Legnano 1176. Una battaglia per la libertà 8842098671, 9788842098676

Miti, leggende e fantasie letterarie hanno costruito l'immaginario della battaglia di Legnano che ha segnato la sto

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Italian Pages 260 [261] Year 2012

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Legnano 1176. Una battaglia per la libertà
 8842098671, 9788842098676

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Economica Laterza 597

Dello stesso autore in altre nostre collane:

Cavalieri e popoli in armi. Le istituzioni militari nell’Italia medievale «Quadrante Laterza»

Paolo Grillo

Legnano 1176 Una battaglia per la libertà

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2012 Edizioni precedenti: «Storia e Società» 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9867-6

a Patrizia

Introduzione UNA BATTAGLIA FAMOSA E IGNORATA Il 29 maggio 1176 nelle campagne a nord-ovest di Milano, a breve distanza dal borgo di Legnano, l’esercito dell’imperatore Federico Barbarossa affrontò le truppe delle città italiane raccolte nella Lega Lombarda, in uno scontro che avrebbe avuto un’importanza decisiva per le sorti dell’intera Italia e dell’Europa. Fra i grandi eventi bellici del Medioevo occidentale, la battaglia di Legnano è sicuramente uno dei più famosi ma, contemporaneamente, dei meno indagati. In Italia essa è stata oggetto di rievocazioni, di romanzi, di opere liriche molto più di quanto abbia interessato gli storici. La scarsità di studi nazionali ne ha poi condizionato la conoscenza da parte degli studiosi stranieri, sicché Legnano è nominata in quasi tutte le grandi sintesi di storia della guerra, ma mai effettivamente analizzata nel dettaglio. Uno dei primi obiettivi di questo libro sarà cercare di ricostruire la vera storia della battaglia, liberandola dalle sue sovrastrutture mitologiche. È bene avvisare sin d’ora che in queste pagine non si troveranno alcuni fra i protagonisti più noti, quali Alberto da Giussano e la sua Compagnia della Morte, per il semplice motivo che essi sono una creazione letteraria di quasi due secoli posteriore allo svolgimento dei fatti. Vedremo meglio in seguito come e perché furono inventati, e proporremo una nostra ipotesi su chi in realtà avesse comandato le truppe delle città a Legnano. Allo stesso modo, il lettore dovrà tentare di liberarsi dalle più comuni immagini che illustrano la lotta fra esercito comunale e cavalleria tedesca raffigurando poche decine di

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combattenti stretti a resistere attorno al carroccio, immagini indubbiamente suggestive, ma poco adatte a raffigurare uno scontro che vide in campo fra i 15.000 e i 20.000 uomini. Questo libro, dunque, vuole offrire prima di tutto una storia militare di quella fondamentale battaglia, per comprendere bene lo svolgimento degli eventi rimuovendo la patina falsante imposta dalla tradizione. In particolare, si tenterà di restituire razionalità e coerenza alle scelte che portarono alla battaglia di Legnano, spesso interpretata come un evento casuale, nato dall’incontro fortuito fra i due eserciti. Cercheremo invece di valutare le ragioni delle mosse di Federico e di quelle dei dirigenti comunali, in maniera da comprendere come e perché si giunse allo scontro. Questa analisi dimostrerà anche l’importanza di Legnano, proprio perché la battaglia non rappresentò un episodio isolato e imprevisto, ma decise le sorti di un confronto ben pianificato dalle due parti e astutamente condotto dall’imperatore. Ma una semplice storia militare non esaurirebbe il tentativo di comprendere il perché della battaglia e del suo esito, per tanti versi sorprendente, né permetterebbe, tutto sommato, di valutare appieno la posta in gioco. Sarà dunque opportuno esaminare attentamente le ragioni dei contendenti, presentando gli eventi che precedettero la battaglia e portarono allo scontro finale tra Federico Barbarossa e i comuni, per mettere in evidenza come il primo avesse elaborato un disegno politico incompatibile con l’autonomia rivendicata dai secondi. Le città italiane difendevano la propria «libertà» (libertas è il termine ossessivamente ripetuto dalle fonti narrative e diplomatiche del tempo), ossia il diritto al proprio autogoverno, che trovava la sua legittimazione nel consenso popolare, espresso dall’insieme dei cittadini e non nell’approvazione da parte del potere imperiale, come invece desiderava il Barbarossa. In tale prospettiva, emergerà chiaramente il fatto che a Legnano si affrontarono due mondi diversi, che portavano con sé due forme di organizzazione militare altrettanto diverse. L’Impero, con la sua struttura aristocratica, era ben rappresentato dalla celebre e quasi imbattibile cavalleria pesante teutonica, così come i comuni, basati sulla partecipazione di tutti gli abitan-

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ti (maschi) alla gestione della repubblica, si incarnavano a loro volta nella collettività in armi delle masse dei fanti, che combattevano al fianco dei cavalieri, dei quali erano non sudditi o dipendenti, ma liberi concittadini, decisi a battersi per la difesa della patria comune. Si è affermato poc’anzi che questo libro vuole essere in primo luogo una storia militare della battaglia di Legnano. È necessario affrontare, a questo punto, una nuova domanda. Che cos’è, oggi, la storia militare? Questa materia, come si è affermata nelle accademie dell’Ottocento, come è stata proseguita sino al suo declino, nella seconda metà del Novecento, e come è ancora oggi professata da qualche appassionato, non avrebbe bisogno di grandi presentazioni. Il suo fine era infatti la pura ricostruzione delle mosse strategiche compiute dai campi avversi, l’analisi delle implicazioni di queste mosse e, spesso, la formulazione di un severo giudizio. Un ricercatore contemporaneo, Robert Citino, ha efficacemente affermato che, non di rado, tale tipo di lavoro si riduceva nel «rimproverare il generale X per essere andato a zig-zag quando avrebbe dovuto andare a zag-zig». A partire dagli anni Settanta del secolo scorso la storia militare ha però conosciuto un profondo rinnovamento, che le ha restituito smalto e interesse. Fondamentale in tal senso, il libro di John Keegan, Il volto della battaglia, apparso nel 1976. Keegan attaccò frontalmente la narrazione tradizionale delle guerre, tutta incentrata sulle decisioni dei generali, affermando che le battaglie si risolvevano sul campo e che era più importante studiare come e perché gli uomini combattevano realmente, piuttosto che considerarli semplici pedine passivamente poste sulle mappe degli Stati maggiori. Keegan è considerato uno dei fondatori della cosiddetta Nuova Storia Militare (New Military History), che in realtà ha rappresentato un movimento più ampio, volto soprattutto ad aprire un dialogo con le altre discipline scientifiche. Gli studiosi che animarono la corrente avevano compreso che gli eserciti non erano un mondo a parte, ma l’espressione di una società e

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di un’organizzazione pubblica. Si è dunque iniziato a ricercare le connessioni fra il mondo militare e la vita sociale, economica e politica, ad analizzare le modalità di arruolamento, la provenienza di ufficiali e soldati, a ricostruire le istituzioni attraverso le quali gli eserciti venivano diretti, controllati, riforniti, addestrati e alloggiati, e quanto tutto ciò costasse. Sul modello pionieristico delle ricerche di Georges Duby, ancora, guerre e battaglie sono diventate anche eventi «culturali», dei quali esaminare non solo lo svolgimento, ma anche il modo in cui vennero narrati e ne fu tramandata la memoria. Oggi, grazie a queste innovazioni, la storia militare è una disciplina in pieno sviluppo, aperta al dialogo con gli altri ambiti di ricerca, nel tentativo di superare la sua precedente tendenza all’autoreferenzialità. La guerra è vista come un elemento di un quadro più ampio, per la comprensione del quale lo studio delle scelte degli ufficiali, dell’addestramento dei soldati o della qualità dell’armamento di un esercito sono importanti quanto l’analisi della vitalità economica, del funzionamento della scuola, del ruolo delle donne o della spiritualità della popolazione e della nazione che quell’esercito esprimeva. Così esaminati, l’evento bellico, la campagna militare, la battaglia possono diventare altrettante cartine di tornasole, specchi su cui leggere le dinamiche politiche e culturali di una società messe alla prova da un evento catastrofico come la guerra. Certo, nella ricerca sul Medioevo non tutti gli spunti di ricerca più attuali possono essere utilmente seguiti. Le fonti non ci consentono di avvicinarci più di tanto ai combattenti e di ricostruire dal basso «il volto della battaglia» di Legnano. Non abbiamo diari o testimonianze di prima mano di chi partecipò alla battaglia che diano voce ai veri protagonisti degli eventi. Ci rimane purtroppo ignoto cosa potessero pensare o come agissero nel dettaglio i cavalieri e i fanti che si scontrarono nelle campagne a nord-ovest di Milano in una calda giornata della tarda primavera del 1176, che cosa sia veramente accaduto fra le linee, quali atti di coraggio o di viltà si siano prodotti, con che animo e con che motivazioni individuali i combattenti si siano mossi. È possibile, certo, procedere per induzione e cercare di appli-

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care a un campo di battaglia del XII secolo dati ed esperienze tratti dalle guerre del Novecento, ma il procedimento sarebbe estremamente delicato e i rischi di anacronismo elevatissimi. Le fonti rappresentano in effetti l’ineludibile barriera con la quale bisogna confrontarsi: possiamo cercare di ricavarne la maggior quantità di notizie possibile, ma dobbiamo sapere che, per quanto riusciamo ad ottenerne molte informazioni, ancora di più saranno quelle che esse ci tacciono e che non potremo mai conoscere. Esse, inoltre, raccontano spesso la medesima vicenda in maniere diverse, tanto che non di rado pare che diversi siano gli eventi stessi. In tale situazione, talvolta, ci si scoraggia e ci si rassegna ritenendo che dietro la cortina delle narrazioni sia impossibile anche solo intravedere la realtà dei fatti. Talvolta, invece, ingenuamente, si sceglie di credere a tutti, si pesca qualche notizia qua e qualche notizia là – pratica «combinatoria» la chiamano gli addetti ai lavori – mettendole insieme in un colossale patchwork che nasconde le contraddizioni senza in realtà spiegarle. Entrambi gli approcci, ovviamente, sono sbagliati. Con pazienza, invece, bisogna interrogare le fonti, inquadrarle nel loro contesto, individuare i motivi che hanno portato alla loro produzione e alla loro conservazione e, in tal modo, cercare di comprendere cosa ci raccontano e perché. Solo a questo punto sarà possibile cercare di integrare fra loro le notizie fornite da documenti o narrazioni differenti. È ovvio che su tale strada bisogna avanzare con prudenza. Quasi un secolo fa, uno studioso inglese, Nicholas Whatley, ha invitato i ricercatori a non desistere di fronte alla scarsità di notizie offerte dalle fonti sulle battaglie dell’antichità, integrando i pochi dati certi con lo studio della geografia e della topografia, la raccolta di notizie a più ampio raggio sull’organizzazione e sull’equipaggiamento degli eserciti coinvolti, l’uso della logica e dei principi generali della tattica e della strategia. Gli ultimi due accorgimenti, come osserva lo stesso autore, in realtà celano grandi rischi, giacché non sempre la nostra nozione di ciò che è logico, tattico o strategico coincide esattamente con ciò che pensavano i nostri antenati. Procedendo però con le dovute cautele è indubbio che le scarne narrazioni delle cronache possano es-

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sere adeguatamente integrate, in modo da ottenere una ricostruzione della battaglia che sia allo stesso tempo documentata, dettagliata e plausibile. Prima di accingerci alla descrizione degli eventi, è dunque opportuno cercare di comprendere quali siano le voci dell’epoca che ci danno testimonianza di quanto è accaduto. È soprattutto con loro, infatti, che nel corso dei capitoli che seguiranno intrecceremo un dialogo vivace, interrogandole in modo serrato, per ricavarne la maggior parte delle informazioni ottenibili. Innanzitutto, bisogna osservare che il conflitto fra il Barbarossa e i comuni italiani fu molto lungo e durò quasi un trentennio, dal 1154 al 1183. Di quest’arco di tempo conosciamo molto bene soprattutto la prima metà, mentre gli anni successivi – che includono la battaglia di Legnano – sono meno testimoniati e, di conseguenza, meno studiati. Un brillante storico anglo-tedesco, Timothy Reuter, aveva provocatoriamente inventato un test al quale sottoporre le biografie di Federico Barbarossa. La prova consiste nell’aprire il volume all’incirca in mezzo e vedere se a quel punto l’autore è arrivato sino alla metà del regno di Federico (ossia all’incirca al 1169-1170) oppure si sta ancora attardando sugli ultimi anni Cinquanta. Reuter aveva infatti osservato che il primo decennio di governo del Barbarossa è largamente illustrato dalla sua biografia encomiastica, Gesta Friderici (Gesta di Federico), scritta dallo zio, Ottone di Frisinga, e poi, dopo la morte di Ottone (1158), proseguita dal suo aiutante Rahevino, che giunse fino all’anno 1160. Essa copre dunque circa un quarto della durata complessiva del quasi quarantennale regno di Federico (1152-1189). La disponibilità di una testimonianza così ricca, assente per gli anni successivi, ha fatto sì che molti studiosi (non tutti, ovviamente) si siano concentrati quasi esclusivamente sugli anni coperti dai Gesta, trattando invece molto sbrigativamente la parte centrale e finale della parabola imperiale, non meno ricche di eventi significativi. Per gli autori più encomiastici, si trattava anche di un modo per giungere con larghezza di dettagli all’apogeo della potenza imperiale, fra gli anni 1162-1166, occupandosi molto più rapi-

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damente del drastico ridimensionamento di questa avvenuto nei decenni successivi. Il problema non si pone soltanto per i biografi dell’imperatore e non è limitato alla sola opera di Ottone di Frisinga. In generale, i primi quindici anni di regno di Federico Barbarossa sono illuminati da una ricchezza documentaria che si rarefa drasticamente per il venticinquennio successivo. La crisi del 11671168, della quale parleremo più ampiamente in seguito, con il fallimento della spedizione romana e la ribellione delle città italiane, pare aver rappresentato un «giro di boa» dopo il quale molti seguaci del sovrano tedesco cessarono di registrarne le opere. Per l’Italia è il caso, particolarmente evidente, dei cronisti lodigiani Ottone Morena, Acerbo Morena e di un loro anonimo continuatore, tutti ferventi ammiratori dello Svevo. I due Morena erano giudici, attivamente impegnati nella vita politica di Lodi e, di conseguenza, risultano bene informati sugli eventi politici e militari, per i quali forniscono molte notizie. Ottone morì verso il 1160 e la sua opera fu continuata da Acerbo, che a sua volta perì durante la spedizione romana del Barbarossa nel 1167. Per due anni la cronaca fu proseguita da un autore anonimo, che però si interruppe alla fine del 1168, dato che da quella data l’adesione di Lodi alla Lega Lombarda tolse motivazioni all’autore filoimperiale. Le prime campagne del Barbarossa nel Settentrione attirarono l’attenzione pure di un anonimo intellettuale bergamasco, autore di un poemetto intitolato Gesta Friderici in Lombardia (Gesta di Federico in Lombardia), che è molto ricco di informazioni ma si ferma bruscamente al 1160. Infine, ai primi dieci anni di regno dell’imperatore è dedicato un poema encomiastico, il Ligurinus, che, ancora una volta, non si estende oltre il 1162. Gli anni Settanta del XII secolo non hanno conosciuto un simile fiorire di testimonianze. Quattro autori, dunque, saranno per noi particolarmente preziosi, visto che eccezionalmente le loro opere ripercorrono tutta la parabola dei rapporti tra Federico e le città, giungendo sino alla battaglia di Legnano. Fortunatamente, essi erano schierati sui due fronti opposti, sicché le loro pagine possono essere utilmente confrontate al fine di iden-

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tificare i diversi punti di vista. Al partito federiciano apparteneva Goffredo da Viterbo, membro della cancelleria imperiale, che scrisse un poema encomiastico, Gesta Friderici (Gesta di Federico), dedicato alla vita e alle gesta politiche e militari del Barbarossa, che ne copre, fortunatamente, l’intera carriera, pur leggendone gli eventi in chiave smaccatamente propagandistica. È invece milanese e avversa al sovrano un’importante cronaca, nota col titolo di Annales Mediolanenses (Annali di Milano). L’autore è tradizionalmente conosciuto come Sire Raul, ma recenti studi hanno stabilito che in realtà gli scrittori furono due, uno per gli anni 1154-1167 e uno che aggiunse le notizie successive sino al 1177. Per comodità, li chiameremo primo e secondo Anonimo Milanese. Si trattava sicuramente di laici, forse notai, sicuramente impegnati nella vita politica milanese, anche se non ai livelli più alti. Sire Raul fu solo il copista che verso il 1230 trascrisse i due testi precedenti. Lo scontro fra il Barbarossa e i comuni trova largo spazio anche nella biografia di papa Alessandro III, scritta dal cardinale Bosone. Bosone era un uomo di curia, che conobbe una brillante carriera nel corso del XII secolo, ricoprendo incarichi di grande importanza. Legatissimo ad Alessandro III, svolse per lui molte missioni diplomatiche e ne venne ricompensato con la promozione a cardinale prete di Santa Prudenziana, nel 1166. Forse dopo quell’anno intraprese la sua grande opera letteraria, la narrazione della vita dei papi dalla fine del IX secolo ai suoi giorni. Nella Vita di Alessandro, attingendo ai propri ricordi, a testimonianze di prima mano e a documenti ci offre una ricostruzione molto vivida del conflitto tra papato e Impero, ovviamente nettamente schierata dalla parte del primo. L’opera si interrompe al 1178, quando Bosone morì. Dal Meridione normanno, invece, era spettatore attento e interessato del dramma che si svolgeva nel Nord Italia l’arcivescovo di Salerno Romualdo, a sua volta autore di una cronaca ricca di notizie. Egli fu ambasciatore di re Guglielmo II a Venezia nel 1177 ed ebbe occasione di conoscere di persona i protagonisti della guerra, per cui ci riferisce molti eventi avendone ascoltato il racconto da chi vi fu direttamente coinvolto.

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Oltre a queste quattro grandi opere esistono altri testi, in prosa o in poesia, che narrano questo o quell’aspetto del conflitto fra imperatore e comuni. In molte città italiane si componevano cronache o annali che narravano le principali vicende cittadine. Spesso curati da laici di buona cultura, quali notai o giudici, essi prestavano una grande attenzione agli eventi politici e militari, nonché ai fatti più significativi in ambito ecclesiastico, e ci offrono numerose notizie sull’impatto dello scontro fra Federico e le città anche nelle aree più distanti dal baricentro lombardo. Pure dalla Germania arrivano testimonianze importanti. Gli annalisti che narrarono le vicende degli arcivescovi di Colonia e di Magdeburgo – che parteciparono alla battaglia di Legnano sul fronte imperiale – offrono una versione dei fatti, sicuramente di parte, ma certamente di grande interesse. Altre cronache, pur prive di informazioni di prima mano, sono comunque importanti per verificare l’impatto che gli eventi italiani avevano oltralpe. Le cronache non sono d’altronde le uniche fonti a nostra disposizione. Anzi, la loro testimonianza rischierebbe di rimanere sterile se non fossimo in grado di inserirla in un contesto sociale, politico ed economico molto più vasto grazie alla molteplicità di documenti di ogni genere che sono stati conservati. In primo luogo, l’Impero produceva una grande quantità di documentazione, soprattutto su sollecitazione dei poteri locali e delle chiese, che chiedevano riconoscimenti di diritti, privilegi ed esenzioni. Queste concessioni sovrane si concretizzavano nei diplomi, che sono atti di grande interesse. Il loro contenuto spesso serviva a creare alleanze, a stabilire rapporti di clientela e a consolidare o rinnovare amicizie. Le formule utilizzate per designare l’imperatore e le sue prerogative permettono di comprendere l’immagine della regalità che egli e la sua cancelleria volevano trasmettere (è in seno ai diplomi, ad esempio, che si cominciò a usare la dizione di «Sacro Impero»). La menzione dei luoghi dove venivano redatte le carte consente di seguire dettagliatamente il peregrinare della corte attraverso la Germania e l’Italia. I nomi dei testimoni presenti e menzionati in calce ci permettono di identificare il seguito del sovrano e di sapere, di volta in volta, chi era

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presente e dove. Lo studio dei diplomi richiede comunque anche cautele: non vi era un archivio regio, dunque gli scrittori degli atti si dovevano basare sulle informazioni fornite dai richiedenti, che raramente venivano controllate. Inoltre, solo una piccola parte dei documenti emanati è stata conservata, soprattutto a opera degli enti ecclesiastici e, talvolta, delle città: quasi tutti quelli diretti a privati, piccoli nobili o comunità rurali sono andati perduti. Così come perduta è la quasi totalità degli atti dispositivi, quali sentenze, nomine di ufficiali o lettere che trasmettevano ordini, probabilmente emanati in numero assai inferiore rispetto ai privilegi, che sarebbero invece utilissimi per comprendere il funzionamento del governo imperiale. Specularmente, la Chiesa produceva un gran numero di privilegi e missive in risposta a sollecitazioni locali. Le bolle pontificie erano uno strumento politico non meno efficace dei diplomi nel creare legami di amicizia e nel premiare cambi di schieramento o prolungate fedeltà. Anche i comuni impegnati nella lotta redigevano documenti, emettevano sentenze, stipulavano alleanze, scrivevano lettere: una trama di carte diplomatiche conservate nei diversi archivi urbani ci permette una ricostruzione abbastanza esauriente della rete di accordi che rese concreta e operante la Lega Lombarda, dei patti commerciali o militari che innervavano l’alleanza politica, delle battaglie combattute e delle paci concluse. Le città – al contrario dell’Impero – ricorrevano alla scrittura anche per la normale amministrazione, soprattutto finanziaria. Sono pochi gli atti di questo tipo conservati per l’epoca, ma quei pochi ci svelano una grande quantità di notizie altrimenti irreperibili sui costi della guerra e della diplomazia. Infine, cercheremo di dar voce, di quando in quando, anche alle popolazioni coinvolte nel conflitto, ricorrendo alle migliaia di atti privati stipulati all’epoca e conservati soprattutto presso gli archivi monastici. Anche da semplici contratti di compravendita o di affitto, infatti, si possono ricavare informazioni utili per comprendere i timori o le aspettative dei comuni cittadini o dei contadini. Ancora più utili a tal fine sono carte più rare, ma di eccezionale interesse, ovvero le testimonianze raccolte in

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occasione di processi, nelle quali sono riportati (pur tradotti in latino) i racconti e le parole degli uomini dell’epoca, consentendoci un dialogo quasi diretto – quanto mai affascinante – con quelle figure per tanti versi così lontane. Concludiamo queste pagine introduttive con alcune avvertenze per il lettore. Il volume è incentrato sulla battaglia di Legnano, il cui svolgimento risulterebbe però incomprensibile senza la conoscenza del contesto politico e sociale nel quale è avvenuta. I primi due capitoli, dunque, illustrano sinteticamente i primi vent’anni del confronto tra l’imperatore Federico Barbarossa e le città italiane, cercando di chiarire quali fossero le richieste del primo nei confronti delle seconde e perché in realtà i due contendenti esprimessero due visioni del potere e del governo che di fatto risultavano inconciliabili e portarono necessariamente allo scontro. I capitoli successivi focalizzano l’attenzione sulla discesa in Italia effettuata dal Barbarossa nell’autunno del 1174 che ebbe come conseguenza la battaglia decisiva del 29 maggio 1176. A questa è dedicato il capitolo più lungo del libro, al fine di offrirne una descrizione dettagliata e, per quanto ci è consentito dalle fonti, esauriente. Dopo la narrazione del conflitto, cercheremo di presentare la figura del vero comandante delle forze comunali, di verificare le conseguenze – tutt’altro che trascurabili – della battaglia e, infine, di ripercorrere rapidamente la nascita del «mito» di Legnano, il suo uso politico e il suo sovrapporsi alla realtà storica dei fatti. Infine, si tenterà di dare un giudizio non precostituito su quanto avvenne fra i comuni italiani e l’imperatore. Per non appesantire la narrazione degli eventi e la descrizione dei contesti non vi sono note a piè di pagina. In compenso, al termine del volume, il lettore più interessato troverà una bibliografia ragionata e un elenco delle fonti, utili sia per comprendere su quali basi siano state realizzate le pagine appena lette, sia per approfondire le tematiche affrontate e soddisfare eventuali curiosità o interessi particolari. Il tutto è articolato seguendo i diversi capitoli del testo, in modo da consentire di identificare i singoli nuclei di interesse con maggiore

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facilità. Su molti argomenti, ovviamente, la bibliografia è sterminata, per cui mi sono limitato a citare i testi più recenti, dai quali si potrà risalire alle ricerche anteriori. In quella sede ho anche collocato alcune discussioni e ho esplicitato alcuni ragionamenti da me condotti sulla base della documentazione o della storiografia, la cui presenza nel corpo dei capitoli avrebbe eccessivamente appesantito la lettura. Durante la stesura del testo mi sono avvalso della pazienza e dei preziosi consigli di Alessandro Barbero e di Aldo Settia, ai quali va tutta la mia gratitudine per l’aiuto e l’attenta lettura. Un vivo ringraziamento anche a Kai-Michael Sprenger, che mi ha fornito utili indicazioni sulla storiografia tedesca. A molti fra amici, colleghi e parenti sono stati impartiti lunghi ed estemporanei monologhi su questo o quell’aspetto della storia dei comuni, del Barbarossa e della battaglia di Legnano e tutte le loro osservazioni e critiche si sono rivelate utilissime. Più prezioso di tutti è stato però il certosino lavoro di rilettura di mio papà Luigi, a cui sono gratissimo. Mia moglie Patrizia, come sempre, ha dimostrato la sua pazienza e la sua disponibilità nei miei momenti di emergenza. Resta inteso, ovviamente, che la responsabilità di errori o omissioni rimane del tutto mia.

LEGNANO 1176

1. LE AMBIZIONI DI UN GIOVANE IMPERATORE 1. Un nuovo imperatore All’inizio dell’ottobre 1154, Federico I, con al seguito 1.800 cavalieri (una forza piccola, ma certo non trascurabile secondo gli standard dell’epoca), si affacciò al passo del Brennero, preparandosi a scendere per la prima volta in Italia. Da due anni Federico regnava, col titolo di re dei Romani, sull’Impero d’Occidente, un grande Stato sovranazionale composto dai regni Teutonico (ossia la Germania), Italico (l’Italia centro-settentrionale) e Burgundo (la Borgogna). Federico, nato alla fine del 1122, aveva all’epoca poco più di trent’anni e lo scopo principale del suo viaggio era ricevere la corona imperiale a Roma. Detto il Barbarossa, a causa della sua barba fulva, almeno dal 1138 aveva iniziato a partecipare alla vita pubblica a fianco del padre, duca di Svevia e fratello dell’imperatore Corrado III. Il giovane era stato educato secondo il codice della cavalleria e gli era stato trasmesso un sistema di valori legato alla forza fisica, all’abilità con le armi, al coraggio in battaglia, tutte qualità che aveva avuto modo di dimostrare partecipando alla seconda crociata, fra il 1147 e il 1148. L’ascesa al trono di Federico era stata promossa quale soluzione al conflitto che per oltre un quarto di secolo, dalla morte di Enrico V nel 1125, aveva travagliato il regno di Germania, a causa della dura competizione per il trono fra le casate degli Hohenstaufen, che erano duchi di Svevia, e i Welfen, o Guelfi, che signoreggiavano sulla Baviera e sulla Sassonia. La carica di

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Legnano 1176. Una battaglia per la libertà

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BASSA LORENA FRANCONIA

BOEMIA MORAVIA

ALTA LORENA

BAVIERA SVEVIA

REGNO D’ITALIA

PATRIMONIO Roma DI SAN PIETRO REGNO DI SICILIA

L’ITALIA E L’IMPERO

1. Le ambizioni di un giovane imperatore

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re di Germania, che portava con sé quella di imperatore, infatti, non era ereditaria e il titolo veniva assegnato con un’elezione da parte dei principi laici ed ecclesiastici. Gli elettori, però, potevano venir manipolati o cambiare opinione, sicché dal 1127 si ebbero due pretendenti alla sovranità, ossia il re effettivo, Lotario III di Sassonia, e l’anti-re Corrado di Hohenstaufen. Nel 1133 Lotario ottenne a Roma la corona imperiale e sconfisse militarmente Corrado che, nel 1134, decise di fare un passo indietro. Tre anni dopo, però, Lotario morì e il titolo passò all’Hohenstaufen, col nome di Corrado III, che si trovò a sua volta a lottare contro le pretese dei parenti di Lotario, in particolare di Guelfo VI, che fu sconfitto in battaglia a Flochburg nel 1150. Scontri e rivolte si sedarono soltanto nel 1152, alla morte di Corrado III, con l’elezione di Federico Barbarossa, candidato ideale per la pacificazione, in quanto nipote di Corrado per parte di padre e di Guelfo VI per parte di madre. L’elezione al trono tedesco e imperiale fece di Federico il sovrano della più grande entità politica dell’Europa occidentale, che si estendeva sull’intera Germania, dal Reno all’Elba, su parte dell’attuale Francia settentrionale, sulla Borgogna (sovranità rafforzata nel 1156, grazie alle nozze fra Federico e Beatrice di Borgogna), sulla Provenza, che all’epoca si estendeva dalle Alpi al Rodano, e sull’Italia centro-settentrionale. L’Impero, però, presentava anche grandi debolezze, se paragonato alle più piccole ma più compatte e gerarchizzate monarchie che negli stessi anni governavano l’Inghilterra, la Francia, la Spagna settentrionale e l’Italia meridionale. Il sovrano di Germania era designato nel corso di una grande assemblea che riuniva i grandi principi ecclesiastici e laici che governavano le diverse regioni in cui era diviso il territorio. Il re era il signore di tutti costoro, ai quali attribuiva terre e poteri pubblici nel corso di importanti cerimonie, tramite la consegna simbolica di alcuni stendardi. Le cariche erano ereditarie, ma il sovrano poteva spossessarne i titolari in caso di tradimento o di mancata obbedienza e poteva rivendicarne il controllo se venivano a mancare eredi ufficiali. I principi, però, non erano solo personaggi soggetti, ma anche i necessari interlocutori del re,

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che agiva sempre con il loro supporto seguendone i consigli e garantendone i buoni rapporti reciproci. Nel regno Teutonico il re non si proponeva come fonte della legge e non pronunciava quasi mai sentenze senza il consenso e l’approvazione dell’assemblea dei nobili. Le norme formali contavano poco, mentre era discriminante il ruolo dell’onore nello stabilire le gerarchie e i rapporti fra i principi laici ed ecclesiastici. Lo «Stato» era concepito quale «onore collettivo» che spettava ai suoi rettori difendere e in tali termini si esprimeva il Barbarossa quando rivendicava il diritto-dovere di proteggere l’honor imperii. La nobiltà tedesca era potente e orgogliosa e il meccanismo dell’elezione al trono faceva sì che il sovrano potesse essere considerato un primus inter pares, nominato alla carica da persone dotate di pari dignità. La conflittualità fra i diversi potentati locali era altissima e poco poteva l’imperatore contro di essa, poiché il diritto alla guerra privata era una prerogativa a cui gli aristocratici non erano disposti a rinunciare. Insubordinazioni e rivolte erano sempre in agguato contro i regnanti che non si fossero comportati correttamente nei confronti dei principi. La potenza dell’imperatore era costituita soprattutto dalle vastissime proprietà della Corona – che nel regno di Germania includevano approssimativamente 120 fra città e borghi, 195 castelli, 2.900 aziende agrarie –, alle quali si aggiungevano i beni propri della famiglia del sovrano eletto. Questi aveva inoltre il potere di nominare gli abati di circa 120 monasteri. Federico dedicò una grande cura al patrimonio familiare e a quello demaniale, cercando di costituire, con una politica di acquisti e di scambi, un vasto e compatto territorio sottoposto al suo dominio diretto. Altra grande risorsa a disposizione dell’imperatore era il controllo sull’elezione di tutti i vescovi e gli arcivescovi del regno di Germania, una cinquantina, che a loro volta governavano su importanti città e vasti territori. Per rafforzare il controllo sugli alti prelati, gli imperatori li legavano a sé anche con giuramento feudale, al momento di attribuire loro i poteri temporali sulle loro diocesi. In questo modo l’imperatore poteva disporre di una fortissima influenza sulle scelte dei principi ecclesiastici, che spesso erano i suoi più stretti e fidati collaboratori.

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A differenza di quanto avveniva in Inghilterra o in Sicilia, però, non esistevano imposte generali, incassabili in tutto il regno, mancava il controllo statale sui principali pedaggi e non vi erano norme fisse e costanti per la mobilitazione degli eserciti. Inoltre, Palermo, Londra e, poco più tardi, Parigi stavano diventando le capitali, sede fissa dei re e dei loro principali organi di governo, che proiettavano la loro autorità sul territorio per mezzo di una rete di ufficiali, mentre i sovrani tedeschi erano itineranti: non esistevano rappresentanti locali fissi della Corona e, per far percepire la sua presenza, Federico, come i suoi predecessori, doveva spostarsi fisicamente da un capo all’altro del suo Stato, facendosi seguire dalla sua corte e convocando periodiche assemblee regionali durante le quali amministrava la giustizia e concedeva udienza ai sudditi. Dato che si spostava in continuazione, la corte imperiale non disponeva di quelle infrastrutture che si stavano sempre più affermando quali indispensabili strumenti di governo. Il tesoro dello Stato doveva essere stipato in alcuni cassoni corazzati che, sotto nutrita scorta, seguivano il perenne ambulare del sovrano; peggio ancora, gli archivi regi erano modestissimi, quasi inesistenti, e l’imperatore non disponeva di mezzi efficaci per conoscere le sue entrate, quanti cavalieri dovevano fornirgli i vassalli e i principi o il numero degli uomini che erano tenuti a prestargli obbedienza. L’uso dei documenti scritti era limitato e la loro conservazione alquanto problematica: per ricostruire la storia dei tempi del Barbarossa disponiamo di poco più di un migliaio di atti emessi dalla cancelleria imperiale, mentre per lo stesso arco di tempo quelli inglesi sono circa 5.000 e quelli papali oltre 10.000. Tutto ciò era particolarmente dannoso nei rapporti con i signori e i nobili, poiché, non esistendo registrazioni attendibili, tutte le prestazioni militari ed economiche dovevano essere contrattate di volta in volta e potevano subire imponenti variazioni a seconda dei rapporti di forza esistenti. Da quando Ottone il Grande, nell’anno 962, aveva conquistato il regno Italico e riunito le corone d’Italia e di Germania entro l’Impero (che noi convenzionalmente chiamiamo Sacro Romano Impero, ma che all’epoca era l’Impero tout court), il so-

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vrano teutonico governava anche la parte centro-settentrionale della nostra penisola. Le due parti che componevano l’Impero erano assai differenti, per estensione, per evoluzione sociale, per strutture politiche e per vitalità economica. Mentre in Germania il possesso di terre e di contadini rappresentava ancora la principale e quasi unica forma di ricchezza, in Italia fiorivano ormai da oltre un secolo le città, la servitù andava rarefacendosi se non scomparendo, la circolazione monetaria era intensissima, i commerci e la produzione artigianale rappresentavano un potentissimo motore di prosperità collettiva e di mobilità sociale. La differenza fra le economie dei due regni è illustrata in maniera efficacissima dal cosiddetto Tafelgüterverzeichnis, un sintetico elenco delle proprietà della Corona (dette «curie») redatto probabilmente nell’XI secolo e fatto accuratamente ricopiare verso il 1174, alla vigilia della quinta discesa in Italia del Barbarossa che porterà alla battaglia di Legnano. Ebbene, le curie tedesche fornivano esclusivamente servizi in natura, dando pollame, maiali, uova, formaggi, birra, vino o ospitalità ai rappresentanti regi; le curie italiche, invece, pagavano una grande quantità di denaro, pari all’imponente somma di 5.600 marchi d’argento. O, almeno, avrebbero dovuto pagarla, poiché finché il sovrano rimaneva in Germania nessuno si preoccupava di riscuotere i suoi tributi. Se voleva avere a disposizione denaro contante, dunque, l’imperatore doveva avere facile accesso alla penisola italiana ed esercitarvi il proprio controllo. 2. I comuni italiani Anche se il problema delle città nel 1154 non era urgente, Federico sapeva sicuramente che nella penisola accadevano grandi novità. Da almeno mezzo secolo le maggiori città del Centro e del Settentrione si erano date una nuova forma di autogoverno, in cui la possibilità di esercitare il potere pubblico non derivava dall’alto, da un’investitura regia o da un diritto ereditario, ma veniva attribuita dal basso, grazie al consenso della col-

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lettività dei cittadini. Ogni anno, infatti, veniva eletto un collegio di ufficiali, i quali avevano il compito di assicurare il governo della cittadinanza, l’amministrazione della giustizia e la difesa del territorio urbano. Il nome di questa nuova istituzione era «comune». L’Italia centro-settentrionale non era l’unica regione europea dove le città erano in fermento. L’evento più clamoroso si era verificato a Laon, nella Francia settentrionale, dove nel 1107 il vescovo aveva autorizzato l’autogoverno cittadino e dove, cinque anni più tardi, la popolazione al grido di «Comune!» si ribellò con le armi al tentativo compiuto dal prelato di ritornare sui suoi passi. Il re Luigi VI represse nel sangue la rivolta, ma l’atto suscitò impressione e preoccupazione, tanto che uno dei maggiori intellettuali dell’epoca, Guiberto di Nogent, si sentì in dovere di condannare il comune, «pessimo nome» grazie al quale i servi acquisivano un’illecita libertà e disobbedivano ai loro giusti signori. Fra il 1127 e il 1128 le città di Bruges, Gand e Ypres assunsero il ruolo di protagoniste nel conflitto di successione scoppiato per la titolarità della contea delle Fiandre e riuscirono a ottenere ampi margini di libertà, sebbene successivamente erosi dalla reazione del conte. Anche nel cuore della terra imperiale non mancavano gli sconvolgimenti. All’Impero era soggetta Cambrai, dove il comune era stato autorizzato nei primi anni del XII secolo, anche se nel 1107 il vescovo Walcher, appoggiato dall’imperatore Enrico V, riuscì a tornare sui suoi passi e ad annullare il privilegio prima concesso. Mentre il Barbarossa muoveva verso l’Italia, in altre città importanti come Treviri e Magonza tirava aria di rivolta: nel 1154 ve ne erano solo le prime avvisaglie, ma negli anni successivi il pernicioso esempio italiano si sarebbe esteso diffusamente, obbligando Federico prima a ordinare severamente di non creare «nuovi comuni» in tali città, poi, nel 1163, a disporre una severa punizione contro Magonza, i cui cittadini ribelli avevano ucciso l’arcivescovo tre anni prima. Regno di Francia, regno Teutonico, Fiandre rappresentavano solo la punta dell’iceberg. Da oltre un cinquantennio le città erano in subbuglio nell’intera Europa, ma ciò nonostante in queste regioni sembrava possibile imbrigliare il movimento co-

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munale o quanto meno indirizzarlo verso il rafforzamento e la crescita della potenza regia: le comunità ribelli venivano represse e punite, le associazioni sciolte oppure poste sotto il controllo e la protezione particolare del sovrano, che se ne serviva per contrastare il potere della nobiltà locale. In Italia non era così: a partire dagli ultimi anni dell’XI secolo, i comuni urbani avevano acquisito incontrastati un peso e una forza enormi, conquistando una piena autonomia di governo e proiettando il loro potere su gran parte delle campagne circostanti. Identificare una «data di nascita» dei comuni italiani è impossibile, poiché tutto ciò che possediamo sono alcuni documenti nei quali viene menzionata la nuova magistratura dei consoli. Considerato però che solo una piccola parte degli atti scritti all’epoca ci è stata tramandata, questi documenti possono talvolta essere posteriori anche di decenni alla prima comparsa del comune stesso. In generale, si può ritenere che la maggior parte delle città si sia data proprie forme di autogoverno tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo. Si trattava del periodo della cosiddetta «lotta per le investiture», durata dal 1076 al 1122, durante la quale papi e imperatori si scontrarono per stabilire chi dovesse detenere il potere di nominare i vescovi (vescovi che, ricordiamolo, spesso avevano anche ampie competenze di governo civile). In gran parte delle città dell’Italia centro-settentrionale si ebbero tensioni legate alla lotta per le investiture: non era raro che due prelati, uno scelto da Roma e uno dal sovrano, si contendessero la stessa cattedra, cercando di trovare l’appoggio della cittadinanza. In queste condizioni, a differenza di quanto era accaduto nei decenni precedenti, non era possibile affidare il governo urbano al vescovo e ai suoi collaboratori: gli abitanti dovettero fare da sé e si diedero proprie strutture amministrative riunendosi in collettività giurate – che comprendevano tutti coloro che risiedevano entro le mura urbane e nelle loro immediate vicinanze – ed esprimendo propri rappresentanti che presero il nome di «consoli», con un richiamo certamente non casuale alla magistratura che aveva caratterizzato i tempi d’oro della Roma repubblicana.

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Per cercare di comprendere cosa potevano pensare l’imperatore e la sua corte della situazione che si era andata definendo in Italia, disponiamo fortunatamente di una testimonianza importantissima. Al seguito di Federico vi era una figura particolare, Ottone, arcivescovo di Frisinga, zio paterno dello stesso imperatore. Ottone, nato verso il 1112, nel 1133 si era ritirato come monaco del monastero cistercense di Morimond, in Borgogna, ma aveva poi lasciato la quiete del chiostro per affiancare e consigliare il giovane nipote. Personaggio di grande cultura e di altrettanto grande curiosità, Ottone si vide attribuire nel 1157 l’incarico ufficiale di narrare le gesta del nuovo sovrano, compito che espletò fino alla sua morte, avvenuta nel 1158. Le parole di Ottone ci restituiscono, dunque, ciò che degli eventi italiani poteva colpire un colto nobiluomo tedesco, che guardava con interesse misto a perplessità quello che accadeva nelle città della penisola. Poco più che quarantenne, egli aveva ormai un retroterra di idee saldamente formatesi, ma conservava una profonda vivacità intellettuale, che lo portò a comprendere acutamente la novità rappresentata dai comuni e a darne una descrizione di chiarezza non comune nel suo Gesta Friderici. Scriveva dunque Ottone: I latini imitano ancor oggi la saggezza degli antichi romani nell’ordinamento delle città e nella gestione della cosa pubblica. Essi amano infatti la libertà a tal punto che, per sfuggire alla prepotenza del potere, si reggono secondo l’arbitrio di consoli, anziché di potenti che comandino. Siccome fra loro vi sono tre ordini, cioè quello dei feudatari maggiori (capitani), dei valvassori e della plebe, per limitarne la superbia eleggono non da uno solo di questi gruppi, ma da tutti i predetti consoli. Perché poi non si lascino prendere dalla libidine di comandare, li cambiano quasi ogni anno. Da ciò deriva che, essendo tutta quella regione fermamente suddivisa fra le città, ciascuna di esse costringe coloro che abitano nella sua diocesi ad obbedirle e a stento in una terra così grande si trova un qualche nobile o qualche uomo di rilievo che non sia soggetto agli ordini della sua città. Hanno anche l’uso di chiamare questi territori su cui comandano i loro «comitati». Inoltre, perché non manchino le risorse con cui affrontare i loro vicini, non si fanno problemi ad elevare alla condizione di cavaliere e alle

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dignità di governo i giovani di umili condizioni e addirittura gli artigiani che si occupano di spregevoli arti meccaniche, che le altre genti tengono lontano come la peste dagli uffici più onorevoli e liberali. Da ciò consegue che esse sono di gran lunga superiori a tutte le città del mondo per ricchezza e potenza. A tal fine si avvantaggiano non solo, come si è detto, per la saggezza delle loro istituzioni, ma anche per l’assenza dei sovrani, che abitualmente rimangono al di là delle Alpi.

Sovranità popolare, mobilità e apertura sociale, proiezione del potere cittadino sulle campagne, emarginazione dell’antica aristocrazia territoriale: nelle pagine di Ottone sfilano lucidamente percepite. L’ex monaco cistercense vedeva chiaramente ciò che lo circondava, forse più chiaramente di alcuni storici più recenti, i quali si sono affannati a spiegare che l’autogoverno delle città italiane non era poi stata questa grande novità e a ricondurre l’esperienza comunale nell’alveo del «mondo feudale». I contemporanei, invece, non la pensavano affatto così, come dimostrano la curiosità dell’arcivescovo di Frisinga e l’allarme dell’imperatore per l’inconcepibile maniera in cui le comunità cittadine si autogovernavano, in modo totalmente contrario al buon ordine gerarchico voluto da Dio in persona. Se, infatti, in tutta Europa, fra XI e XII secolo, gli intellettuali andavano elaborando teorie che prospettavano una funzionale disuguaglianza dell’umanità, divisa fra chi comandava (chierici e nobili cavalieri) e chi obbediva (i lavoratori), nei comuni italiani, invece, tutti gli uomini erano liberi e uguali di fronte alla legge. I cittadini, ossia i maschi adulti che vivevano in città, pagavano le imposte, prestavano servizio militare e garantivano la sorveglianza delle mura e l’ordine pubblico, non erano sottoposti all’autorità di nessuno, se non del re in persona. Comunità di uomini liberi per eccellenza, le città erano di conseguenza soggetti politici, in grado di interloquire direttamente con i rappresentanti del regno. In quanto tali, esse erano anche in grado di autogovernarsi e autodeterminarsi, fatta salva la loro lealtà nei confronti del legittimo sovrano. Dato che la radice della libertà cittadina era nella collettività dei suoi abitanti, questi ultimi erano direttamente responsabili del governo. Benché il potere esecutivo fosse affidato a un grup-

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po di magistrati eletti annualmente, i consoli, la popolazione era direttamente coinvolta nella vita pubblica grazie a cerimonie di grande impatto simbolico e di rilevante peso politico, quali giuramenti collettivi, assemblee aperte, di solito svolte nelle piazze, consegne delle bandiere militari, processioni in onore del santo patrono: in queste e altre occasioni le fonti dell’epoca ci consentono di considerare la massa dei cittadini quale protagonista attiva, consenziente o dissenziente nei confronti del governo in carica, sempre comunque conscia di rappresentare la base legittima dell’esercizio del potere all’interno delle mura urbane. Cosa si aspettavano, a loro volta, le città dall’arrivo del nuovo imperatore? Bisogna in primo luogo sottolineare che da tempo l’Impero pareva aver rinunciato a un ruolo da protagonista in Italia e che, anzi, pareva più interessato a realizzare un efficace raccordo con le città che a contrastarne l’ascesa. Questa tendenza era consolidata da almeno un cinquantennio, da quando l’imperatore Enrico V, nei primi due decenni del secolo, aveva rilasciato alcuni diplomi a città come Bologna, Mantova, Cremona e Novara, riconoscendo a queste o ai loro vescovi ampie prerogative giurisdizionali. Lotario III, in un diploma destinato ai torinesi, aveva fatto riferimento alla «libertà di cui dispongono le città italiane» come a un dato ormai riconosciuto e scontato, che attribuiva ai centri urbani l’autonomia giurisdizionale e la diretta dipendenza dall’Impero. Il suo immediato successore, invece, Corrado III, era sceso in Italia solo nel 1128, quando ancora era anti-re, per farsi incoronare re d’Italia grazie all’appoggio del comune e dell’arcivescovo di Milano. Dopo la sua ascesa al trono imperiale, dalla Germania aveva comunque largheggiato a sua volta nella concessione di diritti, fornendo una sorta di legittimazione di fatto alle autonomie cittadine. Spesso, paradossalmente, a chi studia la storia capita di sottovalutare l’importanza del tempo: ragionando in termini di secoli e millenni, cinquant’anni possono apparire erroneamente brevi. Invece, mezzo secolo è un periodo assai lungo, sicuramente sufficiente a far considerare quali diritti consolidati e intangibili le prerogative che le città si erano assunte. Quando Fe-

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derico si affacciò nella penisola, almeno due generazioni erano nate e cresciute nell’idea che l’autonomia delle città fosse un dato indiscutibile e sacrosanto; la maggioranza degli interlocutori che l’imperatore si trovò di fronte non aveva conosciuto altra forma di governo che quella consolare o conservava solo vaghi ricordi della precedente amministrazione vescovile. A tal punto gli abitanti delle città erano consci delle loro prerogative, che i loro giudici si permettevano addirittura di contestare l’operato dei sovrani, come fecero i consoli di Milano, i quali, in una sentenza emanata nel 1140, avevano giudicato nullo un diploma poiché secondo loro l’imperatore non aveva il diritto di concedere le prerogative descritte nell’atto. Il fronte cittadino, però, non era compatto. A favore del Barbarossa giocavano gli squilibri che si erano creati nei rapporti di forza locali e, in particolare, la preoccupazione di molti comuni lombardi per lo strapotere di Milano. In effetti, nei primi anni di regno Federico non aveva dimostrato particolare interesse per l’Italia: erano stati i lombardi a rivolgersi a lui, soprattutto per invitarlo a contrastare le smodate ambizioni milanesi. Nel quarantennio precedente, infatti, alla ricerca della supremazia regionale, la metropoli ambrosiana aveva condotto una lunga serie di campagne militari contro i propri vicini: Lodi, nel 1111, e Como, nel 1127, erano state conquistate e avevano visto le proprie fortificazioni smantellate e il proprio potere sul contado dissolto. Pavia, Cremona e Bergamo erano state oggetto di altre spedizioni armate e si trovavano costrette sulla difensiva dalle rivendicazioni milanesi su parte dei loro territori. 3. Il primo impatto Federico era un personaggio dinamico e di grandi ambizioni. Nel marzo del 1153, a Costanza, era stato ratificato un patto fra il pontefice Eugenio III e il Barbarossa. L’accordo prevedeva l’incoronazione imperiale di Federico a Roma e una stretta alleanza fra papato e Impero contro le potenze che minacciavano lo status quo in Italia: il re di Sicilia, il normanno Ruggero II e

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l’imperatore di Costantinopoli, Manuele Comneno, che non nascondeva la sua ambizione di rimettere piede nella penisola dalla quale i Bizantini erano stati scacciati, proprio dai Normanni, un’ottantina di anni prima. A questi nemici si aggiungeva il comune di Roma che, alleato con il riformatore radicale Arnaldo da Brescia, minava il controllo pontificio sull’Urbe. A Costanza si trovavano anche due mercanti lodigiani, che approfittarono dell’occasione per lamentarsi dell’oppressione che Milano esercitava sulla loro città d’origine. L’imperatore, al momento, aveva altre urgenze, ma il seme gettato dai due personaggi, rimasti anonimi, non avrebbe tardato a dare frutti di imprevista gravità. Durante il suo viaggio verso Roma, il Barbarossa sostò infatti nella corte regia di Roncaglia, vicino a Piacenza, e, passato in rassegna l’esercito, emanò una norma contro la possibilità di comprare e vendere i benefici feudali, primo atto di una più energica azione di recupero e di controllo dei diritti imperiali, destinata a concretizzarsi, nella stessa Roncaglia, quattro anni dopo. Inoltre, diede ascolto alle lamentele dei consoli di Como e di Lodi contro Milano, e del marchese di Monferrato e del vescovo di Asti contro Asti e Chieri. Le sue forze non erano sufficienti a colpire direttamente la prima, di cui si limitò a distruggere alcuni castelli di confine, ma – anche grazie alla collaborazione di Guglielmo di Monferrato e dei comuni minori lombardi – riuscì a prendere e a incendiare Asti e Chieri, senza trovare opposizione. Nella primavera successiva, su richiesta dei pavesi, Federico assalì Tortona, che resistette due mesi prima di cedere per fame e venire a sua volta distrutta. Nel frattempo Como e Lodi vennero restaurate nelle loro prerogative urbane, annullando i precedenti trattati di pace che le sottomettevano a Milano. L’Impero sembrava così aver dimostrato la sua perdurante potenza e, alla fine del mese di aprile del 1155, Federico ripartì per il Lazio, con l’ambizione di proseguire e procedere alla conquista del regno normanno. A Roma l’impatto con la realtà cittadina fu ancora più cruento: dopo aver rifiutato di ricevere il titolo imperiale dal Senato dell’Urbe, il Barbarossa occupò militarmente la città e si fece incoronare dal pontefice in San Pietro

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in una plumbea atmosfera di tensione. Scoppiò infatti una rivolta del popolo romano, che fu repressa in un bagno di sangue dopo violentissimi scontri. Inoltre, benché egli avesse catturato e consegnato al pontefice Arnaldo da Brescia, i rapporti con il papa si erano rapidamente incrinati, dato che Federico si era rifiutato di rendergli omaggio. Nel frattempo, cattive notizie giungevano anche dal Settentrione, dove i milanesi avevano ricostruito Tortona, riconducendovi gli abitanti. In questa situazione, i nobili tedeschi erano riluttanti all’idea di proseguire verso sud e la progettata spedizione antinormanna dovette essere abbandonata. Sulla via del ritorno, egli assediò e distrusse Spoleto accusata di aver pagato con moneta falsa le tasse dovute al sovrano (il cosiddetto «fodro»). Poi Federico risalì la via Emilia, deviò verso Verona e puntò verso il Brennero, lasciandosi alle spalle le rovine di almeno tre città – Asti, Tortona e Spoleto, oltre al grosso borgo di Chieri – sotto le quali probabilmente era rimasta sepolta molta della fiducia che alcuni comuni italiani gli avevano inizialmente attribuito. L’ostilità suscitata si concretizzò in due occasioni quando gruppi di veronesi tentarono inutilmente di eliminarlo, prima facendo affondare il ponte di barche su cui doveva oltrepassare l’Adige, poi assalendo la colonna imperiale sulla via del Brennero. Già dalla prima rapida apparizione di Federico sullo scenario italiano comparvero, ancora in embrione, i temi del grande contrasto che sarebbe esploso nel ventennio successivo. Al contrario dei suoi predecessori, lo Svevo non intendeva accettare passivamente, né tantomeno docilmente legittimare, quelle autonomie urbane che invece, per gli abitanti delle città lombarde, erano un dato di fatto ormai consolidato da mezzo secolo. Il Barbarossa si proponeva come tutore dell’«onore dell’Impero», un onore che si concretizzava nella possibilità di esercitare una serie di poteri, dettati dalla tradizione e dalla consuetudine, sul vasto territorio a lui soggetto. Questo compito gli era stato attribuito direttamente da Dio, attraverso la mediazione dei principi tedeschi che lo avevano eletto. Città e signori d’Italia, in questa prospettiva, non avevano alcun ruolo. Dal punto di vista

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imperiale, invece, si estendeva all’intero regno Italico la brutale concezione esposta dall’imperatore ai romani, secondo la quale il potere di Federico si esercitava sulla penisola in virtù del puro e semplice diritto di conquista. Lo stesso Federico espose chiaramente questo concetto ai rappresentanti del Senato romano con queste parole, tramandate da Ottone di Frisinga: Voltiamoci a considerare le gesta degli imperatori moderni: i nostri predecessori, i principi Carlo [Magno] e Ottone [I] si impadronirono di Roma e dell’Italia, non trasmesse loro per beneficio di qualcuno, ma conquistate col valore ai Greci e ai Longobardi e le inclusero nei confini dei Franchi. Ve lo insegnano Desiderio e Berengario, vostri tiranni dei quali vi gloriavate e che appoggiavate quali re: costoro non solo sono stati sconfitti e catturati dai nostri Franchi, ma accettarono di rendersi nostri servi e così finirono la loro vita.

Dunque, i potentati italiani non potevano rivendicare alcun diritto a partecipare attivamente alla gestione dell’Impero, al contrario dei principi tedeschi. Tantomeno, in un disegno simile, poteva rientrare l’idea della sovranità popolare, espressa dalla collettività dei cittadini ed estranea al sistema di potere gerarchicamente ordinato che, partendo dal sovrano, discendeva verso il basso tramite i legami di fedeltà vassallatica. Lo stesso Ottone di Frisinga dava chiara espressione all’idea, evidentemente ben salda nella corte imperiale, che i comuni dovessero pronta obbedienza al sovrano e fossero tenuti a subire, in caso contrario, conseguenze pesantissime. Attribuendolo alla tradizione, l’autore dei Gesta Friderici delinea un quadro ben preciso (e quasi profetico) dei rapporti fra città e Impero: È uso antico, dai tempi in cui l’Impero romano è passato ai Franchi e poi è stato condotto in mano nostra, che, quando i re decidono di entrare in Italia, mandino avanti alcuni esperti collaboratori, che girando per ogni città o borgo richiedano ciò che spetta al fisco regio, che gli indigeni chiamano fodro. Dal che deriva che, all’arrivo del principe, molte città o borghi o castelli, che contraddicendo questo diritto o non pagando per nulla tentino di resistere, distrutti fino alle fondamenta rendano testimonianza ai posteri della loro arroganza.

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Gli italiani si aspettavano un imperatore pacificatore, mediatore, fondamentalmente rispettoso, come erano stati i suoi immediati predecessori, dello stato di fatto e dei diritti ormai acquisiti dai governi cittadini. Federico, a sua volta, si aspettava invece atti di sottomissione, obbedienza al volere imperiale e il pagamento di forti tributi al fine di assecondare le sue ambizioni mediterranee. Sul piano pratico e sul piano ideologico l’incompatibilità era quasi totale e le due parti non avrebbero tardato a rendersene conto, in maniera traumatica. 4. Le rivendicazioni imperiali (1158) La discesa del 1154 era stata in sostanza inconcludente. Il nuovo papa Adriano IV, inoltre, aveva assunto un atteggiamento ostile all’Impero e nel giugno del 1156 si era alleato con Guglielmo I di Sicilia. Federico, però, continuava a nutrire grandi ambizioni di dominio mediterraneo e, a tal fine, aveva la necessità di assumere il controllo delle vaste ricchezze che l’Italia era in grado di produrre. Assoggettare le riottose città del Settentrione e del Centro avrebbe fornito all’imperatore le risorse per una grande campagna contro i Normanni, volta alla conquista del Meridione. Una volta unificata l’Italia sotto il suo dominio, al Barbarossa si spalancavano scenari vastissimi, con la possibilità di dirigere le proprie conquiste contro i paesi islamici o, obiettivo ancor più allettante, verso l’impero rivale di Costantinopoli, per riunire sotto la Corona germanica le due parti dello Stato romano separatesi ottocento anni prima. Federico pianificò, dunque, con cura una nuova campagna d’Italia diretta alla sottomissione di Milano, che fu solennemente proclamata nel marzo del 1157, a Worms, in una dieta alla quale parteciparono, oltre ai grandi principi dell’Impero, anche i rappresentanti di Pavia, Lodi, Novara, Como e, probabilmente, Cremona. Il Barbarossa sapeva dunque di poter contare su un forte appoggio locale da parte di alcune fra le principali città dell’Italia settentrionale, riunitesi ai suoi ordini soprattutto in nome dell’avversione comune contro la prepotenza di Mi-

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lano. Secondo le efficaci parole di Rahevino, milanesi, cremonesi e pavesi, a causa delle guerre e dei lutti passati, si comportavano «non come un popolo imparentato, non come nemici prossimi, ma come nemici estranei, di stirpe straniera, infierendo reciprocamente con tanta crudeltà quanta non ne sarebbe opportuna neppure contro dei barbari». La spedizione fu condotta con grande cura. Furono mobilitate tutte le forze tedesche disponibili, alle quali si aggiunsero contingenti boemi e ungheresi, per un totale che poteva raggiungere i 20.000 cavalieri. L’imponente esercito imperiale fu prima riunito ad Augusta, agli inizi di giugno del 1158, e poi diviso in quattro colonne che valicarono le Alpi attraverso i passi del Brennero (l’imperatore e i boemi), della Val Canale (austriaci e carinziani), dello Spluga (renani e svevi) e del Gran San Bernardo (borgognoni e lorenesi). Era stata in tal modo organizzata una colossale manovra a tenaglia contro Milano e la sua più stretta alleata, Brescia. Piacenza e altri centri, già amici di Milano, erano stati nel frattempo indotti a cambiare campo dagli ambasciatori imperiali Rainaldo di Dassel e Ottone di Wissenbach, che avevano proficuamente preceduto la marcia delle truppe. Alla fine di giugno, Federico giunse in Lombardia. Di fronte all’evidente supremazia delle forze avversarie, Brescia dovette cedere le armi e consegnare alcuni ostaggi. I milanesi, invece, si rifiutarono e tentarono di bloccare l’avanzata nemica lungo il corso del fiume Adda. Dopo alcuni combattimenti, tedeschi e boemi riuscirono a valicare il fiume, anche se a costo di pesanti perdite, impadronendosi dell’importante castello di Trezzo. Il 3 agosto, l’imperatore poteva solennemente rifondare la città di Lodi, nel sito che occupa attualmente, abbandonando il vecchio insediamento di Lodivecchio, troppo vulnerabile alle minacce milanesi. Il 6 agosto, infine, la metropoli ambrosiana venne assediata. Alle forze imperiali, ormai ricongiuntesi, si erano uniti contingenti di quasi tutte le città lombarde avversarie di Milano, del marchese di Monferrato, dei Malaspina, dei patriarchi di Aquileia e di Ravenna. La superiorità degli attaccanti era evidente, e i milanesi decisero di capitolare e di venire a patti.

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L’8 settembre 1158, i rappresentanti del più ricco e potente comune italiano furono costretti a umiliarsi davanti all’imperatore. Presentatisi a capo chino e con una lama di spada sul collo, dovettero accettare condizioni di resa piuttosto dure: Milano perse il controllo non solo su Como e su Lodi, a cui fu restituita la precedente autonomia, ma anche sul contado del Seprio (approssimativamente l’attuale provincia di Varese), sulla Brianza (allora detta Martesana) e su Monza, sottoposta direttamente all’Impero; le fu tolto il diritto di battere moneta e di riscuotere gli altri proventi pubblici e venne imposto l’obbligo di costruire un palazzo imperiale. Furono però risparmiate le fortificazioni e il diritto all’autogoverno e all’elezione dei consoli, previa approvazione del sovrano. Complessivamente, il Barbarossa non aveva infierito. Soddisfatto della vittoria, a settembre egli si fece incoronare a Monza, con una fastosissima cerimonia, dopodiché rimandò in patria buona parte delle sue truppe, il cui mantenimento al di qua delle Alpi era troppo costoso. Federico non aveva però ancora mostrato appieno le sue ambizioni. Lo fece due mesi dopo, ancora a Roncaglia, dove l’11 novembre diede inizio a una grande dieta alla quale parteciparono rappresentanti della nobiltà, del clero e delle città di tutto il regno d’Italia. Nel corso dell’assemblea, il Barbarossa giocò un’operazione sottile: egli rivendicò le prerogative del regno e legiferò per il solo territorio italiano, ma lo fece in quanto imperatore, svuotando in tal modo l’organismo di governo locale a favore della carica universale. A tal fine ebbero un ruolo determinante quattro esperti di diritto romano, appositamente convocati da Bologna. Nella concreta risoluzione dei problemi, i quattro bolognesi agirono affiancati da una più larga commissione di esperti nominati dalle città, ma la loro presenza e il richiamo alla Lex dell’antico impero romano, che essi studiavano e interpretavano, furono importantissimi dal punto di vista ideologico. A Roncaglia prese concretezza un processo già in corso da alcuni anni presso la cancelleria imperiale, dove si andava elaborando una nuova figura di imperatore. L’uso del diritto romano si affiancava alla teologia nel costruire un’immagine altissima del potere. Il Barbarossa si richiamava direttamente alla memo-

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ria di Costantino il Grande, di Valentiniano e di Giustiniano, chiamandoli «predecessori nostri, sacri imperatori» e dichiarando che le loro leggi dovevano essere rispettate «quali oracoli divini». D’altro canto, almeno dal 1157, la cancelleria imperiale aveva iniziato a designare l’Impero come «Sacro Impero», innalzando così il ruolo del sovrano a quello di rappresentante terreno del volere divino. Dietro a tutte queste iniziative vi era probabilmente Rainaldo di Dassel, prima cancelliere e poi arcivescovo di Colonia, un fanatico sostenitore della totale supremazia dell’Impero sugli altri poteri terreni, che, come vedremo, portò Federico allo scontro aperto col papato e rischiò di far precipitare anche i rapporti fra l’imperatore e gli altri sovrani europei, che Rainaldo nelle sue missive denominava sprezzantemente «reuncoli» o «re delle province». Questo atteggiamento, naturalmente, suscitava un profondo malcontento nelle corti occidentali, del quale si fece portavoce l’intellettuale inglese Giovanni di Salisbury. Per Giovanni, Federico era un prepotente «tiranno germanico» che si arrogava il diritto di giudicare gli altri popoli senza che nessuno glielo avesse attribuito. L’«onore dell’Impero» rivendicato da Federico si traduceva nell’affermazione che tutti i poteri pubblici spettavano all’imperatore, solo egli poteva delegarli tramite concessioni che, comunque, erano sempre revocabili. Poco importavano le forme attraverso le quali tali poteri erano passati nelle mani dei signori, degli enti ecclesiastici o monastici e delle città: il Barbarossa e la sua corte intendevano interpretarli tutti come concessioni feudali. Il sistema feudale era allora in pieno sviluppo in Europa e si stava rivelando un mezzo efficacissimo per coordinare attorno ai re tutti i nobili e i signori, laici ed ecclesiastici, che variamente si spartivano il controllo del territorio. Soprattutto, in tale sistema i beni e i diritti erano attribuiti dal sovrano in cambio di un giuramento di fedeltà, la cui contropartita era la possibilità di esercitare prerogative giurisdizionali quali amministrare la giustizia, riscuotere le tasse, percepire i pedaggi, arruolare combattenti, battere moneta. Senza la più rigorosa obbedienza, questa ricompensa veniva a cadere. In tal modo, e l’esempio di Milano lo dimostrava, Federico lanciava un monito:

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come i vassalli infedeli potevano venire privati dei loro diritti, così le città ribelli potevano essere spogliate di ogni autorità e, nel caso, fisicamente distrutte. Il cuore della strategia politica federiciana era rappresentato dalla precisa determinazione di tali prerogative di esclusiva pertinenza imperiale, che potevano venir esercitate da privati o da comunità locali solo in presenza di un’esplicita investitura da parte della corte e, di norma, dietro il pagamento di un corrispettivo in moneta. Esse venivano così sottratte alla prassi allora vigente, che prevedeva la possibilità di ereditare, acquistare, vendere o permutare tali prerogative. Si trattava delle cosiddette «regalie», alle quali venne dedicata la più importante delle leggi emanate a Roncaglia, la «costituzione delle regalie» (constitutio de regalibus). «Regalia» era in realtà un termine ambiguo, che in Germania indicava i beni patrimoniali e le giurisdizioni che la Corona aveva affidato a vescovi e abati e che, in caso di vacanza della sede episcopale o abbaziale, tornavano all’amministrazione imperiale. In Italia, invece, la parola aveva una valenza più ampia e rimandava a tutti i poteri di origine pubblica che erano al momento nelle mani di privati o delle città. Probabilmente a causa di questa differenza, Federico ritenne opportuno farsi affiancare da un gruppo di esperti di diritto italiani nel momento in cui provvide a stilare un lungo e dettagliato elenco di ciò che spettava di diritto alla camera imperiale. Il controllo sui redditi e sulle prerogative fiscali da parte della corte non era solo un riconoscimento formale dei diritti imperiali, poiché implicava la possibilità di usufruirne come fonte di reddito. Secondo la testimonianza del cronista tedesco Rahevino, l’ammontare dei pagamenti stabiliti a Roncaglia garantiva a Federico un’entrata di 30.000 lire d’argento l’anno. Si trattava di una somma molto elevata, soprattutto per i parametri tedeschi, che avrebbe consentito all’imperatore di condurre un’ambiziosa politica di affermazione mediterranea. Le ricadute delle leggi di Roncaglia non erano solo finanziarie. Politicamente, si imponeva a tutti i cittadini maggiorenni il giuramento di fedeltà all’imperatore, che creava un rapporto di dipendenza diretta, scavalcando l’intermediazione delle istitu-

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zioni cittadine. Queste ultime venivano riconosciute, ma a patto di essere soggette all’autorità sovrana e sottoposte al suo consenso. Ancora, vennero poste severe limitazioni alla compravendita dei feudi e alla costituzione di nuovi legami di fedeltà. Ciò colpiva i nobili del contado, titolari da generazioni di terre e funzioni pubbliche, ma anche le città, che nei giuramenti vassallatici avevano trovato un metodo efficace per legare a sé i signori delle campagne, estendendo il dominio urbano anche sui possedimenti di questi ultimi. In generale, la rivendicazione all’Impero della titolarità di tutte le giurisdizioni scardinava il controllo urbano sul contado, privandolo di legittimazione. A comuni e signori, infine, veniva proibito di stabilire alleanze fra loro e si scioglieva qualsiasi tipo di patto giurato, anche quelli che legavano fra loro i cittadini. Un simbolo pesante, infine, era la pretesa di costruire un palazzo imperiale ovunque fosse gradito al sovrano nel territorio del regno. Negli anni successivi, in effetti, Federico si procurò sedi ufficiali in molte città, quali Pavia – che fu la sua residenza preferita, anche per la sua antica tradizione di capitale del regno – Ferrara, Lodi, Reggio Emilia, Imola, Ivrea e Parma, nonché in altre località minori, come Chieri, Monza, Prato e San Miniato al Tedesco. Complessivamente, le norme emanate a Roncaglia erano di grande importanza. Proponevano un nuovo modello di rapporto fra potere imperiale e subordinati, fossero essi comuni urbani o signori feudali, basato sull’uso del diritto romano e sull’esempio bizantino. Il sovrano ne emergeva come fonte prima e assoluta della legge, soggetto solo a Dio, e aveva il diritto di rivendicare i simboli materiali del suo potere – la riscossione delle regalie e la costruzione dei palazzi imperiali – senza alcun bisogno dell’approvazione dei sudditi. Certo, questo potere poteva poi venir delegato ai signori o alle città, soprattutto attraverso le investiture feudali, e nella prassi Federico non intendeva sovvertire radicalmente le strutture sociali e politiche da lui trovate nel regno d’Italia. In teoria, però, le proposizioni di Roncaglia gliene attribuivano il diritto, ponendo una forte ipoteca su ciò che sarebbe successo negli anni a venire.

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5. La crisi col papato La dieta di Roncaglia rappresentò un trionfo propagandistico per Federico, ma in realtà la situazione politica non era altrettanto favorevole. Subito dopo la dieta, un maldestro tentativo di imporre rettori imperiali nelle città lombarde aveva suscitato un vivo malcontento e una vera e propria insurrezione popolare a Milano, che ora intendeva rimangiarsi le clausole di pace. Al suo fianco, oltre a Brescia, si erano schierate Piacenza e Crema, il cui atteggiamento era sempre più ostile nei riguardi del sovrano. Le poche forze imperiali rimaste in Italia non erano d’altro canto sufficienti a tenere a freno le città scalpitanti e nell’aprile del 1159, mentre l’esercito teutonico era in Emilia, i milanesi ripresero con la forza il castello di Trezzo sull’Adda, assicurandosi così nuovamente il controllo della frontiera orientale del loro contado. Federico al momento non era in grado di occuparsi della ribellione, un po’ perché non aveva truppe sufficienti, ma soprattutto perché all’orizzonte andava profilandosi un problema all’apparenza assai più grave. Papa Adriano IV aveva infatti assunto un atteggiamento di netta ostilità e, dopo aver mediato una pace trentennale fra l’impero bizantino e il regno di Sicilia – pace che aveva chiari connotati antifedericiani –, si mise ad appoggiare esplicitamente le città nemiche del Barbarossa. L’avversione di Roma verso Federico non era priva di motivi. Già nel 1157, nel corso di una dieta tenutasi nella città imperiale di Besançon, gli inviati pontifici furono assai maltrattati da Federico. Questi, come attestano i suoi biografi, non era particolarmente versato nella comprensione della lingua latina, sicché il discorso dei rappresentanti del papa fu tradotto dal suo cancelliere Rainaldo di Dassel. In un passaggio, dove si chiedeva al sovrano di essere grato dei benefici ricevuti dalla Chiesa, Rainaldo, malevolmente, tradusse «benefici» con «feudi»: ne risultava che, secondo i legati, l’imperatore era dipendente vassallatico del papa! La reazione del Barbarossa fu, ovviamente, di grande durezza e anche se l’equivoco fu poi chiarito il catti-

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vo esito dell’assemblea lasciò un’ombra pesante sui rapporti fra Chiesa e Impero. Alla radice del conflitto vi era peraltro un nodo assai concreto e di difficile risoluzione. Il concordato di Worms, che nel 1122 aveva chiuso la «lotta per le investiture» fra papato e Impero, aveva sancito una sorta di spartizione geografica del potere di nominare i vescovi, attribuendo l’autorità di scegliere quelli del regno Teutonico (che poi il papa avrebbe confermato) all’imperatore, e quelli del regno Italico al pontefice (a loro volta sottoposti poi alla conferma del sovrano). Dato che in Germania i grandi prelati erano titolari di importanti diritti di governo, la necessità di chiedere l’approvazione del papa al momento della loro nomina non era di poco impiccio per Federico. La situazione si aggravò quando questi volle rafforzare la propria autorità al di qua delle Alpi, dato che i poteri concessi al papa dal concordato si rivelarono una limitazione assai forte alle sue ambizioni. Il problema esplose già nel 1158, quando il patriarca di Ravenna morì durante l’assedio di Milano. La sede metropolitana di Ravenna era titolare di vastissimi diritti signorili, che si estendevano su gran parte della Romagna: il suo controllo era dunque di grande importanza strategica. Federico fece immediatamente nominare alla cattedra Guido di Biandrate, figlio dell’omonimo conte Guido, all’epoca fedele alleato del Barbarossa, ma il papa non volle mai accettare la designazione. Guido prese effettivamente possesso della diocesi, ma rimase sempre vescovo «eletto» e mai consacrato sino alla sua morte. Il conflitto esplose alla scomparsa di Adriano IV, avvenuta il 1° settembre 1159. Il collegio cardinalizio, al momento dell’elezione del successore, si divise. La maggioranza scelse Rolando Bandinelli, che prese il nome di Alessandro III, mentre la minoranza si espresse per Ottaviano Monticelli. Rolando, che era stato uno degli ambasciatori di Besançon, era esplicitamente ostile a Federico, il quale prese dunque le parti del Monticelli e lo fece incoronare a sua volta papa, con il nome di Vittore IV. La scelta imperiale fu sancita da un sinodo, tenuto a Pavia nel febbraio del 1160, che, sotto l’accorta regia di Rainaldo di Dassel, dichiarò decaduto Alessandro e legittimo pontefice Vittore.

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Ben pochi, però, fra i vescovi italiani riconobbero quest’ultimo e vi furono molti partigiani di Alessandro anche in Germania. Pure le Chiese del resto d’Europa scelsero Alessandro, che il 28 febbraio fece scomunicare Vittore e Federico. L’imperatore si trovò così in una situazione veramente difficile di fronte all’opinione pubblica dell’intera cristianità. 6. Il trionfo Nel frattempo, con le forze tedesche ancora a sua disposizione e con le truppe messe al suo servizio dagli alleati italiani, Federico aveva intrapreso una nuova campagna militare contro le città ribelli. Nel luglio del 1159, con l’appoggio dei cremonesi, pose sotto assedio il borgo fortificato di Crema, dove venne raggiunto anche da rinforzi inviati dai duchi di Sassonia e dall’arcivescovo di Colonia. Crema oppose una disperata e violentissima resistenza che finì con l’esasperare Federico, il quale effettuò spietate rappresaglie, facendo giustiziare alcuni dei prigionieri che erano nelle sue mani e legandone altri, come scudi umani, sulle sue macchine d’assedio. Ciò nonostante, soltanto il tradimento di uno dei migliori tecnici a disposizione dei difensori, tal Marchisio, che passò nel campo imperiale, fece sì che i cremaschi cedessero, il 26 gennaio 1160, abbandonando l’abitato che fu distrutto. La situazione, però, rimaneva confusa. A fine aprile, una spedizione contro Piacenza non diede i risultati sperati e il 9 agosto Federico fu sconfitto in battaglia dai milanesi presso Carcano, in Brianza, e dovette ripiegare precipitosamente verso Como. L’inverno 1160-1161 giunse senza che il problema lombardo avesse trovato soluzione. In primavera arrivarono nuovi rinforzi tedeschi, guidati dal landgravio di Turingia, da Federico di Rothenburg e dall’instancabile Rainaldo di Dassel. Essi, unitisi alle truppe dei comuni alleati, misero l’imperatore in grado di riprendere l’offensiva contro Milano. In realtà le forze non erano sufficienti a un assalto diretto e neppure per un assedio. Federico decise allora

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di affamare la città nemica, devastandone i raccolti e bloccandone i commerci. La situazione strategica era da questo punto di vista ideale, visto che tutte le città confinanti – Pavia, Novara, Como, Bergamo e Lodi – erano schierate con il Barbarossa. Per tutto l’anno si combatté aspramente, ma i milanesi non riuscirono a spezzare il cerchio che lentamente stava strangolandoli. Il 21 febbraio 1162, i rappresentanti del comune si presentarono a Lodi, dove Federico aveva stabilito la propria residenza e offrirono la resa della città. L’imperatore decise per una punizione esemplare. Fu respinta ogni proposta di trattativa e accettata soltanto una resa incondizionata. Con una cerimonia durata tre giorni, agli inizi di marzo, la città sconfitta si mise nelle mani del vincitore, consegnandogli le chiavi delle porte, centinaia di ostaggi e il proprio simbolo civico, il carroccio, che fu smontato al fine di servire da trofeo. Il 19 marzo, spietato, Federico ordinò l’evacuazione della città, che sarebbe stata spopolata e distrutta: la punizione doveva essere radicale ed esemplare, utile come monito perpetuo non solo in Italia. Le notizie che giungevano dalla Germania, dove nel 1160 gli abitanti di Magonza si erano rivoltati contro l’arcivescovo e nel 1161 quelli di Treviri avevano tentato di costituire un comune, dovettero infatti rafforzare la determinazione di Federico nello stroncare le autonomie comunali italiane, prima che il loro contagio si diffondesse anche nel regno Teutonico. La distruzione di Milano fu sistematica e radicale. Bisogna tener presente che, dati i mezzi a disposizione, radere al suolo un’intera città era un’impresa colossale. Vennero quindi raccolti uomini da tutta la Lombardia, poiché ogni città o centro che aveva subito un torto dai milanesi volle dare il suo contributo all’operazione. Giunsero dunque cremonesi, pavesi, lodigiani, novaresi, comaschi, abitanti del Seprio e della Martesana. Prima venne appiccato un incendio generale, poi si demolirono le strutture murarie superstiti; alcune chiese furono risparmiate, altre no. Non ebbe grazia neppure il campanile della cattedrale, abbattuto per esplicito volere dell’imperatore. L’operazione, iniziata il 26 marzo, durò un’intera settimana e si concluse il 1° aprile, una livida Domenica delle Palme per i milanesi.

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Gli abitanti ebbero salve la vita e la libertà e abbandonarono la città con ciò che riuscirono a portare con sé. Al di fuori delle mura, presso gli edifici religiosi più importanti, sorsero immensi campi profughi nei quali i fuoriusciti cercarono riparo, raggruppandosi per quartieri, in maniera da salvaguardare le vecchie trame di rapporti interpersonali. Ai primi di maggio venne loro concesso di edificare delle vere e proprie abitazioni, i cosiddetti «borghi», nelle località di Nosedo, Vigentino, Lambrate e San Siro alla Vepra, nonché in due luoghi oggi scomparsi, Cascina Plasmondi e Carrera, che circondavano con una rete di insediamenti l’immenso ground zero della città distrutta e desolata. In stridente contrasto sorsero nelle vicinanze i nuovi edifici voluti dall’imperatore quale segno della sua vittoria: i palazzi imperiali di Monza e di Vigentino, la torre trionfale di Nosedo, il castello di Landriano. Vennero prelevate le stesse reliquie più preziose conservate nelle chiese milanesi, fra cui i resti dei Re Magi, ancor oggi custoditi a Colonia. Dopo Milano, in un serrato calendario di umiliazioni e di distruzioni, fu la volta degli altri comuni che si erano schierati contro l’imperatore. Il 22 aprile i bresciani si arresero e dovettero demolire torri, mura e fossato della città, accettare i governanti assegnati da Federico e versargli tutto il denaro che i milanesi avevano prestato loro più altre 6.000 lire di denari imperiali, una somma enorme. Ancora superiore – 6.000 marchi d’argento, ossia circa 9.000 lire – fu la cifra che l’11 maggio successivo dovettero pagare i piacentini, costretti a loro volta a radere al suolo tutte le fortificazioni civiche. A giugno venne il turno di Bologna, che si sottomise alle medesime condizioni, seguita da Imola e Faenza. Nel novembre del 1163, infine, anche Tortona venne nuovamente distrutta a opera dei pavesi che, autorizzati dall’imperatore a smantellarne le fortificazioni, abbatterono in realtà tutto l’abitato. Tutte queste città consegnarono decine di ostaggi a Federico, che li fece concentrare a Pavia, che andava riscoprendo il ruolo e le glorie di capitale regia d’Italia, come ai tempi dei Longobardi e degli imperatori sassoni. Qui, l’8 aprile 1162, giorno di Pasqua, Federico aveva celebrato solennemente il suo trionfo, con una grandiosa cerimonia culminata nel rinnovo dell’incoronazione.

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7. L’Italia imperiale Dopo la vittoria su Milano, Federico mise mano a un progetto di governo dell’Italia centro-settentrionale molto più ambizioso rispetto a quanto egli stesso aveva stabilito quattro anni prima a Roncaglia. Anche secondo molti studiosi di lingua tedesca, Federico, sull’onda del trionfo, «perse la misura» che fino a quel momento l’aveva guidato nei suoi rapporti con l’Italia, intraprendendo una strada che avrebbe finito con l’alienargli tutte le simpatie fino a quel momento raccolte. Si trattava di costruire un apparato di potere non più basato sui rapporti feudali, come deciso a Roncaglia, ma sull’azione di una rete di funzionari direttamente dipendenti dal sovrano e che dalla delega imperiale ricavavano il loro potere. Ne sarebbe nata una maniera di esercitare il potere assai innovativa ed efficiente nello spremere dal territorio le risorse finanziarie necessarie alle grandi ambizioni politiche del sovrano, ma anche priva di quella duttilità nel riconoscere le realtà locali e integrarle in un sistema coerente che invece era concessa dal sistema delle dipendenze vassallatiche. L’Impero mutava radicalmente quello che era stato il suo ruolo nei secoli precedenti: non era più il coordinatore e il pacificatore dei vari poteri presenti sul territorio, ma un loro concorrente diretto, che non intendeva integrarli in una realtà più vasta bensì sostituirli tout court. Il rischio di creare un’ondata di malcontento era alto, ma il Barbarossa era allora all’apice della sua potenza e decise di ignorarlo. Fu, è stato scritto con grande efficacia, un «formidabile errore di calcolo». A capo del governo italiano vi era in teoria l’imperatore stesso, ma data la sua impossibilità a essere sempre presente in Italia venne nominato un plenipotenziario, detto «legato generale», che ne faceva le veci. Per la prima volta, veniva così sperimentata nell’Impero la possibilità di delegare le responsabilità di governo a ufficiali appositamente nominati. L’uomo destinato a ricoprire l’incarico fu ancora una volta Rainaldo di Dassel, nel frattempo nominato arcivescovo di Colonia, strettissimo collaboratore di Federico. Rainaldo ricoprì la carica dal 1161 al 1164, fungendo da «viceimperatore» sul suolo italiano. Si istituì

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anche la figura del vicario imperiale, con competenze giudiziarie. Alcuni personaggi con tale incarico erano già attivi dal 1158, ma la carica venne sistematizzata nel 1162, quando il vescovo Ermanno di Verdun ricevette il titolo di «vicario e legato», col compito di giudicare le cause d’appello in tutta l’Italia. Una schiera di nobili teutonici venne posta a capo delle città e dei territori lombardi. Enrico di Liegi a Milano, Gosvino di Heinsberg nel Seprio e nella Martesana (le campagne a nord di Milano), Marcovaldo von Grunbach a Bergamo e Brescia e poi a Milano, Eginolfo di Urslingen e Arnaldo di Dorstadt, detto in Italia Barbavaira (ossia Barbagrigia), a Piacenza, Corrado di Ballhausen a Ferrara, Lamberto di Nimega a Lodi e a Crema, mastro Pagano a Como, Azzone a Parma, Enrico di Svevia a Lodi, Enrico di Ditze ancora a Milano. Solo alcuni comuni amici, come Cremona o Pavia, sfuggirono a questo destino e, anch’essi, soltanto in grazia di privilegi, sempre revocabili e pagati con forti esborsi di denaro. Cremona, ad esempio, nel 1162 ottenne la possibilità di gestire le proprie regalie e di eleggere i propri governanti (soggetti all’approvazione imperiale), ma solo tramite l’esborso annuo di 200 marchi d’argento. Queste concessioni non accontentavano le ambizioni dei comuni amici e acuivano il senso di ingiustizia nei centri soggetti agli avidi ufficiali tedeschi. In Toscana l’operazione fu condotta ancor più organicamente dal solito Rainaldo di Dassel: alle città che non avevano opposto resistenza all’Impero fu lasciato il permesso di eleggere i propri consoli, con il solo obbligo della conferma imperiale. Il loro potere era però limitato agli immediati dintorni dei centri urbani, mentre nelle campagne i più grandi signori locali, i detentori dei titoli di conte o di marchese e gli enti ecclesiastici che possedevano giurisdizioni nelle campagne vennero posti alle immediate dipendenze di Federico, quali suoi vassalli. Il governo di ciò che restava venne affidato a ufficiali imperiali, che erano talvolta tedeschi e talvolta membri della nobiltà toscana. La rocca di San Miniato (detta appunto San Miniato al Tedesco) venne eletta a centro dell’amministrazione della regione e della Marca di Spoleto: nella fortezza, presidiata da una robusta guarnigione posta agli ordini del conte Eberardo di Ar-

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men, affluivano tutte le somme riscosse a nome dell’Impero e aveva sede una corte di giustizia, con funzioni di appello nei confronti dei tribunali cittadini e signorili. L’equilibrato sistema elaborato dal cancelliere imperiale venne però meno dopo poco tempo. Nel 1164-1166, l’appoggio alle politiche imperiali da parte delle maggiori famiglie aristocratiche, dai conti Guidi, agli Alberti, agli Aldobrandeschi, fu ricompensato con una pioggia di privilegi, talvolta in deroga a quanto stabilito a Roncaglia. Le comunità urbane, oppresse dall’esoso apparato fiscale di Federico, si vedevano così minacciate direttamente dal crescente potere delle famiglie signorili. Da ciò nacque un’ondata di ostilità verso l’imperatore, destinata a esplodere negli anni a venire. Il nuovo sistema di governo, comunque, all’apparenza funzionava magnificamente. Una fonte inglese attribuisce al fisco imperiale il prelievo di 84.000 lire d’argento in Italia nel solo 1164. La cifra, se attendibile, testimonia il traumatico incremento delle entrate imposto dall’apparato di governo imperiale. Rispetto alla somma stimata sei anni prima da Rahevino – 30.000 lire –, gli ufficiali del Barbarossa erano riusciti a triplicare i redditi. La parte settentrionale della penisola rendeva a Federico molto più di quanto incassava nella stessa epoca il re di Francia (circa 60.000 lire) e all’incirca ciò che riusciva a raccogliere il re di Inghilterra (90.000 lire), il quale disponeva del più avanzato sistema fiscale allora esistente in Europa, su un territorio che includeva sia l’Inghilterra stessa, sia vaste regioni della Francia. Gloriandosi di tali impressionanti successi, nel settembre del 1162 l’imperatore tornò in Germania a progettare nuove grandi spedizioni nelle quali sfruttare il potere e il denaro che si era appena conquistato sul campo.

2. LA REAZIONE DELLE CITTÀ 1. Le città sotto il giogo imperiale Le formidabili somme di denaro che la tesoreria imperiale ricavava dalle città italiane erano il risultato di una politica fiscale estremamente gravosa, al cui peso si aggiungevano le somme personalmente estorte e trattenute dagli esosi ufficiali teutonici e dai loro collaboratori locali. Non vi è fonte dell’epoca, filo- o antimperiale che fosse, che non sottolinei accoratamente questa situazione. Il giudizio di Romualdo Salernitano, inviato quale ambasciatore del re di Sicilia presso la Lega Lombarda, è tagliente ed efficace: «l’imperatore prese a disporre dell’Italia settentrionale a sua volontà, pose suoi rappresentanti e balivi nei castelli e nelle città, a richiedere tributi e regalie e a mutare gran parte della regione in suo demanio. I lombardi, che fra le altre nazioni godevano di singolari libertà, per l’invidia verso Milano furono ridotti come Milano e furono assoggettati miseramente alla servitù dei teutonici». Romualdo, certo, era un avversario di Federico, ma anche l’anonimo cronista lodigiano che continuò l’opera di Ottone e di Acerbo Morena, pur fautore del Barbarossa, non risparmiava le critiche ai rettori nominati dallo Svevo. Essi, infatti, «esigevano anche sette volte di più di quanto era legittimamente dovuto all’imperatore e procedevano ingiustamente contro chiunque e opprimevano egualmente vescovi, marchesi, conti, nonché i consoli delle città, i capitani e quasi tutti gli altri lombardi».

2. La reazione delle città

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A Piacenza, la disponibilità di una documentazione particolarmente ricca consente di ricostruire cosa rappresentò per i cittadini il governo dei podestà imperiali. Piacenza era stata alleata di Milano e come tale, dopo la sua resa avvenuta l’11 maggio 1162, fu trattata severamente e sottoposta al pagamento di una fortissima ammenda di 6.000 marchi d’argento per sfuggire alla distruzione totale. L’autonomia comunale venne soppressa e al governo fu posto il tedesco Arnaldo di Dorstadt. Per poter godere di condizioni di sicurezza e di favore nei commerci, i piacentini dovevano versare al fisco imperiale 1.050 lire imperiali all’anno e due pezze di velluto, per un valore di circa 627 marchi: si trattava di una cifra colossale, se si pensa che due centri tutt’altro che poveri, come Cremona e Lucca, per il riconoscimento dei propri diritti di governo erano tenute a pagare rispettivamente 200 e 167 marchi. Arnaldo, dotato di pieni poteri, si costruì rapidamente una ben meritata fama di rapacità, facendo spogliare gli altari della chiesa di Sant’Antonino per ricavare le somme dovute all’Impero. Per sua iniziativa furono tassate le proprietà fondiarie, il bestiame, il vino, le botteghe e i commerci, vennero aumentati i pedaggi da pagare sui ponti e alle porte della città, accresciuti gli importi delle multe e tutti gli altri costi della giustizia. Egli si era circondato di una cinquantina di aiutanti, tedeschi e italiani, che si comportavano con grande prepotenza requisendo ciò che a loro pareva e obbligando le persone a servizi di lavoro gratuiti. Le parole di un piccolo proprietario di terre bene evidenziano le prepotenze commesse dagli ufficiali del podestà: Maglenzio de Pletolis, dopo aver giurato, dice: Io diedi per quest’ultimo estimo 4 soldi. I messi del signor Arnaldo mi presero per il podestà 4 staia di miglio. E Salvo de Carmiano mi ha preso due buoi e li ha messi a lavorare per il comune per 4 giorni e non ho potuto riaverli finché mi sono accordato con lui per dargli 2 soldi, e siccome ne avevo solo 18 denari gli ho dovuto dare in pegno un anello d’oro, che non ho mai più potuto riavere. Pagai un pedaggio di 4 denari e per un mio asino diedi a Donodeo Racco 4 denari e per la vendita di quell’asino 2 denari. E Papa prese a un mio bovattiere un mantello, poiché non era voluto andare coi buoi a raccogliere legna e io ne ho compra-

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to un altro al bovattiere; e altri suoi messi glielo presero nella stessa maniera, poiché non aveva voluto trainare un biroccio di legna e anche se poi l’ha portata, non ha potuto riavere il mantello e valeva, a quanto pareva a me, 25 denari.

La corruzione sembrava l’unico strumento di tutela, soprattutto da parte dei soggetti più deboli, come narra questo ostaggio dell’imperatore, che, deportato a Pavia, da lontano tentava di difendere i suoi beni: Tetavillana Scorpione, dopo aver giurato, dice: quando ero a Pavia i messi del signor Arnaldo mi presero una botticella di vino e mezza. E poiché il signor Arnaldo si era impadronito di una mia terra, gli diedi 35 soldi e egli me la restituì. Inoltre, avendo paura di lui, affinché mi aiutasse diedi a Clavello 10 soldi e ad Alberto Landi 10 soldi, e a Oberto Paucaterra 10 soldi, e a Bongiovanni Saraceno 5 soldi e a Guglielmo de Leccacorvo 5 soldi attravero il mio messo Girardo de Porta. Per riscattarmi dallo stato di ostaggio i figli di mio fratello Oberto, ossia i miei nipoti, diedero 20 soldi.

In condizioni ancora peggiori erano i milanesi. Il primo anonimo cronista milanese non risparmia gli elenchi di vessazioni e di prelievi forzosi a cui gli abitanti della città sconfitta vennero soggetti, dato che i rappresentanti imperiali escogitarono «innumerevoli maniere di opprimerli». Non si trattava di pura retorica, poiché alcuni documenti privati dell’epoca confermano la situazione di difficoltà della popolazione. Una raccolta di testimonianze rivela ad esempio che il milanese Pietro Vecchio, dopo la distruzione della città, si trasferì nel piccolo villaggio di Villanova di Nerviano e lì venne costretto a pagare il fodro, anche se non possedeva né terre né casa. Ancora più esplicito, un contratto stipulato a Nosedo il 25 giugno 1165, col quale il milanese Brusalbergo Montanario dovette cedere al monastero di Chiaravalle un campo di sua proprietà al fine di ricavare il denaro necessario «per la tassa sulle terre (mansaticum) dovuta al messo dell’imperatore, versato a Uguccione Sertor che allora raccoglieva la tassa per ordine del podestà di Milano». Tasse e prelievi forzati non erano gli unici elementi che crea-

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vano scontento, anche presso le città alleate. Le circoscrizioni cittadine vennero rimodellate e le valli più importanti per i collegamenti transalpini furono sottratte al dominio urbano e attribuite a nobili tedeschi. Sin dal 1158 Chiavenna e la valle dello Spluga erano state tolte a Como e annesse al ducato di Svevia; nel 1166 il comitato del Garda, posto nel territorio di Verona, ma in effetti nelle mani di Marcovaldo di Grunbach, fu affidato al vescovo di Trento. La stessa fedelissima alleata, Cremona, dovette subire non poche delusioni: il territorio detto dell’Isola Fulcheria, da sempre rivendicato dai cremonesi, venne posto sotto il controllo diretto dell’Impero, così come gli importanti pedaggi sul Po riscossi a Luzzara e a Guastalla. I 200 marchi d’argento annui, il prezzo che la città doveva pagare per poter nominare autonomamente i propri consoli e gestire in modo indipendente le entrate fiscali, pesavano non poco sul bilancio comunale, già stremato dall’enorme cifra di 11.000 lire versata quale contributo alla distruzione di Crema e dai pagamenti richiesti per ottenere la libera circolazione dei mercanti cremonesi sul Po. Un problema non indifferente era poi costituito dagli uomini che Federico aveva messo a capo del proprio governo, tutti appartenenti all’aristocrazia tedesca e, di conseguenza, completamente estranei come mentalità e come conoscenze alla tradizione amministrativa comunale. Il Barbarossa non diede spazio agli italiani nell’organigramma del suo dominio, se non in ruoli subalterni, contribuendo così a creare un sentimento di totale estraneità fra i governati e i governanti. Infine, non facilitava i rapporti fra Federico e i cittadini l’adesione al partito di Vittore IV, richiesta o spesso imposta dall’imperatore ai vescovi, che si scontrava con il sentimento predominante fra la popolazione, più vicina al papa Alessandro III. Vittore morì il 20 aprile 1164, ma invece di approfittarne per riaprire il dialogo con Alessandro, Rainaldo di Dassel fece in tutta fretta eleggere un nuovo antipapa, Guido da Crema, che prese il nome di Pasquale III. Federico acconsentì all’atto, seppellendo in tal modo qualsiasi possibilità di accordo: ormai, nell’idea dell’imperatore, anche la questione dello scisma sarebbe stata risolta con le armi.

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2. Le prime rivolte Nell’ottobre del 1163 Federico ritornò in un’Italia dove serpeggiavano il malcontento e la delusione. Un anonimo corrispondente dell’arcivescovo Tommaso di Canterbury, descrivendo a quest’ultimo la situazione politica italiana dell’epoca, esprime bene la convinzione che andava ormai diffondendosi anche fra gli stessi alleati dell’imperatore, ossia che Federico aveva adottato uno stile di governo tirannico, sotto il quale tutte le città andavano perdendo la loro antica libertà. Scriveva infatti: «i Pavesi e i Cremonesi [...] gli hanno annunciato che si sarebbero separati da lui [dal Barbarossa] se non cessa dalla tirannide e assume costumi civili, affinché possano essere liberi come nei giorni dei precedenti imperatori». Il contrasto fra «tirannide» imperiale e «libertà» tradizionale, che fu poi uno dei cardini del pensiero della Lega Lombarda, cominciava qui a trasparire, anche se forse messo in particolare rilievo dalla penna di un autore non favorevole al Barbarossa. Ma il problema non erano solo le proteste, più o meno diplomatiche, e i mugugni, poiché rapidamente nacque una vera opposizione armata al governo imperiale. Le città avevano una tradizione di libertà troppo lunga perché i loro abitanti potessero accettare senza opposizione i gravami inflitti dai funzionari imperiali. Cominciarono dunque a scoppiare tumulti spontanei: nel 1164 i piacentini ottennero, non si sa se con le buone o con le cattive, l’allontanamento di Arnaldo Barbavaira e il ritorno della magistratura consolare, pur se sottoposta al controllo di un vicario tedesco; sullo scorcio del medesimo anno un ignoto bolognese uccise il rettore imperiale, Bezo, che fu sostituito da un nuovo podestà, Guido da Canossa, italiano e più sensibile alla volontà della cittadinanza. La novità più grave, per Federico, si produsse però in Veneto, dove, sempre nel 1164, le città della Marca Veronese si coalizzarono in un’alleanza, detta appunto Lega Veronese, che riuniva a scopi difensivi Padova e Vicenza e si estese poi a Verona, Venezia e Treviso. Dietro l’iniziativa vi era anche l’imperatore bizantino Manuele Comneno, che promise aiuti e denaro nell’in-

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tento di contrastare l’eccessiva crescita del potere del Barbarossa. I comuni coalizzati avevano un progetto politico molto semplice, ossia riconoscere soltanto i «diritti antichi» dell’Impero, rifiutando le novità imposte a Roncaglia. Quale dimostrazione di forza e di determinazione, cominciarono a fortificare diverse località strategiche del contado, atto che, senza il permesso del sovrano, violava le norme imposte nel 1158. Federico, allarmato dalla novità, mosse in armi contro Verona, ma l’operazione fu un fallimento. Acerbo Morena narra con efficacia l’accaduto: «a giugno, l’imperatore partì con i cavalieri delle città di Lombardia e con pochi teutonici fino alle vicinanze di Verona e distrusse molti castelli e villaggi dei veronesi. Contro di lui essi si opposero, con uno schieramento assai maggiore di fanti e di cavalieri. L’imperatore, considerando che con sé aveva pochi teutonici e che i lombardi si mostravano tiepidi nel venirgli in aiuto, temendo che se avesse accettato battaglia l’esito sarebbe stato sfavorevole, si ritirò con tutto il suo esercito». I termini del problema apparivano chiari, sia dal punto di vista politico sia da quello militare. Da un lato, mobilitando le fanterie, i veronesi erano riusciti a mettere in campo una forza superiore a quella della cavalleria di Federico, dall’altro il malgoverno dei suoi rettori aveva cominciato ad alienare all’imperatore l’appoggio delle città lombarde, i cui combattenti non risultavano più affidabili e, anzi, simpatizzavano con le ragioni del nemico. Il grosso dell’esercito era infatti composto da quei pavesi e cremonesi che, secondo il corrispondente di Tommaso di Canterbury, nel medesimo periodo stavano protestando e rivendicavano la passata libertà. Federico dovette ritirarsi senza aver ottenuto alcun risultato e i veronesi approfittarono del successo attaccando il castello di Rivoli Veronese sulla via del Brennero e conquistandolo dopo un lungo assedio: la principale via d’accesso alla penisola venne in tal modo tagliata definitivamente. Nelle sue discese successive, Federico fu costretto a utilizzare passi più lontani e scomodi. Lo smacco della politica sveva nella Marca non poteva essere più evidente, tanto dal punto di vista propagandistico quanto da quello più propriamente strategico.

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Anche gli alleati, dunque, scalpitavano, e per tenerli tranquilli l’imperatore dovette largheggiare in concessioni. Alla fine di maggio del 1164, mentre preparava la sua spedizione contro la Lega Veronese, Federico provvide ad assicurarsi l’appoggio delle due località strategiche di Mantova e di Ferrara, concedendo loro l’usufrutto delle regalie senza pagare alcuna somma. Dopo il fallimento della campagna, ad agosto, Pavia ottenne prerogative ancora più ampie, poiché le venne concessa la possibilità di scegliere liberamente i suoi governanti e la piena giurisdizione su tutta la diocesi. Nell’anno successivo, invece, Cremona riuscì a farsi esentare dal pagamento dei 200 marchi d’argento annui dovuti al fisco imperiale. Il rigido impianto di governo disegnato fra il 1158 e il 1162 si stava ormai disfacendo, di fronte alla crescente pressione dal basso. Ciò nonostante, Federico decise di ignorare il problema e affidò ancora una volta alle armi le sue speranze di un generale riassetto dell’intera situazione italiana una volta risolto il problema dello scisma papale. 3. Le città si ribellano Il Barbarossa rientrò in Germania nell’autunno del 1164 per dedicarsi ad alcune importanti iniziative volte al consolidamento del proprio dominio e culminate nella canonizzazione di Carlo Magno, proclamato santo ad Aquisgrana nel Natale del 1165. L’elevazione agli altari del primo imperatore germanico proiettava una luce sacrale su tutti i suoi successori, fra cui Federico stesso. Nonostante il grande successo propagandistico di quest’atto, non cessarono né i malumori delle città italiane né la tenace opposizione di papa Alessandro III, sicché Federico, raccolte nuove forze, tentò ancora una volta di trovare una soluzione militare ai problemi del suo dominio. Alla fine del 1166, radunato un esercito di almeno 10.000 cavalieri rafforzato da un contingente di mercenari del Brabante, egli discese nella penisola attraverso la Val Camonica, aggirando così l’ostacolo rappresentato da Verona e dalle altre città della Marca a lui ostili. L’obiettivo imperiale, infatti, non era il piccolo gruppo di comuni ri-

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belli, ma Roma, nella quale papa Alessandro III era rientrato durante l’anno precedente. In più, la morte del re di Sicilia Guglielmo I, a cui era succeduto il figlio minorenne, Guglielmo II, apriva promettenti prospettive di espansione anche nel Meridione, una volta risolta la questione dello scisma pontificio. All’arrivo di Federico in Lombardia fu subito chiaro che il sistema di governo costruito solo quattro anni prima stava già collassando sotto l’ondata del malcontento generato da dispotismo e fiscalità. L’imperatore fu immediatamente sommerso dalle proteste, ma perse una grande occasione rifiutandosi di riformare l’apparato oppressivo da lui stesso costruito: nel novembre del 1166, nel corso di una dieta a Lodi, i rappresentanti delle città lombarde si presentarono supplici e vestiti di sacco, chiedendo un alleggerimento dei gravami, ma il Barbarossa, avendo fretta di puntare verso il Meridione, non diede loro retta. Anzi, percependo chiaramente la ribellione latente, per meglio coprirsi le spalle accentuò la stretta repressiva, devastando i contadi di Brescia e di Bergamo e chiedendo decine di ostaggi alle comunità di Brescia, Milano e Bologna. Poi, raccolti alcuni contingenti di cavalieri alleati, Federico ripartì verso sud, dirigendosi verso Ancona. Sulla politica imperiale di questi anni è estremamente efficace il lapidario giudizio di Bosone: il Barbarossa volle «essere temuto, piuttosto che amato». Era, però, la scelta sbagliata. La presenza del Barbarossa in Italia, alla testa di un’armata di considerevoli dimensioni, non bastò infatti a frenare il desiderio di autonomia delle città settentrionali. L’iniziativa fu presa dai cremonesi, già fedelissimi alleati di Federico, ma ora assai scontenti della piega presa dalla politica imperiale. L’8 marzo 1167 i consoli di Cremona, Bergamo, Mantova e Brescia si riunirono, si promisero appoggio reciproco per i successivi cinquant’anni, impegnandosi a ratificare l’accordo entro l’ottava di Pasqua, o prima, nel caso che Federico fosse giunto con il suo esercito in Lombardia. Ci si preparava, dunque, a un confronto armato con l’imperatore, al quale si intendeva assicurare fedeltà soltanto nel caso si fosse accontentato di quelli che erano i diritti rivendicati dai suoi predecessori fino al regno di Corrado III (1137-1152). Gli alleati negavano dunque la validità delle

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leggi di Roncaglia e delle decisioni prese in seguito dal Barbarossa, percepite come una violazione della consuetudine di governo dei territori italiani consolidatasi nella prima metà del secolo. Contemporaneamente, i rettori dei quattro comuni, affiancati da quelli di Ferrara, si impegnarono ad aiutare i milanesi a ricostruire la loro città. Forse alla fine di quello stesso marzo, i milanesi prestarono giuramento a loro volta su alcuni patti destinati a garantire i territori di Cremona e di Bergamo, impegnandosi a non ricostruire Crema, a non edificare fortificazioni fra Lecco, l’Adda e l’Oglio, a non percepirvi tasse o pedaggi. La tradizione ha tramandato questi accordi sotto il nome di «giuramento di Pontida», asserendo che furono appunto conclusi nel monastero di Pontida, a cavallo fra il territorio di Milano e quello di Bergamo, ma in realtà nessun documento contemporaneo menziona l’abbazia. Il 27 aprile, infine, sotto la scorta degli eserciti di Bergamo, Cremona e Brescia schierati in armi, gli abitanti di Milano poterono tornare nella loro città. I pavesi, che nelle settimane precedenti avevano minacciato di assalire i milanesi e di deportarli nuovamente, non furono in grado di intervenire e dovettero assistere impotenti alla ricostruzione della città rivale. Nel maggio successivo, l’alleanza si allargò a Lodi – obbligata ad aderire a seguito della minaccia militare cremonese, ma che ottenne comunque ampie garanzie dai milanesi sulla propria autonomia, sul controllo del contado e sul libero transito delle merci e dei mercanti – e a Piacenza, alla quale a loro volta i cremonesi promisero di restituire terre e diritti di pedaggio di cui si erano ingiustamente impossessati con l’appoggio imperiale. Come Milano, anche Lodi e Piacenza avrebbero visto le loro fortificazioni ricostruite con un contributo collettivo, in maniera da esser pronte a fronteggiare eventuali contrattacchi imperiali. Al momento la Lega era composta da un nocciolo compatto di città – Cremona, Milano, Brescia, Bergamo, Mantova e Lodi – con il baricentro più o meno sul corso dell’Adda, saldamente congiunte con i comuni veneti già ribellatisi nel 1164, in grado di prestarsi facilmente aiuto reciproco e di controllare le vie di comunicazione fra Nord e Sud Italia. Gli accordi erano

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ancora stipulati con la clausola che salvaguardava la fedeltà all’imperatore Federico, ma all’atto pratico essi violavano esplicitamente le leggi di Roncaglia, sicché non potevano esservi dubbi sul loro significato eversivo. La Lega assunse rapidamente l’iniziativa militare nel Settentrione. Dopo gli attacchi a Lodi, l’esercito milanese e quello bergamasco si rivolsero verso il castello di Trezzo sull’Adda, che Federico aveva rinforzato con una grande torre e dove era stata concentrata una gran parte delle ricchezze raccolte dai podestà imperiali. Le forze comunali dimostrarono le loro grandi capacità belliche costruendo una torre e altre macchine d’assedio, nonché un ponte di legno per valicare il fiume. Con questo apparato, il 10 agosto, ottennero la resa della guarnigione tedesca che ebbe salva la vita e venne tradotta in catene a Milano. La fortezza fu rasa al suolo e i beni che conteneva andarono ad arricchire le casse dei due comuni assedianti. Certo, non tutti i cittadini erano compatti in queste scelte e non mancarono i tentativi di opposizione da parte di coloro che avevano instaurato buoni rapporti con i funzionari imperiali e che grazie a costoro si erano arricchiti o avevano acquisito nuovi poteri. Alcuni cavalieri lodigiani, dopo l’adesione della città alla Lega, si rifugiarono a Pavia, anche se dopo breve tempo decisero comunque di ritornare in patria. Pure a Piacenza una parte dell’aristocrazia era favorevole all’imperatore, dal cui governo era riuscita a trarre vantaggio: nel dicembre del 1167, dopo diversi scontri armati, venne allontanata dalla città. 4. Vittoria e umiliazione Mentre nell’Italia settentrionale la situazione precipitava, Federico avanzava verso sud alla testa del suo possente esercito, al quale si erano aggiunti i contingenti dei suoi alleati italiani, quali uno schieramento di cavalieri cremonesi guidati da Egidio da Dovara, e uno di lodigiani, fra cui il cronista Acerbo Morena. Le forze imperiali marciavano divise in due colonne: sulla costa adriatica procedeva lo stesso Barbarossa, che si impegnò nel-

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l’assedio di Ancona, ultima base operativa dei Bizantini in Italia, progettando poi di procedere all’invasione del regno di Sicilia; sul lato tirrenico, invece, le truppe erano guidate da Rainaldo di Dassel e da Cristiano di Magonza. Alla fine di maggio i romani tentarono di prevenire l’assalto alla città e attaccarono a loro volta le truppe federiciane, approfittando della loro divisione. Il 29 maggio, un contingente di un migliaio di cavalieri tedeschi e lombardi, sempre alla guida di Rainaldo di Dassel e di Cristiano di Magonza, fu sorpreso a Tuscolo dalla massa dell’esercito romano, composto da diverse migliaia di combattenti a piedi e a cavallo. Gli imperiali, però, seppero prima resistere brillantemente e poi, grazie all’arrivo di rinforzi, scagliare un micidiale contrattacco che causò lo sbandamento e l’annientamento delle forze civiche, che lasciarono sul terreno un gran numero di caduti e di prigionieri. Roma si trovò improvvisamente in balia del Barbarossa che, lasciata precipitosamente Ancona, marciò a tappe forzate verso l’Urbe. L’imperatore pose il campo a Monte Mario, al fine di attaccare la città dalla sponda destra del Tevere. Alla fine di luglio l’esercito teutonico si mosse e, dopo aspri combattimenti, si impadronì di San Pietro e delle fortificazioni adiacenti. A questo punto, ogni resistenza parve inutile e la maggior parte della popolazione si mostrò disposta ad accettare la resa e a riconoscere Pasquale III quale pontefice. Alessandro III si era arroccato nel Colosseo, trasformato in una fortezza, affiancato dai suoi ultimi seguaci, capitanati dai nobili delle famiglie Frangipane e Leoni, che non intendevano abbandonare il legittimo pontefice. Alla fine, il papa lasciò di nascosto la città travestito da pellegrino, trovando rifugio dapprima nel territorio normanno, poi nella città di Benevento che apparteneva allo Stato pontificio. Il 29 luglio, il Senato romano si schierò dalla parte dell’imperatore e il giorno successivo Pasquale III fu solennemente insediato in San Pietro, per incoronarvi due giorni più tardi Federico e sua moglie Beatrice. Il conflitto sembrava dunque aver preso una piega del tutto favorevole agli imperiali e probabilmente Federico non si preoccupò troppo delle cattive notizie che giungevano dal Settentrione, do-

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ve la guarnigione tedesca di Trezzo implorava soccorsi per resistere agli attacchi dei milanesi e dei bergamaschi. Una rapida riscossa militare sarebbe avvenuta anche in Lombardia una volta schiacciate le ultime resistenze dei partigiani di Alessandro. La situazione fu però improvvisamente ribaltata nei primi giorni di agosto, quando una violentissima epidemia, forse di malaria, colpì l’esercito imperiale accampato all’esterno delle mura, presso il Vaticano. Vi fu una vera e propria strage tra le file dei cavalieri tedeschi, le cui perdite superarono i 2.000 uomini. Anche i comandanti della spedizione non furono risparmiati: sappiamo per certo che morirono Rainaldo di Dassel, il più stretto e fidato collaboratore di Federico, e suo fratello Ludolfo, i vescovi Alessandro di Liegi, Corrado di Augusta, Goffredo di Spira, Eberardo di Ratisbona, Ermanno di Verdun e Daniele di Praga, gli ultimi due già vicari imperiali nel Settentrione, il duca di Svevia Federico di Rothenburg, cugino dell’imperatore, Teobaldo di Boemia, e Guelfo VII di Baviera. Non mancarono i caduti anche fra gli alleati italiani: il suo continuatore lodigiano ci narra ad esempio la misera fine di Acerbo Morena, che riuscì a raggiungere, ammalato, Siena, dove però si spense agli inizi di ottobre, dopo settimane di agonia. Con una certa dose di malevolenza, alcuni storici tedeschi attribuiscono la nascita della Lega Lombarda al periodo successivo all’epidemia che aveva colpito l’esercito imperiale, mentre la documentazione esistente attesta senza dubbio che i comuni decisero di allearsi e di procedere alla ricostruzione di Milano almeno quattro mesi prima che la catastrofe si producesse. Federico si trovò comunque in una fase particolarmente delicata, poiché la situazione politica nel Settentrione e le gravi perdite subite dalle sue forze non gli consentivano né di proseguire la campagna verso il regno di Sicilia, né di rimanere a Roma, con il rischio di venire isolato dalla madrepatria. Si noti, peraltro, che non è il caso di presentare troppo drammaticamente la situazione dell’imperatore. Se, come affermano le fonti coeve, il suo esercito era costituito da almeno 10.000 uomini, i 2.000 morti dell’agosto 1167 non rappresentavano che il 20% delle forze disponibili. Anche ammesso che una parte dei superstiti

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fosse debilitata dalle conseguenze della malattia, al Barbarossa restava comunque a disposizione una quantità tutt’altro che trascurabile di combattenti. Il colpo, comunque, fu duro, anche dal punto di vista del morale, dato che era difficile non cedere alla suggestione di vedere dietro all’improvvisa moria la mano di Dio, adirato per la profanazione dell’Urbe e per l’esilio inflitto al pontefice legittimamente eletto. Il 6 agosto l’imperatore, dopo aver nominato un proprio governatore destinato a reggere la città, lasciò precipitosamente Roma, attraversò il territorio di Viterbo ed entrò in Toscana, muovendo verso Pisa. Sulla via del ritorno, però, egli dovette rinunciare a muoversi attraverso il passo della Cisa, poiché i pontremolesi, secondo alcune fonti affiancati da milizie delle città lombarde, gli sbarrarono il passo. Federico non osò impegnarsi in battaglia con le sue truppe stanche e demoralizzate e, su consiglio del marchese Obizzo Malaspina, si ritirò passando per vie impervie più a occidente e raggiunse indenne Tortona. Agli inizi di settembre il Barbarossa si portò a Pavia, dove riorganizzò le proprie forze, alle quali aggiunse le truppe degli alleati piemontesi. Egli aveva con sé ancora una parte dei cavalieri teutonici, i temibili mercenari brabantini, l’esercito pavese e contingenti forniti dai nobili Obizzo Malaspina, Guido di Biandrate e Guglielmo di Monferrato. Ancora, gli giunsero rinforzi da Novara e Vercelli. In tal modo, Federico colmò le perdite causate dall’epidemia e si sentì in grado di riprendere l’iniziativa, sicché il 21 settembre pose al bando le città ribelli con l’eccezione di Lodi e Cremona, che sperava di recuperare alla causa imperiale. La situazione era ancora molto fluida, poiché in pochi mesi i milanesi non avevano potuto ricostruire le mura e la metropoli ambrosiana si presentava vulnerabile a un’eventuale puntata offensiva nemica. Lo stesso valeva per Piacenza. Federico era giunto a disporre nuovamente di una valida massa di uomini, che furono presto gettati nella mischia nella speranza di portare un colpo decisivo alle truppe comunali prima che si fossero completamente riorganizzate. Il 26 settembre gli imperiali valicarono il Ticino devastando gli importanti borghi di

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Rosate, Magenta, Corbetta e Abbiategrasso, ma senza osare spingersi direttamente contro Milano. La nuova alleanza cittadina, infatti, era motivata e combattiva e seppe reagire prontamente alla minaccia. A Lodi era stata concentrata una vera e propria riserva strategica composta da cavalieri di Brescia, Bergamo e della stessa Lodi, mentre a Piacenza vi erano i cremonesi e i parmigiani. Non appena giunse la notizia dell’attacco imperiale, tutte queste forze conversero su Milano causando l’immediato ripiegamento di Federico. Senza por tempo in mezzo – senza neppure scendere da cavallo, afferma l’anonimo cronista lodigiano – questi ripartì all’offensiva verso il territorio piacentino. A loro volta, i militi comunali accorsero a presidio di Piacenza, sicché anche questa volta l’imperatore non poté conseguire alcun risultato importante. Per buona parte di ottobre e di novembre i teutonici e i pavesi effettuarono incursioni nel contado di Piacenza e in quello di Lodi, limitandosi però a saccheggiare le campagne, senza impegnar battaglia contro gli avversari. Queste spedizioni furono più un segno di rabbia e di esasperazione che un atto dotato di reale efficacia militare. Fra la popolazione del contado piacentino, in seguito, vennero ricordate come le «arsaglie» (ossia incendi) imperiali, a testimoniare il carattere gratuitamente distruttivo della campagna autunnale del Barbarossa. Per descriverne l’impatto sulle popolazioni, diamo la parola a un contadino, Giovanni Basso di Mondonico, un villaggio sito a poca distanza dal confine fra Piacenza e Pavia, che durante un processo tenutosi nel 1184 rievocò con singolare precisione le conseguenze locali dell’attacco, testimoniando come gli eventi narrati dai cronisti si abbattessero nella realtà sulla vita quotidiana delle persone. Leggiamo dunque il testo, salvaguardandone la sintassi approssimativa da cui traspare tutta la vivacità del parlato: prima della festa di Ognissanti, quell’anno l’imperatore e i pavesi distrussero tutto il villaggio di Mondonico e depredarono e derubarono il villaggio e vidi che presero le campane della chiesa del villaggio di Torre e se le portarono dietro, e poi una non la riottenemmo, l’altra la

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recuperammo dagli uomini del contado di Pavia per 12 soldi pavesi [...]. Io stesso ero nascosto in una casa e gli uomini di Broni mi spogliarono e, poiché li pregai a nome del signor Razone di Broni, mi lasciarono le scarpe, le braghe e una camicia di bassa qualità, ma portarono via tutto il resto di ciò che avevo con me; e mentre stavo nascosto vedevo e sentivo i cavalieri chiamare ‘cavaliere di Pavia, cavaliere di Pavia!’ e io e i miei vicini perdemmo tutto in quella spedizione.

Esauritasi senza alcun risultato concreto l’offensiva autunnale, Federico si trovò in una situazione priva di sbocco. Anzi, si faceva fin troppo concreto il rischio che le forze della Lega potessero porre l’assedio a Pavia e intrappolarvi l’imperatore con quanto restava del suo esercito. Di fronte a tale situazione, il Barbarossa decise di rientrare in Germania, cosa però non facile visto che quasi tutti gli itinerari che portavano ai passi alpini erano controllati dalle forze cittadine. Si optò dunque per un percorso lungo l’itinerario occidentale, risalendo la Val di Susa verso il Moncenisio e attraversando la Savoia, per poi raggiungere i territori imperiali della Borgogna. Anche questa soluzione presentava un problema, perché il conte di Savoia, Umberto III, era ostile a causa di alcune rivalità territoriali ai confini fra Savoia e Borgogna e per le rivendicazioni imperiali sulla contea di Torino. Federico dovette pagare a caro prezzo il permesso di transito, come testimonia ancora una volta Giovanni di Salisbury: «il marchese di Monferrato si mise a intercedere con suo cognato, il conte di Moriana, perché permettesse all’imperatore di ritirarsi, promettendogli non solo la restituzione di quello che gli era stato portato via, ma anche montagne d’oro e il favore eterno dell’Impero». La definitiva umiliazione imperiale, però, non si era ancora del tutto consumata. Il dramma finale avvenne a Susa, dove Federico e il suo seguito avevano trovato alloggio. Qui, il 9 marzo 1168, giunse a Federico la notizia che le milizie di Vercelli e di Novara avevano assalito il castello di Biandrate, catturandovi la guarnigione teutonica, triste segnale che lo schieramento imperiale stava crollando anche in Piemonte. Come vendetta, l’imperatore fece uccidere uno degli ostaggi che aveva preso due anni prima e che lo avevano seguito per tutta Italia, il bresciano Gi-

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lio Prandi, impiccato a un albero su di un’altura. L’atto scatenò la reazione degli abitanti di Susa che, vuoi per paura di rappresaglie da parte delle città lombarde, come afferma Goffredo da Viterbo, vuoi perché solidali con le aspirazioni comunali che animavano tutta l’Italia, sbarrarono le porte della città e le presidiarono, strappando ai loro custodi i prigionieri ancora in mano tedesca. Federico, che si trovava in città, corse il rischio di venir imprigionato all’interno delle mura: Goffredo da Viterbo ne narra con toni romanzeschi la fuga, affermando che egli dovette allontanarsi di nascosto mentre un cavaliere a lui somigliante lo impersonava per trarre in inganno i segusini. 5. La Lega Lombarda Mentre Federico era ancora bloccato impotente a Pavia, un solenne giuramento di alleanza fu pronunciato il 1° dicembre 1167 fra le città lombarde e quelle della Marca. La prima Lega fra le città del 1167, che noi chiamiamo tradizionalmente Lombarda, si allargava in tal modo e assumeva il nome di «associazione [societas] della Lombardia e della Marca Veronese». Essa riuniva un imponente numero di città settentrionali: le «lombarde» Cremona, Brescia, Bergamo, Milano, Piacenza, Lodi, Parma e Mantova, le «venete» Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso e Ferrara. Esplicitamente, l’intento degli aderenti era impedire che venisse loro richiesto più di quanto era stato «fra il tempo di re Enrico [V] e l’avvento dell’imperatore Federico». Tutte le decisioni imperiali a partire dal 1152 venivano dunque rinnegate, con particolare riguardo alle due diete di Roncaglia. Le città si preparavano anche a una nuova guerra, stabilendo di reagire unite alle aggressioni, di rifondersi reciprocamente i danni, di perseguire in maniera concorde i traditori filoimperiali. Il 28 dicembre Novara aderì alla Lega. La fuga dell’imperatore dall’Italia segnò il tracollo di quanto restava della sua rete di alleanze nel Settentrione. Il 12 marzo 1168 Tortona veniva ricostruita con la protezione militare di Parma e Piacenza; il 20

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Belluno

Trento

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Como

Aquileia

Bergamo

6

Ivrea

Treviso Brescia

Milano

Novara

Crema

Verona

Vercelli

1 Torino

Pavia

Lodi

Trieste

Grado

Vicenza Venezia

Padova Cremona

Mantova

Chieri Tortona

Asti

7

Ferrara

8 9

10

11

Prato

Fiesole Firenze

Pisa

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Pistoia Lucca

Cesena Rimini

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Luni

Ravenna

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Savona

3

Comacchio

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5

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2 4

Piacenza

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San Gimignano Volterra

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Siena Montepulciano

Fano Senigallia Ancona Città di Castello Gubbio Fabriano

Urbino

Perugia Assisi

Chiusi

13

Foligno

12

Orvieto Todi

Spoleto Penne

N Viterbo

MAR TIRRENO

Roma

LA LEGA LOMBARDA 1 2 3 4 5

Monferrato Saluzzo Clavesana Ceva Carretto

  6   7   8   9 10

Savoia Pelavicino Fieschi Malaspina Alberti

11 12 13 14 15

Guidi Aldobrandeschi Stato della Chiesa Principato di Trento Patriarcato di Aquileia

Limiti approssimativi dei contadi Città aderenti alla Lega nel 1167 Città che hanno aderito alla Lega entro il maggio del 1168

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marzo anche Como entrò nella Lega in cambio della promessa da parte dei milanesi di rinunciare a tutte le acquisizioni fatte nel territorio comasco dal 1108 e di risolvere per arbitrato le vertenze di confine fra le due città. Si trattava di un’acquisizione preziosa poiché la città lariana controllava le principali vie d’accesso ai valichi delle Alpi centrali. In questo modo, dal Brennero al Sempione, tutte le strade che dalla Germania portavano direttamente in Lombardia e in Veneto erano nelle mani della Lega. Nel maggio del 1168 si erano aggiunte anche Bologna, Vercelli, Asti, Tortona e Alessandria. L’area d’azione dell’alleanza si era così estesa notevolmente verso Ovest. Vi era entrato anche il primo, grande signore territoriale, il marchese Obizzo Malaspina, che soltanto l’anno prima aveva garantito il ripiegamento di Federico attraverso gli Appennini. L’accordo stipulato fra queste città il 3 maggio, in una grande assemblea svoltasi a Lodi, cominciava a superare l’aspetto puramente militare. Federico era fuggito in Germania, l’autorità imperiale in Italia risultava vacante e la Lega si organizzava per supplirvi, garantendo la pacifica convivenza fra tutti i suoi membri. Si assicurava così che fra gli aderenti alla coalizione non vi fossero rappresaglie arbitrarie, che nessuno accogliesse i cittadini banditi dagli altri, che non venissero introdotti nuovi pedaggi e fossero aboliti quelli istituiti nei trent’anni precedenti, e che non si stipulassero accordi o alleanze che venissero a pregiudizio o fossero ostili verso la Lega stessa. Si vietava, infine, di acquisire nella giurisdizione di una città castelli e castellani che appartenessero ad altri, con l’eccezione di Alessandria, che, dovendo costituirsi un territorio, aveva il diritto di assoggettare i centri vicini. Nella stessa occasione entrò nell’alleanza anche Pavia, in seguito a una violenta campagna militare, condotta in particolare dai piacentini e dai cremonesi, che aveva visto questi ultimi devastare i territori dell’antica capitale regia e minacciare di porre l’assedio alla città. Anche Biandrate fu assalita ed espugnata. Federico vi aveva lasciato una guarnigione di tedeschi che furono tutti massacrati, ad eccezione di dieci uomini, come rappresaglia per l’omicidio di Gilio Prandi. Nel 1170 vi fu anche un’offensiva coordinata contro Guglielmo di Monferrato, in seguito

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alla quale il marchese stipulò un trattato di pace con i vercellesi, cedendo loro il controllo di vasti territori. In seguito, anche Casale Sant’Evasio (oggi Casale Monferrato) fece lo stesso: la Lega, in tal modo, nell’arco di due anni consolidò notevolmente le sue posizioni nell’area piemontese. Si ebbe invece un fallimento con Genova che, nonostante le pressioni diplomatiche, si rifiutò di entrare a far parte dell’alleanza e preferì salvaguardare il proprio rapporto con l’Impero, soprattutto in funzione antipisana. Le città toscane non aderirono alla Lega, ma nondimeno dopo il 1168 l’ordinamento imperiale della regione venne sostanzialmente scardinato. Sebbene l’Impero avesse conservato il controllo della rocca di San Miniato e di altri castelli, le città, tanto quelle rimaste filoimperiali quanto quelle schieratesi con Alessandro III, ripresero con vigore il processo di allargamento del loro potere sulle campagne, obbligando sulla difensiva quelle grandi dinastie aristocratiche che Federico aveva poco diplomaticamente favorito negli anni precedenti. Nell’ottobre del 1169, si svolse a Cremona una grande riunione della Lega, ora detta di Lombardia, della Marca, di Venezia e della Romagna. In quell’occasione l’alleanza nominò appositi ufficiali, i «rettori», al fine di coordinare l’azione dei diversi membri. Secondo il testo del giuramento che dovevano pronunciare al momento dell’insediamento, i rettori si impegnavano a partecipare a tutti i parlamenti, o comunque a garantire la presenza di un altro ufficiale cittadino e promettevano di non ricavare alcun vantaggio personale dalla loro attività. Essi potevano imporre contribuzioni straordinarie ai membri dell’alleanza, ma sempre in proporzione alle possibilità delle singole città. Potevano discutere delle cause che venivano loro presentate e risolverle, eventualmente anche a maggioranza, secondo la ragione e secondo quei «buoni costumi» tradizionali che l’imperatore si era rifiutato di riconoscere. I comuni aderenti si impegnavano per tutto il tempo della discordia fra Federico e le città a non ricorrere a lui per alcun motivo senza il permesso dei rettori. Si delineava dunque il tentativo di costruire un organismo concorrente e alternativo all’Impero, al quale sottrarre quel

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ruolo di pacificatore e di giudice che ne rappresentava, agli occhi dei sudditi italiani, la principale ragion d’essere. I fini dell’alleanza, infatti, non erano solo militari. Le città miravano sì a garantirsi la difesa reciproca nel caso di un’aggressione da parte dell’imperatore, ma molto rapidamente provvidero ad allestire un vero e proprio apparato di governo sovracomunale. Ai patti militari, molto ampi e generici, si affiancavano dunque accordi precisi – spesso conclusi bilateralmente fra i diversi membri dell’alleanza – che proclamavano la libertà di commercio, regolavano la riscossione dei dazi, risolvevano con l’intervento di commissioni arbitrali questioni di confine spesso vecchie di decenni, se non di secoli. Col passare degli anni, i poteri dei rettori divennero sempre più ampi e nei propri documenti adottarono formule ricalcate su quelle della cancelleria imperiale. Per convalidare gli atti la Lega si diede un proprio sigillo, alternativo a quello imperiale e a questo speculare: il simbolo del sovrano era un’aquila con la testa rivolta a destra, mentre quello delle città era un’aquila col capo volto a sinistra. Anche nella sua iconografia, dunque, l’alleanza intercittadina si proponeva quale potenza sovrana, alternativa all’Impero, con la medesima legittimazione di cui disponevano i singoli comuni: si trattava di una federazione di città che, aderendo, le avevano conferito una quota di quei poteri di cui a loro volta esse disponevano essendo abitate da comunità di uomini liberi. Il progetto era rivoluzionario, ma in realtà non esplicitamente sovversivo. Rimaneva infatti sottinteso che questa era una soluzione di emergenza e che i membri della Lega erano in ogni momento pronti a riconoscere l’autorità imperiale nel momento in cui questa avesse cessato di minacciare la loro libertà e si fosse accontentata di quelle prerogative attribuitele da una consuetudine ormai secolare. La Lega aveva il vantaggio di poter contare sull’appoggio incondizionato del pontefice. Papa Alessandro III investì grandi risorse morali e materiali per sostenere l’alleanza dei comuni avversi a Federico. Già nel 1167 egli colpì duramente le città e i vescovi che parteggiavano per l’antipapa: il vescovo di Mantova, Garsedonio, fu scomunicato; quello di Cremona, Presbitero

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di Medolago, venne condannato e la popolazione lo obbligò a lasciare la città; l’intera città di Siena venne sottoposta a interdetto. Galdino, arcivescovo di Milano, col titolo di legato pontificio contribuì in maniera decisiva a intessere la rete diplomatica antimperiale in tutto il Settentrione, impegnandosi in un’intensa azione volta a favorire i comuni e gli enti ecclesiastici schierati a favore di Alessandro III. Altri cardinali, fra il 1168 e il 1171, furono inviati nell’Italia settentrionale al fine di consolidare l’alleanza e il suo legame con il papato, colpendo gli aderenti allo scisma e favorendo con privilegi ed esenzioni chi si schierava col fronte antimperiale. La testimonianza più esplicita del diretto intervento di Roma nella costituzione dell’alleanza è data da un atto del 27 marzo 1170, la bolla Non est dubium con la quale Alessandro III prese sotto la sua protezione le città della Lega Lombarda. Il piano ecclesiastico e quello civile si intrecciavano indissolubilmente e pesanti sanzioni spirituali, non prive di risvolti pratici, venivano comminate a chi avesse minacciato l’alleanza. Scomunica per chi avesse creato nuove associazioni rivali e per chi avesse generato conflitti fra le città aderenti, censure minori per chi disobbediva ai rettori e, minaccia particolarmente pesante, rimozione della sede episcopale dalle città che avessero lasciato l’alleanza. Al di sopra del pontefice, d’altronde, anche Dio sembrava decisamente favorevole allo schieramento cittadino. Chi, all’epoca, avrebbe potuto negare che l’epidemia che falciò l’esercito imperiale nel 1167 fosse un chiaro segno della collera divina per la tentata cattura del legittimo pontefice? L’attività della Lega era volta principalmente alla soluzione dei conflitti intercittadini. Di solito si cercava di trovare una mediazione che soddisfacesse tutti i contendenti, ma talvolta l’alleanza agiva con autorità, come avvenne ad esempio il 14 dicembre 1168, quando il console di Cremona Albertone, in presenza di rappresentanti dei comuni di Milano, Piacenza, Parma e Modena, ordinò al comune di Reggio di non molestare i signori di Cavriago, e che lo stesso facessero Parma e Modena, dando così seguito a «tutti gli ordini dati dalle diciannove città della Lega Lombarda». Gli effetti di tali decisioni giungevano

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anche nei piccoli villaggi: in alcune testimonianze rese nel 1184, i contadini degli abitati situati al confine tra Piacenza e Pavia si ricordavano bene della grande assemblea della Lega svoltasi a Lodi, il 20 febbraio 1173, durante la quale i rettori cercarono di risolvere le liti fra le due città per il controllo di quelle località minori e della decisione ivi presa, favorevole a Pavia. Oltre ai documenti ufficiali, anche altre fonti ci consentono di analizzare la vivacissima attività dell’alleanza, restituendoci l’immagine di un organismo estremamente vitale e dalle ampie competenze, non solo militari. Un rendiconto di entrate e uscite del comune di Piacenza per l’anno 1170, fortunatamente conservatosi, ci permette di ricostruire l’intenso lavorio diplomatico che permeava i rapporti fra le città aderenti. In quell’anno, infatti, il comune di Piacenza inviò lettere e messaggeri a Tortona, a Cremona, a Parma, a Pavia, a Como, a Mantova e a Venezia. A Milano si ebbe un rinnovo solenne del giuramento della Lega, al quale parteciparono, per Piacenza, Obizzo de Porta e Arnaldo degli Arcelli, probabilmente consoli cittadini. A Piacenza prima e a Verona poi si tennero due «parlamenti» solenni fra tutte le città, ai quali parteciparono i consoli e i rettori. Lunghe trattative si svolsero fra Como, Milano e Lodi per concludere gli accordi territoriali fra Milano e Como, con l’intervento di esperti provenienti da tutte le città della Lega. Sappiamo da altri atti che le vertenze di confine tra i due comuni furono in effetti risolte nel settembre di quell’anno, grazie alla mediazione e al consiglio degli uomini di Cremona, Pavia, Bergamo, Brescia, Parma e Piacenza. Intensissima fu anche l’attività militare. In primo luogo l’esercito piacentino fu impegnato nella conquista del castello di Pietra Parcellara, sito in Val Trebbia e appartenente ai marchesi Malaspina. Per l’operazione, coronata da successo, fu richiesto anche l’intervento dei cremonesi. Inoltre, una grande spedizione lanciata contro Guglielmo di Monferrato vide la partecipazione di almeno cinquanta cavalieri piacentini e di due balestrieri, che costarono alle casse comunali 148 lire. L’operazione, condotta in cooperazione con altre città, ebbe successo e il marchese dovette concludere un trattato di pace con il comune di

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Vercelli, aderente alla Lega, cedendogli terre e diritti. Il documento piacentino menziona ancora una campagna contro i mantovani, probabilmente seguaci del vescovo scismatico Garsidonio, e l’invio di due arcieri a Milano (ma si ignorano le motivazioni del fatto). Mentre il Barbarossa prolungava la sua assenza, rimanendo in Germania per ricostruire le proprie forze, la Lega dimostrava un’eccezionale capacità di azione economica, diplomatica e militare, dispiegando la sua autorità su quasi tutta l’Italia settentrionale. Gli atti simbolici non erano meno importanti di quelli pratici. Le città aderenti alla Lega adottarono una gamma di emblemi condivisi, che ne rendevano evidente l’unione di intenti. Molte città, ad esempio, imitarono l’uso milanese di accompagnare l’esercito con un carro su cui era elevato il gonfalone civico. Il primo carroccio fu costruito nel 1170 a Bologna e subito portato al campo di battaglia contro Faenza. Come vedremo, nel 1175 avevano carrocci anche Parma, Verona, Piacenza e Brescia. Altro evento particolarmente importante fu la ricostruzione, nel 1171, come attesta una lapide giunta sino a noi, delle porte di Milano, grazie anche ai sussidi finanziari forniti da Manuele Comneno. Anche simbolicamente, la ferita inferta nove anni prima dal Barbarossa era stata sanata e la metropoli era pronta a riprendere il suo ruolo di leader delle città avverse all’imperatore. 6. Una nuova città Nel frattempo, tra la fine del 1167 e l’inizio del 1168, la Lega assunse un’iniziativa particolarmente clamorosa, che colpì profondamente l’opinione pubblica del tempo e inflisse una cocente umiliazione all’imperatore. Con l’appoggio determinante dei comuni antimperiali, infatti, nacque in quel periodo una nuova città: Alessandria. Il villaggio di Rovereto, dotato di castello, dominava da una modesta altura il ponte con cui l’antica via Marenca valicava il Tanaro. Era fronteggiato, sulla sponda sinistra del fiume, dall’a-

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bitato di Bergoglio. L’area era di grande interesse, in quanto permetteva di controllare il corso del Tanaro, allora navigabile, le comunicazioni fra Pavia e il Monferrato e, soprattutto, le strade che portavano verso Genova attraverso il passo dei Giovi e quello del Turchino. Inoltre, la zona era circondata da antiche corti appartenenti alla corona e, sebbene la sovranità teorica spettasse al sovrano, in realtà la rete dei poteri era labile e incerta. I marchesi di Monferrato, probabilmente, vi rivendicavano l’esercizio dei diritti pubblici, ma si trattava di località marginali rispetto al cuore del marchesato e non è facile stabilire se veramente essi fossero in grado di esercitare la propria autorità. Attorno alle fortificazioni di Rovereto cominciarono a raccogliersi, forse per iniziativa spontanea, gruppi di famiglie provenienti da altri abitati della zona, quali Bergoglio, Marengo, Gamondio, Solero, Foro, Oviglio e Quargnento. Si trattava di persone di diverso ceto sociale, accomunate dal desiderio di sottrarsi agli obblighi loro imposti dai marchesi e dagli altri signori locali. Ne nacque un grosso centro abitato, di cui le città alleate assunsero in fretta la tutela, promuovendone ulteriormente la crescita, proteggendolo militarmente dalla reazione dei Monferrato e assicurandogli stretti legami politici, commerciali e militari con il resto della Lombardia. Tutte le fonti dell’epoca, sia filoimperiali sia vicine ai comuni, attribuiscono in modo unanime alla Lega un ruolo decisivo nella fondazione del nuovo centro. L’annalista genovese Oberto Cancelliere ne parla come della «città nuova che i consoli delle città ‘della Lega’ avevano costruito e che chiamavano col nome di Alessandria»; per Bosone essa fu fondata «perché fungesse da sicura difesa e da saldo presidio a favore dei lombardi e offrisse il più grande degli ostacoli ai teutonici». Secondo la sua testimonianza, l’edificazione del nuovo abitato, presso il castello di Rovereto, avvenne sotto la tutela armata degli eserciti di Cremona, Milano e Piacenza, che, per evitare ritorsioni pavesi e monferrine, rimasero in zona finché non fu concluso il grande fossato difensivo. Sul fronte federiciano le idee non erano meno chiare, tanto che il cancelliere Goffredo da Viterbo mette lucidamente in evidenza un ulteriore aspetto dell’opera-

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zione compiuta dalla Lega, sottolineando che la nuova città attirò popolazione soprattutto dai vicini villaggi che facevano capo alle corti imperiali: «i liguri [ossia i lombardi] avevano fatto una città delle paglie fra Tanaro e Bormida» che era «circondata dai fiumi e fornita di popoli e di armi, sufficiente per vigneti, prati, cavalieri e pesci. Questa nuova pianta era circondata da terre fiscali, sicché l’imperatore la reputava appartenere a sé». Concordava pure un osservatore lontano come il canonico inglese Giovanni di Salisbury, che, sempre bene informato sulle cose d’Italia, in una lettera del giugno 1168 così narrava l’evento, quasi in presa diretta, al suo corrispondente Giovanni di Canterbury, vescovo di Poitiers: «i Lombardi, a infamia dell’imperatore, nel castello chiamato Rovereto costruiscono una città presso Pavia, che chiamano Alessandria in onore di papa Alessandro, a danno dei Pavesi». È dunque evidente come tutti gli osservatori dell’epoca, italiani e stranieri, rimarcassero il ruolo fondamentale della Lega nella nascita e nella promozione di Alessandria. Minimo, invece, sembra esser stato l’apporto dei genovesi alla nuova fondazione. Gli Annales Ianuenses (Annali di Genova), in effetti, ricordano che i governanti della Superba diedero 1.000 soldi agli alessandrini quale contributo per la loro nuova città, ma a ben vedere la cifra era tutt’altro che elevata: 1.000 soldi equivalevano infatti a 50 lire d’argento, una somma non trascurabile, sufficiente a comprare una casa di discreta qualità, ma sicuramente non tale da avere un ruolo decisivo nello sviluppo della città. Nella fondazione della città nuova sembrano invece aver pesato in modo ugualmente determinante sia l’iniziativa delle popolazioni locali sia la protezione che a questa iniziativa poté garantire la Lega. Senza la prima non vi sarebbe stato alcun nuovo insediamento, senza la seconda la fondazione non avrebbe potuto raggiungere in pochi mesi le dimensioni e l’importanza politica che invece ottenne. Probabilmente la ricostruzione più equilibrata è fornita da Romualdo Salernitano, che come al solito si rivela assai bene informato e dà il giusto peso a tutte le componenti che parteciparono all’impresa: «molti nobili e popolari oriundi delle terre del marchese, oppressi da lui con molte ingiurie e

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insolenze, non avendo più intenzione di sottostare alla sua insolenza, abbandonate le loro abitazioni si raccolsero uniti in una spianata e, con l’aiuto dei milanesi e degli altri lombardi, in quella spianata presero a costruire dal nulla una città e, per reverenza al papa Alessandro, la chiamarono Alessandria». Per l’alleanza dei comuni l’operazione aveva un valore materiale e uno simbolico. Il valore materiale era evidente: Alessandria controllava un importante ponte sul Tanaro e lo sbocco della valle Scrivia, indispensabile per i commerci con Genova. Forse maggiore, però, era l’importanza simbolica dell’atto. Alessandria non sarebbe stata solo un nuovo villaggio, come tanti ne stavano nascendo nelle campagne dell’epoca, ma era destinata a diventare una vera e propria città. Passaggio fondamentale, a tal fine, fu la sua elevazione a sede episcopale, promozione che venne subito assicurata dalla Santa Sede. La nomina del vescovo, in realtà, si fece aspettare a lungo a causa dell’opposizione del vicino episcopato di Acqui, ma ciò non impedì agli alessandrini di sentirsi «cittadini» a tutti gli effetti e agli alleati di trattarli come tali. Nel maggio del 1168 Alessandria aderiva alla Lega, dalla quale fu autorizzata ad assoggettare i castelli vicini al fine di costituirsi un territorio. I suoi rappresentanti, Oberto de Foro, Rodolfo Nebia e Aldemanno di Marengo, vennero definiti consoli della «nuova città». Nella documentazione ufficiale della Lega, dunque, si sottolineava esplicitamente l’intitolazione urbana, a rimarcare la precisa volontà dei coalizzati in tal senso. Fondare una civitas, però, era una prerogativa imperiale, strettamente riservata ai legittimi titolari del potere sovrano: evidentemente con questo atto i comuni italiani intendevano rivendicare la loro piena autonomia, anche in tal senso. Come vedremo, Federico non mancò di cogliere il drastico messaggio e al momento del suo ritorno in Italia si prefisse come principale obiettivo politico e militare la distruzione della città intitolata al papa suo rivale.

3. IL RITORNO DELL’IMPERATORE 1. Federico si rafforza Federico era tornato in patria umiliato. Sebbene possa sembrare un paradosso, il disastro romano del 1167 finì per volgersi largamente a suo favore in Germania. Era infatti prerogativa imperiale poter rivendicare il controllo dei beni delle famiglie nobili rimaste senza eredi diretti maschi. L’epidemia aveva ucciso una grande quantità di aristocratici e di giovani cavalieri, delle cui terre il Barbarossa poté così impadronirsi annettendole al demanio imperiale. I possedimenti della Corona in tal modo si allargarono considerevolmente, dato che Federico mise le mani su vasti territori che includevano tutta la Svevia centrale, sino alle coste del lago di Costanza e le contee di Pfullendorf, a nord di Costanza, e di Lenzburg, nell’attuale canton Argovia, in Svizzera. Un’altra importantissima acquisizione riguardò direttamente l’Italia: il potente duca Guelfo VI, zio di Federico, aveva perso suo figlio nella spedizione romana. Rimasto senza eredi, decise di vendere a Federico, in cambio di una forte somma di denaro, i suoi diritti in Italia sulla Sardegna, sul ducato di Spoleto, sulla Marca di Toscana e soprattutto sulle cosiddette «terre Matildiche», ossia sui beni che erano stati di Matilde di Canossa, morta senza lasciare eredi diretti, e che venivano perciò rivendicati sia dall’Impero sia dalla Chiesa. L’acquisizione di vasti territori in Germania fu perseguita con particolare intelligenza: Federico dedicò molta cura a incamerare o acquistare beni e signorie che gli permettessero di rendere

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più compatti i domini della sua famiglia o della Corona. Nacquero così delle vere e proprie «regioni reali», soprattutto in Alsazia, in Franconia e in Svevia, da cui fu estromesso ogni altro potere. Federico tentò di creare in queste zone una rete di castelli reali, in cui vennero insediati i «ministeriali», uomini di stato servile, ma dotati di ampie competenze amministrative quali rappresentanti del sovrano. In tal modo, il Barbarossa era ormai divenuto di gran lunga più ricco e potente di tutti gli altri principi tedeschi, nessuno dei quali era più in grado di rivaleggiare con lui. L’unica eccezione era costituita dal cugino di Federico, Enrico il Leone, che dominava la Sassonia e la Baviera. Enrico era stato uno dei più importanti fautori di Federico e ne aveva appoggiato le ambizioni in Italia, ricevendone in cambio mano libera per condurre un’imponente opera di espansione e di conquista nella Germania settentrionale. Il duca di Baviera aveva intrapreso imponenti opere edilizie miranti a fare della città di Brunswick la sua piccola capitale, costruendovi una residenza simile in modo preoccupante a un palazzo imperiale davanti alla quale troneggiava il suo simbolo dinastico, un leone. Anch’egli, però, sentiva sul collo il fiato del cugino che aveva assunto il controllo della città di Goslar, che si incuneava nella Sassonia centrale come una minacciosa enclave alle dirette dipendenze dell’imperatore. Fra il 1168 e il 1174 Federico fece uno dei suoi più lunghi soggiorni in Germania, durante il quale provvide a consolidare la sua autorità sui principi territoriali. Nel 1169, alla dieta di Bamberga, egli fece incoronare re suo figlio Enrico, di soli tre anni. Inoltre, procedette contro alcune sedi metropolitane che non avevano voluto riconoscere gli antipapi di nomina imperiale, soprattutto Salisburgo, dove egli soggiornò nel 1169 e nel 1170 e dove tenne una fastosa dieta nel 1172, al fine di ribadire in forme spettacolari la sua preminenza. Rimosso l’arcivescovo locale, Adalberto, Federico, nel 1174, prima di ripartire per l’Italia, provvide a sostituirlo con un personaggio di sua piena fiducia, in maniera da porre sotto controllo l’area, fondamentale per i traffici fra Baviera e Tirolo. Ancora, nell’autunno del 1170, un tour diplomatico fra Borgogna e Provenza

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gli permise di rendere più salda la sua presa sulla parte sud-occidentale dell’Impero. Colpisce comunque il fatto che, anche durante questi anni di rafforzamento e di consolidamento, Federico non intraprese alcuna riforma amministrativa volta a razionalizzare e a rendere più efficaci l’autorità imperiale, il suo controllo sul territorio e la sua possibilità di raccogliere tasse e contingenti armati. Non vi fu alcun tentativo di utilizzare oltralpe le tecniche e i metodi di governo appresi e utilizzati in Italia, che lì restarono confinati. Alcuni principi del diritto romano cominciarono a venir applicati nei contratti di carattere feudale, ma è certo che essi passarono a Nord spontaneamente, quasi per osmosi, grazie all’opera, alla curiosità e ai viaggi di giudici e altri uomini di cultura e non su iniziativa sovrana. L’imperatore non promosse invece alcuna iniziativa in tal senso, in contrasto con quanto aveva fatto a Roncaglia pochi anni prima, nell’ambito del regno Italico. Anche l’idea della «giurisdizione delegata», ossia della nomina di ufficiali locali dotati di poteri affidati loro dall’imperatore, applicata in Italia con le legazioni di Rainaldo di Dassel e di Cristiano di Magonza, non si affermò in Germania, di fronte alla sorda, ma diffusa ostilità dei principi e alla scarsa propensione di Federico a contrapporvisi. L’Italia doveva accogliere e accettare i rappresentanti diretti del potere imperiale, scelti di norma fra la nobiltà teutonica, ma la mentalità di Federico e dei suoi collaboratori non ammetteva che le esperienze maturate nella penisola fossero applicabili anche al di là delle Alpi. 2. Cristiano di Magonza e l’assedio di Ancona Anche durante la sua lunga permanenza in Germania, Federico non perse mai di vista la situazione italiana. Fra il 1169 e il 1170 egli condusse trattative con papa Alessandro III, al fine di isolare i comuni lombardi, ma il tentativo non ebbe successo poiché il pontefice non volle rispondere senza informare i suoi alleati. La sottomissione delle città ribelli rimaneva l’obiettivo primario per il Barbarossa, tanto che dal 1172 riprese con osti-

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nazione la preparazione di una nuova campagna militare. Egli dovette però attendere a lungo, sia per i problemi peculiari dell’area tedesca (nel 1173 dovette impegnarsi a fondo per dirimere una lotta esplosa fra gli eredi al trono di Boemia), sia per la difficoltà di raccogliere forze adeguate a causa della delusione che pervadeva la nobiltà germanica dopo il disastroso tentativo del 1167-1168. L’assenza dell’imperatore dall’Italia non significava, d’altro canto, l’assenza dell’Impero. Già a partire dal 1162 si era affermata l’idea che l’autorità del sovrano potesse essere rappresentata dai suoi «legati generali», sicché Federico sullo scorcio del 1171 nominò Cristiano di Buch, arcivescovo di Magonza, suo plenipotenziario nella penisola, con l’incarico, a un tempo, di supplire all’assenza dell’imperatore e di tenere sotto pressione militare i suoi avversari. Cristiano era personaggio di grande esperienza delle vicende italiane e di vasta cultura, sebbene di carattere difficile. Un vantaggio non piccolo, rispetto al suo imperatore quasi esclusivamente germanofono, gli era fornito dalla conoscenza delle lingue, dato che oltre al tedesco egli parlava bene l’italiano e il latino. Romualdo Salernitano, non certo un suo apologeta, lo descrive come «forte nelle armi, giovane d’età, piccolo di statura e di aspetto decoroso». Prima di salire alla cattedra maguntina, quando ancora era cancelliere imperiale, egli era già stato rappresentante di Federico in Toscana negli anni 11641165, col compito, sostanzialmente fallito, di imporre alla regione l’obbedienza all’antipapa Pasquale. Nell’estate del 1165, alla testa di una forza composta soprattutto da nobili toscani, compì alcune incursioni nella Toscana meridionale, contro terre fedeli ad Alessandro III. Nel 1167, affiancò Rainaldo di Dassel nella spedizione imperiale contro Roma e fu uno dei protagonisti della vittoriosa battaglia di Tuscolo contro l’esercito romano. Morto Rainaldo durante l’epidemia di malaria, Cristiano prese il suo posto quale più stretto e fidato collaboratore di Federico. Per il suo nuovo incarico italiano, l’arcivescovo di Magonza raccolse un esercito composto in larga prevalenza da «brabantini», mercenari provenienti dal Brabante, la regione dei Paesi Bassi che all’epoca si stava conquistando una sinistra fama quale for-

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nitrice di spietati combattenti professionali. In tal modo il legato, senza pesare sull’aristocrazia militare tedesca fiaccata dalla strage del 1167, si garantiva la disponibilità di forze affidabili, disposte a seguirlo senza limiti di tempo, purché puntualmente pagate. Le poche, ma ricche città filoimperiali rimaste in Italia avrebbero fornito il denaro necessario e, nel caso, truppe ausiliarie e supporto logistico. Il seguito di Cristiano, composto probabilmente da poche centinaia di uomini, non era comunque sufficiente per permettergli di affrontare il forte schieramento delle città lombarde, venete ed emiliane. Il plenipotenziario imperiale discese invece in Piemonte e, passando a guado il Tanaro per aggirare l’ostile città di Alessandria, si diresse verso Genova, dove giunse fra la fine del 1171 e l’inizio del 1172, ricevendo una buona accoglienza. Proseguendo poi per Lucca e Pisa si portò a Siena, dove a marzo convocò una grande dieta, che servì per serrare i ranghi di ciò che restava del partito imperiale in Italia. Vi parteciparono un aristocratico tedesco, Corrado, governatore di Spoleto, i nobili toscani, i consoli di Genova, delle città toscane, romagnole e umbre, i maggiori vassalli delle medesime regioni. L’Italia centrale sembrava ancora avere Federico come proprio punto di riferimento, ma dal Settentrione giunse un solo rappresentante, quello del marchese di Monferrato. Anche l’apparente adesione delle città toscane, peraltro, non resse alla prova dell’interferenza del potere imperiale nelle loro relazioni. Cristiano, infatti, fu chiamato a risolvere un annoso conflitto fra Genova e Pisa per il controllo della Sardegna e finì per propendere verso la prima, che lo aveva lautamente sovvenzionato col versamento di 1.000 lire d’argento, mentre la seconda aveva instaurato rapporti di amicizia con Costantinopoli che risultavano assai sospetti agli occhi di Federico. Pisa si rifiutò di accogliere le decisioni del legato e, di conseguenza, il 28 marzo 1172 venne sottoposta al bando imperiale e privata del diritto di battere moneta. Neanche il drastico provvedimento riuscì a vincere l’opposizione dei pisani, sicché per tutta l’estate Cristiano rimase nella Toscana occidentale, sforzandosi senza esito di risolvere la vertenza. L’arcivescovo tentò pure di imporre le sue

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condizioni con la forza, ma ne nacque una guerra aperta che lo vide schierarsi al fianco di Genova e Lucca contro Pisa e Firenze. Genova e Lucca versarono altre 2.500 lire a Cristiano, ma anche con queste risorse egli non riuscì a dar corso favorevole al conflitto: durante il mese di agosto, dapprima i pisani batterono i lucchesi sul fiume Serchio, poi i fiorentini affrontarono direttamente il legato presso Colle Val d’Elsa, sconfiggendolo a loro volta. Cristiano fu obbligato ad abbandonare la regione, lasciandosi alle spalle un grave insuccesso politico e militare. Scarso esito, durante l’inverno, ebbe anche un tentativo di rappresaglia ai danni del conte Ildebrandino degli Aldobrandeschi, che si era schierato a fianco dei pisani. A nessun risultato, infine, portò un’ultima incursione nel contado romano, compiuta nella fallace speranza di catturare Alessandro III. Abbandonata la Toscana, nella primavera successiva Cristiano attraversò l’Appennino per attaccare Ancona. La città marchigiana, infatti, fungeva da base operativa in Italia per l’imperatore d’Oriente, Manuele Comneno, il quale, preoccupato dalle ambizioni mediterranee di Federico, sosteneva finanziariamente la resistenza dei comuni. Il Comneno nutriva a sua volta grandi ambizioni di restaurazione imperiale in Italia e nel 1156 aveva inviato una grande spedizione armata contro i Normanni. Sostenuto da una vasta rivolta baronale, l’esercito bizantino in un primo momento riuscì a dilagare in tutta l’area adriatica, ma in seguito fu sconfitto a Brindisi dalle forze mobilitate da Guglielmo I di Sicilia e dovette ritirarsi precipitosamente. Nel 1167, in compenso, Manuele aveva acquisito il controllo della Croazia e della costa dalmata, consolidando così le sue posizioni nell’Adriatico. Il Comneno continuava dunque a sperare di trovare margini d’azione nella caotica situazione italiana e, di conseguenza, manteneva una testa di ponte ad Ancona, dove si trovava il suo rappresentante Costantino. La mossa di Cristiano era destinata a mettere sotto pressione Manuele, con il quale Federico conduceva ormai da tre anni un’infruttuosa trattativa diplomatica. A tal fine, l’arcivescovo maguntino trovò anche l’appoggio di Venezia, che mal tollerava la presenza militare bizantina sulla sponda occidentale del-

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l’Adriatico e alla quale il Comneno aveva ridotto, proprio nell’anno precedente, i privilegi commerciali di cui godeva. La città che aveva promosso la Lega Veronese contro il Barbarossa ora era alleata del suo plenipotenziario in Italia, al quale inviò in aiuto una quarantina di galee: evidentemente, come nel caso di Pisa e di Genova, le repubbliche marinare italiane, muovendosi nel più ampio quadro geopolitico del Mediterraneo, avevano esigenze e prospettive diverse rispetto alle altre città comunali. Ancona venne bloccata da terra e dal mare dall’azione combinata dell’esercito imperiale e della flotta veneziana e si trovò rapidamente a corto di cibo. Gli anconetani, però, non vollero arrendersi. La resistenza della città fu celebrata in un’operetta encomiastica, intitolata L’assedio di Ancona e composta agli inizi del Duecento da uno dei più famosi retori dell’epoca, il bolognese Boncompagno da Signa. Sebbene di oltre un trentennio posteriore ai fatti, il resoconto di Boncompagno, condotto sulle testimonianze dei sopravvissuti, è attendibile e ci fornisce una quantità inusuale di dettagli sulle operazioni. In un primo momento, la situazione della città, circondata da ogni lato, parve disperata, soprattutto a causa della scarsità dei viveri, dato che le forze avversarie le erano piombate addosso nella tarda primavera, prima della stagione del raccolto. Preoccupati per i magazzini vuoti, i cittadini tentarono una sortita, ma furono respinti in una battaglia campale dalle forze del legato. Animati dalle promesse e dalle sovvenzioni in denaro dell’ambasciatore bizantino, gli abitanti decisero ugualmente di resistere. Un grande attacco scatenato dai tedeschi e dai veneziani venne respinto dopo furiosi combattimenti che culminarono in una brillante sortita durante la quale uno degli assediati – la tradizione dice che si trattò di una donna – riuscì a dar fuoco alle macchine d’assedio incendiando botti di resina e di pece. Le operazioni si prolungarono fino a ottobre, quando la città ormai stremata dalla fame fu raggiunta da una spedizione di soccorso composta dalle truppe della contessa di Bertinoro, Aldruda Frangipane, e dalla cavalleria ferrarese, comandata da uno dei maggiorenti cittadini, Guglielmo Marchesella. L’arrivo dei rinforzi costrinse gli assedianti a ritirarsi precipitosamente,

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senza accettare il combattimento con le truppe sopraggiungenti e con l’esercito anconetano che, guidato da Costantino, si era a sua volta gettato al contrattacco. L’operazione si tradusse insomma in un clamoroso smacco per gli imperiali, i quali dovettero abbandonare il campo senza aver ottenuto alcun risultato. Dopo gli insuccessi collezionati in Toscana, l’umiliazione di Ancona non giovò certo al prestigio del plenipotenziario federiciano, il quale per almeno un anno non assunse più iniziative di rilievo, limitandosi a soggiornare fra Lazio settentrionale e Umbria. Le città italiane si stavano rivelando ancora una volta avversari assai ostici per le ambizioni imperiali, anche nel centro della penisola, per quanto i comuni locali non avessero ancora raggiunto la maturità e la potenza dei loro omologhi settentrionali. Cristiano era un abile comandante, ma non aveva forze sufficienti per imporre la propria politica e non era in grado di districarsi nel complesso dedalo delle rivalità locali. Le sue mosse, anzi, minacciavano di alienare alla causa imperiale anche le città che più tradizionalmente le erano favorevoli, come dimostra la veemente protesta contro l’operare del legato mossa da Pisa allo stesso Federico nel corso del 1174. La presenza dell’imperatore nella penisola si faceva sempre più urgente, tanto più che anche dalla pianura padana non giungevano che cattive notizie. 3. La Lega si prepara Il fallimento dell’assedio di Ancona rappresentò un successo della Lega, che, benché non direttamente impegnata nell’azione, seppe appoggiare e motivare la spedizione di soccorso che si mosse da Ferrara e da Bertinoro. Pur senza aderire ufficialmente all’alleanza, dal 1167 Ferrara si era avvicinata alle città coalizzate, sostenendo Alessandro III quale legittimo pontefice. La contessa Aldruda di Bertinoro, a sua volta, era una fedele aderente alla causa dei comuni. Apparteneva, infatti, alla famiglia romana dei Frangipane, partigiani di Alessandro III e imparentati con lo stesso Manuele Comneno. I cavalieri di Bertinoro furono anche in altre occasioni a fianco di quelli della Lega e combatterono ancora

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contro Cristiano di Magonza nel Bolognese, nel corso del 1175, assieme alle altre forze urbane antimperiali. Mentre Federico organizzava la riscossa, le città italiane cercavano di consolidare le proprie posizioni. L’improvviso arrivo di Cristiano di Magonza e il suo passaggio attraverso il Piemonte suscitarono allarme in seno alla Lega, che reagì prontamente sia sul piano diplomatico che su quello militare. In primo luogo, i rettori protestarono con Genova per l’accoglienza riservata al legato e dichiararono un embargo commerciale che fece soffrire la città, creandole difficoltà negli approvvigionamenti di cereali. In seguito, l’alleanza provvide a rafforzare il suo controllo sull’area fra Piemonte e Liguria, dichiarando guerra a Guglielmo di Monferrato. Vi fu una breve campagna militare che culminò in uno scontro armato a Mombello Monferrato, nel maggio del 1172, vinto delle forze cittadine. In seguito alla sconfitta, il marchese fu costretto a giurare obbedienza ai precetti dei consoli di Cremona, Milano, Piacenza e Lodi, probabilmente le città protagoniste dell’attacco. Nel frattempo, Guglielmo dovette stipulare un ulteriore accordo con la città di Asti, anch’essa entrata nella Lega. Così, come esplicitamente dichiarava l’atto, la coalizione di comuni rafforzava le sue posizioni nella regione e si preparava a prendere le adeguate contromisure «nel timore che i teutonici sopraggiungano contro le città». Ancora, ad agosto gli alessandrini conclusero un’alleanza con i marchesi di Gavi, assumendo così il controllo della valle Scrivia e dei transiti verso Genova. Infine, a dicembre, Obizzo e Morroello Malaspina, appoggiati dai piacentini, attaccarono direttamente il territorio della città ligure, impadronendosi di Chiavari e di altri centri rivieraschi con un esercito forte di 250 cavalieri e 3.000 fanti. Il confronto militare fu reso difficile dall’inverno e dalle nevicate, sicché i Malaspina e Genova raggiunsero un compromesso che vide la seconda recuperare gran parte dei territori a prezzo, però, di un gravoso riscatto. A favore di Genova, in queste circostanze, combatté anche il marchese di Monferrato, che evidentemente non teneva gran conto dei patti stipulati con la Lega pochi mesi prima.

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Il 7 ottobre 1172, si ebbe a Piacenza una grande riunione dei rappresentanti della Lega, alla presenza dei consoli delle diverse città e del cardinale Manfredo, in nome del pontefice Alessandro. Una successiva assemblea si svolse a Lodi, il 20 febbraio 1173, durante la quale i rettori furono chiamati a discutere di diversi affari pubblici, fra cui una pericolosa questione di confine fra Piacenza e Pavia, che poteva indebolire l’alleanza sul delicato fronte dei rapporti con Genova. In effetti, la vecchia alleata dell’imperatore scalpitava e la presenza di Cristiano di Magonza in Italia non favoriva la fedeltà pavese alla Lega. Il rischio di un nuovo conflitto era evidente, visto che proprio in quel periodo gli affittuari del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro nel villaggio di Luzzano si erano premurati di farsi esentare dal pagamento del canone di locazione nel caso fosse scoppiata una guerra fra Pavia e Piacenza. I rettori della Lega seppero però scongiurare, almeno per il momento, una pericolosa frattura. Queste tensioni indussero le città a rafforzare i legami reciproci e a infittire le occasioni d’incontro, secondo un calendario semestrale. Puntualmente, infatti, il 10 ottobre 1173, la Lega celebrò a Modena un nuovo, importante parlamento, nel corso del quale i comuni aderenti ribadirono solennemente gli accordi reciproci, impegnandosi a non concludere accordi separati con l’imperatore, a non accettare da lui lettere o privilegi, a non danneggiare in altro modo l’alleanza e a impedire che altri lo facessero. Probabile conseguenza della malaccorta politica adriatica di Cristiano di Magonza fu l’adesione di Rimini all’alleanza. In compenso, nella stessa occasione venne rinnovata una serie di patti destinati a garantire Cremona contro una possibile ricostruzione di Crema, il che rivela come anche fra la prima fondatrice della Lega e i suoi alleati non mancassero dissapori e sospetti. Federico, sicuramente ben informato, poteva dunque sperare che alla sua comparsa in Italia l’alleanza si sarebbe sgretolata sotto la spinta delle discordie intestine e che ciò gli avrebbe facilitato una nuova, grande affermazione militare.

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4. La mobilitazione dell’esercito imperiale Per la sua campagna Federico si accinse innanzitutto a raccogliere un nuovo esercito. La mobilitazione delle forze per le campagne italiane non era un’operazione facile, poiché bisognava raccogliere truppe estremamente differenti e contrattare di volta in volta i termini della partecipazione. Una lettera inviata dall’arcivescovo di Colonia ai pisani, che nel 1172 si rallegravano per una progettata spedizione italiana dell’imperatore, illustra bene l’articolata composizione dell’esercito teutonico: «arcivescovi, vescovi, abati, duchi, marchesi, palatini, conti, liberi e ministeriali e un’infinita moltitudine di uomini potenti». Con l’eccezione degli alti ecclesiastici, che in virtù della loro carica erano tenuti a obbedire alle chiamate imperiali, le fonti non ci dicono quasi mai se questi personaggi prendessero parte alle discese in Italia in virtù della loro dipendenza feudale, di altri obblighi giuridici, per rispondere a specifiche richieste di Federico o, semplicemente, di propria iniziativa, nella speranza di ricavarne qualche bottino o di essere ricompensati con terre o privilegi. Spesso un grande giuramento collettivo, in occasione di una dieta appositamente convocata, sanciva la solennità dell’impegno e la volontà dei principi e dei signori di portarlo a termine. Il fatto che, nonostante il fallimentare esito dell’ultima spedizione, il Barbarossa fosse riuscito ancora una volta a raccogliere un imponente esercito per scendere in Italia testimonia l’indubbio carisma e l’abilità di governo di cui egli disponeva. Per i sovrani tedeschi non era facile progettare le campagne in assenza di un quadro preciso delle forze a disposizione. Mancavano, in particolare, registrazioni scritte dei cavalieri che i diversi territori del regno dovevano fornire, poiché le ultime sistematiche messe a punto dei doveri militari dei principi laici ed ecclesiastici risalivano a oltre duecento anni prima, all’epoca di Ottone I e Ottone II. Si può immaginare che Federico guardasse con invidia a ciò che, proprio fra il 1150 e il 1168, seppero fare i suoi rivali normanni nell’Italia meridionale con la compilazione del Catalogus Baronum, nel quale erano dettagliatamente elencati tutti gli armati che i vassalli del regno dovevano mettere a disposizione dei

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sovrani palermitani, per un totale di 8.620 cavalieri e oltre 11.000 ausiliari sul solo continente, ai quali andavano aggiunti i contingenti siciliani. Anche in Inghilterra, nel 1166, Enrico II Plantageneto aveva fatto realizzare una grande inchiesta, che aveva identificato tutti i 6.278 feudi tenuti a procurare complessivamente 5.000 cavalieri. Pochi anni dopo, pure Filippo Augusto di Francia fece redigere liste precise dei suoi vassalli tenuti al servizio militare e delle forze con cui dovevano parteciparvi. Nulla di tutto ciò esisteva nel regno Teutonico, dove ci si doveva basare sulla tradizione e sulla buona volontà dei nobili laici e dei principi ecclesiastici, dei quali l’imperatore poteva ordinare la mobilitazione (Heerschild) in virtù del giuramento feudale che a lui li legava. Tutti coloro che detenevano beni o diritti pubblici erano tenuti a fornire servizio militare a cavallo, facendosi carico delle relative spese. Questa categoria includeva sia i grandi aristocratici del regno, vassalli dell’imperatore per intere regioni, sia tenutari di piccoli feudi, ma comunque direttamente dipendenti da Federico. Il servizio vassallatico in guerra (Heerfahrt), sebbene privo di limiti formali, aveva comunque molte restrizioni perché l’imperatore doveva attenersi a una certa «buona fede» nei rapporti con i suoi sottoposti, senza imporre esazioni troppo pesanti e ricorrendo al loro aiuto solo in occasioni particolari, cercando di ottenerne il consenso con la convocazione di assemblee e riunioni a corte. In più, l’entità dei contingenti forniti dai diversi signori non era quantificata con precisione: la consuetudine prevedeva una «forza adeguata» (honesta milicia), ma quale fosse un numero di uomini «adeguato» era spesso oggetto di valutazioni assai diverse da parte della cancelleria imperiale o dei potenti che dovevano contribuire. I modi e i tempi con cui i nobili tedeschi dovevano partecipare alle guerre imperiali erano dunque oggetto di continue ed estenuanti trattative fra la Corona e i principi, sicché gli esiti finali, a seconda dei rapporti di forza esistenti, potevano essere assai differenti. Federico, per le sue spedizioni italiane, poté così contare su forze che andavano dai 1.800 cavalieri del 1154 ai 15.000 del 1166, senza che fosse mai possibile preventivare esattamente l’entità delle truppe mobilitabili.

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Una lettera, che il Barbarossa inviò nel 1160 all’arcivescovo di Salisburgo per ordinargli di presentarsi con le sue forze in Italia nella primavera successiva, ci mostra i termini che regolavano le prestazioni militari dei principi tedeschi. Scriveva dunque Federico: «ordiniamo alla tua dilezione e comandiamo sotto debito di fedeltà che, posposta ogni altra urgenza, poiché ti ritieni membro dell’Impero e finora gli sei stato fedele, affinché non vacilli affatto il regno durante il nostro tempo e non rischi diminuzioni, ti presenti al nostro esercito con la tua milizia il 13° giorno dopo Pasqua a Pavia». Il servizio veniva dunque reso dai «membri dell’Impero», era dovuto per «il debito di fedeltà» e doveva venir prestato su richiesta del sovrano, ma, d’altro canto, non ne veniva precisata l’entità, sicché probabilmente era a discrezione del vescovo decidere di quanti uomini dovesse essere composta la «milizia» da inviare in Italia. Le spedizioni in Italia, come è ovvio, erano particolarmente lunghe e costose, tanto che chi poteva se ne faceva esimere. Un riflesso del peso delle campagne si può ritrovare nelle parole di un cronista che, nel fare l’elogio dell’arcivescovo di Treviri, Arnaldo, che fu con Federico nel 1175, afferma che in occasione delle campagne d’Italia «andò con lui con animo virile, con grandi forze e con glorioso apparato e per far ciò non permise mai all’imperatore di imporre esazioni straordinarie alle chiese e ai cittadini, né ne chiese egli stesso, ma sostentava se stesso e tutti i suoi seguaci con le proprie sostanze». Nel 1174 l’arcivescovo Filippo di Colonia impegnò alcune vaste proprietà e ne ricavò ben 1.600 marchi d’argento al fine di affrontare la spedizione italiana. Non tutti i principi avevano però le risorse delle grandi curie archiepiscopali, tanto che, per evitare la rovina finanziaria o la ribellione della maggior parte delle famiglie nobili, si prese l’abitudine di ricompensarne la partecipazione garantendo pagamenti in moneta o attribuendo nuovi feudi. Quella del 1174 era però già la quinta spedizione in Italia e le risorse di molti principi laici ed ecclesiastici cominciavano a scarseggiare. Per lo stesso imperatore non fu facile procacciarsi il denaro destinato a finanziare la spedizione. Nel 1176 Federico dimostrò con un diploma tutta la sua gratitudine al vescovo

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Rodolfo di Liegi, il quale aveva dato in pegno i beni episcopali al fine di fornirgli «la pecunia necessaria per la spedizione italica contro la malvagità e la perfidia dei lombardi». Ancora, il Barbarossa aveva dovuto incaricare l’arcivescovo Filippo di Colonia di dare in pegno al medesimo Rodolfo tutti i possedimenti imperiali al di là della Mosa, con l’eccezione della prepositura di Maastricht e dell’abbazia di Nivelles, ottenendone la rilevante somma di 1.000 marchi. A fianco dei vassalli e degli ecclesiastici, erano tenuti a combattere per l’imperatore anche i cosiddetti «ministeriali», che, come si è già accennato, erano personaggi di fiducia dei principi e del re, destinati a incarichi di responsabilità e all’amministrazione delle proprietà. Sebbene legalmente non fossero uomini liberi, nel corso dei secoli i ministeriali erano divenuti possidenti, detentori di feudi laici ed ecclesiastici, quando non di castelli e di diritti signorili, con ruoli di rilievo nella vita delle città e delle campagne. Uno dei più potenti ministeriali dell’epoca di Federico, Werner di Bolanden, giunse a controllare 70 castelli e ad avere ai suoi ordini 1.100 uomini d’arme. Poco meno potente, Cuno di Münzberg, che fu con Federico nella sua campagna del 1174-1176, possedeva castelli, fattorie e un gran numero di vassalli. Verso il 1170, quasi tutti i ministeriali regi avevano raggiunto il titolo e il ruolo di cavalieri, sicché potevano prestare servizio a cavallo nell’esercito imperiale. Il loro status rendeva più facile esigerne la presenza nell’esercito, tanto che essi costituivano una parte considerevole, anche se tutto sommato poco visibile nelle cronache, delle forze di Federico. Anche i ministeriali, comunque, man mano che si affermavano socialmente e acquisivano terre, poteri e ricchezze, divennero in grado di contrattare la loro partecipazione e, talvolta, di sfidare il loro stesso signore, rifiutandogli la collaborazione. In virtù dei vincoli feudali essi militavano, senza quasi che vi fossero differenze con i liberi a pieno titolo. Talvolta era loro concesso di pagare una tassa sostitutiva del servizio, che li esentava dal partecipare in prima persona alle spedizioni. La progressiva crescita dell’economia e della circolazione monetaria – che, sebbene in ritardo rispetto all’Italia, aveva co-

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minciato ad affermarsi anche in Germania – aveva reso sempre più diffuso il ricorso a combattenti stipendiati. Il denaro consolidava i rapporti, permetteva di prolungare il servizio oltre i limiti delle consuetudini feudali, assicurava la permanenza dei contingenti armati al servizio del principe anche in caso di campagne particolarmente lunghe o di momentanei rovesci. D’altro canto, tutti i benefici vassallatici erano intesi in primo luogo come ricompensa per la prestazione di un servizio militare, dunque non vi era nulla di riprovevole nell’accettare direttamente della moneta, in cambio della presenza in battaglia. Come si è già detto, molti vassalli regi e molti ministeriali ricevettero soldi e privilegi quale compensazione per i costi e i disagi subiti nel corso delle campagne italiane. A questi, però, Federico affiancò in più occasioni gruppi numerosi di veri e propri mercenari. Non si trattava, è bene chiarirlo, di una novità assoluta. Già papa Leone IX, nel 1053, aveva usato combattenti stipendiati tedeschi nella sua fallimentare campagna contro i Normanni. Nel corso del XII secolo i sovrani inglesi Angioini e Plantageneti fecero largo uso di mercenari nei loro scontri con i re di Francia, e fra gli stessi comuni italiani si ricorreva con frequenza a professionisti delle armi nel corso dei conflitti intercittadini. Federico, per le sue campagne italiane, si rivolse ai brabantini, o brabanzoni. Costoro, come si è accennato, avevano pessima fama nell’Occidente dell’epoca a causa della spietatezza durante gli scontri e della brutalità con la quale infierivano sui civili, fama che, peraltro, era anche una prova della loro terribile efficienza sul campo di battaglia. Nominalmente anche Federico era loro ostile, tanto che nel 1171 aveva raggiunto un accordo con il re di Francia Luigi VII perché venissero banditi da tutte le terre fra il Reno, le Alpi e Parigi. Nulla però tratteneva l’imperatore dall’arruolare i brabantini e inviarli in Italia, così da disporre di una forza fedele e combattiva, senza i limiti di tempo e di pazienza che caratterizzavano i contingenti dei principi tedeschi. Circa 1.500 di questi temibili combattenti erano già stati utilizzati da Federico nella sua spedizione italiana del 11661168 e altre centinaia di uomini vennero messe al servizio di Cristiano di Magonza nella campagna del 1172-1173. Non sappia-

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mo quanti ne furono arruolati per la campagna del 1174: di sicuro ve ne erano molti a disposizione, poiché si era appena conclusa una guerra civile in Inghilterra durante la quale Enrico II ne aveva assunte parecchie migliaia. Ora, congedati, questi temibili guerrieri erano pronti a muoversi verso nuove mete. Unendo tutte queste forze Federico era stato in grado di raccogliere un esercito veramente notevole. Molti cronisti dell’epoca concordano sulle imponenti dimensioni e sulla potenza dell’armata imperiale, composta da un’«immensa moltitudine» di uomini, che formavano una «massima spedizione», un insieme che era «validissimo» e «grandissimo». Tardo, ma attento e scrupoloso, l’autore degli Annales Placentini Gibellini (Annali ghibellini di Piacenza) parla di un esercito magnus rinforzato da brabantini e boemi. Solitamente assai bene informato, il secondo Anonimo Milanese attribuiva a Federico, al momento in cui questi giunse a Susa, una forza di circa 8.000 combattenti (pugnatores), ossia, quasi certamente, cavalieri pesanti, ai quali andrebbe aggiunto il contingente boemo giunto più tardi sul campo di battaglia. Non siamo dunque lontani dai 10.000 militi che componevano la grande spedizione lanciata contro il pontefice nel 1166-1167. Includendovi scudieri e ausiliari, l’entità complessiva dell’esercito doveva ammontare ad almeno 20-25.000 unità, come afferma anche il contemporaneo autore di un poemetto sull’assedio di Alessandria. Se si considera che nella penisola già operava Cristiano di Magonza alla testa di un altro corpo che includeva parecchie centinaia di cavalieri, possiamo affermare che il Barbarossa si presentò per la sua quinta e determinante calata in Italia al comando di uno dei più grandi eserciti da lui raccolti, di poco inferiore, se non uguale, a quello con cui si era mosso nel 1158 per l’assalto decisivo contro Milano. Non sappiamo cosa Federico si ripromettesse di fare con tali forze e probabilmente egli stesso si riservava di decidere le sue mosse a seconda degli sviluppi della campagna. Di sicuro, per lui sarebbe stato fondamentale riuscire a cogliere un clamoroso successo già nelle fasi iniziali della spedizione, in modo da impressionare i suoi avversari e convincere alcune delle città della Lega ad abbandonare il loro schieramento e a prendere le parti

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dell’Impero. Se le defezioni fossero state abbastanza consistenti, si poteva pensare a un nuovo attacco contro Milano e, chissà, a una ripetizione del trionfo del 1162; in alternativa, se l’alleanza nemica si fosse conservata abbastanza compatta, il sovrano avrebbe potuto aprire una trattativa, agendo comunque da una posizione di forza, al fine di imporre almeno il rispetto dei patti del 1158 e dei decreti di Roncaglia. Per fare tutto ciò occorreva iniziare con una vittoria, che avesse anche un rilievo propagandistico. L’obiettivo, dunque, non poteva che essere uno, il simbolo stesso della ribellione: la città nuova di Alessandria. 5. Attacco da Occidente Al momento di organizzare la campagna, l’imperatore dovette affrontare una serie di gravi problemi, in primo luogo di natura logistica. I principali transiti alpini erano saldamente nelle mani della Lega. Il comune di Verona, da lungo tempo ostile a Federico, sbarrava lo sbocco della strada del Brennero, mentre le vie dello Spluga, del San Bernardino e del Lucomagno sbucavano nel territorio di Como, a sua volta aderente alla Lega. Rimaneva, ancora una volta, il lungo periplo occidentale: la via attraverso la quale Federico era fuggito nel 1168 restava la sola percorribile. La spedizione iniziò ufficialmente il giorno di Pasqua, il 24 marzo del 1174, quando Federico celebrò una grande assemblea ad Aquisgrana, dove venne annunciata l’imminente campagna e proclamata la mobilitazione di chi doveva accompagnare l’imperatore. I preparativi furono però molto lenti, ostacolati anche da un’estate molto piovosa, sicché le truppe non riuscirono ad arrivare in Italia prima dell’autunno. Fra aprile e maggio il Barbarossa si spostò nei Paesi Bassi, a Maastricht e a Nimega (dove tenne una dieta e fece giurare alla nobiltà locale di partecipare alla spedizione italiana), e vi arruolò agguerriti contingenti di mercenari. Nelle settimane successive egli si diresse lentamente verso sud, attraversando tutta la Germania occidentale, al fine di sollecitare nobili e prelati a partecipare alla discesa in

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Italia. A maggio Federico fu a Cochem e a Kaiserslautern. Alla festa dei santi Primo e Feliciano (il 9 giugno) ebbe un importante colloquio presso Paderborn, nella Germania centrale, con gli ambasciatori di Umberto di Savoia, del marchese di Monferrato e di altri signori italiani che gli promisero obbedienza e gli garantirono il libero transito attraverso le Alpi. Alla fine del mese era a Regensburg, dove si fermò a lungo al fine di radunare uomini e risorse. Il 13 luglio era a Donauwörth, il 2 agosto a Trifels, il 22 agosto ad Hagenau, in Alsazia, poco a nord di Strasburgo: di qui discese la valle del Reno continuando a raccogliere truppe. Il 1° settembre giunse a Basilea e proseguì attraverso il Giura, affrontando il lungo attraversamento delle Alpi occidentali. Dopo un mese di marce forzate, Federico passò il valico del Cenisio e si presentò di fronte alla città di Susa, fra il 29 settembre e il 1° ottobre. Si trattò di un’impresa notevolissima. Migliaia di uomini e cavalli furono spostati in maniera coordinata per centinaia di chilometri e riuscirono a passare le Alpi poco prima che il maltempo autunnale le rendesse impraticabili. Il transito di un simile contingente attraverso le Alpi richiese uno sforzo logistico eccezionale. A tal fine fu determinante l’appoggio del conte di Savoia, Umberto III, che in cambio di diversi privilegi che ne rafforzavano le posizioni nelle regioni transalpine concesse libertà di passaggio e rifornimenti all’imperatore. I combattenti tedeschi, inoltre, disponevano di denaro a sufficienza per procurarsi le provviste necessarie nei mercati situati lungo il loro itinerario. I problemi posti da un viaggio così lungo sono bene illustrati dalle vicende del contingente boemo, partito in ritardo rispetto al grosso dell’esercito e quindi obbligato a una marcia forzata per ricongiungersi con il resto delle truppe. I boemi, guidati da Udalrico, fratello del duca Zobelao, marciarono attraverso l’Austria e la Germania meridionale fiancheggiando il Danubio. Al contrario dei loro camerati tedeschi, non avevano né denaro né supporto logistico e, conformemente alle loro abitudini, si mantennero saccheggiando le campagne e rubando quanto serviva loro. Giunti nella città sveva di Ulma, i cavalieri

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tentarono di vendere al mercato locale pecore e altri beni sottratti ai coltivatori dei dintorni. I cittadini, però, assieme agli abitanti del contado, si gettarono sui predatori e, dopo averli bloccati su un ponte, ne fecero strage: almeno 250 militi caddero in combattimento o perirono annegati nel fiume, molti di più rimasero feriti e altri, indignati, decisero di tornare a casa. Udalrico volle proseguire, ma il suo esercito aveva finito col subire perdite pesantissime ancor prima di lasciare la Germania. Al di là della necessità di sfruttare gli unici passi alpini a disposizione, il Piemonte rappresentava una base operativa ideale per il contrattacco organizzato da Federico. Qui si concentrava la maggior parte dei possedimenti del demanio imperiale nell’Italia settentrionale, che ammontavano a ben 28 corti regie estese per migliaia di chilometri quadrati. Molti di questi beni erano stati dati in affitto o in investitura feudale e di alcuni la stessa cancelleria regia aveva perso le tracce, ma ciò che restava rappresentava comunque una risorsa preziosa per mantenere, nutrire e pagare l’esercito. Vi erano anche alcuni punti forti nelle mani di personaggi fidati, come il castello imperiale di Annone, presso Asti, che nel 1167 era stato dato in feudo ad Arnaldo di Dorstadt. Inoltre, in questa regione, il movimento comunale aveva attecchito solo marginalmente, senza riuscire a intaccare gli assetti di potere preesistenti: solo le città di Asti e di Tortona avevano tradizioni di autogoverno ormai consolidate, risalenti rispettivamente alla fine dell’XI secolo e agli inizi del XII, mentre a Novara e a Vercelli l’esperienza comunale era stata più breve e gracile, spesso interrotta dalla reazione dei vescovi locali; ad Alba e a Torino, infine, le prime menzioni dei consoli non risalivano che a tre o quattro anni prima. I protagonisti della vita politica subalpina erano ancora i grandi signori territoriali, quali i conti di Savoia, che dominavano i transiti alpini settentrionali, i marchesi di Monferrato, il cui territorio si estendeva a Meridione, fra le città di Vercelli, Asti e Alessandria, e i marchesi del Vasto, insediati a Saluzzo, che stavano proprio allora estendendo il loro potere nella regione sud-occidentale del Piemonte, mirando al controllo delle comunicazioni con la Provenza. Fra No-

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vara e Vercelli si era invece consolidato il potere dei conti di Biandrate, prima alleati dei milanesi, ma da almeno un quindicennio saldamente schierati sul fronte filoimperiale. Una miriade di altre dinastie governava un gran numero di località minori, ognuna estendendo di norma il proprio potere su pochi centri abitati a dispetto dei roboanti titoli comitali o marchionali esibiti. Tutti questi personaggi erano naturali alleati dell’imperatore, soprattutto perché minacciati dall’espansionismo delle città, il cui esempio più clamoroso era stato la fondazione di Alessandria. 6. Una passeggiata trionfale Come si è accennato, alla fine di settembre Federico discese la Val di Susa, aprendosi a forza la strada nonostante la disperata difesa dei valligiani che, dall’alto delle rupi, tentarono di fermare l’esercito teutonico precipitandovi sopra una pioggia di massi. Il capoluogo della valle, dove l’imperatore nel 1168 aveva conosciuto l’umiliazione della fuga, fu sottoposto a giudizio e condannato per tradimento: gli abitanti dovettero lasciare la città che fu distrutta e data alle fiamme. Fu risparmiato solo il palazzo del conte di Savoia, alleato imperiale, alla cui custodia venne posto il cancelliere Goffredo da Viterbo. Qui giunse poi la regina Beatrice, moglie di Federico, che seguiva a debita distanza le forze teutoniche, a cui si unirono infine anche i boemi di Udalrico. Pochi giorni dopo anche Torino, dove pur era vescovo il milanese Milone da Cardano, aprì le porte senza combattere all’imperatore. La forza dell’esercito imperiale si impose ancora, poche settimane più tardi, quando Federico si diresse verso Asti: postala sotto assedio, ottenne dopo soli otto giorni la resa della città. Asti era un centro ricco e popoloso, nel quale erano giunte in rinforzo consistenti truppe di Milano e di Brescia, sicché stupisce la rapidità con cui depose le armi all’apparire delle truppe federiciane. Si può ritenere che il comune, in continua lotta contro il suo stesso vescovo, fosse diviso al suo interno e che, co-

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munque, l’imponenza delle forze radunate dal Barbarossa fosse tale da sconsigliare la resistenza. La campagna d’Italia iniziava dunque sotto i migliori auspici. L’esercito imperiale, senza quasi combattere, aveva ottenuto le clamorose vittorie di Susa e di Asti, sottomettendo di fatto gran parte del Piemonte occidentale. A questo punto, la via per il reale obiettivo del Barbarossa era aperta e il 27 ottobre, neppure quattro settimane dopo il suo ingresso in Italia, egli fece porre l’assedio ad Alessandria. Qui, a ulteriore rafforzamento del contingente a disposizione, giunsero anche le truppe degli alleati di sempre, il marchese di Monferrato, il conte di Biandrate e il comune di Pavia. Vennero anche arruolati balestrieri genovesi, forse in qualità di mercenari. Si trattava, nel complesso, di un apporto prezioso, visto che per assalire una città fortificata i fanti e i tiratori messi a disposizione dagli alleati italiani erano fondamentali a fianco dei cavalieri teutonici, boemi e brabantini. Secondo alcune fonti di parte imperiale, l’imperatore si sarebbe accontentato della sottomissione della città mentre gli alessandrini, spaventati per la sorte toccata a Susa, sarebbero stati disposti ad arrendersi. Guglielmo V di Monferrato, al cui potere la nuova fondazione arrecava grande disturbo, insistette però per la sua distruzione. La città era debole, asserì Guglielmo, e non avrebbe potuto resistere che cinque o sei giorni. Goffredo da Viterbo, conscio a posteriori che la realtà si sarebbe dimostrata ben diversa, asserisce che queste furono parole volutamente menzognere e non risparmia le critiche al marchese e ai suoi consanguinei, «nati per perpetrare crimini, avvelenati di cuore, noti per le loro interminabili frodi». È probabile, però, che gli autori filofedericiani cerchino qui di trovare un capro espiatorio: in realtà Federico era sceso in Italia puntando direttamente su Alessandria, della quale negava il nome e la stessa esistenza, visto che si riferiva a essa sempre col vecchio nome di «castello di Rovereto». Il fine dell’imperatore era senza dubbio, sin dall’inizio, quello di radere al suolo il centro urbano intitolato al papa suo nemico e la resa degli alessandrini avrebbe comportato una distruzione meno cruenta, ma

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non avrebbe potuto evitarla. Non vi erano dunque reali margini di trattativa. Gli abitanti di Alessandria decisero di difendere con le armi la libertà da poco acquisita e il Barbarossa dovette rassegnarsi a porre l’assedio alla città, nella fallace speranza che, come gli ripetevano i suoi alleati italiani, l’operazione non sarebbe durata che una manciata di giorni.

4. L’ASSEDIO DI ALESSANDRIA 1. Gli schieramenti L’imperatore cominciò l’assedio di Alessandria il 27 ottobre 1174. Di fronte si trovava un centro abitato all’apparenza vulnerabile, anche se determinato a resistere. Il comune di Alessandria, nei sette anni intercorsi dalla fondazione, si era sviluppato con vivacità, sia attraendo popolazione da tutta la regione sia sottoponendo alla sua autorità molti castelli e villaggi circostanti, spesso con clausole di natura militare che impegnavano gli abitanti di quei luoghi a combattere per la nuova città. L’area di influenza di Alessandria andava dal corso dell’Orba all’Appennino e le permetteva di proporsi quale principale concorrente dei marchesi di Monferrato nella regione. Un documento del 1172 ci attesta le buone capacità belliche della città, che, in un accordo con i marchesi di Gavi, si impegnava a fornire loro in tempo di guerra fino a 100 cavalieri e 1.000 fanti o, in caso d’emergenza, tutte le forze disponibili, che evidentemente erano ancora superiori. Alessandria aveva conosciuto un vivace sviluppo demografico e all’epoca poteva contare fra i 10 e i 15.000 abitanti (quest’ultima cifra le è attribuita dal cronista Bosone), il che implicava un numero di uomini atti alla difesa oscillante fra i 2.000 e i 3.000, di cui circa il 10% rappresentato da cavalieri: tutto sommato abbastanza pochi, dato che l’esercito imperiale ne aveva almeno il quadruplo. I difensori, però, erano agguerriti e bellicosi: la città era stata infatti popolata anche grazie all’afflusso

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della piccola aristocrazia militare delle aree vicine e disponeva dunque di un forte gruppo di esperti combattenti a cavallo, dalla lunga tradizione familiare. Agli abitanti, nell’imminenza dell’assalto, si unirono molti contadini che si rifugiarono all’interno delle mura. Una fonte tedesca, gli Annales Colonienses maximi (Annali di Colonia), ne parla con disprezzo come di una massa di servi fuggitivi, ladri e rapitori, ma i fatti smentiscono clamorosamente tale affermazione, dato che cittadini e contadini combatterono con valore contro gli imperiali. Come sostegno da parte della Lega giunsero ad Alessandria anche 150 fanti piacentini, guidati dal miles Anselmo Medico, probabilmente nell’ambito di una ripartizione dei compiti che aveva visto, come si è accennato, i milanesi e i bresciani rinforzare invano le difese di Asti. Il contingente a prima vista appare modesto, ma si trattava di combattenti specializzati e bene armati, in grado quindi di dare un contributo importante alla difesa della città. Gli assediati avevano però un altro punto debole: costruire una cerchia di mura completa attorno a un centro urbano era all’epoca un’impresa che richiedeva molti anni, per cui Alessandria non aveva avuto la possibilità di edificarla. Le sue fortificazioni non erano comunque disprezzabili: protetta sul lato occidentale dal corso del Tanaro, la città era stata dotata sin dalla sua fondazione di un largo e profondo fossato nel quale, nell’imminenza dell’attacco, furono fatte affluire le acque del fiume. Terrapieni e palizzate rafforzavano la cinta e almeno le porte dovevano essere in muratura e fornite di torri. Così è raffigurata la città in una miniatura posta a corredo di una cronaca genovese contemporanea, con tre porte turrite che dominano un fossato, ma senza muraglie che le unissero l’una all’altra. Il cronista boemo Gerlach tratteggia con poche ma efficaci parole la situazione: «la città era munitissima, non perché circondata da mura, ma per la sua posizione geografica e per il fossato incredibilmente grande nel quale avevano derivato il fiume vicino. In essa vi erano anche molti uomini pieni di valore e in grado di resistere con forza». Concorde, l’annalista di Colonia ricorda che «questa città era fortificata in modo curioso, senza cinta muraria, ma con un fossato di grande profondità».

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Nel complesso non si trattava di ostacoli insuperabili, seppur impegnativi. Bisogna però considerare che le armate imperiali non brillavano per le loro capacità nelle operazioni di assedio. In effetti, nelle precedenti discese dell’imperatore soltanto un centro abitato, il piccolo borgo di Crema, era stato conquistato con la forza nel 1160, mentre Asti, Chieri e Spoleto si erano consegnate spontaneamente; a Milano e a Tortona gli attacchi avevano avuto successo soltanto grazie alla mancanza di viveri che affliggeva i difensori e ad Ancona, infine, Cristiano di Magonza aveva subito un cocente fallimento nonostante l’appoggio veneziano. Si consideri che anche Crema era caduta soltanto nel momento in cui uno dei suoi più abili difensori, di nome Marchisio decise di cambiare schieramento mettendosi a costruire macchine per gli imperiali, il che può far sorgere legittimi dubbi sull’abilità degli ingegneri teutonici. Pure davanti ad Alessandria, in effetti, per poter disporre di un adeguato parco di artiglieria, torri d’assedio e altri macchinari d’assalto fu determinante il contributo di maestri genovesi appositamente convocati. In generale, gli strumenti all’epoca disponibili per attaccare un castello o un centro abitato fortificato erano pochi e tutti di limitata efficacia. Abbattere una cinta muraria, anche se realizzata soprattutto in legno e terra battuta come quella di Alessandria, era impresa quasi impossibile in presenza di una guarnigione agguerrita e numerosa. Gli arieti erano armi poco efficienti ed estremamente vulnerabili al tiro dei difensori, oltre a essere di fatto inutili in presenza di fossati e di massicci terrapieni. Le armi da getto potevano scagliare sassi, danneggiare qualche manufatto e causare perdite tra coloro che li presidiavano, ma non garantivano una precisione di tiro tale da poter colpire sempre lo stesso punto delle mura al fine di crearvi una breccia. Era dunque necessario tentare di superare in verticale le difese, passandovi sopra, con scale e torri mobili, o sotto, con cunicoli e gallerie: si trattava però di due scelte assai rischiose, che implicavano la possibilità di perdite molto elevate e, soprattutto, richiedevano manodopera specializzata e alcuni mesi di lavoro al fine di realizzare le opere necessarie. Restava infine il sistema d’assedio più diffuso, ossia il blocco statico, che con-

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sisteva nell’accerchiamento della fortezza in attesa della sua resa per fame o per sfinimento. Fu quest’ultimo, almeno in un primo momento, lo strumento scelto da Federico. Una simile decisione, per quanto apparentemente meno rischiosa, lo obbligava però a rassegnarsi a tempi lunghi. L’assedio, infatti, era stato posto a stagione ormai avanzata, dopo la mietitura estiva e la vendemmia autunnale: la città disponeva dunque di buone scorte di cibo, quelle che venivano di norma accumulate sul declinare dell’autunno, tali da permetterle di raggiungere l’estate successiva e il tempo del nuovo raccolto. Non era così, invece, per le truppe imperiali, che avevano l’assoluta necessità di procurarsi viveri e rifornimenti: appelli in tal senso furono inviati alle città padane, che per via d’acqua avrebbero potuto far affluire navi cariche di aiuti, ma la risposta fu deludente. Goffredo da Viterbo, in particolare, esprime il suo sdegno per il silenzio di Modena, con la quale evidentemente vi erano stati contatti, ma che, al momento decisivo, scelse di rimanere nello schieramento della Lega. I limiti della rete diplomatica intessuta da Federico obbligarono dunque l’esercito imperiale ad affrontare un lungo inverno contando sulle risorse dei soli alleati piemontesi e di Pavia. Il Barbarossa veniva dunque a trovarsi in una situazione strategica nella quale non contavano tanto l’abilità in battaglia e la quantità delle truppe a cavallo, quanto le qualità ingegneristiche per costruire fortificazioni e macchine d’assalto, e la capacità di gestire la logistica, indispensabile a garantire il rifornimento degli assediati, degli assedianti e delle truppe di soccorso. In questo tipo di guerra, però, le città italiane – con le loro maestranze specializzate, la sovrabbondanza di denaro e strutture amministrative già bene articolate – non avevano rivali. 2. Il lungo inverno Gli assedi erano (e sono) operazioni belliche particolari, quasi del tutto prive di confronti diretti fra gli eserciti e caratterizzate, invece, da lunghe attese, da un generale stato di inazione,

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da attente valutazioni sulla durata delle scorte di cibo e di bevande. È raro che le narrazioni riescano a dar conto del lento fluire del tempo, del succedersi penoso delle ore, della costante tensione nella quale vivevano senza tregua le parti in campo. Eccezionalmente, però, le fonti a disposizione per la campagna di Alessandria restituiscono bene le difficoltà che i due schieramenti conobbero durante i 168 lunghi giorni del confronto, non soltanto nel momento in cui si affrontarono a viso aperto, ma pure nella quotidianità dell’interminabile inverno di guerra. Gli alessandrini si trovavano, da un certo punto di vista, nella situazione più agevole. Erano al riparo di una barriera fortificata abbastanza efficace, che dovevano soltanto riparare e, ove possibile, rafforzare; disponevano di sufficienti scorte di viveri e potevano sperare, con l’arrivo della bella stagione, sull’invio di un esercito di soccorso da parte della Lega. Di conseguenza, la strategia per loro più opportuna era semplicemente quella di tenere duro, attendendo le iniziative avversarie e l’arrivo dei rinforzi da Milano e dalle altre alleate. Non per questo, è ovvio, gli assediati rimasero inattivi per cinque mesi, poiché era necessario inviare uomini e messaggeri al di là delle linee nemiche, per raccogliere informazioni e mantenere i contatti con le città amiche. Tali azioni erano peraltro pericolosissime, poiché l’imperatore, come già aveva fatto nel 1161 contro Milano, non esitò a punire esemplarmente i cittadini catturati, trattandoli da traditori dell’Impero: alcuni furono passati a fil di spada sul posto, altri impiccati, altri accecati. Gli Annali di Colonia tributano grandi elogi alla pietà del sovrano per il fatto che in un’occasione, avendo egli catturato tre abitanti di Alessandria, fece strappare gli occhi soltanto ai primi due, risparmiando il terzo, più giovane, perché li riaccompagnasse indietro. Molto più complesso era invece il compito delle truppe imperiali, le quali dovevano organizzare dal nulla le operazioni, allestire accampamenti e blocchi, preparare gli strumenti d’assalto e garantirsi un ragionevole afflusso di rifornimenti. Innanzitutto, gli assedianti edificarono una cinta di fortificazioni campali attorno al fossato di Alessandria, con tre grandi accampamenti dotati di torri di legno, nei quali trovare alloggio

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e riparo, nonché altre postazioni per bloccare l’afflusso di merci e di rinforzi nella città e per prevenire eventuali sortite. In seguito intrapresero la costruzione di materiali d’assalto, quali «gatti» (tettoie mobili che proteggevano l’avanzata degli assalitori) e artiglierie di vario genere, simili alle catapulte degli antichi Romani ma basate su di un principio diverso. All’epoca, infatti, si faceva uso di armi basate sul principio della leva e del contrappeso (dette «petriere» e «mangani»), in grado di scagliare pietre a discreta distanza. A tutto ciò diedero un contributo importante le maestranze specializzate venute da Genova. Il comune genovese, infatti, benché in un primo momento avesse visto di buon grado la fondazione di Alessandria, non volle inimicarsi Federico poiché, come abbiamo già visto, era impegnato in un’estenuante lotta con Pisa per il predominio sulla Sardegna e l’intervento del Barbarossa poteva rivelarsi decisivo nel far pendere la bilancia verso l’una o l’altra delle repubbliche rivali. Tutto questo apparato, però, non fu sufficiente a ottenere la resa immediata della città e gli imperiali si trovarono costretti ad affrontare i disagi di un lungo periodo di stasi, accampati di fronte alle fortificazioni urbane. Non fu facile trascorrere i duri mesi invernali della bassa valle del Tanaro, fra neve, gelate, nebbie persistenti e piogge torrenziali. Gli assedianti dovettero imparare a resistere in attendamenti invasi dal fango e, nonostante i fossati e i terrapieni costruiti a protezione degli alloggi, sempre minacciati dalle esondazioni del Tanaro, sicché per giorni e giorni, come ricorda Goffredo da Viterbo, sembrava che le tende e le persone nuotassero in continuazione nella melma. Soprattutto, però, gli assedianti furono obbligati a fare i conti con la difficoltà di rifornire un esercito che, con i rinforzi pavesi e monferrini, probabilmente raggiungeva i 25.000 effettivi. Gli accampamenti contenevano dunque una quantità di uomini pari alla popolazione di una media città dell’epoca, come ad esempio Pavia, probabilmente più numerosi degli stessi abitanti dell’assediata Alessandria. L’impresa di nutrire una tale massa umana, che sarebbe stata difficile anche nella bella stagione, in quell’inverno si dimostrò impossibile. Il marchese di Mon-

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ferrato non pare esser stato di grande aiuto, mentre il comune di Pavia fornì ciò che poté, comunque molto poco rispetto alle necessità delle forze imperiali. L’afflusso di viveri e di foraggio era drammaticamente insufficiente. I cavalli – i preziosi cavalli che rappresentavano la principale risorsa dell’esercito – soffrivano la fame, si ammalavano e morivano. I pesanti destrieri da guerra, infatti, non potevano nutrirsi di sola erba e per mantenersi in forze avevano bisogno di grandi quantità di avena, orzo o altri cereali, che per gli imperiali in quel desolato inverno scarseggiavano disperatamente. Gli uomini, a loro volta, erano tormentati dall’umidità, dal freddo e dal fango: i dintorni della città, ci dice ancora Goffredo, apparivano come una desolata palude deserta, costellata da boschi e priva di qualsiasi risorsa utilizzabile. Quello che arrivava veniva destinato in prevalenza ai contingenti tedeschi e la penuria colpì soprattutto gli alleati boemi e i mercenari brabantini, che furono costretti a cercare di che vivere saccheggiando le campagne circostanti. Nella zona, però, le case erano rare e le fattorie isolate: la rete insediativa era caratterizzata dalla concentrazione delle abitazioni in villaggi e borghi. Tutti gli abitati disponevano di rudimentali fortificazioni e molti avevano anche un castello nel quale i contadini potevano mettere al riparo le loro scorte. Castrum et villa (castello e villaggio) affiancati avevano ad esempio, secondo i documenti dell’epoca, i villaggi di Castelletto d’Orba, di Pavone d’Alessandria e di Fresonara, dove risiedevano anche validi uomini armati disposti a far guerra agli ordini degli alessandrini. Un po’ più distante dalla città, l’abitato di Lerma, oltre al castello, aveva un recinto fortificato destinato a ospitare beni, uomini e animali (il «ricetto») e una torre in muratura. I saccheggiatori che vagavano per il territorio non avevano grandi possibilità di far bottino, a meno di non assumersi il rischio di attaccare queste postazioni e di impegnarsi in continui scontri. Come riferisce l’abate Gerlach, i cavalieri boemi «rientrando alla sera non portavano cibo, ma al massimo paglia per i cavalli e talvolta neanche quella». Altri militi imperiali, afferma Goffredo, preferivano trattare con la popolazione e cedevano le loro armi barattandole con

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il necessario per sopravvivere. Altri ancora si dispersero su un’area vastissima alla ricerca di qualche risorsa, come fecero i brabantini, affamati, che condussero raid anche nei territori di Pavia e di Piacenza. La fame, il freddo e il maltempo infierivano duramente sull’esercito assediante. Dopo due mesi di questa vita, buona parte delle truppe era allo stremo. Nella notte della vigilia di Natale i boemi disertarono in massa, abbandonando gli accampamenti alla ricerca disperata di una strada verso la madrepatria. I fuggitivi superarono Pavia e si diressero a Nord. Qui però si imbatterono nelle guarnigioni poste dai milanesi a difesa dei confini e, dopo brevi combattimenti, furono catturati in gran numero. Da prigionieri, essi trovarono nella metropoli nemica quel cibo che nel loro campo scarseggiava così drammaticamente. Altri riuscirono fortunosamente ad attraversare il territorio avversario e, giunti a Como, furono imbarcati verso Chiavenna da dove, con un periglioso viaggio attraverso le Alpi innevate, pervennero infine alle loro case. Trascorsi alcuni mesi, furono raggiunti dai loro compagni catturati e rimandati in patria dai milanesi, dato che l’imperatore non intendeva pagare alcun riscatto per liberare dei disertori. 3. Un nuovo fronte A Milano le notizie portate dai boemi in fuga rafforzarono la determinazione ad affrontare l’imperatore e a salvare Alessandria dall’assedio. La situazione, però, non era facile, visto che l’imprevista resa di Asti senza resistenza aveva rovinato tutti i piani difensivi a Occidente e che le forze della Lega furono costrette ad affrontare anche la persistente minaccia dei cavalieri di Cristiano di Magonza. Seguendo probabilmente un piano strategico concordato con Federico, l’arcivescovo maguntino, dopo aver trascorso il 1174 a cavallo fra Toscana e Umbria – dove aveva riportato alcuni successi contro Assisi, consolidando il dominio imperiale sull’area –, si era portato di nuovo sulla costa adriatica al fine di

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scagliare un attacco da Oriente contro i comuni ribelli. Il settore romagnolo era per la Lega particolarmente delicato, a causa delle molteplici forze signorili che vi agivano e della presenza di un consistente partito filofedericiano, formato soprattutto dalle città che temevano l’espansionismo militare di Bologna. Cristiano, nonostante l’inverno, si mosse con rapidità ed efficacia. Il 7 febbraio 1175 egli si presentò davanti al castello di San Cassiano, nel territorio di Imola, alla testa delle proprie forze, rimpinguate con cavalieri toscani assoldati, attorno alle quali si coalizzò la maggior parte dei comuni romagnoli. Ravenna era tradizionalmente filoimperiale, ma anche Imola, Faenza, Forlì, Cesena e Rimini si unirono all’arcivescovo in una vasta coalizione volta soprattutto a frenare le mire di Bologna sulla regione. San Cassiano era d’altronde il segno più visibile di tali mire, poiché vi si era insediato, sotto la protezione bolognese, il vescovo di Imola che, in rotta con il proprio comune, di lì ne minacciava l’integrità territoriale. La Lega replicò immediatamente alla nuova minaccia radunando un imponente esercito che, secondo le cronache bolognesi, era costituito da oltre 2.700 cavalieri, fra i quali prevalevano i cremonesi, con ben 500 uomini, seguiti dai parmigiani (400) e poi dai milanesi (300), dai bresciani, piacentini, veronesi, padovani e reggiani (200 a testa), dai bergamaschi e dai modenesi (100), ai quali si aggiungevano 60 militi della contessa Sofia di Bertinoro, già protagonista dell’assedio di Ancona, e un indeterminato manipolo ferrarese. A causa della rapidità con cui aveva agito Cristiano di Magonza, però, queste truppe poterono solo proteggere l’evacuazione della guarnigione bolognese di San Cassiano, salvando quasi 400 militi dalla prigionia, senza riuscire a evitare la distruzione del castello, raso al suolo il 25 febbraio 1175. Nelle settimane successive, le forze di Cristiano compirono una serie di pesanti incursioni nel territorio bolognese. Insediati nel borgo di Medicina, che faceva parte dei beni già appartenuti a Matilde di Canossa e all’epoca da poco ceduti da Guelfo VI a Federico, i cavalieri al servizio dell’arcivescovo razziarono i castelli di Caselle, Pizzocalvo, Vedrana, Ozzano e Castel de’

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Britti, avvicinandosi pericolosamente a Bologna. Tuttavia, Cristiano non era in grado di minacciare direttamente la città e i suoi attacchi sembra avessero lo scopo di trattenere nella zona almeno una parte delle forze della Lega, più che conseguire in prima persona risultati di rilievo. 4. Gli eserciti comunali Per fronteggiare le nuove minacce imperiali, i comuni della Lega mobilitarono forze molto consistenti. Gli eserciti cittadini erano profondamente diversi da quelli delle monarchie europee in generale e da quello di Federico Barbarossa in particolare. Le truppe a disposizione dei principi, infatti, erano composte quasi esclusivamente da veri e propri professionisti della guerra, uomini il cui scopo nella vita era combattere e che, spesso, proprio a tale attività dovevano il loro status sociale di cavalieri, di castellani, di detentori di benefici feudali. Tutti gli altri, ossia la maggior parte della popolazione, soprattutto nelle campagne, erano invece esclusi dall’esercizio delle armi, se non per la stretta autodifesa. Nei comuni italiani, al contrario, tutti i cittadini maschi erano tenuti a prestare servizio: al raggiungimento della maggiore età, il civis conseguiva i diritti politici e diventava mobilitabile in ogni occasione, restandolo sino al compimento del sessantesimo o del settantesimo anno d’età. I combattenti erano sottoposti agli ordini dei consoli e venivano inquadrati sulla base degli ordinamenti territoriali: cavalieri e fanti dei diversi quartieri potevano operare singolarmente, con propri gonfaloni e propri comandi, tanto come parti del più ampio «esercito generale» urbano quanto come forze autonome, inviate separatamente sul campo. A seconda della loro ricchezza, i cittadini potevano svolgere il ruolo di cavalieri (milites nella terminologia dell’epoca) o di fanti (pedites). Per combattere a cavallo, infatti, era necessario disporre del denaro sufficiente ad acquistare le armi, la corazza e soprattutto il destriero, che era molto caro: complessivamente, equipaggiamento e cavalcatura potevano raggiungere il valo-

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re di un’abitazione di buon pregio o di una proprietà terriera piuttosto vasta. Alcuni fra i militi erano veri professionisti della guerra, che, non diversamente dai loro omologhi francesi o tedeschi, vivevano delle loro proprietà terriere, talvolta possedevano castelli e trovavano nel combattimento la loro principale attività. A fianco di costoro, però, si trovavano anche figure diverse, professionisti ben inseriti nella vita economica e politica della città, che possedevano armatura e destriero, ma che di norma svolgevano altre attività: si trattava di possidenti fondiari, giudici, mercanti o finanzieri. Anche gli artigiani che accumulavano sufficienti ricchezze potevano entrare nel novero dei cavalieri, per accedere al quale non era richiesto alcun quarto di nobiltà: abbiamo già ricordato lo stupore con cui Ottone di Frisinga osservava come nelle città italiane anche chi era dedito a occupazioni manuali potesse ricevere lo status di milite, cosa inaudita, secondo l’arcivescovo tedesco, in tutte le nazioni civili d’Europa. Chi non disponeva di denaro sufficiente, invece, prestava servizio in qualità di fante. I contingenti di uomini armati di lancia rappresentavano la grande massa delle forze comunali e venivano utilizzati in quasi tutte le situazioni in stretta collaborazione con la cavalleria: la principale acquisizione militare delle città italiane consistette infatti nello sviluppare un’armonica collaborazione delle diverse forze – pedites, milites e tiratori – e in un intelligente sfruttamento del terreno. Tutto ciò era facilitato dal fatto che, al contrario di quanto accadeva nell’Europa feudale, fra cavalieri e fanti vi era una differenza di ricchezza, ma non esisteva alcun rapporto gerarchico, poiché tutti erano ugualmente cittadini, tutti ugualmente al servizio del comune, per il cui bene si battevano. I fanti, in realtà, avevano un ruolo importante su tutti i campi di battaglia del continente ed erano quasi sempre presenti in numero superiore ai cavalieri, rendendosi fondamentali soprattutto durante le frequenti operazioni d’assedio. Purtroppo le cronache, quasi tutte espressione dell’ambiente cavalleresco, tendono a ignorarne il rilievo. Ciò nonostante sappiamo che il regno d’Inghilterra e le monarchie spagnole disponevano di validi contingenti appiedati – nel primo caso con un buon nume-

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ro di arcieri – che affiancavano con efficacia i reparti montati nei principali scontri. Al contrario, nei regni di Francia e di Germania, così come nella Sicilia normanna, era assai difficile trovare fanterie bene addestrate ed equipaggiate, in grado di tenere con efficacia il campo di fronte agli attacchi nemici. Un termine francese, difficilmente traducibile, rende con molta efficacia il pensiero dei nobili cavalieri sulle masse raccogliticce di contadini, di norma destinate a sbandarsi al primo impatto con gli avversari: esse erano la piétaille, la «fanteria-marmaglia». Nelle città italiane i fanti si schieravano invece in reparti organici e compatti, strutturati sulla base delle circoscrizioni territoriali (porte, quartieri e parrocchie o contrade). Sebbene non fossero professionisti della guerra, i combattenti cittadini erano animati da un grande patriottismo civico e la solidarietà fra uomini che vivevano porta a porta nello stesso rione generava un profondo spirito di corpo, che rendeva le formazioni solidali e molto unite. La frequenza delle guerre faceva sì che vi fosse sempre un buon numero di veterani, con precedenti esperienze di battaglia. Per gli altri vi era comunque la possibilità di fare addestramento nelle cosiddette «battagliole», ossia giochi di combattimento diffusi quasi ovunque, durante i quali gli abitanti delle diverse parti della città si scontravano con bastoni, pietre o armi smussate. Gruppi di tiratori affiancavano i lancieri, anche se all’epoca di Federico i reparti equipaggiati con la nuova e micidiale balestra (un’arma che poteva perforare agevolmente le corazze dei cavalieri) furono utilizzati solo durante gli assedi e non in campo aperto. Esistevano infine anche unità scelte di fanteria, composte da uomini esperti e bene equipaggiati atte ad essere impiegate in situazioni particolari, come il contingente piacentino inviato a supporto della difesa di Alessandria, il cui peso durante le operazioni fu sicuramente superiore alla sua non impressionante consistenza numerica (che, ricordiamo, era di 150 uomini). Gli eserciti urbani rappresentavano uno strumento assai duttile. Se mobilitati in massa, essi potevano raggiungere una notevole consistenza. Già verso la metà del XII secolo, infatti, le città italiane avevano una popolazione estremamente numerosa: la

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maggior parte dei centri urbani contava circa 10.000 residenti, ma alcuni – come Brescia, Cremona, Verona, Bologna, Pisa o Pavia – probabilmente raggiungevano i 20-30.000; Genova e Venezia avevano un numero di abitanti ancora maggiore e una metropoli come Milano forse superava gli 80.000. Si calcola che in media un cittadino su cinque o su sei fosse atto alle armi, sicché le città più piccole erano in grado di schierare 1.000 o 1.500 combattenti, mentre Milano poteva arrivare a 12-15.000, di cui il 10-20% era costituito da cavalieri. A questi, inoltre, andavano aggiunti i contingenti forniti dalle comunità del contado, che partecipavano attivamente alle attività belliche dei comuni urbani. Ove non fosse necessario produrre il massimo sforzo, era invece possibile richiamare soltanto una parte delle truppe: a Milano, ad esempio, era uso comune utilizzare a turno i reparti dei diversi quartieri cittadini (le sei «porte»). Potendo contare su tali risorse, nella primavera del 1175 le città italiane si prepararono a riversare contro il Barbarossa una massa umana quasi priva di precedenti nella storia delle guerre medievali. 5. La Lega si muove Benché fossero impegnati a fronteggiare la minaccia di Cristiano di Magonza in Romagna, i comuni preparavano alacremente la riscossa contro l’imperatore e organizzarono una grandiosa spedizione, con la partecipazione di quasi tutti i centri urbani coalizzati. Sappiamo che a governare alcune città chiave vennero posti podestà provenienti dai comuni di più provata fede antimperiale, al fine di meglio coordinare le azioni e garantire la compattezza dello schieramento: il veronese Guibertino di Carcere andò a Bergamo, i milanesi Nero Grasso e Alberto de Osa rispettivamente a Parma e a Padova, il cremonese Guazo Guazoni a Vicenza. Si trattava di personaggi importanti, già protagonisti della lotta contro il Barbarossa: Guibertino aveva già governato la sua città natale dal 1171 al 1174, mentre Alberto de Osa, che era giunto a Padova sin dal secondo semestre del

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1174, apparteneva a un’antica famiglia consolare milanese e rimase a reggere la città fino a tutto il 1176. Guazo Guazoni era esponente di una delle principali discendenze cremonesi ed era stato più volte console o podestà del comune a partire dal 1159; fra l’altro, sotto la sua podesteria, Vicenza sottomise l’importante castello di Bassano, assumendo così il controllo della via del Brenta, di grande valore strategico per tutta la Lega. Vale la pena, infine, di soffermarsi sulla figura di Nero Grasso, che fu fra i cavalieri milanesi catturati dal Barbarossa nel 1159 durante uno scontro armato e poi utilizzato come scudo umano sulle macchine d’assedio schierate contro Crema. Fortunosamente sopravvissuto e liberato dopo la resa di Milano, Nero fu uno dei maggiori animatori della resistenza comunale, a fianco di altri suoi ex compagni di prigionia. A Parma egli fece costruire per la prima volta un carroccio, detto «dei Crevacore». Dopo aver guidato il contingente cittadino a Montebello, Nero rimase podestà di Parma fino al 1178, quando morì in carica e venne sepolto con grandi onori, fra il cordoglio generale dei cittadini. Grazie all’intenso lavorio diplomatico e alla presenza di personalità di particolare rilievo alla testa di alcuni fra i più importanti centri urbani, lo schieramento comunale poté reagire con estrema celerità. All’epoca, l’inizio delle campagne belliche avveniva di solito in primavera inoltrata, tra la fine di aprile e gli inizi di maggio, per poter contare su condizioni meteorologiche favorevoli, ma le truppe della Lega furono messe sul piede di guerra ben prima. Già l’11 marzo l’esercito di Milano, con fanti, cavalieri e il carroccio, si mosse verso sud-est, percorrendo la via Emilia fino a Lodi e poi Piacenza, al fine di unirsi con gli alleati. L’organizzazione della campagna dovrebbe indurre a riflettere chi ritiene che nel Medioevo non si concepissero operazioni strategicamente articolate e che le battaglie fossero soltanto il risultato di una cieca marcia delle forze in campo alla ricerca dello scontro finale. La manovra dell’esercito lombardo fu infatti complessa, ma anche molto efficace, sia dal punto di vista logistico sia da quello degli obiettivi militari. La concentrazione delle forze avvenne a Piacenza, dove convennero tutti i contin-

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Bergamo

Treviso Brescia

Milano Lodi

Susa

Pavia

Torino

Vicenza Verona

Cremona

Asti

Mantova Montebello

Alessandria

Piacenza Parma

Reggio Modena

LA CAMPAGNA DEL 1174-1175 Movimenti dell’esercito imperiale nell’autunno 1174 Movimenti dell’esercito imperiale nella primavera del 1175 Concentrazione e movimento degli eserciti comunali

Padova

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genti appositamente richiamati: truppe a piedi e a cavallo da Verona e Brescia, oltre che dalla stessa Piacenza, con i rispettivi carrocci, forze più ridotte, forse di soli cavalieri, da Lodi, Bergamo, Mantova, Parma, Modena, Reggio Emilia, Padova, Vicenza, Treviso. Difficile calcolare l’entità complessiva dell’esercito coalizzato, ma sicuramente si trattava di almeno 20.000 o, più probabilmente, 30.000 uomini, forse l’armata più grossa mai radunata in Italia fino a quel momento dai tempi dell’Impero romano. I guerrieri comunali si muovevano con motivazione ed entusiasmo. Un episodio ci può restituire con efficacia il clima allora esistente fra i cittadini dei comuni lombardi. Come abbiamo già visto, la cavalleria di Cremona era stata intensamente impegnata in Romagna nella lotta con Cristiano di Magonza, per cui si era stabilito che le truppe della città sarebbero state esentate dalla partecipazione all’esercito destinato a marciare contro l’imperatore in Piemonte. La decisione, però, suscitò il malcontento di una parte della popolazione, che avrebbe comunque voluto combattere: quando il contingente di Vicenza, guidato dal cremonese Guazo Guazoni, attraversò Cremona per recarsi a Piacenza, alcuni uomini del popolo locali, volendo partecipare alla spedizione, iniziarono a causare tumulti e molti presero spontaneamente le armi per unirsi ai vicentini e prender parte alla grande battaglia che si prospettava. A capo delle forze coalizzate furono posti due personaggi, scelti per le loro competenze belliche, che rappresentavano anche le due grandi aree geografiche che componevano il cuore dell’alleanza: il lombardo Anselmo da Dovara, di Cremona, e il veneto Ezzelino da Romano. Il da Dovara era esponente di una delle più potenti discendenze cremonesi, proprietaria di una mezza dozzina di castelli nel contado e, dunque, dalle spiccate caratteristiche militari. Un parente di Anselmo, Egidio da Dovara, era stato il comandante del contingente inviato nel 1166 da Cremona a Roma al fianco di Federico I. Dopo il cambio di schieramento della città, i da Dovara si misero disciplinatamente al servizio delle nuove esigenze politiche e militarono nel campo antimperiale, tanto che lo stesso Egidio fu rettore di Cremo-

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na per la Lega nel 1169. Da sempre avverso al Barbarossa era invece Ezzelino, detto il Balbo, nonno del più celebre Ezzelino III da Romano, il crudele collaboratore di Federico II. Ezzelino il Balbo era infatti in conflitto con l’imperatore per il possesso del villaggio di Castel di Godego e di altri beni dei quali, nonostante le imposizioni della dieta di Roncaglia, egli intendeva disporre liberamente, senza bisogno di autorizzazioni sovrane. Già dal 1170 egli aveva aderito alla Lega e, essendosi fatto onore quale valoroso combattente durante la seconda crociata del 1146, rappresentava un personaggio ben qualificato per guidare l’esercito dei comuni. Assieme a loro vi erano i rappresentanti politici di tutte le città che componevano l’alleanza: Uberto da Landriano di Milano, Alberto de Cavriano di Brescia, Viviano degli Avvocati di Verona, Guglielmo di Piacenza, Girardo di Camposampietro di Treviso, Guazo Guazoni di Vicenza, Guibertino di Carcere podestà di Bergamo, Nero Grasso podestà di Parma, Lanfranco di Lodi, Giovanni Benedictus di Vercelli, Cassiano di Tortona, Pietro Cavallacius di Novara, Alberto di Bonizo di Reggio, Guidotto di Ferrara. Probabilmente ognuno di costoro aveva il comando del rispettivo contingente cittadino, mentre i due rettori generali della Lega coordinavano le mosse dell’esercito nel suo complesso. Da Piacenza, l’esercito oltrepassò il Po e mosse verso Occidente, lungo l’asse stradale dell’antica via Postumia, tenendo sulla propria destra il grande fiume. In tal modo, le truppe comunali avevano il fianco volto verso Pavia protetto dalle acque, il che impediva qualsiasi contrattacco da parte degli alleati dell’imperatore. Lungo il Po, inoltre, grazie all’efficiente flotta fluviale piacentina, potevano affluire i rifornimenti necessari alla massa di uomini che si muoveva lentamente, al passo della fanteria e dei pesanti carrocci cittadini, penosamente trascinati da buoi su percorsi che – è facile immaginare – a cavallo fra marzo e aprile non dovevano essere praticabili con facilità a causa delle piogge e del fango. Le lunghe colonne degli armati si allungavano per centinaia e centinaia di metri lungo l’itinerario. In queste condizioni è possibile ipotizzare una velocità di marcia

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di non più di una ventina di chilometri al giorno, che implicava oltre una settimana di viaggio per percorrere la distanza fra Piacenza e Alessandria. Lente, ma inarrestabili, le forze coalizzate entrarono nel territorio di Pavia aggredendo le terre del nemico. Ancora una volta abbiamo una testimonianza diretta da parte di alcuni contadini che abitavano nei villaggi posti a sud del Po, non lontano dal confine con Piacenza: «quando l’esercito dei Lombardi venne nella terra di Pavia e [...] andò a Montebello, [...] distrusse e bruciò il luogo di Olmo e tagliò e sradicò le viti, tagliò gli alberi e saccheggiò la chiesa». La stessa sorte ebbe il vicino villaggio di Parpanese, sede di una chiesa pievana: «nelle due spedizioni che le città di Lombardia fecero contro Pavia, nella prima delle quali fu distrutta la torre di Bosnasco e la seconda, fatta contro Casteggio, il luogo della pieve fu arso e distrutto, e sentì allora dire che erano stati i bresciani». Bruciando e saccheggiando, le truppe cittadine avanzarono senza incontrare resistenza, mentre gli abitanti dell’Oltrepò si davano alla fuga e, attraversato il fiume, affluivano a Pavia per trovarvi aiuto e riparo. Il giorno di Sabato Santo, il 12 aprile, le truppe della Lega presero e distrussero Broni e, celebrata la Pasqua, attaccarono successivamente San Martino in Strada, Casteggio e molte località minori, che vennero conquistate e incendiate. L’operazione ebbe un grande successo. La presa di Broni e di Casteggio aveva un rilevante valore strategico, poiché apriva alle forze comunali la strada per Alessandria, lungo la quale i lombardi non avrebbero più trovato alcun ostacolo. Oltre ai danni materiali vi era anche un pesante effetto psicologico: il comune di Pavia aveva dovuto assistere impotente al sacco di gran parte del suo territorio e si era dimostrato incapace di difendere un’area dove si trovavano rilevanti proprietà di suoi concittadini e di importanti enti ecclesiastici, quali i monasteri di Santa Maria Teodote e del Senatore. Il Barbarossa non era stato in grado di aiutare i pavesi, mentre i profughi si ammassavano in città, raccontando le loro disgrazie. Esaltate dai successi, le truppe coalizzate potevano prepararsi alla sfida e allo scontro con la logora, ma sempre imponente, cavalleria imperiale.

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6. L’assalto finale L’arrivo della bella stagione, invece di portare sollievo allo stremato esercito federiciano, recò così una nuova minaccia. I lombardi si erano mossi più velocemente del previsto e stavano giungendo a minacciare il fianco delle forze tedesche prima che queste fossero in grado di gettarsi all’attacco di Alessandria. Il redde rationem giunse alla vigilia della Pasqua del 1175. Per il giorno di Sabato Santo era stata stabilita una tregua fra le parti, garantita dallo stesso Federico. Quando però giunse notizia che l’esercito dei comuni era entrato a Broni, i tedeschi tentarono disperatamente una soluzione di forza e, violando la parola data, si lanciarono all’assalto, mentre tiratori e artiglierie d’assedio scatenavano una pioggia di dardi e di pietre sulla città assediata. Fra la gioia delle forze imperiali, alcune porte e alcune torri furono danneggiate, anche se non abbastanza per aprire una breccia. Nei giorni precedenti, i pavesi avevano scavato un tunnel che conduceva oltre le difese di Alessandria. Completato il lavoro in gran fretta, sul fare della sera un folto gruppo di cavalieri imperiali appiedati si precipitò nel cunicolo e fece irruzione nella città cogliendo di sorpresa i difensori. In poco tempo, però, le sentinelle riuscirono a lanciare l’allarme generale, sicché gli aggressori si trovarono a fronteggiare una delle situazioni caratteristiche delle guerre d’assedio, campagne nelle quali la tradizionale distinzione fra combattenti e non combattenti perdeva di significato. Nel momento del massimo pericolo, l’intera popolazione urbana reagì: uomini e donne, giovani e anziani presero le armi per opporsi agli assalitori. Gli imperiali penetrati all’interno della cinta si trovavano a combattere fra le case, in un territorio che non conoscevano e che era loro ostile, fronteggiando i migliori combattenti alessandrini e l’agguerrito contingente piacentino. Nel frattempo, il resto degli abitanti, uomini e donne, si precipitò alla cinta delle fortificazioni per ostacolare l’afflusso dei rinforzi con un fitto lancio di pietre e di legname. In breve, gli aggressori furono sopraffatti e tentarono di ritirarsi precipitosamente nel fossato, sempre bersagliati dall’alto. Alla

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fine, il sotterraneo crollò – non si sa se a opera dei difensori o per un difetto nella sua frettolosa costruzione –, condannando a una morte crudele decine di uomini che vi restarono imprigionati. Subito, gli alessandrini approfittarono della situazione per lanciarsi in una sortita. Aperte le porte, fanti e cavalieri si gettarono addosso alle truppe federiciane, in preda allo sbandamento. L’operazione fu efficacissima, poiché i contrattaccanti riuscirono a dare alle fiamme una delle grandi torri costruite dagli assedianti, forse quella dello stesso accampamento imperiale, come asseriscono alcune testimonianze. Come era avvenuto ad Ancona, poco più di un anno prima, i difensori fecero sicuramente uso di appositi prodotti incendiari, realizzati con resine e pece, dagli effetti devastanti sulle costruzioni lignee. Nel rogo perirono molti cavalieri teutonici e un gruppo di balestrieri genovesi al loro servizio, che dall’alto della fortificazione stavano bersagliando la città per aiutare gli assalitori ad aprirsi un varco. Secondo l’autore di un poemetto anonimo che narra le vicende dell’assedio, gli alessandrini riuscirono anche a catturare diversi avversari e a condurli all’interno delle loro linee difensive. Il bilancio per le forze imperiali fu tremendo: nel fallito attacco alla città e nel crollo del cunicolo perirono oltre 200 uomini, a cui se ne aggiunsero molti altri, almeno un centinaio, caduti durante la sortita o arsi vivi nell’incendio della torre. A questi si aggiungeva un numero a noi ignoto di prigionieri. Le perdite risultarono intollerabili, soprattutto per il fatto che furono il prezzo del totale fallimento di un assalto che non portò ad alcun risultato tangibile per gli aggressori. Il disastro venne poi completato dalla vergogna che ricadde sullo stesso imperatore, le cui truppe avevano violato la parola data, ottenendone in cambio un innegabile e pesante rovescio. L’umiliazione fu cocente e l’eco della sconfitta si diffuse in tutta l’Italia e la Germania. Le fonti tedesche, unanimi, ci testimoniano come fu vissuto oltralpe questo pesante insuccesso: secondo gli Annales Sancti Georgii in Nigra Silva (Annali di San Giorgio nella Foresta Nera), «nel 1175 l’imperatore, subite gravi perdite di beni e di cavalieri, abbandonò l’assedio e si allon-

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tanò da Alessandria»; per il cronista boemo Gerlach l’assedio della città costò all’imperatore «molte fatiche e grande strage dei suoi». Pure per gli Annales Augustani minores (Annali Minori di Augusta), alla vigilia di Pasqua vi fu una «immensa strage» dei combattenti imperiali, che perirono «miseramente soffocati» secondo la Continuatio Zwetlensis altera (Continuazione della Cronaca di Zwelteg). Anche se le forze imperiali avessero ancora avuto le risorse morali e materiali per proseguire nell’assedio, l’arrivo dell’esercito di soccorso lombardo non consentiva di insistere. Federico, per non essere aggredito sul fianco, dovette muoversi e fronteggiare la nuova minaccia, sicché fece incendiare gli accampamenti e le macchine d’assedio e si ritirò, sconfitto.

5. MONTEBELLO, LA TREGUA, LA RIPRESA DELLA GUERRA 1. Il confronto armato di Montebello Di fronte alla minaccia portata dal sopraggiungere dei rinforzi della Lega, Federico reagì con rapidità, evitando così di essere sorpreso sul fianco. L’esercito imperiale si mise subito in marcia, abbandonando gli accampamenti di assedio. Il 13 aprile, giorno di Pasqua, le truppe si erano già spostate a fronteggiare quelle della Lega. Secondo alcune fonti, Federico aveva addirittura raggiunto la località di Santa Giuletta, che si trova a est di Casteggio, ma questo è abbastanza difficile, dato che per far ciò egli avrebbe dovuto percorrere in un solo giorno oltre 60 chilometri, passando inoltre attraverso le linee dei lombardi. Probabilmente, invece, l’imperatore si accampò a Voghera, a una decina di chilometri da Casteggio, dove a loro volta avevano piantato le tende le forze cittadine. Il 14 aprile, le due armate si avvicinarono, schierandosi a battaglia nei pressi di Montebello, un villaggio sito lungo il tracciato della via Emilia che, a causa della sua importanza nelle comunicazioni fra Emilia, Lombardia e Piemonte, sarebbe stato ancora protagonista di confronti armati tra francesi e austriaci nel giugno del 1800 e tra francesi, piemontesi e austriaci nel maggio del 1859, nel corso della seconda guerra di indipendenza. Prima che le forze venissero a contatto, però, gli imperiali si ritirarono. Per due giorni, i due potenti eserciti si fronteggiarono sulla

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piana di Montebello. Anselmo da Dovara ed Ezzelino da Romano avevano organizzato lo schieramento comunale, concentrando le truppe su base regionale attorno ai quattro carrocci. Da un lato vi era il carroccio piacentino, circondato dalle genti di Piacenza, Parma, Reggio e Modena, al centro quello milanese, attorno a cui si schierarono le forze di quella città e un piccolo nucleo di lodigiani, al suo fianco quello di Verona, attorniato dalle truppe di Verona, Padova, Vicenza e Treviso, e all’ala opposta quello di Brescia, con le milizie bresciane, bergamasche e mantovane. Come si è accennato, il contingente poteva ammontare a circa 30.000 uomini, uno schieramento che dovette impressionare non poco i nemici, tanto che il cronista di Colonia ne parla come di un esercito «incredibile», nato dalla congiunzione dei popoli di tutte le città d’Italia. Dall’altro lato, si trovavano le forze del Barbarossa che, benché depauperate dalle perdite e dalle diserzioni, doveva comprendere ancora parecchie migliaia di cavalieri, integrati da contingenti monferrini, sabaudi e anche da nuovi rinforzi precipitosamente mandati da Pavia. Sebbene per numero fosse inferiore alle forze comunali, l’esercito imperiale disponeva però di molti cavalieri pesanti teutonici che, pur logorati dal duro inverno, erano sempre avversari temibili, soprattutto in campo aperto. In tutto, non è azzardato pensare che sul campo di Montebello si fronteggiassero quasi 50.000 uomini, pronti per quella che avrebbe potuto essere la più grande battaglia del Medioevo nell’Europa occidentale. Lo scontro, però, non ci fu. Il 16 aprile, dopo due giorni di teso confronto durante il quale nessuno assunse l’iniziativa militare, vi fu un abboccamento fra gli ambasciatori dei comuni e quelli federiciani. Dopo i primi colloqui, il 18 aprile si concluse una tregua e Federico poté levare il campo e muovere verso Pavia, dove giunse pochi giorni dopo. L’esito incruento del confronto stupì molto l’opinione pubblica del tempo. Per il cronista di Colonia, lo schieramento delle forze imperiali «terrorizzò i lombardi, che hanno sempre timore del valore dei teutonici». Più realisticamente, Bosone sot-

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tolinea che le truppe cittadine non intendevano dar battaglia a meno che non fossero provocate, cosa che Federico non avrebbe mai fatto «poiché aveva assai meno uomini d’arme di loro». In realtà, entrambi gli schieramenti avevano da guadagnare evitando il confronto armato. Federico, le cui forze erano logorate dal lungo assedio di Alessandria, avrebbe corso gravi rischi dando battaglia. La pronta reazione alle notizie dell’avanzata lombarda gli aveva permesso di evitare un attacco alle spalle e ora l’apertura delle trattative gli consentiva un onorevole ripiegamento verso Pavia. I comuni, dal canto loro, non desideravano sbarazzarsi dell’imperatore, ma solo indurlo a riconoscere i loro diritti, per cui l’inizio di un dialogo in tal senso già rappresentava una vittoria. Inoltre, la ritirata del Barbarossa e dei suoi uomini nelle mura di Pavia faceva cessare ogni minaccia verso Alessandria: l’obiettivo per cui l’esercito cittadino si era mosso era così stato conseguito senza bisogno di combattere. Al di là di ogni velatura propagandistica, questo era il dato oggettivo, evidente agli occhi di tutti i contemporanei: Alessandria era stata liberata e le forze della Lega erano rimaste padrone del campo, avendo ottenuto il risultato strategico per il quale si erano mobilitate. Anche fra i tedeschi, non mancarono coloro che si accorsero che quella del Barbarossa era stata una ritirata e alcune cronache non mascherano la delusione che percorse lo schieramento federiciano. «A stento e con fatica», come affermano gli Annales Sancti Disibodi (Annali di Disenberg), l’imperatore riuscì a riguadagnare Pavia, da dove, però, «non era in grado né di proseguire, né di tornare indietro», rilevava il cronista Roberto de Monte. Militarmente la Lega aveva vinto il primo confronto: sarebbe stata in grado di vincere anche la pace? 2. Tregua, pace o guerra? Fu subito chiaro che le trattative iniziate sul campo di Montebello si sarebbero protratte a lungo, poiché su molti argomenti le posizioni delle due parti erano assai distanti. Ben-

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ché se ne parlasse come di una vera e propria «pace», l’accordo concluso era provvisorio e le due parti non intendevano accontentarsi. Il semplice fatto di aver obbligato il Barbarossa a trattare era però già un successo per le città ribelli, dato che l’imperatore aveva dovuto riconoscere come interlocutore quella Lega Lombarda che egli avversava e che, con la sua sola esistenza, violava le norme dettate a Roncaglia nel 1158. Il documento con le richieste dei coalizzati mostra esplicitamente che i comuni erano ben consapevoli di essere, al momento, in netto vantaggio. Si richiedeva, in effetti, la totale sconfessione della precedente politica sveva in Italia, in perfetta consonanza con gli atti fondativi della Lega: oltre al riconoscimento di papa Alessandro III e dell’alleanza delle città, si affermava che i diritti imperiali sarebbero stati solo quelli vigenti al tempo di Enrico V, che le comunità urbane avevano il diritto di scegliere i propri consoli, di allearsi fra loro, di costruire fortificazioni e di opporsi allo stesso sovrano se questi avesse violato i patti; all’imperatore sarebbe spettato il diritto di riscuotere le tasse dette «fodro» e «colletta» quando fosse stato in Italia, di esigere contingenti militari, di ottenere il giuramento di fedeltà da parte dei cittadini. Su queste basi, le trattative non promettevano bene per Federico, che avrebbe dovuto non solo rinunciare all’ordinamento di governo costruito dopo il 1162, ma anche revocare quelle leggi di Roncaglia che avrebbero dovuto rappresentare la base del nuovo ordinamento del regno. Federico poteva consolarsi per il fatto che le sue aperture diplomatiche avevano creato qualche crepa nello schieramento delle città. Soprattutto, era molto delicata la posizione di Cremona, già fedelissima fautrice dell’impero, fino al 1166, e poi membro fondatore della Lega Lombarda. Nella città, probabilmente preoccupata dalla rapida ripresa di Milano quale protagonista politica dell’area, era ancora vivo e attivo un forte partito filoimperiale. In questo contesto, pareva particolarmente promettente il fatto che l’esercito cremonese non fosse schierato a fianco degli altri a Montebello. In realtà la presenza del cremonese Anselmo da Dovara quale rettore della Lega

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e comandante dell’armata coalizzata attesta con chiarezza che in quel momento Cremona si sentiva a tutti gli effetti parte integrante dello schieramento comunale. Le forze della città, d’altro canto, non si erano sottratte all’impegno, battendosi contro Cristiano di Magonza sul fronte emiliano con un contingente di almeno 500 cavalieri. Come si è accennato, fu questo il motivo per il quale ai cremonesi non furono richiesti ulteriori sforzi per la campagna di Montebello. La circostanza giungeva però opportuna, poiché l’assenza degli armati di Cremona autorizzò l’imperatore a ricorrere ai consoli cremonesi quali mediatori. Il 23 aprile, il Barbarossa giunse pacificamente a Pavia. Qui, dato che le risorse a sua disposizione non consentivano di mantenere sotto le armi il grosso esercito mobilitato nell’anno precedente, all’inizio dell’estate i contingenti alleati vennero congedati. In particolare, il principe Udalrico e quanto restava dei suoi boemi poterono riprendere la strada verso casa. Federico trattenne comunque una parte consistente delle forze, ossia i nobili più ricchi che avrebbero potuto senza problemi fermarsi in Italia sino all’anno successivo. Inoltre, verso la fine di luglio, egli venne raggiunto dal fedelissimo Cristiano di Magonza, che cominciò da quel momento a comparire fra i testimoni degli atti emanati dalla cancelleria imperiale da Pavia. Con l’arrivo dell’arcivescovo maguntino e dei suoi uomini le forze teutoniche raggiunsero nuovamente una certa consistenza, permettendo al Barbarossa di irrigidire le proprie posizioni nel corso delle trattative con il papa e con i comuni. I colloqui diplomatici, infatti, proseguirono quasi per inerzia, senza produrre risultati apprezzabili. A causa del mancato accordo conclusivo sui testi preliminari preparati a Montebello, le due parti si affidarono agli arbitri cremonesi, concordemente chiamati a pronunciarsi. Federico aprì anche un dialogo con Alessandro III, invitando a Pavia i cardinali Ubaldo d’Ostia, Bernardo di Porto e Guglielmo di San Pietro in Vincoli. Ancora una volta, l’imperatore tentò la via degli accordi separati, senza però avere successo, dato che i prelati si rifiutarono di agire senza il consenso dei comuni.

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La spregiudicatezza con cui Federico agiva rafforzò le perplessità sulle sue intenzioni, che già serpeggiavano nell’opinione pubblica comunale. Era difficile dire, infatti, se il Barbarossa avesse accettato la tregua con convinzione o solo per sottrarsi a una situazione che lo vedeva militarmente svantaggiato. Quasi in presa diretta, scrivendo poco tempo dopo l’accordo, l’autore del poemetto sull’assedio di Alessandria mostra tutti i dubbi che gli italiani all’epoca nutrivano sulle reali intenzioni dell’imperatore: «lì è ordinata la pace / con giuramenti e firmata. / Ma se sia vera, non lo sappiamo, / noi agiamo perché sia vera, / ne ringraziamo Dio! / Che sia vera, noi speriamo». Per il secondo Anonimo Milanese, che però scriveva dopo la conclusione della vicenda, la tregua conclusa a Montebello era sicuramente «finta»; per Bosone, le città, conoscendo l’astuzia di Federico, si mossero con le dovute cautele e con la massima circospezione badarono a rafforzare i loro legami reciproci in vista di una ripresa delle ostilità. Anche i cronisti tedeschi, d’altronde, esprimevano le stesse perplessità, riversando però sulle città l’accusa di ambiguità e di malafede: per gli Annali di San Giorgio nella Foresta Nera, «i lombardi scesero a patti e immediatamente brigarono per violarli»; per gli Annales Magdeburgenses (Annali di Magdeburgo), essi attesero che Federico licenziasse le proprie truppe per denunciare gli accordi e riaprire le ostilità. In effetti, pure nei comuni vi era una forte opposizione all’eventualità di un accordo che concedesse troppo alla controparte. Secondo la testimonianza, non imparziale, fornita dal biografo di papa Alessandro III, a Cremona gli accordi di Montebello erano stati seguiti da tumulti popolari che portarono alla cacciata dei consoli. Forse si trattò solo di proteste che non ebbero conseguenze così gravi, dato che la linea politica della città non cambiò negli anni successivi. Il semplice fatto che la notizia sia circolata, comunque, ci testimonia che gli animi restavano accesi e che nelle città lombarde, al di là delle convenienze politiche del momento, continuava a sussistere un forte sentimento antimperiale. Quali che fossero le sue reali intenzioni, il Barbarossa seppe sfruttare con abilità il tempo concessogli dal prolungarsi delle

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trattative. Il tentativo di rompere l’alleanza fra i comuni e il pontefice era solo un elemento di una più ampia e complessa partita diplomatica che Federico proseguiva cercando di attrarre a sé alcuni dei suoi più antichi alleati. Senza allontanarsi, o quasi, da Pavia, dove evidentemente si sentiva al sicuro, l’imperatore ricominciò a tessere una tela di alleanze. Qui, ad esempio, egli ricevette gli ambasciatori di Genova e Pisa per tentare una nuova composizione delle vertenze fra le due città per il controllo sulla Sardegna. Il maggior successo fu conseguito alla fine di maggio quando Como, le cui forze non avevano partecipato al confronto di Montebello, abbandonò la Lega e si schierò con il Barbarossa, ottenendone in cambio la garanzia della libera elezione dei consoli, fatta salva la conferma regia, e ampie prerogative di governo sul territorio. Il risultato era importante non tanto per il contributo militare che il comune lariano, demograficamente piuttosto debole, poteva fornire, quanto perché il cambiamento di campo della città infrangeva il controllo della Lega sui passi delle Alpi centrali. Nella diocesi di Como, infatti, si trovavano le località di Bellinzona, centro chiave per accedere al passo del Lucomagno, e di Chiavenna, che controllava la via per lo Spluga. Alla fine, le trattative di pace fallirono. A maggio fu pubblicato il lodo dei consoli cremonesi, che ricalcava in gran parte il documento delle richieste comunali, sacrificando però il riconoscimento del papa, il diritto di far guerra contro l’imperatore e, soprattutto, la sopravvivenza di Alessandria: la città nuova avrebbe dovuto essere smantellata e i suoi abitanti restituiti agli originari luoghi di residenza. I cronisti dell’epoca, da Roberto de Monte all’annalista di Colonia, individuano proprio nel problema di Alessandria il nodo che impedì la conclusione dell’accordo. In effetti, la Lega non poteva accettare una simile condizione, poiché Alessandria, al di là del suo valore strategico, era a tutti gli effetti un membro dell’alleanza e abbandonarla avrebbe implicato rinnegare quell’impegno all’aiuto e all’appoggio reciproco che dell’alleanza stessa rappresentava la base e il collante. Di fronte all’offensiva diplomatica lanciata da Federico, una simile azione avrebbe rischiato di condurre al disfacimento

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l’intero fronte cittadino. I rettori ripudiarono il testo e non vi fu spazio per lo svolgimento di ulteriori colloqui. Nell’autunno del 1175, la guerra fra le due parti si riaccese. Proprio Alessandria, la città contesa, fu la prima vittima della ripresa delle ostilità. In autunno, muovendo dal territorio di Pavia, Federico lanciò diversi raid contro le campagne alessandrine, imprigionando i cittadini sorpresi all’aperto e danneggiando campi e vigneti. Il Barbarossa, però, memore della batosta subita l’anno precedente, non osò cimentarsi in un nuovo assedio invernale. Le truppe della città, peraltro, non rimasero passive davanti alla nuova aggressione e, guidate dal nuovo podestà, il bresciano Rodolfo da Concesio, reagirono saccheggiando a loro volta i vicini territori filoimperiali del marchese di Monferrato e di Pavia. Secondo Bosone, anche le forze della Lega, di fronte al fallimento delle trattative, si mossero contro Pavia, Como e il Monferrato, effettuando incursioni e devastazioni nei loro contadi. Si trattava, per il momento, di semplici scaramucce, ma erano comunque il segno che, abbandonate ormai definitivamente le speranze in una soluzione diplomatica, i due schieramenti si preparavano alla ripresa delle ostilità, rimandata alla primavera successiva. A tal fine, Federico, conscio che le truppe rimastegli erano insufficienti ad affrontare le forze coalizzate della Lega, scrisse a tutti i principi tedeschi, laici ed ecclesiastici, perché raccogliessero un nuovo esercito da inviare contro i ribelli italiani. I messi dell’imperatore percorsero tutto il regno Teutonico rilanciando l’appello. Ecco una delle lettere, inviata per l’occasione alla chiesa di Würzburg: Di sicuro alla vostra comunità sarà giunta in modo soddisfacente la notizia che nella spedizione appena conclusa abbiamo trovato i traditori lombardi ancora ribelli e contumaci, intenti a distruggere con le loro trame inique e malvagie la gloria del nome nostro e l’eccellenza dell’Impero romano e ridurle con la frode a nulla. È dunque opportuno opporsi ai loro consueti spergiuri e trucchi fallaci non solo con la saggezza del consiglio, ma anche con le armi e le forze di tutto l’Impero».

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Di conseguenza, il Barbarossa chiedeva ai religiosi di fornire pegni sufficienti per trovare un prestito di 350 marchi d’argento che consentisse al vescovo locale di equipaggiare dignitosamente un contingente e di unirsi alla spedizione. Preparato il terreno in questa maniera, a novembre, l’arcivescovo Filippo di Colonia ricevette l’incarico ufficiale di mobilitare tutte le forze disponibili e di condurle in Italia. Il 1176 sarebbe stato un nuovo anno di guerra. 3. Il colloquio che forse non ci fu Uno dei temi classici dell’iconografia e della tradizione sulla battaglia di Legnano è il colloquio avvenuto tra Federico I e suo cugino Enrico il Leone a Chiavenna, sulla via che conduce al passo dello Spluga, tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio del 1176. In quell’occasione, l’imperatore avrebbe chiesto al congiunto di unirsi con i propri cavalieri ai rinforzi mobilitati dall’arcivescovo di Colonia. Enrico avrebbe subordinato il proprio assenso, al quale non era obbligato, alla cessione della città di Goslar, sita in Sassonia, che all’epoca era nelle mani degli Hohenstaufen e che sarebbe dovuta passare nel patrimonio dei Welfen. Federico rifiutò ed Enrico a sua volta gli negò qualsiasi soccorso, indifferente alle vere e proprie suppliche del Barbarossa, che sarebbe giunto a mettersi in ginocchio pur di ottenere i soccorsi sperati. L’episodio ha avuto grande rilievo presso gli storici e i letterati dell’Ottocento. Gli italiani provavano un evidente piacere nell’immaginare il maggior esponente della nobiltà tedesca ridotto a umiliarsi in ginocchio pur di ottenere gli aiuti necessari a battere i comuni della penisola. I tedeschi a loro volta trovavano nella vicenda un’ottima giustificazione alle vicende successive, dato che l’assenza delle truppe di Enrico avrebbe avuto un’importanza decisiva a Legnano. Il problema è che la tradizione dell’evento è a dir poco incerta e non è improbabile che l’incontro fra i due principi non si sia mai verificato, come già avevano ipotizzato alcuni studiosi tede-

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schi all’inizio del secolo scorso. In effetti, né il colloquio di Chiavenna né alcun altro coinvolgimento di Enrico il Leone nell’organizzazione della spedizione di soccorso sono ricordati nelle cronache dell’epoca. La narrazione del fatto è invece presente in fonti assai più tarde, ossia la Cronaca di Ottone di San Biagio e gli Annali di Arnaldo di Lubecca, due opere redatte agli inizi del Duecento, dopo la morte di entrambi i protagonisti del presunto incontro. Altri, pur ammettendo che l’incontro ci sia stato, hanno rilevato che evidentemente l’evento non fu considerato di alcuna importanza dagli autori contemporanei e che solo a posteriori gli fu attribuito un rilievo superiore al dovuto. Qui mi limiterei a sottolineare l’improbabilità logistica di un simile colloquio. In effetti, per giungere a Chiavenna, Federico avrebbe prima dovuto arrivare a Como partendo da Pavia, il che lo avrebbe obbligato ad attraversare una buona parte del territorio milanese. Egli effettuò in effetti tale mossa a giugno, accompagnato da tutto il suo esercito, causando peraltro l’immediata reazione della Lega che portò alla battaglia di Legnano. Risulta assai più difficile credere che il Barbarossa abbia tentato un simile azzardo a gennaio o a febbraio, quando le ostilità con i lombardi erano di nuovo aperte, muovendosi in territorio nemico senza adeguata scorta e correndo a ogni momento il rischio di essere catturato. Se anche per caso l’imperatore avesse avuto una simile audacia, ancor più stupefacente risulta il fatto che nessuno dei suoi apologeti contemporanei ne abbia descritto il coraggio. È dunque probabile che anche il colloquio di Chiavenna, assieme al giuramento di Pontida e ad altri episodi, vada classificato fra gli eventi di tradizione assai dubbia, attestati solo in epoca più tarda e in sedi sospette, dell’effettiva esistenza dei quali è più che lecito dubitare, nonostante l’attenzione a loro prestata da scrittori e pittori di epoca romantica e risorgimentale. 4. La strategia imperiale A parte il dubbio colloquio di Chiavenna, durante l’inverno Federico lasciò effettivamente Pavia e compì un tour diploma-

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tico al fine di rafforzare le sue posizioni in Italia e consolidare i rapporti con i suoi alleati locali. Il 20 novembre egli era nel castello imperiale di Annone, presso Asti, da dove poi tornò in Lomellina. Dopo aver celebrato il Natale a Pavia, il 5 gennaio l’imperatore era a Torino, dove pose sotto la sua protezione il monastero del Gran San Bernardo; pochi giorni dopo si spostò a Ivrea. Federico sembrava dunque intenzionato a rafforzare le sue posizioni sull’itinerario occidentale, da lui stesso seguito nel 1174. Non sappiamo se si trattasse di un tentativo di depistare gli avversari o se la strategia imperiale avesse conosciuto un improvviso cambiamento: tali mosse si rivelarono comunque inutili, dato che l’imperatore decise di mutare le carte in tavola con una mossa tanto promettente quanto azzardata, in maniera da poter disporre al più presto delle forze con cui riprendere l’attacco. Nel marzo del 1176 Federico mise a segno un altro importante colpo diplomatico, portando dalla sua parte la città di Tortona, alla quale impose di concludere alleanza con Pavia, in cambio della quale quest’ultima avrebbe dovuto cedere a Tortona numerosi castelli da essa detenuti o protetti. L’acquisizione di Tortona al fronte imperiale rafforzava decisamente lo schieramento contro Alessandria, che veniva così a trovarsi praticamente circondata dal marchesato di Monferrato a sud e a ovest, da Pavia a nord e da Tortona a est. Il diploma federiciano specificava che il comune di Tortona non avrebbe potuto accogliere uomini originari dei borghi da cui Alessandria aveva avuto vita: evidentemente si prevedeva una vicina distruzione della città nuova e il successivo trasferimento coatto dei suoi abitanti nelle località da cui erano emigrati. La notizia della defezione di Tortona dallo schieramento comunale si sparse con rapidità, alzando non poco il morale dello schieramento federiciano: poco tempo dopo, scriveva con soddisfazione un prelato tedesco, «abbiamo sentito che l’imperatore ha preso Tortona e ricevuto nella sua grazia i cittadini di quella città e li ha legati con un patto, in modo che sia pronto ad aggredire Alessandria e che con i tortonesi aggiuntisi alle sue forze, Alessandria non è più in grado di ribellarsi».

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Forse il mutamento di campo di Tortona contribuì a mutare gli originari piani imperiali. Si presentava infatti la possibilità di un vero e proprio colpo decisivo contro Alessandria, sfruttando anche l’effetto sorpresa. Federico, dunque, invece di far effettuare ai rinforzi l’estenuante periplo occidentale attraverso la Borgogna e i territori sabaudi, optò per una strada più diretta, approfittando del recente ritorno di Como alla fedeltà imperiale. Il nuovo itinerario avrebbe visto le truppe scendere dal passo del Lucomagno, che si trova al confine tra l’attuale Canton Ticino e il Canton Grigioni. Di qui, attraverso Biasca, Bellinzona e Como, i cavalieri sarebbero giunti in Lombardia, pronti per congiungersi alle milizie di Pavia, di Tortona e del marchese di Monferrato per sferrare un colpo decisivo ad Alessandria – questa volta in piena estate e non alle soglie dell’inverno –, possibilmente prima che le città della Lega potessero coordinare una reazione efficace. La conquista di Alessandria avrebbe rappresentato un successo politico e diplomatico di prima grandezza, potenzialmente in grado di creare ulteriori defezioni nel fronte delle città antimperiali. A questo punto ignoriamo se il Barbarossa avrebbe cercato di conseguire una nuova piena sottomissione dei ribelli o se si sarebbe limitato a riaprire le trattative di Montebello su basi a lui molto più favorevoli; probabilmente, con il pragmatismo che lo contraddistingueva nell’azione diplomatica, avrebbe valutato con attenzione i nuovi rapporti di forza e deciso di conseguenza. Il piano era dunque definito. L’arcivescovo Filippo di Colonia, incaricato di arruolare l’esercito di rinforzo, ricevette istruzioni in tal senso e provvide a indirizzare le truppe da lui mobilitate verso il nuovo itinerario. Il problema maggiore di questa strategia era la mancanza di collegamento fra Como, dove sarebbero giunti i rinforzi, e Pavia, la base operativa dell’esercito imperiale. Dalla città lariana, Federico avrebbe dovuto muoversi verso sud-ovest, attraversando una parte del contado di Milano, detta il «Seprio». Ai tempi delle prime discese di Federico la nobiltà della zona era stata sua fedele alleata contro Milano, tanto da partecipare in

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prima persona alla distruzione della città, nel 1162. I milanesi, però, negli anni successivi avevano dedicato cure particolari alla sottomissione della riottosa aristocrazia sepriense. Già sullo scorcio del 1167 il vescovo Galdino aveva ottenuto un giuramento di obbedienza da parte degli abitanti della regione e imposto il milanese Pietro da Bussero nella prevostura del santuario di Santa Maria del Monte, strategicamente posto a dominare Varese, rimuovendone prete Landolfo, membro della nobiltà del Seprio, accusato di aver consegnato il monte di Santa Maria (l’attuale Sacro Monte) ai teutonici. L’operazione fu accompagnata da una vera e propria conquista militare della posizione, nella quale i sepriensi si erano attestati «contro l’onore del comune di Milano». Espugnata la vetta del monte, i responsabili della ribellione furono banditi e la regione fu riportata sotto il pieno controllo cittadino, tanto che il 20 marzo 1168 anche i rappresentanti dell’aristocrazia locale giurarono piena obbedienza al comune milanese. Federico, dunque, non poteva contare se non in minima parte sull’aiuto dei suoi partigiani locali, battuti militarmente e ormai assoggettati da diversi anni. Essi avrebbero potuto fornirgli qualche punto d’appoggio, ma non certo garantirgli la sicurezza del cammino, che si sarebbe svolto in un territorio quasi del tutto ostile. 5. Trionfo nel Meridione Cristiano di Magonza, nel frattempo, era tornato in Romagna, dove aveva riaperto le ostilità contro Bologna e i suoi alleati. I bolognesi lo affrontarono a Castel de’ Britti, ma furono rovinosamente sconfitti. Un cronista tedesco, pur deformando i fatti e attribuendoli per errore al 1172, ci offre un’idea di come la vittoria fosse accolta in Germania e dall’opinione pubblica filoimperiale: «Cristiano arcivescovo di Magonza, cancelliere imperiale e legato della sede apostolica, passando con i suoi brabantini attraverso la Lombardia e la Toscana devastandole tutte invase il territorio bolognese e stando sul suo cavallo […] di-

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cono abbia abbattuto con le sue mani nove uomini». Vedendo questo «fuggirono i bolognesi e l’arcivescovo assediò la città e danneggiò l’esercito dei bolognesi!». Infine, «l’arcivescovo con i suoi uomini, dopo aver ricevuto ostaggi e un’enorme quantità di denaro se ne andò ad Ancona». Durante l’inverno, dopo alcuni tentativi di attaccare Ferrara, rimasti senza esito, Cristiano lasciò il fronte romagnolo, ormai stabilizzato, per portarsi nel Meridione, evidentemente su ordine di Federico, con il compito di impedire al papa e al re di Sicilia, Guglielmo II, di inviare aiuti ai loro alleati lombardi. Sul finire dell’inverno Cristiano era ad Anagni, da dove poteva minacciare direttamente i collegamenti fra i territori pontifici e il regno. Il cancelliere mosse poi verso l’entroterra, penetrando nel territorio normanno in Abruzzo, dove pose l’assedio al castello di Celle di Carsoli, una località oggi in provincia dell’Aquila, a pochi chilometri dal confine laziale. Guglielmo II reagì mobilitando un esercito, posto agli ordini dei conti Ruggero di Andria e Tancredi, e inviandolo in fretta contro il legato imperiale, ma il 15 marzo Cristiano dimostrò ancora una volta la sua abilità in combattimento e affrontò in campo aperto gli aggressori, sbaragliandoli. La battaglia avvenne nei pressi di Carsoli e vide la completa disfatta dei normanni, che lasciarono nelle mani degli imperiali almeno 200 cavalieri. Altri 150 si rifugiarono nel castello di Celle, che però, ormai privo della speranza di un aiuto esterno, fu poco dopo obbligato alla resa. Gli uomini che lo difendevano e quelli che vi avevano trovato riparo furono rilasciati, ma dovettero abbandonare ai nemici tutto il loro equipaggiamento. Ignoriamo, purtroppo, i dettagli dello scontro e in che maniera Cristiano fosse riuscito a ottenere una vittoria così netta e schiacciante. È comunque indubbio che il successo di Carsoli ebbe conseguenze enormi. Non solo, infatti, qualsiasi possibilità di un aiuto militare normanno ai comuni veniva stroncata sul nascere, ma Federico dimostrava tutta la sua capacità di colpire i propri nemici nell’intera penisola. Alessandro III e Guglielmo II ricevevano un messaggio assai minaccioso, poiché se la campagna nel Settentrione si fosse conclusa positivamente, niente

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avrebbe potuto trattenere l’imperatore dal dilagare anche nel Lazio e nel regno di Sicilia. Cristiano, vittorioso, poté mettersi in marcia verso Nord per unire le proprie forze a quelle concentrate a Pavia e a quelle che stavano giungendo dalla Germania per assestare poi il colpo definitivo ad Alessandria. La campagna imperiale stava iniziando sotto i migliori auspici.

6. 29 MAGGIO 1176: LA BATTAGLIA 1. Il passaggio delle Alpi Ricevute le lettere di Federico, gli arcivescovi di Colonia e di Magdeburgo si misero all’opera per raccogliere un nuovo esercito, sia attingendo alle forze delle loro arcidiocesi, sia mobilitando tutti gli altri vescovi, principi e semplici militi che volessero partecipare. Le operazioni si svolsero celermente, sicché al principio della primavera del 1176, il giorno dell’ottava di Pasqua (ossia l’11 aprile), il nuovo contingente destinato a raggiungere l’Italia poté mettersi in marcia. Trattandosi di una forza composta dalla sola cavalleria, la marcia attraverso la Germania fu celere: il 12 maggio la colonna era a Weingarten, nella Svevia meridionale, a breve distanza dal lago di Costanza. Da lì, dopo un breve tragitto, raggiunse Bregenz, da dove risalì la valle del Reno. Entro la fine di maggio i due prelati poterono guidare i loro uomini attraverso le Alpi, con un itinerario di circa 300 chilometri, che fu possibile coprire in meno di due settimane. All’epoca la strada del passo San Gottardo non era ancora percorribile, poiché venne aperta soltanto nei primi decenni del Duecento, grazie alla costruzione di alcuni ponti. Le truppe transitarono allora per Coira e per Disentis, per poi muovere verso il passo del Lucomagno a ovest del Gottardo. Nel contempo, Federico lasciò a sua volta Pavia alla testa di tutti i cavalieri tedeschi che erano rimasti con lui e, con una rapida e azzardata marcia attraverso il territorio di Milano, raggiunse Como. Di qui, per ricongiungersi nel più breve tempo possi-

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bile con gli attesi rinforzi, cominciò a risalire la via per Bellinzona, una piazzaforte strategicamente fondamentale nelle mani dei comaschi. Per giungere dal Lucomagno a Bellinzona bisognava attraversare la lunga e stretta valle di Blenio. La valle, lunga una quarantina di chilometri, assieme alle contigue Leventina e Riviera, apparteneva da tempo al capitolo del Duomo di Milano, che vi esercitava la sua signoria. Dopo la distruzione di Milano, l’imperatore aveva assegnato le tre valli ambrosiane al conte Cuno di Lenzburg, suo vassallo, che ne assunse il controllo con l’appoggio delle locali famiglie aristocratiche dei di Torre e dei di Giornico. Si trattava di un regime quasi militare, visto che il compito dei nuovi dominatori era di garantire l’eventuale transito alle truppe imperiali. Diverse testimonianze ricordano l’ostilità degli abitanti nei confronti di Cuno, degli «alamanni» e dei loro referenti locali. Estintasi nel 1173 la casata dei Lenzburg, Federico attribuì la regione al demanio imperiale. Il governo venne delegato ai di Torre e ai di Giornico, in cambio di un canone annuo. Milano, ormai ricostruita, mirava però a sua volta a riprendere il controllo sulle valli: i canonici milanesi rivitalizzarono i legami con i loro vecchi interlocutori, stimolando il rimpianto degli abitanti verso la signoria del capitolo, meno pesante di quella imperiale. Così, quando il Barbarossa si mosse da Bellinzona verso nord, si trovò in un territorio che, pur teoricamente sottomesso, gli era in realtà ostile. Le cronache contemporanee non parlano di quanto accadde, forse perché tutto sommato si trattò di un fatto di minore rilievo, ma in un processo tenutosi agli inizi del Duecento un testimone assai anziano ricordò con precisione un interessante episodio e lo narrò ai notai che ne verbalizzarono le parole. Grazie alla sua memoria, possiamo sapere che Federico in quell’occasione si trovò la strada sbarrata dal castello di Serravalle: costretto a fermarsi per quattro giorni, se ne impadronì e lo cedette al suo fedele locale, Alcherio di Torre, per consolidare il suo controllo della via. È probabile, però, che la resistenza di Serravalle e l’amicizia così dimostrata dagli abitanti del posto verso i milanesi abbiano permes-

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so che la notizia dell’arrivo dell’esercito teutonico raggiungesse la metropoli ambrosiana, la quale fu così in grado di preparare le sue contromisure. Realizzato finalmente il congiungimento fra la colonna di soccorso e quella imperiale, la massa dei cavalieri ritornò a Como. Qui, alle forze federiciane si aggiunsero i comaschi. Benché le affermazioni di alcuni cronisti sembrino attestare che tutto l’esercito cittadino si era unito all’imperatore, il fatto pare assai improbabile, sia perché ciò avrebbe implicato lasciare la città del tutto sguarnita, sia perché nei piani di Federico l’attraversamento del territorio milanese andava effettuato con la massima celerità, prestazione incompatibile con la presenza di un migliaio – o forse più – di combattenti a piedi. Un contingente completamente montato poteva infatti percorrere una cinquantina di chilometri al giorno senza sforzare troppo le cavalcature, mentre con un seguito di fanti la velocità della colonna si sarebbe almeno dimezzata. Fu dunque la sola cavalleria comasca ad aggregarsi all’esercito imperiale, pronto a muovere verso sud. 2. Mosse e contromosse Nel frattempo, i milanesi e la Lega tutta si erano posti in allarme, forse proprio per le notizie arrivate dalla valle di Blenio. La mobilitazione delle forze coalizzate, prevista per la difesa di Alessandria, venne in tutta fretta reindirizzata verso Milano. Ciò nonostante, la rapidità dei movimenti imperiali parve spiazzare le forze cittadine. Le parole del secondo Anonimo Milanese ci restituiscono lo sgomento che si diffuse nella metropoli lombarda alle soglie della battaglia di Legnano: «si diceva che erano 2.000 i cavalieri che aveva fatto venire per la via di Disentis, in maniera talmente segreta che nessuno dei lombardi ne era venuto a conoscenza. E quando erano già a Bellinzona, la cosa a dirsi pareva ancora incredibile!». Quando Federico tornò a Como dopo essersi congiunto con la colonna di rinforzo, la concentrazione delle truppe comunali era appena iniziata. Alcuni reparti di cavalleria avevano sì rag-

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giunto Milano, ma la gran massa degli uomini, provenienti soprattutto dalle città della Marca Veronese, era ancora in marcia. Ai comandanti delle truppe alleate si poneva dunque un grave dilemma. Vi era l’opportunità di sorprendere il Barbarossa alla testa di una frazione delle sue forze e di impedirgli di congiungersi con i contingenti di Pavia, di Tortona, del marchese di Monferrato e di Cristiano di Magonza; per far ciò, però, la Lega avrebbe a sua volta dovuto rischiare di dar battaglia con organici ridotti, senza poter attendere il grosso dei rinforzi inviati dai comuni alleati. Ignoriamo quali siano stati i dibattiti che a Milano precedettero l’inizio delle operazioni. La città era anche sotto shock poiché il 18 aprile era morto l’arcivescovo Galdino della Sala, tenacissimo avversario del Barbarossa e grande animatore della riscossa dopo la distruzione e la ricostruzione della città. La discussione sulla sua successione mostra la divisione dell’élite milanese in due parti: una, che voleva un compromesso con Federico, appoggiava la candidatura del vescovo di Torino Milone da Cardano; l’altra, fautrice della lotta a oltranza, voleva in cattedra l’arcidiacono Uberto Crivelli. L’elezione episcopale fu rimandata per alcuni mesi, ma l’emergenza militare non poteva aspettare e a Milano prevalse il partito della guerra: troppo ghiotta era l’opportunità di sbarrare la strada all’imperatore sottraendogli l’iniziativa. Si decise dunque di utilizzare le truppe in quel momento a disposizione, ossia fondamentalmente i milanesi, senza attendere le fanterie degli alleati bresciani e veneti che, una volta arrivate, avrebbero dovuto fungere da guarnigione per Milano, per l’occasione quasi svuotata di tutti i suoi migliori combattenti. Il 28 maggio, i due eserciti si mossero. Federico, lasciata Como, procedette dapprima verso sud, per poi volgersi a ovest, forse all’altezza di Appiano Gentile. Raggiunto il villaggio di Cairate, vi pose il campo per la notte. Composto quasi esclusivamente da cavalleria, l’esercito imperiale si mosse abbastanza celermente e riuscì a percorrere circa 30 chilometri, pur avanzando su un terreno difficile e privo di buone vie di comunicazione. Con tale manovra, il Barbarossa si lasciava alle spalle il

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borgo di Varese, evitando di passare vicino a una località ben fortificata e fedele al comune di Milano. Cairate, invece, era dominata dall’abbazia benedettina di Santa Maria, un’enclave giurisdizionale dipendente dal vescovo di Pavia, pur in territorio milanese, legata alla nobiltà del Seprio, sempre potenzialmente ostile ai milanesi. L’ente aveva ottenuto da Federico un diploma di protezione nel 1158 ed è probabile che i monaci abbiano aiutato l’imperatore, fornendogli viveri e supporto nonché alloggio nel castello del luogo, da loro controllato. Fu dunque in questa località relativamente sicura che il Barbarossa decise di superare l’unico ostacolo naturale che gli si parava davanti, facendo oltrepassare al suo esercito il fiume Olona. Egli poteva così prepararsi per una seconda tappa che, con un itinerario di una cinquantina di chilometri, percorribile senza problemi in una giornata di marcia a cavallo, l’avrebbe portato nel territorio dell’alleata Pavia. A loro volta, le truppe della Lega procedettero risolutamente contro l’imperatore. Il movimento delle forze comunali era assai più lento rispetto a quello dei loro avversari, a causa della massa della fanteria e della presenza del carroccio milanese, trainato da alcune pariglie di buoi. A differenza dei teutonici, però, i lombardi avevano il grande vantaggio di avanzare lungo un asse stradale di primaria importanza, la via che conduceva al Sempione. Grazie a ciò, l’esercito coalizzato poté a sua volta percorrere quasi 30 chilometri nel corso della giornata e accamparsi nel villaggio di Legnano. La scelta di Legnano quale base operativa era sicuramente ben meditata. La posizione strategica della località consentiva all’esercito comunale sia di sbarrare la via del Sempione, nel caso che Federico intendesse compiere un’incursione contro Milano, sia, con una breve marcia, di impedirne l’avanzata verso Pavia. Se poi l’imperatore avesse effettuato una semplice diversione per procedere sull’asse Como-Milano, puntando decisamente sulla metropoli, una via abbastanza celere avrebbe consentito alla cavalleria di portarsi rapidamente a Saronno. Inoltre Legnano era sottoposta alla signoria dell’arcivescovo ambrosiano, all’epoca fervente sostenitore della lotta antimperiale, e i suoi abitanti

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avrebbero fornito alloggio, strame per i cavalli e appoggio logistico per i trasporti di armi e rifornimenti. Si poteva così contare anche sulle risorse locali per nutrire e alloggiare la massa di forse 15.000 uomini che si era mossa da Milano. 3. Le forze in campo: gli imperiali I movimenti dei due eserciti nella giornata del 28 maggio condizionarono in maniera determinante il successivo sviluppo delle operazioni. Stretto fra l’Olona e il Ticino, che gli impedivano movimenti a largo raggio, Federico non poteva più sfuggire all’esercito comunale e doveva aprirsi combattendo la strada verso sud, al fine di raggiungere Pavia; le truppe di Milano e delle città alleate, a loro volta, avevano preso posizione in maniera da impedirglielo. Non era però sicuro che ci sarebbero riuscite. Non è facile dire esattamente con quali forze i due schieramenti si preparassero allo scontro. Molti studiosi hanno ipotizzato cifre bassissime, quasi che la battaglia fosse stata poco più di una scaramuccia che coinvolse poche centinaia di soldati. In realtà le fonti, se analizzate con attenzione, concordano nell’attribuire agli eserciti in campo un’entità di parecchie migliaia di uomini, con una netta superiorità delle forze comunali, ma una consistenza tutt’altro che trascurabile di quelle federiciane. Secondo il cancelliere imperiale Goffredo da Viterbo, Federico aveva con sé circa 500 cavalieri, mentre il resto erano clientes, ossia ausiliari. Questo ha indotto alcuni studiosi ad affermare che l’imperatore dette battaglia alla testa di soli 500 uomini, ma è probabile che Goffredo, panegirista imperiale, cercasse di abbassare a bella posta il numero dei combattenti a disposizione di Federico, in maniera da esaltare la sproporzione di risorse fra il Barbarossa e l’esercito comunale, così come è probabile che molti dei presenti, pure senza essere veri e propri cavalieri «addobbati» (ossia uomini che avevano ricevuto una formale investitura cavalleresca), fossero lo stesso combattenti a cavallo, in particolare i mercenari del Brabante.

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Induce a considerare troppo bassa la cifra fornita da Goffredo anche il buon numero di personaggi di rilievo rimasti al fianco di Federico nel suo soggiorno italiano, anche dopo il licenziamento di parte delle truppe nel 1175. Un diploma del marzo del 1176 elenca infatti numerosi nobili di area germanica presenti a Pavia quali testimoni dell’atto. Oltre a Florent III, conte di Olanda, che era probabilmente a capo di un buon numero di cavalieri brabantini, si trovavano a Pavia il marchese Teodorico di Landsberg, il conte Bernardo di Sassonia, i nobili Corrado di Ballhausen, Enrico di Ditze, Corrado di Bocksberg, Corrado Pincerna, Costantino di Berga, il potente ministeriale Cuno di Münzberg e alcuni membri della corte come Enrico maniscalco, Gualtiero vessillifero e Goffredo cancelliere (il nostro Goffredo da Viterbo). Il gruppo dei nobili e dei funzionari è assai numeroso e, anche attribuendo a ognuno di loro poche decine di cavalieri di scorta, risulta evidente che a Pavia c’erano parecchie centinaia di cavalieri tedeschi, alle quali dovevano aggiungersi quelli che stavano giungendo attraverso le Alpi. I rinforzi erano guidati dagli arcivescovi Filippo di Colonia e Wichmann di Magdeburgo, nonché dal conte Filippo di Alsazia e dal vescovo Corrado di Worms. Non si trattava di una forza delle dimensioni di quella mobilitata due anni prima, poiché evidentemente l’insuccesso e i costi umani e materiali della campagna contro Alessandria avevano scoraggiato un buon numero di partecipanti, ma non era certo un contingente trascurabile. Nessun cronista tedesco si spinge a fornire il numero di combattenti che accompagnavano i due prelati, ma è comunque possibile tentarne una valutazione. L’arcivescovo di Colonia, in teoria, disponeva di un’imponente quantità di uomini d’arme, tanto che al massimo delle sue forze poteva mobilitare fino a 1.700 cavalieri. Non gli era però possibile inviarne così tanti in Italia, anche perché le continue richieste imperiali stavano intaccando le pur consistenti risorse della diocesi. Per pagare la spedizione del 1176 Filippo aveva dovuto dare in pegno due vasti appezzamenti di terreno al fine di ottenere in prestito 400 marchi d’argento per armare ed equipaggiare il nuovo contingente per il quale, come afferma la continuazione alla Chronica Regia di Co-

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lonia, «poté raccogliere pochi cavalieri, ma forti». Si può dunque pensare, come ritengono diversi studiosi, che il prelato abbia radunato circa 500 militi, ossia quanti ne condusse con sé in Italia il suo predecessore Rainaldo di Dassel nel 1161. Forse altrettanti ne aveva l’arcivescovo di Magdeburgo, allora all’apice della sua potenza, che secondo gli Annali locali aveva armato «tutti coloro che aveva potuto attrarre a sé, fra vescovi, principi e cavalieri». A questi vanno aggiunti gli uomini degli altri nobili unitisi alla spedizione, di cui è impossibile fare una valutazione certa, e i cavalieri di Como, probabilmente un centinaio o poco più. Tutti i più competenti studiosi della guerra medievale, da Hans Delbrück a Jean-François Verbruggen, convergono su una valutazione di massima che attribuisce a Federico un esercito stimabile fra i 2.500 e i 3.500 cavalieri pesanti, di cui un terzo già presenti in Italia e i restanti sopraggiunti come rinforzo. Tutto ciò ci conduce a prendere in esame quanto afferma il secondo Anonimo Milanese, che, come al solito, si dimostra assai bene informato. Secondo i suoi Annali, infatti, Federico aveva con sé circa 1.000 cavalieri teutonici, ma si diceva che altri 2.000 ne avesse fatti venire attraverso le Alpi. La cifra, alla luce delle considerazioni appena fatte, risulta pienamente plausibile. L’Anonimo aveva dunque buone fonti e non vi sono fondati motivi per non dare credito ai dati da lui presentati: con ogni probabilità Federico si presentò sul campo con circa 3.000 uomini, di cui 1.000 lo avevano seguito da Pavia e i restanti erano appena giunti dalla Germania. Si trattava di una forza tutt’altro che trascurabile, superiore a quanto potevano mettere in campo quasi tutti i principi europei contemporanei. I cavalieri pesanti tedeschi, inoltre, erano particolarmente temibili. Si trattava per la maggior parte di uomini che vivevano del mestiere della spada, che sulla loro capacità di combattere avevano costruito la loro fortuna e il loro status sociale e che dai redditi della guerra traevano una buona parte delle loro ricchezze. Veri professionisti della guerra, essi erano noti soprattutto per la capacità di muoversi in nuclei estremamente compatti sicché, stretti attorno ai loro vessilli a grup-

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pi di venti o trenta, andavano all’assalto senza disperdersi, esaltando così l’effetto della carica. Questa loro abilità li aveva portati a conseguire grandi vittorie nel corso del XII secolo, e ancora nel Duecento li avrebbe resi i più pericolosi fra i combattenti a cavallo occidentali. Inoltre, i militi teutonici erano altrettanto abili a battersi a piedi, fatto che, come vedremo, forse si verificò anche durante la battaglia. Possediamo molte raffigurazioni di cavalieri tedeschi dell’epoca federiciana, il che ci permette di ricostruirne l’aspetto e l’armamento. L’equipaggiamento a loro disposizione non si discostava da quello in uso nel resto d’Europa, diffuso in tutto il continente dai Normanni. I combattenti erano innanzitutto protetti dall’usbergo, una lunga cotta di maglia, formata da anelli metallici riuniti, che copriva l’intero corpo dalle ginocchia alla testa. A questo talvolta si attaccavano delle gambiere, anch’esse in cotta di maglia, che rivestivano piedi, polpacci e cosce. L’armatura forniva una buona difesa dalle frecce e dai colpi delle armi da taglio, mentre contro le lance dei cavalieri avversari si faceva uso di un grande scudo in legno rinforzato, che terminava a punta, in maniera da poter essere maneggiato anche rimanendo in sella. Un elmo aperto, con copertura per il naso, veniva indossato sopra il cappuccio metallico dell’usbergo a ulteriore protezione del capo, mentre sul tronco si portava un giubbotto imbottito, per attutire il trauma da impatto dei colpi che raggiungevano l’armatura senza perforarla. L’arma principale della cavalleria era la lancia, lunga circa due metri e mezzo, che veniva utilizzata di punta, ponendola sotto l’ascella destra, nel corso delle cariche. Utilizzando le staffe e una speciale sella particolarmente alta che sorreggeva la schiena, il cavaliere poteva in tal modo colpire l’avversario con tutta la forza che derivava dalla corsa del destriero (circa 40 chilometri orari), sufficiente a perforare uno scudo e a penetrare un’armatura. Dopo il primo impatto, se ci si batteva in mischia, veniva estratta la spada, un’arma a doppio taglio, lunga circa un metro e pesante fra uno e due chilogrammi, in grado di mozzare di netto un arto o di sfondare un cranio privo di adeguata protezione.

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L’esercito federiciano era composto esclusivamente da cavalleria pesante: i fanti e i tiratori tedeschi non facevano parte delle truppe mobilitate per le spedizioni in Italia, e quelli di Como, come si è accennato, furono probabilmente lasciati in città o destinati in piccolo numero alla scorta dei bagagli e delle bestie da soma. D’altro canto la presenza di troppi uomini appiedati sarebbe stata di peso, visto che Federico prevedeva solo una rapida marcia di trasferimento: gli 80 chilometri che separavano Como da Pavia attraverso l’itinerario occidentale, di cui oltre la metà in territorio nemico, sarebbero risultati interminabili se percorsi al passo dei fanti. Pavia stessa, il marchese di Monferrato e i nuovi alleati di Tortona avrebbero poi procurato i combattenti a piedi necessari per la nuova campagna contro Alessandria. 4. Le forze in campo: i comuni Dall’altra parte, invece, muoveva un esercito composto principalmente da fanteria, pur affiancata da una quantità non trascurabile di armati a cavallo. L’Anonimo Milanese, curiosamente, ci informa sulla consistenza di alcuni rinforzi alleati, ma non su quella delle truppe della sua città. Secondo la sua testimonianza, comunque, a Legnano vi furono 50 cavalieri di Lodi, 300 di Vercelli e di Novara, 200 di Piacenza e tutta la cavalleria di Brescia e delle città della Marca Veronese. Con molta approssimazione possiamo pensare a circa 2.500-3.000 cavalieri (Goffredo da Viterbo dice che erano 2.000, ma non è facile stabilirne l’attendibilità), di cui la metà – o poco più – milanesi e i restanti provenienti dalle città amiche. Ancora maggiore è l’incertezza riguardo al numero dei fanti, tutti provenienti da Milano: attribuendo alla città una consistenza demografica di circa 80-90.000 abitanti, si può pensare che 10-12.000 validi combattenti a piedi potessero essere mobilitati per seguire il carroccio. L’ordinamento dell’esercito milanese all’epoca delle guerre col Barbarossa ci è descritto in una lettera del segretario imperiale Burcardo e nella cronaca del lodigiano Acerbo Morena. I

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due autori, con termini praticamente uguali, narrano la resa di Milano all’imperatore, nel 1162. La complessa cerimonia, svoltasi a Lodi, vide le varie componenti dell’esercito ambrosiano, precedute dai consoli, presentarsi davanti a Federico, consegnando se stesse e la città e implorando la grazia sovrana. Secondo la narrazione di Burcardo si presentarono dapprima «trecento elettissimi cavalieri di Milano con i detti consoli» i quali «consegnarono le chiavi della città, e rassegnando i vessilli principali di tutte le schiere e di tutte le porte, che erano in numero di trentasei»; il giorno successivo «venne il popolo, col carroccio, che noi chiamiamo stendardo, e la restante moltitudine dei cavalieri portando tutti i vessilli delle vicinie, in numero di cento o poco più». Quasi concorde il Morena, secondo il quale dopo i consoli deposero le armi «trecento cavalieri di Milano davanti all’imperatore nel palazzo, fra cui vi furono trentasei vessiliferi, che diedero i vessili nelle mani dell’imperatore, baciandogli il piede» e l’ingegnere Guintelmo, che consegnò al sovrano le chiavi della città, mentre l’indomani giunsero «quasi mille fanti con il carroccio e il vessillo grande sopra il carroccio e con 94 bandiere». Se ne può dedurre che la cavalleria ambrosiana era divisa in 36 reparti, 6 per ogni quartiere cittadino (porta), mentre i fanti erano ripartiti per singole parrocchie e si presentavano sul campo di battaglia con un centinaio di differenti bandiere, una per ogni circoscrizione cittadina. Una miniatura degli Annali di Genova che raffigura la battaglia e che deve essere quasi contemporanea agli eventi, mostra due cavalieri lombardi che ne attaccano uno tedesco mettendolo in fuga. I due sono armati di lancia, che utilizzano in posizione di carica, e protetti da una lunga cotta di maglia, che li copre dalla testa alle gambe, e da un elmo aperto, dotato di nasale. Essi portano poi un grande scudo di forma triangolare, o a «mandorla», decorato a colori vivaci. I cavalli, invece, non hanno alcuna difesa, essendo dotati solo della sella e dei finimenti. L’equipaggiamento poteva essere completato da ulteriori pezzi, come dimostrano alcuni documenti dell’epoca. Dopo la conquista di Crema, nel 1160, il Barbarossa donò ai lodigiani 300 armature di cui si era impadronito nel borgo, composte da loricae (cot-

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te di maglia), gamberiae (gambiere, anch’esse in maglia di ferro, da indossare a protezione delle gambe), clipea (scudi) e cassides (elmi). Secondo i conti piacentini del 1170, una gambiera valeva circa 6 soldi, un usbergo o lorica una ventina, ossia una lira d’argento, una cifra tutt’altro che trascurabile per l’epoca. La cavalleria lombarda, insomma, era equipaggiata più o meno nella stessa maniera di quella tedesca, ma risultava complessivamente meno agguerrita: i militi d’oltralpe, come abbiamo visto, erano veri professionisti della guerra, dediti quasi esclusivamente a tale occupazione e in quanto tali abili ed estremamente allenati. Fra i combattenti comunali (che, ricordiamolo, erano semplicemente i cittadini più ricchi, in grado di permettersi l’acquisto di un cavallo e del relativo equipaggiamento) si contavano invece in buon numero mercanti, giudici, notai e persino ricchi artigiani, uomini che, benché non privi di esperienze di combattimento, non avevano certo la possibilità di dedicare all’addestramento bellico la totalità del loro tempo. Per quanto riguarda i fanti, le maggiori informazioni sul loro equipaggiamento ci sono fornite da una serie di bassorilievi fatta realizzare verso il 1171 per decorare la porta detta «Romana» che si apriva nella cinta muraria di Milano, in corso di ricostruzione dopo la distruzione del 1162. Gli uomini ivi raffigurati presentano dotazioni assai differenti fra loro. Facevano infatti parte del più vasto insieme dei «popolari» (così erano detti gli uomini che non erano cavalieri) gruppi sociali molto articolati, dai ricchi artigiani, prestatori e commercianti ai più modesti bottegai, ai contadini, ai salariati e agli apprendisti. Le diverse capacità economiche si riflettevano in livelli di armamento altrettanto diversi. La dotazione standard, comune a tutti, era costituita dal casco con nasale, dallo scudo e dalla lancia, lunga probabilmente un paio di metri. I più poveri tra i fanti si riparavano con semplici scudi di legno, di forma triangolare, che coprivano buona parte del corpo; chi poteva permetterselo utilizzava invece scudi rafforzati con bordature metalliche o un umbone, ossia una sporgenza ferrea centrale, e ne integrava la protezione con pettorali di cuoio e giubbe imbottite di canapa o di crine, utili ad ammortizzare l’impatto dei colpi. Il bassorilievo

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raffigura infine due uomini a piedi pesantemente corazzati, uno dotato di un usbergo di cotta di maglia, l’altro con una lorica a scaglie, entrambi armati con una corta lancia. Ai piedi dei due mancano gli speroni, assenza che fa pensare che si trattasse di due fanti particolarmente ben equipaggiati e non di cavalieri smontati: forse si trattava di portainsegne. Altrettanto variegato era l’armamento individuale: oltre alla lancia, chi poteva permetterselo non doveva disdegnare di portare una spada, altri si accontentavano di coltellacci o di strumenti di lavoro utilizzabili anche in combattimento, quali mannaie, roncole o asce. Nelle sculture sono raffigurati guerrieri dotati di spade a doppio taglio, mazze ferrate e gisarme o forse falcioni, questi ultimi destinati a disarcionare i cavalieri avversari. Insomma, la fanteria non era una semplice massa di uomini poco addestrati e destinati a opporre passivamente la propria selva di lance al nemico, ma un’entità articolata, i cui membri avevano disponibilità economiche differenti e altrettanto differenti livelli di equipaggiamento. Molti fra loro, probabilmente la maggior parte, oltre alla lancia e allo scudo avevano altre armi da taglio o da botta, che li rendevano in grado di combattere anche quando si trovavano al di fuori della linea dei lancieri. Il numero e la compattezza erano la loro risorsa principale contro le cariche della cavalleria, ma essi erano sufficientemente duttili da essere utilizzati anche in operazioni offensive o in contrattacchi contro altri combattenti a piedi o unità di cavalleria scompaginate, stanche o colte di sorpresa. Simbolo dell’esercito era il carroccio, un carro di dimensioni piuttosto rilevanti, trainato da alcune pariglie di buoi, sul quale era issata una bandiera con l’insegna del santo patrono. Inventato nel 1037 dall’arcivescovo ambrosiano Ariberto da Intimiano, era ormai da oltre un secolo il punto di riferimento ideale di tutto il comune milanese, tanto che la sua consegna al Barbarossa, nel 1162, era stata il culmine dell’umiliazione collettiva a cui la cittadinanza era stata sottoposta. Ricostruito assieme alla città, era stato il modello per realizzazioni similari anche negli altri centri aderenti alla Lega, tanto che a Montebello ve ne erano ben quattro: quelli di Milano, Brescia, Piacenza e Verona.

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Il carroccio era a un tempo una risorsa pratica sul campo di battaglia – poiché era visibile da lontano, incuteva rispetto e timore nel nemico e fungeva da punto di riferimento per lo schieramento e i movimenti dell’esercito – e un simbolo di grande importanza che ricordava ai combattenti, quale che fosse il loro ruolo o il modo di combattere, la loro appartenenza a quell’entità superiore e unificante che era la città. È stato acutamente osservato che montare il gonfalone su un carro era una dimostrazione visibile dell’eguaglianza dei cives, dato che in tal modo nessuno poteva vantarsi di esserne il portatore o il responsabile. Probabilmente, come è attestato per le epoche successive, il carroccio disponeva di una scorta speciale di uomini armati che ne garantivano la sicurezza. A Legnano si fronteggiavano dunque due eserciti composti in maniera radicalmente diversa. Quello tedesco, in virtù del suo addestramento e della sua bellicosità, sarebbe risultato praticamente imbattibile in un combattimento contro avversari a loro volta composti in prevalenza da cavalleria pesante. Ma le forze della Lega erano qualcosa di ben differente. Grazie alla loro ricchezza, alla consistenza della loro popolazione e, soprattutto, grazie alla loro profonda coesione sociale, le città italiane potevano mettere in campo una risorsa che mancava alle monarchie feudali dell’epoca: una massa di fanteria addestrata, bene armata e motivata, in grado di battersi fianco a fianco con la cavalleria, in una prospettiva di stretta collaborazione fra le forze. Erano in campo due modelli contrapposti di esercito, che riflettevano due modelli contrapposti di società. 5. Il combattimento inevitabile Federico mosse da Cairate all’alba, per procedere verso sud. Non c’erano grandi assi stradali lungo l’itinerario percorso dall’esercito imperiale. Una qualsiasi cartina, anche moderna, consente di individuare facilmente la via obbligata lungo la quale si incamminarono le forze del Barbarossa, percorrendo le strade sterrate che congiungevano via via i diversi villaggi che costella-

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vano la zona. L’itinerario più diretto costeggiava l’Olona attraverso Lonate Ceppino, Fagnano Olona e Solbiate, dove consistente era la presenza della famiglia filoimperiale dei Castiglioni, fino a Busto Arsizio; poi, sfiorando Legnano, proseguiva per Busto Garolfo, Inveruno, Marcallo, Magenta e Abbiategrasso. Di qui sarebbe stato possibile piegare direttamente verso il Ticino e costeggiarlo fino a congiungersi con le truppe di Pavia. Una volta valicato l’Olona, le forze imperiali non avevano reali alternative a questo percorso, basato sulle uniche strade di un certo rilievo che attraversavano la regione senza dirigersi verso Milano. Svoltare a ovest e tentare di passare il Ticino, infatti, le avrebbe portate nel contado di Novara, che aderiva alla Lega, con il fortissimo rischio di essere sorprese durante il guado da un attacco a tenaglia portato dalle due parti. L’itinerario dell’esercito di Federico era dunque facilmente prevedibile, anche da parte dei suoi nemici, che dovevano essere discretamente informati sulle sue mosse, dato che ci si trovava nel territorio milanese e che non mancavano gli abitanti delle località attraversate disposti a collaborare con gli esploratori delle forze comunali. Si è insistito spesso sulla casualità della battaglia di Legnano, presentandola come lo scontro fortuito di due eserciti in marcia. In verità non fu così, come attestano tutte le cronache dell’epoca. Le fonti, in particolare quelle tedesche, insistono infatti sull’idea che le forze comunali avevano coscientemente sbarrato la strada a quelle imperiali, nell’intento di obbligarle alla battaglia in condizioni sfavorevoli o di costringerle a rientrare a Como, dove sarebbero rimaste praticamente intrappolate. Gli Annali di Magdeburgo sono molto espliciti al riguardo, laddove affermano che «i lombardi con grande moltitudine di uomini mossero contro [Federico] e posero insidie su tutte le strade per le quali si poteva raggiungere Pavia». Non meno chiaro è il cronista di Colonia: «i milanesi, i veronesi e gli altri lombardi, raccolto un immenso esercito, si avvicinavano a Como al fine di provocare a battaglia il nuovo esercito ancora stanco del viaggio e sconfiggerlo». Agli occhi dei teutonici non vi era dubbio sulla precisa pianificazione e sull’intenzionalità delle mosse degli avversari.

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Como Cairate

Fagnano Olona

Turate

Busto Arsizio Legnano Borsano Canegrate Nerviano Busto Garolfo

Olona

Magenta Milano

o Ticin Abbiategrasso

Pavia

LEGNANO Movimento dell’esercito imperiale Itinerario previsto dall’esercito imperiale Movimento dell’esercito comunale

Luogo della battaglia Accampamento comunale Accampamento imperiale

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In effetti, dopo aver appreso che Federico si trovava a Cairate, i comandanti dell’esercito comunale non potevano più avere dubbi sui piani dell’imperatore, poiché un tentativo di attacco verso Milano, condotto lungo l’asse del Sempione o dalla Brianza, avrebbe imposto alle truppe tedesche di rimanere sulla sponda sinistra dell’Olona. Individuato l’unico percorso plausibile, le truppe di Milano e degli alleati potevano disporsi senza problemi nella posizione per loro migliore, in attesa del combattimento decisivo. La posizione fu trovata un paio di chilometri a ovest di Legnano, a nord del villaggio di Borsano, là dove passava la strada per Magenta e dove una spianata sufficientemente vasta avrebbe consentito il completo schieramento della fanteria. Il luogo era a brevissima distanza dalla base operativa delle forze comunali, sicché i combattenti poterono raggiungerlo senza stancarsi e disporsi con calma, ben prima che vi giungessero i teutonici. Vi fu anche il tempo per richiedere la protezione divina, con una sequenza di preghiere rivolte soprattutto a sant’Ambrogio che, benevolo, vegliava sullo schieramento dall’alto del suo gonfalone issato sul carroccio. È probabile che nel contempo vi sia stata anche un’allocuzione dei comandanti, volta a motivare le truppe e a esortarle al combattimento. Anche se le cronache non ce ne offrono una descrizione precisa, cerchiamo di visualizzare i due eserciti, poco prima che iniziasse lo scontro decisivo. Le forze del Barbarossa avanzavano a cavallo lungo le piccole strade campestri che da Cairate portavano a Busto Arsizio e da qui proseguivano verso Borsano, avvicinandosi a Legnano. Forse, come scrivono Romualdo e Bosone, procedendo effettuavano qualche saccheggio e arrecavano danni, ma non era sicuramente questo il loro scopo principale. I 3.000 cavalieri formavano una larga colonna che proseguiva per centinaia e centinaia di metri di lunghezza. Probabilmente i combattenti erano raggruppati a seconda dei corpi di appartenenza: il contingente già presente in Italia, alle dipendenze dirette di Federico, stretto attorno allo stendardo imperiale e a quelli dei nobili del suo seguito; le truppe dell’arcivescovo di Colonia e di quello di Magdeburgo a loro volta raccolte presso le rispettive insegne; la schiera di cavalieri comaschi con la loro bandiera civica.

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All’interno di questi reparti più vasti, i cavalieri erano radunati in nuclei composti da 10 a 30 elementi provenienti dallo stesso luogo, dipendenti dallo stesso signore o semplicemente affratellati dalla lunga consuetudine e perciò dotati di un significativo grado di coesione e di intesa reciproca. Si trattava dei reparti tattici di base, in francese conrois, che fra i tedeschi, a partire almeno dal Duecento, furono chiamati «bandiere». Lo schieramento di marcia era chiuso dai bagagli e dai rifornimenti, che venivano trasportati a dorso di asino. Ammettendo che l’esercito si fosse mosso all’alba, la colonna percorse i circa 14 chilometri che separano Cairate da Borsano in meno di 3 ore, al buon ritmo di 5 chilometri orari. Con opportuna prudenza, Federico aveva inviato in avanguardia una forza piuttosto consistente, di 300 cavalieri, col compito di precedere il grosso del contingente e individuare eventuali pericoli. Sull’altro fronte l’esercito comunale si era a sua volta mosso dal campo di Legnano e, reperito un terreno favorevole allo scontro, si era disposto a bloccare la strada che conduceva a Magenta. Su una spianata abbastanza vasta, i comandanti dell’esercito coalizzato fecero posizionare il carroccio in un luogo leggermente rialzato, in maniera che fosse agevolmente visibile a distanza e costituisse il punto di riferimento principale per tutto l’esercito. Davanti al carroccio fu posta la massa delle truppe disponibili: tutta la fanteria e una buona parte della cavalleria, per l’occasione destinata a lottare smontata. Visto che il fine dei lombardi era impedire il transito delle forze nemiche verso Pavia e forzarle a rientrare a Como, la linea di sbarramento dei combattenti appiedati venne a rappresentare lo schieramento principale, destinato a reggere l’urto degli assalti teutonici. Un altro massiccio contingente di circa 700 milites, questa volta a cavallo, fra milanesi e bresciani, venne mandato in avanscoperta per cercare il contatto con gli imperiali. Altre truppe di cavalleria, probabilmente, rimasero invece di riserva. Oggi non è possibile identificare con precisione il punto dove si svolse la battaglia. Il cronista più preciso, l’Anonimo Milanese, afferma che essa si svolse «fra Borsano e Busto Arsizio», gli altri narratori dicono, più genericamente, nei pressi di Legnano.

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Lo scontro avvenne forse non lontano dal villaggio di Sacconago, dove ancor oggi, stretti fra i capannoni, alcuni scampoli di boschi e di campi ci restituiscono una pallida immagine del paesaggio preindustriale. Possiamo farci un’idea generale del terreno su cui si combatté cercando di immaginare le campagne dell’epoca nella regione che vide i due eserciti affrontarsi. I documenti del XII secolo riguardanti i territori di Busto Arsizio e di Legnano ci mostrano un paesaggio assai vario, caratterizzato da campi coltivati a cereali, ma anche da vigne, talvolta recintate, da canali di irrigazione, da boschi e fitti castagneti attraversati da un reticolo di sentieri e da alcune vie di maggior importanza che congiungevano i centri abitati. Ecco, ad esempio, la descrizione di alcune terre a Busto acquistate nel 1156 dai decumani del Duomo di Milano: «una vigna che si trova presso il fossatello [...] la seconda vigna, nel luogo detto alla Piana [...] un campo nel luogo detto ‘in Polenca’ [...] un secondo campo nel luogo detto alla Piana», tutte terre fra le cui confinanze vi erano le piccole vie vicinali che consentivano di muoversi fra i coltivi. Una rarissima cartina risalente all’incirca al 1190 e una coeva raccolta di testimonianze, che illustrano l’area fra i villaggi di Vanzago e di Pogliano, siti pochi chilometri a sud-est di Legnano, ci permettono di guardare il paesaggio della zona con gli occhi dei contemporanei: nel disegno dominano il paesaggio le località di Vanzago, Pogliano, Lainate e Villanova di Nerviano, connesse fra loro da una rete di strade vicinali di una certa importanza, mentre i punti di riferimento fondamentali sono rappresentati da alcuni appezzamenti boschivi, chiamati la «barazia» e il «ginistario». Le parole dei testimoni raccontano inoltre la storia del territorio, solcato da un torrente, dove grazie a decenni di lavoro i contadini avevano dissodato buona parte dei terreni, che erano stati messi a coltura seminandovi miglio, panico e legumi; erano ancora presenti vaste aree incolte, dette «gerbi», e vere e proprie brughiere, nonché boschi piuttosto ampi, anche se progressivamente colonizzati tramite l’impianto di alberi quali castagni o noccioli. La battaglia si svolse dunque in un’area caratterizzata da un paesaggio vivacemente mosso, che avvantaggiava molto i comu-

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nali, i quali potevano impostare una battaglia difensiva scegliendo opportunamente il terreno, in modo da sbarrare la strada al nemico nel punto più adatto, magari coprendosi i fianchi grazie a qualche ostacolo naturale. Gli Annali di Colonia affermano in effetti che i fanti lombardi si erano circondati di un fossato, affinché nessuno potesse fuggire: la notizia, in questi termini, è improbabile visto che, dato il tempo limitato a loro disposizione, difficilmente le forze della Lega avrebbero potuto realizzare una simile fortificazione campale ex novo. È invece possibile che una o più canalizzazioni preesistenti siano state sfruttate per appoggiarvi le ali del fronte, in modo da rendere difficoltoso un eventuale aggiramento da parte nemica. 6. Il primo urto La configurazione del territorio ebbe un’importanza decisiva anche nella prima fase della battaglia. Secondo la testimonianza di Romualdo, infatti, la presenza di macchie boschive impedì ai contendenti di individuare le reciproche posizioni e condusse a uno scontro improvviso nel momento in cui i cavalieri comunali inviati in ricognizione, aggirando un terreno alberato, si trovarono senza preavviso faccia a faccia con l’avanguardia teutonica. Sorpresi in netta inferiorità numerica – 300 contro 700 – i militi tedeschi manovrarono molto bene e, senza disperdersi, ripiegarono ordinatamente attirando così i nemici verso il grosso delle proprie truppe. I lombardi caddero nella trappola e avanzarono incautamente, finendo così in balia dell’esercito federiciano avanzante. Ora il rapporto di forza era totalmente a favore degli imperiali, che in breve ebbero ragione del primo schieramento della Lega: caricati con violenza dalle forze federiciane, milanesi e bresciani furono messi in fuga e, in preda al panico, si gettarono disordinatamente verso Milano, abbandonando il campo di battaglia. Il primo scontro fra comunali e imperiali si era così concluso a favore dei secondi, che senza subire perdite di rilievo – i cronisti tedeschi parlano di due soli caduti fra i loro uomini – ave-

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vano messo fuori combattimento una parte consistente delle truppe nemiche. Ricomposto il proprio schieramento, ormai galvanizzato dal primo successo, Federico procedette fino a trovarsi di fronte alla principale linea di combattimento lombarda, composta dalla fanteria e dai cavalieri appiedati, posti davanti al carroccio. Numericamente, i rapporti di forza non erano favorevoli agli assalitori. Nonostante l’esito sfavorevole del primo contatto, il grosso delle truppe comunali era ancora intatto e poteva contare su forse 10-12.000 uomini, una quantità quadrupla rispetto a quella degli imperiali. Diversi storici odierni si sono chiesti cosa abbia indotto Federico ad accettare il combattimento, anzi ad attaccare per primo, nonostante la sua netta inferiorità. In realtà, egli non aveva scelta: come hanno osservato molti cronisti tedeschi dell’epoca, l’imperatore non poteva ritirarsi, poiché sarebbe stato un atto indegno e vile. Ancora, un ripiegamento avrebbe definitivamente imbottigliato le truppe teutoniche a Como, che era circondata da comuni ostili, tutti aderenti alla Lega. L’esercito a quel punto avrebbe potuto solo ripassare ingloriosamente le Alpi, rinunciando a qualsiasi operazione per il resto dell’anno in corso. Dopo l’umiliazione di Alessandria e il mancato combattimento di Montebello, un insuccesso di questa portata avrebbe definitivamente distrutto il prestigio del Barbarossa e cancellato ogni sua speranza di frantumare lo schieramento comunale attirando a sé altre città. Soprattutto, però, è necessario tener conto di un ulteriore fattore. All’epoca era considerato un fatto indiscusso che la regina assoluta del campo di battaglia fosse la cavalleria. Nessun cavaliere avrebbe accettato di sentirsi minacciato da una congerie di combattenti a piedi, rispetto ai quali si sentiva superiore socialmente, economicamente, militarmente e spiritualmente. Un modo di dire assai diffuso sintetizzava bene questa opinione: «mille fanti non valgono cento cavalieri». La cultura letteraria cavalleresca, che in Germania si era diffusa soprattutto grazie all’opera della moglie di Federico, Beatrice di Borgogna, celebrava ed esaltava il sentimento di totale superiorità dei combattenti a cavallo. A Legnano la cavalleria tedesca, come abbia-

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mo visto, aveva un’entità tutt’altro che trascurabile, visto che ammontava a circa 3.000 uomini, una forza superiore a quella dei milites milanesi e dei loro alleati, dopo che una parte consistente di questi ultimi era stata messa in fuga al primo impatto. La vera differenza numerica era data dalla massa della fanteria, che però di sicuro contava ben poco agli occhi di Federico e degli altri nobili tedeschi, abituati a considerarla una presenza trascurabile. È vero anche che le forze imperiali erano ridotte rispetto a quelle di cui Federico disponeva nella primavera precedente a Montebello, ma pure quelle della Lega erano assai minori: là vi erano i carrocci e i fanti di quattro città e i cavalieri di tredici, qui il solo esercito milanese, rafforzato da qualche centinaio di milites bresciani, veronesi, lodigiani, piacentini, novaresi e vercellesi. Già nel 1160, a Carcano, in Brianza, Federico aveva affrontato in campo aperto l’esercito comunale milanese e aveva conosciuto un’imbarazzante sconfitta, pur mimetizzata, in qualche maniera, dall’abilità retorica dei suoi cancellieri e dall’insuccesso complessivo della campagna condotta dai milanesi che, pur battendo le armi imperiali, non riuscirono a impossessarsi della fortezza di Carcano, loro obiettivo principale. È però probabile che più che quell’evento, vecchio ormai di 16 anni, nella memoria degli imperiali fosse rimasta la grande vittoria ottenuta nel 1167 a Tuscolo, per singolare coincidenza proprio il 29 maggio, dove un migliaio di cavalieri pesanti tedeschi e lombardi riuscì a sconfiggere una forza assai più grande di fanti e militi romani, prima resistendo compatto agli assalti e poi lanciandosi in un micidiale e improvviso contrattacco. I cittadini si diedero alla fuga lasciandosi alle spalle caduti e prigionieri e, anche se le valutazioni sulle perdite dei romani oscillano molto – fra 1.700 e 9.000 uomini –, il trionfo imperiale fu indubitabile. A Tuscolo la sproporzione delle forze era stata ancora più impressionante rispetto a Legnano, visto che alcune testimonianze attribuiscono ai romani una forza complessiva di 20.000 combattenti a piedi e a cavallo e altre, sicuramente esagerando, di 40.000. Durante la medesima campagna, si diceva che Rainaldo di Dassel, nei pressi di Ravenna, avesse catturato con una deci-

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na di cavalieri teutonici almeno 300 fanti locali. Vere o eccessive che fossero, queste cifre erano riportate di bocca in bocca e contribuivano a rassicurare i combattenti federiciani sulla scarsa qualità degli italiani in combattimento. Contando dunque sul fatto che i milites teutonici fossero più agguerriti e addestrati rispetto ai loro omologhi lombardi e disprezzando il ruolo dei combattenti a piedi, Federico poté pensare che la possibilità di uscire vittorioso dallo scontro non fosse affatto remota e mosse con decisione all’attacco per sfondare la linea delle truppe cittadine. 7. Il carroccio irraggiungibile Dispersa l’avanguardia della Lega, Federico si trovava ora a fronteggiare lo schieramento principale delle forze comunali, il «muro impenetrabile», come dice Bosone, che doveva sbarrargli la strada verso sud. Non bisogna prendere alla lettera il racconto di Goffredo da Viterbo quando, in un climax di grande efficacia retorica, ma di scarsa credibilità, descrive l’esercito imperiale superare, una dopo l’altra, ben quattro linee successive di combattenti urbani. Seppur differendo in alcuni particolari, tutti i resoconti di parte italiana – quello dell’Anonimo Milanese, quello di Romualdo Salernitano e quello di Bosone – concordano nell’affermare che i teutonici misero in fuga solo una parte della cavalleria lombarda, quella inviata in avanscoperta. Certo, le conseguenze della prima sconfitta delle forze cittadine potevano essere assai gravi: l’immagine delle centinaia di milites che, in rotta, fuggivano davanti ai cavalieri di Federico dirigendosi verso la lontana Milano ebbe un effetto esaltante per gli attaccanti e avrebbe potuto gettare nel panico i difensori. Così però non fu e il Barbarossa si trovò ad affrontare la massa compatta della fanteria e della cavalleria appiedata, alle spalle delle quali si intravedeva il gonfalone civico elevato sul carroccio. Le forze di Federico erano dunque giunte davanti alla linea difensiva allestita dall’esercito comunale. L’iconografia risorgimentale raffigura questa fase dello scontro mostrando un grup-

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petto di fanti stretto attorno al carroccio e circondato dalla cavalleria nemica. In realtà, bisogna considerare che i 10-12.000 fanti che combatterono, pur schierati in modo abbastanza compatto su tre o quattro file, dovevano occupare un fronte di almeno due o tre chilometri di lunghezza, dato che di solito ogni uomo armato di lancia richiedeva poco meno di un metro di spazio per poter combattere efficacemente. Essi erano probabilmente disposti in linea o formavano un arco di cui il carroccio forniva il «centro» ideale, ma a una certa distanza dalla linea di combattimento. Se poi, come abbiamo accennato, almeno uno dei fianchi era appoggiato a un fossato, il vasto blocco della fanteria lombarda, in un terreno mosso caratterizzato dalla presenza di boschi e vigne, era impossibile da scansare o da aggirare. Di fronte all’avanzata della cavalleria teutonica, i combattenti a piedi rimasero saldi e immobili, evitando così di ripetere l’errore commesso a Tuscolo dai romani, che erano disordinatamente andati all’attacco facendo perdere alla loro fanteria quella compattezza che sola permetteva alle truppe appiedate di affrontare vittoriosamente i cavalieri. Se non voleva voltare le spalle al nemico e affrontare un’umiliante ritirata, che l’avrebbe peraltro resa vulnerabile a possibili contrattacchi dei milites lombardi, la cavalleria imperiale era obbligata a sfondare. Per far ciò, però, i teutonici avevano poche alternative. Bisogna infatti considerare che una massa compatta di fanti equipaggiati di lance risultava quasi invulnerabile a una carica frontale di cavalleria, poiché era impossibile indurre i cavalli a suicidarsi contro un muro di acuminate punte metalliche: gli animali si fermavano bruscamente o, peggio, scartavano disarcionando l’imprevidente cavaliere, talvolta proiettandolo contro la linea delle lance stesse. Era dunque opportuno che lo schieramento dei fanti venisse aggredito da altri fanti o fosse preventivamente scompaginato da masse di tiratori a loro volta ben addestrati. Soltanto se i reparti appiedati si facevano prendere dal panico e fuggivano, vanificando così la solidità del loro schieramento, gli assalitori avrebbero potuto aprirsi dei varchi e, a quel punto, far valere la loro superiorità tattica disperdendo e massacrando i difensori in fuga.

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In questa situazione emerse evidente il maggior limite dell’esercito imperiale, poiché, sacrificando l’equilibrio delle forze alla rapidità di movimento, Federico aveva rinunciato a portare con sé fanti e tiratori, muovendosi con la sola cavalleria pesante. Imbattibile se contrapposta a un esercito organizzato in modo analogo – come erano all’epoca quelli dei principati feudali dell’Europa continentale –, la massa dei cavalieri pesanti tedeschi sarebbe invece stata quasi impotente di fronte ai combattenti lombardi, se questi avessero resistito alla pressione psicologica della carica e fossero rimasti compatti e uniti. I teutonici si prepararono dunque ad attaccare, nella speranza di seminare il panico nella massa degli avversari. Per effettuare una carica i combattenti impugnavano la lancia col braccio destro, fermandola saldamente fra il gomito e il corpo, sotto l’ascella: in tal modo sull’impatto si scaricava tutta la forza del peso e del moto del cavallo e del suo cavaliere. Era fondamentale muoversi ordinatamente, mantenendo un fronte lineare senza perdere compattezza, e proprio in quest’arte i combattenti teutonici erano rinomati e considerati i migliori d’Europa. Secondo i dettami tattici dell’epoca, i tedeschi dovettero schierarsi su una linea continua, composta da tre o quattro ranghi, che probabilmente si estendeva per un paio di chilometri, fronteggiando dunque la fanteria per quasi tutta la sua estensione. Le truppe non dovevano attaccare tutte assieme, ma uno scaglione dopo l’altro, in maniera che in caso di fallimento del primo contingente questo potesse riorganizzarsi, mentre i successivi impegnavano il nemico. Raramente, in effetti, la prima carica risultava decisiva e lo sbandamento dell’esercito avversario era il frutto di una pressione reiterata e logorante. Lo schieramento comunale si estendeva davanti a quello avversario, punteggiato da gonfaloni e stendardi che servivano da punto di riferimento e di raccolta per i difensori. La profondità della linea difensiva non doveva superare le tre, forse le quattro file, in quanto le lance erano lunghe un paio di metri, il che rendeva impossibile combattere in posizione troppo arretrata. I fanti in prima linea stavano probabilmente in ginocchio, proteggendo il corpo con lo scudo appoggiato per terra e retto con

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la mano sinistra, mentre la destra impugnava la lancia, protesa in avanti a creare un micidiale vallo di punte acuminate, volte a minacciare soprattutto il ventre non protetto dei cavalli imperiali. Come abbiamo già detto, l’esercito urbano era organizzato sulla base delle circoscrizioni territoriali. A gruppi di qualche decina, i combattenti si raggruppavano attorno alle bandiere delle loro parrocchie e si preparavano a combattere a fianco dei loro parenti, vicini e amici. Una fitta rete di relazioni personali innervava così lo schieramento e dava concretezza a quell’elemento un po’ astratto dell’amor di patria o dell’orgoglio civico che rappresentava la forza della linea dei fanti-cittadini. Il destino della battaglia si sarebbe deciso soprattutto in questo confronto fra la determinazione dei difensori e il tremendo impatto, anche psicologico, di alcune migliaia di cavalieri corazzati che si precipitavano al galoppo sulla linea comunale, apparentemente così fragile. Un’ondata dopo l’altra, i militi teutonici lanciarono il loro grido di guerra e si gettarono all’attacco, partendo al piccolo trotto per poi far acquisire ai loro destrieri la massima velocità nelle ultime decine di metri prima dello scontro. A quasi 40 chilometri orari, cavalli e cavalieri puntarono dritti contro i difensori, con un fragore terrificante causato dal rimbombo degli zoccoli, dal cozzo metallico delle armi e delle armature e dalle urla degli attaccanti. Ma la fanteria non si sbandò: l’addestramento, la motivazione, la forza coesiva che legava fra loro i combattenti di una stessa parrocchia e le parrocchie della stessa città ebbero la meglio sulla mortale abilità guerresca dei tedeschi. Come si è accennato, sicuramente non vi fu un solo urto. La battaglia durò alcune ore, perché le forze tedesche reiterarono i tentativi di spezzare la linea difensiva comunale, impegnandosi in una sequenza di assalti, inframmezzati da pause durante le quali i due eserciti si riposavano e si riorganizzavano. Sebbene molto faticosa, questa fase dei combattimenti fu poco cruenta, poiché le cariche teutoniche si fermavano nel momento in cui gli assalitori constatavano che gli avversari non si sarebbero dati alla fuga. Di quando in quando, però, alcuni cavalieri, trascinati dall’impazienza o incapaci di arrestare in tempo il loro de-

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striero, giungevano a contatto con lo schieramento cittadino: si accendevano così violente scaramucce durante le quali i difensori, ben riparati dai loro scudi, potevano tentare di colpire i cavalli degli avversari, privi di protezione. Fra le vittime di questi brevi, ma micidiali, scontri vi fu il portabandiera di Federico, che, raggiunto da un colpo di lancia, cadde di sella e venne travolto e ucciso dalle cavalcature dei suoi stessi compagni. Il vessillo imperiale cadde dunque ai piedi dei fanti e nessuno dei cavalieri tedeschi fu in grado di recuperarlo. 8. Cavalieri a piedi? A questo punto, con gli imperiali bloccati dalla tenace resistenza delle fanterie lombarde, la battaglia cambiò definitivamente. Le fonti, estremamente sintetiche, non narrano nel dettaglio i ripetuti tentativi di sfondamento del fronte compiuti dai teutonici. Qui vogliamo proporre un’ipotesi che spiegherebbe lo svolgimento della parte finale del combattimento, anche se nessuna narrazione ne fa esplicitamente cenno. La laconicità delle descrizioni, d’altro canto, non consente neppure di escludere tale possibilità. Ribadiamo, comunque, che le righe che seguiranno restano necessariamente frutto di una supposizione, che è, e presumibilmente rimarrà, impossibile da dimostrare. Di fronte all’ostinata resistenza della linea nemica l’unica possibilità che si offriva ai guerrieri tedeschi era smontare da cavallo e tentare di aprirsi la strada tra la fanteria schierata. La carica con la lancia, infatti, era solo una delle tattiche a disposizione dei cavalieri che, anzi, molto spesso preferivano combattere a piedi e utilizzare i destrieri soltanto per gli spostamenti, contando sul fatto che armatura pesante e addestramento alla lotta conferivano comunque loro un grande vantaggio rispetto ai comuni fanti. Combattere a piedi era tutt’altro che impossibile per i cavalieri. La cotta di maglia pesava abbastanza poco, 12-15 chilogrammi, ossia poco più di un attuale giubbotto antiproiettile completo, e il peso era ben distribuito su tutto il corpo, il che consentiva di muoversi con una certa agilità anche una

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volta a terra, continuando a godere di una protezione estremamente efficace. Ciò permetteva al combattente di rinunciare allo scudo e di gettarsi all’attacco brandendo con due mani la lunga spada a doppio taglio. Era questa, ad esempio, la tattica preferita dagli inglesi. Sfruttando la velocità dei cavalli per gli spostamenti e combattendo a piedi, in gruppi compatti, essi fra il 1106 e il 1141 riuscirono a cogliere la vittoria nelle battaglie di Tinchebrai, Standard e Lincoln. Negli anni Settanta dello stesso secolo, l’intellettuale britannico Giovanni di Salisbury criticava nelle sue opere quei cavalieri che preferivano restare sempre in sella e che, trascurando la possibilità di battersi a piedi, risultavano di conseguenza quasi inutili durante le battaglie. I tedeschi, in caso di necessità, facevano a loro volta ricorso a tale maniera di combattere. Il cronista Guglielmo di Tiro ce ne offre una descrizione precisa in occasione di una battaglia ingaggiata dall’imperatore Corrado II durante l’assedio di Damasco, nel 1148, nel corso della seconda crociata. Guglielmo scrive dunque che l’imperatore, vedendo che un attacco della cavalleria francese era stato frenato dalla resistenza di un reparto islamico, «acceso dall’ira, attraversando le schiere dei franchi fino al loro fronte, veloce giunse con i suoi principi. Lì, tanto egli quanto i suoi, scendendo dai cavalli e facendosi fanti – questo è l’uso dei teutoni, allorché le circostanze li costringono – gettati gli scudi, provarono a gettarsi corpo a corpo con le spade contro i nemici». In tal modo, gli arabi furono messi in fuga e lo scontro fu vinto. Pure nei combattimenti in Lombardia i tedeschi avevano sfruttato questa possibilità, dato che nel 1158, presso Chiaravalle, il conte Erchemperto e i suoi cavalieri diedero battaglia appiedati contro i milanesi, infliggendo a questi ultimi pesanti perdite. Anche gli eserciti comunali, d’altro canto, facevano combattere a piedi i loro cavalieri, soprattutto in occasione degli assedi o degli assalti a posizioni fortificate, come avvenne a Lodi nel 1160 o a Rudiano nel 1191. A Legnano il fatto è esplicitamente riportato da quasi tutte le fonti, come dimostrano, ad esempio, le parole dell’Anonimo Milanese («altri cavalieri stettero presso il carroccio con i fanti di Milano e combatterono virilmente») o

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quelle di Romualdo Salernitano («i fanti milanesi, con pochi cavalieri, erano davanti al carroccio»). Per i comandanti affiancare militi appiedati ai fanti era un’ovvia soluzione al fine di rafforzare lo schieramento principale e permettergli di affrontare in maniera più duttile minacce differenti dalla semplice carica della cavalleria montata. Gli studiosi moderni non hanno preso in considerazione questa possibilità. Per conciliare l’unanime testimonianza delle fonti sulla presenza dei cavalieri nella linea difensiva schierata attorno al carroccio con l’evidente impossibilità che costoro combattessero in sella frammisti ai fanti, alcuni hanno supposto che si trattasse di uomini coinvolti nella prima rotta dell’avanguardia lombarda, i quali, sbalzati dal destriero, si sarebbero ricongiunti al resto dello schieramento per lottare come meglio potevano. Alla luce di quanto abbiamo appena detto, la spiegazione è inutilmente complessa, poiché i milites dell’epoca erano abituati a combattere appiedati e dunque non vi è da stupirsi se, probabilmente organizzati in piccoli nuclei dispersi lungo tutto il fronte e frammisti alle unità di lancieri, anche a Legnano si batterono in tal modo. Lo fecero anche i cavalieri tedeschi? Sarebbe stato sensato che, vista l’inutilità delle loro cariche, un certo numero di loro tentasse il tutto per tutto lanciandosi a piedi contro la linea avversaria. Se così fosse stato, se almeno una parte degli assalitori a un certo punto fosse smontata, meglio si spiegherebbe la reazione completamente imprevista dei fanti comunali che, invece di aspettare passivi gli attaccanti, mossero con decisione al contrattacco, probabilmente in seguito a un preciso ordine lanciato dai loro comandanti con segnali visivi o sonori. A questo punto, il volto della battaglia cambiò completamente e gli aggressori, dopo il fallimento dei loro ripetuti tentativi di sfondare lo schieramento cittadino, si trovarono a loro volta costretti a cercare di far fronte agli attacchi nemici. 9. Il contrattacco decisivo Ad aggravare la situazione delle forze federiciane, mentre i cavalieri tedeschi tentavano di riorganizzarsi per replicare al

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contrattacco della fanteria, vi fu il ritorno in combattimento della cavalleria lombarda dispersa nelle prime fasi della battaglia. Dopo la sconfitta iniziale, essa non era stata inseguita dagli avversari, gettatisi contro la linea dei lancieri cittadini. In tal modo aveva potuto riorganizzarsi e raggrupparsi e, forse raggiunta da nuovi rinforzi, era ora pronta a riprendere la battaglia. I cavalieri montati piombarono quasi certamente sul fianco sinistro dello schieramento imperiale, provenendo da Legnano. Non sappiamo se l’azione della fanteria e quella della cavalleria furono coordinate o si svolsero in maniera indipendente, ma di certo esse ebbero un risultato devastante contro i teutonici che, aggrediti anche sul lato, si trovarono obbligati a fronteggiare una duplice minaccia. Che fossero a piedi o a cavallo, i tedeschi furono colti completamente alla sprovvista dal contrattacco delle forze comunali. Il sole di fine maggio batteva pesante sulle corazze dei cavalieri che combattevano quasi ininterrottamente da quasi sei ore: lo scontro, infatti, era iniziato all’ora terza (circa le nove del mattino) ed era ormai giunta l’ora nona (circa le tre del pomeriggio). I teutonici erano sfiniti e la loro situazione estremamente difficile. Rimaneva comunque loro ancora una speranza: mantenersi compatti, stringersi attorno all’imperatore e continuare a resistere fino alla sera, quando avrebbero potuto sganciarsi e ripiegare. Nel clamore dello scontro corpo a corpo, le pur rudimentali catene di comando dovevano essere saltate e l’unico riferimento per gli uomini erano le bandiere che costellavano il campo. Lo stendardo imperiale, però, era caduto assieme al suo alfiere durante le prime fasi del combattimento, dunque restava solo Federico stesso a fornire un visibile punto di raccordo attorno al quale organizzare la manovra difensiva. L’imperatore, nonostante i suoi 54 anni, si era portato a ridosso della prima linea, a fianco dei suoi cavalieri. Come tutti i comandanti dell’epoca, egli guidava le sue truppe soprattutto con l’esempio personale, dando per primo prova di coraggio e valore. Battersi al fianco dei propri uomini aveva un grande valore per il morale, però esponeva i comandanti a gravi rischi e li privava della possibilità di osservare con distacco l’andamento

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degli scontri. Così accadde a Federico, che, nella confusa mischia derivata dal duplice contrattacco dei comunali, si trovò improvvisamente faccia a faccia con i nemici. Il suo cavallo venne ucciso e l’imperatore fu abbattuto al suolo. Nessun cronista riferisce se questo successo sia stato ottenuto da un gruppo di fanti o da uno di cavalieri, fatto sta che il Barbarossa si trovò nella polvere, verosimilmente stordito dalla caduta, e scomparve dalla vista dei suoi. La sparizione dello stendardo imperiale, prima, e quella di Federico stesso, poi, furono il colpo di grazia per le già logore forze teutoniche. Privi ormai di ogni punto di riferimento per tentare un’ultima resistenza e attaccati da ogni lato dai cavalieri e dai fanti comunali, i tedeschi si sbandarono definitivamente. Chi poté si diede a una fuga tumultuosa verso ovest, cercando di frapporre il Ticino fra sé e le truppe nemiche. Altri cedettero le armi e si consegnarono prigionieri. Altri, infine, caddero sotto i colpi di lancia e di spada dei cittadini trionfanti. I comaschi si arresero e caddero tutti in mano avversaria. Gli arcivescovi di Colonia e di Magdeburgo, che dato il loro stato di ecclesiastici non avevano partecipato attivamente ai combattimenti, riuscirono ad allontanarsi indenni e a dirigersi verso Pavia, ma molti altri fuggitivi, braccati dalle truppe avversarie, si gettarono a precipizio nel Ticino e finirono con l’affogarvi prima di raggiungere la sponda opposta. L’imperatore, grazie alla confusione che regnava sul campo, riuscì a riprendersi e a fuggire verso Como. Raggiunta la città lariana si trovò però isolato da quanto restava del proprio esercito e dei suoi collaboratori, con i quali non poteva comunicare. Soltanto una settimana dopo, attraversando in incognito il territorio milanese, riuscì a presentarsi all’improvviso alle porte di Pavia, dove la corte già si preparava a piangerne la scomparsa e la regina Beatrice si era abbigliata a lutto. Le truppe comunali erano padrone del campo. La vittoria fu resa totale dalla cattura della carovana dei bagagli imperiali, con somari, rifornimenti, oggetti preziosi, tende e materiali da campo. Centinaia di prigionieri furono incarcerati. Così i consoli di Milano, in una celebre lettera mandata ai loro omologhi bolognesi, descrissero il successo riportato:

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I milanesi scrivono ai bolognesi sulla vittoria e sulla liberazione dai nemici. Vi sia noto che abbiamo riportato un trionfo glorioso sopra gli avversari. Non è possibile calcolare il numero degli uccisi, degli annegati e dei prigionieri. Lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia dell’imperatore sono nelle nostre mani. Abbiamo trovato una grande quantità di oro e di argento nel suo bagaglio e ci siamo impadroniti del bottino dei nemici, la stima del cui valore crediamo non possa esser fatta da nessuno. Tutto ciò non lo reputiamo nostro, ma desideriamo che appartenga al signor papa e a tutti i comuni d’Italia. Durante la battaglia abbiamo catturato il duca Bertoldo, il nipote dell’imperatrice e il fratello dell’arcivescovo di Colonia. Gli altri prigionieri sono innumerevoli, tutti detenuti a Milano.

In effetti, i maggiorenti teutonici erano riusciti in gran parte a ritirarsi per tempo, ma ciò nonostante l’elenco dei prigionieri catturati non era trascurabile. Nelle mani delle truppe comunali vi erano alcuni fra i più prestigiosi collaboratori di Federico. Il Bertoldo ricordato dalla lettera era probabilmente il duca di Zähringen, uno dei grandi principi dell’Impero, già governatore della Borgogna, fratellastro di Enrico il Leone, cognato di Umberto III di Savoia e personaggio di fiducia dell’imperatore, al cui fianco era già stato durante le spedizioni del 1154, del 1158 e del 1167. Non minore era il rango del «nipote dell’imperatrice», ossia Filippo d’Alsazia, vassallo degli Hohenstaufen, conte di Fiandra e di Vermandois, educatore e consigliere di re Filippo Augusto di Francia, indubbiamente uno dei più potenti signori dell’Europa settentrionale. Il fratello dell’arcivescovo di Colonia, infine, era il conte Gosvino di Heinsberg, appena giunto dalla Germania al seguito dell’alto prelato. 10. Una grande battaglia La battaglia era così conclusa. Come abbiamo potuto vedere, non si trattò né di una casuale scaramuccia, né di un incidente di percorso, delle cui conseguenze Federico seppe rapidamente liberarsi, come invece affermano alcuni studiosi. L’annientamento dell’esercito imperiale non rimase affatto senza

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conseguenze. È vero che l’imperatore probabilmente intendeva riaprire il dialogo con le città lombarde, ma voleva farlo da una posizione di forza, dopo aver piegato Alessandria e umiliato militarmente la Lega. Invece fu costretto ad accettare le trattative nelle vesti dello sconfitto, senza più poter utilizzare la forza quale strumento di pressione, dato che, dopo gli esiti disastrosi delle campagne del 1175 e del 1176, gli sarebbe stato ben difficile arruolare nuove truppe in Germania. Non si può negare che Legnano annientò la minaccia militare di Federico, il quale non guidò più alcun esercito in Italia, né minacciò di farlo, per tutto il tempo delle complesse e talvolta dure trattative che condussero, sette anni dopo, alla pace di Costanza. Anche le nude cifre confermano l’importanza della battaglia. I dati più plausibili – ricordiamolo, 3.000 cavalieri da parte imperiale e quasi altrettanti con oltre 10.000 fanti da parte comunale – ne fecero uno degli scontri più rilevanti dell’epoca. Nel 1213, a Muret, i rapporti di forza fra regno di Aragona e conti di Tolosa nella Francia meridionale furono stabiliti da uno scontro che coinvolse 800 cavalieri provenzali e 1.400 spagnoli. A Bouvines, la grande battaglia che nel 1214 decise a un tempo i destini dei regni di Francia e di Inghilterra e dell’Impero, Filippo Augusto schierava circa 1.500 cavalieri pesanti e 5-6.000 tra fanti e sergenti, Ottone IV e Giovanni Senza Terra pochi cavalieri in più e forse 8.000 fanti. Le cifre, insomma, sono approssimativamente le stesse che possiamo stimare un quarantennio prima a Legnano. Ancora, bisogna sottolineare che il confronto fra i due grandi eserciti fu la conseguenza di un’accurata pianificazione e di decisioni coscientemente prese dai comandanti delle due parti. Federico aveva tentato una mossa azzardata che, se fosse stata coronata da successo, avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili. Alcuni studiosi posteriori hanno accusato il Barbarossa di decisioni irrazionali e suicide, criticandone addirittura la scelta di aver utilizzato i passi delle Alpi centrali e non il Brennero. Osservazioni di questo tipo mostrano bene l’opinabilità di molte critiche, dato che, essendo Pavia la base operativa dell’esercito imperiale, non sarebbe stato razionale far sbucare i

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rinforzi in Trentino e obbligarli ad aprirsi la strada combattendo attraverso la valle dell’Adige, il Veneto occidentale e l’intera Lombardia. Le scelte di Federico, dunque, furono molto più razionali delle proposte avanzate dai suoi critici posteriori. Egli puntò con decisione sulla sorpresa, facendo giungere le proprie truppe in netto anticipo sul previsto seguendo il percorso più breve: in tal modo avrebbe potuto piombare sul suo obiettivo – verosimilmente Alessandria – prima che la Lega avesse terminato la sua mobilitazione, creando una situazione molto difficile per le forze cittadine. Le affermazioni dell’Anonimo Milanese sull’allarme suscitato dall’improvvisa comparsa del contingente teutonico a Bellinzona ci testimoniano quanto Federico fosse giunto vicino al successo. Sfortunatamente per il Barbarossa, anche i suoi avversari comunali reagirono con lucida determinazione. I leader cittadini, infatti, una volta comprese le intenzioni del nemico, decisero di cogliere l’occasione per colpire le forze imperiali prima che si congiungessero a quelle degli alleati e seppero manovrare accortamente a tale scopo. Anche se all’epoca si tendeva a sfuggire alle battaglie campali, seguendo anche l’insegnamento di un grande teorico romano come Vegezio, a Legnano i lombardi cercarono apertamente di provocare allo scontro il Barbarossa, avendo avuto cura di imporgli il territorio e il tempo a loro più opportuni. Paradossalmente, alcuni hanno criticato proprio la capacità dimostrata dai dirigenti comunali di colpire l’esercito nemico quando questo era più debole, dando battaglia in condizioni favorevoli, quasi che un’operazione del genere risultasse geniale se compiuta da un generale di epoche a noi più vicine, come Napoleone o Rommel, e fosse invece sleale e meschina se attuata da comandanti medievali. Nel Risorgimento si era affermata una narrazione dello scontro che glorificava la resistenza attorno al carroccio di un ridotto numero di fanti e cavalieri italiani opposti allo strapotere tedesco. La scoperta che, almeno per quantità di fanti, le forze comunali erano superiori a quelle federiciane ha dunque assunto presso molti storici dell’Ottocento il valore di un ridimensionamento dell’importanza della battaglia o, addirittura, di un ol-

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traggio al valore degli italiani. Reo di aver sottolineato questo fatto, ancora nel 1905 un rinomato studioso tedesco come Ferdinand Güterbock trovò impossibile pubblicare un suo – peraltro equilibratissimo – scritto su Legnano sulle principali riviste storiche italiane e fu costretto a farlo apparire a sue spese in forma di volumetto. Ricostruire dunque con precisione le scelte dei magistrati cittadini consente di neutralizzare questa polemica. La battaglia non nacque per caso e fu l’abilità dei dirigenti comunali a consentire al loro esercito di ingaggiare combattimento nelle condizioni migliori per ottenere la vittoria, anche grazie al numero delle truppe mobilitate allo scopo. Come accade nella maggior parte delle battaglie, furono le scelte iniziali di schieramento a dare alle truppe comunali un vantaggio quasi incolmabile. L’importanza delle disposizioni prese prima dell’inizio dei combattimenti riguarda le guerre di ogni epoca, ma in particolar modo l’età preindustriale, quando mancavano mezzi efficaci per trasmettere gli ordini ed erano ridottissime le possibilità a disposizione degli ufficiali per intervenire e modificare il corso degli eventi. In tale prospettiva, gli eserciti medievali sono stati definiti «armi a un colpo solo»: una volta iniziata la battaglia, era difficilissimo intervenire per mutare lo schieramento o la disposizione delle truppe. Trombe, corni e vessilli, certo, potevano essere utilizzati, ma la loro efficacia era ridotta in presenza di parecchie migliaia di uomini. Nel caso di Legnano, la miglior pianificazione dello scontro da parte delle forze cittadine ebbe di conseguenza un peso assai rilevante nelle sorti del confronto. Le battaglie, però, non sono vinte solo dai comandanti. Il ruolo più significativo, al di là degli imprevedibili interventi del fato, spetta ai combattenti, al loro coraggio e alle loro motivazioni. Da questo punto di vista, a Legnano ebbe sicuramente un’importanza decisiva il fatto che le truppe comunali si battevano per difendere non soltanto la loro libertà, ma, ricordando il tragico destino riservato a Milano nel 1162, anche i loro stessi beni e le loro famiglie. Se è vero che, come asseriscono gli studiosi moderni, i soldati traggono motivazioni a resistere alla paura e a non abbandonare il proprio posto soprattutto dalla

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lealtà nei confronti dei propri compagni e dal timore di apparire vili ai loro occhi, tra le forze cittadine questi sentimenti dovevano essere esaltati dal fatto che fanti e cavalieri erano schierati in gruppi composti su base rionale. Essi si battevano al fianco dei loro vicini e dei loro parenti, e se li avessero abbandonati dandosi alla fuga non sarebbe stato facile, finita la guerra, tornare a convivere con loro. Inoltre, conoscenza e vicinanza fornivano fiducia reciproca, indispensabile in uno schieramento nel quale i combattenti si proteggevano l’un l’altro con gli scudi. Questo diede alla linea difensiva lombarda una compattezza che neppure l’abilità e la temibile fama della cavalleria teutonica riuscirono a spezzare. È impossibile quantificare esattamente le perdite subite dalle due parti. Per quanto riguarda le truppe comunali, esse furono probabilmente abbastanza lievi, mentre sul destino dei combattenti tedeschi le fonti si limitano a ricordare un gran numero di caduti e un’altrettanto notevole quantità di prigionieri, ma non possiamo valutare quanta parte dell’esercito imperiale riuscì a mettersi in salvo. Per renderci conto della portata della sconfitta federiciana possiamo però esaminare l’eco che la battaglia ebbe in Germania. Alcuni cronisti, in effetti, senza poter negare la sconfitta, tentarono di minimizzarne il peso, affermando che le perdite teutoniche erano state trascurabili e che il fatto che l’imperatore fosse sfuggito alla cattura aveva mutilato il successo dei lombardi. Prototipo di tale atteggiamento furono gli Annali di Magdeburgo, un testo dall’impianto marcatamente propagandistico: «in quello scontro pochi teutonici combatterono bene e aspramente, e dei militi teutonici solo due perirono anche se molti sono stati presi prigionieri; invece morì una grande moltitudine di lombardi, anche se pochi furono presi prigionieri. Aprendosi la strada col ferro, l’imperatore giunse incolume con pochi altri a Pavia». Altre fonti di area tedesca, al contrario, offrono un quadro ben diverso. Gli Annali di Disenberg, nella loro estrema sintesi, mostrano con efficacia lo shock che la repentina sconfitta provocò nell’opinione pubblica d’oltralpe: «i teutonici per aiutare l’imperatore entrarono in Lombardia, ma appena arrivati furono uccisi o catturati quasi tutti

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dai lombardi e solo pochi fuggirono». Aveva pochi dubbi anche l’annalista del monastero di Weingarten, per il quale a Legnano avvenne una «fuga miserabile e una devastazione» delle truppe mandate in rinforzo. Per il redattore degli Annali di Colonia, che probabilmente ebbe contatti con testimoni oculari della battaglia, «si combatté dunque dall’ora terza alla nona, ma la vittoria spettò ai lombardi. Molti furono uccisi da entrambe le parti, alcuni fra i nobili imperiali vennero catturati. I somari e gli accampamenti furono messi a sacco». La notizia, inoltre, si diffuse in tutta Europa. Il cronista normanno Roberto de Monte ricorda nella sua opera che «nella settimana di Pentecoste i lombardi, soprattutto i milanesi, debellarono l’esercito di Federico, imperatore dei tedeschi, che allora abitava a Pavia; egli stesso scampò a stento, con la fuga». Non ne mancano echi addirittura in Inghilterra, dove un anonimo personaggio, stendendo una relazione sulla successiva pace di Venezia, pose come premessa al testo la narrazione del fatto che Federico si era rassegnato a trattare perché i suoi avversari in battaglia «fecero non piccola strage dei nemici e volsero per ben due volte in fuga l’imperatore con il suo esercito».

7. L’UOMO CHE SCONFISSE FEDERICO BARBAROSSA

Dalle pagine precedenti è emersa una battaglia di Legnano un po’ diversa da quella tradizionalmente raccontata. Una battaglia forse meno disperatamente eroica, ma più razionalmente condotta, esito di due coerenti visioni strategiche da parte dell’imperatore e da parte dei comuni e preparata dai dirigenti di questi ultimi con cura e abilità. In questa narrazione si sarà notata l’assenza di alcuni dei protagonisti che, soprattutto nell’immaginario di stampo risorgimentale, avevano dominato la narrazione della vicenda: Alberto da Giussano e la sua Compagnia della Morte. La mancanza non è casuale dato che, in realtà, la ricerca storica ha da tempo dimostrato che né l’uno né l’altra sono mai esistiti.

1. Un’invenzione trecentesca L’iconografia risorgimentale e le narrazioni più diffuse della battaglia di Legnano insistono sul ruolo che nell’esercito milanese avrebbero avuto due unità particolari, una di 300 combattenti appiedati incaricati della guardia del carroccio e, soprattutto, la cosiddetta Compagnia della Morte, un gruppo di 900 cavalieri così denominati perché avrebbero giurato di battersi fino all’ultimo senza arrendersi. Nessuna fonte contemporanea, però, riporta alcuna notizia in proposito e l’unico autore a far-

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ne cenno è un cronista domenicano, di oltre 150 anni posteriore ai fatti, di nome Galvano Fiamma. Galvano Fiamma è la croce e la delizia di chi tenta di ricostruire la storia di Milano in epoca comunale, poiché nelle sue numerose e ridondanti opere ha raccolto fatti e leggende di ogni genere, alcuni autentici e di grande interesse, altri palesemente inventati o grossolanamente fraintesi. Nel nostro caso, egli racconta che nel 1176 «fu creata in Milano una società che fu detta società dei cavalieri della morte: furono novecento cavalieri scelti su grandi destrieri e giurarono di opporsi in ogni luogo all’imperatore, pronti a combattere con lui sul campo senza mai fuggire o volgere le terga. Fu subito deciso che chi fosse fuggito sarebbe stato ucciso con una scure. Giurarono inoltre che non avrebbero consentito nessun tradimento della città e a ognuno di loro fu dato un anello d’oro e furono ricevuti al soldo della comunità e fu loro capitano Alberto da Giussano, che portava il vessillo del comune». La mancanza di ogni riscontro nelle fonti del XII secolo, le forti influenze della letteratura cavalleresca (nei particolari degli anelli d’oro e dell’uccisione dei fuggitivi) e il carattere apertamente apologetico della narrazione inducono a ritenere che in queste righe il frate abbia lavorato di fantasia, proiettando sul passato organizzazioni militari più caratteristiche della sua epoca, e che nessuna Compagnia della Morte facesse parte delle milizie milanesi che marciarono verso Legnano. Si noti, peraltro, che neppure il Fiamma fa cenno al ruolo in battaglia della Compagnia; anzi, per lui lo scontro finì per merito di tre colombe, levatesi dall’altare dei martiri Sisinio, Martirio e Alessandro, nella basilica di San Simpliciano, e andate a posarsi sul gonfalone del carroccio, alla cui vista Federico decise di abbandonare il campo, vedendovi un segno del favore che Dio riservava alle forze dei comuni. Altrettanto e più famoso della Compagnia della Morte è il suo leggendario comandante, Alberto da Giussano. Un personaggio così celebre ha però avuto un destino a prima vista molto strano: chi prenda fra le mani l’Enciclopedia Italiana o, ancora di più, il monumentale Dizionario Biografico degli Italiani, che

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intende presentare in brevi tratti la vita di tutti gli italiani per qualche motivo celebri, troverà che ad Alberto non è stata riservata alcuna voce. Pure il famoso monumento eretto a Legnano, che molti pensano raffigurare il comandante della Lega, è in realtà genericamente intitolato al Guerriero di Legnano. Tale assenza, però, non è per nulla strana, poiché, come dimostrano i documenti dell’epoca, con ogni probabilità Alberto da Giussano non è mai esistito. Il primo autore a parlare di lui, infatti, è ancora una volta Galvano Fiamma, di cui abbiamo già discusso la scarsa attendibilità a proposito della Compagnia della Morte. Neppure riguardo ad Alberto da Giussano, dunque, le cronache coeve forniscono informazioni. Alcuni studiosi si sono cimentati nello spoglio sistematico di tutta la sopravvissuta documentazione privata relativa al XII secolo alla ricerca di Alberto, ma, benché sopravviva un buon numero di atti che riguardano la famiglia da Giussano, nessun personaggio di questo nome è emerso dalla ricerca. Anche in questo caso, dunque, si può affermare con ragionevole certezza che Galvano Fiamma ha tratto la notizia da una fonte poco affidabile o che, più probabilmente, ha dato libero corso alla sua fantasia. Ci si può chiedere perché il frate domenicano si sia lanciato in questa invenzione. La risposta, probabilmente, risiede nel fatto che dalle preesistenti narrazioni della battaglia emergeva uno squilibrio molto evidente, dato che vi giganteggiava la figura dell’imperatore: era il Barbarossa, nelle pagine dei contemporanei, a dare ordini, a guidare le truppe e a disporre ogni mossa del suo esercito. Dal lato comunale, invece, non spiccava alcun personaggio di rilievo. Per descrivere le operazioni sono utilizzati soltanto nomi collettivi: i protagonisti assoluti della battaglia erano i «lombardi» (Longobardi), tutt’al più articolati in milanesi, veronesi e bresciani o in fanti e cavalieri. Se da un lato, a capo dell’esercito imperiale spiccano il volto, le azioni e lo stendardo di Federico Barbarossa, dall’altro questo ruolo è ricoperto non da un uomo, ma dal carroccio, ossia dalla personificazione della cittadinanza intera. Questa contrapposizione aveva un forte valore simbolico, quasi che nelle parole dei narratori al-

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la volontà di un singolo, l’imperatore, si opponesse l’operare collettivo degli abitanti delle città italiane. Col passare del tempo, con l’evolvere della situazione politica e con il mutare delle mode culturali, questa voluta anonimia delle forze cittadine non fu più compresa. I letterati italiani sentivano sempre più l’influenza delle opere francesi – cronache, romanzi arturiani o leggendarie chansons de geste – le quali mettevano in evidenza il ruolo di alcuni grandi campioni a cavallo, protagonisti assoluti degli scontri e dei duelli, fossero essi immaginari, quali Rolando o Lancillotto, o reali, come Filippo Augusto o Riccardo Cuor di Leone. Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, anche in Italia alla guida delle città si affermarono singoli personaggi di rilievo, i «signori», che pian piano si sovrapposero agli organismi di governo collettivi, mentre il carroccio cessò di essere utilizzato e venne sostituito da stendardi, spesso decorati con le armi dei nuovi leader politici. Si giunse così, verso il 1340, all’invenzione di un protagonista indigeno da contrapporre all’imperatore e nacque allora, dalla creativa penna del cronista domenicano, la figura del condottiero Alberto da Giussano, come effettivo contraltare del Barbarossa. Nei secoli successivi, un gran numero di studiosi riprese le parole del Fiamma e, col passare del tempo, la figura di Alberto si caricò di connotati leggendari, fino a divenire quella di un guerriero erculeo, in grado di scagliare lontano i cavalieri imperiali con la sola forza delle braccia. Nonostante i dubbi dei più rigorosi storici del Settecento, egli rimase fra i protagonisti della battaglia e durante il Risorgimento, ovviamente, vestì i panni di un eroe nazionale ante litteram, pronto a battersi con valore contro gli invasori tedeschi per il bene della Patria, mentre galanti romanzieri gli intesserono attorno nobili vicende d’amore con caste fanciulle aristocratiche. Sul finire dell’Ottocento, compiuta l’Unità e attenuatesi le passioni, gli studiosi poterono accostarsi con minor reverenza ai resoconti della battaglia, ridimensionando il ruolo del fantomatico comandante e facendo filtrare i primi dubbi sulla sua reale esistenza. Infine, un ricercatore milanese, Rinaldo Beretta, nel 1914 si mise ad analizzare

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con cura tutta la documentazione disponibile e concluse, inequivocabilmente, che il da Giussano era un’invenzione del Fiamma o di qualche autore a lui immediatamente precedente. Dopo il Beretta, nessuno storico ha più riproposto la figura di Alberto, che conserva invece una sua vitalità nella produzione narrativa e romanzesca. 2. Alberto da Giussano o Guido da Landriano? Una volta eliminata la figura fittizia di Alberto da Giussano, la domanda su chi guidasse le forze comunali a Legnano sembra destinata a rimanere senza risposta. Anzi, alcuni la giudicano totalmente priva di interesse, ritenendo che l’episodio sia stato il frutto di un incontro casuale fra i due eserciti e che l’assenza del nome di un comandante rifletta semplicemente il fatto che gli eserciti cittadini erano male o per niente comandati. In realtà, però, la battaglia di Legnano fu ben preparata e ben condotta, tanto da suscitare una legittima curiosità sull’identità dell’uomo o degli uomini che seppero con indubbia abilità muovere e schierare l’esercito della Lega. Dato che le cronache ostinatamente tacciono, possiamo provare a rivolgere qualche domanda ai documenti dell’epoca che, pur senza dare risposte definitive, ci forniscono una serie di indizi, utili a tentare un’identificazione. Nel gennaio del 1176 si svolse a Piacenza una riunione della Lega, durante la quale furono prese le misure per affrontare un possibile attacco imperiale contro Alessandria. Agli accordi militari seguì il rinnovo del giuramento dei rettori, sottoscritto dai rappresentanti delle diverse città. Per Milano era console e rettore Guido da Landriano, un personaggio di cui vale la pena ripercorrere le vicende, poiché è possibile che, vista la sua carica, sia stato proprio lui, quattro mesi dopo, a capeggiare le forze comunali a Legnano. Nella sua duplice natura di rettore della Lega e di console cittadino, egli era in effetti il candidato naturale alla guida di un esercito composto da truppe appartenenti a tutta l’alleanza, ma del quale i milanesi rappresentavano la parte

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preponderante. Il da Landriano, come vedremo, oltre a essere un cavaliere esperto, fu uno dei grandi animatori della lotta antimperiale e apparteneva a una famiglia da tempo legata alla città e dotata di una spiccata vocazione militare, tutte caratteristiche che rendono più che plausibile la sua collocazione al comando delle forze urbane. I da Landriano erano una stirpe di nobili che portavano il titolo di «capitanei», in quanto dipendenti feudali dell’arcivescovo di Milano. Sebbene avessero beni e diritti signorili nelle campagne, soprattutto attorno al villaggio di Landriano, nella parte sud-occidentale del contado milanese, essi risiedevano in città e partecipavano intensamente alla vita comunale. Un Uberto da Landriano è ricordato nel 1119 in uno dei primi elenchi disponibili dei maggiorenti che governavano la città e nel 1155 troviamo un Amizo da Landriano fra i consoli che amministravano la giustizia. Altri esponenti della famiglia avevano intrapreso la carriera ecclesiastica, tanto che alla fine dell’XI secolo un altro Guido da Landriano divenne vescovo di Bergamo, mentre a Milano si trovano diversi da Landriano nel capitolo della cattedrale o nei principali monasteri cittadini. Le prime notizie sul console Guido risalgono al 15 luglio 1159, quando nei dintorni di Siziano si svolse uno scontro dall’esito a lungo incerto, che vide coinvolte le forze milanesi, pavesi e imperiali. Alla fine, gli ambrosiani, caduti in un agguato teso loro dagli avversari, subirono una pesante sconfitta, sicché un gran numero di cavalieri venne catturato. Fra questi, il cronista lodigiano Ottone Morena ricorda i nomi dei fratelli Guido ed Enrico da Landriano. Posti in catene, i prigionieri vennero dapprima portati a Lodi, poi tradotti in carcere a Pavia, città che stava diventando la base operativa dell’esercito federiciano contro Milano. Per alcuni mesi essi rimasero nelle prigioni pavesi. Venuto l’autunno, i due fratelli e molti altri furono fatti uscire dal carcere, ma non per essere liberati. Sotto buona scorta, infatti, vennero inviati all’accampamento del Barbarossa, posto davanti a Crema. Da tempo, Federico assediava inutilmente il borgo di Crema, difeso dai suoi abitanti e da una guarnigione di rinforzi mi-

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lanesi. Per avere ragione dell’ostinata resistenza, l’imperatore aveva ordinato la costruzione di una grande torre mobile e di un ariete protetto da un «gatto», che intendeva avvicinare alle mura per darvi l’assalto finale. A tal fine, aveva fatto colmare una parte dei fossati, facendovi versare terra da migliaia di carri. I cremaschi, però, tenaci e combattivi, disponevano a loro volta di valide macchine da guerra e avevano già dato prova della loro determinazione poche settimane prima danneggiando col fuoco un grande mangano che il Barbarossa aveva fatto costruire per abbattere le fortificazioni. Per proteggersi dal tiro nemico, Federico fece prelevare i prigionieri milanesi e cremaschi custoditi a Pavia e li fece legare alla torre quali scudi umani. I difensori, però, decisero di ignorare il ricatto e nel momento dell’attacco bersagliarono la costruzione con una grande quantità di pietre, danneggiandola e impedendole di avanzare. L’assalto fu così sventato, ma fra le macerie della macchina d’assedio rimasero i cadaveri di nove ostaggi, fra cui quello di Enrico da Landriano. La resa di Milano, nel marzo 1162, consentì la liberazione dei prigionieri di guerra che poterono raggiungere i loro compatrioti nell’esilio suburbano. Poco o nulla sappiamo della vita pubblica dei milanesi durante il periodo della distruzione della città. Il fatto che si siano raccolti nei diversi borghi rispettando la preesistente distinzione per porte indica comunque che essi cercarono di salvaguardare la rete dei legami di vicinato e, con essa, la possibilità di agire, anche politicamente, come una collettività organizzata. Le cronache riportano notizia delle ripetute nomine di ambasciatori e di rappresentanti dei cittadini esuli, al fine di protestare davanti ai governatori imperiali per il trattamento inflitto e per l’eccessivo peso fiscale: anch’esse sono testimonianza dell’esistenza di qualche forma di vita comunitaria. Alcuni fra i cittadini scelsero la via della collaborazione, ponendosi agli ordini dei rappresentanti di Federico: è il caso di Giordano Scaccabarozzi, ricordato dal primo Anonimo Milanese come «pessimo traditore». Anche i monaci di Sant’Ambrogio optarono per l’imperatore e poterono continuare a risiedere presso la loro chiesa, risparmiata dalla distruzione; da essa furono

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invece cacciati i canonici che, da bravi cattolici, erano rimasti fedeli al papa. Molti di più furono infatti i milanesi che, raccogliendosi attorno all’arcivescovo Galdino, si opposero all’idea di accettare il governo federiciano e conservarono la speranza di liberarsi dall’oppressione e di rientrare in città. Non è difficile immaginare fra costoro i superstiti della prigionia pavese e della traumatizzante esperienza cremasca, come Nero Grasso, di cui nei capitoli precedenti abbiamo già potuto misurare l’impegno antimperiale nel ruolo di podestà di Parma, o come il nostro Guido da Landriano, nel quale il ricordo della misera sorte riservata al fratello doveva bruciare ancora. Quando nel marzo del 1167 i messi di Bergamo e di Cremona giunsero nei villaggi abitati dai profughi per offrire loro la possibilità di rientrare in città, furono proprio i membri di questo gruppo di oppositori ad assumere la guida dei cittadini e a gestire i rapporti con i nuovi alleati. Il loro ruolo emerge con evidenza nei primi atti pubblici ai quali partecipò il ricostituito comune milanese, dopo il rientro in città. Il 22 maggio 1167, a Lodi, le città di Milano, Cremona, Brescia e Bergamo giurarono patti di alleanza con la stessa Lodi. Fra gli esponenti del governo ambrosiano che vi si recarono per le trattative si trovava un da Landriano, Uberto, mentre Guido fu tra i membri del consiglio cittadino che il 31 dicembre successivo, in una città ancora in gran parte in macerie, approvarono il trattato. Guido fu posto in elenco quale secondo dei consiglieri, in una posizione che denota un indubbio prestigio: lo precedeva solo Maragaglia di Alliate, già console di Milano nel 1155 e altro protagonista della guerra contro il Barbarossa, dato che quell’anno guidò una spedizione contro i pavesi nei dintorni di Tortona. Dopo la rinascita della città e la formazione della Lega, Uberto e Guido da Landriano, dei quali purtroppo ignoriamo il legame esatto di parentela, furono fra i protagonisti della vita politica e dell’opposizione all’imperatore, tanto che nel 1175 Uberto ebbe la guida del contingente milanese nella spedizione di Montebello e in tal veste prese poi parte alle trattative svoltesi sul campo, mentre, come si è detto, Guido fu console e rettore della Lega nell’anno successivo.

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Affidare il comando dell’esercito della Lega che combatté a Legnano a un personaggio dotato di esperienza militare e di provata fedeltà antimperiale come Guido sarebbe stata dunque una scelta ovvia, visto che egli già ricopriva un importante incarico istituzionale in città e che fra i compiti dei consoli vi era anche quello di guidare le spedizioni militari. Ancora di più, però, sono le tappe della successiva carriera di Guido a rafforzare l’idea che egli ebbe un ruolo decisivo nella lotta contro il Barbarossa. Può essere infatti una dimostrazione del prestigio che egli acquisì in quell’occasione il fatto che nel 1179 gli fu attribuito l’importante incarico di podestà di Ferrara, vero e proprio avamposto della Lega in seno alla Romagna, una regione di stretta fedeltà imperiale. Ma l’indizio più significativo di un possibile ruolo di primissimo piano ricoperto da Guido a Legnano è fornito dal trattato della pace di Costanza, il privilegio imperiale che nel 1183 mise fine al conflitto tra Federico e le città. Il 30 aprile 1183, a Piacenza, i comuni della Lega giurarono di mantenere la pace che stava per essere conclusa davanti ai messi imperiali, il vescovo di Asti e il marchese Enrico Guercio. L’elenco dei rappresentanti cittadini fu aperto proprio da Guido: «il signor Guido da Landriano giurò di conservare sempre salda la pace, come è contenuta nel testo della pace e di attenervisi e similmente giurarono Oprando da Martinengo di Brescia, console e rettore» e tutti gli altri rappresentanti delle città di Piacenza, Bergamo, Modena, Reggio, Mantova, Lodi, Verona, Treviso, Vicenza, Bologna, Novara, Vercelli e della pieve di Gravedona. Il 25 giugno successivo, a Costanza, Federico Barbarossa in persona emanò il privilegio che sanciva la riconciliazione fra lui e i comuni. Al termine della lettura del lungo atto, ancora una volta i messi delle città sfilarono e pronunciarono il giuramento di rispettare l’accordo e, come due mesi prima, la fila di ben 63 ambasciatori delle diverse città fu condotta da Guido da Landriano. Passarono alle spalle di Guido, nello stesso gruppo dei messi milanesi, personaggi di famiglia assai più elevata o dalla carriera politica molto più significativa: la spiegazione dunque più probabile del ruolo di assoluta preminenza che gli

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fu attribuito potrebbe risiedere nel fatto che si sapesse che egli era stato il protagonista della battaglia che aveva deciso le sorti del conflitto con il Barbarossa. Se questa ipotesi fosse plausibile, anzi, ci troveremmo di fronte a un’esemplare mossa propagandistica delle città italiane. Come e ancor più di oggi, nel Medioevo la lotta politica si svolgeva anche, e forse soprattutto, a colpi di simboli e di rituali, tramite i quali si tentava di mascherare le sconfitte o di rimarcare le vittorie. Federico, in tale prospettiva, diede alla pace di Costanza non la forma di un trattato bilaterale, che l’avrebbe posto sullo stesso piano dei centri ribelli, ma quella di un diploma, emanato dal sovrano di sua spontanea volontà. In tal modo, i diritti che i comuni si erano conquistati sul campo venivano presentati come il frutto di una benevola concessione imperiale. Le città, pur accettando di ottenere la pace in forma di privilegio, avrebbero organizzato a loro volta una brillante contromossa, facendo aprire la sfilata dei loro rappresentanti al trionfatore di Legnano, in maniera da ribadire chi fosse stato il vero vincitore. Benché il Barbarossa avesse tentato di salvare le apparenze, la cerimonia di Costanza fu un trionfo per i comuni italiani tutti e anche per Guido che, in particolare, poté ben togliersi la soddisfazione di considerare vendicato il fratello, così barbaramente ucciso un quarto di secolo prima. In seguito, Guido tornò alla tranquillità della sua vita civile. Sappiamo che possedeva terre nella regione meridionale del Milanese, nella campagna di Torrevecchia e che nel 1193, con altri maggiorenti urbani, fu amministratore dell’eredità di una vedova che decise di lasciare il suo patrimonio ai poveri. La sua carriera politica, invece, si chiuse nel 1190, con un incarico di grande prestigio. Egli fu infatti nominato primo podestà di Asti. Qui lasciò un ricordo estremamente positivo, tanto che, quasi un secolo più tardi, il cronista Ogerio Alfieri ne parlava come di un uomo che «fu buono e onesto e fece molte cose buone per il comune astigiano». Con queste parole, ci sembra di poterci a nostra volta congedare dal personaggio che probabilmente guidò le forze dei comuni italiani nella loro bat-

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taglia più importante, ma di cui non si era conservata esplicita memoria perché per i suoi contemporanei ciò che soprattutto importava era ribadire che il trionfo sul Barbarossa non era stato la vittoria di un singolo, ma di tutta la collettività dei cittadini d’Italia.

8. DOPO LA BATTAGLIA 1. Le conseguenze di Legnano Dopo il loro trionfo sul campo, le forze cittadine marciarono verso Pavia, ma decisero di non mettere sotto assedio la città e ripiegarono verso Milano. Secondo il cronista normanno Romualdo Salernitano questa fu un’occasione perduta per risolvere definitivamente il problema imperiale. Ma le intenzioni dei comuni non erano queste: costrette alla lotta per replicare a quella che percepivano come un’indebita intrusione di Federico nei loro margini di autogoverno, le città non intendevano sottrarsi all’autorità superiore del sovrano, che era pur sempre utile come garante dell’equilibrio, mediatore di pace e fonte di legittimità. Ora, la vittoria di Legnano dava loro l’occasione per riaprire le trattative interrotte a Montebello da una posizione di forza, invece di gettarsi sulla via sconosciuta e non priva di rischi della gestione di un’Italia priva dell’autorità imperiale. Un riconoscimento pubblico e ufficiale delle loro prerogative, se fossero riusciti a ottenerlo, avrebbe rappresentato per i comuni una garanzia di autonomia e di libertà molto più salda di un’indipendenza ottenuta con la forza e che con la forza avrebbe sempre potuto essere soppressa. Anche nell’emozione del successo, i governanti urbani erano probabilmente consci del gravissimo pericolo corso. L’attivismo diplomatico di Federico nell’inverno del 1175, con il cambio di fronte di Como e Tortona, aveva fatto sì che la situazione politica nella primavera del 1176 fosse particolarmente pericolosa

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per i comuni. Se ne era accorto oltre un secolo fa lo studioso tedesco Ferdinand Güterbock, il quale scrisse che «sotto questo aspetto la battaglia di Legnano acquista un nuovo valore. Se l’imperatore avesse vinto allora i milanesi, la sua vittoria sarebbe riuscita fatale alla Lega Lombarda». Il Güterbock aveva compreso che la posta in gioco non era puramente militare, ma politica: la partita si giocava non tanto sul campo di battaglia, ma sulla capacità di attrazione che i due contendenti avevano. Se le forze cittadine fossero state battute o se Federico, attraversato impunemente il territorio milanese, fosse riuscito ad attaccare e conquistare Alessandria, la Lega avrebbe subito nuove defezioni e avrebbe dovuto rischiare una nuova lotta all’ultimo sangue, come nel 1161, o sottomettersi a condizioni sicuramente più dure di quelle proposte e rifiutate a Montebello. Al contrario, la sconfitta imperiale fu decisiva. Questo non perché la Germania non disponesse di altre migliaia di cavalieri da inviare in Italia al posto di quelli caduti e catturati, ma perché l’imperatore a quel punto non era più in grado di convincere i principi tedeschi ad accorrere in suo aiuto. Dopo la severa lezione subita ad Alessandria nel 1174-1175 e la distruzione del contingente di rinforzo inviato nel 1176, quanti fra i nobili laici ed ecclesiastici avrebbero ancora desiderato rischiare la vita e i beni in Italia, a fronte di prospettive di successo e di guadagno quanto mai risicate? Se nel 1174 il Barbarossa era riuscito a mobilitare circa 10.000 cavalieri e nel 1176, dopo il fallito assedio di Alessandria, poco più di 3.000, che speranze aveva per gli anni successivi, quando il tragico esito della battaglia di Legnano sarebbe risultato noto e palese in tutto l’Impero? Federico conosceva benissimo la risposta e infatti si affrettò rapidamente ad aprire le trattative con i comuni e con il papa. Sebbene i negoziati siano stati lunghi, difficili e talvolta estremamente tesi, l’opzione militare non fu più presa in considerazione. L’imperatore sarebbe tornato in Italia a capo di un esercito soltanto nel 1186, quando la pace con i lombardi era già stata conclusa, paradossalmente per combattere, a fianco dei milanesi, contro i suoi vecchi alleati di Cremona e favorire la rico-

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struzione di quella Crema che egli stesso, quasi trent’anni prima, aveva fatto radere al suolo. 2. Si riaprono le trattative Agli inizi di luglio del 1176, i due contendenti si trovavano, almeno in apparenza, nella stessa situazione di un anno prima. Federico era al sicuro a Pavia, ma non disponeva di forze sufficienti per passare all’offensiva. I comuni erano vittoriosi sul campo, ma ancora una volta non avevano voluto portare il loro successo fino alle estreme conseguenze, assediando Pavia al fine di catturare o eliminare fisicamente l’avversario. Una differenza, però, era fondamentale: mentre nel 1175 il Barbarossa poteva ancora pensare di trovare una soluzione militare al problema italiano, ora, dopo Legnano, questa opzione era impraticabile. Mentre a Montebello i due contendenti si presentarono al tavolo delle trattative su un piano di parità, nell’autunno del 1176 vi erano con ogni evidenza uno sconfitto e una vincitrice, la Lega. Con un’abile azione diplomatica, l’imperatore poteva sperare di mitigare le conseguenze della battaglia di Legnano, ma non di annullarne gli effetti. Non è negli intenti di questo libro ricostruire nel dettaglio le intense trattative che si snodarono fra le parti negli anni successivi, ma solo offrire una rapida sintesi degli avvenimenti per far comprendere tutta l’importanza che la vittoria di Legnano ebbe sul futuro delle città italiane e della penisola intera. Alcuni studiosi, infatti, tendono a sottovalutare il ruolo della battaglia e ad asserire che, in fondo, grazie al suo pragmatismo e alla sua abilità nello sfruttare le divergenze fra i comuni, Federico seppe cancellare gli effetti della sconfitta e riconoscere ai comuni molto meno di ciò che si era dichiarato pronto a concedere a Montebello. In realtà, però, non fu così. Legnano consegnava al tavolo diplomatico un imperatore disarmato: egli sapeva bene di non essere più in grado di convincere un numero sufficiente di principi tedeschi a seguirlo nelle sue avventurose spedizioni italiche, dopo la distruzione quasi completa dell’esercito mobilitato nel 1176. Al-

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trettanto bene lo sapevano i comuni. In sette anni di trattative, spesso giunte sull’orlo della rottura, Federico non poté mai minacciare un’azione militare: egli aveva definitivamente perso il suo principale strumento di pressione sugli avversari. Giunto a Pavia, dopo essersi consultato con i principi superstiti della sconfitta, il Barbarossa decise di cercare un accordo con le città nemiche. L’iniziativa fu assunta in sua vece dai cremonesi, i quali alla fine di luglio proposero di riprendere i colloqui sulla base del testo della pace di Montebello, che però la Lega aveva già rifiutato un anno prima. L’atto era comunque un gesto di buona volontà. In queste nuove trattative Federico voleva coinvolgere sin dal primo momento la sede apostolica, forse nel tentativo di spezzarne l’alleanza con le città. In questa prospettiva fu provvidenziale l’arrivo a Pavia del certosino Teodorico di Sainte-Bénite, parente dell’imperatore, latore di un piano elaborato dai monaci cistercensi francesi e volto a concludere lo scisma. A metà ottobre Cristiano di Magonza e Wichmann di Magdeburgo si recarono ad Anagni per aprire trattative con Alessandro III. Portavano offerte allettanti: Federico avrebbe riconosciuto Alessandro come il solo pontefice legittimo, avrebbe ceduto tutti i beni occupati nel Patrimonio di San Pietro (ossia, quello che sarebbe diventato lo Stato Pontificio) e la stessa Roma, che dal 1167 era governata da un prefetto di nomina imperiale. Il papa accettò, a patto che dagli accordi non fossero tagliati fuori i suoi alleati, i comuni, il re di Sicilia e l’imperatore di Costantinopoli. Se però con costoro non si fosse trovato un compromesso, le trattative fra i due sommi poteri dell’Occidente sarebbero proseguite ugualmente. In cambio, Alessandro avrebbe incoronato Enrico di Svevia, il figlio di Federico, sancendone definitivamente la futura successione sul trono imperiale. Sulla base di questi preliminari si decise di tenere una solenne assemblea, a Ravenna o a Venezia. Nel frattempo, Federico tentava anche di attirare a sé altre città, per indebolire così lo schieramento dei comuni. Cremona, dopo il fallimento della sua iniziativa di pace, decise di schierarsi esplicitamente dalla parte dell’imperatore, approfit-

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tando della sua debolezza per ottenerne in cambio amplissimi privilegi. Il 29 luglio 1176 Federico concesse ai cremonesi il controllo delle contestate corti di Guastalla e Luzzara e di un terzo della regione detta dell’Isola Fulcheria, dove sorgeva Crema. Inoltre, nel dicembre successivo, forse di fronte a un nuovo peggioramento della situazione diplomatica dovuto alla reazione della Lega, si impegnò solennemente a soccorrere la città in caso di aggressione, promettendo di far accorrere in suo aiuto un corpo di 1.000 cavalieri tedeschi. A questa roboante asserzione seguiva però una clausola che meglio rispondeva alla reale situazione militare dell’imperatore, il quale, nel caso non fosse riuscito a mobilitare tali forze, avrebbe cercato di far arrivare almeno suo figlio con 300 cavalieri e poi, entro un anno, gli altri 700. Il Barbarossa cercò anche di rafforzare il proprio controllo sull’Italia centrale, nominando Corrado di Urslingen duca di Spoleto e Corrado di Lützelhardt marchese di Ancona. Perse però una preziosa alleata, Como, che, prostrata dalle perdite subite a Legnano, era rientrata nella Lega tornando ad aggravare i problemi logistici di ciò che restava dell’esercito tedesco. Nell’autunno del 1176 giunse da Oriente una notizia che risollevò almeno in parte il morale degli imperiali: il 17 settembre a Miriocefalo, nell’attuale Turchia orientale, l’esercito bizantino era stato attaccato e distrutto dai turchi selgiuchidi del sultano di Iconio. L’Anatolia andò perduta e l’Impero d’Oriente si trovò costretto a battersi per la sopravvivenza. Manuele Comneno, ovviamente, non era più in grado di svolgere un ruolo da protagonista nelle vicende occidentali, sicché scomparve dalla scena l’unico vero antagonista del Barbarossa, colui che, rivendicando pari dignità imperiale, avrebbe potuto offrire un modello alternativo di legittimazione e di ordinamento alle terre italiane. I comuni antimperiali, comunque, non si trovarono mai in difficoltà. Forti del loro successo militare, essi non risentirono che in minima parte della perdita del sostegno di Bisanzio e delle defezioni che, pur dolorose, non erano comunque in grado di mutare i rapporti di forza esistenti. Il tono della lettera inviata

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alla fine del 1176 al patriarca Udalrico di Aquileia, con cui i rettori della Lega diffidarono il prelato dal presentarsi all’imperatore, non suggerisce certo l’idea di uno schieramento in crisi o emarginato: «abbiamo ora saputo, stupendocene non poco, che su richiesta del signor imperatore avete intenzione di andare a Ravenna. Riteniamo che per la vostra paternità sia cosa indecente recarvi da lui prima che sia firmata la pace! Ne consegue che a voi, sia in quanto patriarca, sia in quanto signore sconsigliamo e proibiamo in ragione del nostro ufficio di recarvi da lui per nessuna ragione». Le trattative, nel frattempo, si erano spostate sulla costa adriatica. Si era raggiunto un accordo di massima sul fatto che la sede degli eventuali accordi sarebbe stata nell’Italia nordorientale, sicché Alessandro III, per avvicinarsi e forse per tenere più facilmente i contatti con i suoi alleati lombardi, si trasferì a Ferrara. Il lungo e tormentato svolgimento dei colloqui diplomatici ci restituisce un’immagine del Barbarossa differente da quella disegnata dai suoi panegiristi. Il leale cavaliere, l’imperatore idealisticamente intenzionato a ricostruire la dignità che fu della carica ai tempi di Roma, si rivelò un diplomatico astuto e ambiguo, pronto a mentire e a ricattare per indebolire i suoi avversari, privo di scrupoli nel mettere in difficoltà i suoi stessi rappresentanti, contraddicendone con i fatti le parole, salvo poi tentare di scaricare sulle loro spalle la responsabilità dei conflitti. Dopo il ritrovato accordo con il papa, seppur pagato a caro prezzo, Federico cercò di rivalersi sulle città italiane, imponendo loro condizioni di pace più severe di quelle proposte a Montebello. I comuni della Lega, però, non si fecero stringere nell’angolo e non ebbero alcuna remora a rifiutarle clamorosamente. Ad aprile i rappresentanti delle città si incontrarono con il papa a Ferrara e il giudice milanese Girardo Cagapisto pronunciò un discorso, tramandatoci dalla relazione della pace, che dimostra ancora una volta tutto l’orgoglio degli esponenti comunali per la vittoria ottenuta e la coscienza della posizione di forza militare in cui la Lega si trovava, tanto da poter sfidare a vi-

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so aperto non solo l’imperatore, ma anche il papa, se avesse ceduto alla volontà dell’avversario: «Conosciamo, avendole provate, le persecuzioni dell’imperatore. Noi ne abbiamo sostenuto il primo impatto, noi primi ci siamo opposti al suo furore e con i nostri corpi e con le nostre armi gli abbiamo fatto da argine perché non si inoltrasse a distruggere la Chiesa e l’Italia. Per onore dell’Italia e per la dignità della Chiesa noi non abbiamo mai voluto ricevere né l’imperatore, né i suoi scismatici e perciò non abbiamo risparmiato spese, fatiche immense, angustie e privazioni, pericoli di morte e la morte stessa», e concludendo: «accettiamo con gratitudine la pace, fatto salvo l’onore dell’Italia […] desideriamo moltissimo la grazia dell’imperatore, purché non ne rimanga lesa la nostra libertà». Il rappresentante della Lega rimarcava dunque che le città non avevano intenzione di sbarazzarsi dell’Impero, né desideravano un’indipendenza totale, ma che, d’altro canto, non avrebbero accettato alcuna diminuzione delle loro prerogative di governo e delle loro autonomie (l’«onore» e la «libertà»). Di fronte a una presa di posizione così dura ed esplicita, il papa rimarcò – e non si può escludere che dicesse la verità – di non aver avuto intenzione di escludere i comuni dalle trattative. Giunti a Ferrara anche gli ambasciatori imperiali, si stabilì che la grande assemblea di pace si sarebbe svolta a Venezia, un centro verso il quale quasi tutti avevano motivi di rancore – Federico per l’appoggio dato nel 1164 alla Lega Veronese; la Lega Lombarda e i Bizantini per l’attacco ad Ancona del 1172 – e che, quindi, poteva ragionevolmente essere considerato neutrale. 3. La pace di Venezia Stabilito il luogo dell’incontro, i diplomatici delle diverse parti cominciarono un intenso lavorio finalizzato a garantirne la riuscita. L’impresa non si presentava facile: Federico aveva concesso molto, praticamente tutto, al papa, ma non voleva fare al-

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trettanto con il re di Sicilia e con i comuni lombardi. Questi ultimi, a loro volta, non avevano alcuna intenzione di rinunciare ai diritti di autogoverno e di libertà che da sempre sentivano come propri e per i quali avevano duramente combattuto e vinto. Incontri e colloqui si prolungarono per settimane e l’esasperazione per la loro durata causò addirittura una sommossa del popolo veneziano, forse sobillato dagli imperiali. Alla fine, di fronte al rischio di uno stallo definitivo delle trattative, Alessandro accettò di rinunciare per 15 anni alla restituzione dei beni di Matilde di Canossa e si stabilì che le vertenze con la Lega e con i Normanni sarebbero state risolte in altra sede, mentre le parti si sarebbero per il momento limitate a concludere una tregua pluriennale. Il 20 luglio l’imperatore giunse a Chioggia e poi si portò a Venezia per le cerimonie che avrebbero sancito la definitiva conclusione della pace. La città lagunare si trasformò in un colossale palcoscenico, sul quale con una serie di riti complessi e spettacolari le parti in conflitto cercarono di dimostrare pubblicamente le loro relazioni. Baci della pace, pranzi collettivi e omaggi rituali dovevano disegnare i nuovi rapporti di forza emersi dalla battaglia di Legnano e dai frenetici mesi di trattative che ne erano seguiti. Il 24 luglio avvenne la riconciliazione finale e l’umiliazione a cui Federico Barbarossa dovette assoggettarsi nei confronti di papa Alessandro III colpì profondamente i contemporanei, in un’epoca in cui i gesti pubblici e simbolici contavano molto più dei testi scritti e degli accordi diplomatici. Come ha osservato lo studioso tedesco Gerd Althoff, chi sostiene che l’imperatore riuscì a capovolgere diplomaticamente l’esito del confronto campale e a uscire vittorioso dalla pace di Venezia trascura di osservare quanto poté colpire i contemporanei il fatto che il preteso vincitore dovette porgere la staffa del cavallo e baciare tre volte i piedi al papa, presunto sconfitto. Il 25 luglio, il papa proclamò solennemente la pace con un lungo discorso in latino; il 1° agosto Federico fece altrettanto pronunciando un’allocuzione in tedesco in cui, pur ammettendo di aver commesso errori, rivendicò con forza la sacralità del suo ruolo di imperatore.

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Per quanto riguarda le altre questioni, come previsto, ci si limitò a siglare una tregua di 6 anni fra l’imperatore e i comuni, rimandando dunque ad altra occasione la soluzione dei problemi ancora aperti. Lo stesso avvenne con i Normanni: Guglielmo II fu riconosciuto re, ma non si arrivò a una vera pace, bensì solo a un’altra tregua di 15 anni. Risolto lo scisma, Roma usciva dai giochi diplomatici, mentre le città lombarde e l’imperatore dovevano iniziare una lunga trattativa, stavolta senza il coinvolgimento di terzi. 4. La lunga tregua La Lega usciva isolata dalle trattative di Venezia, ma certo non sconfitta. Dopo la vittoria di Legnano, le città non avevano più bisogno né del denaro dell’imperatore d’Oriente, né della copertura politica del papa. La tregua, d’altronde, implicava obblighi ben precisi per Federico e non si limitava a sancire la cessazione dei combattimenti. Il Barbarossa, per tutto il tempo previsto, rinunciò solennemente a esercitare i suoi poteri sulle città che aderivano alla Lega, privandosi in tal modo di ogni possibilità di intervento diretto nella situazione italiana. Sarebbero stati invece eletti appositi ufficiali, i «treguani», che dovevano risolvere le liti eventualmente sorte fra le parti. Su esplicita richiesta di Alessandro III, a ottobre Federico dovette ribadire solennemente gli impegni tramite un diploma concesso a tutta la Lega, che otteneva così un riconoscimento formale da parte dell’Impero. Ad ogni buon conto, i membri dell’alleanza rinnovarono i giuramenti, promettendosi aiuto reciproco contro il Barbarossa e i suoi alleati, soprattutto Cremona. I comuni che sottoscrissero la tregua erano divisi tra fautori dell’Impero e membri della Lega. Numericamente i due campi si equivalevano, ma basta leggere con attenzione gli elenchi per rendersi conto del fatto che i secondi erano molto più potenti e agguerriti dei primi. Federico aveva dalla sua parte le città di Cremona, Pavia, Genova, Tortona, Asti, Alba, Acqui, Torino, Ivrea, Ventimiglia, Albenga, Savona, Imola, Faenza, Ravenna,

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Forlì, Rimini e alcuni grossi borghi, oltre ai marchesi di Monferrato e del Vasto (ossia di Saluzzo) e i conti di Biandrate e di Lomello. L’elenco è apparentemente nutrito, ma includeva pochi centri urbani di rilievo (Cremona, Pavia, Genova, Asti e Ravenna) e molte cittadine di scarso peso politico e militare. Dall’altra parte, nonostante la dolorosa defezione cremonese, la Lega continuava a proporsi come un blocco quasi monolitico esteso fra Lombardia, Emilia e Veneto, con l’adesione di Venezia, Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Ferrara, Mantova, Bergamo, Lodi, Milano, Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Piacenza, Bobbio, Parma, Reggio, Modena, Bologna, diversi borghi e i marchesi Malaspina. Alla fine di settembre Federico lasciò Venezia e si impegnò in un lungo tour fra i suoi amici, volto evidentemente a rimarcare la permanenza dell’autorità imperiale e a riaffermare il suo personale prestigio. Egli discese in Romagna, attraversò le Marche e l’Umbria e passò in Toscana, dove trascorse l’inverno. Andò poi a Genova e di lì a Pavia, dove si fermò da marzo a maggio. Ripartito per il Monferrato, risalì infine verso Torino per poi proseguire in direzione della Borgogna. Il viaggio riservò all’imperatore diverse soddisfazioni, ma fu anche, a voler ben vedere, un significativo, lunghissimo periplo necessario a evitare il compatto blocco della maggioranza delle città venete, emiliane e lombarde ancora a lui tenacemente ostili. Ancor prima della conclusione definitiva della pace, l’atteggiamento dell’imperatore nei confronti dell’Italia mutò profondamente. Sconfitto sul campo, egli non poteva più pensare di imporre con la forza i propri principi di governo e doveva cercare di ottenere e di mantenere il consenso dei suoi alleati e di non suscitare eccessiva ostilità nei suoi avversari. L’amministrazione del regno venne sempre più «italianizzata». Se nelle regioni centrali i posti di comando furono ancora affidati a nobiluomini tedeschi, nel Settentrione i vicari e i giudici imperiali che giudicavano le cause d’appello erano, in numero sempre maggiore, originari dei luoghi. Anche le città, nel frattempo, provvedevano a rinforzare le proprie posizioni. Nel 1178 la Lega celebrò due nuove assem-

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blee generali: a Parma, a settembre, durante la quale vennero sbrigati prevalentemente affari correnti, e a Verona. La rete dei podestà fu estesa e articolata, in modo da rendere sempre più coordinata l’azione dei membri dell’alleanza. Fra il 1177 e il 1183, a Vercelli, Lodi, Bergamo, Parma, Bologna, Ferrara, Padova, Treviso, Brescia, Mantova e Alessandria si ebbero per uno o più anni rettori provenienti da altri centri della Lega, soprattutto Milano, ma anche Brescia, Verona, Piacenza e Parma. I conti del comune di Piacenza per l’anno 1179 offrono un’idea dell’intensa rete di colloqui e trattative che percorreva l’Italia padana in quegli anni decisivi. Il tesoriere piacentino versò infatti rimborsi a consoli e messi che avevano tenuto i contatti recandosi più volte a Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia, Bologna, Mantova, Venezia, Milano, Verona, Lodi, Pisa, Parma, Alessandria, Bobbio e Ferrara. A maggio, inoltre, due cavalieri furono inviati a Roma per il grande concilio Lateranense, proclamato da Alessandro III per riaffermare la propria ritrovata autorità davanti al consesso di tutti gli alti prelati della cristianità. La pace di Venezia non aveva dunque interrotto i rapporti di amicizia fra i comuni e il papato. La tregua resse, ma gli anni successivi agli accordi di Venezia non furono certo pacifici. Non vi fu una ripresa bellica a livello generale, ma diversi piccoli conflitti costellarono il panorama italiano, sotto gli occhi dei due schieramenti che anche in tal modo misuravano i propri rapporti di forza. Così, nel 1177, forse su sollecitazione imperiale, forse per reagire alla politica espansionistica di Treviso, si formò una coalizione antitrevigiana, che riuniva i vescovi di Belluno e Feltre e gli uomini di Oderzo. A garanzia dell’appoggio degli alleati, a Treviso giunse in qualità di podestà il piacentino Oberto Visdomini, ma il conflitto, fra alti e bassi, si prolungò fino al 1181 quando, grazie alla mediazione della Lega, fu raggiunta una pace di compromesso. Dalla parte antimperiale, invece, Bologna si lanciò in una campagna militare che minacciò di scardinare il potere di Federico in Romagna. Nel 1178 concluse un accordo con Faenza, allontanandola dallo schieramento svevo; le due città aggrediro-

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no poi Imola con una serie di attacchi che la portarono ad arrendersi e a sottomettersi il 31 luglio 1181. Il castello di San Cassiano, per il quale si era aspramente combattuto nel 1175, fu ricostruito. Alessandro III intervenne sollecitando i rettori della Lega a intervenire per garantire il rispetto della tregua, ma il Barbarossa non fece sentire in alcun modo la sua autorità, segno eloquente della sua incapacità ad agire efficacemente nel territorio italiano. In effetti, a rappresentare l’autorità imperiale al di qua delle Alpi era rimasto Cristiano di Magonza, con il compito di reintegrare il pontefice in tutti i suoi possedimenti nell’Italia centrale. Cristiano, però, nel 1179 fu coinvolto in un aspro conflitto con una coalizione formata dalle città di Firenze, Lucca, Pisa e Pistoia, capeggiata da Corrado di Monferrato. L’arcivescovo maguntino fu sconfitto e imprigionato, nonché minacciato di deportazione a Costantinopoli. Dopo un certo tempo venne invece liberato, ma era ormai evidente che le capacità militari dell’Impero in Italia erano inconsistenti. Nel frattempo in Germania si combatteva la sfida decisiva tra Federico Barbarossa e suo cugino Enrico il Leone, la cui potenza stava diventando eccessiva e poteva rappresentare una sfida verso l’autorità imperiale. Nell’estate del 1179 Enrico, accusato di soprusi ai danni della nobiltà sassone, fu posto al bando e nell’aprile del 1180 venne giudicato fellone e ribelle all’imperatore. Una violenta campagna militare fu sufficiente a battere il duca di Baviera che, abbandonato da gran parte dei suoi seguaci, nel novembre del 1181 si arrese, salvando così i propri beni di famiglia dalla confisca. I territori che deteneva in feudo gli furono invece tolti, incamerati dal fisco imperiale. 5. La pace Si avvicinava intanto la scadenza dei 6 anni di tregua concordati a Venezia, nel corso dei quali Federico aveva approfittato per rafforzare ulteriormente il suo potere in Germania, eliminando uno scomodo rivale. Si correva forse il rischio di una

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replica di quanto era accaduto un decennio prima, quando, dopo il disastro della spedizione romana, l’imperatore era riuscito a riorganizzare le proprie forze e a tornare nuovamente in Italia, nel 1174, alla testa di un esercito possente? All’epoca, però, il Barbarossa non era stato sconfitto sul campo e inoltre ora, a sessant’anni compiuti, non era più in grado di riaprire nuovamente il contenzioso. La sua ultima ambizione era in quel momento la crociata, per chiudere trionfalmente la sua vita guidando le forze dell’Impero nella guerra santa contro gli infedeli e non più in lotte intestine contro i confratelli cristiani. Nessuna delle parti voleva riaprire le ostilità e nel corso del 1183 le trattative diplomatiche ripresero con grande intensità. Il 14 marzo Alessandria e Federico trovarono un accordo e il maggior fattore di crisi – quello, ricordiamolo, su cui si erano arenate le trattative di Montebello otto anni prima – fu risolto grazie a una trovata brillante. La città illegalmente creata dai lombardi fu infatti rifondata in modo fittizio dal Barbarossa e poté così, con il nuovo nome di Cesarea, rientrare pienamente nell’amicizia imperiale. Di fatto, però, si trattava di un riconoscimento che sanava e ratificava ciò che la Lega aveva compiuto nel 1167. Difficile pensare che i rettori di quest’ultima fossero stati estranei alle trattative: in tal modo la dignità dell’Impero era salva, l’esistenza di Alessandria pure e le due parti potevano procedere a concludere una vera pace generale, di cui l’atto del 14 marzo era stato la necessaria e ineludibile premessa. Anche se nella pace definitiva Alessandria (anzi, Cesarea) compariva fittiziamente fra le città di parte imperiale, il suo schieramento politico negli anni successivi ne dimostra la perdurante amicizia con la Lega. Poco dopo aver risolto il nodo alessandrino, una delegazione imperiale e una comunale si incontrarono a Piacenza e qui, il 30 aprile, fu redatto e sottoposto a giuramento il testo destinato poi a essere solennemente promulgato dall’imperatore. Il 25 giugno 1183, a Costanza, di fronte all’assemblea dei principi dell’Impero, Federico Barbarossa e i comuni della Lega conclusero definitivamente la pace dopo un confronto quasi trentennale. L’imperatore salvava le apparenze, in quanto l’atto, ben-

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ché in realtà fosse il frutto di un accordo, non prese la forma di un trattato bilaterale, ma di un privilegio emanato dal sovrano di propria spontanea volontà. I comuni ottennero moltissimo. I diritti pubblici, le famose regalie individuate e minuziosamente elencate a Roncaglia, vennero attribuiti quasi totalmente alle città, in quanto da loro gestiti quali «antiche consuetudini», anche se formalmente l’imperatore avrebbe potuto condurre un’inchiesta approfondita per verificare quante di queste prerogative le comunità avessero realmente goduto in precedenza. Altrettanto importante fu il diritto di fortificare liberamente i centri urbani e di costruire castelli e torri anche in tutto il contado. Infine, la Lega veniva riconosciuta come alleanza legale e, anzi, riceveva il compito di tutelare la tranquillità e la concordia dei suoi aderenti. La pace salvaguardava il principio del giuramento di fedeltà dei consoli all’imperatore o ai suoi rappresentanti, ma di fatto questa clausola fu rispettata per pochissimi anni, prima di cadere in totale oblio. Dal testo, peraltro, risultava chiaro che i magistrati urbani non derivavano la propria autorità dal sovrano, ma dal consenso attribuito loro dagli stessi cittadini. Il potere comunale e la sua legittimità ottenevano un grande riconoscimento, anche simbolico, con la concessione di costruire liberamente palazzi pubblici e fortezze. La giurisdizione cittadina si estendeva anche all’esterno delle mura civiche e, sebbene il testo di pace non ne definisse esattamente l’ambito territoriale, tutti la esercitarono sul pieno territorio del comitato o della diocesi. In cambio, il sistema di governo imperiale fu salvaguardato, anche se le sue competenze vennero drasticamente ridotte. I legati e i vicari del sovrano erano incaricati di dirimere i contrasti intercittadini e quelli fra vassalli imperiali e di esercitare la giustizia d’appello nelle cause di valore superiore a 25 lire di moneta imperiale. C’era però una differenza fondamentale rispetto ai medesimi ufficiali già istituiti da Federico a Roncaglia, poiché quelli che operavano dopo la pace di Costanza erano per la quasi totalità italiani. Essi, nelle loro decisioni, avrebbero dovuto attenersi alle leggi e ai costumi del centro urbano da cui provenivano le parti in causa. Venivano in tal modo riconosciute

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l’autonomia legislativa delle città e la loro piena capacità normativa. 25 lire, inoltre, rappresentavano una cifra molto elevata, per cui solo un numero ridotto di vertenze finiva col rientrare nell’ambito di competenza di tali ufficiali. Una giustizia d’appello nominalmente imperiale, ma esercitata da giudici italiani seguendo gli statuti dei comuni italiani, non doveva sembrare agli occhi dei contemporanei un’arma particolarmente pericolosa nelle mani del Barbarossa. Allo stesso modo, una manciata di castelli in aree periferiche, come il Piemonte (dove vi erano le quattro fortezze imperiali di Annone, Gavi, Retorto e Verrua), o nelle regioni che non avevano partecipato alla lotta antimperiale, quali la Toscana e l’Umbria, non rappresentavano certo né una minaccia militare consistente per la Lega, né una sfida all’autorità giurisdizionale delle città nelle zone più ricche e politicamente attive della penisola. L’imperatore, comunque, fu attento a escludere dai benefici del privilegio di Costanza le città che non erano esplicitamente menzionate nel testo, riservandosi così più ampi margini d’azione nell’Italia centrale. Ben altra sorte ebbe il poderoso apparato fiscale già allestito da Federico negli anni Sessanta, che fu quasi completamente smantellato. Le prerogative sovrane vennero limitate alla riscossione del fodro, all’assicurazione del libero transito e dei rifornimenti per l’imperatore e il suo seguito armato quando fosse sceso in Italia. In realtà, ancora una volta bisogna sottolineare che non si può comprendere la pace di Costanza se non la si interpreta alla luce dei fatti di Legnano. È vero infatti che il testo riconosceva in modo esplicito alcune rivendicazioni di Federico, che non tutte le richieste dei comuni erano state pienamente accolte mentre altre erano state soddisfatte utilizzando un linguaggio ambiguo, ma tutte queste cautele da parte imperiale valevano molto poco in assenza di un apparato repressivo in grado di far rispettare la pace alla lettera. La possibilità di mobilitare forze sufficienti a far funzionare tale apparato repressivo, però, era stata distrutta a Legnano. Di fatto, dunque, ciò che le città ottennero fu molto più di ciò che la lettera del privilegio di Costanza concedeva.

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L’Italia imperiale disegnata dalla pace di Costanza si concretizzò, sì, ma solo in aree allora periferiche. In Piemonte, in parte della Toscana, in Umbria e nelle Marche operarono legati e vicari imperiali, spesso di origine tedesca, intenzionati a tenere il più possibile sotto controllo le autonomie urbane e i poteri signorili. L’apparato di giustizia dell’Impero riuscì qui a proporsi quale valido concorrente dei tribunali cittadini ed episcopali, con i quali interferiva in sede di appello o come corte di prima istanza. Nulla di tutto ciò, invece, accadde nel cuore della resistenza comunale: in Lombardia, in Emilia, nel Veneto, dove i giudici imperiali operarono piuttosto raramente ed entro i ristretti limiti imposti loro dalla pace di Costanza. Soprattutto, in questa zona essi furono rigorosamente italiani e paiono aver agito in stretto coordinamento con le autorità cittadine, piuttosto che in concorrenza con loro. La maggior parte dei comuni menzionati nel trattato, anche quelli filoimperiali, si premurò di farsene copia da conservare gelosamente negli archivi o in quei Libri iurium che tenevano memoria di tutti i documenti considerati essenziali per salvaguardare e difendere le prerogative delle città. Dall’altro lato, nel corso del Duecento, Federico II, nipote ed erede del Barbarossa, si batté strenuamente per ottenere l’annullamento della pace, che egli considerava emanata in netto pregiudizio dei diritti imperiali. È evidente, dunque, che gli stessi protagonisti dei due schieramenti sapevano benissimo chi aveva tratto vantaggio e chi aveva perduto a seguito dell’atto del 1183.

9. LEGNANO DOPO LEGNANO 1. Federico e i comuni: alcune interpretazioni Dopo aver presentato le premesse della battaglia di Legnano, averne ricostruito lo svolgimento ed esaminato le ripercussioni immediate, è ora opportuno cercare di valutarne più ampiamente il ruolo e le conseguenze nella storia d’Italia e d’Europa. È possibile individuare tre principali interpretazioni storiografiche del significato della battaglia. La più tradizionale, di stampo risorgimentale, vuole che a Legnano si siano scontrate Italia e Germania, in un evento che precorreva le guerre di indipendenza. Una seconda afferma che a Legnano le forze della libertà e della democrazia si affermarono su quelle della tirannia monarchica. Una terza, infine, particolarmente cara ad alcuni studiosi tedeschi, ma non disprezzata neppure da ricercatori italiani, capovolge la precedente e asserisce che la battaglia frenò il tentativo federiciano di costruire uno Stato moderno e accentrato, lasciando campo libero alle forze disgregatrici e anarchiche delle città e condannando l’Italia a secoli di divisione. Attorno a queste tre polarità, Italia/Germania, libertà/tirannide, Stato/anarchia si sono incentrate decine e decine di ricerche. In realtà, guardando tale produzione con occhio critico, è difficile sfuggire all’impressione che da un lato tutte queste questioni risultassero legittime e interessanti, ma che dall’altro le domande fossero in qualche modo mal poste, impo-

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nendo alle parole un significato che nel XII secolo non potevano avere. Vediamo, ad esempio, il problema della contrapposizione fra italiani e tedeschi. Bisogna innanzitutto sottolineare che Federico era un vero sovrano sovranazionale e tale si sentiva. Nel corso del suo lungo regno (1152-1189) trascorse in Italia oltre tredici anni, ventitré li passò in Germania e poco meno di uno in Borgogna. È bene ribadire che non lo si può per nulla considerare un «invasore» del regno Italico, sul quale egli governava in virtù della Corona imperiale, con pieno diritto, tanto che in realtà nessuno dei comuni ribelli intese mai mettere in discussione tale situazione. Ciò nonostante, è altrettanto impossibile negare che Federico fosse anche profondamente tedesco e che come tale, e dunque estraneo, i suoi sudditi italiani lo percepivano. Rahevino insiste sui connotati germanici dell’imperatore, che vestiva con il costume nazionale e parlava eloquentemente la sua lingua natale, mentre si limitava a comprendere il latino, senza però riuscire a esprimersi con fluidità, e probabilmente ignorava l’italiano. Il fatto che Federico preferisse parlare nella sua lingua materna fu rimarcato da molti cronisti italiani, da Bosone a Romualdo Salernitano, a evidente dimostrazione della sua alterità nei confronti della penisola e dei suoi costumi. Già prima del Barbarossa l’idea della contrapposizione etnica fra le parti dell’Impero era presente in diversi testi letterari italiani. Un manuale di retorica composto verso il 1132 esortava i cittadini a essere preparati e all’erta in occasione delle discese imperiali e così li ammoniva «abbiate sempre in mente la superbia dei teutonici, la crudeltà dei tiranni e la malvagità dei barbari», e l’idea che fosse pericoloso o quantomeno azzardato opporsi in guerra all’innata crudeltà dei tedeschi permea molte opere dedicate alle prime discese di Federico in Italia. Federico stesso, d’altro canto, non esitava a invocare la solidarietà dei tedeschi contro i tentativi di ribellione degli italiani, che rifiutavano la loro soggezione all’impero di matrice germanica. Una lettera inviata nel 1167 da Federico al vescovo Alberto di Frisinga, per lamentare la nascita della Lega Lombarda e la ribellione delle città, è molto eloquente sulla concezione «tedesca»

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dell’Impero e sui rapporti che dovevano sussistere fra Italia e Germania. Vale la pena di leggerla quasi nella sua interezza: Poiché si stupiscono i cieli e rabbrividisce tutto il mondo [...] all’udire del tradimento nefandissimo compiuto da alcune città lombarde, ossia Milano, Piacenza, Cremona, Bergamo, Brescia, Parma, Mantova e la marca di Verona, contro la nostra maestà e contro l’onore dell’impero senza ragione [...] crediamo che di una faccenda così orrida anche la tua fedeltà si dorrà e tutte le tue viscere saranno turbate: infatti non soltanto la ribellione si riversa nella nostra persona, poiché, rovesciato il giogo della nostra dominazione, è tutto l’impero dei teutonici – che abbiamo acquisito e sinora conservato con molta fatica, molte spese e col sangue di molti principi e illustri uomini – che bramano di rifiutare e distruggere, dicendo «non vogliamo che questi regni sopra di noi, né i teutonici saranno oltre nostri dominatori».

È evidente che in quest’ottica per i tedeschi era giusto che gli italiani portassero il «giogo» del domino teutonico. Fino al 1161, probabilmente, il tema non era eccessivamente sentito e molti italiani collaborarono con Federico, che era il legittimo imperatore e sembrava rappresentare una forza di equilibrio, intenzionato a contrastare il potere eccessivo che alcune città andavano acquisendo. Dopo la resa di Milano, però, i teutonici furono progressivamente identificati con il nuovo, arbitrario ed esoso sistema di governo allestito dal Barbarossa nell’Italia settentrionale. In questo clima, era facile e opportuno per i membri della Lega insistere sull’elemento «nazionale». Il testo del giuramento che un nobile del contado – di cui purtroppo non si è tramandato il nome – dovette pronunciare nel momento in cui aderì alla Lega Lombarda prevedeva esplicitamente che egli si adoperasse in ogni maniera «affinché nessun esercito piccolo o grande dalla Germania o da altre terre dell’imperatore site oltre i monti entri in Italia», impegnandosi, nel caso si verificasse un’invasione, a «far viva guerra all’imperatore e a tutte quelle persone ora o in quel momento schierate con lui finché il detto esercito debba uscire dall’Italia». La penisola, dunque, sotto la protezione della Lega doveva diventare una regione priva di presenze militari tedesche. Nella lettera inviata ai bolo-

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gnesi dopo la vittoria di Legnano, i milanesi proclamavano di voler dividere gloria e bottino con tutta l’Italia. Si trattava di propaganda? Forse, ma la propaganda è utile se batte su temi a cui l’opinione pubblica e le popolazioni sono sensibili e indubbiamente l’alterità e l’estraneità di un sistema di potere gestito dai teutonici in Italia erano una questione con la quale era possibile risvegliare sentimenti forti e suscitare consenso diffuso. Anche dopo la morte di Federico l’antigermanesimo rimase un’arma di grande rilievo a disposizione degli avversari dell’Impero. A cavallo fra XII e XIII secolo, papa Innocenzo III, nell’invitare le città dell’Italia centrale a sbarazzarsi dei governatori imperiali nominati da Enrico VI, ebbe buon gioco nel riesumare il formulario retorico dei tempi del Barbarossa: la «crudele tirannide» esercitata dai teutonici e «la tristissima servitù» alla quale erano condannati i loro soggetti erano evidenziate dal fatto che i rettori germanici non si sforzavano di imparare la lingua delle popolazioni a loro sottoposte e per la loro naturale crudeltà non potevano che risultare estranei e dannosi agli interessi dell’Italia. Vi era, senza dubbio, una robusta dose di luoghi comuni in queste parole, ma probabilmente anche il triste ricordo di quella che, prescindendo dalla sua legalità, era stata realmente percepita come una pesante e lunga dominazione straniera. La contrapposizione dunque esisteva, anche se dall’ostilità verso i governanti tedeschi non nasceva certo un’anacronistica pulsione all’unità nazionale. I comuni non chiedevano l’indipendenza politica, né tantomeno l’unificazione del territorio italiano, ma solo gli ampi margini di autonomia, a cui erano abituati ormai da oltre un secolo, e lo smantellamento di un sistema di governo che, nelle mani dei nobili tedeschi, si era rivelato oppressivo e incapace di entrare in dialogo con la realtà politica e sociale dell’Italia. Che cosa rappresentava, d’altro canto, questo sistema di governo organizzato da Federico fra il 1158 e il 1166? Sebbene Italia e Germania fossero politicamente unite da quasi due secoli, i processi di integrazione fra le due realtà erano stati minimi. Nella penisola, fra l’XI secolo e la prima metà del XII, l’Impero

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non era mai riuscito a proporsi come efficace principio ordinatore e la sua autorità era strettamente legata alla presenza del sovrano stesso. Questi poteva momentaneamente coordinare attorno a sé i poteri che agivano sul territorio e dunque esercitare le proprie prerogative e influenzare, talvolta pesantemente, gli equilibri locali. Quando però egli ritornava in Germania, non lasciava dietro di sé ufficiali o legati in grado di rappresentarlo e, di conseguenza, non aveva alcun modo di agire efficacemente. In tale situazione, l’evoluzione sociale dell’Italia centro-settentrionale prese una strada peculiare, soprattutto a causa dell’ascesa delle città, del sorgere dei comuni urbani e della loro espansione nelle campagne a spese dell’aristocrazia rurale. A Federico, insomma, mancavano in Italia interlocutori politici riconosciuti e affidabili. In Germania i fondamenti del potere imperiale erano i vescovi e gli arcivescovi, che egli poteva nominare, e i grandi principi territoriali. In Italia, invece, i primi erano eletti dai capitoli delle cattedrali locali ed erano strettamente legati alle comunità urbane di cui erano espressione e i secondi, come osservava perplesso Ottone di Frisinga, avevano un ruolo marginale in un contesto nel quale chi contava veramente erano le città. Federico tentò dunque di entrare in dialogo con queste ultime, sfruttandone le rivalità reciproche. Il progetto di Roncaglia prevedeva l’inquadramento del regno d’Italia in un sistema di matrice feudale, sul modello di ciò che già avevano fatto con successo i Normanni in Inghilterra e nell’Italia meridionale e come andava lentamente compiendo la monarchia francese nello stesso torno di anni. In tale direzione, Federico diede un forte impulso anche in Germania, soprattutto negli ultimi anni del suo regno. Le città italiane, però, non erano pienamente integrabili in una gerarchia vassallatica, poiché esse rivendicavano un diverso approccio alla legittimità del potere, che entro le mura doveva derivare dal consenso dei liberi cives e non da una concessione esterna. Di fronte alle difficoltà nell’applicazione delle leggi di Roncaglia e alle tensioni da esse suscitate, Federico ricorse alla repressione militare e alla costituzione di un’amministrazione peculiare nominando dei legati generali, ai quali erano soggetti dei vicari, e dando vita a un ve-

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ro e proprio governo delegato, nel quale un sistema organico di potere si estendeva dall’imperatore ai suoi rappresentanti generali in Italia per giungere ai podestà preposti alle città o a parti del contado. Questo sistema di potere era quasi tutto nelle mani di esponenti dell’aristocrazia tedesca, laica ed ecclesiastica, dato che gli italiani ebbero soltanto ruoli minori. Pesava probabilmente in queste scelte la difficoltà di trovare sul posto referenti affidabili e culturalmente rispondenti all’idea di governo imperiale. Un confronto con quanto avvenne nel regno di Borgogna può essere in tal senso significativo. Qui, infatti, Federico governò con successo tramite legati, che portarono anche il titolo di «giustizieri», di impronta normanna. Come in Italia, a capo del sistema vi era un prelato tedesco, l’arcivescovo di Aquisgrana, che però si circondò di collaboratori locali ai quali affidava il potere durante le sue frequenti assenze. Grande importanza ebbe lo sviluppo di rapporti con alcune famiglie e soprattutto con le chiese, che fornirono un gran numero di ufficiali imperiali. In una regione dalle solide strutture signorili e feudali, dunque, il Barbarossa trovava quegli interlocutori tradizionali che in Italia faticava a identificare e la cui assenza lo obbligò a escogitare soluzioni inedite per tentare di garantirsi il controllo delle città e delle loro risorse. I vicari tedeschi nominati a tale scopo, però, erano completamente estranei al mondo urbano e si dimostrarono incapaci di assolvere efficacemente ai loro compiti. Inoltre, la struttura di governo non era omogenea, poiché alcune città particolarmente fidate, strategicamente importanti o in grado di riscattare col denaro le proprie prerogative ebbero larghi privilegi ed esenzioni, suscitando ostilità e invidia nei centri vicini. Insomma, l’Impero si presentò non come forza regolatrice e pacificatrice, ma come elemento eversore di un sistema di potere che in Italia si andava consolidando ormai da un secolo e come interlocutore culturalmente e politicamente estraneo alla nuova realtà comunale, che Federico non riusciva a comprendere e che di sicuro non poteva approvare. Questa incomprensione fu probabilmente alla radice delle

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tragedie conosciute dall’Italia fra il 1154 e il 1176. I sovrani medievali, infatti, erano difensori di pace e giustizia e come tali non si potevano sottrarre alle norme. Se agivano contrariamente ai diritti, ossia alle libertates dei sudditi, autorizzavano questi ultimi alla disobbedienza e alla ribellione. I cittadini consideravano le loro prerogative acquisite alla stregua di diritti consuetudinari, ossia usi antichi che avevano un valore pari alle leggi e che, di conseguenza, le leggi non avevano l’autorità di cambiare («la legge e la consuetudine camminano fianco a fianco», affermavano i giuristi medievali per indicare che una non poteva prevalere sull’altra). Federico non condivideva questa visione: nella sua ottica le città non erano soggetti di diritto pari ai nobili o ai principi ecclesiastici, tanto è vero che in Germania i tentativi autonomistici delle città furono repressi spietatamente. Magonza, i cui abitanti si erano rivoltati contro l’arcivescovo, che perse la vita nel corso della sommossa, nel 1163 fu giudicata colpevole da un tribunale imperiale e si vide condannata a perdere le libertà civiche e i diritti consuetudinari, nonché a veder smantellate le proprie fortificazioni. Le ricerche più recenti, d’altro canto, ci permettono di valutare in maniera più sfumata e articolata la figura di Federico Barbarossa, senza attribuirgli grandi progetti di costruzione statale e di conseguenti riforme legislative, più propri alla concezione del potere dei giuristi ottocenteschi o dei nazionalisti novecenteschi che non di un sovrano universale del XII secolo. Si è ad esempio fortemente ridimensionato il carattere dirompente del regno di Federico, sottolineandone invece le profonde continuità con l’epoca precedente e con Corrado III in particolare. Non è mancato, anzi, chi ha sostenuto che proprio con Corrado fosse iniziata un’opera di riforma e di rafforzamento delle strutture di governo imperiali poi compromessa e resa fallimentare dalla lunga stagione di conflitti scatenati da Federico, soprattutto con la Chiesa. Federico non lasciò testi sistematici, custodi delle proprie concezioni del potere e in grado di dirci realmente quale fosse – se vi era – e come mutò il suo progetto politico. Non sappiamo se esisteva davvero quello che uno studioso australiano, Pe-

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ter Munz, ha chiamato il Grande Disegno del Barbarossa, volto a creare una sorta di macro-regione posta sotto il diretto controllo imperiale e composta dalla Svevia, dalle regioni renane e dall’Alta Italia, o se si tratta di una ricostruzione posteriore, effettuata a tavolino dagli storici sulla base più dei loro preconcetti che della realtà dei dati documentari. Di fatto, Federico era un personaggio estremamente pragmatico. La sua idea di Impero non era frutto di originali riflessioni teoriche, ma piuttosto della tradizione, delle idee correnti e di una profonda coscienza del prestigio della propria famiglia. Un personaggio come Rainaldo di Dassel, l’arcivescovo di Colonia strenuo fautore della supremazia dell’Impero sulla Chiesa, aveva probabilmente un proprio disegno di potere, lucidamente perseguito, ma l’irritazione più volte dimostrata da Federico di fronte alle iniziative del prelato ci dimostra che l’imperatore avrebbe spesso preferito un approccio meno ideologico e più attento alla realtà del momento. Dopo la morte di Rainaldo, nel 1167, la cancelleria non dimostrò più alcun interesse o alcuna capacità di proseguire nell’elaborazione teorica della figura imperiale: evidentemente dallo stesso Barbarossa non giunse nessuno stimolo in tale direzione. L’azione imperiale in Italia è stata a sua volta sottoposta a una profonda rilettura, soprattutto a partire dagli studi di Alfred Haverkamp, il quale ha ridimensionato l’immagine di Federico quale ispiratore e realizzatore di un sistema organico di governo centralizzato, sottolineando invece la sua flessibilità e il suo pragmatismo, che talvolta sfociavano in vero e proprio opportunismo. L’urgenza principale del Barbarossa non era costruire un’amministrazione pubblica che a lui facesse capo ed eliminasse tutte le giurisdizioni concorrenti, ma, piuttosto, smantellare quelle concentrazioni di potere abbastanza forti da proporsi come sue rivali. In Italia, infatti, era in atto un’opera di ricomposizione territoriale attorno alle città più potenti. Milano, in particolare, aveva assoggettato Como e Lodi e aveva costruito un saldo vincolo di alleanza con Piacenza e Brescia che le consentiva di dominare tutta la Lombardia centrale. Processi simili, anche se in forma più embrionale, stavano conducendo Bo-

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logna e Firenze nei confronti dei centri a loro più vicini. Questo processo di aggregazione fu aspramente contrastato dal Barbarossa, poiché sarebbe stato impossibile ricondurre tali nuclei di potere, una volta consolidatisi, all’obbedienza sovrana. Certo, insistere sul pragmatismo del Barbarossa non deve far scordare la sua altissima idea delle prerogative imperiali. L’«onore dell’Impero», come era definito nei testi dell’epoca, rimase la bussola di tutte le azioni di Federico e ne condizionò l’agire, spingendolo talvolta a rifiutare trattative con i suoi avversari che sarebbero state per lui vantaggiose. Comunque egli non si sentì mai chiamato al ruolo di governatore di tutto il mondo, che pur gli veniva attribuito da membri del suo entourage, né volle mai creare un vero «diritto imperiale» sul modello romano, ma intese più semplicemente contrastare il processo di disgregazione e di localizzazione del potere giurisdizionale, rivendicando a sé il ruolo di fonte ultima dei diritti pubblici. Ancora, per una corretta valutazione degli esiti ultimi della battaglia di Legnano, è opportuno rimarcare che recentemente si è sottolineato il fatto che la nostra epoca tende a valutare il passato con un’ottica ancora fortemente influenzata dallo «statalismo» otto-novecentesco e a costruire istintivamente un’equivalenza immediata e piuttosto rigida: forte apparato statale = buono, debole presenza dello Stato = cattivo. Questo pregiudizio, in molti testi di ricerca e di divulgazione, si muta facilmente in un giudizio storico assoluto, quasi che si debba valutare la qualità di un governante dalla forza, dall’efficienza e, perché no, dalla spietatezza dell’apparato di governo da lui costruito, salvo poi rifiutarsi di applicare al tempo presente l’idea che un controllo sociale pervasivo e orwelliano, una macchina militare spietata e un fisco onnipresente e rapace siano l’ideale verso il quale i nostri governi dovrebbero tendere... Nella stessa maniera la pensavano nel XII secolo: le monarchie che più pesantemente tassavano i loro sudditi, reprimevano le autonomie cittadine, limitavano l’autonomia della Chiesa erano spesso giudicate tiranniche e oppressive, laddove noi, da una prospettiva più distante, tendiamo a esaltarle quali entità che precorrevano lo Stato moderno. In questa prospettiva, la politica di Federico potrebbe esse-

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re valutata in maniera profondamente differente. Egli non volle applicare metodi di governo autoritari in Germania, dove il potere imperiale si basava prima di tutto sul consenso che i grandi principi e gli altri aristocratici nutrivano verso la corona. In Italia egli poté e, soprattutto, dovette agire con maggiore spregiudicatezza, ma la sua azione – è l’autorevole opinione di Giovanni Tabacco –, pur generalmente improntata a potenziare la funzione regia, in realtà fu assai mutevole e puntò soprattutto alla ricerca di risorse finanziarie e militari, più che alla realizzazione di un apparato di governo organico ed efficace. Le sue realizzazioni, percepite quali organismi avidi e repressivi, finirono dunque con l’alienargli il consenso delle popolazioni soggette, consenso che peraltro, in Italia, Federico si rifiutava di tenere in conto. La battaglia di Legnano, di conseguenza, non arrestò il processo di costruzione statale da parte dell’imperatore, dato che in realtà non sembra che quest’ultimo stesse procedendo coerentemente in quella direzione. 2. Due mondi a confronto Come abbiamo visto, per comprendere bene la natura del confronto fra i comuni e l’Impero è bene rinunciare a inquadrare le azioni dei protagonisti attraverso schemi che appartengono alla nostra epoca. Se ci aspettiamo che uomini vissuti oltre ottocento anni fa avessero i nostri stessi sistemi di valori e condividessero con noi ogni aspetto del modo di pensare e di percepire il mondo, allora siamo destinati a incontrare solo delusioni. Gli abitanti delle città comunali non erano patrioti o italiani nel nostro senso del termine, non avevano la nostra idea di Stato nazionale (come, peraltro, lo stesso Federico Barbarossa) e non avevano un sistema di governo che noi, agli inizi del XXI secolo, ci sentiremmo di definire pienamente democratico, se non altro per l’esclusione delle donne dall’esercizio dei diritti politici. Si deve allora rinunciare, come affermano alcuni, a vedere nello scontro fra i comuni e il Barbarossa qualcosa di più che un

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conflitto fra esponenti di un medesimo mondo feudale, e sul campo di battaglia del 1176 la contrapposizione dei rappresentanti di due società e di due culture del potere profondamente diverse? Come si è già accennato, la semplice composizione dei due eserciti è un’illustrazione efficacissima delle due diverse società che si affrontavano. I cavalieri corazzati imperiali stretti attorno ai loro principi erano il simbolo di una concezione del potere aristocratica e gerarchica, i fanti e i cavalieri cittadini raccolti attorno al carroccio lo erano di un mondo più aperto ed egualitario. A Roncaglia Federico aveva chiaramente esposto un programma secondo cui ogni potere era nelle mani dell’imperatore: egli solo poteva delegarlo, anche in forme molto ampie, ad altri enti o persone. Nessuna giurisdizione o diritto pubblico poteva avere altro fondamento. Nei comuni, al contrario, il potere saliva dal basso: erano i cittadini, in quanto collettività di liberi, a detenerlo, a metterlo in comune tramite giuramento pubblico e a delegarlo ai consoli liberamente eletti. Il riconoscimento di una superiore autorità imperiale non intaccava quest’idea, per l’epoca rivoluzionaria. Non a caso, gli scrittori bizantini che seguivano le trattative di Manuele Comneno con le città italiane, per descrivere la loro forma istituzionale, utilizzarono un termine greco, per noi molto comune, ma del tutto assente dal lessico latino dell’epoca: «dhmokratía», democrazia. Il governo comunale, espressione della collettività giurata del popolo, si poneva in contrapposizione netta con la tradizione precedente, non solo per la legittimazione dal basso del potere, ma anche perché questo potere doveva essere esercitato in maniera neutra nei confronti di tutti i cittadini. Non esistevano, o non avrebbero dovuto esistere, personaggi più benvoluti di altri, categorie sociali favorite e neppure, almeno in teoria, favoritismi per parenti o amici degli ufficiali pubblici: i cives formavano una categoria egualitaria, nettamente contrapposta al mondo della «società feudale», in cui i legami di dipendenza personale creavano una netta gerarchizzazione verticale. Certo, i rapporti vassallatici esistevano anche in seno alla società urbana, ma non avevano conseguenze pubbliche: il marchese e l’ar-

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tigiano avrebbero dovuto essere perfettamente pari davanti a un giudice comunale. Ovviamente, in concreto, ciò avveniva di rado, ma l’ideologia che animava il movimento comunale era questa. Il contrasto con il modello aristocratico e imperiale era totale ed è facile comprendere perché i nobili tedeschi inviati a governare le città non fossero in grado di comprendere gli usi delle collettività a loro soggette e finissero per presentarsi esclusivamente come rapaci esattori agli ordini di un potere lontano ed estraneo. I termini, nel senso in cui li utilizziamo oggi, non corrispondono esattamente al loro significato medievale, ma, per intenderci, possiamo affermare che i comuni italiani non volevano l’indipendenza dal corpo dell’Impero, ma semplicemente una larga autonomia. Le città erano e si sentivano Stati (res publicae), ma ciò non era in contraddizione con l’appartenenza a quella più grossa entità sovranazionale che era l’Impero (res publica anch’essa, per eccellenza). Rispetto agli studiosi di uno o due secoli fa, cresciuti nel culto dello Stato nazionale e delle guerre di indipendenza, oggi, in tempi di unità europea, forse noi siamo meglio in grado di comprendere lo spirito con cui i cittadini del XII secolo potevano conciliare l’amore per le loro piccole patrie con la possibilità di essere membri anche di un corpo più vasto, a patto che questo non eccedesse in autoritarismo. È impossibile dire come sarebbe mutata la civiltà cittadina in Italia se la battaglia di Legnano avesse avuto un altro esito, ma sicuramente la sconfitta dell’imperatore diede ai comuni la possibilità di uno sviluppo istituzionale che non ebbe pari in Europa. Nell’ottica contemporanea è possibile rammaricarsi che le città non abbiano colto l’occasione per darsi forme di governo superiore più strutturate e «federali», ma ancora una volta non è il caso di voler insegnare ai nostri antenati cosa secondo noi avrebbero dovuto o non avrebbero dovuto fare. Osserviamo piuttosto che il movimento comunale italiano, nel momento del suo più grande successo, servì da modello alle città di tutta Europa. Fu sul suo esempio che le collettività urbane francesi, fiamminghe, tedesche, inglesi e spagnole, fra Due e Trecento, si diedero a loro volta efficaci organismi di autogoverno, eletti da

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una parte consistente o dalla totalità della popolazione. Certo, in pochissimi casi queste città riuscirono a raggiungere il livello di autonomia ottenuto dai comuni italiani, ma esse, pur soggette all’autorità regia o imperiale, rappresentarono comunque il luogo per eccellenza dove era garantito l’esercizio dei diritti civili e politici anche a chi non apparteneva alla nobiltà. Nell’Europa delle monarchie assolute, è stato scritto, furono le città a conservare gli anticorpi «democratici» e non a caso, a partire dalla Rivoluzione francese, tutti noi ci consideriamo «cittadini», in quanto persone libere e politicamente attive. L’eredità a lungo termine della battaglia di Legnano, dunque, non ha mancato di influenzare profondamente anche le nostre vite... 3. Il mito difficile Non è possibile concludere una ricostruzione della battaglia di Legnano senza affrontare, almeno a grandi linee, la storia delle sue interpretazioni e del suo uso politico nei secoli successivi. Una ricerca dettagliata meriterebbe un volume a sé, di conseguenza qui ci limiteremo ad alcuni accenni, utili a comprendere in che modo l’interpretazione risorgimentale, ottocentesca e novecentesca del fatto vi abbia costruito sopra una sovrastruttura ideologica tale da rendere quasi impossibile uno studio neutrale degli eventi. Per oltre sei secoli, la battaglia di Legnano rimase un evento legato alla memoria e all’autocelebrazione locale. Un momento di gloria prevalentemente milanese, o al massimo lombardo, peraltro vissuto con qualche imbarazzo fra Tre e Quattrocento, quando Milano, volendo proporsi come la capofila del ghibellinismo italiano, trovava problematico rivendicare appieno il suo passato di città risolutamente antimperiale. Gli storici del Settecento, dal Muratori al Giulini, diedero il loro importante contributo di eruditi alla ricostruzione dei rapporti fra le città e il Barbarossa e dello svolgimento del conflitto, senza però darne letture in chiave nazionale o liberale. Soltanto agli inizi dell’Ottocento, alcuni esponenti politici

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della Repubblica Cisalpina prima e del regno Italico poi videro chiaramente le possibilità di uno sfruttamento in chiave propagandistica della storia della Lega Lombarda e della battaglia di Legnano. Il vero capofila in tal senso fu però lo storico romantico Sismondi, un liberale ginevrino, che dedicò ai comuni italiani la sua opera più importante, pubblicata subito dopo la fine della parabola napoleonica e dedicata alla Storia delle repubbliche italiane, o, anche, come afferma il sottotitolo, alla Rinascita della libertà in Italia. Nelle pagine del Sismondi, Legnano divenne un episodio della lotta dei popoli per la libertà («guerre de liberté», la chiama l’autore), poiché lo scontro fra le città e l’imperatore venne letto come un confronto fra democrazia e tirannia. Si trattava però di una lettura che poteva essere agevolmente controbattuta dai polemisti avversi, i quali sottolinearono spesso come al successo di Legnano non sia seguita un’epoca di concordia interna, ma una lunga stagione di lotte intestine e di anarchia che, in ultima analisi, aprì la strada a nuove dominazioni straniere. Comunque, spesso evitandone una precisa contestualizzazione storica, Legnano, insieme al connesso giuramento di Pontida, ai Vespri siciliani e alla Disfida di Barletta, divenne parte del «codice retorico nazionale» elaborato dalla letteratura e dalla storiografia romantiche, l’unica vera battaglia decisiva in campo aperto vinta dagli italiani contro gli stranieri, senza aiuti esterni, esempio da valorizzare per dimostrare che gli abitanti della penisola non erano imbelli, ma potevano e sapevano battersi. Col procedere dell’unificazione non sotto l’egida dei movimenti liberali, ma sulla spinta dell’esercito e della diplomazia sabaudi, sorsero però gravi problemi nell’includere pienamente Legnano nel pantheon dell’eroismo nazionale. Si trattava, innanzitutto, di una battaglia alla quale i Savoia non solo non avevano partecipato, ma che li aveva visti schierati nel campo avverso. Inoltre, proprio perché percepita quale vittoria cittadina e popolare, Legnano era ben vista in modo preoccupante dai patrioti liberali e, quindi, avversata dai conservatori. Dopo la presa di Porta Pia, infine, anche il ruolo del pontefice come alleato dei comuni divenne fonte di imbarazzo. Un convinto e fervente

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repubblicano come Goffredo Mameli, che cadde eroicamente nella difesa di Roma del 1849, nel suo inno Fratelli d’Italia esprimeva sinceramente la speranza che «dall’Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano», ma forse i maggiori esponenti della monarchia non sarebbero stati d’accordo fino in fondo con tale auspicio. La difficoltà di includere la battaglia di Legnano in un semplicistico apparato retorico nazionalista, ma anche l’impossibilità di rinunciarvi, appaiono evidenti nella parabola compiuta da Massimo d’Azeglio. Egli produsse negli anni Trenta dell’Ottocento una serie di romanzi storici che intendevano celebrare il valore bellico degli italiani e decise di comporne uno anche sulla Lega Lombarda, che gli pareva aver rappresentato l’epoca «più bella e luminosa della nostra storia». Nel 1845, però, egli abbandonò l’intento, spiegando che il tutto gli era risultato semplicemente faccenda di «vassalli (come tutti gli altri) in questione col loro signore». Cessato l’impegno letterario, il d’Azeglio si gettò in prima persona nella lotta politica e militare per l’indipendenza e nel 1848 si trovò a fianco del generale Giovanni Durando alla guida del contingente che papa Pio IX aveva inviato contro gli austriaci. Così egli arringò le truppe, esortandole a passare il Po: «Militi e soldati! Gli spiriti gloriosi di coloro che combatterono a Legnano vi sorridono dal cielo». Evidentemente, le perplessità maturate dallo studioso non impedivano al politico di rendersi conto delle potenzialità retoriche del mito. Legnano, in effetti, rappresentò una parte fondamentale dell’armamentario retorico del Risorgimento: da Garibaldi a Mazzini, da Berchet a Carducci, proclami, esortazioni e poemi fecero costante riferimento all’esempio comunale quale modello da seguire per i patrioti desiderosi di combattere gli austriaci. Il giuramento di Pontida e la battaglia erano particolarmente utili nell’elaborazione del Risorgimento come movimento volontaristico, consacrato e giurato. Nella pittura, Legnano fu il soggetto più gettonato di quadri storici nei decenni centrali del secolo. Anche Giuseppe Verdi, come è noto, dedicò un’opera all’evento, presentata non a caso a Roma il 27 gennaio del 1849 alle soglie della proclamazione della seconda Repubblica romana, avvenuta il 9 febbraio successivo.

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Compiuta l’Unità, questi entusiasmi vennero rapidamente sedati e il mito della Lega e di Legnano tramontò. L’aspetto popolare e repubblicano della battaglia fu messo da parte e l’attenzione si concentrò su pochi protagonisti. Le leggende inventate o riportate da Galvano Fiamma, rese popolari dal fiorire di opere liriche, poemi e romanzi sulla battaglia, fecero di Legnano la vittoria di un’élite ristretta e non di tutta la cittadinanza in armi. A salvare l’Italia era stata la disperata resistenza dei novecento della Compagnia della Morte, e, soprattutto, il successo era stato conseguito grazie alla presenza di un uomo forte, Alberto da Giussano, in grado di guidare con mano sicura le masse popolari, altrimenti imbelli e inattive. L’esaltazione della figura di Alberto da Giussano era utile a riorientare la lettura della battaglia, neutralizzandone gli aspetti più discutibili dal punto di vista delle élites di governo dell’Italia risorgimentale. Legnano non era più – come era stata per Sismondi o per Mameli – la vittoria delle repubbliche cittadine contro un governo oppressivo, ma un esempio di eroismo patriottico, risolto fondamentalmente in chiave nazionalista. La scarsa accoglienza riservata a Legnano da parte delle istituzioni nella costruzione della memoria storica nazionale è verificabile anche dalle scelte toponomastiche. In quasi nessuna delle principali città italiane, al di fuori della Lombardia, la battaglia di Legnano o i suoi protagonisti sono ricordati da vie o piazze loro intitolate. A Roma, via Legnano è una strada minore nell’estrema periferia, non lontana da Ciampino, mentre via Alberto da Giussano è una strada centrale, di una certa rilevanza, che collega via Casilina e via Prenestina, non lontano dal cimitero del Verano. Nell’anno 1900 a Legnano venne eretto il noto monumento realizzato da Enrico Butti. La statua era dedicata genericamente al Guerriero di Legnano e intesa dunque come celebrazione di tutti i combattenti italiani, ma venne rapidamente identificata con Alberto da Giussano e così è nota sino a oggi, contribuendo a diffondere il mito del comandante inesistente. Anche il fascismo, ovviamente, volle sfruttare il da Giussano ai fini della sua concezione leaderistica del potere. Data la sorda ostilità dell’alta ufficialità verso l’episodio, la marina italiana

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non ebbe mai una nave intitolata alla battaglia di Legnano (mentre fiorirono le denominazioni ispirate da qualsiasi episodio bellico, anche minore, del Risorgimento), ma nel 1930 fu varato un incrociatore dedicato ad Alberto da Giussano. Significativamente, l’unità faceva parte di una classe detta «dei Condottieri» e Alberto fu affiancato a figure assai più tarde, come Alberigo da Barbiano, Bartolomeo Colleoni e Giovanni dalle Bande Nere, tutti vissuti fra la fine del Trecento e gli inizi del Cinquecento. L’esaltazione dei condottieri (il cosiddetto «condottierismo») era una componente importante della retorica storica fascista, volta a esaltare il ruolo politico e militare dei Capi, dei personaggi carismatici dietro i quali veniva adombrato Mussolini in persona. Soltanto così, trasportata con la forza in un contesto che non era il suo, la memoria di Legnano poteva risultare accettabile. Verso la battaglia vera e propria il regime continuava a manifestare freddezza, tanto da imporre al comune di Legnano di ribattezzare il «palio di Legnano», nato nel 1935 nell’ambito di un più vasto fenomeno revivalistico che coinvolgeva tutta l’Italia, col più modesto e neutrale nome di «sagra del carroccio». Fino alla prima guerra mondiale il mito di Legnano era troppo prezioso per essere dimenticato. L’identificazione del vecchio Impero di matrice germanica con il nuovo impero austroungarico permetteva di rileggere la vecchia lotta del 1176 nella chiave del «nemico storico», secolarmente avverso all’Italia. Nel corso dell’Ottocento, d’altro canto, l’immagine di Federico Barbarossa venne a sua volta intensamente utilizzata dai cantori del nazionalismo tedesco, quale precursore della missione espansiva e civilizzatrice della Germania. Nelle trincee del 1915-1918, dunque, almeno a livello propagandistico, i due vecchi nemici tornarono a scontrarsi. Dopo la Grande Guerra, l’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista creò qualche imbarazzo nell’uso propagandistico di Legnano. Se i tedeschi continuarono a sfruttare la memoria di Federico, tanto che Adolf Hitler battezzò «operazione Barbarossa» la grande offensiva scagliata nel 1941 contro l’Unione Sovietica, Mussolini preferì ricorrere alla tradizione ro-

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mana e punteggiare di riferimenti a Scipione l’Africano e alla battaglia di Zama la sua retorica bellica. Soltanto dopo l’8 settembre, nel ricostruito esercito italiano che combatteva a fianco degli Alleati, Legnano tornò a trovare una collocazione adeguata, nel cuore di uno schieramento antitedesco e democratico. Proprio «Legnano», con scelta non casuale, fu dunque denominato il primo dei Gruppi di combattimento italiani (già Primo raggruppamento motorizzato) che andarono ad affiancare i reparti angloamericani durante le offensive del 1944 e del 1945 contro la Linea Gotica. Osserviamo, comunque, che dall’altra parte del fronte esisteva un battaglione repubblichino denominato «Pontida», che nella canzone Giovinezza era diventato un giuramento antibolscevico. Il resto è storia di oggi. La battaglia di Legnano nell’Italia repubblicana avrebbe potuto ritrovare la sua lettura originaria di vittoria comunale e cittadina contro un sistema di potere, forse non peggiore, ma sicuramente estraneo alle consuetudini invalse nella penisola. Nell’immediato dopoguerra, molti storici hanno però esitato in questa direzione, forse perché il rischio di tornare a un’interpretazione ancora intrisa di stilemi risorgimentali era troppo forte. A partire dagli anni Settanta, in stretto dialogo con la ricerca tedesca, la storiografia italiana ha iniziato una rivalutazione generale dei rapporti fra comuni e Impero che ha portato a grandi acquisizioni scientifiche e a letture innovative degli eventi politico-militari della seconda metà del XII secolo. Una generale riconsiderazione della storia della Lega e della battaglia di Legnano, però, è stata ostacolata dal fatto che la memoria e i segni di quegli eventi sono stati ancora una volta riesumati per essere gettati nella lotta politica. Molti hanno trovato paradossale che un partito dalla forte anima secessionista come la Lega Nord abbia potuto riutilizzare a proprio vantaggio simboli ed episodi profondamente intrisi di spirito risorgimentale, dal giuramento di Pontida al guerriero di Legnano. Come abbiamo visto, però, l’interpretazione ottocentesca era tutt’altro che unilaterale e monolitica, conservando in sé una miriade di sfaccettature che ne consentirono l’uso ai liberali e ai repubblicani come ai fascisti, sfaccettature che affondano le loro radici nella complessità degli

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eventi che diedero origine alla battaglia. Legnano permane un evento difficile da politicizzare e, non a caso, la stessa Lega Nord preferisce Pontida come suo «luogo dell’anima». Così, Legnano rimane un mito plurivalente, che consente molteplici chiavi di lettura, ancora ammantato di sentore risorgimentale, ma anche utilizzabile da un partito dai chiari connotati antiunitari. Forse si tratta di un paradosso, forse semplicemente è la prova della vitalità di un evento che proprio per il suo essere irriducibile a facili schematismi interpretativi non cessa di porci interrogativi sulle radici della nostra identità nazionale.

FONTI E BIBLIOGRAFIA I riferimenti essenziali per i rapporti fra Federico Barbarossa e i comuni italiani sono alcune raccolte di saggi, che verranno in seguito più volte richiamate: Popolo e Stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa. Alessandria e la Lega Lombarda, Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1970; Federico Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e in Germania, a cura di R. Manselli e J. Riedmann, Il Mulino, Bologna 1982; Federico I Barbarossa e l’Italia nell’ottocentesimo anniversario della sua morte, a cura di I. Iori Sanfilippo, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo-Archivio Muratoriano», 96 (1990); Friedrich Barbarossa. Handlungsspielräume und Wirkungsweisen des Staufischen Kaisers, a cura di A. Haverkamp, J. Thorbecke Verlag, Sigmaringen 1992; Kaiser Friedrich Barbarossa. Landesausbau – Aspekte seiner Politik – Wirkung, a cura di E. Engel e B. Töpfer, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1994; Gli inizi del diritto pubblico. L’età di Federico Barbarossa: legislazione e scienza del diritto. Die Anfänge des öffentlichen Rechts. Gesetzgebung im Zeitalter Friedrich Barbarossas und das Gelehrte Recht, a cura di G. Dilcher e D. Quaglioni, Il Mulino, Bologna 2007; Gli inizi del diritto pubblico 2. Da Federico I a Federico II. Die Anfänge des öffentlichen Rechts. Von Friedrich Barbarossa zu Friedrich II, a cura di G. Dilcher e D. Quaglioni, Il Mulino, Bologna 2009. Più ampiamente, per il contesto storico e culturale, è fondamentale Il secolo XII: la «renovatio» dell’Europa cristiana, a cura di G. Constable, G. Cracco, H. Keller e D. Quaglioni, Il Mulino, Bologna 2003.

Introduzione Non esistono testi realmente aggiornati sulla battaglia di Legnano. L’ultimo contributo scientifico (G. Martini, La battaglia di Legnano: la

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Fonti e bibliografia

realtà e il mito, in «Nuova antologia», 111, 1976, pp. 357-371) risale ad oltre trent’anni fa ed è apparso in occasione dell’ottavo centenario della battaglia, un centenario passato quasi sotto silenzio, a conferma della scarsità di ricerche sul tema. Benché, come si può vedere dai testi citati in precedenza, l’interesse per il confronto tra Federico Barbarossa e i comuni italiani sia rimasto vivacissimo, i suoi aspetti militari sono stati completamente trascurati, con l’eccezione del recentissimo H. Berwinkel, Verwüsten und Belagern. Friedrich Barbarossas Krieg gegen Mailand (1158-1162), Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2007, che però si arresta ben prima della battaglia di Legnano. Il vecchio H. Meyer, Die Militärpolitik Friedrichs Barbarossas in Zusammenhang mit seiner Italienpolitik, Ebering, Berlin 1930, utile per analizzare le difficoltà logistiche nelle quali Federico si trovò a dibattersi durante le campagne italiane, si dedica più alla politica imperiale per il controllo del territorio e delle vie di comunicazione che non alle operazioni belliche vere e proprie. Per le rapide citazioni di Legnano nelle più recenti sintesi internazionali di storia militare si vedano: J.-F. Verbruggen, The Art of Warfare in Western Europe during the Middle Ages. From the Eighth Century to 1340, Boydell Press, Woodbridge 1997 (ed. or. 1957), pp. 145147; P. Contamine, La guerra nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1986, p. 102; J. France, Western Warfare in the Age of the Crusades, 10001300, UCL Press, 1999, p. 139; A.A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 207-208; J. Bradbury, The Routledge Companion to Medieval Warfare, Routledge, London-New York 2004, p. 163. Per il contesto politico e sociale della battaglia: I giorni che fecero la Lombardia, a cura di G. Andenna, Banca di Legnano, Legnano 2007. Sulle attuali tendenze della storia militare, il punto è offerto da J. Black, Rethinking Military History, Routledge, London-New York 2004. Fondamentale anche N. Labanca, Combat Style. Studi recenti sulle istituzioni militari alla prova del fuoco, in Il soldato, la guerra e il rischio di morire, a cura di N. Labanca e G. Rochat, Unicopli, Milano 2006, pp. 337-378. Sui mutamenti degli anni Settanta: P. Del Negro, La storia militare dell’Italia moderna nello specchio della storiografia del Novecento, in Istituzioni militari in Italia fra Medioevo e Età Moderna, a cura di L. Pezzolo, in «Cheiron», 23, 1995, pp. 11-33 e N. Labanca, La maturità della storia dell’istituzione militare in Italia, in L’istituzione militare in Italia. Politica e società, a cura di N. Labanca, Unicopli, Milano 2002,

Fonti e bibliografia

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pp. 9-42. La battuta sui generali zigzaganti a p. IX è di R.M. Citino, Military Histories Old and New: A Reintroduction, in «The American Historical Review», 112 (2007), pp. 1069-1090, a p. 1079. Il testo di riferimento per la ricostruzione delle battaglie dal punto di vista dell’esperienza del combattimento è J. Keegan, Il volto della battaglia, Il Saggiatore, Milano 20012. Le possibilità, ma anche i limiti, dell’applicazione dei metodi di Keegan a un episodio tutto sommato poco documentato sono illustrati ad esempio da G. Daly, La battaglia di Canne, Libreria editrice goriziana, Gorizia 2008. Per una ricca discussione dei pregi e dei limiti dell’opera di Keegan, si vedano i testi di G. Rochat, N. Labanca, L. Tomassini e R. Balzani raccolti in «Contemporanea, rivista di storia dell’800 e del 900», 7 (2004), pp. 123-144. La ricerca modello di Duby è G. Duby, La domenica di Bouvines. 27 luglio 1214, Einaudi, Torino 1977. Il bel testo di Whatley citato è una conferenza del 1923, pubblicata solo nel 1964: N. Whatley, On the Possibility of Reconstructing Marathon and Other Ancient Battles, in «The Journal of Hellenic Studies», 84 (1964), pp. 119-139. La più radicale critica al «metodo combinatorio» è stata mossa da A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Einaudi, Torino 19892 (da leggere unitamente all’indispensabile Premessa di Carlo Ginzburg). Per il «test Ottone-di-Frisinga»: T. Reuter, Mandate, Privilege, Court Judgement: Techniques of Rulership in the Age of Frederick Barbarossa, in Id., Medieval Polities and Modern Mentalities, a cura di J. Nelson, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 413-431, a p. 430. Le più importanti raccolte di cronache e di atti per gli anni del Barbarossa sono state realizzate dagli studiosi tedeschi nell’ambito del vastissimo programma di edizione dei documenti per la storia della Germania, i Monumenta Germaniae Historica. Per comodità i volumi appartenenti a questa collana verranno d’ora in poi indicati con la sigla convenzionale MGH. Le cronache, in particolare, sono nella sezione degli Scriptores, che indicheremo con SS. Dal punto di vista antimperiale gli anni del conflitto decisivo sono narrati: dagli Annales Mediolanenses, a cura di G.H. Pertz, in MGH, SS, XVIII, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1863, pp. 359382, di cui è disponibile una traduzione italiana nel volume Il Barbarossa in Lombardia: comuni ed imperatore nelle cronache contemporanee, a cura di F. Cardini, G. Andrenna e P. Ariatta, Europia, Novara 1987; da Romoaldi II archiepiscopi Salernitani Annales, a cura di W.

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Arndt, in MGH, SS, XIX, Unveränderter Nachdruck, Hannover 1866, pp. 387-461 e da Boson, Les vies des papes, in Le Liber Pontificalis, II, a cura di L. Duchesne, E. De Boccard Editeur, Paris 1955, pp. 351-446. Per la parte imperiale la principale fonte è rappresentata da Goffredo da Viterbo: Gotifredi Viterbiensis Gesta Friderici I et Heinrici VI imperatorum metrice scripta, a cura di G.H. Pertz, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1872. Ricche di informazioni anche alcune cronache locali tedesche, che verranno più dettagliatamente citate in seguito. Sulle cronache cittadine, un’importante messa a punto è fornita da G. Arnaldi, Annali, cronache, storie, in Lo spazio letterario del Medioevo, I, Il Medioevo latino, a cura di G. Cavallo, C. Leonardi ed E. Menestò, vol. I, La produzione del testo, Salerno, Roma 1993, pp. 463-513. Una recente panoramica è inoltre offerta da E. Coleman, Lombard City Annals and the Social and Cultural History of Northern Italy, in Chronicling History. Chroniclers and Historians in Medieval and Renaissance Italy, a cura di S. Dale, A.W. Lewin e D.J. Osheim, Pennsylvania University Press, University Park, 2007, pp. 1-27. Per l’area lombarda si veda anche M. Oldoni, Una letteratura senza domani: storiografi di Lombardia fra XI e XIV secolo, in I giorni che fecero la Lombardia cit., pp. 315-344. Sui due autori degli Annales Mediolanenses e Sire Raul si veda J.W. Busch, Sulle tracce della memoria comunale di Milano. Le opere dei laici del XII e XIII secolo nel «Manipulus florum» di Galvano Fiamma, in Le cronache medievali di Milano, a cura di P. Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 79-88, alle pp. 8183. Per la vita di Bosone: Z. Zafarana, Bosone, in Dizionario biografico degli Italiani, XIII, Treccani, Roma 1971, pp. 270-274. Non arrivano fino alla data di Legnano, arrestandosi al 1168, ma comunque di grande interesse sono gli annali lodigiani di Annales Laudenses auctoribus Ottone et Acerbo Morena, a cura di P. Jaffé, MGH, SS, XVIII cit., pp. 587-659. Anche questo testo è disponibile in traduzione italiana in Il Barbarossa in Lombardia cit. Non meno interessante, per gli anni Cinquanta del secolo, il poemetto anonimo Gesta di Federico I in Italia, a cura di E. Monaci, Forzani & c. tipografi del Senato, Roma 1887. Dal lato imperiale, indispensabile è Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I. imperatoris, a cura di G. Waitz, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover-Leipzig 1912. La raccolta documentaria fondamentale per l’Impero è l’edizione dei diplomi di Federico I: MGH, Diplomata, X, Friderici I diplomata, a cura di H. Appelt, 5 voll., Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 1979-1984, integrabile, per la menzione di altri documenti di interes-

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se, con Die Regesten des Kaiserreiches unter Friedrich I: 1152 (1122)1190, vol. 3, 1168-1180, a cura di J.F. Böhmer e F. Opll, Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 2001. Per lo schieramento comunale, molte delle città coinvolte nelle lotte hanno conservato documenti preziosi. Quelli riguardanti la Lega sono stati editi in C. Vignati, Storia diplomatica della Lega Lombarda, con Prefazione e aggiornamento bibliografico di R. Manselli, Bottega d’Erasmo, Torino 1966, da integrare però con C. Manaresi, Gli atti del comune di Milano fino all’anno MCCXVI, Capriotti, Milano 1919. Le raccolte documentarie delle diverse città italiane saranno citate in seguito. Gli atti privati editi sono parecchie migliaia ed è impossibile darne qui conto. Per l’area lombarda esiste comunque l’importante raccolta del Codice diplomatico digitale della Lombardia Medievale (http://cdlm.unipv.it). Gli atti pontifici, infine, sono disponibili in regesto in P.F. Kehr, Italia pontificia sive repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis pontificibus ante annum 1198 Italiae ecclesiis, monasteriis, civitatibus singulisque personis concessorum, 13 voll., Wiedmann, Berlin 1961-1975.

1. Le ambizioni di un giovane imperatore Federico Barbarossa ha attirato una vastissima attenzione ed è stato oggetto di una molteplicità di ricerche. Qui si segnalano in particolare le due migliori biografie disponibili in italiano, ossia quelle di F. Cardini, Il Barbarossa: vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore, Arnoldo Mondadori, Milano 1985 (con un’ampia nota bibliografica che rende conto delle pubblicazioni precedenti) e di F. Opll, Federico Barbarossa, ECIG, Genova 1994. Utili per avere un punto di vista che non sia né italiano né tedesco sono alcuni studi di storici anglosassoni o francesi, come P. Munz, Frederick Barbarossa. A Study in Medieval Politics, Eyre & Spottiswoode, London 1969 e, con qualche cautela, M. Pacaut, Frédéric Barberousse, Fayard, Paris 1967 nonché P. Racine, Frédéric Barberousse (1152-1190), Perrin, Paris 2009. Una recente rilettura della politica federiciana, vista come strenua difesa delle prerogative e dell’onore dell’Impero è fornita da K. Görich, Die Ehre Friedrich Barbarossas. Kommunikation, Konflikt und politisches Handeln im 12. Jahrhundert, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2001. Per la politica italiana di Federico nelle sue molteplici sfaccettature, è sempre importante A. Haverkamp, Herrschaftformen der Frühstaufer in Reichsitalien, 2 voll., Anton Hiersemann, Stuttgart 1970-71,

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da utilizzare però tenendo presenti le osservazioni mosse da Giovanni Tabacco nella sua ampia Recensione, in «Studi Medievali», 14 (1973), pp. 226-237. Si veda anche F. Opll, Stadt und Reich im 12. Jahrhundert (1125-1190), Böhlau, Wien-Köln-Graz 1986. Una brillante rilettura della politica federiciana è offerta da K.-J. Leyser, Frederick Barbarossa and the Hohenstaufen polity, in «Viator», 19 (1988), pp. 153-176. Sull’Impero nell’epoca sveva esiste una bibliografia molto vasta. La più importante opera recente è costituita dal secondo e dal quarto volume dei Propyläen Geschichte Deutschlands: H. Keller, Zwischen regionaler Begrenzung und universalem Horizont. Deutschland im Imperium der Salier und Staufen, 1024 bis 1250, Propyläen, Berlin 1986, e H. Bookmann, Stauferzeit und spätes Mittelalter. Deutschland 11251517, Propyläen, Berlin 1991. Fondamentale anche la raccolta di saggi su Die Zeit der Staufer. Geschichte, Kunst, Kultur. Katalog der Ausstellung, 4 voll., a cura di R. Haussherr, Württembergisches Landesmuseum, Stuttgart 1977, che prende in considerazione quasi tutti gli aspetti della vita politica, economica e culturale del periodo. Non esistono, purtroppo, recenti storie della Germania medievale tradotte in italiano, ma si può ricorrere al denso saggio di G. Tabacco, L’Impero romano-germanico e la sua crisi (secoli X-XIV), in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, dir. da N. Tranfaglia e M. Firpo, II, Il Medioevo, 2, Popoli e strutture politiche, Utet, Torino 1986, pp. 305-335. In inglese sono accessibili H. Fuhrmann, Germany in the High Middle Ages. c. 1050-1200, Cambridge University Press, Cambridge 1986, e A. Haverkamp, Medieval Germany. 1056-1273, Oxford University Press, Oxford 1988, oltre all’utile messa a punto di B. Arnold, The Western Empire, 1125-1197, in The New Cambridge Medieval History, IV, c. 1024-c. 1198, a cura di D. Luscombe e J. RileySmith, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 384-421. In francese due ottime sintesi sono fornite da J.-P. Cuvillier, L’Allemagne médiévale. Naissance d’un État (VIIIe-XIIIe siècles), Payot, Paris 1979 e M. Parisse, Allemagne et Empire au Moyen Âge, Hachette, Paris 2002. Sulle risorse della corona tedesca e il Tafelgüterverzeichnis (edito in Das Tafelgüterverzeichnis des römischen Königs (Ms. Bonn S. 1559), a cura di C.R. Bruhl e T. Kolzer, Böhlau, Köln 1979), la più recente messa a punto è B. Arnold, The German Crown and Its Assets, in Id., Power and Property in Medieval Germany. Economic and Social Change. c. 900-1300, Oxford University Press, Oxford 2004, pp. 75116. Per la speculare situazione italiana, un’efficace sintesi è fornita da

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P. Cammarosano, La situazione economica del Regno d’Italia all’epoca di Federico Barbarossa, in Federico I Barbarossa e l’Italia cit., pp. 157173. Confronti fra il Reich dell’età del Barbarossa e le altre monarchie europee sono proposti da K. Leyser, Some Reflections on Twelfth-Century Kings and Kingship, in Id., Medieval Germany and Its Neighbours. 900-1250, The Hambledon Press, London 1982, pp. 241-267 e T. Reuter, The Medieval German «Sonderweg»? The Empire and Its Rulers in the High Middle Ages, in Id., Medieval Polities cit., pp. 388412, Id., Mandate, Privilege, Court Judgement cit. Per comprendere la mentalità delle città un’utile antologia di fonti tradotte è R. Bordone, La società urbana nell’Italia comunale (Secoli XII-XIV), Loescher, Torino 1988, (anche on-line: http://www.storia. unive.it/_RM/didattica/fonti/bordone/sez2/cap16.htm). Il documento dei consoli di Milano che giudicano l’operato imperiale è in Manaresi, Gli atti del comune di Milano cit., pp. 10-11, doc. 5. La bibliografia sui comuni italiani nel XII secolo è vastissima. Segnaliamo qui solo i testi maggiormente sensibili alle tematiche presentate in questo capitolo (uguaglianza dei cittadini, tendenziale «democraticità» dei meccanismi di selezione e di controllo dei governanti). Una sintesi con riferimenti più ampi è fornita da P. Grillo, La frattura inesistente. L’età del comune consolare nella recente storiografia, in corso di pubblicazione in «Archivio storico italiano». Il «manifesto» della democraticità del comune (libro a tesi, ma comunque estremamente stimolante) è M. Ascheri, Le città stato, Il Mulino, Bologna 2006. Si vedano anche U. Nicolini, L’ordinamento giuridico del comune medievale, in I problemi della civiltà comunale, a cura di C.D. Fonseca, Comune di Bergamo, Bergamo 1971, pp. 59-78; D. Waley, Le città-repubblica dell’Italia medievale, Einaudi, Torino 1980; R. Bordone, Nascita e sviluppo delle autonomie cittadine, in La storia cit., pp. 425-458; A.I. Pini, Città, comuni e corporazioni nel medioevo italiano, Clueb, Bologna 1986; R. Bordone, La società cittadina nel Regno d’Italia: formazione e sviluppo delle caratteristiche urbane nei secoli XI e XII, Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1987; G. Rossetti, Il comune cittadino: un tema inattuale?, in L’evoluzione delle città italiane nell’XI secolo, a cura di R. Bordone e J. Jarnut (Annali dell’Istituto storico italo-germanico, 25), Il Mulino, Bologna 1988, pp. 25-43; G. Tabacco, La genesi culturale del movimento comunale italiano, in Id., Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1993, pp. 320-338; E. Occhipinti, L’Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Carocci, Roma 2000; R. Bordone, G. Castelnuovo e G.M. Varanini, Le aristocrazie dai signori ru-

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rali al patriziato, Laterza, Roma-Bari 2004; J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2004; G. Milani, I comuni italiani. Secoli XII-XIV, Laterza, Roma-Bari 2005. Più in generale, non si trascuri il bel contributo di Hagen Keller volto a inquadrare le novità comunali nell’ambito del più generale mutamento di valori in corso nell’Europa del XII secolo: H. Keller, La responsabilità del singolo e l’ordinamento della comunità. Il cambiamento dei valori sociali nel XII secolo, in Il secolo XII cit., pp. 67-88. Sulle esperienze comunali in Europa e soprattutto nell’area imperiale si veda K. Schulz, «Poiché tanto amano la libertà...». Rivolte comunali e nascita della borghesia in Europa, ECIG, Genova 1995. Sui rapporti fra le città e l’impero, sono disponibili diverse ricerche che permettono di inquadrare efficacemente il periodo qui preso in considerazione: oltre ai volumi già citati, si vedano almeno G. Tabacco, La costituzione del Regno Italico, in Popolo e Stato cit., pp. 161177; F. Opll, La politica cittadina di Federico I Barbarossa nel «Regnum Italicum», in Federico I Barbarossa e l’Italia cit., pp. 85-114. Per l’atteggiamento della grande aristocrazia signorile italiana: R. Manselli, La grande feudalità italiana tra Federico Barbarossa e i Comuni, in Popolo e Stato cit., pp. 343-361, G. Tabacco, I rapporti tra Federico Barbarossa e l’aristocrazia italiana, in Federico I Barbarossa e l’Italia cit., pp. 6183. È stato da più studiosi osservato che l’epiteto Barbarossa non è attestato dalle fonti sino al Duecento, ma in realtà sappiamo che nel 1158 i milanesi irridevano i cavalieri teutonici offendendo loro e il loro «rosso re» (Gesta di Federico I in Italia cit., p. 79, v. 2086, dove la lezione «rex ruffe» è preferibile al volgarismo «rex raffe»), per cui è molto probabile che il soprannome già circolasse durante la vita di Federico e che i cronisti contemporanei non ne abbiano fatto uso in quanto risultava poco rispettoso nei confronti dell’imperatore regnante. Il noto brano in cui Ottone di Frisinga descrive le città italiane è in Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I cit., pp. 116-117. Sebbene alcuni studiosi abbiano messo in dubbio l’attendibilità delle parole di Ottone, la sua sostanziale affidabilità in quanto testimone oculare e, in questo caso, indipendente da altri modelli letterari è stata dimostrata dall’attenta analisi di M. Zabbia, Tra modelli letterari e autopsia. La città comunale nell’opera di Ottone di Frisinga e nella cultura storiografica del XII secolo, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 106/2 (2004), pp. 107-138. Si noti che la distruzione delle città considerate disobbedienti o ribelli era una prassi normale

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nell’Europa dell’epoca e fu largamente praticata anche dai re anglonormanni, sia in Inghilterra, sia sul continente: M. Strickland, War and Chivalry. The Conduct and Perception of War in England and Normandy. 1066-1217, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 277-281. Per la campagna del 1158, si veda ora la dettagliata ricostruzione di Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit., pp. 58-117. La citazione di Rahevino sulla crudeltà reciproca dimostrata dai lombardi è in Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I cit., p. 217. Sullo svolgimento della dieta di Roncaglia, Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I cit., pp. 223-247 e Annales Laudenses cit., pp. 607608. Il testo, creduto perduto, delle leggi è stato recuperato da V. Colorni, Le tre leggi perdute di Roncaglia – 1158 – ritrovate in un manoscritto parigino, in Scritti in memoria di Antonino Giuffré, I, Giuffré, Milano 1967, pp. 111-170. Sul significato ideologico e propagandistico delle leggi di Roncaglia si veda sopratutto Cardini, Il Barbarossa cit., pp. 196-197. Le decisioni prese a Roncaglia, nonostante gli espliciti richiami al diritto romano, miravano in realtà a un riordinamento del potere di stampo marcatamente feudale come hanno osservato G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Einaudi, Torino 1979, pp. 266-275; Id., Gli orientamenti feudali dell’Impero in Italia, in Structures féodales et féodalisme dans l’occident méditérranéen (Xe-XIIIe siècles). Bilan et perspectives de recherches, École Française de Rome, Roma 1980, pp. 219-237 e S. Reynolds, Feudi e vassalli: una nuova interpretazione delle fonti medievali, Jouvence, Roma 2004, pp. 312-319. Si veda anche E. Conte, Diritto romano e fiscalità imperiale nel XII secolo, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 106/2 (2004), pp. 169-206, per un opportuno ridimensionamento dei pretesi ordinamenti filoimperiali degli studiosi italiani di diritto romano, con ampi rimandi alla storiografia tedesca sul tema. Sulla novità rappresentata da Roncaglia, sono importanti anche le considerazioni di G. Dilcher, La «renovatio» degli Hohenstaufen fra innovazione e tradizione. Concetti giuridici come orizzonte d’azione della politica italiana di Federico Barbarossa, in Il secolo XII cit., pp. 253-288; per il dibattito su questa tesi si vedano i saggi raccolti in Gli inizi del diritto pubblico. L’età di Federico Barbarossa cit. Sul problema dell’intitolazione all’impero di diritti in realtà spettanti al regno: U. Gualazzini, Federicus rex Italiae (1177) (considerazioni su un’iscrizione inedita), in Studi storici in onore di Ottorino Bertolini, I, Pacini, Pisa 1972, pp. 411-430.

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Per i rapporti fra l’imperatore e i suoi alleati italiani: H. Appelt, La politica imperiale verso i Comuni italiani, in I problemi della civiltà comunale cit., pp. 23-31; P. Brezzi, Gli alleati italiani di Federico Barbarossa (feudatari e città), in Federico Barbarossa cit., pp. 157-197. L’assedio e la distruzione di Milano sono stati ricostruiti da Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit., pp. 189-205. Per Rainaldo di Dassel e gli altri rappresentanti imperiali in Italia: R.M. Herkenrath, I collaboratori tedeschi di Federico I, in Federico Barbarossa cit., pp. 199-232. Sui podestà rimane classica la ricostruzione di J. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, II, Wagner, Innsbruck 1869, pp. 180-193. Per la politica fiscale dell’imperatore: C.R. Brühl, La politica finanziaria di Federico Barbarossa, in Popolo e Stato cit., pp. 195-208, per i palazzi Id., «Palatium» e «civitas» in Italia dall’epoca tardo-antica fino all’epoca degli Svevi, in I problemi della civiltà comunale cit., pp. 157-163. Sul governo del regno: R. Bordone, L’amministrazione del regno d’Italia, in Federico I Barbarossa e l’Italia cit., pp. 133-156. Il «formidabile errore di calcolo» è citazione da G. Tabacco, La costituzione del Regno Italico cit., p. 176.

2. La reazione delle città Sull’avidità e il dispotismo dei funzionari imperiali, Romoaldi Annales cit., p. 433; Anales Laudanses cit., p. 644; Annales Mediolanenses cit., pp. 374-376. Per le imposizioni fiscali durante il dominio imperiale: F. Güterbock, Alla vigilia della Lega Lombarda. Il dispotismo dei vicari imperiali a Piacenza, in «Archivio storico italiano», 95 (1937), pp. 188-217 (con appendice documentaria, da cui sono tratte le citazioni alle pp. 33-34 del testo, nel fascicolo successivo, pp. 65-77); Le carte del monastero di S. Maria di Chiaravalle, II, 1165-1200, a cura di A. Grossi, in Codice diplomatico digitale della Lombardia Medievale cit., doc. 3; P. Grillo e P. Merati, Parole e immagini in un documento milanese del XII secolo: una raccolta di deposizioni sulle origini di Villanova di Nerviano, in «Archivio storico lombardo», CXXIV-CXXV (1998-1999), pp. 487-534, a p. 533. La lettera a Tommaso di Canterbury con le proteste di Pavia e di Cremona è in Recueil des historiens des Gaules et de la France, XVI, a cura di M.-J. Brial, Victor Palmé, Paris 1878, p. 211, doc. 5. Per la Lega Veronese: A. Castagnetti, L’età precomunale e la prima età comunale (1024-1213), in Il Veneto nel Medioevo. Dai comuni cittadini al pre-

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dominio scaligero nella Marca, Verona 1991, pp. 84-86. Le operazioni militari contro Verona sono narrate da Annales Laudenses cit., p. 643 (da cui la citazione a p. 37), e da Boson, Les vies des papes cit., p. 411 (ivi anche le parole sulla scelta di Federico che «timeri voluit potius quam amari»). Sul convegno di Lodi: Annales Laudenses cit., p. 644; per la spedizione romana le narrazioni più ricche e suggestive sono ivi, p. 645, e Boson, Les vies des papes cit., pp. 415-418. I documenti della Lega hanno conosciuto più edizioni. Ancora valido è il precursore Vignati, Storia diplomatica della Lega Lombarda cit., da aggiornare però con Manaresi, Gli atti del comune di Milano cit., e con Il «Liber iurium» del Comune di Lodi, a cura di A. Grossi, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli Archivi, Roma 2004, pp. 98-150, docc. 40-64. I rendiconti finanziari del comune di Piacenza sono editi da P. Castignoli e P. Racine, Due documenti contabili del comune di Piacenza nel periodo della Lega lombarda (1170-1179), in «Studi di storia medievale e di diplomatica», 3 (1978), pp. 35-93. Sulla Lega Lombarda sono ancora un punto di partenza obbligato le ricerche di Gina Fasoli, quali G. Fasoli, La Lega Lombarda. Antecedenti, formazione e struttura, in Ead., Scritti di storia medievale, a cura di F. Bocchi, A. Carile, A.I. Pini, La Fotocromo Emiliana, Bologna 1974, pp. 157-278, e Ead., Aspirazioni cittadine e volontà imperiale, in Federico Barbarossa cit., pp. 131-156; inoltre si vedano R. Manselli, Milano e la Lega Lombarda, in I problemi della civiltà comunale cit., pp. 9-16, G. Vismara, Struttura e istituzioni della prima Lega Lombarda, in Popolo e Stato cit., pp. 291-332, R. Bordone, I comuni italiani nella prima Lega Lombarda: confronto di modelli istituzionali in un’esperienza politico-diplomatica, in Kommunale Bündnisse Oberitaliens und Oberdeutschlands im Vergleich, a cura di H. Maurer, Jan Tohorbecke Verlag, Sigmaringen 1987, pp. 45-58. Sul ruolo del papato nella formazione della Lega: M. Pacaut, La Papauté et les villes italiennes (1159-1253), in I problemi della civiltà comunale cit., pp. 33-46. Sugli attacchi di Federico I nell’autunno del 1167, Annales Laudenses cit., p. 645, e L.C. Bollea, Documenti degli archivi di Pavia relativi alla storia di Voghera, Tipografia Rossetti, Pinerolo 1909, p. 188, da cui la citazione nel testo, alle pp. 45-46. La lapide sulla ricostruzione delle mura di Milano è trascritta a cura di G.A. Vergani in Milano e la Lombardia in età comunale, Silvana Editoriale, Milano 1993, p. 473. Sul contributo di Manuele Comneno:

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Fonti e bibliografia

P. Classen, La politica di Manuele Comneno in Italia, in Popolo e Stato cit., pp. 263-279, a p. 271. Sulla nascita di Alessandria: Oberti Cancellarii Annales Ianuenses, in Annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori dal MXCIX al MCCXCIII, a cura di L.T. Belgrano, I, Tipografia del R. Istituto dei Sordomuti, Genova 1890, p. 213; Boson, Les vies des papes cit., pp. 418-419; Gotifredi Viterbensis Gesta Friderici cit., pp. 4 e 32; The Letters of John of Salisbury, II, The Later Letters (1163/1180), a cura di W.J. Millor, C.N.L. Brooke, Clarendon Press, Oxford 1979, p. 588, lettera 276; Romoaldi Annales cit., p. 440. In una bibliografia molto vasta, si vedano almeno F. Cognasso, La fondazione di Alessandria, in Popolo e Stato cit., pp. 23-73; G. Pistarino, Alessandria nel mondo dei comuni, in «Studi Medievali», 11 (1970), pp. 1-102; A.A. Settia, Le pedine e la scacchiera: iniziative di popolamento nel secolo XII, in I borghi nuovi. Secoli XII-XIV, a cura di R. Comba e A.A. Settia, Società per gli studi storici, Cuneo 1993, pp. 63-81; F. Firpo, L’area e gli anni della genesi di Alessandria: dinamiche e interferenze politico sociali, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 92 (1994), pp. 477-504; F. Panero, La costruzione dei distretti comunali dei grandi borghi nuovi del Piemonte centro-meridionale (secoli XII-XIII), in Borghi nuovi e borghi franchi nel processo di costruzione dei distretti comunali nell’Italia centro-settentrionale (secoli XII-XIV), a cura di R. Comba, F. Panero e G. Pinto, Società per gli studi storici, Cuneo 2002, pp. 331-356; V. Polonio, Nuove fondazioni e nuove circoscrizioni diocesane: il caso di Alessandria, ivi, pp. 383-407.

3. Il ritorno dell’imperatore Su Enrico il Leone: K. Jordan, Enrico il Leone, in Popolo e Stato cit., pp. 209-220; Id., Henry the Lion. A biography, trad. ingl., Oxford, Clarendon Press, 1988, in particolare, per la sua «reggia» e le sue ambizioni monastiche, pp. 156-159; Heinrich der Löwe. Herrschaft und Represäntation, a cura di J. Fried e O.G. Oexle, Jan Thorbecke Verlag, Stuttgart 2003. Sull’arcidiocesi di Salisburgo, K. Rudolf, Il potere temporale dei vescovi e arcivescovi di Salisburgo, in I poteri temporali dei Vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, a cura di C.G. Mor e H. Schmidinger, Il Mulino, Bologna 1979, pp. 225-251. Su Cristiano di Magonza, Herkenrath, I collaboratori tedeschi cit., e Ronoaldi Annales cit., p. 450, per la citazione a p. 61 del testo; sul

Fonti e bibliografia

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suo operato in Toscana: Oberti Cancellarii Annales Ianuenses cit., pp. 245-257, Bernardi Marangoni Annales Pisani, a cura di K. Pertz, in MGH, SS, XIX cit., pp. 262-265, R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Le origini, Sansoni, Firenze 1956, pp. 727-800. L’assedio d’Ancona è narrato da Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona. Liber de obsidione Ancone, a cura di P. Garbini, Viella, Roma 1999. Si veda inoltre C. Frison, Frangipane Aldruda, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 50, Treccani, Roma 1998, pp. 221-222. Per la politica di Manuele Comneno in Italia: P. Lamma, Comneni e Staufer. Ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel secolo XII, II, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 1957 (alle pp. 239-253) e Classen, La politica di Manuele Comneno cit. Per le operazioni della Lega contro Genova e il Monferrato: Oberti Cancellarii Annales Ianuenses cit., p. 246 e pp. 253-254; Gli atti del comune di Milano cit., p. 118, doc. 81, pp. 118-119, doc. 82, p. 122, doc. 86. Per la prudenza dei massari pavesi: Le carte del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, II (1165-1190), a cura di E. Barbieri, M.A. Casagrande Mazzoli e E. Cau, Fontes, Pavia-Milano 1984, p. 83, doc. 53. La lettera dell’arcivescovo di Colonia ai pisani è in Annales Colonienses maximi, a cura di K. Pertz, in MGH, SS, XVII, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1861, p. 784. Quella del Barbarossa all’arcivescovo di Salisburgo è in Die Admonter Briefsammlung nebst ergänzenden Briefen, a cura di G. Hödl e P. Classen, in Monumenta Germaniae Historica, München 1983, pp. 102-103, doc. 52. Il servizio militare dell’arcivescovo di Treviri è descritto in Gestorum Treverorum continuatio III, in MGH, SS, XXIV, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1879, p. 382; l’impegno finanziario del vescovo di Liegi in Friderici I diplomata, III, cit., pp. 171-172, doc. 663. La tormentata marcia dell’esercito boemo è narrata dalla Continuatio Gerlacii abbatis Milovicensis, a cura di W. Wattenbach, in MGH, SS, XVII cit., p. 687. Le inchieste compiute dai sovrani occidentali per conoscere la consistenza dei propri eserciti sono descritte in Catalogus Baronum, a cura di E. Jamison, ISIME, Roma 1972, M. Prestwich, Armies and Warfare in the Middle Ages. The English Experience, Yale University Press, New Haven-London 1996, pp. 57-67, P. Contamine, De Philippe Auguste à Philippe le Bel. La paix du roi, in Histoire militaire de la France, I, Des origines à 1715, a cura di P. Contamine, Presses Universitaires de France, Paris 1992, pp. 77-106, a p. 94.

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Fonti e bibliografia

Sull’arruolamento degli eserciti imperiali ai tempi di Federico Barbarossa, un’efficace esposizione è fornita da K.-F. Krieger, Obligatory Military Service and the Use of Mercenaries in Imperial Military Campaigns under the Hohenstaufen Emperors, in England and Germany in the High Middle Ages, a cura di A. Haverkamp e A Vollrath, Oxford University Press, Oxford 1996, pp. 151-168, ora aggiornabile con Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit., pp. 41-48. Sui ministeriali, B. Arnold, German Knighthood. 1050-1300, Clarendon Press, Oxford 1985, per il pagamento sostitutivo: Reynolds, Feudi e vassalli cit., p. 613, per i brabantini: H. Grundmann, Rotten und Brabanzonen: Söldner-heere im 12. Jahrhundert, in «Deutsche Arkiv», 5 (1942), pp. 419-492. In generale, comunque, lo stato della storia militare dell’Impero è totalmente insoddisfacente, come osserva J. Ehlers, La souveraineté royale, in Les tendances actuelles de l’histoire du Moyen Âge en France et en Allemagne, a cura di J.-C. Schmitt e O.G. Oexle, Publications de la Sorbonne, Paris 2002, pp. 283-298, a p. 294. Sull’entità dell’esercito federiciano, le citazioni virgolettate provengono rispettivamente da Annales Sancti Disibodi, in MGH, SS, XVII cit., p. 30, Otoboni Scribae Annales Ianuenses, in Annali genovesi di Caffaro cit., II, p. 6, Annales Colonienses maximi cit., p. 787, Roberti de Monte Cronica, in MGH, SS, VI Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1844, p. 524. Per le cifre: Annales Mediolanenses cit., p. 377, e l’anonimo poemetto coevo che narra l’assedio di Alessandria, riportato interamente dal cronista trecentesco Alberto de Bezanis, dove si parla di Federico «deducens secum homines / plusquam viginti milia» (Alberti de Bezanis abbatis S. Laurentii Cremonensis Cronica pontificum et imperatorum, a cura di O. Holder-Egger, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover-Leipzig 1908, p. 36). La valutazione è ovviamente approssimativa e forse volutamente esagerata, ma ciò non toglie che probabilmente essa non si discostasse troppo dal vero. Anche un autore duecentesco, ma di solito bene informato come il Maestro Tolosano valuta in 10.000 cavalieri l’entità dell’armata imperiale: Magistri Tolosani Chronicon Faventinum, a cura di G. Rossini, in Rerum Italicarum Scriptores, Nuova serie, XXVIII, Zanichelli, Bologna 1936, p. 60. Alcuni studiosi, anche se le fonti attestano il contrario, ritengono che l’armata raccolta da Federico nel 1174 fosse esigua: si veda ad esempio Munz, Frederick Barbarossa cit., pp. 299-301. Per un paragone, si consideri che secondo i calcoli di Holger Berwinkel il Barbarossa discese in Italia con circa 1.800 cavalieri corazzati nel 1154, 15.000 nel 1158 e 3.000 nel 1189: Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit., p. 41.

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Per la situazione in Piemonte all’arrivo di Federico I, F. Cognasso, Il Piemonte nell’età sveva, Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1968, pp. 239-268. Per il supposto inganno di Guglielmo di Monferrato: Gotifredi Viterbiensis Gesta Friderici cit., p. 32 (da cui la citazione nel testo a p. 78).

4. L’assedio di Alessandria L’accordo fra Alessandria e i marchesi di Gavi è in I Libri iurium della Repubblica di Genova, I/3, a cura di D. Puncuh, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1998, pp. 470-472, doc. 648. La miniatura raffigurante Alessandria è riprodotta in Annali genovesi di Caffaro cit., p. 213. Sui castelli presso Alessandria Codex qui Liber Crucis nuncupatur, a cura di F. Gasparolo, Tipografia Vaticana, Roma 1889, pp. 10-11, doc. 8; pp. 13-14, doc. 11; pp. 19-20, doc. 17; Le carte del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, II cit., pp. 17-19, doc. 10. Sull’assedio si vedano soprattutto Gotifredi Viterbiensis Gesta Friderici cit., pp. 33-35, Continuatio Gerlaci abbatis cit., pp. 687-688 (da quest’ultima la citazione a p. 86 del testo), Annales Colonienses maximi cit., pp. 787-788; Annales Placentini Gibellini, a cura di G.H. Pertz, in MGH, SS, XVIII cit., p. 462; Alberti de Bezanis Cronica pontificum et imperatorum cit., p. 36; Romoaldi Annales cit., p. 440. Per le modalità di assedio di una città nel Medioevo, si vedano soprattutto Settia, Rapine, assedi, battaglie cit., pp. 77-172; The Medieval City under Siege, a cura di I.A. Corfis e M. Wolfe, Boydell Press, Woodbridge 1995, e D. Degrassi e G.M. Varanini, Città sotto assedio. Le ragioni di un progetto, in «Reti Medievali Rivista», 7 (2007) (www.retimedievali.it). Per le necessità alimentari dei cavalli da guerra: B.S. Bachrach, Caballus et caballarius in Medieval Warfare, in Id., Warfare and Military Organisation in Pre-Crusade Europe, Ashgate, London 2002, pp. 173-211, soprattutto alle pp. 178-180, dove si sottolinea che tentare di far sopravvivere i cavalli da guerra soltanto con i pascoli e le altre risorse del territorio era un «risky business». L’inferiorità degli imperiali rispetto alle capacità poliorcetiche degli italiani è stata sottolineata da Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit. Per la campagna di Romagna di Cristiano di Magonza: Corpus Chronicorum Bononiensium, 1/II, a cura di A. Sorbelli, S. Lapi, Città di Castello 1911, pp. 39-42, e Annales Stadenses, in MGH, SS, XVI,

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Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1859, p. 347, e A. Hessel, Storia della città di Bologna, dal 1116 al 1280, Alfa, Bologna 1975, pp. 59-62. Su Nero Grasso a Parma: Annales Parmenses maiores, a cura di P. Jaffé, in MGH, SS, XVIII cit., p. 664. Per gli eserciti comunali: A.A. Settia, Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell’Italia delle città, Clueb, Bologna 1993; P. Grillo, Cavalieri e popoli in armi. Le istituzioni militari nell’Italia medievale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 109-129; per i cavalieri J.-C. Maire Vigueur, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell’Italia comunale, Il Mulino, Bologna 2004. Le operazioni dell’esercito della Lega sono descritte in Annales Mediolanenses cit., p. 377; per il ruolo della flotta fluviale: Boson, Les vies des papes cit., p. 428; le testimonianze dei saccheggi riportate a p. 97 del testo sono in Bollea, Documenti degli archivi di Pavia cit., pp. 137 e 149. Le tesi dei «primitivisti» che ritengono che nel Medioevo non vi fosse spazio per strategia e tattica sono ben esposte, e criticate, in Contamine, La guerra nel Medioevo cit., pp. 287-316. Su Cremona, Anselmo da Dovara e Guazo Guazzoni, si veda F. Menant, La prima età comunale (1097-1183), in Storia di Cremona. Dall’Alto Medioevo all’Età Comunale, a cura di G. Andenna, Bolis edizioni, Cremona 2004, pp. 198-281. Per gli interessi pavesi nell’Oltrepò: L. De Angelis Cappabianca, «Voghera oppidum nunc opulentissimum». Voghera e il suo territorio tra X e XV secolo, Paravia, Torino 1996. Le reazioni tedesche al fallimento di Federico sono esposte da Continuatio Zwetlensis altera, in MGH, SS, IX, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1851, p. 541; Annales Augustani minores, in MGH, SS, X, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1852, p. 9; Annales Sancti Georgii in Nigra Silva, in MGH, SS, XVII cit., p. 296; Continuatio Gerlacii abbatis cit., p. 687.

5. Montebello, la tregua, la ripresa della guerra Sul confronto militare di Montebello: Annales Colonienses maximi cit., p. 788; Boson, Les vies des papes cit., p. 429, Annales Sancti Disibodi cit., p. 30. L’arrivo di Cristiano a Pavia è attestato da Friderici I diplomata cit., III, p. 142, doc. 641. Sulla tregua e sulla pace: Alberti de Bezanis Cronica pontificum et imperatorum cit., p. 37 (da cui la citazione a p. 106); Annales Mediola-

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nenses cit., p. 377; Boson, Les vies des papes cit., p. 420 ; Annales Magdeburgenses, in MGH, SS, XVI cit., p. 193 ; Annales Sancti Georgii in Nigra Silva cit., p. 296. L’accordo con Como è in Friderici I diplomata cit., III, pp. 140-141, doc. 640. Per la ripresa delle ostilità: Romoaldi Annales cit., p. 440 e Boson, Les vies des papes cit., p. 431. Si vedano anche F. Güterbock, Die Friede von Montebello und die Weiterentwicklung des Lombardenbundes, Mayer & Müller, Berlin 1895, Id., Ancora Legnano!, Giuffré, Milano 1901 e W. Heinemeyer, Der Friede von Montebello (1175), in «Deutsche Archiv», 11 (1954), pp. 101-139, secondo i quali quella di Montebello non fu una semplice tregua, ma una vera e propria pace. Al di là delle questioni lessicali, il fatto che le trattative fossero proseguite anche in seguito e la necessità che i punti rimasti aperti fossero risolti dal lodo dei cremonesi dimostra comunque che non si trattava di un accordo definitivo. La lettera inviata alla chiesa di Würzburg è in MGH, Leges, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, Inde ab a. 911 usque ad a. 1197, a cura di L. Weiland, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1893, pp. 346-347, doc. 246. Gli spostamenti dell’imperatore durante l’inverno: Friderici I diplomata cit., III, p. 147, doc. 646; pp. 148-49, doc. 647. Sul cambio di campo di Tortona Friderici I diplomata cit., III, p. 150, doc. 648 e Die Tegerner Briefsammlung des 12. Jahrhundert, a cura di H. Plechl e W. Bergmann, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 2002, p. 311, lettera 280. Per la sottomissione del Seprio: Annales Mediolanenses cit., p. 377, Le pergamene della Basilica di S. Vittore di Varese (899-1202), a cura di L. Zagni, Università degli studi di Milano, Milano 1992, pp. 130-132, doc. 81; Le carte della chiesa di Santa Maria del Monte di Velate, I, 9221170, a cura di P. Merati, Insubria University Press, Varese 2005, pp. 268-270, doc. 157. I dubbi sul colloquio fra Federico ed Enrico sono stati espressi da F. Güterbock, Der prozess Heinrichs des Löwen, G. Reimer, Berlin 1909, pp. 5-7; è invece decisamente a favore dell’attendibilità del fatto Jordan, Henry the Lion cit., pp. 161-162, così come, con qualche cautela, Opll, Federico Barbarossa cit., p. 143, e J. Haas, Il grande assente: Enrico il Leone duca di Baviera, in I giorni che fecero la Lombardia cit., pp. 221-238. Ritiene che il colloquio si sia svolto, ma che in realtà sia stato di poca importanza Munz, Frederick Barbarossa cit. Per le operazioni autunnali di Cristiano di Magonza contro Bologna si veda Hessel, Storia della città di Bologna cit., p. 62; per la citazione di pp. 113-114 si vedano gli Annales Magdeburgenses cit., p. 192. Per la battaglia di Carsoli contro i Normanni: Annales Farfenses, in

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Fonti e bibliografia

MGH, SS, XI, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1854, p. 590; Annales Ceccanenses, in MGH, SS, XIX cit., p. 286; Annales Cassinenses, ivi, p. 312.

6. 29 maggio 1176: la battaglia La migliore fra le ricostruzioni disponibili nelle grandi sintesi di storia militare è in Verbruggen, The Art of Warfare cit., pp. 145-147. La più recente messa a punto italiana è fornita da Martini, La battaglia di Legnano cit. La classica, ma talvolta fuorviante ricostruzione di Hans Delbrück è (nella più sfruttabile traduzione inglese) in H. Delbrück, Medieval Warfare. History of the Art of War, III, University of Nebraska Press, Lincoln-London 1990 (ed. or. 1902), pp. 342-343. Ormai superato è B. Hanow, Beiträge zur Kriegsgeschichte der staufischen Zeit: die Schlachten bei Carcano und Legnano, s.e., Berlin 1905. Sulla storia della Leventina e l’episodio del castello di Serravalle: K. Meyer, Blenio e la Leventina, dal Barbarossa a Enrico VII, Casagrande, Bellinzona 1977. Per le forze imperiali: Chronica Regia Coloniensis continuatio prima, in MGH, SS, XX, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannover 1880, p. 4 e Annales Magdeburgenses cit., p. 193 (da cui la citazione a p. 123 del testo). Romualdo Salernitano dice che i rinforzi guidati da Filippo di Colonia erano composti da «una grande quantità di strenui cavalieri» (Romoaldi Annales cit., p. 441), mentre per Goffredo da Viterbo (Gotifredi Viterbiensis Gesta Friderici cit., p. 47), con Federico «a stento avresti saputo trovare 500 cavalieri pronti alla battaglia, gli altri erano ausiliari». Il testo più controverso è quello del secondo Anonimo Milanese, che così si esprime: «Federico imperatore con tutti i Comaschi si accampò a Cairate, con circa 1.000 tedeschi e si diceva che erano 2.000 i cavalieri che aveva fatto arrivare per la via di Disentis in maniera talmente segreta che nessuno dei lombardi ne era venuto a conoscenza. E quando erano già a Bellinzona la cosa a dirsi pareva ancora incredibile» (Annales Mediolanenses cit., p. 378). Molti hanno interpretato la frase nel senso che il Barbarossa aveva con sé 1.000 cavalieri e che gli altri 2.000 non esistevano se non nei timori dei milanesi, ma credo che la lettura più attinente sia che a Milano giunse voce che Federico era in marcia con 1.000 uomini (da Pavia) e che, anche se la cosa sembrava incredibile, altri 2.000 stavano sopraggiungendo attraverso Disentis e Bellinzona. Non a caso, gli Annales Piacentini Gibellini, filoimperiali, ri-

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prendono alla lettera il passo, ma, al fine di far apparire più ridotto il contingente svevo, omettono la notizia sugli uomini da Disentis (Annales Placentini Gibellini cit., p. 463). Il Delbrück valuta in 3.000-3.500 uomini le forze imperiali (Delbrück, Medieval Warfare cit., p. 343), il Verbruggen in 3.000, di cui 1.000 già presenti in Italia (Verbruggen, The Art of Warfare cit., p. 145). Una valutazione quantitativa dell’esercito comunale milanese nella seconda metà del XII secolo è molto difficile. I calcoli proposti in questo capitolo sono condotti sull’ipotesi, comunemente accettata, che la città avesse già una notevole consistenza demografica e si aggirasse sugli 80-90.000 abitanti. Visto che di solito si calcola che un maschio su tre fosse abile alle armi, si otterrebbero circa 12-15.000 combattenti, di cui il 10% a cavallo. La lettera di Burcardo sulla resa dei milanesi è in F. Güterbock, Le lettere del notaio imperiale Burcardo intorno alla politica del Barbarossa nello scisma ed alla distruzione di Milano, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 61 (1949), pp. 1-65, a p. 62, il testo del Morena in Annales Laudenses cit., p. 636. Holger Berwinkel (Verwüsten und Belagern cit., p. 53), propone per l’esercito milanese una consistenza di circa 3.000 cavalieri e 9.400 fanti: il totale degli uomini, come si vede, coincide con la mia ipotesi, ma un rapporto di uno a tre fra combattenti montati e appiedati mi sembra eccessivamente basso. Sull’esercito milanese si vedano: A.A. Settia, Fanti e cavalieri in Lombardia (secoli XI-XII), in Id., Comuni in guerra cit., pp. 93-113; G. Andenna, L’esercito comunale: i cavalieri lombardi, i pedoni e il carroccio, in I giorni che fecero la Lombardia cit., pp. 207-218. Sulle capacità di marcia dell’esercito a cavallo si vedano i calcoli di B.S. Bachrach, Animals and Warfare in Early Medieval Europe, in L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo, I, CISAM, Spoleto 1985, pp. 707-752 e Id., Caballus et caballarius cit., p. 183. Su Cairate: A. Piantanida, Note sui beni terrieri del monastero di Santa Maria Assunta di Cairate tra i secoli XIII e XIV, in Felix olim Lombardia. Studi di storia padana dedicati dagli allievi a Giuseppe Martini, Università degli studi di Milano, Milano 1978, pp. 287-342. Per il paesaggio agrario: Le pergamene del secolo XII della Chiesa Maggiore di Milano (Capitolo Maggiore, Capitolo Minore, Decumani) conservate presso l’Archivio di Stato di Milano, a cura di M.F. Baroni, Università degli studi di Milano, Milano 2003, pp. 106-107; doc. 15, da cui la citazione a p. 134 del testo. Grillo e Merati, Parole e immagini in un documento milanese cit.

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Sulla battaglia di Tuscolo soprattutto Annales Laudenses cit., p. 644 (dove si parla di 2.000 morti e 3.000 prigionieri fra i romani); Bernardi Marangoni Annales Pisani cit., p. 256 (che forniscono il dato, sicuramente esagerato, di 4.000 morti e 5.000 prigionieri); Oberti Cancellarii Annales Ianuenses cit., p. 203 (dove caduti e catturati sono in maniera più realistica valutati complessivamente in 1.700). Su Carcano: A.A. Settia, Per una morfologia della guerra medievale, in F. Bargigia e A.A. Settia, La guerra nel medioevo, Jouvence, Roma 2006, pp. 751; Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit., pp. 176-186. Sull’equipaggiamento dei cavalieri imperiali, O. Gember, Die Bewaffnung der Stauferzeit, in Die Zeit der Staufer cit., III, pp. 113-118; per quello dei combattenti comunali, P. Allevi, Armi e abbigliamento guerresco, in Milano e la Lombardia cit., pp. 144-149. Le armature catturate a Crema sono descritte da Annales Laudenses cit., p. 619. Sul carroccio, il testo fondamentale è H. Zug Tucci, Il Carroccio nella vita comunale italiana, in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», 65 (1985), pp. 1-104, a cui si può aggiungere E. Voltmer, Il carroccio, Einaudi, Torino 1994. Il luogo della battaglia è stato identificato da uno studioso locale in un’area a ridosso del fiume Olona, oggi inglobata nell’abitato di Legnano (A. Marinoni, Ricostruzione storica e topografica della battaglia di Legnano, in «Legnano», 3 (1957), pp. 3-15): le sue conclusioni sono state seguite da diversi ricercatori, ma contrastano con ciò che afferma esplicitamente la fonte che meglio conosceva la zona, l’Anonimo Milanese, e con la logica che avrebbe dovuto presiedere alle mosse dei due eserciti. Sullo svolgimento della battaglia le fonti sono rappresentate fondamentalmente da: Annales Mediolanenses cit., pp. 377-378 (da quest’ultima la citazione nel testo a p. 143); Boson, Les vies des papes cit., pp. 432-433; Romoaldi Annales cit., pp. 441-442 (da quest’ultima la citazione nel testo a p. 144); Gotifredi Viterbiensis Gesta Friderici cit., pp. 37-38; Annales Magdeburgenses cit., p. 194; Annales Colonienses maximi cit., pp. 788-789. Sulla cavalleria in combattimento si vedano: Verbruggen, The Art of Warfare cit., pp. 73-110; Bachrach, Caballus et caballarius cit.; J. Flori, Cavalieri e cavalleria nel medioevo, Einaudi, Torino 1999 (dove però, curiosamente, Legnano non è ricordata, a p. 118, fra le battaglie che videro la cavalleria incapace di avere la meglio contro «fanti inquadrati e determinati»). Particolarmente interessanti le pagine di Matthew Strickland che, sulla base di un’attenta analisi delle fonti, di-

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mostra che gli scontri fra cavalieri, al contrario di quanto alcuni asseriscono, potevano comunque essere estremamente cruenti: Strickland, War and Chivalry cit., pp. 159-182. Il fatto che i cavalieri potessero combattere anche a piedi era già stato rilevato da Contamine, La guerra nel Medioevo cit., pp. 315-316, ma l’analisi più serrata della prassi è stata condotta da Bachrach, Caballus et caballarius cit., pp. 188-190, e da S. Morillo, Warfare under the Anglo-Norman Kings. 1066-1135, Boydel Press, Woodbridge 1994, pp. 155-162 con considerazioni poi riprese in Id., The «Age of Cavalry» Revisited, in The Circle of War in the Middle Ages. Essays in Medieval Military and Naval History, a cura di D.J. Kagay e L.J.A. Villalon, Boydell Press, Wooldbridge 1999, pp. 45-56. Per l’uso di combattere smontati anche fra gli imperiali e i lombardi si veda inoltre Settia, Fanti e cavalieri cit., pp. 108-112. Per la riconsiderazione del ruolo militare della cavalleria utile anche B.S. Bachrach, On Roman Ramparts: 300-1300, in The Cambridge Illustrated History of Warfare. The Triumph of the West, a cura di G. Parker, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 64-90. Il giubbotto antiproiettile in dotazione oggi all’Esercito Italiano, in conformazione completa pesa circa 11 kg. La testimonianza di Guglielmo di Tiro è in Willermi Tyrensis archiepiscopi Historiae, in Recueil des historiens des croisades, I/2, Imprimerie Royale, Paris 1844, p. 764. L’elenco delle battaglie combattute a piedi dai cavalieri inglesi è tratto da Strickland, War and Chivalry cit., p. 23. Per il pensiero di Giovanni di Salisbury: J. Flori, La chevalerie selon Jean de Salisbury (nature, fonction, idéologie), in «Révue d’historie ecclésiastique», 77 (1982), pp. 34-77, a p. 44. Per la teoria che i lombardi fossero stati disarcionati, si veda invece Delbrück, Medieval Warfare cit., p. 343, ripreso in P. Pieri, L’evoluzione delle milizie comunali italiane, in Id., Scritti vari, Giappichelli, Torino 1966, pp. 31-90. Osserva invece Morillo che tale abitudine era diffusa anche fra gli inglesi, dato che inframmezzare cavalieri smontati nei primi ranghi della fanteria ne rafforzava lo schieramento con uomini che conoscevano l’arte della carica e sapevano come contrastarla: Morillo, Warfare under the Anglo-Norman Kings cit., pp. 158159. Per la necessità che i comandanti dimostrassero valore battendosi in prima linea: France, Western Warfare cit., pp. 139 e 145. Sul ritorno dell’imperatore a Como, si vedano gli Annales S. Petri Erphesfurtenses, in MGH, SS, XVI cit., p. 23: Federico «demum sole iam declivo fatigatus et hostium multitudine, non industria, superatus, fugae presidio vitae servatur et Cremam (recte: Cumam) unde profectus erat, cum suis vita comite revertitur». Si veda anche Die Regesten

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Fonti e bibliografia

des Kaiserreiches cit., p. 130. Federico probabilmente si trovò esposto alle lance dei lombardi in seguito a un primo ripiegamento dei suoi, dato che solitamente anche se era presente sul campo, non si impegnava personalmente in combattimento: Berwinkel, Verwüsten und Belagern cit., p. 226. La lettera dei milanesi ai bolognesi è edita in Gli atti del comune di Milano cit., pp. 143-144, doc. 102. Su Bertoldo di Zähringen: Herkenrath, I collaboratori tedeschi cit., pp. 209-210. Herkenrath e molti altri studiosi ritengono che il Bertoldo menzionato nella lettera sia il duca von Zähringen, propende invece per Bertoldo di Merania l’Opll: Die Regesten des Kaiserreiches cit., p. 130, doc. 2182. La ricostruzione di Peter Munz è in Munz, Frederick Barbarossa cit., pp. 310-311. Per le forze schierate a Muret e Bouvines, France, Western Warfare cit., pp. 168-170; per Bouvines sono leggermente superiori, ma in sostanza coincidenti, le valutazioni di P. Contamine, De Philippe Auguste à Philippe le Bel cit. pp. 81-85. Per i giudizi sulla battaglia: Annales Magdeburgenses cit., p. 194, Annales Sancti Disibodi cit., p. 30, Annales Colonienses maximi cit., p. 789, Robert de Monte, Cronica cit., p. 524. La narrazione dell’anonimo inglese è in R.M. Thomson, An English Eyewitness of the Peace of Venice, 1177, in «Speculum», 50 (1975), pp. 21-32, a p. 29.

7. L’uomo che sconfisse Federico Barbarossa Le fonti dell’epoca restituiscono con grande efficacia l’identificazione piena delle città con la collettività dei loro abitanti, fra i quali a stento emergono personalità di rilievo, tanto da influenzare la storiografia moderna. Significativamente, Paolo Brezzi, incaricato di parlare de Gli uomini che hanno creato la Lega Lombarda al convegno del 1968 dedicato a Popolo e Stato in Italia nell’età di Federico Barbarossa non affrontò le figure dei protagonisti delle trattative diplomatiche, ma si dedicò, genericamente, a una descrizione dei caratteri dei cittadini italiani dell’epoca: P. Brezzi, Gli uomini che hanno creato la Lega Lombarda, in Popolo e Stato cit., pp. 247-261. La cattura di Guido e di Enrico da Landriano e la morte di quest’ultimo sono narrate in Annales Laudenses cit., pp. 611 e 614. La carriera politica di Guido è in Manaresi, Gli atti del comune cit., p. 81, doc. 54, p. 141, doc. 100, p. 192, doc. 136, p. 204, doc. 139. Per i suoi

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beni e la vita privata: Le carte del monastero di Santa Maria di Chiaravalle, II cit., docc. 164 e 166; E. Occhipinti, La famiglia milanese degli Ermenulfi. Note relative al secolo XII, in Contributi dell’Istituto di Storia Medievale, III, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 189-211, a p. 198. Per la podesteria di Ferrara e quella di Asti: A. Haverkamp, La Lega Lombarda sotto la guida di Milano (1175-1183), in Costanza 1183, Cappelli, Bologna 1983, pp. 159-178, a p. 175 e Codex Astensis qui de Malabayla communiter nuncupatur, II, a cura di Q. Sella, Salviucci, Roma 1880, p. 63. Dell’effettiva esistenza di Alberto da Giussano aveva già dubitato Cesare Cantù, ma la critica definitiva è stata mossa da R. Beretta, Della compagnia della Morte e della compagnia del Carroccio alla battaglia di Legnano, in «Archivio storico lombardo», 41 (1914), pp. 240-256, che riporta a p. 245 la citazione del Fiamma (qui a p. 154). I patti per la guerra del 1176 sono in Manaresi, Gli atti del comune di Milano cit., p. 140, doc. 99. Per Guido da Landriano a Ferrara: Castignoli e Racine, Due documenti contabili cit., p. 43. Le parole di Ogerio Alfieri sono in Codex Astensis cit., p. 63.

8. Dopo la battaglia La citazione di Güterbock è in Güterbock, Ancora Legnano! cit., p. 19. Per le iniziative cremonesi si veda Friderici I diplomata cit., II, pp. 154-155, doc. 650, pp. 157-159, doc. 653, pp. 166-168, doc. 660. La lettera citata a p. 169 è in Manaresi, Gli atti del comune di Milano cit., p. 145, doc. 104. Sulle trattative di Venezia la fonte principale è Romoaldi Annales cit., pp. 449-459 (a p. 450 la citazione presente nel testo a p. 170), ma si veda anche Thomson, An English Eyewitness cit. Il testo della tregua è in Manaresi, Gli atti del comune di Milano cit., pp. 151-153, doc. 111. Per una ricostruzione puntuale degli aspetti diplomatici: P.F. Palumbo, Comuni, papato ed Impero: i precedenti della tregua di Venezia e della pace di Costanza, in Studi sulla pace di Costanza, Giuffré, Milano 1984, pp. 185-222; J. Laudage, Alexander III. und Friedrich Barbarossa, Böhlau, Köln-Weimar-Wien 1997, pp. 202-221. Sui riti e i gesti durante le trattative: G. Althoff, Friedrich Barbarossa als Schauspieler: zum Verständnis des Frieden von Venedig (1177), in Chevaliers errants, demoiselles et l’Autre: höfische und nachhöfische Literatur im europäischen Mittelalter, s.e., Göppingen 1998, pp. 3-20. Sulle ambiguità di

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Federico durante le trattative, un duro giudizio è espresso da Leyser, Some Reflections on Twelfth-Century Kings cit., pp. 261-262, ma si veda anche Cardini, Il Barbarossa cit., p. 309. Ovviamente è lecito considerare questi comportamenti quali dimostrazioni di abilità diplomatica, come fa gran parte della storiografia tedesca. I patti delle città contro Cremona sono trascritti in Vignati, Storia diplomatica cit., pp. 321-322. Sulle vicende di Treviso, D. Rando, Dall’età del particolarismo al comune (secoli XI-metà XIII), in Storia di Treviso, I, Il Medioevo, a cura di D. Rando e G.M. Varanini, Marsilio, Venezia 1991, pp. 63 e 72-73; sull’attacco bolognese del 1178-81: Hessel, Storia della città di Bologna cit., pp. 62-64. L’elenco delle podesterie promosse dalla Lega è in Haverkamp, La Lega Lombarda cit., p. 178. Il testo della pace di Costanza è edito, in traduzione italiana, in Il Barbarossa in Lombardia cit., pp. 193-202. Sulle trattative e sugli esiti dell’accordo: G.C. Mor, Il trattato di Costanza e la vita comunale italiana, in Popolo e Stato cit., pp. 363-377; A. Haverkamp, Der Konstanzer Friede zwischen Kaiser und Lombardenbund (1183), in Kommunale Bündnisse cit., pp. 11-44; N. D’Acunto, Le lunghe trattative di Piacenza e la concessione del precetto imperiale di Costanza, in I giorni che fecero la Lombardia cit., pp. 291-298. Un’analisi dell’accordo giustamente attenta alla differenza fra quanto veniva stabilito in teoria e quanto poi si verificò nella prassi è condotta da P. Racine, La paix de Constance dans l’histoire italienne: l’autonomie des communes lombardes, in Studi sulla pace di Costanza cit., pp. 223-248. La diffusione del trattato nei libri iurium è stata analizzata da G. Raccagni, Il diritto pubblico, la pace di Costanza e i «libri iurium» dei comuni lombardi, in Gli inizi del diritto pubblico 2 cit., pp. 309-337. Sull’uso del trattato in età comunale si veda anche M. Ascheri, La «pace» di Costanza, fondamento delle autonomie municipali, e il suo uso nelle opere dei giuristi, in I giorni che fecero la Lombardia cit., pp. 347-366. Per un giudizio sereno sulle conquiste dei comuni a Costanza è bene osservare che la maggior parte degli studiosi tedeschi contemporanei ha abbandonato la vecchia idea che l’abilità diplomatica di Federico gli avesse permesso di superare l’infortunio militare di Legnano e che la pace di Costanza abbia rappresentato un successo per le rivendicazioni imperiali almeno pari a quello di Roncaglia. L’Engels nota esplicitamente che le «città comprese nel trattato di pace ottennero uno status che, fuori dal regno d’Italia, non era mai stato concesso da nessun principe a nessuna città [...] l’appartenenza alla Lega lombarda costituiva nell’Italia settentrionale un autentico vantaggio al fine

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della creazione di norme giuridiche. Dopo il 1183 la Lega costituiva inoltre una delle forze propulsive per la conservazione della coscienza di essere comunità» (O. Engels, Federico I Barbarossa e l’Italia nella storiografia più recente, in Federico I Barbarossa e l’Italia cit., pp. 3960, a p. 58) e per l’Appelt, la pace di Costanza «obiettivamente esaudiva in tutto e per tutto le richieste dei Lombardi», pur se «salvava, anche se solo formalmente, il punto d’onore monarchico» (Appelt, La politica imperiale verso i Comuni cit., p. 27). Per il Dilcher, con il riconoscimento della Lega, «l’auctoritas dell’imperatore e la libertas delle città vengono portate in equilibrio, per così dire sullo stesso gradino della scala», e il riconoscimento del possesso delle regalie sulla base del diritto consuetudinario fu una «grande vittoria delle città» (Dilcher, La «renovatio» degli Hohenstaufen cit., p. 279).

9. Legnano dopo Legnano Il testo citato a p. 181 è ripreso da Fasoli, Aspirazioni cittadine cit., p. 135. La lettera di Federico I al vescovo di Frisinga è in Die Admonter Briefsammlung cit., pp. 73-74, doc. 38. Il giuramento del nobile alla Lega in Manaresi, Gli atti del comune di Milano cit., p. 116, doc. 79. Le considerazioni di Boncompagno in Boncompagno da Signa, L’assedio di Ancona cit., p. 120. La citazione di Bosone in Boson, Les vies des papes cit., p. 418. Per le recenti letture di Federico Barbarossa: Engels, Federico I Barbarossa e l’Italia cit.; Ehlers, La souverainété royale cit., p. 296. Su Federico «tedesco», si veda Opll, Federico Barbarossa cit., pp. 48-49. Un confronto fra l’atteggiamento di Federico verso l’Italia e verso la Germania è in F. Opll, Effetti della politica italiana di Federico Barbarossa in Germania, in Federico Barbarossa cit., pp. 265-309. Il peso del feudalesimo in Germania è analizzato da Reynolds, Feudi e vassalli cit., pp. 577-620. Il ridimensionamento del peso della corte nell’elaborazione ideologica di strategie di governo è in P. Ganz, Friedrich Barbarossa. Hof und Kultur, in Friedrich Barbarossa cit., pp. 623-648. Sul ruolo, anche ideologico, dell’«onore dell’impero»: Görich, Die Ehre Friedrich Barbarossas cit. Per il paragone con il regno di Borgogna: R. Locatelli, Frédéric Ier et le royaume de Bourgogne, in Friedrich Barbarossa cit., pp. 169-189. Su Federico e i suoi doveri quale re giusto: Dilcher, La «renovatio» degli Hohenstaufen cit. Su legge e consuetudine: Nicolini, L’ordina-

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Fonti e bibliografia

mento giuridico del comune cit. La teoria che anche in seno ai comuni italiani vigesse una rigida gerarchia vassallatica esposta da H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XII), Utet, Torino 1995 è stata completamente smentita dalle ricerche più recenti: il punto in P. Grillo, Aristocrazia urbana, aristocrazia rurale e origini del Comune nell’Italia nord-occidentale, in «Storica», 7 (2001), pp. 75-96 (si veda anche Id., A Milano nel 1130. Una proposta di rilettura della composizione ‘tripartita’ del collegio consolare, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 109/1, 2007, pp. 219-234). Per l’influenza di Federico sui comuni: R. Bordone, L’influenza culturale e istituzionale nel regno d’Italia, in Friedrich Barbarossa cit., pp. 147-169. Il ruolo del «comunalismo» alle radici dell’attuale civiltà europea è delineato da P. Blickle, Kommunalismus: Skizzen einer gesellschaftlichen Organisationsform, 2 voll., Oldenbourg, München 2000. L’opinione di Tabacco sulla politica «eversiva» del Barbarossa è in Tabacco, La costituzione del Regno Italico cit., p. 173. Riprendo molte considerazioni sul nostro giudizio verso lo «statalismo» medievale da Reuter, Mandate, Privilege, Court Judgement cit., pp. 426-430. Sulla retorica antitedesca di Innocenzo III: H. Zug Tucci, Dalla polemica antiimperiale alla polemica antitedesca, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di P. Cammarosano, École Française de Rome, Roma 1994, pp. 45-64. Per la costruzione del mito del Barbarossa in Germania: Cardini, Il Barbarossa cit., pp. 352-363. L’«incantesimo della politica mediterranea» è menzionato in Haverkamp, Medieval Germany cit., p. 235. La discussione su come interpretare l’universalismo imperiale di Federico in tempi di unità europea è in B. Töpfer, Kaiser Friedrich Barbarossa – Grundlinien seiner Politik, in Kaiser Friedrich Barbarossa cit., pp. 9-30. Su Carlo Magno «padre dell’Europa»: A. Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Laterza, Roma-Bari 2000. Sulla memoria di Legnano nel Risorgimento e sulla costruzione del mito si vedano soprattutto E. Sestan, Legnano nella storiografia romantica, in Id., Scritti vari, III, Storiografia dell’Otto e Novecento, a cura di G. Pinto, Le Lettere, Firenze 1991, pp. 221-240; M. Fubini, La Lega Lombarda nella letteratura dell’Ottocento, in Popolo e Stato cit., pp. 399-420 (soprattutto alle pp. 410-411 per il tentativo abortito del D’Azeglio); F. Bocchi, Federico Barbarossa e la Lega Lombarda nella pittura italiana dell’Ottocento, in Popolo e Stato cit., pp. 457-465; R. Salvarani, Il mito della battaglia di Legnano, in I giorni che fecero la Lombardia cit., pp. 68-96; E. Occhipinti, I comuni medievali nella sto-

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riografia italiana del Risorgimento, in «Nuova rivista storica», 91 (2007), pp. 459-529. Altre notizie in A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000, pp. 56-60; M. Mondini, La nazione di Marte. Esercito e «nation building» nell’Italia unita, in «Storica», 20-21 (2001), pp. 209-246; P. Brunello, Pontida, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 19983, pp. 15-28; C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 110-117, p. 197 (dove sono riportate le parole di D’Azeglio alle truppe nel 1848), e pp. 272-275. L’opera di Sismondi citata è J.-C. Sismondi, Storia delle repubbliche italiane, a cura di P. Schiera, Bollati Boringhieri, Torino 1996 (ed. or. 1832). Sull’uso delle battaglie romane nella propaganda bellica fascista: P. Cavallo, Italiani in guerra. Sentimenti e immagini dal 1940 al 1943, Il Mulino, Bologna 1997, p. 131 e pp. 137-138. Per la difficile memoria di Legnano, si veda ad esempio l’assenza di questo luogo nel volume I luoghi della memoria cit., dove invece, per la sua più immediata utilizzazione politica, è presente Pontida.

INDICI

INDICE DEI NOMI DI PERSONE E DI LUOGHI Abbiategrasso (MI), 45, 130. Abruzzo, 114. Acerbo Morena, cronista, XIII, 32, 37, 41, 43, 125-126, 202, 217. Acqui Terme (AL), 57, 172. Adda, 19, 40. Adige, 16, 149. Adriano IV (Nicholas Breakspear), papa, 18, 24-25. Adriatico, 63. Alba (CN), 76, 172. Albenga (SV), 172. Alberigo da Barbiano, 196. Alberti, famiglia, 31, Alberto, vescovo di Frisinga, 181. Alberto da Giussano, VII, 153-157, 195-196, 221. Alberto de Bezanis, cronista, 212214. Alberto de Cavriano, 96. Alberto de Osa, 92. Alberto di Bonizo, 96. Alberto Landi, 34. Albertone, console di Cremona, 52. Alcherio di Torre, 117. Aldemanno di Marengo, console di Alessandria, 57. Aldobrandeschi, famiglia, 31. Aldruda Frangipane, contessa di Bertinoro, 64-65. Alessandria, 49, 54, 55-57, 62, 7374, 76-85, 91, 97-98, 100, 103, 106-108, 111-112, 115, 118, 122,

125, 136, 148-149, 165, 173-174, 176, 210, 212-213; – Bergoglio, 55; – Foro, 55; – Gamondio, 55; – Oviglio, 55; – Quargnento, 55; – Rovereto, 55-56, 78; – Solero, 55. Alessandro III (Rolando Bandinelli), papa, XIV, 25-26, 35, 38-39, 4243, 50-52, 56-57, 60-61, 63, 65, 67, 103, 105-106, 114, 167, 169, 171-172, 174-175. Alessandro, vescovo di Liegi, 43. Alfieri, vedi Ogerio. Allevi, P., 218. Alliate, Maragaglia di, vedi Maragaglia. Alpi, 5, 19-20, 25, 49, 60, 72, 75, 116, 122-123, 136, 148, 175, 194. Alsazia, 59, 75. Althoff, G., 171, 221. Ambrogio, santo, 132. Amizo da Landriano, 158. Anagni (FR), 114. Anatolia, 168. Ancona, 42, 63, 65, 82, 114, 168, 170. Andenna, G., 200-201, 214, 217. Angioini, dinastia, 72. Annone, vedi Castello di Annone. Anonimo Milanese (primo e secondo), noti anche come Sire Raul,

230 cronisti, XIV, 34, 73, 106, 118, 123, 125, 133, 138, 143, 149, 159, 202, 216, 218. Anselmo da Dovara, 95, 102, 105, 214. Anselmo Medico, 81. Appelt, H., 202, 208, 222. Appennino, 63, 80. Appiano Gentile (CO), 119. Aquileia, 19, 168. Aquisgrana, 38, 74, 185. Aragona, 148. Argovia, 58. Ariatta, P., 201. Ariberto di Intimiano, arcivescovo di Milano, 128. Arnaldi, G., 202. Arnaldo, arcivescovo di Treviri, 70. Arnaldo da Brescia, 15-16. Arnaldo degli Arcelli, 53. Arnaldo di Dorstadt, detto Barbavaira, 30, 33-34, 36. Arnaldo di Lubecca, 110. Arndt, W., 202. Arnold, B., 204, 212. Ascheri, M., 205, 222. Assisi (PG), 87. Asti, 15-16, 49, 66, 76-78, 81-82, 87, 111, 161-162, 172-173, 220. Augusta, 19. Austria, 75. Azzone, 30. Bachrach, B.S., 213, 217-219. Balzani, R., 201. Bamberga, 59. Banti, A.M., 224. Barbavaira, Arnaldo, vedi Arnaldo di Dorstadt. Barbero, A., XVIII, 224. Barbieri, E., 211. Bargigia, F., 217. Barletta (BA), 193. Baroni, M.F., 217. Bartolomeo Colleoni. 196.

Indice dei nomi

Basilea, 75. Bassano del Grappa (VI), 93. Baviera, 3, 59, 175. Beatrice di Borgogna, moglie di Federico Barbarossa, 5, 42, 77, 136, 146. Belgrano, L.T., 210. Bellinzona (Canton Ticino), 107, 112, 117-118, 149, 216. Belluno, 74. Berchet, G., 194. Berengario II d’Ivrea, re d’Italia, 17. Beretta, R., 157, 221. Bergamo, 14, 27, 30, 39-40, 45, 47, 53, 92, 95-96, 158, 160-161, 173174, 182. Bergmann, W., 215. Bernardo, conte di Sassonia, 122. Bernardo di Porto, cardinale 105. Bernardus Marangonus, cronista, 211, 217. Bertinoro (FC), 64-65. Bertoldo, duca di Zähringen (Berthold von Zähringen), 147, 219, 220. Bertoldo di Merania (Berthold von Meranien), 220. Berwinkel, H., 200, 207-208, 212213, 217-219. Besançon, 24-25. Bezo, 36. Biandrate (NO), 46, 49. Biandrate, conti di, 77, 78, 173. Biasca (Canton Ticino), 112. Bisanzio, vedi Impero d’Oriente. Black, J., 200. Blenio (Canton Ticino), 117-118. Blickle, P., 223-224. Bobbio (PC), 173-174. Bocchi, F., 209, 224. Boemia, 61. Böhmer, J.F., 203. Bollea, L.C., 209, 214. Bologna, 13, 20, 28, 49, 54, 88-89, 92, 113, 161, 173-174, 187, 215.

Indice dei nomi

Boncompagno da Signa, retore e storico, 64, 211, 223. Bongiovanni Saraceno, 34. Bookmann, H., 204. Bordone, R., 205-206, 208-209, 223. Borgogna, 3, 5, 11, 46, 60, 112, 147, 173, 181, 185, 223. Bormida, 56. Borsano (VA), 132-133. Bosnasco (PV), 97. Bosone (Boson), cronista, XIV, 55, 80, 103, 106, 108, 132, 138, 181, 202, 209-210, 214-215, 218, 223. Bouvines, 148, 220. Brabante, 38, 61, 121. Bradbury, J., 200. Bregenz, 116. Brennero, 16, 19, 37, 49, 74, 148. Brescia, 19, 24, 30, 39-40, 45, 47, 5354, 77, 92, 95-96, 102, 125, 128, 160-161, 173-174, 182, 187. Brezzi, P., 208, 220. Brial, M.-J., 208. Brianza, 20, 26, 137. Brindisi, 63. Broni (PV), 97-98. Brooke, C.N.L., 210. Bruges, 9. Brühl, C.R., 204, 208. Brunello, P., 224. Brunswick, 59. Brusalbergo Montanario, 34. Burcardo, segretario imperiale, 125126, 217. Busch, J.W., 202. Busto Arsizio (VA), 130, 132-134. Busto Garolfo (MI), 130. Butti, E., 195. Cairate (VA), 119-120, 129, 132133, 216; – Santa Maria, 120. Cambrai, 9. Cammarosano, P., 205, 224. Cantù, C., 221.

231 Carcano (CO), 26, 137, 217. Cardini, F., 201, 203, 207, 221, 224. Carducci, G., 194. Carile, A., 209. Carlo Magno, imperatore, 17, 38, 224. Carsoli (AQ), 114, 215. Casagrande Mazzoli, M.A., 211. Casale Monferrato (VC), 50. Caselle (BO), 88. Cassiano, console di Tortona, 96. Castagnetti, A., 209. Casteggio (PV), 97, 101. Castel de’ Britti (BO), 88, 113. Castelletto d’Orba (AL), 86. Castello di Annone (AT), 76, 111, 178. Castello di Godego (VR), 96. Castelnuovo, G., 206. Castiglioni, famiglia, 130. Castignoli, P., 209, 221. Cau, E., 211. Cavallo, G., 202. Cavallo, P., 225. Cavriago (RE), 53. Celle di Carsoli (AQ), 114. Cenisio, vedi Moncenisio. Cesena, 88. Chiavari (GE), 66. Chiavenna (SO), 35, 87, 107, 109110. Chieri (TO), 15-16, 23, 82. Chiesa, P., 202. Chioggia (VE), 171. Citino, R.-M., IX, 201. Classen, P., 210-211. Clavello, 34. Cochem, 75. Cognasso, F., 210, 213. Coira, 116. Coleman, E., 202. Colle Val d’Elsa (SI), 63. Colleoni, vedi Bartolomeo. Colonia, XV, 21, 26, 28, 30, 68, 70-

232 71, 81, 102, 107, 109, 116, 122, 130, 132, 146-147, 187, 211. Colorni, V., 207. Comba, R., 210. Comneno, vedi Manuele I. Como, 14-15, 18, 20, 26-27, 30, 35, 49, 53, 74, 87, 107-108, 110, 112, 116, 118-120, 123, 125, 130, 133, 136, 146, 164, 168, 173, 187, 215, 219. Constable, G., 199. Contamine, P., 200, 211, 214, 218, 220. Conte, E., 207. Corbetta (MI), 45. Corfis, I.A., 213. Corrado, vescovo di Augusta, 43. Corrado, vescovo di Worms, 122. Corrado II, imperatore, 143. Corrado III Hohenstaufen, imperatore, 3, 5, 13, 39, 186. Corrado di Ballhausen, 30, 122. Corrado di Bocksberg, 122. Corrado di Lützelhardt, 168. Corrado di Monferrato, 175. Corrado di Urslingen, duca di Spoleto, 62, 168. Corrado Pincerna, 122. Costantino, ambasciatore bizantino, 63, 65. Costantino di Berga, 122. Costantino il Grande, imperatore romano, 21. Costantinopoli, 15, 18, 62, 167, 175. Costanza, 14-15, 58, 148, 161-162, 176-179, 222. Cracco, G., 199. Crema (CR), 24, 26, 30, 35, 40, 67, 82, 93, 126, 158-159, 166, 168, 218-219. Cremona, 13-14, 18, 30, 33, 35, 3840, 44, 47, 50, 52-53, 55, 66-67, 92, 95, 103, 105-106, 160, 165, 167, 172-174, 182, 208, 214, 221. Cristiano di Buch, arcivescovo di

Indice dei nomi

Magonza, 42, 61-63, 65-67, 72-73, 82, 87-89, 92, 95, 105, 113-115, 119, 167, 175, 210, 213, 215. Croazia, 63. Cuno di Lenzburg, 117. Cuno di Münzberg, 71, 122. Cuvillier, J.-P., 204. D’Acunto, M., 222. da Dovara, famiglia, 95. da Landriano, famiglia, 158. Dale, S., 202. Daly, G., 201. Damasco, 143. Daniele, vescovo di Praga, 43. Danubio, 75. Davidsohn, R., 211. D’Azeglio, M. 194, 224. De Angelis Cappabianca, L., 214. Degrassi, D., 213. Delbrück, H., 123, 216, 219. Del Negro P., 200. del Vasto, marchesi, 76, 173. Desiderio, re dei Longobardi, 17. di Giornico, famiglia, 117. Dilcher, G., 199, 207, 222-223. Disentis, 116, 118, 216. di Torre, famiglia, 117. Donauwörth, 75. Donodeo Racco, 33. Dovara da, famiglia, vedi da Dovara. Duby, G., X, 201. Duchesne, L., 202. Duggan, C., 224. Durando Giovanni, 194. Eberardo, vescovo di Ratisbona, 43. Eberardo di Armen, 31. Egidio da Dovara, 41, 95. Eginolfo di Urslingen, 30. Ehlers, J., 212, 223. Elba, 5. Emilia, 24, 101, 173, 179. Engel, E., 199. Engels, O., 222-223. Enrico, maniscalco imperiale, 122.

Indice dei nomi

Enrico II Plantageneto, re di Inghilterra, 69, 73. Enrico V di Baviera, imperatore, 9, 13, 47, 103. Enrico VI di Svevia, imperatore, 59, 167, 183. Enrico, detto il Leone, duca di Baviera, 59, 109-110, 147, 175, 210, 215. Enrico da Landriano, 158-159, 220. Enrico di Ditze, 30, 122. Enrico di Liegi, 30. Enrico di Svevia, 30. Enrico Guercio, marchese, 161. Erchemperto, conte, 143. Ermanno, vescovo di Verdun, 30, 43. Eugenio III (Bernardo Paganelli), papa, 14. Europa, 9, 12, 21, 26, 31, 90, 124, 140, 152, 207. Ezzelino da Romano, detto il Balbo, 95-96, 102. Ezzelino III da Romano, 96. Faenza (RA), 28, 54, 88, 172, 174. Fagnano Olona (VA), 130. Fasoli, G., 209, 223. Federico I di Svevia, detto Barbarossa, imperatore, VII-VIII, XII-XV, XVII-XVIII, 3, 5-9, 11, 13-18, 20-32, 35-47, 49-50, 52, 54, 57-79, 83, 85, 89, 92-93, 95-98, 100-114, 116-123, 125-126, 129-130, 132133, 136-138, 140, 142, 145-149, 154-156, 158-159, 161-173, 175178, 181-190, 192, 196, 199-201, 203, 205-206, 209, 211-216, 219, 221-224. Federico II di Svevia, imperatore, 96, 179. Federico di Rothenburg, duca di Svevia, 26, 43. Feltre (BL), 174. Ferrara, 23, 30, 38, 40, 47, 65, 96,

233 114, 161, 169-170, 173-174, 220221. Fiandra, 9, 147. Ficker, J., 208. Filippo, arcivescovo di Colonia, 7071, 109, 112, 122, 216. Filippo Augusto, re di Francia, 69, 147-148, 156. Filippo di Alsazia, conte di Fiandra, 122, 147. Firenze, 63, 175, 188. Firpo, F., 210. Firpo, M., 204. Flochburg, 5. Florent III, conte di Olanda, 122. Flori, J., 218-219. Fonseca, C.D., 205. Forlì, 88, 173. Foro, 55. France, J., 200, 219-220. Francia, 5, 9, 31, 69, 91, 147-148. Franconia, 59. Frangipane, famiglia, 42. Fresonara (AL), 86. Fried, J., 210. Frisinga, 11-12, 223. Frison, C., 211. Frugoni, A., 201. Fubini, M., 224. Fuhrmann, H., 204. Galdino della Sala, arcivescovo di Milano, 52, 113, 119, 160. Galvano Fiamma, cronista, 154-156, 195. Gand, 9. Ganz, P., 223. Garbini, 211. Garda, 35. Garibaldi, G., 194. Garsedonio, vescovo di Mantova, 52, 54. Gasparolo, F., 213. Gavi (AL), 66, 80, 178, 213. Gember, O., 218.

234 Genova, 50, 55-57, 62-64, 66-67, 85, 92, 107, 172-173, 211. Gerlach, cronista, 81, 86, 100. Germania, regno Teutonico, XV, 3, 5-6, 8, 13, 22, 25-27, 31, 38, 46, 49, 54, 58-60, 69, 72, 74-76, 91, 99, 108, 113, 115-116, 123, 136, 147-148, 151, 165, 175, 180-184, 186, 189, 196, 204, 223-224. Gilio Prandi, 47, 50. Ginzburg, C., 201. Giordano Scaccabarozzi, 159. Giornico di, famiglia, vedi di Giornico. Giovanni Basso, 45. Giovanni Benedictus, 96. Giovanni dalle Bande Nere, 196. Giovanni di Canterbury, vescovo di Poitiers, 56. Giovanni di Salisbury, 21, 46, 56, 143, 210, 219. Giovanni Senza Terra, re di Inghilterra, 148. Girardo Cagapisto, 169. Girardo de Porta, 34. Girardo di Camposampietro, 96. Giulini, G., 192. Giura, 75. Giustiniano, imperatore romano, 21. Goffredo, vescovo di Spira, 43. Goffredo da Viterbo (Gotifredus Viterbensis), cancelliere e cronista, XIV, 47, 56, 77-78, 83, 85-86, 121122, 125, 138, 202, 210, 213, 216, 218. Görich, K., 203, 223. Goslar, 59, 109. Gosvino di Heinsberg, conte, 30, 147. Gran San Bernardo, 19, 111. Gravedona (CO), 161. Grigioni, Cantone dei, 112. Grillo, P., 205, 208, 214, 217, 223. Grossi, A., 208-209. Grundmann, H., 212.

Indice dei nomi

Gualazzini, U., 207. Gualtiero, vessillifero imperiale, 122. Guastalla (RE), 35, 168. Guazo Guazoni, 92-93, 95-96, 214. Guelfo VI, duca di Baviera, 5, 58. Guelfo VII, di Baviera, 43. Guglielmo, cardinale di San Pietro in Vincoli, 105. Guglielmo, console di Piacenza, 96. Guglielmo I, re di Sicilia, 18, 39, 63. Guglielmo II, re di Sicilia, XIV, 39, 114, 172. Guglielmo V, marchese di Monferrato, 15, 44, 50, 53, 66, 78, 213. Guglielmo de Leccacorvo, 34. Guglielmo di Tiro (Williermus Tyriensis), cronista, 143, 219. Guglielmo Marchesella, 64. Guibertino de Carcere, 92, 96. Guiberto di Nogent, 9. Guidi, conti, 31. Guido da Canossa, 36. Guido da Landriano, console di Milano, 157-158, 160-162, 220-221. Guido da Landriano, vescovo di Bergamo, 158. Guido di Biandrate, conte, 25, 44. Guido di Biandrate, patriarca di Ravenna, 25. Guidotto, console di Ferrara, 96. Guintelmo, 126. Güterbock, F., 150, 165, 208, 215, 217, 221. Haas, J., 215. Hagenau, 75. Hanow, B., 216. Haussherr, R., 204. Haverkamp, A., 187, 199, 203-204, 212, 220, 222, 224. Heinemeyer, W., 215. Herkenrath, R.M., 208, 210, 220. Hessel, A., 213, 215, 221. Hitler, A., 196. Hödl, G., 211.

Indice dei nomi

Hohenstaufen, famiglia, 3, 109, 147. Holder-Egger, O., 212. Iconio, 168. Ildebrandino degli Aldobrandeschi, 63. Imola (BO), 23, 28, 88, 172, 175. Impero d’Oriente, 168. Inghilterra, 5, 7, 31, 69, 73, 90, 148, 152, 184, 207. Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), papa, 183, 224. Inveruno (MI), 130. Iori Sanfilippo, I., 199. Isnenghi, M., 224. Isola Fulcheria (CR), 35, 168. Italia, regno Italico, XV, XVII, 3, 5, 711, 13-14, 16-18, 20, 22-23, 28-29, 32, 47, 49, 52, 54, 59-60, 63-64, 67-68, 70, 74, 78, 95, 99, 103, 116, 123, 132, 147-148, 164-165, 169170, 173, 175, 178, 180-187, 189, 191, 195-197, 223. Ivrea (TO), 23, 111, 172. Jaffé, P., 202. Jamison, E., 211. Jarnut, J., 205. Jordan, K., 210. Kagay, D.J., 219. Kaiserslautern, 75. Keegan, J., IX, 201. Kehr, P.F., 203. Keller, H., 199, 204, 206, 223. Kolzer, T., 204. Krieger, K.-F., 212. Labanca, N., 200-201. Lainate (MI), 134. Lamberto di Nimega, 30. Lamma, P., 211. Lancillotto, 156. Landolfo, 113. Landriano (MI), 28, 158.

235 Landriano da, famiglia, vedi da Landriano. Lanfranco, console di Lodi, 96. Laon, 9. Laudage, J., 221. Lazio, 15, 65, 115. Lecco, 40. Legnano (MI), VII-X, XII, XIII, XV, XVII-XVIII, 8, 109-110, 118, 120, 125, 129-130, 132-134, 137, 143145, 148-150, 152-154, 157, 161162, 164-166, 168, 171-172, 178, 180, 183, 188-189, 191-198, 200, 202, 218, 222, 224-225. Lenzburg, 58. Lenzburg, famiglia, 117. Leonardi, C., 202. Leone IX, papa, santo, 72. Leoni, famiglia, 42. Lerma (AL), 86. Leyser, K., 204-205, 221. Leventina, 117, 216. Lewin, A.W., 202. Liegi, 71, 211. Liguria, 66. Lincoln, 143. Locatelli, R., 223. Lodi, XIII, 14-15, 18-20, 23, 27, 30, 39-41, 44-45, 47, 49, 53, 66-67, 93, 95-96, 125-126, 143, 160-161, 173-174, 187, 209. Lodivecchio (LD), 19. Lombardia, 19, 27, 37, 39, 43, 49, 55, 101, 112-113, 149, 151, 173, 179, 187. Lomellina, 111. Lomello, conti di, 173. Lonate Ceppino (VA), 130. Londra, 7. Lotario III di Sassonia, imperatore, 5, 13. Lucca, 33, 62-63, 175. Lucomagno, 74, 107, 112, 116-117. Ludolfo di Dassel, 43. Luigi VI, re di Francia, 9.

236 Luigi VII, re di Francia, 72. Luscombe, D., 204. Luzzano (PC), 67. Luzzara (RE), 35, 168. Maastricht, 71, 74. Maestro Tolosano (Magister Tolosanus), 212. Magdeburgo, XV, 116, 123, 132, 146. Magenta (MI), 45, 130, 132-133. Maglenzio de Pletolis, 33. Magonza, 9, 27, 61, 113, 186. Maire Vigueur, J.-C., 206, 214. Malaspina, marchesi, 19, 53, 173. Mameli, G., 193, 195. Manaresi, C., 203, 205, 209, 220221, 223. Manfredo, cardinale, 67. Manselli, R., 199, 203, 206, 209. Mantova, 13, 38-40, 47, 52-53, 95, 161, 173-174, 182. Manuele I Comneno, imperatore bizantino, 15, 36, 54, 63-65, 168, 190, 209, 211. Maragaglia di Alliate, 160. Marcallo (MI), 130. Marche, 173, 179. Marchisio, 26, 82. Marcovaldo di Grunbach, 30, 35. Marengo, 55. Marinoni, A., 218. Martesana, 20, 27, 30. Martini, G., 199, 216. Matilde di Canossa, 58, 88, 171. Maurer, H., 209. Mazzini, G., 194. Medicina (BO), 88. Mediterraneo, 64. Menant, F., 214. Menestò, E., 202. Merati, P., 208, 215, 217. Meyer, H., 200. Meyer, K., 216. Milani, G., 206.

Indice dei nomi

Milano, VII, X, 13-15, 18-21, 24-30, 32-34, 39-41, 43, 45, 47, 52-55, 66, 73-74, 77, 82, 84, 92-93, 96, 103, 112-113, 116-121, 125-128, 130, 132, 135, 138, 143, 146-147, 150, 154, 157, 158, 160, 164, 173174, 182, 192, 205, 208-209, 216; – Carrera, 28; – Cascina Plasmondi, 28; – Chiaravalle, 143; – Duomo, 117, 134; – Lambrate, 28; – Nosedo, 28, 34; – Porta Romana, 127; – San Simpliciano, 154; – San Siro alla Vepra, 28; – Santa Maria di Chiaravalle, 34; – Sant’Ambrogio, 159; – Vigentino, 28. Milone da Cardano, vescovo di Torino, 77, 119. Millor, W.J., 210. Miriocefalo, 168. Modena, 52-53, 67, 83, 95, 102, 161, 173. Mombello Monferrato (AL), 66. Monaci, E., 202. Moncenisio, 46, 75. Mondini, M., 224. Mondonico (PV), 45. Monferrato, marchesato/marchesi, 15, 19, 46, 55, 62, 75-76, 78, 80, 85, 108, 111, 119, 125, 173, 211. Montebello della Battaglia (PV), 93, 97, 101-106, 112, 128, 136-137, 160, 164-167, 169, 176, 214-215. Monticelli, Ottaviano, vedi Vittore IV. Monza, 20, 23, 28, 39. Mor, C.G., 210, 222. Moriana, conte di, vedi Umberto III. Morillo, S., 218-219. Morimond, abbazia, 11. Morroello Malaspina, 66.

Indice dei nomi

Mosa, 71. Munz, P., 187, 203, 212, 215, 220. Muratori, L.A., 192. Muret, 148, 220. Mussolini, B., 196. Napoleone Bonaparte, imperatore dei Francesi, 149. Nelson, J., 201. Nero Grasso, 92-93, 96, 160, 214. Nicolini, U., 205, 223. Nimega, 74. Nivelles, 71. Novara, 13, 18, 27, 44, 46-47, 76-77, 96, 125, 130, 161, 173. Oberto Cancelliere (Obertus Cancellarius), cronista, 55, 210-211, 217. Oberto de Foro, console di Alessandria, 57. Oberto Paucaterra, 34. Oberto Scorpione, 34. Oberto Visdomini, 174. Obizzo de Porta, 53. Obizzo Malaspina, 44, 49, 66. Occhipinti, E., 205, 220, 224. Oderzo (TV), 174. Oexle, O.G., 210, 212. Ogerio Alfieri, cronista, 162, 221. Oglio, 40. Oldoni, M., 202. Olmo (PC), 97. Olona, 120-121, 130, 132, 218. Opll, F., 203-204, 206, 215, 220, 223. Oprando da Martinengo, 161. Orba, 80. Osheim, D.J., 202. Ottobono Scriba, cronista, 212. Ottone I il Grande di Sassonia, imperatore, 7, 17, 68. Ottone II di Sassonia, imperatore, 68. Ottone IV di Brunswick, imperatore, 148.

237 Ottone di Frisinga, arcivescovo di Frisinga e storico, XII-XIII, 11-12, 17, 90, 183, 201-202, 206-207. Ottone di San Biagio, 110. Ottone di Wissenbach, 19. Ottone Morena, cronista, XIII, 32, 158, 202. Ozzano dell’Emilia (BO), 88. Pacaut, M., 203, 209. Paderborn, 75. Padova, 36, 47, 92, 95, 102, 173174. Paesi Bassi, 61, 74. Pagano, 30. Palermo, 7. Palumbo, P.F., 221. Panero, F., 210. Papa, 33. Parigi, 7, 72. Parisse, M., 204. Parker, G., 219. Parma, 23, 30, 47, 49, 52-54, 92-93, 95-96, 102, 160, 173-174, 182, 214. Parpanese (PV), 97. Pasquale III (Guido da Crema), antipapa, 35, 42, 61. Pavia, 14, 18, 23, 25, 27-28, 30, 34, 38, 41, 44-46, 49, 53, 55-56, 67, 70, 78, 83, 85-87, 92, 96-97, 102103, 105, 107-108, 110-112, 115116, 119-123, 125, 130, 133, 146, 148, 151-152, 158-159, 164, 166167, 172-174, 208, 216; – monastero del Senatore, 97; – San Pietro in Ciel d’Oro, 67; – Santa Maria Teodote, 97. Pavone d’Alessandria (AL), 86. Pertz, G.H., 201-202, 211, 213. Pezzolo, L., 200. Pfullendorf, 58. Piacenza, 15, 19, 24, 26, 30, 33, 4041, 44-45, 47, 49, 52-55, 66-67,

238 87, 93, 95-97, 102, 125, 128, 157, 161, 173-174, 176, 182, 187, 209; – Sant’Antonino, 33. Piantanida, A., 217. Piemonte, 46, 62, 66, 76, 78, 95, 101, 178-179, 213. Pieri, P., 219. Pietra Parcellara (PC), 53. Pietro Cavallacius, 96. Pietro da Bussero, 113. Pietro Vecchio, 34. Pini, A.I., 205, 209. Pinto, G., 210, 224. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 194. Pisa, 44, 62-65, 85, 92, 107, 174-175. Pistarino, G., 210. Pistoia, 175. Pizzocalvo (BO), 88. Plantageneti, dinastia, 72. Plechl, H., 215. Po, 35, 96-97, 194. Pogliano (MI), 134. Poitiers, 56. Polonio, V., 210. Pontida (BG), 40, 110, 193-194, 197-198, 225. Prato, 23. Presbitero di Medolago, vescovo di Cremona, 52. Prestwich, M., 211. Provenza, 5, 60, 77. Puncuh, D., 213. Quaglioni, D., 199. Raccagni, G., 222. Racine, P., 203, 209, 221-222. Rahevino, cronista, XII, 19, 22, 31, 181, 202, 206-207. Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia e cancelliere, 19, 21, 2426, 30, 35, 41, 43, 60-61, 123, 137, 187, 208. Rando, D., 221.

Indice dei nomi

Ravenna, 19, 25, 138, 167, 169, 172173. Razone di Broni, 46. Regensburg, 75. Reggio Emilia, 23, 52, 95-96, 102, 161, 173. Reno, 5, 72, 75, 116. Retorto (AL), 178. Reuter, T., XII, 201, 205, 224. Reynolds, S., 207, 223. Riccardo Cuor di Leone, 156. Riedmann, J., 199. Riley Smith, J., 204. Rimini, 67, 88, 173. Riviera, 117. Rivoli Veronese (VR), 37. Roberto de Monte, cronista, 103, 107, 152, 212. Rochat, G., 200-201. Rodano, 5. Rodolfo, vescovo di Liegi, 71. Rodolfo da Concesa, 108. Rodolfo Nebia, console di Alessandria, 57. Rolando, 156. Roma, 3, 5, 10, 14-15, 17, 24, 38, 4243, 52, 61, 95, 167, 169, 174, 194195; – Ciampino, 195; – Monte Mario, 42; – Porta Pia, 193; – San Pietro, 16, 42; – Santa Prudenziana, XIV; – Vaticano, 43. Romagna, 92, 95, 113, 161, 173-174. Rommel, E., 149. Romualdo (Romoaldus) Salernitano, arcivescovo di Salerno e cronista, XIV, 32, 56, 61, 132, 138, 144, 164, 181, 208, 210, 213, 215, 218, 221. Roncaglia (PC), 15, 20, 22-24, 29, 31, 37, 40-41, 47, 60, 74, 96, 103, 177, 184, 190, 207, 222. Rosate (MI), 45.

Indice dei nomi

Rossetti, G., 205. Rossini, G., 212. Rudiano (BS), 143. Rudolf, K., 210. Ruggero II, re di Sicilia, 14. Ruggero di Andria, conte, 114. Sacconago (VA), 134. Salerno, XIV. Salisburgo, 59, 70, 210-211. Saluzzo (CN), 76, 173. Salvarani, R., 224. Salvo de Carmiano, 33. San Bernardino, 74. San Cassiano (BO), 88, 175. San Gottardo, 116. San Martino in Strada (PV), 97. San Miniato (PI), 23, 31, 50. Santa Giuletta (PV), 101. Sardegna, 58, 62, 85, 107. Saronno (VA), 120. Sassonia, 3, 26, 59, 109. Savoia, 46. Savoia, conti di, 76-77, 193. Savona, 172. Schiera, P., 225. Schmidinger, H., 210. Schmitt, J.-C., 212. Schulz, K., 206. Scipione Publio Cornelio, detto l’Africano, 196. Sella, Q., 220. Sempione, 49, 120, 132. Seprio, 20, 27, 30, 112-113, 120, 215. Serchio, 63. Serravalle (Canton Ticino), 117, 216. Sestan, E., 224. Settia, A.A., XVIII, 200, 210, 213214, 217-219. Sicilia, regno di, 7, 14, 24, 32, 43, 91, 114-115, 167, 171, 194. Siena, 43, 52, 62. Sire Raul, vedi Anonimo Milanese.

239 Sismondi, J.-C., 193, 195, 225. Siziano (PV), 158. Sofia, contessa di Bertinoro, 88. Solbiate Arno (VA), 130. Sorelli, A., 213. Spluga, 19, 35, 74, 107. Spoleto, 16, 58, 62, 82, 168. Sprenger, K.-M., XVIII. Standard, 143. Strasburgo, 75. Strickland, M., 207, 218-219. Susa (TO), 46-47, 75, 78. Svevia, 3, 35, 43, 59, 116, 187. Svizzera, 58. Tabacco, G., 189, 204-208, 224. Tanaro, 55-57, 62, 81, 85. Tancredi, conte, 114. Teobaldo di Boemia, 43. Teodorico di Landsberg, 122. Teodorico di Sainte-Bénite, 167. Tetavillana Scorpione, 34. Tevere, 42. Thomson, R.M., 220-221. Thorbecke, J., 199. Ticino, 45, 121, 130, 146. Ticino, Cantone, 112. Tinchebrai, 143. Tirolo, 59. Tolosa, 148. Tomassini, L., 201. Tommaso di Canterbury, 36-37, 208. Töpfer, B., 199, 224. Torino, 46, 76-77, 111, 119, 172. Torre (del Monte, PV), 45. Torre di, famiglia, vedi di Torre. Torrevecchia Pia (PV), 162. Tortona (AL), 15-16, 28, 44, 49, 53, 76, 82, 96, 111-112, 119, 125, 160, 164, 172, 215. Toscana, 30, 44, 58, 61, 63, 65, 87, 113, 173, 178-179, 210. Tranfaglia, N., 204. Trentino, 149. Trento, 35.

240 Treviri, 9, 27, 70, 211. Treviso, 36, 47, 95-96, 102, 161, 173-174, 221. Trezzo sull’Adda (MI), 19, 24, 41, 43. Trifels, 75. Turchia, 168. Turingia, 26. Tuscolo (RM), 42, 61, 137, 139, 217. Ubaldo d’Ostia, cardinale, 105. Uberto Crivelli, 119. Uberto da Landriano, 158. Uberto da Landriano, console di Milano, 96, 160. Udalrico, fratello di Zobelao, duca di Boemia, 75-77, 105. Udalrico, patriarca di Aquileia, 168. Uguccione Sertor, 34. Ulma, 75. Umberto III, conte di Savoia e Moriana, 46, 75, 147. Umbria, 65, 87, 173, 178-179. Unione Sovietica, 196. Val Camonica, 38. Val Canale, 19. Val di Susa, 46, 77. Valle Scrivia, 57, 66. Val Trebbia, 53. Valentiniano, imperatore romano, 21. Vanzago (MI), 134. Varanini, G.M., 206, 213, 221. Varese, 20, 113, 120; – Santa Maria del Monte, 113. Vasto del, marchesi, vedi del Vasto, marchesi. Vedrana (BO), 88. Vegezio Flavio Renato, 149. Veneto, 36, 49, 149, 173, 179. Venezia, XIV, 36, 47, 53, 63, 92, 152, 167, 171-175, 221. Ventimiglia (IM), 172. Verbruggen, J-F., 123, 200, 216, 218.

Indice dei nomi

Vercelli, 44, 46, 49, 54, 76-77, 96, 125, 161, 173-174. Verdi, G., 194. Vergani, G.A., 209. Vermandois, 147. Verona, 16, 35-38, 47, 53-54, 74, 92, 95-96, 102, 128, 161, 173-174, 182, 209. Verrua (TO), 178. Vicenza, 36, 47, 92-93, 95-96, 102, 161, 173. Vignati, C., 203, 209, 221. Villalon, L.J.A., 219. Villanova di Nerviano (MI), 34, 134. Vismara, G., 209. Viterbo, 44. Vittore IV (Ottaviano da Monticelli), antipapa, 25-26, 35. Viviano degli Avvocati, 96. Voghera, 101. Vollrath, A., 212. Voltmer, E., 218. Waitz, G., 202. Walcher, vescovo di Cambrai, 9. Waley, D., 205. Wattenbach, W., 211. Weiland, L., 215. Weingarten, 116, 152. Welfen (o Guelfi), famiglia, 3, 109. Werner di Bolanden, 71. Whatley, N., XI, 201. Wichmann, arcivescovo di Magdeburgo, 122, 167. Wolfe, M., 213. Worms, 18, 25. Würzburg, 108, 215. Ypres, 9. Zabbia, M., 206. Zafarana, Z., 202. Zagni, L., 215. Zama, 197. Zobelao, duca di Boemia, 75. Zug Tucci, H., 218, 224.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione. Una battaglia famosa e ignorata 1. Le ambizioni di un giovane imperatore

VII

3

1. Un nuovo imperatore, p. 3 - 2. I comuni italiani, p. 8 - 3. Il primo impatto, p. 14 - 4. Le rivendicazioni imperiali (1158), p. 18 5. La crisi col papato, p. 24 - 6. Il trionfo, p. 26 - 7. L’Italia imperiale, p. 29

2. La reazione delle città

32

1. Le città sotto il giogo imperiale, p. 32 - 2. Le prime rivolte, p. 36 - 3. Le città si ribellano, p. 38 - 4. Vittoria e umiliazione, p. 41 - 5. La Lega Lombarda, p. 47 - 6. Una nuova città, p. 54

3. Il ritorno dell’imperatore

58

1. Federico si rafforza, p. 58 - 2. Cristiano di Magonza e l’assedio di Ancona, p. 60 - 3. La Lega si prepara , p. 65 - 4. La mobilitazione dell’esercito imperiale, p. 68 - 5. Attacco da Occidente, p. 74 - 6. Una passeggiata trionfale, p. 77

4. L’assedio di Alessandria

80

1. Gli schieramenti, p. 80 - 2. Il lungo inverno, p. 83 - 3. Un nuovo fronte, p. 87 - 4. Gli eserciti comunali, p. 89 - 5. La Lega si muove, p. 92 - 6. L’assalto finale, p. 98

5. Montebello, la tregua, la ripresa della guerra 1. Il confronto armato di Montebello, p. 101 - 2. Tregua, pace o guerra?, p. 103 - 3. Il colloquio che forse non ci fu, p. 109 - 4. La strategia imperiale, p. 110 - 5. Trionfo nel Meridione, p. 113

101

242

Indice del volume

6. 29 maggio 1176: la battaglia

116

1. Il passaggio delle Alpi, p. 116 - 2. Mosse e contromosse, p. 118 - 3. Le forze in campo: gli imperiali, p. 121 - 4. Le forze in campo: i comuni, p. 125 - 5. Il combattimento inevitabile, p. 129 - 6. Il primo urto, p. 135 - 7. Il carroccio irraggiungibile, p. 138 - 8. Cavalieri a piedi?, p. 142 - 9. Il contrattacco decisivo, p. 144 - 10. Una grande battaglia, p. 147

7. L’uomo che sconfisse Federico Barbarossa

153

1. Un’invenzione trecentesca, p. 153 - 2. Alberto da Giussano o Guido da Landriano?, p. 157

8. Dopo la battaglia

164

1. Le conseguenze di Legnano, p. 164 - 2. Si riaprono le trattative, p. 166 - 3. La pace di Venezia , p. 170 - 4. La lunga tregua, p. 172 - 5. La pace, p. 175

9. Legnano dopo Legnano

180

1. Federico e i comuni: alcune interpretazioni, p. 180 - 2. Due mondi a confronto, p. 189 - 3. Il mito difficile, p. 192

Fonti e bibliografia

199

Indice dei nomi di persone e di luoghi

229