di fuggire o di nascondersi e grida di terrore. Non era raro che le vittime si impiccassero subito dopo la violenza 137• D 'al­ tronde, a parte qualche dettaglio, le prostitute coreane attive pri­ ma della guerra avevano già vissuto questa situazione. Ciò che non avevano conosciuto erano le circostanze ag gra­ vanti legate al conflitto. Per esempio - vi abbiamo accennato - le

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ianfu

condividevano in larga misura la sorte delle truppe a cui erano aggregate, ed erano esposte agli stessi pericoli: «Ogni truppa in movimento era sempre seguita da un gruppo di don­ ne c oreane. Con gli orli delle gonne sollevati, tenendo in equili­ b rio sulla testa l'unica valigia che ognuna di loro possedeva, tro tterellavano dietro ai soldati in marcia)) . A ogni sosta prolun­ ga ta, era tirato su alla bell'e meglio una specie di recinto e il «la­ voro>) ricominciava: Dopo circa un'ora, poteva verificarsi un attacco cinese a colpi di mortaio. Una tromba suonava l'allarme. I soldati, con i pantaloni ancora abbassati, correvano disordinatamente. Le donne [ . . . ] si gettavano faccia a terra, riparandosi con le proprie valigie. Alcune erano uccise da proiettili vaganti, ma i soldati se ne infischlavano. Alla fine, con i loro bracciali - su cui si leggeva «Donne di confor­ to dell'Esercito imperiale)) - ancora sporchl, ricominciavano per l'ennesima volta a marciare al seguito delle truppe. 138

Nei bordelli fissi delle città si correvano meno rischi e la si­ tuazione era globalmente migliore. Eppure, le conseguenze delle s confitte e poi della capitolazione si fecero sentire ovunque: a Tengyueh, in Birmania, sette coreane furono uccise a colpi di gra­ nate; in un luogo imprecisato della Micronesia, 70 ianfu, a quanto pare, furono prese a mitragliate; quelle di Saipan si gettarono da­ gli scogli assieme ai civili giapponesi 139; i suicidi, individuali o collettivi, furono frequenti; le sopravvissute furono spesso sog­ gette a stupri e a rappresaglie, in particolare da parte dei russi e dei cinesi. Particolarmente dura da sopportare fu la perdita dei ri­ sparmi accumulati con tanta fatica: infatti, sebbene le modalità di re munerazione fossero state variabili, molte ianfu guadagnarono somme considerevoli: al prezzo di una decina di «sveltine)> al gi o mo potevano percepire quotidianamente l'equivalente della P a ga mensile di un soldato. Come per i lavoratori forzati, il gros­ so d ell a remunerazione era differito alla scadenza del contratto, il che p rodusse frequentemente soprusi e spoliazioni. Molte donne, c om unque , depositarono i propri guadagni presso un'istituzione

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che credevano sicura, la Cassa di risparmio giapponese, presente ovunque durante il conflitto. Nel marasma della disfatta, spesso non poterono pretendere dal Giappone quanto spettava loro; inoltre, l'inflazione del dopoguerra ridusse rapidamente le loro somme a ben poca cosa 140• Persero più dei soldati, che pure per­ cepivano paghe da fame, e la loro sorte fu comune a quella oc­ corsa a decine di milioni di risparmiatori sparsi nel mondo, giap ­ ponesi e non, durante o dopo le due guerre mondiali. Cos'ha dunque di specifico il fenomeno delle ianfu, tenendo conto dei tre ambiti in cui si iscrive, ovvero il lavoro coatto, la prostituzione e la guerra? In primo luogo la centralità della Corea nel reclutamento a media e a lunga distanza. Vi fu un certo nu­ mero, impossibile da determinare ma sicuramente elevato, di ian­ fu locali. Tuttavia, le coreane e, in misura minore, le giapponesi furono le uniche a percorrere l'enorme impero di guerra nipponi­ co. Inoltre, vi fu il costante e importante intervento dell'esercito nel sistema, a partire da gennaio del 1938 (a Nanchino) 141 • Proba­ bilmente esistettero ovunque nel mondo bordelli nei quali si tro­ vavano dei militari, ma il loro funzionamento, ancora poco stu­ diato, sembra essere stato essenzialmente libero e decentralizza­ to. Una particolarità dell'organizzazione militare nipponica svol­ se forse un ruolo capitale nella decisione da parte delle gerarchie di occuparsi della vita sessuale dei soldati: l'assenza quasi totale di permessi 142 • Infatti, dal momento che essi non potevano recar­ si dalle prostitute, occorreva che le prostitute andassero da loro. Peraltro, l'esercito giapponese trattava coloro che erano affetti da malattie veneree come colpevoli (il rischio a cui andavano incon­ tro era quello di essere degradati). Le preoccupazioni mediche fu­ rono al centro del fenomeno delle donne di conforto.

1 Lavoratore forzato. 2 Citato in Yoshinori Murai, Asian Forced l.Jlbour («romusha») on the Burma­ Thailand Railway, in Gavan McCormack, Hank Nelson (a cura di), The Burma­ Thailand Railway: Memory and History, Silkworm Books, Bangkok 1993, p . 63.

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' C itato in Ienaga Saburo, fapan 's Last War, ANU Press, Canberra 1979, p. 12.

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Nicholas Tarling, A Sudden Rampage: The fapanese Occupation of Southeast Asia, 1941-1945, Horizon Books, Singapore 2001, p. 219. s citato in Sato Shigeru, «Economie Soldiers» in fava: Indonesian Mobilized far Agricultural Projects, in Paul H. Kratoska (a cura di), Asian Labor in the War­ t ime fapanese Empire: Unknown Histories, M.E. Sharpe, Arrnonk (NY) 2005, p. 130. ' Quando il riferimento è al periodo posteriore alla conquista nipponica (marzo 1942), useremo il termine Indonesia. In effetti, la dominazione co­ loniale non poté più essere ristabilita. 7W. G. Beasley, fapanese Imperialism, 1894-1945, Clarendon, Oxford 1987, p. 24 9 .

" Remco Raben, Indonesian «Romusha» and Coolies under Naval Administra­ t ion: The Eastern Archipelago, 1942-1 945, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., pp. 198-199. " Benedict R. O'G. Anderson, fava in a Time of Revolution: Occupation and Resi­ stance, 1944-1 946, Cornell University Press, Ithaca-London 1972, p. 13, n. 24. 10 Sato, «Economie Soldiers» in fava cit., pp. 139-140. 1 1 Per il Manchukuo disponiamo di dati precisi: nel 1945 erano presenti nel­ la regione 223.000 civili giapponesi, 140.000 dei quali tornarono in Giappo­ ne (34.000 dopo un soggiorno durato almeno fino al marzo del 1953 nei campi sovietici) . Alcune decine di migliaia di nipponici furono trattenuti in Cina; coloro che sopravvissero furono rimpatriati verso la metà degli anni '50. Circa 78.000 perirono: 11 .500 furono assassinati tra il mese di agosto e i l mese di settembre del 1945 dai cinesi o dai sovietici, mentre 67.000 mori­ rono di farne e di malattia nei campi siberiani o nella stessa Manduria. Cfr. Lo uise Young, fapan 's Total Empire: Manchuria and the Culture of Wartime Im­ perial ism , University of California Press, Berkeley 1998, pp. 409-411 . 12 David P. Barrett, Larry N. Shyu (a cura di), Pacifism in fapan, 1932-1 945: Th e Limits of Accommodation, Stanford University Press, Palo Alto (CA) 2001, pp. 8-9. nH ui - y u Caroline Ts'ai, Total War, Labor Drafts, and Colonia! Administration: Wartime Mobilization in Taiwan, 1 936-1 945, in Kratoska, Southesast Asian Mi n orities cit., p. 117. " Bea sle , fapanese Imperialism ci t., p. 248. y ls lvi, p. 246. " Procla ma n. 11 dell'li aprile 1945, in «Journal officiel de l'Indochine>>, n. l (nuova serie), 2 giugno 1945, p. 3.

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17 Citato in Yamamoto Masahiro, Nanking: Anatomy of an Atrocity, Praeger, Westport (Connecticut) - London 2000, p. 52. 18 lvi, p. 53. 19 Diario del soldato Kitayama, ivi, p. 151, n. 9. 20 lvi, p. 53. 21 lvi, p. 151, n. 7. 22 Lettera al National Christian Council Broadcast (Shànghai), 27 marz o 1938, citata in Shuhsi Hsu, A New Digest offapanese War Conduct, Kelly and Walsh Limited, Shànghài-Singapore-Hong Kong 1941, p. 25. 23 Lee Kuan Yew (Li Guangyào), Memoirs - The Singapore Story, Times Edi­ tions, Singapore 1998, p. 50. 24 Nakamura Yasuhide, in Frank Gibney, Senso: The Japanese Remember the Paciftc War - Letters to the Editor of «Asahi Shimbun», M.E. Sharpe, Armonk 1995, p. 163. 25 Citato in Soka Gakkai, Youth Division, Cries for Peace: Experiences of Japa­ nese Victims of World War Il, The Japan Times, Tokyo 1978, p. 141. 26 Ron Heynneman, Ibu Maluku: The Story of Jeanne van Diejen, an Extraordi­ nary Life in the Vanishing World of the Dutch East Indies, Tempie House, Hartwell (Victoria) 2002, p. 497. 27 Hsu, A New Digest cit., p. 1 67. 28 Paul H. Kratoska, The Japanese Occupation of Malaya, 1941-1945, Hurst & Company, London 1998, p. 102. 29 Hara Fujio, The 1 943 Kinabalu Uprising in Sabah, in Kratoska, Southeast Asian Minorities cit., p. 131, n. 34. 30 lvi, p. 120. 31 Peter Keppy, «Looting» in Southeast Asia. A Discussion on the Deprivation of Property During the Second World War, in Karl Hack, Kevin Blackburn (a cu­ ra di), Proceedings and Papers of the Japanese Occupation: Sixty Years after the End of the Asia-Paciftc War Conference, History Museum, Singapore 2005, pp. 227-236. 32 T. A. Agoncillo, The Fateful Years, citato in Tarling, A Sudden Rampage cit., pp. 242-243. 33 Anderson, fava in a Time of Revolution cit., p. 12, n. 22. 34 Villaggio tradizionale malese. 35 Heynneman, Ibu Maluku cit., pp. 466-467. 36 lvi, p. 498. 37 Affascinati da Mussolini, nel 1925 fondarono un «Partito fascista russ o» a Ha'erbrn. Praticavano anche il rapimento, sia per motivi di lucro che po­ litici, e tra le loro vittime si contarono alcuni ricchi cinesi. Torturarono e

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uccisero due ebrei che avevano sequestrato; l'assassinio del secondo, un gi ovane pianista di nazionalità francese, creò un incidente internazionale, nel quale la Kempeitai si trovò sul banco degli accusati. 1R Zvia Bowman, Unwilling Collaborators: The Jewish Community of Harbin un der the Japanese Occupation: 1931-1945, comunicazione presentata all'In­ ternational Convention of Asia Scholars, Noordwijkerhout (giugno) 1998, PP · 4-6.

,

39 H su , A New Digest cit., p. 1 77. "' Frank Oliver su «Asia» (rivista pubblicata a New York), maggio 1940, ci­ tato in ivi, p. 199. Ginza e Yoshiwara sono due celebri quartieri di Tokyo. 41 Tarling, A Sudden Rampage ci t., pp. 224-225. 42 Ka-Chih-ming, Japanese Colonialism in Taiwan: Land Tenure, Development and Dependency, 1 895-1 945, Westview 1995. 43 lshibashi Naokata, ex membro dell'Unità 731, in Gibney, Senso cit., p. 112. 44 Citato in Honda Katsuichi, The Nanjing Massacre: a Japanese Journalist Con­ fronts Japan's National Shame, Penguin Books India, New Delhi 2000, p. 93. '5 Tarling, A Sudden Rampage cit., p. 230. 46 David Tucker, Labor Policy and the Construction Industry in Manchukuo. Sy­ stems of Recruitment, Management and Contro[, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., pp. 50-51. 47 lvi, p. 53, 57. Jean-Luc Domenach (Chine: l'archipel oublié, Fayard, Paris 1992) ha dimostrato che, malgrado il lavoro imposto ai detenuti, il ltiogtfi cinese non fu mai redditizio. 48 Ju Zhifen, Northern Laborers and Manchukuo, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., pp. 66-69. 49 lvi, pp. 72-73. 50 Questo termine giapponese significa «lavoratore», senza sfumature peg­ gior ative. Per designare i lavoratori forzati sembra essere stato di uso cor­ rente soltanto in Indonesia. Tuttavia, ci sentiamo autorizzati a usarlo an­ che per altri territori in cui la situazione era assai simile. Come abbiamo o sservato, il fenomeno fu sufficientemente originale, rispetto alle pratiche col oniali e anche all'SLO, per meritare un sostantivo proprio. 5 1 C itato in Tarling, A Sudden Rampage ci t., p. 246. 52 Ri cardo Trota Jose, Socio-Economie Impact of the Pacific War on the Philippi­ n es: The Question of Labor, comunicazione al XVIII Congresso dell'IAHA, A ca demia Sinica, Taibei Shì (dicembre) 2004, pp. 7-8. 53 C itato in Harry A. Poeze, The Road to Hell: The Construction of a Railway Li ne in West fava during the Japanese Occupation, in Kratoska (a cura di), As ia n Labor cit., p. 174.

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54 Anton Lucas, The Communist Anti-Fascist Movement in fava, in Anton Lu­ cas (a cura di), Local Opposition and Underground Resistance to the fapanese in fava, 1942-1 945, Centre of Southeast Asian Studies/Monash University 1986, p. 38. 55 Se ne ricava il chinino, il primo farmaco antimalarico. 56 Sintha Mela ti, In the Service of the Underground: the Struggle against the fa­ panese in fava, in Lucas, Local Opposition ci t., p. 200. 57 Sato, «Economie Soldiers in fava» cit., p. 143. 58 Melati, in Lucas, Local Opposition cit., p. 187. 59 Per la prima valutazione, vedere Raben, in .Kratoska, Southeast Asian Mi­ norities cit., p. 210; per la seconda cfr. Henk Hovinga, End of a Forgotten

Drama: The Reception and Repatriation of «Romusha» after the fapanese Capi­ tulation, in .Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., p. 214. Circa 225.000 dei 300.000 coolie giavanesi partirono verso il resto dell'arcipelago indonesia­ no e la maggior parte degli altri fu inviata presso la ferrovia Thailandia­ Birmania, che ricevette 45.000 indonesiani. La differenza tra le due valu­ tazioni si spiega con le modalità di calcolo della seconda, che si basa sul confronto tra le partenze da Giava e i ritorni organizzati, e non tiene quin­ di conto né dei ritorni individuali né delle persone che si stabilirono nel luogo di deportazione, in particolare attraverso il matrimonio. 60 Raben, in .Kratoska, Asian Minorities cit., pp. 201-210. 61 Paul H. .Kratoska, Labor in the Malay Peninsula and Singapore During the fa­ panese Occupation, in .Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., p. 242. 62 ln ogni caso, non furono mai più di 80.000 in una volta sola, tenendo con­ to dei rimpatri, dei morti e delle numerose fughe, più facili che per gli oc­ cidentali. 63 Yoshinori Murai, Asian Forced Labor («romusha») on the Burma-Thailand Railway, in McCormack, Nelson, The Burma-Thailand Railway cit., pp. 6162. 64 Peraltro Kono è descritto come «un uomo ragionevole che aveva a cuo­ re il benessere dei suoi subordinati», in Goh Chor Boon, Living Hell: Story of a WWII Survivor at the Death Railway, Asiapac, Singapore 1999, p. 80. 65 «Aiuto!» in malese. 66 Citato in Goh, Living Hell cit., p. 83. 67 Citato in E. Bruce Reynolds, History, Memory, Compensation and Reconci­ liation: The Abuse of Labor along the Thailand-Burma Railway, in .Kratoska, Asian Minorities cit., p. 417, n. 37. 68 Paul H. .Kratoska, Labor in Malaysia, 1 930s-1 950s, comunicazione al :XVID Congresso dell'IAHA, Accademia Sinica, Taibei Shì (dicembre) 2004, p. S .

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69 Arnold C. Brackman, The Other Nuremberg: the Untold Story of the Tokyo war Crimes Trials, William Morrow, New York 1987 pp. 255-260. 'o 5econdo un sopravvissuto, Sjovald Cunyngham-Brown, citato in Char­ les Allen, Tales from the South China Seas: Images of the British in South-East Asia in the Twentieth Century, Futura, London 1983, p. 283. '' Hovinga, End of a Forgotten Drama cit., p. 229. n Heynneman, Ibu Maluku ci t., p. 494. 73 Citato in Poeze, The Road to Hell, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., p. 1 65 .

74 Ivi, pp. 165, 1 73. 75 Nakahara Michiko, Malayan Labor on the Thailand-Burma Railway, in Kra­ toska (a cura di), Asian Labor cit., p. 251 . 76 Testimonianza d i Mooniandy Ramasamy, in ivi, p. 257. 77 Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., p. 241 . 78 lntroduzione, in Kratoska, Asian Labor cit., p. XV. 79 Kratoska, Labor Mobilization in Japan and the Japanese Empire, in Kratoska (a c ura di), Asian Labor cit., p. 20. 80 Michael Weiner, Race and Migration in Imperial Japan, Routledge, London­ New York 1994, p. 199. 81 Naitou Hisako, Korean Forced Labor in Japan 's Wartime Empire, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., pp. 93-94. 82 lvi, p. 96. 83 John W. Dower, War without Mercy: Race and Power in the Pacific War, Pantheon, New York 1986, p. 47. "" Ju Zhifen, Nothern Laborers and Manchukuo, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., pp. 70-71 . 85 Dower, War without Mercy cit., p. 47. 86 Testimonianza di Yamane Masako, in Haruko T. Cook, Theodore F. Cook, fapa n at War, The New Press, New York 1992, pp. 436-437. 87 Weiner, Race and Migration cit., p. 206. 88 lvi, p. 202. 89 Tarling, A Sudden Rampage cit., p. 233. 90 Lee, Memoirs cit., pp. 71-72. 9 1 Nation Heritage Board (NHB), The Japanese Occupation 1942-1 943 - A Pic­ to rial Record of Singapore During the War, Times Edition, Singapore 1996, p p . 126 -131; Kratoska, The Japanese Occupation of Malaysia cit., pp. 167-170. 92 Kratoska, The Japanese Occupation of Malaysia cit., pp. 252-253. 93 Nel 1945 vi fu un primo miglioramento (35.000 morti), forse dovuto uni­ camente alla fine dell'occupazione in settembre.

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94 Kratoska, The Japanese Occupation of Malaysia ci t., p. 276. 95 Sato Shigeru, War, Nationalism and Peasants: fava under the Japanese Occu­ pation, 1942-1945, M.E. Sharpe, Armonk (NY) 1994, p. 117, 122. 96 Melati, In the Service of the Underground, in Lucas, Local Opposition cit., p. 190. 97 Sato, «Economie Soldiers», in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., pp. 138140. 98 Kratoska, Labor Mobilization in Japan and the Japanese Empire, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., p. 239. 99 Citato in Reynolds, History, in Kratoska, Asian Minorities cit., p. 334. 100 Poeze, The Road to Hell, in Kratoska (a cura di), Asian Labor cit., p. 173. 101 Si tratta di una traduzione letterale del termine giapponese ianju, con il quale le truppe giapponesi spesso le designarono. In italiano si rende con «donne di conforto». 102 Nel 1948, dodici tra militari giapponesi e padroni di bordelli per l'eser­ cito furono condannati (uno alla pena capitale), per aver costretto a pro­ stituirsi alcune decine di detenute civili olandesi. Un processo dello stes­ so genere si era già celebrato nel 1946. 103 Questa valutazione (indiretta) dipende principalmente dal numero me­ dio di militari attribuiti a ciascuna prostituta: ogni armata giapponese ave­ va una propria norma, che poteva variare da trenta a cento. Inoltre, spes­ so detta norma non venne rispettata. Infine, esisteva una sorta di rotazio­ ne, per cui, stando alle testimonianze, soltanto una minoranza di donne lavorò per tutta la durata del conflitto. Cfr. Yoshimi Yoshiaki, Comfort Wo­ men: Sexual Slavery in the Japanese Military during World War II, Columbia University Press, New York 2002 (tradotto dal giapponese), pp. 91-94. 1 04 È il principale rimprovero che si può muovere alla quasi totalità dell a considerevole letteratura sul tema. 1 05 Chin-Sung Chung, The Origin and Development of Military Sexual Slavery in Imperia[ Japan, «Positions: East Asia Culture Critique>>, vol. 5, n. l (The Comfort Women: Colonialism, War and Sex), primavera 1997, pp. 303-309. 106 0oi Keat Gin, The «Slapping Monster» and Other Stories: Recollections of the Japanese Occupation (1941-1 945) of Borneo through Autobiographies, Bio­ graphies, Memories and Other Ego-Documents, comunicazione presentata al XVIIT Congresso dell'International Association of Historians of Asia, Aca­ demia Sinica, T> 47• Alcune tra le figure più sinistre del Giappone bellico ebbero il loro momento di gloria: per esempio, il colonnello Tsuji Masano­ bu, che a quanto sembra era stato il pianificatore del sook ching a Singapore e in Malesia (vedi il cap. 6) e aveva tentato di stermi­ nare i prigionieri di guerra americani catturati nelle Filippine, rientrò clandestinamente in Giappone verso la metà del 1948, do­ po essere sfuggito alla giustizia militare britannica grazie a con­ tatti con ambienti vicini a Chian g Kai-shek. Quando le accuse a suo carico caddero (1950), si riciclò come autore di successo di racconti di guerra più o meno autobiografici, e riuscì a farsi eleg­ gere trionfalmente alla Dieta nel 1952 come candidato indipen­ dente. Nel 1955 partecipò alla fondazione del Partito liberalde ­ mocratico (PLD) diventandone un dirigente. Si batté per il riarmo del Giappone e nel 1957 riuscì persino a farsi ricevere da Tito e da Zhou Enlai. Nel 1958 risultò il terzo candidato più votato alla Ca­ mera Alta, ma nel 1959 il suo passato criminale riaffiorò. Relega­ to ai margini, nel 1961 intraprese una missione in Laos, allora in piena guerra civile, e scomparve misteriosamente 48 • Quanto ai responsabili dell'Unità 731 (che si occupava della guerra batteriologica, vedi il cap. 6), la maggior parte dei su oi membri compì brillanti carriere nella sanità pubblica: uno di loro ricoprì la carica di presidente del Centro nazionale di ricerca sui tumori e successivamente dell'Associazione dei medici giappo­ nesi; un altro divenne medico capo delle forze di autodifesa; un altro ancora diresse la società di meteorologia. Molti di loro ric e-

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vettero titoli e premi da università giapponesi e straniere. Alcuni fon darono una delle principali società per la raccolta del sangue, la G reen Cross Company, implicata negli anni '80 in uno scanda­ lo di vaste proporzioni: circa 1500 persone furono infettate dal vi­ r us HIV per aver usato sangue fornito dalla compagnia 49• In confronto agli insopportabili esempi appena fatti, il caso del p ittore Fujita Tsuguji (vedi il cap. 3) può sembrare un piccolo aneddoto. Questa figura di spicco tra gli «artisti di guerra>> non aveva mai espresso il minimo dubbio riguardo alla giustezza del­ la causa imperiale. Ebbene, la sua «traversata del deserto», intra­ presa dopo la capitolazione, durò soltanto poche settimane. Al pari di molti suoi compatrioti, a cominciare dall'Imperatore, Fuji­ ta non riconobbe alcuna colpa. In compenso, seppe capire in che direzione tirava il vento. Già nell'ottobre del 1945 si giustificò co­ sì con la stampa: Non accetto che i pittori, che per natura sono sinceri amanti della libertà, possano essere considerati come militaristi. La maggioran­ za di loro si è limitata a fare il proprio dovere fino in fondo, come 1 00 milioni di loro compatrioti che hanno partecipato al conflitto, dopo che un improvviso decreto imperiale aveva annunciato l'ini­ zio delle ostilità. Quei pittori sono coloro che hanno pagato il prez­ zo più alto. Sll

Queste dichiarazioni, peraltro, non gli evitarono di essere in­ ser ito in una lista nera da un'organizzazione di artisti di fede co­ munista (la quale, peraltro, aveva anch'essa al suo interno ex pit­ tori militaristi . . . ) : Fujita Tsuguji h a collaborato nel modo più attivo ed energico con l'esercito attraverso la sua arte. Ha contribuito alla produzione di propaganda militarista. Essendo una voce ascoltata nel mondo del­ l' arte, come nella società, ha avuto un ruolo importante nei movi­ menti militaristi e ha esercitato un'influenza particolarmente forte sull'intero popolo. 51

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Tutto ciò non precluse a Fujita l'opportunità di continuare a essere il più importante collaboratore degli americani nel campo dell'arte, ruolo assunto a partire dall'ottobre del 1945: raccoglie­ va per i vincitori i dipinti di guerra, senza privarsi, per inciso, di piazzare alcuni suoi quadri presso le migliori collezioni america­ ne. Quanto alla missione da lui svolta per conto dell'Imperatore nell'Indocina occupata (1941), essa non gli impedì di essere natu­ ralizzato francese nel 1955 52 , • •

Un pentimento sincero ? 53 La sincerità, nel lessico di origine confuciana entrato nella lin­ gua giapponese, è una virtù cardinale. Ebbene, la reiterazione, da parte nipponica, di «scuse» che mai potrebbero soddisfare piena­ mente le vittime dell'impero, fa pensare che la loro sincerità sia per lo meno poco convincente. Su questo punto, da parte delle autorità cinesi e coreane, si registra un'insistenza che in parte è il frutto di un calcolo politico (vedi il cap. 12), ma l'atteggiamento dei dirigenti di Tokyo continua ad apparire contraddittorio. Le solenni dichiarazioni di rammarico 54, a uso quasi esclusivo del­ l' opinione pubblica internazionale, sono prima di tutto azioni di­ plomatiche, spesso inframmezzate da «gaffe)) (sotto forma di di­ scorsi o di gesti) a uso principalmente interno, che rovinano tut­ to. Quanto all'introspezione, ovvero all'analisi di ciò che, nella so­ cietà, nella cultura o nella storia del Giappone ha reso possibile che si giungesse a tali eccessi, è praticamente assente (se si eccet­ tua il lavoro di un pugno di intellettuali). L'ambiguo balletto dura ormai da cinquant'anni. Il primo mi­ nistro Yoshida Shigeru (1878-1967), che dominò il panorama po­ litico giapponese dal 1946 al 1954, fu il primo a dirsi dispiaciuto per i danni causati dal suo paese, in occasione della firma del trat­ tato di pace di San Francisco: Abbiamo qui ascoltato, tra le altre cose, alcuni delegati che hanno ricordato le terribili sofferenze umane e le grandi distruzioni ma-

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teriali provocate dalla guerra nel Pacifico. È con un sentimento di tristezza che ripensiamo alla parte avuta dal vecchio Giappone in quella catastrofica esperienza umana. Parlo di «vecchio Giappo­ ne», perché dalle sue ceneri è sorto un Giappone nuovo. Il mio po­ polo è stato fra quelli che hanno grandemente sofferto a causa delle distruzioni e delle devastazioni del recente conflitto. Purga­ to attraverso tale sofferenza da qualunque ambizione sconve­ niente e da ogni velleità di ripercorrere il cammino della conqui­ sta militare, il mio popolo arde ormai dal desiderio appassionato di vivere in pace con i suoi vicini dell'Estremo Oriente e con il mondo intero. 55

Notiamo che per giustificare il suo paese Yoshida fa ricorso a due argomenti: anche il Giappone ha sofferto e, soprattutto, è cambiato in tutto e per tutto e vuole guardare avanti. Detto in al­ tri termini: d'accordo, se la cosa vi può far piacere ci scusiamo, ma non seccateci più con questa storia. In effetti, fino all'inizio degli anni '80, i vicini del Giappone si mostrarono piuttosto accomodanti (vedi il cap. 12) . Per piccoli passi successivi, lo Stato, costantemente in mano a una solida maggioranza conservatrice, intraprese quindi un'opera di restau­ razione di quanto poteva essere salvato dell'era Meiji, pur senza mettere in discussione - e non è cosa da poco - l'abbandono del colonialismo, dell'espansionismo territoriale e del militarismo. In quell'operazione fu aiutato dal clima di confronto con il comuni­ smo, alimentato in particolare dalla recente guerra di Corea (1950-1953). Fin dal 1953, nel corso della «purga rossa», oltre 10.000 simpatizzanti del partito comunista erano stati cacciati dai loro posti di lavoro, pubblici e privati. Tuttavia, l'insegnamento universitario (compreso quello della storia) rimaneva (e in parte rimane ancora oggi) una delle roccaforti del marxismo. Di conseguenza, nel 1955 fu orchestrato un violento attacco da p arte del neonato PLD contro i «manuali rossi», che si rifletté in un accentuato controllo del Ministero dell'Educazione sul loro contenuto, mentre MacArthur, attenendosi al principio di una larga liberalizzazione, aveva inteso semplicemente fornire al Mi-

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nistero un'arma per impedire il risorgere dell'ultranazionalismo. Avvenne dunque che un terzo dei manuali fosse respinto; cosic­ ché, per una ventina d'anni dai libri di testo sparì ogni riferimen­ to ai massacri, compreso quello di Nanchino. In pubblico, l'e­ spressione «guerra della Grande Asia dell'Est» cominciò a sosti­ tuire «guerra del Pacifico», resa obbligatoria dallo SCAP. Ci si ri­ feriva al processo di Tokyo come alla «vendetta dei vincitori»; il clima stava cambiando, come rivelava il mutato atteggiamento nei confronti dei «soldati perduti» (in tutti i sensi) che continua­ vano a essere rimpatriati dalle remote giungle in cui erano stati ritrovati, e dove erano vissuti credendo che la guerra non fosse fi­ nita. Fino al 1952 la stampa li aveva dipinti come esseri pericolo­ si, a malapena umani: erano definiti «Tarzan» . A partire dal 1955, invece, cominciarono a essere visti come eroi che incarnavano i valori virili del Giappone tradizionale; vennero soprannominati «spiriti viventi dei caduti nel conflitto». Contemporaneamente, si registrò il successo senza precedenti delle memorie di guerra, ve­ ro fenomeno editoriale. Inoltre, la potente Associazione delle fa­ miglie in lutto (che ancora oggi costituisce una non trascurabile lobby) si avvicinò al PLD, al quale l'univa la rivendicazione del ritorno a una dimensione pubblica del santuario di Yasukuni 56; da allora questa alleanza non è mai venuta meno. La mitologia imperiale era ancora ben viva: nel 1966, la data dell'incoronazione del mitico primo Imperatore ridivenne festa nazionale e, due anni dopo, fu celebrato in pompa magna il cen­ tenario di Meiji. La sinistra radicale, allora assai aggressiva, pre­ feriva guardare al Vietnam e attaccare gli americani, il che non la faceva necessariamente andare d'accordo con la destra nazionali­ sta. Intravediamo qui il problema principale dell'epoca, ovvero la generale mancanza di interesse per il periodo della guerra, di cui si occupavano soltanto i nazionalisti nostalgici, che erano peral­ tro un pugno di uomini. Emblematico a questo proposito fu il sui­ cidio dello scrittore fascisteggiante Mishima Yukio, nel 1970, in seguito a un tentativo di colpo di stato «in stile 1936» (vedi il cap . 3), durante il quale egli fece soprattutto la figura del pazzoide, degno di pietà più che di repulsione. La grande avventura era

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r app resentata dall'«alta crescita», termine quanto mai giustifica­ to e preso dal lessico economico. Il consenso di Tokyo era assai comodo e dunque, in mancanza di meglio, rimase in auge: esso sc aricava tutta la responsabilità della guerra su un piccolo grup­ po di cospiratori ormai inoffensivi, ed evitava di coinvolgere la n azione giapponese. Tuttavia, su scala asiatica, fu l'arcipelago nipponico a dare il segnale: gli altri paesi seguirono soltanto die­ ci o vent'anni dopo. Il riavvicinamento con la Cina, che nel 1971 si riaprì al mondo, fu probabilmente il fattore scatenante. La pri­ ma «inchiesta sul campo» del giornalista di sinistra Honda Kat­ suichi condotta direttamente nel continente (vedi i capp. 5 e 6) ri­ sale allo stesso anno. Alcuni dossier sepolti da lungo tempo negli archivi furono riaperti, certe ferite ricominciarono a sanguinare e, soprattutto, i giapponesi (o almeno una parte di essi. . . ) furono costretti a constatare che non erano stati gli unici a soffrire, e che l'alibi di Hiroshima non poteva essere eternamente invocato per opporsi a qualunque esame delle atrocità commesse dall'Impero. Involontariamente, le reazioni violente di ex militari e storici na­ zionalisti e le interminabili polemiche che seguirono contribuiro­ no a creare un nuovo clima intellettuale. Anche l'opinione pub­ blica fu scossa: per esempio, tra la fine degli anni '70 e il 1982, la percentuale di giapponesi che dichiarava di discutere del patriot­ tismo del periodo bellico scivolò dal 21% al 9%, mentre coloro che esaltavano il coraggio delle forze armate scesero dal 18% al 9%. Per contro, la percentuale di coloro che parlavano apertamente della crudeltà dei militari balzò dal 15% al 27%. Il termine «ag­ gressione», riferito al Giappone del tempo di guerra, era accetta­ to dal 51% degli intervistati nelle inchieste, mentre soltanto il 22% riteneva sbagliato il suo uso. L'83% dei giapponesi considerava appropriato il pentimento per i crimini commessi 57• I manuali sc olastici, da parte loro, cominciarono a reintrodurre il massacro di Nanchino e altri episodi del genere fin dalla metà del decennio. I mprovvisamente, all'inizio degli anni '80, l'ala destra del PLD si sentì in obbligo di riprendere la battaglia contro i manuali, sfo­ cia ta nella grande controversia internazionale di cui tali libri fu­ ro n o oggetto a partire dal 1982 (vedi il cap. 12) 58 •

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Il contrattacco di una destra nazionalista ormai da vent'anni sulla difensiva, si dispiegò su due fronti: da un punto di vista sto­ rico, Tanaka Masaaki, ex segretario del generale Matsui (vedi cap . 5) divenne l'araldo del revisionismo radicale pubblicando nel 1984 il primo di una serie di libri che negavano totalmente l'esi­ stenza di un massacro perpetrato a Nanchino. Sulla scia del suc­ cesso di quelle opere, intentò una causa per ottenere una revisio­ ne delle «bugie» dei manuali, ma perse un primo processo nel 1987 e un secondo nel 1989 59• In risposta, nel 1984 fu fondato un «Gruppo di studi sull'Incidente di Nanchino», che combatté il re­ visionismo attraverso un gran numero di pubblicazioni. La rivi­ sta «Kaiko», di orientamento revisionista moderato, tra il 1983 e il 1985 riportò le testimonianze di numerosi veterani, con risulta­ ti ambigui. Infatti, essi si prefiggevano di difendere i loro commi­ litoni, ma per far ciò dovettero rievocare un buon numero di atro­ cità commesse dall'esercito giapponese, che furono così autenti­ cate da personaggi non sospetti di nutrire simpatie di sinistra. Po­ co alla volta, la maggior parte della corrente revisionista dovette battere in ritirata: piuttosto che negare in blocco, essa concentrò le proprie critiche sulle «esagerazioni» dei suoi avversari (talvol­ ta denominati «tradizionalisti» ), con particolare riguardo al nu­ mero delle vittime dei fatti di Nanchino e insistendo continua­ mente sul concetto di «contestualizzazione» degli episodi incri­ minati, eterna scusa per giustificare le peggiori atrocità. Tutti i manuali in uso alla fine degli anni '80 menzionavano Nanchino, citando a volte come verosimili le stime cinesi delle vittime (vedi cap . 5). Nel corso del decennio successivo si prov­ vide a integrarli con «casi celebri» come quello dell'Unità 731 o delle comfort women . Stando alla letteratura pedagogica, a livello di insegnamento questi cambi furono reali: i dettagli delle atro­ cità erano ampiamente noti agli insegnanti, molti dei quali ma­ nifestarono un atteggiamento improntato all'autocritica. Un se­ gno dei tempi: nel 1994, presso il museo della Pace di Hiroshima (uno dei luoghi più visitati del Giappone, sia dagli studenti che dai turisti), si poté finalmente leggere un riferimento, sebbene in sordina, alle atrocità commesse dal Giappone in Cina. Nel 1993

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nacque un «Centro di ricerca e documentazione sulle responsa­ bilità del Giappone nel conflitto», che ispirò parecchi lavori di ri­ cerca. Contemporaneamente, numerosi avvocati nipponici offri­ rono i propri servigi alle vittime dell'Impero, che a partire dal 1 990 assai più frequentemente che in passato si rivolsero ai tri­ bunali giapponesi per ottenere indennizzi e scuse (cap. 12). Per esempio, nel 1998, più di 200 uomini di legge lavorarono per i so­ li querelanti cinesi; inoltre, ' una mostra sull'Unità 731 attirò 40.000 visitatori. Possiamo dunque affermare che verso la metà degli anni '90, nel campo della storia (nel senso più largo del termine, compren­ dente la ricerca, l'insegnamento e la divulgazione) il revisioni­ smo, in piena ritirata, pareva destinato a una totale emarginazio­ ne. Le cose andarono invece diversamente sul piano politico, sempre dominato da un PLD (o da dissidenti ideologicamente vi­ cini), in seno al quale i revisionisti costituivano un gruppo di pressione tanto attivo quanto folto (nel 1995 rappresentavano cir­ ca i due terzi del gruppo parlamentare del partito) 60 • Per esempio, nel 1994, 161 deputati sostennero una petizione (firmata da più di 4,5 milioni di persone) contro le scuse «masochistiche» spesso proferite dalle autorità nazionali dell'epoca. Di tanto in tanto, uo­ mini politici di primo piano rilasciarono dichiarazioni dal tenore s imile, che provocarono in alcuni casi veri e propri incidenti di­ plomatici, i più gravi dei quali si conclusero con dimissioni e rin­ novate scuse . . . Peraltro, non è eccessivo sostenere che costoro di ssero ad alta voce ciò che molti loro colleghi pensavano. Per esempio, nel 1986, Fujio Masayuki (1917-2006), ministro d ell' Istruzione, giustificò pubblicamente gli eccidi di Nanchino, denunciando la «vendetta razziale» rappresentata dal processo di Tokyo 61• Poiché rifiutava di chiedere scusa o di dimettersi, fu li­ cenz iato dal governo a opera del primo ministro Nakasone: si tra tt ava di una misura senza precedenti nel dopoguerra. L' episo­ di o non impedì a Fujio di essere sistematicamente rieletto fino al s u o ritiro dalla scena pubblica, dieci anni dopo. Nel 1994, Hashi­ rn ot o Ryutaro (1937-2006), futuro primo ministro, sostenne che il Gi a ppone imperialista non aveva fatto altro che conformarsi alle

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regole dell'epoca. Nel giugno del 1995 Watanabe Michio, mini­ stro degli Esteri, dichiarava con grande scandalo dei coreani che il loro paese non era una vittima del colonialismo, poiché nel l910 i suoi dirigenti avevano accettato favorevolmente l'annessione al­ l'impero. Nel 2000, il primo ministro Mori Yoshiro (nato nel 193 7) affermò che il Giappone era «un paese divino con al centro l'Im­ peratore», e usò il termine proibito kokutai, ponendosi in conti­ nuità diretta con il nazionalismo d'anteguerra 62• Non si scusò, ma la sua popolarità subì un crollo, tanto che dovette ritirarsi dopo soltanto un anno al potere. Nel 1999 i nazionalisti ebbero la sod­ disfazione simbolica di vedere la bandiera con il Sol Levante e l'inno nazionale Kimi ga yo riconosciuti come simboli nazionali per legge (allo stesso modo che in Germania, il loro uso, raro, era fino a quel momento contestato). La pressione del revisionismo era dunque forte. Essa però non impedì a diversi primi ministri di fare, dopo il 1990, dichiarazio­ ni di scuse più ardite di quelle che si erano sentite fino a quel mo­ mento. La morte di Hirohito, nel 1989, rappresentò un fattore di «sblocco», che si avvertì anche nella storiografia giapponese, la quale osò infine considerare freddamente le responsabilità del Tenno nella guerra. In effetti, l'Imperatore era stato deliberata­ mente e costantemente ambiguo a proposito del proprio ruolo e si era sempre rifiutato di presentare scuse di qualunque tipo. An­ no dopo anno, in occasione delle cerimonie del 15 agosto in omaggio alle vittime nipponiche, ripeteva meccanicamente la stessa formula: «Questa guerra che deploro profondamente». Ep­ pure, nel 1971, visitando la Gran Bretagna (vedi il cap. 12), non espresse alcun rammarico: per questo motivo fu apostrofato dal­ la regina con parole al limite della scortesia diplomatica. Nei Pae­ si Bassi dovette affrontare più di una manifestazione di ex inter­ nati (vedi il cap. 8) e il parabrezza della sua auto fu infranto da l lancio di un termos. Al suo ritorno, interrogato da un giornalista del «Times» a proposito della sua responsabilità nel conflitto, se ne uscì con questa stupefacente risposta: «Non posso rispondere a una simile domanda, poiché non ho studiato la bibliografia sul­ l'argomento». Molti giapponesi si sentirono a dir poco imbaraz-

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e ne tirarono le dovute conseguenze, seppur con ritardo: un mese dopo il decesso del sovrano, il 45% degli intervistati nel­ l' a mbito di un sondaggio giudicò l'Imperatore parzialmente re­ s p ons abile della guerra (mentre il 29% lo riteneva del tutto incol­ p evole) 64• Tuttavia, il Tenno ha compiuto anche alcuni gesti posi­ tivi: per esempio, a partire dal 1978 cessò di recarsi in visita pres­ so il santuario di Yasukuni, quando apprese che avrebbe dovuto p assare accanto alle tavolette che commemoravano i criminali impiccati nel 1948. Bisognava evitare il rischio di compromettere il futuro della monarchia, preoccupazione costante di Hirohito durante tutta la sua lunga vita 65• Akihito (nato nel 1933) ha se­ guito le orme del padre astenendosi dal visitare Yasukuni. In occasione delle cerimonie del 15 agosto 1993, il nuovo primo ministro, Hosokawa Morihiro (nato nel 1938), nipote del primo ministro Konoe e membro del PLD, rettificò il tiro evocando «l'in­ giusta guerra d'aggressione» condotta dal proprio paese. Ancora più esplicito, il 15 agosto 1995, fu il discorso del 50° anniversario, p ronunciato dal primo ministro Murayama Tomiichi (nato nel 1924, è stato il primo premier socialista in 47 anni), che dichiarò: z a ti 63

Durante un certo periodo appartenente a un passato non molto lontano, il Giappone, che perseguiva una politica nazionale erro­ nea, avanzò sulla via della guerra. Il popolo giapponese fu trasci­ nato in una crisi fatale e, attraverso la dominazione coloniale e l' ag­ gressione, causò terribili danni e sofferenze a molti paesi, in parti­ colare alle nazioni asiatiche. Nella speranza che simili errori non siano ripetuti in futuro, ritengo, in tutta umiltà, che simili fatti sia­ no inconfutabili da un punto di vista storico ed esprimo qui una volta ancora i miei sentimenti di profondo rimorso; presento altre­ sì le mie scuse dal profondo del cuore. Permettetemi anche di esprimere la mia partecipazione al lutto che ha toccato tutte le vit­ time di questo episodio della storia del mondo, sia che vivano in Giappone sia che vivano all'estero. 66

Questa posizione (che fu contemporaneamente fatta propria d a lla Dieta attraverso una solenne risoluzione, peraltro meno

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precisa nei termini) divenne quella, più volte riaffermata, dello Stato nipponico, anche dopo la caduta dell'effimero Murayama e persino sotto un premier fortemente legato agli ambienti revisio­ nisti come Hashimoto, che governò tra il 1996 e i1 1998. Anche Koizumi ha ripetuto la dichiarazione sopra riportata, parola per parola, in occasione del 60° anniversario dell'agosto 1945 67•

Musei e memoriali L'occupazione americana si propose non soltanto di rompere con la storia così com'era insegnata dall'epoca Meiji, ma anche con la memoria su cui si basava. A partire dal gennaio del 1946 ai pubblici ufficiali fu proibito di partecipare alle cerimonie di commemorazione dei caduti del conflitto, che non potevano svolgersi in luoghi pubblici. Un'operazione ancora più spettaco­ lare consistette nella rimozione di oltre 5000 monumenti, statue incluse, di cui due terzi furono distrutti e gli altri subirono mo­ difiche o furono spostati in spazi più discreti. La proibizione di celebrare cerimonie pubbliche fu tolta nel febbraio del 1952, e a Tokyo venne eretto un mausoleo al Milite Ignoto (Chidorigafu­ chi, 1959) 68 • Tuttavia, come abbiamo visto, lo status di Yasukuni rimane ambiguo e le visite ufficiali dipendono dalle scelte per­ sonali del primo ministro. Complessivamente, comunque, il ri­ cordo dei soldati morti è piuttosto assente dal panorama delle città giapponesi. La polarizzazione dell'opinione pubblica (o, più esattamente, delle sue ali più impegnate) è simboleggiata dal binomio rappre­ sentato dal Museo della Pace di Hiroshima e dal santuario di Ya­ sukuni, al quale, nel 1961, è stato aggiunto un museo della Guer­ ra (Yushukan), ampliato e rinnovato nel 2002. Il santuario non è un luogo della memoria facilmente trascurabile. Infatti, non è d e­ dicato soltanto ai caduti del periodo bellico che va dal 193 7 al 1945 e ancor meno ai criminali di guerra giustiziati. Fu eretto nel 1869 per onorare i caduti nelle lotte per la Restaurazione imp e­ riale, e ha in seguito accolto le «anime» (simboleggiate dai loro

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n omi) di quasi 2,5 milioni di militari (comprese decine di migliaia di co reani e di taiwanesi) e di civili (donne e bambini inclusi) morti durante le varie guerre combattute dall'impero. Tutti sono consid erati kami (divinità), inoltre, 3000 di essi sono individualiz­ za ti da una fotografia o, in alcuni casi, da bambole-spose poste in lo co dalle madri dei soldati morti celibi. Si tratta, evidentemente, di un luogo al quale milioni di famiglie sono legate e che niente p otrebbe sostituire. Il guaio è che, sotto l'impulso dell'associazione privata che lo controlla, il santuario è divenuto la roccaforte e il simbolo del re­ visionismo radicale 69• Il tempio in sé non pone problemi, poiché i s imboli dei condannati del 1948 sono ospitati in mezzo a quelli di moltissime altre persone. Il museo, al contrario, non ha nulla di un luogo destinato al raccoglimento, benché pretenda di esporre «reliquie sacre». All'entrata il visitatore è accolto da un caccia Ze­ ro e una vasta sala è dedicata a varie armi in uso nell'ultimo con­ flitto mondiale, qui - c'era da aspettarselo - denominato «guerra per la Grande Asia dell'Est». Vi si notano autentiche torpedini e bombe volanti umane (vedi il cap. 4); qui e là si vedono ritratti di Tojo, di ufficiali della Kempeitai (cui è dedicato, nel giardino cir­ c ostante, un monumento, situato vicino a quello in onore del giu­ dice indiano P al. . . ) o di piloti kamikaze, con accompagnamento di l ette re d'addio alla famiglia. I valori affermati ossessiv amente da lle immagini, dalle reliquie e dai cartelli esplicativi riguardano la cieca lealtà nei confronti dell'Imperatore e della nazione, il co­ ra gg io s pinto fino all'assurdità e lo spirito di sacrificio. Natural­ m ent e, in quel museo non c'è una sola parola, né un'allusione vi­ siv a ai disastri causati dalle future divinità . . . In compenso, le sof­ fe re nz e (peraltro ben reali) patite dai 600.000 soldati nipponici in­ ter nati in Siberia dopo il 1945 sono ampiamente documentate. Al­ l ' est ern o dell'edificio i rami degli inevitabili ciliegi recano i nomi d el l e unità combattenti dell'esercito e della marina. Su un monu­ me nt o de dicato al Corpo speciale d'attacco ed eretto nel 1985 si le ge a � l seguente epigrafe: «Circa 6000 uomini perirono in attac­ chi s ui ci di incomparabili nel loro tragico eroismo, che seminaro­ n o il te rrore nei cuori dei nostri nemici. La nazione intera versò

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lacrime di gratitudine per la loro indistruttibile lealtà e per il loro sacrificio all'insegna dell'altruismo» 70 • Il «clou» è costituito dall'esibizione della prima locomotiva a d aver percorso la linea Bangkok-Rangoon. Dell'esemplare, che è autentico, sono citati soltanto gli exploit tecnici . . . Quanto ai testi di presentazione (che si ritrovano nel sito Inter­ net citato alla nota 69), sono rappresentativi di una minoranza particolarmente virulenta di giapponesi che non hanno imparato nulla e non hanno dimenticato nulla. Per esempio, a proposito dell'origine del grande conflitto, si può leggere: «La guerra è ve­ ramente una cosa triste. Tuttavia, per preservare l'indipendenza e la pace della nazione, nonché per garantire la prosperità dell'inte­ ra Asia, il Giappone fu costretto a prendere parte al conflitto». Un riferimento speciale è dedicato all'attacco «illegale» del 9 agosto 1945 da parte dell'URSS. Sulla sorte dei suicidi dell'agosto 1945 e dei criminali di guerra si legge: Inoltre, vi furono coloro che sacrificarono la propria vita dopo la fi­ ne della guerra per la Grande Asia dell'Est, assumendo su di sé la responsabilità del conflitto. E ancora, ricordiamo i 1068 «martiri di Showa», che furono crudelmente e ingiustamente considerati cri­ minali di guerra dal fraudolento tribunale delle forze alleate [Stati Uniti, Inghilterra, Paesi Bassi, Cina e altri] . Anche quei martiri so­ no annoverati tra i kami di Yasukuni.

Un film di cinquanta minuti ha il seguente titolo, che non ne­ cessita di commento: Non dimenticheremo mai: il Ringraziamento, la

Preghiera, l'Orgoglio 71 •

Meno celebre, più piccolo e molto più decentrato è il museo­ memoriale dei kamikaze, che sorge presso una delle loro antiche basi, a Chiran, nel sud di Kyushu. Anch'esso custodisce reliquie personali, lettere commoventi, vari tipi di aeroplani da guerra ecc. Un enorme dipinto in stile nihonga (tradizionale) mostra un pilota sollevato da sei angeli biancovestiti che lo conducono v er­ so il cielo. Il suo apparecchio, seppure in fiamme, è ornato da un ramo di ciliegio (sakura). Le didascalie giocano sull'emozione,

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sul l 'asp etto dei giovani volti rilucenti dei piloti votati alla morte. n c artello introduttivo è significativo: «Ringraziamo di dovere le nos tre vite al loro nobile sacrificio. [ . . . ] Ringraziamo di essere cit­ ta d i ni di un paese incamminato sulla via della prosperità. Ren­ d iam o grazie perché oggi il Giappone è in pace. [ . . . ] Crediamo che [i kamikaze] desiderassero la restaurazione della pace e della p rosperità» 72 • Dello stesso tenore ideologico è il nome inglese del museo: Museum for Kamikaze Pilots. ace Pe Ci troviamo di fronte a bizzarri ossimori. Si possono pensare molte cose dei kamikaze, e i loro scritti personali rivelano un'inso­ spettata complessità (si veda in proposito il cap. 4); tuttavia, non erano assolutamente dei pacifisti, né nei fatti né per quanto riguar­ da le loro idee. Questa ambigua nozione di pace, che ha l'aspetto d i una formula magica ed è presentata come la normale aspirazio­ ne di tutti gli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo, si ritrova in forma apparentemente opposta nei musei «dell'altra sponda», co­ me - in primis - quello di Hiroshima. Certamente, lì il visitatore non può ignorare l'orrore assoluto di ciò che vede. La fragile om­ bra di un essere umano vaporizzato, impressa per sempre sulla p ietra in tal modo protetta dall'intenso bagliore nucleare, colpisce persino più delle ricostruzioni, delle immagini, dei filmati e dei di­ segni, che suscitano prima di tutto orrore e repulsione. Tuttavia, Hiroshima e le orde di visitatori ridanciani che vi si riversano ri­ c orda una via di mezzo tra un luogo di pellegrinaggio e un parco di divertimenti. Ian Buruma trova le parole giuste per descriverlo: Il p arco è una vera e propria Lourdes, con tanto di santuari, mo­ numenti, stele, campane, fontane e templi che commemorano le vittime e offrono preghiere per la pace. I negozi del parco vendono portachiavi, penne a sfera, magliette, sottobicchieri, cartoline, libri, tazze, rosari buddhisti, bigiotteria ecc: tutti questi oggetti sono de­ c orati con preghiere per la pace. 73

I l problema principale, qui, non è la mercificazione: il mer­ h a c n di s ing non può veramente offuscare il significato del museo.

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Il vero pericolo è invece una plumbea cappa di pacifismo che soffoca qualunque riflessione reale sulla guerra e dunque sulla pace, non tanto intesa come valore (chi non lo condivide?) qua n­ to piuttosto come processo di eliminazione della violenza e delle sue cause, per il quale i buoni propositi e le preghiere non sono sufficienti. Ma possiamo spingerei ancora più lontano: il pacifi­ smo, almeno in Giappone, ha lo scopo di evitare di pensare alla guerra. Esso infatti intralcia l'individuazione delle responsabilità che alcuni ebbero nello scoppio del conflitto e nelle atrocità che lo punteggiarono. Impedisce inoltre di riconoscere chiaramente il ruolo che molti, che quasi tutti, ebbero nel radicalizzare la guerra e nel protrarla fino ai limiti dell'assurdo. Almeno fino al rinnova­ mento del 1994 74 il visitatore poco informato aveva la sensazione che un bel mattino la bomba fosse piovuta dal cielo blu come una specie di catastrofe naturale o, più esattamente, come il prodotto della follia degli uomini, ovvero del Male stesso. Le sue vittime sarebbero dunque vittime per eccellenza, perché mai nessuno era stato colpito da una simile arma. Passato il primo momento di terrore e di pietà, il visitatore un poco più accorto che non fosse un nazionalista giapponese non poteva fare a meno di provare in­ dignazione davanti a un trucco così sfacciato: davvero i giappo­ nesi non aveva fatto nulla di riprovevole negli otto anni che pre­ cedettero l'esplosione nucleare 75? In Giappone la destra nazionalista e la sinistra pacifista hanno un essenziale punto in comune: non vogliono parlare della vera guerra, per gli uni ridotta a un gesto eroico e per gli altri a una mostruosa abiezione. In altre parole: o non c'è nessun colpevole perché tutto fu nobile e bello, oppure non c'è un colpevole perché l'unica responsabile di ciò che accadde è «la guerra» 76 • Ian Buru­ ma va oltre: secondo lui, il pacifismo è diventato per la ma ggi or parte dei giapponesi (dunque ben oltre i confini di una sinistra sempre minoritaria) un elemento centrale dell'identità nazion ale . Essi, che sono i soli detentori di una Costituzione integralm ente antimilitarista (scritta dagli americani. . . ), si sono eretti a protet­ tori superciliosi dell'arca della pace. La loro missione è di diffon­ derne la luce alle otto estremità dell'universo, proprio come ieri

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di ffo ndevano lo splendore del Trono imperiale. Da qui deriva l'e­ strema durezza con la quale condannano coloro che violano il Principio della Pace, soprattutto se questi se n'erano fatti porta­ voce nel Giappone stesso: insomma, come si può intuire, l' antia­ mericanismo in terra nipponica è in buona salute 77• Si può pensa­ re che una simile analisi sia in qualche modo semplicistica, ma es­ sa ha l'indubbio pregio di mettere il dito su una piaga effettiva­ mente esistente 78 • Comunque, due musei più recenti dimostrano che si può par­ lare della guerra senza travisamenti in una direzione o nell'altra. Nel 1991 a Osaka fu inaugurato un Centro internazionale della Pa­ ce e a Kyoto fu aperto un Museo della Pace mondiale. Vi si ritro­ va in parte lo stesso campionario ideologico presente a Hiroshima: «Una guerra non può essere buona», assicura il libretto di presen­ tazione del centro di Osaka, in cui, tuttavia, è chiaramente indica­ to che le disgrazie del popolo giapponese sono state precedute da quindici anni di aggressioni da parte dei suoi dirigenti. Il museo di Kyoto si spinge ancora più lontano, passando minuziosamente al vaglio i meccanismi dell'irreggimentazione e della propaganda che riuscirono a mobilitare così efficacemente i giapponesi 79• Tut­ tavia, in molte altre città nipponiche, soprattutto nei centri relati­ vamente isolati, sembra che si sia ancora ben lungi dal fare chia­ rezza: per esempio, a Odate, immediatamente a nord di Honshu, dove un certo numero di cinesi fu importato per lavorare nelle mi­ niere di Hanaoka e una cinquantina di costoro, che avevano ten­ ta to un'evasione, furono percossi a morte, troneggia in bella evi­ denza il busto di un dignitario locale, che tra le altre attività si era occupato della direzione del lavoro forzato. A poca distanza, una p icc o l a lapide, quasi invisibile, descrive il martirio dei cinesi. Un po ' p iù in là, si può ammirare la statua bronzea di una donna nu­ d a nell'atto di guidare un gregge di anatre. Si tratta della «scultu­ ra della Pace, ovvero promessa di amicizia tra la Cina e il Giappo­ n e » . L a città, a guida socialista, è fiera di essere stata la prima nel­ l a p r ov in cia di Akita a dichiararsi «Città antinucleare di pace» 80• Per alcuni giapponesi il pentimento è diventato una ragione di . a. V It U n ex operaio della fabbrica di gas da combattimento (la più

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grande del Giappone) dell'isoletta di Okunoshima, a poca di­ stanza da Hiroshima, si occupa oggi di un modesto museo priva­ to (inaugurato nel 1988) che commemora l'orrore: più di 5000 la­ voratori, tra i quali erano numerosi i liceali (circa 1600 di loro mo­ rirono avvelenati e gli altri, in gran parte malati, ricevettero un in­ dennizzo soltanto nel 1975), e 80.000 vittime cinesi, se dobbiamo credere alle stime provenienti dalla Repubblica popolare. Il mu­ seo ci informa anche del fatto che 15.000 tonnellate di armi chi­ miche erano ancora nascoste nei dintorni alla fine del conflitto: un piccolo deposito era presente persino a Hiroshima 81 • • • Alcuni sono persino tornati nei luoghi dei propri misfatti, spinti da un bi­ sogno di sincerità che la destra nazionalista, tanto per cambiare, bolla come «masochista». Per esempio, Nagase Takashi (vedi il cap. 7), ex torturatore della Kempeitai in Thailandia, nel 1963 ha costruito un «tempio della Pace» di ispirazione buddhista sulla ri­ va del fiume Kwai. Decisiva fu forse la funzione di interprete da lui esercitata alla fine del 1945 nell'ambito della ricerca dei carnefici da parte degli Alleati. Egli ha denunciato il militarismo, la famiglia imperiale e si è espresso a favore delle richieste di riparazione 82•

La questione dei manuali scolastici La controversia sui manuali di storia (o piuttosto, sui social studies, per usare la terminologia in voga nel dopoguerra) è leg­ germente più complessa rispetto al modo in cui viene presentata di solito. Abbiamo ampiamente constatato che non vi è stata una predominanza continua di tesi nazionaliste, né si è dovuto af­ frontare l'intollerabile autoritarismo di un onnipotente Ministero della Pubblica Istruzione. Sebbene, nel 1955, si sia assistito a un inasprimento dei controlli (vedi sopra), due paletti hanno blocca­ to qualunque tentazione revisionista. Da un lato, va detto che il procedimento attraverso cui un testo era passato al vaglio prima della pubblicazione non prevedeva assolutamente colpi di man­ naia: eccezion fatta per gli errori manifesti, la commissione mini­ steriale si limitava a «suggerire miglioramenti», che potevano es-

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se re

accettati dall'autore o dar luogo a una discussione che nella maggior parte dei casi si concludeva con un compromesso (e tal­ volta l'autore restava sulle sue posizioni, che venivano accettate). Sulle questioni di fondo, le correzioni obbligatorie erano rare: in ca so di rifiuto di accettarle, poteva accadere che il volume non fos se omologato, ma si trattava di un'eventualità eccezionale. D'altra parte, la scelta dei manuali (otto per ogni livello) spettava a comitati educativi locali, che raggruppavano un certo numero di istituti scolastici. Pur essendo nominati dalle autorità del po­ sto, detti comitati conservavano una certa autonomia, soprattut­ to nelle zone urbane 83• Non si può fare a meno di provare ammirazione per la lunga battaglia, all'inizio solitaria, del professor Ienaga Saburo (19132002) per imporre al reticente Ministero l'adozione di manuali che descrivessero senza ipocrisie o esagerazioni i crimini di guer­ ra commessi dal Giappone; meno convincente è invece la più im­ portante rivendicazione da lui perseguita attraverso una serie di azioni giudiziarie condotte dal 1965 al 1997: «l manuali non do­ vrebbero essere censurati dal governo [ . . ]. Decidere se il conte­ nuto di un manuale sia o no soddisfacente da un punto di vista scientifico dovrebbe essere un argomento lasciato al libero dibat­ tito tra gli scienziati e non al giudizio di un potere statale» 84• Il principio non fa una grinza: in fin dei conti, questo è anche il sistema in vigore in Francia. Tuttavia, a proposito della propria storia recente, la Francia non conosce minimamente le profonde divisioni di cui soffre il Giappone 85• Occorre inoltre ricordare che i controlli sui libri di testo erano stati istituiti per impedire un ri­ to rno di fiamma del nazionalismo. Essi continuano a funzionare. Nel 1985 un manuale ha subito 241 revisioni obbligatorie e 478 sugg erimenti, essendo costretto a introdurre, tra le altre cose, i c onc etti di lavoro forzato e di sfruttamento dei paesi occupati, n onché a insistere più correttamente sul massacro di Nanchino 86 • Anche i recenti libri ispirati all'ideologia revisionista hanno avu­ t o d ifficoltà a essere autorizzati. Dall'altra parte del panorama politico, alcuni storici di buona rep u tazione hanno presentato tesi fortemente discutibili. Ienaga .

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stesso ha evocato il «potere democratico delle armate ross e)) ci­ nesi, che, secondo lui, avrebbe permesso loro di dimostrarsi mi­ gliori dell' «assolutismo militarista del Giappone)) 87• La sinistra nipponica, solidamente radicata nelle università e nelle sc uole grazie, soprattutto, all'egemonia esercitata sul potente sindac ato degli insegnanti, ha dato prova di inverosimile ingenuità a pro­ posito del comunismo in generale e del maoismo in particolare, almeno fino agli anni '80. Questo atteggiamento ha fornito argo­ menti ai suoi avversari della destra, ma bisogna ammettere che !a­ sciarle completa libertà d'azione nelle scuole avrebbe comportato dei rischi. Quanto alle critiche al Giappone da parte di altri paesi, colpiscono per la loro contraddittorietà. Per esempio, le autorità cinesi hanno proclamato il proprio sostegno alla battaglia di Iena­ ga contro la «censura)), nello stesso tempo rimproverando al go­ verno nipponico di tollerare manuali ispirati al revisionismo. La verità è e qui si tocca un punto essenziale - che i control­ li si sono dimostrati nella maggior parte dei casi reti dalle maglie particolarmente larghe: abbiamo visto che non hanno bloccato in nessun modo l'evoluzione dei manuali verso il riconoscimento dei crimini di guerra. Ienaga, per sua stessa ammissione, non eb­ be gravi problemi in questo senso, nemmeno in piena Guerra Fredda. Per esempio, il suo primo manoscritto, risalente al 1952, fu respinto. Lo ripropose l'anno seguente senza aver effettuato al­ cuna correzione: fu accettato. Nel 1955 venne proposta una nuo­ va edizione, a proposito della quale il Ministero richiese alcune correzioni, effettuate soltanto in parte; ciò nonostante, la divulga­ zione del manuale fu autorizzata nel 1956 e altre edizioni videro la luce nel 1959 e nel 1962. Ognuna conteneva il termine «a ggres­ sione)) per descrivere gli esordi del conflitto sino-giapponese. Nel 1981 la commissione ministeriale suggerì di sostituire tale parola con «avanzata)). Ne seguì un'accesa discussione: Ienaga rifiutò qualunque compromesso; tuttavia, la pubblicazione del manuale fu autorizzata. Nel 1982 successe però che la notizia falsa di una «modifica forzata)) dei manuali giapponesi facesse il giro del mondo, provocando una grave crisi diplomatica tra la Cina e la Corea del Sud (vedi il cap. 12). Beninteso, gli autori più modera-

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ti

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si astenevano già prima dall'uso del termine «aggressione» e con tinuarono a comportarsi così anche dopo 88 • • • In seguito, in ogni caso, nessun libro ebbe problemi per aver fatto uso della pa­ ro la «aggressione>>, per aver evocato il massacro di Nanchino, il l avo ro forzato o addirittura le responsabilità dell'lmperatore 89• Il governo di Tokyo ha tentato di tranquillizzare i suoi critici esterni: in una dichiarazione risalente all'agosto del 1982, ha as­ si curato Pechino e Seoul che, «in una prospettiva costruttiva di amicizia e di buona volontà con i paesi vicini, il Giappone avreb­ be considerato le loro critiche dandovi la giusta importanza, ef­ fettuando tutti i correttivi per cui il governo è responsabile>>. Di conseguenza, in novembre, il ministro della Pubblica Istruzione adottò quella che venne definita «clausola del Paese vicino>>: «l manuali devono dimostrare comprensione e ricercare l'armonia internazionale nella loro trattazione degli avvenimenti storici moderni o contemporanei, che vedono coinvolti i paesi asiatici vicini» 90 • L'effetto fu rapido: tra il 1982 e il 1984, per esempio, 15 richie­ ste di revisione su 19 provenienti da Seoul furono accettate . È dif­ ficile considerare tutto ciò un progresso. Innanzitutto, come si sarà notato, il nuovo scopo che ci si prefiggeva per i manuali di storia era !'«armonia», più che la verità: quei testi erano dunque p arte di una «diplomazia delle scuse». Inoltre, si tendeva a dele­ gare una parte delle prerogative di controllo del Ministero della Pubblica Istruzione giapponese ai suoi omologhi cinesi o sudco­ re a ni, ovvero a rappresentanti di paesi nei quali esistevano sol­ ta nto libri di storia ufficiali, scritti da rappresentanti governativi. Curio samente, i partigiani giapponesi (e anche stranieri) della li­ ber tà totale degli autori dei manuali storici non sembrano esser s ta ti pa rticolarmente preoccupati da ciò, il che alimenta dubbi su ll a s incerità dei loro motivi. Infine, si forniva un solido argo­ me nto agli ambienti revisionisti, che da quel momento comincia­ ron o ad aggiungere alle loro rimostranze l'accusa di «masochi­ s m o» e di subalternità ai governi dei paesi stranieri 9 1 • Verso la metà degli anni '90, la destra nazionalista si sentiva s s a edia ta da tutte le parti: in occasione del cinquantesimo anni-

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versario della guerra erano state fatte dichiarazioni più forti ri­ spetto al passato; nuovi musei sul periodo bellico erano stati inaugurati e, nel 1997, si era manifestata un'intera generazione di manuali che più che mai denunciavano i crimini di guerra nip­ ponici. Fu allora concepito il progetto di un nuovo manuale «non masochista». Allo scopo di prepararlo, fu costituita una «Società giapponese per la riforma dei manuali storici» (altrimenti detta Tsukuru Kai), che nel 2001 poteva contare su 10.000 membri, tra i quali alcuni grandi intellettuali di destra e scrittori rinomati come l'autore di manga Kobayashi Yoshinori (nato nel 1953; vedi il cap. 12). Il movimento fu sostenuto dall'ala destra del PLD, da una fetta significativa del mondo degli affari e dalla maggior parte dei quotidiani e delle riviste di grido 92• Sentendosi incoraggiato dal­ l'arrivo al potere di Mori Yoshiro (vedi sopra) nel 2000, esso pub­ blicò un manuale di storia e un libro di educazione civica. Il suc­ cesso di pubblico, accompagnato da vivaci controversie, fu evi­ dente: le edizioni economiche di quelle opere rimasero per mesi negli elenchi dei best seller e furono diffuse in centinaia di mi­ gliaia di esemplari (molte copie, a quanto pare, vennero distribui­ te addirittura gratuitamente), Al contrario, la controversia spiega molto probabilmente il loro fallimento quasi totale di fronte alle commissioni locali del Ministero: soltanto 543 copie del manuale di storia furono adottate nelle scuole 93• Nel 2005 un'ondata di ma­ nifestazioni in Cina prese a pretesto quel manuale, garantendogli un'enorme pubblicità, accresciuta altresì dalle vivaci proteste che si levarono contemporaneamente nelle due Coree (cap. 12). Per ottenere l'autorizzazione ufficiale a divulgarlo, nel ma­ nuale era conservata una certa prudenza nei toni (vedi sotto), ma le intenzioni dei promotori traspaiono chiaramente dalla lettura. Un testo della Tsukuru Kai proclama: I manuali di storia in uso oggi si basano sul concetto di lotta di classe e considerano la storia unicamente dal punto di vista di co­ loro che si sono opposti ai propri gruppi dirigenti. Più precisa­ mente, per quanto concerne il periodo recente, essi si soffermano sulle presunte schiave sessuali [ . . . ] e sul massacro di Nanchino, co-

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me se si trattasse di fatti reali [ . ] . I manuali da noi realizzati in­ tendono dare del Giappone e dei giapponesi un ritratto all'insegna del decoro e dell'equilibrio. 94 . .

Sebbene Kobayashi si caratterizzi come un cane sciolto (un ro­ detto Maruyama, vedi il cap. 3), il suo attuale ruolo di portavoce informale del revisionismo obbliga a menzionare il carattere allucinante di alcune sue teorie. Per esempio, egli ritie­ ne che nel 1945 sia stato organizzato un complotto giudaico-ame­ ricano per atomizzare il Giappone: «L'obiettivo era, fin dall'ini­ zio, il Giappone [ . . . ]. Gli scienziati ebrei e il governo americano non ebbero scrupoli a usare la bomba sui giapponesi, che per lo­ ro non erano altro che scimmie gialle». Gli ebrei sono ingrati e hanno dimostrato mancanza di sincerità: «Il Giappone ha salvato 20. 000 ebrei, ma costoro hanno aiutato gli americani a fabbricare le bombe atomiche che hanno massacrato tanti giapponesi a Hi­ roshima e a Nagasaki» 95• Per i revisionisti, Hiroshima è il cardine della battaglia per screditare qualunque critica al Giappone non­ ché la politica «imposta» dopo il 1945 dall'occupante, a comin­ ciare dall'articolo 9 della Costituzione. Alcuni di loro concordano sul fatto che il Giappone abbia potuto commettere crimini di guerra, ma tutti negano che si sia macchiato di crimini contro l'u­ manità, colpa di cui, invece, si sono resi responsabili gli america­ ni nell'agosto del 1945. Il vero problema posto dal rinnovarsi del revisionismo è la pre ssione da esso esercitata sugli altri autori di manuali storici, in direzione di una certa prudenza o addirittura di un'autocensura. La ricerca del consenso è in Giappone una seconda natura, per as­ secondare la quale si è anche disposti a rinunciare in parte a esprimere le proprie idee. A tal riguardo, la traduzione in inglese e la messa su Internet dei capitoli più controversi di otto manua­ li sco lastici approvati nel 2005 permettono infine a chi non cono­ s ce la lingua giapponese di farsi un'idea di contenuti spesso ridi­ coliz zati dalla stampa 96• Il lavoro della casa editrice Fusosha (dipendente dalla Tsuku­ ru Kai) si situa chiaramente a parte nella sua opera di minimiz-

n in, avrebbe

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zazione delle responsabilità del Giappone, e nell'esposizione del­ le felici conseguenze delle sue azioni durante la guerra. I fatti di Nanchino sono trattati del tutto di sfuggita, essendo loro dedica­ te soltanto un'esile nota (molti altri manuali ricorrono a questo artificio per evitare di parlare delle questioni più imbarazzanti) e le seguenti poche righe: «In questo periodo, molti soldati e civili cinesi furono uccisi o feriti dalle truppe giapponesi [l'incidente di Nanchino] . La documentazione ha sollevato dubbi circa il reale numero delle vittime. Il dibattito continua ancora oggi». La parte concernente l'Asia occupata (§ 76), decisamente cari­ caturale, s'intitola «La conferenza della Grande Asia dell'Est e le nazioni asiatiche» e i titoli dei paragrafi sono i seguenti: «La spe­ ranza dell'indipendenza si fa strada attraverso l'Asia»; «La con­ ferenza della Grande Asia»; «Le nazioni dell'Asia e il Giappone»; «Gli indonesiani accolgono i soldati giapponesi come un esercito di liberatori». In una sottosezione (§ 78), dal titolo «La guerra nel XX secolo e le vittime del totalitarismo» la Germania nazista e l'URSS sono posti sullo stesso piano come «Stati che hanno com­ messo crimini nazionali��, dai quali il Giappone è semplicemente esentato: «In realtà, non c'è una nazione che non abbia torturato e ucciso civili disarmati in tempo di guerra. Anche i soldati giap­ ponesi hanno torturato e ucciso prigionieri di guerra e civili nei territori daloro invasi». Le proteste contro questo manuale sono concentrate, in Cina, sull'assenza di un accenno all'Unità 731, e in Corea sulla 'questio­ ne delle ianfu. Gli occidentali, per quanto li riguarda, avrebbero ragione di indignarsi di fronte alla mancanza di qualsiasi riferi­ mento preciso alla sorte dei loro prigionieri. Questi difetti sono condivisi largamente da altri manuali, ma è soprattutto la visione d'insieme a essere discutibile: essa infatti incita i giapponesi al­ l' orgoglio piuttosto che alla riflessione retrospettiva. In ogni caso, ci troviamo nell'ambito di un revisionismo relativamente mode­ rato, che non è ancora negazionismo. Altri quattro manuali potrebbero essere definiti «centristi», se il termine si adattasse a un contenuto essenzialmente incolore, privo di approfondimenti e di spiegazioni. Ci troviamo qui di

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fr onte a opere insipide e troppo preoccupate di non offendere n e ssuno, mentre almeno il manuale della Fusosha, più ricco, as­ somiglia a un vero libro di storia. Per esempio, su Nanchino, il manuale della Tokyo Shoseki si limita a dire quanto segue: «Un gran numero di civili cinesi fu ucciso, compresi donne e bambini [l 'incidente di Nanchino] . Nota: L'incidente fu denominato mas­ sac ro di Nanchino e criticato in ambito internazionale, ma il po­ p olo giapponese non ne fu informato». Infine, tre manuali si differenziano dalla massa di opere me­ diocri per la qualità dell'informazione e delle riflessioni che pro­ pongono, nonché per una dimensione critica più accentuata. Ognuno di questi, tuttavia, è soggetto a «black out» su alcuni fat­ ti essenziali. L'opera della Shimizu Shoin nota che in Asia sudo­ rientale «la politica giapponese di occupazione sostituì semplice­ mente la dominazione coloniale dei paesi occidentali con la pro­ pria [ . . ]; l'esercito nipponico impose un regime ancora più bru­ tale di quello dell'Occidente». Il libro prodotto dalla Teikoku Shoin, da parte sua, insiste fortemente sulla situazione in Man­ ciuria (è l'unico a farlo), spiegando la resistenza cinese con l'ac­ caparramento di terre da parte dei coloni giapponesi. Più di ogni altro manuale, esso tratta del lavoro forzato nei paesi occupati, fornendo in proposito un lungo estratto di un libro indonesiano sui romusha. Il 15 agosto non è presentato come il giorno del lut­ t o , come ancora oggi è ufficialmente considerato: «l popoli colo­ nizzati di Corea e Taiwan, come quelli di Cina e Asia del sudove­ st, regioni che erano state occupate dagli eserciti giapponesi, ce­ leb rarono la propria liberazione». Il manuale della Nihon Shoseki Shinsha è senza dubbio il più impegnato a sinistra, ed è anche quello che, al pari del manuale della Fusosha, si preoccupa di fornire spiegazioni. È altresì l'uni­ c o a menzionare le distruttive operazioni «Tre Tutto» in Cina (ve­ di il cap. 6). La condanna della «Sfera di co-prosperità» è senza app ello: si tratta di una «farsa» e di uno «slogan propagandisti­ c o ». Proprio «quando proclamava il concetto di Asia agli asiatici, i l G iappone conduceva in Cina, grande nazione asiatica, una gu erra prolungata. Inoltre, mentre parlava di liberazione dal do.

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minio coloniale, non allentava minimamente la presa sulla Corea e su Taiwan». Quest'opera è altresì la sola a parlare con notev ole chiarezza dei coolie impiegati nella costruzione della ferrovia Thailandia-Birmania, del martirio dei prigionieri di guerra (cine­ si e occidentali) e delle ianfu, seppure in modo più allusivo (gli studenti sono giovani, come ricorda il Ministero): «Su richiesta dell'esercito, giovani donne coreane e originarie di altri paesi fu­ rono rastrellate e spedite al fronte al servizio dei soldati». Il Giappone dispone dunque di manuali diversificati 97 (il che conferma il relativo attenuarsi della censura ministeriale), nessu­ no dei quali nasconde completamente i crimini commessi dall'e­ sercito imperiale. In tre su otto, gli anni della guerra sono ampia­ mente trattati, e l'esposizione dei fatti non autorizza a parlare di tentativo di minimizzazione. Se effettivamente in Giappone si sta manifestando un ritorno del nazionalismo, come si legge spesso sulla stampa estera, ciò avviene in maniera assai discreta. Persino i libri di carattere revisionista mantengono un profilo relativa­ mente basso, specialmente se confrontati con quello dei testi di presentazione dello Yushukan (vedi sopra). In generale si nota la mancanza di riferimenti all'Unità 731, la quasi assenza di accen­ ni alle comfort women e lo scarso spazio accordato alle vicende dei prigionieri di guerra occidentali. È difficile distinguere tra censu­ ra e autocensura. Per contro, alla durezza della dominazione co­ loniale e dello sfruttamento dei paesi occupati è in molti casi da­ ta grande evidenza. I problemi più grossi, in linea di principio, ri­ guardano il carattere particolarmente scarno delle riflessioni, nonché lo stile piattamente descrittivo, assai carente dal punto di vista dell'approfondimento e delle spiegazioni: si tratta di un di­ fetto comune ad almeno metà dei manuali in circolazione. Sol­ tanto quelli animati da scelte ideologiche chiare (e opposte) si di­ mostrano sotto questo aspetto abbastanza soddisfacenti. Al di là di tutto si staglia la questione universale del rap p or­ to tra il manuale e l'insegnamento effettivamente impartito . l professori dispongono oggi di tutta una serie di materiali peda­ gogici che si completano a vicenda 98, senza dimenticare la sta m­ pa, Internet ecc. Quali di questi privilegiano? Occorre a qu e sto

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p unto rimarcare il livello scadente dell'insegnamento della sto­ ri a (un difetto che non è esclusivamente giapponese): uno o due anni in collegio, altrettanti al liceo, per due o tre ore settimanali con una discutibile separazione tra la storia del Giappone e quel­ la del resto del mondo. Inoltre, beninteso, la seconda guerra m ondiale fa tardi il suo ingresso nel programma, di conseguen­ za spesso non c'� il tempo per trattare l'argomento in modo ade­ gu ato. Accade dunque spesso che gli studenti ne sentano parla­ re esclusivamente nei corsi pomeridiani di preparazione al di­ p loma di maturità, il cui scopo è un ripasso dei programmi e non certamente la comprensione profonda della materia 99• Inoltre, p resso gli istituti tecnici la storia non costituisce materia d'esa­ me. Come si vede, l'albero - il manuale della Fusosha - rischia di nascondere la foresta.

1

Citato in Jean-Marie Bouissou,

sus,

Paris

Le Japan depuis 1943,

Armand Colin-Cur­

1992, pp. 34-35.

' Anche il Costa Rica ha rinunciato a disporre di un esercito: tuttavia si tratta di un paese che non è mai stato annoverato tra le grandi potenze mi­

litari . . .

3 Certamente, le «forze di autodifesa» nipponiche sono ben lungi dall'es­ sere trascurabili. Tuttavia, la loro capacità di intervento esterno è estrema­ mente limitata (e strettamente sorvegliata dalla Dieta e dall'opinione pub­

blica) e l'«ombrello>> americano rimane l'elemento decisivo della difesa

dell'arcipelago; infine, va ricordato che, non disponendo di un servizio di leva e assorbendo meno dell'l% del PIL

(2004), le forze armate hanno per­

d u to il ruolo centrale che abbiamo descritto relativamente al periodo pre­ ce den te. Di conseguenza, l'influenza politica dello stato maggiore è scom­

parsa del tutto.

' Si c alc ola che nell'esercito siano stati un migliaio; al di fuori degli am­ b i en ti militari, essi furono a quanto sembra assai rari.

s l-I

e dley Paul Willmott,

1 999, p .

' Es s

La guerre du Pacifique, 1941-1 945, Autrement, Paris

186.

a fu contemporaneamente pubblicata per esteso sui giornali.

7 I rit an

i Toshio, Group Psychology of the Japanese terna ti onal, London-New York 1992, p. 220.

in Wartime, Kegan Paul In­

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Humanitarianism and the Emperor 's Japan, 1877-1977, St. 1993, p. 156. 9 Richard J. B. Bosworth, Explaining Auschwitz and Hiroshima: History Writing and the Second World War, 1945-1990, Routledge, London-New York 1993, p. 183. 8 0live Checkland,

Martin's Press, London

1 0 La destra revisionista rivendica costantemente, da allora, la rinazionaliz­ zazione del santuario, che obbligherebbe le autorità a celebrarvi cerimonie ufficiali. 11 Robert Laffont, Paris

1989 (tradotto dall'inglese).

12 Il lettore francofono può trovare, comunque, alcune utili informazioni in Annette Wieviorka (a cura di), plexe, Bruxelles

Les procès de Nuremberg et de T8ky8,

Com­

1999.

13 L'immunità per l'Imperatore era giudicata indispensabile all' accettazio­ ne dell'occupazione americana da parte della popolazione giapponese. A parte ogni considerazione di carattere morale, bisogna riconoscere che la conservazione di questa figura ha rappresentato un successo, almeno nel­ l'immediato: non vi fu infatti alcuna resistenza antiamericana, e le nuove autorità poterono godere di un forte sostegno.

The Other Nuremberg: the Untold Story of the Tokyo War Crimes Trials, William Morrow, New York 1987, p. 75 . 15 Citato in Utsumi Aiko, Prisoners oJ War in the Pacific War: Japan's Policy, in Gavan McCormack, Hank Nelson, The Burma-Thailand Railway: Memory and History, Silkworm Books, Bangkok 1993, p. 77. 16 Cfr., per esempio, Richard H. Minear, Victor 's Justice: The Tokyo War Cri­ mes Trial, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1971 . Minear è un rap­ 14 Arnold C. Brackman,

presentante della cosiddetta sinistra «antimperialista» americana le cui posizioni, su molte questioni fondamentali, coincidono con quelle della destra giapponese. 17 Molti coreani, viceversa, avrebbero desiderato che tra i capi di imp uta­ zione figurasse anche !'«aggressione coloniale» (vedi il cap.

12). Critiche

meno radicali riguardarono il concetto, molto anglosassone, di «complot­ to» contro la pace o il criterio con cui erano stati scelti gli accusati, fra i quali erano assenti i dirigenti dei grandi gruppi capitalisti.

The Other Nuremberg cit., pp. 385-386. ivi, p. 344. Pal era membro della minoranza

1 8 Brackman,

del partito nazio­ nalista indiano che contava sull'Asse per porre fine al colonialismo, e il cui

19 Citato in

principale rappresentante fu Subhas Chandra Bose, dirigente dell' Indian National Army. Contrariamente a quanto asseriscono alcuni autori (tra cui

Roling), egli non era rappresentativo degli asiatici in generale e nemm en o

dei nazionalisti indiani, che in gran parte erano antifascisti.

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20 Anche il francese Henri Bernard scrisse un giudizio di minoranza in cui assolveva tutti gli imputati, sulla base della convinzione che gli accusati fos sero in realtà semplici «complich> dell' «autore principale» del crimine, ovvero Hirohito. Bernand, inoltre, era in disaccordo con le norme, essen­ zialmente anglosassoni, della procedura. Webb, convinto abolizionista, propose - tra lo sconcerto dei suoi colleghi americani - la reclusione a vi­ ta per tutti, da scontare lontano dal Giappone nei casi più gravi. Il giudi­ ce filippino, al contrario, raccomandò di usare la massima severità. 2 1 Bert V.A. Roling, The Tokyo Trial and Beyond: Reflections of a Peacemonger, edizione a cura di Antonio Cassese, Polity Press, Cambridge (UK) 1993, pp. 2-3. 22 Otto riguardavano le aggressioni e due le atrocità. 23 Secondo Keenan (citato in Brackman, The Other Nuremberg cit., p. 362), > , ed è un vocabolo dal contenuto, più che morale, speculativo (si tratta di una parola molto usata dagli artisti) o politico. Ci si «rammarica» di aver causato imbarazzo, di essersi resi ridicoli, di essersi cacciati in un vi­ colo cieco per aver agito malamente; cfr. George Hicks, Japan 's War Me­ moires: Amensia or Concealment?, Ashgate, Aldershot (UK) 1997, p. 90; Lucken, Grenades et amertume cit., p. 278. 55 Discorso del 7 settembre 1951, citato sul sito http : / /www.ioc.u­ Tokyo.ac.jp / -worldjpn/documents/texts/JPUS/ 19510907.S1E.html 56 Beatrice Trefalt, War, Commemoration and National Identity in Modern Ja­ pan, 1868-1975, in Sandra Wilson (a cura di), Nation and Nationalism in Ja­ pan, Routledge Curzon, London 2003, pp. 129-130. 57 Hicks, Japan's War Memories cit., p. 54. 58 Ci concentreremo sui suoi risvolti interni nell'ultima parte del presente capitolo. 59 Entrambi i campi fecero frequentemente ricorso ai tribunali, malgrado l'enorme lentezza dei procedimenti (i successivi ricorsi potevano durare una ventina d'anni). Ciò dimostra, se non altro, che esisteva una generale fiducia nell'indipendenza della giustizia, una situazione dunque ben di­ versa da quella del periodo tra le due guerre mondiali (vedi il cap. 3). Va­ le altresì la pena di ricordare che in questi dibattiti, peraltro assai vivaci, era estremamente raro che si passasse a vie di fatto. È ridicolo pretendere, come ha fatto Iris Chang (The Rape ofNankin, Basic Books, New York 1997), che i giapponesi ostili al revisionismo vivessero in un clima di terrore. Le poche eccezioni in proposito furono rappresentate soprattutto da ex com­ battenti «pentiti», che dovettero subire l'ostracismo dei loro ex camerati, e da storici non professionisti, come Nozue Kenji (a Odate), che comincia­ rono a far luce sulle atrocità locali, generalmente associate ai maltratta­ menti inflitti ai lavoratori forzati importati (cap. 9). Tuttavia, nessuno fu condannato a una multa e men che meno imprigionato o malmenato dal­ la polizia. L'incidente più grave fu probabilmente il tentativo di assassinio del sindaco (cristiano) di Nagasaki, Motoshima Hitoshi, nel gennaio 1990. Nel momento dell'agonia di Hirohito, egli aveva suscitato l'ira furiosa del­ la de stra, dichiarando, durante una riunione del consiglio comunale, di >, n. 38, settembre 2005, p. 19. 72 Citato in Buruma, The Wages of Guilt cit., p. 225. 73 lvi, p. 94. 74 Essa ha introdotto qualche elemento di contestualizzazione: le violenze nipponiche in Cina, la mobilitazione di tutti i giapponesi dai 12-13 anni in su per servire allo sforzo bellico, il carattere fortemente militare della città di Hiroshima, che ospitava reparti dell'esercito fin dall'era Meiji. È senz'altro giusto affermare che questi elementi sono del tutto insufficien­ ti, e quasi marginali. Per farsene un'idea, cfr. http : / /www.pcf.city.hiroshi­ ma.jp /virtual/VirtualMuseum_e / tour_e/ tour_fra_e.html 75 Ho visitato Hiroshima per la prima volta nel 1987, con un gruppo di in­ segnanti provenienti da una dozzina di paesi europei. Tutti abbiamo avu­ to la stessa reazione. 76 Non è forse proprio questo il messaggio implicito in Hiroshima mon amour di Alain Resnais? Evoca forse, anche per un solo istante, i crimini commessi dal Giappone? L'eroina francese «non ha visto niente a Hiro­ shima», ma il suo amante giapponese cos'ha visto fuori da Hiroshima? 77 Ben-Ami Shillony (Politics and Culture in Wartime Japan, Clarendon Press, Oxford 1981) ha osservato gli sviluppi dell'atteggiamento da «amante de­ luso» che il Giappone ha nei confronti degli Stati Uniti. 78 Buruma, The Wages of Guilt cit., pp. 92-108.

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79 lvi, pp. 228-230. 80 lvi, pp. 277-291. 81 lvi, pp. 109-111. 82 David Barrett, Reparations: Matters still Outstanding, in McCormack, Nelson, The Burma-Thailand Railway cit., p. 142; Peter Li, The Nanking Holocaust: Me­ mory, Trau11UI and Reconciliation, in Li (a cura di), Japanese War Crimes cit., p. 239. 83 Hicks, Japan's War Memories cit., p. 42.; http:/ / www.amnistia.net/news/ ar­ ticles/ negdoss /jàpnega/japmanu.hbn "' C itato in Bosworth, Explaining Auschwitz cit., p. 188. 85 Per dirla in breve, in Giappone ci si compiace del consenso, mentre in Francia sembra che ci si compiaccia delle divisioni. "6 Bosworth, Explaining Auschwitz cit., p. 249, n. 162; Hicks, japan 's War Me­ mories cit., p. 107. 87 lenaga Saburo, Japan's Last War, ANU Press, Canberra 1979 (prima ed. giapponese: 1968), p. 96. 88 Hicks, Japan's War Memories cit., p. 43; Ienaga Saburo, Japan's Past, Japan's Future: One Historian's Odissey, Bowman & Littlefield, Lanham 2001, p. 167 (tradotto dal giapponese). 89 Hicks, Japan's War Memories cit., p. 106. 90 lvi, pp. 45-47; cfr. anche http : / /en.wikipedia.org/wiki/Japanese_hi­ story_textbook_controversies 91 Per la verità, in fondo questa pretesa sottomissione non ha minimamen­ te influenzato la storiografia giapponese: simili concessioni alle pressioni diplomatiche sono in linea di principio inaccettabili per qualunque stori­ co degno di questo nome, compresi gli autori dei manuali nipponici. Per esempio, si provi a immaginare uno storico francese della guerra d' Alge­ ria, per quanto anticolonialista possa essere, che si piegasse ai diktat sto­ riografici dello Stato algerino! 92 Pierre Lavelle, La société pour la rédaction de nouveaux manuels d'histoire: Renouveau ou déclin du nationalisme?, «Cipango, Cahiers d'études japonai­ ses», n. 10, 2003, pp. 21-22. 93 lvi, pp. 7-9. I manuali sono distribuiti gratuitamente nei collegi. 94 Citato in Daniel A. Métraux, Japan's Historical Myopia, in Li, Japanese War Crimes cit., p. 310. 95 lvi, p . 309. 96 http: l l www.tsukurukai.com/ 05_rekisi_text/ rekishi_English/English.pdf per il manuale edito dalla società; http: / / www.je-kaleidoscope.jp l english/ in­ dex.html per l'insieme di tutti i manuali (compreso quello della Tsukuru Kai, ma presentato qui in una traduzione diversa).

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97 A questi dovrebbero essere aggiunti i manuali di storia regionale, facol­ tativi, i quali sfuggono in gran parte ai controlli ministeriali. Quello relati­ vo a Okinawa, per esempio, descrive senza ipocrisia le distruzioni inflitte ai civili delle Ryo.kyu dall'esercito giapponese durante la battaglia. 98 Intervista con Matsunama Miho, dell'Università di Fukuoka. 99 Hicks, Japan 's War Memories cit., p. 108.

Capitolo 12 Partner, avversari, vittime: le contraddizioni della memoria

La cultura giapponese possiede una tradizione e una storia gloriose.

Il Giappone ha tutte le carte in regola per essere una nazione forte,

alla testa di sei miliardi di esseri umani, e dispone del caloroso ri­ spetto e della fiducia della comunità internazionale. Eppure gli idea­ li e i valori morali insostituibili dello spirito giapponese sono negati. Vi sono alcuni i quali ripudiano senza vergogna l'intero passato del Giappone, come se esso fosse completamente negativo. Mi si spezza il cuore nel vedere che tal uni, che siedono sui gradini più bassi della società nipponica, rifiutano in modo così totale la propria identità.

Li Denghui, ex presidente della repubblica di Cina (Taiwan), novembre 2002 1• Vincere la guerra di Resistenza durata otto anni contro il Gippone costituì la prima vittoria totale della nazione cinese in cent'anni di fronte a un 'invasione straniera [ . . ]. Nel corso di questi otto anni, sotto l'accorta direzione del presidente del Comitato militare, Chiang Kai-shek, il popolo cinese combatté con coraggio una guer­ ra feroce contro il signore della guerra nipponico, meritando infine l'onorevole vittoria che ne fece una delle quattro maggiori potenze del mondo. Inoltre, Taiwan e PénghU 2 poterono riunirsi alla nazio­ ne, dopo essere state colonizzate dal Giappone per più di mezzo se­ colo, cosa che ha determinato il nostro destino fino a oggi. Introduzione al catalogo della mostra «Il Sessantesimo An­ niversario della brillante vittoria», Ministero delle Forze Ar­ mate, Dipartimento di storia e di politica, Taibei Shì 2005. .

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Abbiamo visto (cap. 5) che in Europa, a proposito dell'esten­ sione dei crimini nazisti, vige un largo consenso. Possiamo ag­ giungere che nemmeno il giudizio su Hitler si presta a controver­ sie, almeno a livello di responsabili politici o di professori uni­ versitari 3• In Asia la situazione è del tutto diversa. In primo luo­ go, tenendo conto dello scarso sviluppo delle scienze umane e so­ ciali nella maggior parte dei paesi interessati, è prevedibile che anche i loro studi storiografici, almeno fino ad anni recenti, siano spesso rimasti a un livello embrionale. Inoltre, l'orrore dei crimi­ ni giapponesi più diffusi, la cui memoria non può cristallizzarsi intorno a un equivalente del genocidio degli ebrei, è poco adatta a una rappresentazione d'insieme. Infine - e probabilmente so­ prattutto - l'esperienza del confronto con il Giappone fu estre­ mamente diversa a seconda dei luoghi e dei popoli che vi ebbero a che fare. La Cina e la Corea stilano un bilancio del tutto negati­ vo al riguardo, la prima a causa della concentrazione di atrocità sul proprio suolo e la seconda per la perdita dell'indipendenza. I paesi anglosassoni, principali avversari dell'esercito imperiale durante la guerra del Pacifico, giudicano con non minore severità il comportamento dei loro avversari; tuttavia, non avendo subito un'occupazione, in generale le loro popolazioni non conservaro­ no una duratura ostilità nei confronti del Giappone: inoltre, essi avevano dovuto affrontare anche la Germania nazista. L'ostilità nei confronti dell'impero è molto meno evidente a Taiwan e in Thailandia: l'ex colonia ha un contenzioso assai più pesante con la «madrepatria» cinese (che spesso si comporta da matrigna) che con il Giappone. Il regno thai era alleato del Sol Levante e, se an­ che fu sfruttato economicamente, venne largamente compensato attraverso annessioni territoriali a spese delle colonie francesi e britanniche. Infine, l'Asia sudorientale presenta ogni possibile sfumatura della memoria. Le Filippine, trattate duramente, si considerano retrospettivamente come alleate più che suddite degli Stati Uniti. Singapore, paese a forte maggioranza cinese, condivise l'ostilità della Cina nei confronti del Giappone. In Indonesia e in Malesia la memoria è in qualche modo frammentata: per esempio, a Gia-

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va si riscontra una frattura a livello sociopolitico tra una classe media nazionalista, insediata dagli occupanti, e nicchie popolari orribilmente sfruttate; nell'arcipelago si registra anche una divi­ sone religiosa, dal momento che spesso i musulmani furono fa­ voriti dai giapponesi a spese dei cristiani; la frattura è invece di tipo etnico in Malesia, dove alcuni indiani credettero che fosse giunta l'ora della riscossa contro i colonizzatori, mentre i malesi si accontentarono della violenta ostilità degli occupanti nei con­ fronti della potente minoranza cinese. In ogni caso, la persistenza di tensioni sia interne che internazionali nella regione non spiega in alcun modo come mai non vi sia stata una conciliazione tra queste divergenze della me moria. Alcuni si considerano ancora partner del Giappone imperiale, altri suoi avversari e altri ancora (probabilmente i più numerosi) sue vittime. Anche da questo punto di vista colpisce la differenza con l'Europa. Se la natura della memoria del conflitto resta in generale im­ mutata, la sua intensità varia a seconda dei paesi. Da questo pun­ to di vista, la linea di frattura si situa tra il Sudest e il Nordovest asiatico. Nelle regioni sudorientali, il carattere solitamente più breve e meno violento della presenza giapponese, nonché l' as­ senza oggi di qualunque contenzioso diretto con il Giappone spiegano l'attuale tendenza a una durevole rappacificazione. Inoltre, il fatto che in quei paesi non esista una singola memoria nazionale costituisce un ulteriore fattore che invita alla prudenza: si tratta infatti di Stati dal passato coloniale, che non hanno in­ te nzione di accrescere i rischi di scontri civili. Al contrario, in Ci­ na e nelle Coree le cause di frizione (economiche, strategiche, ter­ ritoriali) con l'arcipelago sono numerose. La legittimità stessa dei regimi al potere in quei paesi è fondata sulla passata lotta contro l'impero, la quale tende oggi a diventare più importante delle al­ tre grandi fonti di legittimità (il comunismo in Cina e in Corea del Nord, lo sviluppo industriale in Corea del Sud), che sono state ri­ messe profondamente in discussione. Questo spiega la virulenza de lle manifestazioni antigiapponesi che hanno scosso la Cina nel 2005, con le masse urbane che si sono talvolta spinte persino al di là delle direttive governative. In ciò trova la sua giustificazione

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anche la strana legge «contro i collaborazionisti» votata lo stesso anno dal Parlamento di Seoul, la quale, per la prima volta, si pre­ figge di denunciare o di perseguire i quadri coreani dell'epoca co­ loniale, evidentemente morti o molto anziani. Il partito al potere, significativamente denominato Uri (Noi), ha in effetti incoraggi a­ to la redazione di «liste nere» diffuse attraverso Internet: esse estendono la vergogna ai discendenti dei «traditori», che, guarda caso, sono spesso membri dell'opposizione. L'atmosfera che si re­ spira è degna di una caccia alle streghe, paradossalmente esalta­ ta dai suoi promotori come una splendida manifestazione di e-de­ mocracy 4. Queste variazioni di intensità nel rapporto con il passa­ to sono alla base dell'analisi cui ci accingiamo.

Coree: vittime, ma fino a che punto? Potrebbe sembrare bizzarro cominciare dalla Corea del Nord, dal momento che ciò che davvero pensano - anche sul Giappone - i suoi sfortunati abitanti è impossibile da determinare con cer­ tezza. Tuttavia, va detto che la palma mondiale dell'ostilità al­ l'impero spetta incontestabilmente al regime di Pyongyang, che tra l'altro si è permesso, molto dopo la fine della guerra, di rapi­ re alcuni abitanti dell'arcipelago, i quali in parte sono stati assas­ sinati e in parte sono tuttora trattenuti in territorio nordcoreano 5• Paradossalmente, la Corea del Nord possiede il sistema politico che, per l'ultranazionalismo, il militarismo e l'avventurismo (ve­ di in proposito la volontà di dotarsi a qualunque prezzo di un ar­ senale nucleare) che lo contraddistinguono, rappresenta l'erede più fedele del Giappone degli anni '40 6 • D'altra parte, occorre ri­ conoscere che i temi ultranazionalisti coltivati a nord del 38° pa­ rallelo sono presenti, seppur in forma edulcorata, anche a sud di quella linea: infatti, numerosi sudcoreani ritengono che avvici­ narsi quanto più si può alla visione del mondo professata al Nord aiuti a preparare la riunificazione. L'autocrazia al potere a Pyongyang è stata definita «dinastia dei guerriglieri» 7, e può vantare come principale titolo di gloria il

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preteso trionfo sull ' esercito imperiale nipponico. L'agenzia stampa ufficiale, la KCNA, fornisce una visione assai particolare della storia, come si può leggere in questo comunicato apparso il 16 a gosto 2000, giorno del cinquantacinquesimo anniversario del­ l a Liberazione: s uo

Il presidente Kim Il Sung fu a capo di una ventennale e vittoriosa lotta rivoluzionaria antigiapponese; egli portò a compimento la causa storica della liberazione nazionale. [ . . . ] Il 9 agosto, Juche 34 8 [1945] il presidente diede ordine a tutte le unità dell'Armata rivo­ luzionaria del popolo coreano (ARPC) di lanciare l'attacco finale per la liberazione nazionale. Le unità dell' ARPC aprirono una breccia attraverso le fortezze poste lungo la frontiera e presentate dagli imperialisti giapponesi come «una linea di difesa impenetra­ bile», liberando vaste zone della patria. A loro si unirono le picco­ le unità e gli attivisti politici dell'esercito rivoluzionario, contin­ genti armati della popolazione nonché la grande massa del popo­ lo in tutto il paese: compatti, si lanciarono all'attacco dell'apparato governativo del nemico ed eliminarono i resti dell'esercito sconfit­ to. Gli imperialisti giapponesi, ridotti a mal partito dai fieri attac­ chi delle unità dell' ARPC e dalla resistenza dell'intero popolo di­ chiararono la propria resa incondizionata il 15 agosto Juche 34 (1945), una settimana dopo l'inizio dell'operazione antigiapponese per liberare la Corea.

Né gli americani né i cinesi e nemmeno i sovietici (che, guarda caso, avevano dichiarato guerra al Giappone 1'8 agosto) sono men­ zionati, neppure come alleati, nella narrazione di quella che diven­ ta una singolar tenzone tra il Grande Leader e l'Irnperatore 9• Oggi, nel momento in cui Pyongyang minaccia il mondo, non è inutile sapere che la sua popolazione è educata nella certezza di aver già riportato da sola due vittorie storiche: la prima sul Giappone nel 1945, la seconda sugli Stati Uniti nella guerra di Corea. Un'analoga mitologia eroica si incontra anche nel Sud, dove esiste un luogo solenne, l'Independence Hall (nelle vicinanze di Seoul): si tratta di un immenso santuario moderno dedicato al na-

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zionalismo e la sua visita è obbligatoria per i bambini delle scuo­ le. Nella dichiarazione di intenti pubblicata in occasione dell'i­ naugurazione del complesso si legge: I trentacinque anni della dominazione coloniale giapponese [19101945] rappresentano la più dura prova nazionale che il popolo co­ reano abbia affrontato nei suoi 5000 anni di esistenza. Tuttavia, il po­ polo tutto, guidato dai patriottici combattenti per l'indipendenza, che misero a repentaglio le proprie vite per il ricupero della sovra­ nità nazionale, trasformò un periodo di vergogna e di sottomissione allo straniero in una storia gloriosa di lotta per l'indipendenza. 15 agosto, 4320 dell'era Dangun - 15 agosto 198 7 10

In Corea del Sud, come si vede, il Giappone è considerato il nemico tradizionale. Assieme al re Sejong, inventore dell'alfabeto coreano, il personaggio più rappresentato dalle statue, sulle ban­ conote ecc., è l'ammiraglio Yi Sun-shin che, servendosi di navi dotate di corazze di bronzo, avrebbe messo in rotta la flotta nip­ ponica al tempo dell'invasione tentata dal Giappone tra il 1592 e il 1598. I coreani, tuttavia, presentano se stessi più spesso come vittime che come trionfatori: presso i monumenti storici, i cartel­ li esplicativi ricordano quasi sempre le distruzioni e le angherie inflitte alla Corea dai giapponesi, che si tratti di fatti del XVI se­ colo o del XX. È significativo che il periodo coloniale sia definito il più delle volte «occupazione», termine che nega in partenza ogni possibile aspetto positivo della dominazione nipponica e trasforma in traditore della nazione ogni coreano che sia sceso a patti con gli invasori. In questo modo si intende porre la Corea nel campo dei paesi vittime dell'aggressione nipponica, il che peraltro crea un proble­ ma: abbiamo infatti già constatato in numerose circostanze l'e­ stensione della partecipazione coreana, volontaria o forzata, allo sforzo bellico giapponese. Pertanto, viene compiuta una duplice operazione, che gode nella penisola di un largo consenso: da un lato si cerca di dipingere a tinte quanto più fosche sia possibile la colonizzazione e dall'altro il contributo coreano all'esercito impe-

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riale è presentato come una mera imposizione violenta ai danni di vittime non consenzienti. Una critica che in Corea viene spes­ so mossa al tribunale di Tokyo riguarda la mancata inclusione della colonizzazione nell'atto d'accusa. La scuola, il cinema po­ polare, i fumetti, i musei e i monumenti: tutto concorre a propa­ gare un'immagine a una sola dimensione dei quarant'anni di do­ minazione giapponese, la quale non sarebbe stata altro che una lunga serie di umiliazioni e di violenze inflitte a un popolo unito in un rifiuto e in una rivolta permanenti, pacifici o armati. Nien­ te è risparmiato al visitatore dell'Independence Hall o dell'ex pri­ gione giapponese di Seodaemun, a Seoul, trasformata in museo: stanze per le esecuzioni, nelle quali ci si può mettere «nei panni)) di un impiccato 1 1 , le più varie e sanguinose camere di tortura, do­ ve si può assistere a flagellazioni effettuate con l'aiuto di mani­ chini animati, il tutto in un'orgia di immagini e di suoni iperrea­ listici creati grazie alla più moderna tecnologia. Ebbene, tali sce­ nari, che si susseguono uno dopo l'altro e che impressionano profondamente il cuore di un adulto, sono visitati anche dai bam­ bini delle scuole, accompagnati dai loro maestri 1 2 I giapponesi sono sistematicamente rappresentati come nani 1 3 sghignazzanti, schiumanti, perfidi e malvagi, mentre i coreani sono belli, nobili e generosi. Ci troviamo qui di fronte alla costruzione deliberata, patrocinata dallo Stato e condivisa da tutte le forze politiche, di un consenso dell'odio che spesso sconfina nel razzismo. Stando così le cose, non stupisce il fatto che, secondo un sondaggio in­ ternazionale, la stragrande maggioranza dei sudcoreani approvi retrospettivamente il bombardamento nucleare sul Giappone, as­ sai più di tutti gli altri popoli interrogati. Per contro, la collaborazione nippo-coreana del periodo belli­ co è sempre stata nascosta o minimizzata. Ciò corrisponde a una tradizione solidamente ancorata: i dittatori Syngman Rhee (Yi Songman, 1948-1960) e Park Chung-hee (1961-1979) sono stati in­ defessi denunciatori del Giappone, ma si sono circondati di ex collaborazionisti. Park stesso aveva studiato da ufficiale all'acca­ demia militare - giapponese - di Manduria. Anche i criminali di guerra coreani (dei quali almeno 148 furono condannati dopo il • • •

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1945) sono stati considerati vittime, in quanto i loro comandanti erano giapponesi: alcuni di costoro, all'inizio degli anni '90, han­ no avuto la sfacciataggine di intraprendere un'azione lega le da­ vanti alla corte distrettuale di Tokyo allo scopo di ottenere un in­ dennizzo per gli anni in cui erano stati imprigionati 1 4 ! Queste cause indebite hanno il torto di togliere credibilità a richieste mol­ to più fondate, come quelle dei lavoratori forzati spediti in Giap ­ pone e più ancora quelle dei sopravvissuti di Hiroshima e di Na­ gasaki, stimati in 2162 nel 1962. Il Giappone considera estinti tut­ ti questi casi in seguito al trattato di mutuo riconoscimento del 1965, che attribuiva allo Stato sudcoreano un'indennità globale di proporzioni abbastanza ridotte. Ad alcune persone contaminate dalle radiazioni fu rifiutato l'accesso ai centri di cura specializza­ ti del Giappone: chi tentò di entrare comunque (e illegalmente) nel paese fu in qualche caso arrestato 15• In tali condizioni, non c'è da stupirsi del fatto che la questione delle «donne di conforto» abbia assunto una tale ampiezza in Co­ rea, al punto da costituire oggi l'elemento principale della me­ moria di guerra. In un paese assai meno maltrattato dall'esercito nipponico rispetto ad altre nazioni occupate e che non aveva nemmeno subito i bombardamenti devastanti toccati all' arcipela­ go, ecco infine una categoria il cui status di vittime pareva inat­ taccabile. Non vi furono esitazioni nell'esagerarne le sofferenze. Per esempio, «Nonna Ok-nyon», nel racconto delle sue peripezie, disse di essere stata percossa e poi venduta dal marito, un ricco coreano. Nella seguente versione della narrazione, raccolta da in­ numerevoli giornalisti, ella si presenta come vergine e rapita. Per giustificare questa contraddizione, precisa: «Ora capisco meglio il risultato che cerchiamo di ottenere, pertanto distinguo tra ciò che è importante dire e ciò che non lo è. All'inizio avevo l'abitudine di parlare di questo argomento nelle mie interviste, ma ora lo ometto, poiché mi rendo conto che essere stata sposata all'epoca non aggiunge niente alla questione». Va detto che le più conosciute ex comfort women condividono una casa a Seoul sotto l'egida delle organizzazioni femministe che si sono appropriate della loro causa 16• Alcune di loro peraltro

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sono stufe dei discorsi stereotipati nei quali invariabilmente la p ura virtù coreana è violata dalla perfidia nipponica, non prima di essersi difesa con le unghie e con i denti. È questo il caso di Kim Hak-sun: Certamente sono riconoscente a coloro che hanno lavorato così du­ ramente per_noi, ma devo dirvi che a volte dimenticano la realtà e le vittime di questa violenza. Sono animati da buone intenzioni, ma sono accecati dalla causa che hanno abbracciato. Usano le vit­ time per dare un senso alle proprie vite: si tratta di un problema che qualunque movimento militante si trova ad affrontare. 17 I racconti stereotipati hanno ottenuto il risultato di far cadere disuso l'espressione «donne di conforto», espressione giappo­ in nese del tempo di guerra (ianfu), sostituita progressivamente in seno ai movimenti militanti e persino nei circoli ONU dal termi­ ne «schiava sessuale militare». Alla luce degli elementi esposti nel capitolo 9, l'espressione non è accettabile. Molte donne furono consenzienti e volontarie (in special modo in Giappone, ma an­ che in Corea) e il loro status non fu quello di schiave: disponeva­ no infatti di un contratto a tempo determinato, che spesso fu ri­ spettato, e furono generalmente pagate, e in molti casi persino ab­ bondantemente 1 8 • Ciò permise loro, al ritorno a casa, di salvare le proprie famiglie dalla miseria. In una certa misura, potevano ad­ dirittura scegliere i propri clienti e rifiutare i lavoratori non giap­ ponèsi, coreani compresi. . 19 È assai più pertinente parlare di schiavitù sessuale a proposito delle donne cinesi rastrellate a Nanchino o altrove, delle donne filippine o di alcune indonesia­ ne (vedi i capp. 5, 6 e 9). In Corea si esagerano altresì le dimen­ sioni del fenomeno della prostituzione: per esempio, spesso si so­ stiene che il Corpo del servizio volontario femminile non fosse al­ tro che una struttura adibita al procacciamento di donne per i bordelli. Ebbene, la maggioranza delle «volontarie» 20 fu spedita nelle fabbriche dell'arcipelago nipponico 21 • Le prime ricerche sulla prostituzione militare furono effettua­ te e pubblicate in Giappone fin dagli anni '60, ma è nel l990 che .

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l'affaire è esploso presso l'opinione pubblica, in primo luogo in Corea. L'occasione fu offerta dalla visita ufficiale in Giappone del presidente Roh Tae-woo. È significativo che la questione sia stata sollevata da alcune organizzazioni di donne, legate alle potenti chiese protestanti locali. Esse avevano cominciato a denunciare i sex tours (nei quali primeggiavano i giapponesi), che secondo lo­ ro costituivano una forma di aggressione permanente non soltan­ to nei confronti delle donne, ma anche della nazione 22• Credette­ ro dunque di scoprire nelle comfort women i prodromi della pro­ stituzione contemporanea: in entrambi i casi, secondo loro, si trat­ tava di «schiavitù sessuale», poiché le donne che avevano avuto rapporti fisici con giapponesi erano sistematicamente ritenute vittime di stupro 23• Queste associazioni, federatesi, hanno immediatamente ab­ bracciato posizioni massimaliste. Le loro rivendicazioni com­ prendevano il pieno riconoscimento del fenomeno della prostitu­ zione forzata da parte del governo giapponese, pubbliche scuse (il che era particolarmente scioccante), ma anche l'indennizzo delle vittime e delle famiglie delle defunte nonché l'inclusione perpetua dei fatti in questione nei libri scolastici giapponesi (ciò che ci rimanda alle domande contraddittorie ed esagerate che ab­ biamo esaminato nel capitolo precedente) 24• Nel l994 fu compiu­ to un ulteriore passo, con la richiesta di processare i responsabili della prostituzione militare. Questa rivendicazione non poteva trovare soddisfazione, non soltanto perché i fatti erano lontani nel tempo, ma soprattutto in quanto, come abbiamo visto, si era trattato di un fenomeno diffuso, frequentemente decentrato e che non aveva sempre comportato l'assoggettamento a condizioni odiose. Improvvisamente, le femministe giapponesi, anch'esse fortemente attive, si sentirono obbligate a prendere le distanze 25• Certe accuse, largamente diffuse e fortunatamente non consi­ derate dagli studiosi seri, confinano con il delirio nazionalistico. Per esempio, Chin-Sung Chung, professore all'Università di Seoul e molto attivo presso l'Alto Commissariato per i Diritti Umani dell'ONU, afferma, senza la benché minima prova, che le prostitute militari «in quanto schiave sessuali da usare sui campi

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di battaglia, erano rese sterili. Lo svolgimento dei fatti dà l'im­ p ressione che i militari giapponesi stessero procedendo all' estin­ zione dei coreani in quanto nazione>>. Quest'idea è condivisa dal­ le più attive associazioni coreane 26 . Hyunah Yang, che insegna diritto all'Università di Seoul (la più prestigiosa del paese), nel sottotitolo a un suo articolo, parla di «un caso di stupro genoci­ dario>> 27. La Corea del Nord, da parte sua, si è lanciata nelle soli­ te iperboli: la prostituzione militare giapponese «supera in quan­ to a enormità tutti i crimini commessi dai nazisti>> 28 • Tra il 1998 e il 2000, ha accettato di compiere azioni internazionali congiunta­ mente a comfort women del Sud. È persino possibile che essa ab­ bia contribuito a radicalizzare il linguaggio e le richieste delle or­ ganizzazioni che dichiarano di rappresentarle 29, le quali sono ap­ p arse entusiaste del ristabilito contatto con i «fratelli» del Nord. Hanno, per esempio, rifiutato in massa gli aiuti finanziari offerti dall'Asia Women's Fund, creato nel giugno del 1995 dalle auto­ rità giapponesi sotto forma di fondazione privata. Questa solu­ zione, preparata con la collaborazione delle femministe giappo­ nesi, permetteva di aggirare i delicati problemi giuridici ed etici posti da un indennizzo generalizzato garantito da un'apposita legge, mentre le vittime sono molto avanti negli anni e scom­ paiono a un ritmo piuttosto accelerato. Le organizzazioni corea­ ne, da parte loro, continuano a ripetere ostinatamente le richieste summenzionate. Nonostante le riserve di cui si è parlato, è indubbio che la mo­ bilitazione in favore delle ex prostitute militari, sostenuta persino in Giappone da storici del calibro di Yoshimi Yoshiaki, professo­ re all'Università Centrale (Chilo), ha permesso alla verità storica di farsi largo, costringendo le autorità nipponiche a riflettere sul passato. Per esempio, nel gennaio del 1992, il primo ministro Miyazawa Kiichi presentò scuse formali alla Corea, mentre la Dieta riconosceva il coinvolgimento delle autorità militari nel­ l'organizzazione e nella gestione dei bordelli. Nell'agosto del 1993 un secondo rapporto ufficiale ammetteva le minacce eserci­ tate sulle donne. La sua pubblicazione non fu estranea all'atto di contrizione (1994) del primo ministro Murayama Tomiichi, a

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tutt'oggi la più circostanziata ammissione di responsabilità da parte giapponese 30• Inutile non fu nemmeno il lavoro del Wo­ men's Intemational War Crimes Tribunal on Japan's Military Sexual Slavery, riunito a Tokyo nel dicembre dell'anno 2000 da una coalizione di ONG femministe asiatiche, pur se vi si nota qualche eccesso (in particolare, l'insostenibile equiparazione del­ la prostituzione allo stupro e alla riduzione in schiavitù), e qual­ che carenza (non ha contribuito in modo significativo a chiarire la catena delle responsabilità). Esso ha comunque prodotto nuove testimonianze; ha permesso il contatto diretto tra le vittime di va­ ri paesi e gli storici e ha ottenuto la condanna (simbolica) finale dei responsabili militari nonché dell'Imperatore, tutti ormai de­ ceduti, dando almeno alle ex «donne di conforto» ancora in vita un riconoscimento liberatorio 31 •

In Cina: tra sofferenza e leggenda eroica 32 A partire dal 1945, la memoria cinese a proposito del conflitto ha conosciuto sviluppi ed evoluzioni la cui complessità non tro­ va paragoni altrove. Nessun paese ha maggiormente sofferto a causa della guerra d'aggressione scatenata dal Giappone, eppure ciò non ha prodotto l'astio permanente constatato in Corea. La violenza dei conflitti interni ha spesso fatto passare in secondo piano il ricordo dei misfatti commessi dagli occupanti giappone­ si: dal 1945 alla morte di Mao Zédong (1976) sono morti molti più cinesi a causa di altri cinesi di quanti ne siano stati uccisi dai giap­ ponesi in tempo di guerra 33• Il periodo immediatamente successivo alla disfatta nipponica fu contrassegnato da importanti iniziative giudiziarie e da pro­ cessi spettacolari, come quello di Nanchino (vedi il cap . 5). Otto­ centottantatré presunti criminali di guerra giapponesi furono giudicati all'epoca da tribunali cinesi: in 149 furono condannati a morte, mentre per 83 fu deciso il carcere a vita. Peraltro, le trUp ­ pe cinesi avevano disarmato oltre un milione di soldati giapp o­ nesi: appare chiaro che numerosissimi responsabili di atrocità

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riuscirono a perforare le maglie della rete e a farla franca. Una delle spiegazioni di ciò può risiedere nell'importanza delle colla­ borazioni su cui contava il potere del Gu6mindang. Dopo la ca­ pitolazione, un ufficiale estremista, Komoto Daisaku (1883-1955), assassino di Zhang Zuòlin (vedi il cap. 2), creò un'organizzazio­ ne che permise a 2700 militari e a 3000 tecnici nipponici di rag­ giungere le forze fedeli a Chiang 34• I collaborazionisti cinesi furo­ no trattati più duramente (ma è pur vero che era più facile met­ tere le mani su di loro): oltre 10.000 subirono un processo; a 342 fu inflitta la pena capitale e 847 furono condannati al carcere a vi­ ta. Le sanzioni contro gli hànjian (i traditori) furono peraltro com­ minate secondo un metro assai diseguale. I tribunali si mostrava­ no particolarmente severi verso i «politici», personaggi in vista ma privi di competenze che il Gu6mindang potesse sfruttare, mentre i militari che avevano collaborato con il Giappone otten­ nero facilmente il perdono: servivano infatti alla guerra civile contro i comunisti, i cui prodromi erano già visibili nel 1946 35• Salta all'occhio la relativa mitezza della giustizia, pur di fron­ te all'estensione dei misfatti commessi (vedi il capitolo 6). I tribu­ nali americani, britannici o olandesi avevano spesso giudicato più severamente i crimini su cui erano stati chiamati a pronun­ ciarsi, compiuti in massima parte ai danni dei prigionieri di guer­ ra occidentali (capitolo 11). Tuttavia, grazie in parte alla collabo­ razione della giustizia cinese con il tribunale di Tokyo, fu svolta una non trascurabile opera di documentazione; per esempio, si poté effettuare una stima (valutata in una decina di milioni, cifra verosimile) delle vittime cinesi del conflitto. I processi, i cui pre­ liminari si tennero nell'aprile del 1946, furono tuttavia interrotti definitivamente all'inizio del 1949, a causa della guerra civile, al­ lora al suo apice, e delle pressioni americane, che andavano nella direzione di una riconciliazione con il Giappone in nome dell'an­ ti com unismo. Tutti i collaborazionisti cinesi furono liberati, ecce­ zion fatta per coloro che erano stati condannati al carcere a vita. Ne l 1952, in occasione della firma del trattato di pace tra l'impe­ ro e la repubblica di Cina, ormai arroccata a Taiwan, gli 88 crimi­ na li di guerra giapponesi ancora detenuti ottennero la grazia e fu-

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rono rimessi in libertà. A Chiang Kai-shek non conveniva più in alcun modo scontentare il Giappone, prezioso alleato contro la minaccia proveniente dalla Cina continentale, la quale, per ragio­ ni piuttosto diverse, si comportava in modo analogo: le sua prio­ rità, infatti, erano l'eliminazione di ogni traccia di opposizione politica e, fin dal 1950 (con lo scoppio della guerra di Corea), il confronto con l'avversario americano, destinato a durare vent'an­ ni. La propaganda ufficiale strumentalizzava la guerra sino-giap­ ponese per denunciare la debolezza e i tradimenti del Gu6min­ dang 36 e per esaltare la guerriglia comunista, dipinta come un movimento che, grazie al proprio eroismo e al sostegno di tutto il popolo, aveva mietuto vittorie su vittorie contro i soldati giappo­ nesi, presentati come esseri più grotteschi che pericolosi 37• Per contro, non era conveniente calcare troppo la mano nei confronti di vittime morte senza nemmeno essersi difese: la cosa odorava di tradimento. I pochi lavori comunque prodotti sul massacro di Nanchino (in particolare nel 1952 e nel 1962) ebbero scarsa riso­ nanza 38 • In essi si accusavano gli americani rimasti nella capitale di complicità con i giapponesi: la Zona di Sicurezza sarebbe stata messa in piedi all'unico scopo di consegnare più comodamente i civili cinesi ai loro assassini. Quanto ai criminali di guerra già im­ prigionati prima della vittoria comunista, per quanto se ne sa fu­ rono tutti rilasciati prima del 1964 e generalmente vennero rispe­ diti in Giappone. Fu celebrato soltanto un nuovo processo pub­ blico (a Fushùn) 39, che si concluse senza condanne a morte. Su 1069 detenuti, appena 45 furono puniti: la pena più pesante tra quelle inflitte fu di vent'anni di reclusione 40• Questa sorprendente moderazione, da parte di un regime che non brillava certo per umanità, si spiega facilmente: sotto Ma o non si riceveva una condanna per qualcosa che si era (o non si era) fatto, ma in base al vantaggio politico che il regime poteva trame. Poiché il Giappone era stato sconfitto e cacciato dal conti­ nente, non c'era nulla da guadagnare a metter le mani sui suoi cit­ tadini. Tuttavia, insinuarsi nell'alleanza nippo-americana p otev a essere più remunerativo sul piano politico e, ancor più, su que llo economico. Alla luce di ciò si spiegano le numerose aperture da

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p arte dei dirigenti giapponesi (soprattutto della destra al potere) e il ritorno a casa dei criminali di guerra graziati dopo essersi «ravveduti>> . Costoro sostennero davanti all'opinione pubblica giapponese di essere stati trattati correttamente, sottolineando quale prezzo di sangue la Cina avesse pagato 41 • La riapertura del­ la Cina, a partire dal 1971, diede vita a una vera e propria luna di miele con il Giappone: dal 1974 si smise di commemorare la ca­ pitolazione giapponese; al contrario, agosto divenne addirittura il «mese dell'amicizia sino-giapponese>> . In occasione della morte di Mao Zédong (settembre 1976), nei discorsi commemorativi al­ la guerra fu dedicato non più di qualche cenno . . . Tuttavia, i dirigenti cinesi sono pragmatici fino al cinismo. Una volta ottenuto il loro scopo principale, con la conclusione, nel 1978, di un trattato di pace e di mutuo riconoscimento con il Giappone, e con l'aumento vertiginoso del flusso di merci e inve­ stimenti tra i due paesi che ne derivava, la Cina poté giocare al rialzo, inasprendo la propria posizione nei riguardi dell'arcipela­ go, badando tuttavia a non raggiungere mai il punto di rottura. Negli ultimi venticinque anni, si è constatata un'intensificazione dei rimproveri all'indirizzo del Giappone, accusato di «non pen­ tirsi a sufficienza», ogni volta che Pechino si è proposto di otte­ nere un vantaggio economico o politico da un partner di cui non pu ò fare a meno, e che in questo modo si trova a dover fronteg­ giare una situazione di imbarazzo sulla scena internazionale. Il capro espiatorio nipponico è usato anche per regolare i conflitti interni al gruppo dirigente cinese: criticare il Giappone, in parti­ colare, permette di mettere a tacere alcuni critici «conservatori» degli anni '80 e di giungere più facilmente all'approvazione del­ le grandi riforme in senso !iberista che la Cina sta attuando 42• I media occidentali, per parte loro, fin dal conflitto vietnamita so­ no incondizionatamente a favore di tutti coloro che si presentano come vittime: accade dunque che facciano da cassa di risonanza all e accuse cinesi senza porsi domande. Bisogna riconoscere che i politici giapponesi espongono spesso e volentieri il fianco alle cri­ tiche di cui è fatto oggetto il loro paese: essi sembrano viaggiare s u un treno perennemente in ritardo, perché è vero che alla fine

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riconoscono i torti del Giappone, ma soltanto quando vi sono co­ stretti. Dalla prima visita ufficiale (1985) di un premier al san­ tuario di Yasukuni (Nakasone Yasuhiro, 1982-1987), questo gesto simbolico viene ostinatamente ripetuto, pur essendo percepito, in parte a torto, come una provocazione rinnovata con cadenza annuale. La prima crisi, occorsa nel 1982, fu causata dalle informazioni (in gran parte erronee) diffuse dalla stampa giapponese e riprese da quella internazionale a proposito del forte revisionismo che avrebbe caratterizzato i più recenti manuali di storia a uso delle scuole (vedi il cap. 11). Da Pechino giunse una reazione frutto di un'accurata meditazione e certamente non basata sull'umore del momento: in Corea del Sud 43 e persino a Hong Kong le proteste avevano avuto inizio molto prima della pubblicazione del primo editoriale apparso sul «Quotidiano del popolo», che in Cina die­ de il la a una campagna ben orchestrata. In men che non si dica l'ambasciata giapponese fu sommersa di lettere di protesta (2400 delle quali erano scritte con il sangue dei loro autori, tra cui si contarono 400 professori universitari 44); un mare di dibattiti sulla guerra e di testimonianze riempì in breve tempo le pagine dei giornali, e il partito comunista fece appello persino al decaduto Gu6mindang affinché partecipasse alla difesa dell'onore nazio­ nale. Alla fine dell'anno, con la visita in Cina del primo ministro Suzuki Zenko (1980-1982), latore di promesse di aiuti finanziari, l'ondata emotiva si calmò all'improvviso e si ritornò all' «amicizia sino-giapponese». In occasione del quarantesimo anniversario della guerra, nel l985, il neo-nazionalismo di Nakasone fece nuo­ vamente esplodere la polemica. Per la prima volta, il 18 settembre (anniversario dell'«incidente di Mukden» del 1931), gli studenti di Pechino scesero in piazza per denunciare la «seconda occup a­ zione nipponica», pur manifestando la propria amicizia nei con­ fronti del popolo giapponese 45• Si verificarono anche episod i di violenza: alcune automobili giapponesi furono date alle fiamme e vi furono aggressioni ai danni di cittadini dell'arcipelago . . . Du­ rante quelle dimostrazioni fu criticato persino il governo cinese, accusato di «capitolare» davanti a Tokyo: questo particolare re se

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i dirigenti cinesi più prudenti nel gestire emozioni che potevano sfuggire di mano a chi le aveva istigate. Nello stesso periodo fu inaugurato il Memoriale dedicato al massacro di Nanchino, il pri­ mo complesso del genere nel pa e se. Esso descrive i fatti ponendo l'accento soprattutto sulle vittime, privilegiando dunque una vi­ sione del tutto opposta a quella della propaganda dei decenni precedenti, della quale serba traccia la statua di una «donna eroi­ ca» posta al centro del mausoleo. A partire dal 1996 la visita al Memoriale è obbligatoria per tutti gli studenti. Le polemiche ebbero un sussulto nel 1987, anche se soltanto a livello diplomatico: si rimproverava a Tokyo il persistente soste­ gno a Taiwan, che divenne un ricorrente pomo della discordia. La concessione di nuovi aiuti economici calmò le acque. Nel 1988, tuttavia, i nuovi manuali di storia giapponesi provocarono un riacutizzarsi delle critiche. Una lunga «tregua» si ebbe in seguito alla repressione di Tian'anmén (1989) : Pechino si vedeva costret­ ta ad adottare un profilo basso di fronte all'opinione pubblica in­ ternazionale e il Giappone si era mosso con abilità, essendo il pri­ mo dei grandi paesi a riallacciare normali rapporti con la Cina. Tre giorni dopo il massacro, l'effimero primo ministro Uno So­ suke ritenne di rassicurare i cinesi: «Parlerò chiaro: quarant'anni fa il Giappone ha invaso la Cina e non ha il diritto di comportar­ si alla leggera nei confronti di un popolo che ha subito l' espe­ rienza di una tale guerra. Le relazioni sino-giapponesi sono di­ verse da quelle sino-americane» 46• La Cina mise la sordina anche alla controversia territoriale sul­ le piccole isole Senkaku /Diàoyutai, la cui sovranità è contestata. Di conseguenza, nel 1992, il nuovo imperatore Akihito poté effet­ tuare in condizioni favorevoli una storica visita in terra cinese. I successivi dirigenti giapponesi hanno presentato le proprie rit uali scuse attenendosi a un modello gradito a Pechino, ma che in fondo era anche quello emerso dal processo di Tokyo: un «pu­ gn o di militaristi» era responsabile di tutto, mentre il popolo non ave va nulla da rimproverarsi. Tuttavia, nel 1 995 (un temibile an­ nive rsario . . . ) il riavvicinamento si trovò a essere di nuovo in di­ sc uss ione, a causa della sospensione degli aiuti economici giap-

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ponesi in seguito agli esperimenti nucleari condotti dai cinesi. Al Giappone furono quindi nuovamente rinfacciati i misfatti com­ piuti durante la guerra. Il sessantesimo anniversario della capito­ lazione, nel 2005, è coinciso con la ripresa delle violenze di piaz­ za, esplose con un'intensità senza precedenti, almeno dopo il 1985. I consolati giapponesi sono stati oggetto di manifestazioni in tutte le grandi città della Cina; si sono avuti numerosi casi di saccheggio e molte sono state le persone minacciate. Le proteste si sono rivelate un po' più violente di quanto il governo auspi­ casse, ma non è stato fatto nulla per impedirle . . . Il pretesto per i disordini era dato ancora una volta dalla pub­ blicazione di un manuale di storia di tendenza revisionista (vedi cap. 11), ma ci si era dimenticati di dire che soltanto pochissimi istituti (lo 0,04%) l'avevano adottato; altra benzina sul fuoco era stata gettata da una nuova visita del premier nipponico Koizumi Jun'ichiro (2001-2006) al santuario di Yasukuni. Il motivo reale per il quale erano stati scatenati i disordini era l'intenzione di «ammazzare» il progetto di riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che avrebbe accordato al Giappone un seg­ gio in qualità di membro permanente, ponendolo dunque sullo stesso piano di Pechino. Una petizione indignata che chiedeva di fermare l'iniziativa in quanto il Giappone «non si è pentito» fu sottoscritta da 20 milioni di cinesi, presso i quali l'ostilità verso i nipponici resta un sentimento profondamente radicato. Secondo un sondaggio tra l'opinione pubblica, nel 1995 1'85% dei pechine­ si e il 79% degli abitanti di Shànghai non si fidavano degli abi­ tanti dell'arcipelago. E ancora, nel 2003, l'orgia scoperta a Zhiihài (zona economica a statuto speciale nei pressi di Macao), per or­ ganizzare la quale 300 giapponesi avevano ingaggiato 500 prosti­ tute cinesi, fu percepita come una dedizione dello schiavismo sessuale del tempo di guerra, tanto più che i fatti avevano avuto luogo il 15 settembre, in una data vicina a quella dell'anniversa­ rio dell'inizio dell'occupazione della Manduria (18 settembre). Vi furono manifestazioni di protesta, ripetute poche settimane dop o quando si seppe che erano stati fatti gesti osceni durante uno spettacolo teatrale organizzato da studenti giapponesi giunti in

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Cina per partecipare a un programma di scambio universitario. I due governi dovettero impegnarsi per evitare che l'incidente degenerasse 47• In Cina sono stati innalzati numerosi monumenti commemo­ ra tivi, oltre a tre grandi musei dedicati alla guerra, posti in altret­ tanti luoghi emblematici, ovvero Shenyang (l'antica Mukden), Wanping (vicino al ponte di Marco Polo, dove ebbe inizio la guer­ ra aperta) e Nanchino. L'immenso memoriale a cielo aperto (mi­ sura 8,4 ettari), terminato il 15 agosto del 2000 non lontano dal museo di Wanping, nell'attuale agglomerato di Pechino, com­ p rende ben 156 scene scolpite nella pietra e accompagnate da spiegazioni bilingui. Queste opere informano copiosamente sulla visione del conflitto attualmente propagandata in Cina. La prima cosa che si constata è una combinazione tra l'eroismo ottimista e combattente proveniente dal periodo maoista, ancora molto pre­ sente, e la descrizione assai realistica delle sofferenze, che riempie la prima delle quattro sezioni del memoriale. Il martirio delle donne e dei bambini è messo particolarmente in risalto: questa è probabilmente una costante nella descrizione delle catastrofi umane del XX secolo, in qualunque paese 48• La rappresentazione del «diabolico covo» dell'Unità 731 (vedi il cap. 6), include una camera a gas dentro alla quale si vedono bambini agonizzanti, mentre i medici-boia osservano da spionci­ ni. Si vede chiaramente il tentativo di conformarsi al modello del­ la Shoah, che è divenuta una sorta di norma assoluta dell'orrore. Uno degli scopi del memoriale è dichiarato nell'iscrizione parie­ tale che accoglie i visitatori del museo Patriottico di Shenyang: dar sfogo «all'odio che brucia nei cuori di tutti i cinesi nei con­ fronti dei criminali militaristi giapponesi» che hanno osato attac­ care «la Grande Cina, con i suoi cinquemila anni di civiltà» 49• La seconda constatazione ci allontana più decisamente dagli anni del comunismo radicale: la lotta antigiapponese è presentata co­ me una mobilitazione nazionale, senza colorazione politica 50 • Nulla viene detto sul ruolo del Partito, né sono ostentati simboli comunisti. Certamente, i soldati rossi si riconoscono dai loro el­ me tti, ma sono frequenti anche i caschi in stile tedesco delle for-

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ze del Gu6mindang. I due leader, Mao e Chiang Kai-shek sono mostrati su due tabelloni vicini, identici per dimensioni. Si dan­ no la schiena e Mao è situato un poco più in alto . . . Ma mentre il Timoniere ha le caratteristiche tipiche del despota (è solo, è cinto da un gran mantello, ha il petto in fuori e stringe con una mano un paio di guanti), il Generalissimo è rappresentato mentre di­ scute con due suoi ufficiali attorno a un tavolo su cui è spiegata una carta geografica. Si constata un terzo elemento: la centralità di Nanchino, capi­ tale nazionale all'epoca, e solo luogo rappresentato esplicitamen­ te. Si tratta della città-martire, il simbolo della sofferenza cinese, mostrata su quattro bassorilievi. Le didascalie specificano che i fatti di Nanchino costituiscono «un massacro senza pari nella sto­ ria». Yan'an, la capitale comunista, è anch'essa rappresentata co­ me un punto di incontro dei «patrioti», ma il suo nome non viene menzionato. Si riconosce inoltre tutta una serie di luoghi simboli­ ci, che servono a mettere in evidenza l'immensità della Cina e l'impegno di popolazioni geograficamente molto lontane tra loro nella guerra di resistenza: dall'altopiano del Loess, nel nord-ove­ st, alle pianure settentrionali, dalle gelide foreste della Manduria alle montagne del sud, alle paludi formate dai delta dei fiumi . . . La quarta constatazione riguarda la folta presenza di donne: vittime (uno stupro, una statua simile a una Pietà michelangiole­ sca ecc.), ma anche infermiere, propagandiste, combattenti. La rappresentazione dei bambini segue uno schema analogo: essi so­ no vittime, vedette partigiane, spie, guardie . . . Ci si può anche in­ terrogare a proposito di ciò che non figura in quel vasto comples­ so monumentale: gli stranieri (con l'eccezione di un monaco pa­ triota, forse però anch'egli cinese) e i collaborazionisti. Non si ac­ cenna nemmeno alle lotte fratricide tra comunisti e nazionalisti di cui è disseminato il periodo bellico. L'aspetto più fastidioso, al­ meno agli occhi di un europeo, è il modo enfatico in cui sono rap­ presentati i tipi razziali; i giapponesi appaiono totalmente diver­ si dai cinesi: sono infatti bassi di statura, tarchiati, invariabilmen­ te sgraziati, quasi tutti dotati di occhiali da miopi, e più che esse­ re feroci le loro facce assomigliano a maschere sghignazzanti.

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Hanno un aspetto scimmiesco che fa venire in mente le caricatu­ re americane diffuse durante la guerra del Pacifico 51 • In compen­ so, i cinesi sono alti e slanciati, i loro lineamenti sono delicati e i loro nasi hanno talvolta forma aquilina. Persino da morti conser­ vano un aspetto nobile. Fanno inevitabilmente pensare agli aria­ ni che popolano le opere di Arno Breker, lo scultore preferito dai nazisti.

Taiwan: le due memorie I taiwanesi di oggi si trovano in una situazione unica: hanno partecipato al conflitto in entrambi i campi. Infatti, in seguito al­ la vittoria comunista sul continente, circa un milione e mezzo di soldati e di funzionari del Gu6mfndang ripiegarono nell'ex co­ lonia giapponese, costituendo da allora il 15% circa della popo­ lazione del paese. Chiang Kai-shek, e in seguito suo figlio, go­ vernarono Taiwan con pugno di ferro fino al 1987, quando l'abo­ lizione della legge marziale aprì la via a una progressiva libera­ lizzazione politica sfociata nel 2000 nella prima alternanza al po­ tere. Il Gu6mfndang impose una visione della storia destinata a legittimare il dominio dei continentali. Il discorso sulla coloniz­ zazione giapponese era completamente bloccato in un vicolo cie­ co: quando si parlava dell'argomento, lo si faceva per sottolinea­ re l'autoritarismo dei colonizzatori e soprattutto l'insofferenza della popolazione nei loro confronti. Gli isolani erano presentati come patrioti che anelavano a riunirsi alla madrepatria, la quale era a sua volta dipinta come desiderosa di ricuperare la provin­ cia perduta. Ebbene, la realtà fu del tutto diversa. Né il Gu6mfndang né i comunisti parlarono del recupero di Taiwan prima del 1942, nem­ meno come prospettiva lontana nel tempo. Ma, nel novembre del 1942, la rivendicazione divenne ufficialmente uno degli obiettivi della guerra, assieme al ritorno della Manduria . . . e delle isole Ryukyu (Okinawa): queste ultime rimasero infine al Giappone. L a c onferenza interalleata del Cairo (novembre 1943) riconobbe le

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principali richieste da parte cinese. Quanto ai taiwanesi, la cui vi­ vace resistenza alla colonizzazione era pressoché cessata fin dai primi anni del XX secolo 52, sul continente non erano considerati autentici cinesi. Molti di coloro che vi si trovavano all'inizio del­ la guerra sino-giapponese furono arrestati come «spie giappone­ si» o come hànjian; le loro proprietà furono confiscate e furono co­ stretti a subire una dura prigionia. Alcuni di loro furono giusti­ ziati. Persino i pochi che si erano recati sul continente per com­ battere contro i giapponesi subirono frequenti maltrattamenti. Le persecuzioni continuarono almeno fino al 1946, all'indirizzo dei taiwanesi smobilitati sul continente o che avevano lavorato per società nipponiche. Il governo si decise a regolarizzare la loro condizione soltanto nel novembre del 1946 53• Per quanto concerne la rappresentazione del conflitto inse­ gnata nelle scuole e promossa dalle commemorazioni pubbliche, non si discostava da quella in vigore sul continente: si tratta di un tipico caso di «trapianto di memoria», per riprendere l' espressio­ ne dello storico singaporiano Mike Lan. L'unica festa nazionale in rapporto con la storia dell'isola era quella dedicata al «glorioso ri­ cupero», celebrata il 25 ottobre, giorno del passaggio dei poteri all'amministrazione del Gu6mindang. Il periodo tra il 1937 e il 1945 era denominato «guerra di resistenza» (kàngzhàn), come nel­ la Cina popolare. Alla stregua dei cinesi, anche i taiwanesi erano presentati contemporaneamente come resistenti e vittime. In mo­ do un poco contraddittorio, si tentava anche di non parlare trop­ po male del Giappone, alleato de facto contro la principale minac­ cia rappresentata dalla Cina comunista. Si insisteva altresì sul­ l'importanza e sull'antichità dell'alleanza militare e politica con gli Stati Uniti, indispensabile alla sopravvivenza di Taiwan dop o il 1949. Persino in occasione delle celebrazioni del 60° anniversa ­ rio della fine del conflitto, svoltesi nel 2005, la mostra organizza­ ta dal museo delle Forze Armate, a Taipei (si veda il testo citato all'inizio del presente capitolo) rendeva omaggio alle Tigri volan­ ti del generale Chennault (1893-1958) o alle imprese di un corp o di spedizione cinese impegnato a fianco dei britannici in Binna­ nia, ma non conteneva alcun accenno all'enorme lavoro compiu-

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to dalla resistenza nelle retrovie giapponesi: quei partigiani, infat­ ti, avevano il torto di essere comunisti. Il conflitto era esaminato da un'angolazione quasi esclusivamente militare; il che spiega co­ me mai delle atrocità nei confronti dei civili si parlasse appena. Accanto a queste rappresentazioni di origine continentale, vi era la memoria degli isolani, che fu per lungo tempo rimossa, e addirittura vietata fino alla fine degli anni '80. Essa si basava sul vissuto di centinaia di migliaia di taiwanesi mobilitati dall'eserci­ to imperiale e più ancora sui ricordi di una popolazione che non soffrì esageratamente a causa della guerra 54, che era stata fiera di assurgere, negli ultimi mesi del conflitto, alla dignità di sudditi a pieno titolo dell'Imperatore (vedi il cap. 3), e che, soprattutto, era stata profondamente delusa dai primi anni del ritorno alla Cina. Si era assistito al dilagare di traffici e corruzione a vantaggio dei continentali freschi di sbarco. Ciò aveva provocato una rivolta (febbraio 1947), alla quale fece seguito una repressione terribile: e ssa fu definita in cinese «Terrore bianco» e durò fino all'inizio d e l decennio successivo, provocando all'incirca 15.000 vittime (concentrate soprattutto tra gli intellettuali) su una popolazione di 6 milioni di abitanti. Improvvisamente si sviluppò una «nip­ postalgia», ancora oggi assai vivace tra la popolazione più in là con gli anni. Per molti taiwanesi il periodo coloniale (di cui si cen­ sura opportunamente l'intermezzo della guerra) è il più florido c he l'isola abbia vissuto. Con la democratizzazione, questa memoria nascosta ha potu­ t o riemergere liberamente. Non soltanto: è addirittura salita al p otere, prima con l'ascesa alla testa del Gu6mindang di un isola­ no educato alla giapponese, Li Denghur, presidente dal 1988 al 2000, poi in modo ancor più spettacolare con la vittoria del parti­ to «indipendentista», che auspica una separazione definitiva dal­ l a Cin a. Di conseguenza, la commemorazione del «glorioso ricu­ p e ro» è stata sostituita da quella, più neutra, di «fine della guer­ r a » e il 25 ottobre non è più giorno di festa. Il nazionalismo taiwa­ n ese, che si fonda su un sentimento ostile alla Cina, manifesta in­ d ubbiamente qualche simpatia nei confronti del Giappone mili­ ta rista. Molti suoi rappresentanti si sono inchinati nel santuario

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di Yasukrmi, dove figurano le 28.000 tavolette dei soldati isolani morti per l'Imperatore. Li Denghur, dopo aver abbandonato il proprio incarico, ha collaborato con il celebre autore giapponese di manga storico-politici Kobayashi Yoshinori (vedi il cap. 11). Entrambi ritengono che a Taiwan il Giappone abbia fatto grandi cose; Li aggiunge che Tokyo non dovrebbe temere di tenere un profilo più alto sulla scena internazionale e dovrebbe in primo luogo sfidare Pechino. Per Kobayashi l'isola rappresenta un esempio di ciò che sarebbe stata la Sfera di co-prosperità se il Giappone avesse potuto realizzarla. All'inizio del 2006, a WOI>, e il deputato che presiedeva il gruppo par­ lamentare nippo-britannico gli consigliò di «perdonare e di­ menticare» 85• Esisteva comunque un'imponente bibliografia composta per lo più di racconti di ex prigionieri pubblicati nel­ l'immediato dopoguerra; il più famoso, dovuto a Russell Brad­ don 66 , vendette in totale oltre un milione di copie: esso era ve­ nato di un razzismo antigiapponese (e persino anti-«giallo») piuttosto virulento 87• Vent'anni dopo quest'opera aveva ovvia­ mente fatto il suo tempo, ma nessuna narrazione dei fatti più ac­ cettabile ne aveva preso il posto. D'altra parte, se il Giappone fa­ ceva paura era per la sua penetrazione commerciale, non certo per i suoi crimini passati. Le cose cambiarono un po' ovunque nel corso degli anni '90, fo r se perché la società, e sulla sua scia la storiografia, dimostrava un interesse rinnovato per le vittime, le loro sofferenze e i loro p ercorsi individuali; la Shoah costituiva ormai, persino in Cina, un a sorta di unità di misura universale. Una seconda ragione di ta l e mutamento di atteggiamento va ricercata nel declino dell'in­ fl uenz a giapponese, il cui slancio economico, fino ad allora irre­ si stib ile, sembrava destinato ad affievolirsi. Una nuova visita im-

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periale a Londra, compiuta da Akihito (peraltro non personal­ mente responsabile delle vicende del conflitto) nel 1998, suscitò proteste assai più dure di quella del 1971 : centinaia di ex prigio­ nieri e internati civili volsero ostentatamente la schiena al corteo ufficiale e fu bruciata una bandiera giapponese. Dal 1988 un'as­ sociazione, significativamente chiamata «dei sopravvissuti ai campi di lavoro» Gapanese Labour Camp Survivors' Association) lotta per ottenere scuse e un indennizzo adeguato dallo Stato giapponese. Nel novembre del 2000 il governo britannico ha ac­ cordato una somma di 10.000 sterline a ogni ex prigioniero o in­ ternato nei campi giapponesi (nel caso la persona avente diritto fosse deceduta, la somma è stata corrisposta alla vedova) 88 • Una misura analoga, comportante un indennizzo simile quanto al­ l' ammontare, è stata adottata dal governo australiano nel 2001 . È significativo che essa non sia stata estesa agli ex prigionieri del teatro di guerra europeo 89• Contemporaneamente, nel 1995 mi­ gliaia di ex detenuti americani hanno intentato presso il tribuna­ le distrettuale di Tokyo una causa collettiva per ottenere scuse e una riparazione (valutata in 20.000 dollari per querelante) 90 • Do­ po il 1990 si constata altresì una crescente affluenza alle comme­ morazioni della guerra tenute in Australia, proprio mentre gli ex combattenti stanno scomparendo. Nel 2004 a Ballarat, città di me­ die dimensioni dell'interno, è stato inaugurato un importante mausoleo federale dedicato agli ex prigionieri di guerra. Pur es­ sendo simile ai tradizionali monumenti in onore dei caduti, vi ag­ giunge il linguaggio architettonico moderno della sofferenza e dell'introspezione 91• Questa esplorazione dei vari percorsi della memoria sarà se non altro servita a far vedere fino a che punto il rapporto di que­ sta con la storia sia problematico. La memoria, che talvolta si na­ sconde per poi rispuntare in modo sorprendente, dipende in pri­ mo luogo dal ricambio generazionale. I sopravvissuti, essi stes si non di rado desiderosi di dimenticare le prove che hanno dovu­ to sopportare, al loro ritorno si trovano di a una società a su a v ol­ ta duramente segnata. Ne deriva la tentazione di abbandonar si a un unanimismo che nega i drammi individuali o all'oblio , che fi-

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nisce per coprire tutto cinque o dieci anni dopo la fine della guerra. Alcuni decenni più tardi, il desiderio dei «vecchi» di tra­ smettere le proprie esperienze e di regolare in extremis alcuni conti diventa forte, e può essere fatto proprio dalle giovani ge­ nerazioni che non rischiano di perdere la propria sanità mentale a causa del ricordo degli orrori subiti. In modo complesso, que­ sto fenomeno generazionale è legato ai cambiamenti delle idee e delle sensibilità, che in tempi recenti hanno esaltato le vittime, guardando invece con sospetto le istituzioni (tra cui l'esercito), le nazioni e le ideologie. Infine (o forse soprattutto?), la memoria è condizionata dal­ l'uso politico che se ne fa: esso può essere più o meno forte a se­ conda dei paesi e può variare a seconda del luogo e del mo­ mento. Questa constatazione aiuta a capire alcuni fatti apparen­ temente bizzarri. Per esempio, come si spiega che in Corea la memoria della presenza giapponese sia così bruciante e presen­ te, mentre in Indonesia essa non è necessariamente negativa, sebbene gli indonesiani abbiano oggettivamente sofferto a cau­ sa del Giappone assai più dei coreani? Semplicemente, il fatto è che la Corea ha difeso e costruito la propria idea nazionale con­ tro il Giappone, mentre l'Indonesia l'ha creata con esso. All' op­ posto, la Corea e Taiwan ebbero storie coloniali paragonabili, anche se il lavoro forzato e la prostituzione militare furono più diffusi nella penisola. Ebbene, oggi, i nazionalisti radicali di quei paesi coltivano due immagini diametralmente opposte del­ l'impero: le loro alleanze e i loro avversari determinano la loro visione del passato. La Cina, in modo più cinico, ha deliberata­ mente trasformato gli orrori bellici da essa subiti in un'arma di rica tto permanente, che le ha già fruttato parecchi successi poli­ ti ci e vantaggi economici. Alcuni esempi - in particolare a Sin­ gapore, a Taiwan, in Australia - mostrano tuttavia che memoria e storia possono convergere, con indubbi benefici sia per l'una che per l'altra.

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1 Estratto di un lunghissimo discorso redatto per la festa dell'università Ke ò i , a Tokyo. In seguito alle pressioni di Pechino, Li non poté ottenere il visto per pronunciarlo di persona. Esso è stato tradotto in inglese ed è citato sul sito del giornale sudcoreano «Hankyoreh»: http: / l english.hani.co.kr l arti/ en­ glish_edition/ e_editorial/ 151254.html 2 Ovvero le isole Pescadores, piccolo arcipelago del distretto di Taiwan. 3 Vi è probabilmente un piccolo numero di eccezioni, in particolare in al­ cuni paesi baltici, dove la popolazione non ebraica soffrì maggiormente sotto l'URSS che sotto la Germania. • Ovvero «democrazia elettronica». Questo esempio dovrebbe costituire materia di riflessione per coloro che vedono nel web un magnifico stru­ mento di democrazia partecipativa. 5 Si tratta di un risvolto non da poco nel grave contenzioso che ancor oggi vede opposti i due paesi. 6 Kyu Hyun Kim, War and the Colonia! Legacy in Recent South Korean Scho­ larship, «IIAS Newsletter», n. 38, settembre 2006, p. 6. 7 Adrian Buzo, The Guerrilla Dinasty: Politics and Leadership in North Korea, Westview, Boulder 1999. 8 La Corea del Nord possiede un calendario «imperiale»: l'era del Juche (la «filosofia» ufficiale) comincia con la nascita di Kirn Il Sung. 9 I nordcoreani affermano tra l'altro che le bombe atomiche lanciate sul Giappone avrebbero ucciso circa 50.000 lavoratori coreani e ne avrebbero contaminati altri 50.000 (la cifra reale è quasi certamente dieci volte infe­ riore); ciò permette loro di denunciare contemporaneamente il mancato indennizzo da parte del Giappone e una delle tante ignominie americane (agenzia ufficiale KCNA, comunicato del 6 agosto 2004). 1 0 Brochure dal titolo Independence Hall, senza indicazione dell'editore né della data di edizione, venduta in loco, pp. 7-8. Dangun, figlio di un'arsa, è il rnitico capostipite dei coreani. Il Nord pretende di averne individuato la tomba sulle pendici del monte Paektu-san, montagna sacra che osp ita una grotta nella quale avrebbe visto la luce l'attuale «Caro Leader», Kirn Jong-il. L'era Dangun rimane poco usata dalla propaganda. 11 Le esecuzioni o le morti sotto tortura per ragioni politiche, in Corea, non sono state probabilmente superiori a qualche decina o a qualche centinaio, tra il 1920 e il 1945. È pur vero che il periodo precedente era stato assai più violento. 12 Per quanto ne so, nessuna ricostruzione multimediale di questo tip o è mai stata realizzata nei luoghi che commemorano i crimini nazis ti e la

Shoah . . .

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soprannome peggiorativo che viene dato loro sia in Corea che in Cina «nani». 14 Won Soon Park, ]apanese Reparations Policies and the «Comfort Women» Question, «Positions: East Asia Cultures Critique>>, vol. 5, n. l, primavera 1 997, p. 124. 1 5 lvi, pp. 113-114. 1 6 Dai Sil Kim-Gibson, They Are Our Grandmas, «Positions: East Asia Cultu­ res Critique>>, vol. 5, n. l, primavera 1997, pp. 260-261 . 1 7 lvi, p . 274. 18 George Hicks, The «Comfort Women», in Peter Duus, Ramon H. Myers, Mark R. Peattie (a cura di), The ]apanese Wartime Empire, 1931-1945, Prin­ ceton University Press, Princeton 1996, p. 137. 1 9 Ciò accadde per esempio a Palau, in Micronesia, dove agricoltori corea­ ni dissodavano la terra. Testimonianza di Yi Sangok, in The Korean Coun­ cil far Women Drafted far Sexual Military Slavery by Japan, True Stories of the Korean Comfort Women, Cassel, London 1995 (ed. or. in coreano: 1993), p. 130. 20 Le attiviste coreane fanno confusione, forse senza volerlo, su un secondo aspetto: assimilano infatti tutte le volontarie coreane a lavoratrici forzate. Ebbene, lo studio del caso preciso (cap. 9) mostra che se è vero che si fece ricorso su larga scala alle minacce e all'inganno, un gran numero di co­ reani di ambo i sessi aderirono davvero volontariamente alla causa del G rande Giappone. Nel caso francese, distinguiamo tra i lavoratori partiti spontaneamente per la Germania durante la guerra e quelli che furono co­ stretti a recarvisi nel quadro del Servizio di lavoro obbligatorio. Beninte­ so, soltanto la seconda categoria ha avuto diritto a un indennizzo . . . 2 1 Hicks, The «Comfort Women» cit., p. 160. 22 Colpisce la constatazione che l'assimilazione tra prostituzione e aggres­ sione giapponese risale agli anni '20. Il quotidiano «Shinmin Kongron>>, nel 1921, considerava il ricorso a una prostituta «più immorale di uno stu­ pro>>. La spiegazione è semplice: all'epoca, il «corpo del reato>> era costi­ tuito dalle prostitute giapponesi recatesi in Corea per lavorare. Nel 1924 il quotidiano più letto, il «Choson Ilbo», le denunciava come «le truppe d'a ss alto della politica coloniale>>; vedi San Youn-ok, ]apanese Colonial Ru­ le and State-Managed Prostitution: Korea's Licensed Prostitutes, «Positions: Ea­ st Asia Cultures Critique», vol. 5, n. l, primavera 1997, p. 197. Per inciso, notia mo il tono sorprendentemente libero usato dalla stampa dell'epoca in lingua coreana. È poco probabile che nello stesso periodo nelle colonie fr ancesi sia mai stato scritto qualcosa di così ardito. Va ricordato al ri13 Il

è

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guardo che gli anni '20 furono, in Giappone e nelle sue colonie, un perio­ do caratterizzato da una particolare tolleranza. 23 Le femministe nipponiche dell'Associazione delle donne asiatiche, da parte loro, si dichiararono pronte a qualunque sforzo «per fermare l'ag­ gressione economica e sessuale in atto contro i paesi asiatici vicini». Cita­ to in Yayori Matsui, International War Crimes Tribuna[ in Japan 's Military Sexual Slavery, in Peter Li (a cura di), Japanese War Crimes: The Search for Ju­ stice, Transaction Publishers, New Brunswick-London 2003, p. 260. 24 Hicks, The «Comfort Women» cit., pp. 1 76-177. 25 Matsui in Li, Japanese War Crimes cit., p. 274. 26 Chin-Sung Chung, The Origin and Development of Military Sexual Slavery in Imperia/ Japan, «Positions: East Asia Cultures Critique», vol. 5, n. l, pri­ mavera 1997, pp. 232, 244. 27Hyunah Yang, Revisiting the Issue of Korean «Military Comfort Women»: The Question of Truth and Positionality, «Positions: East Asia Cultures Critique», vol. 5, n. l, primavera 1997, p. 57. 28 Citato in Hicks, The «Comfort Women», in Duus et al., The Japanese Warti­ me Empire cit., p. 321 . 29 Nel 1993, in Corea del Sud soltanto 158 ex prostitute avevano fatto co­ ming out, sebbene le ianfu ancora viventi dovessero essere alcune decine di migliaia. 30 Chung, The Origin and Development cit., pp. 241-243. 31 Per il testo integrale della sentenza finale e per altri aspetti del proces so, vedi http: l /wwwl .jca.apc.org/vaww-net-japan/ english/ womenstribu­ nal2000 /judgement.html 32 Questo passaggio si basa in particolare sull'eccellente sintesi di Mark Eykholt, Aggression, Victimization, and the Chinese Historiography of the Nanjing Massacre, in Joshua A. Fogel, The Nanjing Massacre in History a nd

Historiography, University of California Press, Berkeley 2000, pp. 11-69. 33Jean-Louis Margolin, Cina: una lunga marcia nella notte, in Stéphane Cour­ tois, Nicolas Werth, Jean-Louis Margolin et al., Il libro nero del com unism o:

crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998, pp. 433-508. 34 Noda Masaaki, One Army Surgeon 's Account of Vivisection on Human Subjects in China, in Li, Japanese War Crimes cit., pp. 154-155. Anche i co­ munisti cinesi ebbero i loro sistemi di integrazione di certi personaggi. 35 David P. Barrett, Introduction: Occupied China and the Limits of Accom mo­ dation, in David P. Barrett, Larry N. Shyu (a cura di), Chinese Collabora tio n with Japan, 1932-1 945: The Limits of Accommodation, Stanford University Press, Palo Alto (CA) 2001, p. 13.

PARTNER, AVVERSARI, VITTIME 36 Si

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tratta di un discorso ancora oggi ripreso in Occidente in numerose opere sulla Cina e la cui falsità è stata dimostrata dagli studi storici più re­ centi: come vedremo, persino in Cina è stato accantonato . . . 37 Nessuno mette in dubbio l'intensità della «guerra popolare» condotta dai comunisti contro i giapponesi e i loro collaboratori. Tuttavia, Mao ten­ deva a porre sullo stesso piano gli occupanti e il Gu6mindang, servendo­ si degli uni contro gli altri (specialmente all'epoca del Patto Molotov-Rib­ bentrop, tra l'agosto del 1939 e il giugno del 1941). Questa constatazione dà una certa consistenza ad alcune informazioni trapelate a proposito del­ l'esistenza di un legame diretto (a partire dal settembre del 1939) tra i di­ rigenti comunisti e i servizi segreti nipponici presenti in Cina. Vedi Jung Chang, Jon Halliday, Mao: The Unknown Story, Jonathan Cape, London 2005, pp. 230-233. 38 Mao stesso non fece mai la minima allusione a Nanchino, né all'epoca dei fatti né in seguito. Vedi ivi, p. 214. 39 Le condanne nei ltiogili erano quasi sempre di natura amministrativa; gli stessi detenuti spesso non ne erano informati. 40 Gavan McCormack, Apportioning the Blame: Australian Trials for Railway Crimes, in Gavan McCormack, Hank Nelson (a cura di), The Burma-Thai­ land Railway: Memory and History, Silkworm Books, Bangkok 1993, p. 114. 4 1 Abbiamo citato a esempio (alla fine del cap. 6) uno di tali «pentiti». Il fat­ to che quegli ex militari siano passati attraverso l'efficace ma durissimo si­ stema della «rieducazione» maoista non implica che i loro racconti di atro­ cità non siano credibili. I funzionari cinesi che li interrogavano, e che sa­ pevano in anticipo quale ruolo avrebbero avuto costoro al rientro in Giap­ pone, non avevano alcun interesse a falsificare le loro testimonianze, le quali sarebbero inevitabilmente crollate come castelli di carta al primo con fronto con i loro ex commilitoni. " Ian Buruma, Why they Hate Japan, «The New York Review of Books», 21 settembre 2006, p. 81. " In quest'occasione fu decretata la costruzione dell'Indipendence Hall ( vedi sopra). "" George Hicks, Japan's War Memories: Amnesia or Concealment?, Ashgate, Al dershot (UK) 1997, p. 45. " Biden ori ljiri, Sino-Japanese Controversy since the 1972 Diplomatic Normali­ za tio n, in Cristopher Howe (a cura di), China and Japan: History, Trends and Prospects, Clarendon Press, Oxford 1996, p. 70. 46 N ell', 24 febbraio 2006. 56 Usha Mahajani, Philippine Nationalism: External Challenge and Filipino Re­ sponse, 1565-1946, University of Queensland Press, Brisbane 1971, pp. 462469. 57 Comunque, il Bataan Day è stato ribattezzato, in tagalog, Araw ng kagi­ tingan. 58 «Philippine Daily Inquirer>), 6 aprile 1995, p. l. 59 Lydia N. Yu Jose, The Japanese Occupation of the Philippines: State and Non­ State Memories, comunicazione al XVIII Congresso dell'IAHA, pp. 1-5. 60 Benedict R. O'G. Anderson, fava in a Time of Revolution: Occupation and Resistance, 1944-1 946, Cornell University Press, Ithaca-London 1972, PP · 22-33. 61 lvi, pp. 181-182. 62 lvi, p. 181.

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03 Jacques Ledere, Afterword: the Masked Hero, in Anton Lucas (a cura di), Local Opposition and Underground Resistance in the ]apanese fava, 1942-1 945, Centre of Southeast Asian Studies/Monash University, Melboume 1986, p. 327. 64 0rs Suparman (a cura di), Pengetahuan Sosial Sejarah - Kurikulum 2004-Ke­ las 2 SMP, Tiga Serangkai, Solo 2004. 65 Il resto del capitolo è occupato da sommari ed esercizi. 66 Colloquio con Ketut Darma, Munduk, Bali, agosto 2006. 67 Robin Ramcharan, Forging a Singaporean Statehood, 1965-1995, Kluwer Law International, Den Haag 2002, pp. 96-99. 66 Paul H. Kratoska (a cura di), Southeast Asian Minorities in the Wartime ]a­ panese Empire, RoutledgeCurzon, London 2002, p. 312. 69 Per esempio, in occasione del processo di Penang (vedi cap. 11), nel set­ tembre del 1946, furono pronunciate 21 condanne a morte contro 18 mili­ tari giapponesi e 3 interpreti cinesi pesantemente coinvolti nelle sessioni di tortura. Cfr. Arujunan Narayanan, ]apanese Atrocities in Penang, British War Crimes Trial and ]ustice, comunicazione al XVIII Congresso dell'IAHA, p. 45. Si noti che quasi tutte le loro vittime erano asiatiche. Non c'è nulla di più falso dell'affermazione secondo la quale la giustizia «dei vincitori», dopo il 1945, si sarebbe scagliata sol tanto contro i giapponesi colpevoli di crimini ai danni degli occidentali. Eppure tale idea si è trasformata in un luogo comune che si legge un po' ovunque. 70 Lim Ten Seng, Readdressing a Forgotten Promise: Settling the «Blood-Debt» and Constructing the Civilian War Memoria[ in Singapore, in Hack, Black­ burn, Proceedings and Papers cit., pp. 263-276. 71 Pan Shou, A Memoria! to Remember Civilian Victims of the ]apanese Occupa­ tion, in Foong Choon Hoo, The Price of Peace: True Accounts of the ]apanese Occupation, Asiapac, Singapore 1997 (edizione originale in cinese: 1995), p. 341 . 72 Si è tentati di istituire un parallelo con Auschwitz, dove, all'epoca del co­ munismo, nulla indicava che la stragrande maggioranza delle vittime era eb rea. 73 R affles Junior College Students, Singapore Youth's Attitudes Toward ]apan an d the ]apanese Occupation, in Hack, Blackburn, Proceedings and Papers cit., p . 473. 74 Spencer F. Chapman, The ]ungle is Neutral, Corgi Books, London 1974. 75 C fr. per esempio Khoo Ee Moi, «Demonizing the ]apanese Occupation» - Ex­ pl or ing Ideologica[ Discourses in Singapore History & Social Studies Textbooks, i n Ha ck, Blackburn, Proceedings and Papers cit., pp. 512-530.

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76 Era la più importante della «regione Sud» della sfera di influenza nip­ ponica.

Japanese Sites of Memory and Tourism in Singapore, Proceedings and Papers cit., pp. 277-289. 78 Il Canada registrò 290 morti in battaglia e 267 decessi occorsi in prigio ­ nia. Cfr. Gregory A. Johnson, The Impact of the 1 941-1945 War in the Pacific on Canada: A Preliminary Investigation into Shifting Patterns of Meaning, in Hack, Blackbum, Proceedings and Papers cit., pp. 202-203.

77 Edmund Lim Wee Kiat, in Hack, Blackbum,

79ll numero di pubblicazioni su Pearl Harbor e su Hiroshima, nonché le in­

tense discussioni che quegli avvenimenti continuano a stimolare, in parti­ colare negli Stati Uniti, rappresentano l'eccezione che conferma la regola: in realtà, il tutto si riduce a drammi o a discussioni «americanocentriche» (Roosevelt fece il doppio gioco? Truman ebbe ragione? ecc.), mentre i giapponesi intervengono soltanto in qualità di figuranti.

Ibu Maluku: The Story of Jeanne van Diejen, an Extraordinary Life in the Vanishing World of Dutch East Indies, Temple Hou­ se, Hartwell (Victoria) 2002, p. 503. 81 Peter Dennis, War's Untidy End: The Trials of South East Asia Command, in Hack, Blackbum, Proceedings and Papers cit., p. 126. 82 Hank Nelson, Beyond Slogans: Assessing the Experiences and the History of the Australian Prisoners of War of the Japanese, in Hack, Blackbum, Procee­ dings and Papers cit., p. 321 . 83 lvi, p. 322. 84 Christina Twomey, Remembering War and Forgetting Civilians: The Ambi­ guous Position of Civilian Internees in Australian Commemorations of the Paci­ fie War, in Hack, Blackbum, Proceedings and Papers cit., pp. 434-444. 85 Sibylla Jane Flower, Memory of the POW Experience: The United Kingdom, comunicazione al colloquio Sixty Years after the End of the Asia-Pacific War, History Museum, Singapore 2005, senza numeri di pagina. 86 Russell Braddon, The Naked Island, Wemer Laurie, London 1951. 60 Citato in Ron Heynneman,

87 Alcune considerazioni presenti nella testimonianza peraltro notevole del giornalista francese Robert Guillain

vues 1939-1946, Juillard,

Paris

(Le peuple japonais et la guerre: choses

1947) sono dello stesso tenore. L'autore le ha il titolo La guerre

corrette o espunte nella nuova edizione, pubblicata con

au Japon,

1979. Memory of the POW Experience ci t. 89 Hank Nelson, in Hack, Blackbum, Proceedings and Papers cit., pp. 322-323. Li 90 Peter Li, The Nanking Holocaust: Memory, Trauma and Reconciliatio n, in (a cura di), Japanese War Crimes cit., p. 240. 88

Flower,

Stock, Paris

PARTNER, AVVERSARI, VmiME 91

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Lachlan Grant, The Australian Ex-Prisoners of War Memorial: Incorporating the Prisoner of War Experience into the Anzac Legend, in Hack, Blackbum, Proceedings and Papers cit., pp . 147-158.

Conclusione

La guerra è bombardare un arsenale in disuso, mancarlo e uccidere alcune anziane signore. La guerra è essere abban­ donato in una stalla con una gamba in cancrena. La guer­ ra è bere acqua calda in un fienile e pensare alla propria moglie. La guerra è un pugno di uomini smarriti e terro­ rizzati che vagano sulle montagne e sparano a qualcosa che si muove nella boscaglia. La guerra è attendere per interi giorni senza fare nulla; guerra significa urlare in un te­ lefono con voce afona, essere privati del sonno o del sesso o della possibilità di lavarsi. La guerra è sporca, inefficace, confusa e in gran parte decisa dal caso. W. H. Auden, Christopher Isherwood, fourney to a War, Faber & Faber, London-Boston 1939, p. 192 1• Un tratto comune a tutti i conflitti del XX secolo è stato il ca­ rattere sordido della guerra, esperienza sempre mediocre e squal­ lida e spesso anche disumana. In ogni caso, bisogna liberarsi del­ l'idea che, non esistendo a questo mondo una «guerra pulita», tutti i conflitti (e dunque tutti gli eserciti) sarebbero stati ugual­ mente sporchi. Abbiamo visto che questa è la principale tesi di­ fensiva di coloro che, in Giappone, si ostinano a non voler fare i conti con i crimini commessi dal loro esercito (cap. 11). Per quan­ to la posizione delle truppe nipponiche sia spesso stata assai dif­ ficile, non fu mai tale da giustificare o da scusare in alcun modo le violenze alle quali esse si abbandonarono con tanta frequenza.

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Non tutte le truppe che si trovarono a dover gestire un flusso ina­ spettato di prigionieri li massacrarono sistematicamente come fe­ cero i giapponesi a Nanchino: si pensi al milione di francesi cat­ turati nel 1940 e ai milioni di tedeschi che si arresero nella prima­ vera del 1945. Inoltre, le brutalità giapponesi si distinsero spes­ sissimo per la loro gratuità e per la volontà di umiliare e di ferire più che di sfruttare le persone sotto il loro controllo. Un esempio tra mille: il divieto, sotto pena di morte, di rifornirsi d'acqua du­ rante la marcia di Bataan. Infine, si sarà notato che molti dei peg­ giori eccessi non furono commessi da soldati disperati, ma da reggimenti vittoriosi, che sembravano in grado di conquistare il mondo e avevano subito soltanto perdite relativamente leggere. La hybris della vittoria, l'ebbrezza dell'onnipotenza, il disprezzo nei confronti dei vinti erano stimolanti potenti almeno quanto la disperazione o lo spirito di vendetta. Detto questo, dove dobbiamo collocare il cursore delle violen­ ze nipponiche sulla scala internazionale dei crimini di guerra? John Dower, che su questo argomento è rappresentativo di una vasta storiografia «progressista», mette sullo stesso piano i prota­ gonisti della guerra del Pacifico (vedi il cap. 4). È vero che la di­ sumanità fu presente in maniera diffusa in entrambi i campi. L'u­ no e l'altro, per esempio, dovettero riconoscere in occasione dei processi di avere in alcuni casi deliberatamente omesso di soc­ correre naufraghi nemici. La situazione fu molto più squilibrata in Cina, specialmente a causa della decimazione dei prigionieri di guerra cinesi. Tuttavia, per un esercito è molto più facile rimane­ re (relativamente) virtuoso quando è più debole e si batte sul pro­ prio suolo. Non vi furono molte occasioni di verificare il tratta­ mento dei giapponesi catturati dai cinesi . . . Il paragone tra anglo­ sassoni e nipponici è più pertinente, nella misura in cui sia gli uni che gli altri furono a turno vincitori e vinti. Ebbene, è vero che il loro comportamento non fu molto diverso nel furore dei combat­ timenti, ma per il resto le differenze sono state enormi. Gli au­ straliani e gli americani si comportarono in modo freddamente utilitaristico, e di rado esitarono di fronte alla prospettiva di ver­ sare il sangue altrui (anche quello dei civili) per proteggere il pro-

CONCLUSIONE

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prio. A ciò i giapponesi aggiunsero una pervicace propensione al­ le rappresaglie, l'incapacità di pensare alla possibilità di imporsi con mezzi diversi dal terrore e un assoluto disprezzo per la vita dell'altro. Una netta distinzione si scorge in particolare nel tratta­ mento dei prigionieri di guerra nelle retrovie e in quello riserva­ to ai civili nemici dei territori occupati. Gli anglosassoni riusciro­ no in generale a limitare le violenze alle zone in cui avvenivano gli scontri con gli avversari, né commisero massacri su larga sca­ la a spese dei soldati catturati o della popolazione indifesa; in ogni caso, nelle retrovie gli eccessi individuali dei militari vinci­ tori potevano essere severamente puniti 2• I giapponesi, da parte loro, continuarono a fare la guerra agli avversari disarmati (cap. 7) e ai civili catturati (cap. 8), mentre milioni di cinesi e di abitan­ ti delle ex colonie occidentali furono ridotti in schiavitù (cap. 9). Si coglie qui la differenza tra un regime militare e totalitario, al­ l'interno del quale non c'è limite alla brutalità o all'oppressione, e i sistemi democratici fondati sull' autolimitazione dello Stato, sulla separazione dei poteri e sulla centralità dell'individuo. Significativamente, operare una distinzione tra il Giappone militarista e la Germania nazionalsocialista è più difficile. Inoltre, bisogna vedere con quale Germania si vuoi istituire il paragone: infatti, essa condusse una guerra «normale» sul fronte occidenta­ le e di sterminio su quello orientale. Il Giappone tenne una con­ dotta più omogenea (anche se non vi fu una «Nanchino» per i pri­ gionieri occidentali), caratterizzata però da una sorta di livella­ mento verso il basso, forse perché l'esercito imperiale, a differen­ za della Wehrmacht, aveva cominciato i suoi otto anni di guerra nel modo peggiore: ci riferiamo alla campagna del basso Yangtze (1937). Esso fu in seguito incapace di rompere con la sinistra nor­ ma creatasi allora. Sembrerebbe quasi che l'armata dell'Impera­ tore, in Cina, abbia indicato a quella di Hitler il modello da se­ guire nell'invasione ai danni dell'URSS (1941). Pensiamo all'as­ sassinio in massa dei prigionieri, alla liquidazione fisica dei par­ tigiani, alle rappresaglie di vaste proporzioni contro i civili, alla distruzione di centinaia di insediamenti: come si vede, le simili­ tudini abbondano. I metodi usati nell'Asia sudorientale e nel Pa-

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cifico furono meno sistematicamente devastanti, ma il Giappone trattò gran parte dei civili autoctoni e quasi tutti i prigionieri oc­ cidentali militari e civili assai peggio di come la Germania trattò la maggior parte degli europei occidentali. La brutalità nella vita di tutti i giorni (vedi il cap. 10) e il fenomeno dei romusha (cap. 9) co­ stituiscono le differenze più significative. Tuttavia, lo ribadiamo, l'assenza da parte giapponese di qualunque progetto di genocidio rende per forza di cose zoppo ogni paragone con la Germania. La questione più importante per la giustizia militare del do­ poguerra fu quella della ripartizione delle responsabilità tra i di­ versi attori del conflitto. Questo resta uno dei problemi più spi­ nosi per lo storico. Come nel caso del nazismo, gli esecutori eb­ bero la tendenza a scaricare la responsabilità delle loro azioni sui superiori, il che faceva comodo a tutti, anche alla giustizia, che avrebbe faticato non poco a occuparsi di migliaia o addirittura di milioni di casi. Pertanto, ci si accontentò di processare alcuni alti ufficiali e, all'altro capo della gerarchia, un certo numero di car­ cerieri che si erano comportati in maniera particolarmente odio­ sa. Sembra tuttavia che l'esercizio della violenza sia stato diffu­ sissimo a tutti i livelli. C'era la violenza diretta: il soldato che non avesse preteso l'inchino rituale da parte degli autoctoni, magari percuotendoli, sarebbe stato considerato un codardo o un cattivo giapponese; numerose testimonianze di prigionieri occidentali sbarcati in Giappone ricordano l'accoglienza a base di sputi e in­ sulti riservata loro dalla popolazione. Vi fu anche di peggio: cac­ ce all'uomo, pestaggi frequentemente mortali, condotti, nel caso di evasi (soprattutto lavoratori forzati asiatici) riacciuffati, da in­ tere comunità giapponesi. Nei campi di detenzione, come anche in Cina, furono rarissimi i militari che si distinsero per il rispetto dei diritti umani, persino di quelli più elementari. Esisteva poi la violenza indiretta: le incessanti pressioni esercitate dagli inge­ gneri responsabili della «ferrovia della morte)) Thailandia-Birma­ nia allo scopo di imprimere un'accelerazione al ritmo dei lavori causarono più decessi del sadismo delle guardie. Le privazioni e lo sfinimento furono spesso organizzati sistematicamente. I pri­ gionieri di guerra di Amboina vennero costretti a svolgere lavori

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pesanti senza necessità: soltanto il 23% di loro sopravvisse. Il can­ tiere della ferrovia Thailandia-Birmania fu amministrato in modo controproducente, poiché il numero di malati finì per raggiunge­ re livelli tali da compromettere la riuscita dei lavori 3• L'incorag­ giamento a compiere atrocità di tutti i generi non proveniva sol­ tanto dalle autorità, ma da tutti i corpi organizzati della società giapponese. Citiamo come esempio, tratto dall' «Asahi Shimbun» (grande quotidiano tradizionalmente progressista) del 5 dicem­ bre 1942, il seguente commento alle parole di commiserazione per i prigionieri americani espresse da una donna giapponese: «No alla tenerezza nei confronti dell'America! Che cosa significa questo "oh poveretti" riferito a prigionieri americani? !» 4• Biso­ gnava che ogni giapponese leale si comportasse da barbaro . . . Questa generale atmosfera di durezza fu anche addotta a pre­ testo da alcuni sospettati di crimini di guerra per sminuire le pro­ prie responsabilità. Secondo la guardia coreana Hirahara (nota anche come Cho): «Uno dei nostri istruttori [ . . . ] ci insegnava che bisognava trattare i prigionieri di guerra come animali, altrimen­ ti ci avrebbero disprezzati. Dovevamo essere severi con loro e pie­ chiarii, perché, essendo più alti di noi, per dimostrare la nostra superiorità non potevamo fare altro che ricorrere alla forza, alla paura e alle percosse» 5• Questo racconto è probabilmente autentico, ma non tiene con­ to dell'autonomia tutto sommato larga di cui godevano le guar­ die, che avrebbero potuto essere severe senza comportarsi così frequentemente in modo sadico. In realtà, spesso si compiacque­ ro dei peggiori atti di brutalità. Per esempio, i guardiani che sor­ vegliavano Frank Fujita presso il cantiere navale di Nagasaki, at­ tesero pazientemente che gli ufficiali nipponici, che dovevano partecipare a una riunione, se ne fossero andati per sottoporlo a un feroce pestaggio: lo odiavano perché si comportava da patrio­ ta americano malgrado le sue origini giapponesi. Questa violen­ za deliberata non sembra nascere da un desiderio di vendetta personale: l'unica guardia che portava sul volto i segni terribili di una granata americana fu anche l'unica che tentò di aiutare Fuji­ ta 6 • La pietà non aveva alcuna presa sui torturatori. Per quanto

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dolorosi fossero i colpi ricevuti, bisognava assolutamente evitare di lamentarsi, gridare o, peggio ancora, cadere: «In precedenza avevo notato fin troppe volte che se un prigioniero cadeva men­ tre veniva picchiato, le guardie lo prendevano a calci e lo perco­ tevano con i fucili, la qual cosa rendeva ancor più terribile il pe­ staggio, che poteva concludersi con la morte del malcapitato» 7• È chiaro che a questo punto si è autorizzati a parlare di crudeltà al­ lo stato puro. La testimonianza eccezionale di Nogi Harumichi, condannato per crimini di guerra ad Amboina, ci aiuta a far luce sulla realtà, anche se molti boia furono certamente spinti da sentimenti più vi­ li o comunque meno «razionali» dei suoi, motivi probabilmente inconfessabili. Nel 1944 egli dovette «trattare» dopo l'interroga­ torio di rito almeno tre piloti americani abbattuti: li decapitò sen­ za dare nell'occhio e senza formare un plotone d'esecuzione («perché il rumore avrebbe potuto inquietare la popolazione lo­ cale» in gran parte cristiana): Avendo studiato diritto, conoscevo le norme internazionali. Tutta­ via, giorno dopo giorno, i bimotori Lockheed arrivavano e si sca­ tenavano a loro piacimento. Tutti i nostri aerei erano stati distrutti. Non potevamo difenderci. Eravamo furiosi e frustrati. Quando perdi la capacità di difenderti e puoi solo subire perdite sei preda di un desiderio di vendetta. Gliela faremo vedere! Pagheranno per tutto! « È illegale>>, pensavo, «ma la sola scelta per il Giappone è tra la vittoria o l'annientamento totale. Se continua così non tornere­ mo vivi. Forse qualcuno mi rinfaccerà le mie responsabilità? Vero­ similmente no, perché saremo tutti morti. E se vinciamo non avre­ mo nulla da temere, perché avremo ubbidito agli ordini» [ . . ] . Al mio processo per crimini di guerra non ho certo detto queste cose. Ho detto che non potevo fare altro che eseguire gli ordini. Ma la ve­ rità è che volevo ucciderli. Eppure, quando vidi i loro volti mi fe­ cero compassione. 8 .

Resta il fatto che alcuni furono più colpevoli di altri. Durante la guerra, tre furono i gruppi che ebbero un peso, variabile ma

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mai trascurabile: l'Imperatore e la sua cerchia, il personale politi­ co civile e i dirigenti dell'esercito 9• Nessuna di queste tre catego­ rie poteva evitare di fare i conti con le altre due: il regime di Tojo, per quanto fosse autoritario, non costituì né una dittatura milita­ re né un potere fascista nel senso tedesco o italiano del termine 10• Fino alla metà del 1944 (cioè fino alla caduta di Tojo), o addirit­ tura fino alla primavera del 1945, le divergenze strategiche tra i tre gruppi furono trascurabili: le più importanti differenze di ve­ dute spesso riguardarono soltanto qualche bega tra l'esercito e la marina, ed è tutto detto ! Inoltre, nessuno, in alcun frangente, la­ sciò trasparire la minima repulsione per le atrocità commesse nel nome del Tenno. La strategia complessiva e la condotta delle ope­ razioni militari suscitarono perplessità e domande (anche, spes­ so, da parte di Hirohito); ciò nonostante, non fu mai messa in di­ scussione la giustezza dei motivi che stavano alla base della guer­ ra di aggressione e il «trattamento» dei prigionieri o dei civili non diede luogo a ripensamenti morali. Il consenso nei confronti del­ la violenza fu così esteso che generali da nessuno descritti come brutali o crudeli (Matsui, Yamashita, Homma ecc.) sovrintesero ad alcune delle peggiori atrocità e perciò furono condannati a morte. Da questo punto di vista, la difficoltà dimostrata dal Giap­ pone dopo il 1945 a riconoscere con chiarezza l'ampiezza dei pro­ pri errori rappresenta un residuo di quel consenso. Persino gli oppositori che hanno accusato l'esercito di aver condotto la na­ zione al disastro non di rado hanno taciuto sui disastri che esso aveva provocato in altri paesi. L'alibi di Hiroshima e la solidarietà della sinistra nipponica verso coloro che in Asia lottavano contro gli americani hanno fatto il resto: i giapponesi si sono visti assai più spesso come vittime che come carnefici. Se le cose sono andate in questo modo, è stato perché i corpi intermedi tra il gruppo dirigente e la società - gli intellettuali, gli artisti, le chiese, i sindacati, le associazioni ecc. - non hanno pre­ muto a sufficienza affinché si facessero i conti con il passato: in generale, si sono accontentati di predicare la pace e l'amicizia tra i popoli, il che peraltro era gradito anche agli altri paesi asiatici, per varie ragioni non molto interessati, almeno fino a poco tem-

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po addietro, alla ricerca della verità (vedi cap. 12). Anche qui si possono rintracciare residui del passato: quei gruppi d'opinione giapponesi avevano capitolato davanti al consenso di cui gode­ vano militarismo e imperialismo, quando non avevano addirittu­ ra contribuito entusiasticamente ad alimentarlo (capp. l e 3). Do­ po il 1945 non erano intenzionati a ritornare su un passato a dir poco ingombrante. Hanno quindi per lo più preferito allinearsi al nuovo consenso pacifista, puntare sull'apertura alle grandi cor­ renti internazionali e, nel caso dei più radicali, predicare il radio­ so avvenire del socialismo. Il caso giapponese deve aiutare ad approfondire la riflessione sul legame tra totalitarismo e violenze estreme. Esso è meno evi­ dente di quanto può sembrare: le principali potenze coloniali de­ gli ultimi due secoli, che erano democrazie, si sono talvolta ab­ bandonate a terribili eccessi nei loro imperi. Due dei quattro epi­ sodi della storia del XX secolo abitualmente qualificati come «ge­ nocidi» (Ruanda e Armenia) sono stati il prodotto di Stati autori­ tari e privi di scrupoli, ma che difficilmente potrebbero essere de­ finiti totalitari. Al contrario, l'Italia fascista - promotrice del con­ cetto stesso di «totalitarismo» - manifestò una certa cautela nel ri­ corso alla violenza, se si eccettuano le sue guerre coloniali africa­ ne. Il comunismo sovietico e dell'Europa orientale, dopo il 1956, abbandonò sistemi quali l'assassinio di massa o l'incarcerazione su vasta scala per motivi politici, senza peraltro rinunciare a un gran numero di aspetti essenziali del totalitarismo (tra i quali il monopolio dell'espressione politica, il legame organico tra il Par­ tito comunista e lo Stato, l'occupazione di tutte le strutture della società civile, lo strapotere dell'apparato poliziesco, la repressio­ ne di qualunque forma di dissidenza ecc.). A un primo sguardo, il Giappone militarista ricorda l'Italia fa­ scista piuttosto che la Germania nazista. L'Impero nipponico non è stato caratterizzato da un'ideologia violentemente discrimina­ toria, tantomeno ha elaborato piani di sterminio di massa. Inoltre, se è vero che il dissidio non vi era tollerato, è altrettanto vero che la violenza nei confronti dei «devianti» fu sempre abbastanza controllata: gli imprigionamenti di lunga durata furono pochi, e

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ancor meno numerose furono le uccisioni (legali o paralegali) . Il metodo più usato era quello della «rieducazione» degli opposito­ ri. Cosa ancor più importante: a condizione che si ritirassero sul­ l' Aventino, gli intellettuali che lo desideravano poterono spesso conservare la propria indipendenza di spirito (cap. 3). È al di fuori dei confini dell'arcipelago che le atrocità furono devastanti. Ci troviamo qui di fronte a una dicotomia abbastanza banale nella storia degli Stati, che, con l'eccezione dei regimi co­ munisti, si prendono molte più libertà all'esterno delle proprie frontiere, dove è minore il rischio di dover rendere conto di certi comportamenti. Il fascismo ha spinto questa logica fino alle estre­ me conseguenze. Il culto del sacrificio, dello Stato, del capo su­ premo, l'irreggimentazione generalizzata e il modello di una so­ cietà guerriera proposto come scrigno delle più alte virtù gene­ rano, come conseguenza, un odio illimitato nei confronti di colo­ ro che paiono opporsi allo splendido destino comune. Ne deriva, come è evidente, la volontà di eliminare l'ostacolo. A un certo punto, il passaggio all'atto omicida diventa quasi automatico; ol­ tretutto, esso è facilitato da un senso di impunità praticamente assoluto («per il bene della patria, tutto è permesso»), temperato di quando in quando soltanto dalla paura della sconfitta, in se­ guito alla quale si potrebbe essere chiamati a pagare per ciò che si è fatto. Infine, l'attuale vivacità dei dibattiti sulle violenze coloniali ci obbliga a domandarci se il segreto delle atrocità giapponesi non risieda, in tutto o in parte, proprio qui. Il Giappone non aveva forse conquistato Taiwan e la Corea in modo particolarmente brutale 11? E nel 1942 non era succeduto ai colonizzatori britanni­ ci e olandesi nell'Asia sudorientale? In effetti, tardivamente, nel marzo del 1945, quando posero fine all'Indocina francese, i giap­ ponesi cominciarono a servirsi delle strutture autoritarie basate sulla disuguaglianza che avevano caratterizzato l'epoca colonia­ le. Governarono attraverso i regolamenti, gli uffici e il personale che avevano trovato, accontentandosi di aggiungere al tutto ripe­ tute dosi di Nippon seishin . Sul piano pratico ciò si tradusse in un certo ammorbidimento della repressione. D'altra parte, risulta

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chiaro che il lavoro coatto (sotto forma di corvée, reclutamento forzato, imposizione di determinate colture ecc.) aveva solide ba­ si coloniali, anche se l'Ufficio internazionale del lavoro, fin dall'i­ nizio degli anni '20, aveva cominciato a porvi fine. Questo aspetto indica che, lungi dal ricalcare la gestione colo­ niale prudentemente riformista del periodo compreso tra le due guerre, il Giappone risuscitò le pratiche più brutali in uso prima del 1914. Ma si spinse ancor più lontano, imponendo le consegne obbligatorie e il corso forzoso sul riso, da cui dipendeva la so­ pravvivenza della massa degli agricoltori autoctoni (cap. 9). Pe ­ raltro, abusando dei lavoratori coatti, spesso impiegati in condi­ zioni terribili in grandi cantieri malsani, gli occupanti gestivano i loro territori come se fossero miniere da sfruttare al massimo o, per usare un linguaggio più franco, adottavano il sistema del sac­ cheggio generalizzato, che esauriva rapidamente le risorse e sfiancava la popolazione. Osservando le molteplici e gravissime carestie che colpirono la maggior parte delle ex colonie durante l'ultimo anno di guerra, ci si rende conto che un simile modo di procedere era destinato a fallire entro breve tempo. Si nota qui una radicale differenza (che fu avvertita anche dalle popolazioni dei paesi occupati) con la gestione coloniale «classica» com'era stata organizzata dopo gli errori iniziali, i quali, almeno nell'Asia sudorientale 12, non furono mai né così estesi né così pesanti come la catastrofe del periodo compreso tra il 1944 e il l945. I coloniz­ zatori si preoccupavano di mantenere stabilmente il proprio con­ trollo e di riuscire ad amministrare l'economia; per riuscire nel­ l'intento era necessaria da parte dei colonizzati una certa accetta­ zione della propria sottomissione. Requisizioni e imposizioni ec­ cessive, soprattutto su base regolare, sarebbero state da questo punto di vista controproducenti. È d'altra parte significativo che nei suoi domini coloniali il Giappone non abbia mai fatto ricorso a uno sfruttamento così brutale. I lavoratori coatti coreani, pur addetti a compiti tremen­ damente duri, rimasero sempre operai salariati dotati di regola re contratto. I romusha di Giava, invece, furono spesso trattati come schiavi. È dunque abbastanza logico che la mortalità tra i sec on-

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di sia stata assai più elevata che tra i primi. A Taiwan e in Corea non si verificò una massiccia carestia - o comunque, non si soffrì la fame più che in Giappone -, mentre le popolazioni del Tonchi­ no, della Malesia o di Giava furono decimate. Per quanto riguar­ da la Cina, che non era mai stata colonizzata da alcuno 13, fu sotto­ posta anch'essa a uno sfruttamento devastante, attenuato soltanto dalla permanente priorità accordata alle operazioni militari. ll Manchukuo rappresentò una sorta di zona di transizione tra la condizione più favorevole delle colonie e quella, drammatica, dei paesi occupati, la cui sorte funesta ebbe dunque poco in comune con l'esperienza della colonizzazione, sia occidentale che - persi­ no - nipponica. Probabilmente, il confronto più corretto è quello con il comportamento adottato nello stesso periodo dalla Germa­ nia nell'Europa occupata, dove un feroce impero ha tentato di spremere al massimo la propria periferia a vantaggio del centro. Dispiace aver dovuto aggiungere altri buchi neri alla lista già fin troppo buia degli orrori del XX secolo. Tuttavia, l'esame di questi eccessi già antichi può condurre in certa misura a relati­ vizzare (non a minimizzare, sia ben chiaro) quelli che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Inoltre, il paese responsabile delle atrocità che abbiamo descritto è riuscito in maniera durevole a ri­ nunciarvi come mezzo di governo, anche se a ciò si è accompa­ gnata una discutibile amnesia. E ancora, i rancori che oppongono tuttora la Cina e la Corea al Giappone non hanno impedito che vi fossero aperture e che si instaurassero ampie forme di collabora­ zione. L'Asia orientale, che ha continuato a essere sconvolta da guerre e disgrazie per circa trent'anni dopo il 1 945, è dunque sta­ ta a lungo l'epicentro dei conflitti nel mondo. Oggi essa non sol­ tanto è l'area economicamente più dinamica del pianeta, ma è an­ che una zona dove da due decenni a questa parte non ci si af­ fronta praticamente più con le armi. Le tensioni riguardanti Taiwan e il 38° parallelo rappresentano certamente fonti di pe­ sante preoccupazione; tuttavia, come l'Europa, l'altra estremità dell'Eurasia dimostra che vi sono popoli capaci mandare in sof­ fitta certi assurdi sogni e ve ne sono altri che sanno rinunciare al­ la vendetta.

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W. H. Auden (1907-1973), autore, per ammissione di Isherwood (19041986) di queste parole, è stato uno dei grandi poeti britannici del XX seco­ lo. Con il suo amico, il romanziere Isherwood, fu inviato dall'editore per il quale lavoravano entrambi in Cina nel 1938. In quel paese trascorsero circa tre mesi, percorrendo varie zone controllate dal governo centrale e avvicinandosi al fronte. Il loro racconto, di grande valore letterario, costi­ tuisce una testimonianza unica sui primi tempi del conflitto sino-giappo­ nese (ed. it. Viaggio in una guerra, Adelphi, Milano 2007). 2 Frank Fujita, Foo: A Japanese-American Prisoner of the Rising Su n - The Se­ cret Prison Diary of Frank «Foo» Fujita, University of North Texas Press, Denton 1993, p. 331 . 3 11 colonnello Wild s e ne rese rapidamente conto: «Dicevamo a i giappone­ si che il modo in cui trattavano la loro manodopera era, da un punto di vista militare, qualcosa di peggio di un crimine: era un errore. Dicevamo loro (e continuo a pensarla in questo modo anche adesso) che, se avessero trattato correttamente la manodopera, se l'avessero nutrita e alloggiata adeguatamente, imponendole un orario di lavoro ragionevole, quegli uo­ mini avrebbero potuto terminare la ferrovia entro la scadenza prevista dal comando nipponico». Testo citato in Gawan McCormack, Hank Nelson (a cura di), The Burma-Thailand Railway: Memory and History, Silkworm Books, Bangkok 1993, p. 111. 4Citato in Utsumi Aiko, Prisoners of War in the Pacific War: Japan 's Policy, in ivi, p. 72. 5 Deposizione scritta del 4 dicembre 1945, citata in Gawan McCormack, Apportioning the Blame: Australian Trial for Railway Crimes, in ivi, p. 99. 6 Fujita , Foo cit., pp. 174-175. 7 lvi, p. 177. scitato in Haruko T. Cook, Theodore F. Cook, Japan at War, The New Press, New York 1992, pp. 110-111. 9 Non aggiungo a questa lista gli ambienti padronali: negli anni '30 essi erano stati esposti all'intensa propaganda anticapitalista della destra radi­ cale; essendo privati dei partiti costituzionali ai quali si appoggiavano ten­ nero un profilo assai basso negli anni del conflitto. In ogni caso, come ca­ tegoria, non furono mai in grado di esercitare una seria influenza sulla po­ litica dello Stato. Ciò non impedì a numerosi imprenditori di approfittare vergognosamente dei mercati monopolistici e della manodopera servile garantiti dall'espansione giapponese. 1 0 La monarchia italiana fu alleata di Mussolini fino al 1943. Era però chia­ ro a tutti che essa non aveva voce in capitolo.

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11 Jean-Louis Margolin, Colonia[ Violence Compared: Japan and the West in Asia, in Korean Studies in the Era of Reconciliation and Cooperation: Proceed­ ings of the 2"a World Congress of Korean Studies, Academy of Korean Studies­ Peking University, Beijrng-Seoul 2005, pp. 35-50. 1 2 Ma a proposito di altre zone del mondo coloniale questa affermazione può non corrispondere alla realtà: per esempio, il Congo di re Leopoldo, ai primordi del 1900 subì, a quanto pare, uno sfruttamento devastante. 13 Le colonie presenti sul suo suolo ne occupavano una minima parte. Inoltre, si trattava per lo più di empori commerciali, gestiti in modo assai diverso dalle colonie di sfruttamento, assai più estese dal punto di vista territoriale.

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Oceano Indiano

Le offensive giapponesi (1 937-1 942).

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WJI; cavie umane utilizzate dall'Unità 731 per vari esperimenti. Nippon seishin.

«Spirito del Giappone>>.

Romusha. «Lavoratori»>; si applica ai lavoratori forzati dei territori occu­ pati dal Giappone; il termine è entrato a far parte del vocabolario della lin­ gua indonesiana. ROnin.

Samurai senza padrone; per estensione, avventurieri violenti.

Samurai. Guerriero feudale proveniente dalla casta nobiliare, impiegato da un daimyò (grande signore). Sanko. «Tre tutto>> (uccidere tutto, bruciare tutto, distruggere tutto); il ter­ mine si riferisce alle operazioni antiguerriglia condotte in Cina. Seppuku.

Suicidio rituale, impropriamente denominato harakiri.

Shinto. Religione popolare giapponese, divenuta in pratica religione di Stato fin dall'era Meiji. Sook ching. «Pulizia>>, «epurazione>>, «disinfestazione» e simili (dal dia­ letto cinese hokkien). TennO

(o TennO heika ) . L'imperatore del Giappone.

Tokkotai.

«Corpo speciale d'attacco»: unità suicide formate alla fine del

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Associazione di vicinato.

Grande azienda.

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G. Annussek, Liberate Mussolini! La più incredibile operazione di commando della seconda guerra mondiale P. Ayçoberry, La società tedesca sotto il Terzo Reich (1 933-1 945) M. D. Bailey, Magia e superstizione in Europa dall'antichità ai giorni nostri J.-J. Becker, 1 914. L'anno che ha cambiato il mondo O. Buchsenschutz, I celti. Dal mito alla storia R. Calvet, Storia del Giappone e dei giapponesi S. Dagerman, Autunno tedesco. Viaggio tra le rovine del Reich millenario D. G. Dalin, John F. Rothman, La mezzaluna e la svastica. I segreti dell'allean­ za fra il nazismo e l'Islam radicale A. Dumbach, J. Newborn, Storia di Sophie Scholl e della Rosa Bianca R. Freund, La magia e la svastica. Occultismo, New Age e nazionalsocialismo P. Godman, Hitler e il Vaticano. Dagli archivi segreti vaticani la vera storia dei rapporti fra il nazismo e la Chiesa E. Hornung, Egitto esoterico. La sapienza segreta degli Egizi e il suo influsso sul­ l'Occidente É. e F.-B. Huyghe, La via della seta. Da Alessandro a Tamerlano R. Karlsch, La bomba di Hitler B. Lewis, La Sublime Porta. Istanbul e la civiltà ottomana T. F. Madden, Le crociate. Una storia nuova P. Marshall, Praga esoterica. Alchimia, astrologia e magia nella città di Rodolfo II I. McCalman, L'ultimo alchimista. Cagliostro, mago nell'Età dei Lumi R. Moseley, Mussolini. I giorni di Salò J. Muravchik, Il paradiso in terra. Ascesa e caduta del socialismo H. Pringle, Il piano occulto. La setta segreta delle 55 e la ricerca della razza ariana R. G. Reuth, Rommel. Fine di una leggenda R. Stark, Ascesa e affermazione del cristianesimo. Come un movimento oscuro e marginale è diventato in pochi secoli la religione dominante dell'Occidente R. Stark, La scoperta di Dio. L'origine delle grandi religioni e l'evoluzione della fede J.-P. Thuiller, Gli etruschi. La prima civiltà italiana A. Wahl, La seconda vita del nazismo. Nella Germania del dopoguerra F. Wegener, Il Terzo Reich e il sogno di Atlantide P. S. Wells, Barbari. L'alba del nuovo mondo