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Italian Pages 725 [856] Year 2017
Il libro
È
universalmente noto che le prime grandi civiltà ebbero origine nella regione che si estende fra le coste orientali del Mediterraneo e l’Himalaya: qui, nella valle dell’Indo e in Mesopotamia, vennero fondate le prime grandi metropoli e edificati i primi vasti imperi. Non altrettanto noto, invece, è che questa stessa regione ha costituito per millenni il crocevia della civiltà. Lungo il suo fitto reticolo di strade che collegavano città costiere e remote località dell’interno, e che già a fine Ottocento prese il nome di «Vie della Seta», battute da mercanti, conquistatori, pellegrini e nomadi provenienti da ogni dove, si sono scambiate materie prime, merci e manufatti, ma anche morte, violenza e malattie, e soprattutto idee nei campi più disparati, dalla scienza alla filosofia; e lungo le sue rotte commerciali hanno visto la luce le grandi religioni (giudaismo, cristianesimo, islam, buddhismo e induismo), che, in paradossale antitesi con quanto accadde più tardi e continua ad accadere oggi, hanno convissuto a lungo in pace e armonia. In contrasto con la narrazione dominante che celebra il trionfo politico, culturale e morale dell’Occidente quale artefice e custode della «vera» civiltà, con il suo monumentale affresco Peter Frankopan ci invita a guardare alla storia con occhi diversi e a riconsiderare il ruolo cruciale svolto in passato da popoli e luoghi finora pressoché ignorati o relegati sullo sfondo, e in procinto di tornare prepotentemente alla ribalta. Se infatti nei secoli dell’età moderna le nuove vie d’acqua che hanno messo in contatto il Vecchio e il Nuovo Mondo hanno mutato gli schemi di interazione globale, spostando sull’Europa occidentale il baricentro politico ed economico mondiale, oggi risulta sempre più evidente che le Vie della Seta stanno per rinascere a nuova vita. Questa volta a percorrerle non saranno i tessuti, l’oro, il grano, i cavalli, gli schiavi, ma le immense ricchezze minerarie –
petrolio, gas naturale e altre risorse energetiche – che hanno costituito la posta in gioco nel confronto fra le potenze nel corso del Novecento. E le drammatiche turbolenze che negli ultimi decenni hanno scosso la «spina dorsale dell’Asia», irradiando morte e smarrimento nel resto del pianeta, devono essere lette come i segnali dell’imminente ritorno del centro di gravità del mondo in quella che è stata per millenni la sua sede naturale. Se, come sostiene Frankopan, l’età dell’Occidente volge al termine, diventa più urgente che mai un radicale cambiamento di prospettiva che ci aiuti a comprendere la storia di queste popolazioni e di queste terre, per affrontare in modo consapevole e senza isterismi un processo che sembra ormai irreversibile.
L’autore
Peter Frankopan è docente di storia bizantina all’Università di Oxford, senior research fellow al Worcester College e direttore dell’Oxford Centre for Byzantine Research. È autore di The First Crusade: The Call from the East (2012).
Peter Frankopan
LE VIE DELLA SETA Una nuova storia del mondo
LE VIE DELLA SETA
A Jessica, Katarina, Flora, Francesco e Luca
Ci fermammo nel paese di una tribù di Turcomanni … vedemmo un gruppo che venera i serpenti, un altro che venera i pesci e un altro ancora che venera le gru. IBN FAḌLAN, Viaggio tra i Bulgari del Volga, X secolo
Io, Prete Gianni, sono il signore dei signori, e supero tutti i re del mondo intero in ricchezza, virtù e potenza … Latte e miele scorrono a volontà nelle nostre terre; il veleno non può far del male, e non gracidano rane fastidiose. Non ci sono scorpioni, né serpenti che strisciano nell’erba. PRETE GIANNI, presunta lettera a Roma e Costantinopoli, XII secolo
Possiede un grandissimo palazzo, con il tetto interamente ricoperto di oro fino. CRISTOFORO COLOMBO, appunti di ricerca sul Gran Khan
dell’Oriente, fine XV secolo
Se non facciamo sacrifici anche relativamente piccoli, modificando la nostra politica, oggi per esempio in Persia, metteremo in pericolo la nostra amicizia con la Russia e ci ritroveremo in un futuro relativamente vicino … in una situazione in cui sarà in gioco la nostra stessa esistenza come impero. SIR GEORGE CLERK a Sir Edward Grey, ministro degli Esteri
britannico, 21 luglio 1914
Il presidente vincerebbe anche se se ne andasse in giro senza fare nulla. Capo dello staff di Nursultan Nazarbaev, presidente del Kazakistan, prima delle elezioni del 2005
PREFAZIONE
Da bambino, uno dei miei beni più preziosi era un grande planisfero. Era appeso sulla parete accanto al mio letto, e io ogni sera, prima di andare a dormire, lo fissavo a lungo. In poco tempo avevo memorizzato i nomi e le posizioni di tutti i paesi, prendendo nota delle capitali, oltre che degli oceani e dei mari, e dei fiumi che vi sfociavano; i nomi delle principali catene montuose e dei deserti, evidenziati con il corsivo, mi ispiravano emozioni di pericolo e di avventura. Giunto all’adolescenza, avevo maturato un’insofferenza per la prospettiva geografica inevitabilmente ristretta delle lezioni scolastiche, che si concentravano soltanto sull’Europa occidentale e gli Stati Uniti, ignorando gran parte del resto del mondo. Ci avevano parlato dei romani in Britannia, della conquista normanna del 1066, di Enrico VIII e dei Tudor, della guerra d’indipendenza americana, dell’industrializzazione nell’epoca vittoriana, della battaglia della Somme e dell’ascesa e caduta della Germania nazista. Io alzavo lo sguardo sulla mia mappa e vedevo enormi regioni del mondo sempre passate sotto silenzio. In occasione del mio quattordicesimo compleanno i miei genitori mi regalarono un libro dell’antropologo Eric Wolf, che per me costituì una vera e propria illuminazione. La storia della civiltà comunemente e pigramente accettata, scriveva Wolf, è una storia in cui «l’antica Grecia generò Roma, Roma generò l’Europa cristiana, l’Europa cristiana generò il Rinascimento, il Rinascimento l’Illuminismo, l’Illuminismo la democrazia politica e la rivoluzione industriale. L’industria, unita alla democrazia, a sua volta ha prodotto gli Stati Uniti, dando corpo ai diritti alla vita, alla libertà e al perseguimento
della felicità.» 1 Mi resi conto immediatamente che questa era proprio la versione che mi era stata raccontata: il mantra del trionfo politico, culturale e morale dell’Occidente. Ma questo resoconto era fallace; c’erano altri modi di guardare alla storia, modi che non implicavano di guardare al passato dal punto di vista dei vincitori della storia recente. Ne fui conquistato. D’improvviso mi fu chiaro che le regioni di cui non ci parlavano erano state cancellate, soffocate dalla martellante narrazione dell’ascesa dell’Europa. Chiesi a mio padre di portarmi a vedere la Mappa Mundi di Hereford, che aveva come centro e punto focale Gerusalemme, mentre l’Inghilterra e gli altri paesi occidentali erano in una posizione molto laterale, quasi fossero privi di importanza. Rimasi sbigottito nel leggere di opere di geografi arabi in cui le cartine sembravano capovolte e avevano al centro il mar Caspio; o nello scoprire l’esistenza di un’importante carta medievale turca conservata a Istanbul il cui cuore era una città chiamata Balāsāghūn, una città che non avevo mai neppure sentito nominare e che non compariva su nessuna mappa; la sua stessa ubicazione era incerta fino a tempi recenti, eppure, in passato, era stata considerata il centro del mondo. 2 Volevo saperne di più sulla Russia e l’Asia centrale, la Persia e la Mesopotamia. Volevo capire come apparivano le origini del cristianesimo agli occhi dell’Asia; e come i crociati guardavano a coloro che vivevano in grandi città del Medioevo quali Costantinopoli, Gerusalemme, Baghdad e Il Cairo. Volevo avere notizie dei grandi imperi dell’Est, dei Mongoli e delle loro conquiste; e capire come apparivano due guerre mondiali viste non dalle Fiandre o dal fronte orientale, ma dall’Afghanistan e dall’India. Fu quindi una grande fortuna che abbia potuto imparare il russo a scuola, dove ebbi come insegnante Dick Haddon, un uomo brillante che aveva fatto parte dei servizi segreti della Marina ed era convinto che il modo per capire la lingua e la duša (anima) russa passasse dalla splendida letteratura e dalla musica contadina di quel paese. Fortuna ancora maggiore fu che Haddon si offrisse di dare lezioni di arabo a quanti erano interessati, introducendo così una mezza dozzina di noi
studenti alla cultura e alla storia islamiche, e immergendoci nella bellezza dell’arabo classico. Queste lingue servirono a dischiuderci un mondo in attesa di essere scoperto o, come compresi ben presto, di essere riscoperto da noi occidentali. Oggi si attribuisce molta importanza alla stima delle possibili conseguenze dell’impetuoso sviluppo economico della Cina, dove si prevede che nel prossimo decennio la domanda di beni di lusso si quadruplicherà, o all’analisi del mutamento sociale in India, dove ci sono più cellulari che gabinetti con lo sciacquone. 3 Ma nessuno di questi due paesi offre il miglior punto di vista per esaminare il passato del mondo e il suo presente. In realtà, per millenni, fu la regione che si estendeva tra l’Est e l’Ovest, collegando l’Europa con l’oceano Pacifico, a fungere da asse di rotazione del globo. La regione a metà tra Oriente e Occidente, che si estende approssimativamente dalle coste orientali del Mediterraneo e del mar Nero fino all’Himalaya, potrebbe sembrare un luogo poco promettente per farne il punto di osservazione del mondo. Oggi quest’area ospita Stati che evocano un’idea di esotico e di periferico, come il Kazakistan e l’Uzbekistan, il Kirghizistan e il Turkmenistan, il Tagikistan e i paesi del Caucaso; ed è associata a regimi instabili e violenti che rappresentano una minaccia per la sicurezza internazionale, come l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq e la Siria, o sembrano poco inclini alle migliori pratiche della democrazia, come la Russia e l’Azerbaigian. Nel complesso, appare come una regione occupata da una serie di Stati falliti o in via di fallimento, retti da dittatori che ottengono maggioranze inverosimilmente ampie nelle elezioni nazionali e i cui familiari e sodali controllano giri d’affari che si estendono a macchia d’olio, possiedono immense risorse ed esercitano il potere politico. Sono paesi con precedenti che lasciano a desiderare in fatto di diritti umani, dove la libertà di espressione su questioni di fede, coscienza e sessualità è limitata, e dove è il controllo dei media a determinare ciò che esce o non esce sulla stampa. 4 Sebbene questi paesi possano sembrarci poco civilizzati, non si tratta di lande remote, di ignoti deserti. In realtà, il ponte tra Oriente e
Occidente è il vero crocevia della civiltà. Lungi dall’essere al margine degli affari globali, questi paesi ne sono proprio al centro, come lo sono stati fin dall’alba della storia. Fu qui che nacque la civiltà, ed è qui che molti credevano che l’umanità fosse stata creata: nel Giardino dell’Eden, «piantato da Dio il Signore» con «ogni sorta d’alberi piacevoli a vedersi e buoni per nutrirsi», che molti pensavano fosse ubicato nei ricchi campi fra il Tigri e l’Eufrate. 5 Fu su questo ponte tra l’Est e l’Ovest che circa 5000 anni fa vennero fondate grandi metropoli, fu qui che le città di Harappa e Mohenjodaro, nella valle dell’Indo, fiorirono come meraviglie del mondo antico, con popolazioni che ammontavano a decine di migliaia di abitanti e strade che si connettevano in un sofisticato sistema fognario che non sarebbe stato uguagliato in Europa per migliaia di anni. 6 Altri grandi centri di civiltà come Babilonia, Ninive, Uruk e Akkad, in Mesopotamia, erano celebri per la loro grandiosità e la loro architettura innovativa. E oltre duemila anni fa un geografo cinese annotava che gli abitanti della Battriana, una regione incentrata sul fiume Oxos e oggi situata nell’Afghanistan settentrionale, erano commercianti e negoziatori leggendari; la loro capitale ospitava un mercato in cui si comprava e vendeva un’enorme gamma di prodotti, provenienti da ogni dove. 7 Questa regione è il luogo dove videro la luce le grandi religioni del mondo, dove il giudaismo, il cristianesimo, l’islam, il buddhismo e l’induismo vissero gomito a gomito. È il crogiolo dove competevano vari gruppi linguistici, dove lingue indoeuropee, semitiche e sinotibetane coabitavano con idiomi altaici, turcici e caucasici. Questo è il luogo in cui grandi imperi sorsero e caddero, dove le conseguenze degli scontri fra culture rivali si avvertivano a migliaia di chilometri di distanza. Qui si aprivano nuovi modi di guardare al passato e si rivelava un mondo profondamente interconnesso, dove quanto accadeva in un continente aveva effetti su un altro, dove le scosse secondarie di ciò che succedeva nelle steppe dell’Asia centrale potevano essere avvertite nel Nord Africa, dove eventi verificatisi a Baghdad avevano risonanza in Scandinavia, dove scoperte compiute nelle Americhe alteravano i prezzi delle merci in Cina e facevano
schizzare la domanda sui mercati dei cavalli in India settentrionale. Questi scossoni si diffondevano lungo una rete estesa in ogni direzione, un ventaglio di strade lungo le quali hanno viaggiato pellegrini e guerrieri, nomadi e mercanti, lungo le quali merci e materie prime sono state trasportate e vendute, e le idee sono state scambiate, modificate e perfezionate. Queste strade hanno portato non solo prosperità, ma anche morte e violenza, malattie e disastri. Verso la fine del XIX secolo, un eminente geologo tedesco, Ferdinand von Richthofen (zio del «Barone Rosso», l’asso dell’aviazione della prima guerra mondiale), diede a questa estesa rete di connessioni un nome che è entrato stabilmente nell’uso: Seidenstraßen, Vie della Seta. 8 Queste direttrici fungono da sistema nervoso centrale del mondo, collegando popoli e luoghi ma rimanendo sottotraccia, invisibili a occhio nudo. Allo stesso modo in cui l’anatomia spiega come funziona il corpo, la comprensione di queste connessioni ci consente di capire come funziona il mondo. Eppure, nonostante la sua importanza, questa parte del pianeta è stata dimenticata dalla storia tradizionale. In parte ciò è dovuto a quello che è stato chiamato «orientalismo», ovvero la concezione netta e drasticamente negativa dell’Oriente come sottosviluppato e inferiore all’Occidente, e quindi non meritevole di uno studio serio. 9 Ma deriva anche dal fatto che la narrazione del passato è diventata così dominante e consolidata da non lasciare spazio a una regione che è stata a lungo vista come periferica rispetto alla vicenda dell’ascesa dell’Europa e della società occidentale. Oggi Jalalabad e Herat in Afghanistan, Fallujah e Mosul in Iraq, oppure Homs e Aleppo in Siria, suonano come sinonimi di fondamentalismo religioso e violenza settaria. Il presente ha cancellato il passato: sono lontani i giorni in cui il nome di Kabul evocava le immagini dei giardini piantati e curati dal grande Bābur, fondatore dell’impero Moghul in India. Il Bagh-i-Wafa (Giardino della Fedeltà) comprendeva un laghetto circondato da aranci e melograni e un prato di trifoglio, di cui Bābur era estremamente fiero: «Questa è la parte migliore del giardino, uno spettacolo meraviglioso quando gli aranci prendono colore. Il giardino è veramente in una splendida posizione!». 10
Allo stesso modo, le nostre impressioni sull’Iran moderno hanno oscurato le glorie della sua storia più antica, quando la Persia che l’ha preceduto era sinonimo di buon gusto in ogni cosa, dai frutti serviti a pranzo ai magnifici ritratti in miniatura realizzati dai suoi artisti leggendari, alla carta su cui scrivevano gli studiosi. In una sua apprezzatissima opera databile intorno al 1400, Simi Nīshāpūrī, un bibliotecario di Mashhad, nell’Iran orientale, riporta con grande accuratezza il consiglio di un altro amante dei libri come lui. Chiunque pensi di scrivere, afferma solennemente, dovrebbe sapere che la migliore carta per la calligrafia è quella prodotta a Damasco, a Baghdad e a Samarcanda. La carta di qualunque altro luogo «di solito è ruvida, si macchia e non dura nel tempo». Si tenga a mente, avverte, che vale la pena di dare alla carta una sfumatura di colore prima di affidarle l’inchiostro, «perché il bianco affatica gli occhi e i più importanti esempi di calligrafia che si sono osservati sono tutti su carta colorata». 11 Luoghi i cui nomi sono quasi dimenticati un tempo dominavano, come Merv, descritta da un geografo del X secolo come una «città deliziosa, bella, raffinata, brillante, vasta e piacevole», e come «la madre del mondo»; o come Rey, non lontana dalla moderna Teheran, che per un altro autore più o meno coevo era così splendida da essere considerata «lo sposo della terra» e «la più bella creazione» del mondo. 12 Disseminate lungo la spina dorsale dell’Asia, queste città erano simili a un filo di perle che congiungeva il Pacifico al Mediterraneo. I centri urbani si stimolavano a vicenda, mentre la rivalità tra i sovrani e le élite favoriva la costruzione di architetture sempre più ambiziose e monumenti sempre più spettacolari. Biblioteche, luoghi di culto, chiese e osservatori di dimensioni e influenza culturale immense punteggiavano la regione, collegando Costantinopoli a Damasco, Isfahan, Samarcanda, Kabul e Kashgar. In città come queste vivevano brillanti studiosi che spingevano in avanti le frontiere delle loro discipline. Oggi ci sono familiari soltanto i nomi di pochi di loro – uomini come Ibn Sīnā, meglio noto come Avicenna, al-Bīrūnī e alKhwārizmi –, giganti nei campi dell’astronomia e della medicina, ma
ce n’erano molti altri. Per secoli, prima dell’era moderna, i centri intellettuali di eccellenza a livello mondiale, le Oxford e le Cambridge, le Harvard e le Yale, non si trovavano in Europa o in Occidente, ma a Baghdad e Balkh, a Bukhara e a Samarcanda. C’era una buona ragione perché le culture, le città e i popoli che vivevano lungo le Vie della Seta si sviluppassero e progredissero: commerciando e scambiandosi le idee, imparavano e prendevano a prestito gli uni dagli altri, stimolando ulteriori avanzamenti nei campi della filosofia, delle scienze, del linguaggio e della religione. Il progresso era essenziale, come sapeva anche troppo bene, più di 2000 anni fa, uno dei sovrani del regno di Zhao, nella Cina nordorientale, a un’estremità dell’Asia. «Avere talento nel seguire le strade di ieri» affermava re Wu-ling nel 307 a.C. «non è sufficiente a migliorare il mondo di oggi.» 13 I leader del passato sapevano bene quanto fosse importante stare al passo con i tempi. Tuttavia, il testimone del progresso passò di mano all’inizio dell’età moderna a causa di due grandi spedizioni marittime che ebbero luogo alla fine del XV secolo. Nell’arco di sei anni, dopo il 1490, furono gettate le basi di una radicale rottura del ritmo di ben consolidati sistemi di scambio. Prima Cristoforo Colombo attraversò l’Atlantico, creando le condizioni perché due grandi masse continentali mai prima raggiunte si collegassero all’Europa e anche oltre; poi, appena qualche anno dopo, Vasco da Gama riuscì a circumnavigare l’estremità meridionale dell’Africa, facendo vela verso l’India, e aprendo così nuove vie di navigazione. Le scoperte mutarono gli schemi di interazione e scambio commerciale, e determinarono un netto spostamento del baricentro politico ed economico del mondo. D’improvviso, da regione isolata e stagnante, l’Europa occidentale si trasformò nel fulcro di un sistema di comunicazione, trasporto e commercio in costante sviluppo, diventando il nuovo punto mediano tra Oriente e Occidente. L’ascesa dell’Europa scatenò un aspro scontro per il potere e per il controllo del passato. Mentre i rivali si fronteggiavano, la storia fu riplasmata per dare risalto agli eventi, ai temi e alle idee che potevano essere utilizzati nei conflitti ideologici che divampavano di pari passo
con la lotta per accaparrarsi le risorse e conquistare il dominio delle rotte marittime. Si scolpivano busti di leader politici e generali con indosso la toga per farli assomigliare agli eroi romani del passato; si costruivano nuovi e sontuosi edifici in grandioso stile classico che facessero proprie le glorie del mondo antico, identificato come diretto predecessore. La storia veniva distorta e manipolata per creare una martellante narrazione in cui l’ascesa dell’Occidente risultasse non soltanto naturale e inevitabile, ma la continuazione di ciò che era accaduto in precedenza. Molti racconti mi hanno indotto a guardare al passato del mondo in modo diverso, ma soprattutto uno. Nella mitologia greca, Zeus, il padre degli dèi, liberava due aquile alle estremità opposte della terra e ordinava loro di volare l’una incontro all’altra. Una pietra sacra, l’omphalós – l’ombelico del mondo –, era posta nel punto in cui si erano incontrate, per consentire la comunicazione con il divino. In seguito ho saputo che l’idea di questa pietra è stata per molto tempo motivo di fascinazione per filosofi e psicoanalisti. 14 Quando sentii per la prima volta questa storia, ricordo di aver guardato a lungo il mio planisfero e di essermi chiesto dove le due aquile si sarebbero incontrate. Le immaginavo spiccare il volo dalla costa occidentale dell’Atlantico e da quella cinese del Pacifico e dirigersi verso l’interno dei continenti. L’esatta posizione cambiava a seconda di dove mettevo le dita per cominciare a misurare distanze uguali da est e da ovest, ma finivo sempre in qualche punto compreso tra il mar Nero e l’Himalaya. Passavo le notti a pensare alla mappa sulla parete della mia stanza, alle aquile di Zeus e alla storia di una regione che non era mai menzionata nei libri che leggevo… e non aveva un nome. Non molto tempo fa, gli europei hanno suddiviso l’Asia in tre ampie zone: il Vicino, il Medio e l’Estremo Oriente. Tuttavia ogniqualvolta, crescendo, sentivo parlare dei problemi attuali o leggevo qualcosa in proposito, mi sembrava che il secondo di questi toponimi, il Medio Oriente, avesse mutato significato e anche posizione, essendo utilizzato per indicare Israele, la Palestina e l’area
circostante, e occasionalmente il golfo Persico. E non riuscivo a capire perché continuassero a parlarmi dell’importanza del Mediterraneo come culla della civiltà, quando appariva tanto ovvio che non era questo, in realtà, il luogo in cui la civiltà era stata forgiata. Il vero crogiolo, il «Mediterraneo» nel suo significato letterale – il centro del mondo –, non era un mare che separava l’Europa dal Nord Africa, ma un luogo nel cuore dell’Asia. La mia speranza è di riuscire a incoraggiare altri a studiare popoli e luoghi che sono stati ignorati dagli studiosi per generazioni, aprendo nuove questioni e nuove aree di ricerca. Spero di suggerire nuove domande rispetto al passato, e che certi luoghi comuni vengano messi in discussione e analizzati attentamente. Ma, soprattutto, spero di indurre chi legge questo libro a guardare alla storia in modo diverso. Worcester College, Oxford Aprile 2015
I
LA CREAZIONE DELLA VIA DELLA SETA
Fin dall’inizio dei tempi, il centro dell’Asia fu il luogo in cui si formavano gli imperi. Le pianure alluvionali della Mesopotamia, bagnate dal Tigri e dall’Eufrate, fornirono le basi della civiltà stessa, perché fu in questa regione che presero forma i primi villaggi e le prime città. L’agricoltura sistematica si sviluppò in Mesopotamia e in tutta la «Mezzaluna Fertile», una striscia di terra altamente produttiva e ricca d’acqua che si estendeva dal golfo Persico alla costa mediterranea. Fu qui che quasi 4000 anni fa Hammurabi, re di Babilonia, promulgò alcune delle più antiche leggi scritte, in cui prescriveva gli obblighi dei suoi sudditi e sanciva crudeli punizioni in caso di trasgressione. 1 Da questo crogiolo emersero molti regni e imperi, ma il più grande di tutti fu quello persiano. Nel VI secolo a.C., con una rapida espansione che ebbe origine da una regione dell’attuale Iran meridionale, i persiani arrivarono a dominare i loro vicini, raggiungendo le coste dell’Egeo, conquistando l’Egitto e spingendosi a est fino all’Himalaya. Stando al racconto dello storico greco Erodoto, buona parte del loro successo era dovuta all’ampiezza di vedute. «I persiani accolgono usi stranieri più di tutti gli uomini» scriveva. Per esempio, erano pronti ad abbandonare il loro modo di vestire quando ritenevano che le mode di un nemico sconfitto fossero migliori, il che li portò a mutuare stili di abbigliamento dai medi e dagli egizi. 2 La disponibilità dei persiani a adottare nuove idee e usanze fu un fattore importante nella costruzione di un sistema amministrativo che consentisse di gestire adeguatamente un impero che includeva molti popoli diversi. Una burocrazia altamente istruita sovrintendeva all’efficiente organizzazione della vita quotidiana dell’impero,
registrando ogni cosa: dai pagamenti corrisposti ai lavoratori al servizio della famiglia reale alla certificazione della qualità e quantità delle merci acquistate e vendute nei mercati. I funzionari imperiali erano responsabili anche della manutenzione e riparazione di un sistema viario che si estendeva su tutto l’impero e fu l’invidia del mondo antico. 3 Una rete stradale che collegava la costa dell’Asia Minore con Babilonia, Susa e Persepoli consentiva di coprire una distanza di oltre 2500 chilometri nell’arco di una settimana, un dato registrato con meraviglia da Erodoto, il quale osservava che né la neve né la pioggia né il caldo né la notte potevano rallentare la rapida trasmissione dei messaggi. 4 L’investimento nell’agricoltura e lo sviluppo di tecniche di irrigazione innovative per migliorare le rese dei raccolti contribuirono ad alimentare la crescita delle città e consentirono alle campagne circostanti di sostentare popolazioni urbane sempre più numerose. E questo non solo nei ricchi territori agricoli su entrambe le sponde del Tigri e dell’Eufrate, ma anche nelle vallate solcate dai possenti fiumi Oxos e Iassarte (oggi noti come Amu Darya e Syr Darya), oltre che nel delta del Nilo, conquistato dagli eserciti persiani nel 525 a.C. L’impero persiano era una terra di abbondanza che collegava il Mediterraneo con il cuore dell’Asia. La Persia si presentava come un faro di stabilità e di equità, secondo quanto si legge in un’iscrizione trilingue incisa sulla parete di un dirupo del monte Behistun. Scritta in persiano, elamitico e accadico, essa documenta come Dario il Grande, uno dei sovrani persiani più famosi, domasse rivolte e sollevazioni, respingesse invasioni dall’esterno e trattasse equamente sia il povero sia il potente. Mantieni sicuro il paese, ingiunge l’iscrizione, e prenditi cura del popolo con rettitudine, perché la giustizia è il fondamento del regno. 5 La tolleranza dei persiani nei confronti delle minoranze era leggendaria, tanto che di un loro sovrano si parlava come del «Messia», colui che il «Signore, il Dio dei cieli» aveva benedetto, un titolo dovuto al fatto che grazie alle sue politiche gli ebrei avevano ottenuto la liberazione dall’esilio babilonese. 6 Nell’antica Persia prosperava il commercio, le cui entrate
permettevano ai sovrani non solo di finanziare spedizioni militari in direzione di località che, una volta conquistate, apportavano ulteriori risorse all’impero, ma anche di assecondare inclinazioni notoriamente dispendiose. Edifici spettacolari furono eretti nelle grandi città di Babilonia, Persepoli, Pasargade e Susa, dove il re Dario fece costruire uno splendido palazzo utilizzando ebano e argento della miglior qualità provenienti dall’Egitto, legno di cedro del Libano, oro zecchino della Battriana, lapislazzuli e cinabro della Sogdiana, turchese della Corasmia e avorio dell’India. 7 Dei persiani era celebre anche l’amore per il piacere: secondo Erodoto, bastava loro sentir parlare di un nuovo lusso per agognare di concederselo. 8 A sostegno della comunità commerciale c’era un apparato militare molto aggressivo, che aveva il duplice compito di ampliare le frontiere e di difenderle. La Persia doveva infatti fronteggiare continue minacce dal Nord, un mondo dominato da nomadi che vivevano con il loro bestiame su aree di prateria semiarida, note come steppe, che si estendevano dal mar Nero all’Asia centrale, fino alla Mongolia. Questi nomadi erano famosi per la loro ferocia: si diceva che bevessero il sangue dei nemici, che si facessero indumenti con i loro scalpi, e che in certi casi mangiassero le carni dei loro stessi padri. Il rapporto con i nomadi era però complesso perché, nonostante la loro nomea di gente caotica e imprevedibile, erano partner commerciali importanti per la fornitura di animali, soprattutto di cavalli di pregio. Ma i nomadi potevano anche essere fonte di guai, come quando Ciro il Grande, il leggendario artefice dell’impero persiano vissuto nel VI secolo a.C., fu ucciso mentre cercava di sottomettere gli sciti. Qualcuno raccontava che la sua testa fu portata in giro dopo essere stata conficcata in un otre pieno di sangue, in modo che la sete di potere che lo aveva sempre ispirato potesse finalmente estinguersi. 9 Tuttavia, questa fu una rara battuta d’arresto che non bloccò l’espansione persiana. I comandanti greci guardavano a oriente con un misto di timore e rispetto, cercando di apprendere dai persiani le loro tattiche sul campo di battaglia e di adottare la loro tecnologia. Autori come Eschilo si servirono dei successi conseguiti contro i persiani come di un modo per celebrare il valore militare e per
dimostrare il favore degli dèi, commemorando l’eroica resistenza ai tentativi di invasione della Grecia in grandiose opere teatrali e letterarie. 10 «Sono giunto qui a Tebe,» dice Dioniso nei primi versi delle Baccanti, dalle «terre aurifere» della Lidia e della Frigia, dagli «assolati altipiani» della Persia, dai «castelli» della Battriana, attraverso l’Arabia felice e tutta l’Asia, che «s’affaccia sul mare salato, costellata di cittadelle turrite». L’Asia e l’Oriente erano le terre che Dioniso aveva «spinto alla danza» con i misteri divini molto tempo prima di quelle dei greci. 11 Non ci fu studioso di queste opere più appassionato di Alessandro il Macedone. Quando salì al trono nel 336 a.C., dopo che suo padre, il grande re Filippo, fu assassinato, non c’erano dubbi su quale direzione avrebbe preso il giovane generale nella sua ricerca della gloria. Neppure per un momento pensò all’Europa, che non offriva assolutamente nulla: né città, né cultura, né prestigio, né prospettiva di ricompensa. Per Alessandro, come per tutti gli antichi greci, la cultura, le idee e le opportunità – così come le minacce – venivano dall’Est. Nessuno si stupì, quindi, che il suo sguardo cadesse sulla massima potenza dell’antichità: la Persia. Dopo aver cacciato i governatori persiani dall’Egitto con un fulmineo colpo di mano nel 331 a.C., Alessandro sferrò un attacco senza quartiere al cuore dell’impero. Lo scontro decisivo ebbe luogo qualche mese dopo nelle polverose pianure di Gaugamela, nei pressi della moderna città di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Qui, malgrado l’enorme disparità numerica, Alessandro inflisse una spettacolare sconfitta all’esercito persiano al comando di Dario III, forse grazie all’effetto ristoratore di una buona notte di sonno: secondo Plutarco, Alessandro insistette sulla necessità di riposare prima di ingaggiare battaglia con il nemico, e dormì tanto profondamente che i suoi generali dovettero chiamarlo più volte per svegliarlo. Indossata la sua tenuta preferita, mise un elmo bellissimo, talmente lucido che «splendeva come se fosse stato argento puro», impugnò nella destra una spada fidata e condusse le sue truppe a una vittoria schiacciante
che gli dischiuse le porte di un impero. 12 Fin da quando era bambino, erano state riposte grandi speranze in Alessandro, che aveva avuto come istitutore Aristotele. Queste speranze non andarono deluse. Dopo che gli eserciti persiani erano stati sbaragliati a Gaugamela, Alessandro avanzò verso est. Le città gli si arresero una dopo l’altra, a mano a mano che si impadroniva dei territori controllati dai rivali sconfitti. Località di dimensioni, ricchezza e bellezza leggendarie cadevano al cospetto del giovane eroe. Babilonia si arrese, e i suoi abitanti coprirono di fiori e ghirlande la strada che conduceva alla grande città, mentre altari d’argento ricolmi di incenso e di balsami furono eretti su entrambi i lati. Gli furono offerte in dono gabbie con leoni e leopardi. 13 In breve tempo, tutti i centri lungo la Via Reale che collegava le maggiori città persiane e la rete stradale che connetteva la costa dell’Asia Minore con l’Asia centrale caddero nelle mani di Alessandro e dei suoi uomini. Sebbene alcuni studiosi moderni lo abbiano liquidato come un «giovane criminale ubriacone», sembra che Alessandro avesse una sensibilità sorprendentemente raffinata quando si trattava di rapportarsi con territori e popoli appena conquistati. 14 Era spesso accomodante in fatto di credenze e pratiche religiose locali, e mostrava tolleranza e rispetto: si racconta, per esempio, che fosse sconvolto per il modo in cui era stata profanata la tomba di Ciro il Grande, e che non soltanto la restaurò, ma punì coloro che l’avevano violata. 15 Inoltre si premurò che a Dario III fossero tributate esequie adeguate al suo rango e lo fece seppellire accanto agli altri re persiani: il corpo del re persiano era stato trovato su un carro dove l’aveva gettato uno dei luogotenenti di Alessandro dopo averlo ucciso. 16 Alessandro era anche abile nell’attrarre sotto il suo dominio sempre nuovi territori in quanto era disposto ad affidarli alle élite locali. «Se vogliamo avere il possesso dell’Asia, non semplicemente attraversarla,» sembra abbia detto «dobbiamo diffondere tra quelli che la abitano la nostra clemenza: la loro fedeltà renderà stabile e perenne l’impero.» 17 I funzionari locali e le vecchie élite venivano lasciati al loro posto ad amministrare le città e i territori conquistati. Alessandro stesso iniziò a adottare titoli tradizionali e a indossare vestiti di foggia
persiana per sottolineare la propria accettazione dei costumi locali. Era ansioso di presentarsi non tanto come invasore e conquistatore, bensì come l’ultimo erede di un regno antico, nonostante le urla di scherno di quanti andavano dicendo che aveva portato miseria e aveva annegato in un bagno di sangue il paese. 18 È importante ricordare che gran parte delle informazioni che abbiamo sulle campagne, i successi e le politiche di Alessandro deriva da storici più tardi, i cui resoconti sono spesso fortemente idealizzati e fervidi di entusiasmo nella narrazione delle gesta del giovane generale. 19 Tuttavia, anche se occorre essere cauti rispetto al modo in cui le fonti descrivono il collasso dell’impero persiano, la velocità con cui Alessandro continuò a estendere le frontiere verso est parla da sola. Era un instancabile fondatore di nuove città, che di solito prendevano il suo nome, e che oggi sono perlopiù note con altre denominazioni, come Herat (Alessandria d’Aria), Kandahar (Alessandria d’Arachosia) e Bagram (Alessandria del Caucaso). La costruzione di questi scali – e il rafforzamento di altri ancora più a nord, che raggiungevano la valle di Fergana – segnavano nuovi punti lungo la spina dorsale dell’Asia. Nuove città con possenti difese, così come roccaforti e fortezze autonome, venivano costruite innanzitutto per la protezione dalla minaccia rappresentata dalle tribù delle steppe, abili nel lanciare attacchi devastanti contro le comunità rurali. Il programma di fortificazione di Alessandro era finalizzato a proteggere nuove aree conquistate solo di recente. Proprio in quello stesso periodo, preoccupazioni analoghe trovavano analoghe risposte ancora più a est. I cinesi avevano già elaborato il concetto di huaxia, che rappresentava il mondo civilizzato di fronte alle sfide dei popoli delle steppe. Un intenso programma costruttivo estese una rete di fortificazioni in quella che divenne nota come Grande Muraglia cinese, la cui motivazione era identica al principio adottato da Alessandro: l’espansione senza difesa era inutile. 20 Ancora nel IV secolo a.C., Alessandro continuò instancabilmente a condurre campagne militari: riattraversò l’Hindu Kush, marciò lungo la valle dell’Indo, fondò nuove fortezze dotate di guarnigione, sia
pure tra le ormai consuete proteste dei suoi uomini, esausti e vittime della nostalgia. Da un punto di vista militare, le imprese da lui compiute fino alla sua morte, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C. all’età di trentadue anni, in circostanze che rimangono avvolte nel mistero, erano semplicemente sensazionali, 21 così come la rapidità e l’ampiezza delle sue conquiste. Ma non meno impressionante – anche se assai più spesso ignorato – è il peso dell’eredità che lasciò dietro di sé, e il modo in cui gli influssi dell’antica Grecia si mescolarono con quelli della Persia, dell’India, dell’Asia centrale e, alla fine, anche della Cina. All’improvvisa morte di Alessandro seguì un periodo di turbolenza e di lotta senza quartiere fra i suoi principali comandanti, ma ben presto emerse un leader per la metà orientale dei nuovi territori: un ufficiale di nome Seleuco, nato nella Macedonia settentrionale, che aveva partecipato a tutte le più importanti spedizioni del giovane re. Nell’arco di qualche anno dalla morte del suo protettore, questi si ritrovò a governare territori che si estendevano dal Tigri all’Indo, un’area talmente vasta da assomigliare, più che a un regno, a un vero e proprio impero. Fondò una dinastia, quella dei Seleucidi, destinata a regnare per quasi tre secoli. 22 Le vittorie di Alessandro vengono spesso e sbrigativamente liquidate come una brillante serie di successi di breve respiro, e la sua eredità è da molti considerata effimera e temporanea. Ma questi non erano affatto risultati transitori; erano il punto di avvio di un nuovo capitolo per la regione compresa tra il Mediterraneo e l’Himalaya. I decenni che seguirono la morte di Alessandro videro all’opera un graduale e inequivocabile programma di ellenizzazione, con il quale idee, temi e simboli dell’antica Grecia vennero portati a conoscenza dell’Oriente. I discendenti dei suoi generali rammentavano le loro radici greche e le mettevano concretamente in risalto, per esempio sulle monete coniate nelle zecche delle città più importanti, ubicate in punti strategici lungo le arterie commerciali o in centri particolarmente attivi dal punto di vista agricolo. L’aspetto di queste monete assunse una tipologia fissa: sul recto, un’immagine del sovrano del momento, con ricci fermati da un diadema e il profilo
invariabilmente rivolto a destra, come era stato per Alessandro; sul verso, un’immagine di Apollo, identificato da lettere greche. 23 La lingua greca si poteva sentire – e vedere – in tutta l’Asia centrale e la valle dell’Indo. Ad Ai Khanoum, una nuova città fondata da Seleuco nell’Afghanistan settentrionale, su un monumento erano incise massime provenienti da Delfi, come le seguenti: Da fanciullo, sii beneducato. Da giovane, padrone di te stesso. Nel mezzo della vita, retto. Da anziano, saggio. Alla tua morte, senza tristezza. 24
Il greco era di uso quotidiano da parte dei funzionari oltre un secolo dopo la morte di Alessandro, come dimostrano ricevute delle tasse e documenti relativi alla paga dei soldati provenienti dalla Battriana e risalenti all’incirca al 200 a.C. 25 In effetti, la lingua greca penetrò a fondo nel subcontinente indiano. Alcuni degli editti promulgati dall’imperatore Maurya Ashoka, il più grande degli antichi sovrani indiani, erano formulati con traduzioni greche parallele, evidentemente a beneficio della popolazione locale. 26 La vivacità dello scambio culturale nel momento in cui Europa e Asia entravano in collisione era sorprendente. Statue del Buddha cominciarono ad apparire soltanto dopo che il culto di Apollo si fu affermato nella valle di Gandhara e nell’India occidentale. I buddhisti si sentivano minacciati dal successo delle nuove pratiche religiose e iniziarono a elaborare una propria iconografia. In effetti, la correlazione non riguarda soltanto la cronologia delle statue più antiche del Buddha, ma anche il loro aspetto e il loro disegno: sembra che sia stato Apollo a fornire il modello, a riprova dell’entità dell’impatto delle influenze greche. Fino ad allora i buddhisti si erano intenzionalmente astenuti dalle rappresentazioni visive, ma adesso la concorrenza li costringeva a reagire, a prendere a prestito e a innovare. 27 Altari di pietra adorni di iscrizioni greche, immagini di Apollo e
mirabili miniature in avorio raffiguranti Alessandro e provenienti da quello che oggi è il Tagikistan meridionale rivelano quanto lontano fossero giunte le influenze occidentali. 28 Altrettanto fecero le idee di una presunta superiorità della cultura proveniente dal Mediterraneo. I greci d’Asia, per esempio, godevano di vasto credito in India per la loro abilità nelle scienze: «Sono barbari,» afferma il testo noto come Gārgī Samhitā «ma la scienza dell’astronomia proviene da loro e per questo devono essere riveriti come dèi.» 29 Secondo Plutarco, Alessandro volle essere certo che la teologia greca venisse insegnata fino in India, con il risultato che gli dèi dell’Olimpo erano venerati in tutta l’Asia. L’istruzione dei giovani, in Persia e altrove, prevedeva la lettura di Omero e «la recitazione delle tragedie di Sofocle ed Euripide», mentre la lingua greca veniva studiata nella valle dell’Indo. 30 Questo forse spiega perché siano stati ipotizzati prestiti tra grandi opere letterarie. Si è sostenuto, per esempio, che il poema epico sanscrito Rāmāyana abbia un debito nei confronti dell’Iliade e dell’Odissea: il tema del ratto di Sita da parte di Rāvaṇa, infatti, sarebbe un’eco diretta della fuga di Elena con Paride di Troia. Influssi e ispirazione procedettero anche in direzione opposta, tanto che alcuni studiosi affermano che l’Eneide risentì a sua volta delle influenze di testi indiani, quali il Mahābhārata. 31 Idee, temi e storie circolavano lungo le strade maestre, divulgati da viaggiatori, mercanti e pellegrini: le conquiste di Alessandro crearono le condizioni per l’ampliamento dell’orizzonte mentale delle popolazioni dei paesi conquistati, nonché di quelli limitrofi e non solo, che vennero a contatto con nuove idee, nuove immagini e nuovi concetti. Anche le culture delle steppe selvagge subirono queste influenze, come attestano inequivocabilmente gli splendidi oggetti funerari, sepolti accanto a personaggi d’alto lignaggio, che sono stati rinvenuti nelle tombe di Tilya Tepe, nell’Afghanistan settentrionale, in cui sono visibili le ascendenze dell’arte greca, oltre che siberiana e indiana, e di quella di regioni più lontane. Gli oggetti di lusso venivano importati nel mondo nomade in cambio di bestiame e cavalli, e a volte come tributo pagato in cambio della pace. 32
L’inserimento delle steppe in un mondo interdipendente e interconnesso fu accelerato dalle crescenti ambizioni della Cina. Sotto la dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.), ondate espansive avevano spinto le frontiere sempre più avanti, fino a raggiungere una provincia all’epoca chiamata Xiyu (Regioni Occidentali), ma oggi nota come Xinjiang (Nuova Frontiera). Questa provincia si trovava oltre il corridoio del Gansu, una strada lunga circa 1000 chilometri che collegava l’interno della Cina con la città-oasi di Dunhuang, un crocevia sul margine del deserto di Taklamakan. A questo punto si proponeva una scelta tra una via settentrionale e una meridionale, che potevano essere entrambe infide, e che convergevano a Kashgar, a sua volta posta nel punto di congiunzione tra l’Himalaya, i monti del Pamir, la catena del Tian Shan e l’Hindu Kush. 33 L’ampliamento di orizzonti della Cina ebbe l’effetto di connettere fra loro tutte le regioni dell’Asia. Quelle reti di collegamento erano state fino ad allora bloccate dagli Yuezhi e soprattutto dagli Xiongnu, tribù nomadi che, come gli sciti nell’Asia centrale, erano fonte di costante preoccupazione, ma anche importanti partner nel commercio del bestiame: autori Han del II secolo a.C. scrivevano di decine di migliaia di capi acquistati presso i popoli delle steppe. 34 Ma era la domanda cinese di cavalli a essere pressoché insaziabile, alimentata com’era dall’esigenza di mantenere un’efficiente forza militare di riserva per assicurare l’ordine interno e dalla necessità di reagire agli attacchi e alle incursioni degli Xiongnu o di altre tribù. I cavalli della regione occidentale dello Xinjiang erano molto apprezzati, e potevano essere fonte di ricchezza per i capi tribali. In un’occasione, un capo Yuezhi scambiò dei cavalli con una grossa partita di merci che poi rivendette ad altri, decuplicando il suo investimento. 35 Le cavalcature più famose e pregiate erano allevate nella valle di Fergana, sull’altro versante della spettacolare catena montuosa del Pamir, situata fra l’attuale Tagikistan orientale e l’Afghanistan nordorientale. Molto ammirati per la loro forza, questi animali sono descritti da autori cinesi come generati da draghi, e chiamati hanxue ma, ossia «che sudano sangue»: questo per effetto della loro caratteristica sudorazione rossa, provocata da un parassita locale o dal
fatto che i cavalli avevano una pelle insolitamente sottile e quindi, sotto sforzo, erano soggetti all’esplosione dei vasi sanguigni. Alcuni esemplari particolarmente belli divennero vere e proprie celebrità, soggetti di poesie, sculture e pitture, spesso citati come tianma, «cavalli divini» o «celesti». 36 Alcuni venivano addirittura portati con i loro proprietari nell’aldilà: un imperatore fu sepolto accanto a ottanta dei suoi destrieri preferiti, e a vegliare sulla tomba c’erano le statue di due stalloni e di un guerriero di terracotta. 37 I rapporti con gli Xiongnu, che spadroneggiavano nelle steppe della Mongolia e nelle praterie della Cina settentrionale, non erano sempre facili. Gli storici dell’epoca descrivevano la tribù come barbara, avvezza a mangiare carne cruda e a bere sangue; veramente, diceva un autore, sono un popolo che «è stato abbandonato dal cielo». 38 I cinesi si mostravano disposti a pagare un tributo pur di non rischiare attacchi alle loro città. A visitare i nomadi (abituati dall’infanzia a cacciare ratti e uccelli, e poi volpi e lepri), l’imperatore inviava regolarmente suoi messi, tramite i quali chiedeva cortesemente notizie sulla salute del capo supremo. 39 Si sviluppò così un sistema formale di tributi mediante il quale il sovrano cinese riforniva i nomadi di beni di lusso, tra cui riso, vino e tessuti, in cambio della pace. L’articolo più importante che veniva consegnato era la seta, un tessuto cui i nomadi attribuivano grande valore per la sua fibra e la sua leggerezza, che lo rendevano ideale per la biancheria da letto e per foderare gli indumenti. La seta era anche un simbolo di potere politico e sociale: essere avvolti in voluminosi strati di seta preziosa era per il chanyu (il capo supremo delle tribù nomadi) un modo importante per sottolineare il proprio rango e gratificare coloro che gli stavano attorno. 40 Le somme pagate in cambio della pace erano ingenti. Nell’1 a.C., per esempio, agli Xiongnu furono consegnati 30.000 rotoli di seta e un’analoga quantità di materiale grezzo, oltre a 370 capi di vestiario. 41 Ad alcuni funzionari cinesi piaceva credere che l’amore della tribù per il lusso ne avrebbe segnato la rovina. «Adesso [avete] questa passione per le cose cinesi» disse sfacciatamente un inviato a un capo tribale. I costumi degli Xiongnu, sostenne, stavano cambiando. La Cina,
predisse con sicurezza, «alla fine riuscirà a prevalere sull’intera nazione Xiongnu». 42 Ma era solo un pio desiderio. In realtà, la diplomazia che manteneva la pace e i buoni rapporti aveva un costo sia finanziario sia politico: pagare un tributo era dispendioso ed era anche un segno di debolezza. Così, a tempo debito, i sovrani cinesi della dinastia Han decisero di affrontare gli Xiongnu una volta per tutte. Innanzitutto concentrarono gli sforzi per assumere il controllo delle regioni occidentali dello Xiyu, che vantavano una ricca agricoltura; i nomadi furono ricacciati indietro a mano a mano che i cinesi si impadronivano del corridoio del Gansu, in una serie decennale di campagne che terminarono nel 119 a.C. A ovest c’erano i monti del Pamir e, al di là, un nuovo mondo. La Cina aveva aperto una porta che conduceva a una rete transcontinentale: fu quello il momento della nascita delle Vie della Seta. L’espansione cinese produsse un’ondata di interesse per ciò che c’era al di là. Funzionari imperiali furono incaricati di indagare e redigere rapporti sulle regioni oltre le montagne. Uno di questi è giunto fino a noi sotto forma di Shi Ji (Memorie storiche). A scriverlo fu Sima Qian, figlio del Grande Storico (Taishi) della corte imperiale, il quale continuò a lavorarvi anche dopo essere caduto in disgrazia ed essere stato castrato per aver osato difendere un giovane generale impetuoso che aveva condotto le truppe alla sconfitta. 43 Sima Qian espose accuratamente quanto era riuscito a scoprire sulla storia, l’economia e gli eserciti dei popoli della valle dell’Indo, della Persia e dell’Asia centrale. I regni dell’Asia centrale erano deboli, osservò, a causa della pressione esercitata dai nomadi, costretti a spostarsi dalle forze cinesi che in quel momento avevano rivolto la loro attenzione altrove. Gli abitanti di questi regni erano «mediocri nell’uso delle armi,» scrisse «ma abili nel commercio», e nella capitale Battria c’erano fiorenti mercati «ove si comprano e si vendono merci di ogni sorta». 44 Il commercio tra la Cina e il mondo dall’altra parte si sviluppò lentamente. Percorrere le strade lungo il margine del deserto del Gobi non era semplice, soprattutto oltre la Porta di Giada, il posto di
frontiera oltre il quale le carovane dei mercanti iniziavano il loro viaggio verso ovest. Procedere da un’oasi all’altra attraverso un territorio infido era difficoltoso, sia che si passasse dal deserto di Taklamakan sia che ci si dirigesse ai passi dei monti Tian Shan o del Pamir. Si dovevano sopportare temperature estreme, e questa era una delle ragioni per cui il cammello battriano era così apprezzato. Abbastanza robusti da sfidare le dure condizioni del deserto, osservava un autore, questi animali avvertono in anticipo le letali tempeste di sabbia, e «immediatamente si raccolgono insieme digrignando i denti», il che segnala ai mercanti e ai capicarovana la necessità di «coprirsi naso e bocca avvolgendoli nel feltro». Ma il cammello era ovviamente fallibile come banderuola: le fonti parlano di grandi quantità di carcasse e di scheletri lungo le strade. 45 In condizioni così estreme, le ricompense dovevano essere molto elevate perché valesse la pena correre tutti quei rischi. Sebbene nei mercati della Battriana, a migliaia di chilometri di distanza, si potessero trovare in vendita anche il bambù e il panno del Sichuan, a essere trasportate in viaggi così lunghi erano soprattutto le merci rare e preziose. 46 Ma il commercio più importante in assoluto era quello della seta, che nel mondo antico svolgeva un certo numero di funzioni di rilievo, a parte il valore che aveva per le tribù nomadi. Sotto la dinastia Han, la seta era usata, accanto alle monete e alle granaglie, per pagare le truppe. Era infatti, per certi versi, la valuta più affidabile: la produzione di denaro in quantità sufficienti era un problema, come lo era il fatto che non tutta la Cina fosse pienamente avvezza alle monete; il che costituiva una particolare difficoltà quando si trattava di pagare i soldati, dal momento che i teatri d’azione erano spesso in regioni remote, dove le monete erano quasi del tutto inutili. Le granaglie, a loro volta, dopo qualche tempo marcivano. Di conseguenza, rotoli di seta grezza venivano regolarmente utilizzati come valuta, sia per le paghe, sia, per esempio nel caso di un monastero buddhista nell’Asia centrale, come una sorta di ammenda per i monaci che avevano violato le regole dell’istituzione. 47 La seta divenne così una valuta internazionale, oltre che un prodotto di lusso.
Per regolare il commercio, i cinesi crearono una struttura formale finalizzata al controllo dei mercanti che giungevano da territori esterni. Una straordinaria raccolta di 35.000 testi provenienti dalla città di presidio di Xuanquan, non lontana da Dunhuang, dipinge un quadro vivido della vita quotidiana in una cittadina posta all’altezza della strozzatura del corridoio del Gansu. Da questi documenti, scritti su tavolette di bambù o di legno, apprendiamo che i visitatori che entravano in Cina dovevano attenersi a percorsi ben definiti, venivano forniti di lasciapassare scritti e regolarmente contati dai funzionari per garantire che tutti coloro che entravano nel paese, alla fine rientrassero in patria. Per ogni visitatore si teneva una sorta di registro, analogo a una moderna scheda-cliente di un albergo, in cui si annotava quanto spendeva per il cibo, il luogo d’origine, la qualifica e la meta. 48 Queste misure non vanno interpretate come una forma di sospettosa sorveglianza, bensì come un mezzo per prendere accuratamente nota di chi entrava in Cina e di chi ne usciva, così come di ciò che i visitatori facevano, e soprattutto per registrare a fini doganali il valore delle merci acquistate e vendute. Il carattere evoluto delle tecniche e la loro precoce applicazione rivelano come le corti imperiali di Chang’an (la moderna Xi’an) e, dal I secolo d.C., di Luoyang facessero i conti con un mondo che sembrava restringersi davanti ai loro occhi. 49 Noi pensiamo alla globalizzazione come a un fenomeno esclusivamente moderno; eppure, anche 2000 anni fa era un dato di fatto, che presentava opportunità, creava problemi e ispirava progressi tecnologici. Casualmente, eventi verificatisi a migliaia di chilometri di distanza ebbero l’effetto di stimolare la domanda di generi di lusso e, insieme, la capacità di soddisfarla. In Persia i discendenti di Seleuco furono deposti intorno al 247 a.C. da un certo Arsace, uomo di oscure origini. I suoi successori, noti come Arsacidi, consolidarono la loro posizione di potere e poi provvidero a estenderlo, espropriando abilmente la storia per fondere idee greche e persiane in una nuova identità sempre più coerente e robusta. Il risultato fu un periodo di stabilità e di
prosperità. 50 Ma fu quanto stava accadendo nel Mediterraneo a fornire lo stimolo in assoluto più rilevante. Una piccola cittadina dell’Italia centro-occidentale era lentamente riuscita, malgrado la posizione geografica poco promettente, a trasformarsi da luogo isolato e provinciale in una potenza regionale. Impadronendosi delle città-Stato costiere l’una dopo l’altra, Roma giunse a dominare il Mediterraneo occidentale. Verso la metà del I secolo a.C. le sue ambizioni si stavano dilatando a dismisura. E l’attenzione era decisamente concentrata sull’Oriente. Roma era diventata uno Stato profondamente competitivo, che glorificava l’esercito e acclamava la violenza e l’omicidio. I combattimenti di gladiatori erano la base del divertimento pubblico, la sede in cui si celebrava brutalmente la supremazia sui popoli stranieri e sulla natura. Archi di trionfo sparsi in tutta la città servivano a ricordare quotidianamente alla sua popolazione indaffarata le vittorie sui campi di battaglia. Il militarismo, il coraggio e l’amore per la gloria erano assiduamente coltivati come tratti distintivi di una città ambiziosa la cui sfera d’azione si stava estendendo sempre più. 51 La colonna portante del potere romano era l’esercito, selezionato e addestrato secondo criteri estremamente rigidi. I soldati dovevano essere in grado di percorrere marciando oltre 30 chilometri in cinque ore, portando al contempo con sé almeno 20 chilogrammi di equipaggiamento. Il matrimonio non era soltanto disapprovato ma espressamente proibito per mantenere saldo il legame fra le reclute. Reparti di giovani altamente addestrati, forti e motivati, educati alla fiducia nelle proprie capacità e alla certezza del proprio destino, erano la roccia su cui Roma era edificata. 52 La conquista della Gallia (una regione corrispondente all’incirca alla moderna Francia, ai Paesi Bassi e a parte della Germania occidentale), nel 52 a.C., procurò un bottino così ingente da determinare una correzione del prezzo dell’oro. 53 Ma in Europa c’erano ben pochi altri posti da conquistare, e solo alcuni di essi sembravano promettenti. A fare grandi gli imperi era il gran numero di città che producevano redditi tassabili, e a renderli culturalmente
spettacolari erano gli artigiani e i maestri d’arte che sviluppavano nuove idee sotto lo stimolo di facoltosi committenti che si contendevano le loro prestazioni e li ricompensavano per le loro capacità. Era improbabile che luoghi come la Britannia aumentassero i proventi in denaro ricavati da Roma dai territori sotto il suo controllo: come attestano le lettere su tavolette d’ardesia inviate a casa dai soldati che vi erano di stanza, questa provincia era sinonimo di tetro e sterile isolamento. 54 Ma la trasformazione di Roma in un impero ebbe poco a che fare con l’Europa, o con la prospettiva di assumere il controllo di un continente scarsamente fornito del genere di risorse e di città che attiravano consumatori e contribuenti. Ciò che la sospinse in una nuova era fu la scelta di rivolgere l’attenzione verso il Mediterraneo orientale e le terre al di là di esso. Il successo e la gloria di Roma derivarono dalla conquista dell’Egitto in primo luogo, e poi dall’aver gettato l’àncora a oriente, in Asia. Retto per quasi 300 anni dai discendenti di Tolomeo, una delle guardie del corpo di Alessandro Magno, l’Egitto aveva accumulato una ricchezza favolosa basata sul Nilo, le cui inondazioni garantivano prodigiosi raccolti di cereali. La produzione era così abbondante da soddisfare il fabbisogno della popolazione locale e, nel contempo, da fornire una notevole eccedenza, che permise alla città di Alessandria, alla foce del fiume, di svilupparsi fino a diventare «la più grande del mondo». Così la definì un autore dell’epoca, il quale stimava che nel I secolo a.C. la sua popolazione ammontasse a circa 300.000 abitanti. 55 Le spedizioni di cereali erano attentamente sorvegliate, tanto che i capitani, ogni volta che riempivano le loro chiatte, dovevano prestare un giuramento di fedeltà al sovrano, dopodiché veniva loro rilasciata una ricevuta da parte di un rappresentante dello scriba reale. Soltanto allora poteva avvenire il carico delle granaglie. 56 Roma guardava da tempo con bramosia all’Egitto, e colse al volo l’occasione quando la regina Cleopatra fu coinvolta in una confusa lotta per la supremazia politica in seguito all’assassinio di Giulio Cesare. Dopo aver disastrosamente condiviso la sorte di Marco Antonio nella battaglia di Azio nel 31 a.C., la sovrana d’Egitto si trovò
ben presto a fronteggiare un esercito romano che, al comando di Ottaviano, maestro di astuzia politica, avanzava rapidamente verso Alessandria. Dopo una serie di scelte tattiche difensive che combinavano profonda negligenza e grossolana incompetenza, Cleopatra si suicidò, forse ricorrendo al morso di un serpente velenoso, o forse ingerendo volontariamente una tossina. L’Egitto cadde come un frutto maturo. 57 Partito da Roma da generale, Ottaviano vi tornò come signore supremo, con un nuovo titolo che di lì a poco un Senato riconoscente gli avrebbe accordato: Augusto. Roma era diventata un impero. La conquista dell’Egitto cambiò il destino di Roma. Ora che controllava gli enormi raccolti della valle del Nilo, il prezzo delle granaglie crollò, dando una grossa spinta alla capacità di spesa delle famiglie. I tassi d’interesse precipitarono, passando da circa il 12 per cento al 4, il che, a sua volta, alimentò rapidamente il consueto boom che accompagna un flusso di capitale a buon mercato, con conseguente impennata dei prezzi delle proprietà. 58 Il reddito disponibile aumentò così bruscamente che Ottaviano Augusto riuscì a elevare del 40 per cento la soglia finanziaria minima per l’accesso al Senato. 59 Come lui stesso amava vantare, aveva trovato una Roma di mattoni e ne lasciava una di marmo. 60 Questo aumento della ricchezza era effetto della spietata espropriazione delle entrate fiscali dell’Egitto e delle sue enormi risorse. Squadre di agenti delle tasse batterono l’intero paese per imporre una nuova capitazione, che doveva essere pagata da tutti gli uomini di età compresa fra i sedici e i sessant’anni. Esenzioni erano concesse solo in qualche caso particolare: per esempio, ai sacerdoti, che però riuscivano a evitare il pagamento soltanto dopo che i loro nomi erano stati accuratamente registrati negli archivi dei templi. 61 Ciò faceva parte di un sistema che uno studioso ha definito «antico apartheid», il cui scopo era di massimizzare il flusso di denaro diretto a Roma. 62 Il processo di appropriazione delle entrate fu ripetuto altrove, via via che si estendevano i tentacoli dell’espansione economica e militare romana. Non molto tempo dopo l’annessione dell’Egitto, funzionari
delle imposte furono inviati in Giudea a condurre un censimento, ancora una volta per assicurarsi che le tasse fossero calcolate con precisione. Ammettendo che venisse applicato il medesimo modello utilizzato in Egitto, che richiedeva la registrazione di tutte le nascite e le morti, nonché dei nomi di tutti gli adulti maschi, la nascita di Gesù Cristo sarebbe stata registrata da un funzionario interessato non tanto a chi fossero il bambino e i suoi genitori, quanto a ciò che essa rappresentava per l’impero in termini di aumento della manodopera e del numero di futuri contribuenti. 63 L’incontro con l’Oriente aprì gli occhi a Roma. L’Asia era già famosa per il lusso indolente e la vita raffinata. Ed era indescrivibilmente ricca, scriveva Cicerone: i suoi raccolti erano materia di leggenda, la varietà dei suoi prodotti incredibile, le dimensioni delle sue mandrie e greggi semplicemente formidabili, le sue esportazioni colossali. 64 Tale era la ricchezza dell’Asia che, secondo i romani, i suoi abitanti potevano permettersi di dedicarsi all’ozio e al piacere. Non stupisce che fosse in Oriente che i soldati romani diventarono adulti, scrisse lo storico Sallustio: fu là, infatti, che impararono a fare l’amore, a ubriacarsi, ad apprezzare le statue, i dipinti e l’arte. Ma non era certo una cosa positiva, almeno secondo Sallustio. L’Asia poteva essere «amena e piena di delizie», ma i suoi piaceri «avevano facilmente snervato nell’ozio l’animo fiero dei soldati». 65 Presentato in questo modo, l’Oriente era l’antitesi di tutto ciò che la Roma austera e marziale incarnava. Augusto stesso fece uno sforzo organico per comprendere cosa ci fosse oltre le nuove frontiere dell’Est. Corpi di spedizione furono inviati nel regno di Axum, nella moderna Etiopia, e nel regno sabeo dell’attuale Yemen, mentre veniva esplorato il golfo di Aqaba, quando ancora il dominio romano in Egitto era in corso di consolidamento. 66 Poi, nell’1 a.C., Augusto ordinò che venisse condotta su entrambe le sponde del golfo Persico un’indagine particolareggiata che desse notizie del commercio in questa regione e delle rotte marittime di collegamento con il mar Rosso. Inoltre sovrintese allo studio delle vie di terra che conducevano nell’interno dell’Asia centrale attraverso la Persia. Più o meno in questo periodo fu scritto un testo noto come
Stathmoí Parthikoí (Le stazioni della Partia), che registrava le distanze fra punti di particolare rilievo in Oriente, e descriveva in dettaglio le più importanti località dell’Est, dall’Eufrate fino ad Alessandria d’Arachosia, la moderna Kandahar. 67 Nel frattempo gli orizzonti dei mercanti si dilatavano notevolmente. Secondo lo storico e geografo Strabone, solo qualche anno dopo la conquista dell’Egitto, 120 navi romane salpavano annualmente alla volta dell’India dal porto di Myos Hormos, sul mar Rosso. L’interscambio commerciale con l’India, più che avviarsi, ebbe un’impennata, come risulta da una documentazione archeologica straordinariamente ricca distribuita nel subcontinente. Anfore romane, lampade, specchi e statue di divinità sono stati rinvenuti in un’ampia gamma di siti, tra cui Pattanam, Kolhapur e Coimbatore. 68 I ritrovamenti di monete risalenti all’epoca di Augusto e dei suoi successori sulla costa occidentale dell’India e sulle isole Laccadive sono talmente abbondanti che alcuni storici hanno ipotizzato che i sovrani locali utilizzassero le monete d’oro e d’argento romane come valuta, o che le facessero fondere per riutilizzarne i metalli. 69 La letteratura tamil di quel periodo racconta una storia simile, ricordando con eccitazione l’arrivo dei mercanti romani. Un poema parla di «vino fresco e fragrante» trasportato su «buone navi» dai romani, mentre un altro ha toni entusiastici: «Le splendide grandi navi … arrivano, portando oro, spruzzando la bianca schiuma sulle acque del fiume, e poi fanno ritorno cariche di pepe. Qui la musica del mare ondeggiante non cessa mai, e il gran re dona ai visitatori i rari prodotti del mare e della montagna.» 70 Un’altra fonte fornisce una descrizione lirica dei mercanti europei che si stabilivano in India: «Il sole splende sulle terrazze aperte, sui magazzini nei pressi del porto e sulle torri dalle finestre come occhi di cerbiatto. In vari punti … l’attenzione dell’osservatore è attratta dalla vista delle residenze [degli occidentali], la cui prosperità non venne mai meno». 71 Gli Stathmoí Parthikoí rivelano quali merci i romani volessero dall’India occidentale, specificando dove i mercanti potessero acquistare minerali pregiati, quali stagno, rame e piombo, oltre che topazio, e dove si potessero facilmente reperire avorio, gemme preziose e
spezie. 72 Il commercio con i porti dell’India non era però limitato ai prodotti tipici del subcontinente. Come hanno mostrato gli scavi nel porto di Berenice, sulla costa egiziana del mar Rosso, una gamma di merci provenienti da paesi lontani come il Vietnam e Giava veniva avviata verso il Mediterraneo. 73 Tutti i porti dell’India, sulla costa ovest e su quella est, fungevano da empori per merci provenienti da tutta l’Asia orientale e sudorientale, pronte a essere spedite in Occidente. 74 Poi c’erano le merci e i prodotti del mar Rosso, un’area commerciale già di per sé molto vivace, che costituiva una sorta di punto di collegamento tra il Mediterraneo, l’oceano Indiano e mercati ancora più lontani. 75 I ricchi cittadini romani potevano ormai soddisfare i gusti più esotici e stravaganti. Commentatori che ben conoscevano questi ambienti lamentavano che tali spese rasentavano l’oscenità e denunciavano le ostentazioni di eccessi alla moda. 76 Questo aspetto è colto in modo esemplare dal Satyricon di Petronio, la cui scena più famosa è la cena di Trimalcione, un ex schiavo che aveva ottenuto la libertà e aveva accumulato una fortuna. La satira è pungente nel ritrarre i gusti dei nuovi super-ricchi. Trimalcione voleva soltanto il meglio che il denaro potesse procurare: fagiani importati appositamente dalla costa orientale del mar Nero, faraone provenienti dall’Africa, pesci rari e costosi, pavoni piumati e molto altro ancora, il tutto dispensato in quantità smisurata. La rappresentazione grottesca della sequenza delle portate – uccelli vivi cuciti dentro un maiale intero, che volavano via al momento in cui se ne trinciava la coscia, oppure stuzzicadenti d’argento che venivano offerti agli ospiti – era una spietata parodia della volgarità e degli eccessi dei parvenu romani. Uno dei massimi boom dell’antichità produsse una delle grandi espressioni letterarie di aspro risentimento nei confronti dei nuovi ricchi. 77 La nuova prosperità mise Roma e i suoi abitanti in contatto con nuovi mondi e nuovi gusti. Il poeta Marziale esprime il cosmopolitismo e l’ampliamento dei confini della conoscenza geografica, tipici di questo periodo, in un epicedio dedicato a una giovane schiava, paragonandola a un giglio mai toccato, a levigato
avorio indiano, a una perla del mar Rosso, e decantando i suoi capelli più fini della lana spagnola o delle trecce delle donne renane. 78 Se prima le coppie che volevano concepire bei bambini facevano sesso circondandosi di immagini erotiche, «adesso», riferiva inorridito un autore ebreo, «prendono degli schiavi israeliti e li legano ai piedi del letto» per trarne ispirazione, e perché se lo possono permettere. 79 Non tutti subivano il fascino dei nuovi gusti: il Tevere era stato sopraffatto dalle acque dell’Oronte, il fiume che scorre tra la Siria e la Turchia meridionale, lamentava Giovenale nelle sue Satire: in altre parole, la decadenza asiatica aveva distrutto le virtù romane del passato. «Andateci voi tutti,» scriveva, «cui piace una puttana barbara dalla mitria ricamata!» 80 Per alcuni osservatori di tendenza conservatrice, vero e proprio motivo di scandalo era la comparsa di una merce in particolare: la seta cinese. 81 I tradizionalisti erano costernati per la sua crescente disponibilità nel Mediterraneo. Seneca, per esempio, era inorridito dalla popolarità di cui godeva questo tessuto soffice e scorrevole, e affermava che gli indumenti di seta a stento potevano essere chiamati vestiti, dato che non nascondevano né le curve né la decenza delle matrone romane. Il fondamento stesso dei rapporti coniugali ne era minato, sosteneva, poiché gli uomini scoprivano di poter vedere attraverso il tessuto leggero che aderiva alle forme femminili e lasciava ben poco all’immaginazione. Per Seneca, la seta era semplicemente un simbolo di esotismo ed erotismo. Una donna non poteva affermare in coscienza di non essere nuda quando portava abiti di seta. 82 E non doveva essere il solo a pensarla così, visti i ripetuti tentativi compiuti, anche a mezzo di editti, per proibire agli uomini di indossare questo tessuto. Alcuni mettevano la cosa in termini più semplici: era vergognoso, convenivano due autorevoli cittadini, che uomini romani considerassero accettabile ostentare indumenti di seta provenienti dall’Oriente. 83 Altri, invece, erano preoccupati della diffusione della seta per ragioni di tipo diverso. Nella seconda metà del I secolo d.C. Plinio il Vecchio era contrariato per il costo elevato di un tessuto di lusso che
serviva soltanto a consentire «a una nostra matrona … di presentarsi in pubblico con vesti trasparenti». 84 I prezzi gonfiati, pari a cento volte il valore reale, lamentava, erano uno scandalo. 85 Enormi quantità di denaro, continuava, venivano spese annualmente in generi di lusso di provenienza asiatica «per noi e le nostre donne», cosicché ogni anno non meno di 100 milioni di sesterzi venivano pompati fuori dell’economia romana e in mercati oltrefrontiera. 86 Questa somma sbalorditiva rappresentava circa la metà della produzione annuale della zecca dell’impero, e oltre il 10 per cento del suo bilancio annuale. Ma, sorprendentemente, non sembra frutto di totale esagerazione. Un contratto su papiro scoperto recentemente, che registra i termini di una spedizione di merci tra Muziris, in India, e un porto romano sul mar Rosso, testimonia di quanto regolari fossero diventati intorno al II secolo gli scambi commerciali di grande entità. Il documento definisce gli obblighi reciproci, indica con chiarezza il punto del percorso in cui le merci andavano considerate di spettanza del proprietario o dello spedizioniere e fissa le sanzioni nel caso in cui il pagamento non fosse stato effettuato alla data stabilita. 87 Gli scambi a lunga distanza richiedevano rigore e raffinatezza. I mercanti romani non pagavano soltanto con monete. Barattavano anche vetro finemente lavorato, argento e oro, corallo e topazio del mar Rosso e incenso dell’Arabia, in cambio di tessuti, spezie e tinture quali l’indaco. 88 Qualunque forma assumesse, il deflusso di capitali su una tale scala ebbe conseguenze di vasta portata. Una fu il rafforzamento delle economie locali lungo le vie commerciali. I villaggi si trasformarono in cittadine e le cittadine in città via via che gli affari prosperavano e le reti commerciali e di comunicazione si estendevano diventando sempre più connesse. Monumenti architettonici sempre più imponenti venivano eretti in vari luoghi, per esempio a Palmira, una città ai margini del deserto siriano che operava con successo come centro commerciale di collegamento tra l’Oriente e l’Occidente, guadagnandosi non a caso l’appellativo di «Venezia delle sabbie». 89 In modo analogo furono trasformate le città sull’asse nord-sud, il cui esempio più splendido è Petra, che divenne una delle meraviglie dell’antichità grazie alla sua posizione sulla via
che collegava le città dell’Arabia e il Mediterraneo. Poi c’erano le fiere, che attiravano in idonei crocevia mercanti provenienti da centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Ogni settembre a Batne, presso l’Eufrate, la città si riempiva «di ricchi mercanti … [mentre] affluisce per il mercato una gran folla … per acquistare merci inviate dagli Indi e dai Seri [cioè dalla Cina] e numerosi altri prodotti che di solito vi confluiscono trasportati per terra e per mare». 90 La capacità di spesa di Roma era talmente rilevante che la sua moneta assurse a modello di conio fin nel cuore dell’Asia orientale. Dopo essere stati scacciati dal bacino del Tarim a opera dei cinesi, i nomadi Yuezhi erano riusciti ad assicurarsi una posizione dominante a est della Persia, impadronendosi di domini che erano stati governati dai discendenti dei generali di Alessandro. Con il tempo nacque un impero fiorente, che prese nome da uno dei principali gruppi della tribù – i Guishang o Kushan – e che iniziò a coniare grandi quantità di monete sul modello di quelle romane. 91 La valuta romana affluiva nel territorio Kushan attraverso i porti dell’India settentrionale, come Barbaricum e soprattutto Barygaza, dove l’approdo e l’ancoraggio erano talmente infidi che venivano inviati piloti per guidare le navi in porto. Affrontare l’approdo a entrambi i porti era infatti estremamente pericoloso per chi aveva poca esperienza o poca familiarità con le correnti. 92 Una volta a terra, i mercanti potevano trovare pepe e spezie, oltre che avorio e tessuti, compresa la seta, sia finita sia in filati. L’emporio di Barygaza raccoglieva merci provenienti da tutte le regioni dell’India, dall’Asia centrale e dalla Cina, ed era fonte di straordinaria ricchezza per i Kushan, che controllavano le città delle oasi e le strade carovaniere che le collegavano. 93 La posizione dominante conquistata dai Kushan fece sì che, sebbene le importazioni e le esportazioni dal Mediterraneo alla Cina fossero in crescita, i cinesi svolgessero un ruolo limitato nel commercio con Roma attraverso l’oceano Indiano. Soltanto quando il grande generale Ban Chao condusse una serie di spedizioni che portarono le sue truppe fino al mar Caspio, alla fine del I secolo d.C., fu inviato un messo per raccogliere maggiori informazioni sulla
popolazione «alta e di fattezze regolari» del potente impero a ovest. Il messo riferì che Da Qin – ossia il Grande Qin, com’era chiamato l’impero romano – possedeva grandi scorte d’oro, argento e pregiati gioielli: era una ricca fonte di oggetti meravigliosi e rari. 94 I rapporti della Cina con la Persia divennero regolari e intensi. Missioni diplomatiche venivano inviate diverse volte all’anno, nota una fonte cinese; almeno dieci erano dirette in Persia e, anche nei periodi più tranquilli, cinque o sei venivano mandate a ovest. 95 In genere i messi accompagnavano grandi carovane che trasportavano merci e che poi facevano ritorno in patria con i prodotti che vi erano richiesti, tra cui perle del mar Rosso, giada, lapislazzuli e derrate alimentari quali cipolle, cetrioli, coriandolo, melagrane, pistacchi e albicocche. 96 Incenso e mirra, generi apprezzatissimi, che in realtà provenivano dallo Yemen e dall’Etiopia, erano noti in Cina come Possu, ossia «merci persiane». 97 Come apprendiamo da una fonte più tarda, le pesche di Samarcanda erano considerate immensamente pregiate: «grosse come uova d’oca» e con un colore di meravigliosa intensità, erano note in Cina come le «pesche d’Oro». 98 Così come i cinesi avevano pochi rapporti diretti con Roma, anche nell’area mediterranea la conoscenza del mondo al di là dell’Himalaya e dell’oceano Indiano era limitata: l’unica ambasceria di cui si ha notizia certa è quella inviata all’imperatore Huan intorno al 166 d.C. L’interesse di Roma per l’Estremo Oriente era saltuario e la conoscenza che se ne aveva lacunosa. Gli occhi di Roma erano sempre fissi sulla Persia, 99 che non era soltanto una rivale e concorrente, ma un possibile obiettivo in sé stessa. Quando ancora si stava consolidando il controllo sull’Egitto, i poeti Virgilio e Properzio parlavano in toni eccitati dell’espansione dell’influenza romana. In un carme scritto per encomiare Augusto e i suoi successi, Orazio parla non del dominio romano sul Mediterraneo, ma della supremazia di Roma sul mondo intero, prospettando l’assoggettamento degli indiani e dei cinesi. 100 Per farlo era necessario muovere contro la Persia, e questo divenne un pensiero costante per molti imperatori. Furono elaborati piani grandiosi per spingere le frontiere dell’impero fino al passo montano noto come Porte del Caspio, molto all’interno del
territorio persiano: Roma doveva controllare il centro del mondo. 101 In effetti furono compiuti diversi tentativi per trasformare questi sogni in realtà. Nel 113 l’imperatore Traiano guidò di persona un’enorme spedizione verso oriente. Avanzando rapidamente attraverso il Caucaso per poi svoltare verso sud seguendo il corso dell’Eufrate, conquistò Nisibis e Batne, e coniò monete che proclamavano che la Mesopotamia era stata «assoggettata al potere del popolo romano». Non trovando opposizione, l’imperatore avanzò, dividendo in due le sue forze. Le grandi città dell’impero persiano furono prese una dopo l’altra: Adenystrae, Babilonia, Seleucia e Ctesifonte caddero in mani romane dopo una brillante campagna durata qualche mese. Furono subito coniate delle monete con l’inequivocabile legenda PERSIA CAPTA (la Persia è stata conquistata). 102 Dopodiché Traiano marciò su Charax, la moderna Bassora, all’imboccatura del golfo Persico, arrivandovi proprio mentre una nave mercantile salpava per l’India. Guardò l’imbarcazione con malinconia: se soltanto fosse stato giovane come Alessandro il Grande, pensò, sarebbe arrivato fino all’Indo. 103 Delineati i piani per istituire le nuove province di Assiria e Babilonia, Roma sembrava pronta ad aprire un nuovo capitolo, in cui l’espansione delle proprie frontiere l’avrebbe portata alla valle dell’Indo e fino alle porte della Cina. Ma il successo di Traiano si rivelò effimero: un violento contrattacco era in corso nelle città della Mesopotamia già prima che l’imperatore romano fosse colpito da un edema cerebrale che lo uccise, mentre in Giudea era scoppiata e si era diffusa rapidamente una rivolta, che richiese interventi immediati. Tuttavia, i successori di Traiano mantennero costantemente la Persia al centro della loro attenzione: era là che si concentrava la spesa militare, e quanto accadeva in prossimità di quella frontiera, e anche oltre, era seguito a Roma con il massimo interesse. A differenza di quanto avveniva nelle province europee dell’impero, in Asia gli imperatori conducevano regolarmente campagne militari, anche se non sempre con successo. Nel 260, per esempio, l’imperatore Valeriano fu fatto prigioniero e subì l’umiliazione di essere tenuto «nella più degradante schiavitù»: usato
come sgabello umano per il re persiano, il quale «quando voleva montare … a cavallo ordinava al romano di piegarsi e di porgere la schiena»; alla fine «gli tolsero la pelle e dopo averla svuotata delle viscere la tinsero di rosso; poi la misero in un tempio di divinità barbare a memoria della sua trionfale vittoria e la mostrarono sempre ai nostri legati». 104 Fu imbalsamato cosicché tutti potessero vedere la follia e la vergogna di Roma. Ironia della storia, furono proprio l’espansione e l’ambizione di Roma a dare impulso alla Persia stessa. In primo luogo, quest’ultima trasse grande beneficio dal traffico a lunga distanza tra Oriente e Occidente, il cui effetto fu anche quello di allontanare dal Nord il suo baricentro politico ed economico. In precedenza, la priorità era stata quella di mantenere posizioni in prossimità delle steppe per negoziare con le tribù nomadi le forniture di bestiame e cavalli, nonché per sovrintendere ai contatti diplomatici necessari per evitare attenzioni e richieste sgradite da parte dei temibili popoli che le abitavano. Questa è la ragione per cui città-oasi come Nisa, Abivard e Dara erano diventate importanti, oltre che sedi di splendidi palazzi reali. 105 Con le casse centrali generosamente alimentate dalle tasse e dai dazi di transito forniti dai crescenti traffici locali e a lunga distanza, fu ora possibile mettere mano a importanti progetti infrastrutturali. Tra questi, la trasformazione di Ctesifonte, sulla sponda orientale del Tigri nella Mesopotamia centrale, in una nuova e degna capitale, e massicci investimenti in alcuni porti per gestire i crescenti volumi di traffico marittimo, non tutto destinato a Roma: durante il I e il II secolo si era consolidato un fiorente commercio di ceramica invetriata diretto dalla Persia all’India e allo Sri Lanka. 106 Ma l’effetto più significativo dell’attenzione militare di Roma fu la rivoluzione politica. Sottoposta a un’intensa pressione da parte del suo vicino, la Persia subì un’importante trasformazione. Intorno al 220 emerse una nuova dinastia regnante, quella dei Sasanidi, che portò una visione radicalmente diversa rispetto al passato, fondata sulla sottrazione dell’autorità ai governatori provinciali, diventati ormai indipendenti in tutto e per tutto salvo che nel nome, e sull’accentramento del potere. Attraverso una serie di riforme
amministrative fu rafforzato il controllo su quasi tutti gli aspetti dell’attività statale: innanzitutto, ogni suddito era tenuto a rendere conto del proprio operato, e a tale scopo i funzionari persiani furono dotati di sigilli che consentivano di tenere memoria delle loro decisioni, in modo da poterne ricostruire le responsabilità e da assicurare l’accurata trasmissione delle informazioni. Molte migliaia di sigilli sono giunte fino a noi, dimostrando quanto ampia e profonda sia stata questa riorganizzazione. 107 Mercanti e mercati furono sottoposti a regolamentazione: una fonte documenta come a produttori e commercianti – in molti casi riuniti in corporazioni – venissero assegnate specifiche aree nei bazar, il che agevolò gli ispettori nel compito di garantire che gli standard di qualità e quantità fossero rispettati, e soprattutto di riscuotere in modo efficiente i dazi. 108 L’attenzione all’ambiente urbano e l’assegnazione di appositi spazi per la maggior parte degli scambi commerciali portarono al miglioramento delle reti idriche, che in certi casi furono estese per parecchi chilometri per incrementare le risorse disponibili e fornire opportunità di ulteriore sviluppo urbano. Innumerevoli furono le città fondate in questo periodo: un testo persiano più tardo, ma che attinge a materiale dell’epoca, attesta un’impennata dello sviluppo urbano in tutta l’Asia centrale, l’altopiano iranico, la Mesopotamia e il Vicino Oriente. 109 In Khuzistan e in Iraq, nell’ambito di un sistematico tentativo di incrementare la produzione agricola, furono intrapresi programmi di irrigazione su vasta scala, che sicuramente ebbero un grande effetto sull’abbassamento dei prezzi dei generi alimentari. 110 Evidenze archeologiche dimostrano che gli imballaggi venivano ispezionati prima dell’esportazione, mentre documenti scritti attestano che le copie dei contratti venivano timbrate e conservate negli uffici contabili. 111 Nel frattempo si intensificava il commercio con l’Oriente, anche grazie all’inclusione nella Persia vera e propria di città e territori che erano stati soggetti ai Kushan per buona parte dei due secoli precedenti. 112 Mentre la Persia spiccava il volo, Roma cominciava a traballare, e i Sasanidi non erano l’unico problema, giacché intorno al 300 il confine
orientale dell’impero, che andava dal mare del Nord al mar Nero, dal Caucaso fino alla punta meridionale dello Yemen, era sotto pressione per tutta la sua lunghezza. L’impero romano era stato edificato sull’espansione territoriale ed era protetto da militari ben addestrati. Quando tale sviluppo si affievolì – per effetto del raggiungimento dei confini naturali del Reno e del Danubio, nonché delle catene del Tauro e dell’Antitauro nell’Asia Minore orientale – Roma divenne la classica vittima del suo stesso successo: adesso era a sua volta un bersaglio per coloro che vivevano oltre i suoi confini. Si tentò disperatamente di correggere un preoccupante squilibrio fra il progressivo calo delle entrate fiscali e l’aumento dei costi per la difesa delle frontiere, provocando inevitabili proteste. Un commentatore lamentava che l’imperatore Diocleziano, nel tentativo di affrontare in modo energico il deficit fiscale, creasse problemi più che risolverne, e «con la sua avidità unita alla paura [avesse] sconvolto il mondo». 113 Fu condotto un censimento dettagliato delle risorse dell’impero, preludio alla revisione del sistema fiscale, e furono inviati funzionari in ogni dove, mentre agenti delle imposte comparivano a sorpresa per contare ogni vite e ogni albero da frutta allo scopo di incrementare in qualsiasi modo le entrate imperiali. 114 Fu diffuso per tutto l’impero un editto che fissava i prezzi dei prodotti di base, ma anche delle importazioni di lusso, come semi di sesamo, cumino, rafano e cannella. Un frammento di questa ordinanza, scoperto di recente a Bodrum, mostra fin dove lo Stato stesse cercando di spingersi: non meno di ventisei tipi di calzature, dai sandali da donna dorati alle scarpe «basse ornate in stile babilonese», avevano prezzi massimi fissati dagli ispettori delle imposte della capitale. 115 Alla fine, la tensione per lo sforzo di rifondare l’impero logorò Diocleziano, che si ritirò sulla costa dalmata per rivolgere l’attenzione a questioni più gradevoli degli affari di Stato. «Vorrei che venissi a Salona» scrisse a uno dei suoi ex colleghi «e vedessi i cavoli che ho piantato con le mie mani»; erano così straordinari, continuava, che «non si potrebbe mai essere tentati dalla prospettiva di tornare al potere». 116 Mentre Augusto si era fatto ritrarre nelle vesti di soldato in una famosa e splendida statua rinvenuta a Prima Porta, alla periferia
di Roma, Diocleziano preferiva presentarsi come un coltivatore. In ciò si riassumeva il mutamento delle ambizioni di Roma nel corso di 300 anni: dal proposito di espandersi fino all’India a quello di coltivare ortaggi da primato. Sotto lo sguardo preoccupato dei romani si stava addensando un’imponente nube temporalesca. Fu l’imperatore Costantino a prendere l’iniziativa. Figlio di uno degli uomini più potenti dell’impero, era ambizioso e abile, con la dote di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Costantino aveva un’idea precisa di ciò che era necessario per Roma, un’idea tanto chiara quanto stupefacente. L’impero aveva bisogno di una forte guida, il che era ovvio per chiunque. Ma il suo progetto era più radicale di una semplice concentrazione del potere nelle sue mani: si trattava di costruire una nuova città, una nuova perla da inserire sul filo che connetteva il Mediterraneo con l’Oriente. La posizione che scelse, appropriatamente, era il punto in cui Europa e Asia s’incontrano. Da molto tempo si vociferava che i sovrani di Roma meditassero di spostare la sede del potere imperiale. Secondo un autore romano, Giulio Cesare aveva preso in considerazione l’idea di trasferire la capitale dell’impero ad Alessandria o sul sito dell’antica Troia, in Asia Minore, dal momento che questi luoghi erano in posizione più favorevole per esercitare l’attività di governo là dove gravitavano gli interessi di Roma. 117 Tali progetti divennero realtà all’inizio del IV secolo, quando al crocevia tra Europa e Asia fu fondata una magnifica città che era la dichiarazione di dove fosse il centro dell’attenzione dell’impero. Una splendida nuova metropoli fu costruita sulle rive del Bosforo, sul sito dell’antica città di Bisanzio, e con il tempo giunse non soltanto a rivaleggiare con Roma, ma a superarla. Furono costruiti immensi palazzi, e anche un ippodromo per le corse di carri. Nel centro della città fu eretta un’enorme colonna, ricavata da un unico blocco di porfido massiccio, sormontata da una statua dell’imperatore che guardava verso il basso. La città fu chiamata «Nuova Roma», ma ben presto divenne nota come città eponima del suo fondatore, ossia
«Costantinopoli». Furono introdotte istituzioni parallele che erano la copia di quelle della città madre, compreso un Senato i cui membri – figli di ramai, addetti ai bagni, salumieri e simili – erano scherniti da alcuni come nuovi ricchi. 118 Costantinopoli doveva diventare la più grande e importante città del Mediterraneo, eclissando di gran lunga per dimensioni, influenza e rilevanza le sue pari. Molti studiosi moderni respingono l’idea che Costantino concepisse la città come una nuova capitale imperiale, ma le ingenti risorse spese per la sua costruzione parlano da sole. 119 Costantinopoli era situata in una posizione dominante rispetto ad altre direttrici sensibili, non ultima quella del traffico marittimo in entrata e in uscita dal mar Nero, ed era anche un punto d’ascolto ideale per gli sviluppi in corso a est e a nord, nei Balcani e verso le pianure della Pannonia, dove si preparavano turbolenze. Nell’antichità, per la stragrande maggioranza della popolazione gli orizzonti erano decisamente locali, e il commercio e l’interazione tra le persone si svolgevano su brevi distanze. Ciononostante le reti di comunicazione si intrecciavano tra loro creando un mondo complesso, dove gusti e idee erano plasmati da prodotti, influssi e canoni artistici nati a migliaia di chilometri di distanza. Duemila anni fa, indumenti di seta fatti a mano in Cina venivano indossati dai ricchi e potenti di Cartagine e di altre città del Mediterraneo, così come in Inghilterra e nel golfo Persico si poteva trovare vasellame prodotto nella Francia meridionale. Spezie e aromi coltivati in India venivano utilizzati nelle cucine dello Xinjiang, così come in quelle di Roma. Edifici dell’Afghanistan settentrionale recavano iscrizioni in greco, mentre cavalli dell’Asia centrale venivano montati con fierezza migliaia di chilometri più a est. Possiamo immaginare la vita di una moneta d’oro di venti secoli fa, magari coniata in una zecca provinciale e utilizzata da un giovane soldato, che l’aveva ricevuta come parte della paga, per comprare merci alla frontiera settentrionale dell’Inghilterra; tornata poi a Roma nei forzieri di un funzionario imperiale inviato a riscuotere tasse, e quindi passata nelle mani di un mercante diretto a est, e infine impiegata per acquistare prodotti da commercianti venuti a vendere le
proprie provviste a Barygaza. Là veniva ammirata e offerta a capi dell’Hindu Kush i quali, incantati dal suo disegno, dalla sua forma e dalle sue dimensioni, la davano da copiare a un incisore… magari di Roma, o della Persia o dell’India o della Cina, oppure anche uno del posto che aveva imparato l’arte del conio. Anche quello antico era un mondo connesso, complesso e affamato di scambi. È facile costringere il passato in una forma che noi troviamo comoda e accessibile. Ma il mondo antico era molto più sofisticato e interconnesso di quanto a volte ci piaccia pensare. Guardare a Roma come alla progenitrice dell’Europa occidentale significa trascurare il fatto che essa prestò costantemente attenzione alle influenze provenienti da est, e per molti aspetti ne fu plasmata. Il mondo antico è stato davvero un precursore del mondo come lo vediamo oggi: vivace, competitivo, efficiente e pieno di energia. Una serie di città formava una catena che abbracciava tutta l’Asia. L’Occidente aveva cominciato a guardare a est, e l’Oriente aveva cominciato a guardare a ovest. Accanto al crescente traffico che si svolgeva tra l’India, il golfo Persico e il mar Rosso, le vetuste Vie della Seta dell’antichità pulsavano di vita. Fin dal momento in cui si era trasformata da repubblica in impero, Roma aveva tenuto gli occhi fissi sull’Asia. E lo stesso, si vide, aveva fatto la sua anima. Perché Costantino – e l’impero romano – avevano trovato Dio, e anche la nuova fede veniva dall’Oriente. Sorprendentemente, non veniva dalla Persia o dall’India, ma da una provincia secondaria dove tre secoli prima il prefetto Ponzio Pilato si era coperto d’infamia. Il cristianesimo stava per diffondersi in tutte le direzioni.
II
LA VIA DELLE FEDI
Nell’antichità, a scorrere lungo le arterie che collegavano il Pacifico, l’Asia centrale, l’India, il golfo Persico e il Mediterraneo non erano soltanto le merci, ma anche le idee, e fra le idee più influenti c’erano quelle che riguardavano il divino. Lo scambio intellettuale e religioso, che tra le varie aree di questa regione era sempre stato animato, ora divenne più complesso e competitivo. I culti e i sistemi di credenze locali entrarono in contatto con cosmologie consolidate, costituendo un ricco crogiolo in cui le idee venivano mutuate, affinate e riorganizzate. Se le campagne di Alessandro il Grande avevano portato le idee greche in Oriente, poco tempo dopo un analogo flusso cominciò a scorrere nella direzione opposta. Le concezioni buddhiste si diffusero rapidamente attraverso l’Asia, soprattutto grazie al sostegno e alla propaganda dell’imperatore Ashoka, il quale, a quanto si dice, si era convertito al buddhismo avendo riflettuto sui raccapriccianti costi umani delle campagne militari che si erano concluse con la creazione nel III secolo di un grande impero in India. Iscrizioni dell’epoca testimoniano dell’enorme numero di persone che seguivano le pratiche e i princìpi buddhisti, fino in Siria e forse oltre. Le credenze di una setta fiorita per secoli ad Alessandria d’Egitto, i cui membri erano noti con il nome di «terapeuti» (therapeutai), presentano inequivocabili affinità con il buddhismo: per esempio, l’uso di scritture allegoriche, l’aspirazione all’illuminazione mediante la preghiera e il distacco dal senso del sé al fine di trovare la tranquillità interiore. 1 Le ambiguità delle fonti rendono difficoltosa un’esatta ricostruzione della diffusione del buddhismo. Tuttavia è sorprendente che una vasta letteratura coeva descriva come la religione varcò il
subcontinente indiano e fu introdotta in nuove terre. A questo punto i sovrani locali dovevano decidere se tollerare il nuovo culto, reprimerlo oppure adottarlo e promuoverlo. Tra quelli che scelsero quest’ultima opzione ci fu un re battriano del II secolo, Menandro, discendente di uno dei generali di Alessandro il Grande. Secondo un testo noto come Milindapañhā, il sovrano si convinse a seguire un nuovo cammino spirituale grazie all’intercessione di un monaco ispirato, alla cui intelligenza, compassione e umiltà, che spiccavano nella generale superficialità dei suoi contemporanei, pare si debba la decisione del re di cercare l’illuminazione tramite gli insegnamenti buddhisti. 2 Gli spazi intellettuali e teologici delle Vie della Seta erano affollati, dato che divinità e culti, sacerdoti e sovrani locali vivevano gomito a gomito. La posta in gioco era elevata. All’epoca le società erano altamente ricettive rispetto a ogni genere di spiegazione, dalla sfera terrena a quella soprannaturale, e la fede offriva soluzioni per una miriade di problemi. Le lotte tra le diverse religioni aveva carattere decisamente politico. Per tutte queste fedi, quale che fosse il loro luogo d’origine – India (induismo, jainismo e buddhismo), Persia (zoroastrismo e manicheismo), o paesi ancor più a ovest (giudaismo, cristianesimo e, a suo tempo, islam) –, il trionfo sul campo di battaglia o al tavolo negoziale andava di pari passo con la dimostrazione della supremazia culturale e della benedizione divina. L’equazione era tanto semplice quanto potente: una società protetta e favorita dal dio giusto, o dagli dèi giusti, prosperava; quelle che si affidavano a falsi idoli e a vuote promesse soffrivano. I sovrani erano quindi fortemente motivati a investire nella giusta infrastruttura spirituale, per esempio nella costruzione di sontuosi luoghi di culto. Tale investimento costituiva uno strumento di controllo interno e consentiva di stabilire un rapporto di reciproco rafforzamento con il clero che, in tutte le principali religioni, godeva di un’autorità morale e di un potere politico considerevoli. Questo non significa che i sovrani avessero un ruolo passivo, e cioè si limitassero a confrontarsi con dottrine elaborate da una classe indipendente (o, in certi casi, da una casta). Al contrario, quelli più
determinati potevano rafforzare la propria autorità e il proprio ascendente introducendo nuove pratiche religiose. L’impero Kushan, che nei primi secoli della nostra era si estendeva dall’India settentrionale fino ad abbracciare gran parte dell’Asia centrale, è un caso emblematico al riguardo. I suoi re incoraggiarono il buddhismo, ma lo costrinsero anche a evolversi. Per una dinastia regnante non originaria della regione era importante creare una giustificazione per la propria supremazia. A tale scopo, idee di varia provenienza venivano mescolate in modo da costituire un minimo comune denominatore che attraesse quante più persone possibile. Di conseguenza, i Kushan promossero la costruzione di templi – devakula, o «templi della divina famiglia» – che davano corpo al concetto, già consolidato in questa regione, che i governanti rappresentassero un legame tra il cielo e la terra. 3 Menandro aveva proclamato sulle sue monete di non essere soltanto un sovrano temporale, ma anche un salvatore, e poiché il messaggio aveva un’enorme rilevanza, figurava in legende bilingui, ossia in greco (soteros) e in caratteri indici (tratarasa). 4 I Kushan, dal canto loro, si spinsero oltre: fondarono un culto del gruppo al potere che rivendicava un rapporto diretto con il divino, e stabiliva una distanza tra sovrano e suddito. Un’iscrizione rinvenuta a Taxila, nel Punjab, lo ricorda inequivocabilmente e senza mezzi termini: il sovrano era il «Gran re, re dei re e Figlio di Dio», 5 una formula che echeggiava palesemente l’Antico e il Nuovo Testamento, così come il concetto per cui il sovrano è un salvatore e una via d’accesso alla vita nell’aldilà. 6 Intorno al I secolo d.C., nel buddhismo ebbe luogo una trasformazione di portata rivoluzionaria, che riguardava il modo in cui la fede plasmava la vita quotidiana dei suoi adepti. Nella loro forma più elementare e tradizionale, gli insegnamenti del Buddha erano semplici e diretti, ed esortavano a trovare un percorso che dalla sofferenza (in sanscrito, duḥkha) portasse a uno stato di pace (nirvāna), seguendo otto «nobili sentieri». Il processo che conduceva all’illuminazione non coinvolgeva terze parti, e neppure in una qualche maniera significativa il mondo materiale o fisico. Il viaggio
aveva carattere spirituale, metafisico e individuale. Ciò, tuttavia, era destinato a cambiare drasticamente con l’emergere di nuovi modi per raggiungere uno stato di coscienza più elevato. Quello che era stato un intenso viaggio interiore, libero da condizionamenti e influenze esterne, venne ora integrato da consigli, aiuti e luoghi deputati a rendere più convincenti il cammino verso l’illuminazione e il buddhismo stesso. Furono costruiti stupa, ossia templi verosimilmente connessi al Buddha, che divennero mete di pellegrinaggio, mentre le norme e le usanze da rispettare in tali siti venivano fissate in testi scritti che rendevano più concreti e tangibili gli ideali sottesi al buddhismo. Portare fiori o essenze in offerta a un tempio aiutava a ottenere la salvezza, secondo il consiglio del Saddharmapundarīka, meglio noto come Sutra del Loto, che risale a questo periodo. Lo stesso effetto aveva reclutare suonatori che «percuotessero tamburi, soffiassero in corni e conchiglie, siringhe e flauti, suonassero liuti e arpe, gong, chitarre e cembali»: ciò avrebbe consentito al fedele di raggiungere la «buddhità». 7 Si trattava di deliberati tentativi di rendere il buddhismo più visibile – e udibile – e di metterlo in grado di meglio competere in un ambiente religioso sempre più chiassoso. Un’altra novità era l’offerta: in particolare, offerte elargite ai nuovi monasteri che spuntavano lungo le strade che si dipartivano dall’India e s’inoltravano nell’Asia centrale. Donare denaro, gioielli e altri beni divenne pratica comune, e con essa l’idea che i donatori avrebbero «sorvolato gli oceani di sofferenze» come ricompensa per la loro generosità. 8 In effetti, il Sutra del Loto e altri testi coevi arrivavano a specificare quali preziosi fossero più adatti come doni; perle, oggetti di cristallo, oro, argento, lapislazzuli, corallo, diamanti e smeraldi erano tutti considerati decisamente soddisfacenti. 9 Progetti di irrigazione su vasta scala nelle valli di quelli che oggi sono il Tagikistan e l’Uzbekistan meridionale, realizzati intorno all’inizio della nostra era, dimostrano che questo periodo conobbe una crescita di ricchezza e prosperità, oltre a scambi culturali e commerciali sempre più vivaci. 10 Non mancando ricche élite locali a cui rivolgersi, ben presto i centri monastici divennero alveari ferventi
di attività e dimore di studiosi impegnati a compilare testi buddhisti, a copiarli e a tradurli nelle lingue locali, mettendoli così a disposizione di un pubblico più ampio e numeroso. Anche questo rientrava nel programma di diffusione della religione mediante una sua maggiore accessibilità. Il commercio apriva la porta attraverso cui la fede poteva fluire. 11 Intorno al I secolo d.C. la diffusione del buddhismo dall’India settentrionale lungo le vie commerciali battute da mercanti, monaci e viaggiatori accelerò bruscamente. A sud, sull’altopiano del Deccan, furono edificati innumerevoli templi rupestri, mentre gli stupa punteggiavano il paesaggio in tutto il subcontinente indiano. 12 A nord e a est, il buddhismo fu propagato con crescente energia dai mercanti sogdiani, che svolsero un ruolo cruciale nel collegamento della Cina con la valle dell’Indo. Mercanti viaggiatori provenienti dal cuore dell’Asia centrale, erano i classici intermediari che, grazie a una fitta rete di relazioni e all’utilizzo efficiente del credito, si trovavano nella posizione ideale per dominare il commercio a lungo raggio. 13 La chiave del loro successo commerciale era un’affidabile catena di punti di sosta. Via via che un numero crescente di sogdiani diventavano buddhisti, lungo le strade principali del loro itinerario venivano costruiti stupa, come si può vedere nella valle dell’Hunza, nel Pakistan settentrionale. Innumerevoli sogdiani di passaggio incisero i propri nomi sulle rocce accanto a immagini del Buddha, nella speranza che i loro lunghi viaggi fossero fruttuosi e immuni da pericoli: toccanti testimonianze dell’esigenza di conforto spirituale del viaggiatore quando è lontano da casa. 14 Ma non erano soltanto graffiti di piccole dimensioni ad attestare l’energica diffusione del buddhismo in questo periodo. Kabul era circondata da un anello di quaranta monasteri, uno dei quali più tardi suscitò la meraviglia di un visitatore. La sua bellezza era paragonabile a quella della primavera, scrisse. «Il selciato era fatto di onice, le pareti di marmo puro; la porta era d’oro lavorato, il pavimento d’argento massiccio; ovunque si posasse lo sguardo si vedevano stelle … nel vestibolo c’era un idolo d’oro bello come la luna, assiso su un magnifico trono tempestato di gioielli.» 15
Ben presto le idee e le pratiche buddhiste presero a diffondersi verso est, oltre i monti del Pamir e fino in Cina. All’inizio del IV secolo, in tutta la provincia dello Xinjiang, nella Cina nordoccidentale, c’erano siti sacri buddhisti, fra cui lo spettacolare complesso di grotte di Qyzyl, nel bacino del Tarim, che comprendeva sale per il culto, aree dedicate alla meditazione e ampie zone abitative. In breve, la Cina occidentale fu costellata di luoghi trasformati in spazi sacri, come a Kashgar, Kucha e Turfan. 16 Verso gli anni Sessanta del V secolo la filosofia, le pratiche, l’arte e l’iconografia buddhiste erano ormai diventate una delle tendenze dominanti nell’intero paese, in vigorosa competizione con il confucianesimo tradizionale: una cosmologia generale che implicava tanto un’etica personale quanto credenze spirituali, ma con profonde radici nel millennio passato. A ciò contribuì l’aggressiva propaganda di una nuova dinastia regnante i cui membri, in quanto conquistatori provenienti in origine dalle steppe, erano degli outsider. Come i Kushan prima di loro, i Wei del Nord avevano molto da guadagnare nel promuovere il nuovo a spese del vecchio e nel propugnare idee che sottolineavano la loro legittimità. Enormi statue del Buddha furono erette a Pingcheng e Luoyang, nella parte orientale del paese, insieme a monasteri e templi generosamente sussidiati. Non c’era modo di fraintendere il messaggio: i Wei del Nord avevano trionfato, e questo era accaduto perché erano parte di un ciclo divino, e non soltanto brutali vincitori sul campo di battaglia. 17 Il buddhismo fece notevoli incursioni anche a ovest, lungo le principali arterie commerciali. Complessi di grotte sparsi intorno al golfo Persico, oltre a numerosi ritrovamenti provenienti dalla zona di Merv, nel moderno Turkmenistan, e a diverse iscrizioni nel cuore della Persia, attestano che il buddhismo era ormai pronto per cominciare a competere con le fedi locali. 18 Anche l’ondata di termini mutuati dal buddhismo che investì la Partia testimonia dell’intensificarsi dello scambio culturale che si verificò in questo periodo. 19 La differenza, però, fu che l’aumento del traffico commerciale
galvanizzò in un’altra direzione la Persia, che stava vivendo una vera e propria rinascita in campo economico, politico e culturale. A mano a mano che tornava ad affermarsi un’identità specificamente persiana, i buddhisti si ritrovarono oggetto di persecuzione anziché di emulazione. La ferocia degli attacchi subiti portò all’abbandono dei templi nel golfo Persico, mentre gli stupa che presumibilmente erano stati eretti lungo le vie di terra in territorio persiano vennero distrutti. 20 Mentre si diffondevano in tutta l’Eurasia, le religioni conobbero ascese e cadute, in costante lotta tra loro per assicurarsi seguaci, fedeltà e autorità morale. La comunicazione con il divino non si limitava alla ricerca del suo intervento nella vita quotidiana, ma divenne una questione di salvezza o dannazione. Il confronto tra le religioni si fece violento. I primi quattro secoli della nostra era, che videro il cristianesimo esplodere muovendo da una piccola base in Palestina, furono un turbine di guerre religiose. Il momento decisivo venne con la presa del potere da parte della dinastia sasanide, che rovesciò il regime esistente in Persia fomentando la rivolta, assassinando i nemici e sfruttando la confusione seguita ai rovesci militari sulla frontiera con Roma, soprattutto nel Caucaso. 21 Dopo essersi impadroniti del potere nel 224 d.C., Ardashīr I e i suoi successori posero mano a una radicale trasformazione dello Stato. Essa implicava l’affermazione di un’identità esasperata, che segnava una cesura netta con la storia recente e cercava di enfatizzare i legami con il grande impero persiano dell’antichità. 22 Tale obiettivo fu raggiunto fondendo il paesaggio fisico e simbolico contemporaneo con quello del passato. A fini di propaganda culturale, ci si appropriò di siti cruciali dell’antico Iran, come Persepoli, una capitale dell’impero achemenide, e la necropoli di Naqsh-e Rustām, associata a grandi re persiani come Dario e Ciro; si aggiunsero nuove iscrizioni, nuove architetture monumentali, nuovi rilievi scolpiti nella roccia, nel tentativo di assimilare il regime presente alle gloriose memorie del passato. 23 Fu rinnovato il conio: le legende greche e i busti modellati su quello di Alessandro il Grande, in uso da secoli,
scomparvero, sostituiti da un nuovo e caratteristico profilo del sovrano – rivolto in direzione opposta – su una faccia, e da un «altare del fuoco» sull’altra. 24 Una scelta, quest’ultima, volutamente provocatoria, ovvero un’esplicita dichiarazione d’intenti in merito a una nuova identità e a un nuovo atteggiamento nei confronti della religione. Per quanto la limitata documentazione materiale ci permette di capire, i sovrani di questa regione avevano per secoli mostrato tolleranza in fatto di fede, consentendo un grado considerevole di coesistenza, 25 ma l’ascesa di una nuova dinastia determinò in breve un irrigidimento delle posizioni, e le dottrine di Zardusht (o Zarathustra) furono apertamente promosse a spese di altre. Noto agli antichi greci con il nome di Zoroastro, il grande profeta persiano vissuto intorno al 1000 a.C., se non prima, insegnava che l’universo era retto da due princìpi, Ahura Mazda (la Saggezza Illuminante) e la sua antitesi, Angra Mainyu (lo Spirito Ostile), in perenne conflitto tra loro. Era perciò importante adorare il primo, che sovrintendeva al buon ordine delle cose. La divisione del mondo in forze benefiche e malefiche si estendeva a ogni aspetto della vita e riguardava perfino la tassonomia degli animali. 26 La purificazione rituale, soprattutto mediante il fuoco, era un elemento vitale del culto zoroastriano. Ahura Mazda, secondo quanto asseriva il credo, poteva trarre «la bontà dal male, la luce dall’oscurità» e la salvezza dai demòni. 27 Questa cosmologia permise ai sovrani sasanidi di collegare il loro potere con quello del periodo aureo dell’antica Persia, quando i grandi re professavano la loro devozione ad Ahura Mazda. 28 Ma fornì loro anche una solida impalcatura morale per un periodo di espansione militare ed economica: l’enfasi posta sul conflitto perenne rafforzava le menti in vista della battaglia, mentre il ruolo centrale dell’ordine e della disciplina esaltava riforme amministrative che divennero il segno caratteristico di uno Stato in ripresa e sempre più deciso ad affermarsi. Lo zoroastrismo, infatti, aveva un solido nucleo di princìpi che erano in totale sintonia con una cultura militaristica di restaurazione imperiale. 29 I Sasanidi procedettero a un’espansione aggressiva sotto Ardashīr
(Artaserse) I e suo figlio Shāpūr (Sapore) I, ponendo città-oasi, vie di comunicazione e intere regioni sotto il loro controllo diretto, oppure costringendole a una condizione di satelliti. Città importanti come Sistan, Merv e Balkh furono conquistate in una serie di campagne che iniziarono negli anni successivi al 220, mentre una parte significativa dei territori Kushan divennero stati vassalli, amministrati da funzionari sasanidi che assumevano il titolo di kushānshāh (sovrano dei Kushan). 30 Un’iscrizione trionfale a Naqsh-e Rustām definisce le dimensioni della conquista, notando come il regno di Shāpūr si fosse esteso in profondità verso est, giungendo a Peshawar e «fino ai confini» di Kashgar e Taškent. 31 Gli adepti dello zoroastrismo si erano posizionati in prossimità del centro del potere quando i Sasanidi avevano conquistato il trono, e si erano adoperati per concentrare il controllo amministrativo nelle proprie mani, a spese di tutte le altre minoranze religiose. 32 Ora questo ruolo di predominio si estese anche alle nuove regioni controllate dai re persiani. Verso la metà del III secolo, iscrizioni commissionate dal sommo sacerdote Kirdīr celebravano l’espansione del culto zoroastriano. La religione e i suoi sacerdoti si erano guadagnati ovunque prestigio e onore, mentre «numerosi fuochi e collegi sacerdotali» erano fioriti nei territori sottratti ai romani. Per diffondere la fede era necessario un duro lavoro, sottolinea esplicitamente l’iscrizione, ma, per dirla con le parole modeste di Kirdīr, «mi sono sobbarcato molta fatica e molte difficoltà per il bene degli yazads [poteri divini] e dei sovrani, e per il bene della mia stessa anima». 33 La promozione dello zoroastrismo si accompagnò alla soppressione dei culti locali e delle cosmologie rivali, che furono liquidate come dottrine perverse. Ebrei, buddhisti, induisti, manichei e altri furono perseguitati; luoghi di culto furono saccheggiati, «idoli distrutti, santuari dei dèmoni demoliti e trasformati in templi per gli dèi». 34 L’espansione dello Stato persiano fu accompagnata da una rigida imposizione di valori e credenze che erano presentati come tradizionali e al tempo stesso essenziali per il successo politico e militare. Coloro che proponevano spiegazioni diverse o valori
alternativi erano perseguitati e spesso venivano uccisi, come accadde a Mani, un carismatico profeta del III secolo le cui concezioni, tratte da una varietà di fonti sia orientali sia occidentali, erano state in passato sostenute da Shāpūr I; adesso, invece, i suoi insegnamenti venivano condannati come sovversivi, dannosi e pericolosi, e i suoi seguaci fatti oggetto di una caccia spietata. 35 Tra i destinatari di un trattamento particolarmente severo, ed esplicitamente menzionati da Kirdīr nel suo elenco di obiettivi presi di mira, c’erano nasraye e kristyone, vale a dire «nazareni» e «cristiani». Sebbene tra gli studiosi si sia molto discusso in merito all’identificazione dei gruppi designati con questi due termini, oggi è opinione condivisa che il primo si riferisca alla popolazione autoctona dell’impero sasanide che si era convertita alla dottrina cristiana, e il secondo ai cristiani siriaci che Shāpūr I aveva fatto deportare in gran numero verso est dopo l’occupazione della Siria romana, con un’operazione militare che aveva colto di sorpresa le autorità locali e centrali. 36 Il profondo radicamento dello zoroastrismo nella coscienza e nell’identità della Persia del III secolo fu una reazione ai successi del cristianesimo, che aveva cominciato a diffondersi in modo allarmante lungo le vie commerciali, proprio come aveva fatto il buddhismo a est. Ma in questa fase fu anche frutto di una reazione ostile al pensiero cristiano e alle idee di cui erano portatori i mercanti e i prigionieri reinsediati in territorio persiano dopo essere stati deportati dalla Siria. 37 Il cristianesimo è stato a lungo associato al Mediterraneo e all’Europa occidentale. In parte ciò è dipeso dai luoghi in cui risiedono i capi della Chiesa, dato che le figure più autorevoli delle Chiese cattolica, anglicana e ortodossa hanno le loro sedi rispettivamente a Roma, Canterbury e Costantinopoli (la moderna Istanbul). Ma, in realtà, il cristianesimo delle origini era, sotto ogni profilo, asiatico. Il suo punto focale geografico era, naturalmente, Gerusalemme, insieme agli altri luoghi legati alla nascita, alla vita e alla crocifissione di Gesù; la sua lingua originaria era l’aramaico, che appartiene al gruppo linguistico semitico, a sua volta originario del Vicino Oriente; il suo
sfondo teologico e la sua trama spirituale era il giudaismo, che aveva preso forma in Israele e durante l’esilio degli ebrei in Egitto e a Babilonia; le sue vicende erano plasmate dai deserti, dai diluvi, dalle siccità e dalle carestie, tutte cose ben poco familiari in Europa. 38 L’espansione del cristianesimo nella regione del Mediterraneo è attestata da una solida documentazione storica, ma il suo sviluppo iniziale fu assai più clamoroso e promettente in Oriente che nel bacino mediterraneo, dove si diffuse lungo le rotte marittime. 39 Inizialmente le autorità romane non si curarono granché dei cristiani, rimanendo colpiti più che altro dalla passione dei primi seguaci del nuovo culto. Per esempio, nel II secolo Plinio il Giovane scrisse all’imperatore Traiano dall’Asia Minore per chiedere consiglio su che cosa fare con i cristiani che venivano condotti al suo cospetto. «Non ho mai partecipato a inchieste sui cristiani» scriveva. «Non so pertanto quali fatti, e in quale misura, si debbano punire o perseguire.» Ne fece giustiziare alcuni perché non dubitava che «qualsiasi cosa fosse ciò che essi confessavano … si dovesse punire almeno tale pertinacia e inflessibile ostinazione». 40 La risposta dell’imperatore consigliava tolleranza: non bisogna dare la caccia ai cristiani, diceva, ma, in caso di denuncia, occorreva trattarli con il criterio del caso per caso, «perché non si può istituire una regola generale, che abbia per così dire valore di norma fissa». In ogni caso, non si doveva agire per nessun motivo sulla base di voci o di accuse anonime; fare altrimenti, scriveva nobilmente, sarebbe stato «non degno del nostro tempo». 41 Non molto tempo dopo questo scambio epistolare, però, le posizioni divennero più intransigenti, in risposta alla penetrazione sempre più profonda del cristianesimo nella società romana. I comandi militari imperiali, in particolare, cominciarono a considerare la nuova religione, con le sue posizioni sovversive nei confronti del peccato, del sesso, della morte e della vita in generale, come una minaccia ai tradizionali valori marziali. 42 A cominciare dal II secolo, nel corso di varie ondate di brutali persecuzioni migliaia di cristiani vennero massacrati, spesso nel contesto di pubblici spettacoli. Si formò, quindi, un ricco corpus di testi che commemoravano i martiri che avevano perso la vita a causa della loro fede. 43 Il pregiudizio
contro cui i primi cristiani dovettero combattere era all’origine dei lamenti angosciati di autori come Tertulliano (circa 160-225), le cui implorazioni sono state paragonate da un autorevole studioso a quelle dello Shylock di Shakespeare: i cristiani non sono forse «uomini che vivono insieme con voi, che come voi prendono parte allo stesso cibo, allo stesso vestito, allo stesso genere di vita … [e sono] soggetti alle stesse necessità dell’esistenza?» chiedeva. 44 Il solo fatto che non partecipiamo alle cerimonie religiose romane, scriveva, non significa che non siamo esseri umani. «O forse i cristiani hanno altre file di denti, altre aperture nelle fauci e altri membri tesi alla libidine incestuosa?» 45 Il cristianesimo inizialmente si diffuse in Oriente tramite le comunità ebraiche residenti in Mesopotamia fin dai tempi dell’esilio babilonese 46 e che ricevevano le testimonianze sulla vita e sulla morte di Gesù non in versioni redatte in greco, come accadeva a quasi tutti i convertiti in Occidente, ma in aramaico, la lingua dei discepoli e di Gesù stesso. Proprio come nel bacino mediterraneo, furono i commercianti a svolgere un ruolo attivo nel processo di evangelizzazione in Oriente, mentre la città di Edessa (la moderna Urfa, nella Turchia sudorientale) andava assumendo un ruolo di spicco per la sua posizione al crocevia delle strade che correvano in direzione nord-sud ed est-ovest. 47 Gli evangelizzatori raggiunsero ben presto il Caucaso, dove pratiche sepolcrali e iscrizioni funerarie, in particolare in Georgia, rivelano l’esistenza di una cospicua comunità di ebrei convertiti al cristianesimo. 48 Non molto tempo dopo c’erano comunità cristiane sparse un po’ ovunque sulle coste del golfo Persico. Sessanta tombe scavate in banchi di corallo in prossimità di Bahrein mostrano quanto lontano fosse giunta la religione cristiana all’inizio del III secolo. 49 Un testo noto come Il libro delle Leggi dei Paesi, scritto all’incirca nello stesso periodo, riferisce che i cristiani erano presenti in tutta la Persia e a est fino al territorio controllato dai Kushan, cioè in quello che oggi è l’Afghanistan. 50 La diffusione del cristianesimo fu favorita dalle deportazioni su vasta scala di cristiani dalla Siria durante il regno di Shāpūr I nel III
secolo. Tra gli esuli c’erano figure di alto profilo come Demetrio, il vescovo di Antiochia, che fu deportato a Beth Lapat (la moderna Gundeshāpūr, nell’Iran sudoccidentale), dove riunì intorno a sé i suoi correligionari e fondò una nuova diocesi. 51 Alcuni cristiani godevano in Persia di uno status sociale elevato. Era il caso, per esempio, di una donna romana di nome Candida, concubina favorita del sovrano, almeno finché il rifiuto di abbandonare la sua fede non la condusse al martirio, secondo il racconto di una fonte cristiana che metteva in guardia dalla sete di sangue dello scià e di coloro che gli stavano intorno. 52
Queste storie toccanti rientrano in un genere di letteratura il cui fine era dimostrare la superiorità delle credenze e dei costumi cristiani sulle pratiche tradizionali. Le fonti sono scarse, ma possiamo farci un’idea delle battaglie propagandistiche combattute all’epoca. A differenza degli altri abitanti della Persia, scriveva un autore, i «discepoli di Cristo» in Asia «non seguono le biasimevoli abitudini di questi popoli pagani». Ciò andava apprezzato, secondo un altro autore, come segno del grande contributo, in termini di princìpi morali, dato dai cristiani alla Persia e all’Oriente: «I persiani che sono divenuti Suoi discepoli non sposano più le proprie madri», mentre quelli delle steppe non «si cibano più di carne umana, a causa della parola di Cristo che è giunta a loro». Simili sviluppi dovrebbero essere accolti con soddisfazione, insisteva. 53 Come detto, fu la crescente penetrazione e visibilità dei cristiani in Persia verso la metà del III secolo a scatenare la reazione sempre più violenta del clero zoroastriano, che echeggiava quella dell’impero romano. 54 Ma, come attesta l’iscrizione di Kirdīr, in Persia le posizioni stavano cominciando a irrigidirsi non soltanto nei confronti del cristianesimo, ma anche di altre confessioni religiose. La repressione delle cosmologie alternative andava di pari passo con il fervore zoroastriano che caratterizzò la rinascita persiana. Cominciava a emergere una religione di Stato, che identificava i valori zoroastriani come sinonimo di «persiani» e forniva quello che è stato definito «un pilastro di sostegno del potere reale sasanide». 55 Da quel momento fu tutto un susseguirsi di reazioni a catena, in cui la competizione per le risorse e il confronto militare incentivavano lo sviluppo di sofisticati sistemi di credenze che non solo conferissero significato alle vittorie e al successo, ma indebolissero direttamente quelli dei vicini rivali. Nel caso della Persia, ciò comportava un clero sempre più chiassoso e sicuro di sé, il cui ruolo si dilatava in profondità nella sfera della politica, come le iscrizioni ben chiariscono. Tutto ciò ebbe inevitabilmente delle conseguenze, soprattutto quando il modello fu esportato nelle regioni di confine o nei territori di recente conquista. Erigere i templi del fuoco di cui Kirdīr andava così fiero non soltanto rischiava di provocare l’ostilità delle
popolazioni locali, ma significava anche imporre la dottrina e la fede con la forza. Lo zoroastrismo divenne quindi sinonimo di Persia, sicché ben presto cominciò a essere visto come uno strumento di occupazione piuttosto che come una forma di liberazione spirituale. Non fu pertanto una coincidenza che qualcuno cominciasse a guardare al cristianesimo proprio come a un antidoto alle credenze che dal centro del paese venivano promosse con metodi sempre più oppressivi. Come e quando di preciso i sovrani caucasici abbiano adottato il cristianesimo non è del tutto chiaro. Le narrazioni sulla conversione del re armeno Tiridate III, all’inizio del IV secolo, furono messe per iscritto qualche tempo dopo, e in una certa misura risentono del desiderio di raccontare una storia edificante, oltre che della parzialità dei loro autori cristiani. 56 In ogni caso, secondo la tradizione, Tiridate si era convertito dopo le seguenti vicende. Trasformatosi in maiale, aveva vagato nudo per i campi finché san Gregorio, che in precedenza era stato gettato in una fossa infestata di serpenti per essersi rifiutato di adorare una dea armena, non lo guarì, facendogli cadere il grugno, le zanne e la pelle, e poi lo battezzò nell’Eufrate, meritandosi così la sua gratitudine. 57 Tiridate non fu l’unico, tra le autorità politiche dell’epoca, ad abbracciare il cristianesimo. All’inizio del IV secolo, infatti, si convertì anche Costantino, una delle personalità più influenti di Roma. Il momento della svolta giunse nel corso di una sanguinosa guerra civile, allorché Costantino si scontrò nella capitale con il suo rivale Massenzio al Ponte Milvio nel 312. Si dice che poco prima della battaglia Costantino scrutò il cielo e vide «una luce a forma di croce» sopra il sole, insieme a una scritta in greco che diceva «con questo segno, vincerai». Il significato della visione gli fu del tutto chiaro dopo che Gesù Cristo gli apparve in sogno e gli spiegò che il segno della croce lo avrebbe aiutato a sconfiggere tutti i suoi nemici. Checché se ne pensi, questo è il modo in cui ad alcuni piacque descrivere ciò che era accaduto. 58 Le fonti cristiane lasciano pochi dubbi in merito allo sconfinato entusiasmo con cui l’imperatore romano presiedette personalmente
all’imposizione del cristianesimo a spese di tutte le altre religioni. Apprendiamo da un autore, per esempio, che la nuova città di Costantinopoli non era «contaminata da altari, templi greci o sacrifici pagani», ma adornata da «splendide case di preghiera in cui Dio prometteva di benedire gli sforzi dell’imperatore». 59 Un altro autore afferma che famosi centri di culto furono chiusi per ordine di Costantino, mentre gli oracoli e la divinazione, elementi di base della teologia romana, furono messi al bando. Ugualmente bandito fu l’abituale sacrificio compiuto prima dell’inizio di attività ufficiali, mentre statue pagane venivano abbattute e vietate per legge. 60 C’era ben poco margine di dubbio nella versione raccontata da autori che avevano un ben preciso interesse nel presentare Costantino come risoluto promotore delle sue nuove credenze. In realtà, le ragioni della conversione di Costantino erano certamente più complesse di quanto sembrano indicare le testimonianze e le opere scritte mentre era in vita o poco tempo dopo. Innanzitutto, accogliere la fede cristiana sposata da un gran numero di militari era una politica accorta; in secondo luogo, monumenti, monete e iscrizioni sparse in tutto l’impero, che descrivono Costantino come fedele seguace del culto del Sole Invitto (Sol Invictus), lasciano pensare che forse la sua conversione fosse più esitante di quanto asseriscano i ferventi panegirici. Infine, malgrado le affermazioni in senso contrario, l’impero non cambiò natura da un giorno all’altro, se è vero che a Roma, a Costantinopoli e altrove eminenti personaggi continuarono a seguire le loro credenze tradizionali molto tempo dopo l’illuminazione dell’imperatore e nonostante l’entusiasmo con cui questi si accinse a sostenere la sua nuova fede. 61 Tuttavia, l’accettazione del cristianesimo da parte di Costantino produsse ovviamente un mutamento radicale nell’impero romano. Le persecuzioni, che erano giunte all’apice durante il regno di Diocleziano appena un decennio prima, cessarono. I combattimenti di gladiatori, che erano stati a lungo l’ingrediente principale dello spettacolo presso i romani, furono aboliti a causa della repulsione dei cristiani per esibizioni che tanto svilivano il carattere sacro della vita. «Gli spettacoli cruenti ci dispiacciono» recita l’estratto di una legge
approvata nel 325 e registrata in una più tarda compilazione di atti legislativi imperiali. Pertanto «proibiamo del tutto l’esistenza di gladiatori». Coloro che in precedenza venivano mandati nell’arena come punizione per crimini che avevano commesso o per convinzioni che rifiutavano di abbandonare, da allora in poi dovevano essere inviati a «scontare la pena nelle miniere, in modo che subiscano la punizione per i loro crimini senza versare il loro sangue». 62 Dal momento che si profondevano risorse per promuovere il cristianesimo in tutto l’impero, a Gerusalemme in particolare furono destinate imponenti opere edilizie, realizzate con fondi esorbitanti. Se Roma e Costantinopoli erano i centri amministrativi dell’impero, Gerusalemme doveva esserne il cuore spirituale. Parti della città furono rase al suolo e il terreno estratto da sotto i templi pagani fu scaricato quanto più lontano possibile, «contaminato [com’era] dal sangue dei diabolici sacrifici». Gli scavi ora portavano alla luce un luogo sacro dopo l’altro, compresa la grotta dove Gesù era stato deposto, che fu restaurata e, «come il nostro Salvatore, riportata in vita». 63 Costantino si prese cura personalmente di queste opere, dando indicazioni sui materiali da utilizzare per la costruzione di una chiesa sul sito del Santo Sepolcro. L’imperatore si era mostrato disposto a delegare a un addetto la scelta dei tessuti e delle decorazioni delle pareti, ma voleva essere consultato per quanto riguardava il tipo di marmo e di colonne. «Voglio inoltre sapere da te» scrisse a Macario, il vescovo di Gerusalemme, «se ritieni che la volta della basilica debba essere costruita a lacunari o con qualche altra tecnica. Se infatti sarà a lacunari, potrà anche essere rivestita d’oro.» Tali scelte, aggiungeva, richiedevano la sua personale approvazione. 64 La tanto celebrata conversione di Costantino segnò l’avvio di un nuovo capitolo della storia dell’impero romano. Sebbene il cristianesimo non fosse ancora diventato religione di Stato, l’attenuazione delle restrizioni e delle punizioni spalancò le porte alla nuova fede. Ma se questo segnò una svolta positiva per i cristiani e il cristianesimo in Occidente, per il cristianesimo fu l’inizio della catastrofe. Benché all’inizio Costantino fosse un convertito abbastanza
cauto – batté monete con immagini inequivocabilmente pagane e fece erigere nella sua nuova città una statua in cui era rappresentato come Helios-Apollo –, presto la sua adesione alla nuova fede si manifestò in modo netto e deciso, 65 tanto da presentarsi come il protettore di tutti i cristiani, ovunque si trovassero, anche al di fuori del suo impero. Negli anni successivi al 330 si sparse la voce che Costantino stesse preparando un attacco alla Persia, sfruttando un’opportunità offerta da un fratello dello scià che, in rotta con lui, aveva cercato rifugio alla corte imperiale romana. I persiani dovettero innervosirsi quando ricevettero una lettera nella quale Costantino annunciava di aver appreso con grande piacere che «anche la parte più importante della Persia è ornata da questa categoria di uomini, ossia i cristiani (l’intero mio discorso infatti si riferisce a essi)». Aveva un messaggio particolare per il re persiano, Shāpūr II: «Ti affido costoro, ponendoli nelle tue mani … Amali in modo consono alla tua filantropia. Con questa promessa renderai sia a te che a noi un beneficio incommensurabile». 66 Quello che avrebbe potuto essere inteso come un gentile consiglio, suonò invece come una minaccia: non molto tempo prima, Roma aveva spinto la frontiera orientale in profondità nel territorio persiano e immediatamente attuato un programma di fortificazione e di costruzione di strade per garantirsi le nuove conquiste. 67 Quando il sovrano della Georgia, un altro regno caucasico di rilievo commerciale e strategico, ebbe un’illuminazione che fu soltanto lievemente meno pittoresca di quella di Costantino (il re vide letteralmente la luce dopo essere stato inghiottito dalle tenebre mentre era a caccia), l’ansia si trasformò in panico. 68 Mentre Costantino era impegnato alla frontiera sul Danubio, Shāpūr II lanciò un attacco a sorpresa nel Caucaso, deponendo uno dei sovrani locali e insediando al suo posto un proprio protetto. Costantino rispose immediatamente e in modo spettacolare: riunì un enorme esercito e, dopo aver ordinato ai suoi vescovi di accompagnare l’imminente spedizione, dispose che si costruisse una copia del Tabernacolo, la struttura usata per accogliere l’Arca dell’Alleanza. Dopodiché annunciò che voleva intraprendere un attacco punitivo contro la Persia e farsi battezzare
nel fiume Giordano. 69 L’ambizione di Costantino non conosceva limiti. Coniò monete in anticipo, conferendo al figlio di un suo fratellastro un nuovo titolo reale: sovrano della Persia. 70 Fra i cristiani d’Oriente si diffuse l’entusiasmo, colto in una lettera scritta da Afraate, capo di un importante monastero nei pressi di Mosul: «Il meglio è venuto per il popolo di Dio». Questo era il momento che aveva atteso: il regno di Cristo sulla terra stava per essere instaurato una volta per tutte. «Stanne certo,» concludeva «la bestia sarà uccisa al momento preordinato.» 71 Mentre si preparavano a opporre un’accanita resistenza, i persiani ebbero un eccezionale colpo di fortuna: prima che la spedizione potesse mettersi in moto, Costantino cadde malato e morì. Shāpūr II colse l’occasione per scatenare l’inferno contro la popolazione cristiana locale, come rappresaglia per l’annunciata aggressione di Costantino. Istigato dalle autorità zoroastriane, lo scià «era assetato del sangue dei santi». 72 I martiri si contarono a dozzine: un manoscritto dell’inizio del V secolo proveniente da Edessa documenta l’esecuzione in questo periodo di almeno sedici vescovi e di cinquanta sacerdoti. 73 Adesso i cristiani erano visti come un’avanguardia, una quinta colonna pronta ad aprire le porte della Persia per l’ingresso dell’impero romano in Oriente. I vescovi più importanti furono accusati di esortare «i sudditi e il popolo dello scià a ribellarsi contro [sua] Maestà, e a diventare schiavi dell’imperatore che condivide la loro fede». 74 Questo bagno di sangue era una diretta conseguenza dell’entusiastica adozione del cristianesimo a Roma, giacché la persecuzione scatenata dallo scià derivava dal fatto che Costantino aveva assimilato la promozione dell’impero romano a quella del cristianesimo. I suoi grandiosi proclami potevano impressionare e ispirare uomini come Afraate, ma suonavano altamente provocatori per la dirigenza persiana. L’identità romana era stata molto chiara prima della conversione di Costantino, ma ora l’imperatore – così come i suoi successori – era propenso a parlare di proteggere non solo Roma e i suoi cittadini, ma anche i cristiani in generale. Si trattava di
un atout che poteva essere utile giocare, quantomeno in patria, dove la retorica era destinata a incontrare i favori dei vescovi e dei fedeli. Per coloro che vivevano oltre i confini dell’impero, però, era una scelta potenzialmente disastrosa, come ebbero modo di verificare le vittime di Shāpūr. È curioso, quindi, che Costantino sia famoso per essere stato l’imperatore che ha gettato le basi della cristianizzazione dell’Europa, e non si ricordi mai che la sua adozione di una nuova fede ebbe un prezzo: il futuro del cristianesimo in Oriente, che ne fu compromesso in modo spettacolare. La questione era se gli insegnamenti di Gesù Cristo, che si erano radicati in profondità in Asia, sarebbero riusciti a sopravvivere a una sfida così ardua.
III
LA VIA A UN ORIENTE CRISTIANO
Con il passare del tempo, le tensioni fra Roma e la Persia si allentarono, e quando ciò si verificò, anche gli atteggiamenti nei confronti della religione divennero meno intransigenti. Questo accadde perché, nel IV secolo, Roma fu costretta alla ritirata, e in modo così precipitoso da ritrovarsi a combattere per la sua stessa sopravvivenza. In una serie di campagne che durarono fino alla morte di Shāpūr II, nel 379, la Persia riuscì a impadronirsi di alcuni punti chiave lungo le vie commerciali e di comunicazione verso il Mediterraneo. Nisibis e Singara vennero riconquistate, e metà dell’Armenia fu annessa. Per quanto tale riequilibrio territoriale contribuisse a placare le animosità, i rapporti fra Roma e la Persia migliorarono realmente quando entrambe dovettero affrontare nuove sfide, cioè la minaccia mortale che incombeva dalle steppe. Il mondo stava entrando in una fase di cambiamento climatico. In Europa questo fenomeno era rivelato dall’innalzamento dei livelli dei mari e dalla comparsa della malaria nella regione del mare del Nord, mentre in Asia dall’inizio del IV secolo si erano registrati una brusca riduzione della salinità del mare d’Aral, lo sviluppo nelle steppe di una vegetazione notevolmente diversa da quella tradizionale (evidente dalle analisi ad alta risoluzione dei pollini) e nuovi schemi di avanzamento dei ghiacciai nella catena del Tian Shan, tutti indizi di mutamenti radicali nel contesto del cambiamento climatico globale. 1 Le conseguenze furono devastanti, come attesta una singolare lettera scritta da un mercante della Sogdiana all’inizio del IV secolo e rinvenuta nei pressi di Dunhuang, nella Cina occidentale. Il mercante raccontava con dovizia di particolari ai suoi colleghi come la fame e la carestia avessero imposto un pesante tributo, e come la Cina fosse
stata colpita da una catastrofe tale da non potersi quasi descrivere. L’imperatore era fuggito dalla capitale, dopo aver dato alle fiamme il suo palazzo, mentre le comunità di mercanti sogdiani erano scomparse, spazzate via dalla fame e dalla morte. Non vi date la pena di andare a commerciare là, consigliava l’autore, «non c’è possibilità di ricavarne alcun profitto». E riferiva di come le città venissero saccheggiate una dopo l’altra. Lo scenario era apocalittico. 2 Il caos creava le condizioni ideali perché il mosaico delle tribù delle steppe si consolidasse. Questi popoli abitavano le fasce di territorio comprese tra la Mongolia e le pianure dell’Europa centrale, dove il controllo della miglior terra da pascolo e di affidabili rifornimenti d’acqua garantiva un considerevole potere politico. Una tribù ora si impadronì delle steppe, annientando tutto ciò che le si parava davanti. Nella sua lettera, il mercante sogdiano si riferiva agli artefici dell’apocalisse come agli «xwn». Si trattava degli Xiongnu, meglio conosciuti in Occidente come Unni. 3 Tra il 350 e il 360 circa vi fu una vasta ondata di migrazioni, dovuta al fatto che le tribù venivano cacciate dalle loro terre e spinte verso ovest. Con ogni probabilità, ciò fu una conseguenza del mutamento climatico, che rendeva la vita nella steppa eccezionalmente dura e scatenava un’intensa competizione per le risorse. L’impatto fu avvertito dalla Battriana, nell’Afghanistan settentrionale, fino alla frontiera romana sul Danubio, dove cominciarono a riversarsi masse di profughi che, incalzati dall’avanzata degli Unni, abbandonavano le loro terre a nord del mar Nero e chiedevano di potersi insediare sul territorio imperiale. Ben presto la situazione divenne pericolosamente instabile. Nel 378 un nutrito contingente militare romano inviato a ristabilire l’ordine fu pesantemente sconfitto nelle piatte campagne della Tracia e fra i numerosi caduti vi fu l’imperatore Valente. 4 Le difese crollarono e le tribù si riversarono una dopo l’altra nelle province occidentali, con grave minaccia per la stessa Roma. In precedenza, il margine settentrionale del mar Nero e le lande steppose che si estendevano in profondità nell’Asia erano stati considerati territori irrimediabilmente barbari, popolati da selvaggi guerrieri e privi di civiltà o di risorse. Ai romani non era mai passato per la
mente che queste regioni potessero fungere da arterie di comunicazione, proprio come le strade che collegavano l’Occidente con l’Oriente attraverso la Persia e l’Egitto. Ora, invece, stavano per portare morte e distruzione nel cuore stesso dell’Europa. Di fronte al cataclisma che veniva dalle steppe, anche la Persia tremava. Le sue province orientali si piegavano sotto l’assalto, per poi subire il collasso definitivo: le città si spopolavano; reti di irrigazione essenziali cadevano in rovina e andavano distrutte via via che le incursioni imponevano il loro pesante tributo. 5 Gli attacchi attraverso il Caucaso erano soverchianti, con la conseguenza che dalle città della Mesopotamia, della Siria e dell’Asia Minore venivano prelevati prigionieri e bottino. Poi, nel 395, una grande offensiva a lungo raggio devastò le città sul Tigri e sull’Eufrate, giungendo fino a Ctesifonte, la capitale, prima di essere definitivamente respinta. 6 Unite da un comune interesse a contrastare l’invasione delle orde barbariche, la Persia e Roma strinsero ora un’inattesa alleanza. Per impedire ai nomadi di scendere attraverso il Caucaso, fu costruito un imponente muro fortificato che correva per quasi 200 chilometri tra il mar Caspio e il mar Nero, a protezione della Persia interna dagli attacchi e con la funzione di barriera fisica tra il mondo ordinato a sud e il caos a nord. Costellato da trenta forti distribuiti a intervalli regolari per tutta la sua lunghezza, il muro era protetto anche da un fossato profondo quasi cinque metri. Era un prodigio di architettura e di ingegneria, costruito con mattoni prodotti su larga scala da parecchie fornaci allestite sul posto. A difesa del muro erano preposti circa 30.000 uomini, alloggiati in presidi in posizione arretrata rispetto alla fortificazione. 7 La barriera era soltanto una delle molte mosse compiute dai Sasanidi per difendere la lunga frontiera settentrionale con la steppa e per proteggere stazioni commerciali vulnerabili come Merv, la prima località in cui si sarebbero imbattuti gli invasori una volta attraversato il deserto del Karakum (nell’odierno Turkmenistan). 8 Roma non solo accettò di versare regolari contributi finanziari per il mantenimento di questo muro persiano, ma, secondo diverse fonti coeve, fornì anche soldati per la sua difesa. 9 E, a testimonianza del
superamento delle passate rivalità, nel 402 l’imperatore Arcadio stabilì che a fungere da tutore del proprio figlio ed erede al trono di Costantinopoli fosse nientemeno che lo scià. 10 Ma a quel punto era già troppo tardi, almeno per Roma. La migrazione di intere popolazioni da una parte all’altra delle steppe a nord del mar Nero aveva scatenato una tempesta in piena regola, destinata a travolgere i confini dell’impero sul Reno. Verso la fine del IV secolo una serie di incursioni spalancò le porte delle province occidentali, mentre i capi tribali ricavavano dai successi militari prestigio personale e vantaggi materiali, che attiravano altri seguaci e stimolavano nuovi attacchi. Per quanto l’esercito imperiale tentasse di opporre resistenza alle orde barbariche, sotto l’urto degli attacchi sferrati a ondate successive le difese crollarono, con conseguente devastazione della Gallia. Le cose andarono di male in peggio quando Alarico, un capo particolarmente capace e ambizioso, guidò la sua tribù, i Visigoti, attraverso l’Italia e si accampò alle porte di Roma per costringere la città a pagargli un tributo. Mentre il Senato cercava disperatamente di soddisfare le sue richieste, Alarico si stancò di aspettare e, nel 410, assaltò la città e la mise a sacco. 11 Lo shock si riverberò da un capo all’altro del Mediterraneo. A Gerusalemme la notizia fu accolta con incredulità. «La voce mi muore in gola, e i singhiozzi interrompono le parole mentre detto» scrisse san Girolamo. «La città che aveva conquistato l’universo intero cade sotto l’occupazione nemica.» Chi poteva crederlo? Chi poteva credere che Roma, edificata nei secoli grazie alla conquista del mondo, fosse caduta, che la madre delle nazioni ne fosse diventata la tomba? 12 Se non altro la città non era stata data alle fiamme, scrisse lo storico Jordanes con l’estenuata rassegnazione di chi, un secolo più tardi, considera le cose retrospettivamente. 13 Anche se Roma non fu bruciata, il suo impero in Occidente si disgregò. Ben presto fu la Spagna a essere vittima della furia devastatrice degli invasori, fra i quali c’erano gli Alani, un popolo che proveniva da una terra remota, situata fra il mar Caspio e il mar Nero, e il cui commercio di pellicce di zibellino era stato scrupolosamente menzionato per la prima volta da cronisti cinesi quasi due secoli
prima. 14 Un altro gruppo tribale, i Vandali, che erano stati costretti a spostarsi dagli Unni, raggiunse il Nord Africa romano negli anni successivi al 420, conquistando il controllo della città principale, Cartagine, nonché delle attive e redditizie province circostanti, che rifornivano di grano buona parte della metà occidentale dell’impero. 15 Come se ciò non bastasse, verso la metà del V secolo, dopo aver spinto a ovest un’accozzaglia di tribù – Goti Tervingiani, Alani, Vandali, Svevi, Gepidi, Neuri, Bastarni e altri ancora – fecero la loro comparsa in Europa gli Unni stessi, guidati dal personaggio più famoso della tarda antichità: Attila. 16 Gli Unni suscitavano terrore puro. Sono «il seme della rovina totale», scrisse un autore romano, e «oltrepassano ogni limite di ferocia». Addestrati fin dall’adolescenza a far fronte al freddo più intenso, alla fame e alla sete, si coprivano di pelli di topo selvatico cucite insieme; mangiavano radici e carne cruda, che scaldavano leggermente tenendola tra le cosce e il dorso dei cavalli. 17 Non avevano alcun interesse per l’agricoltura, osservava un altro autore, e pensavano soltanto a depredare i loro vicini e a schiavizzarli: erano come lupi. 18 Gli Unni sfregiavano le guance dei neonati maschi al momento della nascita per impedire la successiva crescita di barba e baffi, e passavano così tanto tempo a cavallo che i loro corpi erano deformati in modo grottesco; sembravano animali ritti sulle zampe posteriori. 19 Si potrebbe essere tentati di liquidare simili commenti come segni di faziosità, ma gli esami di resti scheletrici mostrano che gli Unni praticavano sui loro giovani la deformazione artificiale del cranio, appiattendo le ossa frontali e occipitali mediante la pressione esercitata con un’apposita fasciatura. Ciò faceva sì che la testa, crescendo, assumesse una forma visibilmente appuntita. Non era quindi soltanto il comportamento degli Unni a essere terrificante in misura inaudita, ma anche il loro aspetto. 20 L’arrivo degli Unni rappresentava un serio pericolo per la parte orientale dell’impero romano, che fino a quel momento era rimasta relativamente al riparo dagli sconvolgimenti che devastavano gran parte dell’Europa. Le province dell’Asia Minore, della Siria, della
Palestina e dell’Egitto erano ancora intatte, così come la splendida città di Costantinopoli. Per non correre rischi, l’imperatore Teodosio II circondò la città di difese formidabili, tra cui un enorme cinta di mura terrestri, per proteggerla dagli attacchi. Queste mura, e con esse la sottile striscia d’acqua che separa l’Europa dall’Asia, si dimostrarono decisive. Dopo essersi rimesso in forze poco a nord del Danubio, Attila devastò i Balcani per quindici anni, estorcendo un pesante tributo al governo di Costantinopoli in cambio della promessa di non spingersi oltre, e assicurandosi enormi quantità d’oro. Dopo aver spremuto fino all’osso le autorità imperiali in termini di riscatti e tangenti, avanzò verso ovest, ma alla fine la sua marcia fu arrestata, non dagli eserciti di Roma, ma da una coalizione formata da numerosi nemici di vecchia data degli Unni. Nel 451 Attila fu sconfitto nella battaglia dei Campi Catalaunici, nell’attuale Francia nordorientale, da un’armata imponente di cui faceva parte uno sbalorditivo coacervo di etnie appartenenti ai popoli delle steppe. Il capo degli Unni morì poco tempo dopo, nella sua notte nuziale… che non era la prima. Dopo aver festeggiato smodatamente, afferma un contemporaneo, «giacque sulla schiena istupidito dal vino e dal sonno», ebbe un’emorragia cerebrale e morì mentre dormiva. «Così l’ubriachezza fu causa di una fine disonorevole per un re che si era guadagnato la gloria in guerra.» 21 Oggigiorno è costume descrivere quella che seguì al sacco di Roma come un’epoca di trasformazione e di stabilità, piuttosto che come «secoli bui». Eppure, come sottolinea con forza uno studioso moderno, l’effetto della devastazione, del saccheggio e dell’anarchia che contraddistinsero il V secolo, in cui Goti, Alani, Vandali e Unni imperversarono in tutta l’Europa e il Nord Africa, è difficile da sopravvalutare. I livelli di alfabetizzazione precipitarono; la pratica di costruire in pietra scomparve quasi del tutto, un chiaro segno del tracollo della ricchezza e delle ambizioni; il commercio a lungo raggio, che un tempo portava ceramiche dagli atelier della Tunisia fino a Iona (Scozia) crollò, sostituito da mercati locali in cui ci si limitava allo scambio di merci di modestissima qualità; e, come risulta dai livelli
d’inquinamento rilevati nelle calotte glaciali della Groenlandia, ci fu una notevole contrazione anche delle attività di fonderia, i cui volumi produttivi si ridussero a quelli delle epoche preistoriche. 22 I contemporanei si sforzarono di dare un senso a quello che, ai loro occhi, appariva come il collasso totale dell’ordine mondiale. «Perché [Dio] permette che siamo proprio noi i più deboli e disgraziati» di tutti questi popoli tribali, lamentava Salviano, autore cristiano del V secolo, «perché ci lascia sopraffare dai barbari? Perché metterci sotto il giogo nemico?» La risposta, concludeva, era semplice: gli uomini avevano peccato e Dio li stava punendo. 23 Altri giunsero alla conclusione opposta. Roma era stata padrona del mondo quando era fedele alle sue radici pagane, sosteneva lo storico bizantino Zosimo (che era a sua volta pagano); quando le aveva abbandonate e si era convertita a una nuova fede, aveva lavorato alla propria rovina. Questa, a suo parere, non era un’opinione, era un fatto. 24 Il collasso di Roma alleviò la situazione dei cristiani in Asia. I rapporti con la Persia erano migliorati a fronte del comune interesse delle due potenze a resistere ai popoli della steppa, e con l’impero profondamente indebolito il cristianesimo non appariva più così minaccioso – o forse anche così convincente – com’era stato un secolo prima, quando Costantino si preparava ad attaccare la Persia e a liberare la sua popolazione cristiana. Nel 410, quindi, su iniziativa del re persiano Yazdgird, ebbe luogo il primo di numerosi incontri volti a formalizzare la posizione della Chiesa cristiana in Persia e a uniformarne le credenze. Come in Occidente, erano emersi molti punti di vista divergenti in merito a cosa significasse di preciso essere seguaci di Gesù, a come dovevano vivere i credenti e a come dovevano manifestare e praticare la loro fede. Come si è osservato in precedenza, già l’iscrizione di Kirdīr del III secolo parlava di due tipi di cristiani, nasraye e kristyone, vale a dire – come normalmente si ritiene – i locali che erano stati evangelizzati e i cristiani che erano stati deportati dal territorio romano. Le difformità nelle pratiche e nella dottrina erano una fonte inesauribile di problemi, e forse non c’era da meravigliarsene se è vero che in luoghi come Rev-Ardashīr, nel Fars (Iran meridionale), c’erano
due Chiese, una che celebrava le funzioni in greco, l’altra in siriaco. A volte la rivalità portava alla violenza fisica, come accadde nella città di Susiana (in quello che oggi è l’Iran sudoccidentale), dove due vescovi in competizione cercarono di regolare i conti con una scazzottata. 25 Gli sforzi del vescovo di Seleucia-Ctesifonte, una delle più importanti città dell’impero persiano, di portare ordine e unità in tutte le comunità cristiane risultarono tanto frustranti quanto inefficaci. 26 Dato che la salvezza dipendeva dalla corretta interpretazione delle questioni di fede, era importante appianare le divergenze una volta per tutte, cosa che i padri della Chiesa primitiva si erano dati la pena di sottolineare fin dall’inizio. 27 «L’abbiamo già detto e ora lo ripeto,» ricordava san Paolo ai Galati «se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!» (Gal 1,9). Era in questa temperie che erano stati scritti dei testi volti a evangelizzare – letteralmente a «dare la buona novella» – allo scopo di spiegare chi fosse il Figlio di Dio e quale fosse stato di preciso il suo messaggio, nonché di dare sistematicità alle credenze. 28 Per mettere fine al dibattito che tanto travagliava la Chiesa cristiana delle origini in Occidente, nel 325 l’imperatore Costantino aveva convocato un concilio a Nicea, dove tutti i vescovi dell’impero furono chiamati a dirimere il contrasto fra le interpretazioni rivali in merito al rapporto tra Dio Padre e Dio Figlio, una delle questioni che avevano suscitato i maggiori attriti, e a decidere su un gran numero di teorie concorrenti. Il concilio affrontò questi temi concordando una struttura da dare alla Chiesa, definendo il problema del calcolo della data della Pasqua e codificando una dichiarazione di fede che ha tuttora piena validità nella Chiesa cristiana: il credo di Nicea. Costantino era ben deciso a porre fine alla divisione e a sottolineare l’importanza dell’unità. 29 Ma al concilio di Nicea non erano stati invitati i vescovi della «Chiesa d’Oriente» (cioè la Chiesa che faceva capo alla Persia) e di altre regioni al di fuori dei confini dell’impero romano. Pertanto, nel 410, e poi nel 420 e nel 424, si tennero in Persia alcuni concili per consentire ai vescovi locali di dirimere le medesime questioni di cui si erano occupati i loro pari in Occidente. La spinta a riunirsi e a
discutere aveva il sostegno dello scià, descritto da una fonte come il «vittorioso re dei re, su cui le Chiese fanno affidamento per la pace», il quale come Costantino era desideroso di beneficiare dell’appoggio delle comunità cristiane piuttosto che di dover intervenire nelle loro liti. 30 Il resoconto di quanto venne concordato in questi sinodi, influenzato come fu dalle successive lotte di potere tra le principali diocesi e tra gli ecclesiastici, non è del tutto attendibile. È chiaro, però, che furono prese importanti decisioni in merito all’organizzazione della Chiesa. A quanto pare, si convenne (sia pure in un contesto di vivaci discussioni e di notevole risentimento) che l’arcivescovo di Seleucia-Ctesifonte avrebbe svolto la funzione di «capo e reggente di noi tutti e dei nostri fratelli-vescovi in tutto l’impero [persiano]». 31 Fu a lungo dibattuta anche l’importante questione dei criteri di attribuzione delle nomine nell’ambito del clero, con l’intento di eliminare le doppie gerarchie in località in cui erano presenti comunità cristiane rivali. Ci si occupò, inoltre, delle date di importanti festività religiose, e si stabilì di porre termine alla comune pratica di appellarsi ai «vescovi occidentali» per averne consigli e interventi, dato che ciò minava l’autorità della Chiesa in Oriente. 32 Furono infine approvati il credo e i canoni del concilio di Nicea, e sanciti accordi che nel frattempo erano stati raggiunti in successivi sinodi occidentali. 33 Per la Chiesa, questo avrebbe dovuto essere un momento cruciale. Se i muscoli e il cervello della religione cristiana avessero lavorato adeguatamente, si sarebbe potuta creare un’istituzione con il compito di connettere l’Atlantico alle colline ai piedi dell’Himalaya, con due braccia pienamente funzionanti – centrate su Roma e la Persia, i due grandi imperi della tarda antichità – e operanti in accordo tra loro. Con il patrocinio imperiale di Roma e una crescente accettazione da parte del sovrano persiano, era stata gettata una base assai promettente perché il cristianesimo diventasse la religione dominante non solo in Europa, ma anche in Asia. Invece esplose una feroce lotta intestina. Alcuni vescovi, che si sentivano sminuiti dai tentativi di portare l’armonia nella Chiesa, accusarono personaggi autorevoli non soltanto
di non essere adeguatamente istruiti, ma di non essere neppure regolarmente ordinati. Ulteriori problemi furono causati da una recrudescenza dell’attivismo militante cristiano: diversi templi del fuoco zoroastriani furono oggetto di atti di vandalismo, che misero lo scià in una posizione compromettente, al punto da costringerlo ad abbandonare l’atteggiamento di tolleranza religiosa per difendere il sistema di credenze della sua aristocrazia. Fu una grave battuta d’arresto. Invece di salutare un’età dell’oro, la Chiesa si trovò a dover affrontare una nuova ondata di persecuzioni. 34 Nella Chiesa primitiva, le accese dispute dottrinali erano endemiche. Gregorio Nazianzeno, arcivescovo di Costantinopoli del IV secolo nonché uno dei più acuti esponenti del cristianesimo delle origini, ricordava di essere stato messo a tacere dalle grida dei detrattori. I rivali gli urlavano contro come un gigantesco stormo di cornacchie, scrisse. Quando lo attaccavano, era come trovarsi nel mezzo di un’enorme tempesta di sabbia, o essere assalito da una torma di animali: «Erano come uno sciame di vespe che d’improvviso ti volano in faccia». 35 Tuttavia, questa particolare rottura nella Chiesa alla metà del V secolo avvenne in un momento decisamente inopportuno. Da qualche tempo, in Occidente andava sviluppandosi un’accesa controversia fra due ecclesiastici rivali, Nestorio, il patriarca di Costantinopoli, e Cirillo, il patriarca di Alessandria, sulla questione della natura divina e umana di Gesù. Dispute come questa non venivano necessariamente risolte con mezzi corretti. Cirillo era un politico nato, senza scrupoli nell’utilizzare qualsiasi metodo per guadagnare consensi alla sua posizione, come dimostra un lungo elenco di tangenti da lui pagate: personaggi influenti, e le loro mogli, ricevevano in dono beni di lusso come bei tappeti, sedie d’avorio, costose tovaglie e denaro contante. 36 Alcuni ecclesiastici in Oriente trovavano la disputa, e la natura della sua soluzione, sconcertanti. Il problema, a loro giudizio, stava nella sciatteria della traduzione greca del termine siriaco che designava l’incarnazione, ancorché al cuore della disputa ci fosse in realtà la lotta per la supremazia tra due figure autorevoli della gerarchia ecclesiastica e il prestigio che derivava dall’accettazione e
adozione delle proprie posizioni dottrinali. Lo scontro giunse all’acme sulla definizione della Vergine, che secondo Nestorio doveva essere chiamata non Theotókos (colei che genera Dio) ma Christotókos (colei che genera Cristo), affermando così, in altre parole, la natura esclusivamente umana di Gesù. 37 Efficacemente contrastato e sconfitto da Cirillo, Nestorio venne deposto, una mossa che si rivelò destabilizzante per la Chiesa, dal momento che i vescovi mutarono frettolosamente le loro posizioni teologiche prima in un senso e poi nell’altro. Decisioni prese in un concilio venivano messe in discussione in un altro, mentre fazioni rivali manovravano freneticamente dietro le quinte. Gran parte della disputa verteva sulla questione se Gesù Cristo avesse due nature – divina e umana – indissolubilmente unite in un’unica persona e su come le due nature fossero connesse. Anche il particolare carattere della relazione tra Gesù e Dio era argomento di un infuocato dibattito, che ruotava intorno alla questione se il primo fosse una creazione del secondo, e quindi subordinato, oppure una manifestazione dell’Onnipotente, e quindi coeguale e coeterno. Risposte a questi interrogativi furono enunciate con forza al concilio di Calcedonia nel 451, con l’articolazione di una nuova definizione della fede che tutto il mondo cristiano era tenuto ad accettare, e che era accompagnata dall’esplicita minaccia che chiunque non l’avesse condivisa sarebbe stato espulso dalla Chiesa. 38 La Chiesa d’Oriente reagì furiosamente. Questa nuova dottrina non era solo sbagliata, sostenevano i vescovi d’Oriente, ma rasentava l’eresia. Fu quindi diffuso un credo riformulato che ribadiva le nature distinte e separate di Gesù, e minacciava la dannazione per chiunque «pensi o insegni ad altri che sofferenza e mutamento si siano associati alla natura divina di nostro Signore». 39 L’imperatore romano d’Oriente, che fu coinvolto nel dibattito, decretò la chiusura della scuola di Edessa, ormai divenuta il punto focale del cristianesimo orientale attraverso una massiccia divulgazione di testi, vite di santi e sermoni redatti in siriaco, il dialetto aramaico parlato a Edessa, e in una varietà di altre lingue, quali il persiano e il sogdiano. 40 A differenza di quanto accadeva nel Mediterraneo, dove il greco era la lingua della cristianità, in Oriente si
riconobbe fin dall’inizio che per attrarre nuovi uditori bisognava disporre di materiale comprensibile al maggior numero possibile di gruppi linguistici. La chiusura della scuola di Edessa approfondì lo scisma tra le Chiese d’Occidente e d’Oriente, anche perché molti studiosi espulsi dal territorio imperiale trovarono rifugio in Persia. Con il tempo, questa circostanza divenne sempre più problematica, perché dagli imperatori di Costantinopoli ci si aspettava che difendessero la dottrina «ortodossa», e che usassero la mano pesante con gli insegnamenti giudicati devianti ed eretici. Nel trattato di pace siglato con la Persia nel 532, che sancì la fine di un periodo di instabilità e di conflitti nel Caucaso, una delle clausole principali era che i funzionari persiani dovessero contribuire a rintracciare e ad arrestare vescovi e sacerdoti le cui idee non erano in linea con le tesi del concilio di Calcedonia e le cui attività erano considerate pericolose dalle autorità romane. 41 Cercare di sedare gli animi di fazioni religiose rivali era un compito ingrato. Lo dimostra fin troppo chiaramente il caso dell’imperatore Giustiniano, il quale tentò più volte e in vari modi di indurre le parti in conflitto a riconciliare i loro punti di vista: nel 553 convocò un grande concilio ecumenico che mettesse un punto fermo a un periodo di recriminazioni sempre più aspre e partecipò di persona a più modesti incontri tra autorevoli ecclesiastici per trovare una via di soluzione. 42 Un’opera scritta dopo la sua morte mostra come i suoi sforzi di trovare un terreno comune apparissero agli occhi di alcuni: «Dopo aver colmato ogni cosa di confusione e torbidi, al termine della sua vita ne ricevette il salario, passando alle pene dell’inferno». 43 Altri imperatori affrontarono la questione in modo diverso e, nel tentativo di silenziare la cacofonia e le recriminazioni, si limitarono a proibire che si discutesse di questioni religiose. 44 Mentre la Chiesa d’Occidente era ossessionata dall’idea di estirpare le idee dissenzienti, la Chiesa d’Oriente pose mano a uno dei programmi missionari più ambiziosi e di più vasta portata della storia, paragonabile per ampiezza alla successiva evangelizzazione
delle Americhe e dell’Africa: il cristianesimo si diffuse rapidamente in nuove regioni senza il pugno di ferro del potere politico. Un’ondata di martìri nell’estremità meridionale della Penisola arabica mostra quanto lontano si stessero estendendo le sue propaggini, così come il fatto che il re dello Yemen si fece cristiano. 45 Un visitatore di lingua greca giunto nello Sri Lanka intorno al 550 vi trovò una nutrita comunità cristiana, cui sovrintendevano ecclesiastici nominati «dalla Persia». 46 Il cristianesimo raggiunse perfino i popoli nomadi delle steppe, con grande sorpresa dei funzionari di Costantinopoli i quali, fra gli ostaggi ricevuti nel quadro di un accordo di pace, scoprirono che alcuni avevano «il simbolo della croce tatuato in nero sulla fronte». Interrogati su come ciò fosse accaduto, questi risposero che c’era stata una pestilenza e che «alcuni cristiani tra loro avevano suggerito di farlo [per ottenere la protezione divina] e da quel momento il loro paese era stato indenne». 47 Intorno alla metà del VI secolo c’erano sedi arcivescovili nel cuore dell’Asia. In città come Bassora, Mosul e Tikrit esistevano fiorenti comunità cristiane. La scala dell’evangelizzazione era tale che Kokhe, località nei pressi di Ctesifonte, era servita da non meno di cinque vescovadi dipendenti. 48 Merv, Gundeshāpūr e perfino Kashgar, la città-oasi che rappresentava la porta d’ingresso in Cina, erano sedi arcivescovili ben prima di Canterbury e importanti centri cristiani molti secoli prima che i missionari mettessero piede in Polonia o in Scandinavia. Anche Samarcanda e Bukhara (nel moderno Uzbekistan) ospitavano prospere comunità cristiane mille anni prima che il cristianesimo fosse portato nelle Americhe. 49 In realtà, anche durante il Medioevo c’erano molti più cristiani in Asia di quanti ce ne fossero in Europa. 50 Dopotutto, Baghdad è più vicina a Gerusalemme di Atene, mentre Teheran è più vicina di Roma alla Terra Santa, e Samarcanda lo è più di Parigi e Londra. Il successo del cristianesimo in Oriente è stato a lungo dimenticato. La sua espansione dovette molto alla tolleranza e all’abilità dei sovrani sasanidi della Persia, in particolare alle politiche di integrazione che riuscirono a perseguire quando l’aristocrazia e il
clero zoroastriano cessarono di darsi battaglia. Tanto conciliante era il modo in cui Cosroe I (531-579) trattava gli studiosi stranieri che divenne noto nella Costantinopoli dell’epoca per essere un «amante della letteratura e un profondo studioso della filosofia», cosa che indusse qualcuno a farfugliare per l’incredulità: mi sembra assolutamente impossibile pensare – così protestava lo storico Agazia non molto tempo dopo – che possa veramente essere stato tanto brillante. Parlava una lingua rozza e barbara; come avrebbe mai potuto comprendere le sfumature della filosofia? 51 Dalla metà del VI secolo i sinodi della Chiesa d’Oriente si aprivano addirittura con fervide preghiere per la salute del re persiano. E non molto più tardi si poté vedere lo scià organizzare l’elezione di un nuovo patriarca, sollecitando tutti i vescovi del regno a «venire immediatamente … a eleggere un capo e governatore … sotto la cui guida e amministrazione stiano ogni altare e ogni Chiesa di nostro Signore Gesù Cristo nell’impero dei persiani». 52 Il sovrano sassanide da persecutore dei cristiani in Asia si era trasformato in loro protettore. Ciò era almeno in parte la conseguenza di una crescente fiducia della Persia in sé stessa, alimentata dai regolari pagamenti di tributi da parte delle autorità di Costantinopoli, le cui priorità militari e politiche erano rivolte alla soluzione di problemi altrove. Con le steppe tranquille e l’attenzione di Roma spesso concentrata sulla stabilizzazione e il recupero di province mediterranee sfuggite al suo controllo, il V e il VI secolo furono per la Persia un periodo di crescente prosperità: la tolleranza religiosa andava di pari passo con lo sviluppo economico. Innumerevoli nuove città furono fondate su tutto il suo territorio, grazie alle quote crescenti di entrate fiscali investite dal governo in infrastrutture. 53 Massicci programmi di irrigazione, soprattutto in Khuzistan e in Iraq, incrementarono la produzione agricola, mentre si costruivano – o in certi casi si estendevano per parecchi chilometri – le reti idriche. Un vasto apparato burocratico assicurava un’amministrazione uniforme dal Levante fino al cuore dell’Asia centrale. 54 In questo periodo ebbe luogo anche un massiccio processo di centralizzazione dello Stato sasanide. 55
Il livello di controllo era tale da estendersi perfino alla collocazione dei singoli chioschi nei mercati e nei bazar persiani. Un testo registra che i commercianti erano regolarmente organizzati in gilde e segnala la costante presenza di ispettori che assicuravano i controlli di qualità e valutavano gli introiti dovuti al tesoro. 56 Con l’aumento della ricchezza, cresceva anche il commercio a lunga distanza di beni di lusso e di alto pregio: sono giunti fino a noi migliaia di sigilli usati per contrassegnare gli imballi destinati alla vendita o all’esportazione, oltre a un voluminoso corpus di documenti scritti che attesta come in questo periodo i contratti erano vidimati con sigilli e conservati negli uffici del registro. 57 Le merci venivano trasportate dal golfo Persico al mar Caspio, nonché da e per l’India via mare e via terra. I livelli degli scambi con lo Sri Lanka e la Cina subirono un’impennata, così come quelli con il Mediterraneo orientale. 58 Le autorità sasanidi mantennero sempre un vivo interesse per ciò che accadeva all’interno e all’esterno dei loro confini. Una quota considerevole di questo commercio a lungo raggio era gestita da mercanti sogdiani, famosi per le loro carovane, l’acume finanziario e gli stretti legami familiari, grazie ai quali potevano scambiare merci lungo le arterie principali che correvano attraverso l’Asia centrale fino allo Xinjiang e alla Cina occidentale. Una straordinaria raccolta di lettere, scoperta da Aurel Stein in una torre di guardia nei pressi di Dunhuang agli inizi del XX secolo, documenta l’esistenza di reti commerciali e di sofisticati strumenti di credito, oltre a dare conto delle merci e dei prodotti trasportati e venduti dai sogdiani. Tra i molti articoli che commerciavano c’erano ornamenti d’oro e d’argento, come fermagli per capelli e recipienti finemente lavorati, canapa, tessuti di lino e di lana, zafferano, pepe e canfora; ma la loro specialità era il commercio della seta. 59 I mercanti sogdiani erano il collante che teneva insieme città, oasi e regioni. Fu in gran parte grazie a loro che la seta cinese giunse nel Mediterraneo orientale, dove fu molto apprezzata dagli imperatori e dall’élite di Roma. Del pari, i sogdiani portarono merci nella direzione opposta: monete coniate a Costantinopoli sono state rinvenute in tutta l’Asia centrale, finanche nella Cina interna, così come vari oggetti prestigiosi,
tra cui una brocca d’argento con incise scene della guerra di Troia che fu sepolta alla metà del VI secolo accanto al suo potente proprietario, Li Xian. 60 Quando le religioni vennero in contatto tra loro, inevitabilmente presero in prestito elementi l’una dall’altra. Benché sia difficile ricostruire con precisione tale processo, è sorprendente come l’aureola sia diventata un simbolo iconografico comune che attraversa l’arte induista, buddhista, zoroastriana e cristiana, come legame tra il terreno e il divino, e come un segno di radiosità e illuminazione a cui tutte queste fedi attribuivano valore. Uno splendido monumento sito a Tāq-i Bustān, nel moderno Iran, rappresenta un sovrano a cavallo circondato da angeli alati e con un anello di luce intorno al capo, una scena che sarebbe stata riconoscibile ai seguaci di una qualunque delle grandi fedi della regione. Analogamente, anche alcune pose – come quella del Buddha detta vitarka mudra, formata dal pollice dritto e dall’indice di una mano che si toccano, spesso con le altre dita distese – furono adottate per illustrare connessioni con il divino, con particolare favore da parte degli artisti cristiani. 61 Il cristianesimo si diffuse lungo le vie commerciali, ma la sua avanzata non avvenne senza contrasti. Il centro del mondo era sempre stato un luogo rumoroso, nel quale fedi, idee e religioni contraevano prestiti l’una dall’altra, ma non senza conflitti. La competizione per l’autorità spirituale divenne sempre più forte. Tale tensione aveva a lungo contrassegnato il rapporto fra cristianesimo e giudaismo, i cui capi religiosi si sforzavano di tracciare linee di demarcazione fra i rispettivi campi: quanto al primo, il matrimonio tra seguaci delle due religioni fu ripetutamente vietato per legge, mentre la data della Pasqua fu deliberatamente spostata in modo che non coincidesse con quella della festa ebraica di Pesach. 62 Ma per alcuni questo non era sufficiente. Giovanni Crisostomo, arcivescovo di Costantinopoli alla fine del IV secolo, insisteva perché la liturgia fosse più esaltante, lamentando che era difficile per i cristiani competere con la teatralità della sinagoga, dove tamburi, lire, arpe e altri strumenti musicali assicuravano il divertimento durante il culto, così come la presenza di attori e danzatori chiamati a ravvivare le funzioni. 63
Autorevoli personaggi ebrei, da parte loro, non erano entusiasti di ricevere nuovi convertiti. «Non fidatevi di un proselito,» ammoniva un famoso rabbino, Ḥiyya il Grande, «finché non siano trascorse ventiquattro generazioni, perché il male che gli è intrinseco è ancora dentro di lui.» I convertiti sono irritanti e fastidiosi come le croste sulla pelle, osservava Ḥelbo, un altro influente rabbino. 64 In Persia gli atteggiamenti degli ebrei nei confronti del cristianesimo si inasprirono per effetto dei suoi progressi. Ciò è messo bene in evidenza dal Talmud babilonese, la collezione di testi centrati sull’interpretazione rabbinica della legge giudaica. A differenze del Talmud palestinese, che si riferisce a Gesù solo di passaggio e in modo gentile, la versione babilonese assume una posizione violenta e caustica nei confronti del cristianesimo, attaccandone le dottrine, specifici eventi e personaggi dei Vangeli. Il concepimento verginale di Maria, per esempio, viene deriso, e lo si dichiara probabile come il fatto che un mulo abbia dei discendenti, mentre il racconto della Resurrezione viene ferocemente ridicolizzato. Contronarrazioni dettagliate e raffinate della vita di Gesù, comprese parodie di scene del Nuovo Testamento e soprattutto del Vangelo di san Giovanni, testimoniano di quanto minacciosa fosse divenuta la diffusione del cristianesimo. Da parte ebraica c’era uno sforzo sistematico di asserire che Gesù era un falso profeta, e che la sua crocifissione era giustificabile, insomma di allontanare dagli ebrei la responsabilità del martirio e il relativo biasimo. Queste violente reazioni erano il tentativo di contrastare i costanti progressi compiuti dal cristianesimo a spese del giudaismo. 65 Era quindi importante che vi fossero casi in cui anche il giudaismo compiva progressi. Nel regno di Himyar, nell’angolo sudoccidentale della Penisola arabica, che oggi è diviso tra Arabia Saudita e Yemen, le comunità ebraiche acquisirono progressivamente importanza, come dimostrano recenti scoperte di sinagoghe, come quella del IV secolo rinvenuta a Cana. 66 In effetti, il regno himyarita adottò il giudaismo come religione di Stato, e lo fece in modo entusiastico. Verso la fine del V secolo i cristiani, compresi preti, monaci e vescovi, venivano regolarmente martirizzati per la loro fede, dopo essere stati condannati da un consiglio rabbinico. 67
All’inizio del VI secolo un’abborracciata spedizione militare etiopica attraverso il mar Rosso per sostituire il sovrano ebreo con un fantoccio cristiano finì per produrre feroci rappresaglie, mentre si avviava un processo di rimozione di ogni traccia di cristianesimo dal regno. Le chiese furono demolite o trasformate in sinagoghe e centinaia di cristiani vennero imprigionati o giustiziati. In un caso, duecento di loro che si erano rifugiati in una chiesa furono arsi vivi. Tutto ciò fu riferito con gioia dal re, che inviò lettere in tutta l’Arabia rallegrandosi delle sofferenze che aveva inflitto. 68 Anche il clero zoroastriano reagì ai progressi del cristianesimo nell’impero sasanide, soprattutto in seguito alla conversione di numerosi ed eminenti membri dell’élite al potere. Pure questo episodio ebbe come conseguenza una serie di aggressioni contro le comunità cristiane e parecchi martìri. 69 A loro volta, i cristiani cominciarono a produrre racconti di inflessibile moralità, il più famoso dei quali era l’epica storia di Qardagh, un giovane brillante che cacciava come un re persiano e ragionava come un filosofo greco, e che aveva rinunciato a una promettente carriera di governatore provinciale per convertirsi. Condannato a morte, era fuggito di prigione soltanto per poi fare un sogno che gli diceva che era meglio morire per la fede piuttosto che combattere. La sua esecuzione, alla quale aveva partecipato il padre scagliando la prima pietra, veniva commemorata in un ampio e bellissimo racconto il cui scopo era evidentemente di incitare altri a trovare il coraggio di farsi cristiani. 70 Parte del segreto del successo del cristianesimo risiedeva nell’impegno e nell’energia profusi nella sua missione evangelica. Era ovviamente d’aiuto che l’entusiasmo fosse pervaso da una ricca dose di realismo: testi dell’inizio del VII secolo danno notizia di ecclesiastici impegnati a fondo per conciliare le loro idee con quelle del buddhismo, se non come scorciatoia, quantomeno come modo per semplificare le cose. Lo Spirito Santo, scriveva un missionario che era arrivato in Cina, era perfettamente coerente con quanto la popolazione locale già credeva: «Tutti i buddha scorrono e fluiscono in virtù di questo stesso vento [lo Spirito Santo], mentre in questo mondo non c’è luogo che il vento non raggiunga». Inoltre, continuava,
Dio è responsabile dell’immortalità e dell’eterna felicità fin dalla creazione del mondo. In quanto tale, «l’uomo … renderà sempre onore al nome di Buddha». 71 Il cristianesimo non era soltanto compatibile con il buddhismo, stava dicendo; in senso lato, era buddhismo. Altri cercarono di codificare la fusione di idee cristiane e buddhiste producendo una serie ibrida di «vangeli» che semplificavano efficacemente, con elementi familiari e accessibili alle popolazioni dell’Est, il complesso messaggio e la vicenda del cristianesimo, al fine di accelerarne l’avanzata attraverso l’Asia. C’era una logica teologica in questa impostazione dualistica, comunemente chiamata «gnosticismo», secondo la quale predicare servendosi di punti di riferimento culturale comprensibili e di un linguaggio accessibile era una maniera ovvia di diffondere il messaggio. 72 Non c’è da meravigliarsi, allora, che il cristianesimo trovasse positivi riscontri in un’ampia fascia della popolazione: si trattava di idee appositamente elaborate per suonare familiari e facili da afferrare. Altri culti, religioni e sette beneficiarono del medesimo processo. Gli insegnamenti di Mazdak, un predicatore carismatico, godettero di grande popolarità verso la fine del V secolo e all’inizio del VI, come si può evincere dalle critiche irose e pittoresche riversate sui suoi seguaci da commentatori cristiani e zoroastriani. Gli atteggiamenti e le pratiche dei discepoli di Mazdak, da ciò che mangiavano al loro presunto interesse per il sesso di gruppo, erano oggetto di animosa denigrazione. In realtà, a quanto possiamo capire dalle lacunosissime fonti, Mazdak propugnava uno stile di vita ascetico che aveva ovvie assonanze con gli atteggiamenti buddhisti nei confronti del mondo materiale, con la diffidenza zoroastriana verso il mondo fisico e con l’inveterato ascetismo cristiano. 73 In questo ambiente spirituale fortemente competitivo, era importante difendere il territorio intellettuale, oltre che quello fisico. Un viaggiatore cinese che nel VI secolo passava da Samarcanda osservò che la popolazione locale si opponeva con violenza alla legge di Buddha e scacciava «con il fuoco» qualunque buddhista cercasse rifugio in città. 74 In questo caso, l’accoglienza ostile ebbe poi un lieto
fine: al visitatore fu da ultimo consentito di convocare una riunione e, a quanto pare, riuscì a persuadere molti a convertirsi al buddhismo grazie alla forza del suo carattere e delle sue argomentazioni. 75 Pochi comprendevano meglio dei buddhisti quanto fosse importante propagandare ed esibire oggetti che confermassero le dichiarazioni di fede. Un altro pellegrino cinese, che si spinse nell’Asia centrale in cerca di testi sanscriti da studiare, osservò con meraviglia le sacre reliquie venerate dalla popolazione locale a Balkh. Tra queste c’era uno dei denti di Buddha, il bacile che usava per lavarsi e la scopa che usava per ramazzare, fatta di steli di grano saraceno ma decorata con bei gioielli. 76 Per conquistare i cuori e le menti, però, esistevano argomenti più evidenti e spettacolari. I templi rupestri erano ormai un modo consueto per evocare e rafforzare un messaggio spirituale: situati lungo le arterie commerciali, coniugavano l’idea del santuario e del divino con quella del viaggio e del commercio. Nell’India settentrionale, il complesso di Elephanta, presso la costa di Mumbai, e le grotte di Ellora ne costituiscono esempi grandiosi. Ricchi di maestose ed elaborate statue di divinità, questi luoghi di culto dovevano essere una manifestazione di superiorità morale e teologica, in questo caso la superiorità dell’induismo. 77 C’era un ovvio parallelismo tra questi complessi e le grotte di Bamiyan, nell’odierno Afghanistan. Situata al crocevia di strade che collegavano l’India a sud, la Battriana a nord e la Persia a ovest, la valle di Bamiyan ospitava un complesso di 751 grotte occupate da gigantesche figure del Buddha. 78 Due statue, una alta 54 metri e un’altra, leggermente più antica, di dimensioni pari a circa due terzi della prima, si ergevano scolpite entro vaste nicchie nella roccia da quasi 1500 anni, finché furono fatte saltare in aria e distrutte dai talebani nel 2001, in un’esibizione di filisteismo e di barbarie culturale che regge il confronto con la distruzione di manufatti religiosi in Gran Bretagna e nell’Europa settentrionale durante la Riforma. 79 Quando pensiamo alle Vie della Seta, siamo portati a immaginare che la circolazione fosse sempre diretta da est verso ovest. In realtà, esistevano anche un notevole interesse e un intenso traffico nella
direzione opposta, come risulta evidente da un testo cinese del VII secolo permeato di entusiasmo e stupore. La Siria, scriveva l’autore, era un luogo che «produce tessuto resistente al fuoco, incenso che restituisce la vita, luminose perle lunari e gemme lucenti come la notte. Briganti e rapinatori vi sono sconosciuti, mentre il popolo gode felicità e pace. Soltanto leggi eccellenti sono in vigore; soltanto i virtuosi sono innalzati al potere supremo. Il paese è ampio ed esteso, e le sue produzioni letterarie sono perspicue e nobili». 80 E in effetti, nonostante la spietata concorrenza e il coro di religioni in lotta per imporre la propria voce, era il cristianesimo che continuava a erodere, pezzo dopo pezzo, le credenze, le pratiche e i sistemi di valori tradizionali. Nel 635 i missionari in Cina riuscirono a convincere l’imperatore ad abbandonare l’ostilità nei confronti del loro credo e a riconoscerlo come una religione legittima, il cui messaggio non solo non comprometteva l’identità imperiale, ma anzi potenzialmente la rafforzava. 81 Intorno alla metà del VII secolo il futuro sembrava di facile lettura. Il cristianesimo avanzava in tutta l’Asia, compiendo incursioni a spese di zoroastrismo, giudaismo e buddhismo. 82 In questa regione le religioni si erano sempre disputate l’un l’altra il primato e avevano imparato a conquistarsi l’attenzione con la lotta. La più competitiva e vincente, però, risultava essere una religione nata nel paesino di Betlemme. 83 Nei secoli successivi alla crocifissione di Gesù per mano di Ponzio Pilato erano stati compiuti tanti progressi e, a tempo debito, i tentacoli del cristianesimo avrebbero raggiunto il Pacifico, collegando il grande oceano con l’Atlantico a occidente. Ma inaspettatamente, proprio nel momento del trionfo, intervenne il caso. C’erano le basi per una conquista spirituale che collegasse non soltanto città e regioni, ma abbracciasse interi continenti, e invece scoppiò una guerra logorante, che indebolì le potenze dell’epoca e aprì opportunità per nuovi concorrenti. Fu come se la tarda antichità fosse stata presa d’assalto da Internet: all’improvviso una nuova ondata di idee, teorie e tendenze minacciò di sovvertire l’assetto esistente, sfruttando le reti che erano state istituite nel corso dei secoli. Il nome della nuova cosmologia non rifletteva adeguatamente il suo
carattere rivoluzionario. Strettamente connessa con i termini che indicano la salvezza e la pace, la parola «islam» non dava minimamente l’idea di quanto il mondo stesse per cambiare. Era arrivata la rivoluzione.
IV
LA VIA ALLA RIVOLUZIONE
L’ascesa dell’islam ebbe luogo in un mondo che era reduce da un centinaio d’anni di disordine, dissenso e catastrofi. Nel 541, un secolo prima che il profeta Muḥammad (Maometto) cominciasse a ricevere una serie di rivelazioni divine, si ebbe notizia di una diversa minaccia che seminava il panico in tutto il Mediterraneo. Si muoveva come un fulmine, con una tale rapidità che nel momento in cui il terrore cominciava a diffondersi era già troppo tardi. Nessuno veniva risparmiato, e l’entità della strage era a malapena immaginabile. Secondo un contemporaneo che aveva perso gran parte della propria famiglia, una città sul confine dell’Egitto era stata cancellata: sette uomini e un ragazzo di dieci anni erano tutto ciò che rimaneva di una popolazione un tempo attivissima; le porte delle case rimanevano spalancate, senza che nessuno facesse la guardia all’oro, all’argento e agli oggetti preziosi che si trovavano all’interno. 1 Toccava alle città subire l’urto degli attacchi più violenti: a Costantinopoli, alla metà degli anni Quaranta del VI secolo si contarono fino a 10.000 morti al giorno. 2 A soffrire non era soltanto l’impero romano. In breve, anche le città dell’Oriente furono sconvolte, mentre la calamità si diffondeva lungo le vie di comunicazione e le reti commerciali, devastando i centri urbani della Mesopotamia persiana e giungendo fino in Cina. 3 La peste bubbonica provocò catastrofe, disperazione e morte. E provocò anche una depressione economica senza fine: campi senza agricoltori, città svuotate di consumatori e una generazione decimata in età giovanile alterarono ovviamente la demografia della tarda antichità, causando una drastica contrazione dell’economia. 4 Tutto ciò, a tempo debito, avrebbe avuto inevitabili ripercussioni sulle linee di politica estera perseguite dagli imperatori di Costantinopoli.
Durante la prima parte del regno di Giustiniano (527-565), l’impero era riuscito a conseguire una serie di straordinari successi, tra cui la riconquista delle province del Nord Africa e significativi progressi in Italia. Un uso assennato della forza si accompagnò a sforzi deliberati per mantenere la flessibilità necessaria a fronteggiare i problemi che in qualsiasi momento potevano divampare sugli estesi confini dell’impero, Oriente compreso. Tale equilibrio divenne sempre più precario nella fase successiva del regno di Giustiniano, via via che carenze di manodopera, campagne militari inconcludenti e costi crescenti prosciugarono un tesoro già impoverito prima che la peste assestasse il suo colpo. 5 La stagnazione prese piede e gli umori della popolazione nei confronti dell’imperatore s’inasprirono. Critiche particolarmente feroci furono riservate al modo in cui Giustiniano sembrava voler comprare l’amicizia dei vicini dell’impero, sborsando denaro e concedendo indiscriminatamente favori. Era talmente sciocco da considerare una «gran trovata dar fondo al patrimonio dei romani, sciuparlo gettandolo … ai barbari» scrisse il caustico Procopio, il più importante storico del tempo. L’imperatore, continuava con inesorabile durezza, «non si lasciava sfuggire un’occasione per elargire somme enormi ai barbari», a tutti, a nord, sud, est e ovest; contante veniva inviato anche a popoli di cui fino ad allora non si era mai sentito parlare. 6 I successori di Giustiniano abbandonarono questa impostazione e assunsero una linea drastica e intransigente nei confronti dei vicini dell’impero. Quando, poco dopo la sua morte, nel 565, gli ambasciatori degli Avari, una delle grandi tribù delle steppe, si presentarono a Costantinopoli per chiedere il consueto tributo, furono trattati in malo modo dal nuovo imperatore, Giustino II: «Non sarete mai più messi a carico di questo impero, e andatevene per la vostra strada senza renderci alcun servizio; perché da me non avrete nulla». E quando minacciarono conseguenze, Giustino esplose: «Voi, cani morti, osate minacciare il regno di Roma? Sappiate che vi raserò quei vostri ricci, e poi vi taglierò la testa». 7 Lo stesso atteggiamento aggressivo fu adottato nei confronti dei
persiani, specialmente dopo che si ebbe notizia che un potente raggruppamento di nomadi Türk (o Turchi Celesti) aveva preso il posto degli Unni nella steppa dell’Asia centrale ed esercitava pressione sulle loro frontiere orientali. I Türk stavano svolgendo un ruolo sempre più importante nel commercio, con grande fastidio dei cinesi, che li descrivevano come sgradevoli e inaffidabili, segno certo del loro crescente successo commerciale. 8 A guidarli era il leggendario Sizabul, che prese a ricevere i dignitari in una tenda raffinata disteso su un letto d’oro sorretto da quattro pavoni anch’essi d’oro, e con un grande carretto traboccante d’argento disposto ben in vista accanto a sé. 9 I Türk, che avevano grandi ambizioni, inviarono messi a Costantinopoli per proporre un’alleanza militare a lungo raggio. Un attacco congiunto, dissero gli ambasciatori a Giustino II, avrebbe annientato la Persia. 10 Ansioso di guadagnarsi la gloria a spese del tradizionale rivale di Costantinopoli e incoraggiato dalle prospettive favorevoli, l’imperatore aderì al piano e divenne sempre più magniloquente, rivolgendo minacce allo scià e chiedendo la restituzione di città e territori ceduti in forza di accordi precedenti. Dopo che un attacco mal condotto dai romani fallì, i persiani risposero puntando su Dara (nella Turchia meridionale), la pietra angolare delle difese confinarie, che espugnarono nel 574 al termine di un terribile assedio durato sei mesi. Un successo che provocò all’imperatore romano un crollo mentale e fisico. 11 L’insuccesso convinse i Türk che Costantinopoli era un alleato di scarso valore e inaffidabile. Il loro ambasciatore lo dichiarò senza mezzi termini nel 576, escludendo recisamente ogni possibilità di un altro attacco alla Persia. Dopo essersi infilato le mani in bocca, disse rabbiosamente: «Come adesso ci sono dieci dita nella mia bocca, così voi romani avete usato molte lingue». Roma aveva ingannato i Türk promettendo di fare del proprio meglio contro la Persia, ma i risultati erano stati deplorevoli. 12 In ogni caso, la riapertura delle ostilità con la Persia segnò l’inizio di un periodo tumultuoso che ebbe conseguenze di portata straordinaria. Seguirono due decenni di combattimenti segnati da
momenti altamente drammatici, come quando un esercito persiano, che si era spinto fin nel cuore dell’Asia Minore e si stava ritirando, cadde in un agguato e la regina fu presa prigioniera insieme al suo carro d’oro tempestato di perle e pietre preziose. Anche il fuoco sacro che il re persiano portava sempre con sé durante le campagne militari, considerato «il più grande di tutti i fuochi», cadde nelle mani del nemico e venne gettato in un fiume, dove trovarono la morte – o forse vi furono annegati – il gran sacerdote zoroastriano e «una moltitudine di personaggi tra i più autorevoli». Lo spegnimento del fuoco sacro fu un atto aggressivo e provocatorio, mirato a sminuire il caposaldo religioso dell’identità persiana. La notizia fu accolta con manifestazioni di sfrenato entusiasmo da parte dei romani e dei loro alleati. 13 Con il prolungarsi delle ostilità, il ruolo della religione divenne sempre più importante. Per esempio, durante una rivolta dei soldati motivata da una ventilata riduzione della paga, il comandante in capo fece sfilare davanti alle truppe un’immagine consacrata di Gesù per inculcare in loro l’idea che servire l’imperatore significasse servire Dio. E quando, nel 579, lo scià Cosroe I morì, alcuni affermarono, senza alcun fondamento, «che la luce del Verbo divino splendeva radiosamente attorno a lui, perché credeva in Cristo». 14 A Costantinopoli, l’irrigidirsi dell’atteggiamento nei confronti delle altre religioni portò a denunciare a gran voce lo zoroastrismo come spregevole, falso e depravato: i persiani, scrisse Agazia, hanno contratto «abitudini devianti e degenerate fin da quando sono stati sedotti dall’insegnamento di Zoroastro». 15 Instillare nel militarismo una massiccia dose di religiosità aveva implicazioni per coloro che vivevano alla periferia dell’impero, che erano stati corteggiati e convertiti al cristianesimo nell’ambito di una politica deliberatamente volta a ottenere il loro sostegno e la loro fedeltà. 16 Uno sforzo particolare era stato fatto per convertire le tribù dell’Arabia meridionale e occidentale con la promessa di ricompense materiali. Anche il conferimento di titoli reali, che introdusse nuovi vincoli di parentela (e di regalità) che potevano essere efficacemente sfruttati a livello locale, contribuì a convincere molti a condividere la
sorte di Costantinopoli. 17 L’irrigidimento della sensibilità religiosa che si manifestò durante il confronto con la Persia ebbe pertanto delle conseguenze, perché il cristianesimo adottato da alcune tribù non era quello della formula convenuta a Calcedonia nel 451, ma una versione, o meglio una varietà di versioni, che sostenevano punti di vista differenti in merito all’unità di Cristo. Per effetto dei messaggi intransigenti provenienti dalla capitale imperiale, i rapporti con i Ghassānidi, alleati di vecchia data dei romani in Arabia, s’inasprirono, per poi essere definitivamente compromessi 18 – in parte a causa di reciproche diffidenze religiose – proprio in questo momento delicato, offrendo così ai persiani un’eccellente opportunità da sfruttare. Essi ottennero il controllo sui porti e i mercati dell’Arabia meridionale e occidentale, mentre veniva aperta una nuova via commerciale di terra che collegava la Persia alla Mecca e a ‘Ukāẓ. Secondo la tradizione islamica, questa nuova situazione spinse un’autorevole figura della Mecca a prendere contatto con Costantinopoli con la richiesta di una nomina a filarca, o protettore, della città in quanto rappresentante di Roma, e più tardi un certo ‘Uthmān ottenne dall’imperatore il titolo di monarca di Mecca. Parallelamente, i persiani nominarono un omologo nella città di Yathrib. 19 Mentre queste tensioni si cristallizzavano nella Penisola arabica, nel suo teatro principale al Nord la guerra prolungata faceva scarsi progressi. La svolta si verificò alla fine degli anni Ottanta del VI secolo non sul campo di battaglia, ma alla corte persiana, quando Vahrām, un famoso generale che aveva stabilizzato la frontiera orientale con i Türk, si ribellò allo scià Cosroe II, che fuggì a Costantinopoli dove promise all’imperatore Maurizio, in cambio del suo appoggio, importanti concessioni territoriali nel Caucaso e in Mesopotamia, compresa la restituzione di Dara. Dopo essere tornato in patria nel 591 e aver regolato i conti con il suo rivale con sorprendente facilità, Cosroe si dispose a onorare l’accordo. Fu un momento, come ha osservato un autorevole studioso, in qualche modo paragonabile alla conferenza di Versailles: troppe città, fortezze e posizioni importanti
furono consegnate ai romani, sguarnendo il cuore economico e amministrativo della Persia. L’umiliazione era talmente grande da provocare un’inevitabile ed energica reazione. 20 Il pendolo aveva oscillato in entrambi i sensi durante l’aspro conflitto sviluppatosi nel corso dei due decenni precedenti. Sembrava che Roma si fosse effettivamente assicurata un grosso successo diplomatico e politico, e ora che disponeva delle basi avanzate che le erano sempre mancate, aveva finalmente la possibilità di stabilire una presenza permanente nel Vicino Oriente. Come riconobbe Procopio, le pianure della Mesopotamia che si aprivano sul vasto bacino del Tigri e dell’Eufrate fornivano poche frontiere naturali sotto forma di fiumi, laghi o montagne. 21 Ciò significava che qualunque acquisizione era vulnerabile, a meno che non si riuscisse ad annettere e mantenere un’enorme fascia di territorio. Cosroe aveva riguadagnato il trono, ma il prezzo pagato era molto alto. Eppure, meno di un decennio più tardi le sorti si rovesciarono in modo spettacolare. Quando l’imperatore Maurizio fu assassinato da Foca, uno dei suoi generali, in una congiura di palazzo nel 602, Cosroe II colse l’occasione per colpire e imporre una rinegoziazione. Acquistò quindi sicurezza, dopo che un violento attacco a Dara mise fuori gioco un punto nevralgico del sistema difensivo romano nella Mesopotamia settentrionale, e ancor più apprendendo delle difficoltà di Foca nell’imporre la propria autorità in patria. Quando giunse la notizia che una nuova ondata di attacchi da parte di popoli nomadi stava devastando i Balcani, le ambizioni dello scià aumentarono. Il tradizionale sistema di gestione delle clientele utilizzato per governare i popoli soggetti dell’Arabia settentrionale fu frettolosamente smantellato in vista di un’importante riorganizzazione della frontiera che avrebbe fatto seguito all’espansione persiana. 22 La popolazione cristiana fu trattata con riguardo. I vescovi avevano imparato dall’esperienza a temere la prospettiva della guerra, dal momento che le ostilità con i romani erano spesso accompagnate da accuse di collaborazionismo. Lo scià presiedette personalmente all’elezione di un nuovo patriarca nel 605, invitando l’alto clero a riunirsi e a scegliere un nuovo titolare. Era un chiaro segnale lanciato
per rassicurare e mostrare alla minoranza religiosa che il sovrano aveva a cuore le questioni che la riguardavano. Fu una mossa efficace, interpretata dalla comunità cristiana come un segno di benevola protezione: Cosroe fu ringraziato calorosamente dai vescovi, che si riunirono per lodare «il potente, generoso, gentile e magnanimo re dei re». 23 Mentre l’impero romano si piegava sotto i colpi delle rivolte interne che scoppiavano in rapida successione, le forze persiane accentuarono la pressione: le città della Mesopotamia caddero come tessere del domino; l’ultima a capitolare fu Edessa nel 609. Poi l’attenzione si spostò sulla Siria. Antiochia, la grande città sull’Oronte, prima sede di san Pietro e massima metropoli della Siria romana, cadde nel 610, seguita l’anno successivo da Emesa, nella Siria occidentale. Con la presa di Damasco, nel 613, i romani persero un altro grande centro regionale. Nel frattempo le cose non facevano che peggiorare. A Costantinopoli l’impopolare e arrogante Foca fu assassinato, e le sue spoglie, denudate e smembrate, furono portate in giro per le vie della città. Ma il nuovo imperatore, Eraclio, non si dimostrò più incisivo del suo predecessore nel fermare l’avanzata persiana, che ormai procedeva con un impeto devastante. Dopo aver respinto un contrattacco romano in Asia Minore, le armate dello scià si volsero a sud, verso Gerusalemme. Lo scopo era evidente: conquistare la città più sacra del mondo cristiano e, con questo, affermare il trionfo culturale e religioso della Persia. Quando, nel maggio 614, la città cadde dopo un breve assedio, la reazione nel mondo romano rasentò l’isteria. Gli ebrei furono accusati non soltanto di collaborare con i persiani, ma di sostenerli attivamente. Una fonte li descrive «come bestie malvagie» al servizio dell’esercito invasore, a sua volta paragonato a una massa di animali feroci e serpenti sibilanti. Gli ebrei furono accusati di partecipare attivamente al massacro della popolazione locale, che nel morire si rallegrava piena di devozione «perché venivano trucidati per amore di Cristo e versavano il loro sangue per il Suo sangue». Si diffusero voci che le chiese venissero demolite, che le croci venissero calpestate
e le icone fatte oggetto di sputi. La Vera Croce su cui Gesù era stato crocifisso fu presa e inviata nella capitale persiana come un impareggiabile trofeo di guerra per Cosroe. Fu per Roma un disastroso susseguirsi di eventi, cui i propagandisti dell’imperatore rivolsero immediatamente la propria attenzione nel vano tentativo di limitare il danno. 24 Di fronte a questi rovesci, Eraclio prima pensò di abdicare, poi decise invece di prendere misure disperate: inviò ambasciatori a Cosroe per chiedere la pace a qualsiasi condizione. Tramite gli inviati, l’imperatore chiese perdono imputando al suo predecessore, Foca, la responsabilità dei recenti atti di aggressione. Presentandosi come un inferiore sottomesso, il sovrano romano salutava lo scià come «supremo imperatore». Cosroe ascoltò attentamente quello che gli inviati avevano da dire, poi li fece giustiziare. 25 Quando la notizia giunse a Costantinopoli, si diffuse il panico, che consentì di far passare riforme radicali con appena un barlume di opposizione. Gli stipendi dei funzionari imperiali furono dimezzati, così come la paga dei militari; la distribuzione gratuita di pane, inveterato strumento politico volto a guadagnare il favore degli abitanti della capitale, fu sospesa; 26 e, nell’estremo e frenetico sforzo di rimpinguare il tesoro, furono prelevati dalle chiese i metalli preziosi. Per sottolineare la dimensione della battaglia futura e fare ammenda per i peccati che avevano indotto Dio a castigare e punire i romani, Eraclio modificò l’iconografia monetale. Mentre sul recto il busto dell’imperatore rimase lo stesso, sul verso delle monete, coniate in grandi quantità e con nuovi nominali, comparve l’immagine di una croce posta su gradini: la guerra contro i persiani era nient’altro che la lotta per difendere la fede cristiana. 27 Nel breve periodo queste misure non ebbero grandi effetti. Dopo essersi assicurati la Palestina, i persiani si volsero al delta del Nilo, prendendo Alessandria nel 619. 28 In meno di due anni l’intero Egitto – granaio del Mediterraneo e base dell’economia agraria romana per sei secoli – cadde. Poi fu il turno dell’Asia Minore, che fu attaccata nel 622. Sebbene l’avanzata venisse momentaneamente fermata, nel 626 l’esercito persiano era accampato in vista delle mura di
Costantinopoli. Come se ciò non fosse abbastanza grave per i romani, lo scià strinse un’alleanza con i nomadi Avari che avevano invaso i Balcani, marciando sulla città da nord. A separare i resti della Roma imperiale dal totale annientamento c’erano ormai soltanto le spesse mura della città del grande Costantino: Costantinopoli, la nuova Roma. La fine era vicina, e sembrava assolutamente inevitabile. La sorte, però, era dalla parte di Eraclio. I tentativi iniziali di prendere la città fallirono, e gli assalti successivi furono respinti con facilità. L’impegno dei nemici cominciò a vacillare, venendo meno in primo luogo tra gli Avari. Essendo sorti contrasti per il pascolo dei loro cavalli, quando le divergenze fra tribù minacciarono di minare l’autorità del loro capo i nomadi si ritirarono. Imitati di lì a poco dai persiani, in parte per le notizie di attacchi dei Türk nel Caucaso che richiedevano attenzione: l’impressionante espansione territoriale aveva assorbito risorse eccessive, lasciando i territori di recente conquista pericolosamente allo scoperto, e i Türk lo sapevano. Costantinopoli si era salvata per il rotto della cuffia. 29 In uno sbalorditivo contrattacco, Eraclio, che era stato alla testa dell’esercito imperiale in Asia Minore durante l’assedio della sua capitale, adesso si pose all’inseguimento del nemico in ritirata. L’imperatore si diresse subito nel Caucaso, dove incontrò il khagan dei Türk e strinse con lui un’alleanza, coprendolo di onori e di doni, e offrendogli in sposa sua figlia Eudokia per ufficializzare i legami di amicizia. 30 A quel punto si gettò alle spalle ogni cautela e avanzò deciso verso sud, sbaragliando una grande armata persiana presso Ninive (nell’attuale Iraq settentrionale) nell’autunno del 627, per poi marciare su Ctesifonte mentre gli avversari si dileguavano. Sotto la pressione nemica la dirigenza persiana scricchiolava. Cosroe fu assassinato, mentre il suo successore, il figlio Kavad, fece appello a Eraclio invocando un accordo immediato. 31 L’imperatore si considerò soddisfatto della promessa di cessioni territoriali e della gloria conquistata, e si ritirò a Costantinopoli, lasciando i suoi ambasciatori a concordare i termini della resa, che includevano la restituzione del territorio romano di cui i persiani si erano impadroniti durante le guerre, e quella dei resti della Vera Croce trafugata a
Gerusalemme nel 614. 32 Per i romani fu una vittoria schiacciante quanto spettacolare. Ma non era ancora finita, perché si stava preparando una tempesta destinata a portare la Persia sull’orlo del collasso. Il generale in capo Shahrbarāz, che era stato la mente direttiva del recente attacco lampo contro l’Egitto, reagì al rovescio organizzando un colpo per impadronirsi del trono. Con le risorse persiane ormai agli sgoccioli e con la frontiera orientale vulnerabile agli attacchi opportunistici dei razziatori Türk, gli argomenti a favore di un uomo d’azione sembravano irresistibili. Mentre l’iniziativa prendeva forza, il generale negoziò direttamente con Eraclio per ottenere l’appoggio romano alla sua rivolta, ritirandosi dall’Egitto e marciando alla volta di Ctesifonte con il sostegno dell’imperatore. Ora che la situazione in Persia cominciava a dipanarsi, Eraclio, per consolidare la sua popolarità, celebrò con grande entusiasmo il sorprendente capovolgimento della sorte. Aveva strumentalizzato pesantemente la religione per accrescere il sostegno dei sudditi e rafforzarne la determinazione durante le ore buie dell’impero. L’attacco di Cosroe era stato spiegato come un’aggressione diretta al cristianesimo. La cosa venne enfatizzata in una rappresentazione teatrale messa in scena davanti alle truppe imperiali, in cui si dava lettura di una missiva che sembrava di pugno dello scià: la lettera non solo scherniva Eraclio sul piano personale, ma si faceva beffe dell’impotenza del Dio cristiano. 33 I romani erano stati sfidati a combattere per ciò in cui credevano, e quindi quella appena combattuta era stata una guerra di religione. Com’era forse prevedibile, a quel punto la trionfale rivincita romana produsse scene abiette. Dopo che Eraclio, nel marzo 630, ebbe presieduto a una solenne cerimonia di entrata a Gerusalemme e riportato i frammenti della Vera Croce nella chiesa del Santo Sepolcro, pare che gli ebrei furono battezzati forzatamente, come punizione per il ruolo che si pensava avessero svolto sedici anni prima nella caduta della città; ai fuggitivi fu proibito di avvicinarsi a meno di cinque chilometri da Gerusalemme. 34 Anche i cristiani d’Oriente, le cui credenze erano giudicate dissidenti, furono presi di mira da agenti
imperiali e obbligati ad abbandonare posizioni dottrinali di vecchia data e ad accettare gli insegnamenti del cristianesimo ortodosso semplificato, che ora pretendeva di avere una prova schiacciante del fatto di essere il solo a godere della benedizione di Dio. 35 Ciò era assai problematico per la Chiesa di Persia, che per oltre un secolo non aveva condiviso la dottrina della sua omologa occidentale e il cui alto clero sempre più si considerava depositario della vera fede, in contrapposizione con la Chiesa d’Occidente, che era stata sistematicamente corrotta da insegnamenti devianti. Come avevano affermato i vescovi di Persia quando si erano riuniti nel 612, tutte le principali eresie erano sorte nell’impero romano, e non in Persia, dove «non era mai nata alcuna eresia». 36 Così, quando Eraclio a Edessa «restituì la chiesa agli ortodossi» e diede istruzioni di scacciarne i cristiani orientali che l’avevano frequentata in passato, parve che il suo piano fosse di convertire tutta la Persia: un’idea che sembra Eraclio abbia preso in seria considerazione fin dal momento del drammatico capovolgimento della sorte. E la Persia doveva essere convertita al cristianesimo romano, occidentale. 37 La religione rinascente e dominante patrocinata da Costantinopoli aveva spazzato via tutto ciò che l’aveva preceduta. La straordinaria sequenza di eventi aveva ridotto a brandelli una folla di vecchie idee. Quando a Ctesifonte scoppiò la peste, reclamando tra le sue vittime anche lo scià Kavad, parve ovvio che lo zoroastrismo era poco più che una pia illusione: il cristianesimo era la vera fede, e i suoi seguaci erano stati ricompensati. 38 In quest’atmosfera carica di tensione si poteva sentire un nuovo insistente rullio. Proveniva da sud, dal cuore della Penisola arabica. Questa regione non era stata quasi sfiorata dalla recente guerra tra romani e persiani, ma ciò non significava che fosse insensibile ai terribili scontri in corso a centinaia di chilometri di distanza. In realtà, lo sperone sudoccidentale dell’Arabia era da molto tempo un crogiolo per il confronto tra i due imperi, dove meno di un secolo prima il regno di Ḥimyar e le città di Mecca e Medina si erano schierate con la Persia contro una coalizione di forze cristiane formata da Costantinopoli e dalla mortale avversaria di Ḥimyar sul mar Rosso, l’Etiopia. 39
In questa regione le fedi erano mutate, adattandosi e competendo tra loro per quasi un secolo. Quello che era stato un mondo politeista, affollato di divinità, idoli e credenze, aveva ceduto il passo al monoteismo e alle idee di un’unica divinità onnipotente. I santuari dedicati a una pluralità di dèi cominciavano a essere talmente marginali da indurre uno storico ad affermare che alla vigilia dell’ascesa dell’islam il politeismo tradizionale «stava morendo». Era stato rimpiazzato dai concetti giudaici e cristiani di un unico Dio onnipotente, oltre che di angeli, paradiso, preghiera ed elemosina, come si può rilevare dalle iscrizioni che cominciarono a proliferare in tutta la Penisola arabica verso la fine del VI secolo e all’inizio del VII. 40 Fu in questa regione che, mentre al Nord infuriava la guerra, un mercante di nome Muḥammad, membro del clan dei Banū Hāshim, appartenente della tribù dei Quraysh, si ritirò in contemplazione in una grotta non lontano dalla città di Mecca. Secondo la tradizione islamica, nel 610 cominciò a ricevere da Dio una serie di rivelazioni. Muḥammad sentì una voce che gli ordinava di recitare dei versi «in nome del tuo Signore!». 41 Confuso e in preda al panico, uscì dalla grotta, ma vide un uomo «con i piedi a cavallo dell’orizzonte», e udì una voce tonante che gli diceva: «Oh Muḥammad, tu sei il profeta di Dio e io sono Jibrīl». 42 Seguì, negli anni successivi, una serie di recitazioni che furono trascritte per la prima volta intorno alla metà del VII secolo in un unico testo, noto come Corano (al-Qur’ān). 43 Dio invia apostoli, fu riferito a Muḥammad dall’angelo Jibrīl (o Gabriele), per portare buone novelle o per dare avvertimenti. 44 Muḥammad era stato scelto come messaggero dall’Onnipotente. C’era molta oscurità nel mondo, gli fu detto, c’erano molte cose da temere e il pericolo dell’apocalisse a ogni angolo. Recita i messaggi divini, fu incitato, perché quando lo fai tu «cerchi rifugio in Allah contro Satana il lapidato: egli non ha alcun potere su quelli che credono e confidano nel loro Signore». 45 Dio è compassionevole e misericordioso, fu detto ripetutamente a Muḥammad, ma è anche severo nel punire coloro che rifiutano di ubbidirgli. 46
Le fonti relative al primo periodo islamico sono complesse e pongono seri problemi di interpretazione. 47 Stabilire come le motivazioni politiche contemporanee e successive abbiano informato la storia di Muḥammad e i messaggi che ricevette non è semplice, e per di più è argomento di intenso dibattito tra gli studiosi moderni. È difficile, per esempio, capire con chiarezza quale ruolo abbia avuto la fede nel plasmare gli atteggiamenti e gli eventi, non ultimo per il fatto che, fin dalla metà del VII secolo, si fecero distinzioni tra i credenti (mu’minūn) e coloro che si univano a loro e si sottomettevano alla loro autorità (muslimūn). Autori più tardi si concentrarono in modo particolare sul ruolo della religione e sottolinearono non soltanto l’influenza della rivelazione spirituale, ma anche la solidarietà degli arabi che realizzarono la rivoluzione, con il risultato che è altrettanto insoddisfacente definire le conquiste di quel periodo «musulmane» quanto lo è definirle «arabe». Inoltre, le identità non si modificarono soltanto dopo, ma anche durante tale periodo, e ovviamente per ciò che concerne queste definizioni noi dipendiamo in primo luogo dagli occhi dei testimoni diretti. Tuttavia, per quanto possa essere problematico stabilire con certezza una sequenza di eventi, c’è ampio accordo sul fatto che Muḥammad non fosse l’unico personaggio nella Penisola arabica a parlare di un Dio unico all’inizio del VII secolo, in quanto c’erano altri «profeti copioni» che salirono alla ribalta proprio nel periodo delle guerre persiano-romane. Il più degno di nota proponeva visioni messianiche e profetiche sorprendentemente simili a quelle di Muḥammad, giacché promettevano rivelazioni da parte dell’arcangelo Gabriele, additavano vie verso la salvezza e, in alcuni casi, esibivano scritti sacri a riprova delle proprie affermazioni. 48 Era un periodo in cui chiese e luoghi di culto cristiani cominciavano a comparire a Mecca e dintorni, come risulta dalla documentazione archeologica, che dà testimonianza anche di icone e cimiteri delle nuove popolazioni convertite. All’epoca in questa regione la competizione per la conquista dei cuori, delle menti e delle anime era davvero accanita. 49 C’è anche un progressivo consenso sul fatto che Muḥammad
predicasse a una società che stava subendo una drastica contrazione economica per effetto delle guerre persiano-romane. 50 Il confronto tra Roma e la Persia – e la loro effettiva militarizzazione – ebbe una notevole influenza sul commercio che originava dall’Ḥijāz o lo attraversava. A fronte di una concentrazione della spesa dei governi sull’esercito e di una pressione cronica sulle economie interne per sostenere lo sforzo bellico, la domanda di generi di lusso deve essersi ridotta in misura considerevole. Il fatto che i mercati tradizionali, e in primo luogo le città del Levante e della Persia, fossero coinvolti nei combattimenti non può che aver ulteriormente depresso l’economia dell’Arabia meridionale. 51 Difficilmente qualcuno avrebbe potuto avvertire la crisi più dei Quraysh di Mecca, con le loro leggendarie carovane che trasportavano oro e altre merci preziose verso la Siria. Essi persero anche il redditizio contratto per la fornitura all’esercito romano del cuoio, materiale necessario per le selle, le cinghie dei calzari e degli scudi, le cinture e molto altro ancora. 52 Il declino delle visite dei pellegrini all’haram, importante luogo di culto dedicato agli dèi pagani situato a Mecca, rese forse ancor più precario il loro sostentamento. Il sito aveva al proprio centro una serie di idoli – tra cui, a quanto si dice, uno che rappresentava «Abramo da vecchio» –, il più importante dei quali era comunque una statua di agata rossa raffigurante un uomo con la mano destra d’oro e con sette frecce divinatorie intorno a sé. 53 In quanto custodi di Mecca, i Quraysh ricavavano un buon reddito dalla vendita di cibo e acqua ai visitatori e dall’esecuzione dei riti per i pellegrini. Alla luce degli sconvolgimenti in Siria e in Mesopotamia che avevano ripercussioni su un’area assai più vasta, e della drastica cesura in tanti aspetti della vita quotidiana, non era sorprendente che gli annunci di un imminente giorno del giudizio da parte di Muḥammad toccassero una corda che risuonava in profondità. La predicazione di Muḥammad di certo cadde su un terreno fertile. Il Profeta offriva una spiegazione audace e coerente di sconvolgimenti traumatici con una passione e una convinzione eccezionali. Non erano soltanto le rivelazioni che aveva ricevuto a essere potenti, lo erano anche gli ammonimenti che lanciava. Coloro che seguivano i suoi
insegnamenti avrebbero visto la loro terra dare frutti abbondanti e traboccare di grano; coloro che non lo facevano avrebbero visto i loro raccolti declinare. 54 La salvezza spirituale avrebbe portato ricompense economiche. C’era molto da guadagnare: i credenti avrebbero contemplato addirittura il paradiso, dove i giardini erano irrigati da acqua fresca e pura, da «ruscelli di un vino delizioso a bersi, e ruscelli di miele purificato». Il fedele sarebbe stato premiato con ogni sorta di frutti, e avrebbe ricevuto al contempo il perdono del Signore. 55 Coloro che respingevano le dottrine divine avrebbero affrontato non soltanto la morte e il disastro, ma anche la dannazione: chiunque avesse mosso guerra ai seguaci del Profeta avrebbe sofferto terribilmente e non avrebbe ricevuto pietà. Doveva essere giustiziato o crocifisso, privato degli arti o esiliato: i nemici di Muḥammad erano nemici di Dio, e quindi avrebbero subìto una sorte veramente spaventosa. 56 La loro pelle sarebbe stata arsa con il fuoco, per essere subito sostituita da una nuova che avrebbe avuto il medesimo destino, in modo che il dolore e la tortura fossero senza fine. 57 Coloro che non credevano sarebbero rimasti «in perpetuo nel fuoco essendo abbeverati di un’acqua bollente che devasterà le loro viscere». 58 Questo messaggio radicale e appassionato incontrò un’accanita opposizione da parte dell’élite conservatrice di Mecca, che reagì con furore alla sua critica delle pratiche e credenze politeistiche tradizionali. 59 Nel 622 Muḥammad fu costretto a riparare a Yathrib (in seguito rinominata Medina) per sfuggire alla persecuzione: questa fuga, nota come hijra (egira), divenne il momento cruciale della storia islamica, l’anno zero del calendario musulmano. Come risulta da documenti papiracei scoperti di recente, fu allora che la predicazione di Muḥammad diede origine a una nuova religione e a una nuova identità. 60 Questa nuova identità verteva principalmente su una forte idea di unità. Muḥammad cercò con ogni mezzo di fondere le numerose tribù dell’Arabia meridionale in un unico blocco. Bizantini e persiani avevano a lungo sfruttato le rivalità locali e aizzato i capi l’uno contro l’altro. Le protezioni politiche e i finanziamenti avevano contribuito a creare una serie di clientele dipendenti e di élite controllate e
foraggiate dal tesoro di Roma e di Ctesifonte. L’infuriare della guerra ridusse questo sistema a brandelli. Il protrarsi delle ostilità comportò che alcune tribù fossero private delle «trenta libbre d’oro che normalmente incassavano come profitto commerciale grazie agli scambi con l’impero romano» e – quel che è peggio – le loro richieste che gli impegni fossero rispettati furono rozzamente liquidate. «L’imperatore riesce a malapena a pagare i salari ai suoi soldati,» affermò un emissario «figurarsi se può pagare [voi] cani.» Quando un altro inviato disse agli uomini delle tribù che le prospettive del commercio futuro erano ormai limitate, fu ucciso e cucito nel ventre di un cammello. Mancava poco a che le tribù prendessero il proprio destino nelle loro mani. La risposta fu di «devastare il paese dei romani» per vendetta. 61 Non fu senza ragione, quindi, che la nuova fede venne predicata nella lingua locale. Guarda, dice uno dei versetti del Corano; ecco le parole che vengono dall’alto, in arabo. 62 Agli arabi veniva fatto dono della loro religione, e questa religione creò una nuova identità. Era una fede concepita per le popolazioni locali, che fossero nomadi o urbane, che facessero parte di una tribù o di un’altra, e indipendentemente dalla loro origine etnica o linguistica. I numerosi prestiti dal greco, dall’aramaico, dal siriaco, dall’ebraico e dal persiano presenti nel Corano, il testo in cui erano trascritte le rivelazioni trasmesse a Muḥammad, sono rivolti a un ambiente poliglotta dove era importante sottolineare la somiglianza piuttosto che la diversità. 63 L’unità era un principio fondamentale, e una delle ragioni dell’imminente successo dell’islam. «Che non ci siano due religioni in Arabia»: furono queste le ultime parole di Muḥammad, secondo le ricerche di un rispettato studioso islamico che scriveva nell’VIII secolo. 64 Le prospettive di Muḥammad non sembravano promettenti quando era rifugiato a Yathrib, con il piccolo gruppo dei suoi primi seguaci. Gli sforzi di evangelizzare e di ampliare la umma – la comunità dei credenti – procedevano lentamente, e la situazione si fece precaria all’avvicinarsi delle forze inviate da Mecca per attaccare il predicatore rinnegato. Muḥammad e i suoi seguaci passarono alla resistenza
armata, prendendo di mira le carovane in una serie di incursioni sempre più ambiziose. Lo slancio crebbe rapidamente. Il successo contro forze numericamente superiori e a dispetto delle probabilità, come nella battaglia di Badr del 624, fornì una prova convincente del fatto che Muḥammad e i suoi uomini godevano della protezione divina; e anche i ricchi bottini non passavano inosservati da parte di chi stava a guardare. Al termine di un’intensa fase di negoziati con i membri più autorevoli della tribù dei Quraysh di Mecca venne finalmente raggiunta un’intesa, da allora nota come «trattato di alḤudaybiya», che garantì una tregua decennale tra Mecca e Yathrib, e revocò le restrizioni in precedenza imposte ai seguaci di Muḥammad. Ora il numero dei convertiti cominciò ad aumentare. Di pari passo con il numero dei seguaci, crebbero anche le loro aspirazioni e ambizioni. Cruciale, in questo processo, fu la designazione di un ben individuato centro religioso. Ai fedeli, in precedenza, era stato detto di pregare rivolgendosi verso Gerusalemme. Ma nel 628, a quanto sembra, in seguito a un’ulteriore rivelazione fu annunciato che questo insegnamento era stato soltanto una prova e ora doveva essere emendato: la direzione, o qibla, verso cui rivolgersi durante la preghiera era esclusivamente quella di Mecca. 65 Inoltre, a essere identificata come pietra angolare per la preghiera e il pellegrinaggio nella città fu la Ka‘ba, l’antico punto focale della religione politeistica pagana in Arabia. Secondo la rivelazione essa era stata eretta da Ismaele, il figlio di Abramo e antenato putativo di dodici tribù arabe. Ai visitatori della città si diceva di girare in processione intorno al luogo sacro, salmodiando il nome di Dio. Così facendo, avrebbero adempiuto all’ordine dato a Ismaele di annunciare agli uomini di venire dall’Arabia e dalle terre lontane, a dorso di cammello o a piedi, per compiere un pellegrinaggio al luogo in cui una pietra nera, posta al centro del monumento, era stata portata da un angelo mandato dal cielo. 66 Confermando il carattere sacro della Ka‘ba, veniva affermata la continuità con il passato, ingenerando un forte senso di familiarità culturale. Al di là dei benefici spirituali
offerti dalla nuova fede, c’erano evidenti vantaggi – politici, economici e culturali – nell’individuare la città di Mecca come centro religioso per eccellenza. Tale scelta, infatti, disinnescò qualunque potenziale antagonismo con i Quraysh, al punto che i membri più autorevoli della tribù promisero solennemente fedeltà a Muḥammad… e all’islam. Ma la genialità di Muḥammad come leader si spinse ben oltre. Mentre in Arabia le barriere e l’opposizione si scioglievano, corpi di spedizione furono inviati altrove a sfruttare opportunità troppo favorevoli per non essere colte. Neppure la scelta dei tempi avrebbe potuto essere migliore: tra il 628 e il 632 il drammatico collasso della Persia si aggravò, mentre il paese precipitava nell’anarchia. Durante questo breve periodo vi furono non meno di sei re – addirittura otto più due regine, secondo uno storico arabo ben informato di epoca successiva – che rivendicavano il diritto al trono. 67 Il successo attraeva nuovi sostenitori, il cui numero cresceva via via che città, paesi e villaggi sulla frontiera meridionale della Persia venivano assorbiti. Queste località, che non erano abituate a difendersi, si piegarono al primo cenno di pressione. Tipico fu il caso della cittadina di al-Ḥira (nell’attuale Iraq centromeridionale), che capitolò immediatamente, accettando di pagare gli attaccanti in cambio di garanzie di pace. 68 Profondamente demoralizzati, i principali comandanti persiani consigliarono comunque di dare denaro alla colonna araba che avanzava, «a condizione che se ne andasse». 69 Assicurarsi maggiori risorse era importante, perché non furono soltanto le offerte di ricompense spirituali a guadagnare proseliti all’insegnamento islamico. Si dice che, fin dal momento della comparsa di Muḥammad, un generale abbia detto al suo omologo sasanide: «Noi non siamo più alla ricerca di guadagni terreni»; le spedizioni ora avevano lo scopo di diffondere la parola di Dio. 70 È chiaro che lo zelo evangelizzatore fu essenziale per il successo del primo islam, ma lo fu anche il modo nuovo in cui venivano distribuiti il bottino e il denaro. Desideroso di legittimare il vantaggio materiale in cambio della fedeltà e dell’obbedienza, Muḥammad proclamò che i
beni confiscati ai non credenti dovevano essere trattenuti dai fedeli. 71 Ciò faceva coincidere interessi economici e interessi religiosi. 72 Coloro che si convertirono presto all’islam furono ricompensati con una quota proporzionalmente maggiore delle prede, in quello che era in effetti un sistema piramidale. Tale meccanismo fu formalizzato negli anni immediatamente successivi al 630 con la creazione di un dīwān, una struttura ufficiale incaricata di sovrintendere alla distribuzione del bottino. Una quota del 20 per cento doveva essere devoluta al capo dei fedeli, il califfo, ma il grosso andava diviso tra i suoi seguaci e tra coloro che avevano partecipato ad attacchi coronati da successo. 73 I primi adepti trassero i maggiori benefici dalle nuove conquiste, mentre i nuovi credenti erano ansiosi di godere dei frutti del successo. Il risultato fu un motore estremamente efficiente nel trainare l’espansione. Mentre le armate di recente formazione continuavano a imporre la nuova autorità politica e religiosa alle tribù nomadi note collettivamente come «gente del deserto», o beduini, le loro incursioni assumevano proporzioni sempre maggiori, portando a gran velocità sotto il loro controllo enormi porzioni di territorio. Sebbene la cronologia degli eventi sia difficile da stabilire con certezza, la ricerca recente ha mostrato in modo convincente che l’espansione in Persia ebbe luogo diversi anni prima di quanto si fosse pensato in precedenza, vale a dire nel momento in cui la società sasanide stava implodendo, cioè tra il 628 e il 632, e non dopo. 74 Questa revisione cronologica è significativa, perché contribuisce a contestualizzare i rapidi progressi compiuti dall’islam in Palestina, dove tutte le città – compresa Gerusalemme, che solo di recente era stata riconquistata dai romani – si sottomisero intorno alla metà degli anni Quaranta del VII secolo. 75 Sia Roma sia la Persia reagirono troppo tardi alla minaccia. Una schiacciante vittoria musulmana sui persiani, avvenuta a Qādisiyyah nel 636, diede un enorme impulso agli arrembanti eserciti arabi e alla fiducia dell’islam in sé stesso. Il fatto che una parte dei nobili persiani cadesse nel corso della battaglia compromise gravemente le possibilità di una futura resistenza, ed ebbe l’effetto di mettere al tappeto uno
Stato già traballante. 76 La risposta romana non fu più efficace. Un esercito sotto il comando di Teodoro, fratello dell’imperatore, fu pesantemente sconfitto nel 636 sul fiume Yarmuk, a sud del lago di Tiberiade, dopo che il comandante bizantino ebbe gravemente sottovalutato l’entità, la capacità e la determinazione della forza araba. 77 Il cuore del mondo adesso era spalancato. Le città si arrendevano una dopo l’altra, mentre le forze attaccanti avanzavano rapidamente sulla stessa Ctesifonte. Dopo un lungo assedio, la capitale cadde, e la sua tesoreria finì nelle mani degli arabi. La Persia era stata piegata dalla spettacolare azione di retroguardia dei romani, ma era stata letteralmente inghiottita dai seguaci di Muḥammad. Lo slancio di questo gruppo disparato di credenti che avevano accettato gli insegnamenti del loro Profeta e, insieme, di opportunisti e avventurieri che si erano uniti a loro nella speranza di futuri vantaggi, si stava intensificando rapidamente. Dato che gli interessi erano coincidenti e i successi si susseguivano senza interruzione, l’unica questione era ormai fin dove sarebbe arrivata l’espansione dell’islam.
V
LA VIA ALLA CONCORDIA
Il genio strategico e l’acume tattico sul campo di battaglia permisero a Muḥammad e ai suoi seguaci di conseguire una serie di successi sbalorditivi. Anche il sostegno della tribù dei Quraysh e dell’élite politica dominante di Mecca era stato decisivo, fornendo una base per persuadere le tribù dell’Arabia meridionale ad ascoltare e ad accettare il messaggio della nuova fede. Le opportunità apertesi con il collasso della Persia erano giunte a loro volta al momento giusto. Ma il trionfo dell’islam nella prima parte del VII secolo si può spiegare anche alla luce di altri due importanti fattori: il sostegno dei cristiani e, soprattutto, quello degli ebrei. In un mondo in cui la religione sembra essere la causa di conflitti e spargimenti di sangue, è facile lasciarsi sfuggire i modi in cui le grandi fedi impararono e presero a prestito l’una dall’altra. All’occhio moderno, cristianesimo e islam appaiono diametralmente opposti, ma nei primi anni della loro coesistenza i rapporti furono non soltanto pacifici, ma di caldo incoraggiamento. E semmai la relazione tra islam e giudaismo fu ancora più sorprendente per la loro reciproca compatibilità. Il sostegno degli ebrei in Medio Oriente fu essenziale per la trasmissione e la diffusione della parola di Muḥammad. Sebbene il materiale relativo alla storia dell’islam delle origini sia complesso, un tema inequivocabile e sorprendente può essere coerentemente ricavato dalla letteratura coeva – sia essa araba, armena, siriaca, greca o ebraica – e dalla documentazione archeologica: a mano a mano che il controllo musulmano si espandeva, Muḥammad e i suoi seguaci fecero tutto il possibile per mitigare i timori degli ebrei e dei cristiani. Quando, negli anni successivi al 620, Muḥammad era relegato a
Yathrib, sollecitare l’aiuto degli ebrei era stata una delle sue principali mosse strategiche. Quella città – come pure la sua regione – era impregnata di giudaismo e storia ebraica. Meno di un secolo prima, un fanatico sovrano ebreo di Ḥimyar aveva presieduto alla persecuzione sistematica della minoranza cristiana, cristallizzando così uno schema generale di alleanze che rimaneva tuttora in vigore: la Persia era accorsa in aiuto degli Ḥimyariti contro l’alleanza tra Roma e l’Etiopia. Muḥammad era ansioso di riconciliarsi con gli ebrei dell’Arabia meridionale, a cominciare dagli anziani di Yathrib. I maggiorenti ebrei della città (la futura Medina) promisero il loro appoggio a Muḥammad in cambio di garanzie di mutua difesa. Queste furono formulate in un documento ufficiale che affermava che la loro fede e le loro proprietà sarebbero state rispettate ora e nel futuro dai musulmani. Il documento enunciava anche un accordo di reciprocità tra giudaismo e islam: i seguaci di entrambe le religioni s’impegnavano a difendersi a vicenda nel caso che gli uni o gli altri fossero stati attaccati da qualunque terza parte; nessun male sarebbe stato fatto agli ebrei, e nessun aiuto sarebbe stato dato ai loro nemici. Musulmani ed ebrei avrebbero cooperato tra loro, offrendosi «franco consiglio e parere». 1 Era d’aiuto il fatto che le rivelazioni di Muḥammad sembravano non solo concilianti ma anche familiari: c’era molto in comune con il Vecchio Testamento, per esempio, non ultima la venerazione per i profeti e per Abramo in particolare; e c’era un ovvio terreno comune per chi non riconosceva a Gesù il ruolo di Messia. Non si trattava soltanto del fatto che l’islam non costituisse una minaccia per il giudaismo; c’erano elementi che sembravano in perfetto accordo con esso. 2 Ben presto nelle comunità ebraiche cominciò a diffondersi la voce che Muḥammad e i suoi seguaci fossero degli alleati. Un testo straordinario, scritto in Africa settentrionale poco prima del 640, rileva come le notizie dei progressi arabi fossero ben accolte dagli ebrei in Palestina perché significavano un allentamento della presa dei romani – e dei cristiani – sulla regione. Si congetturava in toni esaltati che quanto stava accadendo potesse essere la realizzazione di antiche profezie: «Dicevano che era apparso il profeta, che giungeva con i
saraceni, e che proclamava l’avvento dell’Unto, del Cristo che stava per arrivare». 3 Questa, concludevano alcuni ebrei, era la venuta del Messia, in tempismo perfetto per dimostrare che Gesù Cristo era un impostore e che gli ultimi giorni dell’uomo erano giunti. 4 Ma non tutti ne erano persuasi. Come disse un colto rabbino, Muḥammad era un falso profeta, «perché i profeti non vengono armati di spada». 5 Anche in altri scritti coevi si afferma che gli arabi furono accolti dagli ebrei come liberatori dal dominio romano, il che fornisce un’importante prova a conferma delle positive reazioni locali al peso crescente dell’islam. Un testo redatto un secolo più tardi riferisce di come in quel tempo un angelo fosse apparso al rabbino Shim’on ben Yoḥai, turbato dalle sofferenze patite dopo la riconquista di Gerusalemme da parte di Eraclio, e il battesimo forzato e la persecuzione degli ebrei che ne seguirono. «Come facciamo a sapere se [i musulmani] sono la nostra salvezza?» sembra chiedesse. «Non temere,» lo rassicurò l’angelo, perché Dio sta «propiziando il regno [degli arabi] soltanto allo scopo di liberarvi da quella perversa [Roma]. Conformemente al Suo volere, Egli innalzerà sopra di loro un profeta. E questi conquisterà la terra per loro, ed essi verranno e la ripristineranno con magnificenza.» Muḥammad era visto come il mezzo per la realizzazione delle speranze messianiche degli ebrei. Queste erano terre che appartenevano ai discendenti di Abramo, il che comportava solidarietà tra arabi ed ebrei. 6 Ma c’erano anche altre ragioni, di carattere tattico, per cooperare con gli eserciti che avanzavano. A Hebron, per esempio, gli ebrei proposero un patto ai comandanti arabi: «Garantiteci la sicurezza in modo che siamo in una condizione di parità tra voi,» e accordateci «il diritto di costruire una sinagoga davanti all’entrata della grotta di Macpelà», dove era sepolto Abramo; in cambio, affermarono i capi ebrei, «vi mostreremo dove aprirvi una via d’accesso» per superare le formidabili difese della città. 7 Il sostegno della popolazione locale fu un fattore determinante nei successi degli arabi in Palestina e in Siria negli anni immediatamente successivi al 630, come abbiamo visto. La recente indagine sulle fonti greche, siriache e arabe ha mostrato che, nei primi resoconti, l’arrivo
degli eserciti attaccanti fu salutato con favore dagli ebrei. Non era un fatto sorprendente: prescindendo dalle pittoresche aggiunte di epoca successiva e dalle interpretazioni malevole (come le affermazioni che i musulmani erano colpevoli di «ipocrisia satanica»), si legge che il comandante militare che guidò l’esercito a Gerusalemme entrò nella Città Santa nell’umile veste di pellegrino, desideroso di manifestare la propria devozione accanto a coloro le cui vedute religiose erano chiaramente considerate, se non compatibili, almeno non del tutto dissimili dalle proprie. 8 Nel Medio Oriente c’erano altri gruppi a cui non dispiacque l’ascesa dell’islam. L’intera regione pullulava di dissidenti religiosi. C’era una pletora di sette cristiane che contestavano le decisioni prese nei concili della Chiesa, o che obiettavano a dottrine che giudicavano eretiche. Questo valeva soprattutto per la Palestina e la Siria, dove avevano sede molte comunità cristiane radicalmente contrarie alle conclusioni sancite dal concilio di Calcedonia nel 451 in merito all’esatto significato della natura divina di Gesù Cristo, e che quindi erano state oggetto di formale persecuzione. 9 L’atteggiamento religioso risolutamente ortodosso che accompagnò le riconquiste di Eraclio fece sì che questi gruppi cristiani si ritrovassero in una condizione nient’affatto migliore dopo la spettacolare rivincita dell’imperatore bizantino sui persiani. Perciò, taluni videro i successi arabi come un mezzo per porre fine a questa situazione, ma anche come un fatto positivo dal punto di vista religioso. A Giovanni di Dasen, metropolita di Nisibis, un astuto comandante arabo che voleva insediarsi nella città disse che, se lo avesse appoggiato, non soltanto lo avrebbe aiutato a deporre il capo supremo della Chiesa cristiana in Oriente, ma lo avrebbe insediato al suo posto. 10 Una lettera inviata negli anni Quaranta del VII secolo da un eminente ecclesiastico riferisce che i nuovi governanti non soltanto non combattevano contro i cristiani, ma «addirittura lodano la nostra religione, onorano preti, monasteri e santi del nostro Signore, e fanno doni a monasteri e chiese». 11 In tale contesto, i messaggi di Muḥammad e dei suoi seguaci guadagnarono la solidarietà delle popolazioni cristiane locali. In
primo luogo, i severi moniti dell’islam riguardo al politeismo e all’adorazione degli idoli trovavano un ovvio consenso da parte dei cristiani, la cui dottrina era in perfetto accordo con queste idee. Un certo senso di cameratismo era rafforzato anche dalla presenza di una serie di personaggi familiari, quali Mosè, Noè, Giobbe e Zaccaria, che compaiono nel Corano accanto a esplicite affermazioni che il Dio che aveva dato a Mosè le scritture, e che aveva mandato altri apostoli dopo di lui, adesso stava inviando un altro profeta a diffondere la parola. 12 La consapevolezza dell’esistenza di un terreno comune con cristiani ed ebrei era rafforzata dall’uso di punti di riferimento familiari e da somiglianze evidenti in fatto di costume e di dottrina religiosa. Dio non aveva scelto di rivelare messaggi soltanto a Muḥammad: «E fece scendere la Torah e l’Ingìl [il Vangelo] in precedenza, come guida per le genti» dice un versetto del Corano. 13 Ricorda le parole dette dagli angeli a Maria, madre di Gesù, dice un altro versetto. Facendo eco all’Ave Maria, il libro sacro dell’islam insegna le parole: «In verità, o Maria, Dio ti ha eletta; ti ha purificata ed eletta tra tutte le donne del mondo. O Maria, sii devota al tuo Signore, prosternati e inchinati con coloro che si inchinano». 14 Per i cristiani che erano impelagati in controversie sulla natura di Gesù e della Trinità, forse ancor più sorprendente era il fatto che le rivelazioni di Muḥammad contenevano un messaggio fondamentale a un tempo potente e semplice: c’è un solo Dio; e Muḥammad è il suo messaggero. 15 Era facile da comprendere e in accordo con la base della fede cristiana l’idea che Dio fosse onnipotente, e che di tanto in tanto venissero inviati degli apostoli a trasmettere messaggi provenienti dall’alto. Cristiani ed ebrei che disputavano tra loro sulla religione erano folli, afferma un altro versetto del Corano; «non [lo] capite dunque?». 16 La divisione era opera di Satana, avvertiva il testo di Muḥammad; non permettete mai che la discordia prevalga, e invece aggrappatevi tutti insieme alla corda di Dio e non dividetevi tra voi. 17 Il messaggio di Muḥammad era un messaggio di conciliazione. I credenti che seguono la fede ebraica o sono cristiani e vivono vite
oneste «non avranno nulla da temere e non saranno afflitti» dice il Corano in più di un’occasione. 18 Coloro che credevano in un unico Dio andavano onorati e rispettati. C’erano anche costumi e disposizioni che in seguito furono associati all’islam, e che risalivano invece a prima di Muḥammad, ma ora furono adottati, a quanto pare, dal Profeta stesso. Per esempio, l’amputazione come punizione per il furto e la pronuncia di una sentenza di morte per coloro che rinunciavano alla loro fede erano pratiche comuni che furono fatte proprie dai musulmani. Elementi come l’elemosina, il digiuno, il pellegrinaggio e la preghiera divennero componenti centrali dell’islam, accrescendo il senso di continuità e di familiarità. 19 Le analogie con il cristianesimo e il giudaismo divennero più tardi una questione delicata, a cui in parte si ovviò con il dogma che Muḥammad fosse analfabeta. Ciò lo metteva al riparo dalle affermazioni che avesse familiarità con gli insegnamenti della Torah e della Bibbia, a dispetto del fatto che personaggi quasi contemporanei osservassero che era «erudito» e conosceva sia il Vecchio sia il Nuovo Testamento. 20 Alcuni si sono spinti oltre, sostenendo che il Corano abbia come base un lezionario cristiano scritto in un dialetto derivato dall’aramaico e poi adattato e riformulato. Questa tesi – come molte altre che mettono in discussione o sminuiscono la tradizione islamica – ha ottenuto una certa notorietà, benché trovi scarso consenso tra gli storici moderni. 21 Il fatto che cristiani ed ebrei costituissero basi essenziali a sostegno dell’islam durante la prima fase della sua espansione spiega perché uno dei pochi versetti del Corano che si riferiscono a eventi contemporanei alla vita di Muḥammad parli in termini positivi dei romani. I romani erano stati sconfitti, dice il Corano, riferendosi a uno qualsiasi dei cronici scacchi subiti durante le guerre con la Persia prima dei tardi anni Venti del VII secolo. «Ma poi, dopo essere stati vinti, saranno vincitori, tra meno di dieci anni: appartiene a Dio il destino del passato e del futuro.» 22 Ciò era garantito: Dio non manca alle sue promesse. 23 Il messaggio era inclusivo e familiare, e sembrava togliere l’acredine alle dispute stizzose che avevano angustiato i cristiani. Dal loro punto di vista, l’islam appariva inclusivo e
conciliante, e offriva la speranza di placare le tensioni. In effetti, le fonti sono piene di esempi di cristiani pieni di ammirazione per ciò che vedevano tra i musulmani e nei loro eserciti. Un testo dell’VIII secolo riferisce di come un asceta cristiano fosse stato inviato a osservare il nemico e fosse tornato impressionato dall’esperienza. «Vengo a voi da un popolo che sta in piedi tutta la notte a pregare» sembra che dicesse ai suoi «e che resta in astinenza durante il giorno, ordinando ciò che è giusto e vietando ciò che è sbagliato, monaci di notte, leoni di giorno.» Ciò sembrava del tutto lodevole, e aveva l’effetto di offuscare le linee di demarcazione tra cristianesimo e islam. Il fatto che altre testimonianze coeve parlino di monaci cristiani che adottavano gli insegnamenti di Muḥammad fornisce un’ulteriore indicazione di come le differenze dottrinali non fossero assolutamente nette. 24 L’ascetismo abbracciato dai primi musulmani era anch’esso riconoscibile e apprezzabile, in quanto forniva un punto di riferimento culturalmente familiare al mondo greco-romano. 25 Gli sforzi di conciliazione con i cristiani erano integrati da una politica di protezione e rispetto nei confronti della Gente del Libro, vale a dire gli ebrei e i cristiani. Il Corano chiarisce che i primi musulmani non si consideravano rivali di queste due religioni, ma eredi del medesimo retaggio: le rivelazioni di Muḥammad erano state in precedenza «fatte scendere su Abramo, Ismaele, Isacco, Giacobbe e le tribù»; Dio aveva affidato gli stessi messaggi anche a Mosè e a Gesù. «Non facciamo alcuna differenza tra loro» dice il Corano. In altre parole, i profeti del giudaismo e del cristianesimo erano i medesimi dell’islam. 26 Non è allora una coincidenza che il Corano faccia oltre sessanta riferimenti alla parola umma, usata non come etichetta etnica, ma per indicare una comunità di credenti. In diverse occasioni, il testo osserva in tono desolato che il genere umano un tempo era un’unica umma, prima che le divergenze separassero le persone. 27 Il messaggio implicito diceva che era volontà di Dio che le divergenze venissero accantonate. Le analogie tra le grandi religioni monoteistiche sono enfatizzate nel Corano e negli ḥadīth – le raccolte di commenti, detti e
atti del Profeta –, mentre le differenze vengono costantemente minimizzate. L’enfasi posta sulla necessità di trattare ebrei e cristiani allo stesso modo, con rispetto e tolleranza, è inequivocabile. Le fonti relative a questo periodo sono notoriamente di difficile interpretazione, in quanto complicate e contraddittorie, ma anche perché spesso risalgono a periodi assai posteriori agli eventi. Tuttavia, i recenti progressi della paleografia, la scoperta di lacerti di testi prima sconosciuti e i modi sempre più sofisticati di interpretare la documentazione scritta stanno modificando punti di vista consolidati su questo epico periodo della storia. Così, mentre la tradizione islamica ha a lungo sostenuto che Muḥammad morì nel 632, studi recenti lasciano pensare che il Profeta potesse essere ancora vivo in momenti successivi a tale data. Molteplici fonti del VII e dell’VIII secolo parlano di un predicatore carismatico – forse identificabile con lo stesso Muḥammad, com’è stato di recente suggerito – che guidò le forze arabe spingendole fino alle porte di Gerusalemme. 28 La straordinaria avanzata dei seguaci di Muḥammad in Palestina si confrontò con una reazione impotente e inetta da parte delle autorità. Alcuni membri del clero cristiano combatterono una disperata battaglia di retroguardia dipingendo gli arabi nella peggiore luce possibile, nel vano tentativo di convincere la popolazione locale a non farsi indurre con l’inganno a dare il proprio sostegno a un messaggio che sembrava a un tempo semplice e familiare. I «saraceni» sono vendicativi e odiano Dio, ammoniva il patriarca di Gerusalemme, poco tempo dopo la conquista della città. Saccheggiano le città, devastano i campi, mettono a fuoco le chiese e distruggono i monasteri. Il male che commettono contro Cristo e contro la Chiesa è raccapricciante, così come le «oscene bestemmie che pronunciano a proposito di Dio». 29 In realtà, sembra che le conquiste arabe non fossero né così brutali né così sconvolgenti come asseriscono i cronisti. Nella documentazione archeologica relativa alla Siria e alla Palestina, per esempio, ci sono scarsi indizi di una conquista violenta. 30 Damasco, la più importante città della Siria settentrionale, si arrese rapidamente
dopo che i termini della resa furono concordati fra il vescovo locale e il comandante degli attaccanti arabi. Al netto di qualche licenza poetica, il compromesso era ragionevole e realistico: in cambio della garanzia che le chiese rimanessero aperte e intatte, e la popolazione cristiana non venisse molestata, gli abitanti accettavano di riconoscere la sovranità dei nuovi padroni. In pratica, questo significava pagare le tasse non a Costantinopoli e alle autorità imperiali, ma ai rappresentanti «del Profeta, dei califfi e dei credenti». 31 Fu un procedimento che venne replicato più volte mentre gli arabi cominciavano a espandersi in ogni direzione, avanzando rapidamente lungo le vie commerciali e di comunicazione. Le armate sciamarono nell’Iran sudoccidentale, dopodiché l’attenzione si concentrò sulla caccia a Yazdagird III, l’ultimo re sasanide, che era fuggito verso est. Corpi di spedizione partiti alla volta dell’Egitto seminarono il caos operando di conserva, con il risultato di rendere limitata e inefficace la resistenza militare, ulteriormente indebolita dal fatto che le popolazioni locali combattevano tra loro o erano disposte a negoziare la resa per paura e insicurezza. Alessandria, il gioiello del Mediterraneo orientale, fu smilitarizzata e costretta a promettere un enorme tributo in cambio della garanzia che le chiese non sarebbero state toccate e la popolazione cristiana lasciata in pace. La notizia di questo accordo fu accolta con pianti e lamenti ad Alessandria, e con la richiesta che l’uomo che lo aveva negoziato, il patriarca Ciro, fosse lapidato per tradimento. «Ho fatto questo trattato» dichiarò questi in sua difesa «per salvare voi e i vostri figli.» E così, attesta un autore che scriveva circa un secolo più tardi, «i musulmani assunsero il controllo dell’intero Egitto, da sud a nord, e con questo triplicarono le loro entrate fiscali». 32 Dio stava punendo i cristiani per i loro peccati, scrisse un contemporaneo. 33 In uno schema quasi perfetto di espansione, la minaccia della forza militare portava ad accordi negoziati mentre le province si sottomettevano una dopo l’altra alle nuove autorità. In primo luogo, il potere nei territori conquistati era esercitato con mano leggera, e perfino con discrezione. In linea di massima, alle popolazioni locali maggioritarie era consentito continuare le loro attività senza
interferenze da parte dei nuovi padroni, che collocavano guarnigioni e alloggi lontano dai centri urbani esistenti. 34 In alcuni casi, furono fondate nuove città per i musulmani, come Fusṭāṭ in Egitto, Kūfa sull’Eufrate, Ramla in Palestina e Ayla nell’attuale Giordania, dove i siti in cui costruire le moschee e i palazzi dei governatori potevano essere scelti partendo da zero. 35 Il fatto che, nello stesso periodo, in Nord Africa, Egitto e Palestina venissero erette nuove chiese induce a pensare che si stabilisse rapidamente un modus vivendi in cui la tolleranza religiosa aveva carattere normativo. 36 Tale condizione sembra aver avuto un’eco nei territori strappati ai Sasanidi, dove, almeno in un primo tempo, gli zoroastriani furono o ignorati o comunque lasciati in pace. 37 Nel caso degli ebrei e dei cristiani, non è impossibile che ciò venisse anche ufficializzato. Si vuole che un testo complesso e controverso, noto come «Patto di ‘Umar», enunci i diritti che la cosiddetta Gente del Libro si vedeva riconosciuti dalle nuove autorità, e per converso definisca i princìpi fondamentali per l’interazione con l’islam: non era consentito disegnare croci sulle moschee; non era necessario insegnare il Corano ai bambini non musulmani, ma a nessuno doveva essere impedito di convertirsi all’islam; inoltre vigeva l’obbligo di rispettare i musulmani in ogni momento e di dare loro indicazioni se chiedevano aiuto. La convivenza tra le fedi fu un’importante caratteristica della prima espansione islamica, e un fattore cruciale del suo successo. 38 Taluni reagirono cercando di non correre rischi, come fecero alcuni atelier ceramici di Gerasa, nella Giordania settentrionale, che nel VII secolo produssero lampade con un’iscrizione cristiana in latino su un lato e un’invocazione islamica in arabo sull’altro. 39 Questa era in parte una reazione pragmatica a esperienze recenti, dato che l’occupazione persiana della regione era durata soltanto venticinque anni. Ma, anche nel caso dei padroni arabi, non c’era alcuna garanzia che fossero necessariamente destinati a durare, come illustra con assoluta chiarezza un testo greco del VII secolo: «Il corpo si rinnoverà» assicurava l’autore ai suoi lettori; c’era la speranza che le conquiste musulmane si rivelassero un fuoco di paglia. 40 La mano leggera del nuovo regime si manifestava anche in
questioni amministrative. Le monete romane furono utilizzate per diversi decenni dopo la conquista accanto ad altre di conio recente, battute con immagini familiari e valori nominali in uso da tempo; anche gli ordinamenti giuridici esistenti furono sostanzialmente lasciati intatti. Le norme in vigore su una serie di pratiche sociali furono adottate dai conquistatori, comprese alcune relative alle eredità, alle doti, ai giuramenti e al matrimonio, nonché al digiuno. In molti casi, nei territori in precedenza sasanidi e romani, governatori e burocrati furono lasciati al loro posto. 41 La ragione di questa scelta era in parte semplicemente aritmetica. I conquistatori, che fossero arabi o non arabi, veri credenti (mu’minūn) o quelli che si erano uniti a loro e sottomessi alla loro autorità (muslimūn), erano in cronica minoranza, il che significava che collaborare con la comunità locale non era tanto una scelta quanto una necessità. Ma ciò accadde anche perché nel quadro generale c’erano battaglie più importanti da combattere dopo i successi conseguiti in Persia, Palestina, Siria ed Egitto. Una era la lotta senza tregua con i resti malandati dell’impero romano. La stessa Costantinopoli fu sottoposta a un’intensa pressione: la dirigenza araba cercava di sbarazzarsi una volta per tutte dei romani. Ma ancora più importante era la battaglia per l’anima dell’islam. In analogia con quanto era accaduto nel caso delle dispute interne al cristianesimo delle origini, stabilire con precisione che cosa fosse stato rivelato a Muḥammad, e in che modo conservarne memoria e diffonderlo – e a chi –, divenne una questione cruciale dopo la sua morte. I conflitti furono feroci: dei primi quattro uomini designati a succedere al Profeta come suoi rappresentanti, o «califfi» (successori), tre furono assassinati. Scoppiarono furiose discussioni su come interpretare gli insegnamenti di Muḥammad, e sforzi disperati di distorcerne l’eredità o appropriarsene. Fu per cercare di rendere univoco e stabile il messaggio di Muḥammad che, molto probabilmente nell’ultimo quarto del VII secolo, venne dato ordine di fissarlo per iscritto in un unico testo: il Corano. 42 L’antagonismo tra fazioni rivali ebbe l’effetto di irrigidire gli atteggiamenti nei confronti dei non musulmani. Dato che ciascun
gruppo pretendeva di essere il guardiano più fedele delle parole del Profeta, e quindi della volontà di Dio, non è forse così sorprendente che l’attenzione si rivolgesse ben presto ai kāfir, coloro che non erano credenti. I capi musulmani erano stati tolleranti e perfino benevoli nei riguardi dei cristiani, ricostruendo, per esempio, la chiesa di Edessa dopo che era stata danneggiata da un terremoto nel 679. 43 Ma verso la fine del VII secolo le cose cominciarono a cambiare. L’attenzione si rivolse al proselitismo, all’evangelizzazione e alla conversione all’islam delle popolazioni locali, nei confronti delle quali l’atteggiamento si faceva sempre più ostile. Una manifestazione di questa tendenza si ebbe durante quelle che i commentatori moderni a volte chiamano «guerre delle monete», perché il conio veniva usato come strumento di propaganda. Dopo che, nei primi anni Novanta del VII secolo, il califfo cominciò a emettere monete con la scritta «Non c’è altro Dio che l’unico Dio; Muḥammad è il messaggero di Dio», Costantinopoli rispose per le rime. Furono coniate monete in cui il ritratto dell’imperatore non compariva più sul recto, ma sul verso. Al suo posto, sul recto, c’era un nuova immagine a effetto: Gesù Cristo. L’intenzione era di rafforzare l’identità cristiana e dimostrare che l’impero godeva della protezione divina. 44 In un singolare sviluppo, il mondo islamico cominciò ora a competere con i cristiani con le stesse armi. Sorprendentemente, alle emissioni con Gesù e l’imperatore sulle due facce si rispose in un primo tempo con l’effigie di un uomo nel ruolo equivalente a quello di Gesù: il protettore delle terre dei fedeli. Anche se in genere si tende a identificare questa immagine con quella del califfo ‘Abd al-Malik, è senz’altro possibile che si tratti invece proprio di Muḥammad. È raffigurato con una tunica fluente, con una barba lucida e con in mano una spada infoderata. Se è il Profeta, è questa a tutt’oggi la sua immagine più antica e, fatto assai significativo, è un’immagine che coloro che lo avevano conosciuto avevano visto con i loro occhi. AlBalādhurī, che scriveva più di un secolo dopo, riferisce che alcuni dei compagni di Muḥammad a Medina, che lo avevano conosciuto bene
ed erano ancora in vita, videro queste monete. Un altro autore molto più tardo ma che attingeva a fonti islamiche delle origini, dice più o meno la stessa cosa, osservando che gli amici del Profeta erano a disagio per l’uso che era stato fatto della sua immagine. Tuttavia, queste monete non rimasero in circolazione a lungo, perché sul finire del VII secolo furono completamente ridisegnate: le immagini scomparvero, sostituite su entrambe le facce da versetti del Corano. 45 Convertire i cristiani non era però l’obiettivo più importante in quel periodo, perché il terreno di scontro cruciale era ancora quello tra le fazioni musulmane rivali. Fra i diversi pretendenti al ruolo di erede legittimo di Muḥammad si accese un intenso dibattito, durante il quale la carta vincente divenne sapere quanto più possibile sui primi anni di vita del Profeta. La competizione fu talmente aspra che vennero fatti seri e concertati tentativi di spostare il centro della religione da Mecca a Gerusalemme, quando in Medio Oriente emerse una potente fazione che si rivoltò contro i tradizionalisti dell’Arabia meridionale. La moschea della Cupola della Roccia, il primo grande edificio sacro islamico, fu costruita all’inizio dell’ultimo decennio del VII secolo, in parte proprio con l’intenzione di distogliere l’attenzione da Mecca. 46 Come osserva un commentatore moderno, gli edifici e la cultura materiale furono usati «come un’arma per il conflitto ideologico» durante un instabile periodo di guerra civile, mentre il califfo stava impugnando le armi contro i discendenti diretti dello stesso Profeta Muḥammad. 47 Il conflitto all’interno del mondo musulmano spiega le iscrizioni a mosaico poste sia sulla facciata esterna sia su quella interna della Cupola della Roccia, e che erano volte a blandire i cristiani. Adorate Dio, il compassionevole e misericordioso, e onorate e benedite il Suo Profeta Muḥammad, dicono. Ma proclamano anche che Gesù era il Messia. «Allora credete in Dio e nei suoi inviati … benedite il vostro inviato e vostro servo Gesù figlio di Maria, la pace sia con lui il giorno della nascita e il giorno della morte e il giorno in cui è risuscitato dalla morte.» 48 In altre parole, nell’ultimo decennio del VII secolo le demarcazioni religiose erano ancora tutt’altro che nette. Anzi, l’islam sembrava così affine che alcuni studiosi cristiani pensavano che i suoi
insegnamenti costituissero non tanto una nuova religione, quanto una diversa interpretazione del cristianesimo. Secondo Giovanni Damasceno, uno dei principali commentatori dell’epoca, l’islam era un’eresia cristiana piuttosto che una religione diversa. Muḥammad, scriveva, era pervenuto alle sue idee basandosi sulla lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, e su una conversazione con un monaco errante cristiano. 49 A dispetto, o forse a causa, della lotta incessante per il potere e l’autorità che travagliava il centro del mondo musulmano, le periferie continuarono a vedere una sbalorditiva espansione. I comandanti che preferivano gli scontri sul campo alle battaglie politiche e teologiche guidarono le armate sempre più in profondità nell’Asia centrale, nel Caucaso e nel Nord Africa, dove l’avanzata sembrava inarrestabile. Dopo aver attraversato lo stretto di Gibilterra, gli eserciti dilagarono in Spagna e penetrarono in Francia. Qui, però, nel 732 incontrarono resistenza in un punto imprecisato tra Poitiers e Tours, a poco meno di 350 chilometri da Parigi. In una battaglia che in seguito assunse connotazioni quasi mitiche come momento che aveva segnato l’arresto dell’ondata islamica, Carlo Martello guidò un esercito che inflisse al nemico una sconfitta cruciale. Il destino dell’Europa cristiana era appeso a un filo, sostennero più tardi gli storici, e se non fosse stato per l’eroismo e l’abilità dei difensori il continente sarebbe di certo diventato musulmano. 50 La verità è che, per quanto avesse segnato senz’altro una battuta d’arresto, la sconfitta non significava che i musulmani non avrebbero scatenato nuovi attacchi in futuro, se vi fossero state prede che valesse la pena di conquistare. Ma nell’Europa occidentale, in quel periodo, simili prede erano poche e rare: ricchezze e gratifiche stavano altrove. Le conquiste musulmane completarono lo slittamento dell’Europa nell’ombra, un processo che era iniziato due secoli prima con le invasioni dei Goti, degli Unni e di altri popoli nomadi. Quanto rimaneva dell’impero romano – ormai poco più di Costantinopoli e dintorni – si contraeva e traballava sull’orlo del collasso definitivo. Il commercio nel Mediterraneo cristiano, già in calo alla vigilia delle
guerre con la Persia, crollò. Città un tempo estremamente attive come Atene e Corinto si ridimensionarono bruscamente, mentre la popolazione si riduceva e i loro centri venivano quasi abbandonati. I relitti di navi del periodo dal VII secolo in poi, un buon indicatore del volume di scambi commerciali dell’epoca, sono pressoché inesistenti. Il commercio di dimensioni superiori a quelle locali semplicemente cessò. 51 Il contrasto con il mondo musulmano non avrebbe potuto essere più netto. I nuclei economici vitali dell’impero romano e della Persia non erano stati soltanto conquistati, ma unificati. Egitto e Mesopotamia erano stati messi in collegamento a formare il cuore di un nuovo colosso economico e politico che si estendeva dall’Himalaya fino all’Atlantico. Nonostante le zuffe ideologiche, le rivalità e gli occasionali e parossistici momenti di instabilità nel mondo islamico – come nel caso del rovesciamento del califfato in carica da parte della dinastia abbaside nel 750 –, il nuovo impero traboccava di idee, merci e denaro. In effetti, dietro la rivoluzione abbaside c’era appunto questo: erano state le città dell’Asia centrale ad aprire la strada al cambio di regime. Qui c’erano le basi dove venivano affinate le argomentazioni intellettuali e finanziate le ribellioni. Fu qui che furono prese le decisioni cruciali nella battaglia per l’anima dell’islam. 52 I musulmani avevano assunto il controllo di un mondo ben ordinato e costellato di centinaia di città popolate da consumatori, ossia da cittadini tassabili. Ogniqualvolta una di esse cadeva nelle mani del califfato, nuovi beni e ricchezze entravano nella disponibilità del centro. Vie commerciali, oasi, città e risorse naturali venivano prese di mira e incorporate. I porti che fungevano da punti di collegamento commerciale tra il golfo Persico e la Cina furono annessi, così come le vie commerciali transahariane che si erano nel frattempo sviluppate, facendo sì che Fez (nell’odierno Marocco) divenisse «immensamente prospera» e sede di traffici che, nelle parole di un osservatore contemporaneo, producevano «enormi profitti». La conquista di nuove regioni e nuovi popoli portava nelle casse dell’impero musulmano somme di denaro sbalorditive: uno storico
arabo stimava che la conquista di Sindh (in quello che oggi è il Pakistan) rendesse 60 milioni di dirham, per non parlare delle ricchezze che si sarebbero ricavate in futuro dalle tasse, dai dazi e da altre imposte. 53 In termini odierni, si trattava di miliardi di dollari. Quando le forze islamiche si diressero a est, il processo di imposizione e riscossione dei tributi fu altrettanto efficiente e redditizio quanto lo era stato in Palestina, Egitto e altrove. Le città dell’Asia centrale furono prese una a una, perché a segnarne il destino erano gli scarsi legami esistenti tra di esse: in mancanza di una struttura organizzativa in grado di coordinare le difese, a ciascuna non restava che attendere il proprio turno. 54 Gli abitanti di Samarcanda furono costretti a pagare una somma di denaro spropositata al comandante musulmano perché si ritirasse, anche se poi la città dovette comunque arrendersi. Se non altro, al governatore della città fu risparmiata la sorte toccata a Dewashtich, signore di Panjakent (nel moderno Tagikistan), che si era proclamato re della Sogdiana; fu preso con l’inganno, imprigionato e crocifisso di fronte al suo popolo. Il governatore di Balkh (in quello che oggi è l’Afghanistan settentrionale) subì un trattamento analogo. 55 I progressi musulmani nell’Asia centrale furono alquanto facilitati dal caos che aveva iniziato a dilagare nella regione della steppa nel momento stesso in cui la Persia si era sgretolata. Il devastante inverno dell’annata 627-628 aveva causato una carestia e la morte di un numero esorbitante di capi di bestiame, accelerando un importante passaggio di potere. Nel corso dell’avanzata verso est, le forze musulmane si trovarono di fronte le tribù nomadi, che avevano beneficiato anch’esse del collasso della Persia. Negli anni Trenta dell’VIII secolo i nomadi Türk subirono una rovinosa sconfitta, le cui conseguenze divennero ancora più gravi quando Sulu, il signore delle steppe, fu assassinato nel corso di una partita di tavola reale finita in rissa. 56 A mano a mano che il cuscinetto tribale si disintegrava, i musulmani compivano nuovi passi nella loro avanzata verso est, lenta ma sicura, prendendo città, città-oasi e nodi di comunicazione, sino a raggiungere i confini occidentali della Cina verso l’inizio dell’VIII
secolo. 57 Nel 751 i conquistatori arabi si ritrovarono faccia a faccia con i cinesi, e li sconfissero in modo decisivo in uno scontro presso il fiume Talas, in Asia centrale. In questo modo, i musulmani raggiunsero un confine naturale che aveva poco senso travalicare, quantomeno nel breve periodo. Nel frattempo, in Cina la sconfitta non passò inosservata e provocò agitazione, scatenando una grande rivolta guidata dal generale sogdiano An Lushan contro la dinastia regnante Tang. Ne seguì un lungo periodo di disordine e instabilità, che generò un vuoto suscettibile di essere sfruttato da altri. 58 Pronti a farlo furono gli Uiguri, un popolo tribale che aveva sostenuto i Tang e che si avvantaggiò in misura considerevole allorché i suoi ex sovrani si ritirarono a leccarsi le ferite al sicuro nella Cina vera e propria. Per migliorare il controllo dei loro territori sempre più estesi, gli Uiguri costruirono insediamenti permanenti, il più importante dei quali, Balāsāghūn o Quz Ordu (nel moderno Kirghizistan), divenne sede del sovrano, o khagan. Era uno strano miscuglio di città e accampamento, in cui il capo aveva una tenda con una cupola dorata e un trono all’interno. La città aveva dodici porte d’ingresso ed era protetta da mura e torri. A giudicare dai racconti di epoca successiva, questa era soltanto una delle numerose città uigure che videro la luce dall’VIII secolo in poi. 59 Gli Uiguri divennero ben presto la forza preponderante sulla frontiera orientale dell’islam, dapprima assorbendo e poi sostituendo i Sogdiani nel ruolo di protagonisti del commercio a lunga distanza, soprattutto della seta. Serie di imponenti complessi palaziali testimoniano delle ricchezze accumulate in questo periodo. 60 Khukh Ordung, per esempio, era una città fortificata che ospitava accampamenti di tende e edifici permanenti, tra i quali un padiglione che il khagan usava per ricevere visitatori importanti e per cerimonie religiose. 61 A confronto con i rivali musulmani, gli Uiguri cercarono di salvaguardare la loro identità, decidendo di convertirsi al manicheismo, forse come terreno intermedio fra il mondo islamico a ovest e la Cina a est. Con le loro conquiste i musulmani avevano assunto il controllo di una vasta rete di vie commerciali e di comunicazione che, sotto la loro
autorità, collegava le oasi dell’Afghanistan e della valle di Fergana con il Nord Africa e l’oceano Atlantico. La ricchezza concentrata nel cuore dell’Asia era strabiliante. Scavi condotti a Panjakent, a Balalyk-tepe e in altri siti nell’odierno Uzbekistan testimoniano di un diffuso mecenatismo di altissimo livello e, ovviamente, del denaro che lo alimentava. Scene di vita di corte, così come altre tratte dall’epica persiana, erano splendidamente rappresentate sulle pareti di residenze private. In un palazzo di Samarcanda, una serie di immagini mostra il carattere cosmopolita del mondo in cui i musulmani stavano mettendo piede: il sovrano locale vi è dipinto nell’atto di ricevere doni da dignitari stranieri, provenienti dalla Cina, dalla Persia, dall’India e forse anche dalla Corea. Città, province e palazzi come questi cadevano nelle mani degli eserciti musulmani che sciamavano lungo le vie commerciali. 62 Grazie a questa nuova ricchezza che affluiva nelle casse centrali si cominciarono a fare grandi investimenti in luoghi come la Siria, dove nell’VIII secolo, nelle città di Gerasa, Scitopoli e Palmira, furono costruite su vasta scala piazze del mercato e botteghe. 63 Ma la cosa in assoluto più sensazionale fu l’edificazione di una nuova enorme città, che doveva diventare la più ricca e popolosa del mondo, e che tale rimase per secoli, anche se alcune stime compiute nel X secolo sono decisamente eccessive. Basando i suoi calcoli sul numero dei bagni pubblici e degli inservienti necessari per farli funzionare, nonché sulla probabile distribuzione dei bagni nelle case private, un autore valutò che gli abitanti della città dovessero essere poco meno di un milione. 64 Era nota come Madīnat al-Salām, ossia «città della pace». Noi la conosciamo come Baghdad. La città era il simbolo perfetto dell’opulenza del mondo islamico, il cuore del potere reale, del mecenatismo e del prestigio. Essa costituiva un nuovo centro di gravità per i successori di Muḥammad, l’asse politico ed economico che connetteva le terre musulmane in ogni direzione. Forniva uno scenario per il fasto e l’ostentazione su una scala sbalorditiva, come accadde in occasione del matrimonio di Hārūn al-Rashīd, il figlio del califfo, nel 781. Oltre a offrire alla sposa
una collana di perle di ineguagliabile grandezza, tuniche decorate con rubini e un banchetto «come in precedenza non ne erano mai stati preparati per nessuna donna», lo sposo distribuì doni alla popolazione convenuta da tutto il paese. Catini d’oro colmi d’argento e catini d’argento colmi d’oro furono portati in giro e il loro contenuto fu distribuito, così come costosi profumi in recipienti di vetro. Alle donne in servizio furono consegnate borse contenenti monete d’oro e d’argento «e un grande vassoio d’argento con essenze, e a ciascuna di loro fu donato un abito da cerimonia riccamente colorato e massicciamente decorato. Non si era mai visto prima nulla di simile», almeno non in epoca islamica. 65 Tutto ciò era reso possibile da entrate fiscali straordinariamente abbondanti, prodotte da un impero vasto, florido e ricco di moneta circolante. Quando Hārūn al-Rashīd morì, nell’809, del suo tesoro facevano parte 4000 turbanti, 1000 preziosi vasi di porcellana, molti tipi di profumo, enormi quantità di gioielli, d’argento e d’oro, 150.000 lance e un ugual numero di scudi, e migliaia di paia di stivali, molti dei quali foderati di zibellino, di visone e di altri tipi di pelliccia. 66 «Il più piccolo dei miei territori governato dal meno importante dei miei sudditi fornisce entrate maggiori di quelle di tutto il vostro impero» pare abbia scritto il califfo all’imperatore di Costantinopoli alla metà del IX secolo. 67 La ricchezza alimentò un periodo di incredibile prosperità e una rivoluzione intellettuale. L’impresa privata crebbe rapidamente, mentre i livelli di reddito disponibile aumentavano in modo spettacolare. Bassora, sul golfo Persico, acquisì la fama di mercato dove si poteva trovare di tutto, comprese sete e tela di lino, perle e gemme, oltre a henné e acqua di rose. Il mercato di Mosul, una città con case magnifiche e bei bagni pubblici, era un posto eccellente per trovare frecce, staffe o selle, secondo un cronista del X secolo. D’altra parte, aggiungeva, se si volevano i migliori pistacchi e datteri, le migliori melegrane o il miglior olio di sesamo, il posto ideale per trovarli era a Nīshāpūr. 68 C’era un ardente desiderio degli ingredienti più gustosi, dei pezzi di artigianato più belli e dei prodotti migliori. A mano a mano che i gusti diventavano più raffinati, cresceva la fame di conoscenze. Anche
se la leggenda tradizionale secondo la quale il mondo islamico apprese le tecniche di fabbricazione della carta dai soldati cinesi catturati nella battaglia del Talas del 751 è eccessivamente romanzesca, è certamente vero che dall’ultima parte dell’VIII secolo in poi la disponibilità di carta rese la registrazione, la condivisione e la divulgazione della conoscenza più ampie, semplici e rapide. La conseguente esplosione di testi scritti riguardò tutte le aree della scienza, della matematica, della geografia e della letteratura di viaggio. 69 Gli autori annotavano che le migliori mele cotogne venivano da Gerusalemme e i migliori dolci dall’Egitto; i fichi siriani erano gustosissimi, mentre l’uva di Shiraz era irresistibile. Dal momento che ci si potevano concedere gusti più raffinati, diventavano importanti i giudizi critici severi. La frutta di Damasco andava evitata, avvertiva sempre lo stesso autore, perché era insapore (e per di più gli abitanti erano troppo polemici). Se non altro, però, la città non era sgradevole come Gerusalemme, un «catino d’oro pieno di scorpioni», dove i bagni erano sudici, i viveri avevano prezzi esorbitanti e il costo della vita bastava a sconsigliare anche una breve visita. 70 Mercanti e viaggiatori riportavano in patria notizie dei luoghi che visitavano: che cosa avevano da offrire i mercati di là e com’erano i popoli al di fuori delle terre dell’islam. I cinesi di tutte le età «si vestono di seta sia d’inverno che d’estate» osservava un autore che collazionava rapporti provenienti dall’estero, e in qualche caso disponevano del tessuto più fine che si potesse immaginare. Questa eleganza non si estendeva a tutte le abitudini: «I cinesi curano poco l’igiene, e non si lavano il fondoschiena con l’acqua dopo la defecazione, ma si limitano a strofinarsi con la carta cinese». 71 Tuttavia, i cinesi apprezzavano l’intrattenimento musicale, a differenza degli indiani, che consideravano tali spettacoli «vergognosi». I sovrani di tutta l’India si astenevano anche dall’alcol. Questo non per ragioni di carattere religioso, ma a causa della loro idea perfettamente ragionevole che, se uno è ubriaco, «come fa a governare un regno in modo adeguato?». Sebbene l’India sia «il paese della medicina e dei filosofi», conclude l’autore, la Cina «è un paese
più sano, con meno malattie e aria migliore». Là era raro vedere «ciechi, monocoli e persone deformi», mentre «in India ce ne sono in gran numero». 72 I generi di lusso dilagavano nel paese dall’estero. Porcellane e ceramiche venivano importate dalla Cina in quantità considerevole, e influenzavano le tendenze, i motivi e le tecniche del vasellame locale, mentre il caratteristico smalto bianco dei vasi Tang diventava estremamente popolare. A consentire alla produzione di tenere il passo con la domanda erano i progressi nella tecnologia delle fornaci, così come l’aumento delle loro dimensioni: si ritiene che i più grandi forni cinesi raggiungessero una capacità che permetteva di cuocere 12.000-15.000 pezzi alla volta. I crescenti livelli di interscambio attraverso quello che un autorevole studioso definisce «il sistema commerciale marittimo più grande del mondo» possono essere attestati dal fatto che un’unica nave, affondata al largo della costa dell’Indonesia nel IX secolo, quando colò a picco trasportava circa 70.000 articoli in ceramica, oltre a scatole ornamentali, argenteria, oro e pani di piombo. 73 È solo un esempio della profusione di ceramiche, seta, legname tropicale e animali esotici che, secondo le fonti, venivano importati nel mondo abbaside in questo periodo. 74 Tale era la quantità di mercanzie che affluiva nei porti del golfo Persico che venivano impiegati tuffatori subacquei professionisti per recuperare materiali scartati o caduti dalle navi da carico in prossimità della costa. 75 Si potevano realizzare fortune fornendo merci molto richieste. Il porto di Sīrāf, da cui passava buona parte del traffico marittimo proveniente dall’Est, vantava residenze sontuose dai prezzi esorbitanti. «Nel regno dell’islam non ho visto edifici più straordinari, o più belli» scrisse un autore del X secolo. 76 Una serie di fonti attesta un traffico su grande scala in entrata e in uscita dal golfo Persico, oltre che lungo le vie terrestri che attraversavano l’Asia centrale. 77 La crescente domanda aveva l’effetto di ispirare e incrementare la produzione locale di ceramiche e porcellane, i cui acquirenti erano presumibilmente coloro che non potevano permettersi gli assai migliori (e più costosi) pezzi provenienti dalla Cina. Non era quindi
sorprendente che in Mesopotamia e nel golfo Persico i vasai imitassero lo smalto bianco dei vasi d’importazione, facendo esperimenti con sostanze alcaline, con lo stagno e infine con il quarzo, nel tentativo di ottenere l’aspetto della porcellana traslucida (e di migliore qualità) prodotta in Cina. A Bassora e a Samarra furono sviluppate delle tecniche che utilizzavano il cobalto per creare caratteristiche «porcellane bianche e blu», che secoli dopo non solo sarebbero diventate popolari in Estremo Oriente, ma avrebbero rappresentato il marchio distintivo del primo vasellame cinese moderno. 78 Nell’VIII e nel IX secolo, però, non poteva esserci alcun dubbio su dove fossero i principali mercati. Un cinese in visita nell’impero arabo in questo periodo si meravigliava della ricchezza: «Qui si trova ogni cosa prodotta dalla terra. I carri trasportano innumerevoli merci ai mercati, dove ogni cosa è disponibile e a poco prezzo. Broccato, sete ricamate, perle e altre pietre preziose sono esposte ovunque sul mercato e nelle botteghe lungo la strada». 79 A mano a mano che i gusti diventavano sempre più sofisticati, sempre più raffinate divennero anche le idee sulle occupazioni e i passatempi adeguati. Testi come Il libro della corona, scritto nel X secolo, illustrano l’etichetta appropriata per l’interazione tra il sovrano e i membri della corte, raccomandando che i nobili caccino, pratichino il tiro con l’arco, giochino a scacchi e s’impegnino in «altre attività simili». 80 Tutte queste idee erano mutuate dai canoni sasanidi, ma la portata della loro influenza si può apprezzare nelle mode dell’epoca in fatto di decorazione d’interni, per esempio nella grande popolarità di cui godevano in particolare le scene di caccia nei palazzi privati dell’élite. 81 Facoltosi mecenati cominciarono a finanziare anche uno dei più straordinari periodi di sviluppo culturale della storia. Brillanti personaggi – molti dei quali non musulmani – furono chiamati alla corte di Baghdad e nei centri di eccellenza accademica sparsi in tutta l’Asia centrale, come Bukhara, Merv, Gundeshāpūr e Ghazni, oltre che più lontano, nella Spagna islamica e in Egitto, a lavorare su una gamma di discipline tra le quali la matematica, la filosofia, la fisica e la
geografia. Furono raccolti e tradotti in arabo dal greco, dal persiano e dal siriaco moltissimi testi di varia natura, dai manuali di medicina equina e di scienze veterinarie alle opere della filosofia greca antica. 82 Di questi libri si cibavano avidamente gli studiosi, che se ne servivano come base per la loro ricerca. L’istruzione e il sapere divennero un ideale culturale. Così fu, per esempio, per la famiglia dei Barmecidi, proveniente da Balkh e in origine di religione buddista, che acquisì influenza e potere nella Baghdad del IX secolo e promosse con vigore la traduzione di una vasta gamma di testi dal sanscrito all’arabo, costruendo perfino una cartiera per agevolare la produzione di copie destinate a una più ampia divulgazione. 83 Oppure c’era la famiglia Bukhtīshū‘, cristiani di Gundeshāpūr, in Persia, che produsse generazioni di intellettuali, autori di trattati sulla medicina e perfino sul mal d’amore, nonché medici, in qualche caso al servizio personale del califfo. 84 Le opere mediche scritte in questo periodo costituirono per secoli la base della medicina islamica. «Com’è il battito di qualcuno che soffre di ansia?» era il Quesito 16 di un testo a domande e risposte scritto nell’Egitto medievale; la risposta («lieve, debole e irregolare»), notava l’autore, si poteva trovare in un’enciclopedia compilata nel X secolo. 85 La farmacopea – testi che illustravano la preparazione e la combinazione di medicinali – elencava esperimenti compiuti con sostanze quali citronella, semi di mirto, cumino e aceto di vino, semi di sedano e olio di nardo. 86 Altri lavoravano sull’ottica, come Ibn alHaytham, uno studioso vissuto in Egitto al quale si deve la stesura di un pionieristico trattato che giunse a nuove conclusioni non soltanto sul modo in cui la visione e il cervello sono collegati, ma anche sulle differenze tra percezione e conoscenza. 87 Oppure c’era Abū Rayḥān al-Bīrūnī, il quale stabilì che la Terra gira intorno al Sole e ruota su un asse. O eruditi eclettici come Abū ‘Alī Ḥusayn ibn Sīnā, noto in Occidente come Avicenna, che scrisse di logica, teologia, matematica, medicina e filosofia dimostrando in ciascun campo un’intelligenza, una lucidità e un’onestà che suscitano riverenza. «Ho letto la Metafisica di Aristotele,» scrisse «ma non
riuscivo a comprenderne i contenuti … anche quando tornavo indietro e lo rileggevo quaranta volte, ed ero arrivato al punto di conoscerlo a memoria.» Si tratta di un libro, aggiunse in una nota che sarà di consolazione a chi studia questo testo così complesso, «che non c’è modo di capire». Un giorno, però, trovandosi per caso presso la bancarella di un libraio in un mercato, comprò una copia di un commentario dell’opera di Aristotele scritto da Abū Naṣr al-Fārābī, un altro grande pensatore di quel periodo. All’improvviso tutto acquistò un senso. «Ne fui felice» scrisse Ibn Sīnā «e il giorno successivo diedi molto denaro in elemosina ai poveri in segno di gratitudine verso Dio, che sempre sia lodato.» 88 Poi c’erano i materiali portati dall’India, tra i quali testi di scienza, matematica e astrologia scritti in sanscrito su cui riflettevano uomini brillanti come Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, che constatò con gioia la semplicità del sistema numerico che incorporava il concetto matematico dello zero. Esso fornì la base per compiere passi da gigante nell’algebra, nella matematica applicata, nella trigonometria e nell’astronomia: quest’ultima, in parte, stimolata dall’esigenza pratica di sapere in quale direzione si trovava la città di Mecca, in modo che le preghiere potessero essere elevate secondo i dettami. Gli studiosi erano felici non soltanto di raccogliere materiali provenienti da ogni angolo del mondo e di studiarli, ma anche di tradurli. «Le opere degli indiani vengono rese [in arabo], la sapienza dei greci viene tradotta, e anche la letteratura dei persiani [ci] è stata trasmessa,» scriveva un autore «e di conseguenza alcune opere sono diventate ancora più belle.» Che peccato, opinava, che l’arabo fosse una lingua così elegante da rendere pressoché impossibile tradurla. 89 Era un’età dell’oro, un periodo in cui uomini brillanti come al-Kindī ampliavano le frontiere della filosofia e della scienza. Si facevano avanti anche donne brillanti, come, in quello che oggi è l’Afghanistan, la poetessa del X secolo nota come Rabī‘a Balkhī, da cui oggi prende nome l’ospedale ostetrico di Kabul; o Mahsatī Ganjavī, che scrisse con eloquenza in un persiano di squisita fattura, e anche piuttosto audace. 90
Mentre il mondo musulmano si dilettava di innovazione, progresso e nuove idee, gran parte dell’Europa cristiana languiva nell’oscurità, paralizzata dalla scarsità di risorse e dalla mancanza di curiosità. Sant’Agostino era stato assolutamente ostile al concetto di investigazione e ricerca. «Gli uomini cercano null’altro che il conoscere,» scrisse in tono sprezzante, anche se «la … conoscenza è per nulla utile.» La curiosità, per usare le sue parole, non era altro che una «perversione». 91 Questo disprezzo per la scienza e il sapere sconcertava i commentatori musulmani, che avevano grande rispetto per Tolomeo ed Euclide, per Omero e Aristotele. Qualcuno aveva pochi dubbi sulla colpa di tutto ciò. Un tempo, scriveva lo storico al-Mas‘ūdī, gli antichi greci e i romani avevano permesso alle scienze di fiorire; poi avevano adottato il cristianesimo. Nel farlo, avevano «cancellato la filosofia, ne avevano eliminate le tracce e distrutto i sentieri». 92 La scienza era stata sconfitta dalla fede. Era quasi l’esatto contrario del mondo come lo vediamo oggi: i fondamentalisti non erano i musulmani, ma i cristiani; quelli che avevano la mente aperta, curiosa e fertile risiedevano in Oriente, e di certo non in Europa. Quando giunse al momento di parlare dei paesi non islamici, un autore scrisse: «Non ce ne occupiamo [nel nostro libro] perché non vediamo alcuna utilità nel descriverli». Erano, dal punto di vista intellettuale, acque stagnanti. 93 Il clima illuminato e la raffinatezza culturale si riflettevano anche nel modo in cui venivano trattate le religioni e le culture minoritarie. Nella Spagna musulmana, le influenze visigotiche furono incorporate in uno stile architettonico che poteva essere interpretato dalla popolazione assoggettata come un elemento di continuità con il recente passato, e quindi né aggressivo né trionfalistico. 94 Possiamo anche leggere le lettere inviate da Timoteo, il capo della Chiesa d’Oriente con sede a Baghdad, tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX: esse descrivono un mondo in cui le autorità ecclesiastiche cristiane avevano con il califfo rapporti personali improntati alla disponibilità, e dove il cristianesimo poteva mantenere una base da cui inviare missioni evangeliche in India, in Cina, nel Tibet e nelle steppe, evidentemente incontrando un notevole successo. 95 Era un modello
che trovava corrispondenza in Nord Africa, dove comunità cristiane ed ebraiche sopravvivevano, e forse anche prosperavano, molto tempo dopo le conquiste musulmane. 96 Ma è anche facile farsi fuorviare. Innanzitutto, nonostante l’apparente unità assicurata dal manto della religione, c’era ancora un’aspra divisione nel mondo islamico. Dall’inizio del X secolo si erano formati tre centri politici principali: uno si imperniava su Cordova e la Spagna, uno sull’Egitto e l’Alto Nilo, e il terzo sulla Mesopotamia e la Penisola arabica (o quantomeno su gran parte di essa), ed erano in lotta tra loro su questioni di carattere teologico, oltre che di influenza e potere. Entro una generazione dalla morte di Muḥammad, in seno all’islam si era prodotto un grave scisma, alimentato da motivazioni rivali addotte per giustificare la corretta successione al Profeta. Queste si erano ben presto coagulate in due tesi in competizione, sostenute dalle interpretazioni sunnī (sunnita) e shī‘a (sciita), la seconda delle quali affermava con veemenza che soltanto il discendente di Ali, il cugino e genero del Profeta, doveva regnare come califfo, mentre la prima era a favore di un’interpretazione meno restrittiva. Così, anche se in teoria vi era un’unità religiosa sovraordinata che connetteva l’Hindu Kush con i Pirenei attraverso la Mesopotamia e il Nord Africa, trovare il consenso era tutt’altra questione. Di conseguenza, gli atteggiamenti tolleranti nei confronti delle varie fedi non erano né uniformi né costanti. Pur essendoci periodi di accettazione delle altre religioni, c’erano anche fasi di persecuzione e di brutale proselitismo. Mentre il primo secolo dopo la morte di Muḥammad aveva visto sforzi limitati per convertire le popolazioni locali, subito dopo furono compiuti tentativi più sistematici di incoraggiare coloro che vivevano sotto l’autorità musulmana ad abbracciare l’islam. Non si trattava di tentativi circoscritti all’insegnamento religioso e alla predicazione: nel caso di Bukhara, per esempio, nell’VIII secolo il governatore annunciò che tutti coloro che si presentavano alla preghiera del venerdì avrebbero ricevuto la generosa somma di due dirham: un incentivo che attraeva i poveri e li persuadeva ad accettare la nuova fede, sia pure in termini elementari
(non essendo in grado di leggere il Corano in arabo, bisognava suggerire loro che cosa fare durante la recitazione delle preghiere). 97 La catena di eventi innescata dalla forte rivalità tra l’impero romano e la Persia aveva avuto conseguenze straordinarie. Mentre le due grandi potenze della tarda antichità flettevano i muscoli e si preparavano alla resa dei conti finale, pochi avrebbero potuto predire che a venire alla ribalta soppiantandole entrambe sarebbe stata una fazione originaria di una landa remota della Penisola arabica. Coloro che erano stati ispirati da Muḥammad ereditarono veramente la terra, fondando l’impero forse più vasto che la storia abbia mai conosciuto, un impero che avrebbe introdotto tecniche di irrigazione e nuove colture provenienti dal Tigri e dall’Eufrate nella Penisola iberica, e innescato una vera e propria rivoluzione agricola su un’area estesa per migliaia di chilometri. 98 Le conquiste islamiche crearono un nuovo ordine mondiale, un gigante economico sostenuto dalla fiducia in sé stesso, dalla larghezza di vedute e da un appassionato zelo per il progresso. Immensamente ricco e con pochi rivali naturali, politici o religiosi, era un luogo dove prevaleva l’ordine, dove i mercanti potevano diventare ricchi, dove gli intellettuali erano rispettati e dove le concezioni più disparate potevano essere discusse e dibattute. Un inizio poco promettente in una grotta nei dintorni di Mecca si era tradotto in una specie di utopia cosmopolita. La cosa non passava inosservata. Uomini ambiziosi nati alla periferia della umma musulmana, o anche molto più lontano, venivano attratti come api dal miele. Le prospettive che si offrivano nelle paludi dell’Italia, nell’Europa centrale e in Scandinavia non sembravano troppo allettanti per i giovani che volevano farsi un nome (e un po’ di soldi). Nel XIX secolo, era all’Ovest e agli Stati Uniti che guardavano simili individui, in cerca di fama e fortuna; un millennio prima, guardavano all’Est. E poi, soprattutto, c’era una merce disponibile in abbondanza e con buone prospettive di mercato fra gli amanti del gioco duro e veloce.
VI
LA VIA DELLE PELLICCE
Al suo apogeo, Baghdad era una città splendida da contemplare. Con i suoi parchi, i suoi mercati, le sue moschee e i suoi bagni pubblici – oltre che con le scuole, gli ospedali e le fondazioni caritatevoli – ospitava dimore «sontuosamente dorate e decorate, con magnifici arazzi alle pareti e tappezzerie di broccato e di seta», i cui saloni erano «arredati con leggerezza e buongusto con lussuosi divani, tavoli costosi, eccezionali vasi cinesi e innumerevoli ninnoli d’oro e d’argento». Lungo il fiume Tigri c’erano i palazzi, i chioschi e i giardini a disposizione dell’élite. «La scena sul fiume era animata da migliaia di gondole ornate di bandierine, che danzavano come raggi di sole sull’acqua, e trasportavano gli abitanti di Baghdad in cerca di ricreazione da una parte all’altra della città.» 1 La vivacità dei mercati e la capacità di spesa della corte, i ricchi e la gente comune, esercitavano un’attrazione magnetica. Gli effetti dell’espansione economica si estendevano molto al di là delle frontiere del mondo islamico, dove le conquiste musulmane creavano nuove vie che serpeggiavano in tutte le direzioni, portando a un tempo merci, idee e persone. Per qualcuno l’estensione di queste reti era causa di una certa ansietà. Negli anni Quaranta del IX secolo il califfo al-Wāthiq, avendo sognato che dei cannibali avevano aperto una breccia in un muro leggendario che, secondo la credenza popolare, era stato eretto dall’Onnipotente per fermare i feroci selvaggi, inviò una spedizione esplorativa. Ci volle quasi un anno e mezzo perché un’unità di ricognizione, guidata da un fidato consigliere di nome Sallām, tornasse a riferire sullo stato di questo muro. Sallām spiegò come venisse mantenuto in efficienza. La sorveglianza era una cosa seria: c’era una famiglia cui era affidata la responsabilità di condurre
un’ispezione periodica e due volte alla settimana il muro veniva percosso con tre colpi di martello per controllare che fosse ben saldo. Ogni volta i sorveglianti ascoltavano con grande attenzione per individuare qualunque possibile anomalia. «Se si accosta un orecchio alla porta, si sente un suono attutito simile a quello di un nido di vespe,» riferisce un resoconto «poi tutto torna in silenzio.» Lo scopo era di far sapere ai selvaggi che, quand’anche avessero portato con sé l’apocalisse, il muro era sorvegliato e non sarebbe stato loro permesso di varcarlo. 2 Il racconto di questi controlli è così vivido e convincente che alcuni storici sostengono sia il resoconto di una spedizione effettivamente avvenuta e si riferisca a un muro reale: forse la Porta di Giada, che segnava l’accesso alla Cina a ovest di Dunhuang. 3 In effetti, la paura dei distruttori del mondo che incombevano sulle montagne dell’Est era un tema comune al mondo antico, al Vecchio e al Nuovo Testamento così come al Corano. 4 Vero o immaginario che fosse il viaggio di Sallām, è indubbio che il terrore per ciò che c’era al di là delle frontiere era assai reale. Il mondo era diviso in due: il regno dell’Iran, dove prevalevano l’ordine e la civiltà; e quello del Turan, che era caotico, anarchico e pericoloso. Come attesta una pletora di resoconti di viaggiatori e geografi che visitarono le terre della steppa al Nord, coloro che vivevano fuori dal mondo musulmano erano strani, e pur essendo per certi aspetti misteriosi e meravigliosi, erano perlopiù terrificanti. Uno degli inviati più famosi fu Ibn Faḍlān, che all’inizio del X secolo fu mandato nelle steppe in risposta alla richiesta del capo dei Bulgari del Volga che eruditi arabi andassero a spiegare gli insegnamenti dell’islam. Come chiarisce il resoconto di Ibn Faḍlān, i capi di questa tribù – le cui terre occupavano le due sponde del Volga a nord del mar Caspio, dove il Kama confluisce nel grande fiume – erano già diventati musulmani, ma la loro conoscenza degli articoli di fede dell’islam era rudimentale. Il capo dei Bulgari del Volga desiderava essere assistito nella costruzione di una moschea e maggiormente informato sulle rivelazioni di Muḥammad, ma ben presto emerse che ciò che realmente gli stava a cuore era ottenere
sostegno per contrastare la concorrenza delle altre tribù della steppa. Anche Ibn Faḍlān rimase perplesso, sorpreso e inorridito durante il suo viaggio al Nord. La vita dei nomadi, in continuo movimento, era in stridente contrasto con la cultura urbana, sedentaria e raffinata della metropoli Baghdad e di altre città. La tribù degli Oghuz fu tra le prime popolazioni in cui s’imbatté. «Vivono in tende di feltro,» scrisse «che piantano prima in un posto e poi in un altro.» «Vivono in povertà come asini vaganti. Non adorano Dio, e non fanno alcun ricorso alla ragione.» E continuava: «Non si lavano dopo essersi sporcati con gli escrementi e l’urina … [e in realtà] non hanno alcun contatto con l’acqua, specialmente d’inverno.» Che le donne non portassero il velo era il meno. Una sera si erano seduti con un uomo la cui moglie era presente. «Mentre parlavamo, la donna si scoprì le parti intime e si grattò sotto i nostri occhi sgranati. Ci coprimmo il viso con le mani e ognuno di noi disse: “Che Dio mi perdoni”.» Il marito si limitò a deridere la pruderie dei visitatori. 5 Le pratiche e le credenze di altri abitanti della steppa non erano meno stupefacenti. C’erano tribù che veneravano i serpenti, altre i pesci e altre ancora gli uccelli, essendosi convinte di aver trionfato in battaglia grazie all’intervento di uno stormo di gru. Poi c’erano quelli che portavano appeso al collo un fallo di legno, che baciavano per propiziarsi la buona sorte prima di intraprendere un viaggio. E c’erano i membri della tribù dei Bashgird, un popolo di leggendaria ferocia, che portavano in giro con sé le teste dei nemici come trofei. Avevano abitudini raccapriccianti, compresa quella di mangiare pidocchi e pulci. Una volta Ibn Faḍlān vide un uomo che trovò una pulce nei propri vestiti e, «dopo averla schiacciata con un’unghia, la divorò e, accortosi di me, disse: “deliziosa!”». 6 Sebbene la vita nelle steppe fosse difficile da penetrare per visitatori come Ibn Faḍlān, c’era una considerevole interazione tra i nomadi e il mondo sedentario a sud. Ne è un segno la diffusione dell’islam fra le tribù, anche se a volte in modo erratico. Gli Oghuz, per esempio, professavano di essere musulmani e pronunciavano frasi appropriatamente devote «per fare una buona impressione sui musulmani che stavano con loro», secondo Ibn Faḍlān. Ma la loro fede
non era molto solida, osservava, perché «se uno di loro subisce un’ingiustizia o gli capita qualcosa di male, alza il capo verso il cielo e dice “bir tengri”», cioè non invocando Allah ma Tengri, la suprema divinità celeste dei nomadi. 7 In effetti, nelle steppe le credenze religiose erano complesse e raramente uniformi, con influenze del cristianesimo, dell’islam, del giudaismo, dello zoroastrismo e del paganesimo, che confliggevano e si mescolavano tra loro creando concezioni del mondo composite e difficili da dipanare. 8 In parte, queste idee spirituali mutevoli e flessibili venivano diffuse da un nuovo gruppo di santoni musulmani che operavano come una sorta di missionari. Questi mistici, noti come sufi, vagavano per le steppe, talvolta nudi – a parte una serie di corni di animali –, prendendosi cura degli animali malati, impressionando gli spettatori con il loro comportamento eccentrico e cianciando di devozione e di fede. Sembra che abbiano svolto un ruolo cruciale nel procurare conversioni, fondendo credenze sciamaniche e animiste ampiamente diffuse nell’Asia centrale con i princìpi dell’islam. 9 Ma non furono soltanto i sufi a fare proseliti. Anche le azioni di altri visitatori furono decisive nel diffondere idee di carattere religioso. Una più tarda testimonianza sulla conversione dei Bulgari del Volga riferisce che un mercante musulmano di passaggio curò il capo della tribù e sua moglie da una grave malattia, dopo che tutti gli altri tentativi in questo senso erano falliti. Avendo fatto loro promettere di adottare la sua fede se li avesse guariti, diede loro delle medicine «e li guarì, ed essi e tutto il loro popolo abbracciarono l’islam». 10 Era un classico aneddoto di conversione: l’accettazione di una nuova fede da parte del capo o di quelli a lui vicini era il momento decisivo nell’adozione su vasta scala di un insieme di pratiche e credenze. 11 Ora, è certamente vero che diffondere la fede in nuove regioni divenne un segno di prestigio per governatori e dinastie locali, contribuendo ad assicurare loro l’attenzione del califfo, oltre che il plauso delle loro comunità. I Sāmānidi di Bukhara, per esempio, furono appassionati promotori dell’islam. Un modo in cui contribuirono alla sua diffusione fu l’introduzione, sulla scorta dell’esempio dei monasteri buddisti, di un sistema di madrase (scuole)
in cui insegnare il Corano in modo appropriato, incoraggiando al tempo stesso la ricerca sulla tradizione degli ḥadīth, detti e azioni attribuiti a Muḥammad. Inoltre, la generosa distribuzione di denaro a tutti i frequentatori garantiva che le moschee fossero piene all’inverosimile. 12 Tuttavia, le steppe erano molto di più di un Selvaggio Nord, una zona di frontiera che pullulava di gente barbara dagli strani costumi, un vuoto in cui l’islam potesse espandersi e in cui popolazioni vergini fossero in attesa di essere civilizzate. Perché, sebbene visitatori come Ibn Faḍlān dipingano un quadro di barbarie, in realtà lo stile di vita nomade era ordinato e soggetto a regole. Gli spostamenti da un luogo all’altro, per esempio, non erano effetto della scelta di vagare senza meta, ma un riflesso della pratica di allevamento: dovendo badare a grandi greggi e mandrie di bestiame, trovare buoni pascoli come impegno quotidiano e farlo in modo strutturato erano di importanza vitale non solo per il successo di una tribù, ma per la sua stessa sopravvivenza. Ciò che appariva caotico dall’esterno non lo era affatto, se visto dall’interno. Tutto questo viene colto appieno in un testo straordinario scritto a Costantinopoli nel X secolo che illustra la struttura che uno dei principali gruppi residenti a nord del mar Nero si era data per avere le migliori possibilità di successo. I Peceneghi erano suddivisi in otto tribù che, a loro volta, erano articolate in un totale di quaranta unità più piccole, a ciascuna delle quali erano assegnate zone ben delimitate da sfruttare. Lo spostamento da luogo a luogo non significava quindi che la vita nelle società tribali fosse disordinata. 13 Sebbene i commentatori, i viaggiatori, i geografi e gli storici contemporanei che mostravano curiosità per il mondo della steppa fossero affascinati dagli stili di vita e dalle abitudini che osservavano, il loro interesse era motivato anche dai contributi economici elargiti dai nomadi, specialmente nell’ambito della produzione agricola. Le steppe fornivano alle società sedentarie servizi e prodotti preziosi. C’erano membri della tribù degli Oghuz che, secondo i calcoli di Ibn Faḍlān, possedevano 10.000 cavalli e un numero dieci volte superiore
di pecore. Anche se è bene non dare troppo credito a queste cifre, la scala delle attività era chiaramente considerevole. 14 I cavalli costituivano una componente essenziale dell’economia, come risulta evidente dai riferimenti di una serie di fonti al gran numero di cavalieri che alcune delle principali tribù delle steppe erano in grado di schierare. Resti ossei rinvenuti a nord del mar Nero e la notizia di grandi scuderie distrutte nell’VIII secolo da una forza di incursione araba lasciano supporre che questi animali venissero allevati a fini commerciali. 15 Anche l’agricoltura divenne progressivamente una parte importante dell’economia della steppa, a mano a mano che venivano introdotte coltivazioni in tutta la regione del basso Volga, dove c’erano «molti campi dissodati e frutteti». 16 Evidenze archeologiche della Crimea attestano che in questo periodo si cominciò a coltivare grano, miglio e segale su larga scala. 17 Nocciole, falconi e spade erano tra gli altri prodotti venduti nei mercati del Sud. 18 Lo stesso si può dire di cera e miele, che si pensava favorisse la resistenza al freddo. 19 Anche l’ambra giungeva sui mercati, non solo attraverso le steppe ma anche dall’Europa occidentale, in quantità tali da indurre un autorevole storico a coniare l’espressione «il sentiero dell’ambra» per descrivere le strade che portavano la resina indurita agli avidi acquirenti dell’Est. 20 Più importante di tutti, però, era il commercio di pelli animali. Le pellicce erano estremamente apprezzate per il caldo e il prestigio che assicuravano a chi le indossava. 21 Nell’VIII secolo un califfo arrivò addirittura a condurre una serie di esperimenti, congelando una varietà di pelliccia per vedere quale offrisse la migliore protezione in condizioni estreme. Secondo un autore arabo, riempì d’acqua alcune fiasche, le avvolse in diversi tipi di pelliccia e le lasciò esposte al gelo notturno. «La mattina si fece portare [le fiasche]. Erano tutte congelate, eccetto quella avvolta in pelliccia di volpe nera. Così scoprì qual era la pelliccia più calda e più asciutta.» 22 I mercanti musulmani distinguevano tra differenti pelli animali, fissando i prezzi di conseguenza. Un autore del X secolo menziona l’importazione dalle steppe di zibellino, scoiattolo grigio, ermellino,
visone, volpe, martora, castoro e lepre maculata, tra le varietà che andavano poi vendute altrove da commercianti interessati a realizzare buoni profitti aumentandone i prezzi. 23 In effetti, in alcune zone della steppa le pelli erano utilizzate in modo intercambiabile come denaro contante, con tassi di cambio fissi. Diciotto pelli vecchie di scoiattolo valevano una moneta d’argento, mentre una singola pelle era il prezzo «di una grossa pagnotta di ottima qualità, grande abbastanza per sostentare un uomo di robusta corporatura». Ciò era incomprensibile per un osservatore: «In qualsiasi altro paese, mille carichi non basterebbero per comprare un fagiolo». 24 Eppure c’era una logica ovvia in quello che era a tutti gli effetti un sistema monetario: disporre di un mezzo di scambio era importante per società che interagivano tra loro, ma mancavano di tesorerie centrali in grado di sovrintendere al conio di monete su vasta scala. Pelli e pellicce avevano quindi un’ovvia funzione in un’economia non monetizzata. Secondo uno storico, forse ben mezzo milione di pelli veniva esportato ogni anno dalle steppe. La comparsa di un impero islamico in espansione produsse nuovi canali di comunicazione e nuove vie commerciali. La creazione di una «via delle pellicce» nella steppa e nelle fasce forestali al Nord fu il frutto del forte aumento della ricchezza disponibile nel periodo successivo alle grandi conquiste del VII e dell’VIII secolo. 25 Com’è facile immaginare, la vicinanza era estremamente importante: essere in condizione di portare agevolmente animali, pelli e altri prodotti al mercato era cruciale. Le tribù nomadi più ricche erano necessariamente quelle che occupavano una posizione favorevole ed erano in grado di commerciare attivamente e in modo affidabile con il mondo sedentario. Per analoghe ragioni, le città più vicine alle steppe fruivano di impetuosi miglioramenti della loro situazione economica. Merv fu una delle principali beneficiarie, ingrandendosi al punto di essere descritta da un contemporaneo come «la madre del mondo». Situata sul margine meridionale della steppa, era in una posizione ideale per trattare con il mondo nomade, essendo al tempo stesso un punto cruciale sull’asse est-ovest che intersecava la spina dorsale dell’Eurasia. Per dirla con un autore, era «una città
deliziosa, bella, elegante, brillante, vasta e piacevole». 26 Rey, situata più a ovest, all’epoca era nota come la «porta del commercio», lo «sposo della terra» e la «creazione più bella» del mondo. 27 Oppure c’era Balkh, che rivaleggiava con qualunque altra cosa nel mondo musulmano; poteva vantare strade splendide, edifici magnifici, acqua corrente pulita, oltre a bassi prezzi per i beni di consumo, grazie al fiorente commercio e alla concorrenza attiva nella città. 28 Come accade con le onde prodotte da un sasso gettato nell’acqua, quelli che erano più vicini a questi mercati avvertivano gli effetti più rilevanti. Inevitabilmente c’era un vantaggio per chi riusciva ad avere accesso ai mercati e a trarne profitto. L’entità delle ricchezze in gioco era tale che fra i diversi raggruppamenti tribali della steppa si svilupparono tensioni. La competizione per i migliori pascoli e per le risorse idriche si acutizzò per la rivalità sugli accessi alle città e ai migliori empori commerciali. Ciò era destinato a produrre una di queste due possibili reazioni: o le tensioni si accentuavano, causando una violenta frammentazione, oppure ci sarebbe stato un consolidamento all’interno delle tribù e nei rapporti fra le tribù. Insomma, la scelta era tra scontrarsi o cooperare. Con il tempo, si determinò uno status quo basato su un preciso equilibrio che garantiva stabilità e una considerevole prosperità in tutta la steppa occidentale. La sua chiave di volta era una parte del raggruppamento tribale dei Türk che aveva stabilito il proprio dominio sull’area a nord del mar Nero e del mar Caspio. I Khazari (o Cazari), come erano chiamati, controllavano le steppe a nord del mar Nero e acquisirono crescente importanza grazie alla resistenza militare da loro opposta durante il periodo delle grandi conquiste nei decenni successivi alla morte di Muḥammad. 29 L’efficacia nel combattere gli eserciti musulmani guadagnò ai Khazari il sostegno di una costellazione di altre tribù, che si unirono sotto la loro guida. Inoltre suscitò l’attenzione degli imperatori romani di Costantinopoli, i quali compresero che stringere un’alleanza con la forza dominante nelle steppe poteva garantire reciproci benefici. Tanto importanti erano i Khazari come alleati che all’inizio dell’VIII secolo furono
concordati due matrimoni tra le case regnanti di Khazaria e di Bisanzio, come ormai di norma si chiamava in questo periodo quanto rimaneva dell’impero romano. 30 Dal punto di vista di Costantinopoli, la capitale dello Stato bizantino, se i matrimoni imperiali con stranieri erano rari, le alleanze con i nomadi della steppa erano quasi una novità assoluta. 31 Questo sviluppo rappresenta quindi un chiaro indizio di quanto importanti fossero diventati i Khazari nel pensiero diplomatico e militare bizantino, in un periodo in cui la pressione da parte dei musulmani sulla frontiera orientale dell’impero in Asia Minore era particolarmente intensa. Le rimunerazioni e il prestigio conferiti al loro capo, il khagan, ebbero un’influenza significativa sulla società khazara, rafforzando la posizione del signore supremo e aprendo la strada alla stratificazione entro la tribù, dal momento che doni e prestigio venivano trasmessi verso il basso a élite selezionate. La cosa ebbe l’ulteriore effetto di indurre altre tribù a divenire tributarie in cambio di protezione e ricompense. Secondo Ibn Faḍlān, il khagan aveva venticinque mogli, ciascuna delle quali apparteneva a una diversa tribù ed era figlia del suo capo. 32 Una fonte ebraica del IX secolo parla analogamente di tribù che erano soggette ai Khazari, e l’autore si dice incerto se i tributari fossero venticinque o ventotto. 33 Popoli come i Poliani, i Radmici e i Severliani erano tra quelli che riconoscevano la sovranità dei Khazari, consentendo a questi ultimi di consolidare la loro posizione e di diventare la forza dominante sulla steppa occidentale, nei territori che oggi sono l’Ucraina e la Russia meridionale. 34 Livelli crescenti di attività commerciale e lunghi periodi di stabilità e di pace provocarono una profonda trasformazione nella società khazara. Il modo in cui veniva esercitata l’autorità entro la tribù subì un cambiamento: il khagan si allontanò progressivamente dalla gestione degli affari quotidiani, mentre il suo status assumeva i caratteri di una regalità sacrale. 35 Anche gli stili di vita mutarono. In presenza, nelle regioni limitrofe, di una forte domanda dei prodotti allevati, trattati e curati dai Khazari e dai loro tributari, e grazie ai frutti del commercio a lunga distanza, cominciarono a sorgere
insediamenti che alla fine divennero città. 36 Verso l’inizio del X secolo la movimentata città di Atil fungeva da capitale e residenza permanente del khagan. Situata a cavallo del basso Volga, Atil ospitava un insieme cosmopolita di abitanti. La città era talmente raffinata che vi erano tribunali distinti per dirimere le dispute secondo differenti diritti consuetudinari, e queste corti erano presiedute da giudici che decidevano su conflitti tra musulmani, tra cristiani o anche tra pagani; c’era pure un meccanismo che consentiva di risolvere la questione se il giudice non era in grado di raggiungere un verdetto. 37 Atil, con le sue abitazioni di feltro, i suoi magazzini e il palazzo reale, era soltanto uno degli insediamenti che mutarono il modo di vivere dei nomadi. 38 In seguito all’incremento dell’attività commerciale, in territorio khazaro sorsero infatti altre città, tra le quali Samandar, con gli edifici in legno sormontati da tetti a cupola, presumibilmente realizzati sul modello delle tradizionali yurte. Verso l’inizio del IX secolo, in tutta la Khazaria c’era un numero di cristiani sufficiente a giustificare la nomina non solo di un vescovo ma di un metropolita – di fatto un arcivescovo – che dirigesse la comunità dei fedeli. 39 Evidentemente, doveva esserci anche una consistente presenza di musulmani a Samandar, ad Atil e altrove, dato che le fonti arabe parlano di un gran numero di moschee costruite in tutta la regione. 40 I Khazari non adottarono l’islam, ma ugualmente fecero proprie nuove credenze religiose: verso la metà del IX secolo decisero infatti di diventare ebrei. Intorno all’860, dalla Khazaria giunsero a Costantinopoli degli inviati a chiedere che fossero mandati dei predicatori a spiegare i fondamenti del cristianesimo. «Da tempo immemorabile» dissero «conosciamo un solo dio [cioè Tengri], che domina su tutte le cose … Ora gli ebrei ci stanno esortando ad accettare la loro religione e i loro costumi, mentre dall’altra parte gli arabi ci attraggono verso la loro fede, promettendoci pace e molti doni.» 41 Fu pertanto inviata una delegazione con l’obiettivo di convertire i
Khazari. Alla sua testa c’era Costantino, più noto con il nome slavo Cirillo, soprattutto per essere l’inventore dell’omonimo alfabeto per gli slavi: il cirillico, appunto. Formidabile studioso come il fratello Metodio, durante il viaggio verso est Costantino si fermò e passò l’inverno a studiare l’ebraico e a familiarizzarsi con la Torah, per poter dibattere con gli studiosi ebrei che si stavano anch’essi recando alla corte del khagan. 42 Una volta giunti nella capitale khazara, gli inviati cristiani parteciparono a una serie di dibattiti molto tesi con i rivali che erano stati invitati a presentare l’islam e il giudaismo. L’erudizione di Costantino fu irresistibile, o così sembra dal racconto della sua vita, che attingeva in misura considerevole ai suoi scritti. 43 In realtà, nonostante la brillante prova di Costantino – il khagan gli disse che i suoi commenti sulla Scrittura erano «dolci come il miele» –, l’ambasciata non sortì l’effetto desiderato, perché il capo khazaro decise che il giudaismo era la religione più adatta al suo popolo. 44 Questa vicenda fu narrata in una versione analoga anche un secolo dopo. La notizia della conversione dei Khazari aveva raggiunto le sbalordite comunità ebraiche migliaia di chilometri più a ovest, e queste cercarono ansiosamente di saperne di più su chi fossero i Khazari e su come fossero arrivati a farsi ebrei. Sino a congetturare che potessero essere una delle tribù perdute dell’antico Israele. Il dotto Ḥasdai ibn Shaprūt, che viveva a Cordova, in al-Andalus (Andalusia) – cioè nella Spagna musulmana – alla fine riuscì a prendere contatto con questa tribù. I suoi tentativi di stabilire se i Khazari fossero veramente ebrei, o se si trattasse di una frottola messa in giro da qualcuno che voleva guadagnarsi la sua benevolenza, fino a quel momento erano andati a vuoto. Quando ricevette conferma che effettivamente i Khazari erano ebrei e che, per di più, erano ricchi e «molto potenti e disponevano di eserciti numerosi», si sentì in dovere di prostrarsi e di adorare il Dio del cielo. «Prego per la salute del mio signore e re,» scrisse al khagan «della sua famiglia e della sua casa, e perché il suo trono possa essere per sempre saldo. Che i suoi giorni e i giorni dei suoi figli in mezzo a Israele possano prolungarsi!» 45 È degno di nota che sia sopravvissuta una copia della risposta del khagan a questa lettera, in cui il sovrano khazaro spiega la conversione
della sua tribù al giudaismo. La decisione di convertirsi, scriveva, era il prodotto della grande saggezza di uno dei suoi predecessori, che aveva invitato delegazioni di esponenti delle diverse fedi a sostenere la causa di ciascuna di esse. Avendo riflettuto su quale fosse il modo migliore per accertare i fatti, il sovrano aveva chiesto ai cristiani se la fede migliore fosse l’islam o il giudaismo; quando questi risposero che il primo era certamente peggiore del secondo, chiese ai musulmani se fosse preferibile il cristianesimo o il giudaismo. Questi criticarono aspramente il cristianesimo e, a loro volta, dissero che il giudaismo era il meno dannoso dei due. A quel punto il sovrano khazaro annunciò di aver raggiunto una conclusione: cristiani e musulmani avevano ammesso che «la religione degli israeliti è migliore» dichiarò, e quindi «confidando nella misericordia di Dio e nell’autorità dell’Onnipotente, scelgo la religione di Israele, ossia la religione di Abramo». Con questo, rimandò a casa le delegazioni, si circoncise e poi ordinò ai suoi servi, ai suoi dipendenti e a tutto il suo popolo di fare altrettanto. 46
Verso la metà del IX secolo il giudaismo era penetrato abbastanza diffusamente nella società khazara. Oltre all’attività di proselitismo da parte degli ebrei nei decenni precedenti l’arrivo delle delegazioni alla corte del khagan, cui fanno riferimento fonti arabe, e a coeve trasformazioni nell’ambito delle pratiche sepolcrali, la recente scoperta di una serie monetale coniata in Khazaria costituisce una solida prova del fatto che il giudaismo era stato formalmente adottato come religione di Stato negli anni Quaranta del IX secolo. La legenda di queste monete fornisce un ottimo esempio di come la fede potesse essere «confezionata» in modo da attrarre popolazioni disparate. Infatti inneggiavano al più grande di tutti i profeti del Vecchio Testamento con il motto Mūsā rasūl allāh, «Mosè è il messaggero di Dio». 47 La cosa era forse meno provocatoria di quanto appaia oggi, dal momento che, dopotutto, il Corano insegna esplicitamente che non ci dovrebbe essere alcuna distinzione tra i profeti e che si dovrebbe seguire il messaggio di ciascuno di essi. 48 Mosè era accettato e venerato nella dottrina islamica, quindi lodarlo era per certi aspetti cosa non controversa. D’altra parte, però, l’evocazione del rango speciale di Muḥammad come messaggero di Dio era un elemento centrale dell’adhān, l’appello alla preghiera lanciato cinque volte al giorno dalle moschee. Alla luce di ciò, la presenza del nome di Mosè sulle monete era una maniera ardita di affermare che i Khazari avevano una propria identità, indipendente dal mondo islamico. Come nel caso del confronto tra impero romano e musulmani verso la fine del VII secolo, le battaglie venivano combattute non soltanto tra eserciti, ma anche nel campo dell’ideologia, della lingua e perfino delle immagini impresse sulle monete. In realtà, il contatto dei Khazari con il giudaismo si era prodotto per due ragioni. In primo luogo, c’erano comunità ebraiche di vecchia data che anticamente si erano stabilite nel Caucaso e che verosimilmente furono galvanizzate dallo sviluppo economico della steppa. 49 Secondo un autore del X secolo, un numero crescente di ebrei fu indotto a emigrare in Khazaria «dalle città musulmane e cristiane» dopo aver appreso la notizia che nel paese il giudaismo non
era soltanto tollerato e ufficialmente autorizzato, ma anche praticato da gran parte dell’élite. 50 Dalla corrispondenza intercorsa nel X secolo tra il sovrano khazaro e Ḥasdai di Cordova risulta che in Khazaria si reclutavano rabbini e si costruivano scuole e sinagoghe per garantire che il giudaismo venisse insegnato in maniera corretta. Inoltre, molti cronisti notavano che tutte le città khazare erano disseminate di edifici religiosi, oltre che di tribunali dove si prendevano decisioni dopo aver consultato la Torah. 51 Il secondo stimolo a un maggiore interesse per il giudaismo venne dai mercanti che giungevano da molto lontano, attratti dall’ascesa della Khazaria come grande emporio commerciale internazionale, essendo esso deputato non solo agli scambi tra la steppa e il mondo islamico, ma anche a quelli tra l’Est e l’Ovest. Come attestano numerose fonti, i mercanti ebrei erano particolarmente attivi nel commercio a lunga distanza, svolgendo un ruolo più o meno analogo a quello avuto dai Sogdiani nel mettere in contatto Cina e Persia durante il periodo di ascesa dell’islam. I mercanti ebrei erano poliglotti provetti: parlavano fluentemente «arabo, persiano, latino, franco, andaluso e slavo», riferisce una fonte contemporanea. 52 Dalle loro sedi mediterranee, sembra che viaggiassero regolarmente alla volta dell’India e della Cina, ritornandone con muschio, legno di aloe, canfora, cannella «e altri prodotti orientali» che commerciavano lungo una catena di porti e di città che rifornivano i mercati di Mecca, Medina e Costantinopoli, oltre a quelli delle città sul Tigri e sull’Eufrate. 53 Utilizzavano anche vie terrestri, dirigendosi verso la Cina attraverso l’Asia centrale, passando da Baghdad e dalla Persia oppure dal territorio khazaro per raggiungere Balkh e le zone a est dell’Oxos. 54 Uno dei centri più importanti su questo asse era Rey, appena a sud del Caspio (nel moderno Iran), una città che trattava merci provenienti dal Caucaso, dall’Est, dalla Khazaria e da altre località nella steppa. Pare che le merci venissero prima sdoganate nella città di Jurjān (Gorgan, nell’Iran settentrionale), dove presumibilmente venivano riscossi i diritti doganali, per poi essere portate a Rey. «La cosa più incredibile» scrisse un autore arabo nel X secolo «è che questo è l’emporio del
mondo.» 55 Anche i mercanti scandinavi erano attratti dalle opportunità offerte. Quando pensiamo ai Vichinghi, immancabilmente corriamo con il pensiero ad attacchi alla Gran Bretagna e all’Irlanda attraverso il mare del Nord, oppure alle loro caratteristiche navi con le prue a forma di drago che spuntano in mezzo alla nebbia, cariche di uomini armati pronti a saccheggiare e a depredare. O magari ci chiediamo se sia vero che queste genti riuscirono a raggiungere il Nord America secoli prima delle spedizioni di Cristoforo Colombo e altri. Ma, ai tempi dei Vichinghi, gli uomini più audaci e risoluti non andavano verso ovest, andavano a est e a sud. Molti fecero fortuna e divennero famosi non soltanto in patria, ma anche nelle nuove terre che conquistavano. Il segno che vi lasciarono, inoltre, non fu modesto ed effimero, come nel caso del Nord America. In Oriente, infatti, fondarono un nuovo Stato che prese nome dai gruppi di mercanti, viaggiatori e predoni che si rifugiarono presso i grandi sistemi idrici che collegano il Baltico con il mar Caspio e il mar Nero. Questi Vichinghi erano noti come «Rus’», o «Rhos», forse a causa dei loro caratteristici capelli rossi (dall’aggettivo slavo rusiy), o più probabilmente per la loro abilità con i remi (dal finnico Ruotsi, «rematori»). E furono i padri della Russia. 56 Fu il richiamo del commercio e delle ricchezze del mondo islamico a spingere inizialmente i Vichinghi a mettersi in viaggio verso sud. Dall’inizio del IX secolo, uomini provenienti dalla Scandinavia cominciarono a entrare in contatto con il mondo della steppa e con il califfato di Baghdad. Gli insediamenti presero a moltiplicarsi lungo i fiumi Oder, Neva, Volga e Dnepr, mentre nuove basi si sviluppavano come mercati veri e propri e come stazioni commerciali per i mercanti che trasportavano merci da e verso sud. Staraya Ladoga, Rurikovo Gorodische, Beloozero e Novgorod (letteralmente «nuova città») erano nuovi centri che estendevano le grandi vie commerciali eurasiatiche nelle regioni più remote dell’Europa settentrionale. 57 Le navi vichinghe, con il loro aspetto rimasto così vivido nell’immaginario popolare, furono adattate e ridimensionate per consentirne il trasporto su brevi distanze da un fiume o un lago
all’altro. Queste imbarcazioni a scafo singolo intraprendevano in convoglio un viaggio lungo e pericoloso. Un testo compilato a Costantinopoli alla metà del X secolo e basato su informazioni raccolte da agenti bizantini, registra le varie difficoltà che dovevano essere superate nel viaggio verso sud. Particolarmente pericolosa era una serie di rapide sul Dnestr: c’era una stretta gola con in mezzo un letale gruppo di scogli, «che emergono come isole. L’acqua, poi, cozza contro di essi, si solleva e precipita giù dalla parte opposta, con un possente e spaventoso fragore». Questo ostacolo era stato soprannominato con caustico umorismo «Non Ti Addormentare». 58 Come nota il medesimo testo, i Vichinghi correvano il serio pericolo di essere intercettati da aggressivi predoni, per i quali gli esausti viaggiatori che attraversavano le rapide erano occasione di facili guadagni. I nomadi peceneghi rimanevano in attesa che le barche venissero trascinate fuori dall’acqua e poi attaccavano, impadronendosi delle merci e dileguandosi nel territorio circostante. Le sentinelle avevano la consegna di mantenere lo stato di massima allerta contro gli assalti improvvisi. Quando riuscivano a scampare a questi pericoli, gli scandinavi erano talmente sollevati che si riunivano su un’isola sacrificando galletti o conficcando frecce in alberi sacri in segno di ringraziamento agli dèi pagani. 59 Per riuscire ad arrivare sani e salvi ai mercati intorno al mar Caspio e al mar Nero gli uomini dovevano essere, a dir poco, robusti. «Sono molto vigorosi e resistenti» notava ammirato un osservatore musulmano. 60 I Rus’, scriveva Ibn Faḍlān, erano alti «come palme», ma soprattutto erano sempre armati e pericolosi. «Ognuno di loro porta una scure, una spada e un coltello.» 61 I Vichinghi si comportavano come bande di criminali incalliti. Innanzitutto, benché combattessero fianco a fianco contro i nemici, erano profondamente sospettosi l’uno dell’altro. «Non vanno mai da soli a defecare o urinare,» osservava un autore «ma sempre con tre compagni che facciano la guardia, spada in pugno, perché si fidano poco l’uno dell’altro.» Nessuno di loro avrebbe esitato a derubare un compagno, a costo di assassinarlo. 62 Prendevano parte regolarmente a orge, facendo sesso con trasporto l’uno davanti all’altro. Se qualcuno
cadeva malato, veniva abbandonato. Avevano anche un aspetto confacente: «Ogni uomo è tatuato in verde scuro dalla punta dei piedi fino al collo, con disegni e simili». 63 Erano uomini duri per tempi duri. Erano attivi nel commercio della cera, dell’ambra e del miele, e vendevano anche spade eccellenti, molto apprezzate nel mondo di lingua araba. Non era questo, però, il ramo di attività più redditizio, la fonte delle enormi quantità di denaro che risalivano verso nord, lungo il sistema fluviale della Russia fino alla Scandinavia. Lo dimostrano le numerose sete di qualità, provenienti dalla Siria, da Bisanzio e anche dalla Cina, che sono state rinvenute nelle tombe in ogni angolo di terra scandinava (Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia). Questi reperti dovevano rappresentare una frazione minima dei tessuti che furono portati a nord e che non si sono conservati. 64 Tuttavia, è la documentazione numismatica a dare una definizione più precisa delle dimensioni dell’attività commerciale condotta con regioni lontane. Rinvenimenti monetali sorprendentemente ricchi seguono il corso dei grandi fiumi che scorrono verso nord e sono attestati in tutta la Russia settentrionale, in Finlandia, Svezia e soprattutto a Gotland (la maggiore isola svedese), il che dimostra che i Vichinghi rus’ ricavavano somme enormi dal commercio con i musulmani e con le regioni marginali del califfato di Baghdad. 65 Un autorevole studioso di numismatica stima che la quantità di monete d’argento frutto degli scambi con i paesi dell’islam fosse dell’ordine delle decine – e forse anche delle centinaia – di milioni di pezzi: rapportata ai valori di oggi, si trattava di un’attività da molti miliardi di dollari. 66 I guadagni dovevano essere ingenti per giustificare la distanza e i pericoli connessi a un viaggio dalla Scandinavia fino al mar Caspio, lungo oltre 4500 chilometri. Perciò, se dovevano generare lauti profitti, non sorprende che i prodotti fossero venduti in grandi quantità. Fra le varie merci che venivano trasportate verso sud, la più importante erano gli schiavi. C’era da far soldi con il traffico di esseri umani.
VII
LA VIA DEGLI SCHIAVI
I Vichinghi rus’ erano spietati quando si trattava di ridurre in schiavitù una popolazione e portarla al Sud. Noti per «la loro taglia, il loro fisico e la loro audacia», stando a un autore arabo «non avevano campi coltivati e vivevano di saccheggi». 1 E a farne le spese erano le popolazioni stanziali. Fu catturata così tanta gente che il nome stesso di coloro che venivano presi prigionieri – gli Slavi – entrò in uso per indicare tutti coloro che erano stati privati della libertà: gli «schiavi». I Rus’ si prendevano cura dei loro prigionieri. «Trattano bene gli schiavi e li vestono in modo opportuno, perché per loro sono un bene da commerciare» osservò un contemporaneo. 2 Gli schiavi venivano trasportati lungo la rete fluviale e, durante l’attraversamento delle rapide, rimanevano incatenati. 3 Particolarmente apprezzate erano le donne belle, vendute a caro prezzo ai mercanti in Khazaria e tra i Bulgari del Volga, i quali a loro volta le avrebbero condotte ancora più a sud, non prima che chi le aveva catturate abusasse un’ultima volta di loro. 4 La schiavitù era una parte vitale della società vichinga e un fattore importante della sua economia, e non solo nell’Est. Cospicue evidenze materiali e letterarie provenienti dalle isole britanniche mostrano che uno degli obiettivi più comuni delle incursioni compiute dalle navi vichinghe non fosse il saccheggio e lo stupro indiscriminati, come vorrebbero gli stereotipi dell’immaginario popolare, quanto piuttosto la cattura di prigionieri vivi e vegeti. 5 «Salvaci, o Signore,» implora una preghiera francese del IX secolo «dai selvaggi uomini del Nord che distruggono la nostra terra; essi portano via … i nostri giovani, le nostre vergini. Ti preghiamo, salvaci da questo male.» 6 Lungo le rotte del traffico di schiavi, specialmente nell’Europa del Nord e dell’Est,
sono stati rinvenuti ceppi, ferri da polso e lucchetti, mentre da nuove ricerche emerge che i recinti ritenuti finora destinati al bestiame servivano in realtà a tenere rinchiuse le persone in attesa di venderle in luoghi come Novgorod, il cui mercato si trovava all’incrocio tra la Via Principale e la Via degli Schiavi. 7 Il desiderio di trarre profitto dalla schiavitù era talmente diffuso che, sebbene alcuni scandinavi ottenessero da sovrani locali il permesso di saccheggiare territori inesplorati e di fare prigionieri, altri non esitavano a mettersi i ceppi a vicenda: «fino a tal punto, infatti, mancano di lealtà reciproca» annotava nell’XI secolo un ecclesiastico nordeuropeo bene informato. E non c’erano molti dubbi sul passo successivo: alla prima occasione «se cattura un suo conterraneo subito lo vende come servo a un compagno o a un barbaro». 8 Molti schiavi erano destinati alla Scandinavia, dove la società, come recita l’antico e celebre poema norreno Rígsþula (Canto di Ríg), era divisa in tre sole categorie: l’aristocrazia (jarlar), gli uomini liberi (karlar) e gli schiavi (ðrælar). 9 Ma molti altri venivano inviati in luoghi dove gli esemplari migliori potevano essere venduti a caro prezzo, e il posto in cui la domanda era maggiore e la disponibilità economica più elevata erano i ricchi mercati in continua espansione di Atil, che poi a loro volta rifornivano Baghdad e altre città del mondo musulmano, compresi il Nord Africa e la Spagna. Questa capacità e disponibilità a pagare prezzi elevati non solo garantivano ampi margini di guadagno, ma posero le basi per lo sviluppo economico dell’Europa settentrionale. A giudicare dai rinvenimenti monetali, l’ultimo scorcio del IX secolo registrò un incremento del commercio e un’enorme crescita nel Baltico, nella Svezia meridionale e in Danimarca, con città come Hedeby, Birka, Wolin e Lund in rapida espansione. Le zone di rinvenimento, che coprono un’area sempre più vasta lungo il corso dei fiumi russi, mostrano una repentina accelerazione degli scambi, con un marcato aumento, tra le monete ritrovate, del numero di quelle coniate nell’Asia centrale, soprattutto a Samarcanda, Taškent (al-Shāsh), Balkh e in altre località situate lungo le tradizionali vie commerciali, di trasporto e comunicazione in quello che oggi è il territorio
dell’Afghanistan. 10 In questi centri urbani dove il denaro abbondava, la domanda di schiavi era elevata, e non solo di quelli provenienti dal Nord. Una gran quantità arrivava dall’Africa subsahariana: un mercante si vantava di aver venduto, lui solo, più di 12.000 schiavi neri sui mercati persiani. 11 A essere tratti in schiavitù erano anche i membri delle tribù turcomanne dell’Asia centrale, molto richiesti, secondo un autore dell’epoca, per il loro coraggio e la loro intraprendenza. Quando si trattava di scegliere «gli schiavi più preziosi», osservava un altro commentatore, i migliori venivano «dalle terre dei Turcomanni. Gli schiavi turcomanni non hanno uguali fra tutti gli schiavi della terra». 12 Possiamo farci un’idea delle dimensioni del commercio degli schiavi attraverso il confronto con la schiavitù nell’impero romano, un fenomeno che è stato studiato molto più a fondo. Ricerche recenti indicano che, all’apice della sua potenza, all’impero romano occorressero, per mantenere il livello della popolazione servile, tra i 250.000 e i 400.000 nuovi schiavi ogni anno. 13 Supponendo che il livello della domanda fosse più o meno lo stesso, nei territori di lingua araba le dimensioni del mercato schiavile erano considerevolmente più ampie, poiché essi si estendevano dalla Spagna fino all’Afghanistan, il che fa pensare che il numero degli schiavi venduti superasse di gran lunga perfino quello di Roma. Malgrado i limiti frustranti delle fonti disponibili, un testo ci consente di farci un’idea delle probabili dimensioni del fenomeno riferendoci di un califfo e di sua moglie che possedevano 1000 giovani schiave a testa, mentre di un altro si dice che non ne avesse meno di 4000. Gli schiavi del mondo musulmano erano onnipresenti e muti, esattamente come a Roma. 14 Roma ci offre anche un’utile possibilità di confronto rispetto al modo in cui gli schiavi venivano comprati e venduti. Nel mondo romano c’era una forte competizione tra i ricchi per assicurarsi prede umane catturate oltre le frontiere dell’impero, il cui valore derivava dall’aspetto inusuale e dalla possibilità di diventare argomento di discussione. Anche le preferenze personali facevano la loro parte, come nel caso di quell’aristocratico assai facoltoso che voleva solo
schiavi con le medesime caratteristiche, tutti ugualmente attraenti e della stessa età. 15 Simili idee s’imposero anche tra i ricchi musulmani, come emerge dai manuali di epoca successiva che davano consigli sull’acquisto degli schiavi: «Tra tutti [gli schiavi] neri,» scriveva un autore dell’XI secolo «le donne nubiane sono le più disponibili, tenere e cortesi. I loro corpi sono snelli e hanno la pelle morbida, sono forti e ben proporzionati … rispettano il loro padrone come se fossero state create per servirlo». Le donne Beja, una popolazione che viveva dove oggi si trovano Sudan, Eritrea ed Egitto, «hanno la carnagione dorata, volti bellissimi, corpi delicati e pelle morbida; sono piacevoli compagne di letto, se portate via dalla loro terra quando sono ancora giovani». Anche mille anni fa, il denaro non poteva comprare l’amore, ma aiutava a ottenere ciò che si voleva. 16 Altri manuali fornivano indicazioni ugualmente utili. «Sii cauto, quando decidi di comprare degli schiavi» consigliava l’autore di un altro testo persiano dell’XI secolo, noto come il Qābūs-nāma. «L’acquisto di schiavi è un’arte difficile, perché sono molti gli schiavi che sembrano validi», mentre poi si rivelano di scarso valore. «Molti pensano che comprare schiavi sia come ogni altra forma di commercio» proseguiva lo stesso autore, ma in realtà saper comprare gli schiavi giusti «è un ramo della filosofia». 17 Occorre fare attenzione al colorito giallognolo, segno sicuro di emorroidi; attenti anche agli uomini di bell’aspetto, con i capelli lunghi e gli occhi languidi: «Un uomo con tali caratteristiche o ha una smodata passione per le donne, o è incline a fare il mezzano». Bisogna far sdraiare il potenziale acquisto, poi «premere da entrambi i lati e osservare da vicino» qualunque segnale di infiammazione o dolore, e controllare molto bene i «difetti nascosti», nel caso abbia l’alito cattivo, sia sordo, balbetti o abbia denti malfermi in bocca. Seguendo tutte queste (e molte altre) istruzioni, assicurava l’autore, non si sarebbe rimasti delusi. 18 I mercati di schiavi prosperavano in tutta l’Europa centrale, con folle di uomini, donne e bambini pronti per essere venduti e portati a est, ma anche alla corte di Cordova, dove nel 961 c’erano più di 13.000
schiavi di origini slave. 19 A metà del X secolo uno dei principali centri commerciali era Praga, che attirava Vichinghi rus’ e mercanti musulmani, che vi accorrevano per comprare e vendere stagno, pellicce ed esseri umani. Anche altre città della Boemia erano buone piazze per acquistare farina, orzo e pollame, oltre che schiavi, il tutto a prezzi decisamente ragionevoli, secondo un viaggiatore ebreo. 20 Gli schiavi erano spesso inviati come doni ai governanti musulmani. Agli inizi del X secolo, per esempio, una missione diplomatica toscana andò in visita al califfo abbaside al-Muktafī portando una panoplia di doni preziosi, che comprendeva spade, scudi, cani da caccia e uccelli da preda. Tra gli altri regali offerti come pegno di amicizia c’erano venti eunuchi slavi e venti ragazze, anch’esse slave, particolarmente belle. Il fiore della gioventù di una parte del mondo veniva esportato per compiacere qualcuno di un’altra. 21 Lo sviluppo del commercio con i paesi lontani era così ampio che quando Ibrāhīm ibn Ya‘qūb passò da Magonza rimase stupefatto da ciò che vide nei mercati: «È straordinario» scrisse «che si possano trovare, in terre così a occidente, aromi e spezie che crescono solo in Estremo Oriente come il pepe, lo zenzero, i chiodi di garofano, il nardo e la galanga. Queste piante sono tutte importate dall’India, dove prosperano rigogliose». Non fu questa l’unica sorpresa, perché a colpirlo fu pure l’uso dei dirham d’argento come valuta, tra cui monete coniate a Samarcanda. 22 In realtà, l’impatto e l’influsso delle monete provenienti dal mondo musulmano erano stati sentiti molto più lontano, e avrebbero continuato a esserlo ancora per qualche tempo. Intorno all’800 il re Offa di Mercia, in Inghilterra, costruttore della famosa barriera per proteggere le sue terre dalle incursioni dei Gallesi, riprodusse sulle sue monete il disegno di quelle d’oro islamiche. Fece coniare monete con la legenda «Offa rex» su un lato e le stesse due parole tradotte (impropriamente) in arabo sull’altro, benché la cosa avesse ben poco significato per i suoi sudditi. 23 Un cospicuo gruzzolo ritrovato a Cuerdale, nel Lancashire, e oggi custodito presso l’Ashmolean Museum di Oxford, contiene anche molte monete coniate dagli
Abbasidi nel IX secolo. Che quel denaro abbia raggiunto luoghi remoti come le isole britanniche è un chiaro indizio di fino a che punto si fossero estesi i mercati del mondo islamico. Fu la vendita degli schiavi a finanziare le importazioni che iniziarono a invadere l’Europa nel IX secolo. Per esempio, prodotti come spezie e medicinali, che progressivamente appaiono nelle fonti come beni di lusso altamente desiderabili o indispensabili per cure mediche, vennero acquistati con i proventi del traffico di esseri umani su larga scala. 24 E non furono solo i Vichinghi rus’ a trarre vantaggio da una domanda di schiavi pressoché inesauribile: i mercanti di Verdun ricavarono enormi profitti dalla vendita di eunuchi, perlopiù ad acquirenti musulmani in Spagna, e i commercianti ebrei che si occupavano di traffici con mercati lontani erano anch’essi fortemente coinvolti nella vendita di «ragazze e ragazzi giovani» e di eunuchi, come sostengono fonti arabe dell’epoca. 25 Anche altre fonti sottolineano il ruolo dei commercianti ebrei nell’importazione di «schiavi [e] ragazzi e ragazze» dall’Europa e nella pratica di evirazione dei giovani maschi all’arrivo, presumibilmente una sorta di truce procedura di certificazione. 26 Il traffico di esseri umani offriva buoni ritorni economici, il che spiega tra l’altro perché gli schiavi condotti in Oriente non fossero soltanto europei. Viene riferito, infatti, che nel giro c’erano anche mercanti musulmani, che dall’Iran orientale compivano incursioni nei territori slavi, anche se il trattamento che riservavano ai prigionieri fatti schiavi era diverso, poiché «la loro virilità restava intatta, i corpi illesi». 27 In ogni caso, i prigionieri trasformati in eunuchi avevano un grande valore. Se si prendevano due gemelli slavi, scriveva un autore arabo dell’epoca, e se ne castrava uno, questi sarebbe certamente diventato più abile e «di intelligenza e conversazione più vivace» del fratello, che sarebbe rimasto uno sciocco ignorante, un sempliciotto, com’erano di nascita tutti gli slavi. Si pensava che la castrazione purificasse e migliorasse la mente dei membri di quell’etnia. 28 Dunque la pratica funzionava, concludeva lo stesso autore, ma non per «i neri», le cui «naturali attitudini» erano influenzate negativamente dall’operazione. 29 La scala del traffico di schiavi di origine slava era
così vasta da lasciare un’impronta nella lingua araba: il vocabolo per indicare un eunuco (ṣiqlabī) deriva da quello usato per designare l’etnia slava stessa (ṣaqālibī). I mercanti musulmani erano molto attivi nel Mediterraneo. Uomini, donne e bambini dell’Europa settentrionale erano condotti a Marsiglia, dove c’era un florido mercato di schiavi, ma spesso anche verso piazze secondarie come Rouen, in cui schiavi irlandesi e fiamminghi venivano venduti ad acquirenti di altri paesi. 30 Un altro centro nevralgico per il commercio di schiavi era Roma, un fatto che alcuni trovavano scandaloso. Nel 776 papa Adriano I denunciò pubblicamente il traffico di esseri umani come se fossero capi di bestiame, condannando la vendita di uomini e donne «all’innominabile razza dei Saraceni». Alcuni, dichiarò, erano saliti sulle navi dirette a oriente di loro spontanea volontà, «non avendo altra speranza di restare in vita» a causa di una recente carestia e dell’estrema povertà. Tuttavia, «non ci siamo mai abbassati a un atto così ignobile» come vendere altri cristiani, scriveva il pontefice, «e Dio non voglia che accada mai». 31 Nel Mediterraneo e nel mondo arabo la schiavitù era così diffusa da aver dato origine a uno dei più comuni modi di salutarsi tuttora in uso. La parola italiana «ciao», infatti, deriva dal veneziano sciavo (schiavo), cosicché «ciao» vuol dire, letteralmente, «sono tuo schiavo». 32 Alcuni consideravano inaccettabile il fatto di prendere prigionieri dei cristiani per poi venderli a padroni musulmani. Tra questi vi fu Remberto, arcivescovo di Brema, che sul finire del IX secolo girava per i mercati della città di Hedeby (al confine tra le attuali Germania e Danimarca), riscattando chi si professava cristiano (ma lasciando gli altri al loro destino). 33 Una simile sensibilità, però, non era molto diffusa. Tra coloro che praticavano senza scrupoli il traffico di esseri umani c’erano anche gli abitanti della poco invitante laguna situata all’estremità settentrionale del mare Adriatico. La ricchezza che accumularono sfruttando il commercio degli schiavi e la sofferenza umana fu la base della sua trasformazione in una delle più preziose gemme del Mediterraneo medievale: Venezia. I veneziani dimostrarono di avere grande successo quando si
trattava di fare affari. Dalle paludi sorse una città straordinaria, adorna di chiese magnifiche e di bellissimi palazzi, tutti costruiti grazie ai lucrosi proventi del florido commercio con l’Oriente. Oggi la città resta come l’immagine di un passato glorioso, ma la scintilla che innescò la sua espansione fu la disponibilità a speculare sulla schiavitù delle future generazioni. I mercanti cominciarono a occuparsi del traffico di schiavi già dalla seconda metà dell’VIII secolo, quando il nuovo insediamento di Venezia era ancora agli albori. Ci volle del tempo prima che il volume dei benefici e dei guadagni diventasse ragguardevole, ma che questo poi sia accaduto è dimostrato da una serie di trattati stipulati un secolo più tardi con cui i veneziani accettavano di aderire ad alcune restrizioni relative al traffico di uomini, tra cui l’impegno a restituire alle altre città italiane chi fosse stato illegalmente condotto a Venezia per essere venduto come schiavo. Simili negoziati erano in parte una reazione alle crescenti fortune della città lagunare, un tentativo di tarparle le ali compiuto da chi si sentiva minacciato dalla sua crescente opulenza. 34 Nel breve termine, tali restrizioni furono aggirate grazie a scorrerie per catturare prigionieri non cristiani in Boemia e Dalmazia e venderli con un buon utile. 35 Più a lungo termine, tutto tornò come prima. I trattati della fine del IX secolo indicano che Venezia si limitò a rassicurazioni formali nei confronti di signori locali, preoccupati che insieme agli schiavi venissero venduti anche uomini liberi: i veneziani avevano fama di essere pronti a mettere sul mercato anche i sudditi delle terre confinanti, cristiani o non cristiani che fossero. 36 Ma anche per la tratta degli schiavi venne il momento del declino, almeno per quella dall’Europa centrale e orientale. Uno dei motivi fu che i Vichinghi rus’ spostarono il baricentro dei loro interessi dai traffici a largo raggio al racket della protezione. Ad attirare la loro attenzione furono i benefici che i Khazari ricavavano dai mercati di Atil e di altre città grazie alla riscossione delle imposte su tutte le merci che transitavano nei loro territori. Secondo lo Hudūd al-‘Ălam, un famoso trattato persiano di geografia, l’economia khazara era basata soprattutto sulle entrate fiscali: «Il benessere e la ricchezza del re dei Khazari derivano soprattutto dai dazi marittimi». 37 Altri autori
musulmani fanno spesso menzione dei sostanziosi proventi fiscali incamerati dalle autorità khazare grazie alle attività commerciali, incluse le tasse gravanti sugli abitanti della capitale. 38 Era inevitabile che ciò attirasse l’attenzione dei Vichinghi rus’, e lo stesso valeva per i balzelli versati al khagan dalle varie tribù sue suddite. Queste ultime vennero prese di mira una per una, e la loro lealtà, così come i loro tributi, furono dirottati verso i nuovi, aggressivi padroni. Intorno alla seconda metà del IX secolo, gli scandinavi non solo avevano imposto dei tributi alle tribù slave della Russia centrale e meridionale, ma avevano anche ordinato loro di non versare più nulla «ai Khazari, perché non c’era nessun motivo per pagarli». I pagamenti dovevano invece essere corrisposti al capo dei Rus’, 39 secondo una prassi riscontrabile anche altrove, per esempio in Irlanda, dove gli introiti provenienti dalla protezione presero gradualmente il posto di quelli del traffico di esseri umani. Dopo anni di attacchi, riportano gli Annales Bertiniani, gli irlandesi si risolsero a versare un tributo annuale in cambio della pace. 40 A oriente non passò molto tempo prima che la presenza sempre più massiccia dei Rus’ portasse a uno scontro diretto con i Khazari. Dopo una serie di attacchi a cittadine commerciali musulmane sul mar Caspio, che «versarono fiumi di sangue» e continuarono finché i Vichinghi rus’ non furono «satolli di bottino e stanchi di incursioni», fu la volta degli stessi Khazari. 41 Atil fu saccheggiata e interamente distrutta nel 965. «Se fosse rimasta una foglia su un ramo, uno dei Rus’ l’avrebbe portata via» scrisse un cronista. «Non c’è più un grappolo né una vite, [in Khazaria].» 42 I Khazari furono effettivamente espulsi dal gioco, e i profitti del commercio con il mondo musulmano rifluirono in volumi ancora maggiori verso l’Europa del Nord, come dimostrano i numerosi depositi di monete trovati lungo i fiumi russi. 43 Verso la fine del X secolo i Rus’ erano diventati la forza egemone della steppa occidentale: le terre sotto il loro giogo andavano dal mar Caspio e oltre il mar Nero a nord, fino al Danubio. Una fonte scritta descrive la vitalità dei mercati sotto il loro controllo, dov’era possibile
comprare «oro, seta, vino e frutta della Grecia, argento e cavalli dell’Ungheria e della Boemia, e pellicce, cera, miele e schiavi della Rus’». 44 L’autorità che esercitavano su queste terre non era tuttavia assoluta. I rapporti con le popolazioni nomadi erano spesso resi precari dalla competizione per le risorse, come dimostra l’esecuzione rituale di un eminente capo rus’ per mano dei Peceneghi avvenuta proprio in questo periodo: la cattura del principe fu gioiosamente festeggiata, e il suo teschio fu rivestito d’oro e conservato come un trofeo di guerra, da usare per i brindisi nelle cerimonie tribali. 45 In ogni caso, nel corso del X secolo la Rus’ continuò a rinsaldare la presa sui corsi d’acqua e sulle steppe, e le vie di comunicazione verso il Sud si fecero sempre più sicure. Questo processo fu accompagnato da una graduale trasformazione dell’orientamento commerciale, religioso e politico, dovuta anche al fatto che, dopo quasi trecento anni di stabilità e benessere, il califfato di Baghdad dovette affrontare una serie di sconvolgimenti. La prosperità aveva portato a un allentamento dei legami fra il centro e le province lontane, con conseguente innesco di conflitti tra i potentati locali che nel frattempo si erano rafforzati. I pericoli di questa situazione divennero evidenti nel 923, quando Bassora fu saccheggiata da insorti sciiti, e ancora di più sette anni dopo, quando l’attacco colpì Mecca e la Pietra Nera, sacra all’islam, fu trafugata dalla Ka‘ba. 46 Dopo il 920, una serie di inverni insolitamente rigidi durata almeno quarant’anni non fece che peggiorare le cose. Le condizioni climatiche erano così drammatiche che la penuria di cibo divenne la regola. Non era inconsueto che la gente fosse costretta a «cercare i chicchi d’orzo nello sterco dei cavalli per mangiarli» scrisse un autore; e frequenti erano le sommosse e i disordini civili. 47 A metà secolo, dopo sette anni consecutivi di cattivi raccolti, «molti persero la ragione» riferisce un cronista armeno, e si aggredirono a vicenda in maniera del tutto insensata. 48 Il disordine interno permise a una nuova dinastia, i Buwayhidi, di imporre il proprio controllo politico su gran parte dei territori strategici del califfato in Iran e Iraq, mantenendo il califfo in un ruolo di facciata, con poteri notevolmente ridotti. In Egitto, per contro, il
regime al potere fu rovesciato. In una sorta di Primavera araba del X secolo, i musulmani sciiti, che in precedenza erano riusciti a instaurare nel Nord Africa un emirato più o meno indipendente dai califfati sunniti ortodossi di Baghdad e Cordova, mossero contro Fusṭāṭ, la capitale egiziana. Nel 969, sfruttando l’effetto catastrofico delle annuali inondazioni del Nilo, che quell’anno provocarono la morte di molte persone e ridussero tante altre alla fame, nel Nord Africa divampò la rivoluzione. 49 I nuovi sovrani erano noti come Fatimidi, e in quanto sciiti avevano una visione molto diversa dell’autorità e della legittimità, così come del vero retaggio di Muḥammad. La loro ascesa ebbe gravi implicazioni per l’unità del mondo musulmano: iniziavano ad aprirsi delle fratture e si ponevano domande fondamentali sul passato, sul presente e sul futuro dell’islam. La sollevazione nell’impero musulmano, e il conseguente declino delle opportunità commerciali, fu uno dei motivi per cui i Vichinghi rus’ volsero via via la loro attenzione al Dnepr e al Dnestr, fiumi che si riversano nel mar Nero, anziché seguire il corso del Volga in direzione del mar Caspio. Il loro sguardo cominciò a spostarsi dal mondo musulmano all’impero bizantino e alla grande città di Costantinopoli, celebrata nel folklore norreno come Mikli-garðr (o Miklagard), cioè «la Grande Città». I bizantini diffidavano delle attenzioni dei Rus’, specie da quando in un’audace incursione, nell’860, avevano colto gli abitanti e le difese della città completamente di sorpresa. Chi erano quei «feroci e selvaggi» guerrieri, che «devastavano i sobborghi distruggendo tutto,» si lamentava il patriarca di Costantinopoli, «passando chiunque a fil di spada, senza pietà per nessuno, senza risparmiare nessuno»? Coloro che morirono per primi furono fortunati, continuava, perché almeno non seppero dei disastri che seguirono. 50 Per i Rus’, l’accesso ai mercati di Costantinopoli era strettamente regolato dalle autorità. Un trattato del X secolo riferisce che all’interno della città non ne erano ammessi più di cinquanta per volta, e solo a patto che vi entrassero da una particolare porta; i loro nomi dovevano essere registrati e le loro attività monitorate; e c’erano poi restrizioni su ciò che potevano e non potevano comprare. 51 I Rus’ erano ritenuti
uomini pericolosi, da trattare con circospezione. Ma i rapporti presero comunque a normalizzarsi a mano a mano che città come Novgorod, Černigov e soprattutto Kiev da semplici postazioni commerciali diventavano cittadelle fortificate con una popolazione stabile. 52 Anche la conversione dei Rus’ al cristianesimo, avvenuta nel 988 sotto il regno di Vladimir, fu una tappa importante, sia perché condusse alla formazione di un clero locale, all’inizio guidato da religiosi inviati da Costantinopoli, sia per gli inevitabili influssi culturali che dalla capitale dell’impero presero la via del Nord. Influssi che con il tempo si estesero a ogni aspetto, dalle icone e manufatti religiosi alla decorazione delle chiese, fino all’abbigliamento. 53 E se l’economia dei Rus’ divenne più incentrata sul commercio, il loro assetto sociale basato sulla guerra si trasformò sempre di più in senso urbano e cosmopolita. 54 Beni di lusso come vino, olio e seta venivano importati da Bisanzio per essere rivenduti, e i mercanti scrivevano fatture e ricevute su cortecce di betulla. 55 Il cambio di prospettiva dei Rus’, che spostarono il loro sguardo dal mondo musulmano a Costantinopoli, fu il risultato di un profondo mutamento nell’Asia occidentale. Da un lato, diversi imperatori avevano tratto vantaggio dal disordine e dall’incertezza che pervadevano il califfato degli Abbasidi. Molte province orientali di Bisanzio erano state perse durante le conquiste musulmane, il che aveva portato a una radicale riorganizzazione amministrativa delle province dell’impero. Ma nella prima metà del X secolo il vento cominciò a cambiare. Una dopo l’altra, furono riconquistate le basi da cui erano partiti gli attacchi contro il territorio dell’impero in Anatolia. Furono riprese Creta e Cipro, ridando stabilità al Mediterraneo orientale e all’Egeo, rimasti per decenni alla mercé delle incursioni dei pirati arabi. Poi, nel 969, fu conquistata anche la grande città di Antiochia, importante piazza commerciale e uno dei centri della produzione tessile. 56 Un simile rovescio di fortune suscitò nel mondo cristiano un senso di risveglio, oltre a rappresentare un significativo cambio di destinazione per beni e redditi, da Baghdad a Costantinopoli: tasse e introiti doganali che prima affluivano verso il califfato, adesso
andavano a riempire le casse dell’impero. Per Bisanzio era l’annuncio dell’inizio di un’età dell’oro, un periodo di rinascimento artistico e intellettuale per filosofi, studiosi e storici, in cui ebbe grande impulso la costruzione di chiese e monasteri, e furono create nuove istituzioni, come una scuola di diritto per formare giudici in grado di sovrintendere al funzionamento di un impero più vasto. Bisanzio fu anche uno dei principali beneficiari della rottura dei rapporti tra Baghdad e l’Egitto, avvenuta verso la fine del X secolo. Poco prima del 990, l’imperatore Basilio II trovò un’intesa con il califfo fatimide, appena salito al trono: furono stabiliti formali accordi commerciali, con la promessa che nelle preghiere quotidiane della moschea di Costantinopoli sarebbe stato lodato il suo nome, anziché quello del suo rivale abbaside di Baghdad. 57 All’esuberanza dei mercati nella capitale dell’impero, alimentata dalla crescita sia economica sia demografica, facevano da contrappunto il ripiegamento su sé stesso e l’incertezza del califfato abbaside. Il risultato fu un cambio di orientamento delle rotte commerciali provenienti dall’Est, con un chiaro spostamento dall’entroterra continentale – e quindi dalle vie attraverso la Khazaria e il Caucaso – al Mar Rosso. Gli itinerari terrestri che avevano fatto la fortuna di Merv, Rey e Baghdad furono sostituiti dal trasporto per via marittima. Innegabile la spinta propulsiva impressa a Fusṭāṭ, al Cairo e, soprattutto, ad Alessandria, che innescò un rapido sviluppo delle classi medie legato appunto alla crescita di queste città. 58 Bisanzio era in buona posizione e presto cominciò ad assaporare i frutti dei nuovi rapporti con i Fatimidi: dalla fine del X secolo, come appare chiaro da fonti arabe ed ebraiche, navi mercantili attraccavano e salpavano in continuazione dai porti dell’Egitto per poi fare rotta verso Costantinopoli. 59 I tessuti egiziani divennero molto apprezzati in tutto il Mediterraneo orientale. Il lino prodotto a Tinnīs era talmente richiesto che Nāṣir-i Khusraw, uno dei grandi scrittori e viaggiatori persiani dell’epoca, scriveva: «Ho udito dire che il sovrano di Bisanzio una volta inviò un messaggio al sultano d’Egitto, per dirgli che avrebbe barattato cento città del suo regno per la sola Tinnīs». 60 I mercanti di
Amalfi e di Venezia, che fecero la loro comparsa in Egitto dopo il 1030, e quelli di Genova, che li seguirono circa trent’anni dopo, rivelano che anche altri, provenienti da posti più lontani di Costantinopoli, erano attenti alle opportunità di nuove fonti di approvvigionamento che si stavano aprendo. 61 Dal punto di vista dei Rus’ e delle nuove reti commerciali settentrionali, il cambiamento delle rotte principali verso i mercati dove acquistare spezie, seta, pepe, legname e altri prodotti dell’Oriente ebbe un impatto modesto: non c’era nessuna necessità di scegliere tra una Costantinopoli cristiana e una Baghdad musulmana. Semmai era il contrario, in quanto avere due potenziali fonti da cui comprare e a cui vendere beni era preferibile che averne una sola. La seta arrivava in Scandinavia in grandi quantità, come testimoniato dal ritrovamento di oltre cento frammenti di questo tessuto, sia tra i resti ben conservati di una nave riportati alla luce a Oseberg, in Norvegia, sia in varie tombe vichinghe dove le sete provenienti dal mondo bizantino e dalla Persia venivano sepolte insieme ai proprietari. 62 A metà dell’XI secolo c’era ancora chi pensava di fare fortuna nelle terre islamiche d’Oriente, com’era successo ai suoi avi. Ce ne offre un esempio una pietra runica situata accanto al lago Mälar, nei pressi di Stoccolma, fatta collocare da una donna di nome Tóla per ricordare il figlio Haraldr e i suoi compagni d’arme. «Come uomini, percorsero un lungo cammino alla ricerca dell’oro» recita la stele, dove si racconta che, dopo qualche successo, morirono «nel Sud, nel Serkland», vale a dire nella terra dei saraceni, dei musulmani. 63 C’è anche la pietra posta da Gudleif in memoria del figlio Slagve, che «trovò la fine a oriente, nel Khwārezm-Shāh». 64 Testi come la saga di Yngvar il Viaggiatore, fratello di Haraldr, celebrano ambiziose prodezze che condussero gli scandinavi in cerca di avventure nel mar Caspio e oltre, mentre ricerche recenti indicano addirittura la possibile presenza, in questo periodo, di una colonia permanente vichinga nel golfo Persico. 65 Ma l’attenzione si stava progressivamente focalizzando sull’Oriente cristiano e su Bisanzio. Con l’ampliarsi degli orizzonti dell’Europa
occidentale, si ebbe un crescente interesse per i luoghi in cui Gesù Cristo aveva vissuto, era morto e infine era risorto. Il pellegrinaggio a Gerusalemme divenne una fonte di comprensibile prestigio. 66 Questo orientarsi verso la Città Santa sottolineava, inoltre, la pochezza dell’eredità cristiana dell’Europa occidentale, specie a confronto con l’impero bizantino. Già nel IV secolo Elena, la madre dell’imperatore Costantino, aveva fatto portare a Costantinopoli le prime reliquie cristiane. Sette secoli dopo, si riteneva che tra le stupefacenti collezioni della città ci fossero i chiodi della crocifissione, la corona di spine e i panni di Gesù, quelli che furono tirati a sorte; e poi parti della Vera Croce, capelli della Vergine Maria, la testa di Giovanni Battista e tante altre ancora. 67 Per contro, non c’era granché di rilevante nei reliquari europei: per quanto i re, le città e le istituzioni religiose si stessero arricchendo, avevano ben pochi legami materiali con la storia di Gesù Cristo e dei suoi discepoli. Gerusalemme e Costantinopoli, sede e baluardo della cristianità, attiravano un sempre maggior numero di persone verso l’Oriente cristiano, e in particolare verso la capitale dell’impero, per commerciare, prestare servizio militare o anche semplicemente come tappa lungo il cammino per la Terra Santa. Cavalieri della Scandinavia e delle isole britanniche vennero accolti nei ranghi della Guardia Variaga, un corpo scelto cui era affidata la protezione dell’imperatore. Prestare servizio in questa unità divenne un rito di passaggio, per esempio per uomini come Haraldr Sigurðarson, divenuto poi re di Norvegia (e meglio noto come Harald Hardrada), che vi militò prima di tornare in patria. 68 Nell’XI secolo il richiamo di Costantinopoli risuonò con forza in tutta l’Europa. Documenti dell’epoca riportano che in quel periodo la città era abitata da uomini venuti dall’Inghilterra, dall’Italia, dalla Francia e dalla Germania, senza dimenticare Kiev, la Scandinavia e l’Islanda. Da Venezia, Pisa, Amalfi e Genova giunsero mercanti che stabilirono sedi permanenti, per comprare merci ed esportarle in patria. 69 I luoghi che contavano non erano a Parigi o a Londra, né in Germania o in Italia, erano a est. Le città importanti erano quelle in comunicazione con l’Oriente, come Cherson, in Crimea, o Novgorod,
centri urbani collegati alle Vie della Seta che correvano lungo la spina dorsale dell’Asia. Kiev divenne uno dei fulcri del mondo medievale, ruolo evidenziato dai legami nuziali stretti dalla casa regnante nella seconda metà dell’XI secolo. Le figlie di Jaroslav il Saggio, che governò come Gran principe di Kiev fino al 1054, andarono in spose al re di Norvegia, al re d’Ungheria, al re di Svezia e al re di Francia. Uno dei suoi figli sposò la figlia del re di Polonia, mentre un altro prese in moglie un membro della famiglia imperiale di Costantinopoli. I matrimoni celebrati dalla generazione successiva furono ancora più importanti: le principesse rus’ si maritarono con il re d’Ungheria, il re di Polonia e il potente imperatore germanico Enrico IV. Fra i tanti illustri buoni partiti figurava anche Gytha, moglie di Vladimir II Monomaco, Gran principe di Kiev: era la figlia di Aroldo II, re d’Inghilterra, ucciso nella battaglia di Hastings, nel 1066. Di fatto, la famiglia regnante di Kiev era la dinastia che aveva i più forti legami con il resto dell’Europa. In Russia sorsero a ventaglio in ogni direzione e in numero sempre crescente insediamenti e città, ognuna una nuova perla aggiunta al filo. Si svilupparono città come Ljubeč, Smolensk, Minsk e Polock, come già avevano fatto Kiev, Černigov e Novgorod. Era esattamente lo stesso processo che aveva visto crescere Venezia, Genova, Pisa e Amalfi in prosperità e potere, e il fattore chiave di sviluppo erano gli scambi con l’Oriente. Lo stesso si poteva dire dell’Italia meridionale. In una delle più straordinarie imprese sul finire dell’Alto Medioevo, mercenari normanni attratti in un primo tempo dalla Puglia e dalla Calabria erano riusciti a diventare, poco dopo l’anno Mille, una delle forze preminenti del Mediterraneo. Nell’arco di una generazione rovesciarono i loro padroni bizantini, per poi rivolgere le loro mire alla conquista della Sicilia. L’isola, dominata dagli arabi, collegava il Nord Africa con l’Europa e godeva quindi di una posizione vitale, sia strategica sia commerciale, perché da lì si controllava il Mediterraneo. 70 In entrambi i casi, a fare da propellente per l’ascesa al potere furono il commercio e il desiderio di avere accesso a beni ambiti. E, in questo
senso, alla fine aveva poca importanza dove fosse il confine che divideva la cristianità dall’islam, e se i migliori mercati stessero a Costantinopoli, Atil, Baghdad e Bukhara, oppure, parlando dell’XI secolo, a Mahdia, Alessandria o al Cairo. A dispetto dell’insistenza con cui numerose fonti sottolineano la notevole importanza della grande politica e della religione, per la maggior parte dei mercanti e degli uomini d’affari queste erano solo complicazioni, da cui era meglio tenersi il più possibile alla larga. In realtà, il problema non era dove fare affari o con chi, ma come pagare quei beni di lusso che, una volta rivenduti, generavano lauti profitti. Tra l’VIII e il X secolo la merce principale erano stati gli schiavi. Ma il consolidarsi delle economie dell’Europa occidentale e orientale, galvanizzate da enormi flussi di monete d’argento provenienti dal mondo islamico, stimolò la crescita delle città e l’aumento del numero di abitanti. Nel frattempo, nel corso di questo processo s’intensificarono i livelli di interazione, il che a sua volta determinò una domanda di «monetizzazione», vale a dire un commercio basato sull’uso del denaro anziché – per esempio – delle pelli. Durante questa transizione, mentre le società locali si facevano più complesse e sofisticate, nelle città crebbe la stratificazione e cominciarono a emergere le classi medie. Come valuta per il commercio con l’Oriente, il denaro iniziò a prendere il posto degli uomini. Come in un’immagine allo specchio, le forze magnetiche che avevano attratto uomini dall’Europa venivano ora percepite anche in Oriente. Nell’XI secolo le frontiere tracciate dalle conquiste musulmane e dall’espansione nell’Asia centrale cominciarono a dissolversi. Già da molto tempo le varie dinastie musulmane presenti in tutto quel vasto territorio arruolavano nei loro eserciti gli uomini delle steppe, e lo stesso valeva per il califfato di Baghdad. Nello stesso periodo gli imperatori di Costantinopoli reclutavano uomini provenienti dall’Europa settentrionale e occidentale. Dinastie come quella dei Sāmānidi avevano impiegato regolarmente soldati presi dalle tribù turcomanne, di solito come ghulām, cioè truppe schiave. Tuttavia, continuando a fare sempre maggior affidamento su questi uomini non solo come semplici soldati ma anche in ruoli di comando,
non ci volle molto perché gli ufficiali di grado più elevato cominciassero a pensare di impadronirsi del potere. Entrare nell’esercito avrebbe dovuto offrire delle chance a tutti coloro che nutrivano ambizioni, ma non era previsto che mettesse nelle loro mani anche le chiavi del regno. I risultati furono drammatici. All’inizio dell’XI secolo i discendenti di un generale-schiavo di origini turcomanne avevano fondato un impero con capitale Ghazna (oggi Ghazni, nell’Afghanistan orientale), in grado di schierare un esercito così numeroso che un contemporaneo lo paragonò a uno sciame di «locuste o di formiche, impossibili da contare come i granelli di sabbia del deserto». 71 I Ghaznavidi conquistarono una terra che si estendeva dall’Iran orientale a nord dell’India, diventando generosi mecenati di artisti e letterati. Sostennero il lavoro di autori straordinari come Firdūsī, autore del glorioso Shāhnāma, uno dei gioielli della poesia persiana dell’Alto Medioevo, anche se ricerche recenti attestano che il grande poeta probabilmente non andò fino a corte, in Afghanistan, a presentare di persona la propria opera, come si era a lungo creduto. 72 A beneficiare dell’indebolimento del potere centrale di Baghdad furono anche i Qarakhanidi, una dinastia turcomanna musulmana che assunse il controllo della Transoxiana ricavandosi un regno a nord dell’Amu Darya (l’antico fiume Oxos, che scorre lungo il confine tra gli attuali Uzbekistan e Turkmenistan), dopo essersi accordati con i Ghaznavidi perché il fiume segnasse la frontiera tra i rispettivi territori. 73 Come i loro vicini, anche i Qarakhanidi patrocinarono una rigogliosa scuola di pensatori. Forse il testo più noto pervenutoci è il Dīwān Lughāt al-Turk (Raccolta delle lingue dei Turchi) di Maḥmūd alKāshgharī, dove il centro del mondo è posto a Balāsāghūn, la capitale dei Qarakhanidi in Asia centrale, presentata in una splendida mappa che ci dice molto su come questo dotto geniale vedesse il mondo intorno a sé. 74 Furono create molte altre opere di straordinaria ricchezza, che ci fanno assaporare la raffinatezza – e le ansie – di una società vivace e prospera. Spicca tra gli altri un testo come il Kutadgu Bilig (Il libro della saggezza che porta felicità eterna), scritto sul finire dell’XI secolo
in turco qarakhanide da Yūsuf Khāṣṣ Ḥājib. È ricco dei consigli più disparati: da come sia più saggio per un leader provare a risolvere i problemi con calma invece che con rabbia a come un magnate dovrebbe organizzare un buon banchetto. Mentre gli odierni libri di etichetta risultano irritanti con le loro insulse banalità, è difficile non rimanere affascinati da questo autore che, scrivendo un migliaio di anni fa, invitava i sovrani a preparare adeguatamente un buon banchetto. «Fai pulire le coppe e la biancheria da tavola. Igienizza la casa e la sala da pranzo, e disponi bene le suppellettili. Scegli cibi e bevande sani, gustosi e genuini, in modo che i tuoi ospiti possano mangiare a sazietà.» E prosegue consigliando di tenere i bicchieri sempre pieni e di accogliere eventuali ritardatari con cortesia e generosità: nessuno dovrebbe mai andarsene da una festa affamato o scontento. 75 I potentati arrivisti avevano assolutamente bisogno di simili consigli, perché si trovavano a disagio nei loro nuovi panni, proprio come i ricchi magnati di oggi, che ambiscono al design d’interni più adatto e ai cibi e alle bevande giusti da mettere in tavola quando hanno ospiti (con l’acqua aromatizzata alla marmellata di rose, assicura l’autore del Kutadgu Bilig, si va a colpo sicuro). Alcuni dei più decisi, tuttavia, scartarono l’idea dell’allestimento di una corte adeguata e dei cibi di lusso e si concentrarono sulla preda più grande di tutte: Baghdad. A partire dalla fine del X secolo i Selgiuchidi, discendenti di un capo originario della costellazione di tribù degli Oghuz (che vivevano nell’attuale Kazakistan), cominciarono a prendere slancio. Si rivelarono abili nel cambiare fronte al momento opportuno, offrendo i loro servigi ai signori locali in cambio di adeguate ricompense. Non ci volle molto perché ciò si traducesse in autentico potere. Tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Trenta dell’XI secolo i Selgiuchidi seppero conquistare abilmente il controllo di una serie di città, mentre Merv, Nīshāpūr e Balkh si sottomisero spontaneamente. Poi, nel 1040, sconfissero i Ghaznavidi in battaglia a Dandanakan, infliggendo una rovinosa disfatta a un nemico numericamente superiore. 76
La fulminea ascesa dei Selgiuchidi da schiavi-soldati a grandiosi detentori del potere fu suggellata nel 1055, allorché entrarono a Baghdad su invito del califfo, scacciando l’impopolare e inetta dinastia dei Buwayhidi. In onore del nuovo signore, Ṭughrıl Beg, furono coniate monete e dato ordine di recitare la ḫuṭba in suo nome, vale a dire di invocare la benedizione divina sul suo regno nel corso delle preghiere quotidiane. Come ulteriore segno dimostrativo della posizione predominante che aveva assunto a Baghdad e nel resto del califfato, a Ṭughrıl furono attribuiti due nuovi titoli: al-Sulṭān Rukn alDawla e Yamīn Amīr al-Mu‘minīn, ovvero «Pilastro dello Stato» e «Mano destra del Comandante dei fedeli». 77 La situazione non era priva di ironia. I nomi dei figli del fondatore eponimo della dinastia suggeriscono che i Selgiuchidi fossero in origine cristiani, se non addirittura ebrei. Con nomi come Michele, Israele, Mosè e Giona, è probabile che fossero tra i popoli delle steppe evangelizzati dai missionari di cui parlava il patriarca Timoteo, o da mercanti che avevano portato l’ebraismo tra i Khazari. 78 Pur essendo incerti i tempi e le circostanze della loro conversione all’islam, era con tutta evidenza difficile restare fedeli a credenze religiose ultraminoritarie tra le masse musulmane, con il rischio che la loro rapida ascesa perdesse legittimità. Se le loro conquiste fossero state meno fulminee, il mondo avrebbe potuto cominciare ad apparire molto diverso, perché in Oriente sarebbe emerso uno Stato retto da sovrani cristiani o ebrei. Visto l’andamento delle cose, i Selgiuchidi scelsero di convertirsi. Da parvenu non musulmani provenienti dai margini del califfato, si ritrovarono a essere i custodi del retaggio di Muḥammad, protettori dell’islam e padroni di uno dei più potenti imperi della storia. Già da prima che salissero al potere nella capitale degli Abbasidi, i bizantini si stavano preoccupando dell’ascesa dei Selgiuchidi. La loro inesorabile espansione spingeva altri gruppi nomadi ai margini dell’impero a compiere incursioni sempre più audaci e in profondità all’interno dei Balcani, nel Caucaso e nell’Asia Minore, lasciando le popolazioni locali sgomente per la fulmineità degli attacchi. I loro cavalli, annotava un commentatore, erano «veloci come aquile, dagli
zoccoli duri come rocce». Piombavano sulle città «insaziabili come lupi affamati che divorino la preda». 79 In un malaccorto tentativo di puntellare le difese a est, l’imperatore Romano IV Diogene mosse da Costantinopoli con un imponente esercito, solo per finire sconfitto nel 1071 a Manzicerta, dove le truppe bizantine furono colte di sorpresa e umiliate. In uno scontro rimasto famoso e tuttora celebrato come il momento della nascita dello Stato turco, l’esercito imperiale fu circondato e battuto, e l’imperatore preso prigioniero. Alp Arslan, signore dei Selgiuchidi, fece stendere a terra il sovrano bizantino e gli mise un piede sul collo. 80 In realtà, i Selgiuchidi e il governo di Baghdad, più che all’impero di Bisanzio, erano attenti all’evoluzione del califfato sciita in Egitto, governato dai Fatimidi. Ben presto i due poteri si scontrarono, per contendersi il controllo di Gerusalemme. Nello stesso tempo, furono stabiliti dei rapporti con Costantinopoli improntati non certo a cordialità quanto a un concreto appoggio: Baghdad e Bisanzio ora condividevano il comune interesse a contenere le scorrerie delle bande in Asia Minore, condotte usando la classica strategia dei popoli delle steppe di compiere incursioni e poi chiedere tributi in cambio della pace. I bizantini vedevano minacciata la fragile economia delle province dell’impero; per i Selgiuchidi, il farsi avanti di capibanda con pretese di potere era una sfida all’autorità del loro sovrano. L’imperatore e il sultano collaborarono per circa un ventennio, dialogando sempre ad alto livello, fino a discutere della possibilità di un matrimonio che unisse le rispettive case regnanti. Ma nell’ultimo decennio dell’XI secolo l’equilibrio si spezzò, quando il mondo selgiuchide entrò in crisi per una lotta di successione che permise a nuovi signori locali in Asia Minore di rialzare la testa, creandosi feudi personali che li resero virtualmente indipendenti da Baghdad, oltre che fastidiose spine nel fianco per Bisanzio. 81 In un susseguirsi di catastrofi, l’impero bizantino cristiano fu rapidamente messo in ginocchio. Avendo ormai poche carte da giocare, l’imperatore fece una scelta drastica: inviò appelli ai principali sovrani europei, incluso papa Urbano II. Rivolgersi al papato era un tentativo disperato per impedire che Bisanzio cadesse nell’abisso, e
non era privo di rischi: quarant’anni prima, un aggravarsi della tensione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli aveva prodotto uno scisma, in cui imperatori e patriarchi si erano visti scomunicare e i preti minacciarsi a vicenda le fiamme dell’inferno. Anche se parte della disputa era riconducibile alla dottrina, in particolare alla questione se lo Spirito Santo procedesse o meno dal Figlio così come dal Padre, al cuore della vicenda c’era una più ampia lotta per il controllo della fede cristiana. Fare appello al papa voleva dire sorvolare su quella scissione, e al tempo stesso cercare di riallacciare i rapporti: in entrambi i casi, più facile a dirsi che a farsi. 82 Gli inviati dell’imperatore incontrarono papa Urbano II a Piacenza nel marzo 1095 e «implorarono Sua Santità e tutti i fedeli di Cristo di portare aiuto contro i pagani a difesa della Santa Chiesa, che in quella terra era stata quasi annientata dagli infedeli che nella loro conquista si erano spinti fino alle mura di Costantinopoli». 83 Il papa capì immediatamente qual era la posta in gioco, e passò all’azione. Si mise in viaggio fin oltre le Alpi e tenne un concilio a Clermont, dove proclamò che era dovere di ogni cavaliere cristiano andare in soccorso dei suoi fratelli d’Oriente. Intraprese, quindi, un faticoso pellegrinaggio in cerca dell’appoggio dei più grandi potentati, in Francia prima di tutto, tentando di blandirli e convincerli a suon di lusinghe a partecipare a una grande spedizione diretta alla Città Santa di Gerusalemme. Lo stato di bisogno in cui versava l’Oriente sembrò ridare una speranza all’unità della Chiesa. 84 La chiamata alle armi accese un’esca già pronta. Già da decenni un numero crescente di pellegrini cristiani si era spinto fino ai luoghi santi, ben prima dell’appello del papa. Le notizie viaggiavano veloci, in un mondo in cui esistevano vasti collegamenti tra l’Europa occidentale e Costantinopoli. Con le vie per i pellegrini quasi chiuse per la situazione di caos in Asia Minore e in Medio Oriente, e con il diffondersi di allarmanti rapporti sull’avanzata dei turchi in Anatolia, che dipingevano a fosche tinte le sofferenze patite dai cristiani in Oriente, molti erano convinti che l’apocalisse fosse imminente. La chiamata alle armi da parte di papa Urbano trovò una risposta di massa: nel 1096 furono decine di migliaia gli uomini che partirono per
Gerusalemme. 85 Come mostrano le numerose fonti disponibili, la maggior parte di coloro che si misero in marcia verso est erano motivati dalla fede e dai resoconti di orrori e atrocità, che apparivano fondati. Ma se è vero che le crociate sono ricordate soprattutto come guerre di religione, le loro implicazioni più profonde erano del tutto mondane. Stava per cominciare il primo grande scontro fra le potenze europee per ottenere una posizione, ricchezze e prestigio in terre lontane, innescato dalla consapevolezza di qual era la posta in gioco. Le cose erano cambiate a tal punto che l’Occidente, tutt’a un tratto, stava per portarsi più vicino al cuore del mondo.
VIII
LA VIA AL PARADISO
Il 15 luglio 1099 Gerusalemme fu conquistata dai cavalieri della prima crociata. Il viaggio a est era stato molto difficile, pressoché intollerabile. Molti di coloro che erano partiti non raggiunsero mai la Città Santa, in quanto uccisi in battaglia, morti per fame o malattia, oppure caduti prigionieri. Una volta giunti finalmente a Gerusalemme, i crociati piansero di gioia e di sollievo nell’avvicinarsi alle mura della città. 1 Quando vi aprirono una breccia, dopo un mese e mezzo di assedio, gli assalitori ebbero l’ordine di spargere sangue. Come riferì qualcuno che assistette al massacro che seguì, Gerusalemme fu ben presto ricolma di cadaveri impilati «in cumuli grandi come case, fuori dalle porte della città. Nessuno ha mai sentito dire di una simile strage». 2 «Se uno si fosse trovato lì,» scrisse un altro autore alcuni anni dopo «avrebbe avuto i piedi immersi nel sangue del massacro fino alle caviglie. Che posso dire? Nessuno rimase vivo. Non furono risparmiati né donne né bambini.» 3 La notizia che la città era stata conquistata si diffuse con la velocità di un incendio. I nomi dei comandanti della spedizione divennero celebri da un giorno all’altro. Uno più degli altri catturò l’immaginazione della gente: Boemondo, figlio di un normanno leggendario che si era fatto un nome nell’Italia meridionale e in Sicilia, divenne la stella dei primi resoconti sulla crociata. Bello al punto giusto – occhi azzurri, mento volitivo e perfettamente rasato, inconfondibile capigliatura corta –, Boemondo dava prova di un coraggio e di un’astuzia che erano sulla bocca dell’intera Europa occidentale. Quando tornò dall’Oriente, agli albori del XII secolo, fu celebrato come un eroe: ovunque andasse era circondato dalle folle, nonché da stuoli di donne, tutte di buon lignaggio, che venivano
portate al suo cospetto come aspiranti spose. 4 Boemondo sembrava possedere tutte le caratteristiche del nuovo mondo che stava nascendo. Dal punto di vista dei cronisti contemporanei di fede latina, era il perfetto talismano per un decisivo passaggio di potere dall’Est all’Ovest. La cristianità era stata salvata dai coraggiosi cavalieri che avevano marciato per migliaia di chilometri fino a Gerusalemme. La Città Santa era stata liberata per mano dei cristiani; non da quelli di rito greco ortodosso dell’impero bizantino, ma da quelli venuti dalla Normandia, dalla Francia e dalle Fiandre, che costituivano la stragrande maggioranza della spedizione. I musulmani erano stati scacciati da una città che era da secoli sotto il loro controllo. Alla vigilia della crociata si erano diffuse ovunque cupe predizioni di un’imminente apocalisse, che adesso erano state sostituite dall’ottimismo, da un’energica fiducia in sé stessi e dall’ambizione. Nell’arco di cinque anni si era passati dalla paura per l’imminente fine del mondo al saluto entusiasta all’inizio di una nuova era, un’era dominata dall’Europa occidentale. 5 Gli insediamenti che nacquero nel cosiddetto Outremer erano retti dai nuovi signori cristiani. Si trattava di una visibile espansione della potenza europea: Gerusalemme, Tripoli, Tiro e Antiochia erano tutte sotto il controllo degli europei, e governate in base a un sistema di diritto consuetudinario importato dall’Occidente feudale che aveva effetto sull’intero ordinamento statuale, dai diritti di proprietà dei nuovi arrivati alla riscossione delle imposte fino ai poteri del re di Gerusalemme. Il Medio Oriente veniva rimodellato per diventare come l’Europa occidentale. Nei due secoli che seguirono furono profusi enormi sforzi per mantenere i territori conquistati nella prima crociata e nel periodo immediatamente successivo. I papi di Roma cercarono ripetutamente di inculcare nei cavalieri di tutta Europa l’idea che fosse un loro obbligo difendere la Terra Santa: servire il re di Gerusalemme equivaleva a servire Dio. Il messaggio fu espresso con grande incisività ed ebbe larghissima diffusione; di conseguenza, furono molti gli uomini che presero la via dell’Oriente, e alcuni di loro diventarono cavalieri Templari, un nuovo ordine molto popolare che
al servizio militare della cavalleria abbinava una fervente devozione religiosa, e che iniziò ad attrarre nuovi adepti in maniera quasi morbosa. La via per Gerusalemme divenne una via al paradiso. All’inizio della prima crociata, nel 1095, papa Urbano II aveva decretato che chiunque avesse preso la Croce e si fosse unito alla spedizione in Terra Santa sarebbe stato assolto dai propri peccati. Ma nel corso della campagna il decreto pontificio subì un’evoluzione, sviluppando l’idea che coloro che cadevano in battaglia contro gli infedeli dovevano essere considerati già sulla via della salvezza. Andare a oriente era un viaggio in questa vita, e il modo per arrivare in paradiso nell’altra. Nell’Occidente cristiano i resoconti del trionfo della cristianità, del papa e dei cavalieri risuonavano e rimbalzavano di pulpito in pulpito, di taverna in taverna, tra sermoni, canti e poesie, ma nel mondo musulmano la reazione prevalente era l’apatia. C’erano stati sforzi concertati per affrontare i crociati prima della conquista di Gerusalemme e subito dopo, ma l’opposizione era sporadica e limitata, sintomo di un’arrendevolezza che non mancava di suscitare perplessità. Pare che un giudice di Baghdad facesse irruzione presso la corte del califfo per denunciare l’inerzia di fronte all’arrivo degli eserciti europei: «Come osate» disse, rivolto ai presenti, «compiacervi del vostro ozio ben protetto, vivendo vite fatue come i fiori del giardino, mentre i vostri fratelli in Siria non hanno alcuna dimora che non sia la sella di un cammello o il ventre di un avvoltoio?». A Baghdad e al Cairo regnava una sorta di implicita acquiescenza, basata sulla sensazione che forse era preferibile l’occupazione cristiana rispetto al prevalere dei sunniti – o, viceversa, dei rivali sciiti – nel controllo della città. L’invettiva strappò qualche lacrima nell’entourage del califfo, ma i più non reagirono, e non mossero un dito. 6 Il successo della prima crociata non diede alcun conforto agli ebrei, sia in Europa sia in Palestina, che avevano assistito a violenze spaventose commesse dai nobili – o presunti tali – crociati. In Renania erano stati massacrati donne, vecchi e bambini, in una subitanea ondata europea di antisemitismo. Il prezzo che gli ebrei stavano
pagando era conseguenza del fatto che le forze umane e l’attenzione dell’Europa occidentale si stavano spostando nuovamente sull’Oriente. 7 La sete di sangue era direttamente collegata alla convinzione che gli ebrei fossero colpevoli di aver crocifisso Gesù, e che le terre di Israele dovessero appartenere ai cristiani d’Occidente. Non ci dovevano essere ostacoli ai nuovi collegamenti che si stavano stabilendo nel Levante. La vicenda della crociata era poi molto meno eroica se vista dalla parte dei bizantini. Dietro il successo militare della spedizione e dietro il suo personaggio simbolo, Boemondo, c’era una realtà assai meno epica: al posto delle gloriose conquiste e degli spettacolari trionfi, un vile tradimento ai danni dell’impero. Tutti i capi della spedizione, passando dalla capitale imperiale tra il 1096 e il 1097, avevano incontrato di persona l’imperatore Alessio I e gli avevano giurato, sulle reliquie della Santa Croce, di restituire tutti i territori e le città che avessero conquistato e che in precedenza appartenevano a Bisanzio. 8 Con la spedizione che andava per le lunghe, però, Boemondo cominciò a pensare in maniera ossessiva a come sottarsi alla promessa fatta e tenere il bottino tutto per sé, a cominciare dalla grande città di Antiochia. L’occasione gli si presentò con la conquista della città al termine di un assedio sfibrante. In uno dei più drammatici confronti dell’epoca, Boemondo fu chiamato nella basilica di San Pietro ad Antiochia a rendere ragione del suo rifiuto di consegnare la città all’imperatore di Bisanzio, come promesso. Di fronte a lui c’era Raimondo di Tolosa, il più potente tra i capi dei crociati, che gli rammentò solennemente: «Abbiamo giurato sulla Croce del Signore, sulla corona di spine e su altre sacre reliquie che non avremmo tenuto per noi, senza il consenso dell’imperatore, nessuna città e nessuna fortezza nei suoi domini». Boemondo si limitò a dichiarare che i giuramenti non avevano il minimo valore, perché Alessio non aveva tenuto fede alla sua parte dell’impegno. E, con questo, si rifiutò di proseguire con la spedizione. 9 Così efficace fu la campagna di propaganda allestita agli inizi del XII secolo, che identificò proprio Boemondo con il trionfo della
crociata, da passare sotto silenzio il fatto che il presunto trionfatore non fosse neanche lontanamente nei pressi della Città Santa, quando questa cadde. Dopo un’interruzione di circa un anno, spesa nel tentativo di risolvere la questione di Antiochia, l’esercito crociato finì per rimettersi in marcia senza di lui. Mentre i cavalieri andavano in processione intorno a Gerusalemme, alcuni a piedi nudi in segno di umiltà, per chiedere l’aiuto di Dio prima dell’imminente assedio, Boemondo si trovava a centinaia di chilometri di distanza, intento a spadroneggiare sulla sua nuova conquista, che si era assicurato a forza di inflessibile ostinazione e mancanza di scrupoli. 10 La presa di posizione di Boemondo su Antiochia e dintorni traeva origine dalla consapevolezza delle formidabili opportunità offerte dalle regioni del Mediterraneo orientale. In questo senso, impadronirsi della città era la seconda fase di quel processo di attrazione che nei decenni e nei secoli precedenti aveva portato in quei territori uomini valenti e ambiziosi dell’Europa del Nord e dell’Ovest. Benché la crociata sia ricordata innanzitutto come una guerra di religione, fu anche un’enorme opportunità per conquistare immani ricchezze e potere. Non furono solo i bizantini a manifestare scarso entusiasmo per il rifiuto di Boemondo di cedere Antiochia e per il suo comportamento aggressivo e infido, che portò i suoi sostenitori a spargere in tutta Europa velenose insinuazioni su Alessio. Altri avevano espresso il loro profondo scontento già rispetto all’idea stessa di crociata: per esempio, Ruggero di Sicilia, appartenente a una generazione più anziana che si era già costruita le proprie fortune e non voleva vederle compromesse. Stando a quanto afferma uno storico arabo, Ruggero fu sprezzante di fronte ai progetti di attacco contro Gerusalemme, e cercò di raffreddare gli ardori di coloro che erano eccitati dalla prospettiva di nuove colonie cristiane sulle rive del Mediterraneo. Nell’udire il piano per prendere la Città Santa, «Ruggero alzò una gamba ed emise un fragoroso peto. “Quanto è vera la mia fede,” disse “trovo più utile questo di ciò che avete da dire.”». Qualunque arretramento dei musulmani avrebbe compromesso i suoi rapporti con alcune figure chiave dell’Africa settentrionale islamica – per non parlare dei
problemi che avrebbe creato nella stessa Sicilia, dove viveva una non trascurabile minoranza musulmana – provocando frizioni e interruzioni nel flusso dei commerci. Il danno economico sarebbe stato poi aggravato dalla contrazione dei redditi agricoli, destinati a subire l’inevitabile calo delle esportazioni. «Se intendete muovere una guerra santa contro i musulmani,» disse Ruggero «ebbene, fatelo. Ma lasciate fuori la Sicilia.» 11 Le inquietudini manifestate da personaggi come Ruggero di Sicilia non erano infondate. I mercati mediterranei avevano sperimentato una certa instabilità nei decenni che avevano preceduto la crociata. Le capacità di spesa di Costantinopoli avevano subìto un rapido declino a causa di una grave crisi finanziaria. Il prezzo della tintura di indaco venduta ad Alessandria, per esempio, era sceso di oltre il 30 per cento nel solo 1094, ed è ragionevole supporre che un’analoga flessione sia stata accusata dal commercio del pepe, della cannella e dello zenzero, anche se le fonti non lo affermano esplicitamente. 12 Anche il lucroso traffico tra Nord Africa ed Europa attraverso la Palestina, che nel 1085 consentiva di realizzare profitti del 150 per cento sul legno di pernambuco, dovette subire una contrazione. 13 Sbalzi improvvisi nella domanda e nell’offerta potevano condurre a brusche oscillazioni dei prezzi, come fu per l’impennata del costo del grano a seguito della conquista normanna della Sicilia, o per la riduzione di circa il 50 per cento del valore del lino nel Mediterraneo a causa dell’eccesso di offerta, a metà dell’XI secolo. 14 Queste fluttuazioni nei prezzi e nella ricchezza impallidivano di fronte alla trasformazione del Mediterraneo innescata dall’impatto della crociata. Nel X e XI secolo, scrisse lo storico nordafricano Ibn Khaldūn, le flotte musulmane esercitavano su quelle acque un controllo tale che i cristiani non riuscivano a farvi navigare neppure una tavola di legno. 15 Ma pur avendo a lungo dominato il Mediterraneo, i musulmani stavano per perdere la supremazia tra le onde a vantaggio di un nuovo gruppo di rivali: le repubbliche marinare italiane, ultime arrivate nella vasta rete dei commerci con l’Oriente.
In verità, Amalfi, Genova, Pisa e Venezia avevano cominciato a flettere i muscoli molto prima della fine dell’XI secolo. Nel caso di Venezia, in particolare, il commercio degli schiavi e di altri beni aveva condotto alla nascita di solidi legami con le città della costa dalmata, come Zara, Traù, Spalato e Dubrovnik, che di fatto furono un trampolino per lo sviluppo lungo l’Adriatico e oltre. Queste stazioni commerciali erano sia mercati per il commercio locale sia oasi protette, dove i lunghi viaggi potevano fare tappa. Il fatto che le città italiane avessero piccole comunità permanenti di mercanti a Costantinopoli, così come in altre città bizantine, è rivelatore del loro crescente interesse per il commercio con il Mediterraneo orientale. 16 Di qui si generò la spinta che alimentò la crescita economica in Italia: a Pisa, verso la fine dell’XI secolo, il livello di ricchezza era tale che il vescovo e i cittadini imposero limiti all’altezza delle torri fatte costruire dai nobili, bramosi di esibire la loro prosperità. 17 Le città-Stato italiane furono leste a comprendere che la conquista di Gerusalemme avrebbe aperto opportunità strabilianti al commercio. Prima ancora che i crociati avessero raggiunto la Città Santa, Genova, Pisa e Venezia avevano già flotte in mare, dirette in Siria e in Palestina. In ogni caso, l’iniziativa di prendere il mare fu il diretto risultato degli appelli del papa a partecipare all’impresa, oppure ebbe origine dall’impulso a difendere la cristianità dalle orribili barbarie riferite da testimoni oculari ed emissari bizantini. 18 Ma se le motivazioni spirituali erano un fattore importante, divenne ben presto evidente che c’erano in gioco anche significative remunerazioni materiali. Dopo la conquista di Gerusalemme, i crociati erano in una condizione precaria, con un estremo bisogno di approvvigionamenti e una disperata necessità di ristabilire contatti con l’Europa. Grazie alle loro flotte, le città-Stato si ritrovarono in una posizione favorevole per negoziare, quando venne il momento di trattare con i nuovi padroni della Terra Santa. Il loro potere fu ulteriormente rafforzato dall’esigenza dei crociati di rendere sicuro il litorale e porti come Haifa, Jaffa, Acri e Tripoli, dove la potenza marittima era essenziale per porre un assedio con possibilità di successo.
I termini dell’accordo raggiunto prevedevano potenziali e formidabili benefici in cambio dell’aiuto prestato. Come ricompensa per aver preso parte all’assedio di Acri del 1100, per esempio, ai nuovi arrivati veneziani furono promesse una chiesa e una piazza commerciale in ogni città presa dai crociati, oltre a un terzo del bottino sottratto al nemico e all’esenzione da qualunque tassa. Un perfetto esempio di quella che uno studioso ha definito la classica miscela veneziana di «devozione e avidità». 19 Quando fu assediata Cesarea, nel 1101, furono i genovesi a trovarsi nella posizione ideale per assicurarsi una quantità di bottino impressionante, insieme a condizioni favorevoli per gli scambi commerciali. La loro posizione conobbe un ulteriore miglioramento tre anni dopo, quando Baldovino I, re di Gerusalemme, concesse ai genovesi un’ampia serie di esenzioni fiscali e altri diritti legali e commerciali, come quello di non essere sottoposti alla giurisdizione regale nei casi per cui era prevista la pena capitale. Fu loro concesso anche un terzo delle città di Cesarea, Arsuf e Acri, nonché una generosa porzione degli introiti fiscali di quest’ultima. Il re s’impegnò, inoltre, a versare a Genova un deposito annuale e a garantirle un terzo di ogni futura conquista, a patto di ricevere in cambio un adeguato appoggio militare. 20 Accordi di questo tipo erano un segnale della debolezza della posizione dei crociati in Oriente, ma per le città-Stato italiane erano la base per un arricchimento che le tramutò da centri marittimi regionali in potenze internazionali. 21 Nulla di strano che guadagni così strepitosi innescassero una serrata competizione tra Pisa, Genova e Venezia. Amalfi, la più lenta nel far giungere le sue navi in Oriente, non fu in grado di competere, esclusa dal Grande Gioco che aveva preso il via mentre le altre rivali si contendevano accessi, concessioni e lucrosi accordi commerciali. Già nel 1099, pisani e veneziani arrivarono ai ferri corti: i secondi affondarono al largo di Rodi 28 navi di uno squadrone pisano forte di 50 legni. Gli ostaggi e i vascelli catturati, però, furono restituiti alla città rivale in segno di magnanimità in quanto, stando a una fonte di epoca successiva, i veneziani portavano la croce di Gesù Cristo non solo cucita sulle tuniche (com’erano tenuti a fare i crociati, secondo il
papa), ma anche impressa nelle loro anime. 22 Il retroscena di questo scontro navale risaliva al 1092, quando Venezia ottenne ampie concessioni commerciali in tutto l’impero bizantino, nel quadro di una più vasta strategia voluta dall’imperatore Alessio per dare impulso all’economia. I veneziani si erano visti assegnare dei pontili per lo scarico delle merci nel porto di Costantinopoli, oltre che esentare dalle tasse su importazioni ed esportazioni. 23 Sette anni dopo, quindi, il loro obiettivo principale era tenere Pisa lontana da quel mercato, in modo da mantenere le condizioni più che vantaggiose negoziate a suo tempo con l’imperatore. Come parte dell’accordo con Venezia, ai pisani veniva imposto di non fare mai più ritorno a Bisanzio «per commerciare, né a battersi contro altri cristiani per qualunque motivo, salvo che in nome della devozione al Santo Sepolcro». Questa, almeno, è la versione data dai veneziani di ciò che accadde. 24 Far rispettare simili trattati era però più facile a dirsi che a farsi, e in effetti, agli inizi del XII secolo, l’imperatore bizantino concesse a Pisa privilegi non dissimili da quelli precedentemente accordati a Venezia, pur se non altrettanto generosi. Anche ai mercanti pisani furono garantiti un molo e la possibilità di ancoraggio nella capitale dell’impero, ma al posto della completa esenzione fiscale essi ottennero solo una riduzione dei tassi doganali. 25 Fu questo un modo per cercare di stemperare un monopolio che rischiava di concedere ai veneziani un vantaggio eccessivo rispetto alla concorrenza. 26 La contesa tra le città-Stato italiane per il predominio commerciale nel Mediterraneo orientale fu frenetica e senza esclusione di colpi, ma non ci volle molto perché Venezia ne risultasse chiaramente la vincitrice. Questo era dovuto in gran parte alla sua posizione geografica nell’Adriatico, perché il tragitto verso la città lagunare era più breve rispetto a quello per Pisa o Genova; inoltre, la rotta per Venezia disponeva di approdi migliori, il che rendeva i viaggi più sicuri, quantomeno una volta affrontate e superate le insidie del Peloponneso. A favore della città lagunare giocavano anche un’economia più solida e sviluppata, nonché l’assenza di un concorrente locale, a differenza di Pisa e Genova che, proprio nei
momenti cruciali, erano state tenute fuori dal Levante a causa della loro accanita competizione per il controllo delle rispettive coste e, soprattutto, di quelle della Corsica. 27 La situazione volse a favore di Venezia allorché, nel 1119, un forte esercito di cavalieri occidentali subì una totale disfatta in quella che divenne nota come la battaglia dell’Ager sanguinis (Campo di sangue), una sconfitta che inferse un colpo devastante alla sopravvivenza di Antiochia come regno crociato indipendente. 28 Con Pisa e Genova invischiate nelle loro dispute, Antiochia non poté che rivolgere appelli disperati al doge di Venezia, implorando aiuto nel nome di Gesù Cristo. Fu allestito un poderoso corpo di spedizione, perché i veneziani – come scrisse un commentatore dell’epoca, forse non imparziale – volevano «con l’aiuto di Dio arrivare fino a Gerusalemme e alla regione vicina, il tutto a vantaggio e gloria della cristianità». 29 È comunque significativo che le richieste di aiuti da parte di re Baldovino II fossero accompagnate dalla promessa di ricevere in cambio nuovi e ulteriori privilegi. 30 I veneziani approfittarono dell’opportunità per dare una lezione ai bizantini. Il nuovo imperatore Giovanni II, che era succeduto al padre Alessio nel 1118, era convinto che la ripresa economica fosse ormai giunta a un livello tale da giustificare il mancato rinnovo delle agevolazioni concesse ai veneziani oltre vent’anni prima. Il risultato fu che la flotta di Venezia, durante la navigazione verso Antiochia, mise sotto assedio Corfù e minacciò ulteriori azioni se l’imperatore non avesse fatto marcia indietro, riconfermando i privilegi concessi dal padre. 31 Questo successo fu più che eguagliato dai profitti ottenuti quando le navi del doge giunsero finalmente in Terra Santa. Dopo aver valutato attentamente la situazione, i veneziani fecero un prestito ai capi cristiani di Gerusalemme per consentire loro di finanziare le proprie forze quanto bastava per lanciare un attacco contro i porti tenuti dai musulmani. In cambio, Venezia ebbe una cospicua ricompensa: una chiesa, una strada e una piazza di dimensioni adeguate in ogni città reale e baronale del regno di Gerusalemme. Ai veneziani sarebbe stata corrisposta una tassa annua garantita dai
sostanziosi introiti fiscali di Tiro, il principale centro commerciale della regione. Quando la città cadde a seguito di un assedio, nel 1124, la posizione di Venezia in quelle terre subì una trasformazione, grazie all’attribuzione di concessioni valide in tutto il regno di Gerusalemme. Partendo da una semplice base d’appoggio, la città lagunare si era costruita una posizione di tale forza che alcuni, credendo minacciata l’autorità stessa della Corona, tentarono immediatamente di rendere un po’ meno favorevoli per la Serenissima i termini degli accordi. 32 Si trattava in apparenza di un’epoca caratterizzata dalla fede e da fortissime convinzioni religiose, contrassegnata dallo spirito di sacrificio in nome del cristianesimo. Ma la religione doveva rivaleggiare con la Realpolitik da un lato e con le preoccupazioni finanziarie dall’altro, e la gerarchia ecclesiastica ne era consapevole. Quando l’imperatore bizantino Giovanni II cercò di reclamare i propri diritti su Antiochia, il papa emise una dichiarazione rivolta a tutti i fedeli, affermando che chi avesse aiutato i bizantini sarebbe andato incontro alla dannazione eterna. 33 Una questione che aveva molto a che vedere con la volontà di non scontentare gli alleati di Roma, e poco o nulla con la teologia e la dottrina. Ma il miglior esempio della mescolanza tra materia e spirito venne dopo la caduta di Edessa, presa dai musulmani nel 1144, che segnò un’altra grave sconfitta per i crociati. In tutta Europa si levarono voci per radunare forze in grado di prendere parte a una spedizione, che sarebbe diventata la seconda crociata. Il principale promotore fu Bernardo di Chiaravalle, una figura carismatica ed energica, abbastanza pragmatico per capire che la remissione dei peccati e la possibilità della salvezza attraverso il martirio potevano non bastare a convincere tutti a partire per l’Oriente. «Se sei un furbo mercante, se sei un “trafficante di valori terreni”» scrisse Bernardo in una lettera che ebbe ampia diffusione «ti indico un lucroso commercio; e bada che esso non ti sfugga.» 34 A metà del XII secolo le città-Stato italiane stavano sfruttando ampiamente le invidiabili posizioni che con grande abilità si erano costruite in Oriente. Con un accesso preferenziale a Costantinopoli e alle principali città costiere sia dell’impero bizantino sia della
Palestina, Venezia disponeva ora lungo tutto il Mediterraneo orientale di un trampolino non solo per il Levante ma, di lì a poco, anche per l’Egitto. Qualcuno lo guardava con occhio geloso, come Caffaro, il più famoso storico genovese del Medioevo. Genova «era addormentata e soffriva per l’indifferenza» scriveva con i toni dolenti degli anni successivi al 1150; la città era «come una nave che andava per mare senza un navigatore». 35 C’era dell’esagerazione nelle sue parole, ma queste rivelano in piccola parte come l’autore fosse critico nei confronti delle potenti famiglie che dominavano la politica genovese. In realtà, in quel periodo anche Genova aveva la sua fetta di prosperità. Oltre a fare in modo che i privilegi di cui godeva negli Stati crociati venissero regolarmente confermati, la città stabilì legami nel versante occidentale del Mediterraneo. Nel 1161 fu concordata una tregua con il califfo almohade del Marocco, grazie alla quale Genova ottenne accesso ai mercati e protezione dagli assalti. Già nell’ultimo decennio del secolo, gli scambi con il Nord Africa erano arrivati a costituire oltre un terzo delle sue attività commerciali, e lungo i litorali era sorta una vasta catena di magazzini e ostelli per sostenere i mercanti e facilitare in tutti i modi le loro attività. 36 Genova, Pisa e Venezia favorirono la crescita di una serie di altre città intorno a loro, proprio com’era successo con Kiev in Russia. Napoli, Perugia, Padova e Verona si svilupparono rapidamente, con nuovi quartieri che si espandevano così in fretta che le mura cittadine vennero ricostruite più e più volte, e sempre più lontano dal centro. Anche se, in assenza di dati empirici certi, è difficile calcolare il numero effettivo di abitanti, non vi è alcun dubbio che il XII secolo abbia visto in Italia un notevole incremento del processo di urbanizzazione, di pari passo con un boom dei mercati, la formazione delle classi medie e un aumento dei redditi. 37 È curioso rilevare come la base della crescita nell’età delle crociate stesse nella stabilità e nei buoni rapporti tra mondo musulmano e cristianità, sia in Terra Santa che altrove. Benché nei decenni successivi alla conquista di Gerusalemme (1099) si fossero verificati
con una certa frequenza degli scontri armati, fu solo verso il 1180 che si registrò un drammatico aggravarsi della tensione. Nel complesso, i crociati avevano imparato a rapportarsi con la popolazione a maggioranza musulmana finita sotto il loro dominio, e anche con quelle confinanti. E il re di Gerusalemme riportava regolarmente all’ordine i signori suoi vassalli, per evitare che compissero incursioni sconsiderate contro le carovane di passaggio e le città vicine, che avrebbero potuto suscitare l’ostilità dei capi locali o una reazione più massiccia da parte dei governi di Baghdad e del Cairo. Alcuni dei nuovi arrivati in Terra Santa faticavano a capirlo, e di conseguenza erano fonte costante di problemi, come facevano notare gli osservatori del luogo. Chi era appena giunto, a volte non credeva che il commercio con gli «infedeli» facesse parte della quotidianità, e ci metteva del tempo a rendersi conto che le cose, in pratica, non erano così nettamente in bianco e nero come venivano dipinte in Europa. Con il tempo, i pregiudizi si esaurivano: gli occidentali che restavano in Oriente per un po’ erano «molto meglio di quelli arrivati di recente» scriveva un autore arabo, sgomento di fronte ai modi rozzi e brutali dei nuovi arrivati, così come al loro atteggiamento nei confronti di chiunque non fosse cristiano. 38 Questo modo di pensare trovava eco anche in ambito musulmano. Una fatwa (decreto) emessa negli anni Quaranta del XII secolo esortava i musulmani tanto a non andare in Occidente quanto a non commerciare con i cristiani. «Se ci rechiamo nelle loro terre, i prezzi delle merci saliranno, e dovremo dar loro tanto denaro, che essi useranno per combattere i musulmani e razziare le loro terre.» 39 Nell’insieme, comunque, a dispetto di tutta la fiammeggiante retorica da entrambi i lati, i rapporti erano pacati e ben meditati. Anche perché era forte nell’Europa occidentale la curiosità nei confronti dell’islam. Persino all’epoca della prima crociata non c’era voluto molto perché alcuni si facessero un’opinione positiva dei turchi musulmani. «Se solo i Turchi credessero fermamente nella fede di Cristo e nella cristianità» commentava malinconico l’autore di una delle più popolari storie della spedizione per Gerusalemme, forse in parte alludendo alle credenze religiose dei Selgiuchidi prima che si
convertissero all’islam, «sarebbe impossibile trovare soldati più forti, coraggiosi e abili.» 40 Nel giro di poco tempo, anche le realizzazioni intellettuali e culturali del mondo musulmano furono oggetto di attivo interesse da parte degli studiosi occidentali, come Adelardo di Bath, che le studiarono e le lessero con voracità. 41 Fu Adelardo che andò a rovistare nelle biblioteche di Antiochia e Damasco, tornandosene con copie di tavole algoritmiche che posero le basi per lo studio della matematica nel mondo cristiano. Viaggiare in queste terre significava aprire gli occhi. Quando tornò a casa, «si rese conto che i principi erano dei barbari, i vescovi beoni, i giudici corruttibili, i patroni inaffidabili, i clientes spioni, i promittenti bugiardi, gli amici invidiosi e pressoché chiunque pieno di ambizioni.» 42 Un punto di vista che nasceva da un ottimistico apprezzamento della sofisticatezza dell’Oriente in confronto ai limiti culturali dell’Occidente cristiano. L’opinione di Adelardo era condivisa da altri, come Daniel da Morley, che verso la fine del XII secolo lasciò l’Inghilterra per andare a studiare a Parigi. Gli austeri presunti intellettuali di quella città davano l’idea di essere chissà cosa, solo perché sedevano «immobili come statue, facendo mostra di erudizione con lo stare in silenzio». Consapevole che non c’era nulla da imparare da uomini così, Daniel si spostò nella Toledo musulmana «più in fretta che poté, per andare ad ascoltare i filosofi più sapienti del mondo». 43 Le idee in arrivo dall’Oriente erano accolte con entusiasmo, anche se con esiti diversi. Pietro il Venerabile, abate di Cluny, la fucina del pensiero teologico e intellettuale nella Francia medievale, fece tradurre il Corano in modo che lui e altri studiosi cristiani potessero capirlo meglio, con l’intento dichiarato di usarlo per rafforzare la preesistente visione dell’islam come una devianza ignominiosa e pericolosa. 44 Non era solo nelle terre della Mezzaluna che gli europei andavano cercando ispirazione. Anche i testi pubblicati a Costantinopoli venivano tradotti in latino, come i commentari all’Etica Nicomachea di Aristotele commissionati da Anna Comnena, figlia di Alessio I, che giunsero poi fra le mani di Tommaso d’Aquino, e per suo tramite divennero parte integrante del filone centrale della
filosofia cristiana. 45 Analogamente, non furono solo gli scambi commerciali con i musulmani alla base della fioritura economica e sociale dell’Europa nel XII secolo. Costantinopoli e l’impero bizantino erano un motore pulsante che trainava il commercio nel Mediterraneo cristiano, fonte della metà dei traffici internazionali di Venezia, a giudicare dai documenti superstiti di quel periodo. 46 E tuttavia, anche se Bisanzio esportava vetro, oggetti di metallo, olio, vino e sale sui mercati italiani, tedeschi e francesi, erano i prodotti di provenienza più remota quelli maggiormente apprezzati, ricercati e redditizi. Come dimostrano gli inventari, gli elenchi delle vendite e i registri delle tesorerie delle chiese dell’Europa occidentale, la domanda di seta, cotone, lino e altri tessuti prodotti nel Mediterraneo orientale, nell’Asia centrale e in Cina era enorme. 47 Le città del Levante trassero vantaggio dai mercati emergenti, con Antiochia che si affermò come mercato da cui i prodotti venivano spediti a ovest, ma anche direttamente come luogo di produzione di merci. Tessuti come la «tela di Antiochia» ebbero un tale successo commerciale e divennero così ambiti che re Enrico III d’Inghilterra (sul trono dal 1216 al 1272) aveva delle «Camere di Antiochia» in ognuna delle sue residenze principali: la Torre di Londra, Clarendon Palace, Winchester Palace e Westminster. 48 Anche le spezie cominciarono a invadere l’Europa in quantità via via crescenti. Venivano concentrate in tre piazze principali – Costantinopoli, Gerusalemme e Alessandria –, di lì portate via mare nelle città italiane e poi fatte proseguire fino ai mercati di Germania, Francia, Fiandre e Inghilterra, dove la vendita dei prodotti esotici generava ricchi profitti. In qualche modo, l’aspirazione all’acquisto di costosi beni di lusso di provenienza orientale faceva il paio con la richiesta da parte dei nomadi delle steppe di sete della corte cinese: nel mondo medievale, esattamente come oggi, i ricchi avvertivano la necessità di distinguersi esibendo il loro status. Anche se il commercio di oggetti e beni di lusso riguardava solo una piccola parte della popolazione, aveva una grande importanza perché consentiva la differenziazione, rivelando così la mobilità sociale e la crescita delle
aspirazioni che vi erano sottese. Se Gerusalemme ricopriva un ruolo totemico come epicentro della cristianità, era anche un mercato a tutti gli effetti, sia pure di livello inferiore a quello della città di Acri. Un elenco delle entrate fiscali del regno, risalente al tardo XII secolo, fornisce una visione dettagliata delle cose che si potevano comprare laggiù in quel periodo, oltre a rivelare l’acribia di un’efficientissima cancelleria, ansiosa di non perdere nemmeno un centesimo dei cospicui introiti. Bisognava applicare costi extra alla vendita di pepe, cannella, allume, vernice, noce moscata, lino, chiodi di garofano, legno di aloe, zucchero, pesce salato, incenso, cardamomo, ammoniaca, avorio e molte altre merci. 49 La maggior parte di questi beni non era prodotta in Terra Santa, ma transitava di lì lungo le vie commerciali sotto il controllo dei musulmani; il loro percorso toccava anche i porti egiziani, che esportavano un impressionante campionario di spezie, tessuti e oggetti di lusso, stando a un trattato fiscale arabo dell’epoca. 50 Per ironia della sorte, quindi, le crociate servirono non solo a stimolare le economie e le società dell’Europa occidentale, ma anche ad arricchire intermediari musulmani che si erano accorti di quanto remunerativi potevano essere i nuovi mercati. Tra questi uno dei più oculati fu Rāmisht di Sīrāf, nel golfo Persico, che agli inizi del XII secolo accumulò una fortuna. Il suo colpo di genio fu soddisfare l’aumento della domanda, operando come grossista per le merci provenienti dalla Cina e dall’India: uno dei suoi agenti, in un solo anno, spedì beni il cui valore era di oltre mezzo milione di dinar. La ricchezza di Rāmisht era leggendaria, al pari della sua generosità. Pagò le spese per la costruzione di una fontana d’oro che sostituisse quella d’argento della Ka‘ba, a Mecca, e finanziò l’acquisto del nuovo tessuto – tela cinese di «valore inestimabile», secondo un testo coevo – per ricoprire la Ka‘ba, dopo il danneggiamento di quello originale. Le sue buone azioni gli valsero il raro privilegio di essere sepolto a Mecca, con un’epigrafe sulla pietra tombale che recita: «Qui giace l’armatore Abu’l-Qāsim Rāmisht: “Possa Dio avere misericordia di lui e di chiunque per lui chieda misericordia”». 51 Le ricchezze in palio condussero inevitabilmente a un inasprirsi
delle rivalità e a un nuovo capitolo del Grande Gioco medievale: il perseguimento a ogni costo della supremazia nel Mediterraneo orientale. Negli anni Sessanta del XII secolo la competizione tra le repubbliche marinare italiane divenne così accanita che per le strade di Costantinopoli si verificarono ripetuti scontri tra veneziani, genovesi e pisani. Nonostante i tentativi da parte dell’imperatore di porvi fine, le esplosioni di violenza divennero episodi ricorrenti. Ciò era dovuto presumibilmente alla crescente concorrenza nei traffici e alla conseguente caduta dei prezzi: le postazioni commerciali dovevano essere protette, se necessario con la forza. Perseguendo così a fondo il proprio tornaconto, le città-Stato italiane finirono per inimicarsi gli abitanti della capitale, sia per i danni causati a case e altri beni, sia perché anche altrove era sempre più evidente che l’Occidente stava mostrando i muscoli. Nel 1171 l’imperatore bizantino rispose alla crescente frustrazione prima imprigionando migliaia di veneziani e poi ignorando qualunque loro richiesta di risarcimenti, senza neppure lontanamente preoccuparsi di fornire una giustificazione per i provvedimenti unilateralmente adottati, e peraltro mai nemmeno annunciati. Il doge Vitale Michiel non riuscì a venire a capo della questione neppure recandosi di persona a Costantinopoli, e a quel punto Venezia cadde in preda all’agitazione. La delusione e quindi la rabbia che si propagarono tra la folla, radunatasi in attesa di buone notizie, cedettero il passo alla violenza. Nel tentativo di sfuggire ai suoi stessi sudditi, il doge si diresse al convento di San Zaccaria, ma prima di arrivarci fu raggiunto da un gruppo di facinorosi e linciato. 52 I bizantini non erano più alleati e benefattori di Venezia, ma concorrenti e rivali a pieno titolo. Nel 1182 gli abitanti di Costantinopoli aggredirono gli italiani delle città marinare che vivevano nella capitale e ne uccisero molti, tra i quali il rappresentante della Chiesa di Roma, la cui testa fu trascinata per le vie della città legata alla coda di un cane. 53 Era solo l’inizio della crescente animosità fra i cristiani delle due metà dell’Europa. Nel 1185 una forza di spedizione partita dal Sud Italia assalì e saccheggiò Tessalonica, una delle città più importanti dell’impero bizantino. Con la prima
crociata, l’Occidente aveva conficcato un arpione nel Mediterraneo orientale, ora stava tirando a riva la preda. Per qualcuno, però, queste tensioni erano un’opportunità. Già da qualche tempo, in Egitto, si stava mettendo in luce un abile generale chiamato Ṣalāḥ al-Dīn al-Ayyubī. Grazie ai buoni contatti, a una mente astuta e a un non trascurabile fascino, l’uomo che divenne poi noto come «Saladino» comprese che lo scontro in atto a Costantinopoli poteva tornare a suo vantaggio. Senza perdere tempo, fece una serie di mosse concilianti nei confronti di Bisanzio, a cominciare dall’invito rivolto al patriarca greco di Gerusalemme a visitare Damasco. Qui l’alto prelato fu accolto con tutti gli onori, quasi per dimostrargli che l’alleato naturale dell’impero non erano i cristiani d’Occidente, bensì il Saladino. 54 Poco prima del 1190 l’imperatore bizantino Isacco II era abbastanza ben disposto, al punto da scrivere «a [mio] fratello il Sultano di Egitto, Saladino», condividere con lui i rapporti degli agenti di spionaggio, avvertirlo che le voci sulle intenzioni dell’impero fatte circolare dai suoi nemici erano prive di fondamento e chiedergli se accettasse di fornire a Bisanzio un appoggio militare contro gli occidentali. 55 Erano decenni che Costantinopoli covava risentimento nei confronti dell’Occidente. Un autore della metà del XII secolo scriveva che gli uomini dell’Europa occidentale erano inaffidabili, rapaci e disposti a vendere per denaro i loro stessi familiari. Anche se molti cosiddetti «pellegrini» si proclamavano devoti, scriveva la figlia di un imperatore, la loro unica vera motivazione era l’avidità. Non facevano che tramare per impadronirsi della capitale, nuocere alla reputazione dell’impero e fare del male ai loro fratelli cristiani. 56 Era una convinzione che sul finire del XII secolo si diffuse fino a radicarsi nella coscienza dei bizantini, e ancora di più dopo il 1204. Tale opinione trovava un’eco nella stessa Terra Santa, dove i cavalieri erano talmente violenti e irresponsabili che sembravano quasi animati da un desiderio di morte. Più e più volte, verso la fine del secolo, i leader locali presero decisioni insensate e si accapigliarono tra loro per inutili beghe, invece di prepararsi per
l’ondata di marea che si annunciava all’orizzonte con chiare avvisaglie. Il loro comportamento ambivalente sconcertò un viaggiatore musulmano dell’epoca, che veniva dalla Spagna. Era incredibile vedere, scrisse Ibn Jubayr, come tra cristiani e musulmani «bruciavano i fuochi della discordia» quando si trattava di questioni politiche e militari, mentre coloro che viaggiavano per commercio «andavano e venivano indisturbati». 57 Per i mercanti la sicurezza era garantita ovunque andassero, a prescindere dalla loro fede e dal fatto che si fosse in pace o in guerra. Era il risultato, scrisse sempre lo stesso autore, di un buon rapporto di lavoro, in cui la collaborazione era assicurata sia da accordi fiscali bilaterali sia da punizioni esemplari. A tagliare la gola ai mercanti latini che non rispettavano gli accordi, operando in violazione dei confini concordati – anche solo per «la lunghezza delle braccia» –, erano i loro stessi correligionari, più che desiderosi di non urtare i musulmani e di non compromettere accordi commerciali da lungo tempo in vigore. Ibn Jubayr rimase sconcertato, ma anche ammirato. Era «una delle più amabili e originali consuetudini degli [occidentali]». 58 Con il progressivo ripiegamento della corte di Gerusalemme su sé stessa, le faide tra fazioni rivali divennero endemiche, creando le condizioni ideali per l’ascesa di individui prepotenti e ambiziosi, che promettevano successi mirabolanti ma procurarono danni enormi ai rapporti tra cristiani e musulmani. Il più importante di costoro fu Rinaldo di Châtillon, la cui sconsideratezza bastò quasi da sola a far cadere il regno di Gerusalemme. Da lungo tempo in Terra Santa, Rinaldo si accorse che la pressione sul regno cristiano stava salendo a causa del rafforzamento della posizione di Saladino in Egitto, specie dopo che quest’ultimo aveva assunto il controllo di larga parte della Siria, arrivando così a circondarlo. I tentativi di Rinaldo di mitigare la minaccia si trasformarono in clamorosi insuccessi. Decidendo d’impulso di attaccare il porto di Aqaba, sul mar Rosso, scatenò reazioni isteriche nei cronisti arabi, che si misero a urlare che Mecca e Medina erano in pericolo, e che l’apocalisse e la fine dei tempi erano ormai vicine. 59
Mosse di questo genere non solo erano offensive, ma accrescevano il prestigio e la popolarità che il Saladino avrebbe ottenuto se fosse riuscito ad assestare il colpo decisivo allo Stato dei crociati. Di tutti i cristiani d’Oriente, scrisse un autore arabo coevo, Rinaldo era «il più infido e malvagio … il più bramoso di ferire e fare del male, di infrangere serie promesse e formali giuramenti, di mancare alla sua parola e commettere spergiuro». Saladino giurò che «avrebbe avuto la sua vita». 60 L’occasione si presentò presto. Nel luglio 1187 i cavalieri del regno crociato di Gerusalemme furono colti di sorpresa ai Corni di Hattin, dove Saladino li surclassò quanto a capacità di manovra, strategia e tattica di combattimento. Alla fine della violenta battaglia che ne seguì, quasi tutti i crociati erano stati uccisi o fatti prigionieri; in particolare, gli Ospitalieri e i Templari – due ordini fanatici, indisponibili a qualsiasi compromesso nei rapporti con le comunità non cristiane – furono sommariamente giustiziati. Saladino andò personalmente in cerca di Rinaldo di Châtillon e lo decapitò. Se Rinaldo sia davvero stato il principale artefice della fine dei crociati è ancora oggetto di dibattito, ma servì comunque da perfetto capro espiatorio, sia agli sconfitti sia ai vincitori. Quale che sia la verità, nemmeno due mesi dopo la battaglia Gerusalemme si arrese pacificamente ai musulmani e spalancò le porte della città, dopo aver raggiunto un accordo per risparmiare la vita ai suoi abitanti. 61 La caduta di Gerusalemme costituì una pesante umiliazione per il mondo cristiano e un grave arretramento nei rapporti tra l’Europa e l’Oriente. Il papato prese molto male la notizia, se è vero che Urbano III cadde stecchito non appena seppe della disfatta di Hattin. Il suo successore, Gregorio VIII, indusse la comunità cristiana a un esame di coscienza. La Città Santa era caduta, annunciò il papa ai fedeli, non solo a causa dei «peccati dei suoi abitanti, ma anche [a causa dei] nostri e [di] quelli dell’intero popolo cristiano». La potenza musulmana stava crescendo, era l’avvertimento del pontefice, e si sarebbe espansa ancora, a meno di non essere bloccata. Raccomandò che re, principi, baroni e città intenti a disputarsi tra loro mettessero da parte le divergenze e reagissero a quanto era accaduto. Il che
significava riconoscere, a dispetto della tronfia retorica sulla fede e la devozione dei cavalieri, che in realtà all’ordine del giorno c’erano interessi personali, rivalità locali e contese. Gerusalemme era caduta, disse il papa, perché i cristiani non erano stati capaci di difendere ciò in cui credevano. Il peccato e il male li avevano sopraffatti. 62 Il messaggio papale, aspro e provocatorio, ebbe un effetto immediato, e ben presto i tre uomini più potenti dell’Occidente diedero il via ai preparativi per una spedizione punitiva. Con Riccardo I d’Inghilterra, Filippo II di Francia e il potente Federico Barbarossa, sovrano del Sacro Romano Impero, che giuravano di riprendere la Città Santa, sembrava ragionevole pensare che fosse possibile non solo riconquistare Gerusalemme, ma anche riguadagnare la posizione di cui i cristiani avevano goduto in Medio Oriente. Ma gli sforzi profusi tra il 1189 e il 1192 si risolsero in un fiasco. Federico annegò nell’attraversare un fiume in Asia Minore, a diversi chilometri di distanza dal presunto teatro di battaglia. Gli altri capi della spedizione ebbero discussioni furibonde sugli obiettivi strategici, e la mancanza di un accordo portò i loro eserciti quasi all’impasse. La caoticità di quel frangente è ben riassunta dal tentativo compiuto da Riccardo «Cuor di Leone» di mutare l’obiettivo della spedizione: anziché sulla conquista di Gerusalemme, meglio concentrarsi sull’invasione dell’Egitto, preda ben più ricca e appetibile. Stando così le cose, la campagna non conseguì risultati duraturi, e non riuscì a mettere Gerusalemme sotto pressione. È singolare il fatto che, prima di mettersi sulla via del ritorno, i sovrani alla testa della spedizione rivolgessero l’attenzione ad Acri, prima città commerciale del Levante ma priva di qualunque importanza dal punto di vista biblico e, più in generale, religioso. 63 Meno di dieci anni dopo ci fu un altro tentativo di riprendere la Terra Santa. Pilastro dell’attacco, questa volta, doveva essere Venezia, giacché le truppe avrebbero raggiunto la loro destinazione via mare. Dapprima riluttante, il doge si convinse infine ad appoggiare l’impresa dopo avere avuto rassicurazione che i partecipanti si sarebbero fatti carico delle spese di costruzione della flotta necessaria a trasportare il gran numero di soldati richiesto. I veneziani
insistettero anche per scegliere la direzione dell’imminente campagna, imponendo che la flotta facesse rotta verso l’Egitto, invece che verso i porti che servivano Gerusalemme. La decisione, stando a qualcuno che era direttamente coinvolto nella preparazione dei piani di guerra, «si tenne segreto che si sarebbe andati a Babilonia … e si dichiarò pubblicamente che si sarebbe andati oltremare». 64 La spedizione progettata offriva un abbinamento perfetto: la salvezza dell’anima unita alla promessa di una cospicua ricompensa terrena per i partecipanti. Le ricchezze dell’Egitto erano leggendarie. Il suo popolo era «dedito a una vita di lussi» scriveva un autore coevo, ed era favolosamente ricco grazie alle «tasse pagate sia dalle città costiere sia da quelle dell’entroterra». Questo, proseguiva l’autore con un sospiro, «generava un grosso flusso di reddito annuo». 65 I veneziani erano fortemente consapevoli della posta in gioco, poiché le tradizionali arterie che li portavano a est avevano subìto le conseguenze di sconvolgimenti e incertezze. Nel quadro delle turbolenze che seguirono i successi del Saladino, cui corrispose a Bisanzio un periodo di instabilità, Venezia aveva un estremo bisogno di farsi spazio ad Alessandria e nei porti alla foce del Nilo, luoghi dove fino ad allora aveva giocato un ruolo modesto: prima del 1200 la quota del commercio veneziano con l’Egitto forse non raggiungeva nemmeno il 10 per cento del totale. 66 La città si era vista superare da Pisa e da Genova, che avevano entrambe un vantaggio decisivo sulla rivale italiana sia come volume di scambi sia nei collegamenti che avevano stabilito con i commerci che transitavano dal mar Rosso, invece che via terra verso Costantinopoli e Gerusalemme. 67 I premi in palio la dicono lunga sul motivo che indusse Venezia ad accollarsi il rischio di costruire una flotta di tali dimensioni, un compito che richiese la sospensione di ogni altra attività per quasi due anni. In ogni caso, divenne ben presto evidente che il numero di coloro che erano ansiosi di partecipare era assai inferiore alle aspettative, cosa che costringeva i veneziani a confrontarsi con un grosso deficit. I crociati si ritrovarono così sopraffatti dagli eventi, finendo per navigare a vista quanto alle scelte politiche. Nel 1202 la flotta arrivò a Zara, sulla costa dalmata, una città che era stata al centro di una
contesa di lunga data tra Venezia e l’Ungheria. Non appena si resero conto dell’imminente attacco, gli abitanti della città, in preda al dubbio, innalzarono sulle mura bandiere con il simbolo della croce, presumendo che si trattasse di un equivoco frutto delle passate discordie, e rifiutandosi di credere che un esercito cristiano potesse attaccare una città cristiana in assenza di provocazione, oltretutto in aperto contrasto con i precisi ordini di papa Innocenzo III. Ma Zara non ebbe scampo: Venezia stava prendendosi la sua libbra di carne dai cavalieri. 68 Mentre discutevano sul modo di giustificare simili azioni e litigavano sui passi successivi da compiere, i crociati si videro offrire un’opportunità d’oro da uno dei pretendenti al trono di Bisanzio, il quale propose loro di ripagarli generosamente se lo avessero aiutato a impadronirsi del potere. Le forze che alla partenza da Venezia avevano fatto rotta verso l’Egitto, ma facendo credere di essere dirette a Gerusalemme, si ritrovarono quindi davanti alle mura della capitale bizantina, a meditare sul da farsi. Dato che le trattative con le fazioni all’interno della città andavano per le lunghe, il dibattito fra i crociati si concentrò su come prendere la città stessa, e soprattutto su come spartirsi tra loro sia la capitale sia il resto dell’impero. 69 Venezia aveva già imparato a proteggere gelosamente i propri interessi nell’Adriatico e nel Mediterraneo, e aveva rafforzato questa posizione assumendo il controllo diretto di Zara. Qui c’era la possibilità di conquistarsi il più prezioso di tutti i premi e, così facendo, assicurarsi l’accesso diretto all’Oriente. Alla fine di marzo 1204 gli uomini cominciarono a prendere posizione per cingere d’assedio la Nuova Roma. L’assalto a oltranza ebbe inizio nella seconda settimana di aprile. Scale, arieti e catapulte, che dovevano contribuire a strappare ai musulmani il controllo delle loro città, furono invece usati contro quella che era ancora di gran lunga la più grande città cristiana del mondo. Le navi che erano state progettate e costruite per porre il blocco ai porti dell’Egitto e del Levante furono impiegate per impedire l’accesso via mare al famoso Corno d’Oro, in piena vista della grande cattedrale di Santa Sofia. Alla vigilia dello
scontro, i vescovi rassicurarono gli occidentali che la guerra «era giusta e che dovevano senz’altro attaccare [i bizantini]». Facendo riferimento a quelle dispute dottrinali che – guarda caso – riaffioravano regolarmente quando in gioco c’erano altre questioni ben più materiali, i preti dissero che si potevano assalire gli abitanti di Costantinopoli in quanto avevano dichiarato che «la legge di Roma non contava nulla e chiamato cani coloro che credevano in essa». I bizantini erano peggio degli ebrei, si sentirono dire i crociati: «[erano] i nemici di Dio». 70 Dopo aver aperto una breccia nelle mura, gli occidentali sciamarono per la città, scatenando il panico e il caos. Spinti a una sorta di esaltazione religiosa dalle parole velenose inoculate nelle loro orecchie, saccheggiarono e profanarono le chiese della città con particolare cura. Presero d’assalto i tesori di Santa Sofia, rubando i vasi adorni di gioielli contenenti le reliquie dei santi e giocando con la lancia che aveva trafitto il costato di Gesù in croce. Furono razziati gli oggetti in argento e altri metalli preziosi usati per celebrare l’eucaristia. Vennero condotti in chiesa cavalli e asini sui quali caricare il bottino, e alcuni scivolarono sui pavimenti di marmo lucido insudiciati da «sangue e sporcizia». E per aggiungere all’offesa l’insulto, una chiassosa prostituta prese posto sulla sedia del patriarca, intonando canzonacce oscene. Visti da un testimone oculare bizantino, i crociati non erano altro che le avanguardie dell’Anticristo. 71 Disponiamo di un numero sufficiente di fonti per affermare che simili racconti non erano un’esagerazione. Un abate occidentale si presentò direttamente alla chiesa del Cristo Pantocratore, fondata nel XII secolo dalla famiglia imperiale. «Mostrami le più preziose reliquie che avete» disse l’abate a un sacerdote «o sarai messo a morte all’istante.» Trovò una cassa piena di tesori della chiesa, nella quale «ficcò voglioso le mani». Quando altri gli chiesero dov’era stato e se avesse rubato qualcosa, tutto ciò che disse, con un sorriso e un cenno d’intesa, fu «ci è andata bene». 72 Non c’è dunque da stupirsi che uno degli abitanti, nel lasciare la città, si gettasse a terra piangendo e rimproverasse le mura perché «erano le sole a essere indifferenti, senza spargere lacrime né essere
state abbattute; immobili, in piedi come sempre». Sembrava che si prendessero gioco di lui: come mai non avevano protetto la città? Fu l’anima stessa di Costantinopoli a essere lacerata dalla furia distruttrice dell’invasione del 1204. 73 Le ricchezze materiali trafugate nella capitale dell’impero finirono in chiese, cattedrali, monasteri e patrimoni privati dell’intera Europa occidentale. Le sculture di cavalli che facevano orgogliosa mostra di sé all’Ippodromo vennero caricate sulle navi e portate a Venezia, dove furono installate sopra l’entrata della cattedrale di San Marco; innumerevoli le reliquie e gli oggetti preziosi traportati nella città lagunare, dove si trovano tuttora, ammirati dai turisti come esempi di arte cristiana di pregiata fattura, mentre si tratta di bottino di guerra. 74 Come se tutto questo non bastasse, l’anno dopo l’assedio di Costantinopoli, alla morte di Enrico Dandolo, l’anziano doge cieco venuto da Venezia per assistere alla presa della città, fu stabilito di seppellirlo a Santa Sofia. Fu il primo uomo della storia a trovare sepoltura nella grande cattedrale. 75 Era un gesto altamente simbolico, che la diceva lunga sull’ascesa dell’Europa. Per secoli, gli uomini avevano guardato a oriente per arricchirsi e realizzare le loro ambizioni, materiali o spirituali che fossero. Il saccheggio e la conquista della più grande e più importante metropoli della cristianità mostrò che gli europei non si sarebbero fermati davanti a niente per prendersi quello che volevano, e che era loro necessario per giungere più vicino al cuore dei luoghi dove giacevano la ricchezza e la potenza del mondo. Gli occidentali erano uomini soltanto all’apparenza, perché di fatto si comportavano come animali, scrisse con toni lugubri un eminente ecclesiastico greco, aggiungendo che i bizantini furono trattati con una crudeltà che non conosceva limiti, le ragazze vergini stuprate e vittime innocenti impalate. La città fu messa a sacco così brutalmente che uno studioso moderno ha parlato di una «generazione perduta» per gli anni che seguirono la quarta crociata, quando l’apparato imperiale bizantino fu costretto a riorganizzarsi a Nicea, in Asia Minore. 76 Nel frattempo, gli occidentali si accingevano a spartirsi l’impero.
Dalla consultazione degli archivi fiscali di Costantinopoli è emerso un nuovo documento, intitolato Partitio terrarum imperii Romaniae (Ripartizione delle terre dell’impero di Romània), che stabiliva chi si sarebbe preso cosa. Non c’era nulla di accidentale né di disordinato, in questo modo di procedere: si trattava di uno smembramento freddamente calcolato. 77 Fin dagli inizi, uomini come Boemondo avevano mostrato che le crociate – che promettevano di difendere la cristianità, compiere l’opera del Signore e offrire la salvezza dell’anima ai tanti che avevano preso la croce – potevano essere dirottate verso ben altri scopi. Il saccheggio di Costantinopoli rappresentò l’inevitabile culmine del desiderio dell’Europa di collegarsi e integrarsi a sua volta con l’Oriente. Mentre l’impero bizantino veniva smantellato, tra gli europei guidati dalle città-Stato italiane di Pisa, Genova e Venezia si scatenò una corsa ad accaparrarsi le regioni, le città e le isole strategicamente ed economicamente più importanti, ognuno a spese degli altri. Le loro flotte si scontravano regolarmente al largo di Creta e di Corfù, mentre ogni contendente faceva a gara per prendere il controllo delle basi migliori e ottenere il più favorevole accesso ai mercati. 78 Anche sulla terraferma si scatenò un aspro confronto per il territorio e il prestigio, che fu particolarmente feroce nelle fertili pianure della Tracia, il granaio di Costantinopoli. 79 Ben presto l’attenzione si spostò sull’Egitto, che nel 1218 divenne l’obiettivo di un’altra spedizione su larga scala. Questa volta il piano era farsi strada con la forza nel delta del Nilo e, di lì, puntare su Gerusalemme. Francesco d’Assisi si aggregò agli eserciti che facevano vela per il Sud, nella speranza di convincere il sultano al-Kāmil a rinunciare all’islam e farsi cristiano: un risultato che nemmeno lui, con il suo carisma, riuscì a ottenere, nonostante gli fosse stato concesso di tentare di persona. 80 Dopo aver preso Damietta, nel 1219, i crociati provarono a marciare sul Cairo, ma il risultato fu una disastrosa sconfitta per mano di quell’al-Kāmil che non si era convertito, e che alla fine costrinse la spedizione a un’umiliante battuta d’arresto. Mentre i comandanti valutavano i termini di un accordo, e discutevano tra loro su quale fosse la giusta linea di azione da
intraprendere a fronte della pesante sconfitta, fu loro riferito quello che sembrava nientemeno che un miracolo. Giunse infatti la notizia di un numeroso esercito in marcia dal cuore dell’Asia per andare in aiuto dei cavalieri occidentali contro l’Egitto. Queste truppe avanzavano travolgendo qualunque avversario, con l’obiettivo di salvare i crociati. Chi fossero i soccorritori in arrivo fu subito ovvio: erano gli uomini del Prete Gianni, sovrano di un vasto regno dalle straordinarie ricchezze i cui abitanti includevano le Amazzoni, i Bramini, le tribù perdute di Israele e una schiera di creature sospese tra il mito e la realtà. Si diceva che il Prete Gianni governasse un regno che, oltre a essere cristiano, era la cosa più vicina possibile al paradiso sulla terra. Le lettere che cominciarono ad apparire nel XII secolo lasciavano pochi dubbi a proposito della sua magnificenza o della gloria del suo reame: «Io, il Prete Gianni, sono il sovrano dei sovrani e supero in ricchezza, virtù e potenza i re della terra intera. Settantadue re mi sono tributari. Sono un cristiano devoto e ovunque difendiamo e soccorriamo con le nostre elemosine i cristiani poveri…». Il suo regno, in cui scorrono latte e miele, è attraversato da un fiume proveniente dal paradiso terrestre, che porta con sé smeraldi, zaffiri, topazi, ametiste e altre pietre preziose. Si produce pepe in quantità e c’è un’acqua che previene in chi la beve l’insorgere di qualunque malattia. 81 Le voci sull’arrivo del Prete Gianni furono sufficienti a influire sul corso delle decisioni prese in Egitto: i crociati dovevano solo mantenere i nervi saldi, e la vittoria era assicurata. 82 Questa vicenda si rivelò una delle prime lezioni per l’esperienza europea dell’Asia. Non sapendo a cosa credere, i crociati tennero in gran conto voci che erano in sintonia con notizie che circolavano da decenni, dopo la sconfitta del sultano Aḥmad Sanjar nell’Asia centrale, negli anni tra il 1140 e il 1150. Questo fatto aveva dato origine a supposizioni incredibilmente contorte e al tempo stesso ottimistiche su ciò che si trovava al di là dell’impero selgiuchide. Quando si sparsero per il Caucaso le voci che queste forze avanzavano come il vento, il pettegolezzo diventò rapidamente un fatto certo: si diceva che i «magi» stavano andando a ovest, muniti di croci e di tende
portatili che potevano diventare chiese. La liberazione della cristianità sembrava a portata di mano. 83 Un’autorità religiosa di Damietta espresse questa idea senza mezzi termini in una predica, affermando che «Davide, re delle due Indie, stava accorrendo in aiuto dei cristiani, portando con sé genti feroci che divoreranno i sacrileghi saraceni come bestie». 84 Ben presto si capì quanto tali notizie fossero infondate. Il lontano rimbombo in arrivo da Oriente non era il Prete Gianni, né suo figlio «Re Davide» né un esercito cristiano, in marcia per aiutare i propri fratelli. Era un fragore che precedeva l’arrivo di qualcosa di totalmente diverso. Quella diretta verso i crociati – e verso l’Europa – non era la via al paradiso, ma un sentiero che pareva condurre dritto all’inferno. Su quel sentiero, galoppavano i Mongoli. 85
IX
LA VIA ALL’INFERNO
I sommovimenti avvertiti in Egitto provenivano dall’altro capo del mondo. Alla fine dell’XI secolo i Mongoli erano una delle tante tribù che vivevano ai margini settentrionali dei territori cinesi ai confini con la steppa, e un contemporaneo diceva di loro che «vivevano come animali, guidati non dalla fede, né dalla legge, semplicemente vagando da un luogo a un altro, come animali selvatici al pascolo». 1 Secondo un altro autore, «consideravano la rapina e la violenza, l’immoralità e la dissolutezza come manifestazioni di virilità e di eccellenza». Anche il loro aspetto era giudicato ripugnante: come gli Unni del IV secolo, indossavano «pelli di cani e topi». 2 Erano queste le descrizioni più comuni degli usi e costumi dei nomadi fornite dagli osservatori esterni. Anche se i Mongoli apparivano disorganizzati, sanguinari e inaffidabili, la loro ascesa non fu il risultato di una mancanza di ordine, semmai proprio l’opposto: una pianificazione spietata, un’organizzazione efficiente e una chiara serie di obiettivi strategici furono la chiave per fondare il più grande impero di terra della storia. La forza ispiratrice della trasformazione dei Mongoli fu un leader di nome Temüjin (fabbro), a noi noto attraverso il suo titolo e soprannome di «sovrano universale» o, forse, «feroce sovrano»: Činggis, o Gengis Khan. 3 Gengis Khan era nato in una famiglia importante all’interno della confederazione delle tribù, e il suo destino era stato predetto fin dalla più tenera infanzia «stringendo nella mano destra un coagulo di sangue delle dimensioni di un astragalo», cosa che era stata interpretata come un segno propizio di glorie future. 4 Nonostante la temibile reputazione guadagnata nel Medioevo e che resiste tuttora,
Gengis Khan edificò la sua posizione e il suo potere lentamente, stringendo accordi con altri capitribù e scegliendo i suoi alleati con astuzia. Era abile anche nell’individuare i nemici e, soprattutto, nel cogliere il momento giusto per colpirli. Riunì intorno a sé i suoi più devoti seguaci sia come guardia del corpo personale sia come gruppo scelto di guerrieri (nökür) a lui più vicini, sui quali poter contare incondizionatamente. Si trattava di un sistema meritocratico in cui capacità e lealtà erano più importanti della provenienza tribale, o della parentela condivisa con il capo. In cambio dell’appoggio totale, il capo garantiva beni materiali, bottino e un certo status. Il genio di Gengis Khan stava nella capacità di profondere siffatti benefici in quantità tali da garantirsi la fedeltà, e di farlo con la regolarità di un metronomo. 5 Ciò era reso possibile da un programma di conquiste pressoché ininterrotte. Gengis Khan assoggettò una tribù dopo l’altra, ora con la forza ora con la minaccia, finché nel 1206 giunse a essere il padrone incontrastato delle steppe della Mongolia. L’attenzione a quel punto si rivolse alla successiva cerchia di popolazioni, come i Kirghisi, gli Oirati e gli Uiguri, che vivevano a ovest della Cina in Asia centrale, le quali si sottomisero giurando solennemente fedeltà. L’incorporazione degli Uiguri, nel 1211, fu particolarmente importante, come risulta evidente dal fatto che il loro capo, Barchuq, dopo che ebbe proclamato la volontà di diventare il «quinto figlio» di Gengis Khan, ebbe in dono una sposa proveniente dalla famiglia dello stesso sovrano. 6 Ciò era in parte dovuto all’importanza delle terre occupate dagli Uiguri nel bacino del Tarim, ma anche al ruolo di rilievo acquisito in Mongolia dalla lingua, dall’alfabeto e da quelli che uno storico moderno chiama i «letterati» uiguri. In ragione dell’elevato livello culturale degli Uiguri, si ebbe un massiccio reclutamento dei loro scribi e burocrati (tra cui un certo Tatar Tonga, che divenne l’istitutore dei figli di Gengis Khan). 7 L’attenzione si rivolse quindi a obiettivi più ambiziosi. In una serie di attacchi sferrati a partire dal 1211, i Mongoli fecero irruzione in Cina, all’epoca sotto il dominio della dinastia Jīn, saccheggiando la capitale Zhongdu e costringendo in diverse occasioni i sovrani a fuggire e a trasferire la capitale più a sud, mentre gli invasori
s’impadronivano di cospicui bottini di guerra. L’espansione fu ancora più impressionante altrove. Il momento scelto non avrebbe potuto essere migliore. Nel corso del XII secolo l’autorità centrale nel mondo musulmano si era indebolita, in concomitanza con l’emergere di un mosaico di Stati di varie dimensioni, potenza e stabilità, ma pronti a sfidare il primato di Baghdad. Nel frattempo, il sovrano del Khwārazm (nell’attuale Uzbekistan) era stato impegnato ad abbattere uno dopo l’altro i suoi rivali locali, con un occhio rivolto a una possibile espansione verso est, nella Cina stessa. A quel punto l’unificazione che ne era derivata fece semplicemente sì che, quando, a tempo debito, i Mongoli lo sconfissero e lo esiliarono in un’isola del mar Caspio, dove il sovrano morì non molto tempo dopo, la porta per l’Asia centrale fosse spalancata: la strada che avevano davanti era priva di ostacoli. 8 Le fonti ci restituiscono un vivido ritratto dell’orrenda ferocia che caratterizzò l’attacco mongolo contro il Khwārazm, iniziato nel 1219. Gli invasori, scrisse uno storico, «arrivarono, distrussero, bruciarono, uccisero, saccheggiarono e se ne andarono». 9 Vorrei non essere mai nato, scriveva un altro, così non avrei dovuto sopportare simili traumi. Almeno l’Anticristo musulmano distrugge soltanto i suoi nemici, proseguiva l’autore; i Mongoli, invece, «non hanno risparmiato nessuno. Hanno ucciso donne, uomini, bambini, dilaniato i corpi delle donne incinte e massacrato i nascituri». 10 I Mongoli coltivavano con cura quelle paure, perché in realtà l’uso che Gengis Khan faceva della violenza era selettivo e deliberato. Il saccheggio di una città era calcolato in modo da indurre le altre a sottomettersi, pacificamente e rapidamente; la teatrale ferocia delle uccisioni serviva a convincere gli altri sovrani che era meglio negoziare che opporre resistenza. Nīshāpūr fu uno dei luoghi che subirono una devastazione totale. Ogni essere vivente – donne, bambini e anziani, e persino il bestiame e gli animali domestici – venne massacrato, poiché era stato dato ordine che nemmeno i cani o i gatti dovessero sopravvivere. Tutti i cadaveri furono accatastati in una serie di enormi piramidi, quali raccapriccianti ammonimenti sulla sorte riservata a chi resisteva ai Mongoli. Fu sufficiente a convincere le
altre città a deporre le armi e a negoziare: si trattava di scegliere tra la vita e la morte. 11 Le notizie sulle brutalità subite da coloro che avevano soppesato troppo a lungo le opzioni che avevano di fronte si diffusero rapidamente. Storie come quella di un alto dignitario che era stato condotto alla presenza di un signore della guerra mongolo appena arrivato, e a cui era stato versato oro fuso negli occhi e nelle orecchie, acquistarono ampia notorietà, così come il fatto che la sua uccisione fu accompagnata dall’annuncio che era la punizione adeguata per un uomo «il cui comportamento vergognoso e i cui precedenti atti di barbarie e crudeltà meritavano il biasimo di tutti». 12 La vicenda era un avvertimento per tutti coloro che avessero accarezzato l’idea di intralciare il cammino dei Mongoli. La sottomissione pacifica era premiata, la resistenza punita brutalmente. L’uso della forza da parte di Gengis Khan era tecnicamente avanzato, e strategicamente astuto. Impegnarsi in lunghi assedi su obiettivi fortificati era difficile e costoso, perché significava dover mantenere una grande armata a cavallo e rischiare di esaurire in breve tempo le risorse del territorio circostante per garantire il fabbisogno di pascoli. Per tale ragione erano tenuti in gran conto gli esperti di tecnica militare, capaci di rendere più rapide le vittorie. Sappiamo che a Nīshāpūr, nel 1221, furono impiegate 3000 balestre giganti, oltre a 3000 catapulte e 700 macchine incendiarie. Più tardi, i Mongoli s’interessarono a fondo alle tecniche ossidionali inizialmente sperimentate dagli europei d’Occidente, copiando i progetti delle catapulte e delle macchine da assedio create per i crociati in Terra Santa e utilizzandole contro i loro obiettivi in Asia orientale alla fine del XIII secolo. Chi era in grado di controllare le Vie della Seta aveva accesso a informazioni e idee che potevano essere replicate e usate a migliaia di chilometri di distanza. 13 Vista la reputazione di cui godevano, risulta strano che gli stupefacenti successi ottenuti dai Mongoli all’inizio del XIII secolo in Cina, in Asia centrale e altrove dipendessero anche dal fatto che non sempre venivano visti come oppressori. E con buone ragioni: nel caso del Khwārazm, per esempio, prima dalla conquista la popolazione
locale era stata obbligata a versare in anticipo l’intera quota annuale di tasse per finanziare la costruzione di nuove fortificazioni intorno a Samarcanda, e in più a sovvenzionare il mantenimento di squadroni di arcieri per contrastare un imminente attacco mongolo. Era sicuramente difficile assicurarsi la benevolenza dei sudditi ponendo un simile fardello sulle spalle delle famiglie. Al contrario, i Mongoli investirono generosamente nelle infrastrutture di alcune delle città conquistate. Un monaco cinese che visitò Samarcanda subito dopo la sua presa rimase stupito nel vedere che vi erano tanti artigiani provenienti dalla Cina, ma anche un gran numero di persone giunte dalle regioni limitrofe, e da più lontano, per aiutare a coltivare i campi e i frutteti prima trascurati. 14 Fu uno schema ripetuto più e più volte: il denaro fluiva nelle città, e queste venivano ricostruite e rivitalizzate, con particolare attenzione alla promozione delle arti, dei mestieri e della produzione. Lo stereotipo dei Mongoli come barbari devastatori è inesatto, e rappresenta il lascito fuorviante della storiografia successiva, che ha enfatizzato sopra ogni altra cosa le rovine e le devastazioni. Questa visione distorta del passato la dice lunga su quanto sia utile, per i sovrani che hanno a cuore la posterità, patrocinare gli storici che scrivano in termini favorevoli del loro regno, una cosa che i Mongoli con tutta evidenza non seppero fare. 15 Ma è altrettanto vero che i Mongoli facevano un tale uso della violenza che la sola notizia di un loro imminente attacco faceva raggelare il sangue. Mentre sciamavano a ovest, a caccia di coloro che avevano opposto resistenza o tentato di fuggire, seminavano il terrore nei cuori e nelle menti. Nel 1221 gli eserciti sotto il comando di due figli di Gengis Khan attraversarono come fulmini l’Afghanistan e la Persia, devastando nella loro avanzata tutto ciò che incontravano. Nīshāpūr, Herat e Balkh furono conquistate, mentre Merv fu rasa al suolo e tutta la sua popolazione – racconta uno storico persiano – sterminata, a eccezione di un gruppo di quattrocento artigiani che furono riportati a est per lavorare alla corte mongola. La terra si tinse di rosso per il sangue dei morti: a quanto pare, uno sparuto gruppo di sopravvissuti contò i cadaveri, calcolandone oltre 1,3 milioni. 16 Il fatto
che anche altre sconvolgenti testimonianze relative a luoghi diversi riportino cifre analoghe ha indotto gli studiosi moderni a usare termini come genocidio, omicidio di massa e massacro del 90 per cento della popolazione. 17 Certo è difficile calcolare con precisione l’ammontare delle vittime provocate dagli attacchi, ma è degno di nota il fatto che molte delle città (anche se non tutte) che, a quanto pare, furono sottoposte a distruttive ondate di assalitori si ripresero abbastanza in fretta, il che fa supporre che gli storici persiani successivi ai quali dobbiamo le nostre informazioni possano aver volutamente sovrastimato gli effetti devastanti degli attacchi mongoli. Ma anche ammesso che le sofferenze inflitte siano state ingigantite, non c’è dubbio che i venti che portavano violenza dall’Est spiravano con una forza tremenda. Ed erano venti implacabili. Non appena le principali città dell’Asia centrale furono distrutte, il Caucaso fu saccheggiato, dopodiché gli invasori comparvero nella Russia meridionale. Erano a caccia di una tribù rivale, i Kipçaki o Cumani, per impartire loro una lezione dopo che avevano osato rifiutare di sottomettersi. Anche se Gengis Khan era morto nel 1227, i suoi eredi si dimostrarono altrettanto intraprendenti, e capaci di successi spettacolari. Poco prima del 1240, dopo i successi straordinari ottenuti in Asia centrale da Ögödei, che divenne il Gran Khan (capo supremo) subito dopo la morte del padre, i Mongoli lanciarono uno degli attacchi più spettacolari nella storia della guerra, allestendo una campagna che surclassò anche quella di Alessandro Magno, in termini di rapidità e di dimensioni. Già una volta, in passato, loro forze si erano riversate dalle steppe nel territorio russo, apparendo «innumerevoli, come locuste», secondo un monaco di Novgorod. «Non sappiamo da dove siano venuti né dove siano scomparsi» scrisse costui. «Dio solo sa perché li mandò a punirci per i nostri peccati.» 18 Come da manuale, quando tornarono i Mongoli chiesero il pagamento di un tributo, minacciando di annientare coloro che si fossero rifiutati. Una dopo l’altra, le città furono attaccate, e Rjazan’, Tver’ e infine Kiev vennero saccheggiate da cima a fondo. A Vladimir, il principe e la sua famiglia, insieme al vescovo della città e altri dignitari, cercarono rifugio nella
chiesa della Santa Madre di Dio. I Mongoli diedero fuoco all’edificio, bruciando vivi i suoi occupanti. 19 Le chiese furono distrutte, scrisse uno dei successori del vescovo, «i calici consacrati insozzati, gli arredi sacri calpestati, e il clero servì a placare l’appetito della spada». 20 Fu come se fossero state liberate delle belve feroci, per divorare le carni dei forti e bere il sangue dei nobili. Dall’Est non erano arrivati il Prete Gianni e la salvezza, ma i Mongoli, portando con sé l’apocalisse. Il terrore che i Mongoli suscitavano si rispecchiò nel nome con cui di lì a poco cominciarono a essere chiamati: Tartari, con riferimento al Tartaro, l’abisso del tormento della mitologia classica. 21 Le notizie sulla loro avanzata arrivarono fino in Scozia, e nei porti della costa orientale della Gran Bretagna, riferisce una fonte, le aringhe rimasero invendute, poiché i commercianti che normalmente venivano dal Baltico per acquistarle non osavano lasciare le loro case. 22 Nel 1241 i Mongoli colpirono il cuore dell’Europa, dividendo in due le loro forze, con un’ala pronta ad attaccare la Polonia e l’altra diretta verso le pianure dell’Ungheria. Il panico si diffuse nell’intero continente, specie dopo che un grande esercito al comando di Mieszko il Grosso e del duca di Silesia venne annientato, e la testa del duca fu fatta sfilare sulla punta di una lancia, insieme a nove sacchi riempiti con «le orecchie dei morti». Le forze mongole a quel punto si spostarono verso ovest. Quando re Béla IV d’Ungheria fuggì in Dalmazia e si rifugiò a Traù, per i sacerdoti venne il momento di dire messa, pregando per essere tenuti lontani dal male, e di guidare processioni per implorare l’aiuto di Dio. Papa Gregorio IX decise di annunciare che chiunque avesse contribuito a difendere l’Ungheria avrebbe ottenuto la stessa indulgenza concessa ai crociati. L’offerta fu accolta con scarso entusiasmo: l’imperatore tedesco e il doge di Venezia erano ben consapevoli delle conseguenze cui sarebbero andati incontro se avessero cercato di intervenire e fossero finiti dalla parte dei perdenti. Se a quel punto i Mongoli avessero deciso di proseguire verso ovest, come sostiene uno studioso moderno, «probabilmente non avrebbero incontrato alcuna resistenza coordinata». 23 Per l’Europa era arrivato il momento della resa dei conti.
Con una faccia tosta quasi degna di ammirazione, alcuni storici coevi presero allora a sostenere che i Mongoli erano stati bloccati da una strenua opposizione, o che addirittura erano stati sconfitti in battaglie immaginarie, che sembravano diventare più reali con il passare del tempo. In realtà i Mongoli, almeno per il momento, erano semplicemente disinteressati a quello che l’Europa occidentale aveva da offrire. La loro priorità era punire re Béla per aver concesso rifugio ai Cumani e, cosa forse ancor più grave, per aver ignorato le ripetute richieste di consegnarli: una simile resistenza doveva essere punita a tutti i costi. 24 «Sono consapevole del fatto che siete un monarca ricco e potente,» si legge in una lettera inviata a Béla dal sovrano mongolo «che avete tanti soldati ai vostri ordini, e che da solo governate un grande regno.» In parole che suonerebbero familiari a qualsiasi professionista dell’estorsione, le cose erano dette apertamente, senza mezzi termini. «È difficile per voi sottomettervi a me di vostra spontanea volontà» prosegue la lettera. «E tuttavia sarebbe molto meglio per le vostre prospettive future, se decideste di farlo.» 25 Nel mondo delle steppe, snobbare un rivale potente era rischioso, quasi come prenderlo di petto: Béla aveva bisogno di una lezione. Fu quindi accanitamente inseguito per tutta la Dalmazia, nonostante ci fossero altre opportunità che si spalancavano altrove. I Mongoli devastarono tutto ciò che incontrarono sul loro cammino, saccheggiando una città in modo così eclatante che un cronista locale rilevò che non era rimasto nessuno, neanche per «pisciare contro un muro». 26 A quel punto, a salvare Béla, e l’Europa, intervenne un enorme colpo di fortuna: Ögödei, il Gran Khan, morì improvvisamente. Per i devoti, era ovvio che le loro preghiere erano state esaudite. I capi mongoli, infatti, ritenevano di vitale importanza presenziare e partecipare alla consegna dello scettro del potere. Non essendoci nulla di simile ai diritti di primogenitura, l’autorità suprema sarebbe stata conferita a colui che avesse sostenuto le proprie ragioni con più forza e convinzione di fronte a un conclave di personaggi eminenti. La scelta di chi appoggiare poteva decidere le sorti della vita e della carriera di un comandante: se un proprio protettore arrivava al
vertice, il corrispettivo poteva essere incredibilmente elevato. Perciò non era il momento per dare la caccia a qualche importuno monarca nei Balcani. Era il momento di trovarsi in patria, a osservare l’evolversi della situazione. E così, i Mongoli allentarono la stretta alla gola dell’Europa cristiana. Anche se è il nome di Gengis Khan a essere sinonimo delle grandi conquiste dell’Asia e degli attacchi ai territori più remoti, il capo mongolo morì nel 1227, quando ebbe termine la fase iniziale di costruzione di un impero in Cina e in Asia centrale, ma prima dei drammatici attacchi contro la Russia e il Medio Oriente, e dell’invasione che mise in ginocchio l’Europa. Fu suo figlio Ögödei a guidare l’espansione che accrebbe enormemente l’estensione del dominio mongolo, architettando campagne che si spinsero nella Penisola coreana, in Tibet, in Pakistan e nell’India del Nord, così come in Occidente. Spetta a Ögödei gran parte del merito per i traguardi raggiunti dai Mongoli, così come qualche responsabilità per la loro temporanea battuta d’arresto: la sua morte, nel 1241, consentì infatti agli avversari di riprendere fiato proprio quando ne avevano più bisogno. Mentre il mondo si fermava a vedere chi avrebbe conquistato il potere, un flusso di inviati partì dall’Europa e dal Caucaso alla volta dell’Asia per scoprire chi fossero questi predoni, da dove venissero, quali fossero i loro costumi, e per cercare di giungere a un accordo con loro. Due gruppi di ambasciatori si fecero latori di lettere nelle quali si chiedeva, in nome di Dio, che i Mongoli non attaccassero i cristiani, e che prendessero in considerazione la possibilità di abbracciare la vera fede. 27 Tra il 1243 e il 1253, quattro diverse ambasciate furono inviate da papa Innocenzo IV, mentre anche il re Luigi IX di Francia inviò una missione guidata da Guglielmo di Rubruck, un monaco delle Fiandre. 28 I resoconti che costoro fecero sui loro viaggi sono crudi e sconcertati, come quelli stilati dai viaggiatori musulmani che esplorarono le steppe nei secoli IX e X. I visitatori europei rimasero affascinati e sgomenti in egual misura. Anche se immensamente potenti, scrisse Guglielmo di Rubruck, i nuovi padroni dell’Asia non
vivevano in città, tranne che nella capitale Karakorum, dove il monaco aveva incontrato il Gran Khan in un’enorme tenda che «era tutta tappezzata di stoffa dorata». 29 I comportamenti e le abitudini di questi popoli erano esotici e incomprensibili. Non mangiavano verdure, bevevano latte di giumenta fermentato, ed erano soliti liberare l’intestino in pubblico, senza curarsi delle persone con cui stavano parlando, e senza allontanarsi dagli altri più che un «tiro di fava». 30 In quel periodo ebbe ampia risonanza in tutta Europa anche il racconto di un altro inviato, Giovanni da Pian del Carpine, che tratteggiava un analogo quadro di squallore, degradazione ed estraneità, un mondo in cui cani, lupi, volpi e pidocchi erano ugualmente considerati cibo. Riferì anche di voci che parlavano di creature che vivevano al di là del territorio dei Mongoli: alcune dotate di zoccoli, altre con teste di cane. 31 Giovanni riportava informazioni inquietanti sulle scene che accompagnarono l’incoronazione del nuovo Gran Khan, Güyüg. L’elenco dei dignitari provenienti dalle regioni, dalle tribù e dai regni che riconoscevano la sovranità mongola rendeva in qualche modo l’idea delle dimensioni stupefacenti dell’impero: erano presenti leader provenienti dalla Russia, dalla Georgia, dall’Armenia, dalle steppe, dalla Cina e dalla Corea, così come non meno di dieci sultani e migliaia di inviati del califfo. 32 A Giovanni fu consegnata una lettera del Gran Khan da portare a Roma. Tutte le terre del mondo sono state conquistate dai Mongoli, affermava la missiva. «Dovreste venire di persona,» diceva al papa «con tutti i principi, e mettervi al nostro servizio.» In caso contrario, ammoniva il Gran Khan, «vi considererò mio nemico». C’era anche un’intransigente risposta alle suppliche del papa che invitavano il sovrano mongolo a diventare cristiano: «Come potete sapere chi viene assolto da Dio, e ne merita la misericordia?» scriveva il khan con asprezza. Tutte le terre comprese tra il punto il cui sorge il sole e quello in cui tramonta sono sotto il mio dominio, proseguiva il messaggio, e questo certamente non giovava alla reputazione del Dio del papa. La lettera recava un sigillo che univa il potere del Gran Khan a quello dell’«eterno Tengri», la suprema divinità delle tradizionali
credenze dei nomadi della steppa. Un dettaglio per nulla promettente. 33 Né era rassicurante il fatto che si stessero studiando piani per nuovi attacchi contro l’Europa centrale, e che venisse concretamente presa in considerazione anche un’offensiva contro il Nord del continente. 34 I Mongoli avevano una visione del mondo che non si accontentava di nulla di meno del dominio globale: conquistare l’Europa era semplicemente il passo successivo più logico nel piano grazie al quale gli eredi di Gengis Khan intendevano estendere il loro potere su nuovi territori. 35 A quel punto, la paura dei Mongoli innescò una partita di domino a sfondo religioso su scala europea. La Chiesa armena intavolò trattative con il Patriarcato greco ortodosso al fine di costruire un’alleanza e di ottenere protezione, nel caso di un futuro attacco. Gli armeni aprirono negoziati anche con Roma, segnalando la loro disponibilità ad accettare l’interpretazione papale in merito alla processione dello Spirito Santo, un tema che in passato aveva provocato molti attriti. 36 I bizantini fecero lo stesso, inviando una missione nella Città Eterna e proponendo la fine dello scisma che aveva spaccato in due la Chiesa cristiana a partire dall’XI secolo, e che, invece di ricomporsi, a seguito delle crociate si era semmai approfondito. 37 I Mongoli riuscirono dove preti e principi d’Europa avevano fallito, riunendo papi e patriarchi: gli attacchi da est, e la minaccia molto concreta che potessero ripetersi, spinsero la Chiesa a ritrovare l’unità. Proprio quando l’armonia religiosa sembrava ormai una certezza, lo scenario cambiò. Dopo la morte inaspettata del Gran Khan Güyüg, nel 1248, si accese tra i capi mongoli una lotta di successione che si risolse solo dopo qualche tempo. Frattanto, ai sovrani dell’Armenia e di Bisanzio fu assicurato che nessuna invasione era imminente. In realtà, secondo Guglielmo di Rubruck, fu l’ambasciatore mongolo inviato presso i bizantini a bloccare l’attacco, dopo essere stato corrotto a peso d’oro. 38 Quel che è certo è che i bizantini disperavano di riuscire a respingere le attenzioni indesiderate dei Mongoli e fecero di tutto per scongiurare l’aggressione. Intorno alla metà del XIII
secolo, per esempio, un’altra delegazione inviata da Karakorum venne condotta a bella posta dalle guide bizantine attraverso impervi territori dell’Asia Minore, e poi costretta ad assistere alla sfilata delle truppe imperiali al momento dell’incontro con l’imperatore. In questo modo, si cercava disperatamente di convincere i Mongoli che non valeva la pena di assalire l’impero, e che comunque, se l’avessero fatto, avrebbero trovato un esercito ad attenderli. 39 Di fatto, i Mongoli decisero di non attaccare per altri motivi: né l’Anatolia né l’Europa erano al centro delle loro attenzioni, per il semplice motivo che altrove c’erano obiettivi più allettanti e sostanziosi. Inviarono dunque spedizioni contro ciò che rimaneva della Cina, finché questa non capitolò del tutto alla fine del XIII secolo. A quel punto la dinastia mongola in carica adottò il titolo imperiale di Yüan e fondò una nuova città là dove sorgeva l’antica Zhongdu. Questa divenne la capitale mongola, destinata a coronare l’obiettivo di assumere il controllo di tutta la regione compresa tra il Pacifico e il Mediterraneo. Una nuova metropoli che ha mantenuto la sua importanza fino ai nostri giorni: Pechino (Beijing). Altre grandi città furono oggetto di notevoli attenzioni. Il nuovo khan, Möngke, concentrò le armate mongole sulle perle del mondo islamico, che caddero una dopo l’altra via via che l’esercito avanzava verso ovest. Nel 1258 i Mongoli raggiunsero le mura di Baghdad e, dopo un breve assedio, seminarono la distruzione. Calarono sulla città «come falchi affamati che attaccano uno stormo di colombe, o come lupi infuriati che assalgono un gregge» scrisse un autore non molto tempo dopo. Gli abitanti della città furono trascinati per le strade e i vicoli, come oggetti, e «ciascuno di essi fu trasformato in un giocattolo». Il califfo al-Musta‘ṣim fu catturato, avvolto in un panno e calpestato a morte dai cavalli. 40 Fu un momento altamente simbolico, destinato a dimostrare chi era il vero detentore del potere nel mondo. Nel corso di queste campagne i conquistatori razziarono un immenso bottino ed enormi ricchezze. Nel Caucaso, secondo una stima effettuata dagli alleati dei Mongoli, i vincitori «sprofondavano sotto il peso dell’oro, dell’argento, delle pietre preziose e delle perle, dei tessuti e dei capi pregiati, dei piatti e dei vasi d’oro e d’argento,
giacché raccolsero soltanto questi due metalli, gemme, perle, tessuti e vesti». Che avessero razziato le stoffe era particolarmente significativo: come per gli Xiongnu al culmine della loro potenza, la seta e i prodotti di lusso servivano all’élite per differenziarsi all’interno del sistema tribale, ed erano quindi molto apprezzati. Spesso i Mongoli richiedevano espressamente tributi sotto forma di stoffe tessute con fili d’oro, mussola color porpora, capi preziosi e sete; all’occasione, si conveniva che i pagamenti venissero effettuati sotto forma di capi di bestiame agghindati di damasco, drappi dorati e gioielli preziosi. Le richieste di «tessuti di seta e oro o di cotone» erano così specifiche, sia per quantità sia per qualità, che il principale studioso in questo campo le ha paragonate a una lista della spesa dettagliata, «allo stesso tempo esigente e informatissima». 41 La notizia del saccheggio di Baghdad fece appena in tempo a diffondersi che già i Mongoli avevano rimesso piede in Europa. Nel 1259 avanzarono in Polonia, saccheggiando Cracovia, per poi inviare una delegazione a Parigi intimando alla Francia di sottomettersi. 42 Allo stesso tempo, un secondo contingente partì da Baghdad verso ovest, puntando contro la Siria e la Palestina. Ciò provocò un panico incontrollato fra i latini che vivevano in Oriente, dove la posizione dei cristiani in Terra Santa era stata rafforzata da una nuova iniezione di energia sotto il segno della croce a metà del XIII secolo. Anche se le spedizioni su larga scala da parte di Federico II, sovrano del Sacro Romano Impero, e poi di Luigi IX di Francia riportarono brevemente Gerusalemme in mani cristiane, erano in pochi a farsi illusioni su quanto potesse durare la presa su Antiochia, Acri e le altre città. Fino alla comparsa dei Mongoli, la minaccia era sembrata provenire dall’Egitto e da un nuovo regime molto aggressivo che aveva conquistato il potere. Ironia della sorte, i nuovi signori egizi appartenevano a una stirpe affine a quella dei Mongoli stessi, nomadi provenienti dalle steppe. Come per il califfato abbaside di Baghdad, che era stato conquistato dai suoi schiavi-soldati reclutati fra le tribù turcomanne delle steppe, così fu per quello del Cairo nel 1250. Nel caso dell’Egitto, i nuovi padroni erano noti come Mamelucchi, essendo in gran parte discendenti di mamalik (schiavi), prelevati dalle
costellazioni tribali a nord del mar Nero e venduti nei porti della Crimea e del Caucaso per prestare servizio nell’esercito egiziano. Tra loro c’erano membri delle tribù mongole che erano stati vittime della tratta degli schiavi e wāfidīyah (letteralmente, «nuovi arrivati»), uomini delle steppe che avevano cercato rifugio al Cairo per sfuggire all’oppressione delle fazioni dominanti nell’ambito delle lotte intestine così frequenti in quelle regioni. 43 Il Medioevo in Europa è visto tradizionalmente come l’epoca delle crociate, della cavalleria e del crescente potere del papato, ma tutti questi eventi erano poco più che collaterali rispetto alle lotte titaniche che si combattevano più a est. Il sistema tribale aveva portato i Mongoli a un passo dalla dominazione globale, grazie alla conquista pressoché totale del continente asiatico. Le porte dell’Europa e del Nord Africa erano ormai spalancate, ed è sorprendente che a quel punto i leader mongoli si siano concentrati non sul primo obiettivo, ma sul secondo. Detto in parole povere, l’Europa non era il trofeo più ambito. L’unico ostacolo che impediva ai Mongoli il controllo del Nilo, della ricca produzione agricola dell’Egitto e della sua posizione come snodo cruciale delle varie rotte commerciali, era un esercito comandato da uomini provenienti anch’essi dalle steppe: questa non era solo una lotta per la supremazia, ma il trionfo di un sistema politico, culturale e sociale. La battaglia per il mondo medievale veniva combattuta tra nomadi dell’Asia centrale e orientale. Di fronte all’avanzata mongola, i cristiani in Terra Santa caddero nel panico. In primo luogo si arrese Antiochia, uno dei gioielli della Corona sotto il controllo dei crociati, mentre Acri raggiunse con i Mongoli un accordo, giudicandoli il minore dei due mali. Appelli disperati furono inviati ai sovrani d’Inghilterra e Francia per implorare aiuti militari. Gli occidentali furono salvati dall’intervento dei loro nemici giurati, i Mamelucchi d’Egitto, che si spostarono verso nord per affrontare l’esercito che stava dilagando in Palestina. 44 Dopo aver spazzato via tutto ciò che si erano trovati davanti per quasi sessant’anni, i Mongoli subirono la prima grave battuta d’arresto ad ‘Ayn Jālūt, nel Nord della Palestina, dove furono sconfitti
nel settembre 1260. Nonostante l’assassinio del loro generale vittorioso, il sultano Quṭuz, vittima di una lotta interna di potere, i Mamelucchi continuarono ad avanzare gagliardamente. E mentre proseguivano la loro marcia, scoprivano che gran parte del lavoro era già stato fatto: per spezzare la resistenza della popolazione locale, i Mongoli avevano saldato città e regioni in un’unica entità. Come Gengis Khan, all’inizio del XIII secolo, aveva beneficiato del consolidamento dell’Asia centrale prima della sua invasione, i Mongoli regalarono involontariamente ai loro nemici la Siria e due importanti città come Aleppo e Damasco, che i Mamelucchi conquistarono senza quasi incontrare resistenza. 45
I cristiani, sia in Terra Santa sia in Europa, assistevano con orrore, senza capire cosa sarebbe successo o cosa il destino avesse in serbo per loro. Ma in poco tempo l’atteggiamento verso i Mongoli cambiò radicalmente. L’Europa cristiana cominciò a capire che, nonostante i traumatici incontri con le terrificanti orde di cavalieri al galoppo oltre le coste settentrionali del mar Nero e nelle pianure ungheresi, i Mongoli potevano anche rivelarsi quei salvatori per i quali erano stati un tempo scambiati, quando erano comparsi per la prima volta. Nei decenni successivi al 1260, dall’Europa e dalla Terra Santa partirono molte missioni per cercare di stringere un’alleanza con i Mongoli contro i Mamelucchi. Frequenti furono anche le ambasciate in direzione opposta, inviate da Hülegü, il principale signore della guerra mongolo in Asia, e da suo figlio Aqaba, la cui disponibilità a negoziare era dettata in primo luogo dall’interesse a utilizzare la potenza marittima occidentale contro l’Egitto e contro i territori che gli egiziani avevano appena conquistato in Palestina e in Siria. Tuttavia, le cose si complicarono quando apparvero i primi veri segnali di attrito tra i Mongoli stessi. Verso la fine del XIII secolo la superficie delle terre in mano ai Mongoli, che si estendevano dal Pacifico al mar Nero, dalle steppe dell’India settentrionale al golfo Persico, era diventata talmente vasta che cominciarono a manifestarsi le prime crepe e i primi scricchiolii. L’impero era sostanzialmente diviso in quattro parti, tra le quali stava crescendo l’ostilità. Il ramo più anziano aveva le proprie basi in Cina; in Asia centrale, detenevano il potere gli eredi di Chagatai, che un autore persiano descrive come «un macellaio e un tiranno», un uomo detestabile, «crudele e sanguinario», la quintessenza del male. 46 A ovest, i Mongoli che dominavano le steppe russe, con continui sconfinamenti nell’Europa centrale, divennero famosi come l’Orda d’Oro, mentre nella Grande Persia, diventata khanato mongolo con il nome di Īlkhānato, governava la dinastia degli Īlkhānidi, dal titolo di «Īl-Khān», che li identificava come ramo cadetto della dinastia mongola. I Mamelucchi seppero sfruttare abilmente le divisioni politiche tribali tra i loro nemici, venendo a patti con Berke, khan dell’Orda
d’Oro, rivale degli Īlkhānidi e già in aperto conflitto con loro. Ciò servì a rafforzare le possibilità di un accordo tra l’Europa cristiana e l’Īlkhānato. Poco prima del 1290 questi piani furono a un passo dal realizzarsi, quando il sovrano dell’Īlkhānato inviò una delegazione guidata dal vescovo uiguro Rabban Sauma presso i principali regni dell’Europa occidentale per definire i termini di un’alleanza militare. Rabban Sauma fu una buona scelta: colto, intelligente e per di più cristiano. Pur con tutta la loro fama di ferocia, i Mongoli erano scaltri quando si trattava di capire gli stranieri. Il più entusiasta di tutti all’idea di piani per un’azione comune era Edoardo I, re d’Inghilterra. Crociato animato da grande passione, Edoardo aveva visitato la Terra Santa nel 1271 ed era rimasto inorridito da ciò che aveva visto. Era già abbastanza brutto, aveva concluso, che i cristiani sembrassero passare più tempo a bisticciare tra loro che a combattere i musulmani. Ma ciò che lo aveva veramente colpito erano stati i veneziani: non solo intrattenevano scambi commerciali con gli infedeli, ma addirittura li rifornivano di materiali per la fabbricazione di macchine da guerra impiegate poi durante gli assedi a città e fortificazioni cristiane. 47 Edoardo fu quindi felice di ricevere il vescovo che arrivava dall’Oriente, al quale mise subito in chiaro che la sua priorità era la riconquista di Gerusalemme. «Non pensiamo ad altro che a questo» disse il monarca inglese a Rabban Sauma, prima di chiedergli di celebrare l’eucaristia per lui e per il suo seguito. Trattò il prelato con onore e rispetto, elargendogli doni e denaro, dopo aver indetto festeggiamenti per celebrare le grandi sorprese che riservava il futuro. 48 Vennero elaborati progetti di collaborazione, con l’obiettivo di assicurare una volta per tutte la Terra Santa alla cristianità. Le aspettative di un imminente trionfo del cristianesimo erano così forti che anche a Roma si tennero processioni per celebrare l’imminente sconfitta dell’islam. Nello spazio di pochi decenni, nell’immaginario europeo i Mongoli erano passati da salvatori a demòni, e viceversa. L’idea che la fine del mondo fosse prossima aveva lasciato il posto alla convinzione che un nuovo inizio fosse a portata di mano. Piani grandiosi, che non approdarono a nulla. Proprio come
nessuna delle varie crociate aveva mai raggiunto gli obiettivi sperati, tutte le belle parole su un’alleanza che doveva spaziare per migliaia di chilometri e coinvolgere il destino delle religioni mondiali non produssero alcun risultato significativo. Quanto a Edoardo I, il sovrano scoprì di avere problemi più scottanti in patria. Anziché formare una grande alleanza con i Mongoli contro l’Egitto musulmano, il re d’Inghilterra fu costretto a puntare verso la Scozia per reprimere la ribellione di William Wallace. Poiché altri sovrani europei avevano preoccupazioni analoghe, la presenza cristiana in Terra Santa ebbe infine termine: due secoli dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei cavalieri della prima crociata, anche le ultime teste di ponte cedettero: Sidone, Tiro, Beirut e Acri si arresero ai Mamelucchi nel 1291. Si scoprì che la buona volontà e l’entusiasmo, da soli, non erano sufficienti a sostenere, salvare o conservare i luoghi che costituivano il cuore della fede cristiana. Per qualche tempo gli occidentali coltivarono false speranze. Nell’inverno del 1299 i Mongoli raggiunsero finalmente l’obiettivo che andavano inseguendo da più di una generazione: infliggere una pesante sconfitta all’esercito mamelucco. La loro vittoria fu talmente clamorosa che in Europa si sparse la voce che Gerusalemme era stata riconquistata dai cristiani d’Oriente, che avevano combattuto a fianco dei loro alleati mongoli. Si disse che il sovrano dell’Īlkhānato si era convertito al cristianesimo ed era diventato il nuovo protettore della Terra Santa. Alcuni resoconti annunciarono trepidanti una notizia ancora migliore: non paghi di aver cacciato i Mamelucchi dalla Siria e dalla Palestina, i Mongoli – a quanto pareva – avevano travolto anche le fortificazioni dell’Egitto e lo avevano conquistato. 49 Sembrava tutto troppo bello per essere vero. I Mongoli avevano effettivamente conquistato un’importante vittoria sul campo, ma i racconti entusiastici non erano altro che malintesi, voci e pie illusioni. La Terra Santa cristiana era persa per sempre. 50 Le crociate avevano svolto un ruolo fondamentale nel plasmare l’Occidente medievale. Il potere del papato si era trasformato, e il papa non era più soltanto un’eminente autorità religiosa, ma anche una figura con un proprio potere militare e politico; le qualità e la
condotta delle élite erano state inquadrate da idee sullo spirito di servizio, la devozione e la pietà cavalleresca; e l’idea del cristianesimo come denominatore comune del continente europeo aveva messo radici. Tuttavia, in ultima analisi, l’esperienza aveva dimostrato che se sul piano ideale la conquista e il governo di Gerusalemme erano stati momenti esaltanti, in pratica si era trattato di un’impresa difficile, costosa e pericolosa. E così, dopo essere stata posta al centro della coscienza europea per due secoli, la Terra Santa scivolò silenziosamente nell’oblio. Come disse il poeta William Blake all’inizio del XIX secolo, sarebbe stato infinitamente preferibile costruire una nuova Gerusalemme in una posizione più accessibile e conveniente, come «nella verde e amena terra d’Inghilterra». 51 Le crociate, in fin dei conti, erano state un fallimento: i tentativi di colonizzare i più importanti luoghi della cristianità non avevano avuto buon esito. Non si poteva dire lo stesso, invece, per le città-Stato italiane, che avevano avuto successo là dove i cavalieri cristiani avevano vacillato. Mentre i devoti cavalieri erano stati respinti, le repubbliche marinare si erano semplicemente adeguate al contesto, con il risultato di approfondire la loro penetrazione nel territorio asiatico. Non solo non avevano alcuna intenzione di cedere le posizioni acquisite, ma, dopo che la Terra Santa era stata perduta, il loro problema non era certo di ridurre il raggio d’azione, semmai di ampliarlo.
X
LA VIA DELLA MORTE E DELLA DISTRUZIONE
Ancor prima della caduta delle città e dei porti del Levante, sia Genova che Venezia si erano adoperate per trovare nuove rotte per i loro commerci, nuove località dove acquistare e vendere merci, nuovi modi per assicurarsi di non essere tagliate fuori dal gioco. Poiché nel corso del XIII secolo le rotte commerciali che passavano per la Terra Santa erano state sempre più strozzate dall’intensificarsi delle tensioni belliche, entrambe le repubbliche avevano stabilito nuove colonie sulla costa settentrionale del mar Nero, in Crimea, allo sbocco del mar d’Azov e nella Cilicia armena, dove la città di Ayas era diventata un nuovo punto di transito per le materie prime e i beni di lusso provenienti dall’Oriente. C’era la possibilità di realizzare enormi guadagni. La differenza di prezzo del grano tra le coste a nord del mar Nero e quelle a sud offriva un’occasione unica alle città-Stato italiane, perché potevano sfruttarla con le loro possenti navi da carico. 1 Queste imbarcazioni, in grado di trasportare enormi quantità di derrate, si rivelarono utili anche per movimentare altre merci, come gli esseri umani. Sia i genovesi sia i veneziani ripresero infatti il commercio degli schiavi su larga scala, comprando prigionieri da vendere all’Egitto dei Mamelucchi, a dispetto dei tentativi del papato di vietare la vendita di uomini, donne e bambini ad acquirenti musulmani. 2 Gli antichi contrasti, però, erano difficili da accantonare. Genova aveva già mostrato fino a che punto fosse disposta ad arrivare pur di schiacciare le rivali, distruggendo quasi completamente la flotta pisana nel 1282 e rifiutandosi poi di restituire gli ostaggi che aveva catturato. Pisa non si riprese mai del tutto dal colpo infertole dall’avversaria. Tra gli uomini presi prigionieri c’era un certo
Rustichello, che aveva già trascorso in carcere più di dieci anni quando s’imbatté in un nuovo compagno di prigionia, anch’egli preso in ostaggio dopo una vittoria navale genovese, questa volta contro i veneziani in Adriatico. Avendo stretto amicizia con lui, Rustichello prese a scriverne le memorie, raccontando la sua vita straordinaria e i suoi incredibili viaggi: dobbiamo quindi ringraziare la brutalità di Genova e la sua irriducibile ostinazione nella lotta per il potere che si combatté nel Medioevo se oggi disponiamo di un resoconto dei viaggi di Marco Polo. I duelli spietati per la supremazia commerciale infuriavano ovunque Venezia e Genova venissero in contatto: ci furono violenti scontri a Costantinopoli, duri confronti nell’Egeo e a Cipro, e battaglie sanguinose nell’Adriatico. Quando Bonifacio VIII negoziò una tregua, nel 1299, le due contendenti erano giunte a una posizione di stallo. Ma l’energia, gli sforzi e i costi richiesti per raggiungere un tale risultato dimostravano in primo luogo quanto fosse importante cercare di stabilire collegamenti con l’Asia. In ogni caso, ne era valsa la pena. Nel 1301, a Venezia fu ampliata la Sala del Maggior Consiglio, essendo stato deciso all’unanimità che non era più sufficiente per contenere tutti i suoi potenti membri, il cui numero era aumentato di pari passo con il progressivo arricchimento della città. 3 Nel caso di Genova, invece, un componimento poetico anonimo della fine del XIII secolo esalta la bellezza della città, «piena di palazzi dalla testa ai piedi», e con un gran numero di torri a ornarne il profilo. Sua fonte di ricchezza era l’abbondante flusso di beni dall’Oriente, tra i quali pellicce di ermellino, di scoiattolo e di altri animali acquistate nelle steppe, così come pepe, zenzero, muschio, spezie, broccati, velluto, panni d’oro, perle, gioielli e pietre preziose. Genova era ricca, proseguiva l’autore, grazie alla rete commerciale che aveva allestito, servita dalle sue galee e dalle sue navi: i genovesi erano sparsi in tutto il mondo, si vantava il poeta, e hanno creato nuove Genova ovunque sono arrivati. In verità, concludeva, era Dio che aveva benedetto la città perché voleva che fiorisse. 4 Alla base dello sviluppo di Venezia e di Genova c’erano soprattutto
l’abilità e la lungimiranza nell’alimentare i desideri sia della clientela locale sia dei commercianti che giungevano da altre città europee per acquistare i prodotti che vi affluivano. L’Egitto e la Terra Santa si erano rivelati troppo volatili ed economicamente rischiosi, sicché il mar Nero divenne rapidamente un’area commerciale di grande importanza. Ma alla base dell’affermazione delle città-Stato italiane c’erano anche l’ottima gestione fiscale dei Mongoli e la loro moderazione nel tassare il commercio. Diverse fonti indicano che i dazi sulle esportazioni che passavano dai porti del mar Nero oscillarono sempre in un range compreso fra il 3 e il 5 per cento del valore totale delle merci. Si trattava di un livello assai competitivo, se confrontato con i pedaggi e i prelievi sui prodotti che transitavano da Alessandria, dove le fonti riferiscono di imposte del 10, 20 e addirittura del 30 per cento. 5 Come sa bene ogni commerciante, i margini di profitto sono fondamentali. C’era quindi un forte incentivo a inviare le merci attraverso il mar Nero, il che non fece altro che valorizzare ulteriormente quella strada per l’Oriente. L’elasticità dei prezzi e un’oculata politica di contenimento della pressione fiscale erano sintomatici del buon senso utilizzato dalla burocrazia dell’impero mongolo, un dato troppo spesso trascurato in quanto offuscato da immagini di violenza e furia distruttrice. In effetti, il successo dei Mongoli non dipese dall’indiscriminata brutalità, ma dalla disponibilità al compromesso e alla collaborazione, grazie allo sforzo incessante per sostenere un sistema che rinnovava il controllo centrale. Anche se in seguito gli storici persiani hanno convintamente affermato che i Mongoli si disinteressavano dell’amministrazione del loro impero, preferendo lasciare ad altri compiti così prosaici, studi recenti hanno rivelato quanto fossero coinvolti dai dettagli della vita quotidiana. 6 La grande impresa di Gengis Khan e dei suoi successori non fu il saccheggio che si è fissato nell’immaginario collettivo, ma i controlli meticolosi messi in atto per consentire a uno dei più grandi imperi della storia di prosperare nei secoli a venire. Non fu un caso, quindi, se la lingua russa arrivò a includere una vasta gamma di prestiti linguistici mutuati direttamente dal vocabolario
dell’amministrazione dell’impero mongolo, e in particolare quelli relativi al commercio e alla comunicazione: i termini che indicano il «profitto» (baryš), il «denaro» (dengi) e la «tesoreria» (kazna) provengono tutti dal contatto con i nuovi padroni dell’Est. Lo stesso accadde per il sistema postale russo, basato sul metodo impiegato dai Mongoli per recapitare i messaggi in modo rapido ed efficiente da un capo all’altro dell’impero, grazie a una fitta rete di stazioni di collegamento. 7 La genialità dei Mongoli era tale, infatti, che le basi per il loro successo a lungo termine furono poste fin dall’inizio. Quando Gengis Khan e i suoi successori ampliarono il loro raggio d’azione, dovettero incorporare nuovi popoli all’interno di un sistema coerente. Le tribù vennero deliberatamente smembrate, e la loro lealtà riorientata verso l’attaccamento alle unità militari e, soprattutto, la fedeltà nei confronti dei sovrani mongoli. I segni distintivi delle tribù, come le diverse acconciature dei capelli, furono cancellati, con l’imposizione di modelli standardizzati. Di solito, le popolazioni che si sottomettevano o venivano conquistate venivano disseminate in varie parti del vasto dominio mongolo, per indebolire i legami di lingua, parentela e identità, e per agevolare il processo di assimilazione. Al posto delle denominazioni etniche furono introdotti nuovi nomi, per sottolineare l’avvio di un nuovo modo di fare le cose. Tutto questo, a sua volta, fu rafforzato da un sistema di gratificazioni centralizzato, in cui venivano ripartiti bottini e tributi: la vicinanza alla dinastia regnante era importante sotto ogni aspetto, il che favoriva a sua volta una meritocrazia diffusa ancorché brutale, in cui i generali di successo mietevano ricche ricompense, mentre chi non era all’altezza veniva rapidamente emarginato. 8 Se le identità tribali venivano cancellate, c’era invece una costante e notevole apertura mentale quando si trattava di questioni di fede. I Mongoli erano tolleranti e per nulla rigidi in materia di religione. Fin dai tempi di Gengis Khan, all’entourage del capo era consentito praticare qualunque dottrina. Lo stesso Gengis «vedeva i musulmani con un occhio di riguardo, così come teneva i cristiani e gli “idolatri” [cioè i buddhisti] in grande considerazione», secondo uno scrittore
persiano più tardo. Nel caso dei suoi discendenti, ciascuno doveva rispondere solo a sé stesso e alla propria coscienza quando si trattava di decidere quale fede abbracciare. Alcuni scelsero l’islam, altri il cristianesimo, «altri ancora aderirono all’antico canone dei loro padri e antenati senza propendere per nessuna». 9 C’era del vero in questo, come presto scoprirono i missionari che si diressero a est alla ricerca di persone da convertire. 10 Nel suo viaggio verso la corte mongola, Guglielmo di Rubruck rimase stupito di incontrare sacerdoti in tutta l’Asia, ma ancor più si meravigliò nel vedere che accettavano di benedire cavalli bianchi ogni primavera, quando le mandrie si radunavano nei pressi di Karakorum; per di più, quelle benedizioni venivano impartite secondo modalità più vicine ai riti pagani che alla dottrina cristiana. 11 Evidentemente, si riteneva utile prendere qualche scorciatoia, un dettaglio di secondo piano rispetto all’obiettivo principale, che era quello di ottenere delle conversioni. Con l’intensificarsi dei contatti tra l’Europa e l’Asia centrale, in Oriente cominciarono di nuovo a sorgere diocesi, anche nelle steppe più lontane, e nella Persia settentrionale furono fondati dei monasteri, per esempio a Tabriz, che divenne sede di una fiorente comunità di monaci francescani. 12 Il fatto che fosse loro consentito di svilupparsi, la dice lunga sul livello di protezione di cui godevano, e sull’atteggiamento tollerante dei Mongoli nei confronti delle diverse confessioni religiose. In realtà, le cose andarono molto oltre. Alla fine del XIII secolo, Giovanni da Montecorvino fu inviato dal papa alla corte del Gran Khan come latore di una lettera che lo invitava a «ricevere la fede cattolica di nostro Signore Gesù Cristo». Anche se la sua missione non ebbe successo, Giovanni si dedicò comunque a convertire quante più persone possibile, pagando riscatti per liberare bambini in cattività, ai quali poi insegnava il latino e il greco, e scrivendo di suo pugno libri di salmi per loro. Con il tempo, forse anche il Gran Khan sarebbe accorso per sentirli cantare durante le cerimonie e sarebbe rimasto affascinato dalla soavità delle loro voci e dal mistero dell’eucarestia. Tale fu il successo di Giovanni che, nei primi anni del XIV secolo, papa Clemente V inviò una missione per nominarlo non al rango di
vescovo, bensì a una posizione ancora più elevata, che rispecchiasse i suoi successi e stimolasse la creazione di una gerarchia ecclesiastica in tutto l’impero mongolo: divenne infatti arcivescovo di Pechino. Dunque, il fallimento delle crociate non significò il fallimento del cristianesimo in Asia. 13 Questa tolleranza religiosa era, in parte, anche un astuto espediente politico. Sembra che gli Īlkhānidi fossero particolarmente abili nel raccontare agli esponenti religiosi ciò che questi volevano sentire. Hülegü, per esempio, disse a un prete armeno di essere stato battezzato da bambino, e la Chiesa in Occidente era così desiderosa di crederci che si diffusero in tutta Europa immagini che raffiguravano il khan mongolo come un santo cristiano. Ad altri, invece, fu raccontata una storia diversa. Ai buddhisti, per esempio, fu assicurato che Hülegü aveva seguito gli insegnamenti che portavano all’illuminazione. Ci furono in tutto l’universo mongolo molti casi di figure di alto rango che si convertirono al cristianesimo per poi passare all’islam, o viceversa, cambiando religione a seconda della convenienza. Quei flemmatici fedeli erano dei veri maestri quando si trattava di diventare qualunque cosa agli occhi di qualunque persona. 14 Conquistare i cuori e le menti fu fondamentale per favorire l’incontrastata espansione dell’impero. Questa strategia si richiamava direttamente all’approccio adottato da Alessandro Magno dopo la vittoria sui persiani, e avrebbe incontrato il favore di storici come Tacito, che aveva aspramente criticato la miopia di una politica fatta di saccheggio e devastazioni indiscriminate. Istintivamente, i Mongoli sapevano come devono comportarsi i grandi costruttori di imperi: dopo la potenza militare, è necessario che entrino in scena la tolleranza e l’amministrazione oculata. La capacità di prendere decisioni astute quando si aveva a che fare con potenziali alleati importanti diede ottimi frutti. In Russia, l’esenzione totale della Chiesa dal pagamento di ogni tipo di imposta e dal servizio militare fu salutata con esultanza, a riprova di come una gestione accorta possa generare un clima favorevole anche dopo una conquista effettuata con modi brutali. 15 Analogamente, delegare le
responsabilità era un modo molto efficace per ridurre animosità e tensioni. Emblematico, ancora una volta, è il caso della Russia, dove a un signore locale fu affidato in esclusiva il compito di riscuotere tasse e tributi, ricevendo in cambio una quota significativa dei proventi. Non per nulla Ivan I, Gran principe di Mosca, divenne noto come «Ivan Kalita», ovvero Ivan «il Riccone»: era stato incaricato della riscossione di imposte e tasse per rimpinguare la tesoreria dei Mongoli, ed evidentemente, nello svolgere il compito, aveva trovato il modo di beneficiare anche sé stesso. La concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di figure fidate come Ivan portò all’affermazione di una dinastia preminente su cui poter fare affidamento e che prosperò a spese delle famiglie rivali. Gli effetti furono profondi e di lunga durata: alcuni studiosi hanno sostenuto che fu il sistema di governo dei Mongoli a porre le basi per la trasformazione della Russia in una vera e propria autocrazia, concentrando il potere nelle mani di un piccolo gruppo di individui destinati a dominare il resto della popolazione, così come i loro pari. 16 Tra preponderanza militare, astuzia politica e tolleranza religiosa, lo schema adottato dai Mongoli per raggiungere il successo è lontano dalla percezione che comunemente abbiamo di loro. Ma, pur con tutta la loro efficienza, essi ebbero anche la fortuna di arrivare al momento giusto. In Cina trovarono un mondo che aveva conosciuto crescita demografica, espansione economica e sviluppo tecnologico, a seguito di un forte aumento della produttività agricola; 17 in Asia centrale ebbero a che fare con staterelli divisi, lacerati dalle rivalità e pronti per un processo di unificazione; in Medio Oriente e in Europa vennero a contatto con società che erano, al tempo stesso, avvezze alla moneta e sempre più stratificate, in grado cioè di pagare tributi in contanti, e le cui popolazioni avevano sia la disponibilità economica sia una smodata bramosia di articoli di lusso. Tra l’Asia e l’Europa, Gengis Khan e i suoi successori non solo si erano imbattuti in un mondo che poteva offrire un copioso raccolto, ma entrarono anche in una vera e propria età dell’oro. 18 Così come le conquiste islamiche del VII secolo avevano avuto un
profondo impatto sull’economia globale, grazie alle tasse, ai pagamenti e ai contanti affluiti verso il centro da tutti gli angoli del pianeta, altrettanto accadde per i successi dei Mongoli nel XIII secolo, che rimodellarono il sistema monetario eurasiatico. In India furono introdotti nuovi rituali e svaghi provenienti dal mondo delle steppe, come le processioni cerimoniali in cui la sella del sovrano carica di ornamenti veniva fatta sfilare con ostentazione al suo cospetto. 19 In Cina, nel frattempo, le abitudini culinarie cambiarono con l’adozione di sapori, ingredienti e stili di cucina graditi ai nuovi signori delle steppe. Testi come lo Yinshan zhengyao, un manuale di alimentazione che elenca «cose giuste ed essenziali per i cibi e le bevande dell’Imperatore», includono molti piatti influenzati dalla cucina e dai sapori dei nomadi, e mettono l’accento sulla bollitura del cibo come metodo preferito di cottura. 20 Utilizzare tutte le parti della carcassa di un animale, una pratica abituale per coloro che traggono il loro sostentamento dal bestiame, divenne un’abitudine diffusa. Kublai Khan era legato ai cibi dei suoi antenati, e si dice che presso la sua corte venissero servite prelibatezze come latte fermentato, carne di cavallo, gobba di cammello e zuppa di montone addensata con granaglie. 21 Se non altro, queste pietanze suonano più appetibili rispetto a quelle annoverate in un manuale di cucina trecentesco, come il polmone di pecora o una pasta a base di grasso ricavato dalla coda o dalla testa di una pecora. 22 Anche l’Europa avvertì l’impatto culturale delle conquiste mongole. Mode totalmente nuove furono importate e influenzate dall’emergere del nuovo impero. Lo stile mongolo divenne di successo, una volta che si furono placate le prime ondate di panico. In Inghilterra, 250 strisce di panno «tartaro» blu scuro furono usate per realizzare le insegne del più antico e più importante ordine cavalleresco del paese, l’Ordine della Giarrettiera. Al torneo di Cheapside, nel 1331, la cerimonia di apertura vide sfilare uomini con indosso splendidi costumi tartari e maschere che li rendevano simili a guerrieri mongoli. Le influenze orientali furono all’origine anche dello hennin, l’accessorio di moda più caratteristico in tutta l’Europa rinascimentale. Il copricapo conico preferito dalle dame, così
frequente nella ritrattistica dal XIV secolo in avanti, sembra essere stato direttamente ispirato dai tipici cappelli indossati alla corte mongola in questo periodo. 23 Ma le conquiste mongole ebbero altri e più consistenti effetti, perché servirono a trasformare le economie europee. All’ininterrotto flusso di inviati presso la corte dei khan seguì quello di missionari e mercanti che ne calcarono le orme. Improvvisamente l’Asia intera, e non solo i mongoli, entrò nel campo visivo dell’Europa. I racconti dei viaggiatori venivano letti con voracità da coloro che volevano saperne di più su quel mondo esotico che tutt’a un tratto si spalancava a oriente. Le storie erano accolte con stupore. Secondo Marco Polo, al di là della Cina c’era un’isola dove il palazzo del sovrano aveva tetti e pareti d’oro spessi diversi centimetri. In India, rivelava il medesimo autore, c’erano dei profondi burroni pieni di diamanti ma infestati dai serpenti, dove venivano gettati pezzi di carne allo scopo di attrarre le aquile. Queste, dopo aver recuperato la carne, sarebbero risalite portando anche le gemme che vi erano rimaste incastonate, in modo che fosse più semplice raccoglierle. Il pepe, annotava un altro viaggiatore dell’epoca, proveniva da paludi piene di coccodrilli che dovevano essere scacciati spaventandoli con il fuoco. Nei resoconti dei viaggiatori coevi la ricchezza dell’Oriente era favolosa, in netto contrasto con le condizioni dell’Europa. 24 Questa conclusione non doveva essere né sorprendente né nuova. Erano temi familiari, presenti già in quei testi classici che ora cominciavano a essere rispolverati, in concomitanza con lo sviluppo sociale ed economico dell’Europa continentale e con il riemergere della curiosità intellettuale. Le testimonianze di Marco Polo e di altri richiamavano quelle di Erodoto, Tacito, Plinio e persino il Cantico dei Cantici, testi nei quali si raccontava di pipistrelli che usavano gli artigli per custodire paludi dove cresceva la cassia, di serpenti velenosi volanti che proteggevano le piante aromatiche in Arabia, o di fenici che costruivano nidi di cannella e incenso che poi riempivano con altre spezie. 25 Naturalmente, la mistica dell’Oriente, e con essa i racconti dei
pericoli insiti nella ricerca di beni così rari e ambiti, erano strettamente collegati alle aspettative sui prezzi che quei beni avrebbero spuntato, una volta portati in Europa. Di sicuro i beni, i manufatti e le spezie che era rischioso produrre e raccogliere sarebbero stati molto costosi. 26 Per garantire una maggiore informazione, verso il 1300 iniziarono ad apparire manuali e compendi su come affrontare i viaggi e il commercio in Asia, e, soprattutto, su come pagare il giusto prezzo. «In primo luogo, è necessario lasciarsi crescere una lunga barba e non radersi» scrisse Francesco Pegolotti, autore del più famoso manuale di questo periodo, che si raccomandava di portare con sé una guida per il viaggio: i risparmi che si potevano ottenere con essa sarebbero stati sicuramente superiori alla spesa necessaria per acquistarla, era il suo consiglio. Ma le informazioni più importanti da lui fornite erano quelle relative a quali imposte si dovevano pagare e dove, a quali fossero le differenze di pesi, misure e monete, e quale fosse l’aspetto delle varie spezie, e il rispettivo valore. Nel mondo medievale, come in quello moderno, lo scopo di queste guide era quello di evitare delusioni e ridurre le probabilità di essere imbrogliati da commercianti senza scrupoli. 27 Il fatto che lo stesso Pegolotti non venisse da Venezia o da Genova, le due potenze europee del XIII e XIV secolo, ma da Firenze, era in sé rivelatore. C’erano nuovi arrivati che desideravano anch’essi fare la loro parte in Oriente, acquistando spezie, sete e tessuti provenienti da Cina, India e Persia e da altri paesi: per esempio, i mercanti di Lucca e di Siena frequentavano assiduamente Tabriz, Ayas e altri centri del commercio orientale. Il senso dei nuovi orizzonti che si aprivano non è mai stato rappresentato meglio che nella mappa appesa nella Sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena: progettata per essere ruotata a mano, l’immagine mostrava un mondo centrato sulla città toscana, e definiva le distanze, le rotte mercantili e la rete di agenti, contatti e intermediari senesi, che si spingeva fino all’Asia più lontana. Anche le città minori del Centro Italia stavano cominciando a guardare a est in cerca di nuove idee e di nuovi profitti, e tentavano di stabilire propri collegamenti con le Vie della Seta. 28
Fondamentale per l’espansione europea fu la stabilità che i Mongoli garantivano in tutta l’Asia. Nonostante le tensioni e le rivalità tra i diversi rami ai vertici delle tribù, il principio di legalità veniva strenuamente salvaguardato quando si trattava di questioni commerciali. Il sistema stradale cinese, per esempio, suscitava l’invidia dei visitatori, che restavano meravigliati dalle misure amministrative adottate per garantire la sicurezza ai commercianti in viaggio. «La Cina è il paese più sicuro, il migliore per il viaggiatore» scrisse l’esploratore trecentesco Ibn Baṭṭūṭa; laggiù era in funzione un sistema di segnalazioni che, a quanto pare, rendeva conto quotidianamente di ogni straniero presente nel paese, e così «un uomo viaggia da solo per nove mesi portando con sé grandi ricchezze senza aver nulla da temere». 29 Era un’opinione condivisa da Pegolotti, il quale sosteneva che il percorso dal mar Nero fino alla Cina era «perfettamente sicuro, sia di giorno sia di notte». Ciò era in parte il risultato delle tradizionali credenze dei nomadi sui doveri di ospitalità verso gli stranieri, ma era anche funzionale a una visione più ampia che puntava a incentivare il commercio. In questo senso, il livello ultracompetitivo delle imposte riscosse sulle merci che transitavano dal mar Nero trovarono un’evidente eco dall’altra parte dell’Asia, dove il commercio marittimo che passava per i porti cinesi sul Pacifico conobbe a sua volta un notevole sviluppo grazie agli sforzi compiuti per aumentare le entrate doganali. 30 Un settore in cui questi fattori si rivelarono decisivi fu quello dell’esportazione dei tessuti, la cui produzione ricevette un notevole impulso nel XIII e XIV secolo. A Nīshāpūr, Herat e Baghdad le manifatture tessili furono appositamente ingrandite, mentre la sola città di Tabriz crebbe di quattro volte nel corso di poco più di un secolo per accogliere commercianti, artigiani e manodopera, ai quali, nel periodo successivo alle conquiste mongole, veniva riservato un ottimo trattamento. Anche se nei mercati orientali c’era una domanda pressoché inesauribile di stoffe e tessuti di qualità, a partire dalla fine del XIII secolo quantitativi sempre crescenti vennero esportati in Europa. 31
Gli orizzonti si stavano ampliando in tutto il mondo. In Cina, porti come Canton fungevano da tempo da finestre sul mondo dell’Asia meridionale. I principali centri commerciali erano ben noti ai mercanti persiani, ai geografi arabi e ai viaggiatori musulmani, che ci hanno lasciato resoconti della vivace vita di strada delle città della costa e dell’interno, e descrizioni di una popolazione operosa e cosmopolita. Tale era il livello di interazione e di scambio che il persiano e l’arabo fornirono molti prestiti linguistici e modi di dire ancora comuni nel cinese moderno. 32 Per contro, la conoscenza che la Cina aveva del mondo esterno era decisamente imprecisa e limitata. Lo dimostra chiaramente un testo dei primi anni del XIII secolo, scritto da un funzionario imperiale addetto al commercio con l’estero a Canton, nella Cina meridionale, un luogo che vantava uno straordinario porto naturale nel delta del Fiume delle Perle. Il resoconto, destinato a mercanti, marinai e viaggiatori, tenta coraggiosamente di spiegare le pratiche commerciali in uso in tutto il mondo di lingua araba e non solo, elencando le merci che si potevano acquistare e vendere, e descrivendo quello che i commercianti cinesi potevano aspettarsi. Ma, come molti altri racconti di viaggiatori dell’epoca, è pieno di inesattezze e di credenze quasi mistiche. Mecca, per esempio, non era certo il luogo che ospitava la casa del Buddha e in cui i buddhisti si recavano una volta all’anno in pellegrinaggio; né esisteva alcun paese dove le donne s’ingravidavano «esponendosi nude a tutta la forza del vento del Sud». In Spagna i meloni non avevano un diametro di circa due metri e non bastavano a sfamare oltre venti persone; né era vero che in Europa le pecore crescevano fino all’altezza di un uomo adulto, e che ogni primavera si poteva aprirle, asportare una decina di chili di grasso e poi ricucirle senza alcun effetto collaterale. 33 Quando gran parte dell’Asia fu riunita sotto il dominio mongolo, tuttavia, i collegamenti commerciali via mare subirono un netto miglioramento, in particolare in luoghi d’importanza strategica ed economica, come il golfo Persico, che le nuove autorità, desiderose di incoraggiare gli scambi commerciali a lunga distanza e di incrementare i ricavi, tenevano attentamente sott’occhio. 34 Di
conseguenza, durante il XIII secolo il clima culturale a Canton divenne di gran lunga più consapevole e meno provinciale. Negli anni Settanta del XIII secolo la città divenne il punto nevralgico delle importazioni ed esportazioni cinesi via mare. Per ogni nave che salpava alla volta di Alessandria carica di pepe destinato alle terre cristiane, riferì Marco Polo alla fine del XIII secolo, più di cento entravano nel porto cinese. Un’affermazione che trova una chiara eco in ciò che scrisse di lì a poco Ibn Baṭṭūṭa a proposito del centinaio di vascelli, oltre a innumerevoli imbarcazioni più piccole, che vide veleggiare nel golfo di Quanzhou al momento del suo arrivo in città. 35 Il traffico commerciale nel Mediterraneo era grande, ma nel Pacifico era enorme. L’importanza di questa città cinese come scalo commerciale è testimoniata da prove ben più consistenti di quelle fornite da fonti scritte ambigue o inaffidabili. 36 Un naufragio nella baia di Canton avvenuto proprio in quel periodo rivela che lì venivano importate merci da tutta l’Asia meridionale e, con ogni probabilità, anche dal golfo Persico e dall’Africa orientale. Spezie, incenso, ambra grigia, vetro e cotone costituivano solo una parte del prezioso carico affondato al largo della costa cinese nel 1271 o poco dopo. 37 Il mar Cinese meridionale era attraversato da un numero di mercanti ancora maggiore, che stabilivano postazioni commerciali a Sumatra, nella Penisola malese e, soprattutto, sulla costa di Malabar, nell’India meridionale, da dove provenivano le più grosse forniture di pepe del mondo, da tempo affermatosi come merce preferita in Europa, in Cina e nel resto dell’Asia. 38 Verso la metà del XIV secolo le navi che facevano rotta per città come Kozhikode erano talmente numerose che alcuni osservatori commentarono che tutti i trasporti marittimi e i viaggi in questa parte del subcontinente indiano avvenivano grazie alle imbarcazioni cinesi. Un esempio della loro tipica struttura a fondo piatto è stato recentemente identificato in un relitto naufragato al largo delle coste del Kerala. 39 In questo commercio a lunga distanza, il lubrificante era l’argento, che aveva assunto la funzione di moneta unica in tutta l’Eurasia. Una delle ragioni fu l’innovazione nel credito finanziario avvenuta in Cina
prima dell’epoca di Gengis Khan, con l’introduzione delle cambiali e l’uso della cartamoneta. 40 Adottate e migliorate dai Mongoli, tali novità ebbero l’effetto di liberare enormi quantità di argento nel sistema monetario, di pari passo con l’affermazione delle nuove forme di credito. La disponibilità del metallo prezioso crebbe improvvisamente, provocando una notevole correzione del suo valore rispetto all’oro. In alcune parti d’Europa il valore dell’argento crollò, fino a dimezzarsi tra il 1250 e il 1338. 41 Nella sola Londra, l’aumento dell’offerta d’argento consentì alla zecca reale di incrementare di oltre il quadruplo la sua produzione nel solo intervallo tra il 1278 e il 1279. Le emissioni monetarie crebbero notevolmente anche in tutta l’Asia. Nelle steppe la monetazione decollò quando i capi dell’Orda d’Oro iniziarono a coniare monete in grandi quantità, 42 una pratica che prese piede anche in nuove regioni. Il Giappone, che si era affidato largamente al baratto o ai pagamenti in prodotti come il riso quale merce di scambio, passò a un’economia monetaria e divenne sempre più attivo nel commercio a lunga distanza. 43 Tuttavia, l’effetto più importante delle conquiste mongole sulla trasformazione dell’Europa non fu conseguenza del commercio o della guerra, della cultura o della moneta. A scorrere lungo le arterie che collegavano il mondo non erano solo feroci guerrieri, merci, metalli preziosi, idee e mode. In realtà, qualcosa di completamente diverso era entrato in quel flusso sanguigno e produsse un impatto molto più profondo: la malattia. Un’epidemia di peste scoppiò in Asia, in Europa e in Africa, minacciando di sterminare milioni di persone. I Mongoli non avevano distrutto il mondo, ma adesso appariva più che probabile che potesse distruggerlo la «peste nera». Oltre a ospitare bestiame e nomadi per migliaia di anni, la steppa eurasiatica costituisce anche uno dei più grandi bacini di peste del mondo, con una serie di focolai collegati che si estendono dal mar Nero fino alla Manciuria. Le condizioni ambientali del paesaggio arido e semiarido si prestano perfettamente alla diffusione del batterio Yersinia pestis, che viene trasmesso da un ospite all’altro principalmente dalle pulci, che si nutrono di sangue. La peste venne
diffusa nel modo più efficace e rapido da ospiti roditori come i ratti, ma anche i cammelli potevano a loro volta infettarsi e avere un ruolo importante nella trasmissione, come ha dimostrato una ricerca condotta in Unione Sovietica negli anni della guerra fredda nell’ambito del programma di guerra biologica. 44 Anche se la peste può propagarsi attraverso il consumo o la manipolazione di tessuti dell’ospite o l’inalazione di sostanze infette, la trasmissione agli esseri umani avviene più comunemente attraverso le pulci, che vomitano bacilli nel sangue prima di alimentarsi, o attraverso i bacilli presenti nelle loro feci, quando entrano in contatto con abrasioni epidermiche. I bacilli vengono poi trasportati ai linfonodi, soprattutto quelli ascellari o inguinali, e si moltiplicano rapidamente provocando gonfiori o bubboni che Boccaccio, il quale sopravvisse all’epidemia, ha descritto grandi come una mela, o delle dimensioni «alcune più e alcun’altre meno» di un uovo. 45 Altri organi vengono poi infettati a loro volta; le emorragie causano sanguinamenti interni e quelle caratteristiche sacche nere di pus e sangue che rendono la malattia non solo letale, ma anche terrificante a vedersi. Una recente ricerca sulla peste e lo Yersinia pestis ha evidenziato l’influsso cruciale dei fattori ambientali sul ciclo enzootico: cambiamenti apparentemente insignificanti possono trasformare la malattia da localizzata e arginabile a diffusa su larga scala. Minime differenze nella temperatura e nelle precipitazioni, per esempio, possono cambiare drasticamente i cicli riproduttivi delle pulci, decisivi per il ciclo di sviluppo del batterio stesso, e altrettanto accade per il comportamento dei roditori ospiti. 46 Un recente studio ipotizza che potrebbe bastare l’innalzamento della temperatura di un solo grado per aumentare del 50 per cento la probabilità di diffusione della peste nel grande gerbillo, il principale roditore ospite dell’ambiente della steppa. 47 Anche se non è ancora ben chiaro dove abbia esattamente avuto origine l’epidemia della metà del XIV secolo, la peste si diffuse rapidamente all’inizio degli anni Quaranta, quando varcò le steppe e penetrò in Europa, in Iran, nel Medio Oriente, nell’Egitto e nella Penisola arabica. 48 E prese veramente piede nel 1346, quando quella
che un contemporaneo italiano descrisse come «una misteriosa malattia che portava a una morte improvvisa» iniziò a imperversare attraverso l’Orda d’Oro fino al mar Nero. Un esercito mongolo che, a seguito di una disputa sulle condizioni commerciali, stava assediando l’insediamento genovese di Caffa (l’odierna Feodosia), in Crimea, fu annientato da una malattia che, secondo una fonte dell’epoca, uccideva «migliaia e migliaia di persone ogni giorno». Prima di ritirarsi, però, i Mongoli «ordinarono di collocare i cadaveri sulle catapulte e di scagliarli nella città, nella speranza che la puzza insopportabile avrebbe ucciso tutti all’interno». Anziché il fetore, fu il morbo altamente contagioso a prevalere. Senza saperlo, per sconfiggere il nemico i Mongoli avevano fatto ricorso alla guerra biologica. 49 Le rotte commerciali che collegavano l’Europa al resto del mondo divennero autostrade letali per la trasmissione della peste nera. Nel 1347 la malattia raggiunse Costantinopoli e poi Genova, Venezia e il Mediterraneo, portata dai commercianti e dai mercanti che tornavano precipitosamente a casa. Quando la popolazione di Messina capì che c’era qualcosa che non andava in quei genovesi che erano arrivati coperti di bolle e vomitavano in continuazione, tossendo sangue prima di morire, era già troppo tardi: le galere genovesi furono allontanate, ma la malattia si era ormai diffusa, decimando la popolazione. 50 L’epidemia dilagò rapidamente verso nord, raggiungendo le città della Francia settentrionale e della Baviera verso la metà del 1348. A quel punto, le navi che entravano nei porti britannici avevano già portato «la prima pestilenza … diffusa da mercanti e marinai». 51 Erano talmente numerose le persone che cominciarono a morire tra le città e i villaggi dell’Inghilterra che il papa nella «sua clemenza concesse l’indulgenza plenaria per i peccati confessati». Secondo una stima contemporanea, meno di un decimo della popolazione sopravvisse; diverse fonti riferiscono che i morti erano così numerosi che non c’erano abbastanza uomini per seppellirli. 52 Anziché merci pregiate, le navi che attraversavano il Mediterraneo portavano morte e devastazione. L’infezione non si propagava solo
mediante il contatto con le vittime della peste o con i topi, ospiti immancabili nei viaggi marittimi; anche le merci nella stiva si trasformavano in carichi letali, dal momento che le pulci infestavano le pelli e gli alimenti destinati al continente europeo e ai porti dell’Egitto, del Levante e di Cipro, dove le prime vittime di solito erano i bambini e i giovani. In breve il morbo si diffuse lungo la rotta delle carovane dirette a Mecca, uccidendo schiere di pellegrini e di studiosi, e provocando un serio esame di coscienza: si diceva che il profeta Muḥammad avesse promesso che la peste che aveva devastato la Mesopotamia nel VII secolo non sarebbe mai arrivata alle città sante dell’islam. 53 A Damasco, scrisse Ibn al-Wardī, la peste «si assise come un re su un trono ed esercitò il suo potere, uccidendo ogni giorno un migliaio o più di persone e decimando la popolazione». 54 Le strade fra il Cairo e la Palestina erano disseminate di cadaveri, mentre i cani dilaniavano i corpi ammucchiati contro le pareti delle moschee di Bilbeis. Nel frattempo, nella regione di Asyūṭ, nell’Alto Egitto, il numero dei contribuenti passò da 6000 – quello di prima della peste – a soli 116, con un calo del 98 per cento. 55 Pur ammettendo che simili riduzioni della popolazione potrebbero dipendere anche dal fatto che la gente fuggiva dalle proprie case, il bilancio delle vittime era senz’altro spaventoso. «Alcuno senno né umano provedimento» erano in grado di impedire la diffusione della malattia, scrisse Boccaccio nella sua introduzione al Decamerone; nel giro di tre mesi, annotò, oltre 100.000 persone avevano perso la vita nella sola Firenze. 56 Venezia era quasi del tutto spopolata: i resoconti concordano nello stimare che non meno di tre quarti dei suoi cittadini morirono durante l’epidemia. 57 A molti, tutto ciò parve un preavviso della fine del mondo. In Irlanda, un frate francescano concluse il suo racconto delle devastazioni causate dalla peste lasciando uno spazio in bianco «per continuare [la mia] opera, nel caso vi fosse qualcuno ancora vivo nel futuro». 58 C’era la sensazione che l’apocalisse fosse imminente; in Francia i cronisti riferirono che «piovvero rane, serpenti, lucertole, scorpioni e molti altri animali velenosi del genere». Giungevano
segnali dal cielo che esprimevano in modo evidente il malcontento di Dio: enormi chicchi di grandine colpirono la terra, uccidendo decine di persone, mentre città e villaggi bruciarono dopo essere stati colpiti da fulmini che produssero un «fumo puzzolente». 59 Alcuni, come il re d’Inghilterra Edoardo III, si diedero al digiuno e alla preghiera, ordinando ai vescovi di seguire il suo esempio. Manuali arabi scritti intorno al 1350 consigliavano ai fedeli musulmani di fare più o meno lo stesso, ricordando che dire una particolare preghiera undici volte poteva essere d’aiuto, e che recitare versetti relativi alla vita di Muḥammad poteva proteggerli dai bubboni. A Roma si tennero processioni solenni nelle quali i penitenti spaventati marciavano a piedi nudi indossando il cilicio e si flagellavano per mostrarsi pentiti dei propri peccati. 60 Questi tentativi di placare l’ira di Dio erano tra i meno creativi. Un prete in Svezia esortò ad astenersi dal sesso e da «ogni desiderio carnale verso le donne», e invitò anche a non fare il bagno, e a evitare il vento del Sud, almeno fino all’ora di pranzo. Se in questo caso ci si limitava a sperare per il meglio, un suo omologo in Inghilterra fu più diretto: le donne dovevano indossare abiti diversi, spiegò un sacerdote inglese, per il loro bene e per il bene di tutti. Il loro abituale abbigliamento stravagante e rivelatore non faceva che invocare una punizione divina. I guai erano iniziati quando «avevano cominciato a portare piccole cappe inutili, legate e abbottonate così strettamente alla gola che coprivano solo le spalle». E non era tutto, perché «in aggiunta, indossavano paltok, indumenti molto corti … che non riuscivano a coprire le natiche o le parti intime». A parte tutto, «questi abiti deformi e stretti non consentono loro di inginocchiarsi innanzi a Dio e ai santi». 61 In Germania circolarono voci incontrollate secondo le quali la malattia non aveva cause naturali, ma era il risultato dell’avvelenamento di pozzi e fiumi per mano degli ebrei. Si scatenarono feroci pogrom, e una cronaca riferisce che «tutti gli ebrei tra Colonia e l’Austria» vennero rastrellati e bruciati vivi. Questi scoppi di antisemitismo furono talmente crudeli che intervenne il papa, vietando solennemente qualsiasi azione violenta contro le
popolazioni ebraiche in ogni paese cristiano, e chiedendo il rispetto dei loro beni e delle loro attività. 62 La reale efficacia di tali interventi era un altro discorso. Non era la prima volta, dopotutto, che la paura del disastro, la miseria e l’eccessivo zelo religioso avevano condotto a estesi massacri della minoranza ebraica in Germania: c’erano state terribili sofferenze in Renania, al tempo della prima crociata, in circostanze in qualche modo analoghe. Era pericoloso avere credenze diverse, nei momenti di crisi. L’Europa perse almeno un terzo della sua popolazione a causa della peste, forse anche di più: stime prudenti parlano di circa 25 milioni di morti, su una popolazione totale presunta di 75 milioni. 63 Studi condotti su episodi di pestilenza più recenti hanno anche dimostrato che, durante le grandi epidemie, i piccoli villaggi e le aree rurali registrano livelli molto più elevati di mortalità rispetto ai centri urbani. Sembra che il fattore determinante nella diffusione del contagio non sia la densità della popolazione umana, come si pensava in passato, ma quella delle colonie di ratti. La malattia si diffonde meno rapidamente in un ambiente urbano affollato, in cui per ogni colonia di roditori infetti ci sono più famiglie che in campagna. Di fatto, la fuga dalle città e dai paesi verso le campagne non aumentava le probabilità di sfuggire alla morte. 64 Dai campi e dalle fattorie fino ai paesi e alle città, la peste nera creò l’inferno in terra: cadaveri in putrefazione, grondanti di pus, che si stagliavano su un fondale di paura, ansia e incredulità di fronte alle dimensioni della tragedia. Gli effetti erano devastanti. «Le nostre antiche speranze sono sepolte con gli amici» scrisse il poeta Francesco Petrarca. I progetti ambiziosi per un’ulteriore esplorazione dell’Oriente e per le fortune da accumulare furono accantonati, offuscati da pensieri più tetri. L’unica consolazione, continuava Petrarca, era la consapevolezza che «anche noi seguiremo coloro che ci hanno preceduto. Quanto possa essere breve quest’attesa, non so: questo so, che non potrà essere lunga». Tutte le ricchezze dell’oceano Indiano, del mar Caspio o del mar Nero, scriveva, non potevano compensare ciò che era stato spazzato via. 65
Eppure, nonostante l’orrore che aveva causato, la peste si rivelò un catalizzatore di cambiamento sociale ed economico così potente che, lungi dal segnare la morte dell’Europa, servì alla sua edificazione. La trasformazione fornì un importante pilastro per la crescita e il trionfo dell’Occidente. Tutto accadde in diverse fasi. In primo luogo ci fu una radicale ridefinizione delle strutture sociali. Lo spopolamento cronico che seguì alla peste nera comportò un forte aumento dei salari, concomitante con quello del valore del lavoro. Prima che finalmente iniziasse a scemare, poco dopo il 1350, il flagello aveva mietuto così tante vittime che una fonte registrò «carenza di servi, di artigiani e operai, di lavoratori agricoli e braccianti». La conseguenza fu che coloro che in precedenza si erano trovati al livello più basso della scala economica e sociale si videro assegnato un notevole potere negoziale. Alcuni semplicemente «ignoravano le offerte di lavoro, e non c’era modo di convincerli a servire i maggiorenti se non in cambio di salari triplicati». 66 Non si trattava di un’esagerazione: dati empirici rivelano un drastico aumento dei salari urbani, nei decenni successivi alla peste nera. 67 L’emancipazione dei contadini, degli operai e delle donne fu accompagnata da un indebolimento delle classi abbienti, poiché i proprietari di immobili furono costretti ad accettare una decurtazione degli introiti, ritenendo che un’entrata ridotta fosse pur sempre meglio di niente. Affitti più bassi, minori obblighi e contratti di locazione più lunghi furono tutti fattori che contribuirono a sostenere e migliorare le condizioni di vita dei braccianti e degli inquilini urbani. Un’ulteriore spinta in tal senso venne dal crollo dei tassi d’interesse, che nel XIV e nel XV secolo registrarono un notevole calo in tutta Europa. 68 I risultati furono di grande rilievo. Con la ricchezza ora distribuita in modo più uniforme all’interno della società, la domanda di beni di lusso, importati o meno, crebbe, in quanto un maggior numero di consumatori era in grado di acquistare oggetti in precedenza inaccessibili. 69 Le abitudini di spesa furono influenzate da altri cambiamenti demografici prodotti dalla peste, in particolare quello in favore dei giovani lavoratori, che vennero a trovarsi nella posizione
migliore per sfruttare le nuove opportunità che si aprivano di fronte a loro. Già meno propensa al risparmio dopo aver sfiorato la morte, la nuova generazione emergente, meglio pagata rispetto ai propri genitori e con più rosee prospettive per il futuro, prese a spendere le proprie sostanze per le cose a cui teneva, inclusa la moda. 70 Il che, a sua volta, stimolò gli investimenti e diede impulso al rapido sviluppo dell’industria tessile europea, che iniziò a produrre tessuti in volumi tali da provocare un brusco crollo delle importazioni, con pesanti ricadute per il commercio di Alessandria. L’Europa iniziò addirittura a esportare, inondando con i suoi tessuti i mercati del Medio Oriente e causandone una sensibile contrazione, in stridente contrasto con la rinvigorita economia dell’Occidente. 71 Come dimostra una recente ricerca basata sui resti ossei nei cimiteri di Londra, l’aumento della ricchezza determinò un miglioramento dell’alimentazione e delle condizioni generali di salute. In effetti, i modelli statistici elaborati sulla scorta di questi risultati suggeriscono anche che uno degli effetti della peste fu un sostanziale allungamento dell’aspettativa di vita. La popolazione londinese del dopo epidemia era molto più sana di quanto non fosse prima che la peste nera colpisse, e la vita media era aumentata in misura considerevole. 72 Ma lo sviluppo economico e sociale non si verificò in modo uniforme in tutta Europa. Il cambiamento ebbe luogo più rapidamente nel Nord e nel Nordovest del continente, anche perché partivano da una condizione economica svantaggiata rispetto al Sud, tradizionalmente più sviluppato. Ciò significava che in queste regioni gli interessi dei locatori e dei locatari erano più strettamente allineati, sicché era più facile che alla fine si arrivasse a un punto d’incontro e a soluzioni soddisfacenti per entrambe le parti. 73 Ma altrettanto significativo era il fatto che sulle città del Nord non gravasse lo stesso bagaglio ideologico e politico proprio di molte città mediterranee. Secoli di commercio regionale e a lungo raggio avevano creato istituzioni come le corporazioni, che controllavano la concorrenza ed erano votate a consegnare posizioni monopolistiche nelle mani di gruppi sociali ben precisi. Il Nord Europa, al contrario, iniziò a espandersi proprio perché la concorrenza non era soggetta a
restrizioni, con la conseguenza che l’urbanizzazione e l’economia poterono crescere a un ritmo nettamente più veloce rispetto al Sud. 74 Nelle varie parti d’Europa emersero anche differenti profili comportamentali. In Italia, per esempio, le donne erano meno attratte dal mercato del lavoro o avevano maggiori difficoltà a entrarvi, perciò continuarono a sposarsi alla stessa età e ad avere lo stesso numero di figli del periodo precedente lo scoppio della peste. Questo contrastava nettamente con la situazione nei paesi nordici, dove la contrazione demografica aveva dato alle donne la possibilità di diventare lavoratrici salariate. Di conseguenza, tendevano a sposarsi più tardi, con ovvie implicazioni a lungo termine sulle dimensioni delle famiglie. «Non abbiate fretta di sposarvi troppo presto» consigliava Anna Bijns, poetessa dei Paesi Bassi, perché «una che si guadagna il proprio vitto e i vestiti non deve precipitarsi a subire la verga di un uomo … Per quanto io non disprezzi il matrimonio, essere libera è la cosa migliore! Felice la donna senza un uomo!» 75 Le trasformazioni innescate dalla peste nera posero basi che si sarebbero in seguito rivelate decisive per la crescita a lungo termine dell’Europa nordoccidentale. Anche se ci volle del tempo perché gli effetti delle differenze tra le varie aree del continente potessero manifestarsi, la flessibilità sistemica, l’apertura alla concorrenza e, forse più importante di tutto, la consapevolezza nordica che il contesto geografico era sfavorevole e che per realizzare profitti era necessaria una forte etica del lavoro, posero le basi per la successiva trasformazione delle economie europee all’alba della modernità. Come risulta sempre più evidente da recenti studi, le radici della rivoluzione industriale del XVIII secolo si trovano nella rivoluzione industriosa del mondo sopravvissuto alla peste: con il crescere della produttività crebbero le aspettative, e il livello di ricchezza disponibile aumentò parallelamente alle opportunità di spenderla. 76 Mentre i cadaveri venivano finalmente sepolti e la peste nera sbiadiva fino a diventare solo un orribile ricordo (periodicamente ravvivato da ciclici focolai secondari), anche l’Europa meridionale subì delle trasformazioni. Negli anni Ottanta del XIV secolo i genovesi tentarono di sfruttare i terribili effetti che la peste aveva avuto su
Venezia, dove l’epidemia era stata particolarmente violenta, e tentarono di assicurarsi il controllo dell’Adriatico. La scommessa fallì in maniera clamorosa: incapace di assestare il colpo decisivo, Genova si ritrovò improvvisamente impegnata su troppi fronti e vulnerabile. Una dopo l’altra, le posizioni che la repubblica marinara ligure si era guadagnata nel corso di generazioni per garantirsi i collegamenti con il Medio Oriente, il mar Nero e il Nord Africa furono conquistate dai rivali. La disfatta di Genova fu la fortuna di Venezia. Sbarazzatasi così delle attenzioni della sua tradizionale avversaria, e ora che la vita tornava alla normalità, Venezia ridivenne prospera esercitando un ferreo controllo sul commercio delle spezie. Pepe, zenzero, noce moscata e chiodi di garofano venivano importati in quantità crescenti, soprattutto via Alessandria. In media, le navi veneziane importavano più di 400 tonnellate di pepe all’anno dall’Egitto, così come ne trasportavano considerevoli volumi dal Levante. Intorno alla fine del XV secolo, oltre 2000 tonnellate di spezie passavano ogni anno dalla città lagunare per essere vendute altrove con lauti guadagni, che servivano per acquistare cibo, farmaci e cosmetici. 77 Pare che Venezia fosse anche il principale punto d’ingresso per i pigmenti utilizzati nei dipinti. Spesso indicati genericamente come «oltremare de Venecia» (merci veneziane d’oltremare), questi includevano il verdigris (letteralmente, «verde dalla Grecia»), il vermiglio, il fieno greco, il giallo di piombo e stagno, il nero d’osso e il sostituto dell’oro conosciuto come porporina o oro musivo. Il pigmento più famoso e caratteristico, tuttavia, era il ricco azzurro che proveniva dai lapislazzuli estratti nell’Asia centrale. L’età d’oro dell’arte europea, quella del Beato Angelico e di Piero della Francesca nel Quattrocento, e poi di artisti come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Raffaello e Tiziano, derivò in buona parte dalla capacità dei pittori di usare i colori ricavati da questi pigmenti, che erano frutto dell’intensificazione dei rapporti con l’Asia e dell’aumento delle ricchezze necessarie per acquistarli. 78 Le missioni commerciali in Oriente erano così redditizie che la repubblica veneziana le metteva all’asta in anticipo, garantendosi così
i pagamenti e accollando all’aggiudicatario i rischi connessi al mercato, ai trasporti e alla politica. Come scrisse orgogliosamente un veneziano, le galere partivano dalla città in tutte le direzioni, verso le coste dell’Africa, verso Beirut e Alessandria, verso la Grecia, il Sud della Francia e le Fiandre. Tale era la ricchezza che affluiva in città che il valore dei palazzi continuava ad aumentare, specialmente di quelli situati nelle posizioni migliori, vicino a Rialto e alla basilica di San Marco. Poiché i terreni erano rari e costosi, venivano impiegate nuove tecniche di costruzione edilizia, come la sostituzione delle doppie scalinate dei cortili, spettacolari ma ingombranti, con scale più piccole, che richiedevano meno spazio. Tuttavia, affermò con fierezza un cittadino della Serenissima, anche le case dei semplici mercanti erano riccamente arredate con soffitti dorati, scale di marmo, balconi e finestre provviste dei migliori vetri prodotti nella vicina Murano. Venezia era il punto di smistamento per eccellenza del commercio europeo, africano e asiatico, e lo dimostrava con il suo fasto. 79 Venezia non fu la sola a prosperare. Altrettanto fecero le città situate lungo la costa dalmata, che servivano come punti di sosta sulle rotte di andata e di ritorno. Ragusa, la moderna Dubrovnik, conobbe livelli straordinari di prosperità nei secoli XIV e XV. Fra il 1300 e il 1450 la ricchezza disponibile quadruplicò, crescendo così rapidamente che venne imposto un tetto alle doti per bloccare l’altrettanto rapido aumento dei pagamenti; la città era talmente colma di denaro che si provvide ad abolire parzialmente la schiavitù: in tempi di simile abbondanza, sembrava ingiusto tenere dei propri simili in cattività e non ricompensarli per il loro lavoro. 80 Come Venezia, Ragusa era occupata a costruire la propria rete commerciale, tessendo ampi contatti con la Spagna, l’Italia, la Bulgaria e persino l’India, dove aveva fondato una colonia a Goa, sorta intorno alla chiesa di San Biagio, il suo santo patrono. 81 Molte regioni dell’Asia conobbero un fermento analogo in termini di crescita e di ambizione. Gli affari fiorirono nel Sud dell’India, mentre i traffici con la Cina crebbero insieme a quelli con il golfo Persico e con paesi ancora più lontani. Nacquero delle corporazioni
per garantire controlli sulla sicurezza e sulla qualità, ma anche per creare un monopolio che ostacolasse il sorgere di una concorrenza locale. Queste consorterie concentravano il denaro e l’influenza nelle mani di un gruppo che si autoselezionava e manteneva una posizione dominante sulla costa di Malabar e in Sri Lanka. 82 Con tale sistema, le relazioni commerciali venivano formalizzate al fine di garantire che le operazioni fossero svolte in modo efficiente ed equo. Secondo un resoconto redatto all’inizio del XV secolo dal viaggiatore cinese Ma Huan, i prezzi tra acquirente e venditore venivano fissati da un mediatore; tutte le imposte e tasse venivano calcolate e dovevano essere pagate in anticipo, prima che le merci venissero consegnate e spedite. Tutto ciò creava prospettive positive a lungo termine per il commercio: «Le persone laggiù sono molto oneste e degne di fiducia» aggiungeva Ma Huan. 83 In ogni caso, questa era pura teoria. Di fatto, le città costiere dell’India meridionale non operavano nel vuoto, e sussisteva tra loro un’acerrima rivalità. Kochi si affermò come rivale di Kozhikode nel XV secolo, grazie a un regime fiscale molto competitivo che era riuscito a provocare un notevole incremento degli scambi commerciali. Ne derivò una sorta di circolo virtuoso, che attirò l’attenzione dei cinesi. In una serie di importanti spedizioni navali guidate dal grande ammiraglio Zheng He, un eunuco musulmano, allestite per mostrare la potenza navale della Cina, affermare la sua influenza e guadagnarle l’accesso alle rotte commerciali che penetravano in profondità nell’oceano Indiano, nel golfo Persico e nel mar Rosso, i cinesi si concentrarono sull’instaurazione di legami con il sovrano di Kochi. 84 Queste missioni facevano parte di un insieme di misure sempre più ambiziose adottate dalla dinastia Ming, che aveva rimpiazzato la dinastia mongola dei sovrani Yüan alla metà del XIV secolo. Somme enormi vennero spese per Pechino, dove furono costruite infrastrutture commerciali e militari. Furono investite notevoli risorse anche per mettere in sicurezza la frontiera settentrionale con la steppa e per competere con una Corea che si era nuovamente affacciata in Manciuria. Nel frattempo venne rafforzata la presenza militare a sud,
con il risultato che dalla Cambogia e dal Siam (Thailandia) iniziarono ad arrivare regolarmente missioni che venivano a rendere omaggio portando specialità locali e beni di lusso in quantità considerevoli, in cambio di una promessa di pace. Nel 1387, per esempio, il regno del Siam inviò quasi 7 tonnellate di pepe e legno di sandalo, e due anni dopo un quantitativo dieci volte maggiore di pepe, legno di sandalo e incenso. 85 Ampliare gli orizzonti in questo modo, tuttavia, aveva i suoi costi. La prima spedizione di Zheng He impiegò una sessantina di navi di grandi dimensioni, diverse centinaia di piccole imbarcazioni e quasi 30.000 marinai, con un costo elevatissimo in termini di paghe, equipaggiamenti e ricchi doni, che l’ammiraglio portava con sé per impiegarli come armi diplomatiche. Questa e altre iniziative furono finanziate tramite un netto incremento dell’emissione di carta moneta, ma anche con un aumento delle quote minerarie, il che fece sì che dopo il 1390, in poco più di un decennio, i ricavi in questo settore triplicassero. 86 Anche i progressi nel campo dell’economia agricola e nella riscossione delle imposte produssero un repentino innalzamento delle entrate per il governo centrale e stimolarono quella che un commentatore moderno ha descritto come la creazione di un’«economia pianificata». 87 Le fortune della Cina furono propiziate dagli accadimenti occorsi in Asia centrale, dove un signore della guerra di oscure origini riuscì a diventare il personaggio più famoso del tardo Medioevo: i successi di Timūr, o Tamerlano, sarebbero stati celebrati in drammi scritti in Inghilterra, e la sua selvaggia aggressione entrò a far parte della coscienza collettiva dell’India moderna. Fondando nelle terre mongole, a partire dagli anni Sessanta del XIV secolo, un grande impero che si estendeva dall’Asia Minore fino all’Himalaya, Tamerlano attuò un ambizioso programma di costruzione di moschee e residenze reali in tutto il suo regno, in città come Samarcanda, Herat e Mashhad. Dopo il saccheggio di Damasco, racconta un autore contemporaneo, vennero deportati carpentieri, pittori, tessitori, sarti, tagliatori di gemme, «in breve, artigiani di ogni genere», per abbellire le città dell’Oriente. La testimonianza di un inviato del re di Spagna
presso la corte di Tamerlano fornisce una vivida descrizione dell’entità del programma edilizio e del profluvio di decorazioni che ornavano questi nuovi edifici. Presso il palazzo Ak Saray, vicino a Samarcanda, il portale d’ingresso era «splendidamente decorato con un magnifico mosaico in piastrelle blu e oro, la principale sala di ricevimento era «rivestita di piastrelle blu e oro, e il soffitto tutto dorato». Neppure i famosi artigiani di Parigi sarebbero stati in grado di dar prova di tanta rara maestria. 88 E questo non era nulla in confronto alla stessa Samarcanda e alla corte di Tamerlano, ornata con alberi d’oro «dai tronchi grossi come la gamba di un uomo». Tra le foglie auree si nascondevano «frutti» che a un più attento esame si rivelavano essere rubini, smeraldi, turchesi e zaffiri, insieme a enormi perle, perfettamente rotonde. 89 Tamerlano non esitava a spendere il denaro ricavato dai popoli che aveva soggiogato. Comprava dalla Cina sete che erano «le più belle del mondo», così come muschio, rubini, diamanti, rabarbaro e altre spezie. Carovane di ottocento cammelli per volta trasportavano merci a Samarcanda. A differenza di altre popolazioni – come gli abitanti di Delhi, centomila dei quali vennero giustiziati dopo la presa della città –, i cinesi ricevettero un buon trattamento da parte di Tamerlano. 90 Pareva, però, che sarebbero stati loro i prossimi a subire la sua ira. Stando a una fonte, Tamerlano dedicò qualche tempo a riflettere sulla prima parte della sua vita e giunse alla conclusione di dover fare ammenda per «atti come il saccheggio, la cattura di prigionieri e i massacri». Decise, quindi, che il modo migliore per espiare fosse «scatenare una guerra santa contro gli infedeli, in modo da ottenere perdono per quei suoi crimini e peccati in base al detto che «le buone azioni cancellano quelle cattive». Così interruppe i rapporti con la corte dei Ming, ed era in procinto di attaccare la Cina quando morì, nel 1405. 91 I problemi non tardarono ad affiorare. Divisioni e rivolte si diffusero nelle province persiane mentre gli eredi di Tamerlano rivaleggiavano per prendere il controllo del suo impero. Ma ulteriori difficoltà strutturali vennero create da una crisi finanziaria globale che colpì l’Europa e l’Asia nel XV secolo. A causarla furono una serie di
fattori che oggi, a seicento anni di distanza, suonano familiari: eccessiva saturazione dei mercati, svalutazione della moneta e bilancia dei pagamenti, già squilibrata, che va fuori controllo. Malgrado la crescita della domanda di seta e di altri prodotti di lusso, le capacità di assorbirli erano limitate. Non che gli appetiti fossero sazi o i gusti fossero cambiati, era il meccanismo degli scambi che si era guastato: l’Europa, in particolare, aveva ben poco da offrire in cambio di prodotti tanto apprezzati come tessuti, ceramiche e spezie. Con la Cina che produceva più di quanto riuscisse a esportare, quando la capacità d’acquisto si esaurì accadde ciò che era facilmente prevedibile ed è stato spesso descritto come una «carestia d’oro», 92 e che oggi chiameremmo «stretta creditizia». In Cina, i funzionari imperiali non erano ben pagati, sicché scandali per corruzione e inefficienze diffuse erano la regola. E quel che è peggio, anche quando venivano trattati equamente e con correttezza, i contribuenti non erano in grado di tenere il passo dell’irrazionale esuberanza di un governo entusiasta di spendere denaro in grandiosi progetti, in base all’assunto che le entrate avrebbero continuato sempre e comunque a crescere. Non era così. Negli anni Venti del XV secolo, alcune delle regioni più ricche della Cina ebbero difficoltà a far fronte ai propri obblighi. 93 La bolla doveva scoppiare, e di lì a poco scoppiò. Gli imperatori Ming si affrettarono a tagliare i costi, fermando gli abbellimenti in atto a Pechino, sospendendo costose spedizioni navali e progetti come quello del Grande Canale: al culmine dei lavori, decine se non centinaia di migliaia di uomini erano impiegati nella costruzione di una rete navigabile che collegasse la capitale con Hangzhou. 94 In Europa, per la quale esiste una maggior abbondanza di dati, si cercò di gestire la contrazione del mercato con la svalutazione monetaria, anche se il rapporto tra carenza di metalli preziosi, accumulazione e politica fiscale è una questione quanto mai complessa. 95 Quel che è certo, comunque, è che l’insieme delle riserve monetarie si ridusse ovunque, dalla Corea al Giappone, dal Vietnam a Giava, dall’India all’impero ottomano, dal Nord Africa all’Europa continentale. Nella Penisola malese i mercanti cercarono di risolvere
direttamente la questione coniando una nuova, grossolana moneta, fatta con lo stagno di cui la regione abbondava. Ma, detto in parole semplici, la disponibilità di metallo prezioso, che aveva fornito una valuta comune in grado di collegare una parte del mondo conosciuto all’altra – anche se non sempre con la stessa unità, peso e titolo –, si ridusse e venne meno: non c’era abbastanza denaro per tutti. 96 È possibile che queste difficoltà siano state acuite da un cambiamento climatico in atto. Carestia e fasi di eccezionale siccità, unitamente a occasionali e devastanti inondazioni in Cina, mostrano con evidenza l’impatto dei fattori ambientali sullo sviluppo economico. La presenza di picchi di solfato nel ghiaccio rilevati da carotaggi compiuti sia nell’emisfero boreale che in quello australe suggerisce che il XV secolo sia stato un periodo di attività vulcanica diffusa. Questo scatenò un raffreddamento globale che ebbe effetti a cascata nel mondo delle steppe, dove una più intensa contesa per assicurarsi sufficienti riserve d’acqua e di cibo fu il preludio di una fase di sconvolgimenti, soprattutto nel decennio fra il 1440 e il 1450. Nel complesso, la storia di questo periodo ci parla di stagnazione, tempi difficili e brutale lotta per la sopravvivenza. 97 Gli effetti e le ramificazioni di questi processi furono percepiti dal Mediterraneo al Pacifico, alimentando un crescente senso di disagio rispetto a quello che stava accadendo nel mondo. Anche se l’ascesa dell’impero di Tamerlano non aveva provocato il dilagare della paura in Europa, l’accresciuta potenza degli Ottomani aveva certamente reso molta gente sempre più ansiosa. Gli Ottomani avevano attraversato in forze il Bosforo nell’ultimo scorcio del XIV secolo, infliggendo pesanti sconfitte a bizantini, bulgari e serbi, e stabilendosi in Tracia e nei Balcani. Costantinopoli rimase appesa a un filo, un’isola cristiana circondata da un mare di musulmani. Accorate richieste di aiuti militari alle corti reali europee erano rimaste inascoltate, lasciando la città pericolosamente esposta. Alla fine, la capitale imperiale cadde nel 1453, e la conquista di una delle più grandi città del mondo cristiano segnò un trionfo per l’islam, passato nuovamente all’offensiva. A Roma, si raccontava di gente che piangeva e si batteva il petto alla
notizia che Costantinopoli era caduta, e delle preghiere del papa per coloro che vi erano rimasti intrappolati. Ma l’Europa aveva fatto troppo poco quando era il momento, e adesso era troppo tardi. La sorte di Costantinopoli divenne fonte di acuta preoccupazione in Russia, dove fu vista non tanto come l’annuncio di una rinascita musulmana, quanto come segnale che la fine del mondo fosse imminente. Alla base c’erano antiche profezie ortodosse sulla venuta di Gesù all’inizio dell’VIII millennio per presiedere al Giudizio finale, che sembravano sul punto di avverarsi. Le forze del male si erano scatenate e avevano inferto un colpo devastante alla cristianità. I vertici del clero erano così convinti che l’apocalisse fosse dietro l’angolo da inviare un prete nell’Europa occidentale per sapere con maggior precisione a che ora del giorno avrebbe avuto luogo. Alcuni decisero addirittura che non valesse più la pena di calcolare le future date della Pasqua e delle altre feste mobili, visto che la fine del mondo era ormai imminente. In base al calendario bizantino usato in Russia, la tempistica sembrava non ammettere dubbi. Se si calcolava a partire dalla data della Creazione, stimata nel 5508 avanti Cristo, il mondo sarebbe finito il 1° settembre 1492. 98 Dall’altro lato dell’Europa c’era chi condivideva la credenza che l’Armageddon si stesse avvicinando sempre più. In Spagna, a fare le spese di un’epoca di crescente intolleranza religiosa e culturale furono musulmani ed ebrei. I primi vennero cacciati dall’Andalusia con la forza delle armi, ai secondi fu tassativamente ordinato di scegliere se convertirsi al cristianesimo, andarsene dalla Spagna o finire giustiziati. Costretti a liberarsi dei loro beni in fretta e furia, gli ebrei dovettero metterli in vendita a prezzi stracciati, e fu così che gli acquirenti si assicurarono interi vigneti per un tozzo di pane, e grandi proprietà e belle residenze cambiarono di mano per pochi spiccioli. 99 A rendere ancora più beffarda la situazione fu la circostanza che, nel giro di una decina d’anni, gli affari fatti dai compratori si sarebbero rivelati ancora più redditizi. Molti ebrei scelsero di andare a Costantinopoli, dove furono accolti dai nuovi signori musulmani. «Voi chiamate Ferdinando un saggio regnante,» pare abbia esclamato Bāyezīd II nel dare il benvenuto agli
ebrei giunti in città nel 1492, e questo anche se «impoverisce il suo paese per arricchire il mio.» 100 Non era semplicemente una battuta: in scene che oggi lascerebbero molti sconcertati, ma che invece ricordano i primi giorni dell’islam, gli ebrei non solo vennero trattati con rispetto, ma furono accolti amichevolmente. Ai nuovi arrivati furono accordati diritti e la protezione della legge, e spesso anche un aiuto economico per iniziare una nuova vita in un paese straniero. La tolleranza era una caratteristica fondamentale per una società sicura di sé e fiduciosa nella propria salda identità, il che era più di quanto si potesse dire del mondo cristiano, dove il fanatismo e il fondamentalismo religioso si stavano rapidamente affermando come tratti salienti. Uno di quelli che si angustiavano per il futuro della fede era Cristoforo Colombo. Per quanto, secondo i suoi calcoli, mancassero ancora 155 anni al Secondo Avvento, Colombo era indignato da quei «fedeli» che, in realtà, lo erano solo a parole, e letteralmente orripilato dal fatto che l’Europa non si occupasse di Gerusalemme. Con un fervore prossimo all’ossessione, elaborò piani per una nuova campagna per liberare la Città Santa, e al tempo stesso si fissò su quei metalli preziosi, spezie e gemme così abbondanti in Asia, e anche poco costosi. 101 Se solo fosse stato possibile accedervi più agevolmente, concluse Colombo, sarebbe stato più facile finanziare una grande spedizione per liberare Gerusalemme. 102 Il problema era che lui si trovava nella Penisola iberica, dalla parte sbagliata del Mediterraneo, quindi la sua grande idea era poco più che un castello in aria. 103 Forse, ma solo forse, c’era una speranza. Dopotutto si parlava di astrologi e cartografi, come Paolo dal Pozzo Toscanelli di Firenze, che ritenevano fosse possibile trovare una rotta per l’Asia partendo dall’Europa e navigando verso ovest. Dopo una lotta titanica per convincere altri a credere in un’idea che poteva facilmente essere bollata come folle e temeraria, il progetto di Colombo cominciò finalmente a concretizzarsi. Furono redatte lettere di saluto per il Gran Khan – con uno spazio bianco da riempire una volta accertato quale fosse il suo nome esatto –, visto che doveva diventare un alleato nella riconquista di Gerusalemme. Furono assoldati degli interpreti, in
modo da poter conversare con il sovrano dei Mongoli e con i suoi delegati. La scelta ricadde su esperti di ebraico, caldeo (simile all’aramaico parlato da Gesù e dai suoi discepoli) e arabo, lingua ritenuta con ogni probabilità la più utile nei rapporti con il khan e la sua corte. Come nota uno studioso, i crescenti sentimenti antimusulmani in Europa facevano sì che l’arabo, visto da un lato con sospetto e proibito per legge nel Vecchio Mondo, fosse ritenuto dall’altro il mezzo migliore per comunicare, quando l’Europa occidentale infine entrò in contatto con l’Estremo Oriente. 104 Tre navi salparono il 3 agosto 1492 da Palos de la Frontera, nella Spagna meridionale, meno di un mese prima della fine del mondo attesa in Russia. Mentre spiegava le vele diretto verso l’ignoto, Colombo non era certo consapevole di stare per compiere qualcosa di veramente straordinario, cioè spostare il centro di gravità dell’Europa da est a ovest. Quando, cinque anni dopo, un’altra piccola flotta al comando di Vasco da Gama levò le àncore da Lisbona per un altro lungo viaggio di scoperta, circumnavigando l’estremità meridionale dell’Africa per arrivare nell’oceano Indiano, gli ultimi pezzi necessari alla trasformazione dell’Europa andarono al loro posto. D’un tratto, il Vecchio Continente non fu più il terminale di arrivo, la tappa finale di una serie di Vie della Seta. Adesso, stava per diventare il centro del mondo.
XI
LA VIA DELL’ORO
Sul finire del XV secolo il mondo cambiò. Non ci fu nessuna apocalisse, nessuna fine dei tempi, come Cristoforo Colombo e altri temevano, almeno non in Europa. Una serie di spedizioni a lungo raggio partite dalle coste della Spagna e del Portogallo collegarono per la prima volta le Americhe all’Africa, all’Europa e, infine, all’Asia. Nel frattempo furono stabilite nuove rotte commerciali, che estesero o sostituirono quelle già esistenti. Idee, merci e popoli cominciarono a viaggiare più lontano e più rapidamente che in qualsiasi altra epoca precedente, e in quantità assai maggiori. La nuova alba proiettò l’Europa al centro della scena, facendola risplendere di una luce dorata e gratificandola con una serie di età dell’oro. La sua ascesa, tuttavia, fu causa di terribili sofferenze nei territori appena scoperti. Le magnifiche cattedrali, lo splendore dell’arte e l’innalzamento del tenore di vita che caratterizzarono il XVI secolo e le epoche successive avevano un prezzo. E a pagarlo furono le popolazioni che vivevano al di là degli oceani: gli europei erano in grado non solo di esplorare il mondo, ma anche di dominarlo. Ci riuscirono grazie agli incessanti progressi nella tecnologia militare e navale, che fornirono loro un vantaggio insormontabile rispetto alle popolazioni con le quali erano venuti in contatto. L’età dell’impero e l’ascesa dell’Occidente furono edificati sulla capacità di infliggere violenza su larga scala. L’Illuminismo e l’Età della Ragione, il progresso verso la democrazia, le libertà civili e i diritti umani non furono l’ultimo tratto di un filo invisibile che risaliva fino all’Atene dell’antichità, o uno sbocco naturale della situazione europea, ma i frutti dei successi politici, militari ed economici riportati in continenti lontani.
Tutto questo sembrava improbabile quando Colombo salpò verso l’ignoto, nell’agosto 1492. Leggendo il suo diario di bordo nel XXI secolo, ci pare ancor oggi che trasudi eccitazione e paura, ottimismo e ansia. Anche se era convinto di trovare il Gran Khan, e di poter avere un ruolo nella liberazione di Gerusalemme, era ben consapevole delle alte probabilità che il suo viaggio si risolvesse nella morte e nel disastro. Era diretto verso est, scrisse, «non per [via di] terra, per la quale si usava andare, ma per il cammino di Occidente, per il quale fino a oggi sappiamo con certezza che nessuno è passato». 1 Esistevano, però, dei precedenti a questa ambiziosa spedizione. Colombo e i suoi marinai erano parte di un lungo e fortunato periodo di esplorazioni, che aveva visto aprirsi alle potenze cristiane della Penisola iberica nuove regioni del mondo, in Africa e nell’Atlantico orientale, anche per guadagnarsi l’accesso ai mercati dell’oro dell’Africa occidentale. La ricchezza di minerali di questa regione era leggendaria: non per nulla, i primi scrittori musulmani la indicavano semplicemente come «la terra dell’oro». Alcuni sostenevano che «l’oro cresce nella sabbia come le carote, e viene raccolto all’alba»; altri pensavano che l’acqua avesse proprietà magiche, che facevano crescere i lingotti nell’oscurità. 2 La quantità di oro estratta era prodigiosa, e gli effetti economici che generò enormi: analisi chimiche dimostrano che le monete dell’Egitto musulmano, così famose per il loro pregio, furono coniate con l’oro dell’Africa occidentale, che giungeva tramite le rotte commerciali passanti per il Sahara. 3 Gran parte di questi scambi era controllata fin dalla tarda antichità dai commercianti wangara. 4 Originari del Mali, gli uomini di questa tribù ebbero più o meno lo stesso ruolo dei commercianti sogdiani in Asia: percorrevano territori difficili e stabilivano punti di sosta lungo le pericolose vie che solcavano il deserto, rendendo possibili scambi a più largo raggio. Questo traffico commerciale portò alla nascita di una rete di oasi e di punti di scambio, e, col tempo, allo sviluppo di città fiorenti, come Djenné, Gao e Timbuctù, che divennero sedi di palazzi reali e splendide moschee, protette da magnifiche mura di mattoni cotti. 5 Proprio Timbuctù, agli inizi del XV secolo, non era solo un
importante centro commerciale, ma anche un crocevia di studiosi, musicisti, artisti e studenti che si riunivano nelle moschee di Sankoré, Djinguereber e Sīdī Yaḥya, fari del dibattito intellettuale nonché ricovero per innumerevoli manoscritti raccolti da tutta l’Africa. 6 Non a caso, la regione attirava attenzioni fin in luoghi a migliaia di chilometri di distanza. C’erano stati sussulti al Cairo quando Mansa Musa – ovvero Musa, Re dei Re dell’impero del Mali, «un uomo devoto e giusto» quale mai prima di lui si era visto – aveva fatto tappa in città, nel XIV secolo, mentre era diretto a Mecca in pellegrinaggio, accompagnato da un numeroso seguito e recando con sé enormi quantità di oro da utilizzare per le regalie. Tali furono le somme spese nei mercati durante la sua permanenza in città che, a quanto pare, sotto la pressione dell’enorme afflusso di nuovi capitali il prezzo dei lingotti crollò, provocando una piccola depressione in tutto il bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente. 7 Scrittori e viaggiatori provenienti da Paesi remoti si occuparono di tracciare gli alberi genealogici dei re del Mali, e di descrivere le cerimonie di corte di Timbuctù. Il grande viaggiatore nordafricano Ibn Baṭṭūṭa, per esempio, attraversò il Sahara per vedere di persona la città e il suo sovrano Mansa Musa. L’imperatore usciva dal palazzo indossando uno zucchetto d’oro e una tunica del miglior tessuto rosso, preceduto da musicisti che suonavano strumenti con corde d’oro e d’argento. Poi prendeva posto in un padiglione riccamente decorato e sormontato da un uccello dorato delle dimensioni di un falcone, e ascoltava le notizie del giorno che provenivano da tutto il suo impero. Data l’incredibile ricchezza di cui il re disponeva, Ibn Baṭṭūṭa non riuscì a nascondere la delusione per il fatto che Mansa Musa non si fosse dimostrato più generoso nell’elargire i suoi doni, quantomeno non con lui. «È un re avaro,» scrisse Baṭṭūṭa, «non un uomo dal quale ci si possa aspettare un regalo sontuoso.» 8 L’interesse dell’Europa cristiana era stato risvegliato anche dai racconti di leggendarie ricchezze che accompagnavano l’oro venduto in Egitto e lungo la costa nordafricana, in città come Tunisi, Ceuta e Béjaïa, che ospitavano da secoli colonie di mercanti venuti da Pisa, Amalfi e soprattutto da Genova, principale sbocco per l’oro africano
nel Mediterraneo. 9 Nonostante questi contatti commerciali, in Europa circolavano poche informazioni su come l’oro raggiungesse le città costiere, o sulle complesse reti che, da luoghi lontani come il Limpopo, portavano avorio, cristallo di rocca, pelli e tartaruga lungo la costa swahili e fin dentro l’Africa, così come sul mar Rosso, nel golfo Persico e nell’oceano Indiano. Dal punto di vista europeo, il Sahara era una coperta che avvolgeva il resto del continente nel mistero: non c’era modo di sapere cosa succedeva oltre la stretta e fertile fascia costiera nordafricana. 10 Di certo, però, esisteva la consapevolezza che la terra al di là del deserto ospitava immense ricchezze. Questa cosa è ben simboleggiata dal famoso Atlante catalano, una mappa commissionata da Pietro IV d’Aragona verso la fine del XIV secolo; vi era raffigurato un sovrano dalla pelle scura, solitamente identificato come Mansa Musa, vestito alla moda occidentale e con in mano un’enorme pepita d’oro, e al fianco una didascalia che precisava la portata delle sue ricchezze: «Così abbondante è l’oro che si trova nel suo paese» recita la nota «che egli è il re più ricco e nobile della terra». 11 Per molto tempo, tuttavia, la ricerca di un accesso diretto all’oro e ai tesori dell’Africa occidentale rimase senza successo; l’arida costa di quello che ora è il Sud del Marocco e la Mauritania offriva pochi incentivi e ancor meno ricompense da cogliere, e sembrava poco sensato inoltrarsi a sud per centinaia di chilometri in un deserto inospitale e disabitato, verso l’ignoto. Poi, nel XV secolo, il mondo cominciò lentamente ad aprirsi. Le spedizioni nell’Atlantico orientale e lungo la costa africana avevano portato alla scoperta di una serie di arcipelaghi, tra cui le Canarie, Madera e le Azzorre. Oltre ad aumentare la possibilità di ulteriori scoperte, esse divennero anche oasi redditizie, grazie al loro clima e ai terreni fertili, che le rendevano perfettamente adatte a certe colture, come per esempio la canna da zucchero, che ben presto fu esportata non solo a Bristol e nelle Fiandre ma anche sul mar Nero. Al tempo della partenza di Colombo, Madera da sola produceva quasi 1400 tonnellate di zucchero l’anno, sia pure a prezzo di quello che uno
studioso ha descritto come uno dei primi «ecocidi» dell’età moderna, dato che le foreste furono abbattute e le specie animali non autoctone, come i conigli e i ratti, si moltiplicarono in numeri tali da essere visti come una sorta di punizione divina. 12 Anche se gli ambiziosi sovrani di Castiglia, che avevano lentamente consolidato il loro potere in gran parte della Penisola iberica, avevano in animo di espandersi in questo Nuovo Mondo, furono i portoghesi a prendere l’iniziativa. 13 Il Portogallo stava operando alacremente, fin dal XIII secolo, per stabilire nuove rotte commerciali che collegassero l’Europa settentrionale e meridionale con i mercati dell’Africa. Già durante il regno del re Dionigi (1279-1325), grandi navi da trasporto facevano regolarmente rotta per «le Fiandre, l’Inghilterra, la Normandia, la Bretagna e La Rochelle», nonché per «Siviglia e altre parti» del Mediterraneo, cariche di merci provenienti dal Nord Africa musulmano e altre regioni. 14 Poi le ambizioni del Portogallo presero a crescere di pari passo con il suo potere. In primo luogo, i portoghesi estromisero Genova dal commercio dell’oro; più tardi, nel 1415, dopo anni di pianificazione, conquistarono Ceuta, città musulmana sulla costa nordafricana. Era poco più di una dichiarazione d’intenti, perché il valore strategico ed economico di Ceuta era limitato. Si rivelò infatti una scelta più che altro controproducente, dato che la conquista fu costosa, sconvolse legami commerciali di vecchia data e si attirò l’ostilità della popolazione locale a causa di gesti eclatanti come la celebrazione della messa nella grande moschea cittadina, trasformata in chiesa cristiana. 15 Questo atteggiamento bellicoso faceva parte di una più ampia ostilità nei confronti dell’islam, che all’epoca stava montando in tutta la Penisola iberica. Quando nel 1454 Enrico il Navigatore, il figlio del sovrano portoghese, scrisse al papa per chiedere il monopolio della navigazione sull’Atlantico, dichiarò che la sua motivazione era raggiungere «gli indiani che, a quanto si dice, venerano il nome di Cristo, in modo che possiamo … convincerli a venire in aiuto dei cristiani contro i Saraceni». 16 Ma dietro queste grandi ambizioni c’erano anche altre mire: le
richieste per legittimare l’espansione portoghese, infatti, erano volte tanto a contrastare i rivali europei, quanto a guidare un assalto contro il mondo islamico. E la svolta favorevole per il Portogallo non derivò dall’aver rotto i rapporti con i mercanti musulmani e aver sconvolto i mercati tradizionali, ma dall’averne trovati di nuovi. In tali sviluppi ebbero un’importanza fondamentale gli arcipelaghi dell’Atlantico orientale, che potevano facilitare l’esplorazione grazie ai loro porti e approdi, e fungere da basi per il rifornimento di acqua e viveri, consentendo quindi ai vascelli di spingersi in mare aperto con maggiore sicurezza. A partire dalla metà del XV secolo furono fondate alcune colonie nell’ambito del progetto di estendere i tentacoli del Portogallo, stabilendo il controllo sulle più importanti rotte marittime. Sull’isola di Arguin, lungo la costa occidentale dell’attuale Mauritania, e poi a São Jorge da Mina, sulla costa atlantica dell’odierno Ghana, furono costruite fortezze dotate anche di vasti magazzini. 17 Tali edifici furono progettati per consentire la catalogazione accurata delle importazioni, un dato rilevante per la Corona portoghese, che insisteva sul fatto che il commercio con l’Africa, a partire dalla metà del Quattrocento, fosse un monopolio reale. 18 Fin dall’inizio, fu stabilito un quadro amministrativo che indicava formalmente come dovesse essere gestito ciascuno dei più recenti punti della sempre più vasta rete marittima portoghese. Quando venivano fatte nuove scoperte, come le isole di Capo Verde, negli anni Quaranta del XV secolo, esisteva già uno schema collaudato da seguire. 19 Nel frattempo, i castigliani non rimasero a guardare: tentarono di allentare la presa dei portoghesi sulle recenti stazioni create lungo la rotta che portava a sud, usando direttamente la forza contro le navi che battevano la bandiera dei loro rivali. Le tensioni furono allentate nel 1479 dal trattato di Alcáçovas, che da un lato attribuì al regno di Castiglia il controllo sulle isole Canarie, dall’altro concesse al Portogallo la giurisdizione sugli altri arcipelaghi, così come il controllo sul commercio con l’Africa occidentale. 20 Non furono però l’alta politica, le concessioni papali o la concorrenza tra i regni sui possedimenti territoriali ad aprire le porte
dell’Africa e a cambiare le sorti dell’Europa occidentale. La vera svolta arrivò quando i capitani delle navi mercantili si resero conto che, oltre a scambiare olio e pelli e cercare ove possibile di comprare oro, c’erano altre e migliori opportunità a portata di mano. Com’era già accaduto più volte nella storia d’Europa, i guadagni più consistenti si ottenevano con il traffico di esseri umani. La tratta degli schiavi africani esplose nel XV secolo e si rivelò fin dall’inizio estremamente redditizia. In presenza di una notevole domanda di manodopera da impiegare nelle fattorie e nelle piantagioni portoghesi, gli schiavi vennero deportati in quantità tali che il principe ereditario che aveva promosso le prime spedizioni venne paragonato nientemeno che ad Alessandro Magno, per aver dato vita a una nuova era dell’impero. Di lì a poco, le case dei ricchi sarebbero state descritte come «affollate di schiavi maschi e femmine», il che permetteva ai loro proprietari di impiegare i loro capitali altrove e diventare ancora più ricchi. 21 Ben pochi mostrarono una qualche remora sul piano morale nel ridurre in schiavitù le persone prese prigioniere nell’Africa occidentale, anche se alcune fonti lasciano trapelare una certa empatia. Un cronista portoghese racconta dei gemiti, dei lamenti e delle lacrime di un gruppo di africani catturati in un’incursione sulla costa occidentale e trasportati a Lagos nel 1444. Quando i prigionieri compresero che a quel punto sarebbe stato necessario «separare i padri dai figli, i mariti dalle mogli, i fratelli dai fratelli», il dolore crebbe, persino per coloro che assistevano: «Quale cuore, per duro che possa essere, non sarebbe trafitto da un sentimento di pietà nel vedere una scena simile?» commentava uno spettatore. 22 Tuttavia, reazioni simili erano rare, e né gli acquirenti né i venditori dedicavano un solo pensiero a chi veniva trattato come una merce. Né se ne curava la Corona, per la quale gli schiavi erano non solo manodopera supplementare, ma anche una fonte di reddito attraverso il quinto, l’imposta del 20 per cento sui profitti ricavati dal commercio con l’Africa: di conseguenza, maggiore era il numero di schiavi deportati e venduti, tanto più elevati erano gli introiti per le casse
dell’impero. 23 E anche il cronista che sosteneva di essersi commosso di fronte a ciò che aveva visto sulla banchina di Lagos non ebbe scrupoli quando, due anni più tardi, prese parte a un’incursione nella quale una donna e suo figlio di due anni, sorpresi a raccogliere crostacei su una spiaggia, furono catturati insieme a una ragazza di quattordici anni che lottò con tanta forza da richiedere l’intervento di tre uomini per riuscire a farla salire sulla nave. Almeno, riferisce il cronista prosaicamente, la ragazza «aveva una bella presenza per essere una guineana». 24 Uomini, donne e bambini venivano regolarmente rastrellati nel corso di raid che sembravano battute di caccia. Alcuni pregarono il principe ereditario di concedere loro una licenza per armare più navi in modo da allestire un convoglio. Il principe non si limitò ad approvare, ma «ordinò che subito … fossero preparati stendardi con la Croce dell’Ordine di Gesù Cristo», uno per ogni nave. Così il traffico di esseri umani poteva svolgersi in accordo con la Corona e con Dio. 25 Non tutti erano così entusiasti degli effetti di un tale afflusso di denaro fresco nel Paese. Alla fine del XV secolo un viaggiatore di Silesia fu colpito dalla mancanza di grazia, di eleganza e di raffinatezza dei portoghesi. Gli uomini, scrisse costui, sono «grossolani, poveri, privi di buone maniere e ignoranti, nonostante la pretesa di saggezza». Quanto alle donne, «poche sono belle; quasi tutte sembrano uomini, anche se in generale hanno attraenti occhi neri». Avevano anche dei magnifici posteriori, aggiungeva il polacco, «così pieni che, lo dico in tutta verità, in tutto il mondo non si può vedere nulla di più bello». Gli parve comunque opportuno annotare che le donne erano anche volgari, avide, volubili, cattive e dissolute. 26 Il commercio degli schiavi esercitò un notevole impatto sull’economia del Portogallo, ma ancora più importante fu il ruolo che ebbe nel XV secolo nell’esplorazione e nelle scoperte della lunga costa africana. Le navi portoghesi continuarono a spingersi sempre più a sud in cerca di prede, puntualmente scoprendo che più si scendeva, e meno difesi erano gli insediamenti che si incontravano. Gli anziani e i capi del villaggio che sfilavano pieni di curiosità per incontrare gli uomini che arrivavano dall’Europa venivano regolarmente massacrati
sul posto, e gli scudi e le lance presi come trofei per il re o il principe ereditario. 27 Spronati dalla ricerca di ricchi e facili guadagni, nell’ultimo quarto del XV secolo gli esploratori si spinsero sempre più lontano lungo la costa africana. Il re Giovanni II del Portogallo, oltre a patrocinare le spedizioni mirate alla ricerca di schiavi, inviava anche navi con a bordo suoi emissari per stabilire stretti rapporti con i potenti governanti locali e salvaguardare così la posizione del suo paese dalla concorrenza degli spagnoli. Uno di questi emissari era nientemeno che Cristoforo Colombo, il quale di lì a poco mise a frutto queste sue esperienze per stilare una sorta di preventivo di ciò che occorreva per allestire, rifornire e mantenere altre spedizioni a lungo raggio. Tentò anche di utilizzare le nuove informazioni sulla lunghezza della costa africana per calcolare la dimensione della terra, in previsione del suo futuro, ambizioso viaggio. 28 In questo periodo erano attivi anche altri esploratori. Negli anni Ottanta del XV secolo Diogo Cão scoprì la foce del fiume Congo, spianando la strada per lo scambio formale di ambascerie con il potente re della regione, che accettò di essere battezzato. I portoghesi accolsero con gioia l’evento e se ne servirono per vantare le loro credenziali presso il papato di Roma, soprattutto quando il re del Congo scese in guerra contro i suoi nemici esibendo un gonfalone pontificio con il simbolo della croce. 29 Nel 1488 l’estremità meridionale del continente africano venne raggiunta dall’esploratore Bartolomeo Diaz, che la battezzò Capo delle Tempeste, prima di rientrare in patria dopo un viaggio pieno di pericoli. Il Portogallo custodiva gelosamente la propria espansione, al punto che, quando verso la fine del 1484 Colombo si rivolse a Giovanni II per chiedere il finanziamento di una spedizione che avrebbe dovuto portarlo a ovest attraverso l’Atlantico, la sua proposta cadde nel vuoto. Pur essendo riuscito a stuzzicare l’interesse del re portoghese tanto da indurlo a «… deliberò di mandare una caravella secretamente, la qual tentasse ciò che l’Ammiraglio offerto gli aveva», il fatto che anche le strabilianti scoperte di Diaz non avessero séguito lascia pensare che la preoccupazione primaria del Portogallo fosse
quella di consolidare la propria espansione nelle parti del Nuovo Mondo con cui era da poco entrato in contatto, piuttosto che espandersi ulteriormente. 30 Le cose cambiarono quando Colombo trovò finalmente in Ferdinando e Isabella, i sovrani di Castiglia e Aragona, l’appoggio che andava cercando e salpò nel 1492. Le notizie sulle sue scoperte al di là dell’Atlantico seminarono grande entusiasmo in tutta Europa. Nuove terre e isole che facevano parte «dell’India al di là del Gange erano state scoperte», annunciava fiducioso in una lettera inviata a Ferdinando e Isabella durante il viaggio di ritorno in Spagna. Questi nuovi territori erano «fertili oltre ogni limite … al di là di ogni confronto con gli altri». Laggiù le spezie crescevano in così gran quantità che non era possibile darne conto; c’erano «grandi miniere d’oro e altri metalli» che attendevano solo di essere sfruttate, così come grandi scambi commerciali da fare «con la terraferma … appartenente al Gran Khan». Cotone, lentisco, legno di aloe, rabarbaro, spezie, schiavi e «mille altre cose di valore», erano tutte disponibili in abbondanza. 31 In realtà, Colombo era rimasto confuso e disorientato da ciò che aveva scoperto. Al posto delle popolazioni colte che si era aspettato di incontrare, aveva trovato gli indigeni delle tribù locali che giravano nudi e sembravano, ai suoi occhi, sorprendentemente primitivi. Se da un lato uomini e donne erano «molto ben fatti, di corpo molto bello e di volto molto gradevole», osservava, dall’altro erano creduloni, deliziati dal dono di berretti rossi, perline e cocci di vetro e di ceramica. Non conoscevano le armi, e se qualcuno mostrava loro una spada la afferravano dalla parte della lama, procurandosi dei tagli «per ignoranza». 32 Per certi aspetti, queste sembravano buone notizie: gli individui che aveva incontrato «sono molto mansueti e non sanno che cosa sia il male» annotava; «riconoscono che c’è Dio nel cielo e [sono] convinti che noi siamo venuti dal cielo e molto pronti a [ripetere] qualsiasi orazione che noi diciamo loro di dire e fanno il segno di Croce». Era solo una questione di tempo prima che «una moltitudine di popoli» si
convertisse «alla nostra santa fede». 33 Di fatto, la lettera che raccontava con spavalderia le sue straordinarie scoperte – le cui copie si diffusero così rapidamente che alcune circolavano a Basilea, Parigi, Anversa e Roma quasi prima ancora che l’esploratore e il suo equipaggio raggiungessero le acque di casa – era un capolavoro di arti oscure, nient’altro che «una trama di esagerazioni, malintesi e spudorate menzogne», come alcuni storici l’hanno definita. 34 Colombo non aveva trovato miniere d’oro, mentre le piante identificate come cannella, rabarbaro e aloe non erano nulla del genere. Né vi era la più remota traccia del Gran Khan. L’affermazione secondo cui c’erano talmente tanti tesori di cui impadronirsi che nel giro di sette anni ci sarebbero stati fondi sufficienti per pagare 5000 cavalieri e 50.000 fanti e procedere alla conquista di Gerusalemme era, poi, un vero e proprio inganno. 35 Lo stesso schema si ripeté in occasione dei viaggi successivi in cui l’esploratore attraversò di nuovo l’Atlantico. Ancora una volta assicurò ai suoi protettori Ferdinando e Isabella di avere trovato miniere d’oro, attribuendo alle malattie e ai problemi logistici l’impossibilità di fornire prove più concrete, e inviando pappagalli, cannibali e maschi castrati per cercare di nascondere la verità. Così come si era convinto di essere arrivato vicino al Giappone con la sua prima spedizione, ora riferiva con assoluta certezza, dopo aver trovato un paio di pepite di dimensioni impressionanti sull’isola di Hispaniola, di essere giunto nei pressi delle miniere di Ophir, da cui era stato estratto l’oro usato per costruire il Tempio di Salomone. In seguito affermò di aver scoperto addirittura le porte del paradiso, quando raggiunse la foce di un fiume che sappiamo essere l’Orinoco. 36 Alcuni degli uomini di Colombo, indignati per l’ossessivo zelo con cui curava ogni dettaglio delle spedizioni, per la parsimonia con cui razionava le provviste e per come perdeva facilmente le staffe quando qualcuno lo contraddiceva, tornarono in Europa riferendo notizie in aperto contrasto con i rapporti dell’ammiraglio, che peraltro stavano diventando francamente irritanti con il loro improbabile ottimismo. Attraversare l’Atlantico era una farsa, dichiararono ai sovrani di
Castiglia e Aragona l’esploratore spagnolo Pedro Margarit e il monaco missionario Bernardo Boyl: non c’era oro, e non avevano trovato nulla da riportare se non indiani nudi, uccelli pittoreschi e qualche gingillo; i costi delle spedizioni non sarebbero mai stati coperti. 37 Questo totale fallimento nella ricerca di tesori fu, forse, una delle ragioni per cui l’attenzione si spostò dalle ricchezze materiali di questi nuovi territori a quelle erotiche. I resoconti sulle terre appena scoperte scritti tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI appaiono sempre più incentrati sulle pratiche sessuali insolite, sui rapporti carnali in pubblico e sulla sodomia. 38 Ma poi il vento cambiò. Nel 1498, mentre stava esplorando la penisola di Paria, nell’odierno Venezuela settentrionale, Colombo s’imbatté in popolazioni autoctone che indossavano collane di perle, e poco dopo scoprì un gruppo di isole con banchi di ostriche straordinariamente ricchi. Gli esploratori si precipitarono a riempire le loro stive con quei tesori. I racconti dei contemporanei riferiscono che furono spediti in Spagna sacchi stracolmi di perle, «alcune grandi come nocciole, molto chiare e belle», che fecero la fortuna dei comandanti e degli equipaggi che li avevano portati in patria. 39 Ad accrescere l’entusiasmo erano i racconti sull’immane quantità di perle in attesa di essere raccolte, sulle loro enormi dimensioni e, soprattutto, sui prezzi praticati dalla gente del posto, che diventavano rapidamente sempre più esagerati via via che queste voci circolavano per Europa. In uno scritto a firma di Amerigo Vespucci, molto rimaneggiato o, più probabilmente, apocrifo, si narra che l’esploratore fiorentino riuscì a comprare «cento e diciannove marchi di perle» (circa trenta chili di peso), in cambio di «nient’altro che campanelle, specchi, perline di vetro e foglie di ottone. Uno [dei nativi] ha ceduto tutte le perle che aveva per un’unica campanella». 40 Alcune perle erano così grandi che acquistarono una fama propria, come «La Peregrina», che rimane una delle più grosse mai trovate, e la quasi omonima «La Pelegrina», famosa per la sua qualità impareggiabile. Entrambe hanno occupato per secoli un posto di riguardo nei tesori reali e imperiali di tutta Europa, raffigurate da Velázquez nei suoi ritratti di sovrani, fino a diventare i pezzi forti di
leggendarie collezioni moderne, come quella di Elizabeth Taylor. Dopo il momento di euforia per le perle venne la scoperta dell’oro e dell’argento, quando nel corso delle loro esplorazioni nel Centro e nel Sudamerica gli spagnoli vennero in contatto con società sofisticate e complesse, come gli Aztechi e, subito dopo, gli Inca. Inevitabilmente, l’esplorazione si trasformò in conquista. Già nella sua prima spedizione, Colombo aveva rilevato che gli europei godevano di un enorme vantaggio tecnologico rispetto alle popolazioni in cui si erano imbattuti. «Questi indiani non hanno armi e sono tutti nudi e di nessun ingegno nelle armi e molto codardi, che mille [di loro] non attenderebbero [a piè fermo] tre [dei nostri].» 41 Durante un banchetto, se ne erano stati a osservare con stupore Colombo mentre mostrava loro la precisione di tiro di un arco «turchesco» e poi la potenza di una bombarda e di una spingarda, un’arma pesante in grado di perforare le corazze. I nuovi arrivati provavano forse simpatia per i tratti idilliaci e ingenui dei popoli che incontrarono, ma erano anche orgogliosi dei loro strumenti di morte, che erano frutto di secoli di conflitti pressoché ininterrotti, sia contro i musulmani sia contro gli altri regni cristiani d’Europa. 42 Colombo aveva già detto la sua sull’apatia e l’ingenuità di coloro che aveva incontrato in occasione del suo primo viaggio. «Sono adatti perché loro si comandi e si facciano lavorare e seminare e fare tutto l’altro di cui ci sia in futuro di bisogno, e che costruiscano città e che si insegni loro ad andar vestiti e secondo i nostri costumi» scrisse l’esploratore. 43 Le popolazioni autoctone furono identificate fin dall’inizio come potenziali schiavi; in poco tempo, la violenza divenne un’abitudine. Sull’isola di Cuba, nel 1513, gli abitanti dei villaggi che erano arrivati per omaggiare gli spagnoli con doni di cibo, pesce e pane «dando fondo alle loro scorte» furono massacrati «senza la minima provocazione», come afferma sconvolto uno spettatore. Questo fu solo uno dei tanti episodi di atrocità. «Vidi … la crudeltà su una scala che nessun essere vivente ha mai visto o si aspetta di vedere» scrisse il frate spagnolo Bartolomeo de Las Casas a proposito delle sue esperienze nei primi tempi dell’insediamento europeo, in un rapporto inorridito volto a informare i compatrioti di ciò che stava
accadendo nel Nuovo Mondo. 44 Quello che vide era solo l’inizio, come riferì nel corrusco resoconto del trattamento subìto dagli «indiani» contenuto nella sua Historia de las Indias. Le popolazioni indigene dei Caraibi e delle Americhe furono sterminate. Nel giro di pochi decenni dal primo viaggio di Colombo, il numero degli indigeni taino passò da mezzo milione a poco più di duemila. Ciò fu in parte il risultato del trattamento feroce inflitto da coloro che iniziarono a definire sé stessi «conquistadores». La sanguinosa spedizione di Hernán Cortés per l’esplorazione e la conquista dell’America centrale portò alla morte del sovrano azteco Montezuma e al crollo del suo impero. Cortés non si fermava davanti a nulla pur di arricchirsi. «Io e i miei compagni» disse agli Aztechi «soffriamo di una malattia del cuore che può essere curata solo con l’oro.» 45 State tranquilli, pare abbia promesso a Montezuma, «non abbiate paura. Noi vi amiamo molto. Oggi i nostri cuori sono in pace». 46 Cortés sfruttò appieno la situazione, anche se le storie che facevano risalire i suoi successi alla convinzione degli Aztechi che egli fosse la manifestazione del dio Quetzalcoatl sono invenzioni posteriori. 47 Stringendo un’alleanza con Xicoténcatl, capo dei Tlaxcaltechi, che sperava di trarre vantaggio dalla caduta degli Aztechi, gli spagnoli si diedero a smantellare uno Stato altamente sofisticato. 48 Come divenne abituale in altre parti delle Americhe, i locali vennero trattati con disprezzo. Le popolazioni indigene, scrisse un cronista a metà del Cinquecento, «sono talmente vili e paurose che la sola vista dei nostri uomini li intimorisce … inducendoli a fuggire come donnette di fronte anche a un piccolo numero di spagnoli». Quanto a giudizio, saggezza e virtù, scrisse, «sono inferiori come i bambini lo sono agli adulti». Infatti, proseguiva, erano più simili alle scimmie che agli uomini, quindi a stento erano considerati umani. 49 In un dispiegarsi di crudeltà che reggono il confronto con le grandi invasioni mongole dell’Asia, Cortés e i suoi uomini saccheggiarono i tesori degli Aztechi, depredando «come animali … ogni uomo posseduto per intero dall’avidità», secondo una relazione
cinquecentesca scritta da testimoni oculari. Furono razziati oggetti di grande pregio, tra i quali «collane di gemme pesanti, cavigliere finemente lavorate, braccialetti, anelli da caviglia con campanelline d’oro e il diadema turchese che è l’insegna del sovrano, ed è riservato a lui solo». L’oro venne asportato da scudi e montature e fuso in barre; gli smeraldi e la giada furono portati via. «Si presero tutto.» 50 E come se ciò non bastasse, in uno dei grandi episodi di crudeltà dell’era moderna, la nobiltà e il clero di Tenochtitlán, la capitale azteca, furono massacrati nel corso di una festa religiosa. Il piccolo contingente spagnolo cadde in preda alla follia omicida, tagliando le mani ai suonatori di tamburo per poi assalire le folle con le lance e le spade. «Il sangue … scorreva come acqua, come acqua fangosa; e il suo lezzo riempiva l’aria», mentre gli europei andavano di casa in casa alla ricerca di nuove vittime. 51 Non furono solo l’uso della forza e le fortunate alleanze a segnare la rovina della popolazione indigena: anche le malattie portate dall’Europa fecero la loro parte. 52 Gli abitanti di Tenochtitlán si ammalarono in gran numero allo scoppio di focolai di vaiolo altamente contagiosi a cui non potevano opporre alcuna resistenza immunitaria, che comparvero per la prima volta intorno al 1520. 53 Poi arrivò la carestia. A causa dei tassi di mortalità particolarmente elevati tra le donne, la produzione agricola, prevalentemente affidata a loro, crollò. E la situazione peggiorò perché la gente si diede alla fuga per evitare il contagio, così c’erano ancora meno persone per la semina e il raccolto, e nel giro di breve tempo la filiera alimentare s’interruppe completamente. Le vittime dovute alle malattie e alla fame furono innumerevoli. 54 Nel secondo decennio del XVI secolo un’epidemia catastrofica, forse d’influenza o, più probabilmente, di vaiolo, colpì gran parte della popolazione maya dei Cakchiquel, in Guatemala; il fetore dei cadaveri in decomposizione ristagnò nell’aria, mentre cani e avvoltoi li divoravano. Poi, pochi anni dopo, si scatenò un’altra pandemia: questa volta era morbillo. Le antiche popolazioni del Nuovo Mondo non ebbero scampo. 55
Le vie marittime verso l’Europa si affollarono di navi stracariche provenienti dalle Americhe. La nuova rete, in grado di rivaleggiare con quelle che attraversavano l’Asia in termini sia di distanza sia di estensione, ben presto le superò quanto a valore: difficile immaginare le quantità di argento, oro, pietre preziose e tesori che varcavano l’Atlantico. I racconti delle ricchezze del Nuovo Mondo venivano impreziositi di curiosi dettagli. Agli inizi del XVI secolo si favoleggiava di grosse pepite d’oro che dalle pendici delle colline rotolavano nei fiumi, dove la gente del luogo le raccoglieva con le reti. 56 Se i primi resoconti di Colombo millantavano ricchezze inesistenti, ora i metalli preziosi stavano davvero arrivando in patria. Albrecht Dürer rimase sbalordito dalla finissima fattura dei tesori aztechi che vide esposti nel 1520. «In tutta la mia vita io non avevo mai visto nulla che rallegrasse tanto il mio cuore,» scrisse, riferendosi a oggetti che includevano «un sole tutto d’oro» e una luna d’argento, entrambi larghi quasi due metri. L’artista rimase di sasso davanti a quegli «oggetti artistici stupefacenti», meravigliato dal «raffinato ingegno degli uomini di quelle terre lontane» che li avevano creati. 57 Ragazzi come Pedro Cieza de León – che sarebbe poi diventato il conquistador del Perú – se ne stavano incantati sulle banchine di Siviglia ad ammirare i tesori che venivano scaricati a ciclo continuo dalle navi e caricati sui carri per essere portati via. 58 Uomini ambiziosi varcarono l’Atlantico per approfittare delle opportunità offerte dal Nuovo Mondo. Muniti di contratti e concessioni a firma della Corona spagnola, individui senza scrupoli come Diego de Ordás, che seguì Cortés in Messico e in seguito fu a capo di missioni esplorative nell’America centrale e nell’attuale Venezuela, accumularono enormi ricchezze personali mungendo le popolazioni locali a suon di tributi. E poiché anche la Corona riceveva la sua fetta di torta, i forzieri reali spagnoli videro crescere sensibilmente gli introiti. 59 Nell’arco di breve tempo si sviluppò nel paese un approccio sistematico alla raccolta di informazioni, che si tradusse nella realizzazione di carte geografiche affidabili, nella mappatura delle
nuove scoperte, nell’addestramento di piloti navali e, naturalmente, nella catalogazione e adeguata tassazione di tutto ciò che veniva importato. 60 Era come se fosse stato avviato un motore perfettamente messo a punto, che dall’America centrale e meridionale pompava ricchezze direttamente in Europa. In aggiunta, una fortunata coincidenza di tempi, tra legami di nozze, gravidanze interrotte e promesse di matrimonio mancate, aveva generato un unico erede ai regni di Napoli, Sicilia e Sardegna e non solo, perché si trattava di territori che andavano dalla Borgogna ai Paesi Bassi, per non dire della Spagna. Sostenuto dai fondi apparentemente illimitati che arrivavano dall’Atlantico, il re di Spagna Carlo V non era solo il sovrano di un nuovo impero nelle Americhe, ma anche la figura dominante della politica europea. E, di conseguenza, rimodulò le sue ambizioni: nel 1519, per rafforzare ulteriormente la sua posizione, Carlo si avvalse della sua straordinaria potenza finanziaria e si assicurò la corona del Sacro Romano Impero. 61 Il vento propizio di cui godeva il nuovo imperatore ebbe effetti dirompenti sugli altri sovrani europei, che si videro superati dalla forza militare, dalle capacità politiche e dall’ambizione di un uomo deciso a espandere ancora di più la sua potenza. La sua ricchezza e l’influenza che era in grado di esercitare erano in netto contrasto con quelle di personaggi come Enrico VIII d’Inghilterra, il cui reddito era francamente imbarazzante già al confronto con quello della Chiesa del suo stesso paese, per non parlare del suo omologo spagnolo. Uomo fortemente competitivo – che nelle parole del legato veneziano a Londra aveva «un’assai sottile caviglia alla fine della gamba», portava i capelli corti e lisci «all’uso francese» e aveva una faccia tonda «così bella da poter essere una bella donna» –, Enrico non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per scombussolare i suoi assetti familiari. 62 In un’epoca in cui Carlo V era diventato il burattinaio di gran parte dell’Europa e del papato stesso, l’insistenza di Enrico nel voler annullare il suo matrimonio in modo da poter sposare Anna Bolena – una signora che, nelle parole di un contemporaneo, «non era tra le
donne più belle del mondo», ma aveva ricevuto in dono occhi «neri e splendidi» – era un gesto ben più che temerario, tenuto conto che la moglie che stava ripudiando altri non era che la zia dello stesso Carlo, ovvero Caterina d’Aragona. 63 Nel subbuglio che ne seguì, dopo il rifiuto da parte del papa di benedire l’annullamento delle nozze, il re d’Inghilterra non si stava mettendo in urto soltanto con il papato, ma stava attaccando briga con l’uomo più ricco del mondo, padrone di interi continenti. La crescente importanza della Spagna in Europa e la sua rapida espansione nell’America centro-meridionale avevano quasi del miracoloso. Un netto mutamento nell’accesso alle ricchezze, al potere e alle opportunità aveva determinato la sua trasformazione da remota provincia collocata dalla parte sbagliata del Mediterraneo a potenza globale. Secondo un cronista spagnolo, si trattava nientemeno che del «più grande evento dopo la Creazione, a parte l’incarnazione e la morte di colui che ne era l’autore». 64 Per un altro, era con tutta evidenza Dio stesso che aveva svelato «le contrade del Perú, dove si celava un così enorme tesoro in oro e in argento»; le future generazioni, sosteneva Pedro Mexía, non avrebbero creduto alle quantità che ne erano state trovate. 65 Alla scoperta delle Americhe seguì ben presto l’importazione di schiavi, comprati sui mercati del Portogallo. Com’era noto ai portoghesi dalle loro precedenti esperienze negli arcipelaghi dell’Atlantico e in Africa occidentale, fondare colonie era un’operazione costosa, non sempre economicamente remunerativa e, comunque, più facile a dirsi che a farsi: convincere le famiglie a separarsi dai loro cari era già abbastanza complicato, ma l’ostacolo maggiore erano l’alto tasso di mortalità e le dure condizioni di vita sul posto. I portoghesi avevano dunque optato per l’invio forzato di orfani e galeotti in luoghi come São Tomé, coniugandolo con un insieme di vantaggi e incentivi, come la disponibilità di «schiavi maschi e femmine per i bisogni personali», allo scopo di costituire una popolazione residente in grado di costruire e gestire una pubblica amministrazione. 66 Nel giro di trent’anni dal viaggio di Colombo, la Corona spagnola
aveva già cominciato a disciplinare formalmente l’esportazione e il trasporto di schiavi dall’Africa al Nuovo Mondo, concedendo licenze ai mercanti portoghesi già più che incalliti da generazioni di traffici di esseri umani. 67 La domanda era continua, in una terra in cui violenza e malattie riducevano l’aspettativa di vita. Analogamente a quanto era accaduto con lo sviluppo del mondo islamico nell’VIII secolo, un aumento della concentrazione di ricchezza in una parte del mondo significava una netta crescita della domanda di schiavi provenienti da un’altra. Ricchezza e schiavitù viaggiavano mano nella mano. Di lì a poco, però, i sovrani africani cominciarono a protestare. Il re del Congo rivolse una serie di appelli alla Corona portoghese, lamentando l’impatto dello schiavismo. Reclamava perché giovani uomini e giovani donne – appartenenti anche a famiglie nobili – venivano rapiti alla luce del sole per essere venduti ai trafficanti europei, che poi li marchiavano con ferri roventi. 68 Che la smettesse di lamentarsi, rispose il sovrano portoghese: il Congo era una terra sterminata, a cui non costava nulla privarsi di un po’ dei suoi abitanti. E poi traeva ricchi benefici dal commercio, incluso quello degli schiavi. 69 Alcuni europei, perlomeno, erano angosciati dalla sorte degli schiavi, e da quella che ai loro occhi appariva come un’incontenibile ossessione di trarre profitto dalle terre appena scoperte. Se il progetto di riconquistare Gerusalemme era scivolato nel dimenticatoio, l’idea dell’evangelizzazione come un dovere cristiano ne prese rapidamente il posto. 70 I coloni europei in Sud America, scriveva nel 1559 un anziano gesuita senza riuscire a nascondere la sua rabbia, «non riuscivano a comprendere» che scopo della colonizzazione «non era tanto quello di guadagnare oro e argento, popolare le terre e costruire mulini, o di … riportare [a casa] ricchezze … quanto invece di glorificare la fede cattolica e salvare le anime». 71 Il punto era diffondere la parola di Dio, non accumulare quattrini. Tali proteste echeggiavano chiaramente quelle dei missionari cristiani che secoli addietro avevano percorso le fiorenti vie commerciali e gli insediamenti umani nelle steppe della Russia meridionale e dell’Asia centrale, lamentando anch’essi come l’eccessiva attenzione al
commercio finisse per distogliere il pensiero da questioni di maggior importanza. Nel caso del Nuovo Mondo, appariva più che fondato deprecare la noncuranza per i benefici delle ricompense spirituali. Era tale la quantità di oro che prendeva la via della Spagna che, intorno alla metà del XVI secolo, c’era chi sosteneva che neanche l’epoca del leggendario re Salomone potesse reggere il confronto. Tali e tanti erano i tesori in arrivo via mare, si sentì dire Carlo V nel 1551, che «quest’epoca dovrebbe essere più correttamente nota come era dorada, un’età dell’oro». 72 Non tutte le ricchezze ricavate dalle Americhe riuscivano ad arrivare in Spagna. Non appena si seppe delle flotte cariche di tesori dirette in patria, avventurieri dall’occhio acuto e pirati che avevano le loro basi nei porti della Francia e del Nord Africa presero a intercettarle per impadronirsi del bottino; cosa che facevano sia restando in agguato lungo l’ultimo tratto del viaggio sia, in un secondo tempo, avventurandosi fin nei Caraibi per assalire ancor prima i loro ricchi bersagli. 73 La fama della favolosa entità della posta in gioco richiamava profittatori da ogni dove. «I resoconti delle grandi ricchezze e della gloria» che potevano procacciarsi lungo le coste atlantiche dell’Africa settentrionale, scriveva sconsolato un contemporaneo, attiravano gli uomini laggiù «con lo stesso entusiasmo che spronava gli spagnoli verso le miniere delle Indie». 74 Nel conto erano compresi anche i corsari musulmani che, oltre a tentare di impadronirsi delle navi che tornavano cariche di merci, si diedero anche ad assalire porti e cittadine lungo le coste spagnole, portando via migliaia di prigionieri poi liberati in cambio di un riscatto, oppure venduti come schiavi. Le incursioni vennero ammantate da motivazioni religiose, che però erano soltanto un modo troppo idealizzato di vedere le cose. Eppure, anche nel caso della pirateria europea occorreva fare delle distinzioni sul piano politico. Gli assalti contro i vascelli spagnoli divennero un’attività regolamentata da autorizzazioni, le cosiddette «lettere di corsa», emesse dai sovrani cristiani nemici del re di Spagna. Alle quali la Corona spagnola reagì prontamente sottoscrivendo
contratti assai allettanti, denominati contra-corsarios, con l’obiettivo di dare la caccia ai pirati e consegnare alla giustizia i colpevoli più efferati. Chi si dedicò con successo a queste imprese ottenne lucrose ricompense e considerevole fama, come Pedro Menéndez de Avilés, il quale metteva una tacca per ogni preda, proprio come i piloti che, in tempo di guerra, registravano accuratamente ogni abbattimento. 75 Al di là dei mari era stato scoperto un Nuovo Mondo, ma un nuovo mondo stava nascendo anche da questa parte dell’oceano. Un mondo in cui erano incoraggiate nuove e palpitanti idee, in cui si dava sfogo a nuovi gusti, in cui intellettuali e scienziati facevano a gara per trovare mecenati e finanziamenti. L’aumento del reddito di coloro che erano direttamente coinvolti nello sfruttamento dei nuovi continenti e la ricchezza che riportarono in patria finanziarono una trasfusione culturale che trasformò l’Europa. Nell’arco di pochi decenni emerse un congruo numero di ricchi mecenati, più che desiderosi di investire nel lusso. C’era una crescente aspirazione a possedere cose rare ed esotiche. Questa nuova prosperità rese l’Europa piena di orgoglio e di fiducia nei propri mezzi, e rafforzò anche la fede religiosa, quello che avrebbe dovuto fare la riconquista di Gerusalemme. Per molti era del tutto ovvio che l’immensa e apparentemente illimitata ricchezza prodotta dalle Americhe era una conferma della benedizione divina ed era stata «decretata dal Signore dei cieli, che dà e toglie i regni a chiunque e in qualunque modo egli desideri». 76 L’alba di una nuova era, un’autentica età dell’oro, fece sì che la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi, nel 1453, evento che aveva suscitato lamentazioni, pianti e mea culpa per le strade di Roma, venisse dimenticata. Il nuovo compito era reinventare il passato. La triste fine dell’antica capitale imperiale offriva un’occasione unica per rivendicare il lascito dell’antica Grecia e dell’antica Roma da parte dei loro eredi adottivi; un’occasione che fu colta con piacere. Di fatto, la Francia, la Germania, l’Austria, la Spagna, il Portogallo e l’Inghilterra non avevano nulla a che fare con Atene e il mondo degli antichi Greci, ed erano rimaste
perlopiù periferiche rispetto alla storia di Roma, dalle origini fino al suo crollo. Ma si preferì sorvolare su questo aspetto, mentre letterati e architetti si mettevano all’opera mutuando dall’antichità temi, idee e testi per produrre una narrazione che attingeva selettivamente dal passato e che, con il passare del tempo, divenne non solo sempre più plausibile ma, semplicemente, la norma. Perciò, benché gli studiosi abbiano a lungo chiamato questo periodo «Rinascimento», non si trattò affatto di una rinascita. Semmai, si trattò di una Nascita, di un venire alla luce. Per la prima volta nella storia, l’Europa era al centro del mondo.
XII
LA VIA DELL’ARGENTO
Anche prima della scoperta delle Americhe, la situazione del commercio aveva cominciato a mostrare segni di ripresa dopo gli scossoni economici del XV secolo. Alcuni studiosi ne attribuiscono la causa a un più agevole accesso ai mercati dell’oro in Africa occidentale, unitamente a un aumento della produzione mineraria nei Balcani e in altre zone d’Europa, forse dovuto ai progressi tecnologici che contribuirono a sbloccare nuove forniture di metalli preziosi. Sembra, per esempio, che la produzione di argento in Sassonia, Boemia, Ungheria e Svezia sia quintuplicata nei decenni successivi al 1460. 1 Altri sottolineano il fatto che nella seconda metà del Quattrocento la riscossione delle imposte divenne più efficiente. La contrazione economica aveva impartito diverse lezioni, non ultima quella che occorreva un più attento controllo sulla base imponibile, il che determinò, a sua volta, quella che è stata definita la «rinascita della monarchia», in cui la centralizzazione costituiva un fattore importante a livello sia monetario che sociale e politico. 2 A giudicare dal racconto di un viaggiatore coreano, pare che sul finire del XV secolo l’attività commerciale abbia subìto un’accelerazione. Nel porto di Suzhou, a un centinaio di chilometri da Shanghai, le navi si affollavano «come nuvole», scrisse Ch’oe P’u, in attesa di imbarcare i loro carichi di «sete finissime, garze, oro, argento, gioielli, artigianato» destinati ai nuovi mercati. La città era piena di facoltosi commercianti e vantava elevati livelli di benessere. «La gente vive lussuosamente» annotò l’autore con invidia, sottolineando che in quella regione ricca e fertile «i quartieri commerciali sono disseminati come stelle». 3 Per quanto tutto ciò costituisse una condizione favorevole, la chiave di tale prosperità non stava nei porti della costa
cinese del Pacifico, ma a migliaia di miglia di distanza, nella Penisola iberica. Il cambiamento decisivo avvenne in due luoghi e momenti diverse. La graduale ripresa economica dell’Europa nella seconda metà del XV secolo aveva già stimolato la domanda di prodotti di lusso da parte dei consumatori, e quando le ricchezze del Nuovo Mondo iniziarono a essere spedite in Spagna, si accumulò un immenso serbatoio di risorse. A Siviglia, oro e argento venivano «immagazzinati come grano» presso la dogana, dando così impulso alla costruzione di un nuovo edificio in grado di contenere lo straordinario volume di merci in entrata, così da poterli tassare correttamente. 4 Un osservatore riferì del proprio stupore nell’assistere allo sbarco del carico di una flotta: davanti ai suoi occhi sfilarono infatti, in un solo giorno, 332 «carri ricolmi di argento, oro e perle preziose» destinati a essere formalmente registrati. E, sei settimane dopo, vide consegnare altri 686 carichi di metalli preziosi. C’era così tanta roba, scrisse, che la «Casa [de Contratación] non poté accogliere tutto e una parte invase anche il patio». 5 L’enorme colpo di fortuna giunto con la traversata atlantica di Cristoforo Colombo coincise con lo spettacolare successo di un’altra, non meno ambiziosa, spedizione marittima. Proprio mentre in Spagna cominciava a diffondersi il timore che i tentativi di Colombo di trovare una rotta per l’Asia fossero un costoso errore, un’altra flotta veniva equipaggiata e si preparava a salpare. Posti sotto il comando di Vasco da Gama, gli equipaggi furono ricevuti prima della partenza dal re del Portogallo, Manuele I. Evitando intenzionalmente di menzionare le recenti scoperte al di là dell’Atlantico, il sovrano delineò gli obiettivi della missione: trovare una «nuova via per l’India e i paesi vicini». In tal modo, proseguì, «la fede in Nostro Signore Gesù Cristo» sarebbe stata proclamata e «nuovi regni e domini» sarebbero stati sottratti agli infedeli, vale a dire ai musulmani. Ma Manuele mirava anche a obiettivi più immediati. Non sarebbe stato meraviglioso, rifletteva, entrare in possesso delle «ricchezze dell’Oriente così celebrate dagli antichi autori»? Bastava guardare, aggiungeva, a come Venezia, Genova e Firenze e le altre grandi città
italiane avevano beneficiato del commercio con l’Oriente. I portoghesi erano dolorosamente consapevoli di trovarsi non solo dalla parte sbagliata del mondo, ma anche all’estremità sbagliata dell’Europa. 6
Tutto questo cambiò con la spedizione esplorativa di Vasco da Gama. Inizialmente, quando le sue navi raggiunsero l’Africa australe, le prospettive non sembravano buone. A deludere non furono tanto gli abitanti, che si vestivano di pelli e indossavano guaine sui genitali, o le cose di cui si cibavano, carne di foca e di gazzella e radici da masticare. Il problema era che, quando alla gente del posto furono mostrati campioni di cannella, chiodi di garofano, perle, oro e quant’altro, «loro non capirono nulla di quelle mercanzie, come uomini che non le avessero mai viste». 7 Dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza ed essersi diretto verso nord, la fortuna dell’ammiraglio portoghese cambiò. A Malindi, non solo apprese del passaggio verso est, ma trovò un pilota esperto disposto ad aiutarlo ad affrontare i monsoni e a raggiungere l’India. Dopo un viaggio della durata di dieci mesi, gettò l’ancora al largo del porto di Kozhikode. 8 Vasco da Gama era riuscito là dove Colombo aveva fallito: aveva trovato una rotta marittima per l’Asia. Sul posto c’erano già comunità di commercianti provenienti da paesi vicini al Portogallo: tra le prime voci che udì, infatti, ce n’erano alcune che parlavano una lingua familiare. «Che il diavolo ti porti» gridò un mercante musulmano che parlava spagnolo e genovese ed era arrivato da Tunisi con un compagno. «Chi ti ha portato qui?» Quello che gli dissero, dopo uno scambio di convenevoli, era musica per le sue orecchie: «Buena ventura, buena ventura; molti rubini, molti smeraldi. Dovete render grazie a Dio, per avervi portato alla terra dove c’è tanta ricchezza». 9 Tuttavia, i portoghesi faticavano a dare un senso a ciò che vedevano, proprio com’era successo a Colombo. Pensavano che i templi indù e le loro statue di divinità con il capo incoronato fossero chiese e icone di santi cristiani, e, nella loro interpretazione, l’acqua spruzzata nei rituali di purificazione altro non era che l’acqua santa dispensata dai sacerdoti cristiani. 10 Da tempo circolavano in Europa leggende secondo cui san Tommaso, uno dei discepoli di Gesù, aveva raggiunto l’India e convertito un gran numero di persone al cristianesimo, e questo fece sì che da Gama traesse e riportasse in patria una quantità di conclusioni errate, non ultima la notizia che in
Oriente c’erano molti regni cristiani pronti a combattere contro l’islam. Gran parte di ciò che gli esploratori riferirono sulle loro scoperte in Oriente si rivelò fuorviante, o semplicemente sbagliato. 11 I negoziati con lo zamorin, il sovrano di Kozhikode, misero ulteriormente alla prova da Gama, il quale fu costretto a spiegare come mai, se il re del Portogallo possedeva veramente un’incomparabile ricchezza, molto superiore a quella di «qualunque re di questi paesi», non fosse in grado di esibire alcuna prova al riguardo. In effetti, quando mostrò una selezione di cappelli e di bacili, oltre a qualche collana di corallo, dello zucchero e del miele, i cortigiani dello zamorin scoppiarono in una fragorosa risata, dicendo che neanche il più povero mercante di Mecca avrebbe insultato il loro sovrano con un’offerta di doni così misera. 12 Nel frattempo la tensione saliva. I portoghesi scoprirono che la loro libertà di movimento era limitata e che un nutrito contingente di guardie, «tutte armate di spade, asce bipenni, scudi, archi e frecce», li sorvegliava attentamente. Da Gama e i suoi uomini temettero il peggio, finché lo zamorin annunciò, senza preavviso, che avrebbe permesso ai portoghesi di sbarcare le loro merci e di scambiarle. Gli europei accumularono avidamente grandi quantità di spezie e di mercanzie varie per mostrare quello che avevano trovato durante i loro viaggi, e fecero rotta verso casa. Ciò che riportarono in patria cambiò il mondo. Il ritorno di Vasco da Gama, dopo un epico viaggio durato due anni, scatenò euforici festeggiamenti. In una cerimonia che si tenne nella cattedrale di Lisbona per celebrare il suo successo, il navigatore fu esplicitamente paragonato ad Alessandro Magno, un accostamento che gli autori coevi, e non solo portoghesi, adottarono con fervore e riproposero spesso, per descrivere l’aprirsi di un mondo nuovo e sconosciuto in terra d’Oriente. 13 Il fatto di aver raggiunto l’India era un grande trionfo propagandistico per re Manuele, che scrisse subito a Ferdinando e Isabella (suoi suoceri) vantando il successo dell’impresa, e raccontando con malcelata gioia come i suoi uomini avessero riportato «cannella, chiodi di garofano, zenzero, noce moscata e pepe», insieme
ad altre spezie e piante, così come «molte belle pietre di tutti i tipi, come rubini e altre». «Senza dubbio» aggiungeva in tono giulivo «le Vostre Altezze apprenderanno queste notizie con molto piacere e soddisfazione.» 14 Colombo aveva parlato di risultati potenziali, da Gama li aveva raggiunti. I sovrani di Spagna ebbero di che consolarsi. Dopo la prima spedizione oltreatlantico, Ferdinando e Isabella avevano fatto pressioni sul papa perché concedesse alla Corona spagnola la sovranità su tutti i territori scoperti oltreoceano, analogamente a quanto il papato aveva fatto ripetutamente nel corso del XV secolo rispetto alle spedizioni portoghesi in Africa. Nel 1493 furono emesse almeno quattro bolle papali per definire l’assetto delle nuove scoperte. Dopo molte discussioni su dove esattamente si dovesse tracciare una linea longitudinale, un accordo fu infine raggiunto nel 1494 con la firma del trattato di Tordesillas, che fissò il confine a 370 leghe oltre le isole di Capo Verde. Una «linea di demarcazione» doveva essere tracciata, secondo il trattato, da «una commissione formata da rappresentanze di piloti, astrologi e marinai delle due nazioni». Tutto ciò che si trovava a ovest apparteneva alla Spagna, e tutto ciò che era a est al Portogallo. 15 Trent’anni dopo, la vera portata dell’accordo cominciò a essere chiara. Nel 1520 le navi portoghesi si erano spinte nelle esplorazioni ancora più a est, oltrepassando l’India per raggiungere Malacca, le Molucche e Canton. Gli spagnoli, nel frattempo, non solo avevano capito di aver scoperto due continenti nelle Americhe, ma – grazie alla spettacolare spedizione di un marinaio che era riuscito ad attraversare il Pacifico e a raggiungere le Filippine e le Molucche – avevano anche portato a termine una circumnavigazione del globo senza precedenti. Non era privo di ironia il fatto che alla guida di questa missione ci fosse un portoghese, incaricato dalla Spagna di raggiungere le Molucche da ovest e di assicurarle non al suo paese di nascita, ma a quello vicino e rivale. 16 Quando Fernão de Magalhães, meglio noto come Ferdinando Magellano, intraprese questa epica spedizione nel 1519-20, il Portogallo e la Spagna tornarono al tavolo delle trattative, per accordarsi su un confine nel Pacifico corrispondente a quello
tracciato nell’Atlantico. I due vicini iberici si spartivano il globo, con la benedizione del papato, e perciò stesso di Dio. 17 Il resto dell’Europa doveva ora adeguarsi alle crescenti fortune della Spagna e del Portogallo. La notizia del ritorno in patria di da Gama, nel 1499, fu accolta a Venezia con un misto di stupore, tristezza e isteria: una voce disse forte e chiaro a chiunque fosse disposto ad ascoltare che la scoperta di una rotta marittima per l’India attraverso l’Africa meridionale significava nientemeno che la fine per la città. 18 Era inevitabile, disse Girolamo Priuli, che Lisbona detronizzasse Venezia come capitale commerciale d’Europa: «Non c’è alcun dubbio» scrisse «che ungheresi, tedeschi, fiamminghi e francesi, e tutti coloro che attraversavano le montagne per venire a Venezia ad acquistare spezie, ora si rivolgeranno a Lisbona per spendere il loro denaro». Per Priuli, le ragioni erano ovvie. Tutti sapevano, sostenne nel suo diario, che le merci che arrivavano a Venezia via terra passavano attraverso infinite dogane dove si era costretti a pagare tasse e imposte; trasportando le loro merci via mare, i portoghesi avrebbero potuto offrirle a prezzi con cui Venezia non poteva sperare di competere. Le cifre parlavano chiaro: il destino della città lagunare era segnato. 19 Altri arrivarono alle stesse conclusioni. Guido Detti, un mercante fiorentino che all’inizio del Cinquecento aveva la sua sede in Portogallo, era fermamente convinto che i veneziani avrebbero perso il controllo del traffico commerciale, perché non sarebbero stati in grado di competere con i prezzi delle merci portate via mare a Lisbona. Il popolo di Venezia, osservò ironicamente, si sarebbe dovuto dedicare nuovamente alla pesca, e la città sarebbe tornata a chiudersi nella laguna da cui era sorta. 20 Le profezie sulla fine di Venezia erano infondate, almeno nel breve termine. Come altre opinioni più pacate non mancarono di rilevare, l’apertura di una rotta marittima verso oriente non era certo priva di rischi. Molti vascelli portoghesi non avevano mai fatto ritorno in patria. Meno della metà delle 114 navi che avevano doppiato la punta meridionale dell’Africa erano tornate sane e salve, annunciò al Senato lo statista veneziano Vincenzo Querini nel 1506. «Diciannove sono
sicuramente andate perdute, quasi tutte cariche di spezie, e nulla si sa di altre quaranta.» 21 Ciononostante, poco dopo i veneziani inviarono ambasciatori nell’Egitto musulmano per discutere di un’eventuale alleanza antiportoghese, prefigurando non solo la possibilità di operazioni militari congiunte, ma addirittura, anticipando la costruzione del canale di Suez avvenuta secoli dopo, valutarono l’ipotesi o la necessità di aprire una via d’acqua fino al mar Rosso, così da consentire il passaggio di «tutte le navi e galere che si voleva». 22 Anche se i portoghesi erano convinti che le operazioni dirette contro di loro nel mar Rosso e al largo della costa indiana nei primi anni del Cinquecento fossero il risultato di una grande coalizione orchestrata contro di loro da Venezia, in verità non furono necessarie molte pressioni perché gli egiziani si attivassero per imporre il controllo sulle proprie rotte di navigazione. La presenza sempre più massiccia di navi portoghesi non era stata accolta favorevolmente, anche perché i nuovi arrivati si mostravano quanto mai aggressivi. In un’occasione lo stesso Vasco da Gama aveva catturato una nave stipata di centinaia di musulmani, che tornavano in India dopo un pellegrinaggio a Mecca. Ignorando le disperate quanto generose offerte di riscatto fatte dai passeggeri, il navigatore ordinò che la nave fosse incendiata, un atto così mostruoso che un osservatore dichiarò: «Mi ricorderò di ciò che è successo ogni singolo giorno della mia vita». Le donne tendevano i gioielli per chiedere di essere salvate dalle fiamme o dall’acqua, mentre altre sollevavano i bambini per cercare di proteggerli. Da Gama assistette impassibile, «crudele e senza pietà», fino a quando anche l’ultimo dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio non annegò sotto i suoi occhi. 23 Gli attacchi ai porti e agli obiettivi strategicamente sensibili furono uno sviluppo preoccupante per l’Egitto. Gedda, il porto di Mecca, fu preso d’assalto nel 1505, e subito dopo furono saccheggiate Mascate e Qalhat, due località chiave del golfo Persico, e le loro moschee ridotte in cenere. 24 Altrettanto preoccupante era il fatto che i portoghesi iniziassero a pensare alla creazione di una rete di basi, per istituire una catena che arrivasse fino a Lisbona. Non ci poteva essere niente di
più importante, sostenne il comandante ed esploratore Francisco de Almeida nel 1505, «che avere un castello allo sbocco del mar Rosso, o nei suoi pressi», in quanto ciò avrebbe significato che «tutti quanti in India avrebbero rinunciato alla folle idea di poter commerciare con chiunque altro all’infuori di noi». 25 Di fronte a un atteggiamento così brutale, furono inviate squadre navali al comando del sultano del Cairo con l’ordine di pattugliare il mar Rosso e i suoi accessi e, nel caso, ricorrere direttamente all’uso della forza. 26 Alcuni comandanti portoghesi giunsero alla conclusione che fosse necessario un cambiamento di tattica. Le loro navi erano inutilmente esposte al pericolo, dichiarò uno di loro al re del Portogallo. Sarebbe stato meglio abbandonare i forti costruiti in luoghi che per gli egiziani erano una provocazione, come l’isola di Socotra, alla foce del mar Rosso, e cercare invece di stabilire rapporti di convivenza con l’Egitto islamico. 27 Lo slancio iniziale delle esplorazioni portoghesi era stato accompagnato da una violenza sfacciata e un’intolleranza brutale. Non ci volle molto, però, perché la situazione si stabilizzasse e l’iniziale retorica da cappa e spada sul trionfo del cristianesimo e la fine dell’islam lasciasse il posto a un approccio più concreto e realistico. A fronte di opportunità commerciali così allettanti, l’atteggiamento nei confronti dell’islam, dell’induismo e del buddhismo si ammorbidì rapidamente, proprio come era accaduto negli Stati crociati, e la spavalderia cedette il posto alla presa di coscienza che una minoranza in pesante inferiorità numerica aveva bisogno di costruire rapporti amichevoli, per garantirsi la sopravvivenza. Questo atteggiamento era reciproco, dato che in India e in luoghi come Macao e la Penisola malese i sovrani locali erano ben disposti a farsi concorrenza, accordando condizioni commerciali sempre migliori ai mercanti europei per assicurarsi che l’afflusso di denaro in più finisse nelle loro mani anziché in quelle dei loro rivali. 28 In un simile contesto, era nell’interesse di tutti minimizzare per quanto possibile le differenze religiose. C’erano ancora alcuni, tuttavia, che coltivavano progetti grandiosi. «Il Cairo e Mecca saranno rovinati, e
Venezia non potrà più procurarsi spezie, se non quelle che i mercanti saranno in grado di acquistare in Portogallo.» Così ragionava Alfonso de Albuquerque sul significato della presa di Malacca, quando decise di massacrare la popolazione musulmana della città, il che, in definitiva, servì soltanto a interrompere gli scambi commerciali e a generare ostilità e profonda diffidenza. 29 La famiglia regnante si ritirò, fondando nuovi sultanati a Perak e Johor, che garantirono una base di autorità di fronte alla concorrenza sempre più agguerrita delle potenze europee. 30 Tuttavia, nella maggior parte dei casi, e a differenza di quanto accadde nelle Americhe, la scoperta di una rotta verso est fu prevalentemente una storia di cooperazione, più che di conquista. Il risultato fu un enorme incremento degli scambi commerciali, da est a ovest. Con l’Europa quasi sommersa dal peso delle ricchezze giunte dalle Americhe, la capacità di spesa per i beni di lusso provenienti dall’Asia crebbe a dismisura. Ben presto, i negozi di Lisbona, Anversa e degli altri empori europei si riempirono di porcellane cinesi e di sete Ming. 31 Ma le importazioni di gran lunga più importanti, in termini di quantità e desiderabilità, erano le spezie. Pepe, noce moscata, chiodi di garofano, incenso, zenzero, sandalo, cardamomo e curcuma erano molto apprezzati nella gastronomia europea fin dal tempo dei romani, ed erano usati sia per ravvivare il gusto di cibi insipidi, sia per le loro virtù curative. La cannella, per esempio, era considerata un toccasana per il cuore, lo stomaco e la testa, e la si riteneva utile per curare l’epilessia e la paralisi. L’olio di noce moscata era riconosciuto come medicamento antidiarroico e antiemetico, oltre che per combattere il comune raffreddore. L’olio di cardamomo placava l’intestino e contribuiva a ridurre la flatulenza. 32 In un manuale arabo scritto in questo periodo nell’area del Mediterraneo, un capitolo intitolato «Prescrizioni per aumentare le dimensioni dei membri piccoli e renderli splendidi» suggeriva di strofinare una miscela di miele e zenzero sulle parti intime; l’effetto sarebbe stato così potente e avrebbe prodotto un tale piacere che la compagna dell’uomo gli avrebbe sempre «impedito di
staccarsi da lei». 33 La competizione per rifornire questi mercati nuovi di zecca era feroce. Nonostante l’allarme suscitato a Venezia dalle notizie sulla prima spedizione di Vasco da Gama, le rotte commerciali tradizionali non furono soppiantate dall’oggi al domani. Anzi, continuarono a prosperare grazie alla crescente domanda europea, perché, allora come oggi, i consumatori non erano interessati al modo in cui le merci arrivavano sul mercato, ma al loro prezzo. I commercianti si tenevano costantemente d’occhio a vicenda, prendendo nota di ciò che veniva comprato e a quanto. I portoghesi assoldarono nel Levante mercanti come Matteo Becudo incaricandoli di spiare le dimensioni delle carovane e dei convogli provenienti dall’Egitto e da Damasco via terra e via mare, e di fare rapporto sulla quantità di merci che trasportavano. Le voci su cattivi raccolti, su navi andate perdute con i loro carichi o su disordini politici potevano influenzare i prezzi da un giorno all’altro, rendendo la speculazione un affare complicato. A seconda dell’ora e del giorno in cui salpava la flotta che trasportava le spezie, l’offerta poteva subire forti fluttuazioni, con l’effetto di sbilanciare pesantemente il mercato a favore del Mediterraneo orientale, dove i mercanti avevano accesso a informazioni migliori e la loro attività dipendeva da rotte meno rischiose della circumnavigazione del continente africano. 34 Nel frattempo, la scelta delle merci sulle quali investire era un’attività snervante. Nel 1560, ad Alessandria il prezzo del pepe aumentò del 10 per cento in soli pochi giorni, al che un giovane mercante veneziano di nome Alessandro Magno, che aveva seguito la vicenda con particolare ansietà, decise di cancellare tutti i precedenti ordini e di spostare il suo investimento sui chiodi di garofano e sullo zenzero. Era una mossa indispensabile per evitare di finire intrappolato in una bolla che non solo poteva costargli i margini di profitto, ma addirittura fargli perdere il capitale. In qualità di intermediario, il suo sostentamento dipendeva dall’essere in grado di acquistare la merce giusta a prezzi che i suoi clienti sarebbero stati disposti a pagare. 35 Con centinaia di tonnellate di spezie, soprattutto pepe, che
arrivavano ogni anno in Europa, quello che era stato un commercio di lusso destinato a un’élite entrò ben presto a far parte della quotidianità culturale e commerciale, guidata dalla domanda e dall’offerta del mercato di massa. Le possibilità di ricavare profitti spiegano perché i portoghesi decisero di creare una loro Via della Seta, creando una catena di porti e porticcioli che collegavano Lisbona con le coste dell’Angola, del Mozambico e dell’Africa orientale e oltre, in una galassia di stazioni commerciali e colonie permanenti che andava dall’India allo Stretto di Malacca, fino alle Molucche. L’impresa ebbe notevole successo, al punto che già pochi decenni dopo la spedizione di Vasco da Gama in India, una parte cospicua delle entrate dello Stato portoghese proveniva dal commercio delle spezie. 36 Certo non mancarono le sfide impegnative, anche perché la concorrenza era ben determinata a non perdere quote di mercato. Dopo un periodo di turbolenza nel Vicino e Medio Oriente, nel 1517 gli Ottomani assunsero il controllo dell’Egitto ed emersero come la forza egemone nel Mediterraneo orientale, oltre che come una grave minaccia per l’Europa. «Ora che ha conquistato l’Egitto e Alessandria e tutto l’impero romano d’Oriente,» scriveva papa Leone X «il feroce Turco ambirà non solo alla Sicilia e all’Italia, ma al mondo intero.» 37 Il senso di pericolo era accresciuto dai successi militari conseguiti dagli Ottomani nei Balcani e dalla loro minacciosa penetrazione fin nel cuore dell’Europa. Era ormai imminente uno scontro che avrebbe deciso i destini del mondo, scrisse il grande filosofo Erasmo da Rotterdam in una lettera a un amico nella prima metà del XVI secolo, «perché il mondo non può più tollerare di avere due soli nel cielo». Il futuro, prediceva il pensatore, sarebbe appartenuto o ai musulmani o ai cristiani; non poteva appartenere a entrambi. 38 Erasmo si sbagliava, così come i suoi omologhi nel mondo ottomano, che non erano meno espliciti nelle loro previsioni: «Non può esistere che un solo impero sulla terra, come non c’è che un solo Dio in cielo». 39 Non ci fu nessuno scontro all’ultimo sangue, nonostante le ondate di panico sollevate nel 1526 dopo il successo turco a Mohács, nell’Ungheria meridionale, contro un improvvisato
esercito occidentale, quando una grande armata ottomana penetrò in territorio ungherese e nell’Europa centrale. Ciò che emerse, tuttavia, fu una rivalità accesa e duratura, che si riversò nell’oceano Indiano, nel mar Rosso e nel golfo Persico. Fiduciosi in sé stessi, gli Ottomani investirono grandi risorse nel rafforzamento delle loro posizioni commerciali in tutta l’Asia. Allestirono una rete di agenti d’acquisto e ristrutturarono e rimisero in funzione una serie di fortezze per proteggere le vie marittime nel Mediterraneo, nel mar Rosso e nel golfo Persico. L’ammodernamento delle strade che dal golfo andavano a Bassora e nel Levante rese il percorso talmente affidabile, sicuro e veloce che, alla fine, anche i portoghesi incominciarono a servirsene per le comunicazioni con Lisbona. 40 Una scelta a dir poco sorprendente, dato che gli Ottomani continuavano comunque a ricorrere alla forza contro i portoghesi: per esempio, nel 1538 lanciarono un poderoso assalto al forte di Diu, nell’India nordoccidentale, e condussero ripetute incursioni contro i navigli portoghesi. 41 A metà del XVI secolo un comandante della marina ottomana, Sefer, colse una serie di vittorie così spettacolare da vedersi mettere una taglia sulla testa. Gli Ottomani stavano diventando «sempre più ricchi grazie alle spoglie prese ai portoghesi» lamentava un capitano europeo, nel rilevare che la flotta di Sefer si rafforzava sempre più; e visti i successi che era riuscito a ottenere con un piccolo numero di vascelli a disposizione, «quanti altri danni [ci] farà, e quante altre ricchezze manderà [nel suo paese] il giorno che ne avrà trenta?» si chiedeva angosciato. 42 Gli Ottomani si stavano rivelando rivali formidabili: nel 1560 un osservatore portoghese scrisse che ogni anno centinaia di tonnellate di spezie arrivavano ad Alessandria (il più importante emporio del Mediterraneo orientale, per le merci in arrivo da Oriente): «Non fa meraviglia» concluse tristemente «che a Lisbona ne arrivino così poche». 43 All’epoca i profitti del commercio di spezie stavano già cominciando a ridursi sensibilmente, inducendo alcuni portoghesi a dirottare i loro investimenti verso altri beni e prodotti asiatici,
soprattutto cotone e seta. Un cambiamento che si accentuò verso la fine del Cinquecento, quando il volume dei tessuti importati in Europa era ormai in costante crescita. 44 Secondo alcuni cronisti dell’epoca (e certi studiosi odierni concordano con loro) questo fu il risultato dell’elevato livello di corruzione dei funzionari portoghesi coinvolti nel commercio delle spezie, nonché di decisioni sbagliate della Corona, la quale, oltre a esigere imposte troppo gravose sulle importazioni, non riuscì ad allestire in Europa una rete di distribuzione abbastanza efficiente. Insomma, la concorrenza degli Ottomani era riuscita a esercitare sui portoghesi – e sui loro margini di guadagno – una forte pressione. 45 Al cuore di questa rivalità, che non era limitata all’oceano Indiano, c’era l’impegno a ottenere il massimo gettito fiscale possibile dai beni destinati ai ricchi europei, che avevano tanto denaro da spendere. I brillanti risultati degli Ottomani fruttavano sostanziosi dividendi. I forzieri della tesoreria di Costantinopoli si riempirono grazie all’aumento dei volumi di traffico in transito dai porti del mar Rosso, del golfo Persico e del Mediterraneo, senza trascurare il ruolo che nell’incremento delle entrate pubbliche ebbe anche la crescita della domanda sul mercato interno. 46 Le rimesse annuali crebbero in modo significativo nel corso del XVI secolo, stimolando trasformazioni economiche e sociali nelle città e nelle campagne. 47 Non fu solo in Europa, dunque, che si levò l’alba di un’età dell’oro. Da un capo all’altro del mondo ottomano, dai Balcani al Nord Africa, furono avviati vasti programmi edilizi, finanziati da entrate fiscali in costante aumento. Molti dei progetti più spettacolari furono ideati da Sinān, capo degli architetti del sultano Solimano il Magnifico (sul trono dal 1520 al 1566), un appellativo che ben sintetizza lo spirito e l’opulenza del suo regno. Sinān edificò oltre 80 grandi moschee, 60 madrase, 32 palazzi, 17 ospizi e 3 ospedali, insieme a un gran numero di ponti, acquedotti, bagni pubblici e magazzini, sotto il regno di Solimano e poi di suo figlio Selīm II. La moschea di Selimiye, costruita a Edirne (a nordovest dell’odierna Turchia) fra il 1564 e il 1575, rappresentò una sintesi di audacia architettonica e talento ingegneristico tale da essere «degna dell’ammirazione del genere
umano», stando alle parole di un contemporaneo. Ma era anche una rivendicazione di potenza sul piano religioso: «la gente del mondo» sosteneva che fosse impossibile costruire «nelle terre dell’islam» una cupola ampia come quella di Santa Sofia a Costantinopoli. Ebbene, la moschea di Edirne dimostrava a tutti che aveva torto. 48 Anche in Persia si verificò un’analoga impennata di investimenti nella costruzione di edifici fastosi e nelle arti visive, che rivaleggiavano con la fioritura culturale dell’Europa. Dai frammenti della monarchia dei Timuridi, caduta in pezzi dopo la morte di Tamerlano agli inizi del XV secolo, era emerso un nuovo impero, guidato dalla dinastia dei Safavidi. Esso raggiunse il suo apice durante il regno di ‘Abbās I il Grande (sul trono dal 1588 al 1629), il quale supervisionò di persona la sorprendente e ambiziosa ricostruzione di Isfahan (nell’attuale Iran centrale), dove stradine buie e vecchi mercati vennero spazzati via per far posto a botteghe, bagni pubblici e moschee, il tutto edificato seguendo un accurato piano regolatore disegnato ad hoc. Importanti opere di irrigazione assicurarono che la nuova Isfahan venisse rifornita di acqua in abbondanza, un fattore essenziale per il Bāgh-i Naqsh-i Jahān, il «giardino che adorna il mondo», capolavoro della progettazione di giardini realizzato nel cuore della città. Fu costruita anche la gloriosa Masjid-i Shāh (Moschea dello Scià), che doveva essere – come quella di Edirne – un gioiello in grado di reggere il confronto con il meglio delle opere del mondo islamico. Come annotò un contemporaneo, lo scià rese Isfahan «simile a un paradiso con splendidi edifici, parchi in cui il profumo dei fiori elevava lo spirito, e corsi d’acqua e giardini». 49 Ricca era anche la produzione di libri, calligrafie e arti visive – specie la miniatura – in questa cultura che credeva in sé stessa, forte della propria curiosità intellettuale e della crescente internazionalizzazione. A spiegare come creare opere d’arte di valore c’erano trattati come il Qānūn al-Ṣuvar, composto in acuti e brillanti distici in rima. Tieni a mente, ricorda al lettore l’autore dell’opera, che va benissimo voler padroneggiare la tecnica della pittura, ma «devi sapere che, per arrivare alla maestria in questo campo, è importante essere dotati di un talento naturale». 50
La prosperità consentì di aprire nuovi orizzonti: i monaci carmelitani di Isfahan furono in grado di offrire in dono allo scià una traduzione in persiano del Libro dei Salmi, che risultò assai gradita; e il papa Paolo V gli inviò una serie di illustrazioni bibliche medievali, che il sovrano apprezzò al punto di commissionare un commento in persiano che ne spiegasse il contenuto. Era un’epoca in cui gli ebrei che vivevano nella regione ricopiavano la Torah in persiano, ma usando i caratteri ebraici: un segno di tolleranza religiosa, ma anche della grande sicurezza culturale della Persia in quest’epoca di espansione. 51 Gli imperi ottomano e persiano trassero grandi benefici dal forte aumento delle imposte sulle merci in transito e dai dazi sulle importazioni che venivano dall’Oriente più lontano, e naturalmente dai beni di loro produzione così richiesti dai nuovi ricchi europei, dalle case reali alle famiglie dei grandi mercanti, dai favoriti di corte ai proprietari terrieri. Ma per quanto il Medio Oriente traesse profitto dalla cascata di oro, argento e altri tesori provenienti dalle Americhe, i principali beneficiari furono i paesi che detenevano il primato delle esportazioni: l’India, la Cina e l’Asia centrale. L’Europa diventò una camera di compensazione per i lingotti che venivano da fonti straordinariamente ricche, come le miniere di Potosí: situate ad alta quota nelle Ande, nell’attuale Bolivia, si rivelarono il più grande giacimento argentifero della storia, dal quale per più di un secolo fu estratta oltre la metà della produzione mondiale. 52 Grazie all’impiego del processo di amalgamazione con mercurio, furono messe a punto nuove tecniche estrattive, che resero l’attività meno costosa, più rapida e ancora più redditizia. 53 Questa scoperta consentì una straordinaria accelerazione nella redistribuzione delle risorse del Sud America, dalla Penisola iberica fino all’Asia. Una volta fuso, l’argento veniva usato per coniare monete, spedite in Oriente in quantità tali da rasentare l’incredibile. Dalla metà del XVI secolo furono esportate ogni anno in Asia centinaia di tonnellate di argento, per pagare le spezie e, in generale, i prodotti orientali più richiesti. 54 Un elenco di acquisti stilato a Firenze negli anni Ottanta del XVI secolo mostra quanto fossero cresciuti gli appetiti del
pubblico. Il granduca Francesco de’ Medici consegnò una generosa somma al mercante fiorentino Filippo Sassetti, in procinto di partire per l’India, unitamente alle istruzioni per comprare una serie di prodotti esotici. In cambio, il granduca si vide consegnare a tempo debito mantelli, stoffe, spezie, sementi e piante finte di cera, un articolo ricercato che interessava particolarmente al signore di Firenze e a suo fratello, il cardinale Ferdinando, insieme a un assortimento di medicinali comprendente anche un antidoto contro i morsi dei serpenti velenosi. 55 Questo tipo di curiosità che spingeva all’acquisto delle cose più disparate era una caratteristica diffusa tra gli uomini potenti e colti dell’epoca. Le scoperte americane e l’apertura delle rotte marittime lungo la costa africana fecero risplendere l’Europa e il Vicino Oriente, ma in nessun luogo tale splendore si manifestò più luminosamente che in India. Il periodo successivo al viaggio di Colombo corrispose a una fase di consolidamento di un reame che si era disintegrato dopo la morte di Tamerlano. Nel 1494 uno dei suoi discendenti, di nome Bābur, ebbe in eredità diverse terre nella valle di Fergana, nell’Asia centrale, e subito cercò di ampliare i propri possedimenti concentrandosi in particolare su Samarcanda, ma riportando soltanto successi effimeri. Scacciato definitivamente dalla città per opera dei suoi rivali uzbeki, si spostò verso sud, finché, dopo anni di lotte con scarsi risultati, rivolse altrove le proprie attenzioni. Dapprima divenne signore di Kabul, poi prese il controllo di Delhi scalzando la tirannica dinastia dei Lodi, i cui esponenti si erano resi largamente impopolari a causa delle ripetute, selvagge persecuzioni nei confronti della popolazione indù. 56 Bābur si era già dimostrato un abile costruttore quando si era dilettato a definire il progetto del magnifico giardino del Bāgh-i Wafa a Kabul, con imponenti fontane, alberi di melograno, prati di trifoglio, aranceti e piante provenienti da tutto il mondo. Quando le arance maturano, scrisse Bābur con orgoglio, «sono una meraviglia a vedersi, la disposizione è a dir poco spettacolare». 57 Una volta stabilitosi in India, continuò a disegnare meravigliosi giardini, pur lamentando che
il suolo non gli facilitava il compito. Era costernato per il fatto che nel Nord del subcontinente indiano il rifornimento idrico fosse così problematico: «Dovunque guardassi» scriveva inorridito, ciò che vedeva era «così sgradevole e squallido» che quasi non valeva la pena tentare di creare qualcosa di speciale. Alla fine si fece coraggio, scegliendo un luogo nei pressi di Agra: «Anche se non vi era nessun posto davvero adatto [vicino alla città], non c’era altro da fare che lavorare con lo spazio che avevamo». Alla fine, dopo notevoli sforzi e con grandi spese, videro la luce splendidi giardini anche in quell’«India sgradevole e priva di armonia». 58 A dispetto dei suoi timori iniziali, la scelta di Bābur di spostarsi a sud non sarebbe potuta avvenire in un momento migliore. Non ci volle molto, infatti, perché il nuovo dominio diventasse un potente impero. L’apertura di nuove rotte commerciali, e l’entusiastico desiderio dell’Europa di dare fondo alla sua capacità di spesa, significarono per l’India un improvviso afflusso di valuta pregiata. Gran parte di questo denaro fu speso nell’acquisto di cavalli. La documentazione disponibile attesta che già dal XIV secolo i mercanti dell’Asia centrale vendevano ogni anno migliaia di cavalli. 59 Quelli allevati nelle steppe erano molto richiesti, non ultimo perché più grandi – e meglio nutriti – degli esemplari cresciuti nel subcontinente, i quali erano «così piccoli di natura che quando un uomo vi saliva, toccava quasi terra con i piedi». 60 Molto dell’argento europeo che si riversò nel paese fu speso nell’acquisto dei destrieri migliori, per ragioni di prestigio, per marcare le differenze sul piano sociale e per le celebrazioni solenni. Qualcosa di simile a ciò che è accaduto in anni più recenti con il denaro affluito nei paesi petroliferi, che è stato speso per le migliori cavalcature moderne, le Ferrari, le Lamborghini e altre auto di lusso. Il commercio di cavalli assicurava lauti profitti, ed era stata una delle prime attività che avevano attirato l’attenzione dei portoghesi quando erano giunti nel golfo Persico e nell’oceano Indiano. Già agli inizi del XVI secolo avevano inviato in patria relazioni entusiastiche sulla forte richiesta di purosangue arabi e persiani e sulle cifre esorbitanti che i principi indiani erano disposti a pagare per
comprarli. I portoghesi entrarono con tale slancio nel lucroso settore del commercio di cavalli da contribuire all’innovazione tecnologica navale, per esempio con la costruzione di imbarcazioni come la Nau Taforeia, progettata appositamente per il trasporto di questi animali. 61 La maggior parte dei cavalli, però, proveniva dall’Asia centrale. A proposito del fiume di denaro che si riversava in India, un cronista dell’epoca raccontava che a un certo punto i margini di guadagno divennero esageratamente ampi, in conseguenza delle tensioni inflazionistiche determinate da un’impennata della domanda tale da superare l’offerta. 62 L’aumento degli introiti permise di investire nella costruzione di ponti, nell’ammodernamento dei caravanserragli e nel rendere più sicure le principali vie che conducevano a nord. Come risultato, le città dell’Asia centrale godettero di un nuovo periodo di vitalità e splendore. 63 Anche le infrastrutture legate al commercio di cavalli erano un settore redditizio. Alla metà del XVI secolo uno speculatore particolarmente scaltro investì in locande dislocate lungo le vie principali, costruendone più 1500 nell’arco di un quindicennio. Del crescente afflusso di denaro nella regione dà conto anche il Guru Granth Sahib, il grande testo sacro dei Sikh, in cui gli aspetti terreni e pratici della vita convivono perfettamente con i temi spirituali: comprate beni duraturi, consigliava il guru ai suoi seguaci; e tenete sempre bene in ordine i conti, perché sono un modo per custodire la verità. 64 Le città che erano crocevia di passaggio, quindi adatte a ospitare mercati equini di ampie dimensioni, conobbero un boom, inclusa Kabul. Ma quella che più di ogni altra godette di grande prosperità fu Delhi, che ebbe una rapida crescita grazie alla sua vicinanza all’Hindu Kush. Con il rafforzarsi del ruolo commerciale della città, aumentò anche il peso dei suoi governanti. 65 Ben presto si registrò un notevole sviluppo nel settore dell’industria tessile, i cui prodotti erano molto apprezzati in tutta l’Asia e anche altrove, e che poté contare sull’incondizionato sostegno delle autorità moghul. 66 Di lì a poco un potente regno iniziò ad allargare i propri confini, sfruttando la sua potenza finanziaria per imporsi su una regione dopo
l’altra, fino a riunirle in una singola entità. Nel corso del XVI secolo Bābur, e dopo di lui suo figlio Humāyūn e suo nipote Akbar I, guidarono infatti la spettacolare espansione dell’impero moghul, che nel 1600 si estendeva dal Gujarat, sulla costa occidentale dell’India, al golfo del Bengala, e da Lahore, nel Punjab, fin nel cuore dell’India centrale. Non si trattò di una serie di acquisizioni territoriali fini a sé stesse, anche perché i conquistatori trassero vantaggio da un particolare concorso di circostanze per assumere il controllo di città e regioni che offrivano fonti di reddito allettanti e in rapida crescita, in grado di alimentare e irrobustire un impero nascente. Come annotava un gesuita portoghese in una lettera all’Ordine, la conquista del Gujarat e del Bengala, entrambi costellati di centri urbani pieni di fermento e con una ricca base di contribuenti, rese Akbar padrone della «gemma dell’India». 67 Ogni nuova aggiunta conferiva ulteriore potere al centro, che acquistava così ancora più slancio espansivo. Con i Moghul giunsero anche nuove idee, nuovi gusti e stili. La miniatura – a lungo prediletta dai Mongoli e dai Timuridi – trovò un largo appoggio nei nuovi sovrani, che richiamarono abili maestri di quest’arte da ogni dove, per creare una fiorente scuola artistica. E divennero molto popolari gli incontri di lotta, e le gare di piccioni, entrambi passatempi particolarmente amati in Asia centrale. 68 Ancora più accentuata fu l’innovazione in architettura e nella progettazione dei giardini, perché l’influsso di tutto ciò che era stato acquisito e perfezionato a Samarcanda nell’ambito dell’edilizia e del paesaggio urbano fece ben presto sentire la sua evidente influenza in tutto l’impero. I risultati si possono vedere ancora oggi. La grandiosa tomba di Humāyūn a Delhi rappresenta non solo un capolavoro dello stile timuride, costruito da un architetto di Bukhara, ma si erge anche a testimonianza di una nuova era nella storia indiana. 69 Nella progettazione dei giardini furono introdotti nuovi stili, fortemente influenzati dalle consuetudini e dalle idee sviluppatesi in Asia centrale, che trasformarono ancora di più l’ambiente abitativo e il suo rapporto con il paesaggio circostante. 70 Grande fu la fioritura di Lahore, con nuovi e prestigiosi monumenti e spazi aperti progettati con cura. 71 Con ampie risorse a disposizione, pieni di fiducia in sé
stessi e con il vento nelle vele, i Moghul trasformarono l’impero a loro immagine, e riuscirono a farlo su una scala straordinaria. Una città stupefacente quale Fatehpur Sikri, edificata nella seconda metà del XVI secolo come nuova capitale, offre un chiaro e concreto esempio delle risorse apparentemente illimitate e delle aspirazioni imperiali di una casata così intraprendente. Un complesso di cortili e edifici di pregevole disegno, interamente realizzati in arenaria rossa, mescolavano influenze e stili persiani e centroasiatici con quelli indiani, al fine di creare una splendida corte dove la potenza del sovrano potesse essere inequivocabilmente riconosciuta da tutti coloro che vi giungevano per fargli visita. 72 La più famosa testimonianza dell’immensa ricchezza accumulata grazie al denaro proveniente dall’Europa fu il mausoleo costruito da Shāh Jahān agli inizi del XVII secolo per la moglie Mumtāz. Per onorare la sua morte, il sovrano distribuì ai poveri grandi quantità di cibo e di denaro. Una volta scelto un lotto di terreno adeguato per la sepoltura, spese l’equivalente di milioni di dollari attuali nella costruzione di un edificio coronato da una grande cupola, e poi altri milioni per aggiungere una transenna di protezione d’oro e cupolette decorate con pitture a smalto della miglior qualità e generosi quantitativi d’oro. Su ogni lato del mausoleo furono aggiunti padiglioni «racchiusi da superbi baldacchini», e poi tutt’intorno fu costruito un giardino. Per assicurarne un’adeguata manutenzione anche in futuro, l’edificio fu dotato di una rendita prelevata dai mercati vicini. 73 Molti ritengono che il Taj Mahal sia il monumento più romantico del mondo, una straordinaria dimostrazione dell’amore di un marito per la moglie. Ma esso simboleggia anche qualcos’altro: il commercio internazionale globalizzato, dal quale il sovrano moghul ricavò una tale ricchezza che gli permise di concepire questo straordinario omaggio all’amata sposa. La sua capacità di completarlo fu frutto dei profondi spostamenti nell’equilibrio mondiale, dal momento che la gloria dell’Europa e dell’India fu costruita a spese delle Americhe. Alla fastosa manifestazione del dolore di Shāh Jahān per la morte della moglie fa da perfetto contraltare, dall’altra parte del globo,
un’altra manifestazione di cordoglio, avvenuta non molto tempo prima. Anche l’impero dei Maya era fiorente, prima dell’arrivo degli europei. «Sani vivevano. Non c’era allora malattia; non c’era male alle ossa; non c’era febbre per loro, non c’era vaiolo, non c’era bruciore di petto, non c’era male al ventre, non c’era deperimento. Ben dritto era il loro corpo allora»: così si esprimeva un autore, scrivendo a non molta distanza dai fatti; nel frattempo, l'arrivo degli stranieri bianchi aveva cambiato tutto. 74 Oro e argento portati via dall’America presero la strada dell’Asia: fu la redistribuzione della ricchezza a consentire la costruzione del Taj Mahal. Per una sorta di amara ironia, una delle glorie dell’India fu il risultato della sofferenza di altri «indiani», che vivevano dall’altra parte del mondo. I continenti erano ormai collegati l’uno all’altro, uniti dai flussi dell’argento. Sulla sua scia furono in molti ad andare in cerca di fortuna in luoghi sconosciuti: sul finire del XVI secolo un viaggiatore inglese di passaggio a Hormuz, nel golfo Persico, riferiva che la città brulicava di «francesi, fiamminghi, alemanni, ungheresi, italiani, greci, armeni, nazrani, turchi e mori, giudei e gentili, persiani [e] moscoviti». 75 Il richiamo dell’Est era potente. Non era solo il pensiero dei ricavi del commercio ad attrarre uomini in numero crescente dall’Europa, ma anche la prospettiva di lavori ben pagati. Numerose erano le opportunità per artiglieri, piloti, navigatori, comandanti e costruttori di navi in vari paesi, dalla Persia all’India, alla Penisola malese, e persino in Giappone. Chi voleva rifarsi una vita aveva la possibilità di provarci: disertori, criminali e indesiderabili, la cui capacità ed esperienza erano appetibili per i vari sovrani locali. Alcuni se la cavarono bene, tanto da riuscire a ritagliarsi dei piccoli principati indipendenti, come avvenne nel golfo del Bengala e nel mare delle Molucche, dove un olandese fortunato visse spassandosela «con tutte le donne che gli aggradavano», cantando e facendo baldoria «per tutta la giornata, pressoché nudo» e completamente ebbro. 76 Nel 1571 la fondazione di Manila da parte degli spagnoli cambiò il corso del commercio mondiale. Tanto per cominciare, essa fece seguito a un programma di colonizzazione dai connotati nettamente
meno distruttivi per la popolazione locale rispetto a ciò che era avvenuto dopo le prime traversate atlantiche. 77 Nato inizialmente come base da cui acquistare spezie, l’insediamento era diventato rapidamente una grande metropoli e un importante punto di collegamento tra l’Asia e le Americhe. Le merci cominciarono ad attraversare il Pacifico senza passare prima per l’Europa, e lo stesso accadde all’argento che serviva a pagarle. Manila divenne un emporio dov’era possibile acquistare una vastissima gamma di prodotti. Secondo un alto funzionario attivo nella città intorno al 1600, vi si potevano trovare molti diversi tipi di seta, insieme a velluti, rasi, damaschi e altri tessuti. E così anche «molti ornamenti per il letto, tendaggi, coperte e tappezzerie», e tovaglie, cuscini e tappeti, bacili di metallo, bollitori di rame e pentole in ghisa. Erano disponibili anche stagno, piombo, salnitro e polvere da sparo provenienti dalla Cina, accanto a «conserve di arancia, pesca, pera, noce moscata e zenzero», castagne, noci, cavalli, oche che somigliavano a cigni, uccelli parlanti e tante altre rarità. «Se provassi a elencare tutto ciò che è in vendita,» proseguiva l’autore «non finirei mai, né avrei carta a sufficienza.» 78 Manila fu, nelle parole di uno studioso moderno «la prima città globale del mondo». 79 Questo, naturalmente, ebbe importanti implicazioni per le altre rotte commerciali. Non fu un caso se, non molto tempo dopo l’apertura della rotta che passava per Manila, nell’impero ottomano ebbe inizio una contrazione destinata a diventare cronica. Se essa fu in parte dovuta alla pressione fiscale interna e alle spese eccessive per le costosissime campagne militari contro gli Asburgo e la Persia, sul calo delle entrate dell’impero ottomano influì pesantemente anche l’emergere di un nuovo importante crocevia per il commercio transcontinentale a migliaia di chilometri di distanza. 80 La quantità di argento che dalle Americhe si riversava nel resto dell’Asia passando dalle Filippine era incredibile: tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII il volume di metallo prezioso che seguiva quella strada era almeno pari a quello che transitava dall’Europa, il che suscitò allarme in alcuni ambienti in Spagna, poiché le rimesse dal Nuovo Mondo verso l’Europa iniziavano a subire una flessione. 81
La via dell’argento avvolgeva il mondo intero come una cintura, convogliando il prezioso metallo soprattutto in un luogo: la Cina. E ciò avveniva per due ragioni. Innanzitutto, le dimensioni e la raffinatezza la rendevano un’importante produttrice di beni di lusso. In Europa, le sue ceramiche e porcellane erano talmente ricercate che si sviluppò rapidamente un enorme mercato del falso. I cinesi, scrisse Matteo Ricci durante la sua visita a Nanchino, «sono particolarmente dediti alla riproduzione di oggetti antichi con grande artificio e ingegno», un’abilità grazie alla quale realizzavano enormi profitti. 82 In Cina venivano redatti manuali che insegnavano a riconoscere i falsi, con Liu Dong che spiegava come autenticare i bronzi Xuande o le porcellane Yongle. 83 La Cina fu abile nel rifornire il mercato delle esportazioni e nel potenziare la produzione in base alla domanda. Dehua, nella provincia del Fujian, per esempio, divenne un centro dedicato alla produzione di porcellana conforme ai gusti europei; e, sempre per soddisfare gli appetiti occidentali, furono fatti investimenti nella lavorazione della seta. Queste scaltre pratiche commerciali contribuirono al rapido aumento delle entrate della dinastia Ming, che secondo alcuni studiosi crebbero almeno di quattro volte fra il 1600 e il 1643. 84 La seconda ragione per cui così tanto denaro affluiva verso la Cina era uno squilibrio nel rapporto fra i metalli preziosi. In Cina, il rapporto tra argento e oro era all’incirca di 6 a 1, significativamente superiore a quello vigente in India, in Persia o nell’impero ottomano; ed era un valore quasi doppio rispetto al prezzo al quale l’argento veniva scambiato in Europa nei primi anni del Cinquecento. In pratica, ciò significava che il denaro europeo aveva maggior potere d’acquisto sul mercato cinese e presso i commercianti cinesi di quanto accadesse altrove, il che costituiva a sua volta un forte incentivo a comprare merci cinesi. Le opportunità di scambiare valuta, e cioè di approfittare di questi squilibri in quello che i banchieri moderni chiamano «arbitraggio», furono colte immediatamente dai nuovi arrivati nell’Estremo Oriente, in particolare da coloro che compresero che la differenza di valore dell’oro in Cina e in Giappone poteva
garantire facili profitti. Gli operatori sgomitavano per comprare e vendere valute e metalli preziosi. Secondo un testimone diretto, i mercanti di Macao spedivano in Giappone navi cariche di merci accuratamente selezionate, che vendevano però solo in cambio di argento. 85 Alcuni nascondevano a stento il loro entusiasmo di fronte a questa opportunità. Il valore dell’argento rispetto all’oro era talmente alto da rendere quest’ultimo incredibilmente a buon mercato, annotò Pedro Baeza: «Si poteva realizzare un utile tra il 70 e il 75 per cento», scrisse, scambiando un metallo prezioso con un altro in Oriente e poi portandolo nelle colonie spagnole nelle Americhe o nella stessa Spagna. 86 Gli effetti dell’afflusso di argento in Cina erano complessi e difficili da valutare appieno, ma nel XVI e XVII secolo la grande disponibilità del prezioso metallo proveniente dalle Americhe ebbe un impatto evidente sulla cultura, sulle arti e sull’insegnamento. Pittori come Shen Zhou e i grandi artisti della dinastia Ming noti come i «Quattro Maestri» godettero di mecenatismo e di un sostegno finanziario per il loro lavoro. Artisti come Lu Zhi trovarono committenti privati interessati al loro talento all’interno di una classe media in fase di espansione e desiderosa di coltivare i propri passatempi e piaceri. 87 Era un’età ricca di sperimentazioni e di scoperte, con testi come il Chin P’ing Mei, un romanzo erotico spesso conosciuto come «Il Loto d’oro» dal nome di uno dei personaggi principali, che sfidavano le convenzioni non solo sul piano letterario, ma anche in fatto di costumi sessuali. 88 La rinnovata ricchezza della società contribuì al sostentamento di studiosi come Song Yingxing, compilatore di un’enciclopedia comprendente argomenti che andavano dal nuoto in immersione alle applicazioni dell’idraulica nell’irrigazione, e il cui lavoro era molto considerato e apprezzato. 89 Il crescente interesse per il confucianesimo e la stima che circondava studiosi specialisti come Wang Yangming testimoniavano il desiderio di avere spiegazioni e soluzioni in un periodo di notevoli cambiamenti. 90 Carte come la mappa di Selden – recentemente ritrovata nella Biblioteca Bodleiana di Oxford –, che offre una vasta panoramica del Sudest asiatico, comprese le rotte di navigazione, dimostrano a loro
volta il crescente interesse per il commercio e i viaggi da parte dei cinesi dell’epoca. Esse costituiscono tuttavia un’eccezione, poiché le mappe cinesi allora in circolazione, come quelle precedenti, in genere erano il prodotto di una visione del mondo chiusa su sé stessa, con rappresentazioni grafiche delimitate a nord dalla Grande Muraglia e a est dal mare. Questo era sintomatico di una disponibilità a svolgere un ruolo passivo in un momento in cui il mondo si stava aprendo; ma rifletteva anche la superiorità navale europea in Asia orientale, dove le imbarcazioni olandesi, spagnole e portoghesi, oltre a prendersi di mira a vicenda, assalivano regolarmente anche le giunche cinesi, impossessandosi dei loro carichi. 91 La Cina non era entusiasta di prendere parte ai continui scontri tra gli aggressivi rivali, né tantomeno di doverne subire le conseguenze; data la situazione, la tendenza del paese a ripiegarsi su sé stesso, senza tuttavia rinunciare ai benefici derivanti dai traffici commerciali, sembrava del tutto logica. Gran parte dell’argento che affluì in Cina fu impiegato in una serie di importanti riforme, tra cui la monetizzazione dell’economia, la spinta verso mercati del lavoro più liberi e un programma studiato per stimolare il commercio estero. Ironia della sorte, l’amore della Cina per l’argento e la grande importanza che attribuiva a questo particolare metallo prezioso divennero il suo tallone d’Achille. A fronte di simili quantità che arrivavano nel paese, soprattutto tramite Manila, era inevitabile che il valore dell’argento fosse destinato a scendere, il che nel tempo ebbe un effetto inflazionistico sui prezzi. Il risultato finale fu che il valore dell’argento, e soprattutto il suo rapporto con l’oro, si allineò a quello delle altre regioni e continenti. A differenza dell’India, dove l’impatto dell’apertura al mondo produsse nuove meraviglie, in Cina portò, nel XVII secolo, una grave crisi economica e politica. 92 Cinque secoli fa, la globalizzazione non era meno problematica di quanto lo sia oggi. Come scrisse in seguito Adam Smith nella sua famosa opera sulla ricchezza delle nazioni, «la scoperta dell’America e quella del passaggio del Capo di Buona Speranza per le Indie Orientali sono i due più grandi e importanti avvenimenti ricordati nella storia
dell’umanità». 93 Il mondo venne effettivamente trasformato dalle vie dell’oro e dell’argento che si aprirono dopo la prima spedizione di Cristoforo Colombo e dopo il ritorno in patria di Vasco da Gama dal viaggio in India. Tuttavia, ciò che Smith non spiegò nel 1776 era come l’Inghilterra s’inserisse nell’equazione. Se è vero, infatti, che il secolo che seguì le scoperte di fine Quattrocento fu dominato da Spagna e Portogallo, e che i suoi frutti si riversarono sugli imperi d’Oriente, i successivi duecento anni sarebbero stati appannaggio dei paesi del Nord Europa. Contro ogni aspettativa, il centro di gravità del mondo stava per spostarsi di nuovo, per diventare proprietà di una Britannia in procinto di diventare Grande.
XIII
LA VIA AL NORD EUROPA
Le scoperte della fine del Quattrocento cambiarono il mondo. Non più a margine delle questioni globali, l’Europa stava diventando il motore dell’intero globo. Le decisioni prese a Madrid e a Lisbona ora si riverberavano a migliaia di chilometri di distanza, come un tempo era stato per la Baghdad degli Abbasidi, la Luoyang della dinastia Tang, la Karakorum capitale dei Mongoli o la Samarcanda di Tamerlano. Ora tutte le strade portavano in Europa. Per qualcuno, questo nuovo stato di cose era motivo di profonda frustrazione. Nessuno era più contrariato degli inglesi. Era già abbastanza difficile da accettare che i forzieri dei rivali si rimpinguassero senza sosta, ma quel che rendeva il tutto insopportabile era la retorica trionfalistica secondo cui la pioggia d’oro e d’argento di cui beneficiava la Corona spagnola fosse parte di un disegno divino. E la cosa risultava ancora più sgradevole perché faceva seguito alla rottura dell’Inghilterra con Roma. «Quanto grande è il potere che la Divina Maestà ha messo nelle mani dei re di Spagna» scrisse un gesuita nel XVI secolo; la ricchezza della Spagna era stata «ordinata dall’alto dei cieli dal Signore, che dà i regni e li toglie a chiunque e in qualunque modo Egli voglia». 1 Il messaggio era che i sovrani protestanti dovevano aspettarsi una punizione per aver abbandonato la vera fede. Con la Riforma in pieno svolgimento, la violenza e l’oppressione reciproca fra cattolici e protestanti esplosero in tutta Europa. Circolavano voci di un’imminente azione militare contro l’Inghilterra, soprattutto dopo la morte di Maria I, con la quale si spensero i barlumi di speranza in una nuova era in cui era sembrato che il paese stesse per riallinearsi con Roma e riconoscere l’autorità papale. Quando nel 1558 la sua
sorellastra, Elisabetta I, salì al trono, dovette camminare sul filo del rasoio, in bilico tra le aggressive istanze religiose di una lobby rumorosa e potente da un lato, e l’insurrezione di coloro che erano scontenti, emarginati o vittime di un’atmosfera di intolleranza, dall’altro. Non dispiacere a nessuno era ancora più difficile, a causa del relativo isolamento dell’Inghilterra ai confini dell’Europa. Quando, nel 1570, papa Pio V emise una bolla intitolata Regnans in Excelsis, definendo Elisabetta «la pretesa regina d’Inghilterra asservita al crimine» e minacciando di scomunicare tutti i suoi sudditi che obbedissero alle sue leggi, la preoccupazione generale divenne quella di come fronteggiare l’invasione quando – più che se – si fosse verificata. 2 Per assicurare una prima linea di difesa formidabile ed efficace, furono investite ingenti somme nella marina militare. Vennero costruiti cantieri navali all’avanguardia, per esempio a Deptford e Woolwich sul Tamigi, dove la progettazione e la manutenzione delle navi da guerra divennero sempre più efficienti, contribuendo a rivoluzionare la costruzione del naviglio commerciale. Le navi di nuova costruzione trasportavano un carico maggiore, erano più veloci, potevano rimanere in mare più a lungo e ospitavano un equipaggio più numeroso e cannoni più potenti. 3 Il decano dei maestri d’ascia era Matthew Baker, figlio di un capomastro. Baker adottò princìpi matematici e geometrici, definiti in un testo fondamentale dal titolo Fragments of Ancient English Shipwrightry (Frammenti di antica carpentieristica navale inglese), per creare una nuova generazione di navi per la regina Elisabetta. 4 Questi progetti furono rapidamente adattati anche a uso commerciale, con il risultato che nell’arco di due decenni, dopo il 1560, il numero di navi inglesi da cento o più tonnellate fu quasi triplicato. I nuovi vascelli si guadagnarono presto una notevole fama per velocità e agilità di manovra, oltre che per costituire una formidabile minaccia se incontrati in mare aperto. 5 I frutti di questo rafforzamento delle forze navali divennero evidenti nell’estate del 1588, quando la Spagna inviò un’enorme flotta in Olanda per reclutare truppe e poi procedere all’invasione
dell’Inghilterra. Surclassati dagli inglesi negli scontri navali, i superstiti dell’Armada spagnola tornarono in patria coperti di vergogna. In realtà, più che per opera degli inglesi, la maggior parte delle navi spagnole era naufragata a causa delle scogliere e di tempeste di inaudita violenza, ma pochi dubitarono che gli investimenti nella marina avessero prodotto risultati straordinari. 6 L’importanza della potenza navale divenne ancora più evidente quattro anni dopo, quando al largo delle Azzorre fu catturata la caravella portoghese Madre de Deus, che tornava dalle Indie Orientali carica di pepe, chiodi di garofano, noce moscata, ebano, arazzi, sete, tessuti, perle e metalli preziosi. Si stimò che il bottino proveniente da questa sola imbarcazione, che fu rimorchiata fino al porto di Dartmouth, sulla costa meridionale, fosse pari alla metà delle regolari importazioni annuali dell’Inghilterra. La spartizione della preda suscitò tormentosi dibattiti tra la Corona e i responsabili dell’operazione, tanto più dopo la repentina scomparsa di alcuni oggetti di valore. 7 Successi come questi erano vere e proprie iniezioni di fiducia e incoraggiavano comportamenti sempre più aggressivi, nell’Atlantico e altrove. L’Inghilterra iniziò a stringere rapporti con i nemici dei sovrani cattolici di tutta Europa. Sul finire del Cinquecento, per esempio, la regina Elisabetta decise di liberare i musulmani del Nord Africa impiegati come galeotti sulle navi spagnole cadute in mani inglesi, rifornendoli di vestiti, denaro «e altri beni di prima necessità», per poi rispedirli sani e salvi in patria. 8 Gli inglesi, inoltre, beneficiarono dell’appoggio dei musulmani del Nord Africa in un attacco lanciato contro Cadice nel 1596, episodio al quale si fa riferimento proprio all’inizio del Mercante di Venezia di Shakespeare. Tale era, in quel periodo, la convergenza di interessi che uno storico inglese moderno parla di inglesi e mori alleati in un «jihad» contro la Spagna cattolica. 9 Nel tentativo di insidiare le nuove rotte spagnole e portoghesi nelle Americhe e in Asia, gli inglesi s’impegnarono a fondo per allacciare stretti rapporti con i turchi ottomani. In un’epoca nella quale la
maggior parte dell’Europa osservava con orrore le forze turche giungere quasi alle porte di Vienna, essi puntarono su tutt’altro cavallo, brillando per la loro assenza quando gli altri regni cristiani si unirono nella Lega Santa, la coalizione che si formò per affrontare la flotta ottomana a Lepanto, nel golfo di Corinto, nel 1571. La vittoria della Lega Santa provocò scene di giubilo in tutta Europa, dove la poesia, la musica, l’arte e l’architettura celebrarono a vario titolo il trionfo. In Inghilterra, la notizia del trionfo cristiano fu accolta in silenzio. 10 Anche dopo questi eventi, gli inglesi continuarono a corteggiare insistentemente il sultano di Costantinopoli, destinatario di missive calorose e amichevoli e di doni inviati dalla corte della regina Elisabetta, che, in cambio e in risposta, ricevette «saluti sinceri e copiosi omaggi, profumati di rosa, emananti dalla pura fiducia reciproca e dall’abbondanza di amicizia». 11 Tra i regali spediti dall’Inghilterra c’era un organo progettato da Thomas Dallam, spedito a Costantinopoli nel 1599. Dallam inorridì nel constatare che, a causa del calore e dell’umidità, «tutte le parti meccaniche risultavano guaste» e che durante il trasporto le canne si erano danneggiate. L’ambasciatore inglese diede un’occhiata allo strumento «e disse che non valeva più un centesimo». Dallam lavorò giorno e notte per riparare l’organo e riportarlo in vita, e quando lo suonò per il sultano, Mehmet III rimase talmente colpito che lo ricoprì d’oro e gli offrì «due mogli, fossero due delle sue concubine o le due migliori vergini di mia personale scelta». 12 Gli approcci di Elisabetta nei confronti del sultano erano corroborati dalla prospettiva delle opportunità che si erano aperte in seguito all’avanzata turca in Europa. Il papa aveva da tempo chiamato a raccolta i governanti cristiani per evitare ulteriori danni, ribadendo solennemente che «se l’Ungheria verrà conquistata, la Germania sarà la prossima, e se venissero travolte la Dalmazia e l’Illiria, l’Italia sarà invasa». 13 A un’Inghilterra risolutamente determinata a seguire la propria strada, lo sviluppo di buone relazioni con Costantinopoli sembrava una politica estera sensata, e apriva la possibilità di uno sviluppo negli scambi commerciali.
Colpisce, a questo proposito, la stipula di un formale accordo commerciale che garantiva ai mercanti inglesi che operavano nell’impero ottomano privilegi più generosi di quelli accordati a qualsiasi altra nazione. 14 Non meno eclatante era il linguaggio utilizzato comunemente nelle comunicazioni tra protestanti e musulmani. Non era un caso, per esempio, che la regina Elisabetta scrivesse al sultano ottomano che lei stessa era «per grazia del Dio più onnipotente … la più invincibile e potente tra i difensori della fede cristiana contro ogni sorta di idolatri, tra tutti coloro che vivono tra i cristiani, e falsamente professano il nome di Cristo». 15 I sovrani ottomani erano altrettanto attenti alle opportunità di rivolgersi a chi si era staccato dalla Chiesa cattolica, non mancando si sottolineare le analogie nel modo di interpretare le rispettive fedi, in particolare per ciò che concerneva il rapporto con le immagini: tra i molti errori dell’«infedele che chiamano papa», scriveva il sultano Murad a «membri della setta luterana nelle Fiandre e in Spagna», c’era l’aver incoraggiato il culto degli idoli. Andava tutto a loro merito il fatto che i seguaci di Martin Lutero, uno degli architetti della Riforma, avessero «bandito gli idoli e i ritratti e le campane dalle chiese». 16 Contro ogni aspettativa, il protestantesimo inglese sembrava poter contribuire ad aprire delle porte, invece che a chiuderle. 17 Nella cultura dominante inglese cominciarono a diffondersi opinioni positive sugli Ottomani e sul mondo musulmano. «Non vi dispiaccia la tinta scura del mio volto» dice il principe del Marocco a Porzia nel Mercante di Venezia di Shakespeare, cercando di ottenere la sua mano. Il sovrano, così apprendeva il pubblico, era un uomo che aveva combattuto coraggiosamente per il sultano in varie occasioni ed era un buon partito per l’ereditiera (rappresentazione cifrata della stessa regina Elisabetta), e anche abbastanza scaltro da sapere che «oro non è tutto ciò che splende». Oppure abbiamo Otello, dove la tragica nobiltà del protagonista, un «moro» (e quindi presumibilmente un musulmano) al servizio di Venezia, contrasta nettamente con la doppia morale, l’ipocrisia e la disonestà dei cristiani che lo circondano. «Il moro è un uomo fedele, affettuoso, nobile» si sentono dire a un certo punto gli spettatori, un riferimento alla convinzione
che nei musulmani e nella loro determinazione si potesse avere fiducia quando si trattava di mantenere le promesse, il che li rendeva alleati affidabili. 18 L’era elisabettiana vide anche l’emergere della Persia come frequente punto di riferimento culturale positivo nella letteratura inglese. 19 Accanto alla visione positiva dei musulmani e dei loro regni, in Inghilterra erano molto comuni atteggiamenti caustici nei confronti degli spagnoli. La pubblicazione del rapporto di Bartolomeo de Las Casas sulla conquista del Nuovo Mondo fu quindi una manna dal cielo, soprattutto alla luce della rivoluzione introdotta da Johannes Gutenberg cento anni prima, che, rendendo possibile stampare testi in quantità neppure immaginabili in precedenza, 20 consentì che scritti come quello del frate domenicano venissero diffusi rapidamente e a un costo relativamente basso. Come per i progressi tecnologici degli inizi del XXI secolo, fu l’improvviso aumento della velocità nella condivisione delle informazioni a fare la differenza. Il testo di Las Casas era importante perché il sacerdote era rimasto sempre più amareggiato dalle sofferenze inflitte alle popolazioni native delle Americhe, a cui aveva assistito in prima persona. La sua Brevissima relazione della distruzione delle Indie, che raccontava nel dettaglio le atrocità più raccapriccianti, andò a ruba in Inghilterra. Ampiamente diffuso negli anni Ottanta del Cinquecento, sia in versione integrale sia in compendi che contenevano i passaggi più accusatori, il libro presentava un ritratto inequivocabile degli spagnoli come assassini di massa, e della Spagna come regno crudele e sanguinario. Il traduttore che ne curò la versione inglese, James Aligrodo, scrisse nella sua introduzione che «12, 15 o 20 milioni di misere creature dotate di ragione erano state massacrate». 21 Nell’Europa protestante si diffusero rapidamente storie che descrivevano il crudele trattamento riservato dagli spagnoli a coloro che ritenevano esseri inferiori. L’analogia era evidente: gli spagnoli erano oppressori per natura, e trattavano gli altri popoli con inquietante crudeltà; se avessero potuto, avrebbero perseguitato allo stesso modo anche quelli più vicini a casa. 22 Una conclusione che incuteva paura nella popolazione dei Paesi Bassi, che sul finire del
XVI secolo era impegnata in una lotta sempre più aspra con la Spagna a causa dei tentativi di quest’ultima di far valere la propria autorità in regioni in cui la Riforma aveva incontrato un forte sostegno. Il celebre cronista Richard Hakluyt, fautore della necessità di creare insediamenti britannici in America, raccontò come nelle Indie la Spagna governasse «con l’orgoglio e la tirannia», e gettasse nella schiavitù gli innocenti che tristemente «piangono con una sola voce», implorando la libertà. 23 Questo era il modello imperiale spagnolo, un modello basato sull’intolleranza, le violenze e le persecuzioni. L’Inghilterra, naturalmente, non si sarebbe mai comportata in modo così vergognoso. 24 Ma questa era la teoria. Nella pratica, l’atteggiamento nei confronti della schiavitù e della violenza era più ambiguo di quanto suggerissero tali nobili promesse. Negli anni Sessanta del Cinquecento, alcuni marinai inglesi tentarono ripetutamente di accaparrarsi una quota del lucroso traffico di schiavi nell’Africa occidentale, e Sir John Hawkins utilizzò gli investimenti della stessa regina Elisabetta per contribuire a generare lauti profitti, trasportando uomini da un capo all’altro dell’Atlantico. Dopo aver concluso che «i negri erano una merce molto buona a Hispaniola e che sulla costa della Guinea si potevano trovare negri in gran quantità», Hawkins e i suoi sostenitori scalpitavano per entrare in azione. Anziché rifiutarsi di avere a che fare nel Nuovo Mondo con i «tiranni» spagnoli, i ceti più elevati della società inglese seppero trarre ottimi risultati dai rapporti che strinsero con loro. 25 In ultima analisi, l’atteggiamento dell’Inghilterra era influenzato dall’acuta consapevolezza di non trovarsi nella condizione di poter sfruttare le straordinarie opportunità che si erano aperte con i grandi cambiamenti degli albori del Cinquecento. Le controversie religiose e il momento non propizio avevano trasformato il paese nel nemico giurato di una Spagna che stava diventando una potenza globale, lasciandolo in una condizione sfavorevole per beneficiare sia delle ricchezze che venivano dalle Americhe sia dei commerci tra Venezia e l’Oriente attraverso il mar Rosso e le vie di terra. Criticare gli spagnoli andava bene, ma non bastava a nascondere il fatto che gli inglesi
erano ridotti a frugare nella spazzatura, grati per qualunque briciola riuscivano a raccattare. L’Inghilterra «brulica oggigiorno di una gioventù valorosa» annotava Hakluyt, e a causa di una cronica «mancanza di occupazione» soffriva di una difficile condizione economica. Non sarebbe stato meraviglioso, chiedeva, poter mettere i giovani al lavoro per creare una marina capace di rendere «questo regno … signore di tutti i mari [del mondo]»? 26 Parlare di governare le onde poteva apparire un progetto ambizioso, ma non c’era nulla di sbagliato nel sognarlo. Mentre l’Europa del Sud prosperava, gli inglesi non rimasero con le mani in mano. Inviarono spedizioni in ogni direzione, nel tentativo di aprire rotte commerciali e costruire nuove reti per gli scambi, i trasporti e le comunicazioni. Poche furono quelle che diedero risultati incoraggianti. Le missioni guidate da Martin Frobisher tra il 1570 e il 1580 per esplorare il Passaggio a Nordovest tornarono in patria senza aver trovato la via sperata che potesse condurre all’Asia. Come se ciò non bastasse, ancor più imbarazzante fu il rendersi conto che i grandi quantitativi di oro riportati dall’odierno Canada, e spacciati per scoperte in grado di rivaleggiare con le miniere del Sud America, si rivelarono qualcosa di molto diverso. Il metallo scintillante era marcasite, o pirite di ferro: l’oro degli sciocchi. 27 Poi si verificarono altri disastri. Un tragico epilogo ebbero i tentativi di raggiungere la Cina dal mare di Barents. Sir Hugh Willoughby e i suoi uomini si ritrovarono all’arrivo dell’inverno con la nave intrappolata dal ghiaccio, nei pressi di Murmansk. Morirono tutti assiderati, e i loro corpi furono ritrovati solo l’anno successivo. Secondo l’ambasciatore veneziano a Londra, il congelamento li aveva bloccati «in varie posizioni, come statue», alcuni «seduti nell’atto di scrivere, la penna ancora in mano e un cucchiaio in bocca; altri nell’aprire uno stipo». 28 Ulteriori sforzi per accedere alle merci dell’Oriente stabilendo legami commerciali con la Russia furono ostacolati innazitutto dal momento scelto dagli inglesi, che coincise con la fase culminante della terribile epopea dello zar Ivan il Terribile, e in secondo luogo dal fatto
che nel XVI secolo il commercio russo in Asia offriva possibilità limitate. Anche se era in procinto di espandersi notevolmente, le rotte fino al mar Caspio e oltre erano ancora troppo insicure per garantire un transito sicuro ai mercanti, e persino le carovane accompagnate da nutrite scorte armate erano esposte agli assalti dei banditi. 29 Tra il 1560 e il 1570, in diverse occasioni furono inviati commercianti anche in Persia, in un tentativo piuttosto disperato di stabilire legami commerciali. Muniti di solito di documenti firmati dalla regina Elisabetta nei quali si promettevano amicizia e alleanze, gli inviati chiedevano allo scià il privilegio, «con oneste intenzioni, di intraprendere commerci di beni con i vostri sudditi, e con altri stranieri che trafficano nel vostro regno». 30 Gli inglesi erano così ansiosi di ottenere concessioni che i mercanti avevano precise istruzioni di non parlare di religione, visto che in passato, quando i loro devoti ospiti musulmani li avevano interrogati sulle rispettive virtù dell’islam e del cristianesimo, si erano lasciati andare a risposte compromettenti. Se in futuro qualcuno avesse fatto domande sulla fede religiosa nel loro paese, veniva consigliato ai viaggiatori, era meglio «lasciarle cadere nel vuoto, senza alcun commento». 31 In Europa, la posizione nei confronti della religione era una questione fondamentale, visto che cattolici e protestanti si combattevano ferocemente tra loro, ma fuori dall’Europa era forse più conveniente sorvolare sull’argomento. Ancora all’inizio del XVII secolo, i tentativi di emulare il successo degli spagnoli e dei portoghesi avevano prodotto pochi risultati. Per cercare di raccogliere denaro da fondi privati erano stati istituiti nuovi enti commerciali, a cominciare dalla Compagnia dei Mercanti Avventurieri per la scoperta di Regioni, Domini, Isole e luoghi sconosciuti, fondata nel 1551. Intorno a essa spuntarono come funghi parecchie nuove società separate con diverse mire geografiche. La Compagnia Spagnola, la Compagnia Orientale, la Compagnia del Levante, la Compagnia Russa, la Compagnia Turca e la Compagnia delle Indie Orientali furono fondate con licenze reali che garantivano il monopolio del commercio all’interno di una determinata regione o di un paese, sulla base del fatto che le imprese d’oltremare erano
rischiose e richiedevano notevoli investimenti. Pertanto, dare incentivi ai commercianti proteggendone i successi futuri era un modo innovativo per cercare di espandere il commercio inglese e, insieme, estendere i tentacoli politici del paese. Nonostante i nomi altisonanti, l’appoggio della Corona e le grandi speranze, i risultati all’inizio furono modesti. L’Inghilterra rimaneva inchiodata alla periferia degli affari mondiali, mentre la posizione della Spagna sembrava diventare sempre più solida. I metalli preziosi accumulati nel corso dei secoli dagli Aztechi, dagli Incas e da altri popoli furono raccolti e inviati in Spagna nel giro di pochi decenni, insieme alle ricchezze estratte da miniere recentemente scoperte o fino ad allora poco sfruttate, come quella di Potosí, che si diceva fruttasse da sola alla Corona spagnola un milione di pesos all’anno. 32 Tuttavia, per quanto grandi fossero le scoperte spagnole, anche le ricchezze che si potevano spremere dal Nuovo Mondo erano limitate. Le risorse, dopotutto, non erano infinite, come non lo erano le ostriche al largo delle coste del Venezuela: essendone state pescate decine di miliardi, dopo soli trent’anni i loro banchi erano ormai completamente devastati. 33 Ma gli spagnoli trattavano il loro colpo di fortuna come un pozzo senza fondo, utilizzando la nuova ricchezza per sovvenzionare una serie di progetti grandiosi, tra cui la costruzione del colossale palazzo dell’Escorial, oltre che per finanziare interminabili imprese militari contro i loro avversari in tutta Europa. All’interno della corte spagnola c’era la ferma convinzione di dover operare come forze dell’ordine al servizio dell’Onnipotente e di dover realizzare la volontà di Dio in terra, se necessario con la violenza. Per la Spagna fu quasi impossibile sfuggire al confronto bellico con protestanti e musulmani. Si apriva un nuovo capitolo della guerra santa. Come avevano dimostrato le precedenti crociate, la voracità con la quale le guerre sante divoravano uomini e denaro poteva rivelarsi rovinosa per le tesorerie reali. La volontà della Corona spagnola di indebitarsi per finanziare i propri progetti non migliorò la situazione, ma spinse a prendere decisioni rapide quanto ambiziose, senza
pensare alle conseguenze che si sarebbero manifestate solo in seguito, soprattutto quando la fortuna avrebbe iniziato a voltare le spalle. A completare il quadro c’erano anche una cattiva gestione fiscale e molta incompetenza ma, in ultima analisi, fu l’incapacità della Spagna di controllare la spesa militare a rivelarsi catastrofica. Incredibilmente, nella seconda metà del XVI secolo il paese divenne inadempiente in maniera seriale sui propri debiti, non rispettando gli impegni assunti in almeno quattro occasioni. 34 Si comportò come il vincitore di una lotteria che, passato dalle stalle alle stelle, sperpera l’intero ammontare del premio in lussi che prima non poteva permettersi. Gli effetti dell’immane afflusso di ricchezze si fecero sentire anche altrove. Di fatto, in tutta Europa c’era stata una rivoluzione dei prezzi quando arrivò l’inflazione, dovuta alla massa di denaro proveniente dalle Americhe e, di conseguenza, al sempre maggior numero di consumatori che cercava di appropriarsi di una certa quantità di beni. La crescente urbanizzazione aggravò il problema, causando un ulteriore rincaro. In Spagna, nel secolo successivo alle scoperte di Cristoforo Colombo, il prezzo del grano aumentò di cinque volte, e non fu un caso isolato. 35 Le cose, alla fine, giunsero a un punto di rottura nelle province e nelle città dei Paesi Bassi, all’epoca sotto il dominio spagnolo, dove la pesante tassazione imposta dalla Spagna nel tentativo di risolvere i propri problemi finanziari non aveva fatto che alimentare la rabbia. Il Nord Europa era un alveare di centri urbani produttivi: Anversa, Bruges, Gand e Amsterdam, che già nel XIV e XV secolo erano emerse come importanti centri commerciali per gli interscambi con il Mediterraneo, la Scandinavia, i paesi baltici e la Russia, nonché con le isole britanniche, dopo l’avvio dei commerci con l’India e con le Americhe divennero ovviamente ancora più fiorenti. 36 Queste città attirarono mercanti da ogni parte del mondo, che a loro volta diedero vita a un ambiente socialmente ed economicamente vivace e a forti identità civiche. La crescita demografica richiedeva che i terreni circostanti fossero sfruttati in maniera efficiente, il che spinse verso rapidi progressi non solo nella resa dei raccolti ma anche nelle tecniche di irrigazione, per esempio con la costruzione di dighe e di
sbarramenti che consentivano di utilizzare con profitto ogni pezzo di terra disponibile. Le città dei Paesi Bassi e del loro hinterland, grazie alla fioritura che stavano vivendo sia in termini di dimensioni che di produttività, divennero quanto mai appetibili come centri in grado di generare gettito fiscale. I regnanti spagnoli ne erano perfettamente consapevoli e, grazie a matrimoni dinastici ed eredità, controllavano la maggior parte della regione. 37 Non passò molto tempo prima che singole province e città lamentassero sconsolate l’introduzione di livelli di tassazione talmente elevati da risultare punitivi, come pure gli atteggiamenti oppressivi e brutali sulle questioni religiose. Le idee di Martin Lutero, Giovanni Calvino e altri, che sottolineavano la corruzione istituzionale di detentori del potere politico lontani dal popolo e l’importanza spirituale dell’individuo, trovavano un terreno fertile in queste aree fortemente urbanizzate, e fecero sì che il protestantesimo vi piantasse radici profonde. La persecuzione economica e religiosa si rivelò una miscela esplosiva in grado di fomentare rivolte e fu alla base dell’Unione di Utrecht, la dichiarazione di indipendenza sottoscritta nel 1579 da quelle che sarebbero diventate le Sette Province Unite, di fatto la Repubblica olandese. Gli spagnoli risposero con una dimostrazione di forza ponendo, a partire dal 1585, un embargo commerciale sui Paesi Bassi, con l’obiettivo di soffocare le province e le città ribelli per costringerle a sottomettersi. Ma come spesso accade quando vengono imposte sanzioni, il risultato fu quello opposto: avendo ben poche alternative, i separatisti passarono all’attacco. L’unica strada per sopravvivere era utilizzare a loro vantaggio tutta la conoscenza, l’abilità e le competenze di cui disponevano. Era arrivato il momento di ribaltare la situazione. 38 Verso la fine del XVI secolo un concorso di circostanze creò le condizioni perché nei Paesi Bassi si verificasse un miracolo. Il tentativo della Spagna di opprimere la regione provocò un’emigrazione su larga scala: la popolazione delle province meridionali si spostò verso nord, e città come Gand, Bruges e Anversa si trovarono a soffrire di quella che uno studioso ha definito «una catastrofica emorragia di abitanti». La tempistica fu perfetta. A causa
dell’embargo commerciale c’erano enormi scorte di grano e aringhe stoccate nei magazzini, il che significava che il cibo era disponibile in abbondanza e a basso prezzo. Gli affitti aumentarono rapidamente, ma la crescita demografica produsse a sua volta un boom nell’edilizia residenziale, e si costituì un gruppo molto coeso di commercianti esperti e di altri professionisti che cercavano di sottrarsi alla pressione spagnola. 39 Quando il blocco fu finalmente revocato, nel 1590, gli olandesi, approfittando della momentanea assenza del re di Spagna Filippo II, impegnato in conflitti bellici in altre parti d’Europa, passarono rapidamente all’azione e si liberarono delle truppe spagnole che erano state inviate per mantenere l’ordine. Improvvisamente liberatisi dall’occupazione militare e di fronte a una finestra di opportunità spalancata, si diedero al commercio internazionale, cercando di stringere legami con le Americhe, l’Africa e l’Asia. I piani volti a stabilire una propria rete di scambi rispondevano a una logica commerciale ben precisa. Trasportare le merci direttamente in Olanda significava evitare due livelli di tassazione: in primo luogo, non avrebbero subìto le maggiorazioni dovute al transito nei porti portoghesi e spagnoli, dove i carichi venivano generalmente tassati prima di essere inviati a nord. Secondo, il fatto che ora le autorità olandesi avrebbero potuto incamerare quegli introiti, anziché consegnarli ai padroni iberici, significava che il denaro prodotto dal fiorente commercio nei Paesi Bassi non sarebbe stato risucchiato per finanziare ambizioni imperiali e spese incontrollate altrove. Ciò avrebbe arrecato benefici immediati e innescato un circolo virtuoso, dal momento che i cospicui profitti potevano essere reinvestiti e generare flussi di cassa ancora più consistenti, sia per i singoli commercianti sia per la nascente repubblica. 40 L’ambizioso progetto diede subito i frutti sperati. Una spedizione partita per l’Oriente nel 1597 ritornò trionfalmente in patria l’anno seguente con un carico che generò profitti del 400 per cento. Da allora, cominciarono a partire flotte in tutte le direzioni, finanziate da investitori attratti dalla prospettiva di simili rendimenti sul loro
capitale. 41 Nel solo 1601 salparono per l’Asia quattordici spedizioni, mentre almeno un centinaio di imbarcazioni all’anno iniziarono ad attraversare l’Atlantico per acquistare nella penisola di Araya il sale, di vitale importanza per il mercato interno delle aringhe. 42 Sentendosi oltraggiati, gli spagnoli scelsero nuovamente l’opzione militare, ponendo un altro blocco. Secondo il brillante filosofo e giurista olandese Ugo Grozio, questa decisione non fece che rafforzare la volontà degli olandesi di prendere in mano il proprio destino. Anziché fare un passo indietro di fronte alle minacce e alle pressioni, l’unica scelta era quella di investire ancora di più in iniziative commerciali e di costruire il più rapidamente possibile una rete di scambi che contribuisse a creare una potenza di fuoco e rafforzare l’indipendenza. Era il momento di giocarsi il tutto per tutto. 43 La chiave del successo olandese stava nella maestria raggiunta nella cantieristica navale e, soprattutto, nelle innovazioni apportate ai modelli tradizionali, quelli che avevano a lungo permesso alle flotte di pescherecci di operare con successo nel mare del Nord e nei bassi fondali grazie al loro pescaggio ridotto. Dalla metà del Cinquecento, mentre gli inglesi costruivano navi da guerra più veloci e robuste, gli olandesi concentrarono i loro sforzi sullo sviluppo di imbarcazioni più agili, più capienti e che richiedevano equipaggi meno numerosi, ed erano quindi più economiche da gestire. Queste navi, chiamate fluyt, divennero un nuovo punto di riferimento per la navigazione commerciale. 44 Gli olandesi si preparavano a dovere, prima di salpare. Mentre i loro predecessori europei che avevano attraversato l’Atlantico e doppiato il Capo di Buona Speranza viaggiavano verso l’ignoto, essi sapevano bene cosa cercare e dove trovarlo. Autori come Jan Huygen van Linschoten, segretario dell’arcivescovo di Goa, che passò il suo tempo a studiare a fondo le rotte commerciali, i porti, i mercati e le condizioni locali di ogni parte dell’Asia, pubblicavano testi – come appunto l’Itinerario di van Linschoten – che fungevano da vere e proprie guide per chi partiva alla volta dell’Oriente, tanto erano esaurienti e ricchi di informazioni. 45 Per preparare i commercianti ai loro viaggi erano disponibili anche
altri tipi di ausili. Gli olandesi erano leader mondiali nella cartografia. Per la loro accuratezza e precisione, le mappe e le carte nautiche realizzate dall’incisore Lucas Janszoon Waghenaer negli anni Ottanta del Cinquecento erano considerate indispensabili in tutta Europa. Particolare cura era rivolta alla scrupolosa raccolta di informazioni e alla produzione di atlanti aggiornati e dettagliati, sia delle Indie Orientali sia dei Caraibi. Queste opere stabilirono lo standard dei moderni ausili alla navigazione nei primi anni del XVII secolo. 46 Poi c’erano i testi che aiutavano a comprendere il vocabolario e la grammatica delle strane lingue che i commercianti olandesi potevano incontrare nei loro viaggi. Uno dei primi linguisti di questa nuova generazione fu Fredrik de Houtman. Il suo dizionario olandesemalese, con annessa grammatica, fu pubblicato nel 1603, dopo che Houtman ottenne dal sultano di Sumatra il permesso di lasciare la prigione di Aceh, dove aveva diligentemente imparato la lingua dei suoi carcerieri. 47 I mercanti olandesi del XVI secolo diretti in Asia studiavano avidamente repertori lessicali che fornivano la traduzione di parole e frasi utili in malayalam, malese, visayan, tagalog, tamil e altre lingue. 48 I segreti alla base del successo olandese nel XVII secolo erano il buon senso e il duro lavoro. Gli olandesi ritenevano che la via da seguire non fosse quella di imitare l’Inghilterra, dove alcune società per azioni privilegiate si servivano di pratiche astute per limitare i beneficiari a una piccola cerchia ristretta, e dove tutti sorvegliavano gli interessi altrui e ricorrevano a metodi monopolistici per proteggere le loro posizioni. Al contrario, in Olanda i capitali venivano associati e i rischi condivisi tra una compagine di investitori la più ampia possibile. Con il tempo, si giunse alla conclusione che, nonostante le ambizioni concorrenti e le rivalità tra le province, le città e anche i singoli commercianti, il modo più efficace e sicuro per potenziare il commercio era quello di combinare insieme le risorse. 49 Nel 1602, quindi, il governo delle Province Unite creò un unico soggetto destinato a gestire gli scambi con l’Asia, ritenendo che esso sarebbe stato più forte e più potente della somma delle sue parti. Era una mossa audace, non da ultimo perché significava appianare le
rivalità locali e convincere tutti i soggetti coinvolti che in questo modo gli interessi di tutti sarebbero stati convergenti e meglio serviti. La creazione della Verenigde Oost-Indische Compagnie (VOC ), la Compagnia delle Indie Orientali, e qualche tempo dopo la società gemella per le Americhe, la West-Indische Compagnie (WIC ), la Compagnia delle Indie Occidentali, furono esempi da manuale su come fondare una società multinazionale di livello mondiale. 50 Il modello olandese si rivelò un successo sorprendente. Sebbene alcuni, come il commerciante e fondatore della WIC , Willem Usselincx, sostenessero che l’idea migliore fosse quella di colonizzare le parti delle Americhe ancora prive di insediamenti, quello che prese forma era un piano molto chiaro. 51 L’obiettivo non era cercare di competere con gli altri commercianti europei, come accadeva a Goa, dove i mercanti portoghesi, veneziani e tedeschi vivevano fianco a fianco, ma rimpiazzarli. 52 Questo approccio aggressivo diede subito i suoi frutti. L’attenzione si rivolse inizialmente alle Molucche, dove l’isolata comunità portoghese fu espulsa nel 1605 nell’ambito di un programma sistematico volto ad acquisire il controllo delle Indie Orientali. Nel corso dei decenni successivi gli olandesi continuarono a consolidare le loro posizioni, stabilendo un quartier generale permanente a Batavia (l’attuale Giacarta), nome che faceva riferimento all’appellativo dato agli abitanti dei Paesi Bassi dagli antichi romani. La forza militare venne impiegata per conquistare e consolidare una catena di insediamenti di collegamento che arrivavano fino alla madrepatria. Anche se gli olandesi conobbero insuccessi in alcune località, come Macao e Goa, i progressi realizzati nel Seicento furono davvero impressionanti. Ben presto, non si limitarono più a mettere sotto pressione solo gli europei all’estero, ma si rivolsero anche ai sovrani locali i cui regni erano in posizione strategica, o importanti per le risorse economiche. Posero quindi sotto il loro controllo Malacca, Colombo, Ceylon e Kochi, per poi prendere di mira nel 1669 il sultanato di Macassar (nell’attuale Indonesia). Macassar era il pezzo mancante necessario a stabilire un monopolio del commercio delle spezie con l’Asia. Ribattezzata Nuova Rotterdam, la sua conquista fu
seguita dalla costruzione di una grande fortezza, come era accaduto altrove; una precisa dichiarazione di intenti, per far capire che quelle acquisizioni non sarebbero state cedute facilmente. 53 Una mappa conservata nell’archivio di Stato dell’Aia raffigura la vera e propria ragnatela tessuta dagli olandesi mentre consolidavano le loro posizioni nelle Indie Orientali. 54 Lo stesso schema venne adottato altrove. Una volta assunto il controllo del commercio dell’oro, gli olandesi estromisero i loro rivali dall’Africa occidentale; dopodiché, a tempo debito e non marginalmente, s’inserirono anche nel traffico di schiavi verso le Americhe. Oltre a stabilire nuove roccaforti, come Fort Nassau, nell’odierno Ghana, cacciarono i portoghesi da altre basi, ottenendo per esempio che Elmina, sulla costa ghanese, passasse nelle loro mani alla metà del XVII secolo. A seguito dei notevoli successi conseguiti anche nei Caraibi e nelle Americhe, negli anni Quaranta del Seicento gli olandesi avevano ormai acquisito una quota rilevante dei traffici transatlantici e controllavano completamente il commercio dello zucchero. 55 I Paesi Bassi si trasformarono. Coloro che fin dall’inizio avevano investito nel commercio a largo raggio accumularono enormi fortune, e anche quelli che beneficiavano della nuova ricchezza se la passavano piuttosto bene. A Leida e Groningen furono fondate università in cui gli studiosi potessero espandere i confini delle discipline accademiche grazie ai finanziamenti di generosi mecenati. Artisti e architetti prosperarono, godendo dell’improvviso interesse e della ricchezza di una borghesia di nuovo conio. In un’epoca di straordinaria ricchezza, ad Amsterdam cominciarono a sorgere splendidi palazzi, e la città sorse dalle acque come aveva fatto Venezia secoli prima. Aree come quella di Jordaan furono sottratte al mare, e sul Keizersgracht e nelle vicinanze sorsero lungo i canali case che erano, nel contempo, prodigi di ingegneria e meraviglie architettoniche. L’influsso delle Vie della Seta cominciò a essere percepito anche nelle arti applicate. Una fiorente industria della ceramica si sviluppò a Haarlem, Amsterdam e soprattutto a Delft, fortemente influenzata dallo stile, dallo spirito e dalle tecniche degli oggetti importati
dall’Oriente. I motivi dominanti erano quelli cinesi, e le caratteristiche porcellane bianche e blu sviluppate secoli prima dai vasai del golfo Persico e diventate popolari in Cina e nell’impero ottomano, furono adottate così massicciamente che divennero il tratto distintivo anche della produzione olandese. L’imitazione non era solo la forma più sincera di elogio per il modello; in questo caso, era anche parte dell’adesione a un sistema globale di cultura materiale che ora collegava il mare del Nord con l’oceano Indiano e il Pacifico. 56 Con il crescere della domanda di oggetti che servissero a contraddistinguere uno status sociale, tutte le arti nei Paesi Bassi conobbero una fioritura. Qualcuno ha stimato che nel solo XVII secolo siano stati realizzati circa 3 milioni di dipinti. 57 Tutto questo, ovviamente, fornì uno stimolo per nuove idee ed elevò anche il livello qualitativo, creando un contesto nel quale artisti come Frans Hals, Rembrandt e Vermeer produssero opere di una bellezza strabiliante. Considerato il modo davvero ragguardevole con cui gli olandesi avevano lavorato insieme per raggiungere il successo, era certamente appropriato che alcune delle opere più belle rappresentassero scene di gruppo, come il Banchetto degli Ufficiali della Guardia Civica di Sant’Adriano (la guardia civica di Haarlem) di Frans Hals, o il celebre dipinto di Rembrandt La Compagnia del capitano Frans Banning Cocq e del tenente Willem van Ruytenburch si prepara a marciare, più noto come La ronda di notte, che fu commissionato per la Sala dei Banchetti della guardia civica di Amsterdam. Anche i singoli individui erano attivi mecenati, come per esempio il mercante Andries Bicker, che ingaggiò Bartholomeus van der Heist affinché celebrasse il suo successo e il suo status sociale da poco conseguiti, mentre il costruttore navale Jan Rijcksen commissionò a Rembrandt un ritratto raffigurante lui e la moglie intenti a lavorare insieme su progetti nautici. Per gli olandesi, e per la loro arte, era una vera età dell’oro. 58 Gli olandesi amavano esibire le loro suppellettili, come ci mostra il quadro di Vermeer Donna che legge una lettera davanti alla finestra, dove un piatto da portata bianco e blu spicca ben visibile in primo piano. 59 Un viaggiatore inglese che visitò Amsterdam nel 1640 non nascose
quanto lo avesse colpito ciò che aveva visto. Nei Paesi Bassi, scrisse Peter Mundy, anche le case di «modesta qualità» erano stracolme di mobili e soprammobili «molto dispendiosi e insoliti, pieni di piacere e di amore per la casa, come armadi di pregio, vetrine … dipinti, porcellane, gabbie eleganti e costose con uccelli» e altro ancora. Anche le case dei macellai, panettieri, fabbri e calzolai avevano quadri alle pareti e arredi di lusso. 60 «Sono rimasto stupito» scrisse più o meno negli stessi anni il diarista inglese John Evelyn a proposito della fiera annuale di Rotterdam, che traboccava di dipinti, in particolare «paesaggi e scherzi, come chiamano quelle buffe rappresentazioni». Anche i semplici agricoltori erano diventati accaniti collezionisti d’arte. 61 Reazioni di questo tipo erano frequenti tra i sempre più numerosi inglesi che in quel periodo visitavano i Paesi Bassi. 62 L’età dell’oro olandese fu il risultato di una pianificazione eseguita con estrema cura, ed ebbe anche il vantaggio di arrivare al momento giusto, cioè quando gran parte dell’Europa era in subbuglio, impegnata nell’infinita sequela di campagne militari costose e inconcludenti che travolsero il continente durante la guerra dei Trent’Anni, tra il 1618 e il 1648. Questa instabilità presentava anche delle opportunità. Poiché l’attenzione e le risorse di molti paesi erano dedicate a teatri di guerra più vicini a casa, gli olandesi conquistarono a uno a uno i loro obiettivi in diversi continenti senza subire rappresaglie. I sanguinosi scontri del XVII secolo nel Vecchio Continente consentirono agli olandesi di conquistare una posizione dominante in Oriente, a scapito dei loro rivali europei. La guerra dei Trent’Anni, tuttavia, ebbe un ruolo ancora più importante, in quanto fu alla base dell’ascesa dell’Occidente. Le discussioni sull’Europa di quegli anni sottolineano il fatto che l’Illuminismo e l’Età della Ragione giunsero a maturazione là dove le idee dell’assolutismo furono sostituite dalle nozioni di libertà e diritti. Ma fu il suo inscindibile rapporto con la violenza e il militarismo che consentì all’Europa stessa di posizionarsi al centro del mondo, dopo le grandi spedizioni di fine Quattrocento. Anche prima delle scoperte quasi simultanee di Cristoforo
Colombo e Vasco da Gama, la concorrenza tra i regni europei era stata intensa. Per secoli, il continente era stato teatro di una feroce rivalità tra Stati, spesso sfociata in aperta ostilità e in guerre. E tutto ciò stimolò a sua volta i progressi della tecnologia bellica. Furono concepite e introdotte nuove armi, ulteriormente perfezionate dopo essere state testate sul campo di battaglia. Le tattiche militari si evolvevano a mano a mano che i condottieri imparavano dall’esperienza. Anche il concetto di violenza fu istituzionalizzato: l’arte e la letteratura europee avevano a lungo celebrato la vita del valoroso cavaliere e la sua capacità di usare la forza con giudizio, come atto d’amore e di fede, ma anche in difesa della giustizia. I racconti delle crociate, che elogiavano la nobiltà e l’eroismo, ma ignoravano la slealtà, il tradimento e la rottura dei giuramenti, assunsero un potere eccitante. Il combattimento, la violenza e lo spargimento di sangue erano glorificati, a patto di poter essere considerati giusti. Forse fu questa una delle ragioni per le quali la religione divenne così importante: non c’era guerra più giustificabile di quella combattuta in difesa dell’Onnipotente. Fin dall’inizio, religione ed espansionismo furono strettamente legati tra loro: anche le vele delle navi di Colombo erano contrassegnate da grandi croci. Come non perdevano occasione di sottolineare i cronisti dell’epoca – a proposito delle Americhe, ma anche quando gli europei cominciarono a riversarsi in Africa, in India e in altre parti dell’Asia, e poi in Australia –, era parte del piano di Dio che l’Occidente ereditasse la terra. In realtà, il carattere peculiare dell’Europa, che ne faceva il continente più aggressivo, più instabile e meno pacifico rispetto ad altre parti del mondo, stava ora dando i suoi frutti. Dopotutto, era per questo che i grandi vascelli degli spagnoli e dei portoghesi erano riusciti ad attraversare gli oceani e a collegare i continenti. L’imbarcazione tradizionale che aveva navigato per secoli nei mari indiani e arabi con pochissime modifiche non era all’altezza delle navi occidentali, che godevano di una superiorità schiacciante sia in fatto di capacità di manovra che di potenza di fuoco. I continui miglioramenti nella progettazione navale, che avevano reso le navi ancora più veloci,
potenti e letali, avevano ampliato ulteriormente il divario. 63 Lo stesso poteva dirsi della tecnologia bellica. Tale era l’affidabilità e la precisione delle armi impiegate nelle Americhe che piccoli contingenti di conquistadores poterono dominare popolazioni di gran lunga superiori numericamente, civiltà avanzate e anche molto evolute, tranne che in fatto di armamenti. Nei territori inca, scrisse Pedro Cieza de Léon, la legge e l’ordine venivano scrupolosamente mantenuti, con grande attenzione «si preoccupavano di garantire la giustizia in modo tale che nessuno osava fare prepotenze o furti». 64 In tutto l’impero inca, ogni anno si raccoglievano dati accurati per garantire che le tasse fossero calcolate correttamente e pagate con puntualità, e nascite e decessi venivano registrati a livello centrale e tenuti aggiornati. Anche le élite dovevano lavorare la terra per un certo numero di giorni all’anno, «per dare personalmente il buon esempio, perché fosse ben chiaro che non doveva esserci nessuno tanto ricco che … avesse voglia di offendere e umiliare il povero». 65 Questi non erano i selvaggi descritti dai corifei dell’Europa trionfante; anzi, potevano essere visti sotto una luce particolarmente favorevole, in confronto alle società altamente stratificate affermatesi nella maggior parte del continente, dove il divario tra i forti e i deboli era consolidato da un patrimonio aristocratico che proteggeva la posizione sociale dei primi. Anche se gli europei si erano convinti che quelle che andavano via via scoprendo fossero civiltà primitive e che, quindi, potevano essere dominate, la verità è che fu l’inesorabile progresso nelle armi e nelle tattiche belliche a porre le basi del trionfo dell’Occidente. Una delle ragioni che rendevano possibile il dominio sull’Africa, l’Asia e le Americhe era la secolare esperienza europea nella costruzione di fortificazioni pressoché inespugnabili. I castelli erano stati la specialità delle società europee fin dal Medioevo, e migliaia di grandiose roccaforti erano sorte in tutto il continente. Il loro scopo, naturalmente, era resistere ad attacchi massicci e determinati, e il loro straordinario numero sta a testimoniare quanto fossero temibili e ricorrenti gli assalti. Gli europei erano i migliori al mondo nel costruire fortezze, e anche nell’assaltarle. Era sorprendente come la
loro ostinazione nel costruire imponenti strutture che si potessero difendere dall’interno suscitasse grande sconcerto tra i popoli degli altri continenti. Nessun altro gruppo di mercanti aveva mai costruito forti in passato, osservò nei primi del Settecento il nababbo del Bengala: perché mai gli europei insistevano a farlo ora? 66 La grande ironia, dunque, era che l’Europa, pur vivendo una splendida età dell’oro caratterizzata da una fioritura dell’arte e della letteratura e da grandi progressi della ricerca scientifica, era stata forgiata dalla violenza. Non solo, ma la scoperta di nuovi mondi servì a rendere ancora più instabile il suo assetto sociale. Con diversi obiettivi per i quali combattere e risorse disponibili in costante aumento, l’asticella si alzò, acuendo le tensioni, mentre la lotta per la supremazia s’intensificava. I secoli che seguirono l’emergere dell’Europa come potenza globale furono accompagnati da un consolidamento e da una cupidigia inarrestabili. Nel 1500, nel Vecchio Continente si contavano circa cinquecento entità politiche; nel 1900, venticinque. Il forte divorò il debole. 67 La competizione e lo scontro militare erano fattori endemici, in Europa. In questo senso, i successivi orrori del XX secolo affondavano le radici in un passato lontano. La lotta per dominare i vicini e i rivali stimolò i progressi nella tecnologia bellica, nella meccanizzazione e nella logistica, il che alla fine consentì di espandere notevolmente i teatri di guerra e fece sì che il numero delle vittime passasse dall’ordine delle centinaia a quello dei milioni. Con il passare del tempo, divenne possibile perpetrare persecuzioni su larga scala. Non è stato un caso se la guerra mondiale e il peggior genocidio nella storia hanno avuto origine e sono avvenuti in Europa; essi sono stati solo gli ultimi capitoli di una lunga storia di brutalità e di violenza. Così, mentre in genere ci si concentra sugli investimenti profusi nell’arte e sull’impatto della nuova ricchezza sulla cultura del XVI e XVII secolo, è forse più istruttivo osservare i concomitanti progressi nella produzione di armi. Così come fu realizzata un’enorme quantità di dipinti per una vasta e insaziabile clientela, lo stesso può dirsi per le armi da fuoco. Verso la fine del Seicento l’imprenditore francese Maximilien Titon aveva già venduto circa 600.000 fucili a pietra focaia
nella sola Francia centrale; e, secondo alcuni contemporanei, i lavoratori impiegati nella produzione di pistole a Saint-Étienne erano così numerosi che non si riusciva neanche a contarli. Tra il 1600 e il 1750 l’affidabilità delle pistole si decuplicò. I progressi tecnologici – per esempio, l’invenzione degli scovoli, delle cartucce e delle baionette – resero le armi da fuoco più economiche ed efficienti, accrescendone la cadenza di tiro e la letalità. 68 Allo stesso modo, benché i nomi di scienziati come Galileo Galilei, Isaac Newton ed Eulero siano diventati famosi per generazioni di studenti, è fin troppo facile dimenticare che alcuni dei loro successi più importanti riguardarono le traiettorie dei proiettili e lo studio delle cause di deviazione del tiro, per consentire all’artiglieria una maggiore precisione. 69 Questi illustri scienziati contribuirono a rendere le armi più potenti e sempre più affidabili, e i progressi militari e tecnologici andarono di pari passo con il secolo dei Lumi. Non è che le altre società fossero immuni dall’aggressività. Come dimostravano numerosi esempi nei vari continenti, qualunque conquista poteva comportare morte e sofferenza su larga scala. Ma in tutta l’Asia e il Nord Africa, dopo periodi di rapida espansione – per esempio, nei primi, straordinari decenni della diffusione dell’islam, o durante l’epoca delle conquiste mongole –, si ebbero lunghi periodi di pace, stabilità e prosperità. Diversi in Europa, rispetto alle altre parti del mondo, erano la frequenza e il ritmo delle guerre: non appena si chiudeva un conflitto, ne scoppiava subito un altro. La concorrenza era brutale e spietata. In questo senso, opere autorevoli come il Leviatano di Thomas Hobbes sono testi fondamentali per spiegare la crescita dell’Occidente. Solo un autore europeo poteva giungere alla conclusione che lo stato naturale dell’uomo era quello di trovarsi in una costante condizione di violenza, e solo un autore europeo avrebbe avuto ragione nel sostenere una simile teoria. 70 La brama dello scontro militare era inoltre alla base di altri sviluppi strettamente correlati alla guerra, come quelli in ambito finanziario. I governi europei avevano necessità di capitali per finanziare gli eserciti, il che portò alla creazione di mercati del debito dove si poteva raccogliere denaro dando come contropartita le future entrate fiscali.
Scommettere sul successo poteva produrre lauti profitti e offrire titoli e altri benefici sociali agli operatori più oculati, i cui investimenti nel debito pubblico potevano naturalmente ammantarsi di patriottismo: impegnare capitali nelle finanze statali era una via verso l’ascesa sociale, oltre che verso la ricchezza. Londra e Amsterdam divennero centri della finanza globale, specializzati nel debito sovrano, ma anche in listini di borsa sempre più complessi. 71 Una delle ragioni della supremazia di Londra e Amsterdam era l’accelerazione dello sviluppo socio-economico del Nord Europa. Le ricerche più recenti sostengono che tra il Cinquecento e l’Ottocento la popolazione dell’Inghilterra e dei Paesi Bassi crebbe fin quasi a raddoppiare. Tale incremento demografico riguardò soprattutto le zone densamente popolate, in cui il numero di grandi città aumentò di circa tre volte, 72 e fu particolarmente accentuato nei Paesi Bassi: si stima che, alla metà del XVII secolo, almeno il 50 per cento degli abitanti di Amsterdam provenissero da altre località. 73 Gli Stati con più centri urbani avevano un notevole vantaggio rispetto a quelli dove il grosso della popolazione era rurale. Nelle città la riscossione delle imposte era meno dispendiosa, più semplice ed efficiente, anche perché la velocità degli scambi commerciali era molto maggiore rispetto alla campagna. Le zone densamente popolate producevano anche flussi di reddito più prevedibili e meno aleatori. L’Inghilterra e la Repubblica olandese potevano concedere prestiti più ingenti a tassi migliori rispetto ai loro concorrenti commerciali e politici. 74 Allora come oggi, per guadagnare nel campo della finanza non bastava essere intelligenti, occorreva essere nel posto giusto. E sempre di più questo voleva dire essere a Londra o ad Amsterdam. Fu così che cominciarono a suonare le campane a morto per l’Italia e l’Adriatico. Già in una condizione di netto svantaggio a causa delle nuove rotte commerciali che facevano arrivare le merci direttamente ai consumatori più ricchi, e fiaccate da una rivalità profondamente radicata, le città-Stato italiane non avevano alcuna possibilità di successo contro gruppi di città pronte, invece, a unire le forze. Per finanziare l’espansione furono raccolte somme talmente ingenti che
divenne normale spendere più della metà delle entrate statali semplicemente per pagare gli interessi sul debito pubblico. 75 Viceversa, ritrovarsi invischiati in una perenne lotta contro i paesi vicini, alla costante ricerca di un vantaggio politico, commerciale e culturale su di loro, era quanto mai dispendioso. L’Europa divenne così un continente a due velocità: a est e a sud, la vecchia Europa che aveva dominato per secoli e che ora si era ripiegata su sé stessa e ristagnava; a nordovest, la nuova Europa in pieno boom. 76 Alcuni compresero prima di altri ciò che stava accadendo. Già nel Seicento l’ambasciatore britannico a Venezia scriveva che, «per quanto riguarda il commercio, la decadenza è così evidente che tutti concordano sul fatto che in capo a vent’anni» la città sarebbe quasi collassata. Venezia, che una volta aveva dominato il commercio con l’Oriente, ora non era più in grado di competere. Tantissime, prima, erano le navi «da oltre 1000 tonnellate ciascuna» che portavano le merci in patria, o ripartivano per andare a caricare; adesso «non se ne vede neppure una». 77 In poco tempo la città lagunare cominciò a reinventarsi, trasformandosi da potenza commerciale in un centro di vita dissoluta, per la gioia degli edonisti. Anche se le autorità tentarono di porre fine alla moda di indossare gioielli sempre più grossi e preziosi, alle feste sempre più ostentate e alla sfrenata ricerca del piacere, la trasformazione della città era per molti aspetti comprensibile: aveva forse altre scelte? 78 Non più centri del commercio e della politica internazionali, Venezia, Firenze e Roma divennero tappe di un itinerario turistico per i nuovi ricchi. Anche se fu nel 1670 che vennero chiamate per la prima volta «Grand Tour», queste spedizioni erano iniziate già un secolo prima, quando divenne chiaro che un viaggio in Italia offriva la possibilità di acquistare sia preziosi oggetti antichi sia opere d’arte più recenti e alla moda, i cui prezzi salirono alle stelle con l’aumentare del numero di visitatori. 79 Era un rito di passaggio, non solo per coloro che vi partecipavano, ma per la cultura nel suo complesso: i frutti dell’Europa del Sud venivano divorati dal Nord. E mentre il centro di gravità del Vecchio Continente si spostava, altrettanto accadeva ai gioielli della cultura antica e contemporanea. Tre delle migliori
collezioni di sculture antiche nel mondo, conservate presso il British Museum, il Fitzwilliam Museum di Cambridge e l’Ashmolean Museum di Oxford, furono raccolte da viaggiatori animati da curiosità culturale e provvisti di portafogli ben forniti. 80 Questi viaggiatori tornarono a casa portando con sé idee sull’architettura, sullo stile dei monumenti tombali e sulla scultura; non passò molto tempo prima che si iniziasse a trarre ampia ispirazione dalla poesia, dall’arte, dalla musica, dai giardini, dalla medicina e dalla scienza dell’antichità classica, mentre l’Inghilterra e i Paesi Bassi tentavano di modellare la gloria del presente su quella del passato. 81 I cittadini dell’antica Roma sarebbero rimasti a bocca aperta nell’apprendere che piccoli proprietari e modesti funzionari di quella che era stata un tempo una verdeggiante ma remota provincia dell’impero potessero commissionare busti che li ritraevano non solo come eredi dei romani, ma come imperatori. 82 Presto costoro avrebbero fatto ancora di più: il dominio britannico era alle porte.
XIV
LA VIA ALL’IMPERO
Lo spostamento del baricentro del potere verso il Nord Europa trovò alcuni paesi impreparati a competere e tenere il passo. Nel mondo ottomano, per esempio, il numero di città con una popolazione superiore ai 10.000 abitanti rimase sostanzialmente invariato fra il Cinquecento e l’Ottocento. Non vi fu nessuna pressione sull’agricoltura affinché migliorasse la produzione per soddisfare una domanda in crescita, il che significò che l’economia rimase asfittica e statica. Anche il sistema fiscale era inefficiente, in parte in seguito all’affidamento in appalto della riscossione tributaria, una scelta che favoriva rapidi arricchimenti individuali a scapito dell’andamento a lungo termine delle entrate statali. 1 I burocrati ottomani avevano dimostrato di essere amministratori altamente qualificati, abili nel centralizzare le risorse e nel gestire la distribuzione della popolazione al fine di garantire che raccolti e approvvigionamenti andassero dov’erano più necessari. Finché l’impero aveva inglobato altri territori, come nel XV e XVI secolo, tutto era filato liscio e senza intoppi, ma quando la spinta espansiva si affievolì, emerse in tutta evidenza la fragilità del sistema, sia per la pressione degli alti costi necessari a sostenere l’azione militare sui due fronti a ovest e a est (rispettivamente, in Europa e contro la Persia dei Safavidi), sia in conseguenza di un cambiamento climatico che ebbe un impatto particolarmente pesante sul mondo ottomano. 2 Anche le strutture sociali del mondo musulmano, che si erano sviluppate seguendo un percorso molto diverso rispetto a quelle dell’Europa occidentale, si rivelarono un fattore importante. Generalmente, nelle società islamiche la ricchezza era distribuita in modo più uniforme che in quelle cristiane, grazie soprattutto alle
precise disposizioni in materia di eredità contenute nel Corano. Alcuni di questi princìpi, in particolare quelli relativi alle quote del patrimonio dei padri o dei mariti che le donne potevano e dovevano ricevere, ci appaiono sotto una luce favorevole rispetto alle consuetudini dell’epoca. Una donna musulmana poteva attendersi un trattamento decisamente migliore di quello che toccava a una donna europea, ma ciò riduceva la possibilità che una grande ricchezza rimanesse all’interno della stessa famiglia per un lungo periodo di tempo. 3 Questo, a sua volta, fece sì che la distanza tra ricchi e poveri non fu mai così ampia come quella che si poteva riscontrare in Europa, perché il denaro veniva redistribuito e tornava in circolazione su una base più ampia. Tali valori inibivano in certa misura la crescita economica: come regola generale, i precetti e le disposizioni circa i lasciti ereditari consentivano raramente alle famiglie di accumulare capitali nel succedersi delle generazioni, poiché l’eredità era progressiva ed egualitaria; in Europa, invece, la primogenitura concentrava le risorse nelle mani di un solo figlio, aprendo così la strada alla formazione di grandi fortune. 4 Per alcuni, il fatto che l’Europa, o meglio la sua porzione nordoccidentale, non se la fosse mai passata così bene era fonte di preoccupazione. Nei Paesi Bassi i sacerdoti calvinisti proclamavano con gelida fermezza che il denaro era la radice di ogni male, e mettevano in guardia contro i pericoli dell’indulgere al lusso. 5 Sentimenti simili erano riscontrabili in Inghilterra, dove all’inizio del XVII secolo personaggi come Thomas Mun si lanciavano in commenti particolarmente astiosi biasimando lo «sperpero di … tempo nell’ozio e nel piacere», avvertendo che la ricchezza materiale avrebbe portato all’impoverimento della conoscenza e alla «lebbra generale» del corpo e dell’anima. 6 Naturalmente, i benefici della crescita non erano distribuiti in modo uniforme. Gli aumenti degli affitti erano positivi per i proprietari, ma non certo per gli inquilini; l’apertura verso mercati più ampi determinava una notevole compressione dei prezzi, dato che la produzione interna di lana, tessuti e altri beni era esposta a una maggiore concorrenza. 7 La diffusa caduta dei livelli di moralità che si
accompagnò agli sconvolgimenti economici e sociali fu sufficiente a spingere alcuni a prendere misure drastiche. Era giunto il momento di esplorare nuovi pascoli, concludevano i più conservatori, di trovare un luogo dove fosse possibile praticare uno stile di vita più semplice, che mettesse al primo posto la devozione religiosa e la purezza spirituale, un luogo per un nuovo inizio e per un ritorno alle origini. I puritani che si stabilirono nel New England intendevano protestare contro i cambiamenti che avevano accompagnato l’ascesa dell’Europa, e contro il benessere che ne era derivato. Reagivano allo strano flusso di nuove idee e merci che avevano trasformato il mondo in un posto molto diverso, in cui sulle tavole da pranzo delle famiglie compariva la porcellana cinese, in cui il matrimonio con persone di un colore della pelle diverso stava pregiudicando l’identità e la razza, e dove l’atteggiamento nei riguardi del corpo stava spingendo verso quella che uno studioso ha recentemente definito la «prima rivoluzione sessuale». 8 Per chi intendeva fuggire, la risposta stava nella traversata dell’Atlantico. La destinazione prescelta non era nei Caraibi, dove molti si erano stabiliti per avviare piantagioni di canna da zucchero basate sullo sfruttamento del lavoro degli schiavi, ma le terre vergini del New England, dove gli emigranti potevano condurre un’esistenza idealizzata che univa devozione e semplicità. L’unico problema, naturalmente, era la popolazione nativa, che «si diletta a tormentare gli uomini nel modo più sanguinario che ci possa essere; alcuni li scuoiano vivi con delle conchiglie, ad altri tagliano le membra e gli arti un pezzo alla volta, li mettono a cuocere sulle braci e poi li mangiano sotto gli occhi dei poveretti mentre sono ancora in vita, e altre crudeltà troppo orribili per essere raccontate». 9 Ma valeva la pena di correre anche questi rischi; sempre meglio, comunque, del mondo che si erano lasciati alle spalle. È facile dimenticare che la Festa del Ringraziamento, celebrata per la prima volta dai Padri Pellegrini per ricordare il fatto di essere arrivati sani e salvi in una terra di abbondanza, era anche la commemorazione di una campagna contro la globalizzazione: non solo salutava la scoperta di un nuovo Eden, ma rifiutava trionfalmente il paradiso che in patria era stato
distrutto. 10 Per quelli con inclinazioni differenti, che non erano interessati a edificare un bastione di austerità e di conservatorismo religioso, ma volevano scoprire il nuovo, per apprezzare e condividere le attrazioni e le allettanti delizie che il mondo poteva offrire, c’era un’alternativa: andare a est, facendo rotta verso l’Asia. Creare una piattaforma che consentisse all’Inghilterra di stabilire collegamenti con l’Asia in modo strutturato e organizzato fu un processo lento e spesso frustrante. La East India Company (EIC , Compagnia delle Indie Orientali), che nel Seicento ottenne dalla Corona un monopolio sul commercio con tutte le terre a est del Capo di Buona Speranza, riuscì a scalzare con la forza i portoghesi da Bandar Abbas, nel golfo Persico, e da Surat, nel Nordovest dell’India, assicurandosi così dei punti d’appoggio che preludevano a future opportunità. Tuttavia, competere con l’onnipotente Compagnia olandese delle Indie Orientali rappresentava una sfida. 11 I volumi del commercio con l’Inghilterra cominciarono a crescere; ma la supremazia degli olandesi era tale che, alla metà del XVII secolo, il volume di merci che spedivano via mare aveva un valore di circa tre volte superiore a quello inglese. 12 Il rapporto tra inglesi e olandesi era complesso. Per prima cosa, i Paesi Bassi garantivano clienti e credito per le merci inglesi, per cui, malgrado la rivalità commerciale tra le due compagnie, i successi dell’una non escludevano i successi dell’altra. In secondo luogo, gli spagnoli costituivano un nemico comune e fornivano motivi per una cooperazione militare e politica tra due Stati saldamente protestanti. Alcune personalità inglesi furono notevolmente rinfrancate dai grandi successi navali olandesi contro la Spagna nel canale della Manica nel 1639 e, non molto tempo dopo, a Itamaracá, al largo delle coste brasiliane, con il risultato che il pomposo Oliver St John, a capo di una delle molte delegazioni inviate all’Aia per cementare i legami tra i due paesi, giunse addirittura ad avanzare la proposta che questi «stringessero un’alleanza più intima e un’unione più stretta», in altre parole che si fondessero in un unico Stato. 13 L’imprevedibilità delle potenze europee era tale che, a meno di un anno dalla proposta di una confederazione, l’Inghilterra e l’Olanda si
ritrovarono in guerra. Il casus belli fu l’approvazione del Navigation Act poco dopo il ritorno in patria della delegazione guidata da St John: il Parlamento promulgò una legge che imponeva che tutti i carichi diretti in Inghilterra fossero trasportati nei porti inglesi da navi inglesi. Anche se la normativa aveva indubbie motivazioni di ordine commerciale, innanzitutto quella di indirizzare i ricavi verso un’economia devastata dalle lotte intestine, era anche indicativa della presenza di una lobby sempre più aggressiva e apocalittica, fermamente convinta che gli olandesi erano mossi solo dalla sete di profitto, troppo materialisti e privi di una salda convinzione religiosa. 14 La legge era un indizio delle crescenti aspirazioni dell’Inghilterra. Proprio come era accaduto un secolo prima con la retorica sugli spagnoli diventata via via sempre più velenosa, così fu per le critiche verso gli olandesi, specie durante gli aspri scontri navali successivi al loro tentativo di mantenere aperte le rotte di navigazione attraverso la Manica e il mare del Nord verso i loro porti. In Inghilterra, questo provocò nientemeno che una rivoluzione marittima. La marina, che già durante l’epoca dei Tudor aveva potuto contare su lauti finanziamenti statali, ora venne completamente riformata. Nel corso della seconda metà del XVII secolo il governo inglese profuse considerevoli risorse in un vasto programma di costruzioni navali. La spesa per la marina aumentò in modo così netto che ben presto arrivò ad assorbire quasi un quinto dell’intero bilancio nazionale. 15 L’iter fu supervisionato da Samuel Pepys, i cui diari, dall’impronta molto personale, ci restituiscono ben poco del senso dei mutamenti militari e geopolitici in atto, o dell’entità del cambiamento che investì i cantieri da un capo all’altro del paese. 16 Pepys raccolse i manuali più aggiornati degli specialisti olandesi, tra cui quello di Nicolaes Witsen, il principale teorico della cantieristica navale, e si diede ad applicare i princìpi del rigore e della disciplina a ogni cosa: creò scuole per insegnare l’«arte della navigazione» e fece redigere trattati che illustravano le tecniche costruttive più recenti, a beneficio di una nuova generazione di
progettisti ambiziosi e ben finanziati. 17 La rivoluzione marittima si basò su tre osservazioni distinte. La prima era che i vascelli pesanti e specializzati erano più efficaci rispetto alle corvette leggere. Il successo dipendeva dalla capacità di sprigionare una potenza di fuoco concentrata, e di reggere quella nemica. La progettazione navale cambiò di conseguenza, e si concentrò sulla costruzione di imbarcazioni grandi e potenti, veri e propri castelli galleggianti. La seconda osservazione era che l’esperienza poteva fare da maestra. Negli anni Cinquanta-Settanta del XVII secolo gli scontri con le flotte olandesi si risolsero con perdite devastanti, in termini di navi perse o catturate e di alti ufficiali e capitani caduti in battaglia: nel 1666, quasi il 10 per cento degli alti ufficiali della marina cadde in una singola battaglia. Questi esiti drammatici imposero una revisione sistematica delle tattiche navali adottate. I manuali di addestramento, come per esempio Fighting Instructions dell’ammiraglio Blake, uno dei più grandi condottieri navali dell’epoca, furono divulgati e assimilati. Condividere le conoscenze e imparare dal passato fu fondamentale nella trasformazione che rese la marina inglese una delle migliori al mondo: tra il 1660 e il 1815 il numero dei caduti in combattimento fra i capitani inglesi (e poi britannici) diminuì dell’incredibile percentuale del 98 per cento. 18 La terza e non meno importante osservazione riguardò il funzionamento della marina come istituzione. Per diventare tenente di vascello, divenne necessario trascorrere tre anni in mare e superare un esame di fronte a ufficiali di rango superiore. Gli avanzamenti di carriera erano determinati rigorosamente dalle capacità personali e non erano ammessi favoritismi, il che significava non solo che al vertice arrivavano i migliori, ma anche che ciò accadeva con l’approvazione dei loro pari. La trasparenza di questo sistema meritocratico serviva da incentivo, ed era ulteriormente rafforzata dall’abitudine di ricompensare coloro che avevano prestato servizio più a lungo nelle posizioni più importanti. Era un modello organizzativo in larga misura identico a quello adottato agli albori dell’islam, che si era rivelato così efficace durante le conquiste
musulmane. Ora, anche in Inghilterra i bottini venivano divisi in base a quote predefinite, con ufficiali e marinai ricompensati in proporzione al rango e all’anzianità di servizio. Le promozioni divennero quindi molto desiderabili e redditizie, il che favorì ulteriormente l’ascesa dei migliori ai vertici, tanto più che il consiglio dell’Ammiragliato svolgeva con la massima cura la sua attività di vigilanza contro ogni favoritismo e parzialità. In altri termini, erano contratti di lavoro ottimali, pensati per incentivare e premiare le prestazioni, oltre che basati su criteri di equità. 19 I benefici effetti delle riforme non tardarono a manifestarsi. I sostanziosi investimenti nella marina ampliarono notevolmente il raggio d’azione dell’Inghilterra, dandole l’opportunità di intervenire nelle varie contese europee, nei focolai di guerra e in altri eventuali teatri nei Caraibi o altrove. 20 Inoltre, essi si combinarono con il lungo e lento processo di consolidamento della posizione commerciale in Asia, dove i frutti del duro lavoro svolto stavano finalmente maturando. Così come per Surat, la Compagnia delle Indie Orientali fondò un importante centro nel Sudest del subcontinente a Madrasapatnam (l’attuale Madras), dove nella prima metà del XVII secolo fu negoziata con il sovrano locale una concessione che diede vita a una zona franca doganale. Come potrebbero confermare le società moderne, le generose agevolazioni fiscali furono un vantaggio importante, che permise di tagliare fuori i concorrenti nei traffici a lunga distanza e, a tempo debito, anche quelli locali. E, sempre in conformità con le prassi delle società moderne, via via che gli insediamenti diventavano più grandi e più floridi, la Compagnia si trovò nella posizione ideale per rinegoziare condizioni sempre più vantaggiose. Nel giro di settant’anni, Madras si trasformò in una metropoli fiorente. Il modello fu replicato in altri luoghi, in particolare a Bombay e a Calcutta, il gioiello del Bengala, e le sorti della Compagnia delle Indie Orientali volsero costantemente al meglio. 21 Come era avvenuto per la VOC in Olanda, i confini tra il governo inglese e la EIC erano vaghi. Entrambe le società operavano di fatto come vere e proprie appendici dello Stato: avevano il diritto di battere moneta, di stringere alleanze e non solo di mantenere ma anche di
impiegare forze armate. Prestare servizio in una di queste organizzazioni commerciali, che beneficiavano sia della protezione del governo sia di investitori molto potenti, rappresentava una carriera molto allettante. Un richiamo che attrasse uomini da tutta l’Inghilterra, e a dire il vero anche da altre parti del mondo, incluso quel baluardo del conservatorismo che era il New England. Laute erano le ricompense per i più ambiziosi e svegli che riuscivano a salire i gradini nella scala gerarchica della Compagnia. 22 Emblematico fu il caso di un uomo nato nel Massachusetts nel 1649, che si trasferì da bambino con la famiglia in Inghilterra. Entrato al servizio della Compagnia delle Indie Orientali come semplice scrivano, salì tutti gli scalini fino a diventare governatore della stessa Madras. Lì se la cavò molto bene, talmente bene che fu rimosso dall’incarico cinque anni dopo, in una ridda di voci incontrollate su quanto avesse guadagnato personalmente durante il suo mandato. Il fatto che fosse tornato a casa con 5 tonnellate di spezie, grandi quantità di diamanti e innumerevoli oggetti preziosi suggerisce che le accuse fossero fondate. E lo lascia pensare anche il suo epitaffio a Wrexham, nel Galles settentrionale, dove fu sepolto: «Nato in America, allevato in Europa, viaggiò in Africa e in Asia si sposò … Fece molto bene e un po’ di male, perciò speriamo che tutto sia in pari e che la sua anima per grazia di Dio sia andata in cielo». Tornato in Inghilterra, spese a piene mani il denaro guadagnato, ma non dimenticò la sua terra natale: verso la fine della vita donò una somma generosa alla Scuola collegiale del Connecticut, che onorò il suo contributo assumendo il nome di un benefattore che avrebbe potuto fare in futuro ulteriori donazioni: Elihu Yale. 23 Yale si era trovato nel posto giusto al momento giusto. Negli anni Ottanta del XVII secolo la corte dei Qing in Cina revocò le restrizioni al commercio con l’estero, innescando lo sviluppo delle esportazioni di tè, porcellana e zucchero cinese. Come risultato, porti come Madras e Bombay divennero non solo importanti centri commerciali, ma anche tappe cruciali di una nuova, vivace rete commerciale globale. 24 La fine del Seicento segnò l’inizio di una nuova era di contatti tra Europa e Cina, e non solo limitatamente al commercio. Il matematico e
filosofo tedesco Gottfried Leibniz, che sviluppò il sistema binario, affinò le proprie idee grazie ai testi sulle teorie aritmetiche cinesi che gli aveva inviato un amico gesuita, trasferitosi a Pechino verso la fine del Settecento. Coloro che potevano sfruttare i nuovi collegamenti commerciali o intellettuali potevano ricavarne grandi vantaggi. 25 All’epoca in cui fece la donazione, lo stesso Yale si rendeva conto di come l’Oriente, e in particolare l’India, venissero sempre più visti come una scorciatoia per accumulare grandi fortune. «Non devi essere impaziente nei tuoi progressi né smaniare per diventare ricco» scrisse al figlioccio Elihu Nicks. «La mia fortuna mi è costata quasi trent’anni di pazienza.» 26 Facendo parte della prima ondata di inglesi che si erano riempiti le tasche, era a dir poco paradossale che desse consigli così austeri alle nuove generazioni. E, guarda caso, le possibilità di diventare incredibilmente ricchi in Asia stavano aumentando. L’Inghilterra stava per conoscere la sua età dell’oro. Il fatto che un’isola nel Nord dell’Atlantico arrivasse a dominare gli affari internazionali, a essere il cuore di un impero che controllava un quarto del globo ed esercitava un’influenza sempre più ampia, avrebbe stupito storici e costruttori di imperi del passato. La Gran Bretagna era un luogo inospitale, scrisse uno dei più grandi storici della tarda antichità, dove in alcune zone l’aria era così venefica che poteva uccidere, se il vento cambiava direzione. 27 Era abitata dai Britanni, il cui nome, congetturava un autore non molto tempo dopo, veniva dal latino brutus, cioè «irrazionale» o «stupido». 28 Separata dal resto d’Europa dalla Manica, era distante, isolata e periferica. Debolezze destinate a diventare formidabili punti di forza, e a sostenere l’ascesa di uno dei più grandi imperi della storia. C’erano molte ragioni dietro il grande successo della Gran Bretagna. Gli studiosi hanno notato, per esempio, che i livelli di disuguaglianza sociale ed economica erano meno spiccati rispetto a quelli di altri paesi europei, e che tra i ceti meno abbienti il livello di consumo di calorie era sensibilmente più elevato rispetto a quello dei loro pari nel resto del continente. 29 Uno studio recente ha sottolineato il ruolo svolto dai cambiamenti nello stile di vita, e cioè ritmi di lavoro e produttività in netto aumento grazie alle remunerazioni offerte da
un’economia in espansione. La Gran Bretagna dovette molto del suo rapido successo anche al fatto di essere la patria di tanti innovatori. 30 I tassi di fertilità, a quanto pare inferiori rispetto alla maggior parte degli altri paesi europei, ebbero a loro volta una correlazione importante con il reddito pro capite, dato che le risorse e i beni patrimoniali passavano in un minor numero di mani rispetto a quanto accadeva sul continente. 31 Ma la carta vincente fu la posizione geografica. L’Inghilterra, o Gran Bretagna dopo l’unione con la Scozia nel 1707, disponeva di una barriera naturale che la proteggeva dai suoi rivali: il mare, un valido aiuto in caso di minaccia militare, ma soprattutto una vera manna dal cielo per la spesa pubblica. Priva di frontiere terrestri da difendere, la Gran Bretagna spendeva per l’esercito di terra una frazione rispetto ai suoi rivali continentali. È stato stimato che, mentre nel 1550 le forze armate inglesi avevano circa le stesse dimensioni di quelle francesi, nel Settecento la Francia aveva quasi il triplo di uomini arruolati. E poiché le truppe dovevano essere equipaggiate e pagate, in proporzione la spesa militare era di gran lunga maggiore in Francia che in Inghilterra. Ma anche le entrate erano in Francia proporzionalmente inferiori, poiché soldati e marinai, tutti potenziali generatori di redditi tassabili e di imposte indirette attraverso il consumo, per servire il loro paese erano tenuti lontani dai campi, dalle fabbriche e da altri impieghi. 32 Era come se la Gran Bretagna fosse immune dal contagio dei problemi di un’Europa che tra Seicento e Settecento vide guerre apparentemente senza fine, con gli Stati continentali che litigavano e si combattevano tra loro in quasi tutte le combinazioni possibili. I britannici impararono a intervenire giudiziosamente, approfittando delle circostanze quando erano a loro favore, ma restando fuori dalle contese quando la situazione appariva sfavorevole. Ormai era chiaro che ciò che accadeva in Europa poteva determinare il destino di qualcuno dall’altra parte del mondo. Le accese diatribe su chi dovesse ereditare il trono d’Austria potevano portare a scontri e scambi di territori nelle colonie europee in tutto il mondo: negli anni Quaranta del XVIII secolo la disputa sulla legittimità dell’ascesa al trono di
Maria Teresa d’Austria provocò focolai di guerra dalle Americhe fino al subcontinente indiano, conflitti che si protrassero per quasi un decennio. Il risultato, quando le questioni furono finalmente appianate nel 1748, fu che Cap Breton in Canada e Madras in India passarono di mano tra francesi e inglesi. Questo fu solo un esempio di come l’antagonismo tra le potenze europee poteva influenzare ciò che accadeva dall’altra parte del mondo. Alcune città in India furono cedute ai francesi dagli olandesi alla fine del Seicento, come conseguenza della guerra della Lega di Augusta in Europa; vent’anni dopo, certe isole nei Caraibi passarono di mano fra la Gran Bretagna e la Francia, secondo accordi di pace che arrivarono dopo ulteriori violenti scontri nel Vecchio Continente; ed enormi distese del Nord America furono scambiate tra inglesi e francesi, una volta risolte le controversie sul trono spagnolo. Anche i matrimoni potevano provocare il passaggio da un sovrano all’altro di vasti territori, teste di ponte strategiche o grandi città. Bombay, per esempio, venne consegnata all’Inghilterra come parte della dote di Caterina di Braganza quando andò in sposa al re Carlo II, nel 1662: un atto di liberalità che, esattamente come previsto dal governatore portoghese della città, segnò la fine del potere del Portogallo in India. 33 Ciò che accadeva nelle camere nuziali d’Europa, quel che si andava mormorando nei corridoi dei palazzi delle capitali a proposito di potenziali nozze o di presunti affronti a sovrani volubili e con un ego fin troppo suscettibile, tutto questo aveva implicazioni e ramificazioni a migliaia di chilometri di distanza. Da un certo punto di vista, simili intrighi erano di scarso interesse per coloro che vivevano in Oriente, ben poco interessati a sapere se ad avere il sopravvento sarebbero stati gli olandesi, gli inglesi, i francesi o altri ancora. In un modo o nell’altro, le contese europee sembravano comunque produrre benefici sempre più cospicui. Per tutto il XVII secolo ci fu un viavai di delegazioni rivali dirette presso l’imperatore moghul o il sovrano della Cina o del Giappone, con l’obiettivo di guadagnarsene il favore e ottenere nuove concessioni commerciali o riconfermare quelle accordate in precedenza. Questo accresceva
l’importanza degli intermediari, come Muqarrab Khan, un funzionario del porto di Gujarat, che oliava gli ingranaggi con l’imperatore Jahāngīr nei primi anni del XVII secolo: personaggi che naturalmente sapevano trarre benefici personali dalla situazione. 34 Nel caso di Khan, le merci che acquistò nel 1610, compresi «cavalli arabi», schiavi africani e altri beni di lusso, impiegarono più di due mesi solo per transitare dalla dogana. 35 Per dirla con le parole di uno storico, gli inglesi in Asia operavano sulla base del principio che «tutto e tutti avevano un prezzo». 36 Ne scaturivano bizzarre elargizioni di doni, ma anche proteste e riprovazione nei confronti della cupidigia di chi veniva corteggiato. L’imperatore moghul Jahāngīr, per esempio, aveva un debole per gli «elefanti enormi», e forse anche per i dodo, e si diceva che il suo cuore fosse «talmente insaziabile che non si sapeva mai quando ne ha abbastanza; è come una borsa senza fondo, che non può mai essere riempita, perché più ha, più desidera avere». 37 Negli anni Sessanta del XVII secolo gli ambasciatori olandesi portarono a Pechino carrozze, armature, gioielli, tessuti e persino occhiali, nel tentativo di conquistarsi i favori della corte dopo aver perso poco prima le loro posizioni a Taiwan. 38 Il resoconto di un’altra bizzarra missione olandese, questa volta a Lahore nel 1711, mostra gli enormi sforzi profusi in lusinghe volte a conquistare preziosi contatti, e lo stesso vale per le immagini che descrivono l’accoglienza ricevuta a Udaipur, quando la delegazione si diresse a nord. Furono portati in dono oggetti laccati provenienti dal Giappone, elefanti di Ceylon e cavalli persiani, così come spezie provenienti dalle colonie olandesi, insieme a merci di produzione europea: un cannone, telescopi, sestanti e microscopi. Nulla era stato lasciato al caso, anche se in quell’occasione le circostanze furono tali che le richieste dell’ambasciatore di rinnovare le concessioni commerciali rimasero inascoltate. 39 Ci volle molto tempo prima che le implicazioni più vaste delle trasformazioni in atto in Europa facessero sentire i loro effetti anche in Oriente. Da tutti i punti di vista, più commercianti arrivavano e più grandi erano le loro navi, tanto meglio andavano le cose: voleva dire
più doni, più guadagni e volumi di scambio ancora più elevati. Non stupisce quindi che, in occasione del loro compleanno, a imperatori moghul come Akbar, Shāh Jahān e Awrangzīb (che regnò dal 1658 al 1707) piacesse farsi pesare pareggiando la bilancia con gemme, metalli preziosi e altri tesori, un’usanza che certamente non li incentivava a mantenersi in perfetta linea. 40 Poi c’erano le tangenti da pagare agli intermediari che chiedevano soldi per «scortare» i viaggiatori e i commercianti a destinazione, con grande frustrazione di alcuni che ritenevano discutibile sia il principio sia l’importo richiesto. I mercanti inglesi che nel 1654 si videro sequestrare i loro beni a Rajmahal capirono che non c’era altra scelta se non corrompere il governatore e i suoi funzionari, proprio come avevano sempre fatto gli olandesi. 41 Le lamentele sui soprusi talvolta arrivavano all’attenzione degli imperatori moghul, che all’occasione punivano chi aveva ecceduto nel riempirsi le tasche. A quanto pare, un giudice accusato di non essere imparziale venne condotto davanti al sovrano per essere morso da un cobra; in un’altra circostanza, alcuni uscieri vennero frustati dopo che un musico si era lamentato di essere stato costretto, per uscire dal palazzo, a versare parte della ricompensa ricevuta dall’imperatore. 42 Il flusso di denaro che giungeva in India continuò ad alimentare la grande fioritura delle arti, dell’architettura e della cultura che aveva accompagnato i massicci investimenti di capitali sin dagli inizi del XVI secolo. Somme sempre più ingenti affluirono in Asia centrale, in parte per effetto dei tributi pagati dai governanti come Awrangzīb per assicurarsi relazioni pacifiche a nord, ma anche grazie al gran numero di cavalli acquistati da allevatori le cui mandrie pascolavano nelle steppe. Nei mercati dell’India settentrionale venivano venduti almeno 100.000 cavalli l’anno, peraltro a prezzi altissimi, se dobbiamo prestar fede ad alcune fonti. 43 Quantitativi di bestiame ancora maggiori venivano smerciati ai mercanti che arrivavano dall’India, dalla Persia, dalla Cina e, sempre più spesso, anche dalla Russia, portando ulteriore ricchezza nella regione. Città come Kokand (nell’attuale Uzbekistan) vissero un periodo assai prospero, e della qualità di prodotti come rabarbaro, tè, porcellana e seta, disponibili a basso
prezzo e in quantità considerevoli, riferiscono in termini entusiastici alcune testimonianze. 44 Nonostante la crescita del commercio europeo, le reti che attraversavano la spina dorsale dell’Asia erano ancora decisamente vive e vegete. Lo dimostrano i registri della VOC in cui sono annotate le decine di migliaia di cammelli carichi di tessuti che venivano inviati ogni anno dall’India alla Persia, lungo le antiche strade che attraversano l’Asia centrale. Fonti inglesi, francesi, indiane e russe ci informano a loro volta sugli ininterrotti commerci via terra, dandoci un’idea della loro entità nei secoli XVII e XVIII: viaggiatori giunti in Asia centrale parlano concordemente di grandi quantità di merci vendute nei mercati e di un numero spropositato di cavalli allevati e portati in luoghi come Kabul, un «eccellente centro commerciale», dove convergevano carovane da tutta l’Asia per comprare e vendere una vasta gamma di tessuti, tuberi aromatici, zuccheri raffinati e altri beni di lusso. 45 In questi traffici continentali acquisirono sempre più importanza le minoranze che contribuivano a lubrificare la macchina degli scambi grazie alle usanze condivise, ai legami familiari e alla capacità di creare reti di credito operanti su lunghe distanze. In passato avevano svolto questo ruolo i sogdiani. Ora a farsene carico erano gli ebrei, e ancora di più gli armeni. 46 Nel frattempo, sotto la superficie si stavano rinfocolando correnti violente. L’atteggiamento europeo nei confronti dell’Asia si stava irrigidendo: se prima l’Oriente era visto come un paese delle meraviglie, ricco di piante esotiche e di tesori, ora si cominciava a considerarlo un luogo abitato da popolazioni inette e inutili, come quelle del Nuovo Mondo. Le opinioni di Robert Orme erano tipiche del XVIII secolo. Primo storico ufficiale della Compagnia delle Indie Orientali, Orme scrisse un saggio il cui titolo On the effeminacy of the inhabitants of Indostan (Sull’effeminatezza degli abitanti dell’Indostan) è rivelatore di come fosse mutato il pensiero contemporaneo, e dell’aggressivo senso di onnipotenza che stava rapidamente montando. 47 L’atteggiamento nei confronti dell’Asia stava cambiando: dopo l’entusiasmo per i potenziali profitti, si cominciava a pensare a forme di brutale sfruttamento.
Questa prospettiva s’incarnava alla perfezione nella figura del cosiddetto «nababbo», come venivano solitamente chiamati i funzionari della Compagnia delle Indie Orientali che si arricchivano smodatamente in Asia. Questi ricconi si comportavano da teppisti e strozzini, prestando denaro in loco a tassi di interesse esorbitanti, utilizzando le risorse della Compagnia a proprio beneficio e ritagliando da ogni transazione scandalosi profitti personali. Era il Selvaggio Est, un preludio di quanto si sarebbe visto nell’America del Nordovest un secolo più tardi. «Vai in India» disse il padre del memorialista William Hickey al figlio «[e] taglia la testa a una mezza dozzina di ricconi … e così tornerai da nababbo.» Prestare servizio nella EIC in India era un biglietto di sola andata per la prosperità. 48 Il tragitto non era privo di difficoltà o di pericoli, perché le condizioni di vita nel subcontinente indiano non erano facili, e le malattie potevano mettere rapidamente fine a qualunque ambizione. Per quanto ci è dato sapere dalle evidenze disponibili, anche se i livelli di mortalità erano scesi grazie ai miglioramenti in fatto di igiene e pulizia, e ai progressi nel campo della medicina e della sanità, il numero di coloro che venivano rimandati a casa o ritenuti non idonei al servizio aumentava costantemente. 49 Certe esperienze potevano essere traumatiche, come scoprirono il mercante marinaio Thomas Bowrey e i suoi amici quando, trovandosi in India alla fine del Seicento, comprarono per 6 pence una pinta di bangha, un’infusione di cannabis: uno «si sedette sul pavimento e pianse amaramente tutto il pomeriggio». Un altro, «terrorizzato dalla paura … infilò la testa in un grande vaso e rimase in quella posizione per quattro ore e passa». «Quattro o cinque si stesero sui tappeti scambiandosi l’un l’altro complimenti altisonanti», mentre un altro era «in vena di risse, e si mise a fare a pugni con uno dei pilastri di legno del portico fino a quando gli rimase po’ di pelle sulle nocche delle dita». 50 Ci voleva tempo, per abituarsi a vivere in altre zone del mondo. Del resto, i guadagni erano talmente straordinari che per i drammaturghi, la stampa e i politici divenne un luogo comune burlarsi dei nuovi ricchi. Suscitava urla di sdegno la moda che si era affermata negli ultimi tempi di assoldare insegnanti per apprendere
attività proprie dei gentiluomini, come la scherma e il ballo, per non parlare della febbrile agitazione che animava la ricerca del sarto giusto o degli argomenti più appropriati di cui parlare a tavola. 51 L’ipocrisia imperversava. Era grottesco, disse William Pitt il Vecchio ai colleghi parlamentari alla fine del XVIII secolo, che «gli importatori di oro straniero si fossero aperta la strada fino al Parlamento grazie al dilagare della corruzione privata, alla quale nessuna fortuna ereditaria poteva opporsi». 52 Naturalmente, non ritenne necessario rammentare che suo nonno fosse tornato dall’India con una delle più cospicue pietre preziose del mondo, il diamante Pitt, e avesse utilizzato le ricchezze accumulate durante il suo mandato come governatore di Madras per acquistare una vasta tenuta di campagna e il seggio in Parlamento che tale proprietà comportava. 53 In ogni caso, Pitt non fu l’unico a non avere peli sulla lingua. Era terribile, dichiarò non molto tempo dopo un furioso Edmund Burke dinanzi a una commissione d’inchiesta della Camera dei Comuni, che i «nababbi» stessero distruggendo la società, spargendo ovunque le loro ricchezze, diventando parlamentari e sposando le figlie della nobiltà. 54 Ma prendersela per queste cose non serviva a molto: dopotutto, non era il sogno di chiunque, un giovanotto ambizioso e ricco come genero o un uomo facoltoso e prodigo come marito? La chiave che dischiuse la porta a queste grandi fortune stava nella trasformazione della Compagnia delle Indie Orientali da impresa commerciale, che muoveva merci da un continente all’altro, a potenza occupante. Il passaggio al traffico di stupefacenti e alle attività criminali fu solo il passo successivo. L’oppio venne coltivato in volumi crescenti nelle piantagioni indiane per finanziare gli acquisti di seta, porcellane e soprattutto tè in Cina. Le importazioni di tè conobbero un boom: i dati ufficiali registrano un aumento dalle circa 64 tonnellate acquistate nel 1711 alle 6800 di ottant’anni dopo, cifre che non comprendono ulteriori spedizioni di contrabbando per frodare il fisco, che non saranno certamente mancate. Come in un’immagine allo specchio, l’aumento della dipendenza da beni di lusso in Occidente era bilanciato, e ben presto eguagliato, dalla crescente dipendenza da stupefacenti in Cina. 55
Di metodi discutibili per accumulare grandi fortune, ce n’erano a bizzeffe. Nel Settecento, offrire protezione su scala via via più ampia ai sovrani locali dell’India era diventato uno dei più comuni, ma il momento decisivo arrivò nel 1757, quando il nababbo del Bengala attaccò Calcutta e gli inglesi inviarono una spedizione guidata da Robert Clive. I pretendenti rivali del luogo, in lotta per assumere il potere, offrirono subito all’ufficiale inglese una somma enorme per assicurarsene l’appoggio. In brevissimo tempo, questi si ritrovò ad avere il controllo del dīwān, il gettito fiscale della regione, e poté assicurarsi le entrate di una delle aree più popolate ed economicamente vivaci dell’Asia, sede di un’industria tessile che era la fonte di oltre la metà delle merci che la Gran Bretagna importava dall’Oriente. Quasi da un giorno all’altro, Clive divenne uno degli uomini più ricchi del mondo. 56 Un Comitato ristretto della Camera dei Comuni, istituito nel 1773 per indagare sulle conseguenze della conquista del Bengala, rivelò lo sconcertante ammontare delle somme sottratte alle casse bengalesi. Oltre 2 milioni di sterline, pari a decine di miliardi in termini attuali, erano stati distribuiti come «regalie», finite quasi per intero nelle tasche dei funzionari locali della Compagnia. 57 L’indignazione fu aggravata dalla situazione vergognosa e scioccante del Bengala stesso. Intorno al 1770 il prezzo del grano aveva raggiunto livelli sempre più elevati, e con l’arrivo della carestia gli effetti furono catastrofici. Il bilancio delle vittime venne stimato nell’ordine dei milioni; anche il governatore generale dichiarò che i morti erano un terzo della popolazione. Gli europei avevano pensato solo ad arricchirsi, mentre la popolazione moriva letteralmente di fame. 58 La situazione era del tutto evitabile. La sofferenza di tanti era stata barattata con il tornaconto personale. Accolto da grida di scherno, Clive si limitò a rispondere, come l’amministratore delegato di una banca in cattive acque, che la sua priorità era stata quella di proteggere gli interessi degli azionisti, non quelli della popolazione locale; di certo non meritava nessuna critica, per come aveva svolto il proprio lavoro. 59 La realtà si rivelò ancora più dura: la perdita di manodopera nel Bengala abbatté la produttività locale. Con il crollo
dei ricavi, i costi improvvisamente s’impennarono e si scatenò il panico: nel timore che la gallina dalle uova d’oro avesse finito di covare, tutti corsero a liberarsi delle azioni della EIC , spingendo la Compagnia sull’orlo del fallimento. 60 Ben lungi dall’essere oculati amministratori e creatori di ricchezza, i suoi dirigenti dai poteri quasi sovrumani mostrarono il loro vero volto: era evidente che i metodi e la cultura della Compagnia avevano messo in ginocchio il sistema finanziario intercontinentale. Dopo frenetiche consultazioni, il governo di Londra concluse che la EIC era troppo grande per lasciarla fallire, e optò per un salvataggio. Dato che occorrevano fondi per finanziarlo, lo sguardo si volse alle colonie del Nord America, dove le tasse erano notevolmente inferiori a quelle in vigore nella stessa Gran Bretagna. Quando il governo di Lord North approvò il Tea Act, nel 1773, credette di aver trovato una soluzione elegante per pagare il salvataggio della EIC , allineando al tempo stesso – almeno in parte – il regime fiscale delle colonie americane con quello vigente nella madrepatria. Ma il provvedimento provocò la rabbia dei coloni sull’altra sponda dell’Atlantico. In Pennsylvania vennero subito diffusi volantini e opuscoli che descrivevano la Compagnia delle Indie Orientali come un’istituzione «assai versata in Tirannia, Saccheggio, Oppressione e Spargimento di sangue». Era un simbolo di tutto ciò che c’era di ingiusto nella Gran Bretagna stessa, dove i ceti più elevati della società erano in balìa di gruppi d’interesse avidi ed egoisti, che si arricchivano a spese della gente comune. 61 Le navi che trasportavano il tè dovettero invertire la rotta, quando un fronte unito dei coloni rifiutò di inchinarsi dinanzi alle pretese di un governo che non concedeva loro una rappresentanza nella vita politica. Quando tre navi entrarono nel porto di Boston, si creò una difficile situazione di stallo tra i coloni e le autorità. La notte del 16 dicembre un piccolo gruppo di uomini travestiti da «indiani» abbordarono le navi e gettarono il tè nelle acque del porto; preferivano che finisse in fondo al mare piuttosto che essere costretti a pagare le tasse a Londra. 62 Vista da una prospettiva oltreatlantica, la catena di eventi che portò
alla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti si svolse in un contesto molto americano. Tuttavia, da un punto di vista più ampio, le sue cause avevano radici molto più profonde, risalenti alla progressiva estensione dei tentacoli del potere britannico alla ricerca di nuove opportunità e all’influenza esercitata dalla Via della Seta, lungo la quale si era incanalata troppa ricchezza e troppo rapidamente, generando uno squilibrio. Londra stava cercando di bilanciare le esigenze in contrasto ai lati opposti del mondo, e tentava di utilizzare i ricavi del prelievo fiscale esercitato in un luogo per finanziare le spese in un altro, portando alla disillusione, all’insoddisfazione e, infine, alla rivolta. La ricerca del profitto era stata incessante, il che a sua volta aveva prodotto un crescente senso di fiducia in sé stessi, fino all’arroganza. La Compagnia delle Indie Orientali, dichiarò Clive alla vigilia del suo crollo di fronte al Comitato ristretto, era una potenza imperiale a tutti gli effetti, a parte il nome. Governava paesi che erano «ricchi, popolosi, fertili», e «possedeva … una ventina di milioni di sudditi». 63 Come avevano compreso anche gli abitanti delle colonie americane, vi era alla fin fine ben poca differenza tra l’essere sudditi in un territorio controllato dalla Gran Bretagna anziché in un altro. Se potevano morire di fame i bengalesi, perché non poteva accadere lo stesso a coloro che vivevano nelle altre colonie, che non sembravano godere di diritti né più ampi né migliori? Era giunto il momento di andare per la propria strada. La guerra d’indipendenza americana suscitò in Gran Bretagna numerose riflessioni sul trattamento da riservare ai territori dov’erano stati fondati insediamenti commerciali che non solo erano redditizi sul piano economico, ma avevano anche un reale peso politico. La definitiva conquista del Bengala segnò un momento particolare, in quanto spinse la Gran Bretagna a trasformarsi da paese che sosteneva le colonie dei propri emigrati in potenza che governava su altri popoli. Fu necessario un difficile processo di apprendimento per comprendere ciò che questo significava, e capire come bilanciare i desideri del centro dell’impero con i bisogni delle periferie. La Gran Bretagna si ritrovò ad amministrare popoli che avevano leggi e costumi propri, e dovette riflettere su cosa prendere in prestito dalle
nuove comunità e cosa offrire, e come costruire una piattaforma che fosse praticabile e sostenibile. Stava nascendo un impero. La sua genesi segnò la fine di un capitolo. Il passaggio della maggior parte dell’India in mani britanniche tolse ossigeno alle rotte commerciali terrestri, dato che il potere d’acquisto e la capacità di spesa, le attività economiche e l’attenzione erano stati decisamente deviati verso l’Europa. Il declino dell’importanza della cavalleria di fronte a ulteriori avanzamenti nella tecnologia e nelle tattiche belliche, specie quelli inerenti alla potenza di fuoco e all’impiego dell’artiglieria pesante, contribuì a sua volta a comprimere i volumi di merci in transito lungo le vie che avevano solcato l’Asia per millenni. L’Asia centrale, come già il Sud dell’Europa prima di essa, iniziò a uscire di scena. La perdita di tredici colonie nel Nord America fu per la Gran Bretagna un’avvilente battuta d’arresto, e sottolineò quanto fosse importante mettere in sicurezza i possedimenti del paese. In tal senso, fu rivelatrice la nomina di Lord Cornwallis a governatore generale dell’India: Cornwallis aveva avuto un ruolo di primo piano nella disfatta sull’altra sponda dell’Atlantico, fino ad arrendersi a Yorktown davanti a George Washington. Dietro c’era forse il convincimento che le lezioni più dolorose fossero state imparate, e che proprio coloro che le avevano apprese fossero la migliore garanzia per evitare di ripetere altrove gli stessi errori. La Gran Bretagna poteva aver perso gli Stati Uniti, ma non avrebbe mai perso l’India.
XV
LA VIA ALLA CRISI
Il disastro americano fu un enorme shock per la Gran Bretagna, una battuta d’arresto che evidenziò la potenziale vulnerabilità dell’impero. I britannici erano riusciti, sia direttamente sia attraverso la Compagnia delle Indie Orientali, a costruire una posizione dominante che significava prosperità, influenza e potere. Proteggevano con determinazione feroce le tappe intermedie delle rotte, la catena di oasi che permetteva di arrivare fino a Londra, e vigilavano attentamente contro qualsiasi tentativo di scalzarli o di indebolire la loro presa sulle vie di comunicazione dal mar di Giava ai Caraibi, dal Canada all’oceano Indiano. Anche se il XIX secolo è normalmente considerato come l’apice dell’impero, un periodo durante il quale la posizione della Gran Bretagna ha continuato a consolidarsi, c’erano segnali evidenti del contrario, e cioè che la sua presa stava cominciando ad allentarsi, provocando una disperata battaglia di retroguardia che spesso ebbe conseguenze disastrose sul piano strategico, militare e diplomatico. I tentativi concreti di conservare e mantenere il controllo su territori sparsi in tutto il mondo diedero il via a una serie di pericolosi giochi politici basati sul rischio calcolato nei quali sfidare i rivali locali e globali, con una posta in palio sempre più alta. Nel 1914 si arrivò al punto di scommettere il destino stesso dell’impero sul risultato della guerra in Europa: non fu una serie di eventi sfortunati e di incomprensioni croniche nei corridoi del potere di Londra, Berlino, Vienna, Parigi e San Pietroburgo a ridurre gli imperi in ginocchio, ma le tensioni per il controllo dell’Asia che covavano da decenni. Non c’era solo lo spettro della Germania dietro la prima guerra mondiale, c’era anche quello della Russia, e soprattutto l’ombra che essa
proiettava a est. E fu il disperato tentativo della Gran Bretagna di evitare che quest’ombra si ampliasse a risultare determinante nel portare il mondo alla guerra. La minaccia che la Russia rappresentava per la Gran Bretagna era cresciuta come un cancro nel secolo che precedette l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, durante il quale la Russia si era trasformata da regno fatiscente e arcaico, basato su un’economia agraria, in un impero più moderno e ambizioso. Questo fece risuonare sempre più spesso e sempre più forte un campanello d’allarme a Londra, a mano a mano che divenne evidente che la crescita e l’espansione della Russia non solo avevano posto i suoi interessi in competizione con quelli della Gran Bretagna, ma minacciavano anche di sopraffarli. Le prime avvisaglie arrivarono agli inizi dell’Ottocento. Per molti decenni, la Russia aveva ampliato le proprie frontiere per incorporare nuovi territori e nuove popolazioni nelle steppe dell’Asia centrale, che a sud e a est ospitavano un vero e proprio mosaico di gruppi tribali, come i Kirghisi, i Kazaki e gli Oirati. All’inizio, il governo russo usò una mano ragionevolmente morbida. Anche se Marx si mostrò profondamente critico rispetto al processo imperialista volto a creare «nuovi russi», è pur vero che l’obiettivo venne perseguito con grande sensibilità. 1 I capi locali, in molti casi, non solo venivano riccamente ricompensati, ma anche mantenuti al potere; e le posizioni che occupavano nei loro territori erano ratificate e formalmente riconosciute da San Pietroburgo. Inoltre, agevolazioni fiscali, cessioni di terre ed esenzioni dal servizio di leva rendevano la dominazione russa più facile da tollerare. 2 L’espansione territoriale alimentò lo sviluppo economico, che prese ad accelerare nel corso del XIX secolo. Per prima cosa vennero ridotte le ingenti spese militari che in precedenza erano servite a finanziare la difesa dalle incursioni e dagli attacchi provenienti dalle steppe, il che significò liberare fondi da utilizzare altrove e in altri modi. 3 In più, avere accesso alle terre incredibilmente fertili della fascia di steppa che si estendeva dal Nord del mar Nero fino a Oriente permise di trarre grandi profitti.
I russi erano stati costretti in passato a coltivare terreni meno attraenti, con la conseguenza che le rese di grano erano state tra le più basse in Europa e la popolazione si era trovata esposta alla minaccia di carestie. Agli inizi del XVIII secolo un visitatore britannico osservò che i Calmucchi, un raggruppamento di tribù di oirati che si erano insediate nel basso Volga e sulle sponde settentrionali del mar Caspio, erano riusciti a schierare 100.000 uomini bene armati. Ma sotto la continua minaccia di un attacco, l’agricoltura non poteva svilupparsi pienamente. «Poche centinaia di acri» della terra fertile di questa regione, scriveva lo stesso viaggiatore, «sarebbero di grande valore in Inghilterra, ma qui vanno sprecate restando incolte.» 4 Il commercio ne soffriva, così come lo sviluppo delle città, che restavano poco numerose e di modeste dimensioni: solo una minima parte della popolazione era urbanizzata prima del 1800. 5 Ai primi segnali di cambiamento, le ambizioni e gli orizzonti della Russia iniziarono a espandersi. All’inizio del XIX secolo le truppe imperiali attaccarono l’impero ottomano e si assicurarono grandi concessioni, compreso il controllo della Bessarabia, la regione delimitata dai fiumi Dnestr e Prut, insieme ad altri importanti territori limitrofi al mar Caspio. Subito dopo si diressero contro il Caucaso meridionale, infliggendo alla Persia una serie di rovinose sconfitte. L’equilibrio del potere nel Caucaso si stava modificando drasticamente. Per secoli, le regioni, le province e i khanati di questo territorio erano stati indipendenti o tributari persiani. Ridisegnare la mappa geopolitica comportò un grande cambiamento e rappresentò un segno inequivocabile delle crescenti mire della Russia sulla propria frontiera meridionale. I britannici non impiegarono molto tempo per capire il significato di tutto questo, soprattutto quando seppero di una missione francese inviata in Persia con l’obiettivo di compromettere la loro posizione in Oriente. La Rivoluzione francese del 1789 aveva prodotto conseguenze analoghe a quelle della peste nera, con uno stato di sofferenza su larga scala che stava per cedere il passo a una nuova era di risolutezza e rinascita. Alla fine del XVIII secolo Napoleone Bonaparte stava operando non
solo per conquistare l’Egitto, ma anche per cacciare gli inglesi dall’India. Si parlò di un suo messaggio inviato al potente Fateh Ali Tipu, sultano del Mysore, per parlargli delle numerose e invincibili forze francesi che lo avrebbero presto «liberato dal ferro dei ceppi dell’Inghilterra». 6 Di certo, nelle menti degli strateghi francesi del tempo il richiamo dell’India era ben presente. 7 E continuò a esserlo, come risulta chiaro dalla missione di uno dei generali più fidati di Napoleone, il conte di Gardanne, inviato in Persia nel 1807 con l’ordine di stringere un’alleanza con lo scià, ma anche di tracciare mappe dettagliate in vista di una grande campagna militare francese nel subcontinente indiano. 8 La reazione degli inglesi fu immediata. Inviarono un alto funzionario governativo, Sir Gore Ouseley, a contrastare i tentavi francesi di aprire un dialogo con lo scià e posero al suo seguito una delegazione impressionante, allo scopo di «fare colpo sull’insieme dei nativi con la stabilità dei nostri legami». 9 Gli inviati cercarono in tutti i modi di fare presa sullo scià e la sua corte, anche se nei colloqui confidenziali pochi tentarono di nascondere il loro disprezzo per gli usi locali. Suscitavano particolare sdegno le insaziabili richieste di regali sontuosi. Ouseley rimase sgomento nell’apprendere che l’anello che aveva donato al sovrano, con tanto di missiva a firma del re Giorgio III, era stato giudicato troppo piccolo e non abbastanza prezioso. «La meschinità e l’avidità di queste persone» scrisse indignato «sono veramente disgustose.» 10 Un altro funzionario britannico che visitò Teheran nello stesso periodo era dello stesso parere. I persiani, riferì quest’ultimo, erano ossessionati dalle formalità che regolano lo scambio di doni e regali, al punto che si sarebbe potuto scrivere un lungo libro per descrivere «le norme secondo le quali ci si siede o ci si alza in piedi». 11 In pubblico, era tutta un’altra musica. Ouseley, che parlava benissimo il persiano, si assicurò al suo arrivo di essere ricevuto ancora più lontano dalla capitale rispetto all’ambasciatore francese, consapevole che ciò avrebbe dimostrato la maggior considerazione riservata a lui e alla sua missione, e s’incaricò di organizzare un incontro con lo scià prima del rivale, notando con soddisfazione che la
sua sedia era stata posta più vicina al trono rispetto a quanto avveniva abitualmente. 12 Lo sforzo di ottenere benevolenza arrivò fino all’invio di consiglieri militari britannici: due ufficiali dell’artiglieria reale, due sottufficiali e dieci artiglieri, che addestrarono i soldati persiani, dispensarono consigli sulla difesa delle frontiere e addirittura li guidarono in attacchi a sorpresa contro le posizioni russe a Sultanabad, dove la resa della guarnigione, all’inizio del 1812, fu un vero colpo a effetto per la propaganda. Le cose cambiarono quando Napoleone attaccò la Russia, nel giugno dello stesso anno. Con i francesi che puntavano su Mosca, i britannici si resero conto che era vantaggioso prendere le distanze dalla Persia e schierarsi con i russi, «i nostri buoni amici», come Ouseley li definì in un rapporto inviato al ministro degli Esteri, nel quale notava anche le implicazioni più ampie dell’attacco francese alla Russia. Era meglio così, perché, concludeva, c’era «qualcosa di realmente perverso nel carattere persiano, che li rende insensibili e ingrati rispetto a tutti i favori ricevuti». Le amicizie che aveva conquistato a prezzo di così tanto impegno potevano essere sacrificate facilmente e senza grandi rimpianti, dato che i persiani erano «gli egoisti più egocentrici del mondo». 13 La priorità accordata dalla Gran Bretagna alle sue relazioni con la Russia provocò delusione in Persia, perché fu vista come un inatteso voltafaccia da parte di alleati fino ad allora ritenuti affidabili. Un sentimento che si trasformò in un’amara recriminazione dopo che le forze russe, ringalluzzite dall’aver respinto Napoleone nel 1812, sferrarono un attacco a sorpresa dal Caucaso. Il fatto che Ouseley, dopo aver compiuto ogni sforzo per ingraziarsi lo scià, fosse l’estensore dell’umiliante trattato di Gulistan, l’accordo che nel 1813 pose fine alla guerra russo-persiana assegnando ai russi gran parte della costa occidentale del mar Caspio, compresi il Daghestan, la Mingrelia, l’Abkhazia, Derbent e Baku, parve a molti nulla meno che un tradimento. I termini del trattato, decisamente favorevoli alla Russia, suscitarono indignazione tra i persiani, che lo interpretarono come un segno di profonda sfiducia e di egoismo. «Sono estremamente deluso
dal comportamento della Gran Bretagna» scrisse l’ambasciatore persiano a Lord Castlereagh, il ministro degli Esteri britannico. «Facevo affidamento sulla grande amicizia dell’Inghilterra» e sulle «importanti promesse» fatte a proposito del sostegno alla Persia. «Sono realmente deluso» dal modo in cui si sono svolti i fatti, continuava l’ambasciatore, avvertendo che, «restando così le cose, non fanno certo onore all’Inghilterra.» 14 Adesso che era stata invasa da Napoleone, la Russia era diventata un’alleata utile, e il sacrificio dei legami con la Persia era il prezzo che bisognava pagare. La crescente importanza della Russia a livello internazionale non era limitata all’Europa o al Vicino Oriente, perché i suoi tentacoli si estendevano anche oltre. Diversamente dal mondo che vediamo ora, nella prima metà dell’Ottocento la frontiera orientale russa non era affatto in Asia, ma da tutt’altra parte: in Nord America. Le prime colonie, infatti, erano state fondate al di là del mare di Bering, in quella che è ora l’Alaska; altre comunità si erano poi insediate sulla costa occidentale del Canada e oltre, spingendosi a sud fino a Fort Ross, nella contea californiana di Sonoma, agli inizi del XIX secolo. Non erano commercianti di passaggio, ma coloni stanziali che investivano nella costruzione di porti, magazzini e persino di scuole. Lungo la costa nordamericana del Pacifico, giovani di «origine creola» nativi del luogo imparavano la lingua russa e le materie di studio delle scuole russe, e alcuni venivano mandati a studiare a San Pietroburgo, a volte per iscriversi alla prestigiosa Accademia di medicina. 15 Il caso volle che gli inviati dello zar arrivassero nella baia di San Francisco per discutere di rifornimenti con il governatore spagnolo quasi nello stesso momento in cui Sir Gore Ouseley stava sondando le possibilità di un’alleanza con i russi, dopo l’invasione napoleonica del 1812. 16 Il problema fu che, con l’espandersi dei confini della Russia a un ritmo via via più serrato, crebbe anche la fiducia del paese in sé stesso, e gli atteggiamenti nei confronti dei vicini si fecero più ostili. Prese sempre più piede la tendenza a considerare i popoli dell’Europa meridionale e dell’Asia centrale come barbari, quindi bisognosi di
essere civilizzati, e a trattarli come tali. Tale atteggiamento ebbe conseguenze disastrose soprattutto in Cecenia, dove Aleksej Ermolov, generale ostinato e sanguinario, nel decennio 1820-30 agì contro la popolazione locale con una violenza sconcertante. In tal modo, non solo si aprì la strada all’emergere di un leader carismatico come l’imam Shamil, che guidò un efficace movimento di resistenza, ma furono inquinati anche i rapporti tra la regione e la Russia per generazioni. 17 Nel frattempo si affermò lo stereotipo del Caucaso e della steppa come luoghi di violenza e di illegalità, rappresentati in questa luce da componimenti poetici come Il prigioniero del Caucaso di Aleksandr Puškin e Ninna nanna cosacca di Michail Lermontov, nella quale un ceceno assetato di sangue, armato di pugnale, striscia lungo la riva di un fiume con l’intenzione di uccidere un bambino. 18 Mentre la Russia confinava a ovest con «l’Illuminismo più raffinato», proclamò un leader politico radicale in un discorso pubblico a Kiev, a est doveva confrontarsi con una profonda ignoranza. Era dunque doveroso «condividere la nostra visione con i nostri vicini semibarbari». 19 Non tutti, però, ne erano così convinti. Per decenni gli intellettuali russi discussero sulla direzione verso la quale doveva guardare l’impero, se all’Occidente dei salotti e della raffinatezza, oppure all’Oriente, alla Siberia e all’Asia centrale. C’era una vasta gamma di risposte. Per il filosofo Pëtr Čaadaev, i russi non appartenevano «a nessuna delle grandi famiglie dell’umanità; non siamo né Occidente né Oriente». 20 Ma per altri i territori vergini dell’Est offrivano opportunità, una possibilità per la Russia di avere una propria India. 21 Le grandi potenze dell’Europa non vennero più considerate modelli da imitare, ma rivali da sfidare. Il compositore Michail Glinka si volse alla storia antica dei Rus’ e dei Khazari per l’ispirazione della sua opera Ruslan e Ludmilla, mentre Aleksandr Borodin guardò a oriente, scrivendo il poema sinfonico Nelle steppe dell’Asia centrale, che evoca carovane e scambi commerciali nelle steppe, e le Danze polovesiane, ispirate dai ritmi della vita nomade. 22 L’interesse per l’«orientalismo», che fosse evidenziato dal tema, dall’armonia o dalla strumentazione, fu una caratteristica
costante della musica classica russa del XIX secolo. 23 Dostoevskij sostenne con passione la sua visione secondo la quale la Russia non solo doveva guardare all’Oriente, ma addirittura abbracciarlo. Alla fine dell’Ottocento, in un celebre saggio intitolato Geok-Tepe. Che cos’è l’Asia per noi?, affermò che la Russia doveva liberarsi dalle catene dell’imperialismo europeo. In Europa, scrisse, siamo solo «intrusi, usurpatori, ladri», ma l’Asia «potrebbe essere il nostro sbocco per il futuro!». 24 Simili opinioni nascevano dai successi ininterrotti mietuti all’estero. Nel Caucaso, negli anni Venti dell’Ottocento, i russi si aggiudicarono nuove conquiste dopo il disastroso esito di un attacco persiano. Ancora scottato dai termini del trattato di Gulistan, e incoraggiato dall’animosità delle popolazioni locali nei confronti del generale Ermolov, che aveva fatto impiccare donne e bambini nelle pubbliche piazze suscitando la repulsione degli spettatori, nel 1826 lo scià Fatḥ ‘Alī ordinò di assalire le postazioni russe. 25 La risposta fu devastante: dopo la rimozione di Ermolov, le truppe dello zar si riversarono a sud attraverso i passi montuosi del Caucaso, sbaragliarono le forze persiane e imposero, nel 1828, un accordo di gran lunga peggiore rispetto a quello di quindici anni prima: altri territori furono ceduti alla Russia, che reclamò anche un enorme risarcimento in denaro. Tale fu l’umiliazione che l’indebolito scià dovette chiedere formalmente allo zar di sostenere, dopo la sua morte, il legittimo erede al trono persiano, il principe ‘Abbās Mīrzā, nel timore che altrimenti non sarebbe riuscito ad arrivare al potere, né tantomeno a conservarlo. Nel giro di poco tempo scoppiarono violenti scontri a Teheran, dove nel febbraio 1829 la folla inferocita prese d’assalto l’ambasciata russa. L’ambasciatore in carica, il trentaseienne drammaturgo Aleksandr Griboedov, autore della magnifica satira Che disgrazia l’ingegno!, che al tavolo delle trattative con la Persia aveva adottato una linea intransigente, fu assassinato e il suo corpo, ancora in uniforme, trascinato per le strade della capitale. 26 Lo scià agì immediatamente, per scongiurare una sanguinosa invasione. Inviò un nipote fidato a porgere le scuse allo zar, insieme a poeti che lo celebrassero come il «Solimano dei nostri tempi» e, cosa più
importante, gli fece dono di una delle più grosse pietre preziose al mondo. Il «diamante dello scià», che pesava quasi 90 carati, un tempo era appeso al di sopra del trono degli imperatori dell’India, circondato da rubini e smeraldi. Venne inviato a San Pietroburgo, come ultima offerta di pace. Che fu accettata: l’intera questione, dichiarò lo zar Nicola I, doveva essere dimenticata. 27 Nel frattempo, a Londra la tensione salì. All’inizio del XIX secolo gli inglesi avevano inviato in Persia una missione britannica, per contrastare la minaccia rappresentata da Napoleone e dalla sua megalomania. Ora la Gran Bretagna si trovava ad affrontare una sfida lanciata da un rivale diverso e inaspettato: non era più la Francia a costituire una minaccia, ma la Russia, e quel che era peggio era che la sua influenza sembrava espandersi ogni giorno in ogni direzione. Alcuni l’avevano previsto. La politica britannica aveva fatto sì che «la Persia fosse consegnata, legata mani e piedi, alla corte di San Pietroburgo» aveva osservato Sir Harford Jones, che era stato ambasciatore a Teheran. Altri furono ancora più diretti. Per quanto riguardava la politica in Asia, scrisse Lord Ellenborough, figura di spicco nel gabinetto del duca di Wellington negli anni Venti dell’Ottocento, il compito della Gran Bretagna era semplice: «limitare il potere della Russia». 28 Era davvero preoccupante, dunque, che ciò che era accaduto in Persia avesse rafforzato la posizione dello zar, trasformandolo nel protettore dello scià e del suo regime. Quando, tra il 1836 e il 1837, scoppiarono gravi rivolte contro la dominazione russa nelle steppe kazake che interruppero gli scambi con l’Asia centrale e l’India, la Russia incoraggiò il nuovo scià di Persia Muḥammad a marciare su Herat, nell’Afghanistan occidentale, nella speranza di aprire una nuova rotta commerciale alternativa verso est. Alle forze persiane venne fornito anche un appoggio militare e logistico, per aiutarle a raggiungere i loro obiettivi. 29 Gli inglesi furono colti alla sprovvista, e si fecero prendere dal panico. Di fronte a tali eventi Lord Palmerston, allora ministro degli Esteri, si allarmò. «La Russia e la Persia stanno barando in Affghanistan [sic]»
scrisse nella primavera del 1838, pur rimanendo ottimista riguardo alla possibilità che le cose si risolvessero presto in modo soddisfacente. 30 Tuttavia, nel giro di poche settimane, la sua preoccupazione aumentò notevolmente. Il gioiello della Corona dell’impero britannico appariva d’un tratto vulnerabile. Le attività della Russia erano arrivate «un po’ troppo vicino alla nostra porta di casa in India» scrisse a un confidente. Un mese dopo, ammoniva altri che la barriera tra Europa e India era stata rimossa, «aprendo la strada a un’invasione fino alle nostre stesse porte». 31 Il quadro sembrava veramente fosco. L’invio di truppe a occupare l’isola di Kharg, nel golfo Persico, fu sufficiente ad affrontare l’emergenza e distogliere l’attenzione dello scià fino a indurlo a togliere l’assedio da Herat. Ma i passi successivi furono disastrosi. Ansiosi di insediare una leadership affidabile che contribuisse a rafforzare la sicurezza della loro posizione in Asia centrale, i britannici intervennero nella complicata situazione afghana. Dopo aver saputo che il sovrano del paese, Dost Muḥammad, aveva ricevuto una delegazione russa con una proposta di collaborazione, la Gran Bretagna prese la decisione di sostenere il suo rivale, Shāh Shuja, con l’intento di farlo salire al potere. In cambio, Shuja accettò che a Kabul arrivasse un contingente di truppe britanniche e riconobbe la recente annessione di Peshawar da parte dell’alleato degli inglesi, il potente e influente maragià del Punjab. All’inizio, tutto procedette nel migliore dei modi, e Quetta, Kandahar, Ghazni e Kabul, i punti chiave che controllavano le vie di accesso lungo gli assi est-ovest e nord-sud, furono messe sotto controllo senza difficoltà. Ma come era già accaduto in passato, e come sarebbe accaduto di nuovo in futuro, l’intervento dall’esterno agì come un magnete per ricompattare gli interessi diversi e normalmente divisi all’interno dell’Afghanistan. Le differenze tribali, etniche e linguistiche furono messe da parte e il sostegno interno a Dost Muḥammad crebbe a dismisura, a scapito del fantoccio Shāh Shuja, arrivista e impopolare, specialmente dopo l’emanazione di direttive che sembravano favorire gli inglesi a scapito della popolazione locale. Le moschee di tutto il paese cominciarono a rifiutarsi di leggere
l’ḫuṭba, l’acclamazione in onore del sovrano, che conteneva il nome di Shuja. 32 Non ci volle molto prima che Kabul iniziasse a diventare sempre più pericolosa per i britannici e per chiunque fosse sospettato di nutrire simpatie anglofile. Nel novembre 1841 Alexander Burnes, uno scozzese i cui lunghi viaggi nella regione erano ben noti in Gran Bretagna grazie alle sue celebri pubblicazioni e alla sua incessante autopromozione, cadde in un agguato e fu assassinato nella capitale afghana. 33 Poco tempo dopo, gli inglesi decisero una ritirata verso l’India. Nel gennaio 1842, in uno degli episodi più umilianti e tragici della storia militare britannica, la colonna di truppe in ripiegamento sotto il comando del maggior generale Elphinstone fu attaccata sulla via di Jalalabad in corrispondenza delle gole di montagna e annientata nel gelo nevoso dell’inverno. La leggenda vuole che un solo uomo sia arrivato vivo in città, il dottor William Brydon, che si era salvato la vita piazzando al posto giusto la sua copia della rivista «Blackwood»: l’aveva arrotolata e messa all’interno del cappello per tentare di mantenere la testa al caldo, e la carta aveva assorbito gran parte del colpo di sciabola che, altrimenti, lo avrebbe ucciso. 34 I tentativi della Gran Bretagna di impedire l’avanzata russa altrove non ebbero miglior fortuna. Le missioni per stringere accordi con l’emiro di Bukhara e guadagnarsi un ruolo influente nell’Afghanistan settentrionale si risolsero in clamorosi insuccessi. Le descrizioni ingenue e pittoresche della regione fornite da Burnes e da altri avevano fatto erroneamente credere che gli inglesi sarebbero stati accolti a braccia aperte. Niente di più lontano dal vero. I khanati dell’Asia centrale fieramente indipendenti, come Khiva, Bukhara e Kokand, non avevano alcun interesse a farsi coinvolgere in quello che un aspirante mediatore politico britannico definì, con tipica autoreferenzialità, «il grande gioco». 35 Due ufficiali britannici, il colonnello Charles Stoddart e Arthur Conolly, che arrivarono negli anni Quaranta per proporre soluzioni ai problemi delle relazioni anglo-russe in Asia centrale, furono decapitati davanti a una grande folla di spettatori entusiasti. 36 Un terzo personaggio che raggiunse Bukhara fu un individuo
bizzarro di nome Joseph Wolff. Figlio di un rabbino tedesco, Wolff si era convertito al cristianesimo. Espulso da un collegio teologico di Roma, aveva studiato teologia all’Università di Cambridge sotto la direzione di un antisemita dalle idee così provocatorie da attirarsi lanci di uova marce da parte degli studenti per le strade della città. 37 Partito come missionario, si diresse prima a est alla ricerca delle tribù perdute di Israele, e infine a Bukhara per fare luce sul destino degli inviati scomparsi, di cui non si era saputo più nulla. L’emiro doveva avere ben intuito che stava per arrivare un personaggio eccentrico, vedendosi recapitare una lettera che lo precedeva con questo annuncio: «Io, Joseph Wolff, sono il ben noto derviscio dei cristiani». Sappiate, proseguiva il messaggio, che «sono in procinto di entrare a Bukhara» per indagare sulle voci che indicherebbero che Conolly e Stoddart sono stati messi a morte, voci alle quali «io, conoscendo l’ospitalità degli abitanti di Bukhara, non ho mai creduto». Fu fortunato a non subire egli stesso la loro tragica sorte, dopo essere stato imprigionato e invitato a prepararsi a morire. Alla fine fu liberato e lasciato andare, ma c’era mancato veramente poco. 38 Ironia della sorte, Bukhara, e più in generale l’Asia centrale, erano poco interessanti per la Russia dal punto di vista strategico. Le ricerche etnografiche dell’epoca, come lo studio di Aleksej Levšin sui Kazaki, divenuto molto popolare a San Pietroburgo, rivelano una crescente curiosità per questi popoli che non sapevano né leggere né scrivere, ma tra i quali era possibile rintracciare «rudimenti di musica e di poesia», nonostante la loro apparente ignoranza e rozzezza. 39 Come sottolineava l’opera di Burnes, gli obiettivi della Russia nella regione erano decisamente modesti: le due priorità erano incoraggiare gli scambi commerciali e impedire che dei russi fossero venduti come schiavi. Ma non fu questo il messaggio che gli inglesi desunsero dal lavoro di Burnes; ciò che veramente colpì l’attenzione in patria fu l’allarme lanciato scrivendo che «la corte di San Pietroburgo coltiva da tempo disegni ben precisi per questa parte d’Asia». 40 Nello stesso tempo, l’ansia britannica cresceva anche in altre regioni. Il console generale a Baghdad, Henry Rawlinson, faceva costante opera di persuasione, ammonendo chiunque lo stesse a
sentire che era necessario bloccare l’avanzata della Russia; in caso contrario, l’impero britannico avrebbe corso gravi rischi proprio in India. C’erano due possibilità: o annettere la Mesopotamia all’impero, per creare un efficace cuscinetto protettivo contro eventuali attacchi da ovest, oppure inviare in India un poderoso corpo di spedizione per attaccare i russi nel Caucaso. 41 Rawlinson s’incaricò personalmente di fornire un appoggio alle rivolte locali antirusse, ovunque si verificassero: fece arrivare armi e denaro all’imam Shamil, che alla metà del XIX secolo aveva fatto della Cecenia una costante spina nel fianco dell’impero zarista. 42 Il sostegno fornito da Rawlinson contribuì a inaugurare una lunga tradizione di terrorismo ceceno contro la Russia. Inevitabile, quindi, che alla prima occasione la Gran Bretagna cogliesse l’opportunità di ridimensionare la potenza zarista. In seguito alla rapida e deliberata escalation di scontri a proposito del trattamento riservato ai cristiani nell’impero ottomano, nel 1854 un folto contingente britannico venne inviato nel mar Nero; ad affiancarlo c’erano i francesi, ansiosi di proteggere i loro estesi interessi commerciali a Costantinopoli, Aleppo e Damasco. L’obiettivo era semplice: occorreva impartire una lezione alla Russia. 43 Come disse Lord Palmerston mentre le ostilità erano in corso, «l’obiettivo principale e reale della guerra era quello di frenare l’aggressiva ambizione della Russia». L’oscura guerra che si stava combattendo in Crimea, nel mare d’Azov e con estemporanei episodi altrove, per esempio nel Caucaso e lungo il Danubio, aveva in palio una posta ben più significativa di quanto sembrasse a prima vista. Il carismatico e rispettato ministro degli Esteri britannico si spinse fino a presentare ai suoi colleghi di governo un piano formale per lo smembramento della Russia: per contenere l’impero zarista, e quindi proteggere gli interessi britannici in India, occorreva affidare il controllo della Crimea e dell’intera regione del Caucaso agli ottomani. 44 Il suo stravagante progetto non decollò, ma fornisce una chiara indicazione dell’importanza che l’espansione russa aveva assunto agli occhi dei vertici britannici.
Alcuni rimasero sconcertati dall’invasione anglo-francese. Scrivendo furiosamente e copiosamente sulla guerra a mano a mano che proseguiva, Karl Marx trovò materiale fecondo con cui sviluppare le idee sull’impatto rovinoso dell’imperialismo che aveva esposto per la prima volta alcuni anni prima nel Manifesto del Partito comunista. Marx documentò in dettaglio l’aumento delle spese militari e navali, e nei suoi numerosi articoli sulla «New York Tribune» criticò duramente l’ipocrisia di coloro che avevano trascinato l’Occidente in guerra. Non riuscì a contenere la sua gioia quando Lord Aberdeen fu costretto a dimettersi da primo ministro, a fronte di un diffuso disinganno causato dalle pesanti perdite subite in Russia. Mentre i prezzi a Londra aumentavano, scatenando proteste interne, a Marx pareva evidente che le politiche imperialiste britanniche fossero state dettate da una piccola élite e avessero danneggiato le masse. Il comunismo non nacque dalla guerra di Crimea, ma la sua teoria ne fu certamente rafforzata. 45 Lo stesso accadde al movimento per l’unità d’Italia. Dopo qualche colpo assestato ai russi – a prezzo delle vite di molti soldati francesi e britannici, inclusi quelli che avevano preso parte alla tristemente famosa carica della Brigata Leggera a Balaklava – i termini degli accordi di pace furono discussi a Parigi. Uno dei partecipanti al tavolo negoziale fu il conte Camillo Benso di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, che doveva la sua presenza alla decisione del re Vittorio Emanuele II di inviare un contingente di truppe sul mar Nero, a sostegno della Francia. Cavour sfruttò con astuzia il suo momento di visibilità per chiedere un’Italia sola, unita e indipendente, una rivendicazione che fu vista con simpatia dagli alleati e che contribuì a galvanizzare i sostenitori in patria. 46 Cinque anni più tardi, il re di Sardegna divenne re d’Italia, una nuova nazione formata da città e regioni diverse. L’imponente Altare della Patria che sorge nel centro di Roma e che fu costruito trent’anni dopo affinché, secondo le parole del giornalista e critico d’arte Primo Levi, morto nel 1917, Roma si sentisse italiana e l’Italia si sentisse romana, segnò il culmine degli sviluppi innescati da una lotta per conquistare territori e potere a migliaia di chilometri più a est. 47
Per la Russia, i termini imposti ai colloqui di pace di Parigi nel 1856 furono semplicemente disastrosi. La Gran Bretagna e la Francia collaborarono a stringere un cappio intorno al collo della loro rivale: spogliato delle conquiste ottenute a caro prezzo nel Caucaso, il paese subì l’ignominia del vedere privare alle sue navi da guerra l’accesso al mar Nero, dichiarato neutrale e interdetto a tutte le flotte militari. Anche le coste dovevano essere smilitarizzate, libere da fortificazioni e depositi di armamenti. 48 L’obiettivo era umiliare la Russia e soffocarne le ambizioni. Si ottenne l’effetto opposto: come sarebbe accaduto con il trattato di Versailles, gli accordi raggiunti furono controproducenti ed ebbero pericolose conseguenze. Il trattato non solo era talmente punitivo e restrittivo che i russi tentarono fin da subito di aggirarne i vincoli, ma, cosa ancor più importante, servì anche da stimolo per un periodo di cambiamento e di riforme. La guerra di Crimea aveva evidenziato come l’esercito dello zar non fosse all’altezza delle truppe alleate, più esperte e meglio addestrate. Sicché, a fronte dei rapporti impietosi che mettevano in luce nel dettaglio le carenze dell’esercito russo, lo zar Alessandro II procedette a una riforma radicale delle forze armate russe. 49 Gli interventi furono drastici: la durata del servizio militare fu ridotta da venticinque a quindici anni, abbassando di colpo l’età media dei soldati, e vennero ordinati grossi quantitativi di equipaggiamenti moderni, per sostituire il materiale più antiquato e inefficiente. 50 Ma il cambiamento più sorprendente fu frutto di una riforma sociale di vasta portata. Senza nulla togliere all’impatto della grave crisi bancaria esplosa sul finire della prima metà del secolo, furono la sconfitta in Crimea e il disonore dei successivi accordi di pace a spingere lo zar ad abolire la servitù della gleba, che vincolava una parte significativa della popolazione alla terra e ai suoi ricchi proprietari. Nel giro di cinque anni, la servitù della gleba fu spazzata via, ponendo fine a secoli di schiavitù in Russia. 51 Non fu una mossa prematura, secondo alcuni contemporanei. 52 Fu il primo segnale di uno slancio in direzione della modernizzazione e del liberalismo economico, che nella seconda metà dell’Ottocento si tradusse in un
tasso di crescita semplicemente fenomenale: la produzione di ferro aumentò di cinque volte tra il 1870 e il 1890, mentre l’impressionante espansione della rete ferroviaria servì, come ha scritto uno studioso moderno, a «emancipare la Russia dalle limitazioni imposte dalla sua geografia»: in altre parole, a collegare le diverse parti di un paese immenso. 53 Ben lungi dall’imprigionare il genio della Russia nella bottiglia, gli inglesi contribuirono a liberarlo. Il rafforzarsi delle aspirazioni russe si poté avvertire prima ancora che si asciugasse l’inchiostro delle firme del trattato di Parigi. Uno dei delegati dello zar ai colloqui di pace, un attaché militare di nome Nikolaj Ignat’ev, s’infuriò a tal punto per il trattamento imposto al suo paese, e in particolare per le restrizioni al controllo sul litorale del mar Nero, che strinse accordi con il principe Gorčakov, ex compagno di scuola e confidente di Aleksandr Puškin, per guidare una missione in Asia centrale. L’obiettivo era inequivocabile: «L’esplorazione [di questa regione] e la promozione di legami amichevoli aumenteranno l’influenza della Russia e ridurranno quella della Gran Bretagna». 54 Ignat’ev fece attivamente pressioni per far inviare spedizioni in Persia e in Afghanistan, e ambasciatori presso i khanati di Khiva e Bukhara. Lo scopo, affermò senza mezzi termini, era trovare una rotta verso l’India lungo uno dei due grandi fiumi che scorrono verso il lago d’Aral, il Syr Darya e l’Amu Darya. L’ideale per la Russia, secondo lui, sarebbe stato riuscire a stringere un’alleanza con i popoli confinanti con l’India, e poi aizzare la loro ostilità verso la Gran Bretagna: era quello il modo per mettere il paese in una posizione di vantaggio, e non solo in Asia. 55 Le missioni guidate da Ignat’ev e da altri si rivelarono fruttuose. Nei quindici anni che seguirono la fine della guerra di Crimea, la Russia ottenne il controllo di centinaia di migliaia di chilometri quadrati senza bisogno di ricorrere alla forza. Spedizioni ben condotte, accompagnate da una sagace pressione diplomatica esercitata sulla Cina, permisero di compiere «enormi passi avanti» in Estremo Oriente «nel breve volgere di dieci anni», scriveva nel 1861 un osservatore esperto in un rapporto per il Foreign Office di Londra. 56
Di lì a non molto, altre parti delle steppe meridionali finirono nell’orbita russa, insieme alle città-oasi che si affacciavano sul cuore dell’Asia. Poco prima del 1870, Taškent, Samarcanda e Bukhara, insieme a gran parte della fertile valle di Fergana, diventarono «protettorati» o vassalli di San Pietroburgo, un preludio alla piena annessione e all’inserimento nell’impero. La Russia stava costruendo una propria grande rete commerciale e di comunicazione, che ora collegava Vladivostok, a est, alla frontiera con la Prussia a ovest, e i porti del mar Bianco, a nord, con il Caucaso e l’Asia centrale a sud. La vicenda non ebbe risvolti unicamente positivi. Dopo la débâcle della guerra di Crimea era stato intrapreso un programma di ammodernamento più che necessario, ma i problemi della Russia si accentuarono di pari passo con la sua crescita. Trovare i fondi per contribuire a finanziare la trasformazione dell’impero era un problema costante, che portò all’imbarazzante decisione di cedere l’Alaska, per motivi geopolitici e finanziari. 57 Tuttavia, mentre cresceva la preoccupazione per le possibili conseguenze che la trasformazione della Russia poteva comportare per l’impero britannico, a Londra si decise di trovare dei modi per arginare la marea o, in alternativa, per deviare altrove l’attenzione di San Pietroburgo.
XVI
LA VIA ALLA GUERRA
Alla fine dell’Ottocento la fiducia russa, che sconfinava nell’aggressività, si stava rapidamente rafforzando. Non passò molto tempo prima che i russi puntassero all’abolizione delle clausole del trattato di Parigi relative al mar Nero. Una dopo l’altra, le cancellerie di tutta Europa vennero indotte con discrezione a sostenere la revisione generale del trattato, e in particolare la cancellazione delle clausole in questione. La maggior parte dei paesi non sollevò forti obiezioni, a eccezione di Londra. Nell’inverno del 1870 la stampa di San Pietroburgo riuscì a mettere le mani su una copia della circolare che riassumeva l’istanza di cancellazione delle clausole presentata al governo britannico e ad appurare la notizia che la proposta era stata seccamente respinta. L’impegno del principe Gorčakov nel forzare la decisione fu ben accolto in Russia, ma suscitò strepiti furibondi nella stampa britannica. 1 La posizione assunta dallo «Spectator» rifletteva il sentimento di indignazione suscitato dall’inaspettata mossa dei russi. Il tentativo di rinegoziare le clausole era diabolico, proclamava il giornale, che aggiungeva: «Una sfida alle leggi europee, alla moralità internazionale e alla politica britannica più aperta e audace di quella del documento russo non si era mai vista al mondo». 2 La proposta di depennare le clausole convinse alcuni che la guerra era imminente, e che la Gran Bretagna non aveva altra scelta che usare la forza per far sì che le restrizioni fossero mantenute. Una reazione mostruosa, scrisse John Stuart Mill in una lettera al «Times»; i tentativi russi potevano essere provocatori, ma non dovevano condurre a un conflitto armato. Opinione condivisa anche dalla regina Vittoria, che inviò al suo ministro degli Esteri, Lord Granville, il seguente telegramma:
«Sarebbe possibile suggerire ai giornali più influenti di astenersi dall’eccitare le voglie di guerra?». 3 A innescare livelli di tensione così elevati non erano tanto le preoccupazioni relative al mar Nero quanto una più generale inquietudine per una Russia che metteva in mostra muscoli sempre più forti. Con l’opzione militare di fatto impossibile e senza nessuna carta vincente in mano, i britannici non avevano altra scelta che cedere, il che suscitò una serie di aspri botta e risposta alla Camera dei Comuni fra il primo ministro William Gladstone e il carismatico Benjamin Disraeli. La Russia ottenne ciò che voleva, vale a dire la libertà di disporre a suo piacimento del litorale e di stazionare navi da guerra nei porti della Crimea e altrove, sulla costa settentrionale del mar Nero. Il risultato fu accolto con entusiasmo a San Pietroburgo, secondo un testimone britannico dell’epoca, e presentato come un «trionfo» per l’impero russo. Lo zar Alessandro II, che «si diceva fosse personalmente euforico», ordinò di cantare il Te Deum nella cappella del Palazzo d’Inverno, poi si recò a pregare nella cattedrale di San Pietro e Paolo «per qualche tempo, dando segni di grande emozione». 4 La Gran Bretagna non aveva avuto la forza per tradurre la propria potenza economica in un successo diplomatico e politico. Presto si ricorse a nuovi approcci. Fra i temi messi in campo vi fu anche quello del titolo regale da assegnare al sovrano britannico. Viste le dimensioni e la distribuzione geografica dei domini, delle regioni e dei popoli soggetti alla sua autorità, fu avanzata la proposta di mutare il titolo monarchico in quello imperiale. Un cambiamento di pura facciata che suscitò un aspro dibattito in entrambi i rami del Parlamento, dove i tradizionalisti inorridivano all’idea di modificare cariche, titoli e nomi che erano in vigore da secoli. I re avevano l’autorità suprema su qualunque altro sovrano minore, disse Lord Granville alla Camera dei Lord; non c’era quindi ragione né giustificazione per cambiare il titolo di chi sedeva sul trono. «Signori,» dichiarò «rispetto al rango di Sua Maestà stessa, nessun termine può colpire l’immaginazione con la stessa forza di quello di Vittoria, regina di Gran Bretagna e d’Irlanda.» Era così che la sovrana doveva
essere chiamata. 5 Il problema era la Russia, e lo zar. Al di là del suo richiamo ai fasti della Roma imperiale (la parola «zar» è l’esito della contrazione del latino Caesar), il titolo del sovrano russo nel pieno della sua gloria, quello usato nella corrispondenza ufficiale e nelle occasioni formali, faceva riferimento a una lunga e accurata lista di territori sui quali regnava. Diventato primo ministro, verso il 1875 Disraeli cercò di convincere il Parlamento che un titolo più altisonante avrebbe contribuito a infondere più fiducia nelle popolazioni indiane, già preoccupate dall’avanzata russa nell’Asia centrale. La regina Vittoria si disse d’accordo, scrivendo a Disraeli che «attaccare la Russia dall’India è la via giusta», e che un titolo nuovo e più ampio poteva incentivare la lealtà dei suoi sudditi indiani. 6 Alcuni membri del Parlamento non erano convinti della necessità di competere su questo piano. Di certo noi britannici «che governiamo l’India da cent’anni», dichiarò un parlamentare, non ci sentiamo così insicuri da aver bisogno di modificare il titolo della regina solamente «per far sì che la nostra sovrana sia posta su un piano di eguaglianza con l’imperatore della Russia». 7 Altri, invece, si concentravano sul drammatico cambiamento della situazione a oriente, proclamando spavaldi che «il dominio britannico dell’Indostan è inteso per durare» e pertanto che «non vi è parte di quel territorio che sia cedibile». Che le frontiere della Russia fossero ormai solo a pochi giorni di marcia dai possedimenti di Sua Maestà in India era motivo di allarme. 8 Dopo un acceso dibattito, nel 1876 il Parlamento approvò il disegno di legge che sanciva che Vittoria non era solo regina, com’era stata incoronata quarant’anni prima, ma anche imperatrice. La sovrana apprezzò: a Natale inviò a Disraeli una cartolina di auguri firmata Victoria, Regina et Imperatrix, cioè «regina e imperatrice». 9 A iniziative apparentemente superficiali come questa si affiancarono misure più concrete, il tutto in un clima sempre più teso, dato che gli inglesi vivevano ormai nella costante preoccupazione di perdere terreno rispetto ai loro rivali. La Gran Bretagna e la Russia divennero preda delle medesime ossessioni: creare reti informative per spiarsi a vicenda, conquistare il favore delle popolazioni locali e
coltivare personaggi influenti. Il colonnello Maclean, ufficiale della Punjab Cavalry e dell’Indian Political Service, era uno degli uomini incaricati di monitorare ciò che accadeva nei territori di confine tra Persia, India e Afghanistan negli anni Ottanta del XIX secolo. Organizzò gruppi di mercanti e di addetti agli uffici del telegrafo in ogni regione, sollecitandoli a passargli informazioni su tutto quello che succedeva nella loro zona. Maclean puntò sui religiosi musulmani, che riempiva di doni (scialli, tappeti, sigari e persino anelli di diamanti) affinché la popolazione locale rimanesse impressionata dai benefici ricavati dalla collaborazione con Londra. L’ufficiale giustificava le bustarelle come un modo per convogliare gli appoggi su amici influenti, ma in realtà servirono a rafforzare le autorità religiose in una regione turbolenta, al centro di un’accesa competizione fra potenze esterne. 10 Fra i britannici c’era un’autentica preoccupazione per quelle che erano le reali intenzioni e le capacità della Russia, e per la minaccia che la sua espansione nell’Asia centrale rappresentava per la difesa dell’India. A Londra, il dibattito si spostò sul confronto militare con San Pietroburgo, e Disraeli avvertì l’«imperatrice dell’India» di prepararsi ad autorizzare l’invio di truppe nel golfo Persico e a ordinare ai suoi eserciti di «ripulire l’Asia centrale dai moscoviti e ricacciarli nel Caspio». 11 Tale era la tensione fra le autorità che il viceré, Lord Lytton, mandò le truppe a invadere l’Afghanistan non una ma ben due volte tra il 1878 e il 1880, per insediare un sovrano fantoccio sul trono di Kabul. Gli inglesi fecero una corte serrata alla Persia per indurla a firmare l’accordo di Herat, nel quale il paese s’impegnava a difendere l’Asia centrale dall’avanzata russa. Non fu un compito semplice, sia per gli specifici interessi che aveva nella regione sia per le ferite ancora aperte provocate dal recente, inutile intervento britannico, che aveva avvantaggiato l’Afghanistan a sue spese. 12 Nel frattempo si lavorò per stabilire contatti anche oltre Kandahar, per predisporre un miglior sistema di preallarme a fronte di qualunque eventuale azione da parte russa, militare o di altro genere. 13 Gli alti ufficiali profusero notevoli energie nel valutare come gestire
una possibile invasione russa dell’India. Verso il 1880 furono stilati vari rapporti che guardavano alla questione da una prospettiva strategica più ampia: si concordò sul fatto che dissensi e tensioni con la Russia in altri teatri potevano avere, e probabilmente avrebbero avuto, un impatto a oriente. A seguito dell’invasione russa del 1877 nei Balcani, un memorandum prendeva in esame «le misure da adottare in India nell’eventualità in cui l’Inghilterra affiancasse la Turchia nella Guerra contro la Russia». Un altro, redatto nel 1883, chiedeva: «È Possibile un’invasione dell’India da parte della Russia?», e un altro ancora, poco tempo dopo: «Quali sono i Punti Vulnerabili della Russia e Come i Recenti Eventi hanno Influito sulla nostra Politica delle Frontiere in India?». Un segno di quanto tali dispacci fossero presi seriamente fu la nomina del loro autore, l’oltranzista generale Sir Frederick Roberts, poi Lord, a comandante in capo dell’esercito britannico in India, nel 1885. 14
Questa cupa visione della situazione asiatica non era però unanime, e non lo fu neppure dopo che i britannici, nel 1886, entrarono in possesso dei piani per un’invasione elaborati dal generale russo Aleksej Kuropatkin. 15 Henry Brackenbury, direttore dell’intelligence militare, riteneva che la minaccia russa non costituisse un reale pericolo: si stava esagerando, sia rispetto alla volontà della Russia di attaccare, sia rispetto all’effettiva capacità del suo esercito di farlo. 16 George Curzon, all’epoca giovane e promettente parlamentare e borsista dell’All Souls College, che nel giro di un decennio sarebbe diventato viceré dell’India, fu ancora più reciso: non vedeva nessun grande piano o strategia generale, dietro gli interessi russi a est. Lungi dall’essere «coerente, implacabile o profonda», scriveva nel 1889, «io ritengo che si tratti di una linea politica improvvisata, basata sull’attesa degli eventi, sul trarre vantaggio dalle cantonate altrui e sul prenderne altrettanto spesso a sua volta». 17 Indubbiamente c’erano tanta spavalderia e tanti pii desideri nell’atteggiamento dei russi verso l’Asia centrale e, più in particolare, verso l’India. Nella cerchia dei comandi militari non mancavano teste calde che discettavano di grandiosi progetti per rimpiazzare la Gran Bretagna come potenza dominante nel subcontinente, e furono anche intraprese iniziative che sembravano suggerire un interesse tutt’altro che attendista: per esempio, quella di impartire lezioni di hindi agli ufficiali, in previsione appunto di un imminente intervento in India. C’era anche chi fomentava un possibile intervento russo, come il maragià del Punjab, Duleep Singh, che scrisse allo zar Alessandro III promettendo di «liberare circa 250.000.000 dei miei compatrioti dal crudele giogo del dominio britannico» e sostenendo di parlare a nome della «maggior parte dei potenti principi indiani»: sembrava proprio un aperto invito alla Russia a espandere ancora di più le proprie frontiere a sud. 18 In pratica, però, le cose non erano affatto così semplici. Da un lato, la Russia stava già lottando per risolvere lo spinoso problema di come incorporare le nuove ed estese regioni da poco entrate nell’orbita imperiale. I funzionari inviati nel Turkestan dovevano destreggiarsi
con registri catastali complessi e spesso contraddittori, e i loro tentativi di ottimizzare le varie leggi e tassazioni locali si scontrarono con un’inevitabile opposizione. 19 Poi c’era la dura realtà creata dall’opinione pubblica, che diede luogo a quella che il Consiglio dei ministri a San Pietroburgo definì «l’atmosfera di fanatismo ai nostri confini orientali», frutto dell’influsso dell’islam su quasi ogni aspetto della vita quotidiana dei «nuovi russi» divenuti sudditi dell’impero zarista. 20 Così grande era il timore di insurrezioni e rivolte nei territori appena annessi che non fu introdotto il servizio di leva obbligatorio, e il prelievo fiscale fu tenuto deliberatamente basso. I contadini russi, come rilevò in tono pungente un intellettuale di primo piano, non apprezzarono un trattamento così generoso. 21 Un’ulteriore fonte di complicazioni erano le opinioni sulle popolazioni indigene. Alcuni commentatori russi richiamarono l’attenzione sui profondi pregiudizi dei britannici, osservando che i soldati inglesi trattavano i mercanti dei bazar di Taškent «come qualcosa di più simile agli animali che agli uomini»; pare che una volta la moglie di un capitano inglese avesse rifiutato di lasciarsi accompagnare a una cena dal maragià del Kashmir, sostenendo che si trattava di uno «sporco indù». Molto bravi a criticare, non per questo i russi si comportavano in modo più encomiabile: gli ufficiali dello zar biasimavano tra loro il modo in cui i britannici trattavano le popolazioni locali, ma è difficile dimostrare che il loro atteggiamento fosse diverso. «Tutti gli indù senza eccezione» scrisse un russo nel XIX secolo durante un viaggio in India «sono dediti con tutte le loro capacità e fin nel profondo dell’anima a praticare la più bieca usura. Guai allo sventurato che si lasci sedurre dalle loro ingannevoli promesse!» 22 Eppure, i nuovi mondi con cui la Russia stava venendo in contatto suscitavano una certa eccitazione, come spiegava nel suo diario Pëtr Valuev, ministro dell’Interno, nel 1865: «Taškent è stata presa dal generale Černjaev. Nessuno sa perché o a quale scopo … [ma] c’è qualcosa di erotico in tutto ciò che stiamo facendo alle lontane frontiere del nostro impero». L’estensione dei confini era meravigliosa, scriveva il ministro. Dapprima la Russia raggiunse il
fiume Amur, poi si spinse fino all’Ussuri. E infine a Taškent. 23 A dispetto dei problemi iniziali, l’influenza della Russia sull’Oriente e il suo coinvolgimento in quelle regioni continuarono ad aumentare a una velocità sempre crescente, a mano a mano che il paese consolidava le proprie Vie della Seta. La costruzione della ferrovia Transiberiana e il collegamento con la ferrovia orientale cinese portarono a un immediato boom degli scambi commerciali, i cui volumi quasi triplicarono tra il 1895 e il 1914. 24 Lo sviluppo fu supportato da nuovi organismi, come la Banca russo-cinese, creata allo scopo di finanziare la crescita economica nell’Estremo Oriente. 25 Come dichiarò nel 1908 il primo ministro Pëtr Stolypin alla Duma, il Parlamento russo, la parte orientale del paese abbondava di prospettive e di risorse. «I nostri lontani e inospitali territori di frontiera sono ricchi d’oro, legname, pellicce e offrono immensi spazi idonei all’agricoltura.» Per quanto ancora assai poco popolati, sottolineò Stolypin, questi spazi non sarebbero rimasti vuoti a lungo. La Russia doveva perciò cogliere le opportunità adesso, nel momento stesso in cui si presentavano. 26 Tutto ciò era ben poco rassicurante, dal punto di vista della Gran Bretagna, tenuto conto di quanto gelosamente aveva custodito la propria posizione in Estremo Oriente. Entrare sul mercato cinese, per esempio, si era rivelato particolarmente difficile. La prima missione inviata nel 1793 alla corte di Qianlong per chiedere l’autorizzazione a insediare una comunità commerciale era stata accolta con condiscendenza. La Cina aveva collegamenti con «qualunque paese sotto il Cielo», pertanto la richiesta britannica non giungeva certo inaspettata, come osservava una lettera dell’imperatore recapitata dagli inviati al re Giorgio III. «Come il vostro Ambasciatore può vedere da sé,» proseguiva sprezzante l’autore della missiva «noi abbiamo ogni cosa. Non attribuisco alcun valore a oggetti strani e ingegnosi, e non so che farmene dei manufatti del vostro paese.» 27 Fu nient’altro che una fanfaronata, perché a tempo debito furono raggiunti degli accordi, ma l’aggressività della risposta era frutto dell’acuta consapevolezza che i tentacoli britannici si stavano estendendo sempre di più, per cui la miglior difesa era l’attacco. 28
L’iniziale diffidenza dei cinesi, in realtà, era tutt’altro che priva di fondamento: una volta ottenuti i privilegi commerciali richiesti, la Gran Bretagna non ebbe alcuna difficoltà a ricorrere all’uso della forza per tutelarli ed estenderli. Al cuore dell’espansione commerciale risiedeva la vendita dell’oppio, e questo nonostante le dure proteste dei cinesi, la cui collera per i devastanti effetti della dipendenza dagli stupefacenti fu accolta dalle autorità britanniche con assoluta indifferenza. 29 Il commercio dell’oppio si era sviluppato soprattutto dopo il trattato di Nanchino del 1842, che aveva aperto l’accesso a porti in precedenza preclusi, oltre ad attribuire agli inglesi Hong Kong; ulteriori concessioni furono ottenute dopo che le truppe britanniche e francesi marciarono su Pechino, nel 1860, saccheggiando e dando alle fiamme l’Antico Palazzo d’Estate. 30 Alcuni videro in questo episodio un momento chiave, che segnava un nuovo e ulteriore capitolo nel trionfo dell’Occidente. «Il destino ha voluto che fosse l’Inghilterra» esultava un giornale britannico «a lacerare il velo di un governo che tanto a lungo ha ingannato il mondo europeo, e a far scoprire ai sudditi di quel governo i suoi inganni e la sua malvagità.» Un altro cronista non fu meno tagliente. La «misteriosa ed esclusiva barbarie» dell’impero cinese, scriveva, era stata smantellata dalla «forza attiva e penetrante della Civiltà Occidentale». 31 Nel quadro di un contenimento della costante espansione russa in Estremo Oriente, nel 1885 la Gran Bretagna decise di occupare le isole di Port Hamilton, al largo della costa meridionale della Penisola coreana; dovevano diventare «una base», così fu giustificata l’azione davanti al gabinetto, «per bloccare la flotta russa del Pacifico» e, in aggiunta, «una stazione avanzata di appoggio per le operazioni contro Vladivostok». 32 Era una mossa mirata a proteggere la posizione strategica della Gran Bretagna e, soprattutto, il commercio con la Cina, se necessario anche ricorrendo a un attacco preventivo. Nel 1894, prima che le ferrovie aprissero nuove opportunità, oltre l’80 per cento di tutti i diritti doganali riscossi in Cina veniva versato dalla Gran Bretagna e da compagnie britanniche, le cui navi trasportavano più del 54 per cento del totale delle esportazioni cinesi. Era ovvio che
l’ascesa della Russia, e delle nuove vie di terra per portare le merci in Europa, sarebbe avvenuta a spese della Gran Bretagna. Fu in questo contesto di crescente rivalità e tensione che, alla fine dell’Ottocento, i tentativi russi di adescare la Persia divennero noti a tutti. Si rafforzava così la possibilità di un’alleanza che rischiava di minacciare la via di accesso all’India da nordovest. A Londra, sia pure dopo un ponderoso dibattito, già da qualche tempo si erano convinti che una pressione da parte russa sul subcontinente attraverso l’Afghanistan e l’Hindu Kush non poteva essere che limitata. Agli strateghi da tavolino riusciva facile tracciare sulle carte una via che dall’Asia centrale passasse per questa regione geograficamente così impervia, ma si riconobbe anche che, pur non potendosi escludere un attacco a sorpresa su piccola scala, le difficoltà del territorio riducevano al minimo la possibilità di una grossa operazione militare, che avrebbe dovuto fare i conti con passi di montagna notoriamente insidiosi ed estremamente difficili da attraversare. Ma arrivare dalla Persia era tutt’altra storia. La Russia si era fatta molto attiva sulla sua frontiera meridionale, occupando Merv nel 1884 – mossa che colse di sorpresa agenti e funzionari britannici, che appresero dell’accaduto direttamente dai giornali – e corteggiando apertamente le autorità di Teheran. Con la frontiera russa situata ora a poco più di 300 chilometri da Herat, la via per Kandahar, e quindi per l’India, era aperta. E ancora più preoccupanti, sulla scia dell’espansione, erano i progetti di infrastrutture per connettere le nuove regioni al cuore della madrepatria. Nel 1880 ebbe inizio la costruzione della ferrovia Transcaspica, con una linea ben presto in grado di collegare Samarcanda e Taškent, finché, nel 1899, fu aperto un ramo che andava da Merv a Kushk, vicinissima a Herat. 33 Queste linee ferroviarie non avevano solo un valore simbolico: erano arterie in grado di far affluire rifornimenti, armi e soldati direttamente alla porta di servizio dell’impero britannico. Come ribadì di lì a poco il maresciallo di campo Lord Roberts parlando agli ufficiali del Comando Orientale, era disdicevole che le ferrovie si fossero spinte così vicino. Ora, però, era stata tracciata una linea «che non si poteva
permettere alla Russia di attraversare». Se l’avesse fatto, dichiarò l’alto ufficiale, sarebbe stato considerato un casus belli. 34 Le linee ferroviarie rappresentavano anche una minaccia economica. Nel 1900 l’ambasciata britannica a San Pietroburgo fece arrivare a Londra il sunto di un pamphlet scritto da un ufficiale russo dove si caldeggiava l’estensione della linea ferroviaria in Persia e in Afghanistan. Era probabile, scriveva l’ufficiale, che i britannici non avrebbero reagito bene al nuovo sistema di trasporto, ma non c’era da stupirsi: dopotutto, un collegamento ferroviario che attraversasse l’Asia avrebbe «posto tutto il commercio dell’India e dell’Asia orientale con la Russia e con l’Europa in mani [russe]». 35 Questa era a dir poco un’esagerazione, come notò un alto diplomatico in risposta al rapporto. «Le considerazioni strategiche dell’autore sono di ben scarso valore» scrisse Charles Hardinge, perché sarebbe stato folle da parte della Russia compiere una mossa contro questa regione, visto che la Gran Bretagna controllava il golfo Persico. 36 Ma in un momento in cui a Londra avevano già i nervi a fior di pelle, le voci su un ampliamento del ruolo russo nei commerci di quell’area non fecero che ingigantire ulteriormente le preoccupazioni. Si vedevano spettri e complotti dietro ogni angolo, tutti puntualmente riferiti dagli apprensivi diplomatici britannici. Quando un certo dottor Paschooski arrivò a Bushihr, cercarono di appurare come mai la sua presenza non fosse stata segnalata per tempo e si peritarono di accertare se era vero che, come andava dicendo, era lì per curare le vittime della peste. Anche la visita di un nobile russo identificato come «Principe Dabija» fu vista con sospetto, e non si mancò di annotare, per trasmetterlo a chi di dovere, che era «molto reticente sui suoi movimenti e sulle sue intenzioni». 37 A Londra, la Russia passò al primo posto nell’ordine del giorno delle riunioni di governo, richiamò l’attenzione dello stesso primo ministro e divenne una delle massime priorità del Foreign Office. Nel breve termine era la Persia l’arena dove la competizione era più serrata. I sovrani del paese si erano arricchiti grazie a generosi prestiti agevolati, forniti da chi cercava di stabilire buone relazioni con una nazione che godeva di un’invidiabile posizione strategica come snodo
tra l’Est e l’Ovest. La Gran Bretagna aveva accuratamente gestito i costosi capricci e gli appetiti finanziari dei governanti persiani per tutto il tardo XIX secolo, finché nel 1898 lo scià Moẓaffar od-Dīn, noto per i suoi stravaganti baffi, lanciò una vera e propria bomba respingendo l’offerta di un nuovo prestito di 2 milioni di sterline. Fu immediatamente inviato a indagare sul posto un funzionario d’alto rango, che si trovò davanti un muro di gomma. Lord Salisbury, il primo ministro britannico, seguiva personalmente la situazione e diede istruzioni al Tesoro per alleggerire ancora di più le condizioni del prestito e aumentare la somma offerta. Presero a circolare voci su quello che stava accadendo dietro le quinte, e alla fine venne fuori che la Russia stava offrendo una cifra molto più elevata di quella che era disposta a prestare la Gran Bretagna, oltretutto a condizioni molto migliori. 38 Era stata un’abile manovra, quella di San Pietroburgo. In Russia le entrate fiscali stavano aumentando vertiginosamente e cominciavano ad arrivare anche investimenti stranieri. Lentamente, ma con passo sicuro, iniziava a emergere una classe media: uomini come il Lopachin del Giardino dei ciliegi di Anton Čechov, che una generazione prima sarebbero stati legati alla terra, stavano traendo vantaggio dal cambiamento sociale, dai nuovi mercati domestici e dalle opportunità legate all’esportazione per costituire autentiche fortune personali. Gli storici dell’economia amano illustrare la crescita annotando i repentini aumenti nei tassi di urbanizzazione, nella produzione di ghisa e nei chilometri di nuovi binari ferroviari. Ma basta guardare alla letteratura, all’arte, alla danza e alla musica di questo periodo, al prodigioso fiorire dei vari Tolstoj, Kandinskij, Djagilev, Čajkovskij, e tanti, tanti altri, per avere il senso di quello che stava accadendo: culturalmente ed economicamente, la Russia era in pieno boom. In un clima di tale esuberanza, era inevitabile che il paese cercasse un avvicinamento alla Persia alimentandone l’insaziabile fame di denaro, frutto dell’inefficienza strutturale della sua amministrazione, ma anche dei costosi gusti delle sue classi dirigenti. Agli inizi del Novecento, dopo che Sir Mortimer Durand, ministro plenipotenziario britannico a Teheran, sulla base di informazioni raccolte da fonti
austriache a Costantinopoli, rese nota l’effettiva disponibilità del governo zarista a prestare ben di più della Gran Bretagna, a Londra successe di tutto. 39 Furono istituite commissioni per studiare l’estensione della ferrovia da Quetta fino alla regione del Sistan e la costruzione di una rete di linee telegrafiche, il tutto «per salvare la Persia meridionale», come scrisse Lord Curzon, «dal cadere in pugno alla [Russia]». 40 Per contrastare la presunta avanzata russa furono formulate proposte radicali, compreso l’avvio di importanti opere di irrigazione nel Sistan, per stimolare l’agricoltura e stabilire legami con la popolazione locale. Si parlò anche della possibilità, da parte britannica, di prendere in concessione un tratto di territorio nella provincia di Helmand, in modo da proteggere efficacemente le vie per l’India. 41 Ormai si pensava che fosse questione di «quando», e non «se», la Russia avrebbe attaccato. Con le parole di Lord Curzon nel 1901, «volevamo Stati cuscinetto tra noi e la Russia». Uno dopo l’altro, ognuno di questi era stato «schiacciato e tolto di mezzo». Cina, Turkestan, Afghanistan e ora la Persia erano stati estromessi dal gioco. Il cuscinetto, quindi, si era «ridotto allo spessore di una cialda». 42 Lord Salisbury, disperato, insistette con il suo ministro degli Esteri, Lord Lansdowne, perché trovasse un modo per prestare denaro alla Persia. «La situazione appare … senza speranza», scrisse il primo ministro nell’ottobre 1901. Il Tesoro era riluttante a migliorare i termini dell’offerta, allarmato dalla rapidità con cui lo scià e il suo entourage spendevano e spandevano. Oramai non c’era più scelta. «Se non si trovano i soldi,» scrisse il Primo ministro «la Russia stabilirà un protettorato di fatto [sulla Persia] e solo con la forza potremo evitare che i porti del Golfo cadano nelle sue mani.» 43 Tale paura era già emersa l’anno prima, quando era stato riferito che i russi si preparavano a prendere il controllo del porto di Bandar Abbas, una postazione strategicamente vitale che dominava lo stretto di Hormuz, il punto più angusto del golfo Persico. Come fu dichiarato con toni allarmistici alla Camera dei Lord, «la presenza di un arsenale navale nel golfo Persico nelle mani di una grande potenza sarebbe una minaccia non solo per il nostro commercio con India e Cina, ma anche
per quello dell’Australasia». 44 Alle navi da guerra britanniche fu ordinato di prendere contromisure, nell’eventualità di qualunque mossa da parte dei russi, e Lord Lansdowne si espresse senza mezzi termini: «Dovremmo vedere nella realizzazione di una base navale o di un porto fortificato nel golfo Persico, da parte di qualunque altra Potenza, una gravissima minaccia agli interessi britannici». Le conseguenze, secondo il ministro, sarebbero state molto serie. E intendeva la guerra. 45 I fantasmi russi erano onnipresenti. Gli inquieti funzionari del Foreign Office leggevano con attenzione il fiume di rapporti inviati a Londra sulle attività di ufficiali, ingegneri e topografi zaristi. 46 L’importanza di una nuova compagnia commerciale a capitale russo che operava tra Odessa, sul mar Nero, e Bushihr, sulla costa meridionale della Persia, fu oggetto di un serio dibattito in Parlamento, dove si diffuse pure un certo allarme per rapporti confidenziali su oscuri personaggi che sostenevano di studiare «uccelli, farfalle e altre piccole creature», mentre in realtà erano agenti russi che distribuivano fucili agli uomini delle tribù nelle turbolente zone di confine, fomentando il malcontento. 47 La situazione attrasse l’attenzione di re Edoardo VII, che nel 1901 scrisse al ministro degli Esteri per esprimere la sua preoccupazione circa «l’influenza russa [che] sembra farsi di giorno in giorno preponderante in Persia a detrimento dell’Inghilterra», e per sollecitarlo ad ammonire lo scià che non era tollerabile che il suo paese non tenesse testa ai russi. 48 Poco o nulla valse il fatto che il ministro plenipotenziario britannico a Teheran, Sir Cecil Spring-Rice, riferisse che lo scià stesso giurava e spergiurava che «non intendeva assumere una posizione in Persia tale da facilitare l’invasione dell’India». 49 La tensione salì in un momento in cui era acuta la sensazione che l’impero fosse sottoposto a un’eccessiva pressione. Lo scontro con i Boeri nell’Africa del Sud e la sommossa degli Yihetuan (più nota come «la rivolta dei Boxer») in Cina trasmisero in patria l’idea che la Gran Bretagna corresse il rischio di essere sopraffatta oltremare, esacerbando così ancora di più i timori di un’avanzata russa. Un
apocalittico rapporto presentato al gabinetto di Londra alla fine del 1901 affermava che i russi sarebbero stati in grado di inviare 200.000 uomini nell’Asia centrale, oltre la metà dei quali pericolosamente vicini al confine indiano, una volta che la loro ferrovia si fosse estesa da Orenburg a Taškent. 50 Questo subito dopo che un altro rapporto spedito da Batumi, in Georgia, riferiva che i russi stavano per trasferire 20.000 uomini nell’Asia centrale, cosa che si rivelò poi un falso allarme. 51 Dal punto di vista britannico, c’erano ben poche possibilità di scelta: i costi per rafforzare la frontiera erano spaventosi: non meno di 20 milioni di sterline, più un importo annuo crescente, secondo le stime effettuate qualche tempo dopo. 52 Le scene di violenza di cui furono teatro le strade di San Pietroburgo nel 1905 e la disastrosa sconfitta della marina dello zar nella guerra russo-giapponese furono di ben poco sollievo per coloro che pensavano che, prima o poi, la Russia avrebbe spezzato le proprie catene. La Gran Bretagna non era in grado di resistere a quella che veniva apertamente definita la «minacciosa avanzata della Russia»; occorrevano nuove soluzioni, per impedire che una brutta situazione peggiorasse. Forse, come suggeriva un memorandum redatto dall’intelligence militare, era tempo di stringere accordi con la Germania, per dare un po’ da pensare ai russi? 53 A Londra si ragionò anche sulla possibilità di un intervento militare in Mesopotamia, nel quadro dell’ormai costante preoccupazione di consolidare la presenza britannica in tutto il Medio Oriente. Il Comitato per la Difesa imperiale valutò l’ipotesi di occupare Bassora, e si discusse animatamente di un eventuale smembramento della Turchia asiatica, per mettere le mani sui ricchi territori dell’Eufrate. Poi, nel 1906, fu avanzata la proposta di costruire una linea ferroviaria che andasse dal golfo Persico fino a Mosul, la quale, accanto ad altri benefici, avrebbe consentito di far arrivare le truppe britanniche fino al Caucaso, il ventre molle della Russia. 54 Progetti respinti uno dopo l’altro, per motivi di fattibilità e di costi: fu Sir Edward Grey, il nuovo ministro degli Esteri, a far presente che per sostenere un’invasione – e poi la messa in sicurezza e la difesa delle nuove frontiere – sarebbero occorsi molti milioni di sterline. 55
L’idea di Grey era tutt’altra. La posizione della Gran Bretagna in Oriente era limitata e pericolosamente esposta: ciò di cui c’era bisogno era distogliere completamente l’attenzione della Russia da quest’area. In una recisa dichiarazione rilasciata nel 1905 al «Times» solo un mese prima della nomina a ministro, Grey spiegò che sarebbe stato molto proficuo raggiungere un accordo informale relativo ai «nostri possedimenti asiatici». Nessun governo britannico, proseguiva, avrebbe «lavorato per intralciare o contrastare la politica europea della Russia». Era quindi «urgente e auspicabile» che «il ruolo e l’influenza della Russia» in Europa si ampliassero; il che equivaleva a dire, in altre parole, che San Pietroburgo si dimenticasse dell’Asia. 56 La scelta dei tempi non avrebbe potuto essere migliore. La Francia stava vivendo un momento di crescente inquietudine per la florida crescita economica della Germania, vicina e acerrima rivale. I ricordi della guerra franco-prussiana del 1870-71, culminata nell’assedio di Parigi e nella stipula di un armistizio celebrato dai prussiani con una parata trionfale per le vie del centro, erano ancora ben vividi nelle menti dei francesi. La rapidità di quell’invasione era stata un enorme shock, e i timori di un altro assalto lampo che cogliesse nuovamente la nazione impreparata ne furono rafforzati, specie perché quell’attacco aveva decretato l’unificazione della Germania in un impero, e perché ne era stato dato l’annuncio ufficiale proprio nelle sale del Palazzo di Versailles. La situazione era già abbastanza compromessa. I francesi erano in pieno allarme per il vistoso boom dell’industria tedesca registrato fra il 1890 e il 1910, un ventennio in cui la produzione di carbone raddoppiò e quella di ferro e acciaio triplicò. 57 Tale prosperità economica alimentò investimenti sempre più massicci in una macchina militare già di per sé impressionante, sia come esercito sia come marina. A partire dal 1890 i diplomatici francesi lavorarono senza tregua dietro le quinte per giungere a un accordo militare e poi a una vera e propria alleanza con la Russia, il cui obiettivo primario era la reciproca difesa: entrambi i paesi concordarono di attaccare la Germania, se quest’ultima o i suoi alleati avessero mobilitato i loro
eserciti, e s’impegnavano formalmente ad agire anche contro la Gran Bretagna, se Londra avesse aperto le ostilità contro uno di loro. 58 Il desiderio britannico di spostare l’attenzione russa sul confine occidentale era musica per le orecchie dei francesi. La prima fase di un riallineamento tra Londra e Parigi ebbe luogo nel 1904, quando, dopo aver discusso a fondo dei reciproci interessi su scala mondiale, fu siglata la cosiddetta «Entente Cordiale». Non fa meraviglia che al centro di queste trattative vi fosse la Russia e il suo ruolo sullo scacchiere internazionale. Il cerchio delle alleanze si chiuse nel 1907, allorché gli inglesi raggiunsero con San Pietroburgo un accordo formale sul «cuore del mondo», cioè una linea di demarcazione che stabiliva le rispettive sfere d’influenza in Persia, con clausole restrittive rispetto al coinvolgimento russo in Afghanistan. 59 La via per liberare l’India «dal timore e dalla tensione», sosteneva Edward Grey, passava attraverso un rapporto più aperto e positivo con San Pietroburgo, condizione indispensabile affinché «la Russia non si impadronisca delle parti della Persia che rappresentano un pericolo per noi». 60 Come confidò nel 1912, da tempo Grey nutriva seri dubbi rispetto alla tradizionale politica di pressioni e contenimento della Russia, osservando che «per anni ho ritenuto che fosse una politica errata». 61 Perseguire un’alleanza, in altri termini, era un modo più elegante e produttivo di fare dei passi avanti. I vertici della diplomazia britannica sapevano che il riavvicinamento con la Russia aveva un prezzo, ed era la Germania. Come ribadì nel 1908 Sir Charles Hardinge, sottosegretario permanente del Foreign Office, «per noi è molto più importante avere una buona intesa con la Russia in Asia e nel Vicino Oriente che buoni rapporti con la Germania». 62 Un messaggio che non perdeva occasione di ripetere, anche dopo essere stato nominato viceré dell’India, due anni dopo. «Siamo praticamente impotenti» scrisse Hardinge di fronte a un’eventuale escalation russa in Persia. Valeva quindi la pena di fare tutto il possibile per riequilibrare la situazione in Europa: «È molto più svantaggioso avere una Francia e una Russia ostili, rispetto a una Germania ostile». 63 Le relazioni anglo-russe stavano «subendo una forte pressione» come risultato delle tensioni in
Persia, affermava Sir Arthur Nicolson, ambasciatore a San Pietroburgo, che dal canto suo concordava sul fatto che fosse «assolutamente essenziale mantenere a ogni costo la nostra intesa con la Russia al massimo livello». 64 Salvaguardare l’amicizia della Russia «a ogni costo» diventò la direttrice di fondo della politica estera britannica, dopo la firma del trattato di alleanza. Nel 1907 Sir Edward Grey disse all’ambasciatore russo a Londra che la Gran Bretagna poteva mostrarsi più flessibile rispetto alla questione del Bosforo, se la Russia avesse accettato di stabilire «buoni rapporti permanenti». 65 Bastò questo a far crollare il castello di carte costruito dalle potenze europee, con la Russia impegnata in un mercato delle vacche diplomatico che includeva l’appoggio dell’Austria sulla questione del Bosforo in cambio della propria acquiescenza rispetto all’annessione austriaca della Bosnia: un accordo che doveva avere conseguenze eccezionali. 66 Nel 1910 Sir Edward Grey tornò a scrivere della necessità di sacrificare, all’occorrenza, le relazioni con Berlino: «Non possiamo aderire a un accordo politico con la Germania che ci allontanerebbe dalla Russia e dalla Francia». 67 La risolutezza nel perseguire questa linea di condotta era chiaramente percepita a San Pietroburgo, che apprezzava il febbrile corteggiamento da parte britannica e le opportunità che offriva. «Mi pare» rifletteva sul finire del 1910 il ministro degli Esteri russo Sergej Sazonov «che il governo di Londra consideri l’accordo anglo-russo del 1907 importante per gli interessi asiatici dell’Inghilterra.» Stando così le cose, proseguiva, sembrava possibile indurre gli inglesi a fare concessioni significative «al fine di mantenere in vita un accordo così importante per loro». 68 Era un’osservazione sagace. Nel 1910, quando le forze russe iniziarono a compiere nuove incursioni in Mongolia, nel Tibet e nel Turkestan cinese, gli osservatori britannici poterono a malapena nascondere la loro grande apprensione. 69 Un più esteso raggio d’azione della Russia non faceva che mettere maggiormente in evidenza l’estrema debolezza della posizione britannica. Le cose non potevano andare peggio, come rivelarono chiaramente le sconsolate dichiarazioni di Grey nella
primavera del 1914. La storia era la stessa in Afghanistan, in Tibet, in Mongolia e in Persia: «Su tutta la linea vogliamo qualcosa, e non abbiamo niente da dare in cambio». In Persia non era rimasto «nulla da concedere» alla Russia, rilevava Grey, e neppure in Afghanistan c’era niente su cui far leva. Peggio ancora, «i russi sono pronti a occupare la Persia, e noi no». 70 La Gran Bretagna era alle corde, quantomeno in Asia. La partita stava per finire. Il punto era dove e quando. Nel prendere coscienza delle concrete difficoltà che avevano di fronte, gli alti funzionari britannici non perdevano di vista il fatto di dover combattere anche con il peggiore degli scenari possibili, quello che poteva far rimpiangere persino l’attuale, instabile posizione: un’alleanza tra Russia e Germania. Paure come questa avevano ossessionato per un certo periodo le autorità politiche britanniche. Un importante elemento dell’accordo anglo-russo del 1907, infatti, era stato quello di cooperare nella ricerca di uno status quo reciprocamente soddisfacente in Asia. Un equilibrio quanto mai delicato, e per mantenerlo, come ribadì Sir Arthur Nicolson a Grey, era essenziale «dissuadere la Russia dall’avvicinarsi a Berlino». 71 La montante sensazione di panico era resa ancora più acuta dalla continua crescita delle capacità – e delle ambizioni – germaniche. L’esuberante economia tedesca e l’aumento delle spese militari di Berlino erano fonti di preoccupazione. Alcuni degli esponenti di punta del Foreign Office non avevano il minimo dubbio che scopo della Germania fosse «ottenere il predominio sul continente europeo», e che questo avrebbe portato a uno scontro armato. In fondo, tutti gli imperi dovevano fronteggiare sfide da parte dei rivali, come fu ricordato a Sir Edward Grey: «Personalmente» disse Nicolson «sono convinto che presto o tardi ci troveremo a ripetere un’analoga lotta con la Germania». Era vitale, perciò, mantenere buoni rapporti con Francia e Russia. 72 La capacità tedesca di destabilizzare l’equilibrio attentamente dosato dell’Europa, e quindi del resto del mondo, significava che si stava preparando una tempesta in piena regola. I timori che «la Russia
possa schierarsi al fianco dell’Alleanza delle potenze centrali [ovvero Germania, Austria-Ungheria e Italia]» si fecero acuti. Disarticolare i rapporti tra Gran Bretagna, Russia e Francia e «spezzare la Triplice intesa» era percepito come l’obiettivo principale di Berlino. 73 «Siamo estremamente preoccupati» ammise Grey, durante una nuova fase di tensione, riferendosi alla possibilità che la Russia avesse la tentazione di lasciare la Triplice Intesa. 74 Tali timori non erano del tutto infondati. L’ambasciatore tedesco a Teheran, per esempio, conveniva che se da un lato in quel paese c’era «poco da guadagnare», dall’altro era possibile strappare a San Pietroburgo utili concessioni altrove, se i russi avessero sentito minacciati i loro interessi in Persia. 75 Era questo il retroterra dell’incontro che si tenne a Potsdam fra il Kaiser e lo zar Nicola II nell’inverno del 1910, un vertice accompagnato da colloqui ad alto livello tra i rispettivi ministri degli Esteri, che sembrò confermare i timori che i «raggruppamenti europei», come li chiamava Sir Arthur Nicolson, si potessero rimescolare a danno della Gran Bretagna. 76 Nella psiche dei diplomatici britannici, il sospetto nei confronti della Germania e delle sue azioni (vere o presunte) era impresso a fuoco già ben prima dell’alleanza del 1907. Tre anni addietro, poco prima di essere nominato ambasciatore a Parigi, Sir Francis Bertie aveva ricevuto una lettera da un funzionario del Foreign Office in cui si sottolineava quanto fosse importante che la missione diplomatica in Francia fosse guidata da qualcuno «con gli occhi bene aperti, soprattutto sui disegni della Germania». In risposta, Bertie scrisse che era giusto alimentare la sfiducia nei confronti della Germania: «Non ha mai fatto altro per noi che dissanguarci. È falsa e avida, ed è il nostro vero nemico nei commerci e nella politica». 77 Per amara ironia, il timore della minaccia tedesca era avvalorato dalla sensazione di vulnerabilità che affliggeva la stessa Germania la quale, trovandosi nel cuore dell’Europa, sarebbe potuta finire nella morsa dell’alleanza franco-russa, che aveva sottoscritto accordi di cooperazione militare e di attacco congiunto in caso di provocazione. Non ci volle molto prima che la paranoia galoppante di trovarsi presa tra due fuochi portasse l’Alto comando tedesco a valutare le proprie
opzioni. In seguito all’alleanza franco-russa del 1904, il capo di stato maggiore dell’esercito tedesco, il conte Alfred von Schlieffen, aveva elaborato un piano fortemente ispirato alle esperienze del 1870, quando i francesi erano stati fatti a pezzi, ipotizzando uno scenario nel quale le armate del Kaiser avrebbero potuto neutralizzare la Francia, per poi rivolgersi a est e affrontare la Russia. Era un piano ambizioso, militarmente e logisticamente: avrebbe richiesto 1 milione di ferrovieri, 30.000 locomotive, 65.000 carrozze passeggeri e 700.000 carri merci, per trasferire in diciassette giorni 3 milioni di soldati, 86.000 cavalli e montagne di munizioni. 78 Un progetto analogo era allo studio nello stesso periodo da parte dell’esercito russo, che nell’estate del 1910 aveva messo a punto un insieme di passi dettagliati da compiere nell’eventualità di un attacco tedesco. Battezzato come «Piano 19», esso comprendeva l’arretramento su una linea difensiva di fortificazioni lungo un asse nord-sud che andava da Kovno a Brest, e la preparazione di un contrattacco. Nel 1912 vennero elaborate due varianti al piano base, chiamate rispettivamente «Piano 19» e «19G», la seconda delle quali prevedeva un rapido contrattacco nel caso che la Germania desse il via alle ostilità, con un obiettivo ben preciso: «Lo spostamento della guerra sul territorio [nemico]», vale a dire all’interno della Germania e dell’impero austro-ungarico. 79 L’alto comando tedesco e il Kaiser erano pienamente consapevoli della pressione che saliva a poco a poco dall’esterno e che sembrava metterli all’angolo. Le pubbliche proteste contro la proposta di costruire una linea ferroviaria da Berlino a Baghdad lasciarono dubbioso il Kaiser: di certo, era il suo ragionamento, stendere binari a migliaia di chilometri di distanza sarebbe stato un problema solo nel caso di una guerra tra il suo paese e l’Inghilterra. E se ciò fosse avvenuto, era realistico pensare che il paese volesse avere i propri soldati schierati così lontano dalla patria? 80 Significativa anche la reazione alla risposta germanica allo spiegamento di truppe francesi in Marocco, nel 1911, in violazione di un precedente accordo tra Berlino e Parigi. In questo caso, l’invio dell’incrociatore tedesco Panther, nel tentativo di costringere la Francia
a venire a patti, si trasformò in un boomerang. Per la Germania fu una pubblica e imbarazzante dimostrazione dei forti limiti del raggio d’azione della sua politica; non solo, ma, come se non bastasse, Berlino registrò una pesante caduta del mercato azionario. Sulla scia della crisi marocchina del settembre 1911 le azioni ebbero un crollo di oltre il 30 per cento, causando alla Reichsbank, in un solo mese, una perdita superiore a un quinto delle sue riserve. Anche se il disastro finanziario non era stato orchestrato dai francesi, come molti tedeschi credevano, era certamente vero che essi avevano sfruttato la situazione ritirando i fondi a breve termine, una mossa che aveva indubbiamente contribuito a creare una crisi di liquidità. 81 Sforzi significativi vennero convogliati nell’apertura di nuovi canali e nella costruzione di nuovi legami e alleanze. Grande attenzione venne rivolta al Vicino e Medio Oriente: le banche tedesche erano in forte espansione in Egitto, in Sudan e nell’impero ottomano, e un programma di corsi per imparare l’arabo, il persiano e altre lingue correlate venne non solo generosamente sovvenzionato, ma anche seguito dal Kaiser stesso. I crescenti legami tra il mondo islamico e quello tedesco catturavano l’immaginazione dei giovani, così come degli accademici, dei soldati, dei diplomatici e dei politici. Nei primi anni del XX secolo un giovane scriveva con nostalgia che osservare gli splendidi edifici di Vienna e la Ringstraße – l’anello di strade intorno alla città – aveva su di lui un irresistibile «effetto magico». Eppure non si sentiva proiettato all’indietro nel Sacro Romano Impero o nell’antichità classica, scelte fin troppo ovvie di un passato idealizzato: «Il Ring» annotò Adolf Hitler «mi incantava come le Mille e Una Notte». 82 In Germania si stava diffondendo una pericolosa mentalità da assediati, oltre a un’acuta sensazione che Berlino avesse nemici potenti e fosse ridotta alla loro mercé. Helmuth von Moltke, successore di Schlieffen al vertice dello stato maggiore, e con lui diversi alti ufficiali, si erano convinti che la guerra fosse inevitabile e che sarebbe stato meglio affrontarla il prima possibile; il rinvio del confronto, sostenevano, sarebbe andato a discapito della Germania. Era meglio aprire le ostilità e impegnare il nemico, affermò Moltke
nella primavera del 1914, «mentre abbiamo ancora una possibilità di vittoria». 83 «Come mai c’era un tale odio contro di noi?» scriveva Robert Musil a Berlino nel settembre 1914, chiedendosi da dove provenisse quell'invidia che «senza nostra colpa era diventata realtà.» 84 Lo scrittore austriaco aveva ragione a notare la crescente tensione in Europa, che trovava alimento nella cultura popolare. I libri sulle spie tedesche e sui piani della Germania per conquistare l’Europa conobbero un’enorme popolarità. The Invasion of 1910, romanzo scritto da William LeQueux, vendette oltre un milione di copie e fu tradotto in ventisette lingue; poi fu la volta di When William Came: A Story of London under the Hohenzollerns, di Saki (H.H. Munro), altro best seller uscito alla vigilia della guerra, che vede l’eroe tornare dall’Asia in una Gran Bretagna sconfitta e occupata dai tedeschi. 85 Lo sforzo dei tedeschi per ridurre al minimo i rischi, o per mettersi in condizione di contrastarli, era quasi una profezia che si autoavvera. Era del tutto comprensibile, per esempio, che fosse la Russia a sollecitare garanzie e accordi, e bastò questo ad allarmare la Gran Bretagna. 86 Allo stesso modo, le raccomandazioni per l’esercito tedesco formulate dal generale Colmar von der Goltz, che aveva trascorso più di un decennio ad ammodernare l’esercito ottomano (dove era noto come «Goltz Pascià»), andavano tutte nella direzione di garantire una certa capacità di manovra in caso di crisi militare. Il sostegno turco avrebbe potuto essere utile contro la Russia, disse Goltz ai suoi colleghi, ma rivelarsi addirittura «prezioso» contro la Gran Bretagna nel Vicino Oriente. 87 Il problema era che l’attenzione della Germania verso il mondo ottomano esercitava troppa pressione sui nervi dei russi. I funzionari di San Pietroburgo erano molto sensibili sulla questione degli Stretti, e inquieti alla prospettiva che un nuovo giocatore scendesse su quello che consideravano un loro terreno di gioco. A cavallo fra un secolo e l’altro si era parlato più di una volta di occupare Costantinopoli, ma alla fine del 1912 si cominciarono a elaborare piani che prevedevano il controllo della città da parte di forze russe, in teoria solo come
soluzione temporanea in caso di guerra nei Balcani. 88 Tuttavia, i russi erano infastiditi anche dalla palese indifferenza dei loro alleati, gli inglesi e i francesi, rispetto a una situazione in cui si assisteva a un crescente controllo di Berlino sulle forze armate ottomane, inclusa l’assegnazione di un ufficiale tedesco al comando della flotta del sultano. Si guardava con particolare angoscia all’imminente consegna ai turchi di due dreadnought (corazzate monocalibro) di fabbricazione inglese: quelle navi da guerra all’avanguardia avrebbero conferito agli ottomani un vantaggio decisivo e foriero di catastrofi sulle forze navali russe, si lamentò il ministro della Marina militare dello zar nel 1914, portando a una «superiorità schiacciante, pari a quasi sei volte» sulla flotta russa del mar Nero. 89 La minaccia non riguardava solo la sfera militare, ma anche quella economica. Precedentemente alla prima guerra mondiale, oltre un terzo delle esportazioni russe passava attraverso i Dardanelli, compreso quasi il 90 per cento dei cereali imbarcati nei porti di Odessa e di Sebastopoli, in Crimea. Pertanto, le richieste rivolte a Londra di bloccare, sospendere o annullare la consegna delle navi da guerra diventarono una dannosa scintilla in un continuo gioco di bluff e controbluff tra le grandi potenze, alla vigilia del conflitto. 90 C’era chi non nutriva dubbi su quanto alta fosse la posta in gioco. «La nostra intera presenza nel Vicino Oriente è a rischio» riferì a San Pietroburgo l’ambasciatore russo a Costantinopoli, ed era in grave pericolo «l’indubbio diritto che abbiamo acquisito dopo secoli di sacrifici incommensurabili, e di sangue russo versato.» 91 In questo contesto, l’invasione della Libia compiuta dall’Italia nel 1911 e le successive guerre balcaniche del 1912-13 non fecero che innescare una reazione a catena, dal momento che le province periferiche dell’impero ottomano rimasero vittime di antagonismi locali e internazionali, che approfittarono di più di un momento di debolezza. Con il potere ottomano che vacillava ormai sull’orlo del collasso, le ambizioni e le rivalità europee si acuirono drammaticamente. Da parte loro, i tedeschi cominciarono a pensare seriamente a espandersi verso est, e a stabilire un protettorato per creare un «Oriente tedesco». 92 Sembrava una forma di espansionismo,
in realtà era anche un potente antidoto contro quel genere di pensieri affini ai crescenti sentimenti di aggressività, sempre più radicati negli alti comandi tedeschi. 93 La Germania, come la Gran Bretagna, stava cominciando ad aspettarsi il peggio e, nel caso dei tedeschi, ciò significava impedire ai russi di prendere il controllo delle parti più appetibili di un impero ottomano che tutti ormai consideravano prossimo allo sfacelo. Per i russi, invece, voleva dire realizzare vecchi sogni e garantire un futuro a lungo termine il cui significato non poteva essere sopravvalutato. In ogni caso, il fatto che la Gran Bretagna rappresentasse una minaccia per la Germania – e viceversa – era una sorta di specchietto per le allodole. Anche se gli storici moderni parlano insistentemente del desiderio della prima di contenere la seconda, il puzzle delle rivalità in tutta Europa era complesso e multiforme. Di certo molto più complesso della semplice storia di una forte rivalità tra due nazioni, che prese forma solo alla vigilia e allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1918 le cause reali del conflitto furono messe in ombra, mentre venne posta un’enfasi fuorviante sulla corsa agli armamenti navali, che vide le spese per la costruzione di navi da battaglia crescere a livelli vertiginosi; sugli atteggiamenti aggressivi dietro le quinte, che portarono allo scontro; sulla cieca brama di sangue del Kaiser e dei suoi generali, che cercavano di scatenare una guerra nell’Europa continentale. La realtà storica era molto diversa. Anche se i giorni che seguirono l’assassinio di Francesco Ferdinando videro una serie di incomprensioni, discussioni, ultimatum e cambi di alleanze quasi impossibile da ricostruire, i semi della guerra provenivano da mutamenti e sviluppi verificatisi a migliaia di chilometri di distanza. L’ambizione crescente della Russia e i suoi progressi in Persia, nell’Asia centrale e nell’Estremo Oriente misero sotto pressione i possedimenti britannici oltremare, con conseguente fossilizzazione delle alleanze in Europa. Ciò che impediva un’ulteriore erosione dell’invidiabile piattaforma che la Gran Bretagna aveva costruito nei secoli precedenti era soltanto una serie di garanzie reciproche, messe a punto soprattutto per tenere la Russia – la potenza sulla porta – con le
mani legate. Tuttavia, mentre all’orizzonte si andavano addensando nuvole nere, nei primi mesi del 1914 non sembrava esserci un pericolo immediato. «Non ho mai visto acque così calme» scrisse Arthur Nicolson in maggio «da quando sono al Foreign Office.» 94 Infatti, prometteva di essere un’ottima annata. Negli Stati Uniti i dipendenti della Ford Motor Company avevano festeggiato in gennaio il raddoppio dei loro salari, frutto di un aumento delle vendite e di strategie innovative per incrementare la produzione. A Bruxelles i medici stavano valutando le conseguenze della prima trasfusione di sangue non diretta, compiuta dopo ricerche pionieristiche sull’uso del citrato di sodio come anticoagulante. A San Pietroburgo, all’inizio dell’estate, la preoccupazione principale per la maggior parte delle persone erano gli incendi boschivi, il cui fumo nero e denso rendeva la calura estiva ancora più opprimente del solito. In Germania gli abitanti di Fürth, nella Baviera settentrionale, erano in estasi dopo che la squadra locale aveva vinto una partita da brivido contro la fortissima VfB Leipzig. Ribaltando i pronostici, aveva segnato il gol vincente ai tempi supplementari aggiudicandosi così il suo primo scudetto, e il suo allenatore, l’inglese William Townley, era diventato un eroe. Anche la natura era gentile, secondo la poetessa inglese Alice Meynell: l’inizio dell’estate del 1914 era idilliaco, il raccolto prometteva di essere eccezionale, mentre, sera dopo sera, la luna era «dolce nel cielo» e «le seriche messi s’inerpicavano sulla collina». 95 In Gran Bretagna non c’erano segnali di un destino incombente né di un imminente scontro con la Germania. Gli accademici dell’università di Oxford si stavano preparando a onorare la cultura e l’intelletto tedeschi. C’era già un grande ritratto del Kaiser Guglielmo II appeso nell’edificio delle Examination Schools, ricevuto in dono dopo che il sovrano tedesco era stato insignito di un dottorato honoris causa in diritto civile, nel 1907. 96 E verso la fine del giugno 1914, a meno di un mese dallo scoppio delle ostilità, i principali luminari della città si radunarono per fare ala a una processione di eminenti personaggi di nazionalità tedesca, tutti destinatari di lauree onorarie. Tra coloro che furono applauditi mentre si dirigevano con addosso le
toghe colorate allo Sheldonian Theatre, c’erano il duca di SassoniaCoburgo-Gotha, il compositore Richard Strauss e Ludwig Mitteis, uno scialbo esperto di diritto romano; dottorati onorari vennero conferiti anche al duca di Württemberg e al principe Lichnowsky, ambasciatore tedesco a Londra. 97 Tre giorni dopo, un giovane idealista bosniaco non ancora ventenne di nome Gavrilo Princip esplose due colpi di pistola contro un’automobile che passava nelle vie di Sarajevo. La prima pallottola non raggiunse il bersaglio, ma ferì mortalmente allo stomaco l’arciduchessa Sofia, seduta sul sedile posteriore accanto al marito. La seconda invece fece centro, uccidendo Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico. E con quella pallottola, il mondo cambiò. 98 Gli storici moderni sono soliti porre l’accento sulla «crisi di luglio» delle settimane successive e sulle mancate opportunità di mantenere la pace, o sul modo in cui molti avevano temuto e anticipato lo scoppio delle ostilità: studi recenti hanno richiamato l’attenzione sul fatto che l’atmosfera del mondo che scivolava verso la guerra non era carica di bellicoso entusiasmo, ma di apprensione e malintesi. Era uno scenario da incubo. Come li ha definiti in modo più che appropriato un eminente storico, «i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo». 99 Nel momento in cui Sir Edward Grey si rese conto che «le luci si stanno spegnendo in tutta Europa», era già troppo tardi. 100 Nei giorni che seguirono l’attentato, fu la paura della Russia a condurre alla guerra. Nel caso della Germania, cruciale fu la diffusa preoccupazione sul suo vicino orientale. Il Kaiser si era sentito ripetutamente dire dai suoi generali che la minaccia rappresentata dal vicino orientale si sarebbe rafforzata, di pari passo con l’avanzare della sua economia. 101 Ciò trovava eco a San Pietroburgo, dove le autorità governative si erano convinte che la guerra fosse inevitabile, e che fosse preferibile agire quanto prima. 102 Anche i francesi erano
inquieti, avendo concluso da tempo che la miglior linea d’azione che potevano adottare era esortare costantemente e coerentemente alla moderazione sia San Pietroburgo sia Londra. Da parte loro, avrebbero sostenuto la Russia in ogni caso. 103 Nel caso della Gran Bretagna, a guidare la sua politica fu il timore di quello che sarebbe accaduto se la Russia avesse scelto di condividere la sua sorte con qualcun altro. Di fatto, all’inizio del 1914 al Foreign Office già si discuteva di un possibile riallineamento tra Gran Bretagna e Germania, allo scopo di riportare sotto controllo la Russia. 104 Mentre lo stallo volgeva verso la crisi, diplomatici, generali e politici cercarono di capire cosa sarebbe successo. Alla fine di luglio il diplomatico George Clerk scriveva con apprensione da Costantinopoli per ribadire che la Gran Bretagna doveva fare tutto ciò che era necessario per soddisfare la Russia. Diversamente, ammoniva, gli inglesi sarebbero andati incontro a conseguenze «tali per cui l’esistenza stessa dell’impero rischiava di essere seriamente compromessa». 105 Alcuni cercavano di ridimensionare dichiarazioni così allarmiste, ma non l’ambasciatore britannico a San Pietroburgo, il quale, dopo aver messo in guardia sul fatto che la Russia era così potente «che dobbiamo mantenere la sua amicizia pressoché a ogni costo», inviò in quel frangente un telegramma dal contenuto inequivocabile. 106 La posizione britannica, diceva il diplomatico, era «pericolosa», perché il momento della verità era arrivato: era ora di scegliere se appoggiare la Russia «o rinunciare alla sua amicizia. Se veniamo meno ora,» ammoniva «l’amichevole collaborazione che abbiamo con essa in Asia e che per noi è di così vitale importanza» era destinata a finire. 107 Non esistevano vie di mezzo, come chiarì il ministro degli Esteri russo verso la fine di luglio: dopo aver assicurato, meno di quindici giorni prima, che la Russia «era scevra di qualunque mira aggressiva e non nutriva alcun sogno di espandersi con la forza», ora parlò delle conseguenze nel caso in cui gli alleati di San Pietroburgo non le fossero stati accanto nel momento della resa dei conti. Se la Gran Bretagna fosse rimasta neutrale, ammoniva il ministro, ciò «sarebbe equivalso a un suicidio». 108 Era una minaccia appena velata agli
interessi britannici in Persia, se non addirittura in tutta l’Asia. Mentre la «crisi di luglio» si aggravava, i politici britannici parlarono pubblicamente di conferenze di pace, di mediazione e di difesa della sovranità del Belgio. Ma il dado era tratto. Il destino della Gran Bretagna – e quello del suo impero – era legato a doppio filo alle decisioni prese in Russia. I due paesi erano rivali che si fingevano alleati; entrambi cercavano di non alienarsi né inimicarsi l’altro, ma era ovvio che il pendolo del potere si era allontanato da Londra per spostarsi verso San Pietroburgo. Nessuno ne era più consapevole del cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, un professionista della politica bene ammanicato, che aveva trascorso un certo numero di notti insonni a pregare, implorando la protezione divina. Ora, dieci giorni dopo l’attentato di Sarajevo, seduto «in terrazza sotto un cielo stellato», mentre gli ingranaggi della guerra si stavano mettendo lentamente in moto, si rivolse al suo segretario e disse: «Il futuro appartiene alla Russia». 109 Nel 1914, però, ciò che quel futuro avrebbe portato non era affatto chiaro. La forza della Russia poteva facilmente rivelarsi artificiosa, perché il paese era ancora nelle fasi iniziali di una profonda trasformazione sociale, economica e politica. Nel 1905 un momento di panico aveva rischiato di precipitare il paese in una vera e propria rivoluzione, mentre le richieste di riforme venivano largamente ignorate da una classe dirigente fortemente conservatrice. Per di più, la Russia dipendeva in larga misura dall’afflusso di capitali stranieri: quasi metà dei nuovi investimenti effettuati tra il 1890 e il 1914 venivano dall’estero, ed era denaro che arrivava solo a condizione che vi fossero la pace e un quadro politico stabile. 110 Una trasformazione su larga scala richiedeva tempo, e raramente era indolore. Se in Russia avesse prevalso la calma e il suo governo avesse scelto un modo meno provocatorio per sostenere il proprio alleato serbo, il destino del paese – e, con esso, quello dell’Europa e dell’Asia, e forse addirittura anche del Nord America – sarebbe stato molto diverso. Invece, il 1914 vide arrivare quel confronto diretto che la regina Vittoria aveva pronosticato decenni prima: tutto si riduceva, aveva detto la sovrana, a «una questione di supremazia sul mondo,
russa o britannica». 111 La Gran Bretagna non poteva permettersi di abbandonare la rivale a sé stessa. E così, come in un’allucinante partita a scacchi in cui tutte le possibili mosse sono sbagliate, il mondo andò in guerra. E mentre l’euforia e lo sciovinismo iniziali lasciavano il posto alla tragedia e all’orrore su una scala inimmaginabile, si consolidò una narrazione dei fatti che riscriveva il passato, presentando il conflitto nei termini di una lotta tra la Germania e gli Alleati e incentrando il dibattito sulla relativa colpevolezza dell’una e sull’eroismo degli altri. Il racconto che s’impresse nella coscienza pubblica fu quello di un’aggressione tedesca seguita da una guerra giusta combattuta dagli Alleati. Era necessario spiegare perché una generazione di giovani brillanti con un futuro davanti era stata gettata via. Servivano risposte che spiegassero il sacrificio di uomini di grande talento come Patrick Shaw Stewart, un intellettuale i cui folgoranti successi a scuola, all’università e negli affari avevano sbalordito i suoi contemporanei, compresa la sua corrispondente Lady Diana Manners, alla quale inviava lettere infarcite di citazioni erotiche in greco e in latino. 112 O per chiarire come mai gli operai che si erano arruolati insieme ai loro compagni per combattere nei Pals Battalions – i «battaglioni di amici» costituiti dall’esercito britannico per non separare persone che si conoscevano e lavoravano fianco a fianco – furono falciati nelle prime ore della catastrofica offensiva della Somme, nel 1916. 113 O perché, sparsi in ogni angolo del paese, c’erano memoriali di guerra con i nomi degli uomini che avevano dato la vita per la patria: luoghi che registravano i nomi dei caduti, ma nulla potevano contro il silenzio calato sui villaggi e sulle cittadine a causa della loro assenza. Non può quindi stupire l’emergere di una potente narrazione che glorificava i soldati, ne celebrava l’ardimento e rendeva onore al sacrificio che avevano compiuto. Dopo la guerra Winston Churchill scrisse che l’esercito britannico era l’armata più bella mai esistita. Ognuno dei suoi membri era «ispirato non solo dall’amore per il proprio paese, ma da una più ampia convinzione che la libertà degli uomini era minacciata dalla tirannia militare e imperiale». La lotta era
stata nobile e giusta. «Se due vite o dieci vite erano richieste dai comandanti per uccidere un tedesco, mai una parola di lamento si levò dalle truppe combattenti … Nessun massacro, per quanto devastante, impedì mai loro di tornare all’assalto» dichiarò Churchill. I caduti erano «martiri non meno che soldati [e] adempirono con risolutezza all’alto senso del dovere di cui erano pervasi». 114 All’epoca, però, non tutti la vedevano in questo modo. Alcuni, come Edwin Campion Vaughan, un giovane tenente che si era arruolato pieno di speranza, non poterono sopportare il livello delle sofferenze patite né lo scopo che avrebbe dovuto giustificarle. Dopo aver visto massacrare la propria compagnia, e di fronte alla prospettiva di dover redigere il rapporto sulle perdite, «mi sedetti a terra» scrisse «e bevvi un whisky dopo l’altro, lo sguardo rivolto a un futuro nero e vuoto». 115 L’incredibile corpus poetico prodotto durante la guerra dipinge a sua volta un quadro assai diverso di come veniva visto all’epoca il conflitto. E lo stesso dicasi per il numero di processi celebrati in quegli anni davanti a una corte marziale, che non sembra affatto indicare un’unanime risolutezza fra i soldati: i tribunali militari dovettero giudicare oltre 300.000 infrazioni del codice di guerra, per tacere dei tanti atti di indisciplina minori risolti per altre vie. 116 Era poi sorprendente che il luogo fisico del conflitto si fissasse nelle trincee delle Fiandre e tra gli orrori della Somme. La guerra era scoppiata lontano dalle vie che collegavano gli imperi europei a territori sparsi in tutto il pianeta, lontano dai punti dove si era esercitata una crescente pressione, in Persia, nell’Asia centrale e alle porte dell’India e dell’Estremo Oriente, terre che stavano così a cuore ai politici e dirigenti britannici alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX. Eppure, lo scontro era in incubazione da decenni. La Gran Bretagna stette a guardare, mentre la Russia s’impegnava a mostrare il proprio appoggio alla Serbia, esattamente come Grey aveva predetto. «In Russia è sorto un forte sentimento slavo» aveva annotato solo pochi anni prima, riferendosi al crescere delle voci che nei Balcani chiamavano la Russia stessa a svolgere un ruolo più rilevante, come protettrice dell’identità slava nella regione. «Uno scontro sanguinoso tra Austria e Servia [sic] potrebbe sicuramente portare questo
sentimento a una soglia pericolosa.» 117 Era l’esca che poteva far divampare un incendio mondiale. In questa circostanza, quindi, mentre la Russia si preparava a dire qualcosa al resto del mondo, la Gran Bretagna dovette restare al suo posto dietro la sua alleata e rivale: una posizione di cui molti, peraltro, erano scontenti. Quando il conflitto scoppiò, Rupert Brooke – che di lì a poco sarebbe diventato famoso come poeta di guerra – riuscì a fatica a contenere il proprio furore. «Tutto va nella direzione sbagliata» scrisse. «Io voglio che la Germania riduca la Russia in pezzetti, e poi che la Francia sconfigga la Germania … la Russia significa la fine dell’Europa e di ogni decenza.» 118 Non aveva alcun dubbio su quale fosse il vero nemico della Gran Bretagna. L’inizio delle ostilità vide invece acuirsi l’animosità nei confronti della Germania: non solo nel 1914, ma lungo il corso della guerra e anche quando fu ristabilita la pace, dopo quattro terribili anni. Gli «antichi college di Oxford osservano / ragazzi spensierati giocare ai loro piedi» scrisse una poetessa di guerra, «ma quando le trombe squillarono – Guerra! / Essi lasciarono i giochi da parte». Rinunciarono ai «prati curati» dell’università in cambio di «una zolla insanguinata» e «diedero la loro allegra gioventù / a Dio e al loro paese». 119 Le celebrazioni dei legami tra Gran Bretagna e Germania e le lauree honoris causa conferite ai suoi figli più illustri divennero rapidamente un amaro ricordo, che era preferibile dimenticare. Non c’era quindi da stupirsi che la colpa della guerra venisse accollata interamente alla Germania, sia in teoria che in pratica. Racchiusa nel trattato di Versailles c’era una clausola categorica nell’indicare il colpevole di ciò che era accaduto: «Gli Alleati e i Governi Associati affermano, e la Germania accetta, la responsabilità della Germania e dei suoi alleati per aver causato tutte le perdite e i danni che gli Alleati e i Governi Associati e i loro cittadini hanno subito come conseguenza della guerra loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati». 120 Il suo scopo era porre le basi per raddrizzare i torti e pagare le dovute riparazioni, invece servì quasi solo a innescare una reazione, fornendo terreno fertile pronto a essere sfruttato da uno scaltro demagogo, capace di ricostituire il sentimento
nazionale intorno al nocciolo di una Germania che rinasceva con forza dalle sue ceneri. I vincitori furono tali solo di nome e nelle speranze. Nell’arco di quei quattro anni, la Gran Bretagna passò dalla condizione di più grande creditore del mondo a quella di maggior debitore; l’economia francese si ritrovò in rovine, dopo aver finanziato uno sforzo bellico che aveva sottoposto a un’enorme pressione la forza lavoro e le risorse naturali e finanziarie del paese. Nelle parole di uno studioso, la Russia nel frattempo «era entrata in guerra per proteggere il suo impero [ma] ne uscì con l’impero distrutto». 121 Il collasso delle potenze europee mise il mondo a disposizione di altri. Per far fronte al calo della produzione agricola e pagare armamenti e munizioni, gli Alleati si assunsero gravosi impegni finanziari, affidandosi a istituzioni come la statunitense J.P. Morgan & Company per assicurare un flusso costante di beni e materiale bellico. 122 La domanda di credito portò a una redistribuzione delle ricchezze altrettanto spettacolare di quella che aveva seguito la scoperta delle Americhe, quattrocento anni prima: un fiume di lingotti d’oro e di cambiali da pagare convogliò il denaro dall’Europa verso gli Stati Uniti. La guerra mandò in bancarotta il Vecchio Mondo e arricchì il Nuovo. Il tentativo di recuperare i danni a spese della Germania (fissate a un importo iperbolico, di fatto impossibile da pagare, equivalente a miliardi di dollari attuali) fu una mossa inutile e disperata per prevenire l’inevitabile: i partecipanti alla Grande Guerra svuotarono fino all’ultimo le rispettive tesorerie per tentare di distruggersi l’un l’altro e, nel farlo, distrussero sé stessi. 123 Quando quelle due pallottole uscirono dalla Browning di Princip, l’Europa era un continente di imperi: l’Italia, la Francia, l’AustriaUngheria, la Germania, la Russia, la Turchia ottomana, la Gran Bretagna, il Portogallo, l’Olanda e persino il piccolo Belgio, nato nel 1831, controllavano vasti territori nel resto del mondo. Nel momento dello scontro, ebbe inizio il processo che li fece ridiventare potenze regionali. Nel giro di pochi anni, se n’erano andati gli imperatori che a vicenda s’invitavano sui loro yacht e si appuntavano al petto le insegne di antichi ordini cavallereschi, ed erano scomparsi pure
colonie e possedimenti oltremare, mentre altri si preparavano a imboccare l’inevitabile strada verso l’indipendenza. Nei quattro anni di guerra furono circa 10 milioni i caduti in combattimento, e morì di fame e malattie. Per combattersi tra loro, Alleati e imperi centrali avevano dilapidato circa 200 miliardi di dollari. Le economie europee erano state stravolte da livelli di spesa senza precedenti, ulteriormente esacerbati dal crollo della produzione. I paesi coinvolti nel conflitto avevano registrato disavanzi e accumulato debiti a un ritmo forsennato, debiti che peraltro non potevano permettersi. 124 I grandi imperi che per quattro secoli avevano dominato il mondo non scomparvero dal giorno alla notte, ma era l’inizio della fine. Il crepuscolo era imminente. Il velo d’ombra dal quale l’Europa occidentale era emersa qualche secolo prima stava per calare di nuovo su di essa. L’esperienza della guerra aveva sconvolto tutto, e aveva reso il controllo delle Vie della Seta e delle loro ricchezze più cruciale che mai.
XVII
LA VIA DELL’ORO NERO
Pochi dei compagni di classe di William Knox D’Arcy alla prestigiosa Westminster School di Londra devono aver pensato che avrebbe avuto un ruolo importante nel rimodellare il mondo, soprattutto quando, nel settembre 1866, non lo videro arrivare alla prima lezione dell’anno. Il padre di William era rimasto coinvolto in qualche sgradevole faccenda nel Devon, che lo aveva spinto a dichiarare bancarotta e a trasferirsi con l’intera famiglia nella tranquilla città di Rockhampton, nel Queensland australiano, per iniziare una nuova vita. Il figlio adolescente continuò i suoi studi serenamente e diligentemente, diventò avvocato e, a tempo debito, iniziò a esercitare la professione. Condusse un’esistenza agiata e da onesto membro della comunità locale, partecipando al direttivo del Rockhampton Jockey Club e indulgendo alla passione per la caccia tutte le volte che poteva. Nel 1882 William ebbe un colpo di fortuna. I tre fratelli Morgan stavano cercando di sfruttare quello che pensavano fosse un filone d’oro potenzialmente vasto sul monte Ironstone, a poco più di trenta chilometri da Rockhampton. Alla ricerca di capitali per costituire un’impresa mineraria, si erano rivolti al direttore della banca locale, il quale, a sua volta, li aveva indirizzati verso William Knox D’Arcy. Attratto dalla possibilità di un buon ritorno sul capitale, Knox D’Arcy formò una società con il direttore della banca e un altro amico comune e investì nel progetto dei fratelli Morgan. Nella fase iniziale, come per tutte le attività minerarie, era fondamentale avere sangue freddo, vista l’allarmante quantità di denaro che veniva inghiottita in attesa del successo. Ma i fratelli
Morgan persero ben presto la testa, disorientati dalla velocità con cui le loro sostanze si stavano esaurendo, e vendettero le loro quote agli altri tre soci. Lo fecero proprio nel momento sbagliato. Il giacimento d’oro nel monte Ironstone, già ribattezzato «monte Morgan», si rivelò uno dei più ricchi della storia. Il valore delle azioni vendute crebbe di duemila volte, e nell’arco di dieci anni il rendimento dell’investimento iniziale schizzò fino al 200.000 per cento. Knox D’Arcy, che controllava più azioni dei suoi partner e oltre un terzo della società, passò dalla condizione di avvocato in una piccola città dell’Australia a quella di uno degli uomini più ricchi del mondo. 1 Qualche tempo dopo Knox D’Arcy decise di fare le valigie e di lasciare l’Australia, per tornare trionfante in Inghilterra. Comprò una magnifica casa al 42 di Grosvenor Square di Londra e una sufficientemente maestosa tenuta a Stanmore Hall, appena fuori città. La fece ristrutturare e adornare con gli arredi più eleganti che i soldi potessero comprare e affidò la sistemazione degli interni alla Morris & Company, l’azienda fondata da William Morris. La qualità degli arazzi che Knox D’Arcy commissionò a Edward Burne-Jones era talmente elevata che la loro realizzazione richiese quattro anni. Il loro soggetto non poteva essere più appropriato: celebravano la ricerca del Santo Graal, simbolo perfetto della scoperta di un tesoro di inestimabile valore. 2 Knox D’Arcy sapeva godersi la vita: affittò una riserva di caccia a Norfolk e si fece assegnare un palco sulla linea del traguardo all’ippodromo di Epsom. Due ritratti alla National Portrait Gallery catturano perfettamente la sua indole. In uno lo vediamo seduto, appoggiato all’indietro con aria soddisfatta, un sorriso gioviale sul volto, un generoso girovita a testimoniare il piacere della buona tavola e degli ottimi vini; nell’altro si protende in avanti, come se volesse condividere con un amico le storie delle sue avventure nel mondo degli affari, davanti a una coppa di champagne e con la sigaretta fra le dita. 3 Il successo e la straordinaria ricchezza lo resero l’uomo giusto da cercare per coloro che, come i fratelli Morgan, avevano bisogno di investitori. Uno di questi fu Antoine Kitabgi, un funzionario ben
introdotto nell’amministrazione persiana, che conobbe Knox D’Arcy verso la fine del 1900 grazie a Sir Henry Drummond-Wolff, ex inviato britannico a Teheran. Pur essendo un cattolico di origine georgiana, Kitabgi se l’era cavata bene in Persia, facendo carriera fino a diventare direttore generale della dogana persiana, ed era un uomo con le mani in pasta un po’ ovunque. Aveva già avuto un ruolo in diversi tentativi di attirare capitali dall’estero per stimolare l’economia, negoziando o tentando di negoziare concessioni per gli stranieri che volessero inserirsi nel settore bancario o in quello della produzione e distribuzione del tabacco. 4 Tanto impegno non era motivato solo dall’altruismo o dal patriottismo, perché uomini come Kitabgi erano ben consapevoli che per trasformare i loro contatti in lucrose prebende gli affari dovevano andare in porto. La loro specialità consisteva nell’aprire porte in cambio di denaro, cosa che era fonte di profonda irritazione a Londra, a Parigi, a San Pietroburgo e a Berlino, dove diplomatici, politici e imprenditori trovavano il modo di operare dei persiani piuttosto opaco, se non totalmente corrotto. Gli sforzi per modernizzare il paese non avevano sortito grandi progressi, mentre la vecchia tradizione di demandare a stranieri il comando delle forze armate o i ruoli chiave dell’amministrazione era causa di una generale frustrazione. 5 Ogni volta che la Persia faceva un passo avanti, sembrava farne anche uno indietro. Era facile criticare l’élite dominante, ma il suo modo di operare affondava le radici nel tempo. Lo scià e quelli del suo entourage erano come bambini troppo viziati: avevano imparato che, tenendo duro abbastanza a lungo, sarebbero stati ricompensati dalle grandi potenze, atterrite dall’idea di perdere posizione in una regione così strategicamente cruciale se non allargavano i cordoni della borsa. Nel 1902 lo scià Moẓaffar od-Dīn, non essendo stato insignito dell’ordine della Giarrettiera durante la sua visita in Inghilterra, si rifiutò di accettare qualunque altra onorificenza minore e lasciò il paese facendo sapere di essere «molto infelice», il che indusse i più alti diplomatici ad attivarsi per convincere il riluttante re Edoardo VII, dalla cui decisione dipendeva l’appartenenza all’ordine, a insignire lo scià dopo
il suo ritorno in patria. Ma le grane con quel «terribile soggetto» non erano finite: si scoprì, infatti, che lo scià non disponeva di calzoni al ginocchio, ritenuti essenziali per l’investitura, e la faccenda sarebbe andata ancora per le lunghe se un ingegnoso diplomatico non avesse scovato un precedente in cui il destinatario aveva ricevuto l’onorificenza indossando normali pantaloni. «Che incubo fu l’episodio della Giarrettiera» brontolò in seguito il ministro degli Esteri Lord Lansdowne. 6 Il fatto che in Persia la corruzione fosse all’ordine del giorno suscitava un certo scandalo, ma i persiani che a cavallo fra il XIX e il XX secolo sgambettavano avanti e indietro nei corridoi del potere e dei grandi centri finanziari europei non erano, per tanti versi, molto dissimili dai mercanti sogdiani dell’antichità, che percorrevano lunghe distanze per concludere affari, o dagli armeni e dagli ebrei che svolgevano lo stesso ruolo agli inizi dell’era moderna. L’unica differenza era che i sogdiani dovevano portarsi appresso le merci da vendere, mentre i loro omologhi persiani vendevano i loro servigi e i loro contatti, che venivano mercificati proprio per le ricche gratificazioni che se ne potevano ricavare. Se non ci fossero stati compratori, le cose sarebbero andate senz’altro in modo molto diverso, ma data la posizione della Persia, al crocevia tra Oriente e Occidente, in grado di collegare il golfo e l’India con la punta dell’Arabia, il Corno d’Africa e l’accesso al canale di Suez, non si poteva fare a meno, pur se a denti stretti, di corteggiarla. Quando Kitabgi, grazie ai buoni uffici di Drummond-Wolff, venne a contatto con Knox D’Arcy, che gli era stato descritto come «un capitalista di prim’ordine», non aveva in mente il tabacco persiano o le banche, ma le ricchezze minerarie. E Knox D’Arcy era la persona ideale con cui parlare. In Australia aveva trovato l’oro; adesso Kitabgi gli offriva la possibilità di trovarlo di nuovo, ma questa volta l’oro in palio era di colore nero. 7 L’esistenza di consistenti giacimenti di petrolio in Persia non era un segreto. Gli autori bizantini della tarda antichità avevano più volte descritto il potere distruttivo del «fuoco dei Medi», una sostanza
prodotta con il petrolio greggio verosimilmente ricavato da affioramenti superficiali nella Persia settentrionale, simile a quel «fuoco greco» che i bizantini ottenevano dai deflussi nella regione del mar Nero. 8 Le prime indagini geologiche sistematiche, compiute alla metà del XIX secolo, avevano evidenziato la probabilità dell’esistenza di notevoli giacimenti sotterranei e fatto sì che vari investitori ottenessero delle concessioni per le ricerche. Ad attirarli era la prospettiva di arricchirsi, in un momento in cui il mondo sembrava riversare i suoi tesori nelle mani dei cercatori fortunati, dal Gold Country, in California, al bacino di Witwatersrand, in Sudafrica. 9 Il barone Paul Julius Reuter, fondatore dell’omonima agenzia di stampa, fu tra coloro che si trasferirono in Persia. Nel 1872 Reuter acquisì «il privilegio esclusivo e definito» di estrarre tutto ciò che poteva dalle «miniere di carbone, ferro, rame, piombo e petrolio» di tutto il paese, e gli vennero concesse opzioni sulla costruzione di strade, opere pubbliche e altri progetti infrastrutturali. 10 Per un motivo o per l’altro, non se ne fece nulla. C’era un’accanita opposizione locale alla concessione delle licenze: leader populisti come Sayyid Jamāl al-Dīn al-Afghānī deploravano il fatto che «le redini del governo [venissero] consegnate ai nemici dell’islam». Come scrisse una delle tante voci critiche, «i regni dell’islam saranno presto sotto il controllo degli stranieri, che governeranno a loro piacimento e faranno ciò che vorranno». 11 Bisognava poi fare i conti anche con una forte pressione a livello internazionale, a causa della quale la concessione originale di Reuter fu dichiarata nulla e inefficace a distanza di appena un anno dalla firma dell’accordo. 12 Nel 1889, in cambio di sostanziosi «doni» in denaro allo scià e ai funzionari più importanti, oltre al pagamento delle royalty pattuite sui futuri profitti, Reuter ottenne una seconda concessione, che gli dava il diritto di sfruttare per dieci anni tutte le risorse minerarie della Persia, eccetto i metalli preziosi. Ma anche questa finì per scadere prima che gli sforzi per trovare giacimenti di petrolio di dimensioni tali da giustificare uno sfruttamento commerciale dessero risultati confortanti. Operare sul posto non era certo agevolato da quello che
un importante uomo d’affari britannico descrisse come «lo stato di arretratezza del paese e l’assenza di comunicazioni e trasporti», ulteriormente peggiorato dalla «diretta ostilità, dall’opposizione e dal risentimento degli alti funzionari del governo persiano». 13 Anche a Londra l’impresa non era vista con particolare favore. C’erano rischi a fare affari in questa parte del mondo, si leggeva in un promemoria a uso interno; chiunque si aspettasse di vedere le cose funzionare come in Europa era un povero sciocco. Ed «era solo colpa sua» se le aspettative rimanevano deluse, concludeva freddamente il documento. 14 Knox D’Arcy, tuttavia, guardava ancora con interesse alla proposta di Kitabgi. Studiò i risultati delle prospezioni dei geologi francesi, frutto di un’indagine sul territorio durata quasi un decennio, e si consultò con il dottor Boverton Redwood, uno dei maggiori esperti britannici di petrolio, autore di manuali sulla produzione petrolifera e sullo stoccaggio sicuro, il trasporto, la distribuzione e l’uso del greggio e dei suoi derivati. 15 Non c’era bisogno di fare tutte quelle indagini, assicurava nel frattempo Kitagbi a Drummond-Wolff, sostenendo che erano «in presenza di una fonte di ricchezze incalcolabili». 16 Ciò che Knox D’Arcy aveva letto e sentito fu sufficiente a catturare la sua attenzione e a indurlo a concludere un accordo con chi era in grado di fargli ottenere una concessione dallo scià, vale a dire Edouard Cotte – che aveva lavorato come agente per Reuter, ed era quindi un volto familiare nei circoli persiani – e lo stesso Kitabgi. Anche a Drummond-Wolff venne promessa un’ulteriore ricompensa, a patto che il progetto andasse in porto. Dopo essersi rivolto al Foreign Office per ottenere l’approvazione, Knox D’Arcy inviò prontamente a Teheran il suo rappresentante Alfred Marriott, per avviare i negoziati mediante una formale lettera di presentazione. La lettera di per sé non aveva un grande valore intrinseco, poiché chiedeva semplicemente che al suo latore venisse offerta tutta l’assistenza di cui potesse avere bisogno; ma in un mondo in cui i segnali erano a rischio di facili fraintendimenti, la firma del ministro degli Esteri era uno strumento potente, poiché suggeriva che dietro l’iniziativa di Knox ci fosse il governo britannico. 17 Marriott rimase
stupefatto davanti alla corte persiana. Il trono, scrisse nel suo diario, era «interamente incrostato di diamanti, zaffiri e smeraldi, e ci sono uccelli (non pavoni) ornati di gioielli su entrambi i lati»; almeno, era in grado di precisare, lo scià era «veramente un ottimo tiratore». 18 In effetti, il vero lavoro venne svolto da Kitabgi, che, stando a un rapporto, riuscì a garantire «in maniera assai scrupolosa il più ampio sostegno da parte di tutti i principali ministri e cortigiani dello scià, fino al domestico personale che porta a Sua Maestà la pipa e il caffè del mattino», un modo eufemistico per dire che aveva dovuto ungere parecchie ruote. Le cose stavano andando bene, così dissero a Knox D’Arcy: sembrava che una concessione petrolifera sarebbe stata «autorizzata dal governo persiano». 19 La strada per ottenere un accordo scritto era tortuosa. Ostacoli imprevisti spuntavano dal nulla, spingendo a inviare a Londra dispacci telegrafici per chiedere consiglio a Knox D’Arcy, nonché l’autorizzazione a pagare ancora di più. «Spero che approverà, perché rifiutare vorrebbe dire perdere l’affare» insisteva Marriott. «Non si faccia scrupolo di propormi qualsiasi cosa io possa fare per agevolare gli affari» rispondeva il destinatario. 20 Knox D’Arcy voleva dire che era contento di mettere mano al portafoglio, e disposto a fare tutto il necessario per ottenere ciò che voleva. Era impossibile stabilire, quando venivano avanzate nuove richieste o fatte delle promesse, chi fossero i veri beneficiari; giravano voci secondo le quali i russi avevano avuto sentore dei negoziati, in teoria condotti in gran segreto, e furono seminati falsi indizi per metterli fuori strada. 21 E poi, quasi senza preavviso, giunse la notizia (mentre Marriott era a una cena di gala a Teheran) che lo scià aveva firmato l’accordo. In cambio di 20.000 sterline, e dello stesso importo in azioni da versare non appena costituita la società, più una royalty annua del 16 per cento sui profitti netti, Knox D’Arcy, descritto nelle formalità legali come un uomo che «vive dei propri mezzi, residente in Londra al numero 42 di Grosvenor Square», ottenne diritti pressoché assoluti. Gli fu infatti concesso «uno speciale ed esclusivo privilegio per cercare, ottenere, sfruttare, sviluppare e rendere atto al commercio, trasportare e vendere, su tutto il territorio dell’impero persiano per un
periodo di 60 anni, gas naturale, petrolio, asfalto e ozocerite». In aggiunta, gli fu accordato il diritto esclusivo di costruire oleodotti, depositi per lo stoccaggio, raffinerie e stazioni di pompaggio. 22 Un successivo proclama reale annunciava che a Knox D’Arcy con «tutti i suoi eredi, aventi causa e amici» erano stati concessi «pieni poteri e libertà illimitata per un periodo di sessant’anni per «sondare, forare e trivellare a volontà le profondità del Suolo Persiano» e pregava «tutti i funzionari di questo regno benedetto» di aiutare un uomo che godeva «del favore della nostra splendida corte». 23 Gli erano state affidate le chiavi del regno; adesso il problema era se sarebbe riuscito a trovare la serratura. A Teheran, gli osservatori esperti erano ben poco convinti. Anche se «viene trovato il petrolio grezzo, come credono i loro agenti» annotava Sir Arthur Hardinge, rappresentante britannico in Persia, c’erano problemi enormi da affrontare. Valeva la pena ricordare, proseguiva Hardinge, che «negli ultimi anni il suolo persiano, contenesse o meno petrolio, si era riempito dei resti di così tanti promettenti progetti di rigenerazione commerciale e politica, che suonava avventato predire il futuro di questa nuova impresa». 24 Forse anche lo scià scommetteva sul fatto che l’affare avrebbe prodotto poco o nulla, e contava semplicemente di approfittare dei pagamenti anticipati come in passato. Senza dubbio, in quel momento la situazione economica della Persia era disastrosa: il governo si trovava a dover fronteggiare un grosso deficit di bilancio e un preoccupante disavanzo, sicché trovare scorciatoie per attingere dalle capaci tasche di Knox D’Arcy era una mossa che valeva la pena tentare. Era anche un periodo di profondi timori da parte del Foreign Office, che prestava assai meno attenzione a questa nuova concessione che non alle aperture di Teheran verso Londra – e anche, purtroppo, verso San Pietroburgo – negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. I russi reagirono male alla notizia della concessione ottenuta da Knox. In realtà erano quasi riusciti a mandare a monte l’affare quando lo zar aveva inviato un telegramma personale allo scià, esortandolo a fermare tutto. 25 Dal canto suo Knox D’Arcy, preoccupato di non
indispettire i russi con l’accordo, aveva dato direttive di escludere specificamente i diritti di sfruttamento nelle province del Nord, per «non fare ombra» al potente vicino settentrionale della Persia. Dal punto di vista di Londra, il timore era che la Russia avrebbe cercato di rimediare a questo smacco mostrandosi più accomodante che mai verso lo scià e i suoi dignitari. 26 Come ebbe modo di dire a Lord Lansdowne il rappresentante britannico a Teheran, l’aver ottenuto quella concessione poteva essere «foriero di conseguenze politiche ed economiche» se fosse stato trovato del petrolio in quantità significative. 27 Nessuno si nascondeva il fatto che la pressione stava a poco a poco salendo, nella rivalità tra le potenze in cerca di influenza e di risorse nell’area del golfo Persico. Nel breve termine la vicenda perse interesse, soprattutto perché il progetto di Knox D’Arcy sembrava destinato al fallimento. I lavori procedevano lentamente a causa del clima ingrato, del gran numero di festività religiose e dei continui e scoraggianti guasti meccanici degli impianti di trivellazione. Si manifestava inoltre un’aperta ostilità, che prendeva la forma di lamentele sul salario, sui metodi di lavoro e sul modesto numero di impieghi per la gente del posto, cui si aggiungevano continue noie con le tribù locali che volevano a loro volta farsi corrompere. 28 Knox D’Arcy cominciò a innervosirsi per la mancanza di progressi, a fronte della quantità di soldi che sborsava di tasca sua. «Grave ritardo,» telegrafò alla squadra addetta alle prospezioni, meno di un anno dopo l’accordo sulla concessione, «si prega di sveltire.» 29 Una settimana dopo inviò un altro dispaccio, chiedendo disperato all’ingegnere capo: «Avete libero accesso ai pozzi?». I registri della società mostrano che dalla Gran Bretagna venivano spediti grandi quantitativi di tubazioni, vanghe, incudini e acciaio, insieme a fucili, pistole e munizioni. Anche i fogli paga del 1901 e 1902 evidenziano il crescente aumento dei costi. Probabilmente, Knox D’Arcy si sentiva come se stesse seppellendo i suoi quattrini nella sabbia. 30 Se lui era in ambasce, lo erano anche i suoi banchieri alla Lloyds, sempre più allarmati dalle dimensioni dello scoperto di conto di
quell’uomo, che avevano ritenuto in possesso di fondi illimitati. 31 A peggiorare le cose, il fatto che c’era ben poco da mostrare, a fronte del duro lavoro e dei costi elevati: Knox D’Arcy aveva bisogno di convincere altri investitori ad acquistare quote del progetto, quindi doveva spremere al massimo le sue finanze per fornire i capitali necessari a mandare avanti i lavori. I suoi uomini stavano trovando tracce di petrolio che sembravano promettenti, ma c’era bisogno di un successo importante. In preda a una crescente disperazione, Knox D’Arcy si rivolse a vari potenziali investitori e anche a possibili acquirenti della concessione, andando fino a Cannes per discuterne con il barone Alphonse de Rothschild, la cui famiglia aveva già cospicui interessi nella zona petrolifera di Baku. Questo fece scattare i campanelli d’allarme a Londra, suscitando in particolare l’attenzione della Royal Navy. Sir John Fisher, Primo Lord del mare, ovvero comandante in capo della marina, si era assolutamente convinto che il futuro della guerra navale e il dominio dei mari si basassero sul passaggio dal carbone al petrolio. «Il combustibile ricavato dal petrolio» scrisse a un amico nel 1901 «rivoluzionerà completamente la strategia navale. È il caso di dire “Sveglia, Inghilterra!”.» 32 Pur in assenza di una scoperta risolutiva, c’erano tutte le evidenze per concludere che la Persia potesse essere una primaria fornitrice di petrolio. Se la Royal Navy fosse riuscita ad assicurarsene l’uso in esclusiva, tanto di guadagnato. Ma era comunque essenziale che il controllo di risorse così preziose non fosse lasciato in mani straniere. L’Ammiragliato entrò quindi in gioco come mediatore tra Knox D’Arcy e una compagnia petrolifera scozzese, che aveva ottenuto ottimi risultati in Birmania. Nel 1905, dopo l’offerta di un contratto per fornire alla Royal Navy 50.000 tonnellate di petrolio all’anno, la Burmah Oil Company fu convinta ad acquisire una quota rilevante di quello che fu rinominato Consorzio per le Concessioni. La società non accettò certo per puro spirito patriottico, ma per seguire una decisa strategia di diversificazione e perché i risultati precedenti le permettevano di raccogliere altri capitali. Anche se l’accordo permise a Knox D’Arcy di tirare un sospiro di sollievo, e di scrivere che i
termini che aveva negoziato «erano migliori di quelli che avrei potuto ottenere da qualunque altra compagnia», non c’era tuttora nessuna garanzia di successo, come annotava seccamente nei suoi rapporti il rappresentante britannico a Teheran, scettico incallito. Un conto era trovare il petrolio, un altro era far fronte ai persistenti tentativi di ricatto. 33 È un fatto che la nuova società non avesse granché da esibire, a fronte di tanto impegno, per i tre anni successivi. Le perforazioni non davano frutti, e intanto le spese erodevano la liquidità dei soci azionisti. Nella primavera del 1908 i dirigenti della Burmah Oil Company parlavano senza mezzi termini di andarsene dalla Persia. Il 14 maggio scrissero a George Reynolds, il responsabile dei lavori sul campo – un uomo descritto da coloro che lavoravano con lui come deciso e risoluto, fatto di «solida quercia britannica» –, di prepararsi ad abbandonare le attività di ricerca. Gli dissero di scavare ancora nei due pozzi realizzati a Masjed Soleymān, fino a una profondità di circa 500 metri. Se non trovava petrolio neanche lì, doveva «interrompere le attività, chiudere tutto e recuperare il più possibile delle attrezzature» per poi spedirle in Birmania, dove sarebbero state più utili. 34 Mentre la lettera era in viaggio da una stazione di posta all’altra, dall’Europa al Levante, per raggiungere la Persia, Reynolds proseguì il lavoro, ignaro di essere sul punto di doverlo interrompere. La sua squadra continuò a scavare, facendosi strada attraverso gli strati rocciosi con tale forza che la punta della trivella si staccò, rimanendo conficcata nel terreno per diversi giorni, mentre la lancetta dei minuti correva, finché fu recuperata e rimessa a posto. Il 28 maggio, alle quattro del mattino, gli uomini di Reynolds arrivarono al giacimento principale e trovarono il petrolio, facendo schizzare in cielo un getto altissimo di oro nero. Fu una scoperta decisiva. 35 Arnold Wilson, tenente dell’esercito britannico e responsabile della sicurezza del sito petrolifero, inviò a casa un telegramma cifrato con cui comunicò la notizia. Il messaggio diceva solo: «Vedi Salmo 104, versetto 15, seconda frase». 36 Nel versetto s’implorava il Signore di far scaturire olio dalla terra, per far risplendere i volti di felicità. La scoperta, disse l’ufficiale al padre, prometteva favolosi profitti per la
Gran Bretagna, aggiungendo che sperava fosse lo stesso anche per i tecnici «che avevano perseverato così a lungo, a dispetto dei loro direttori in abito di gala … in quel clima inospitale». 37 Quando le quote furono messe in vendita, nel 1909, gli investitori che fecero a gara per entrare nella Anglo-Persian Oil Company, la struttura che amministrava i diritti della concessione, stimarono che il pozzo di Masjed Soleymān fosse solo la punta dell’iceberg e che il futuro avrebbe riservato lauti guadagni. Naturalmente ci sarebbero voluti tempo e denaro per costruire le infrastrutture necessarie all’esportazione del petrolio, oltre che per scavare nuovi pozzi e cercare nuovi giacimenti. Inoltre, non era impresa da poco far andare tutto liscio sul campo, dove il tenente Wilson lamentava di dover passare il tempo a colmare il gap culturale tra gli inglesi «che non possono dire ciò che pensano, e i persiani che non sempre intendono ciò che dicono». I britannici, sosteneva Wilson, vedevano un contratto come un accordo da difendere in tribunale, mentre per i persiani si trattava solo di una dichiarazione di intenti. 38 In ogni caso, fu ben presto costruito un oleodotto che univa il primo campo petrolifero all’isola di Ābādān, sul fiume Shaṭṭ al-‘Arab, dove si scelse di installare una raffineria e un centro per l’esportazione. Grazie all’oleodotto, il petrolio giungeva nel golfo Persico, veniva imbarcato sulle navi e venduto in Europa proprio in un periodo in cui i fabbisogni energetici del continente erano in rapido aumento. L’oleodotto in sé era altamente simbolico: segnava infatti il primo filo di quella che doveva diventare una ragnatela di oleodotti stesa come un reticolo su tutta l’Asia, per dare nuova forma e vita alla antiche Vie della Seta. I problemi, tuttavia, erano dietro l’angolo. La scoperta del petrolio trasformò il pezzo di carta firmato dallo scià nel 1901 in uno dei documenti più importanti del XX secolo. E se da un lato pose le basi per lo sviluppo di un’attività del valore di molti miliardi di dollari – fu dalla Anglo-Persian Oil Company che in seguito nacque la BP (British Petroleum) –, dall’altro preparò la strada agli sconvolgimenti politici. Il fatto che i termini dell’accordo mettessero nelle mani degli investitori stranieri i gioielli della Corona persiana generò nel paese
un odio profondo e inestinguibile nei confronti del mondo esterno, gettando le basi del nazionalismo e, in ultima analisi, di quell’accentuato sospetto e rifiuto dell’Occidente la cui espressione più recente è proprio il moderno fondamentalismo islamico. La volontà di controllare il flusso del petrolio sarebbe stata in futuro causa di numerosi problemi. Sul piano umano, la concessione di Knox D’Arcy è una straordinaria vicenda di fiuto per gli affari e di trionfo sulle probabilità avverse, ma, su scala globale, il suo significato è identico a quello della scoperta di Cristoforo Colombo nel 1492. Anche allora i conquistadores s’impadronirono di immensi tesori e ricchezze per portarli in Europa. La stessa storia si ripeté con il petrolio. Uno dei motivi fu il diretto interesse dell’ammiraglio Fisher e della Royal Navy, che seguivano la situazione in Persia molto da vicino. Quando nel 1912 la Anglo-Persian ebbe problemi di liquidità, Fisher intervenne immediatamente, nel timore che l’affare del petrolio potesse finire in mano a produttori come la Royal Dutch/Shell, che a partire da una base iniziale nelle Indie Orientali olandesi aveva costituito una solida rete di produzione e distribuzione. Fisher andò a parlarne con il Primo Lord dell’Ammiragliato, il responsabile politico della marina, la cui stella era in ascesa, per convincerlo a cambiare il sistema di propulsione delle navi da battaglia, passando dalle caldaie a vapore alimentate a carbone ai motori a combustibile liquido, cioè a petrolio. Il petrolio era il futuro, dichiarò l’ammiraglio; lo si poteva immagazzinare in grandi quantità ed era economico. Ma la cosa più importante era che permetteva alle navi di andare più veloci. La guerra navale era «puro buon senso», disse Fisher. «La prima necessità in assoluto è la VELOCITÀ , in modo da poter combattere quando vogliamo, dove vogliamo e come vogliamo.» La velocità avrebbe consentito alle navi inglesi di sopravanzare in manovra le navi nemiche e di ottenere così un vantaggio decisivo in battaglia. 39 Nell’ascoltare le parole di Fisher, Winston Churchill ne capì bene il significato. Con il passaggio all’olio combustibile, la potenza e l’efficienza della Royal Navy avrebbero raggiunto «un livello decisamente più elevato:
navi migliori, equipaggi migliori, maggiori risparmi, nuovi e più vigorosi modelli di potenza bellica». Ciò voleva dire, annotò Churchill, che in gioco c’era nientemeno che la supremazia sui mari. 40 In un momento in cui la tensione nelle relazioni internazionali era in rialzo e uno scontro, in una forma o nell’altra, sembrava sempre più probabile in Europa o altrove, si rifletté a fondo su come non farsi sfuggire l’occasione di acquisire un vantaggio. Nell’estate del 1913 Churchill presentò al Consiglio dei ministri un documento intitolato «Il rifornimento di olio combustibile per la Marina di Sua Maestà». La soluzione, sosteneva in quelle pagine, era comprare in anticipo il carburante da un’ampia gamma di produttori, valutando anche la possibilità di assumere «il controllo di maggioranza di fonti di rifornimento affidabili». Il dibattito che ne seguì non raggiunse una conclusione definitiva, a parte un accordo sul fatto che «l’Ammiragliato dovrebbe garantirsi rifornimenti di petrolio … dall’area più vasta e dal numero di fornitori più ampio possibile». 41 Meno di un mese dopo, le cose erano già cambiate. Il primo ministro adesso si era convinto, insieme ai suoi ministri, che il petrolio fosse una «necessità vitale» del futuro. Comunicò quindi al re Giorgio V, in uno dei regolari rapporti sugli sviluppi degni di nota degli affari in corso, che il governo stava per assumere il controllo di maggioranza della Anglo-Persian, allo scopo di garantirsi «fonti di rifornimento affidabili». 42 Churchill sostenne calorosamente la sua causa. Assicurarsi le forniture di petrolio non era una questione che riguardasse solo la marina: si trattava di salvaguardare il futuro della Gran Bretagna. Per quanto si rendesse conto che il carbone era un pilastro del successo dell’impero, era il petrolio la risorsa da cui tutto o quasi dipendeva. «Se non riusciamo ad avere il petrolio,» disse Churchill al Parlamento nel luglio 1913 «non riusciremo ad avere il grano, il cotone e i mille altri beni necessari a preservare la forza economica della Gran Bretagna.» Occorreva anche costituire delle riserve, in caso di guerra; ma non si poteva fare affidamento sul libero mercato, visto che per opera degli speculatori stava diventando «un’autentica presa in giro». 43
Anglo-Persian sembrava perciò offrire la soluzione a diversi problemi. La sua concessione era «più che solida» e, disponendo di fondi sufficienti, si poteva probabilmente «ampliarla su scala gigantesca» sosteneva l’ammiraglio Sir Edmond Slade, ex direttore dell’intelligence navale e capo della task force incaricata di portare a termine l’acquisizione della compagnia. Il controllo della AngloPersian, con la garanzia delle forniture di combustibile che comportava, sarebbe stato una manna dal cielo per la marina. La chiave, riteneva Slade, era rilevare una quota di maggioranza «a un costo molto ragionevole». 44 Le trattative con la Anglo-Persian furono abbastanza spedite da far sì che il governo britannico, per l’estate del 1914, fosse in grado di acquisire una quota del 51 per cento, e ottenere così il controllo operativo delle attività. L’eloquenza di Churchill alla Camera dei Comuni fu premiata da una larga maggioranza di voti favorevoli. E in questo modo le alte sfere politiche e militari britanniche poterono trarre conforto dalla consapevolezza di avere accesso a risorse petrolifere vitali, in un eventuale conflitto futuro. Undici giorni dopo, Francesco Ferdinando veniva assassinato a Sarajevo. Nel turbine di eventi che precedettero lo scoppio della guerra, era facile che i passi compiuti dalla Gran Bretagna per mettere al sicuro le proprie fonti di energia apparissero di scarsa importanza. Ciò accadde in parte perché pochi si resero conto degli accordi stretti dietro le quinte: oltre a rilevare la quota maggioritaria della Anglo-Persian, il governo britannico aveva anche preso accordi in segreto per una fornitura ventennale di petrolio all’Ammiragliato. Ciò significava che le navi della Royal Navy che presero il mare nell’estate del 1914 lo fecero con la sicurezza di poter contare sui rifornimenti di carburante, se il confronto con la Germania si fosse protratto nel tempo. Il passaggio al nuovo sistema di propulsione rese il naviglio britannico più veloce e migliore di quello rivale, ma il vantaggio più importante era quello di poter rimanere in navigazione. Non per niente Lord Curzon, in un discorso che tenne a Londra durante un cena di gala nel novembre 1918, meno di quindici giorni dopo l’accordo per l’armistizio, disse agli illustri commensali che «la causa alleata ha
navigato fino alla vittoria su un mare di petrolio». Un importante senatore francese si disse d’accordo, esultante. La Germania aveva prestato troppa attenzione a ferro e carbone, dichiarò il senatore, e troppo poca al petrolio: il petrolio era il sangue della terra, aggiunse, e il sangue stesso della vittoria. 45 C’era del vero in questo discorso. L’interesse degli storici militari si è focalizzato sui campi di battaglia insanguinati delle Fiandre, ma quello che accadde nel cuore dell’Asia ebbe maggiore rilevanza per l’esito finale della Grande Guerra, e fu ancora più importante per il periodo successivo. Non appena vennero sparati i primi colpi in Belgio e nella Francia settentrionale, gli Ottomani si chiesero quale poteva essere il loro ruolo nello scontro che si stava allargando all’intera Europa. La posizione del sultano era categorica – l’impero doveva restare fuori dalla guerra –, ma altre voci insistevano che la scelta migliore fosse cementare con un’alleanza i tradizionali, saldi legami con la Germania. Mentre le grandi potenze europee erano impegnate a scambiarsi ultimatum e a dichiararsi guerra a vicenda, Enver Pascià, l’imprevedibile ministro della Guerra ottomano, si mise in contatto con il comandante del quartier generale di Baghdad per avvertirlo di quello che poteva succedere. «Una guerra con l’Inghilterra rientra ormai nel novero delle possibilità» scrisse il ministro. Se si fossero aperte le ostilità, proseguì, occorreva incitare i leader arabi a scendere in campo in una guerra santa, a fianco dell’esercito ottomano. E il popolo persiano doveva essere chiamato a ribellarsi contro il «dominio russo e inglese». 46 In questo contesto non può stupire che, poche settimane dopo l’inizio del conflitto, una divisione britannica venisse inviata da Bombay ad Ābādān, per proteggere gli oleodotti e i campi petroliferi. Il passo successivo, nel novembre 1914, fu occupare un obiettivo strategicamente sensibile come la città di Bassora, dove nel corso di un alzabandiera Sir Percy Cox arringò gli abitanti dicendo che «nulla qui rimane dell’amministrazione turca. Al suo posto sventola ora la bandiera britannica, sotto la quale voi godrete dei benefici della libertà e della giustizia, sia nelle questioni religiose che in quelle secolari». 47 In realtà, i costumi e le credenze della popolazione locale contavano
ben poco; l’importante era proteggere l’accesso alle risorse naturali della regione. Consapevoli di quanto fosse fragile la loro posizione in quell’area, i britannici presero contatti con alcuni personaggi chiave del mondo arabo, tra i quali Ḥusayn, sceriffo di Mecca, cui fu proposto un accordo allettante: se Ḥusayn «e gli Arabi in generale» avessero appoggiato Londra contro i turchi, la Gran Bretagna «avrebbe garantito l’indipendenza, i diritti e i privilegi dello sceriffato contro qualunque aggressione esterna, in particolare da parte degli Ottomani». E non era tutto, perché sul piatto fu messo un altro e ancora più appetibile incentivo: era forse venuto il tempo in cui «un vero Arabo di pura razza ascendesse al califfato di Mecca o di Medina». In cambio del suo aiuto, a Ḥusayn – guardiano della città santa di Mecca e membro della tribù dei Quraysh, nonché discendente di Hāshim, il bisavolo del profeta Maometto in persona – veniva offerto un impero. 48 Gli inglesi, in realtà, non intendevano esattamente questo, né erano in grado di offrirlo veramente. Ma già agli inizi del 1915, quando le cose presero una brutta piega, erano pronti a lusingare lo sceriffo. Ciò in parte perché l’atteso rapido trionfo in Europa non si era verificato, ma anche perché gli Ottomani stavano ora iniziando a contrattaccare le posizioni britanniche sia nel golfo Persico, sia – cosa più preoccupante – in Egitto, minacciando così il canale di Suez, l’arteria che permetteva alle navi provenienti dall’Oriente di arrivare in Europa con settimane d’anticipo, rispetto alla circumnavigazione dell’Africa. Per distogliere le forze e l’attenzione degli Ottomani, i britannici decisero di organizzare uno sbarco di truppe nel Mediterraneo orientale, per aprire un nuovo fronte. In questo quadro, trovare accordi con chiunque fosse in grado di alleggerire la pressione sulle forze alleate sembrava una scelta ovvia, ed era facile fare grandi promesse di ricompense da elargire solo in un futuro lontano. A Londra si facevano analoghi calcoli a proposito dell’espansione russa. Per quanto gli orrori della guerra fossero ben presto evidenti, in Gran Bretagna alcune eminenti figure temevano che il conflitto finisse troppo presto. L’ex primo ministro Arthur Balfour temeva che una
rapida disfatta della Germania rendesse la Russia ancora più pericolosa, nutrendone le ambizioni al punto da farla diventare un pericolo per l’India. E le preoccupazioni non erano finite: a Balfour erano giunte voci secondo le quali un gruppo di potere legato al governo di San Pietroburgo stava cercando di trovare un accordo con la Germania, eventualità che, a suo giudizio, sarebbe stata altrettanto disastrosa che perdere la guerra. 49 Le preoccupazioni riguardo alla Russia si traducevano nell’assoluta necessità di non perderne l’alleanza. La prospettiva di arrivare al controllo di Costantinopoli e dei Dardanelli era l’esca perfetta per mantenere saldi i legami tra gli Alleati, e attirare l’attenzione del governo zarista su una questione altamente delicata. Per quanto la Russia fosse potente, aveva un tallone d’Achille nella mancanza di porti nei mari caldi, a eccezione del mar Nero, collegato al Mediterraneo prima dal Bosforo e poi dai Dardanelli, le anguste lingue di mare che alle due estremità del mar di Marmara dividono l’Europa dall’Asia. Questi due canali erano un collegamento vitale, in quanto univano i campi di grano della Russia meridionale ai mercati esteri. La chiusura dei Dardanelli, a seguito della quale il frumento era rimasto a marcire nei magazzini, aveva inflitto danni devastanti all’economia durante la guerra dei Balcani del 1912-13, facendo sì che a San Pietroburgo si discutesse se dichiarare guerra all’impero ottomano, che aveva il controllo degli stretti. 50 I russi furono perciò ben lieti che gli inglesi, alla fine del 1914, sollevassero la questione del futuro di Costantinopoli e dei Dardanelli. Questo era il «bottino più succoso di tutta la guerra» comunicò l’ambasciatore britannico ai funzionari dello zar. Una volta terminato il conflitto, il controllo doveva passare alla Russia, a patto che Costantinopoli rimanesse un porto franco per «le merci in transito da e per il territorio non russo», e che fosse garantita la «libertà di commercio per le navi mercantili che attraversavano gli stretti». 51 Sebbene non vi fosse traccia di una possibile svolta decisiva sul fronte occidentale, dove entrambe le parti stavano ancora subendo perdite straordinariamente pesanti e si prospettavano altri anni di carneficine, gli Alleati erano già seduti intorno a un tavolo a spartirsi
terre e beni del nemico. Verrebbe da sorridere amaramente, pensando alle accuse di imperialismo rivolte alla Germania e ai suoi alleati dopo l’armistizio del 1918, quando a pochi mesi dall’inizio della guerra gli Alleati stavano già pensando a banchettare sui resti dei rivali sconfitti. A questo proposito, c’era in ballo molto più che sventolare sotto il naso dei russi le carote di Costantinopoli e dei Dardanelli. Lo dimostra la commissione costituita all’inizio del 1915, sotto la presidenza di Sir Maurice de Bunsen, con il compito di formulare proposte sul futuro dell’impero ottomano una volta ottenuta la vittoria. Parte del trucco consisteva nel fare spartizioni soddisfacenti per coloro che al momento erano alleati, ma che in passato erano stati rivali e potevano esserlo anche in futuro. Non si doveva fare nulla, scrisse Sir Edward Grey, che potesse indurre sospetti su eventuali mire britanniche sulla Siria. «Avanzare una qualunque pretesa in Siria e in Libano» scriveva Grey «vorrebbe dire una rottura con la Francia», dato che molte aziende francesi avevano effettuato sostanziosi investimenti in quei paesi nel XVIII e nel XIX secolo. 52 Così, per dimostrare la solidarietà britannica alla Russia e prevenire contrasti con la Francia sulla sua sfera d’influenza in Siria, si decise di far sbarcare un folto contingente di truppe inglesi, australiane e neozelandesi non ad Alessandretta (nell’attuale Turchia sudorientale), com’era stato pianificato in un primo tempo, ma sulla Penisola di Gallipoli, all’imbocco dello stretto dei Dardanelli, che proteggeva l’accesso a Costantinopoli. 53 Il luogo dello sbarco si rivelò singolarmente inadatto come base di partenza per una grande offensiva, e divenne una trappola mortale per molti di coloro che cercarono di farsi strada verso l’entroterra, avanzando in salita contro le ben fortificate postazioni turche. Alle origini della disastrosa campagna che ne seguì c’era lo scontro per prendere il controllo delle vie di comunicazione e commerciali che collegavano l’Europa con il Vicino Oriente e l’Asia. 54 Il futuro di Costantinopoli e dei Dardanelli era stato deciso; restava da stabilire quello del Medio Oriente. Nel corso di una serie di incontri tra la seconda metà del 1915 e gli inizi del 1916, furono Sir Mark Sykes, un parlamentare fin troppo sicuro di sé che godeva
dell’attenzione di Lord Kitchener, il ministro della Guerra, e François Georges-Picot, un arrogante diplomatico francese, a spartirsi la regione. I due concordarono il tracciato di una linea che da Acri (nell’estremo Nord dell’attuale Israele), proseguendo in direzione nordest, giungeva fino alla frontiera con la Persia. I francesi avrebbero avuto mano libera in Siria e in Libano; gli inglesi in Mesopotamia, in Palestina e a Suez. Questo modo di dividersi le spoglie era pericoloso, perché mandava tra l’altro messaggi contraddittori sul futuro della regione. C’era Ḥusayn, cui veniva tuttora offerta l’indipendenza del popolo arabo e il ripristino di un califfato, con lui alla testa; c’erano i popoli di «Arabia, Armenia, Mesopotamia, Siria e Palestina», per i quali il primo ministro britannico s’impegnava a rivendicare pubblicamente «il diritto al riconoscimento della … condizione di nazioni separate», apparentemente una promessa di sovranità e indipendenza. 55 C’erano gli Stati Uniti, ai quali inglesi e francesi avevano ripetutamente assicurato che stavano combattendo «non per interessi egoistici, ma prima di tutto per salvaguardare l’indipendenza dei popoli, il diritto e l’umanità». Sia la Gran Bretagna sia la Francia proclamavano orgogliosamente di mirare a nobili scopi e di lottare per liberare «le popolazioni soggette alla sanguinosa tirannia dei Turchi», stando al «Times» di Londra. 56 «Era completamente sbagliato» scrisse Edward House, consigliere per la politica estera del presidente Wilson, quando fu informato dal ministro degli Esteri britannico dell’accordo segreto. Francesi e inglesi «stanno gettando [in Medio Oriente] i semi di una futura guerra». 57 Non aveva torto.
Alla radice del problema c’era il fatto che la Gran Bretagna sapeva qual era la posta in gioco, e a rivelarglielo erano le risorse naturali scoperte in Persia, e che anche la Mesopotamia sembrava possedere. Una concessione petrolifera per quest’ultima fu approvata (anche se non formalmente ratificata) il giorno stesso dell’assassinio di Francesco Ferdinando, nel giugno 1914. Fu assegnata a un consorzio guidato dalla Turkish Petroleum Company, di cui era azionista di maggioranza la Anglo-Persian; le quote di minoranza erano detenute
dalla Royal Dutch/Shell e dalla Deutsche Bank, tranne una piccola parte assegnata a Calouste Gulbenkian, l’intermediario d’eccezione che aveva preparato l’accordo. 58 Al di là di qualunque promessa o impegno preso nei confronti dei popoli e delle nazioni mediorientali, la verità era che il futuro assetto di quelle terre lo stavano inventando dietro le quinte alti funzionari, politici e uomini d’affari con in mente una cosa sola: assicurarsi il controllo del petrolio e degli oleodotti necessari a pomparlo fino ai porti, dove veniva caricato sulle petroliere. Ai tedeschi non sfuggì quello che stava accadendo. Un documento riservato, che finì poi in mani britanniche, asseriva che la Gran Bretagna aveva due obiettivi strategici principali: il primo era mantenere il controllo del canale di Suez, il cui valore sia strategico sia commerciale era unico; il secondo era assicurarsi la disponibilità dei campi petroliferi della Persia e del Medio Oriente. 59 La valutazione era sagace. Il vastissimo impero transcontinentale britannico si estendeva su quasi un quarto del globo, ma a dispetto dei tanti e diversi climi, ecosistemi e risorse che comprendeva, era privo di una cosa fondamentale: il petrolio. Per la Gran Bretagna, la guerra era l’occasione per porre rimedio alla mancanza di giacimenti significativi in qualunque parte dell’impero. «L’unica grande fornitura potenziale» scrisse Sir Maurice Hankey, pedante segretario del Consiglio di guerra, «è quella della Persia e della Mesopotamia.» Di conseguenza, prendere il «controllo di questi giacimenti petroliferi diviene uno degli scopi primari della guerra». 60 Da un punto di vista militare non c’era nulla da guadagnare in quella regione, ribadì Hankey scrivendo lo stesso giorno al primo ministro David Lloyd George, ma la Gran Bretagna doveva agire con decisione se voleva «assicurarsi i preziosi pozzi petroliferi» della Mesopotamia. 61 Non c’era sicuramente bisogno di insistere. Prima che la guerra finisse, il ministro degli Esteri britannico ebbe modo di esprimere con chiarezza la sua visione del futuro. Ci sarebbero stati senza dubbio problemi da risolvere, a proposito dello smembramento degli imperi avversari. «Non mi importa» disse il ministro a un uditorio di alto
rango «con quale regime terremo il petrolio, se per mezzo di una concessione perpetua o di qualunque altro sistema, ma mi è molto chiaro quanto sia importante per noi poter disporre di quei giacimenti.» 62 C’erano fondati motivi dietro a tanta risolutezza, e ai timori che vi erano sottesi. All’inizio del 1915 l’Ammiragliato consumava 80.000 tonnellate di petrolio al mese. Due anni dopo, a causa di un maggior numero di navi in servizio e della proliferazione di motori a olio combustibile, il quantitativo era più che raddoppiato, fino a toccare le 190.000 tonnellate. Le esigenze dell’esercito erano cresciute in modo ancora più spettacolare, dal momento che le 100 unità del parco veicoli in uso nel 1914 si erano moltiplicate fino a raggiungere le decine di migliaia. Nel 1916 le riserve petrolifere britanniche erano quasi esaurite: dai circa 136 milioni di litri registrati al 1° gennaio, si era scesi sei mesi dopo a circa 72 milioni, per precipitare nel giro di un altro mese a soli 47 milioni. 63 Una commissione governativa che esaminò il probabile fabbisogno dei successivi dodici mesi concluse, in base alle stime, che sarebbe stato possibile soddisfare a malapena la metà della domanda. 64 L’introduzione del razionamento del combustibile ebbe un effetto immediato, contribuendo a stabilizzare lo stock disponibile; ciononostante, le continue preoccupazioni per una carenza di rifornimenti spinsero il Primo Lord del mare, nella primavera del 1917, a ordinare alla Royal Navy di trascorrere il maggior tempo possibile in porto, e di limitare la velocità di crociera in navigazione a venti nodi. La precarietà della situazione fu messa ancor più in evidenza dalle proiezioni elaborate nel mese di giugno, in base alle quali per la fine dell’anno l’Ammiragliato avrebbe avuto a disposizione scorte di carburante per sole sei settimane. 65 Ad aggravare ulteriormente la congiuntura si era aggiunta la guerra sottomarina, condotta con efficacia dai tedeschi. La Gran Bretagna stava importando sempre più petrolio (a prezzi sempre più elevati) dagli Stati Uniti, ma molte delle petroliere non arrivavano a destinazione. I sommergibili tedeschi erano riusciti ad affondare «così tante navi cariche di petrolio», scriveva nel 1917 Walter Page,
ambasciatore statunitense a Londra, che «questo paese potrebbe trovarsi ben presto in una condizione molto pericolosa». 66 La rapida meccanizzazione del conflitto, dal 1914 in poi, era stata accompagnata da un’evoluzione tecnologica che aveva prodotto motori più veloci e più efficienti. Entrambe erano avvenute sotto la spinta della feroce guerra terrestre dei teatri europei. Ma l’aumento dei consumi indicava chiaramente che il problema dell’accesso al petrolio, già rilevante prima dello scoppio delle ostilità, era diventato ora un fattore fondamentale – se non addirittura quello decisivo – della politica internazionale britannica. Alcuni politici di Londra nutrivano grandi speranze in ciò che riservava il futuro. Nel 1917 un pubblico amministratore di grande esperienza come Percy Cox, che aveva prestato servizio nella Persia orientale e conosceva bene il paese, sosteneva che la Gran Bretagna aveva l’opportunità di rinsaldare la presa sul golfo Persico così fermamente da escludere per sempre russi, francesi, giapponesi, tedeschi e turchi. 67 Pertanto, se l’implosione della Russia a causa della Rivoluzione bolscevica del 1917 e il successivo accordo di pace separato con la Germania, dopo che Lenin e i suoi ebbero preso il potere, costituivano fonte di gravi timori per l’andamento della guerra in Europa, forse non tutto il male veniva per nuocere. Come disse Lord Balfour al primo ministro nell’estate del 1918, sotto il governo autocratico degli zar la Russia era stata «un pericolo per i paesi confinanti, e per noi più di ogni altro». 68 Il suo crollo era una buona notizia per la posizione inglese in Oriente, perché c’era finalmente una reale opportunità di consolidare il controllo dell’intera regione che si estendeva tra Suez e l’India, e in tal modo proteggere l’uno e l’altra.
XVIII
LA VIA AL COMPROMESSO
In Persia i britannici erano decisi a insediare un uomo forte e affidabile, che servisse al meglio i loro interessi. Un personaggio autorevole della corte attirò immediatamente la loro attenzione: il principe Farman Farma, la cui considerevole ricchezza, investita in gran parte in titoli quotati alla borsa di Londra, era strettamente legata al perdurare del buono stato di salute dell’impero britannico. Non solo furono esercitate forti pressioni perché gli venisse conferita la carica di primo ministro, ma la vigilia di Natale del 1915 il rappresentante britannico a Teheran spiegò allo scià, dal quale era stato ricevuto in udienza, con quanto favore la nomina di Farman Farma sarebbe stata vista nel suo paese. «Un cambio di primo ministro era inevitabile nell’immediato futuro» fu detto esplicitamente al leader persiano, soprattutto a causa di tutti «gli elementi ostili» presenti nel governo di Teheran. Lo scià si lasciò convincere facilmente: «Era assolutamente d’accordo e ha insistito perché si procedesse quanto prima. Ha promesso di sollecitare FF ad accettare l’incarico immediatamente». 1 Qualche giorno dopo Farman Farma fu puntualmente nominato primo ministro. In Mesopotamia, invece, l’assenza di un uomo di paglia locale con cui collaborare rendeva le cose più difficili. I britannici avevano preso la situazione direttamente nelle loro mani e nella primavera del 1917 inviarono truppe di stanza a Bassora a occupare Baghdad. Non ci si dava molto pensiero di quanto sarebbe accaduto dopo, come Lord (in precedenza Sir Charles) Hardinge scrisse da Londra a Gertrude Bell, la brillante e vivace studiosa e viaggiatrice che conosceva la regione meglio di chiunque altro. «Farebbe poca differenza» osservava «se scegliessimo tre degli uomini più grassi di Baghdad, o tre degli
uomini con la barba più lunga, per elevarli a emblemi dell’autorità araba.» Ai britannici serviva soltanto un leader qualsiasi da poter efficacemente «convincere» dei vantaggi della cooperazione con la forza occupante; e per farlo, naturalmente, avrebbero dovuto corromperlo con laute sovvenzioni. 2 C’erano però altri seri problemi da affrontare, più significativi che decifrare il futuro assetto politico della regione. In Gran Bretagna, voci autorevoli andavano già propugnando la revisione dell’Accordo Sykes-Picot (1916), mentre si stava ancora asciugando l’inchiostro con cui era stato scritto. E ciò non per un qualsivoglia scrupolo sull’evidente carattere imperialistico dell’intesa segreta tra britannici e francesi, ma sulla base di un rapporto stilato dall’ammiraglio Edmond Slade, ex direttore della divisione informazioni dell’Ammiragliato, già responsabile della valutazione dei giacimenti petroliferi persiani nel 1913 e, poi, direttore dell’Anglo-Persian Oil Company. Slade sottolineava che «non possiamo in nessuna circostanza subire interferenze nello sfruttamento» dei giacimenti petroliferi persiani, e questo valeva anche per altre zone della regione. C’erano indicazioni, aggiungeva, della presenza di significative quantità di petrolio in «Mesopotamia, Kuwait, Bahrein e in Arabia». Slade raccomandava vivamente che le linee di demarcazione venissero ridisegnate al fine di garantire che la maggior parte possibile di questi territori ricadesse nella zona sotto l’autorità britannica. «È importante assicurarsi il controllo di tutti i diritti petroliferi in queste aree in modo che nessun’altra potenza possa sfruttarli a proprio vantaggio.» 3 Il Foreign Office osservava nervosamente, e intanto raccoglieva articoli di giornali europei che sostenevano «l’esigenza assoluta» per la Germania «della libertà marittima nel golfo Persico», un chiaro segnale che la Gran Bretagna avrebbe fatto bene a mettere al sicuro la propria posizione nel più breve tempo possibile. 4 Alla fine del 1918, poche settimane dopo la fine della guerra, la Gran Bretagna riuscì a ottenere quello che voleva: il primo ministro David Lloyd George convinse il suo omologo francese Georges Clemenceau a modificare l’accordo e a cedere il controllo di Mosul e dell’area circostante. In parte vi riuscì giocando sul timore dell’alleato
che la Gran Bretagna potesse ostacolare l’istituzione di un protettorato francese sulla Siria, ma anche lasciando intendere che il sostegno britannico sulla questione dell’Alsazia-Lorena negli imminenti negoziati di pace non era affatto scontato. «Che cosa volete?» chiese schiettamente Clemenceau a Lloyd George a Londra. «Mosul» rispose il primo ministro britannico. «L’avrete. Nient’altro?» «Sì,» fu la replica, «vogliamo anche Gerusalemme.» Di nuovo la risposta fu: «Avrete anche quella». Clemenceau era «estremamente onesto e non si rimangiava mai la parola», raccontava un alto funzionario statale il cui parere era tenuto in gran conto da Lloyd George. 5 Tra gli obiettivi identificati dai britannici c’era anche la Palestina, che per la sua posizione geografica fungeva da cuscinetto protettivo contro qualunque minaccia a una delle arterie più vitali dell’impero, il canale di Suez, sotto il suo controllo dal 1888. E così le truppe britanniche, che avevano già marciato su Baghdad, entrarono in Palestina da sud e, contro ogni aspettativa, anche da est, allorché Thomas Edward Lawrence emerse dal deserto per conquistare ‘Aqaba nell’estate del 1917. Qualche mese dopo, anche Gerusalemme cadde, nonostante gli accaniti contrattacchi della VII e VIII Armata ottomane al comando del generale Erich von Falkenhayn, capo dello stato maggiore generale dell’esercito tedesco in una fase precedente della guerra. Il generale britannico Edmund Allenby entrò in città a piedi in segno di rispetto, la conquista essendo parsa, come disse il primo ministro Lloyd George, una sorta di «regalo di Natale al popolo britannico». 6 La Palestina era importante anche per un’altra ragione. Aveva suscitato crescenti preoccupazioni l’aumento dei livelli dell’immigrazione ebraica in Gran Bretagna: basti pensare che, tra il 1880 e il 1920, il numero degli ebrei provenienti dalla sola Russia si era addirittura quintuplicato. All’inizio del XX secolo si era discusso della possibilità di incoraggiare lo spostamento degli esuli ebrei nell’Africa orientale, concedendo loro una porzione di territorio in cui stabilirsi, ma all’epoca della guerra l’attenzione si era spostata sulla Palestina. Nel 1917 era stata fatta trapelare al «Times» una lettera del ministro degli Esteri Arthur Balfour a Lord Rothschild in cui si diceva che «il
governo di Sua Maestà [considerava] con favore la formazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico». 7 Nota come Dichiarazione Balfour, la proposta di destinare dei territori all’insediamento degli ebrei fu ciò che più tardi lo stesso Balfour descrisse alla Camera dei Lord come «una soluzione parziale alla grande e persistente questione ebraica». 8 Sebbene il sostegno alla causa di una patria per gli ebrei europei avesse comprensibilmente attratto l’attenzione, la Gran Bretagna aveva messo gli occhi sulla Palestina anche per la sua posizione in rapporto ai giacimenti petroliferi e come terminale di un oleodotto che li collegasse con il Mediterraneo. Questo avrebbe fatto risparmiare un viaggio di circa 1500 chilometri, osservarono più tardi i pianificatori, e avrebbe dato alla Gran Bretagna «il virtuale controllo sul prodotto di quello che potrebbe benissimo rivelarsi uno dei più ricchi bacini petroliferi del mondo». 9 Era imperativo, quindi, che la Gran Bretagna avesse una forte presenza in Palestina, che detenesse il controllo di Haifa, con il suo porto ben attrezzato e profondo, che ne faceva il luogo ideale per il carico del petrolio sulle navi cisterna britanniche, e che l’oleodotto arrivasse proprio lì, anziché a nord, nella Siria controllata dai francesi. Secondo la concezione strategica dell’epoca, Haifa avrebbe fornito alla Gran Bretagna un terminale perfetto per il petrolio convogliato dalla Mesopotamia. E i fatti lo confermarono. Nel 1940, oltre 4 milioni di tonnellate di petrolio fluirono lungo l’oleodotto che era stato costruito dopo la guerra, quanto bastava per alimentare l’intera flotta del Mediterraneo. L’oleodotto era, per usare le parole della rivista «Time», l’«arteria carotide dell’impero britannico». 10 L’impero più grande del mondo riceveva massicce trasfusioni di sangue nero petrolifero, pompato direttamente dal cuore del mondo. All’inizio del 1918, quindi, i pensieri erano da tempo rivolti all’assetto del mondo postbellico e al modo in cui si sarebbero divise le spoglie della vittoria. Tuttavia, gli accordi stretti nelle capitali europee fra politici socievoli, diplomatici stizzosi e pianificatori armati di mappe e matite erano ben altra cosa rispetto alla realtà sul campo.
Era facilissimo progettare spartizioni di territori che accrescessero e proteggessero gli interessi della Gran Bretagna e della Francia, ma le cose diventavano un po’ più complicate quando entravano in gioco gli aspetti pratici. Per esempio, nell’estate del 1918, il generale britannico Lionel Dunsterville ricevette l’ordine di avanzare dalla Persia nordoccidentale verso il mar Caspio, mentre altri ufficiali di alto rango venivano inviati a tenere sotto osservazione il Caucaso, allo scopo di accertarsi che i turchi non si impadronissero dei bacini petroliferi dell’Azerbaigian né della regione a sud del Caspio, e non assumessero il controllo della ferrovia Transcaspica, che portava al confine afghano. Era una classica pretesa eccessiva, una missione pressoché impossibile, destinata a risolversi con ogni probabilità in un disastro. Le forze turche in avanzata circondarono Baku, intrappolandovi Dunsterville per sei settimane prima di permettergli di ritirarsi. Seguirono poi orrende scene di massacro quando per la popolazione locale, dopo la resa della città, venne il momento di regolare i conti. 11 A Londra il panico s’impadronì dei funzionari dell’India Office, che si affannavano a chiedere l’autorizzazione all’invio di agenti in Asia centrale per seguire da vicino gli sviluppi della rinascita turca e degli sconvolgimenti in Russia, dove i disordini e le manifestazioni nel distretto di Samarcanda, nella valle di Fergana e a Taškent contribuivano al dilagare della rivoluzione in tutto l’impero zarista. 12 «Qualsiasi effettivo controllo sulla popolazione locale del Turkestan è venuto meno» scrisse il segretario di Stato al viceré, Lord Chelmsford, all’inizio del 1918, «in seguito al collasso del governo centrale zarista e al crollo totale della disciplina nell’esercito russo.» 13 Allarmata per il montare di sentimenti antibritannici tra la popolazione musulmana della regione, Londra reagì inviando dei diplomatici a monitorare la situazione e a sovrintendere alla diffusione della propaganda anglofila. Agenti furono mandati a Kashgar e a Mashhad per sondare gli umori, mentre si accendevano diatribe sull’opportunità di inviare forze armate in Afghanistan e a Taškent, o di dare corso a piani più grandiosi, come quello di incoraggiare l’emiro dell’Afghanistan a espandersi verso ovest
occupando la valle del Murghab fino a Merv. 14 Nuove idee, nuove identità e nuove aspirazioni si andavano diffondendo in tutta l’Ucraina, nel Caucaso e nell’Asia centrale all’indomani della Rivoluzione russa, mentre le rivendicazioni di autonoma espressione, se non di autodeterminazione, si facevano sempre più insistenti. Ulteriori complicazioni insorsero quando i nuovi detentori del potere in Russia, vedendo i loro sogni di rivoluzione internazionale fallire in Europa, rivolsero l’attenzione all’Asia. Trockij, fremente di entusiasmo come sempre, aderì con slancio alla prospettiva di coltivare il progetto rivoluzionario in Oriente. «Nelle attuali circostanze, il cammino verso l’India potrebbe benissimo essere molto più agevole, e soprattutto più rapido, rispetto a quello che porta a un soviet in Ungheria» scrisse in un memorandum che fu fatto circolare tra i suoi colleghi nel 1919. «La via che conduce a Parigi e a Londra passa per le città dell’Afghanistan, del Punjab e del Bengala.» 15 Delegati delle «masse popolari asservite della Persia, dell’Armenia e della Turchia», e di quelle della Mesopotamia, della Siria, dell’Arabia e oltre, furono convocati nel 1920 a una conferenza a Baku, dove uno dei principali demagoghi bolscevichi li arringò con toni assai accesi. «Ora abbiamo di fronte il compito di suscitare una vera guerra santa» contro l’Occidente, disse all’uditorio. Era giunta l’ora, proseguì, di «educare le masse dell’Oriente a odiare i ricchi e a desiderare di combatterli». Ciò significava lottare contro i ricchi «russi, ebrei, tedeschi, francesi … e organizzare una vera guerra santa del popolo, in primo luogo contro l’imperialismo britannico». 16 Era giunta l’ora, cioè, di una resa dei conti tra l’Est e l’Ovest. Il messaggio fu ben accolto. A parte i delegati plaudenti, ci fu chi passò all’azione: intellettuali, come Muḥammad Barakatullāh, che scrisse sull’identità tra «bolscevismo e nazioni islamiche», invocando il progresso del socialismo in tutta l’Asia musulmana. Giornali, università e scuole militari furono fondati in tutta l’Asia centrale per un’ulteriore radicalizzazione delle popolazioni locali. 17 Mostrando un sorprendente grado di flessibilità, i governanti sovietici erano pronti a scendere a compromessi con chiunque potesse appoggiare la loro causa. Per esempio, il gruppo dirigente bolscevico
ebbe pochi scrupoli a corteggiare il sovrano dell’Afghanistan, il re Amanullah, dopo che questi aveva cercato di sottrarsi all’influenza britannica e attaccato gli inglesi in India a ovest del passo Khyber. Anche se lo scontro militare si risolse in un fiasco, il regime bolscevico fu ben felice di trovare un alleato a est e inviò un’offerta di assistenza, insieme alle assicurazioni che la liberazione del Muḥammad Barakatullāh l’Oriente dall’imperialismo era una parte fondamentale del programma rivoluzionario: assicurazioni che era poco probabile suonassero del tutto tranquillizzanti alle orecchie di un monarca regnante. L’audacia e l’opportunismo dei russi provocarono acute grida di allarme in Gran Bretagna, mentre il «Times» titolava Minaccia bolscevica all’India: il trampolino afghano. Le truppe inglesi furono spostate verso nord in Afghanistan: nelle loro file c’era un giovane caporale di nome Charles Kavanagh il cui diario, scoperto da poco, dipinge un quadro vivido di ciò che vide, trovando peraltro più di un’eco nelle esperienze vissute da militari occidentali nella medesima regione in epoca più recente. Imboscate e attacchi da parte dei ribelli erano un rischio quotidiano. Gli afghani non disdegnavano di vestirsi da donna, indossando indumenti che, oltre al volto, nascondevano il fucile. Evitate di tendere la mano a un locale che non conoscete, scrisse Kavanagh, «ve la afferrerà con la sinistra, e con la destra vi pugnalerà». 18 All’indomani della Grande Guerra venivano proposte diverse visioni del futuro. Da una parte c’era l’impulso all’autodeterminazione, sostenuto almeno all’inizio dai bolscevichi. «Organizzate la vostra vita come vi pare, e senza alcun ostacolo» diceva Lenin. «Ne avete il diritto. Sappiate che i vostri diritti, come quelli di tutti i popoli della Russia, sono garantiti dal potere pieno della rivoluzione e dei suoi organi.» 19 Nel principio dell’autodeterminazione rientravano anche idee progressiste sulla parità di genere: alle donne fu riconosciuto il diritto di voto nelle repubbliche sovietiche del Kirghizistan, del Turkmenistan, dell’Ucraina e dell’Azerbaigian, prima che questo accadesse nel Regno
Unito. Manifesti affissi a Taškent nel 1920, e scritti in uzbeko, mostravano una donna davanti a quattro spettrali figure velate, sollecitando l’emancipazione delle donne musulmane: «Donne! Partecipate alle elezioni del soviet!». 20 Questo atteggiamento progressista della prima fase postrivoluzionaria era in stridente contrasto con quelli imperialisti delle potenze occidentali e con la loro determinazione a conservare il controllo delle risorse e delle attività considerate vitali per gli interessi nazionali. Nessuno era così attivo o così aggressivo come i britannici, che erano soprattutto decisi a mantenere il controllo delle forniture di petrolio. Là dove disponeva di truppe sul terreno, la Gran Bretagna aveva un vantaggio iniziale che le consentiva di plasmare il paesaggio in modo conforme alle sue necessità. Nel caso della Mesopotamia, lo fece creando un nuovo paese cui fu dato il nome di Iraq. Si trattava di un’accozzaglia formata da tre ex province ottomane tra loro profondamente diverse per storia, religione e geografia: «Bassora guardava a sud, verso l’India e il Golfo; Baghdad aveva forti legami con la Persia; e Mosul aveva vincoli ancora più stretti con la Turchia e la Siria». 21 Lo strano amalgama non soddisfaceva nessuno, eccetto Londra. Nel migliore dei casi, il nuovo paese era un edificio traballante. Nel 1921 i britannici contribuirono a insediare sul trono il vecchio alleato Faysal – l’erede dello sceriffo di Mecca –, in parte come ricompensa per la sua cooperazione durante la guerra, in parte in segno di solidarietà per la sua espulsione dalla Siria, dove in origine gli era stato promesso il trono, e in parte per la mancanza di un qualsiasi altro credibile candidato. Il fatto che fosse un musulmano sunnita, mentre la popolazione locale era prevalentemente sciita, fu considerato un problema superabile con l’introduzione dei nuovi segni esteriori tipici di una nazione, come le cerimonie del cambio della guardia, una nuova bandiera (disegnata da Gertrude Bell) e un trattato che riconosceva la «sovranità nazionale» dell’Iraq, ma imponeva al re e al suo governo di seguire gli ordini della Gran Bretagna «su tutte le questioni importanti», comprese le relazioni estere e la difesa. Successivi allegati davano alla Gran Bretagna il
diritto di nominare magistrati e di imporre consiglieri finanziari per l’amministrazione dell’economia del paese. 22 Rispetto all’occupazione coloniale diretta, questo regime imperiale delegato era meno dispendioso sia dal punto di vista finanziario, in un periodo in cui la stessa Gran Bretagna faceva i conti con enormi debiti nazionali accumulati durante la guerra, sia in termini politici. Erano infatti più di 2000 i soldati britannici rimasti uccisi nelle sommosse e nei disordini civili scoppiati in Mesopotamia nel 1920. 23 Sforzi coordinati furono fatti per imporre un analogo controllo sulla Persia. Nel 1919 fu firmato un accordo destinato a insediare consiglieri britannici per la gestione sia del tesoro sia delle forze armate, oltre che per la supervisione dei progetti infrastrutturali. Questo tentativo fallì miseramente, in Persia e altrove. Russi e francesi, peraltro, erano già preoccupati che la Gran Bretagna esercitasse un’eccessiva influenza sulla Persia attraverso il controllo della quota di maggioranza nell’Anglo-Persian Oil Company. Nel frattempo, le tangenti (o «commissioni») pagate per ottenere la firma dell’accordo produssero un coro di proteste nel paese, non ultimo contro lo stesso scià. «Dio condanni alla vergogna eterna / Colui che ha tradito la terra di Sassan» scrisse all’epoca un noto poeta, rievocando il profondo e glorioso passato della Persia. «Dite al fervente Artaserse Longimano: / Il nemico ha annesso il tuo regno all’Inghilterra.» 24 Simili critici finirono in prigione. 25 Anche il commissario del popolo per gli Affari esteri della giovane Unione Sovietica reagì furiosamente: la Gran Bretagna «sta cercando di prendere al laccio il popolo persiano riducendolo in totale schiavitù». Era vergognoso, disse in una dichiarazione, che i governanti del paese «vi abbiano venduto ai briganti inglesi». 26 La reazione a Parigi non fu molto diversa. Colti impreparati dalla battaglia per il petrolio, e avendo ceduto Mosul apparentemente in cambio di nulla, i francesi avevano fatto pressioni perché propri consiglieri assumessero un ruolo a Teheran, in modo da promuovere i loro interessi nazionali. Lord Curzon non prese neppure in considerazione tale richiesta e a stento riuscì a nascondere il suo sdegno quando gli fu chiesto se avrebbe avallato simili nomine. La
Persia, disse a Paul Cambon, ambasciatore francese a Londra, era «stata salvata dall’insolvenza totale soltanto dall’aiuto della Gran Bretagna». Che la Francia badasse agli affari suoi. 27 La reazione in Francia fu aspra e furiosa. Furono stanziati fondi per lanciare una campagna antibritannica sulla stampa persiana, mentre in patria articoli di fuoco presero di mira l’accordo e lo scià. Questo nano alto mezzo centimetro, scrisse «Le Figaro» in un pezzo che fu molto citato a Teheran, «ha venduto il suo paese per un centesimo». 28 I francesi erano fra i vincitori della guerra, ma erano stati messi nel sacco dal loro alleato. In realtà, i britannici erano sconcertati dalle richieste di denaro dello scià, praticamente ininterrotte come nel periodo prebellico. Lo stesso problema si era posto anche con il principe Farman Farma, il cui mandato di primo ministro non era stato un successo come invece avevano sperato. I rapporti inviati a Londra parlavano della sua «scarsa propensione a lavorare onestamente» e della sua «rapacità», ciò che stava «rapidamente rendendo impossibile la sua permanenza in carica». 29 Occorreva un personaggio più affidabile. Quando arriva il momento, arriva anche l’uomo giusto. Reza Khan era «un uomo di corporatura robusta, con una forte ossatura, di buona costituzione e di statura nettamente superiore alla media», riferì con approvazione nel 1922 Sir Percy Loraine, il rappresentante britannico a Teheran. Khan va direttamente al punto, continuava il rapporto, «e non perde tempo nello scambio di quei convenevoli leziosi e perfettamente inutili così cari allo spirito persiano». Sebbene Reza fosse evidentemente «ignorante e privo di istruzione», Loraine ne fu colpito: «Parlando con lui, avevo l’impressione di un cervello non sfruttato piuttosto che vuoto». Questa era musica per le orecchie del Foreign Office. «Il giudizio di Sir Percy Loraine su Reza Khan è decisamente incoraggiante» osservava nel suo rapporto un funzionario di Londra. «Sebbene [non] sia privo dei difetti dei suoi compatrioti, il suo cuore sembra essere al posto giusto.» Anche le sue origini razziali erano accolte positivamente: «Il fatto che sia per metà caucasico [da parte di madre] va a suo favore» diceva un’altra nota. In breve, era esattamente il tipo d’uomo con cui i britannici pensavano di
poter fare affari. 30 Sembrava «un uomo forte e coraggioso che aveva a cuore il bene del suo paese» disse Sir Edmund Ironside, comandante di un contingente britannico inviato per difendere la Persia settentrionale a fronte di crescenti preoccupazioni per i progetti russi intorno al Caspio. Quanto sostegno i britannici abbiano effettivamente dato a Reza Khan, in quale misura abbiano interferito perché esercitasse il potere reale sotto l’egida del trono e perché infine, nel 1925, vi si insediasse come scià, è stato argomento di acceso dibattito. All’epoca, però, molti di coloro che seguivano da vicino gli eventi ebbero pochi dubbi sul ruolo svolto dalla Gran Bretagna nella sua incoronazione. 31 Il rappresentante americano a Teheran, John Caldwell, osservò che Reza era talmente vicino ai britannici da essere «praticamente una spia». 32 Non c’era da stupirsi che anche gli americani prestassero grande attenzione a questa parte del mondo. Un rapporto della sezione Pianificazione della marina militare statunitense, fatto circolare in Europa nel 1918, parlava della necessità per gli Stati Uniti di prepararsi alla concorrenza commerciale con la Gran Bretagna. «Quattro grandi potenze sorte nel mondo sono entrate in competizione con la Gran Bretagna per la supremazia commerciale» osservava. Spagna, Olanda, Francia e Germania erano state tutte liquidate. Adesso gli Stati Uniti erano la «quinta potenza commerciale ad affacciarsi, ma la più grande … il precedente storico ci suggerisce di osservare attentamente» il comportamento della Gran Bretagna. 33 L’importanza dei giacimenti petroliferi implicava che si dovesse riservare la massima attenzione a questa parte del mondo. Ciò era particolarmente vero alla luce delle crescenti preoccupazioni degli Stati Uniti circa il proprio approvvigionamento petrolifero. Se la Gran Bretagna si era allarmata per la scarsità di risorse prima della guerra, in America l’ansia cominciò a montare subito dopo la sua conclusione. Le tendenze all’aumento dei consumi erano motivo di apprensione, così come le stime sulle riserve petrolifere accertate. Secondo il direttore dell’US Geological Survey,
queste si sarebbero esaurite nell’arco di nove anni e tre mesi; la mancanza di «necessari approvvigionamenti in patria e all’estero» rappresentava un problema serio, ammise il presidente Wilson. 34 Per questa ragione, il dipartimento di Stato incoraggiò la Standard Oil, uno dei massimi produttori americani, a esplorare quella che veniva definita come «la possibilità di stringere un accordo con il governo persiano per lo sviluppo di risorse petrolifere nel Nord del paese», nella regione non coperta dalla concessione dell’Anglo-Persian Oil Company. 35 L’interesse statunitense provocò una reazione entusiastica a Teheran: l’ingerenza di Gran Bretagna e Russia negli affari persiani, dicevano i rapporti della stampa locale, durava da troppo tempo e costituiva una costante minaccia per l’indipendenza del paese. Gli Stati Uniti, il nuovo impero emergente, erano il classico Cavaliere bianco. «Se gli americani, con la loro ricchezza e prosperità, stabiliscono rapporti economici con il nostro paese,» dichiarava fiduciosamente un giornale persiano «siamo certi che le nostre risorse non rimarranno sterili e che non saremo più tanto afflitti dalla povertà.» 36 Queste grandi aspettative erano ampiamente condivise in tutto il paese: la capitale fu sommersa da telegrammi che salutavano la prospettiva di investimenti statunitensi. La missione americana a Teheran osservava con stupore che erano firmati «dai più importanti mullah, da notabili, da alcuni funzionari governativi e da mercanti». 37 I britannici reagirono rabbiosamente, dicendo chiaro e tondo al dipartimento di Stato che l’interesse americano per il petrolio persiano era non solo sgradito, ma illegittimo. Sebbene la regione in questione non fosse stata data in concessione all’Anglo-Persian, dichiararono, era soggetta a un precedente accordo separato tra Persia e Russia, rescisso in modo non corretto. Pertanto, i diritti di esplorazione non potevano essere venduti agli americani, né a chiunque altro. Erano affermazioni pretestuose, che in definitiva si dimostrarono inutili perché i persiani procedettero ugualmente, concedendo alla Standard Oil una concessione cinquantennale. 38 Non per la prima volta, l’esperienza americana si dimostrò una falsa alba. In Persia si era sperato che il coinvolgimento e l’investimento degli Stati Uniti potessero offrire un’alternativa reale al
potere britannico nella regione, ma la realtà dei fatti era che per ottenere l’accesso al suo sistema di oleodotti qualunque operatore petrolifero doveva scendere a patti con l’Anglo-Persian. Inoltre, con l’avvio delle discussioni, la speranza lasciò il posto a un’ulteriore delusione per i persiani. Gli americani, osservò il rappresentante persiano a Washington, erano «più britannici dei britannici», e non voleva certo essere un complimento. Era evidente, tuonò l’editoriale di un giornale di Teheran, che Stati Uniti e Gran Bretagna erano la stessa cosa: entrambi «adoratori dell’oro e strangolatori dei deboli», con l’ossessione di promuovere i propri interessi e di «cercare di spartirsi il prezioso gioiello» delle risorse petrolifere nazionali strappandole dalle «mani dei puerili politici persiani». 39 La vicenda riecheggiava in modo familiare quella della scoperta dell’America di quattro secoli prima. Le popolazioni locali non erano state decimate come quelle incontrate dagli spagnoli, ma il processo era in effetti il medesimo: l’espropriazione di tesori da parte delle nazioni occidentali significava che le ricchezze fluivano da un continente a un altro, con benefici minimi per gli autoctoni. C’erano anche altre analogie con quanto era accaduto in seguito alla traversata atlantica di Cristoforo Colombo. Proprio come nel 1494 Spagna e Portogallo si erano spartiti il mondo con i trattati di Tordesillas e, trentacinque dopo, con quello di Saragozza, così ora le potenze occidentali si spartivano le risorse della regione compresa tra il Mediterraneo e l’Asia centrale. Cerchiando sulle mappe i territori con una matita colorata, britannici e francesi posero le basi di quello che è noto come «Accordo della linea rossa», che divideva le risorse petrolifere della regione tra l’Anglo-Persian da una parte e la Turkish Petroleum Company (di cui l’Anglo-Persian – e quindi il governo britannico – erano importanti azionisti) dall’altra, con una clausola formale che vietava espressamente all’una di competere nei territori dell’altra. Si trattava di un risultato importante per la Francia, che mirava ad assicurarsi una posizione solida nel Levante in ragione di una lunga storia di legami mercantili e di sostanziosi investimenti commerciali che durava da parecchi decenni. Proprio come avevano fatto le potenze
iberiche, Francia e Gran Bretagna si divisero il controllo di risorse preziose, quasi fossero spoglie che appartenevano loro di diritto. Sembrava di essere in una nuova età imperiale. Il problema fu che questa nuova età imperiale risultò quasi immediatamente afflitta dalla traumatica constatazione che il mondo stava cambiando, e cambiava in fretta. Per i britannici era più che giusto disporre di progetti sofisticati e cercare di affermare il proprio controllo sul petrolio e le reti di oleodotti, ma tutto ciò aveva un prezzo. L’impennata del debito pubblico suscitò in Gran Bretagna penose e complesse discussioni su ciò che significava, in termini di spesa, mantenere truppe nel numero necessario per governare in modo efficace un impero. Tale costo soverchiante, scrisse Lord Curzon, «non può più essere sostenuto». Ne tenne in debito conto Winston Churchill, al momento ministro delle Colonie, il quale riconobbe che «tutto ciò che accade in Medio Oriente è secondario rispetto alla riduzione della spesa». 40 Questo divario tra ambizione e possibilità era una ricetta per il disastro, una situazione aggravata dall’ostinazione di alcuni diplomatici di alto rango. Il ministro britannico a Teheran, per esempio, trattava dall’alto in basso i persiani, che descriveva con disprezzo come «puzzolenti» e «bestie infide». A Baghdad, intanto, il rappresentante di Londra faceva abbattere edifici per «ampliare i giardini dell’ambasciata britannica»: cosa che, rilevò sarcasticamente un osservatore, «senza dubbio migliorava quella che già era una splendida residenza», ma che non godeva certo «di popolarità universale tra gli iracheni». 41 C’era in tutto questo un senso arrogante di diritto acquisito, l’idea che il presente e il futuro di questi paesi fossero immancabilmente nelle mani dei britannici. Il potere faceva capo ai politici di Londra, che poco si preoccupavano degli interessi delle popolazioni locali e si concentravano invece sulle priorità strategiche ed economiche della Gran Bretagna. Per limitarci agli anni Venti, i britannici furono direttamente responsabili dell’insediamento o della deposizione di governanti in Iraq, Persia e Afghanistan, o comunque ebbero in tali eventi un ruolo rilevante, ed entrarono in
gioco anche nella questione del titolo usato dal re dell’Egitto dopo l’indipendenza raggiunta nel 1922. 42 Inevitabilmente, ciò fu all’origine dell’inasprirsi di problemi che, con il passare del tempo, divennero insolubili. Gertrude Bell aveva avuto ragione nel predire, fin dal 1919, che del Vicino Oriente si stava facendo «un orribile pasticcio», e che lo scenario era come «un incubo in cui prevedi tutte le cose terribili che stanno per accadere, ma non puoi allungare la mano per impedirle». 43 La Gran Bretagna stava giocando una partita pericolosa nella scelta di chi sostenere e di quando – e dove – intervenire. Promesse infrante e popoli delusi erano sparsi in tutta la regione, dal Levante procedendo verso est. Gli impegni a sostenere, assistere e tutelare gli interessi delle popolazioni locali cedevano il passo alla promozione e alla protezione degli interessi commerciali e strategici della Gran Bretagna, e ciò anche a costo di dividere territori lungo frontiere nuove e artificiali, oppure di abbandonare a sé stesse intere comunità, come fu per i cristiani assiri dell’Iraq, che all’indomani della prima guerra mondiale, e della suddivisione del Medio Oriente che ne seguì, si ritrovarono in una condizione di estrema vulnerabilità. 44 Sul piano più generale, in Iraq i risultati furono disastrosi. A mano a mano che ai magnati locali, in cambio del loro sostegno al mandato britannico, furono assegnati ampie porzioni di terreno precedentemente di proprietà dello Stato ottomano, mise radici un nuovo feudalesimo, che limitò la mobilità sociale, accrebbe le disuguaglianze e fomentò il malcontento delle comunità rurali, che si videro private dei loro diritti fondiari e dei mezzi di sostentamento. Nella provincia di Kut, nell’Iraq orientale, due famiglie riuscirono, nell’arco di tre decenni, ad acquisire in totale oltre 200.000 ettari. 45 Lo scenario era più o meno analogo in Persia, dove la ricchezza generata dalle entrate petrolifere era concentrata nelle mani dello scià e dei membri della sua cerchia. In questo senso, era proprio la consapevolezza che il governo britannico fosse l’azionista di maggioranza dell’Anglo-Persian – che negli anni Venti forniva quasi la metà delle entrate del paese – a suscitare sentimenti antibritannici sempre più spiccati e una crescente ondata di nazionalismo.
Questo era anche un segno dei tempi, giacché le reazioni contro il colonialismo stavano acquistando uno slancio quasi inarrestabile in tutto l’impero. Nel 1929, in India, l’assemblea di Lahore dell’Indian National Congress formulò una «Dichiarazione d’indipendenza» (Purna Swaraj). «Il governo britannico in India non soltanto ha privato il popolo indiano della sua libertà, ma si è basato sullo sfruttamento delle masse» affermava il testo. L’India è stata mandata in rovina, e «deve immediatamente rescindere il legame con la Gran Bretagna e conseguire … la completa indipendenza». Era giunta l’ora della disobbedienza civile. 46 Era pressoché inevitabile che questo cocktail di disincanto, disgusto e deprivazione prendesse piede anche altrove. Ma la crescente frustrazione che si diffondeva in Medio Oriente derivava anche dalla constatazione di quanto aleatori fossero risultati i benefici promessi dalla scoperta dei giacimenti petroliferi. Le compagnie occidentali che controllavano le concessioni erano abili e altamente creative quando si trattava di effettuare i pagamenti delle royalty. Proprio come accade nel mondo contemporaneo, era stata allestita una rete di compagnie sussidiarie allo scopo di utilizzare i prestiti intersocietari per generare perdite di cui ci si potesse servire per ridurre, o addirittura azzerare, i profitti commerciali apparenti delle compagnie operative, così alterando al ribasso le royalty dovute in base all’accordo di concessione. Questo significava tirare acqua al proprio mulino. Sui giornali comparivano articoli di denuncia che parlavano di «stranieri [cui si consentiva] di drenare le risorse petrolifere del paese e che riducevano deliberatamente le entrate della Persia grazie alla concessione di esenzioni illegali e non necessarie dai diritti doganali». Se non altro, la situazione in Persia non era così negativa come nel confinante Iraq, che era a tutti gli effetti una colonia, eccetto che nel nome. 47 Nel tentativo di deviare la marea montante della collera degli autoctoni, i dirigenti dell’Anglo-Persian lanciarono una campagna d’immagine promettendo una quantità di nuovi benefici, che andavano da opportunità di istruzione a un contributo al miglioramento delle ferrovie, fino alla possibilità di rendere più
generosi i pagamenti delle royalty. Era nettamente sbagliato, lamentavano però importanti personaggi persiani, che il governo del paese non avesse partecipazioni azionarie nell’attività estrattiva. Secondo un osservatore, «i persiani pensavano che sul loro territorio fosse stata sviluppata un’industria in cui non avevano alcuna parte reale»; e insistevano che non era una questione di soldi, dato che «nessuna remunerazione finanziaria avrebbe dissipato questo senso» di alienazione. 48 Il cortese presidente dell’Anglo-Persian, Sir John Cadman, invitava alla calma, facendo notare alla sua controparte al tavolo dei negoziati come non fosse nell’interesse di nessuno che la stampa creasse «l’impressione erronea e penosa» che il rapporto d’affari non fosse corretto ed equo. 49 D’accordo, gli fu risposto; ma era nell’interesse di tutti che vi fosse una partnership. Per come stavano le cose, invece, c’era poco più di un rapporto di vero e proprio sfruttamento. 50 Interminabili discussioni sull’opportunità di rinegoziare la concessione Knox D’Arcy, e su come farlo, non approdarono a nulla. Alla fine i persiani ruppero. Ancor prima del 1929, la scoperta di giacimenti petroliferi petrolio in Messico e in Venezuela (i lavori in quest’ultimo paese furono condotti da George Reynolds, che aveva individuato l’importantissimo pozzo di Masjed-e Soleymān) aveva portato a una significativa correzione verso il basso dei prezzi petroliferi. Dopo il crollo di Wall Street, che aveva prodotto una drastica caduta della domanda, i persiani presero la questione nelle loro mani. Infine, nel novembre 1932, in seguito a una secca flessione del pagamento delle royalty e ai reiterati escamotage finanziari con cui venivano deliberatamente nascoste a Teheran le cifre esatte, lo scià dichiarò che la concessione Knox D’Arcy era annullata con effetto immediato. Questo era vergognoso, lamentarono i diplomatici britannici. «Se non ci facciamo sentire da subito,» ammonì un importante funzionario «avremo guai ben peggiori con i persiani in seguito.» 51 La dichiarazione era un illecito «flagrante», disse un altro. 52 Dal punto di vista dei britannici, il contratto stipulato tre decenni prima doveva rimanere in vigore, indipendentemente da tutto. Era vero che,
all’inizio, per avviare l’attività petrolifera erano stati assunti considerevoli rischi finanziari, e che c’erano voluti massicci investimenti per creare un’infrastruttura che consentisse lo sfruttamento delle risorse. Tuttavia, le ricchezze che così erano state rese disponibili erano enormi. Le richieste di dividerle in modo più equo erano state semplicemente ignorate. Come certi istituti coinvolti nei grandi scandali bancari dell’inizio del XXI secolo, l’Anglo-Persian e gli interessi che le stavano dietro erano troppo grandi per fallire. In questo caso, però, il processo di rettifica e ricomposizione della situazione fu rapido, in gran parte perché la Persia disponeva di un potente strumento negoziale, essendo in grado di ostacolare, ritardare e impedire la produzione per imporre una rinegoziazione. Nella primavera del 1933 fu messo a punto un nuovo accordo. La delegazione persiana incontrò i dirigenti petroliferi all’hotel Beau Rivage di Ginevra e spiegò di essere al corrente dei termini di un recente accordo petrolifero sottoscritto in Iraq, chiedendo che venissero perlomeno parificati. La proposta iniziale – che comprendeva la cessione del 25 per cento delle quote azionarie da parte dell’Anglo-Persian, un’entrata annua garantita, la compartecipazione ai profitti e una rappresentanza nel consiglio di amministrazione – fu respinta da Sir Cadman come assurda e irricevibile. 53 Sebbene le discussioni che seguirono fossero assolutamente cordiali, fu ben presto chiaro che i tentativi di evitare una sostanziale rinegoziazione sarebbero falliti. Prima della fine dell’aprile 1933 venne concluso un nuovo accordo. Si sarebbe prestata maggiore attenzione alla «persianizzazione» dell’industria petrolifera, cioè all’assunzione e alla formazione di un maggior numero di elementi locali da inserire nell’organico a tutti i livelli, dalla direzione in giù, fino a ruoli più modesti. La regione coperta dalla concessione fu drasticamente ridotta a un quarto delle dimensioni originarie, pur continuando a comprendere il boccone più prelibato; fu concordata una competenza fissa di royalty che eliminava il paravento della valuta e delle fluttuazioni del prezzo del petrolio; fu garantito un pagamento annuo minimo, indipendente dai livelli di produzione o dai prezzi di
mercato raggiunti; il governo persiano avrebbe avuto una compartecipazione anche agli introiti generali dell’Anglo-Persian, ricevendo una quota dei profitti realizzati dalla compagnia nelle sue altre aree d’intervento. Cadman non fece commenti quando i negoziatori persiani gli dissero che avrebbe dovuto considerare il nuovo accordo come un «trionfo personale per [sé] e per i suoi colleghi», ma quanto scrisse ci dà un’idea del suo stato d’animo: «Avevo l’impressione che fossimo stati spennati niente male». 54 I persiani, e altri che stavano a guardare, videro nella storia una morale diversa. La lezione era che, nonostante tutte le fanfaronate, la posizione contrattuale dell’Occidente era debole. Coloro che disponevano delle risorse potevano dopotutto forzare la mano di quelli che detenevano la concessione, e farli sedere al tavolo delle trattative. L’Occidente poteva protestare a gran voce finché voleva, ma era chiaro che davvero, come dice il proverbio inglese, il possesso effettivo è nove decimi del diritto legale. Questo divenne uno dei temi cruciali della seconda metà del XX secolo. Stavano nascendo nuove connessioni che scavalcavano la spina dorsale dell’Asia. Si stava formando una rete non di città e di oasi ma di oleodotti, che collegavano i pozzi petroliferi al golfo Persico e, con gli anni Trenta, al Mediterraneo. Risorse e ricchezza venivano pompate lungo queste linee verso porti come Haifa e Ābādān, un sito che divenne sede di quella che fu per oltre cinquant’anni la più grande raffineria del mondo. Il controllo di questa rete era tutto, come i britannici avevano capito ancor prima dello scoppio della Grande Guerra. Agli occhi degli ottimisti, la situazione sembrava ancora rosea. Dopotutto, malgrado la rinegoziazione delle concessioni nel 1933, erano stati costruiti saldi legami con questa parte del mondo, e c’era ancora molto da guadagnare dalla cooperazione con coloro le cui risorse erano di così enorme importanza; e la Gran Bretagna, di certo, era in una posizione migliore di chiunque altro. La realtà, però, era che la marea aveva già invertito il suo corso. Il potere e l’influenza dell’Occidente erano in declino, e sembravano destinati con certezza a diminuire ulteriormente. C’era un prezzo da
pagare per la continua interferenza negli affari locali; c’era un prezzo da pagare per la ristrutturazione dei giardini dell’ambasciata; e c’era un prezzo da pagare per il fatto di non giocare mai in modo del tutto pulito. Il prezzo erano riserve, timori e diffidenza. Le due diverse prospettive ebbero una rappresentazione perfetta in una cena svoltasi a Baghdad nel 1920, proprio mentre il nuovo assetto del Vicino e Medio Oriente cominciava a manifestarsi con chiarezza. Uno dei commensali era la dinamica ed estremamente intelligente Gertrude Bell, che in precedenza, all’inizio della prima guerra mondiale, era stata reclutata dai servizi d’informazione britannici, ed era un’acuta osservatrice della politica araba. Stia certo, disse a Ja‘far al‘-Askarī, in procinto di essere nominato primo ministro del nuovo Stato dell’Iraq, che «la completa indipendenza è ciò che [la Gran Bretagna] in definitiva desidera dare». «Signora,» rispose l’uomo politico, «la completa indipendenza non può mai essere data, ma soltanto presa». 55 Per paesi come l’Iraq e la Persia, la sfida era quella di liberarsi dall’interferenza esterna e di riuscire a decidere del proprio futuro. Per la Gran Bretagna, la sfida era come impedirglielo. Era un conflitto ancora in incubazione. Prima, però, c’era un altro disastro sul punto di verificarsi, sempre determinato dal controllo delle risorse. Questa volta al cuore dell’imminente catastrofe non c’era il petrolio, ma il grano.
XIX
LA VIA DEL GRANO
La rivista britannica «Homes & Gardens» si è a lungo gloriata di essere all’avanguardia nel campo della progettazione d’interni. «Grazie alla combinazione di splendidi servizi, eleganti case e giardini del mondo reale, consigli dell’esperto e informazioni pratiche» il periodico, secondo un recente messaggio promozionale, è «la massima fonte d’ispirazione in materia di arredamento». Il suo numero del novembre 1938 si profondeva in elogi per un rifugio di montagna di grande eleganza alpina. «La tonalità base di tutti gli ambienti di questo luminoso e arioso chalet» scriveva il corrispondente «è il verde giada chiaro», ravvivato dall’evidente passione per i fiori recisi esibita dal proprietario, che della casa, per inciso, era anche «decoratore, progettista e arredatore, oltre che architetto». I suoi schizzi ad acquerello erano appesi nelle camere degli ospiti, accanto a vecchie stampe. «Ameno conversatore», il proprietario amava circondarsi di una schiera di «stranieri brillanti, specialmente pittori, musicisti e cantanti», e spesso invitava «talenti locali» a eseguire brani di Mozart o Brahms per intrattenere gli ospiti dopo la cena. L’autore dell’articolo era decisamente impressionato da Adolf Hitler. 1 Nove mesi più tardi, il 21 agosto 1939, una telefonata ansiosamente attesa arrivò al centralino che, a quanto riferiva «Homes & Gardens», si trovava accanto al moderno ufficio del «Führer» e gli consentiva di mantenersi in contatto con «i suoi amici o i suoi ministri». Durante la cena fu consegnato un messaggio a Hitler, il quale, secondo uno dei presenti, «lo scorse, rimase per un attimo a occhi sbarrati mentre il sangue gli saliva alla testa, poi sbatté il biglietto sul tavolo facendo tintinnare i bicchieri». Si rivolse agli ospiti ed esclamò con voce alterata: «Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!» 2 Si sedette a mangiare, davanti
al suo pasto abituale: un «imponente assortimento di piatti vegetariani, saporiti e ricchi, gradevoli per l’occhio non meno che per il palato», secondo le parole ammirate del giornalista di «Homes & Gardens». Il tutto opera del suo chef personale, Arthur Kannenberg, che spesso la sera lasciava la cucina e si metteva a suonare la fisarmonica. 3 Dopo la cena, Hitler riunì i suoi ospiti e disse loro che il foglio che aveva in mano conteneva il testo di una risposta che aspettava da Mosca. Stalin, il padrone indiscusso dell’Unione Sovietica, aveva accettato di firmare un patto di non aggressione con la Germania. «Spero» diceva il messaggio trasmesso per telescrivente «che [ciò] determinerà un deciso miglioramento nelle relazioni tra i nostri due paesi.» 4 Due sere più tardi, dopo che la notizia era stata annunciata, Hitler e il suo entourage erano in piedi sulla terrazza, intenti a osservare la vallata sottostante. «L’ultimo atto del Götterdämmerung non avrebbe potuto essere messo in scena in modo più efficace» commentò il capo nazista Albert Speer. 5 Paradossalmente, lo straordinario accordo era stato propiziato dalla politica estera britannica e francese. Entrambi i paesi, sempre più allarmati dall’audace poker politico in cui il cancelliere tedesco si era arrischiato nel corso degli anni Trenta, avevano disperatamente tentato in vari modi di tenerlo a freno, ma con scarso successo. Tanto scarso, in effetti, che Mussolini aveva confidato al suo ministro degli Esteri, il conte Galeazzo Ciano, la sua idea che i politici e i diplomatici britannici non fossero fatti della stessa pasta «dei Francis Drake e degli altri magnifici avventurieri che crearono l’Impero»; erano, in realtà, «i figli stanchi di una lunga serie di ricche generazioni. E l’Impero lo perderanno». 6 In seguito all’occupazione della Cecoslovacchia da parte della Germania, si era decisa una linea più dura. Nel pomeriggio del 31 marzo 1939 il primo ministro Neville Chamberlain aveva preso la parola alla Camera dei Comuni. «Nel caso di una qualunque azione che minacciasse chiaramente l’indipendenza della Polonia,» aveva dichiarato solennemente «il governo di Sua Maestà si sentirebbe obbligato a prestare immediatamente al governo polacco tutto il
sostegno in suo potere. È stata data al governo polacco un’assicurazione in questo senso. Posso aggiungere che il governo francese mi ha autorizzato a chiarire che su questo punto la sua posizione coincide con quella del governo di Sua Maestà.» 7 Anziché garantire la sicurezza della Polonia, questo passo ne segnò il destino. Chamberlain aveva riferito alla Camera dei Comuni che quella stessa mattina il ministro degli Esteri britannico aveva incontrato l’ambasciatore sovietico, Ivan Maiskij, per cercare di appianare le divergenze, ma sta di fatto che le assicurazioni offerte alla Polonia misero in moto una catena di eventi che conduceva dritto ai campi di grano dell’Ucraina e della Russia meridionale. La lotta che ne seguì doveva significare la morte di milioni di persone. 8 L’intento era stato quello di bloccare la Germania in una situazione di stallo, usando la minaccia della guerra per scoraggiare qualunque mossa contro il suo vicino a est. In realtà, come Hitler comprese immediatamente, gli era stato servito un asso, anche se per giocarlo occorreva un fegato incredibile: si trattava della possibilità di fare un patto con l’Unione Sovietica comunista. Sebbene l’URSS fosse sotto molti aspetti un’accanita rivale della Germania nazista, d’improvviso si apriva un terreno comune cui l’interferenza della Gran Bretagna e di altri aveva dato accesso. A sua volta, Stalin comprese il gioco. Anche a lui era stata data un’opportunità, per sfruttare la quale occorreva un fegato altrettanto incredibile: si trattava di fare un accordo con Hitler. L’idea di un’alleanza tra i due Stati sembrava del tutto priva di plausibilità e al di fuori della realtà. Da quando Hitler era stato mandato al potere dal voto dei tedeschi, nel 1933, le relazioni tra Germania e URSS erano nettamente peggiorate, mentre in ciascuno dei due paesi campagne mediatiche al vetriolo avevano dipinto l’altro come demoniaco, inumano e pericoloso. Gli scambi commerciali si erano quasi azzerati: se, nel 1932, circa il 50 per cento di tutte le importazioni dell’Unione Sovietica proveniva dalla Germania, sei anni dopo la percentuale era crollata al di sotto del 5. 9 Ma le garanzie offerte alla Polonia permettevano finalmente ai due paesi di trovare
un elemento in comune: il desiderio di distruggere lo Stato che si interponeva tra loro. 10 Nella primavera del 1939 ci fu un turbine di attività diplomatiche. L’incaricato d’affari sovietico a Berlino e il massimo esperto tedesco di Europa orientale s’incontrarono per gettare le basi di un miglioramento dei rapporti, e per individuare aree di possibile cooperazione, tra cui una ripresa degli scambi commerciali. Questi colloqui subirono ben presto un’accelerazione, trovando un seguito a Mosca nelle discussioni tra l’ambasciatore tedesco e Vjačeslav Molotov, il nuovo commissario per gli Affari esteri, il cui predecessore, Maksim Litvinov, era stato destituito a causa delle sue origini ebraiche, che costituivano un ostacolo nei rapporti con il regime antisemita nazista. Litvinov, «l’alto funzionario ebreo,» scrisse Winston Churchill, «il punto di mira dell’antagonista germanico, fu gettato da parte come un utensile fuori uso … sospinto dalla luce della vita pubblica all’oscurità di una magra sovvenzione e della sorveglianza da parte della polizia». 11 Con il sopraggiungere dell’estate, la situazione si era evoluta al punto che Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri tedesco, poteva inviare a Mosca messaggi in cui spiegava che non esisteva «alcuna ragione di inimicizia tra i nostri due paesi» per il semplice fatto che nazionalsocialismo e comunismo sono molto diversi. Se c’era un vivo interesse a discutere le varie questioni, proponeva, era possibile un ulteriore riavvicinamento. Il cuore del problema era la Polonia: Germania e Unione Sovietica potevano raggiungere un accordo sul suo smembramento e sulla sua spartizione? 12 La questione fu presa in mano personalmente da Stalin. La Polonia era stata una bestia nera per i sovietici fin dalla Rivoluzione d’Ottobre. Innanzitutto gli accordi di pace di Versailles avevano attribuito ai polacchi una fascia di territorio che era stata russa prima del 1914; inoltre, negli anni successivi al 1917, la Polonia aveva intrapreso un’azione militare che aveva messo in serio pericolo la sopravvivenza stessa del potere bolscevico. Il timore delle spie polacche era stato un elemento comune e costante delle epurazioni sovietiche degli anni Trenta, che avevano visto l’arresto di milioni di persone e parecchie
centinaia di migliaia di esecuzioni. Appena due anni prima di negoziare con la Germania, Stalin aveva firmato di suo pugno ordini che imponevano la «liquidazione della rete di spie dell’Organizzazione militare polacca», il che portò all’arresto di altre decine di migliaia di persone, oltre quattro quinti delle quali vennero poi fucilate. 13 La sua risposta alla richiesta tedesca di cooperazione, non ultimo sulla Polonia, fu positiva e incoraggiante. La cosa ebbe un seguito immediato. Due giorni dopo la risposta di Stalin, una coppia di aerei Focke-Wulf Condor atterrarono a Mosca, accolti da un picchetto d’onore sovietico e da due serie di bandiere spiegate al vento. Su metà di esse campeggiava l’immagine del martello e della falce, gli strumenti del proletariato urbano e della classe contadina, simboli inconfondibili del comunismo; l’altra metà erano bandiere del Terzo Reich, disegnate da Hitler in persona, come aveva spiegato nel Mein Kampf: «Nel rosso possiamo scorgere l’idea sociale del movimento [nazionalsocialista], nel bianco l’idea nazionalista, e nella svastica la missione della lotta per il trionfo dell’uomo ariano». 14 In una delle scene più sensazionali e inattese del XX secolo, le bandiere che rappresentavano il comunismo e il fascismo sventolavano le une accanto alle altre mentre la delegazione tedesca sbarcava dagli aerei. A capeggiarla era il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, descritto da uno dei suoi ex insegnanti come «il più stupido della classe, pieno di vanità e molto ambizioso», e ora incaricato di fiducia per negoziare un accordo tra acerrimi rivali. 15 Una volta giunto al Cremlino per l’incontro con Stalin e Molotov, Ribbentrop espresse la speranza di buone relazioni. «La Germania non chiede nulla alla Russia: soltanto pace e commercio» disse. Stalin diede una delle sue tipiche risposte schiette: «Da parecchi anni continuiamo a tirarci addosso l’un l’altro palate di merda: qualunque cosa dicessero i nostri addetti alla propaganda, non era mai abbastanza. Ora, tutto d’un tratto, faremo credere ai nostri popoli che tutti i nostri reciproci rancori sono stati perdonati e dimenticati? I cambiamenti … non possono avvenire così in fretta». 16 In realtà, procedettero molto rapidamente. Nel giro di qualche ora, le linee generali di un accordo erano state messe a punto, insieme a un
testo concordato da rendere pubblico e a un allegato segreto che delineava le sfere d’influenza nei paesi baltici e in Polonia, e in pratica dava a ciascun contraente carta bianca per avanzare e fare quello che voleva fino alla linea di confine stabilita. Soddisfatto, alle prime ore del mattino Stalin fece portare della vodka per fare un brindisi. «So quanto il Volk tedesco ami il suo Führer» disse usando la parola tedesca. «Vorrei brindare alla sua salute.» Seguirono altri giri di brindisi, mentre Molotov quasi non riusciva a trattenere la gioia. «È stato il nostro grande compagno Stalin a dare il via a questo colpo di scena nelle relazioni politiche» disse raggiante. «Bevo alla sua salute.» 17 L’euforia di Stalin continuò il giorno dopo nella sua dacia alle porte di Mosca, dove si unì ad alcuni dei membri più autorevoli del Politburo in una partita di caccia all’anatra. Naturalmente è tutto un bluff, disse, «un gioco per vedere chi riesce a imbrogliare l’altro. So che cosa ha in mente Hitler. Pensa di essere stato più furbo di me, ma in verità sono stato io a ingannare lui». 18 Hitler, com’è ovvio, pensava precisamente la stessa cosa. Quando verso mezzanotte, nel suo idilliaco rifugio alpino, gli fu passato un appunto che riferiva della firma dell’accordo finale, la sua reazione – come quella di Stalin – fu quella di un giocatore convinto di essere in un momento fortunato: «Abbiamo vinto» dichiarò trionfante. 19 Il leader sovietico era venuto a patti con la Germania per guadagnare tempo. Stalin non si faceva illusioni su Hitler né sulla minaccia che poneva a lungo termine. Di fatto, al XVII Congresso del Partito comunista, nel 1934, erano state lette pagine del Mein Kampf per illustrare i pericoli che la Germania e il suo cancelliere rappresentavano. Stalin stesso aveva letto il famigerato libro di Hitler, sottolineando i passi che parlavano della necessità per la Germania di espandersi verso est. 20 L’Unione Sovietica, però, aveva la necessità di riprendersi dopo un periodo di turbolenza cronica. All’inizio degli anni Trenta una catastrofica carestia, frutto di una politica miope e sanguinaria, aveva provocato la morte per fame o malattia di milioni di persone. La sofferenza era stata terribile, e su una scala colossale. Un ragazzino di otto anni avrebbe in seguito ricordato il giorno in cui,
a Charkiv, vide una compagna di classe appoggiare la testa sul banco e chiudere gli occhi durante una lezione: pareva che fosse crollata dal sonno, invece era morta di fame. L’avrebbero sepolta, lo sapeva, «come ieri avevano sepolto alcune persone, e anche il giorno prima e ogni giorno». 21 Negli anni successivi la società sovietica aveva divorato sé stessa. La prolungata militanza nel Partito comunista non garantiva protezione, allorché Stalin passò all’attacco dei suoi ex colleghi e rivali più prossimi. In una clamorosa serie di processi spettacolo, celebrati a Mosca, uomini che erano diventati nomi familiari, non solo in Unione Sovietica ma a livello internazionale, con una mossa a sensazione furono accusati di essere dei controrivoluzionari, processati e condannati a morte. Personaggi del calibro di Grigorij Zinov’ev, Lev Kamenev, Nikolaj Bucharin e Karl Radek, eroi della rivoluzione del 1917, furono tra i molti mandati a morte, denunciati con un linguaggio carico d’odio dal procuratore generale Andrej Vyšinskij come bastardi fascisti, terroristi, degenerati e parassiti. In un farsesco travisamento della storia intellettuale e culturale, Vyšinskij fu poi glorificato per i suoi velenosi attacchi ribattezzando con il suo nome l’Istituto di diritto e amministrazione dell’Accademia delle Scienze sovietica. 22 L’attenzione si era poi spostata sull’esercito. Più che decimato, l’alto comando era stato letteralmente annientato, devastato da una logica perversa e spietata secondo la quale, se gli ufficiali inferiori erano colpevoli di sedizione, i loro superiori dovevano essersi macchiati di complicità o negligenza. Così, una confessione estorta a un uomo finito serviva a scatenare arresti a cascata. L’obiettivo, testimoniò più tardi un funzionario della polizia segreta, era dimostrare l’esistenza di una «cospirazione militare nell’ambito dell’Armata Rossa che implicasse il maggior numero possibile di partecipanti». 23 Dei 101 membri del comando militare supremo, tutti eccetto 10 erano stati arrestati, e dei 91 detenuti, tutti eccetto 9 erano stati fucilati. Fra questi, tre dei cinque marescialli dell’Unione Sovietica e due dei suoi ammiragli, oltre al personale superiore dell’aviazione al completo, a ogni capo di ogni distretto militare, e a quasi tutti i comandanti di divisione. L’Armata Rossa era stata messa in
ginocchio. 24 In tali circostanze Stalin aveva bisogno di un periodo di tregua per ricostruire. Il riavvicinamento dei tedeschi era un dono del cielo. Hitler, da parte sua, giocava una partita con una posta più alta. Doveva assolutamente arrivare a disporre di risorse essenziali se voleva che la Germania conquistasse una posizione di forza e di potere nel lungo termine. E siccome la collocazione geografica del paese non favoriva l’accesso all’Atlantico e al commercio con le Americhe, con l’Africa e l’Asia, il Führer mise gli occhi sui territori a est. Dietro la sua decisione di riconciliarsi con l’Unione Sovietica c’era l’idea che questo gli avrebbe dischiuso la sua particolare Via della Seta. Dopo che il patto di non aggressione fu firmato, Hitler convocò i suoi generali nel suo chalet alpino per informarli su quanto era stato convenuto e su ciò che aveva in mente. Appoggiato al pianoforte a coda, parlò a lungo di sé stesso. Il popolo tedesco era fortunato ad avere lui come guida, dichiarò, un uomo in cui riponeva fiducia assoluta. Ma adesso, proseguì, era ora di cogliere il momento. «Non abbiamo nulla da perdere» disse agli ufficiali di grado più alto; la Germania può sopravvivere soltanto per pochi anni nelle sue attuali condizioni economiche: «Non abbiamo altra scelta». 25 Un’alleanza con l’Unione Sovietica avrebbe non soltanto consentito di recuperare territori sottratti dal trattato di Versailles, ma avrebbe garantito il futuro del paese. Tutto dipendeva dal successo della Germania, ed era vitale rammentarlo in ogni momento. «Chiudete i vostri cuori alla pietà» disse. «Agite brutalmente. Ottanta milioni di persone devono ottenere ciò che spetta loro di diritto. La loro esistenza va tutelata e resa sicura.» 26 Stava parlando dell’invasione della Polonia, ma anche del nuovo inizio che sarebbe stato reso possibile dal riavvicinamento con l’Unione Sovietica. Per Hitler, il patto con Stalin offriva qualcosa di più della possibilità di alzare ulteriormente la posta nel suo gioco d’azzardo politico; offriva la prospettiva delle risorse necessarie. Sebbene avesse spesso parlato, fin dal primo momento in cui era salito alla ribalta, del Lebensraum, o
«spazio vitale», per il popolo tedesco, ciò che era in gioco, disse ai suoi generali, erano obiettivi concreti: grano, bestiame, carbone, piombo e zinco. La Germania, finalmente, poteva essere libera. 27 Non tutti i presenti erano convinti. Hitler disse che la guerra sarebbe durata sei settimane; più verosimilmente sei anni, mormorò il generale Walter von Reichenau. 28 Neppure il generale Curt Liebmann era convinto. Il discorso, disse, era stato tronfio, chiassoso e «semplicemente ributtante». Hitler era un uomo che aveva perso ogni senso di responsabilità. Tuttavia – come sottolinea la massima autorità contemporanea in fatto di Germania nazista – nessuno si espresse apertamente contro di lui. 29 Hitler era convinto di aver trovato un modo per assicurare il futuro della nazione tedesca. Uno specifico punto debole era l’inadeguatezza della sua agricoltura. Come suggeriscono recenti ricerche, questo era un settore che aveva sofferto durante gli anni Trenta, quando la Germania cominciò ad assemblare la sua macchina bellica consumando risorse, tempo e denaro. Di fatto, in quel periodo erano state varate leggi che avevano realmente ridotto l’entità degli investimenti nell’agricoltura. 30 La Germania rimaneva fortemente dipendente dalle importazioni perché la produzione interna non copriva il fabbisogno nazionale. 31 Parlando a un importante diplomatico a Danzica nell’agosto 1939, Hitler sollevò l’argomento dell’insostenibile tensione cui era stata sottoposta la Germania durante la prima guerra mondiale, uno dei suoi temi storici ricorrenti. Ora, però, sosteneva di avere la soluzione. Ci occorre l’Ucraina, «così nessuno potrà ridurci nuovamente alla fame, come fecero nell’ultima guerra». 32 L’Ucraina, o meglio i frutti del suo ricco e fertile suolo, gli furono consegnati con la firma del patto di non aggressione nel 1939. I mesi che seguirono la visita di Ribbentrop nella capitale russa videro funzionari nazisti e sovietici fare la spola tra Mosca e Berlino. I tedeschi erano fiduciosi che l’apertura potesse tradursi in un accordo, specialmente in relazione a «tutti i problemi territoriali dal mar Nero al Baltico», come Ribbentrop aveva detto a Molotov nell’agosto 1939. 33 Discussioni più delicate s’incentravano sulle relazioni
commerciali e, soprattutto, sui volumi e i prezzi del grano, del petrolio e di altri materiali sovietici necessari a sostenere l’invasione tedesca della Polonia e le sue conseguenze. Stalin stava alimentando la guerra di Hitler. 34 L’alleanza diede a Hitler la sicurezza e la promessa di nuove risorse che gli consentirono di attaccare la Polonia, confortato dalla consapevolezza che la sua posizione a oriente non sarebbe stata minacciata grazie all’accordo con Stalin («Posso garantire sulla mia parola d’onore che l’Unione Sovietica non tradirà la Germania» aveva detto il leader russo all’atto della firma dell’accordo). 35 Come comprese uno dei più sagaci alti ufficiali tedeschi, però, il patto per spartirsi la Polonia rendeva la Germania più vulnerabile – e non meno – spostando drasticamente la frontiera sovietica verso ovest. Sarebbe stato meglio, osservò Franz Halder, rimanere in buoni rapporti con la Russia e concentrarsi sulle posizioni britanniche nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. 36 Il 1° settembre 1939, soltanto una settimana dopo lo storico accordo tra Hitler e Stalin, le truppe tedesche dilagarono oltre la frontiera, sfondando le difese polacche. Mentre l’avanzata procedeva avvicinandosi a Varsavia, alla conquista del territorio si affiancò un altro obiettivo, e cioè la decapitazione dell’élite polacca. Secondo Hitler, «soltanto una nazione i cui ceti più elevati siano stati distrutti può essere ridotta in schiavitù». Pertanto furono presi di mira ufficiali e membri della classe dirigente, e a farlo erano personaggi che sapevano bene chi cercare: quindici dei venticinque comandanti delle unità incaricate di trovare e annientare «i ceti più elevati della società polacca» erano titolari di dottorato, perlopiù in diritto o filosofia. 37 Il riavvicinamento tra Germania e Unione Sovietica e l’attacco alla Polonia colsero impreparate Gran Bretagna e Francia. Pur avendo dichiarato guerra, nessuno dei due paesi fornì un significativo sostegno militare o logistico ai polacchi. La Royal Air Force, in realtà, intraprese alcune limitate operazioni di bombardamento, ma i carichi di gran lunga più comuni trasportati dagli aerei che sorvolavano il territorio tedesco non erano tanto ordigni incendiari quanto volantini
dagli intenti alquanto velleitari, se non decisamente ingenui. «Ci sono buone ragioni per ritenere che le autorità tedesche temessero l’effetto della nostra propaganda» dicevano i verbali del primo punto all’ordine del giorno della riunione di gabinetto all’inizio del settembre 1939. Il fatto che «i nostri aerei siano riusciti a sorvolare impunemente tutto il Nordovest della Germania» era destinato ad avere «un effetto deprimente sul morale della popolazione tedesca». E si convenne che sganciare in futuro maggiori quantità di volantini poteva risultare molto efficace. 38 Nel frattempo Londra era sommersa da rapporti allarmanti inviati dall’India e dall’Asia centrale, perché l’accordo firmato da Molotov e Ribbentrop non si limitava ad assicurare alla Germania una fonte di rifornimenti essenziali, aprendo così la strada alla guerra in Europa. Il rappresentante diplomatico a Kabul, Sir William Kerr Fraser-Tytler, avvertì che, a livello locale, il possibile sostegno militare britannico nel caso di un’invasione sovietica dell’Afghanistan era oggetto di molti dubbi e congetture. 39 Queste preoccupazioni erano condivise dall’India Office, dove il segretario di Stato stilò un allarmato documento per il Consiglio di guerra a Londra, in cui dipingeva un quadro quasi disperato delle difese dell’India, e specialmente del suo armamento antiaereo, che pare fosse ridotto a nulla più di un’unica batteria formata da otto cannoni da tre pollici (76,2 mm). 40 Sebbene Londra fosse scettica, almeno nell’immediato, sul pericolo in Asia centrale, si riconobbe che l’alleanza della Germania con l’Unione Sovietica costituiva una minaccia per gli interessi britannici in Oriente. Nella primavera del 1940 si teneva in attenta considerazione quella che sembrava un’inevitabile resa dei conti. Come spiegava un rapporto dei capi di stato maggiore al Consiglio di guerra, intitolato Le implicazioni militari delle ostilità con la Russia nel 1940, era «improbabile che il governo sovietico perdesse tempo a intraprendere azioni contro l’India e l’Afghanistan», uno sviluppo che avrebbe imposto «il più massiccio riposizionamento di forze alleate». 41 Ma, come esponeva con agghiacciante lucidità un altro rapporto, c’erano moltissimi modi in cui la cooperazione tedesca con Mosca si sarebbe potuta rivelare profondamente dannosa per gli
Alleati: le risorse petrolifere britanniche in Iran e in Iraq erano potenzialmente vulnerabili e potevano andare perdute e, peggio ancora, passare al nemico. 42 Tali preoccupazioni non erano prive di fondamento. I tedeschi erano stati estremamente attivi in tutto il Medio Oriente e nell’Asia centrale nel corso degli anni Trenta. Grazie alla Lufthansa era stata istituita un’ampia rete di voli commerciali in tutta la regione, e compagnie come la Siemens e l’Organisation Todt avevano compiuto rilevanti incursioni nei settori industriali di Iraq, Iran e Afghanistan. Gli ingegneri tedeschi avevano progettato innumerevoli ponti e strade, la cui costruzione o supervisione fu affidata a tecnici anch’essi tedeschi. L’infrastruttura delle telecomunicazioni era opera di compagnie come la Telefunken, la cui competenza era molto richiesta. 43 Tali legami facevano sì che la Germania fosse vista sotto una luce positiva in tutta la regione, giudizio favorito dalla percezione che il mondo islamico aveva di Hitler come di un leader deciso e pronto a battersi per ciò in cui credeva. Questo messaggio era poi rafforzato dalla rete di agenti controllati dall’Abwehr, il servizio segreto militare tedesco, che era stato attivamente impegnato nella costruzione di contatti e nell’acquisizione di consenso in tutta la regione compresa tra il Mediterraneo orientale e l’Himalaya. 44 In effetti, nel gennaio 1940 ci furono animate discussioni in seno all’alto comando tedesco sul modo in cui incoraggiare i sovietici a intervenire nell’Asia centrale e in India. Il generale Alfred Jodl, uno dei più rispettati alti ufficiali della Wehrmacht, fece circolare piani relativi a un’offensiva congiunta tedesco-sovietica in Medio Oriente. Quest’operazione avrebbe «richiesto uno sforzo relativamente piccolo», ma avrebbe al tempo stesso «creato un’area conflittuale in grado di minacciare l’Inghilterra». 45 Fu anche attentamente elaborato un distinto e audace piano per rimettere sul trono afghano il re Amanullah, che dopo essere stato deposto si era stabilito a Berlino. 46 E poi ci furono tentativi di fomentare disordini in regioni strategicamente sensibili. Il fachiro di Ipi, una versione anni Trenta di Osama bin Laden – un predicatore ascetico, mistico ma sanguinario, conservatore dal punto di vista religioso, ma rivoluzionario da quello
sociale –, fu identificato come partner ideale per destabilizzare la Frontiera del Nordovest e distrarre attenzioni e risorse britanniche. Un primo problema era quello di trovarlo: era estremamente sfuggente, e aveva seminato innumerevoli volte i britannici. Un altro era prendere contatto con lui in modo discreto: una missione era finita in un disastro quando due agenti tedeschi che l’Abwehr riteneva avrebbero dato meno nell’occhio se si fossero finti specialisti di lebbra furono l’uno ucciso e l’altro ferito in un’imboscata tesa dall’esercito afghano. Quando il contatto fu finalmente stabilito, le richieste del fachiro in cambio dell’aiuto contro i britannici si rivelarono al limite dell’assurdo. 47 Lo sforzo tedesco di costruire contatti non era stato meno energico altrove, in tutta la regione. Molti in Iran e in Iraq erano attratti dal dinamismo di Hitler e dalla sua retorica. C’era una naturale sovrapposizione, per esempio, tra il profondo antisemitismo del regime nazista e quello di alcuni autorevoli studiosi islamici. Il Gran Muftì di Gerusalemme, Muḥammad al-Ḥusaynī, aveva salutato l’ascesa di un uomo che in seguito avrebbe chiamato «al-ḥajj Muḥammad Hitler». Le idee antisemite del leader tedesco erano musica per le orecchie di un uomo che non si faceva scrupolo di invocare la morte degli ebrei, che definiva «feccia e microbi». 48 Ma l’ammirazione per la Germania in tutta la regione andava molto oltre. Alcuni studiosi hanno sottolineato le analogie tra l’ideologia che Hitler impose alla Germania negli anni Trenta e un consimile programma di «purificazione» della lingua e dei costumi adottato in Persia, parallelamente a uno sforzo consapevole di richiamarsi – come facevano i nazisti – a una semimitica età dell’oro. In effetti, la decisione di cambiare ufficialmente il nome del paese da Persia in Iran fu presumibilmente il risultato dell’azione dei diplomatici di Teheran di stanza a Berlino, che convinsero lo scià dell’importanza dell’idea di «arianesimo», e della comune eredità etimologica e pseudostorica cui la nuova identità dell’Iran poteva facilmente fare riferimento. 49 Analogamente, anche la fondazione in Iraq del partito Ba’ath (risorgimento) doveva molto alla propaganda nazista e all’idea di rinascita. 50 E ci fu anche lo scambio rivelatore tra Hitler e l’inviato del
re saudita. «Consideriamo gli arabi con la più calorosa simpatia per tre motivi» disse Hitler all’inviato nel 1939. «Primo, non nutriamo alcuna aspirazione territoriale nei paesi arabi. Secondo, abbiamo gli stessi nemici. E, terzo, combattiamo entrambi contro gli ebrei. Non avrò pace finché l’ultimo di loro non avrà lasciato la Germania.» 51 Non c’è da sorprendersi, quindi, che a Londra e a Parigi venissero elaborati piani su piani per cercare di contenere tedeschi e sovietici. Il capo dello stato maggiore generale francese, Maurice Gamelin, chiese che si facessero progetti per la costruzione di una piazzaforte, idealmente situata nei Balcani, che potesse esercitare pressione alle spalle della Germania in caso di necessità. 52 L’idea fu presa sul serio, grazie soprattutto all’appoggio del primo ministro francese Édouard Daladier, ma poi fu lasciata cadere. Fu sostituita da un audace piano che prevedeva il lancio di un attacco in Scandinavia per tagliare i rifornimenti tedeschi di minerale ferroso, una strategia che ricevette l’entusiastico sostegno di Winston Churchill, a questo punto Primo Lord dell’Ammiragliato. «Nulla sarebbe più esiziale … che bloccare questa importazione per tre o anche per sei mesi» scrisse Churchill. La Gran Bretagna «dovrebbe violare la neutralità della Norvegia» e minare le sue acque costiere. Questi passi avrebbero rappresentato una minaccia per «la capacità bellica» della Germania e «per la vita stessa del paese». 53 L’obiettivo di inceppare le linee di rifornimento tedesche era al centro di tutte le discussioni. Alla fine, nella primavera del 1940, l’attenzione si rivolse a Baku. Il capo dell’aviazione francese, generale Joseph Vuillemin, avanzò la proposta di utilizzare le basi in Medio Oriente per colpire degli impianti petroliferi, in primo luogo nell’Azerbaigian sovietico. Operando dalle basi britanniche in Iraq e dalle basi francesi in Siria, le squadriglie alleate avrebbero potuto, si sosteneva, ridurre la produzione di petrolio nel Caucaso del 50 per cento nell’arco di due o tre mesi. Secondo la prima bozza del piano, ciò avrebbe avuto «ripercussioni decisive sulla Russia e sulla Germania». Versioni successive lasciavano intravedere previsioni ancora più rosee: un numero minore di gruppi d’attacco avrebbe prodotto vantaggi analoghi, ma in un lasso di tempo più breve. 54
I risultati di un bombardamento del Caucaso sarebbero stati spettacolari, convenivano gli strateghi britannici: ci sarebbe stato un immediato sconvolgimento «dell’economia industriale e di quella agricola della Russia, fino alla progressiva paralisi e alla definitiva interruzione. In questo modo, tutte le speranze della Germania di organizzare razionalmente la produzione russa a proprio vantaggio sarebbero andate in fumo, e la cosa, da questo punto di vista, avrebbe avuto un’influenza decisiva sull’esito della guerra». I pianificatori francesi e britannici si convinsero che distruggere gli impianti petroliferi russi fosse il modo migliore per eliminare la minaccia posta dalla Germania. 55 Tali piani di azione congiunta naufragarono quando Hitler lanciò un attacco fulmineo contro la Francia. Per molti si trattò di un capolavoro di genio tattico, che colse di sorpresa i difensori con una serie di operazioni folgoranti, meticolosamente pianificate in anticipo ed eseguite con perizia da un esercito temprato dalle battaglie e dotato di vasta esperienza nell’occupazione di territori stranieri. In realtà, come mostrano studi recenti, il successo tedesco in Francia dovette moltissimo al caso. Più di una volta Hitler ebbe una crisi di nervi, avendo ordinato alle truppe di mantenere una posizione, per poi scoprire che le sue disposizioni non arrivavano ai comandanti delle unità se non dopo che si erano spinti parecchi chilometri oltre il punto in cui avrebbero dovuto fermarsi. Heinz Guderian, un impetuoso comandante di truppe corazzate prussiano, avendo continuato ad avanzare – probabilmente perché l’avviso di mantenere la posizione non gli era mai arrivato –, fu addirittura sollevato dall’incarico. In questo periodo Hitler stesso sviluppò un tale timore che le sue forze cadessero in un’inesistente trappola, da sfiorare l’esaurimento nervoso. 56 La rapida avanzata fu quindi il premio immeritato per un giocatore d’azzardo che aveva battuto ogni probabilità. Per l’Europa occidentale, l’età degli imperi era finita con la prima guerra mondiale. Ora, invece di svanire lentamente, stava per ricevere dalla Germania un colpo brutale. Mentre la Royal Air Force si preparava a levarsi in volo per la Battaglia d’Inghilterra, c’era chi proclamava a gran voce la fine di un’era. Il rappresentante
diplomatico tedesco a Kabul non perdeva occasione per predire che entro la fine dell’estate Hitler sarebbe stato a Londra. In vista del collasso definitivo dell’impero britannico, alle autorità governative afghane venivano fatte proposte concrete: se il paese avesse abbandonato la posizione neutrale che aveva adottato all’inizio della guerra, la Germania prometteva di cedergli una vasta area dell’India nordoccidentale e il porto di Karachi, quando questi fossero caduti nelle sue mani. Era un’offerta allettante. Perfino l’inviato londinese a Kabul riconosceva che la nave britannica «sembrava sul punto di affondare», e che ci volevano coraggio e fede per scommettere che «potesse restare a galla». Misure come quella di ridurre i costi di trasporto per i raccolti di cotone afghano, affinché l’economia locale non subisse un collasso, erano il minimo dei gesti simbolici che si potesse fare, oltre che un sintomo di quanto limitate fossero le opzioni per la Gran Bretagna. In questo momento cruciale gli afghani non vacillarono, o quantomeno, se esitarono, non unirono immediatamente le loro sorti a quelle della Germania. 57 Nell’estate del 1940 la Gran Bretagna e il suo impero lottavano per la sopravvivenza. Il tratto di penna che a Mosca, nel cuore di una notte dell’estate precedente, aveva sigillato un accordo tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica comunista aveva d’improvviso cambiato radicalmente la faccia del mondo. Il futuro stava in una serie di connessioni che, attraverso l’Unione Sovietica, avrebbero messo in contatto Berlino con il cuore dell’Asia e con il subcontinente indiano, e che avrebbero dirottato commercio e risorse dall’Europa occidentale verso il centro del continente. Questo riorientamento, però, dipendeva dal sostegno continuo e regolare dell’Unione Sovietica. Nei mesi che seguirono all’invasione della Polonia, merci e materiali affluivano in Germania, ma non sempre questo avveniva senza intoppi. I negoziati erano tesi, specialmente quando si trattava di grano e petrolio, due risorse particolarmente richieste. Stalin sovrintendeva personalmente alle trattative; era lui a decidere se acconsentire o no alla richiesta di 800.000 tonnellate di petrolio, o anche di quantità molto minori, da parte della Germania, e a quali condizioni. Discutere i singoli invii
comportava tensioni e perdita di tempo, ed era fonte di ansietà quasi continua per i pianificatori tedeschi. 58 Com’era ovvio, il ministero degli Esteri tedesco si rendeva conto di quanto delicata fosse la situazione, e nei suoi rapporti sottolineava i pericoli di un’eccessiva dipendenza da Mosca. Se, per una qualunque ragione, qualcosa fosse andato storto – un cambiamento di leadership, l’ostinazione o un semplice dissenso commerciale –, la Germania sarebbe stata vulnerabile. Era questa la più grossa minaccia che incombeva sulla sbalorditiva serie di successi militari di Hitler in Europa. 59 Fu da questo senso di apprensione e di incertezza che scaturì la decisione che doveva costare la vita a milioni di soldati tedeschi, a milioni di russi e a milioni di ebrei: l’invasione dell’Unione Sovietica. Come al solito, quando annunciò il suo ultimo azzardo alla fine di luglio 1940, Hitler lo fece passare per una battaglia ideologica. Era ora di cogliere l’occasione, disse al generale Jodl, e di eliminare il bolscevismo. 60 In realtà, ciò che era in gioco erano le materie prime, e soprattutto il cibo.
Nel corso della seconda metà del 1940 e all’inizio del 1941 i progetti per la logistica di un’invasione videro all’opera non solo i militari, ma anche i pianificatori economici, a capo dei quali c’era Herbert Backe, uno specialista di agraria che era entrato nel Partito nazista nei primi anni Venti e ne aveva progressivamente scalato le gerarchie, fino a diventare un protetto di Richard Darré, ministro dell’Alimentazione e dell’Agricoltura. La devozione servile di Backe alla causa nazista, unita alla sua competenza in materia di agricoltura, ne avevano fatto una figura sempre più influente nelle riforme che negli anni Trenta avevano regolamentato i prezzi e posto limiti ai mercati tanto di importazione quanto di esportazione. 61 Backe era ossessionato dall’idea che la Russia potesse essere la soluzione dei problemi della Germania. Con la progressiva espansione dell’impero russo, le steppe erano state lentamente trasformate da terre di allevatori nomadi in un granaio ideale, costellato di campi di cereali che si estendevano a perdita d’occhio nelle grandi pianure. Il suolo era straordinariamente fertile, soprattutto nelle aree in cui la terra era scura per la ricchezza di minerali. Spedizioni scientifiche inviate dall’Accademia delle Scienze dell’URSS a esplorare la regione decantavano la fascia di territorio che correva dal mar Nero fin nel cuore dell’Asia centrale, riferendo in tono entusiastico che le condizioni erano perfettamente idonee a una coltivazione su vasta scala e a elevata produttività. 62 Nella Russia meridionale e nell’Ucraina l’agricoltura si era sviluppata a un ritmo molto intenso prima della Rivoluzione del 1917, spinta da una crescente domanda interna, dall’aumento delle esportazioni e dalla ricerca scientifica sulle migliori qualità di grano e sui modi per massimizzare le rese di terre che per millenni erano state tenute a pascolo dai nomadi per il loro bestiame. 63 Quanto alle steppe, che avevano incrementato la produzione così rapidamente tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, nessuno ne conosceva il potenziale meglio di Herbert Backe: la sua area di competenza era il grano russo, che era stato anche l’argomento della sua dissertazione di dottorato. 64 Backe, un uomo magro e piccolo di statura, che portava occhiali e vestiva elegantemente, diresse le équipe incaricate di
elaborare una serie di progetti su quali sarebbero dovuto essere gli scopi e gli obiettivi di un’invasione. Come Backe non mancava di fare presente a Hitler, la chiave era l’Ucraina: il controllo delle ricche pianure agricole che correvano lungo la sponda settentrionale del mar Nero fin oltre il Caspio avrebbe «liberato [il popolo tedesco] da ogni pressione economica». 65 La Germania sarebbe stata «inattaccabile», se fosse riuscita a impadronirsi delle parti dell’Unione Sovietica che racchiudevano «enormi ricchezze». 66 Sarebbe finita la dipendenza dalla benevolenza dell’URSS e dalla sua capricciosa leadership; gli effetti del blocco britannico del Mediterraneo e del mare del Nord sarebbero stati fortemente ridotti. Questa era l’occasione per assicurare alla Germania l’accesso a tutte le risorse di cui aveva bisogno. È esattamente in questi termini che Hitler descrisse la posta in gioco dopo che l’attacco ebbe luogo, nell’estate del 1941. Nei primi giorni dell’invasione, mentre le truppe avanzavano verso est con sorprendente rapidità, il Führer riusciva a stento a trattenere l’eccitazione. La Germania non avrebbe mai lasciato queste terre appena conquistate, affermava soddisfatto; sarebbero diventate «la nostra India», «il nostro esclusivo Giardino dell’Eden». 67 Anche Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, non dubitava che l’attacco avesse per oggetto principale le risorse, e in particolare il grano e i cereali. In un articolo scritto nel 1942, con il suo caratteristico stile impassibile e crudo affermava che la guerra era stata intrapresa per «il grano e il pane, per una tavola ben fornita a colazione, pranzo e cena». Questo, e nulla di più, era l’obiettivo bellico della Germania, continuava: la conquista dei «vasti campi dell’Est [che] ondeggiano di grano dorato, sufficiente – più che sufficiente – a nutrire il nostro popolo e tutta l’Europa». 68 Dietro commenti come questi c’era una realtà incalzante: la Germania si ritrovava sempre più a corto di cibo e di viveri, mentre gli invii di grano sovietico non riuscivano a ridurre i cronici problemi di approvvigionamento. Nel febbraio 1941, per esempio, la radio tedesca comunicava che c’erano carenze di cibo in tutta Europa per effetto dei blocchi commerciali imposti dai britannici, quegli stessi blocchi che in
precedenza erano stati descritti come pura e semplice «confusione mentale» o «demenza britannica», per usare le parole degli annunciatori. 69 Nell’estate del 1941 Goebbels annotava nel suo diario che i negozi di Berlino avevano gli scaffali vuoti; trovare verdure in vendita era una rarità. Ciò causava instabilità dei prezzi e alimentava un fiorente mercato nero, accrescendo le ansie di una popolazione che, pur non manifestando ancora malcontento, cominciava a chiedersi quali fossero stati, di preciso, i vantaggi dell’espansione tedesca: una novità che rendeva decisamente nervoso il responsabile della propaganda di Hitler. 70 Come diceva un funzionario locale, nella sua zona, «sfiniti di lavoro, esausti, uomini e donne non riescono a capire il motivo di andare a far guerra fino in Asia e Africa». I giorni più felici erano ormai un lontano ricordo. 71 La soluzione era stata fornita da Backe e dalla sua schiera di analisti. Backe stesso, alla fine del 1940, nel suo rapporto annuale sugli approvvigionamenti si era preoccupato di sottolineare come la situazione alimentare della Germania stesse peggiorando. Anzi, in una riunione ministeriale tenuta nel gennaio 1941 con Hermann Göring nel ruolo di coordinatore del Piano Quadriennale, si era spinto ad avvertire che di lì a poco sarebbe stato necessario razionare la carne, un passo su cui era stato ripetutamente posto il veto per paura di perdere il sostegno non soltanto per la guerra ma per la stessa ideologia nazista. 72 La proposta di Backe era radicale. Essendo vasta e differenziata quanto a geografia e clima, l’Unione Sovietica poteva essere suddivisa con un semplice tratto di penna. Al Sud, che comprendeva l’Ucraina, la Russia meridionale e il Caucaso, c’erano campi e risorse che costituivano una zona di «surplus». Al Nord, formato da Russia centrale e settentrionale, Bielorussia e paesi baltici, c’era una zona di «deficit». Per come la vedeva Backe, quelli da una parte della riga producevano cibo, quelli dall’altra parte si limitavano a consumarlo. La risposta ai problemi della Germania era concentrarsi sulla conquista della prima parte e ignorare la seconda. Bisognava impadronirsi della zona di «surplus» e dirottarne il prodotto in Germania. La zona di «deficit» andava isolata; se e come potesse
sopravvivere, poco importava. La sua rovina sarebbe stata un vantaggio per la Germania. Il significato reale di questa proposta fu esplicitato chiaramente in una riunione che ebbe luogo a Berlino soltanto qualche settimana prima del lancio dell’Operazione Barbarossa, il nome in codice dato all’invasione dell’Unione Sovietica. Il 2 maggio i pianificatori discussero le priorità e i risultati attesi dell’attacco: a mano a mano che l’avanzata procedeva, gli eserciti tedeschi avrebbero dovuto strappare al suolo tutto il possibile per alimentarsi; ci si aspettava che la terra promessa cominciasse a produrre fin dall’inizio. La Wehrmacht doveva essere rifornita dalla Russia fin dal momento in cui i soldati tedeschi avrebbero varcato la frontiera. Alla riunione si parlò anche dell’effetto che ciò avrebbe avuto su coloro che vivevano nella zona di «deficit». Dovevano essere liquidati senza esitazioni. Il verbale, uno dei più agghiaccianti documenti della storia, affermava semplicemente: «Di conseguenza, x milioni di persone senza dubbio moriranno di fame, se dalla terra si estrarrà ciò che è necessario a noi». 73 Queste morti erano il prezzo da pagare perché la Germania riuscisse a nutrire sé stessa. Questi milioni di vittime erano danni collaterali, necessari per il successo e la sopravvivenza della nazione tedesca. La riunione procedette poi a esaminare altre questioni logistiche per garantire che le cose andassero lisce. Era necessario assicurarsi le principali arterie che collegavano le pianure agricole all’infrastruttura di trasporto per consentire l’invio dei materiali in Germania. Particolare attenzione fu riservata a ciò che dovevano indossare i responsabili dell’agricoltura che avrebbero sovrinteso all’ammasso dei raccolti e alla futura semina: bracciali grigio-argento sugli indumenti civili. Come osserva un autorevole studioso, la riunione vide intrecciarsi mondanità e ferocia omicida. 74 Nelle tre settimane che seguirono, ci fu un tentativo concertato di quantificare il numero delle probabili vittime, di assegnare un valore agli «x milioni» la cui morte era prevista nella zona di «deficit». Il 23 maggio vide la luce un rapporto di venti pagine che era
sostanzialmente una versione aggiornata delle conclusioni già raggiunte. La regione di «surplus» dell’Unione Sovietica doveva essere staccata, il suo grano e i suoi altri prodotti agricoli dovevano essere raccolti e dirottati verso la Germania. Come si era detto nella precedente riunione di Berlino, la popolazione locale ne avrebbe sopportato le conseguenze. Quali fossero fu esplicitato dal calcolo del numero dei probabili morti, in precedenza lasciato in sospeso. «Molte decine di milioni di persone in questo territorio diverranno superflue e moriranno o dovranno emigrare in Siberia» diceva questo rapporto. «Tentativi di salvare la popolazione locale dalla morte per fame … possono essere fatti soltanto a spese dell’approvvigionamento dell’Europa. Essi vanno a scapito della possibilità della Germania di resistere fino alla fine della guerra.» 75 L’attacco contro l’Unione Sovietica non aveva a che fare soltanto con la vittoria nella guerra. Era letteralmente una questione di vita o di morte. Sebbene non sia giunto fino a noi l’elenco dei partecipanti alla riunione del 2 maggio, le impronte digitali di Backe sono evidenti in tutto l’ordine del giorno e nelle conclusioni. Backe godeva di grande considerazione da parte di Hitler, più che non i suoi superiori, e come sua moglie scrisse nel diario, il dittatore tedesco, durante le riunioni per la pianificazione dell’invasione, cercava il suo consiglio più di quello di chiunque altro. Inoltre c’era la versione riveduta dell’introduzione alla sua dissertazione, che fu finalmente pubblicata nell’estate del 1941. La Russia non era riuscita a usare in modo appropriato le proprie risorse, aveva scritto Backe; se la Germania se ne fosse impadronita, di certo le avrebbe utilizzate in modo più efficiente. 76 Ma più rivelatrice di ogni altra cosa era una breve nota che Backe stese il 1° giugno 1941, tre settimane prima dell’invasione. I russi, diceva, non meritavano alcuna simpatia per ciò che stavano per subire. «Il russo ha già sopportato per secoli la povertà, la fame e la frugalità … Non si tenti di applicare come [metro di paragone] il livello di vita tedesco e di falsare il modo di vivere russo.» Lo stomaco russo, continuava, «è elastico». La pietà per chi patirà la fame, perciò, sarebbe fuori luogo. 77 La nitidezza del suo modo di pensare colpiva
gli altri, come osservava Goebbels nel suo diario mentre i preparativi per l’attacco all’URSS si facevano frenetici. Backe, scriveva, «domina il suo dipartimento in modo magistrale. Con lui, tutto quello che è possibile fare, viene fatto». 78 La gravità di ciò che stava per accadere non sfuggiva a quanti vi erano coinvolti. Ci saranno penurie di cibo nell’inverno del 1941, prediceva Goebbels nel suo diario, così estreme da far sembrare insignificanti al confronto le altre carestie. Questo non è un nostro problema, aggiungeva, con l’ovvia implicazione che a soffrirne sarebbero stati i russi e non i tedeschi. 79 Ammettendo che questi ultimi ascoltassero le trasmissioni della radio sovietica con la medesima attenzione con cui lo facevano i britannici, Goebbels dovette sentirsi rincuorato dalla notizia che, a meno di tre giorni dall’inizio dell’invasione, «nella Russia centrale i campi hanno l’aspetto di tappeti verdi; nel Sudest, il grano sta maturando». Il raccolto stava appena iniziando, e sembrava eccezionalmente abbondante. 80 Mentre i preparativi per l’attacco raggiungevano la fase finale, i soldati dell’esercito, così come gli alti ufficiali, avevano scolpito in mente ciò che era in gioco. Secondo Franz Halder, un militare di carriera bavarese che aveva scalato inarrestabilmente la gerarchia della Wehrmacht, Hitler fu come d’abitudine esplicito e categorico. Questa è una lotta all’ultimo respiro, aveva detto ai suoi generali nel marzo 1941. La forza deve essere utilizzata in Russia «nella sua forma più brutale». Questa doveva essere «una guerra di sterminio». «I comandanti delle truppe devono conoscere la posta in gioco.» Per quanto riguardava l’Unione Sovietica, aveva detto Hitler, «il rigore oggi significa clemenza nel futuro». 81 Tutto ciò fu espresso più esplicitamente nel maggio 1941, allorché tra i futuri partecipanti all’invasione fu fatto circolare un apposito opuscolo ufficiale dal titolo Istruzioni per il comportamento delle truppe in Russia. Vi erano elencate le minacce che ci si doveva aspettare dagli «agitatori», dai «partigiani», dai «sabotatori» e dagli ebrei, chiarendo ai soldati tedeschi che non dovevano fidarsi di nessuno e non dovevano mostrare alcuna pietà. 82 Furono emanati anche ordini che
descrivevano come controllare i territori conquistati. Si doveva ricorrere a punizioni collettive nel caso di insurrezione o resistenza. Coloro che erano sospettati di operare contro gli interessi tedeschi andavano processati sul posto e fucilati se ritenuti colpevoli, indipendentemente dal fatto che fossero soldati o civili. 83 Infine fu emanata una serie di direttive, tra le quali il cosiddetto Kommissarbefehl (Ordine dei commissari), che dava precisi avvertimenti su cosa aspettarsi: il nemico si sarebbe probabilmente comportato in un modo che contravveniva i princìpi del diritto internazionale e quelli di umanità. I «commissari» – formula abbreviata per indicare i membri dell’élite politica sovietica – combattevano in modi che potevano essere descritti soltanto come «barbarici e asiatici». Nei loro confronti non si doveva mostrare alcuna pietà. 84
XX
LA VIA AL GENOCIDIO
Nella fase di preparazione dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, il messaggio trasmesso agli ufficiali e alle truppe era univoco e inappellabile: tutto dipendeva dalla conquista dei campi di grano del Sud. Ai soldati veniva detto di immaginare che il cibo che mangiavano i cittadini sovietici fosse stato strappato di bocca ai bambini tedeschi. 1 Gli ufficiali superiori dicevano ai loro uomini che il futuro stesso della Germania dipendeva dal loro successo. Come scrisse il colonnello generale Erich Hoepner in un ordine operativo diretto al suo Panzergruppe (gruppo corazzato) immediatamente prima dell’inizio dell’Operazione Barbarossa, la Russia doveva essere sgominata, e sgominata «con una severità senza precedenti. È necessario che ogni azione militare sia improntata, a livello di concepimento come di attuazione concreta, alla ferrea volontà di annientare totalmente e senza pietà il nemico». 2 Disprezzo per gli slavi, odio del bolscevismo e antisemitismo scorrevano nelle vene del corpo degli ufficiali. Tutto ciò ora si combinava, per dirla con un autorevole storico, in un «lievito ideologico la cui fermentazione doveva inesorabilmente trasformare i generali in strumenti di sterminio». 3 Mentre incitava alla pratica dell’orrore, Hitler sognava a occhi aperti il futuro: la Crimea, pensava, sarebbe diventata una specie di Riviera per i tedeschi; che cosa meravigliosa sarebbe stata collegare la penisola nel mar Nero alla madrepatria con un’autostrada in modo che ogni tedesco potesse andarci con la sua «auto del popolo» (ossia Volkswagen). Cominciava stranamente a desiderare di essere più giovane per poter vedere come sarebbe andata a finire; era un peccato, gli pareva, che dovesse perdersi un periodo di grande esaltazione nei
decenni a venire. 4 A sua volta, Himmler coltivava una rosea visione fatta di «perle di insediamenti» (Siedlungsperlen) popolati da colonizzatori e contornati da villaggi abitati da contadini tedeschi che mietevano le messi prodotte dalla ricca terra nera. 5 Hitler e i suoi accoliti avevano due modelli per l’ampliamento della base produttiva della Germania. Il primo era l’impero britannico. La Germania si sarebbe impadronita di nuovi enormi territori a est, proprio come aveva fatto la Gran Bretagna nel subcontinente indiano. Una ristretta popolazione di colonizzatori tedeschi avrebbe governato la Russia, proprio come un numero ridotto di britannici governava nel Raj. La civiltà europea avrebbe trionfato su una cultura che era chiaramente inferiore. L’esempio dei britannici in India veniva citato di continuo dai nazisti come modello di dominio su vasta scala esercitato da un numero ristretto di persone. 6 Ma c’era anche un altro modello a cui Hitler faceva abitualmente riferimento, scorgendovi delle analogie e usandolo come fonte d’ispirazione: gli Stati Uniti. La Germania doveva fare quello che i coloni europei avevano fatto nel Nuovo Mondo ai nativi americani, disse Hitler ad Alfred Rosenberg, appena nominato Reichsminister per i Territori Orientali Occupati: la popolazione locale doveva essere scacciata, oppure sterminata. Il Volga, proclamava, sarebbe stato il Mississippi della Germania, vale a dire una frontiera tra il mondo civilizzato e il caos al di là di essa. La stessa gente che aveva colonizzato le Grandi Pianure americane nel XIX secolo, sosteneva, di certo sarebbe accorsa in massa per stabilirsi all’Est. Tedeschi, olandesi, scandinavi e, prediceva con sicurezza, gli stessi americani avrebbero trovato un futuro di prosperità in una nuova terra ricca di opportunità. 7 Un nuovo ordine mondiale sarebbe emerso grazie ai campi dell’Ucraina e della Russia meridionale, che si estendevano a perdita d’occhio verso oriente. Era la fine del Sogno americano, dichiarava Hitler: «L’Europa, e non più l’America, diventerà la terra delle opportunità illimitate». 8 Il suo entusiasmo non si basava solamente sulle prospettive offerte dalla fascia di territorio a nord del mar Nero e del mar Caspio, perché da ogni dove giungevano segnali di una svolta spettacolare in favore
del Terzo Reich. Un braccio della tenaglia tedesca stava avanzando verso il cuore del mondo da nord, mentre l’altro stava arrivando da sud, attraverso il Nord Africa e il Medio Oriente. Nel 1941, proprio in concomitanza con l’avvio dell’Operazione Barbarossa, una serie di fulminee vittorie nei deserti dell’Africa settentrionale aveva sorprendentemente portato Rommel e l’Afrika Korps a ridosso del confine egiziano, e quindi a un passo dall’assumere il controllo del canale di Suez, di vitale importanza. Nel frattempo, il collasso della Francia aveva dischiuso alla Luftwaffe la possibilità di estendere ulteriormente il raggio d’azione della Germania, servendosi delle basi aeree che la Francia aveva costruito in Siria e nel Levante dopo il riassetto seguito alla prima guerra mondiale. Il destino del mondo era appeso al più sottile dei fili. La questione cruciale, a quanto pareva, s’incentrava sui tempi dell’invasione dell’Unione Sovietica e sulla possibilità di cogliere di sorpresa Stalin. Era essenziale lanciare l’attacco dopo che i campi erano stati seminati ma prima del raccolto, in modo che le truppe tedesche potessero beneficiarne durante l’avanzata in territorio russo. Grazie ai negoziati con Mosca del 1940, la Germania era riuscita a ottenere dall’Unione Sovietica un milione di tonnellate di grano, oltre a una quantità pressoché uguale di petrolio e a considerevoli partite di minerale di ferro e di manganese. Una volta ricevuta un’altra enorme spedizione di merci, nel maggio 1941, il momento era ormai vicino. 9 Allarmati dall’ammassarsi di truppe tedesche all’Est, all’inizio dell’estate del 1941 il maresciallo Timošenko, commissario alla Difesa, e il generale Georgij Žukov proposero a Stalin di lanciare un attacco preventivo, seguito da un’avanzata che avrebbe portato all’invasione della Polonia settentrionale e di Varsavia, e di parte della Prussia. Stando a due resoconti pressoché coincidenti, Stalin scartò immediatamente il piano. «Siete impazziti?» sembra chiedesse irosamente. «Volete provocare la Germania?» Poi, rivolgendosi a Timošenko, aggiunse: «Guardate tutti … Timošenko è sano e ha una gran testa; ma il suo cervello è evidentemente minuscolo». Infine la minaccia: «Se provochi i tedeschi sul confine, e se muovi truppe senza
il mio permesso, sappi che cadranno delle teste». Dopodiché si voltò e uscì sbattendosi la porta alle spalle. 10 Non che Stalin non credesse che Hitler avrebbe attaccato, solo pensava che non avrebbe ancora osato farlo. In effetti, se il leader russo aveva personalmente sovrinteso agli scambi commerciali con il governo nazista, lo aveva fatto unicamente per tenere d’occhio da vicino i tedeschi mentre l’esercito sovietico veniva rapidamente ricostruito e modernizzato. Era talmente sicuro di essere ancora padrone della situazione che, anche quando giunsero sulla sua scrivania i rapporti di intelligence degli agenti in servizio a Berlino, a Roma e a Tokyo – che si aggiungevano agli avvertimenti e ai segnali provenienti dalle ambasciate a Mosca –, tutti concordi sul fatto che l’attacco fosse imminente, semplicemente non ne tenne alcun conto. 11 Il suo atteggiamento sarcastico è esemplificato alla perfezione dal modo in cui reagì al rapporto di un agente infiltrato nel quartier generale dell’aviazione tedesca, solo cinque giorni prima dell’inizio dell’invasione. «Puoi dire alla tua “fonte” … di andarsene a f. sua madre» scarabocchiò. «Questa non è una “fonte”,» scrisse «è qualcuno che semina disinformazione.» 12 Non tutti quelli che circondavano il leader sovietico erano apatici come lui. I movimenti di truppe tedeschi all’inizio di giugno avevano portato alcuni a sostenere che l’Armata Rossa avrebbe dovuto schierarsi su posizioni difensive. «Abbiamo un patto di non aggressione con la Germania» rispondeva incredulo Stalin. «La Germania è impegnata nella guerra a ovest e sono sicuro che Hitler non oserà aprire un secondo fronte attaccando l’Unione Sovietica. Hitler non è così stupido e si rende conto del fatto che l’Unione Sovietica non è la Polonia o la Francia, e neppure l’Inghilterra.» 13 Verso il 21 giugno era ormai evidente che qualcosa di serio fosse in atto. L’ambasciatore svedese a Mosca, Vilhelm Assarsson, vedeva profilarsi due possibilità: o stava per assistere in prima fila a un epico confronto fra il «Terzo Reich e l’impero sovietico», un confronto dalle conseguenze di portata estremamente vasta, oppure i tedeschi stavano per formulare una serie di richieste relative «all’Ucraina e ai pozzi petroliferi di Baku». In quest’ultima eventualità, rifletteva, sarebbe
forse stato semplicemente testimone «del più clamoroso caso di ricatto della storia mondiale». 14 Poche ore dopo fu chiaro che non si trattava di un bluff. Alle 3.45 del mattino del 22 giugno 1941 Stalin fu svegliato da una telefonata del generale Žukov il quale gli comunicava che le frontiere erano state violate in tutti i settori e che l’Unione Sovietica era sotto attacco. In un primo momento Stalin rifiutò di credere a quanto stava accadendo, concludendo che si trattava di una mossa tattica di Hitler volta a imporre con la forza un accordo di qualche tipo, probabilmente di natura commerciale. Poi, lentamente, cominciò a realizzare che era iniziata una lotta mortale. Paralizzato dallo shock, cadde in uno stato catatonico, lasciando a Molotov il compito di fare pubbliche dichiarazioni. «Un atto di tradimento, senza precedenti nella storia delle nazioni civili, è stato perpetrato» annunciò gravemente Molotov, parlando alla radio. Ma non abbiate dubbi, esortava: «Il nemico sarà annientato e la vittoria sarà nostra». Non si faceva cenno al fatto che l’Unione Sovietica aveva danzato con il diavolo e adesso doveva pagare il conto. 15 L’avanzata tedesca fu inesorabile e devastante, anche se la forza d’invasione non era né così ben preparata né così ben equipaggiata come si è spesso pensato. 16 Nel giro di qualche giorno, Minsk era caduta e 400.000 soldati sovietici erano stati circondati e intrappolati. Brest-Litovsk venne tagliata fuori, i suoi difensori ben presto rimasero privi di rifornimenti, ma non sempre di speranza: come scrisse su un muro un giovane soldato il 20 luglio 1941, «muoio, ma non mi arrendo. Addio, madrepatria». 17 A questo punto, Stalin cominciò a capire l’importanza di ciò che stava accadendo. Il 3 luglio tenne un discorso alla radio in cui parlò dell’invasione tedesca come di una questione «di vita o di morte per i popoli dell’URSS ». Informò gli ascoltatori che gli invasori volevano restaurare «lo zarismo» e il «governo dei signori feudali», e che gli attaccanti volevano procurarsi «schiavi» per i principi e i baroni tedeschi. 18 Un’affermazione, quest’ultima, più vicina al vero, a patto che per «principi» e «baroni» s’intendessero i funzionari del Partito nazista e gli industriali tedeschi: di lì a poco, infatti, il lavoro coatto
sarebbe diventato realtà quotidiana per i soldati sovietici catturati e per la popolazione locale. Nel corso del tempo, oltre 13 milioni di persone furono impiegate per costruire strade, coltivare i campi o lavorare nelle fabbriche, sia direttamente per il regime nazista sia per compagnie private tedesche, molte delle quali presenti ancora oggi sul mercato. In Europa era tornata la schiavitù. 19 Per tutta l’estate del 1941 i tedeschi parvero pressoché inarrestabili. In settembre cadde Kiev, al termine di un assedio che si concluse con la cattura di oltre mezzo milione di soldati sovietici. Qualche settimana più tardi i tre gruppi di battaglia destinati a trafiggere come lance il cuore della Russia avevano raggiunto Kalinin, Tula e Borodino, il luogo in cui l’invasione di Napoleone aveva perso slancio nel 1812. E i tedeschi continuavano ad aprirsi varchi nelle difese. In ottobre Mosca barcollava. Tale era l’apprensione che furono elaborati piani per evacuare la dirigenza a Kujbyšev, la vecchia Samarra, oltre mille chilometri a est di Mosca, su un’ansa del Volga dove il corso del fiume piega verso il Caspio. La salma di Lenin venne rimossa dalla piazza Rossa e posta al riparo in un magazzino. Furono fatti preparativi per la partenza di Stalin dalla città, salvo che poi il leader russo cambiò idea all’ultimo momento e decise di rimanere: secondo alcune fonti, il suo treno aveva già le macchine in moto e le sue guardie del corpo erano sulla banchina, pronte a partire. 20 A novembre era caduta Rostov sul Don, il terminale che dava accesso al Caucaso. Alla fine del mese il terzo e il quarto Panzergruppe erano a meno di 30 chilometri da Mosca, e il 1° dicembre un’unità motociclistica di ricognizione si spinse fino a soli 8 chilometri dalla capitale. 21 Hitler era euforico. Il piano che prevedeva la decapitazione dell’Unione Sovietica mettendo al tappeto Leningrado e Mosca, nel Nord, aveva un ruolo cruciale in vista del mantenimento a lungo termine della zona di «surplus» al Sud, e sembrava ben avviato. Due mesi dopo l’inizio dell’attacco, mentre le linee russe ripiegavano sotto l’urto dell’offensiva tedesca, parlò del futuro con toni eccitati. «L’Ucraina, e poi il bacino del Volga, saranno un giorno i granai d’Europa. Raccoglieremo molto di più di quanto attualmente è prodotto dal suolo» disse nell’agosto 1941. «Se un giorno la Svezia
rifiutasse di fornirci altro ferro,» continuò «nessun problema. Lo otterremo dalla Russia.» 22 Nel frattempo, unità tecniche e del genio si spostavano verso est al seguito dell’esercito. Nel settembre 1941 un convoglio del neonato Sonderkommando R (Unità speciale Russia) partì da Berlino alla volta dell’Ucraina, con lo scopo di organizzare un’infrastruttura praticabile nei territori di recente conquista. Formato da oltre un centinaio di veicoli su cui viaggiavano cucine da campo, uffici mobili, officine di riparazione e apparecchi trasmettitori della polizia, il suo compito era consentire quella che uno storico ha definito «la più radicale campagna di colonizzazione nella storia delle conquiste e della costruzione di imperi in Europa». 23 Quando raggiunsero Odessa, sul mar Nero, gli ufficiali in comando – un’eterogenea accozzaglia di falliti, imboscati e spostati – si diedero a requisire gli edifici più belli per il loro quartier generale e si misero all’opera per fondare il tipo di istituzioni che portavano il segno inequivocabile di piani a lungo termine: biblioteche, archivi discografici, sale conferenze e cinema in cui proiettare trionfalistici film tedeschi. 24 L’invasione sembrava rivelarsi un successo totale. Quasi tutta l’area destinata all’invio di risorse verso la Germania era stata conquistata in meno di sei mesi. Leningrado e Mosca non erano cadute, ma la loro resa pareva soltanto questione di tempo. Anche altrove i segnali sembravano promettenti. C’era stata una sollevazione in Iraq, ancorché alla fine domata da una raffazzonata forza britannica che, dopo aver requisito gli autobus circolanti per le strade di Haifa, si era diretta a est, sul luogo della rivolta, per reprimerla. C’erano dunque buone ragioni per ritenere che i nuovi amici della Germania nei paesi ricchi di petrolio a sud del mar Caspio sarebbero presto tornati utili. 25 Al momento dell’invasione dell’Unione Sovietica, Hitler aveva già dato la sua formale approvazione all’idea dell’indipendenza araba, e aveva scritto al Gran Muftì di Gerusalemme per esprimergli solidarietà, lodando gli arabi in quanto eredi di un’antica civiltà e sottolineando il fatto che i loro nemici, i britannici e gli ebrei, erano
anche i nemici della Germania. 26 La coltivazione di legami nel mondo islamico arrivò a un punto tale che un accademico tedesco scrisse un servile panegirico in cui, tra le altre cose, elogiava l’Arabia Saudita come «Terzo Reich in stile wahabita». 27 Dal punto di vista britannico, la situazione appariva disperata. In Iraq si era evitato per un pelo il disastro, osservava il generale Wavell, comandante in capo in India, ed era d’importanza vitale compiere passi per proteggere l’Iran, dove c’era il rischio che l’influenza tedesca si estendesse. «Ai fini della difesa dell’India» scrisse al primo ministro Winston Churchill nell’estate del 1941 «è assolutamente indispensabile che i tedeschi vengano fatti subito sloggiare dall’Iran. Qualora non si riesca a ottenere questo, è probabile che si ripetano fatti che nell’Iraq riuscimmo a dominare solo di stretta misura.» 28 Wavell aveva ragione di essere preoccupato per l’Iran, dove la propaganda tedesca era stata incessante fin dall’inizio della guerra. Nell’estate del 1941, riferiva un corrispondente americano, a Teheran le edicole erano tappezzate di copie della rivista «Signal», uno dei portavoce di Goebbels, mentre i cinema dove si proiettavano film come Sieg im Westen (Vittoria all’Ovest), che celebravano in stile epico le vittorie tedesche in Francia e in Europa occidentale, erano gremiti. 29 Anche l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica era stato accolto in modo entusiastico nel paese. Secondo alcune fonti, nella piazza Sepah, al centro di Teheran, si riunivano grandi folle ad applaudire le notizie della caduta delle città sovietiche, una dopo l’altra, nelle mani della Wehrmacht. 30 Il problema era che «gli iraniani in generale sono felici dell’attacco tedesco alla Russia, loro antico nemico», come comunicava a Londra Sir Reader Bullard, l’ambasciatore britannico, nei giorni successivi all’invasione. 31 Le simpatie per la Germania erano diffuse nell’esercito e nel bazar, dichiarava l’eminente studiosa della Persia Ann Lambton, richiesta di un parere sugli sviluppi della situazione. Tali sentimenti erano particolarmente accesi tra «i giovani ufficiali [che] tendono a essere filotedeschi e a sperare in una vittoria della Germania». 32 L’addetto militare britannico era più o meno della stessa opinione, e confrontava l’impressione positiva che i locali avevano della Germania con quella
negativa che avevano della Gran Bretagna. «Al momento c’è soltanto un piccolo numero [di persone] che con ogni probabilità sosterrebbero la causa britannica se i tedeschi dovessero arrivare in Persia, mentre si può prevedere che i tedeschi stessi troverebbero un considerevole sostegno attivo.» 33 Questa opinione era condivisa dall’ambasciatore tedesco a Teheran, Erwin Ettel, il quale riferiva a Berlino che un attacco britannico avrebbe incontrato una «decisa resistenza militare», e avrebbe indotto lo scià a chiedere formalmente aiuto alla Germania. 34 Il timore che l’Iran potesse scegliere di schierarsi con Hitler era acuito dalla consapevolezza che la resistenza si stava sgretolando a mano a mano che i tedeschi avanzavano verso est. Talmente rapida era la loro marcia che il generale Auchinleck, fino a poco tempo prima comandante in capo in India, e ora nominato al vertice del Comando Medio Oriente, fu informato che le truppe di Hitler avrebbero raggiunto il Caucaso alla metà di agosto. 35 Dal punto di vista britannico, questo era un vero disastro. I tedeschi avevano un disperato bisogno di petrolio. Se avessero assunto il controllo dei giacimenti di Baku e del Caucaso, già sarebbe stato un discreto guaio. Ma quel che era peggio, osservava Leopold Amery, segretario di Stato per l’India, era che in tal caso sarebbero stati «abbastanza vicini» ai campi petroliferi dell’Iran e dell’Iraq, e senza dubbio ne avrebbero «fatte di tutti i colori». 36 In altre parole, non soltanto sembrava che la Germania potesse trovare un rimedio al suo tallone d’Achille, ossia la mancanza di un accesso sicuro al petrolio con cui alimentare le navi, gli aerei, i carri armati e i suoi altri veicoli, ma avrebbe potuto essere compromessa la stessa capacità britannica di sostenere lo sforzo bellico. Era vitale, concludeva il generale Auchinleck, elaborare un piano – chiamato Operazione Countenance – per la difesa della fascia di territorio che andava dalla Palestina a Bassora e ai campi petroliferi iraniani. 37 L’importanza dell’Iran era accresciuta dalla sua posizione strategica. Sebbene Stalin avesse in precedenza stretto un patto con Hitler nel 1939, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica di due anni dopo aveva trasformato quest’ultima in un imprevisto alleato dei
britannici e dei loro amici. A Washington fu quindi annunciato che «il governo degli Stati Uniti [aveva] deciso di dare tutta l’assistenza economica possibile allo scopo di rafforzare l’Unione Sovietica nella sua lotta contro l’aggressione armata». 38 A ciò si aggiunsero le assicurazioni, date in forma privata a Stalin dall’ambasciatore americano a Mosca, che gli Stati Uniti erano determinati «“al massimo” a sconfiggere Hitler» ed erano pronti a fare tutto ciò che serviva perché ciò accadesse. 39 Il problema era come far giungere gli armamenti e l’equipaggiamento bellico all’Unione Sovietica. Inviarlo per mare, nei porti oltre il Circolo polare artico, era difficile dal punto di vista logistico e in pieno inverno poco sicuro. E la mancanza di approdi adatti, a parte Vladivostok a est, era a sua volta un problema non minore, anche a causa del dominio giapponese su questa parte del Pacifico. La soluzione era ovvia: assumere il controllo dell’Iran. Ciò avrebbe impedito agli agenti tedeschi sul posto, e ai loro simpatizzanti, di prendere il sopravvento in un momento cruciale, avrebbe facilitato la difesa di risorse naturali che gli Alleati non potevano rischiare di perdere e avrebbe fornito la migliore occasione per coordinare gli sforzi volti a ritardare e bloccare l’inarrestabile marcia verso est della Wehrmacht. Oltre a conformarsi agli obiettivi bellici degli Alleati, l’operazione prometteva vantaggi a lungo termine tanto ai britannici quanto ai sovietici; l’occupazione del paese avrebbe dato a entrambi ciò a cui avevano a lungo aspirato in termini di influenza politica, di risorse economiche e di valore strategico. Opportunità molto interessanti erano state aperte dalla decisione di Hitler di volgersi contro il suo ex alleato di Mosca. Nell’agosto 1941 l’Iran fu invaso dalle truppe britanniche, e subito dopo dalle forze sovietiche. Le divergenze furono messe da parte per promuovere gli interessi comuni in una regione di vitale importanza strategica ed economica. Ci furono grandi festeggiamenti quando le truppe britanniche e sovietiche si incontrarono a Qazvin, nel Nord del paese, scambiandosi racconti e sigarette. I corrispondenti stranieri che incrociarono l’esercito sovietico si videro subito offrire fiumi di vodka
e si ritrovarono a brindare all’alleanza, bevendo alla salute di Stalin, poi di Churchill, poi di Molotov, e poi di Roosevelt, e poi di nuovo, nello stesso ordine. «Al termine di trenta brindisi a base di vodka pura,» scrisse un giornalista americano presente «metà dei corrispondenti erano sotto il tavolo. I russi continuavano a bere.» 40 Quando lo scià esitò a emanare un ultimatum che espelleva i cittadini tedeschi con effetto immediato, i britannici cominciarono a trasmettere alla radio della nuova BBC Persia notizie che accusavano (falsamente) il sovrano persiano di aver trasferito i gioielli della Corona lontano dalla capitale, di sfruttare a proprio vantaggio lavoro forzato nelle sue imprese e di utilizzare le risorse idriche di Teheran per irrigare i suoi giardini privati: critiche che già circolavano ampiamente, secondo quanto riferisce Reader Bullard nelle sue memorie. 41 Lo scià tergiversava di fronte alle richieste britanniche, lamentandosi con il presidente Roosevelt degli «atti di aggressione» e denunciando la minaccia «alla giustizia internazionale e al diritto dei popoli alla libertà». Tutto questo era più che giusto, rispose il presidente, ma lo scià doveva tener presente che «è certo che le operazioni di conquista da parte della Germania continueranno e si estenderanno al di là dell’Europa, in Asia, in Africa e perfino nelle Americhe». La Persia, in altre parole, stava scherzando con il fuoco proponendosi di intrattenere buoni rapporti con Hitler. 42 Alla fine i britannici presero direttamente in mano la situazione e imposero l’abdicazione di Reza Khan, che era ormai considerato un ostacolo, e la sua sostituzione con il figlio, Mohammed Reza, un playboy azzimato con una passione per i romanzi polizieschi francesi, le automobili veloci e le donne ancor più veloci da conquistare. 43 Per molti iraniani, una simile interferenza esterna era intollerabile. Nel novembre 1941 ci furono manifestazioni al grido di «Lunga vita a Hitler!» e «Abbasso i russi e i britannici!», con cui le folle iraniane esprimevano la loro indignazione per il modo in cui il destino del paese veniva deciso da soldati che erano visti come una forza di occupazione. 44 Questa non era la guerra dell’Iran; le dispute e il conflitto militare della seconda guerra mondiale non avevano nulla a
che fare con gli abitanti di città come Teheran e Isfahan, che assistevano inquiete al coinvolgimento del loro paese nella lotta tra le potenze europee. Di queste opinioni non si tenne alcun conto. Una volta messa a viva forza sotto controllo la situazione in Iran, si presero misure anche contro le installazioni francesi in Siria, nel timore che, in seguito alla caduta della Francia, potessero essere utilizzate contro la Gran Bretagna e i suoi alleati in Medio Oriente. Una squadriglia di Hurricane frettolosamente schierata fu inviata dalla base di Habbaniyah, uno degli aeroporti che i britannici mantenevano in Iraq dalla fine della prima guerra mondiale, a mitragliare le basi della Francia di Vichy. Tra coloro che parteciparono ai raid aerei nella seconda metà del 1941 c’era un giovane pilota che in seguito raccontò di essere sceso a bassa quota per colpire un cocktail party di aviatori francesi con un gruppo di «ragazze vestite di colori vivaci», in pieno svolgimento la domenica mattina. Bicchieri, bottiglie e tacchi alti volavano da tutte le parti mentre i caccia britannici attaccavano e tutti si mettevano al riparo. Fu «di una comicità meravigliosa», scrisse il pilota di Hurricane che rispondeva al nome di Roald Dahl. 45 Le notizie che giungevano a Berlino in questo periodo sembravano invariabilmente buone. L’Unione Sovietica aveva l’acqua alla gola, mentre in Persia, in Iraq e in Siria il momento della svolta sembrava imminente. Con ogni probabilità, la Germania era a un passo da conquiste paragonabili a quelle dei grandi eserciti dell’islam nel VII secolo, o delle forze mongole di Gengis Khan e dei suoi eredi. Il successo, insomma, era a portata di mano. La realtà, però, era piuttosto diversa. Per quanto spettacolari apparissero, le avanzate tedesche dovevano fare i conti con numerosi problemi, sia in Unione Sovietica che altrove. Innanzitutto, le perdite sui campi di battaglia durante la marcia verso est erano di gran lunga superiori al numero delle riserve che venivano inviate in sostituzione. Sebbene le vittorie sensazionali portassero alla cattura di enormi masse di prigionieri, ciò era spesso ottenuto a un prezzo elevato. Secondo le stime dello stesso generale Halder, la Wehrmacht aveva
perso il 10 per cento dei suoi effettivi nei primi due mesi di combattimento dopo l’inizio dell’invasione, ossia più di 400.000 soldati. Entro la metà di settembre questo numero era salito a oltre 500.000, tra morti e feriti. 46 L’avanzata impetuosa sottoponeva inoltre le linee di rifornimento a una tensione insopportabile. La penuria d’acqua potabile era stata un problema praticamente fin dall’inizio, il che a sua volta aveva prodotto epidemie di colera e dissenteria. Ancor prima della fine di agosto stava diventando chiaro ai più avveduti che il quadro non era affatto roseo come appariva: carenze di materiali basilari come lamette da barba, dentifricio, spazzolini da denti, carta per scrivere, aghi e filo avevano cominciato a farsi sentire fin dai primi giorni dell’invasione. 47 Verso la fine dell’estate, piogge interminabili inzupparono uomini ed equipaggiamenti senza distinzione. «Non c’è la minima possibilità di far asciugare come si deve le coperte, gli scarponi e i vestiti» scriveva a casa un soldato. 48 Goebbels, messo al corrente di tali condizioni, annotò nel suo diario che occorrevano nervi d’acciaio per superare le difficoltà. A suo tempo, scriveva, le attuali privazioni «sembreranno cari ricordi». 49 Le prospettive nel Vicino Oriente e nell’Asia centrale gettavano anch’esse fumo negli occhi. Nonostante tutto l’ottimismo sparso nei mesi precedenti, la Germania aveva pochi risultati da esibire all’entusiasmo popolare, a fronte del piano che si riprometteva di istituire un collegamento tra il Nord Africa e la Siria, tra l’Iraq e l’Afghanistan. La prospettiva di stabilire una presenza significativa nella regione, se non di assumerne il controllo, sembrava più un’illusione che qualcosa di concreto. E così, malgrado le straordinarie acquisizioni territoriali, l’alto comando tedesco tentò di sollevare il morale delle truppe proprio mentre Mosca stava vacillando. All’inizio dell’ottobre 1941 il feldmaresciallo Walter von Reichenau, comandante della parte del Gruppo d’armate Sud che era entrata nella zona di «surplus», emanò un ordine che cercava di infondere un po’ di coraggio nei suoi soldati. Ogni uomo, affermò solennemente, era «l’alfiere … di un ideale nazionale e il vendicatore di tutte le atrocità commesse contro il
popolo tedesco». 50 Su questo non c’era nulla da ridire; ma in un momento in cui gli uomini pressavano giornali nei loro scarponi per scacciare il freddo, era difficile capire quale effetto potessero avere queste parole altisonanti su soldati che morivano congelati se restavano feriti, e che vedevano la propria pelle attaccarsi al calcio ghiacciato del loro fucile. 51 Mentre il gelo tagliente dell’inverno russo la faceva da padrone, al punto che il pane doveva essere tagliato con l’accetta, Hitler diceva in tono sprezzante al ministro degli Esteri danese: «Se il popolo tedesco non è più abbastanza forte e pronto a versare il proprio sangue … dovrebbe perire». 52 Ma più dei discorsi d’incoraggiamento, a dare aiuto erano gli stimolanti chimici come il Pervitin, una metamfetamina distribuita in quantità massicce alle truppe in servizio sul gelido fronte orientale. 53 L’invasione soffriva, inoltre, di seri problemi di rifornimento. Era stato stimato che il fabbisogno giornaliero di carburante del gruppo di combattimento che marciava su Mosca era di ventisette convogli ferroviari; in tutto il mese di novembre ne ricevette tre. 54 Gli economisti americani che monitoravano l’andamento della guerra si concentrarono precisamente su tale questione nei rapporti intitolati «La situazione militare ed economica della Germania» e «Il problema tedesco dei rifornimenti sul fronte orientale». Essi calcolarono che, per ogni 200 chilometri di avanzata, sarebbe stato necessario il carico di 35.000 vagoni di carburante in più, oppure una riduzione di 10.000 tonnellate nelle consegne giornaliere all’intera linea del fronte. Insomma, la velocità dell’avanzata si stava rivelando un grave problema. 55 Garantire i rifornimenti dalle retrovie alla linea del fronte era già di per sé difficoltoso. Ma c’era una questione ancor più urgente. Il principio guida dell’invasione era stato quello dell’amputazione delle ricche terre dell’Ucraina e della Russia meridionale, la cosiddetta zona di «surplus». Già prima dell’inizio dell’invasione, quando dall’Unione Sovietica arrivavano le forniture di grano, gli effetti della guerra sugli approvvigionamenti alimentari e sulle diete erano stati assai più rilevanti in Germania di quanto fossero stati, per esempio, in Gran Bretagna. Ora, anziché subire un incremento in seguito alle conquiste
all’Est, il consumo giornaliero di calorie, già ridotto prima della fine del 1940, cominciò a precipitare ulteriormente. 56 In realtà, le quantità di grano inviate in Germania dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa erano molto inferiori a quelle importate dall’Unione Sovietica nel periodo 1939-41. 57 Le trasmissioni della radio tedesca cercavano di sollevare il morale e di fornire rassicurazioni. La Germania era solita possedere abbondanti scorte di grano, affermava un notiziario nel novembre 1941; «ora, in tempo di guerra, dobbiamo fare a meno di questo genere di lussi». Ma c’erano buone notizie, proseguiva il bollettino. Non bisognava temere le penurie e i problemi della prima guerra mondiale. Diversamente da quanto accaduto tra il 1914 e il 1918, «il popolo tedesco può contare sulle sue autorità di controllo alimentare». 58 Questa era una guerra di parole, perché in realtà appariva sempre più chiaro che l’idea di assumere il controllo di un bacino di risorse apparentemente illimitate era stata un’illusione. L’esercito, che era stato addestrato a cibarsi dei prodotti del territorio conquistato, non riusciva a farlo e sopravviveva a stento ricorrendo al furto di bestiame. Nel contempo, lungi dal migliorare la situazione dell’agricoltura in patria, le terre promesse su cui Hitler e i suoi accoliti avevano appuntato le loro speranze si rivelavano una pura perdita. La politica della terra bruciata praticata dai sovietici privava il territorio di gran parte del suo valore. Intanto, in seno alla Wehrmacht, il carattere confuso e contraddittorio delle priorità militari individuate – c’era una costante tensione sulle decisioni di dirottare uomini, carri armati, risorse e carburante verso il Centro, verso il Nord o verso il Sud – seminava germi destinati a risultare esiziali. Stime americane fatte nella primavera del 1942 sulle probabili rese agricole nei territori conquistati del Sud dell’Unione Sovietica dipingevano un quadro tutt’altro che favorevole del probabile raccolto in Ucraina e nella Russia meridionale. Al massimo, indicava il rapporto, era possibile un raccolto pari a due terzi di quelli precedenti l’invasione. Anche quel livello sarebbe stato un successo. 59 Nonostante tutte le acquisizioni territoriali conseguite, quindi, la
campagna nell’Est aveva mancato di fornire non solo quanto era stato promesso, ma anche lo stretto necessario. Proprio due giorni dopo l’invasione dell’Unione Sovietica, Backe aveva presentato le sue proiezioni in merito al fabbisogno di grano nel contesto di un piano economico quadriennale. La Germania doveva fronteggiare un deficit di 2,5 milioni di tonnellate all’anno. Bisognava che la Wehrmacht risolvesse questo problema – e assicurasse milioni di tonnellate di semi oleiferi, e milioni di capi di bestiame e di maiali – in modo che la Germania potesse mangiare. 60 Questa era una delle ragioni per cui Hitler aveva ordinato ai suoi generali di «radere al suolo Mosca e Leningrado»: voleva «impedire che vi rimanessero abitanti da dover poi nutrire durante l’inverno». 61 Avendo predetto che milioni di persone sarebbero morte per penurie alimentari e per fame, i tedeschi cominciarono a identificare coloro che dovevano subire tale sorte. In prima fila c’erano i prigionieri russi. Non c’è alcuna necessità di nutrirli, scrisse Göring in tono liquidatorio; non siamo vincolati da nessun obbligo internazionale. 62 Il 16 settembre 1941 diede ordine di togliere le razioni alimentari ai prigionieri di guerra «non lavoratori», vale a dire quelli che erano troppo deboli o feriti troppo gravemente per fungere da operai-schiavi. Un mese più tardi, le razioni per i prigionieri «lavoratori», che erano già state ridotte, furono ulteriormente decurtate. 63 L’effetto fu devastante: entro il febbraio 1942, circa 2 milioni di prigionieri sovietici (su un totale di 3,3 milioni) erano morti, in gran parte a causa della fame. 64 Per accelerare ulteriormente il processo, furono escogitate nuove tecniche per ridurre il numero di bocche da sfamare. Centinaia di prigionieri di guerra vennero riuniti per testare gli effetti dei pesticidi, già usati per suffumigare le caserme dell’esercito polacco. Furono compiuti anche esperimenti sull’effetto dell’avvelenamento da monossido di carbonio, utilizzando camion con tubi collegati al loro stesso condotto di scarico. Questi test – che si svolsero nell’autunno del 1941 – furono condotti in località che erano destinate ad acquisire di lì a poco notorietà per l’uso delle medesime tecniche su vasta scala:
Auschwitz e Sachsenhausen. 65 Gli omicidi di massa, che cominciarono poche settimane dopo l’inizio dell’invasione, erano una reazione rivoltante al fallimento dell’attacco tedesco e alle abiette inadeguatezze dei piani economici e strategici. I grandi granai dell’Ucraina e della Russia meridionale non avevano prodotto ciò che da essi ci si era aspettato. E c’era un prezzo immediato da pagare: non la deportazione o l’emigrazione della popolazione locale, cui Hitler aveva fatto riferimento nelle sue conversazioni. In presenza di troppe persone e di cibo insufficiente, c’erano due bersagli scontati che erano stati a lungo demonizzati in tutti gli ambienti della società tedesca, sui mezzi di comunicazione e nella coscienza popolare: i russi e gli ebrei. L’immagine degli slavi come popolo inferiore dal punto di vista razziale, inaffidabile, con una grande capacità di sopportazione e di violenza, era stata alimentata in modo costante prima della guerra. Pur essendosi attenuato in seguito al patto Molotov-Ribbentrop siglato nel 1939, il livore antislavo era tornato ai massimi livelli dopo l’invasione. Ciò, come è stato solidamente argomentato, ebbe un’incidenza diretta nel genocidio dei russi, iniziato nella tarda estate del 1941. 66 Ma ancor più profondamente radicato nella Germania anteguerra era l’antisemitismo. Secondo il Kaiser deposto, la Repubblica di Weimar era stata «preparata dagli ebrei, fatta dagli ebrei e mantenuta con il denaro degli ebrei». Gli ebrei erano come zanzare, scrisse l’ex monarca nel 1925, «un flagello di cui il genere umano deve liberarsi in un modo o nell’altro … Io credo che la cosa migliore sarebbe il gas!». 67 Simili atteggiamenti non erano inconsueti. Eventi come la Kristallnacht, la Notte dei cristalli, che vide un’esplosione di violenza coordinata contro gli ebrei tra il 9 e il 10 novembre 1938, erano espressioni culminanti di una retorica avvelenata che quotidianamente sviliva la popolazione ebraica come «un parassita [che] si nutre della carne, della produttività e del lavoro delle altre nazioni». 68 I timori crescenti di quanto simili discorsi – e azioni – avrebbero prodotto avevano già spinto alcuni a prendere in considerazione
nuove alleanze. Verso la metà degli anni Trenta, David Ben Gurion, futuro primo ministro del governo di Israele, tentò di raggiungere con i leader arabi palestinesi un accordo per una più massiccia immigrazione ebraica. Non se ne fece nulla, mentre una missione guidata da un presunto arabo moderato fu inviata a Berlino per concordare le modalità con cui il regime nazista avrebbe sostenuto i piani arabi volti a minare gli interessi britannici nel Medio Oriente. 69 Verso la fine del primo mese di guerra, nel settembre 1939, era stato messo a punto un piano per trasferire tutti gli ebrei in Polonia. Pare che il proposito iniziale fosse quello di riunire la popolazione per facilitarne l’allontanamento in massa dal territorio tedesco mediante emigrazione forzata. In realtà, verso la fine degli anni Trenta erano stati elaborati piani dettagliati per deportare gli ebrei tedeschi in Madagascar: un progetto strampalato che, a quanto pare, si basava sulla convinzione diffusa (ma infondata) di molti geografi e antropologi di fine Ottocento e inizio Novecento che le origini della popolazione malgascia, nativa di quest’isola dell’oceano Indiano sudoccidentale, fossero ebraiche. 70 Nella Germania nazista si era anche discusso sulla possibilità di deportare gli ebrei in altri luoghi. In effetti, secondo una logica perversa, Hitler aveva caldeggiato per quasi due decenni la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nella primavera del 1938 aveva parlato in favore di una politica di emigrazione degli ebrei tedeschi in Medio Oriente e della formazione di un nuovo Stato che ne fosse la patria. 71 Anzi, verso la fine degli anni Trenta, fu perfino inviata in Palestina una missione ad alto livello, guidata da Adolf Eichmann, con l’obiettivo di discutere con agenti sionisti circa un possibile accomodamento che risolvesse una volta per tutte la cosiddetta «questione ebraica». Per ironia della storia, Eichmann – che in seguito sarebbe stato giustiziato in Israele per crimini contro l’umanità – si ritrovò a discutere su come incrementare l’emigrazione di ebrei dalla Germania alla Palestina, cosa che sembrava nell’interesse tanto della leadership nazista antisemita quanto di quella della comunità ebraica a Gerusalemme e dintorni. 72 Anche se i colloqui non portarono a un accordo, i tedeschi
continuarono a essere visti come partner potenzialmente utili, pure dopo lo scoppio della guerra. Nell’autunno del 1940 Avraham Stern, il creatore di un movimento chiamato Lehi, che divenne noto alle autorità palestinesi come la «banda Stern», e che contava tra i suoi membri il futuro primo ministro Yitzhak Shamir nonché altri padri fondatori del moderno Stato di Israele, inviò un messaggio a un autorevole diplomatico tedesco a Beirut con una proposta radicale. «Potrebbero esistere interessi comuni» iniziava il testo «tra la Germania e le autentiche aspirazioni nazionali del popolo ebraico», che Stern (e altri) presumevano di rappresentare. Se «le aspirazioni del movimento per la libertà di Israele fossero riconosciute,» continuava il messaggio «[Stern si diceva disposto a] prendere parte attivamente alla guerra al fianco della Germania». Se gli ebrei avessero potuto ottenere la libertà mediante la creazione di uno Stato, Hitler ne avrebbe sicuramente tratto beneficio: oltre a «rafforzare la posizione futura della Germania nel Medio Oriente», avrebbe anche «rafforzato in modo straordinario la base morale» del Terzo Reich «agli occhi dell’umanità intera». 73 Era una fanfaronata. In realtà, Stern aveva un atteggiamento pragmatico, sebbene le speranze che riponeva in un’alleanza con la Germania non fossero condivise da tutti all’interno della sua stessa organizzazione. «Tutto ciò che vogliamo dai tedeschi», disse poco tempo dopo per spiegare la sua posizione, è di poter portare reclute ebree in Palestina. Grazie a questo, «la guerra contro i britannici per liberare la patria comincerà qui. Gli ebrei otterranno uno Stato, e i tedeschi, incidentalmente, si libereranno di un’importante base britannica nel Medio Oriente, e risolveranno anche la questione ebraica in Europa…». Sembrava logico, e al tempo stesso raccapricciante: autorevoli personaggi ebrei proponevano un’attiva collaborazione con il massimo antisemita di tutti i tempi, trattando con gli esecutori dell’Olocausto meno di dodici mesi prima che il genocidio iniziasse. 74 Per quanto riguardava Hitler, dove venissero deportati gli ebrei non aveva importanza, tale era la violenza del suo antisemitismo. La Palestina era soltanto un posto tra i molti che furono presi in
considerazione, non esclusi anche alcuni nelle zone più interne della Russia, di cui pure si discusse seriamente. «Non importa dove si mandano gli ebrei» disse Hitler al comandante militare croato Slavko Kvaternik nel 1941. Sarebbero andati bene tanto la Siberia quanto il Madagascar. 75 Di fronte ai problemi cronici che affliggevano la campagna di Russia, questo atteggiamento di indifferenza s’inasprì mutandosi in qualcosa di più ufficiale e più spietato. Ciò avvenne quando ai pianificatori nazisti venne in mente che una volta che gli ebrei erano stati riuniti in campi di concentramento, l’omicidio di massa poteva essere attuato senza troppe difficoltà. 76 Non ci voleva molto perché un regime sistematicamente antisemita, e per di più alle prese con una dispersione di risorse già piuttosto scarse, prendesse in considerazione l’omicidio su vasta scala. Gli ebrei erano già in campi di concentramento in Polonia; rappresentavano un bersaglio facile e pronto, in una fase in cui i dirigenti nazisti stavano realizzando che c’erano milioni di bocche di troppo da sfamare. «C’è il pericolo» scriveva Adolf Eichmann già alla metà di luglio 1941 «che quest’inverno gli ebrei non possano più essere nutriti tutti. Si deve seriamente discutere se la soluzione più umana non possa essere quella di eliminare gli ebrei non in grado di lavorare mediante un qualche preparato ad azione rapida.» 77 Gli anziani, gli infermi, le donne e i bambini e quelli «non in grado di lavorare» venivano liquidati come sacrificabili: rappresentavano il primo passo nell’individuazione degli «x milioni» la cui morte era stata così accuratamente prevista prima dell’invasione dell’Unione Sovietica. Ebbe così inizio una catena di eventi di un’entità e di un orrore senza precedenti: l’invio di esseri umani come bestie in recinti di raccolta dove potessero essere suddivisi, da una parte quelli che avrebbero lavorato come operai-schiavi e dall’altra quelli le cui vite erano considerate il prezzo da pagare per la sopravvivenza di altri. L’Ucraina, la Russia meridionale e la steppa occidentale divennero la causa del genocidio; il fatto che la terra non producesse grano nelle quantità previste fu una ragione diretta dell’Olocausto. A Parigi, dove la polizia teneva segretamente il conto degli stranieri
ebrei e non ebrei fin dagli ultimi anni Trenta, l’operazione di deportazione fu semplicissima: agli occupanti tedeschi bastò scorrere lo schedario che era stato consegnato nelle loro mani e poi mandare agenti ad arrestare intere famiglie e trasportarle nei campi all’Est, soprattutto in Polonia. 78 Anche in Olanda e in altri paesi la registrazione degli ebrei, parte dell’ampio programma di antisemitismo nazista istituzionalizzato, fece sì che l’operazione di deportazione di coloro che ora erano identificati come eccedenze, o surplus, risultasse angosciosamente semplice. 79 L’attacco all’Unione Sovietica era stato intrapreso con il pensiero rivolto alle zone «di surplus», ma ora l’attenzione ruotava intorno alle popolazioni «in surplus», e a come trattarle. Vedendo frustrate le speranze riposte nell’invasione e nei suoi frutti, l’élite nazista concluse che c’era una sola soluzione per i problemi della Germania. In una grottesca replica della riunione che si era svolta a Berlino il 2 maggio 1941, l’élite nazista s’incontrò otto mesi più tardi a Wannsee, un verdeggiante sobborgo di Berlino. Ancora una volta la discussione ruotò intorno alla questione della morte di un numero imprecisato di milioni di persone. Il nome dato alle conclusioni raggiunte nel gelido mattino del 20 gennaio 1942 fa rabbrividire. Agli occhi dei suoi autori, il genocidio degli ebrei era semplicemente la risposta a un problema. L’Olocausto era la «Soluzione finale». 80 Di lì a poco, carri armati, aerei, armamenti e rifornimenti erano in viaggio da Londra e da Washington verso Mosca, mentre la controffensiva ai danni della Germania cominciava a prendere vigore. Si poteva contare sulle reti, le vie commerciali e i canali di comunicazione che avevano funzionato fin dall’antichità attraverso il cosiddetto «corridoio persiano», che dai porti del Golfo, quali Ābādān, Bassora, Bushihr e altri, si estendeva all’interno fino a Teheran via Arak e Qom, e alla fine attraverso il Caucaso raggiungeva l’Unione Sovietica. Altre vie si aprivano attraverso l’Estremo Oriente russo e l’Asia centrale. 81 I vecchi canali commerciali tra la Russia e la Gran Bretagna furono
riattivati, nonostante le difficoltà connesse: i convogli che nell’Artico portavano provviste e risorse a Murmansk e alla Russia settentrionale erano stati già abbastanza a rischio nel XVIII e nel XIX secolo. Riproporli sotto il tiro degli U-boot e di navi da battaglia pesantemente corazzate come la Tirpitz e la Bismarck, che erano di casa lungo la costa norvegese del mare del Nord, richiedeva una resilienza e un’audacia straordinarie. A volte, meno della metà delle navi che partivano riuscivano a raggiungere la loro destinazione e a fare ritorno, e a molti degli uomini che percorsero questa rotta non furono date medaglie in riconoscimento del servizio prestato o del coraggio mostrato, se non decenni dopo la fine della guerra. 82 Lentamente ma vigorosamente la marea s’invertì, via via che le forze tedesche venivano espulse dal centro del mondo. Per un momento era parso che l’azzardo di Hitler avrebbe pagato: quando già era padrone assoluto di fatto, se non di diritto, dell’Europa, il suo tentativo di penetrare nell’Asia centrale da nord e da sud sembrò avere successo allorché le sue truppe raggiunsero le sponde del Volga. Ma, una dopo l’altra, le sue conquiste andarono perdute mentre l’esercito tedesco veniva inesorabilmente e brutalmente respinto verso Berlino. Quando cominciò a rendersi conto di quanto stava accadendo, Hitler precipitò nella disperazione. Un rapporto segreto britannico svelava che in un discorso tenuto il 26 aprile 1942, nonostante l’apparentemente trionfale successo all’Est, il leader tedesco tradiva chiari segni di paranoia e di fatalismo, insieme a sintomi sempre più evidenti di quello che veniva definito «complesso del Messia». 83 Da un punto di vista psicologico, il Führer era un soggetto straordinariamente propenso all’assunzione di rischi, che corrispondeva al profilo del giocatore compulsivo. 84 La sua fortuna stava finalmente cominciando a esaurirsi. Il riflusso iniziò durante l’estate del 1942. La sconfitta di Rommel a El Alamein pose fine ai piani di Muḥammad al-Ḥusaynī, che aveva ordinato agli abitanti del Cairo di preparare elenchi delle abitazioni e dei luoghi di lavoro degli ebrei residenti in modo da poterli riunire e sterminare nei Gaswagen, i camion trasformati in camere a gas
progettati da un ufficiale tedesco fanatico che era di stanza sul posto. 85 Anche l’entrata in guerra degli Stati Uniti contribuì a poco a poco a spostare gli equilibri. Bruscamente costretti all’azione dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, gli americani si attrezzarono per una guerra su due fronti. Verso la metà del 1942 la vittoria nell’epica battaglia di Midway consentì agli USA di passare all’offensiva nel Pacifico; e, dall’inizio dell’anno successivo, massicci dispiegamenti di truppe in Nord Africa, in Sicilia e in Italia meridionale, e più tardi anche in altre parti d’Europa, promettevano di invertire il corso della guerra. 86 Poi c’era la situazione di Stalingrado. Nella primavera del 1942 Hitler aveva approvato una proposta denominata in codice Operazione Blu, secondo la quale le forze tedesche avrebbero dovuto avanzare nella Russia meridionale per assicurarsi i campi petroliferi del Caucaso, diventati cruciali nella pianificazione bellica del Terzo Reich. L’offensiva era ambiziosa e rischiosa, ma ne dipendeva la vittoria, come era ben chiaro ai generali di alto rango e a Hitler stesso: «Se non riesco ad arrivare al petrolio di Majkop e Grozny,» affermò il dittatore tedesco «dovrò porre fine alla guerra». 87 Stalingrado rappresentava un grosso problema. Non era essenziale conquistare la città, nonostante l’alto valore simbolico associato al suo nome. Pur essendo un importante centro industriale, la sua rilevanza risiedeva nella posizione strategica su un’ansa del Volga: neutralizzare Stalingrado era vitale per proteggere le acquisizioni territoriali che i tedeschi prevedevano di fare nel Caucaso. Nell’autunno del 1942 apparve chiaro che le cose erano andate nel peggiore dei modi. L’offensiva tedesca era iniziata tardi, e aveva da subito incontrato difficoltà. Uomini, armamenti e carburante sempre più prezioso – risorse che Berlino difficilmente poteva permettersi di risparmiare – venivano impiegati in enormi quantità a Stalingrado, il che era già abbastanza grave. Ma ancor di più lo era il fatto che l’attenzione venisse distratta dall’obiettivo strategico primario della campagna: il petrolio. Nella cerchia più vicina a Hitler, qualcuno, come Albert Speer, aveva compreso che cosa avrebbero significato i
ritardi. Dobbiamo vincere la guerra, diceva, «entro ottobre, prima che cominci l’inverno russo, se non vogliamo perderla senza scampo». 88 Pur essendoci ancora molto da fare in merito alla pianificazione di come espellere le truppe tedesche dall’Est e dall’Ovest, e di come coordinare la tenaglia che doveva chiudersi su Berlino, verso la fine del 1942 i pensieri dei nuovi Alleati – Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica – si stavano rivolgendo al futuro. Quando i leader dei tre paesi s’incontrarono a Teheran nel 1943, a Jalta nella primavera del 1945 e infine a Potsdam qualche mese più tardi, era chiaro che lo sforzo, il dispendio e il trauma di un altro massiccio conflitto avevano ridotto allo stremo l’Europa occidentale. Era già ovvio che i vecchi imperi dovessero essere superati; si trattava semplicemente di stabilire come gestire al meglio questo processo. In un clima di diffusa stanchezza morale, la questione che concretamente si poneva era quella di prendere la decisione meno insoddisfacente, e neanche questo si riuscì a fare. Nell’ottobre 1944 Churchill tornò in patria da una visita a Mosca «ristorato e rinvigorito», come disse a Stalin, grazie all’«ospitalità russa che è rinomata per superare sé stessa». Le minute registrano l’esecuzione del Terzo concerto per pianoforte di Rachmaninov, le occasioni per qualche «piccolo acquisto» e una lunga serie di conclusioni raggiunte durante gli incontri. Ma non registrano le discussioni sul destino dell’Europa postbellica, che furono espunte dai documenti ufficiali. 89 Si rinunciò all’integrità territoriale della Polonia, che la Camera dei Comuni nel 1939 si era solennemente impegnata a garantire; i suoi confini vennero sommariamente modificati quando Winston Churchill decise che era il momento «favorevole per trattare» e con una matita blu tracciò sulla mappa una linea che spostava un terzo del paese in territorio tedesco e ne regalava un terzo all’Unione Sovietica. Churchill propose, inoltre, lo sembramento di numerosi altri paesi dell’Europa centrale e orientale che potessero essere soddisfacenti per entrambe le parti: per esempio, una divisione della Romania 90 a 10 in favore dell’influenza sovietica rispetto a quella britannica, e l’opposto nel caso della Grecia; in Bulgaria, Ungheria e Iugoslavia la ripartizione sarebbe stata 50 a 50. Egli stesso riconobbe che la «maniera
improvvisata» in cui i destini di «milioni di uomini» erano stati decisi poteva essere considerata «piuttosto cinica». Il prezzo da pagare per tenere buono Stalin era il sacrificio della libertà di metà del continente europeo. «Bruciamo il foglio» disse Churchill al capo sovietico. «No,» rispose Stalin «conservatelo voi.» 90 Churchill comprese troppo tardi quale fosse realmente la situazione. Nel suo famoso discorso tenuto a Fulton (Missouri) nel 1946, in cui metteva in guardia dalla calata di una «cortina di ferro» attraverso l’Europa, osservava che «tutte le capitali degli antichi Stati dell’Europa centrale e orientale, Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia», oggi si trovano entro la sfera d’influenza dell’Unione Sovietica. 91 Tutte, eccetto Vienna e metà Berlino, ci sarebbero rimaste. La seconda guerra mondiale era stata combattuta per arrestare la cupa ombra della tirannia che stava calando sull’Europa; alla fine, nulla si sarebbe fatto, o sarebbe stato possibile fare, per fermare la discesa della cortina di ferro. E così alla fine della seconda guerra mondiale l’Europa fu spaccata in due. La metà occidentale aveva combattuto coraggiosamente ed eroicamente; e da allora, per decenni, si congratulò con sé stessa per il successo conseguito nella sfida alla peste del nazismo, senza pagare il prezzo di riconoscere il proprio ruolo nella sua genesi. E non poté dedicare molto tempo a pensare alla parte del continente che era stata consegnata a una serie di riassetti postbellici. La sconfitta della Germania aveva prodotto una cronica nevrosi da guerra, l’esaurimento delle economie della Gran Bretagna e della Francia nonché il collasso di quelle dell’Olanda, del Belgio, dell’Italia e dei paesi scandinavi. Di pari passo con la disorganizzazione andava la paura non soltanto di una corsa agli armamenti che, con ogni probabilità, avrebbe implicato un’estesa ricerca sulle armi nucleari, ma anche del confronto diretto. Dato che le truppe sovietiche in Europa avevano una superiorità numerica dell’ordine di 4 a 1 su quelle degli Alleati, e in più erano avvantaggiate nello schieramento dei carri armati, c’erano reali timori che in seguito alla resa della Germania potessero scoppiare ulteriori ostilità. Di conseguenza, Churchill ordinò che fossero elaborati piani d’emergenza basati sull’ipotesi che
la sconfitta di Hitler segnasse soltanto l’ultima pagina di un capitolo e non il traguardo finale. Il nome dato a questi piani dissimulava la ragione per cui erano stati originariamente preparati: l’Operazione Impensabile era decisamente pensabile, dal punto di vista dei pianificatori britannici. 92 L’esigenza di prepararsi agli imprevisti era indiscutibilmente dettata dalla realtà di una situazione in rapido mutamento, via via che la Germania si sgretolava. Stalin aveva assunto una posizione sempre più intransigente, indubbiamente motivata dalla sensazione di tradimento lasciatagli dalla sua catastrofica alleanza con Hitler nel 1939, ma anche giustificata dal prezzo incredibile che l’Unione Sovietica aveva dovuto pagare – soprattutto a Stalingrado e a Leningrado – per sopravvivere all’attacco tedesco. 93 Dal punto di vista di Mosca, diventava importante costruire un sistema di zone cuscinetto e Stati satelliti, oltre a suscitare e rafforzare il timore che l’Unione Sovietica potesse passare all’azione diretta se si fosse sentita minacciata. Date le circostanze, indebolire i paesi a ovest dei suoi confini, mettendo nel mirino o addirittura eliminando le loro basi industriali, era un passo logico da compiere, così come lo era fornire aiuto finanziario e logistico ai nascenti partiti comunisti. Come dimostra la storia, l’attacco è spesso la migliore forma di difesa. 94 Un risultato di questa politica fu che l’oppressione hitleriana venne considerata peggiore di quella staliniana. La rappresentazione della guerra come trionfo sulla tirannia era parziale, in quanto concentrava l’attenzione su un nemico politico sorvolando sulle colpe e gli errori degli amici recenti. Molti abitanti dell’Europa centrale e orientale dissentirebbero su questa storia del trionfo della democrazia, sottolineando il prezzo che fu pagato nei decenni successivi da coloro che si ritrovarono dalla parte sbagliata di una linea tracciata arbitrariamente. L’Europa occidentale, però, aveva la sua storia da proteggere, e ciò significava enfatizzare i successi e tacere sugli errori e sulle decisioni che potevano essere interpretate come Realpolitik. Un esempio di questo modo di vedere è dato dal conferimento all’Unione europea del premio Nobel per la pace 2012: che cosa meravigliosa che l’Europa, per secoli responsabile di guerre pressoché
continue non soltanto sul proprio territorio ma in tutto il mondo, fosse riuscita a evitare il conflitto per diversi decenni! Sarebbe come se, nella tarda antichità, si fosse conferito il premio a Roma un secolo dopo il sacco da parte dei Visigoti, o magari ai crociati dopo la perdita di Acri, per aver moderato la retorica antimusulmana nel mondo cristiano. Il silenzio dei cannoni doveva forse di più al fatto che non fosse rimasto nulla per cui combattere che non alla lungimiranza di una serie di brillanti uomini di pace, o presunti tali, di fine Ottocento e inizio Novecento, o alle meraviglie di un’impacciata organizzazione internazionale degli Stati europei i cui documenti contabili non sono stati approvati per anni dai suoi stessi revisori. Un nuovo mondo aveva cominciato a emergere nel 1914 mentre il sole iniziava a tramontare sull’Europa occidentale. Il processo accelerò con la guerra del 1939-45, e continuò dopo che questa fu finalmente terminata. Adesso la questione essenziale era chi avrebbe controllato le grandi reti commerciali dell’Eurasia. E c’erano buone ragioni per rifletterci attentamente, poiché ormai era chiaro che nella terra fertile e nelle sabbie dorate del cuore del mondo e nelle acque del mar Caspio c’era più di quanto a prima vista sembrasse.
XXI
LA VIA DELLA GUERRA FREDDA
Prima che fosse terminata la seconda guerra mondiale, la lotta per il controllo del cuore dell’Asia era già entrata nel vivo. In un accordo firmato nel gennaio 1942, che passò alla storia sotto il nome altisonante di «Trattato tripartito», la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica si erano solennemente impegnate a «mettere il popolo iraniano al riparo dalle privazioni e dalle difficoltà insorte per effetto dell’attuale conflitto», e a garantire che ricevesse cibo e vestiario in misura sufficiente. In realtà, come il trattato non mancava di chiarire, la questione aveva poco a che fare con la sicurezza dell’Iran, e molto invece con il controllo delle sue infrastrutture: esso stabiliva, infatti, che la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica avrebbero potuto utilizzare a loro piacimento strade, fiumi, condutture, aeroporti e stazioni telegrafiche del paese. 1 Non era un’occupazione, si dichiarava, ma un aiuto offerto a un alleato. Belle parole, ma piuttosto fallaci. In apparenza, l’accordo era mirato a prevenire l’espansione tedesca in Iran e a consentire il trasporto attraverso il Golfo di risorse necessarie agli Alleati. Alcuni, però, ritenevano che i britannici avessero anche una prospettiva a lungo termine. Il rappresentante diplomatico americano a Teheran, Louis G. Dreyfus, per esempio, inviava regolarmente a Washington cablogrammi in cui commentava le richieste sempre più imperiose rivolte allo scià e le accuse secondo le quali c’era in Iran una quinta colonna che operava contro gli interessi britannici. «Sono convinto» scrisse nell’agosto 1941 «che i britannici stiano sfruttando [la situazione] come pretesto per la futura occupazione dell’Iran e stiano deliberatamente esagerando [la] portata» delle attuali circostanze. 2 Il modo in cui i suoi ufficiali e le sue truppe trattavano la
popolazione locale non aiutava di certo la Gran Bretagna nel perseguire l’obiettivo di mantenere – e rafforzare – la propria posizione in Iran. Già un buon decennio prima della guerra, un giornalista aveva criticato duramente il comportamento dei britannici, sostenendo che trattavano gli iraniani altrettanto male «quanto si diceva che la Compagnia delle Indie Orientali avesse trattato gli indiani duecento anni prima». 3 Ad accrescere le animosità era poi la pretesa degli ufficiali britannici che i loro colleghi iraniani li salutassero quando li incrociavano, senza esserne ricambiati. Da più parti si lamentava che i britannici si comportassero come «i Sahib, gli Uomini Bianchi, e trattassero [gli iraniani] come un popolo colonizzato». Viceversa, gli ufficiali sovietici se ne stavano appartati, uscivano di rado e non pretendevano saluti, quantomeno stando a quanto riferiva un agente segreto tedesco di stanza nella regione. 4 L’atteggiamento dell’ambasciatore britannico Sir Reader Bullard, in questo delicato periodo, era emblematico. La scarsità di cibo e l’inflazione che segnarono l’ultima fase della guerra non avevano nulla a che fare con gli insuccessi delle forze di occupazione, o con le difficoltà logistiche connesse al mantenimento in efficienza del Corridoio persiano per il trasporto di armi e altre merci dal Golfo verso nord. La colpa, scriveva Bullard, era degli iraniani: «Il persiano ora gode doppiamente a rubare, ad alzare i prezzi a livelli da carestia, e così via; e dà sempre la colpa ai britannici». 5 Sottolineando «l’opinione negativa che mi sono fatto degli iraniani», in una delle sue missive a Londra aggiunse in tono frivolo che «la maggior parte dei persiani sicuramente diventeranno tafani nella loro prossima incarnazione». 6 Dispacci come questi attirarono l’attenzione di Winston Churchill. «Per quanto naturale sia il disprezzo di Sir Reader Bullard per tutti i persiani,» scrisse il primo ministro «esso va a detrimento della sua efficienza e dei nostri interessi.» 7 A peggiorare le cose era il fatto che queste idee di superiorità e di diritto al predominio, benché profondamente radicate, non corrispondevano affatto alla realtà della situazione, dalla quale emergeva sempre più chiaramente che la posizione dominante costruita dai britannici era a rischio. Nel 1944, a Teheran si
verificarono scene sgradevoli, quando i russi scoprirono che erano in corso trattative per assegnare una concessione nell’Iran settentrionale a un consorzio petrolifero americano di produttori di petrolio. A soffiare sul fuoco era il partito Tudeh, un gruppo di militanti di sinistra il cui messaggio di riforma, redistribuzione della ricchezza e modernizzazione godeva di un forte sostegno da parte di Mosca. Tale fu l’impegno dell’Unione Sovietica nel far fallire i colloqui che, al culmine di queste fasi di tensione, le truppe russe scesero nelle strade al fianco di migliaia di dimostranti, con il pretesto di voler proteggere i contestatori. Molti ebbero la sgradevole sensazione che si volesse usare la forza per consentire ai sovietici di averla vinta e di far annullare l’accordo. Sensazione che fu rafforzata dal comportamento di Sergej Kavtaradze, già condannato per reati politici nel periodo del Grande Terrore e ora vicecommissario agli Esteri, che Stalin aveva inviato a Teheran ad avvertire che le provocazioni contro l’URSS non sarebbero rimaste senza conseguenze. 8 In un epilogo altamente drammatico, ci si affidò a Mohammad Mossadeq, un abile, eloquente e consumato politico iraniano che aveva la capacità di cogliere lo spirito dei tempi. È un uomo, scrisse un funzionario britannico, nell’aspetto «piuttosto simile a un cavallo da carrozzella, ed è un po’ sordo, per cui ascolta con il volto teso ma per il resto privo di espressione. Conduce la conversazione a una distanza di quindici centimetri e in tale raggio emana una leggera puzza di oppio. Le sue osservazioni tendono alla prolissità e dà l’impressione di essere impermeabile alla discussione». 9 Mossadeq era un «persiano della vecchia scuola», secondo un profilo comparso sull’«Observer» che fu allegato al dossier del Foreign Office, «cortese, prodigo di inchini e di mani intrecciate». 10 In realtà, come si dimostrò in seguito, i britannici lo avevano gravemente sottovalutato. Mossadeq cominciò a esporre un punto di vista, enunciato per la prima volta in Parlamento alla fine del 1944, secondo il quale l’Iran non poteva e non doveva lasciarsi manipolare e terrorizzare da potenze esterne. La concessione Knox D’Arcy e il comportamento tenuto dall’Anglo-Iranian (in precedenza Anglo-Persian) Oil Company fornivano la dimostrazione pratica di ciò che accadeva se la
leadership non era abbastanza solida. L’Iran, diceva, era stato ripetutamente sfruttato e usato come pedina da interessi contrapposti che portavano scarsi benefici alla popolazione locale. Era semplicemente sbagliato che si dovessero scegliere i soggetti con cui l’Iran doveva fare affari: «Trattiamo con ogni Stato che desideri comprare petrolio» dichiarava «e diamoci da fare per liberare il paese». 11 Mossadeq diceva quello che molti pensavano da tempo: era ingiusto che i frutti che giacevano nel sottosuolo portassero all’Iran benefici limitati. Era difficile controbattere con argomenti razionali. Nel 1942, per esempio, il governo britannico aveva incassato 6,6 milioni di sterline di entrate fiscali dalle attività dell’Anglo-Iranian; all’Iran era andato appena il 60 per cento di tale cifra in royalty. Nel 1945 la differenza era ancora più netta. Mentre il ministero del Tesoro di Londra incassava la bellezza di 16 milioni di sterline in tasse sull’attività petrolifera, a Teheran restavano 6 milioni, in altre parole soltanto poco più di un terzo. 12 Non era soltanto una questione di soldi. Come annotava un ben informato osservatore britannico, il problema era che «nessun beneficio materiale poteva compensare la degradazione personale e la perdita della dignità». 13 Un simile punto di vista era insolito, come l’osservatore ammetteva subito dopo. Laurence Elwell-Sutton aveva studiato l’arabo alla School of Oriental and African Studies per poi lavorare in Iran presso l’Anglo-Iranian prima della seconda guerra mondiale. Linguista dotato, con una passione per la cultura persiana, Elwell-Sutton era sbalordito dal modo in cui i dipendenti dell’Anglo-Iranian trattavano la popolazione locale. «Troppi pochi europei si prendevano la briga di conoscere» i persiani, trovando più facile «considerare i “nativi” … come sporchi selvaggi con strane abitudini che non erano di alcun interesse per nessuno, eccettuati forse gli antropologi.» Questa «avversione razziale» era destinata a portare al disastro; «a meno che cessi,» concludeva «ciò varrà anche per questa compagnia». 14 In tale situazione, non era difficile accorgersi di come stesse aumentando la spinta in favore di riformatori quali Mossadeq. L’epoca del dominio europeo stava da tempo declinando, come era
apparso evidente in Iraq quando a Gertrude Bell era stato rammentato che l’indipendenza non era un dono che la Gran Bretagna potesse elargire. Era inevitabile che in Iran come altrove crescesse, da parte dei paesi soggetti al dominio e alla massiccia influenza di potenze straniere, la rivendicazione del diritto di assumere il controllo del proprio destino; e ben presto, mentre la guerra era ancora in corso, si manifestò una tendenza sempre più rapida in questa direzione. Nel frattempo l’impero britannico stava letteralmente ripiegando, mentre le sue Vie della Seta erano al collasso. In Asia, impetuose ondate di pressione militare avevano provocato una serie di Dunkerque orientali: casi di ritirata rovinosa che segnalavano con cocente evidenza la fine dell’età dell’oro britannica. Centinaia di migliaia di persone erano fuggite dalla Birmania mentre il Sudest asiatico veniva inondato dalle forze giapponesi, che approfittarono delle preoccupazioni britanniche e francesi relative alle questioni europee per cercare di espandersi in regioni che erano da tempo di interesse strategico ed economico per Tokyo. Gli alleati della Germania in Oriente si erano immediatamente resi conto di come si presentasse al Giappone l’opportunità di avanzare le proprie pretese imperiali su una vasta regione. Molti ebbero a soffrire dell’avanzata delle forze nipponiche. Circa 80.000 persone morirono di fame e di malattia. Nella penisola di Malacca vi furono scene altrettanto drammatiche, con migliaia di profughi che si riversavano su Penang e Singapore, da cui soltanto i più fortunati riuscirono a fuggire prima che la città capitolasse. Qualche settimana più tardi, una donna nubile che era stata evacuata appena in tempo scrisse che il caos della ritirata britannica era «una cosa che sono certa non sarà mai dimenticata né perdonata» da coloro che ne erano stati testimoni o che vi avevano preso parte. 15 La ritirata continuò mentre le ostilità in Europa e nel Pacifico giungevano a termine. La decisione di evacuare l’India venne dopo tre decenni di concessioni e promesse che avevano suscitato aspettative di autogoverno, di autonomia e, infine, di indipendenza. Verso la fine della guerra l’autorità britannica si stava rapidamente sfaldando e la
situazione minacciava di sfuggire a ogni controllo con il susseguirsi di mesi di disordini, dimostrazioni antimperialiste e scioperi che paralizzarono tutte le città dell’India settentrionale. I progetti iniziali di «ritiro graduale», anche per cercare di garantire protezione alle minoranze musulmane locali, furono respinti da Londra in quanto troppo costosi e troppo protratti nel tempo. 16 Invece, all’inizio del 1947 fu annunciato che la Gran Bretagna si sarebbe ritirata dall’India entro sedici mesi, con il risultato di gettare il paese nel panico. Fu una decisione disastrosa, come disse alla Camera dei Comuni Winston Churchill, che dopo la guerra non era stato riconfermato al governo. «Non sarà forse una terribile infamia per il nostro nome e il nostro operato se … permetteremo che un quinto della popolazione del globo … sia abbandonato al caos e alla carneficina?» 17 Questi moniti rimasero inascoltati, e nel subcontinente scoppiò il finimondo. Comunità che per lungo tempo avevano vissuto in tranquillità caddero in preda alla violenza, mentre famiglie che da secoli abitavano in città e villaggi intrapresero una delle più vaste migrazioni di massa della storia umana. Almeno 11 milioni di persone si trasferirono da una parte all’altra dei nuovi confini nel Punjab e nel Bengala. 18 Nel frattempo i britannici predisposero piani di evacuazione particolareggiati per cercare di limitare il numero dei connazionali che rischiavano di essere coinvolti negli scontri. 19 Una preoccupazione che non venne estesa alla popolazione locale. Le cose andarono in modo simile anche altrove, mentre la Gran Bretagna si trascinava da una crisi all’altra. In un tentativo di mantenere in equilibrio la delicata situazione della Palestina – in modo da conservare il controllo della raffineria e del porto di Haifa, garantire la sicurezza di Suez e mantenere rapporti amichevoli con personaggi autorevoli del mondo arabo –, si decise di operare attivamente per limitare l’emigrazione ebraica dall’Europa. Dopo che i servizi segreti britannici ebbero elaborato piani per sabotare le navi che portavano i rifugiati in Palestina – e darne la colpa a una potentissima quanto fantomatica organizzazione terroristica araba – la Gran Bretagna passò a un’azione più diretta. 20 Il punto più basso fu raggiunto nell’estate del 1947, quando le navi
che trasportavano emigranti ebrei imbarcati nei porti francesi furono oggetto di continui attacchi. Malgrado fosse già stato deciso di negare l’ingresso ai passeggeri al loro arrivo in Palestina, un bastimento con a bordo oltre 4000 ebrei, tra cui donne incinte, bambini e molti anziani, fu speronato da cacciatorpediniere britannici mentre navigava verso est. 21 Trattare in questo modo coloro che erano sopravvissuti ai campi di sterminio o avevano perso la famiglia nell’Olocausto fu un disastro per le pubbliche relazioni: apparve chiaro che la Gran Bretagna non si sarebbe fermata davanti a nulla per difendere i propri interessi all’estero, e nel farlo non avrebbe tenuto in nessun conto gli altri. La goffaggine fu evidente nei rapporti con ‘Abdullāh, il sovrano della Transgiordania, al quale fu prodigata ogni attenzione e fatta la promessa – esplicitamente formulata negli accordi segreti – del sostegno militare britannico al suo regime, che aveva raggiunto l’indipendenza nel 1946. ‘Abdullāh ne approfittò per approntare un piano per estendere le sue frontiere fino a includere tutta la Palestina, una volta che i britannici si fossero ritirati, e ottenne da Londra un semaforo verde, sia pure con qualche riserva. 22 «Sembra la cosa giusta da fare,» pare abbia detto Ernest Bevin, ministro degli Esteri britannico, al suo capo di gabinetto «ma non andate a invadere le aree assegnate agli ebrei.» 23 Qualunque fosse il suggerimento dato, il caos che si abbatté su un’altra parte del mondo da cui i britannici si stavano ritirando costituì una prova inoppugnabile degli effetti nocivi del potere imperiale europeo. Forse la guerra arabo-israeliana del 1948 non fu il risultato di una politica condotta a cenni del capo, colpi di gomito e ammiccamenti, ma di certo corrispose a un vuoto che si apriva per effetto del cambio della guardia. 24 Le cose andarono un po’ meglio in Iraq, dove nel 1948 ci furono disordini dopo che il primo ministro, Ṣāliḥ Jabr, sottoscrisse con la Gran Bretagna un accordo che prolungava di altri venticinque anni la concessione a quest’ultima delle basi aeree del paese. La notizia provocò scioperi, tumulti e, alla fine, le dimissioni di Jabr, costretto a lasciare l’incarico da una folla inferocita. 25 L’animosità nei confronti della Gran Bretagna era stata alimentata da diversi fattori, tra cui l’occupazione di Baghdad durante la seconda guerra mondiale e
quello che veniva percepito come un mancato sostegno britannico agli arabi in Palestina, specialmente in confronto con i tentativi di Londra di mantenere una presenza militare permanente in Iraq. A tutto ciò si aggiungevano un’inflazione galoppante e la scarsità di cibo dovuta a raccolti scarsi, con il risultato di far riconoscere a un sagace osservatore che «la situazione interna in Iraq era pericolosa». 26 La Gran Bretagna si attivò allora per aiutare il «primo ministro iracheno … a resistere all’agitazione popolare facendogli delle concessioni», tra cui l’offerta di condividere la base aerea di Habbaniyah: gli iracheni, secondo i politici londinesi, dovevano gioire di questo «alto esempio di cooperazione». La Gran Bretagna non sarebbe stata «disposta a fare [quest’offerta] a nessun altro Stato», e gli iracheni dovevano essere assai grati che fosse loro consentito di sentirsi «superiori ad altri paesi mediorientali». 27 A esasperare ulteriormente la situazione era il fatto che, come in altri paesi petroliferi, l’Iraq traeva ben pochi vantaggi dal greggio estratto dal suo sottosuolo. Nel 1950, circa il 90 per cento della sua popolazione era ancora analfabeta e, quel che è peggio, la Gran Bretagna era considerata colpevole di esercitare una presa soffocante sul paese: quando si trattò di prestare fondi per costruire e ampliare la rete ferroviaria, per esempio, i britannici richiesero come garanzia le riserve dell’Iraq, suscitando il timore che si sarebbero impadroniti dei campi petroliferi in caso di inadempienza – più o meno come era accaduto nell’Ottocento con il canale di Suez, quando avevano assunto il controllo della vitale via d’acqua e dei suoi proventi. 28 Per la Gran Bretagna non c’era via d’uscita: aveva speso tutto il suo capitale politico e nessuno si fidava di lei. Tale era il clima di sospetto che perfino un’agenzia come la Middle East Anti-Locust Unit (MEALU ), creata durante la guerra e da allora sull’onda del successo, fu lasciata morire, con conseguente perdita di un valido ausilio tecnico sia per affrontare gli sciami nocivi sia per proteggere le scorte alimentari. 29 Gli Stati mediorientali stavano flettendo i muscoli e ribellandosi all’Occidente. Nel frattempo, anche l’Unione Sovietica stava risorgendo. Dopo la sconfitta della Germania nazista stava emergendo nell’URSS una nuova
narrazione, nella quale il ruolo di Stalin nella genesi della guerra in quanto alleato di Hitler veniva tranquillamente omesso, rimpiazzato da una versione della storia che parlava di trionfo e di adempimento del destino. 30 La rivoluzione del 1917 non era riuscita a produrre la trasformazione globale prevista da Marx e dai suoi discepoli; trent’anni più tardi, però, sembrava che fosse giunta l’ora perché il comunismo si diffondesse in tutto il mondo e dominasse l’Asia, proprio come aveva fatto l’islam nel VII secolo. Aveva già cominciato a diffondersi in Cina, dove le promesse di uguaglianza, di giustizia e soprattutto di riforma agraria procuravano sostegno al Partito comunista, consentendogli di respingere le forze governative, e alla fine di scacciarle completamente dalla Cina continentale. Schemi analoghi cominciavano a manifestarsi altrove, mentre partiti di sinistra iniziavano ad attrarre un crescente consenso in Europa e negli Stati Uniti. La promessa di una società ideale e di un’armonia universale in netta contrapposizione agli orrori della guerra, culminati con il lancio di due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, risultò convincente per molti – anche tra coloro che avevano lavorato al programma nucleare –, demoralizzati dal fatto che in poco più di trent’anni due titanici scontri tra nazioni europee avessero prodotto risultati così rovinosi in tutto il mondo. Stalin soffiò astutamente su questo fuoco in un discorso tenuto nella primavera del 1946 e che ebbe grande risonanza internazionale. La seconda guerra mondiale era stata inevitabile, affermò, «a causa dell’emergere di fattori economici e politici globali che erano impliciti nel concetto di capitalismo monopolistico moderno». 31 Le sue parole erano una dichiarazione d’intenti: il capitalismo aveva dominato il mondo per troppo tempo, ed era responsabile della sofferenza, dello sterminio di massa e degli orrori delle guerre del XX secolo. Il comunismo era una reazione logica a un sistema politico che si era dimostrato carico di difetti e pericoloso. Era un nuovo sistema che privilegiava le somiglianze rispetto alle differenze, e che sostituiva le gerarchie con l’uguaglianza. Non era soltanto una visione attraente, ma un’alternativa vitale. Non molto tempo prima, Churchill si era giocato il futuro dei paesi
posti a occidente dei confini dell’Unione Sovietica. «Il povero Neville Chamberlain credeva di potersi fidare di Hitler» aveva detto Churchill a un funzionario del suo staff subito dopo i negoziati di Jalta in cui era stato definito l’assetto del mondo postbellico. «Si sbagliava. Ma io non credo di sbagliarmi su Stalin.» 32 Chamberlain, in effetti, si era sbagliato, ma anche Churchill, come ben presto riconobbe. Nessuno sa, ebbe a dire il 5 marzo 1946 nel suo discorso di Fulton, nel Missouri, «che cosa la Russia … intenda fare nell’immediato futuro». Tuttavia, osservava, il fatto che la sua filosofia fosse espansiva e proselitistica voleva dire che rappresentava una minaccia per l’Occidente. «Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente dividendolo in due.» 33 Il destino del centro del mondo era in bilico. L’Iran faceva da fulcro. Gli strateghi americani erano convinti che i sovietici aspirassero al dominio completo del paese per via del suo petrolio, ma anche delle sue basi navali e della sua posizione al cuore di una rete di rotte aeree internazionali. Il governo iraniano aveva assegnato la concessione per l’estrazione del petrolio nell’area settentrionale agli americani, ma soltanto dopo che l’ambasciatore statunitense li ebbe rassicurati che gli USA , se necessario, avrebbero fornito appoggio militare qualora forze sovietiche fossero entrate nel paese in seguito alla forte opposizione di Mosca all’accordo. 34 Nell’estate del 1946 le tensioni aumentarono quando una serie di scioperi dilagò in tutto l’Iran. Mentre voci contrastanti si inseguivano per le strade di Teheran, parve che fosse in gioco il futuro immediato del paese. Era penosamente chiaro che la Gran Bretagna, nonostante il forte desiderio di mantenere il controllo delle sue risorse, non era in grado di fare granché per influenzare gli eventi dove occorreva. I rapporti dei servizi d’informazione dipingevano la cupa prospettiva di un’imminente offensiva militare sovietica contro Iran e Iraq, riferendo di piani d’invasione dettagliati e segnalando anche il probabile punto in cui, in caso di attacco, si sarebbe concentrata l’azione di «potenti forze corazzate e motorizzate». Si affermava che lo stato maggiore sovietico avesse raggiunto conclusioni ottimistiche sulla possibilità di occupare Mosul e fosse pronto a insediare un
«governo popolare iraniano», una volta che lo scià fosse stato abbattuto. Secondo i britannici, ci sarebbero state rappresaglie contro il regime precedente, i cui esponenti più autorevoli sarebbero stati bollati come «traditori e collaborazionisti». Paracadutisti sovietici erano pronti a lanciarsi nei dintorni di Teheran e a condurre un assalto destinato a concludersi rapidamente. 35 Un senso di vero e proprio allarme si diffuse a Washington. Gli americani avevano tenuto sotto stretta sorveglianza l’Iran fin dal dicembre 1942, quando l’avanguardia di 20.000 soldati era arrivata a Khorramshahr, nel Golfo, e si era messa all’opera per migliorare il sistema dei trasporti del paese. Per sovrintendere alla logistica, nella stessa Teheran era stato costruito un vasto baraccamento americano, che divenne il quartier generale dell’intero Comando USA del golfo Persico. 36 Britannici e sovietici stavano mettendo al primo posto i loro interessi in Iran, minando costantemente lo sforzo bellico e, al contempo, la stabilità stessa del paese. L’Iran veniva pericolosamente tirato in tutte le direzioni, riferì il generale Patrick Hurley al presidente Roosevelt. 37 Gli americani che durante la guerra erano stati schierati in Iran per sostenere e controllare le linee di rifornimento subirono una specie di shock culturale. L’esercito iraniano, secondo il maggior generale Clarence Ridley, era malamente addestrato, a corto di risorse e sostanzialmente inutile. Se si voleva che fosse in grado di reggere il confronto con vicini ostili, erano necessari massicci investimenti per formare una nuova generazione di ufficiali e per acquistare un buon equipaggiamento. Questa era musica per le orecchie del nuovo scià, intenzionato a lasciare a tutti i costi un segno sull’Iran con un programma di modernizzazione. Il problema, come gli disse francamente il suo consigliere economico (americano), era che non si poteva costruire un esercito sul modello di quelli occidentali: se i fondi fossero stati dirottati sulla spesa militare, gli fu spiegato, «sarebbe rimasto poco o niente per l’agricoltura, l’istruzione e la sanità pubblica». 38 Scarsamente preparato, disorganizzato e debole, l’Iran sembrava avere poche possibilità di tenere alla larga l’Unione Sovietica in un
periodo in cui l’atteggiamento e il comportamento di Stalin erano oggetto di profonda preoccupazione negli Stati Uniti. Qualcuno, ascoltando il discorso del leader sovietico, concluse che le sue parole non erano che la «dichiarazione della terza guerra mondiale». 39 George Kennan, incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Mosca, che era stato testimone diretto delle purghe di Stalin, trasse una conclusione analoga all’inizio del 1946, mettendo in guardia da un futuro grande conflitto globale. «Al fondo della visione nevrotica degli affari mondiali da parte del Cremlino» scriveva «[c’è] il tradizionale e istintivo senso di insicurezza russo.» L’URSS , concludeva, era «una forza politica fanaticamente votata» a impegnarsi nella competizione con gli Stati Uniti, al punto che il suo scopo era di assicurarsi che «l’armonia interna del nostro Stato sia compromessa, che il nostro tradizionale stile di vita sia distrutto [e] l’autorità internazionale del nostro Stato spezzata». 40 La sua importanza politica e strategica, a questo punto, conferì all’Iran una posizione di primo piano nella politica estera degli Stati Uniti, che compirono sforzi sistematici per cercare di sostenere il paese. Nel 1949 la stazione radio Voice of America cominciò a trasmettere in lingua farsi per la popolazione locale, e nel primo programma andato in onda si poté ascoltare il presidente Truman che parlava dello «storico legame di amicizia» tra l’Iran e gli USA , e prometteva assistenza per contribuire a creare un «mondo prospero e pacifico», libero dall’oppressione. 41 Un anno dopo, al momento dello scoppio della guerra nella penisola di Corea, venne offerto un aiuto più diretto. Come affermava un’informativa del dipartimento di Stato, sebbene la declinante economia «non avesse ancora raggiunto condizioni catastrofiche», in mancanza di un forte sostegno c’era il rischio «della completa disintegrazione del paese e del suo assorbimento immediato o successivo nel blocco sovietico». 42 Truman stesso ne era profondamente convinto. «Se stiamo a guardare,» osservò «[i sovietici] entreranno in Iran e s’impadroniranno di tutto il Medio Oriente.» 43 Le trasmissioni radio divennero sempre più esplicite nel dire agli
iraniani che «le nazioni libere devono stare insieme», che «la sicurezza degli Stati Uniti dipende dalla sicurezza di altre nazioni», e che «la forza del mondo libero» continuava ad aumentare. Affermazioni cui si accompagnavano reportage che sottolineavano la minaccia che l’Unione Sovietica costituiva per la pace mondiale, asserivano che «lo scopo dei capi comunisti è la soppressione universale della libertà umana» e arrivavano a sostenere che «gli insegnanti sovietici alloggiavano in carri merci sgangherati che prima erano serviti per il trasporto del bestiame» e non disponevano di riscaldamento, strutture sanitarie di base e acqua potabile. 44 Gli aiuti finanziari cominciarono ad affluire in Iran, aumentando di quasi cinque volte nel corso di tre anni, dagli 11,8 milioni di dollari del 1950 ai 52,5 milioni del 1953. Lo scopo era favorire lo sviluppo economico del paese, stabilizzarne la cultura politica e gettare le basi per le riforme, ma anche fornire assistenza militare e tecnica per la sua autodifesa. Queste furono le prime fasi della costruzione di uno Stato satellite americano in Medio Oriente. 45 Tale politica era motivata in parte dalla constatazione che la Gran Bretagna non era più in grado di sostenere i regimi come aveva fatto in passato, e in parte dall’esplicito riconoscimento che l’espansionismo sovietico richiedeva una risposta. Tuttavia, queste non erano le uniche ragioni della grande attenzione riservata all’Iran. Nel 1943, per esempio, durante l’importante conferenza tenuta dai leader alleati a Teheran, né Winston Churchill né il presidente Roosevelt si erano presi la briga anche solo di incontrare lo scià. Detto in parole povere, entrambi pensavano che farlo sarebbe stato una perdita di tempo. 46 Analogamente, l’anno successivo, scarsa attenzione era stata data dagli americani all’Arabia Saudita, considerata paese di rilevanza limitata, le cui richieste di aiuto economico il presidente Roosevelt poteva facilmente trascurare in quanto «un po’ troppo lontano … per noi»; Roosevelt aveva aggiunto che per i sauditi sarebbe stato meglio comunicare le loro preoccupazioni e richieste alla Gran Bretagna anziché agli Stati Uniti. 47 Ma dopo la fine della guerra, la situazione era molto diversa, e l’Arabia Saudita era di per sé considerata «più importante per la diplomazia americana di quasi qualunque altra
piccola nazione». 48 La ragione di ciò era il petrolio. Durante la guerra, un coraggioso petroliere di nome Everette Lee DeGolyer, che aveva fatto soldi nell’industria petrolifera americana dopo aver studiato geologia in Oklahoma, aveva visitato il Medio Oriente per valutare i campi petroliferi in attività e per dare un parere sul potenziale a lungo termine e il valore delle risorse della regione in sé stesse, e in rapporto a quelle del golfo del Messico, del Venezuela e degli stessi Stati Uniti. La sua relazione, pur corredata di stime prudenziali e riserve, era sbalorditiva. «Il centro di gravità della produzione petrolifera mondiale si sta spostando dalla regione del golfo del Messico e Caraibi al Medio Oriente, nel golfo Persico, e così continuerà, fino a stabilizzarsi in quei paesi.» 49 Uno di coloro che viaggiavano con lui si espresse in termini ancor più espliciti, riferendo al dipartimento di Stato: «Il petrolio di quella regione è il più gran premio della storia». 50 Tutto ciò non era sfuggito ai britannici, che reagirono con gelosia alla prospettiva che gli Stati Uniti riservassero una maggiore attenzione alla regione nel suo insieme. Agli americani si sarebbe dovuto dire di starsene fuori dal Medio Oriente e alla larga dalla posizione dominante che la Gran Bretagna si era costruita, sostenne con Churchill un importante industriale: «Il petrolio è la massima e unica risorsa che ci rimarrà dopo la guerra. Dovremmo rifiutarci di dividerla con gli americani». 51 Questo punto di vista fu espresso con forza da Lord Halifax, l’ambasciatore britannico a Washington, risentito del modo in cui i funzionari del dipartimento di Stato avevano cercato di sviarlo. Anche i politici britannici erano preoccupati di quanto stava accadendo, temendo che «gli Stati Uniti intendano privarci delle nostre risorse petrolifere in Medio Oriente». 52 Lo stesso primo ministro fu coinvolto direttamente, e inviò al presidente Roosevelt un telegramma in cui affermava: «Ho assistito con una certa apprensione» al modo in cui si stavano sviluppando i negoziati; «può essere certo che io vorrei soltanto arrivare a ciò che è equo e giusto tra i nostri due paesi». 53 Ciò significava raggiungere un accordo su come spartire questa parte cruciale del mondo tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Un incontro
tra Halifax e il presidente Roosevelt risolse il problema: per quanto riguardava gli USA , «il petrolio in Persia era [britannico e] … dovevamo entrambi avere una quota in Iraq e in Kuwait, mentre … Bahrein e Arabia Saudita erano americani». 54 Era qualcosa di simile agli accordi raggiunti da Spagna e Portogallo a cavallo tra il XV e il XVI secolo, oppure alle discussioni tenute dai capi alleati durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, che divisero il mondo esattamente a metà. Gli americani e i britannici si disposero a gestire questa spartizione in modi molto diversi. Dal punto di vista statunitense, la questione essenziale era che tra il 1945 e 1948 il prezzo del petrolio era raddoppiato, mentre il numero delle automobili nei soli Stati Uniti aveva registrato un incremento di oltre il 50 per cento e il valore delle vendite delle fabbriche di motoveicoli era aumentato di sette volte. 55 Di conseguenza, dapprima gli USA affrontarono la situazione con una razionalità che faceva pensare a un atteggiamento illuminato: era inevitabile che i paesi che avevano la fortuna di possedere risorse naturali e si vedevano corteggiati da ogni lato cercassero di massimizzare i loro vantaggi. Per questo, era ragionevole rinegoziare i termini delle concessioni petrolifere, e farlo con eleganza piuttosto che con metodi coercitivi. C’erano già le prime avvisaglie e minacce di nazionalizzazione, che riflettevano il mutato ordine mondiale. In primo luogo, i nuovi accordi firmati con i paesi ricchi di petrolio erano sempre più generosi e concorrenziali. Quello stretto con Jean Paul Getty per una concessione nella Zona Neutrale tra Arabia Saudita e Kuwait fruttava royalty per barile quasi doppie rispetto a quelle pagate in altre parti del Medio Oriente, e generò rivalità e antagonismi in paesi vincolati da accordi sottoscritti in precedenza. Ciò non soltanto trasformò tali paesi in focolai di dissenso sul modo in cui le risorse venivano espropriate, suscitando richieste di nazionalizzazione, ma li rese anche vulnerabili alla propaganda comunista e alle aperture da parte di Mosca. Ne derivò un considerevole cambiamento nelle entrate fiscali, via via che gli USA ammorbidivano le loro posizioni commerciali e
rinegoziavano una numerosa serie di accordi. Nel 1949, per esempio, il Tesoro USA aveva percepito 43 milioni di dollari in tasse dalla Aramco, un consorzio di compagnie petrolifere occidentali, a fronte dei 39 milioni di diritti erariali incassati dall’Arabia Saudita. Due anni più tardi, dopo il cambiamento del sistema di crediti fiscali con cui le aziende potevano compensare le loro spese, la Aramco pagava 6 milioni di dollari negli USA , ma 110 milioni ai sauditi. 56 Ci fu un effetto domino, via via che i termini di altre concessioni in Arabia, ma anche in Kuwait, in Iraq e altrove, venivano ridefiniti in favore dei sovrani e dei governi locali. Alcuni storici hanno parlato di questa fase di ristrutturazione dei flussi valutari come di un evento altrettanto epocale quanto il trasferimento dei poteri da Londra all’India e al Pakistan. 57 Ma il suo impatto fu molto simile a quello della scoperta delle Americhe e della redistribuzione della ricchezza globale che ne seguì. Le compagnie occidentali che controllavano le concessioni, e la cui distribuzione era prevalentemente concentrata in Europa e negli Stati Uniti, cominciarono a convogliare denaro verso il Medio Oriente, e con ciò diedero il via a uno spostamento del centro di gravità del mondo. La ragnatela di oleodotti che attraversavano la regione e connettevano l’Oriente con l’Occidente segnò un nuovo capitolo nella storia di quest’area. Stavolta non erano le spezie o le sete, gli schiavi o l’argento a spostarsi attraverso il globo, ma il petrolio. I britannici invece, non avendo recepito i segnali con la stessa lucidità dei loro colleghi americani, avevano altre idee. In Iran, l’Anglo-Iranian era un parafulmine per le critiche. Non era difficile capire il perché, considerando l’enorme squilibrio fra le cifre pagate all’erario britannico e le royalty versate all’Iran. 58 Sebbene anche altri paesi della regione potessero lamentare la modestia dei benefici che ricevevano in cambio del loro oro nero, le dimensioni della sperequazione in Iran facevano apparire la situazione particolarmente inaccettabile. Nel 1950 Ābādān, pur essendo sede di una raffineria che era ormai la più grande del mondo, riceveva tanta elettricità quanto una singola strada di Londra. A malapena un decimo dei suoi 25.000
bambini in età scolare poteva frequentare le lezioni, tale era la carenza di scuole. 59 Come altrove, la Gran Bretagna era di fronte a un dilemma cui non era possibile sottrarsi: rinegoziare i termini della concessione petrolifera era pressoché impossibile, come osservava l’astuto e ben ammanicato segretario di Stato americano Dean Acheson. L’AngloIranian aveva come azionista di maggioranza il governo britannico ed era vista pertanto, non senza ragione, come una longa manus della Gran Bretagna e della sua politica estera. Come per la Compagnia delle Indie Orientali, la linea di demarcazione tra gli interessi della compagnia e quelli del governo era tutt’altro che netta; e come la Compagnia delle Indie Orientali, l’Anglo-Iranian era così potente da costituire anch’essa, di fatto, uno «Stato nello Stato», perché il suo potere «era in definitiva quello della Gran Bretagna». 60 Se l’AngloIranian avesse ceduto e avesse concesso all’Iran un accordo migliore, concludeva Acheson, avrebbe «distrutto l’ultimo residuo della fiducia nel potere britannico e nella sterlina». Nel giro di qualche mese, prediceva il segretario di Stato, alla Gran Bretagna non sarebbe rimasto alcun cespite estero. 61 La forte dipendenza di Londra dalle entrate della compagnia rendeva la situazione precaria, come ben comprendeva Acheson. «La Gran Bretagna è sull’orlo della bancarotta» scriveva in un cablogramma; senza i suoi «importanti interessi d’oltremare e le voci occulte della sua bilancia dei pagamenti … non può sopravvivere». Era per questa ragione che i britannici stavano ricorrendo a tutti i trucchi della diplomazia, diffondendo con insistenza rapporti che sottolineavano di continuo la minaccia imminente di un’invasione sovietica. Acheson per primo non li prendeva sul serio. «L’obiettivo principale della politica britannica non è impedire che l’Iran diventi comunista», nonostante le affermazioni in senso contrario. «L’obiettivo principale è conservare quello che essi [i britannici] considerano l’ultimo bastione rimasto della solvibilità britannica.» 62 La situazione ebbe una svolta negativa nel 1950, quando nuovi termini furono offerti all’Iraq e negati platealmente all’Iran. Il fatto che l’Iraqi Oil Company fosse in parte proprietà dell’Anglo-Iranian gettò
sale sulle ferite, e provocò una reazione furibonda in Iran. I politici nazionalisti si levarono a denunciare l’iniquità del monopolio virtuale della compagnia, condendo le loro critiche con commenti volti a suscitare indignazione. Tutta la corruzione del paese era responsabilità diretta dell’Anglo-Iranian, affermò un membro del Majlis (il Parlamento). 63 Se non si fosse fatto nulla, secondo un demagogo, si sarebbe presto arrivati «a strappare alle donne i chador dalla testa». 64 Piuttosto di permettere che l’Anglo-Iranian sfruttasse il popolo e il paese, disse un altro, sarebbe stato preferibile che l’intera industria del petrolio dell’Iran venisse distrutta da una bomba atomica. 65 Mossadeq si esprimeva in termini meno perentori. Se fosse diventato primo ministro, sembra dicesse, non avrebbe «avuto la minima intenzione di venire a patti con i britannici». Piuttosto, continuava, avrebbe «sigillato i pozzi di petrolio con il fango». 66 La retorica antibritannica, che già ribolliva da una generazione, adesso entrava a far parte della coscienza comune: la Gran Bretagna era l’artefice di tutti i problemi dell’Iran e non era possibile fidarsene. Essa guardava soltanto ai propri interessi ed era imperialista nel senso peggiore del termine. L’assimilazione dell’identità iraniana al sentimento antioccidentale mise radici, e avrebbe avuto profonde implicazioni a lungo termine. Mossadeq prese la palla al balzo con tutt’e due le mani. La misura era colma, dichiarò. Era venuto il momento di assicurare la prosperità della nazione iraniana e di «salvaguardare la pace mondiale». Alla fine del 1950 fu avanzata una proposta radicale: i proventi petroliferi non dovevano essere condivisi né con l’Anglo-Iranian né con chiunque altro, e «l’industria petrolifera dell’Iran doveva essere dichiarata nazionalizzata in tutte le regioni del paese, senza eccezioni». 67 L’ayatollah Kashani, un ecclesiastico populista di recente tornato dall’esilio e già noto e per le sue aperte critiche all’Occidente, diede il suo accorato sostegno a questo appello all’azione, incitando i suoi seguaci a ricorrere a ogni metodo possibile per dar vita al cambiamento. Nel giro di qualche giorno, il primo ministro ‘Alī Razmārā fu assassinato; poco dopo la stessa sorte toccò al ministro dell’Istruzione. L’Iran civettava con l’anarchia.
I più cupi timori della Gran Bretagna si concretizzarono quando lo stesso Mossadeq fu scelto dal Majlis come nuovo primo ministro, nella primavera del 1951. Appena salito al governo, egli fece approvare una legge che nazionalizzava con effetto immediato l’Anglo-Iranian. Era un disastro, come compresero sia la stampa di Londra sia il gabinetto britannico. Era importante, dichiarò il ministro della Difesa, «dimostrare che non ci lasciamo attorcigliare la coda all’infinito». E aggiunse che se all’Iran fosse «consentito di farla franca, la prossima mossa potrebbe essere un tentativo di nazionalizzare il canale di Suez». 68 Furono stesi piani per il lancio di paracadutisti in Iran con l’obiettivo di assicurarsi la raffineria di Ābādān, se necessario. Si trattava degli spasimi mortali di un grande impero in ritirata, che si dibatteva disperatamente nel tentativo di restare aggrappato alle sue glorie di un tempo. Mossadeq diede un giro di vite, concedendo nel settembre 1951 ai dipendenti britannici dell’Anglo-Iranian una settimana per fare i bagagli e lasciare l’Iran. Per dare il tocco finale, l’ayatollah Kashani proclamò una giornata nazionale di «odio contro il governo britannico». La Gran Bretagna era divenuta un simbolo di tutto ciò che non andava in Iran, un simbolo che unificava un ampio spettro di posizioni politiche. «Lei non sa quanto scaltri siano [i britannici]» disse Mossadeq a un inviato americano d’alto rango. «Lei non sa quanto siano malvagi. Lei non sa come sporchino tutto ciò che toccano.» 69 Questo genere di retorica lo rese immensamente popolare in patria e famoso anche all’estero: nel 1952 era sulla copertina della rivista «Time», come «uomo dell’anno». 70 Il maldestro tentativo britannico di forzare la situazione non fu d’aiuto. Di fronte al rischio di perdere il controllo non solo dell’AngloIranian ma anche delle entrate che essa assicurava, il governo britannico entrò in una logica di crisi, organizzando un embargo su tutto il petrolio iraniano. L’obiettivo era di danneggiare Mossadeq e costringerlo a capitolare. Privando l’Iran di mezzi finanziari si sarebbe ottenuto in breve l’effetto desiderato, opinava Sir William Fraser, l’ambasciatore britannico a Teheran: «Quando [gli iraniani] avranno bisogno di soldi, verranno da noi strisciando sul ventre». È
improbabile che commenti di questo genere apparsi sui principali organi di stampa abbiano favorito la causa della Gran Bretagna di fronte al tribunale dell’opinione pubblica. 71 Invece ebbero il semplice effetto di rafforzare la determinazione in Iran, al punto che verso la fine del 1952 i britannici non erano più così sicuri che la tattica basata sulle sanzioni avrebbe avuto successo. Si prese perciò contatto con l’appena istituita Central Intelligence Agency (CIA ) perché sostenesse un piano «di azione politica congiunta per destituire il primo ministro [dell’Iran] Mossadeq»: in altre parole, perché organizzasse un colpo di Stato. Non per l’ultima volta, parve che un cambio di regime in questa parte del mondo fosse la soluzione del problema. I funzionari statunitensi risposero favorevolmente alle proposte britanniche. Agli agenti operativi sul campo in Medio Oriente era già stata data mano libera per esplorare soluzioni creative ai problemi con i governanti locali che non fossero abbastanza ben disposti verso gli USA o sembrassero impazienti di civettare con l’Unione Sovietica. Un gruppo di giovani agenti troppo zelanti, cresciuti in ambienti privilegiati della costa orientale, era già stato coinvolto in un putsch che aveva visto il rovesciamento della dirigenza siriana nel 1949, e tre anni più tardi nella destituzione del corpulento, corrotto e inaffidabile re dell’Egitto, Fārūq, in un’operazione nota a livello non ufficiale come «Project FF » (ossia Project Fat Fucker, «Progetto stronzo ciccione»). 72 Lo zelo di uomini come Miles Copeland e come due dei nipoti del presidente Theodore Roosevelt – Archie e Kermit (Kim) – ricordava quello degli agenti britannici di stanza in Asia centrale un secolo prima, che pensavano di poter modellare il mondo, o anche quello dei colleghi di tempi più recenti che ritenevano che passare segreti all’Unione Sovietica avrebbe avuto effetti positivi. Dopo la caduta del governo in Siria, i giovani americani se n’erano andati a fare un giro turistico tra «castelli crociati e luoghi lontani dai sentieri battuti», fermandosi di passaggio ad ammirare l’architettura e l’atmosfera di Aleppo. 73 Le decisioni venivano prese in maniera improvvisata. «Che differenza c’è» chiese Copeland all’austero ed erudito Archie
Roosevelt «tra me che invento rapporti e te che lo lasci fare ai tuoi agenti? Almeno quello che faccio io ha un senso.» 74 Il gioco duro e sbrigativo di questi uomini che operavano sul campo non era passato inosservato agli USA : un alto funzionario dei servizi segreti li aveva ammoniti dicendo che «azioni disinvolte e irresponsabili non saranno tollerate in futuro». 75 Tuttavia, quando si presentò la questione dell’Iran, le loro opinioni furono assai richieste. Le cose cominciarono a muoversi dopo una riunione di routine tenuta a Washington alla fine del 1952, quando i funzionari britannici, manifestando le loro apprensioni per l’effetto economico della nazionalizzazione, trovarono una rispondenza nelle preoccupazioni americane per la possibile evoluzione futura dell’Iran. La stazione della CIA a Teheran era inquieta per le mosse di Mossadeq e suggeriva in via riservata a Washington che gli Stati Uniti «promuovessero un nuovo governo» in Iran. I pianificatori conclusero immediatamente che lo scià doveva essere coinvolto nel complotto, in modo da garantire unità e calma e in modo che la destituzione del primo ministro potesse essere «fatta sembrare legale o quasi legale». 76 Persuadere lo scià Reza Pahlavi era più facile a dirsi che a farsi. Uomo apprensivo e vanitoso, in un primo momento cadde in preda al panico quando fu messo al corrente del piano, denominato in codice Operazione Ajax. In particolare lo preoccupava il coinvolgimento dei britannici, secondo uno degli artefici americani del piano. A detta di questi, aveva «una paura patologica della “mano nascosta” dei britannici», e temeva che l’operazione fosse una trappola. Ci vollero lusinghe, minacce e ammonimenti: nelle trasmissioni della BBC di Londra furono inserite alcune parole chiave per rassicurarlo sul fatto che l’operazione fosse stata autorizzata al livello più alto; anche un discorso radiofonico in cui il presidente Eisenhower prometteva esplicitamente il sostegno statunitense all’Iran contribuì a convincerlo. Nel frattempo, a livello personale gli fu detto che, se non avesse dato il suo appoggio, l’Iran sarebbe diventato comunista, «una seconda Corea», per dirla con Kim Roosevelt. 77 Per garantire che «l’opinione pubblica … fosse eccitata al parossismo» come preludio della destituzione di Mossadeq, da
Washington furono inviati fondi per blandire personaggi importanti e trasformarli in oppositori del primo ministro. Roosevelt si occupò dei principali membri del Majlis, quasi certamente corrompendoli (l’obiettivo, scrisse eufemisticamente, era «convincerli» a togliere il loro appoggio a Mossadeq). 78 Si spese con larghezza anche altrove. Secondo un testimone oculare, l’afflusso di valuta americana a Teheran fu così ingente che durante l’estate del 1953 il valore del dollaro rispetto al rial si ridusse di quasi il 40 per cento. Parte di questi fondi furono spesi per fare in modo che per le strade della capitale si riversassero folle di manifestanti, sotto la regia di due agenti operativi locali della CIA . Ci furono anche altri beneficiari di rilievo: soprattutto mullah come l’ayatollah Kashani, i cui interessi furono giudicati reciprocamente compatibili con gli obiettivi dei cospiratori. 79 Gli studiosi musulmani avevano concluso che i precetti e l’atteggiamento antireligioso del comunismo rendevano la dottrina radicalmente incompatibile con gli insegnamenti dell’islam. Perciò c’era un ovvio spazio perché la CIA potesse stringere accordi con i leader religiosi, che venivano enfaticamente messi in guardia dai pericoli di un Iran comunista. 80 Dopo un incontro tra i pianificatori britannici e americani tenutosi a Beirut nel giugno 1953, fu elaborato un piano che venne approvato personalmente dal primo ministro britannico Winston Churchill all’inizio di luglio e poi, qualche giorno più tardi, dal presidente Eisenhower. Ad agenti dei servizi segreti fu quindi affidato il compito di studiare il modo migliore per comunicare ai persiani, da essi definiti «piuttosto prolissi e spesso irrazionali», che il cambio di regime era voluto dall’Occidente, e avrebbe dovuto aver luogo in modo tranquillo e senza incidenti. 81 Di fatto, le cose andarono incredibilmente male. Le coperture saltarono e la coordinazione temporale fu compromessa, mentre la situazione precipitava nel caos. Spaventato, lo scià lasciò in tutta fretta il paese alla volta di Roma. Durante uno scalo a Baghdad s’incontrò con l’ambasciatore americano in Iraq, il quale colse l’occasione per fargli una proposta: «Suggerii che, per tutelare il suo prestigio in Iran, non rivelasse mai che degli stranieri avevano avuto un ruolo nelle
recenti vicende». In realtà, questo non aveva nulla a che fare con il prestigio dello scià e molto, invece, con l’interesse a mantenere aperte le varie opzioni e, soprattutto, a salvaguardare la buona reputazione degli USA . Lo scià, «logorato da tre notti insonni [e] sconcertato dal corso degli eventi», quasi non era in grado di pensare lucidamente. Ciononostante, riferì sollevato l’ambasciatore a Washington, «accondiscese». 82 Mentre Reza Pahlavi prendeva la via dell’esilio in Italia, le trasmissioni della radio iraniana diffondevano resoconti faziosi, e la stampa lo attaccava dandogli della prostituta, dello sciacallo e del ladro. 83 Il trauma non sfuggì alla giovane moglie Soraya (che molti sussurravano avesse meno dei diciannove anni registrati ufficialmente al momento del matrimonio): la donna in seguito tornò col pensiero a quando, passeggiando per via Veneto vestita con un abito rosso a pois bianchi, lei e il marito avevano discusso del perfido mondo politico di Teheran e lui le aveva tristemente confidato che pensava di comprare un piccolo appezzamento di terra per cominciare una nuova vita, magari negli Stati Uniti. 84 Errori e disavventure degni di una pochade teatrale fecero seguito alla fuga dello scià. Nelle strade si diffusero voci che Mossadeq stesse cercando di rivendicare per sé il trono, e la marea s’invertì. Di lì a pochi giorni – e contro ogni previsione – Reza Pahlavi era sulla via del ritorno in patria, con una breve fermata a Baghdad per indossare l’uniforme di comandante in capo dell’aviazione militare. Rientrato in un clima di splendore e di gloria, si presentò non come un codardo che era fuggito per paura, ma come un eroe che tornava a prendere il controllo della situazione. Mossadeq fu arrestato, processato e condannato alla detenzione in cella d’isolamento, cui seguì un lungo periodo d’esilio durato fino alla sua morte, nel 1967. 85 Mossadeq pagò un prezzo molto alto per aver elaborato una visione del Medio Oriente in cui l’influenza dell’Occidente non fosse soltanto diluita ma del tutto eliminata. La sua diffidenza nei confronti dell’Anglo-Iranian si era trasformata in una concezione del mondo occidentale come entità unitaria connotata negativamente e dannosa.
Ciò fece di lui un agitatore di prim’ordine in Iran, e questo bastò perché i dirigenti britannici e americani elaborassero piani per eliminarlo dalla scena. Le sue vibrate proteste si levarono in un periodo in cui anche altri stavano diventando apertamente critici sul controllo occidentale delle reti che connettevano l’Est e l’Ovest. In Egitto la crescente animosità portò a sommosse antibritanniche e a richieste di evacuazione delle truppe britanniche di stanza a Suez. Un rapporto ai capi di stato maggiore congiunto delle forze armate, stilato da un inviato del dipartimento di Stato USA al Cairo, non lasciava dubbi sulla situazione. «I britannici sono detestati» scriveva l’inviato. «L’odio contro di loro è generalizzato e intenso. È condiviso da tutti nel paese.» Urgeva una soluzione. 86 I tempi stavano cambiando. E in questo senso Mossadeq era il più lucido tra quanti proponevano la visione di una nuova era che implicava il ritiro dell’Occidente dal centro dell’Asia. Quantunque le esatte circostanze della sua caduta siano state tenute nascoste per decenni dai servizi segreti, preoccupati delle «conseguenze dannose» che la desegretazione del materiale avrebbe avuto, pochi mettevano in dubbio che la destituzione di Mossadeq fosse stata orchestrata dalle potenze occidentali per i loro fini. 87 Da questo punto di vista, Mossadeq fu il padre spirituale di una numerosa schiera di eredi in tutta la regione. Perché, sebbene i metodi, gli obiettivi e le ambizioni di personaggi disparati come l’ayatollah Khomeini, Saddam Hussein, Osama bin Laden e i talebani fossero ampiamente differenziati, tutti costoro erano uniti dal dogma fondamentale che l’Occidente fosse falso e maligno, e che liberazione per le popolazioni locali significasse liberazione dalle influenze esterne. C’erano diversi modi per tentare di raggiungere questo obiettivo; ma, come dimostrava il caso di Mossadeq, quelli che ponevano un problema all’Occidente correvano il rischio di subirne le conseguenze. Dal punto di vista psicologico, quindi, il colpo di Stato fu un momento cruciale. Lo scià trasse tutte le conclusioni sbagliate, e si convinse che il popolo iraniano lo adorasse. In realtà, nel migliore dei casi c’erano sentimenti contrastanti nei confronti di Reza Pahlavi, il cui padre, ufficiale di cavalleria, aveva conquistato il trono soltanto
trent’anni prima. La sua fuga a Roma aveva dimostrato una preoccupante mancanza di spina dorsale. La sua convinzione di essere l’uomo giusto per modernizzare il paese doveva misurarsi con la sua capacità di leggere i venti politici prevalenti e di reggersi in modo indipendente da interventi occidentali, e specialmente americani. Questo non era compito da poco per un uomo vanitoso e il cui interesse per le donne e il cui amore per le cose belle della vita fornivano armi ai suoi avversari e lasciavano poco tempo per una riflessione ponderata. Soprattutto, però, il colpo di Stato del 1953 sostenuto dalla CIA segnò uno spartiacque circa il ruolo dell’America in Medio Oriente. Ora c’era una «seconda possibilità» di salvare l’Iran, secondo John Foster Dulles, il nuovo segretario di Stato, una possibilità di accertarsi che non scivolasse fuori dall’orbita occidentale. 88 Visto che «un Iran democratico e indipendente [non sembrava] possibile nelle circostanze date», disse allo scià l’ambasciatore americano a Teheran, c’erano due alternative: un libero «Iran indipendente non democratico» oppure un «Iran indipendente ma per sempre … non democratico, dietro la cortina di ferro». 89 Era la diretta antitesi del messaggio pubblico ed esplicito che l’Occidente sosteneva nella lotta con il comunismo sulla libertà e la democrazia. Questo fu il momento in cui gli Stati Uniti scesero in campo in prima persona e in cui entrarono seriamente in contatto con la regione attraversata per secoli dalle Vie della Seta, e si disposero a cercare di controllarla. Ma su questa strada non mancavano i pericoli. Atteggiarsi a promotori della democrazia da una parte, ed essere disposti ad approvare e perfino a orchestrare cambiamenti di regime dall’altra, erano due cose che difficilmente si conciliavano. Poteva rivelarsi pericoloso tenere il piede in due staffe: non ultimo perché, a tempo debito, si sarebbe inevitabilmente andati incontro a un crollo della fiducia e a un collasso della credibilità. Mentre la stella della Gran Bretagna continuava ad affievolirsi, molto dipendeva da quali lezioni l’America avrebbe tratto da ciò che era accaduto nel 1953.
XXII
LA VIA DELLA SETA AMERICANA
Assumendo la leadership nel Medio Oriente, gli Stati Uniti stavano entrando in un mondo nuovo, un mondo attraversato da ovvie tensioni tra l’obiettivo di promuovere l’interesse nazionale, da una parte, e la necessità di sostenere regimi e governanti sgradevoli, dall’altra. A poche settimane dal rovesciamento di Mossadeq, il dipartimento di Stato si dispose a organizzare le compagnie petrolifere americane perché assumessero il controllo dei pozzi e dell’infrastruttura dell’Anglo-Iranian. Poche erano entusiaste di farlo, preferendo tenersi alla larga dalle incertezze che con ogni probabilità sarebbero seguite al ritorno dello scià: quest’ultimo, per cercare di normalizzare la situazione, stava addirittura pensando di far giustiziare il suo ex primo ministro, il che non era certo un segnale incoraggiante. Né era d’aiuto il fatto che altrove la produzione di petrolio fosse in aumento, o che vi fossero nuove opportunità che promettevano di generare grandi fortune, che in effetti si sarebbero dimostrate ben maggiori di quella di Knox D’Arcy. Qualche settimana prima della caduta di Mossadeq, come si è già ricordato, una compagnia controllata da Jean Paul Getty aveva messo a segno un colpo straordinario – descritto con aggettivi che andavano da «colossale» a «storico» – nella Zona Neutrale tra l’Arabia Saudita e il Kuwait. A fronte di ciò, farsi coinvolgere nella politica velenosa di Teheran era comprensibilmente poco attraente per una compagnia. D’altra parte, per il governo statunitense non si trattava semplicemente di una priorità, ma di una necessità: l’Iran aveva quasi smesso di esportare petrolio durante la crisi dei primi anni Cinquanta. Se non avesse ripreso la produzione in tempi brevi, la sua economia sarebbe crollata,
il che avrebbe probabilmente aperto le porte a fazioni sovversive che potevano far propendere il paese verso l’Unione Sovietica. Inoltre, il venir meno delle forniture e l’aumento dei prezzi avrebbero avuto un effetto non gradito sull’Europa, impegnata in quegli anni nella ricostruzione postbellica. Il dipartimento di Stato iniziò pertanto un’intensa campagna per incoraggiare i maggiori produttori petroliferi statunitensi a formare un consorzio che rilevasse gli interessi dell’Anglo-Iranian, lasciando minacciosamente intendere che le loro concessioni in Kuwait, Iraq e Arabia Saudita sarebbero state a rischio se non si fosse intrapresa un’azione adeguata. Il governo statunitense, calatosi nei panni del regista, cercava di convincere le compagnie americane a cooperare. Come disse un autorevole dirigente petrolifero, «da un punto di vista strettamente commerciale, la nostra compagnia non ha un particolare interesse» a essere coinvolta nell’industria petrolifera iraniana, «ma siamo perfettamente consapevoli dei vasti interessi di sicurezza nazionale che sono in gioco. Siamo pertanto pronti a fare ogni ragionevole sforzo» per essere d’aiuto. Non saremmo mai andati a impelagarci in Iran, disse un altro petroliere, se il governo «non ci avesse dato una botta in testa». 1 I tentativi di subentrare all’Anglo-Iranian e di mantenere stabile l’Iran erano complicati dal fatto che le stesse compagnie petrolifere a cui si chiedeva di agire come longa manus della politica estera statunitense erano oggetto di azione legale da parte del dipartimento della Giustizia per infrazione delle leggi antimonopolistiche. Così come il messaggio della promozione della democrazia si era rivelato all’occorrenza flessibile, anche quello della certezza della validità delle leggi americane subì la stessa sorte: su richiesta del Consiglio per la sicurezza nazionale, il procuratore generale diede formali assicurazioni che «l’applicazione delle leggi antimonopolistiche degli Stati Uniti nei confronti delle [compagnie petrolifere aderenti al consorzio] poteva essere considerata secondaria rispetto all’interesse della sicurezza nazionale». Nella primavera del 1954, pertanto, le compagnie petrolifere americane ricevettero formali garanzie di immunità dall’azione legale. Tanto importante era il controllo sull’Iran
che il governo statunitense era disposto a mettere da parte il suo stesso codice legale. 2 Incoraggiare l’intervento delle compagnie petrolifere americane era soltanto una parte di un piano più ampio volto a puntellare l’Iran e tenerlo al riparo dalle grinfie dell’Unione Sovietica. Ci fu un impegno coordinato in progetti di sviluppo sociale, soprattutto nelle campagne. La popolazione era formata per circa tre quarti da contadini che non possedevano terra e avevano redditi minimi, imprigionati in un mondo in cui i proprietari terrieri si opponevano a qualunque riforma agraria, e in cui le opzioni erano limitate: i tassi d’interesse medi offerti ai piccoli agricoltori oscillavano tra il 30 e il 75 per cento, livelli destinati quasi con certezza a strangolare ogni mobilità sociale. 3 Per affrontare alcuni di questi problemi furono investiti ingenti capitali. Per esempio, la Fondazione Ford, la massima organizzazione filantropica statunitense, istituì programmi di microfinanza per i piccoli proprietari terrieri, mentre il sostegno alla creazione di cooperative consentì di passare da un inefficiente smercio dei raccolti di cotone sui mercati locali alla vendita, a prezzi notevolmente più favorevoli, a intermediari europei. Si esercitarono pressioni sullo scià e sui suoi ministri affinché s’impegnassero adeguatamente nell’implementazione dello sviluppo rurale, anche se con risultati limitati e con grande frustrazione di coloro che cercavano di convincere i politici più autorevoli che il mancato intervento sull’analfabetismo e la disuguaglianza nelle campagne avrebbe avuto conseguenze a lungo termine. 4 Anche gli aiuti diretti da parte del governo USA aumentarono rapidamente, passando da una media annuale di 27 milioni di dollari negli anni precedenti alla destituzione di Mossadeq a una cifra quasi cinque volte maggiore negli anni successivi. 5 Gli Stati Uniti fornirono anche sovvenzioni e prestiti per contribuire al finanziamento di un’imponente diga sul fiume Karaj, circa 60 chilometri a nordest di Teheran, che doveva migliorare in misura sostanziale le forniture di elettricità e di acqua alla capitale, oltre a fungere da simbolo della modernizzazione e del progresso dell’Iran. 6 Tali sforzi erano parte di un approccio sistematico volto a
rafforzare anche altre aree della regione. Sebbene la ricchezza petrolifera rendesse l’Iran particolarmente rilevante per l’Occidente, i paesi limitrofi stavano aumentando d’importanza a causa della loro posizione lungo il fianco meridionale dell’Unione Sovietica, in un periodo in cui la guerra fredda iniziava a riscaldarsi. Il risultato fu la costruzione di una fascia di Stati tra il Mediterraneo e l’Himalaya con governi filoccidentali che ricevevano dagli USA considerevoli aiuti economici, politici e militari. Questa serie di paesi – chiamata «Northern Tier» (fascia settentrionale) dall’austero segretario di Stato John Foster Dulles – aveva tre scopi: fungere da baluardo contro l’espansione degli interessi sovietici; mantenere al sicuro il Golfo ricco di risorse, in modo che continuasse a pompare verso ovest il petrolio destinato a stimolare la ripresa dell’Europa, fornendo al tempo stesso entrate che erano importanti per la stabilità locale; e mettere a disposizione una serie di postazioni d’ascolto e di basi militari qualora le tensioni con il blocco sovietico degenerassero in scontro aperto. Nel 1949, per esempio, un rapporto sull’Asia meridionale preparato per lo stato maggiore congiunto delle forze armate rilevava che il Pakistan poteva «essere necessario come base per operazioni aeree contro la parte centrale dell’URSS e come area di addestramento per forze impegnate nella difesa o nella riconquista delle aree petrolifere del Medio Oriente», sottolineando al contempo che era un avamposto naturale da cui condurre operazioni coperte contro l’Unione Sovietica. 7 Era vitale, pertanto, fornire assistenza al Pakistan, così come ad altri paesi del Northern Tier, per arginare il rischio che l’intera regione assumesse una posizione neutrale nei confronti dell’Occidente «o, nel caso peggiore, … cadesse nell’orbita sovietica». 8 Nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale, la politica statunitense e occidentale nei confronti di gran parte dell’Asia fu plasmata da queste preoccupazioni. Nel 1955 gli Stati della fascia compresa fra Turchia a ovest e Iraq, Iran e Pakistan a est strinsero un accordo che rimpiazzava una rete di alleanze reciproche o con la Gran Bretagna, e divennero firmatari di quello che presto fu noto come «patto di Baghdad». Sebbene lo scopo dichiarato fosse «la
salvaguardia della pace e della sicurezza nel Medio Oriente», in vista della quale venivano scambiate mutue garanzie, in realtà l’accordo era volto a consentire all’Occidente di influenzare una regione di vitale importanza strategica ed economica. 9 Nonostante la grande attenzione posta per assicurarsi che i governi locali agissero in modo favorevole agli Stati Uniti, alcuni errori commessi a Washington crearono opportunità per i sovietici. Alla fine del 1954, per esempio, il dipartimento di Stato americano respinse un discreto tentativo di avvicinamento da parte della dirigenza afghana, respingendo una richiesta di assistenza e armi. Invece di chiedere armi, fu detto al principe Naim, fratello del primo ministro, l’Afghanistan avrebbe dovuto concentrarsi su questioni che lo riguardavano più da vicino, come la soluzione delle dispute di frontiera con il Pakistan. La goffa risposta, che voleva dimostrare sostegno al regime di Karachi, che era stato descritto qualche tempo prima da un addetto militare come di «importanza strategica mondiale», ebbe immediatamente l’effetto contrario a quello voluto. 10 La notizia non aveva fatto a tempo ad arrivare a Kabul che già i sovietici erano scesi in campo con un’offerta di attrezzatura militare e fondi per lo sviluppo che fu subito accettata. A una sovvenzione iniziale di 100 milioni di dollari fecero seguito ulteriori assegnazioni che consentirono di edificare ponti, modernizzare le telecomunicazioni ed estendere la rete stradale, realizzando anche l’autostrada tra Kandahar e Herat. Capitali ed esperti inviati da Mosca permisero, inoltre, la costruzione del tunnel del Salang, lungo circa 2,7 chilometri, su un’importante arteria che conduceva a nord, collegando il paese all’Asia centrale sovietica. Questa strada, simbolo dell’amicizia afghano-sovietica, fu la principale via di rifornimento dell’esercito russo dopo l’invasione dell’Afghanistan negli anni Ottanta. Ma, ironia della storia, si dimostrò decisiva anche per far giungere nel paese i convogli statunitensi e alleati all’inizio del XXI secolo: un’autostrada costruita per rafforzare l’Afghanistan contro l’Occidente avrebbe assunto un’importanza cruciale per i tentativi del secondo di edificare il primo a propria immagine e somiglianza. 11
Essere battuti in astuzia in modo così plateale fu un’esperienza che diede da riflettere, specialmente quando la stessa cosa si ripeté a pochi mesi di distanza, questa volta con effetti più drammatici. Alla fine del 1955 il rivoluzionario egiziano Gamal Abdel Nasser, che aveva avuto un ruolo attivo nel colpo di Stato che tre anni prima aveva rovesciato il re Fārūq con l’appoggio della CIA , si rivolse a sua volta a Mosca con la richiesta di armi. Colti di sorpresa, gli Stati Uniti risposero offrendosi di contribuire, insieme alla Gran Bretagna e alla Banca mondiale, al finanziamento di un progetto per la costruzione di un’enorme diga ad Assuan (simile a quello della diga del Karaj in Iran). Ci furono discussioni ad alto livello tra Londra e Washington su quali altri mezzi utilizzare per ammorbidire Nasser, e il risultato fu la promessa di armi e di esercitare pressioni su Israele perché acconsentisse a un trattato con l’Egitto, nella speranza di migliorare i rapporti sempre più tesi tra i due paesi. 12 A monte del risentimento di Nasser c’era il Patto di Baghdad, in cui vedeva un impedimento all’unità araba e uno strumento dell’Occidente per mantenere la propria influenza sul cuore dell’Asia. Fornendo il denaro e il sostegno promessi, forse si sarebbe riusciti a indurlo alla calma, almeno a breve termine. Di fatto, però, le promesse di finanziamento non furono mantenute a causa delle preoccupazioni dei membri del Congresso USA, i quali temevano che la costruzione di una diga avrebbe provocato un forte aumento della produzione cotoniera e, quindi, il calo dei prezzi, con conseguenze negative per i coltivatori americani. 13 Questo atteggiamento interessato si dimostrò fatale: fu la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Esperto nella politica del rischio calcolato, Nasser – che, secondo il primo ministro britannico Anthony Eden, era deciso «a diventare il Napoleone degli arabi» – a questo punto scelse la via dell’escalation. 14 Al ministro degli Esteri britannico, che nella primavera del 1956 osservava in tono enfatico che il canale di Suez era «una parte integrante del complesso petrolifero mediorientale» e quindi di vitale importanza per gli interessi della Gran Bretagna, il leader egiziano rispose a muso duro che, se le cose stavano così, allora l’Egitto avrebbe dovuto compartecipare ai profitti del canale, proprio come gli
Stati produttori di petrolio compartecipavano alle rendite petrolifere. 15 Nasser comprendeva fin troppo bene che l’Occidente non si sarebbe fermato davanti a nulla pur di conservare le sue risorse, ma contava sul fatto che la nazionalizzazione del canale avrebbe garantito un potere contrattuale che, nel lungo periodo, sarebbe andato soltanto a vantaggio dell’Egitto. Mentre i pianificatori americani cominciavano a calcolare il possibile effetto della chiusura del canale sui prezzi del petrolio, le figure ai vertici della politica britannica precipitavano nel più profondo sconforto. «La verità è che siamo di fronte a un terribile dilemma» scrisse il cancelliere dello Scacchiere Harold Macmillan, che godeva di grande stima e di un’ottima rete di contatti. «Se intraprendiamo un’azione decisa contro l’Egitto e, a causa di ciò, il canale viene chiuso, gli oleodotti che portano al Levante vengono bloccati, il golfo Persico si ribella e la produzione di petrolio si arresta, per il Regno Unito e l’Europa occidentale saranno veramente dolori.» 16 Viceversa, se non si fosse fatto nulla, Nasser avrebbe vinto a mani basse, e ci sarebbero state conseguenze catastrofiche altrove: tutti i paesi del Medio Oriente avrebbero semplicemente seguito il suo esempio e nazionalizzato le loro industrie petrolifere. Nasser stava ripartendo dal punto in cui si era fermato Mossadeq. Agenti dei servizi segreti, diplomatici e politici occidentali cominciarono allora a pensare che il problema di un leader la cui linea era in contrasto con gli interessi occidentali andasse risolto allo stesso modo. Non ci volle molto perché i britannici si mettessero alla ricerca di «un qualsiasi mezzo per abbattere il regime». 17 Come disse un autorevole diplomatico a Londra, «può darsi che dobbiamo liberarci di Nasser»; il primo ministro, Anthony Eden, non voleva soltanto toglierlo di mezzo, lo voleva morto. 18 Visti gli esiti infruttuosi di un’insistita spola diplomatica, Gran Bretagna e Francia conclusero che era necessaria una decisa dimostrazione di forza perché i leader di tutto il Medio Oriente capissero che si sarebbe passati all’azione diretta contro chiunque osasse opporsi ai progetti occidentali. Alla fine di ottobre 1956 ebbe inizio un intervento militare contro l’Egitto: le forze britanniche e francesi si mossero per prendere il
controllo della zona del canale, mentre i loro alleati israeliani lanciavano un attacco in profondità nella penisola del Sinai per contribuire alla presa di Suez e rendere massima la pressione su Nasser. L’invasione si risolse ben presto in un fiasco. Il canale di Suez fu chiuso dopo che gli egiziani affondarono navi, chiatte e imbarcazioni addette alla sua manutenzione e a quella dei canali di navigazione limitrofi, e abbatterono il ponte ferroviario mobile di El Ferdan, a nord di Ismaila, facendolo precipitare nell’acqua. L’effetto delle ostruzioni, ben quarantanove secondo le stime, andò oltre il blocco temporaneo del canale; si produsse quello che un rapporto dell’epoca definì «un grave sconvolgimento dei normali movimenti di merci». Le spedizioni di petrolio verso l’Europa occidentale si ridussero drasticamente. C’erano da aspettarsi ulteriori conseguenze, concluse la CIA : i prezzi di «molte merci fondamentali nel commercio mondiale» erano destinati ad aumentare, ed era probabile che vi fosse «una forte disoccupazione nei paesi del “mondo libero”», le cui economie erano dipendenti dalle merci che arrivavano attraverso il canale di Suez. L’impatto sarebbe stato avvertito anche nell’Unione Sovietica, le cui navi impegnate nel commercio con l’Estremo Oriente, a causa della chiusura di Suez, dovevano affrontare il periplo dell’Africa, con una deviazione di 11.000 chilometri per raggiungere i porti di partenza nel mar Nero. Le mosse di Mosca, che dirottava i carichi essenziali sulle linee ferroviarie transasiatiche – la cui importanza aumentò rapidamente – erano tenute sotto stretto controllo dagli americani. 19 Pur essendo perfettamente consapevole dell’aggravarsi delle tensioni in Egitto, l’amministrazione Eisenhower fu colta di sorpresa dall’inizio dell’azione militare, non essendo stata consultata in merito ai piani d’invasione. Il presidente era furibondo, tanto da rivolgere un aspro rimprovero al primo ministro britannico in persona. Il ricorso alla forza nella zona del canale era un disastro propagandistico per gli autoproclamati guardiani del «mondo libero», tanto più che giungeva proprio mentre in Ungheria i carri armati sovietici erano in marcia per le strade di Budapest per schiacciare un’insurrezione popolare. In definitiva, però, l’azione di Suez impose di dirimere una questione
diversa: segnò il momento in cui gli Stati Uniti dovettero scegliere tra le potenze occidentali, dalle quali avevano ereditato lo scettro nel XX secolo, e il mondo ricco di petrolio del Medio Oriente. E scelsero quest’ultimo. Era essenziale, secondo il presidente Eisenhower, che «gli arabi [non fossero] risentiti con tutti noi». In caso contrario, le forniture di petrolio provenienti dal Medio Oriente avrebbero potuto subire un crollo totale, sia a causa della chiusura del canale sia per un possibile blocco della produzione sia per l’eventuale introduzione di misure di embargo da parte di paesi situati in una regione naturalmente propensa a simpatizzare per l’Egitto in un momento in cui veniva così sfacciatamente vessato. Come aveva già ammesso un autorevole diplomatico britannico, qualunque riduzione delle forniture avrebbe avuto conseguenze devastanti. «Se il petrolio mediorientale verrà negato [alla Gran Bretagna] per un anno o due, le nostre riserve auree scompariranno. Se le nostre riserve auree scompaiono, l’area della sterlina si disintegra. Se l’area della sterlina si disintegra e non abbiamo riserve … dubito che saremo in grado di pagare anche solo il minimo necessario per la nostra difesa. E un paese che non può provvedere alla propria difesa è finito.» 20 Era il peggior scenario possibile, per non dire il più catastrofista. Ma era difficile, come lo stesso Eisenhower riconosceva in privato, «rimanere indifferenti alla crisi energetica e finanziaria dell’Europa occidentale». Ciononostante, come scrisse il presidente a Lord Ismay, il primo segretario generale dell’alleanza di mutua difesa NATO (North Atlantic Treaty Organization), era vitale non «inimicarsi il mondo arabo». 21 In pratica, ciò significava mettere Gran Bretagna e Francia con le spalle al muro. Pur essendo stato predisposto a Washington un piano per inviare petrolio dagli USA all’Europa occidentale, si decise intenzionalmente di non metterlo in pratica per imporre una conclusione alla vicenda egiziana. Essendo la fiducia nell’economia britannica prossima al collasso e il valore della sterlina in caduta libera, Londra fu costretta a rivolgersi al Fondo monetario internazionale per chiedere assistenza finanziaria. Nell’arco di soli quattro decenni la Gran Bretagna, da padrona del mondo, si era
ridotta a chiedere aiuto con il cappello in mano. Era già abbastanza brutto, quindi, che l’appello all’FMI fosse seccamente respinto, ma era decisamente umiliante che le truppe inviate in Egitto a combattere per uno dei più preziosi gioielli dell’Europa occidentale venissero ora ritirate senza che avessero portato a termine la missione. Il loro richiamo in patria, sotto gli occhi dei media internazionali, era un segno eloquente di come il mondo fosse cambiato: la Gran Bretagna era stata costretta ad abbandonare l’India; i campi petroliferi dell’Iran le erano stati sottratti; e ora anche il canale di Suez aveva subìto la stessa sorte. Le dimissioni del primo ministro Eden all’inizio del 1957 furono soltanto un altro paragrafo nel capitolo finale della morte di un impero. 22 D’altra parte, gli Stati Uniti erano pienamente consapevoli delle loro nuove responsabilità di superpotenza quando si pose il problema dei paesi a cavallo della spina dorsale dell’Asia. Bisognava seguire una linea prudente, come le ricadute della crisi di Suez dimostravano con chiarezza. Il prestigio e l’influenza della Gran Bretagna erano crollati in modo clamoroso, prospettando l’eventualità che il fianco meridionale designato a fungere da baluardo all’Unione Sovietica potesse anch’esso «crollare completamente a causa della penetrazione e del successo comunista nel Medio Oriente», come disse il presidente Eisenhower alla fine del 1956. 23 Inoltre, il fiasco dell’azione militare abortita aveva avuto l’effetto di suscitare sentimenti antioccidentali in tutto il Medio Oriente, dove i demagoghi nazionalisti erano rincuorati dal successo di Nasser, che aveva mantenuto i nervi saldi e aveva sconfitto la pressione militare europea. Mentre il prestigio del leader egiziano aumentava esponenzialmente in tutta la regione, cominciavano ad apparire segnali di nazionalismo arabo e, insieme, una crescente consapevolezza che l’unificazione di tutti gli arabi in una singola entità avrebbe creato una voce unica, capace di controbilanciare quella dell’Occidente da una parte e quella del blocco sovietico dall’altra. Sagaci osservatori avevano predetto proprio tale eventualità ancor prima della lezione di spregiudicatezza politica impartita da Nasser. L’ambasciatore statunitense a Teheran, Loy Henderson, che conosceva
la regione meglio di qualunque altro americano, aveva concluso che le voci nazionaliste sarebbero diventate sempre più esplicite e potenti. «Si direbbe quasi inevitabile» scrisse nel 1953 «che in futuro … i paesi del Medio Oriente … si accordino per una politica unitaria.» 24 Nasser era la figura di rappresentanza che questo movimento aspettava. Ciò determinò un significativo cambio di atteggiamento da parte degli Stati Uniti, che trovò espressione in quella che divenne nota come «dottrina Eisenhower». Pienamente consapevole del fatto che l’Unione Sovietica guardava al Medio Oriente ed era pronta a cogliere qualsiasi opportunità, il presidente disse al Congresso che era essenziale che «il vuoto esistente» in Medio Oriente fosse «riempito dagli Stati Uniti prima che fosse la Russia a farlo». Questo non era importante soltanto per gli interessi USA, continuò; era vitale «per la pace nel mondo». 25 Al Congresso fu chiesto quindi di approvare un ambizioso bilancio di previsione che permettesse di finanziare aiuti economici e militari in tutta la regione, oltre che l’autorizzazione a difendere qualunque paese minacciato di aggressione armata. Se un obiettivo essenziale era quello di anticipare le mosse dell’URSS , si voleva anche offrire un’alternativa alla visione di Nasser che potesse risultare attraente per paesi in grado di scorgere i vantaggi di ricevere sostanziose sovvenzioni da Washington. 26 Questo tentativo di riposizionamento non convinse tutti. Gli israeliani consideravano con freddezza gli sforzi americani per migliorare i rapporti con gli arabi e davano scarso credito alle assicurazioni che anche loro avrebbero avvertito i benefici del profilo più alto e del nuovo ruolo assunti dagli USA . 27 Erano dubbi legittimi, dato il risentimento che aleggiava intorno a Israele, soprattutto in Arabia Saudita e in Iraq, all’indomani dell’abborracciato intervento militare a Suez. Non facilitava le cose, ovviamente, il fatto che le truppe israeliane vi avessero partecipato al fianco dei soldati britannici e francesi; ma ancora più importante era il fatto che il paese stava rapidamente diventando un simbolo totemico dell’interferenza occidentale negli affari della regione, oltre a esserne il primo beneficiario. Di conseguenza, sempre più aggressive erano le proteste
di coloro che consideravano il sostegno statunitense a Israele incompatibile con l’assistenza agli arabi. Israele era diventato il punto focale intorno a cui si aggregavano i nazionalisti arabi. Proprio come avevano constatato i crociati secoli prima in Terra Santa, la semplice esistenza di uno Stato apparentemente costituito da elementi estranei era una ragione sufficiente perché i divergenti interessi arabi passassero in secondo piano. E come era toccato anche ai crociati, Israele assunse il ruolo ambiguo e poco invidiabile di bersaglio capace di riunire molti nemici in uno solo. La retorica antisraeliana era al culmine allorché i dirigenti siriani si schierarono con Nasser e con la visione di un mondo arabo unito che stava elaborando. All’inizio del 1958, dalla formale fusione con l’Egitto nacque un nuovo Stato, la Repubblica Araba Unita, preludio a un futuro consolidamento. Washington osservava con ansia gli sviluppi della situazione. L’ambasciatore Henderson aveva ammonito che l’emergere di una voce unica poteva comportare difficoltà: «effetti disastrosi», per dirla con le sue parole. Gli USA erano alle prese con le implicazioni della nuova tendenza, e al dipartimento di Stato ferveva il dibattito, con una prevalenza di toni fortemente pessimistici. Un documento prodotto dall’Ufficio per gli affari vicino-orientali, sudasiatici e africani osservava con apprensione che il nazionalismo radicale di Nasser minacciava di inghiottire la regione, rilevando che le «attività» americane in tutto il Medio Oriente erano state ridotte o neutralizzate per effetto del successo del leader egiziano a Suez e del passo avanti compiuto con la Siria. 28 L’avanzata di Nasser avrebbe inevitabilmente aperto la strada al comunismo, concludeva John Foster Dulles, segretario di Stato e fratello maggiore di Allen, capo della CIA . Era tempo di intraprendere azioni decisive e di ammucchiare «sacchetti di sabbia intorno alle posizioni che dobbiamo proteggere». 29 L’umore peggiorò quando quello che inequivocabilmente appariva come l’inizio di una reazione a catena si estese verso est attraverso l’Asia. A dare il via fu l’Iraq. L’unificazione di Egitto e Siria aveva suscitato un forte dibattito all’interno dell’élite colta di Baghdad, agli
occhi della quale le attrattive del panarabismo, in quanto terza via fra le attenzioni di Washington e quelle di Mosca, sembravano sempre più seducenti. Ma l’atmosfera nella capitale irachena si fece irrespirabile nell’estate del 1958, surriscaldata da un pericoloso aumento delle simpatie filonasseriane e da sentimenti antioccidentali sempre più forti, conditi con un’aggressiva retorica antisraeliana. Il 14 luglio un gruppo di alti ufficiali dell’esercito guidati da Abdul Karim Qasim – soprannominato «l’incantatore di serpenti» dai compagni che avevano frequentato con lui un corso militare in Gran Bretagna due decenni prima – attuò un colpo di Stato. 30 Raggiunto il palazzo all’ora di pranzo, i cospiratori radunarono nel cortile i principali membri della famiglia reale, compreso il re Faysal, e li giustiziarono. Il corpo del principe ereditario Abd al-Ilha, uomo riflessivo e piuttosto serio, fu trascinato «in strada come fosse … un cane», fatto a pezzi e poi bruciato da una folla inferocita. Il giorno successivo il primo ministro iracheno, Nuri al-Said, un veterano della politica che era stato testimone diretto della trasformazione del Medio Oriente, fu individuato mentre cercava di fuggire vestito da donna e ucciso a colpi d’arma da fuoco. Il suo corpo, orrendamente mutilato, fu festosamente portato in giro per le vie di Baghdad. 31 Questi eventi parvero annunciare una pressoché certa espansione dell’area d’influenza sovietica. L’Iran, disse il leader russo Nikita Kruscev al presidente americano John Fitzgerald Kennedy a un vertice nel 1961, sarebbe presto caduto come un frutto marcio in mani sovietiche: una prospettiva che sembrava probabile, dato che perfino il capo della polizia segreta iraniana notoriamente complottava contro lo scià. Dopo il fallimento di un attentato organizzato dal Comitato per la sicurezza dello Stato di Mosca (meglio noto come KGB ), l’attenzione di Mosca si spostò sulla preparazione di siti di atterraggio e di depositi di munizioni in tutto l’Iran, presumibilmente in vista della decisione di intensificare gli sforzi per fomentare una sollevazione popolare e abbattere la monarchia. 32 La situazione non sembrava molto migliore in Iraq, che, secondo un politico statunitense di lungo corso, sarebbe «quasi certamente scivolato in qualcosa di simile a una presa del potere da parte
comunista». 33 Un effetto di tutto ciò fu un riavvicinamento dell’Occidente a Nasser, che cominciò a essere considerato come il «minore di due mali». Gli Stati Uniti si davano da fare per costruire ponti con il volubile leader egiziano, che a sua volta riconosceva come il nazionalismo arabo potesse essere compromesso da quella che, a quanto pare, definiva la crescente «penetrazione comunista nel Medio Oriente». 34 La comunanza di interessi tra Washington e Il Cairo divenne evidente con la decisione della nuova dirigenza irachena di seguire una propria linea, lontana dal panarabismo e da Nasser; il che non fece che aumentare le preoccupazioni suscitate dallo spettro dell’Unione Sovietica. 35 Nell’ambito dell’elaborazione di piani per affrontare la situazione a Baghdad, negli USA fu nominata una commissione per studiare «modi alla luce del sole o coperti» per evitare «una presa del potere comunista in Iraq». La limitatezza delle fonti disponibili rende difficile stabilire quanto fosse coinvolta la CIA – se lo fu – in un tentato colpo di Stato organizzato verso la fine del 1959 per destituire Qasim, il primo ministro nazionalista che aveva deposto la monarchia irachena. Una delle persone coinvolte, che nel corso del parapiglia aveva riportato escoriazioni alle gambe, più tardi cercò di sfruttare la sua partecipazione alla vicenda per presentare sotto una luce quasi mitica la propria determinazione e il proprio coraggio. Il suo nome era Saddam Hussein. 36 Anche se non è certo che in questa occasione i congiurati abbiano goduto del sostegno statunitense, la documentazione mostra che i servizi segreti americani erano a conoscenza del fallito putsch prima ancora che avesse luogo. 37 Inoltre, il fatto che venissero elaborati piani dettagliati per rimuovere figure chiave dalle loro posizioni di potere – come nel caso di un imprecisato colonnello a cui doveva essere recapitato un fazzoletto contrassegnato da un monogramma contaminato con un agente tossico – dimostra che si operava attivamente per cercare di far sì che Baghdad non scivolasse nell’orbita di Mosca. 38 Non fu forse una coincidenza che, quando alla fine Qasim fu deposto, nel 1963, il suo rovesciamento non sorprendesse affatto gli osservatori americani, i quali affermarono in
seguito che era stato «previsto in ogni particolare dagli agenti della CIA ». 39 Questo profondo impegno in Iraq era motivato soprattutto dalla volontà di mantenere l’Unione Sovietica fuori dai paesi a sud dei suoi confini. Costruire collegamenti attraverso la fascia che abbracciava le Vie della Seta era in parte una questione di prestigio politico, in quanto gli USA non potevano permettersi di apparire perdenti nei confronti di un rivale che proponeva una visione del mondo radicalmente opposta. Ma c’erano anche altre ragioni per questo intenso e costante interesse. Nel 1955 Mosca aveva deciso di impiantare un importante sito di collaudo per missili a lunga gittata a Tyuratam, nell’odierno Kazakistan. Le steppe, si era convenuto, costituivano un ambiente ideale per installare una serie di antenne guida che avrebbero consentito di controllare i lanci senza ostacoli durante il volo, e inoltre abbastanza isolato da non rappresentare una minaccia per le città esistenti. Il centro che vi sorse, in seguito chiamato Cosmodromo di Baikonur, divenne il sito più importante per lo sviluppo e il collaudo dei missili balistici. 40 Ancor prima che il centro fosse costruito, i sovietici avevano lanciato l’R5 , che aveva una gittata di oltre 1000 chilometri ed era in grado di trasportare una testata nucleare. Nel 1957 entrò in produzione il suo successore – l’R7 , meglio noto con il nome in codice NATO SS6 «Sapwood» –, con una gittata di 8000 chilometri, innalzando drasticamente il livello della minaccia posta dall’Unione Sovietica all’Occidente. 41 L’anno seguente, il lancio dello Sputnik, il primo satellite artificiale del mondo, insieme all’entrata in servizio di una flotta di bombardieri strategici a lunga gittata Tupolev Tu-95 «Bear» e Mjasiščev 3M «Bison», chiarì ulteriormente le idee ai pianificatori militari americani: era d’importanza vitale che gli USA fossero in grado di tenere sotto controllo i test missilistici, prestando la massima attenzione agli sviluppi nelle capacità balistiche, oltre che a eventuali lanci ostili. 42 Parlando della guerra fredda, spesso si pensa al Muro di Berlino e all’Europa orientale come principale terreno di confronto tra le superpotenze. In realtà, il luogo dove si giocò la vera partita a scacchi
della guerra fredda fu la fascia di territorio nel ventre molle dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti avevano compreso da tempo il valore strategico dei paesi posti lungo il fianco meridionale dell’URSS . Ora, per gli americani, essi costituivano la questione centrale. Le basi aeree, le stazioni di ascolto e le reti di comunicazione in Pakistan diventarono una componente fondamentale della strategia difensiva statunitense. All’epoca in cui la capacità missilistica sovietica raggiunse il livello intercontinentale, la base aerea di Peshawar, nel Nord del paese, forniva servizi essenziali per la raccolta d’informazioni. Fungeva da punto di partenza per le operazioni degli aerei-spia U-2 , che compivano missioni di ricognizione su Baikonur e su altre rilevanti installazioni militari, compreso l’impianto per il trattamento del plutonio a Čeljabinsk. Fu da Peshawar che decollò Gary Powers nella sfortunata missione del 1960 che terminò con il suo abbattimento nello spazio aereo sovietico presso Sverdlovsk, in uno degli episodi più avvincenti della guerra fredda. 43 C’era non poca ironia nel fatto che gli obiettivi politici e militari americani, cruciali per la difesa del «mondo libero» e del modello democratico, si traducessero in risultati di segno del tutto diverso. La presenza statunitense in questa parte del mondo poggiava su una serie di uomini forti, con istinti antidemocratici e la tendenza all’uso di metodi ripugnanti per conservare il potere. Nel caso del Pakistan, gli USA erano ben lieti di avere a che fare con il generale Ayub Khan, dopo che questi, nel 1958, aveva diretto un colpo di Stato che astutamente, nel tentativo di procurarsi l’appoggio americano, propagandava come una «rivoluzione di orientamento opposto al comunismo». Ayub Khan riuscì a imporre la legge marziale senza incorrere nel vituperio dei suoi sostenitori occidentali, giustificando le sue azioni in quanto «dure soltanto con coloro che hanno distrutto la fibra morale del Pakistan». 44 A parole, si auspicava il ripristino di un «governo costituzionale praticabile», ma pochi avevano dubbi sul fatto che probabilmente la dittatura militare sarebbe durata a lungo, soprattutto dopo che Ayub ebbe dichiarato che ci sarebbero voluti «alcuni decenni» prima che i livelli di istruzione raggiungessero un
grado sufficiente per affidare senza rischio alla popolazione la scelta dei leader attraverso il voto. 45 Gli Stati Uniti furono più che felici di fornire armi in grandi quantità a questo dubbio alleato: missili «Sidewinder», caccia a reazione e bombardieri tattici B-57 furono solo una parte degli armamenti venduti al Pakistan con l’approvazione del presidente Eisenhower. 46 Ciò ebbe l’effetto di aumentare ulteriormente il prestigio e il potere delle forze armate nel paese, dove oltre il 65 per cento del bilancio nazionale veniva stanziato per le spese militari. Questo sembrava essere il prezzo da pagare per mantenere al potere gli amici in questa parte del mondo. Gettare le basi di una riforma sociale era rischioso e richiedeva tempo al confronto con i vantaggi immediati derivanti dall’affidarsi a uomini forti e alle élite che li circondavano. Ma i risultati erano il soffocamento della democrazia e la creazione di problemi profondamente radicati nella società e destinati a incancrenirsi con il passare del tempo. Con altrettanta assiduità venivano corteggiati i dirigenti dell’Afghanistan, come il primo ministro Daoud Khan, che alla fine degli anni Cinquanta fu invitato per una visita di due settimane negli Stati Uniti. Il desiderio di fare buona impressione era tale che, al suo arrivo, fu accolto sulla pista sia dal vicepresidente Richard Nixon sia dal segretario di Stato John Foster Dulles, per poi essere cordialmente ricevuto dal presidente Eisenhower, ansioso di metterlo in guardia dalla minaccia che il comunismo rappresentava per i paesi asiatici musulmani. Gli Stati Uniti avevano già dato inizio ad ambiziosi progetti di sviluppo in Afghanistan, come un vasto piano di irrigazione nella valle dell’Helmand e un audace tentativo di migliorare il sistema scolastico. Ora offrirono nuovi impegni per controbilanciare i sostanziosi investimenti, prestiti e progetti infrastrutturali sovietici che erano già in fase esecutiva. 47 Il problema, ovviamente, era che i dirigenti dei paesi interessati si resero conto ben presto di poter mettere in concorrenza tra loro le due superpotenze, carpendo crescenti benefici da entrambe. In effetti, quando il presidente Eisenhower si recò in visita a Kabul, alla fine
degli anni Cinquanta, gli fu chiesto senza mezzi termini di portare aiuti dello stesso livello di quelli ricevuti da Mosca. 48 Un rifiuto non sarebbe stato senza conseguenze, l’acquiescenza pure. Nel frattempo i pianificatori americani erano entrati in grande agitazione per quella che appariva come un’evidente esitazione dell’Iran allorché, alla fine degli anni Cinquanta, lo scià Reza Pahlavi si mostrò disponibile a migliorare le relazioni con Mosca, in seguito a una deleteria campagna di propaganda radiofonica finanziata dall’URSS , che insisteva implacabilmente sull’immagine del sovrano iraniano come fantoccio dell’Occidente e incitava i lavoratori a insorgere e a rovesciare il suo regime dispotico. 49 Era una pressione sufficiente a far sì che lo scià prendesse in considerazione la possibilità di abbandonare quelli che chiamava rapporti «totalmente antagonistici» dell’Iran con l’URSS , e aprisse più distensivi canali di comunicazione e cooperazione. 50 Fu un campanello d’allarme per Washington, dove gli strateghi assunsero una posizione intransigente in merito all’importanza cruciale dell’Iran sul fianco meridionale dell’Unione Sovietica. All’inizio degli anni Sessanta un rapporto affermava che la «collocazione strategica [del paese] tra l’URSS e il golfo Persico e le sue grandi riserve petrolifere rendono di importanza critica per gli Stati Uniti che siano salvaguardate l’amicizia, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Iran». 51 Furono spese energie e risorse considerevoli per sostenere l’economia dell’Iran e il suo apparato militare, oltre che per rafforzare il controllo dello scià sul paese. Era considerato talmente importante tenere buono lo scià che si preferì ignorare l’intolleranza, la corruzione su vasta scala e l’inevitabile stagnazione economica che ciò contribuiva a creare. Nulla si disse né si fece in merito alla persecuzione delle minoranze religiose, come i bahá’i, che negli anni Cinquanta furono oggetto di un trattamento brutale e discriminatorio. 52 Nel frattempo erano scarsissimi i benefici ricavati dall’Iran dal rapido incremento delle entrate petrolifere, che aumentarono di oltre sette volte tra il 1954 e il 1960. I parenti dello scià e il gruppo comunemente definito nel paese «le mille famiglie» stabilirono un ferreo controllo sulle importazioni,
realizzando grandi fortune a proprio vantaggio. Prestiti agevolati da parte di Washington servirono soltanto a riempire le tasche dei pochi a spese dei poveri, che avevano difficoltà a tener dietro al costo della vita in rapida crescita, soprattutto dopo il cattivo raccolto del 195960. 53 Non fu d’aiuto il fatto che alcuni progetti statunitensi destinati a stimolare l’economia agraria si risolvessero in clamorosi fallimenti. I tentativi di sostituire le sementi tradizionali con moderni ibridi furono un disastro, dal momento che le nuove varietà si rivelarono inadatte al terreno e scarsamente resistenti alla malattia e ai danni provocati dagli insetti. Un piano volto ad aiutare gli allevatori di pollame iraniani e americani, introducendo in Iran specie statunitensi, ebbe anch’esso risultati rovinosi, poiché la mancanza di mangime idoneo e di vaccini produssero conseguenze fin troppo prevedibili. L’imbarazzante incapacità di comprendere come funzionava la falda freatica locale portò alla costruzione di pozzi che prosciugavano i bacini sotterranei, rendendo infecondi molti poderi in tutto il paese. 54 Iniziative fallimentari come queste non erano certo esempi positivi dei benefici che si sarebbero tratti da una più stretta cooperazione con l’Occidente e con gli USA in particolare. Inoltre fornivano ai detrattori argomenti facili da sfruttare nella polemica politica. Nessuno era più esperto in questo di uno studioso sciita, Ruhollah Musavi Khomeini, che coglieva lo stato d’animo di un popolo sempre più malcontento dei bassi salari, della mancanza di progresso economico e della vistosa assenza di giustizia sociale. «Vostra eccellenza, signor scià, mi permetta di darle un consiglio» disse l’ayatollah in un discorso particolarmente infiammato nei primi anni Sessanta. «Miserabile sciagurato, non è ora per lei di pensare e riflettere un poco, e considerare dove tutto ciò la sta portando? … Signor scià, vuole che dica che lei non crede nell’islam, e la cacci a calci dall’Iran?» 55 Fu sufficiente perché venisse arrestato, dopodiché nel centro di Teheran scoppiarono disordini, con folle che scandivano «Khomeini o morte». Come rilevarono i rapporti degli agenti della CIA , perfino gli impiegati governativi si univano alle dimostrazioni contro il regime. 56 Ma invece di dar retta agli ammonimenti, lo scià reagì inimicandosi
ancor più i suoi critici. I religiosi iraniani, dichiarò con stupefacente mancanza di tatto durante una visita alla città santa di Qom, erano «uomini ignoranti e inariditi, le cui menti sono immobili da secoli». 57 Anziché offrire concessioni o promuovere sincere riforme, si concentrarono le energie sull’irrigidimento dei controlli. Khomeini fu costretto all’esilio, stabilendosi per oltre un decennio a Najaf, nel confinante Iraq, dove le sue appassionate denunce contro lo scià e il suo regime erano non soltanto gradite, ma attivamente incoraggiate. 58 Cospicue risorse furono spese anche nella costruzione della Savak, la polizia segreta iraniana, che in breve si guadagnò una reputazione spaventosa. Carcerazioni senza processo, torture ed esecuzioni furono utilizzate su vasta scala per fare i conti con i critici dello scià e di coloro che gli erano vicini; in qualche raro caso, oppositori che per l’alto profilo avevano la fortuna di godere di una grossa fetta di visibilità – come Khomeini – furono posti agli arresti domiciliari ed esiliati per toglierli di scena. 59 L’uso di simili tattiche nell’Unione Sovietica era argomento di vivaci critiche da parte degli Stati Uniti, che lo denunciava come antitesi della democrazia e strumento del totalitarismo; in Iran, veniva passato sotto silenzio. Per conservare il sostegno dello scià e consolidarne la posizione, da Washington continuavano ad affluire in Iran fondi che permisero la costruzione di un sistema di autostrade lungo oltre 2400 chilometri per collegare il golfo Persico con il mar Caspio. Tali fondi finanziarono anche la realizzazione di un grande porto in acque profonde a Bandar Abbas, consentirono di ampliare e potenziare la rete elettrica e fornirono capitali anche per dar corso a progetti di prestigio, come la creazione di una compagnia aerea nazionale. Durante tutto questo processo, molti politici occidentali ignorarono la realtà della situazione, scegliendo di vedere soltanto quello che volevano vedere. Agli occhi di molti osservatori americani, l’Iran appariva come un trionfo assoluto. L’economia di «uno degli amici più fedeli degli Stati Uniti nel Medio Oriente stava compiendo un balzo in avanti», secondo un rapporto preparato per il presidente Johnson nel 1968. Il prodotto nazionale lordo dell’Iran aumentava così rapidamente da essere «una delle più notevoli storie di successo» dei tempi recenti.
Alla stessa conclusione, in toni ancora più enfatici, si giunse quattro anni più tardi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, osservava l’ambasciata americana a Teheran, gli Stati Uniti erano stati costretti a fare una scommessa sull’Iran e a plasmare il paese a propria immagine. «Quella scommessa è stata largamente ripagata; forse più che in qualsiasi altro paese in via di sviluppo che abbia beneficiato di analoghi investimenti americani.» L’Iran era avviato, prediceva fiduciosamente il rapporto, a diventare «il paese più prospero dell’Asia dopo il Giappone», su un piede di parità con molti paesi europei. 60 Gli osservatori più scettici erano decisamente in minoranza. Uno di essi era il giovane accademico William Polk, che era stato reclutato dall’amministrazione Kennedy come consulente per gli affari esteri. Ci sarebbero stati movimenti violenti e anche una rivoluzione se lo scià non avesse riformato il processo politico, avvertì Polk; quando l’agitazione fosse esplosa, presto o tardi le forze di sicurezza si sarebbero trovate nella condizione di rifiutarsi di sparare su coloro che protestavano. L’opposizione allo scià si stava unendo sotto l’egida della «potente istituzione islamica dell’Iran». 61 Polk aveva perfettamente ragione. All’epoca, però, parve più importante continuare a puntellare un alleato contro il comunismo che spingerlo ad allentare la presa sul potere. E lo scià elucubrava piani sempre più grandiosi, che contribuivano solo a peggiorare la situazione. Somme enormi venivano investite nell’apparato militare, cosicché la spesa dell’Iran per questo settore passò da 293 milioni di dollari nel 1963 a 7,3 miliardi di dollari meno di quindici anni più tardi. Di conseguenza, l’aviazione e l’esercito iraniani raggiunsero i primi posti per dimensioni su scala mondiale. 62 L’Iran finanziò questo straordinario incremento in parte grazie all’assistenza militare e ai prestiti agevolati degli USA (che, a loro volta, ne traevano vantaggi perché gran parte degli armamenti provenivano da fornitori della difesa americana). Tuttavia, il paese beneficiava anche del continuo aumento delle entrate petrolifere, e del meccanismo che era stato escogitato dai principali produttori del mondo per agire come cartello, e così massimizzare i profitti.
La creazione nel 1960 dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries), l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, era volta a coordinare l’immissione delle forniture di petrolio sul libero mercato. Lo scopo era di consentire ai membri fondatori – Iraq, Iran, Arabia Saudita, Kuwait e Venezuela – di combinare i reciproci interessi e incrementare i proventi controllando l’offerta, e quindi i prezzi. 63 Era la mossa logica da fare per i paesi ricchi di risorse che miravano a strappare il potere alle compagnie occidentali, benché ricevessero sostegno politico e finanziario dagli stessi governi occidentali. L’OPEC rappresentava, in effetti, un tentativo deliberato di limitare l’influenza dell’Occidente, il cui interesse a procurarsi abbondanti quantità di combustibile a basso costo per i propri mercati interni era nettamente diverso da quelli dei paesi ricchi di giacimenti di petrolio e gas, che aspiravano invece a massimizzare i profitti. A differenza di quanto potrebbe sembrare, quindi, l’OPEC era il figlioccio spirituale di un già improbabile cast di personaggi, formato da leader arditi come Mossadeq, dal demagogo populista Nasser, dall’intransigente Qasim e, in Iran, da figure sempre più connotate in senso antioccidentale, di cui l’esempio più luminoso era l’ayatollah Khomeini. Ad accomunarli erano i tentativi concertati di sottrarre i rispettivi Stati all’opprimente attenzione interessata esterna. L’OPEC non era un movimento politico, ma schierare una serie di paesi e consentire loro di parlare e agire con un’unica voce era un passo decisivo nel processo di trasferimento del potere politico dall’Europa e dagli Stati Uniti ai governi locali. Il fatto che paesi come Iran, Iraq, Kuwait e Arabia Saudita abbondassero di petrolio, combinato con la crescente domanda globale, implicava già di per sé che il periodo intorno alla metà del XX secolo fosse contraddistinto da un fondamentale riequilibrio del potere. L’entità di tale processo cominciò ad apparire chiara nel 1967, quando Nasser lanciò un attacco a sorpresa contro Israele. L’Arabia Saudita, l’Iraq e il Kuwait, appoggiati da Algeria e Libia, due paesi del Nordafrica dove la produzione petrolifera stava decollando, sospesero le forniture alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti a causa della loro presunta vicinanza a Israele. Mentre le raffinerie cessavano l’attività e
gli oleodotti venivano chiusi, si profilava minacciosamente uno scenario da incubo, con la prospettiva di considerevoli cadute della produzione, di impennate dei prezzi e di una crisi dell’economia globale. In realtà l’impatto fu minimo, perché il progettato attacco di Nasser fallì prima ancora di cominciare, e le cose per il leader egiziano volsero al peggio a seguito della sconfitta decisiva sul campo di battaglia. Di particolare importanza furono la rapidità e la spettacolarità della disfatta: la «guerra dei Sei Giorni» finì quasi subito dopo l’inizio, mentre Nasser e i sogni del nazionalismo arabo erano costretti a fare i conti con la realtà. L’esercito israeliano, sostenuto dalla tecnologia e dall’appoggio politico dell’Occidente, si dimostrò un avversario formidabile. Né all’Occidente né al suo preteso Stato fantoccio in Medio Oriente poteva essere ancora assestato il colpo decisivo. 64 Per due secoli le grandi potenze europee avevano lottato e combattuto tra loro per il controllo della regione e dei mercati che collegavano il Mediterraneo con l’India e la Cina. Il XX secolo vide l’arretramento delle posizioni dell’Europa occidentale, e il passaggio del testimone agli Stati Uniti. Per certi versi, era del tutto appropriato che fosse una nazione forgiata dalla competizione tra Gran Bretagna, Francia e Spagna ad assumersi la responsabilità di cercare di mantenere il controllo sul cuore del mondo. Questa doveva dimostrarsi una sfida ardua, anche perché stava per cominciare un nuovo Grande Gioco.
XXIII
LA VIA DELLA RIVALITÀ TRA SUPERPOTENZE
La guerra arabo-israeliana del 1967 fu un colpo di avvertimento, un’occasione per flettere i muscoli. E fu un segno premonitore. Se mantenere potere e influenza nel cuore del mondo sarebbe diventato sempre più difficile per l’Occidente, per la Gran Bretagna divenne semplicemente impossibile. Nel 1968 il primo ministro Harold Wilson annunciò che il suo paese avrebbe rinunciato a tutti gli impegni di difesa a est di Suez, golfo Persico compreso. 1 Ora toccava agli Stati Uniti, che erano essi stessi un vestigio, oltre che un erede, della grande era dell’impero europeo, assumersi il compito di esercitare la propria influenza in Medio Oriente. In un complesso scenario di intense e molteplici pressioni, era chiaro come non fosse affatto facile conseguire tale obiettivo. In Iraq, per esempio, nel 1961 vaste aree che facevano parte della concessione assegnata tre decenni prima al consorzio di produttori occidentali che costituivano l’Iraq Petroleum Company furono nazionalizzate, con la motivazione che non erano state sfruttate. Le posizioni a Baghdad s’irrigidirono ulteriormente dopo che il primo ministro Qasim fu destituito e poi giustiziato davanti alle telecamere «perché tutto il mondo potesse vedere». Il nuovo e più intransigente regime iracheno dichiarò di essere alla testa della «più vasta lotta per liberare la nazione araba dal dominio dell’imperialismo occidentale e dallo sfruttamento a opera dei monopolisti del petrolio», e aumentò da un giorno all’altro i diritti di transito sull’oleodotto di Baniyas. 2 I mutamenti in corso in Medio Oriente e la marea montante del sentimento antioccidentale erano stati seguiti a Mosca con attenzione e grande soddisfazione. Fin dalla guerra dei Sei Giorni, osservava un rapporto della CIA , l’URSS «ha mantenuto una linea coerente …
cercando, quando se ne presentavano le opportunità, di estendere la propria influenza politica e militare in una regione di tradizionale interesse russo». 3 L’Unione Sovietica ora sembrava sfruttare con entusiasmo ogni apertura, iniziando a costruire una propria rete di rapporti che si estendeva dal Mediterraneo all’Hindu Kush, dal Caspio al golfo Persico. Ciò era in parte frutto della politica del rischio calcolato praticata dalle due superpotenze. Piccoli successi venivano amplificati spacciandoli propagandisticamente per grandi vittorie, come apparve chiaro nel caso dell’assistenza finanziaria e tecnica prestata dai sovietici per il campo petrolifero iracheno di Rumaila. Il giornale «Izvestija» ne dava notizia in toni entusiastici, sbandierando un nuovo modello di riferimento nella positiva cooperazione tra «nazioni socialiste e arabe», e sottolineando chiaramente quanto desiderosa fosse l’URSS di sviluppare «un’industria petrolifera nazionale per gli arabi». Di contro, proseguiva il giornale, i piani occidentali «per controllare il petrolio dell’Arabia stanno andando in frantumi». 4 Gli anni Sessanta videro un netto ampliamento degli orizzonti delle superpotenze, e non soltanto nel centro dell’Asia. All’inizio del decennio il sostegno sovietico alla Cuba rivoluzionaria, che comprendeva un programma di dispiegamento di testate nucleari sull’isola, per poco non sfociò in una guerra. Dopo un teso confronto in mare, le navi sovietiche furono infine richiamate e rinunciarono a sfondare il perimetro definito dalle unità della US Navy. In Estremo Oriente, già teatro della guerra scoppiata nella penisola di Corea pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, lo scontro bellico tornò a deflagrare, questa volta in Vietnam, con pesanti ricadute in Cambogia e in Laos. Gli USA furono progressivamente coinvolti in una guerra tanto orribile quanto costosa, che molti americani identificavano con una battaglia tra le forze del «mondo libero» e quelle del totalitarismo comunista. Ma il massiccio impiego di un nutrito contingente di truppe di terra non convinse tutti, e la crescente disillusione nei confronti del Vietnam divenne un punto di aggregazione per il nascente movimento della controcultura. Mentre la situazione nel Sudest asiatico peggiorava, Mosca si lanciò
in una frenetica attività per cercare di trarre vantaggio dal crescente disincanto nei confronti degli Stati Uniti, diventato talmente forte da indurre l’ayatollah Khomeini a dichiarare nel 1964: «Sappia il presidente americano che agli occhi del popolo iraniano è il membro più ripugnante della razza umana». 5 Questo disincanto non era circoscritto agli esponenti dell’opposizione, ai religiosi e ai demagoghi populisti. Il presidente del confinante Iraq non si faceva scrupolo di definire i petrolieri britannici e americani «sanguisughe», mentre i principali giornali di Baghdad cominciavano a descrivere l’Occidente come imperialista, sionista o, anche, imperialistico-sionista. 6 Nonostante l’ostilità che grondava da simili affermazioni e il terreno fertile su cui esse cadevano, gli atteggiamenti nei confronti dell’Occidente non erano tutti negativi. In realtà, il problema non era tanto che gli Stati Uniti, e in misura minore la Gran Bretagna, fossero vituperati per la loro presunta interferenza negli affari dei paesi che si estendevano dal Mediterraneo verso est, o per la loro disponibilità a riempire le tasche di un’élite corrotta. Piuttosto, questa retorica antioccidentale mascherava gli imperativi dettati dalla nuova realtà di una regione che, diventata periferica per parecchi secoli, stava riemergendo grazie alle risorse naturali del suo sottosuolo, alla numerosa schiera di clienti disposti a comprarle e all’aumento della domanda. Ciò alimentava le ambizioni di questi paesi, e in particolare l’esigenza di essere liberi da influenze e interessi esterni. Non era quindi senza ironia il fatto che ora emergesse un nuovo campo di battaglia dove le superpotenze sgomitavano per acquisire posizioni nel contesto di un nuovo Grande Gioco, in cui ognuna cercava di sfruttare le debolezze dell’altra. Iraq, Siria e Afghanistan erano ben lieti di vedersi assegnare prestiti agevolati per comprare armi sovietiche e di disporre di consulenti e tecnici altamente qualificati inviati da Mosca a costruire installazioni che potevano risultare utili per le loro più vaste ambizioni strategiche. Fra queste installazioni c’era il porto in acque profonde a Umm Qasr, sul golfo Persico, ma c’erano anche sei aeroporti militari in Iraq, che, come l’intelligence americana comprese immediatamente, potevano essere usati «per sostenere una presenza navale sovietica nell’oceano
Indiano». 7 Ciò faceva parte del tentativo di Mosca di costruire una propria rete di contatti e alleanze per contrastare quelli degli americani. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che le politiche sovietiche fossero identiche a quelle che erano state perseguite da Washington fin dalla seconda guerra mondiale, e grazie alle quali gli USA avevano stabilito un certo numero di postazioni per vigilare sulla sicurezza del golfo Persico e dell’oceano Indiano, da una parte, e controllare le attività sovietiche o creare basi d’attacco avanzate, dall’altra. Ebbene, tutto questo veniva ora replicato dall’URSS . Alla fine degli anni Sessanta, dopo un lungo periodo di attenzioni dedicate da Mosca all’area, navi da guerra sovietiche vennero dislocate nell’oceano Indiano per sostenere i nuovi regimi rivoluzionari che avevano preso il potere in Sudan, Yemen e Somalia. L’URSS guadagnò così un’invidiabile serie di punti di appoggio ad Aden, Mogadiscio e Berbera, 8 acquisendo la possibilità di controllare l’accesso al canale di Suez, cosa temuta per anni dagli strateghi americani. 9 La CIA osservava con attenzione le mosse dei sovietici, che in tutta l’area dell’oceano Indiano, Africa orientale e golfo Persico compresi, offrivano un’assistenza sistematica alla pesca, all’agricoltura e ad altre attività produttive. Nel settore della pesca, per esempio, davano il loro supporto addestrando pescatori, realizzando strutture portuali e vendendo o noleggiando imbarcazioni attrezzate a prezzi altamente competitivi, per poi ottenere a loro volta, in cambio di simili atti di generosità, libero accesso ai porti in Iraq, in Somalia e a Mauritius, oltre che a Aden e a San’ā. 10 I sovietici coltivavano attivamente anche i rapporti con l’Iraq e l’India. A quest’ultima fornirono una quantità di armamenti pari a oltre tre quarti di tutte le commesse militari importate negli anni Sessanta, con un incremento costante per tutto il decennio successivo. 11 Le vendite riguardavano alcuni dei più sofisticati sistemi d’arma sovietici, compresi i missili «Atoll» e «Styx», i caccia MiG-27 e MiG-29, e avanzati cacciatorpediniere. All’India venne inoltre accordata una licenza per la produzione di aerei militari che era stata negata ai cinesi. 12 Guardare sia a sinistra che a destra veniva naturale ai popoli di
questa parte del mondo, e continuava a dare buoni frutti. In Afghanistan fu coniata una parola per indicare la pratica del cercare sostegno da entrambe le superpotenze: bi-tarafi, che alla lettera significa «senza parti», divenne il dogma di una politica estera che cercava di parificare i contributi dell’URSS e quelli degli USA . Come scrisse un acuto osservatore in un testo ormai classico pubblicato nel 1973, gli ufficiali dell’esercito afghano che, per stabilire legami e sviluppare rapporti con i futuri leader, erano stati inviati a seguire programmi di addestramento chi in Unione Sovietica e chi negli Stati Uniti, una volta tornati in patria confrontavano i loro appunti. Una cosa in particolare risultava evidente agli occhi di questi talentuosi ufficiali: «Né gli USA né l’URSS erano, alla prova dei fatti, i paradisi dipinti dai rispettivi apparati di propaganda». Perciò, la maggior parte di loro non maturava l’intenzione di convertire i connazionali a una nuova fede, bensì la convinzione che l’Afghanistan dovesse rimanere indipendente. 13 Tendenze analoghe si manifestavano in Iran, dove lo scià andava sbandierando ai quattro venti il suo ruolo di salvatore della patria. «Le mie visioni sono stati miracoli che hanno salvato il paese» disse a un giornalista che lo intervistava. «Il mio regno ha salvato l’Iran, e lo ha fatto perché Dio era dalla mia parte.» Quando gli fu chiesto perché per le strade di Teheran nessuno osava neppure pronunciare il suo nome, parve non prendere neanche in considerazione la possibilità che ciò accadesse a causa del terrificante apparato poliziesco che lo manteneva al potere. «Direi», rispose, che non parlano dello scià «per eccessivo rispetto.» 14 Se questa era una forma di autoinganno, lo era anche l’atteggiamento nei confronti dei comunisti. «Il comunismo è contro la legge» disse al suo intervistatore con aria di sfida. «Ne consegue che un comunista non è un prigioniero politico, ma un criminale comune … sono persone che dobbiamo eliminare.» Quasi senza riprendere fiato, però, dichiarò orgogliosamente che l’Iran godeva di «buone relazioni diplomatiche e commerciali con l’Unione Sovietica». 15 Questo la diceva lunga sul delicato equilibrio tra i due versanti della spina dorsale dell’Asia che bisognava mantenere durante la guerra
fredda. Lo scià aveva appreso dall’esperienza che provocare l’ostilità del potente vicino del Nord poteva avere serie ripercussioni. Era nel suo interesse, quindi, assicurarsi il sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente e, al tempo stesso, cercare di migliorare i rapporti con Mosca. Pertanto era ben lieto di stringere una serie di accordi con l’URSS per acquistare lanciagranate con propulsione a razzo, cannoni antiaerei e artiglieria pesante, e avvalersi della consulenza di tecnici sovietici per l’ampliamento della grande acciaieria di Isfahan. Ma pur essendo espressione di una Realpolitik perfettamente comprensibile, questi atteggiamenti dimostravano quanto fosse difficile la posizione in cui si trovavano i paesi di questa regione. Qualunque allineamento con una delle due superpotenze provocava una reazione da parte dell’altra; qualunque tentativo di mantenersi equidistanti poteva avere conseguenze disastrose e dare spazio agli oppositori interni. Nel 1968 un ennesimo colpo di Stato in Iraq fornì all’Unione Sovietica l’occasione di rafforzare i legami che si era assiduamente impegnata a tessere nel corso del decennio precedente. Tali legami ora fruttarono un trattato di amicizia e cooperazione quindicennale, firmato nel 1972, che a Londra era considerato come una formale «alleanza con l’Unione Sovietica». 16 Il timore di Washington che i tentacoli dell’URSS si stessero protendendo sempre più in ogni direzione fu rafforzato da eventi che ebbero luogo in altre parti dell’Asia. Nel 1971 Mosca firmò un trattato di pace, amicizia e cooperazione venticinquennale con l’India, che prevedeva la fornitura di sostegno economico, tecnologico e militare. Inquietante appariva la situazione in Afghanistan, dove nel 1973 un colpo di Stato portò al potere Muḥammad Dāwūd, insieme a una schiera di seguaci di sinistra. Numerosi leader islamisti di primo piano furono cacciati dal nuovo regime oppure fuggirono, per riparare in Pakistan, specialmente nelle cosiddette «aree tribali» nei dintorni di Quetta, dove furono attivamente sostenuti dal governo di Zulfikar Ali Bhutto, che vedeva in loro uno strumento per destabilizzare il nuovo governo afghano, oltre che una facile occasione per dare lustro alle proprie credenziali religiose all’interno del paese.
Il clima di turbolenza e la percezione che stesse emergendo un nuovo ordine mondiale erano tangibili nel tentativo dei popoli che abitavano i territori compresi tra il Mediterraneo e l’Himalaya di prendere il loro futuro nelle proprie mani. Il momento in cui l’Iraq aveva realmente raggiunto l’indipendenza, avrebbe in seguito ripetuto spesso Saddam Hussein, era stato quello in cui aveva nazionalizzato la sua industria petrolifera e assunto il controllo del proprio destino, nel 1972. Erano passati i tempi in cui gli occidentali si presentavano sulla scena e s’imponevano alla popolazione locale. I tempi della «dominazione e dello sfruttamento da parte degli stranieri» proclamava «erano finiti». 17 Alla base di gran parte di questo movimento per la liberazione dal giogo soverchiante delle potenze esterne, che innescò una reazione a catena destinata ad avere profonde implicazioni a lungo termine, c’era il petrolio. Catalizzatore di un nuovo ciclo di mutamento fu un colpo di Stato condotto da un giovane e ambizioso ufficiale dell’esercito libico che l’istruttore dell’esercito britannico che aveva sovrinteso al suo addestramento nel Regno Unito aveva descritto come «cordiale, alacre e scrupoloso». 18 Mu’ammar Gheddafi era senz’altro un uomo ricco di risorse. All’inizio del 1970, poco dopo aver preso il potere, pretese un drastico aumento delle royalty del petrolio libico, che all’epoca copriva il 30 per cento del fabbisogno totale dell’Europa. «Fratelli,» aveva proclamato ai suoi connazionali «la rivoluzione non può lasciare il popolo libico in miseria mentre possiede una colossale abbondanza di petrolio. Ci sono persone che vivono in capanne e tende mentre gli stranieri vivono nei palazzi.» Altri paesi inviavano uomini sulla luna, continuò Gheddafi; i libici sono sfruttati al punto di non disporre di elettricità né di acqua. 19 Le compagnie petrolifere sbraitavano di fronte all’insistenza con cui il nuovo regime chiedeva che venisse pagato un prezzo equo per il petrolio, ma si adeguarono subito quando fu chiarito che la nazionalizzazione non era all’ordine del giorno, anche se avrebbe potuto esserlo. Il fatto che il leader libico riuscisse a imporre una rinegoziazione non sfuggì ad altri: nel giro di qualche settimana, l’OPEC s’impegnò a premere per l’aumento del contributo versato ai
suoi membri dalle compagnie petrolifere occidentali, minacciando in caso contrario di ridurre la produzione. Fu quello il momento, per dirla con un dirigente della Shell, in cui iniziò la «valanga». 20 I risultati furono sorprendenti. Il prezzo del petrolio quadruplicò nell’arco di tre anni, mettendo a durissima prova le economie dell’Europa e degli USA , dove domanda e livelli di consumo erano in rapido e incessante aumento. Intanto i paesi petroliferi erano inondati da flussi di liquidità senza precedenti. Quelli dell’Asia centrale e del golfo Persico avevano visto le loro entrate aumentare costantemente fin da quando la concessione Knox D’Arcy aveva scoperto il petrolio, e poi via via che gli accordi venivano gradualmente ma inesorabilmente rinegoziati con termini sempre più vantaggiosi. Tuttavia, ciò che accadde negli anni Settanta fu un mutamento di proporzioni sismiche. Nel solo biennio 1972-73 gli introiti petroliferi dell’Iran aumentarono di otto volte, e nell’arco del decennio successivo di trenta. 21 Nel confinante Iraq l’incremento non fu meno spettacolare: i proventi crebbero di cinquanta volte tra il 1972 e il 1980, passando da 575 milioni a 26 miliardi di dollari. 22 Era del tutto ragionevole lamentare il «grado di dipendenza dei paesi industrializzati occidentali dal petrolio quale fonte energetica», come faceva un autorevole funzionario americano in un rapporto stilato per il dipartimento di Stato nel 1973. 23 Ma c’era qualcosa di inevitabile nel trasferimento di potere – e di denaro – ai paesi a cavallo della spina dorsale dell’Asia; così come nel crescente vigore del mondo islamico, che procedeva di pari passo con l’espandersi delle sue ambizioni. L’espressione più drammatica di queste tendenze si ebbe con un nuovo tentativo di sloggiare il simbolo totemico dell’influenza esterna nel Medio Oriente globalmente inteso: Israele. Nell’ottobre 1973, forze siriane ed egiziane lanciarono l’Operazione Badr, così chiamata in memoria della battaglia che aveva permesso di assumere il controllo della città santa di Mecca al tempo del profeta Muḥammad. 24 L’attacco colse di sorpresa non soltanto le difese israeliane, ma anche le superpotenze. Poche ore prima che iniziasse, un rapporto della CIA affermava senza incertezza che vi era «una bassa probabilità che
venga avviata un’operazione militare contro Israele da parte dei due eserciti». Nonostante fosse noto che truppe egiziane e siriane si stavano ammassando in prossimità del confine, il rapporto concludeva che lo stessero facendo o nel quadro di un’esercitazione, oppure «per timore [di] mosse offensive [che potevano essere compiute] da Israele». 25 Sebbene alcuni abbiano sostenuto che il KGB sembrava essere stato meglio informato sui piani, il fatto che un anno prima gli osservatori sovietici fossero stati espulsi dall’Egitto dimostra quanto fosse forte il desiderio di regolare i conti a livello locale, piuttosto che nell’ambito della più ampia lotta per la supremazia nella guerra fredda. 26 In effetti, l’URSS si era impegnata per placare le tensioni in Medio Oriente e ottenere «la distensione militare» nella regione. 27 L’impatto del conflitto arabo-israeliano fece tremare il mondo. Negli Stati Uniti il livello di allerta militare fu innalzato a DEFCON 3, il che indicava che il rischio di un attacco nucleare era considerato imminente, e più elevato che in qualsiasi altro momento, fin dalla crisi dei missili a Cuba del 1962. Nel frattempo in Unione Sovietica l’attenzione si focalizzò sull’obiettivo di contenere la situazione. Dietro le quinte si fece pressione sul presidente egiziano Sadat perché concordasse un cessate il fuoco, mentre il ministro degli Esteri sovietico, Andrej Gromyko, un consumato veterano della politica, sollecitava personalmente il presidente Nixon e il suo segretario di Stato fresco di nomina, Henry Kissinger, a un’azione congiunta per prevenire una «vera conflagrazione» che sarebbe potuta facilmente sfociare in un allargamento del conflitto. 28 La reale importanza della guerra di Yom Kippur, così chiamata perché l’attacco ebbe inizio nel giorno della festività ebraica, non stava tanto nei tentativi di Washington e Mosca di operare di concerto, e neppure nei risultati spettacolari che videro uno dei più grandi capovolgimenti militari della storia, allorché Israele, a un passo dalla scomparsa, sbaragliò le forze d’invasione e marciò simultaneamente su Damasco e sul Cairo. In realtà, la cosa davvero notevole fu il modo in cui il mondo di lingua araba agì unitariamente, in tutto e per tutto come un califfato, eccetto che nel nome. I capifila erano i sauditi, i
padroni di Mecca, che non solo parlarono apertamente di usare il petrolio come arma, ma lo fecero per davvero. La produzione fu ridotta, il che, unito all’incertezza politica, fece lievitare i prezzi: i costi per barile triplicarono quasi da un giorno all’altro. Mentre negli Stati Uniti si formavano code alle stazioni di servizio, il segretario di Stato Henry Kissinger protestava per il «ricatto politico» che minacciava la stabilità del mondo sviluppato. Lo shock fu tale che si cominciò a parlare di mettere a punto nuove strategie capaci di ridurre, se non di eliminare del tutto, la dipendenza dal petrolio mediorientale. Il 7 novembre 1973 il presidente Nixon si rivolse alla nazione con un discorso televisivo, nell’orario di massimo ascolto, per annunciare una serie di misure volte ad affrontare il fatto sgradevole che «negli ultimi anni la nostra domanda di energia ha cominciato a superare le forniture disponibili». Di conseguenza, affermò solennemente Nixon, le centrali elettriche dovevano essere convertite dall’alimentazione a petrolio a quella a carbone, «la nostra risorsa più abbondante». Il carburante per aerei doveva essere assoggettato a restrizioni con effetto immediato; a tutti i veicoli di proprietà del governo federale doveva essere vietato di procedere a una velocità superiore agli 80 chilometri orari, «salvo che nei casi di emergenza». «Per essere certi che vi sia petrolio sufficiente per durare tutto l’inverno,» continuò il presidente «sarà essenziale che tutti noi viviamo e lavoriamo in ambienti a temperatura più bassa. Dobbiamo chiedere a tutti di abbassare il termostato di almeno 3 gradi, in modo da raggiungere una media nazionale diurna di 20 gradi.» Se può essere di consolazione, aggiunse il presidente, «il mio medico mi dice … che in realtà è più salutare» vivere a questa temperatura. 29 «Ora, qualcuno di voi potrà chiedersi» aggiunse «se stiamo rimettendo indietro le lancette dell’orologio e tornando a un’altra epoca. Razionamento della benzina, carenze di petrolio, limiti di velocità ridotti: ci ricordano un modo di vivere che ci siamo lasciati alle spalle con Glenn Miller e la guerra degli anni Quaranta. Be’, in effetti, anche il nostro attuale problema deriva in parte dalla guerra, la guerra in Medio Oriente.» Ciò che ancora occorreva, annunciò Nixon, era «un obiettivo nazionale», un piano ambizioso che consentisse agli
Stati Uniti di soddisfare «il proprio fabbisogno energetico senza dipendere da qualsiasi fonte estera di energia». Battezzata «Progetto Indipendenza», la proposta doveva essere ispirata allo «spirito di Apollo» (un riferimento al programma spaziale) e al Progetto Manhattan, che aveva dato all’Occidente le armi nucleari e, insieme, la capacità di distruggere il mondo. Gli Stati Uniti erano una superpotenza, ma erano anche profondamente consapevoli della propria debolezza. Era ora di trovare alternative e diminuire così la dipendenza dal petrolio mediorientale, e quindi l’importanza di quest’ultimo. 30 La svolta produsse alcuni effetti collaterali inattesi. La riduzione generalizzata dei limiti di velocità autostradali a poco meno di 90 chilometri orari, passo inteso a diminuire i consumi, portò non soltanto a una riduzione dei consumi di oltre 150.000 barili al giorno, ma anche a una consistente riduzione del numero di incidenti stradali a livello nazionale. Nel solo mese di dicembre 1973, le statistiche della National Highway Traffic Safety Administration indicarono una diminuzione dei livelli di mortalità di oltre il 15 per cento in conseguenza diretta della riduzione dei limiti di velocità. 31 Studi condotti in Utah, Illinois, Kentucky, California e altrove dimostrarono con chiarezza che il provvedimento ebbe un effetto positivo nel salvare vite umane. 32 Sotto la spinta del risparmio energetico, gli architetti americani cominciarono a progettare edifici che davano maggior rilievo alle fonti di energia rinnovabili. 33 Questa fase segnò anche un momento di svolta nello sviluppo dell’automobile elettrica, incoraggiando una diffusa ricerca sulla stabilità e l’efficienza di una serie di sistemi in competizione, tra cui batterie a elettrolita acquoso, a stato solido e a sali fusi, che gettarono le basi per la costruzione di quelle automobili ibride che sarebbero giunte sul mercato di massa decenni più tardi. 34 Quella dell’energia divenne una questione politica di primo piano, mentre il governatore della Georgia – e di lì a poco candidato alla presidenza – Jimmy Carter lanciava appelli espliciti per una «politica energetica nazionale complessiva e di lungo periodo». 35 Il Congresso approvò massicci investimenti nell’energia solare, mentre guadagnò
consensi anche l’industria nucleare, percepita come tecnologicamente affidabile e come un’ovvia soluzione ai problemi energetici. 36 L’aumento dei prezzi ora giustificava prospezioni petrolifere in aree – come il mare del Nord e il golfo del Messico – dove in precedenza la produzione di petrolio era stata commercialmente non remunerativa o proibitivamente dispendiosa. Le piattaforme offshore portarono a rapidi progressi tecnologici nella trivellazione in acque profonde e stimolarono investimenti nell’infrastruttura, negli oleodotti, negli impianti e nelle risorse umane. Ma nulla di tutto ciò era in grado di fornire una soluzione immediata. Ogni cosa richiedeva ricerca, investimenti e, soprattutto, tempo. Abbassare i condizionatori negli edifici federali, consentendo «un adeguato allentamento delle regole relative all’abbigliamento dei dipendenti [governativi]», e favorire un maggiore ricorso al carsharing, come ordinato dal presidente Nixon in un memorandum del giugno 1973, erano tutte cose che andavano benissimo, ma era improbabile che simili misure risolvessero il problema. 37 Nel frattempo i produttori di petrolio mediorientali si arricchivano. Poiché l’incertezza delle forniture innervosiva il mercato e i paesi musulmani dell’OPEC utilizzavano il petrolio – per dirla con le parole del re dell’Arabia Saudita – come un’«arma in battaglia», i prezzi correvano quasi fuori controllo, tant’è che negli ultimi sei mesi del 1973 si passò da 2,90 a 11,65 dollari al barile. 38 Anche quando la guerra di Yom Kippur ebbe termine dopo tre settimane di accaniti combattimenti, la situazione non tornò più alla normalità. Anzi, la redistribuzione del capitale ai danni dell’Occidente non fece che accelerare: le entrate globali dei paesi produttori di petrolio passarono in soli cinque anni (1972-77) da 23 miliardi di dollari a 140. 39 Le città prosperavano, trasformate dal denaro che finanziava la costruzione di strade, scuole, ospedali e, nel caso di Baghdad, di un nuovo aeroporto, di architetture monumentali e perfino di uno stadio progettato da Le Corbusier. Talmente grande era il cambiamento che una rivista giapponese di architettura paragonò la trasformazione della capitale irachena a quella vissuta da Parigi nella seconda metà del XIX secolo sotto la direzione del barone
Haussmann. 40 Naturalmente, per coloro che erano al potere ciò costituiva un prezioso capitale politico: i capi di governo dei paesi del golfo Persico potevano fare grandiosi proclami che collegavano la nuova ricchezza al loro ruolo personale. Non fu quindi una coincidenza che, quando i ruscelli di denaro che fluivano nel cuore del mondo si trasformarono in un torrente, le classi dominanti acquisissero una visione sempre più demagogica. I fondi a disposizione erano così ingenti che, anche ammettendo che una parte venisse spesa per fornire panem et circenses secondo il metodo tradizionale del potere autocratico, c’era semplicemente troppo da perdere cedendo ad altri una quota del potere. Lo sviluppo della democrazia pluralistica subì così un netto rallentamento, laddove si rafforzò per converso il potere di controllo da parte di piccoli gruppi di individui, che avessero legami di sangue con il sovrano e la famiglia regnante, come nella Penisola arabica e in Iran, o che abbracciassero cause politiche comuni, come in Iraq e in Siria. E mentre il mondo industrializzato era impegnato ad abbattere le barriere per incrementare la mobilità sociale e a proclamare a gran voce le virtù della democrazia liberale, nei paesi arabi la legge dinastica divenne la norma. La redistribuzione del capitale in favore dei paesi ricchi di petrolio – la maggior parte dei quali era situata nel golfo Persico o nelle vicinanze – avvenne a spese di un cronico smottamento delle economie del mondo sviluppato, che si piegavano sotto il peso della depressione e della stagnazione, mentre i forzieri degli Stati OPEC traboccavano. Il Medio Oriente era inondato di denaro, proprio come lo era stata la Gran Bretagna al suo apogeo nel XVIII secolo, quando i nababbi spendevano senza remore il loro denaro. Gli anni Settanta furono un decennio di opulenza: mentre l’Iran Air commissionava Concorde, le importazioni di beni di lusso come impianti stereofonici e televisori aumentavano così rapidamente che dal 1970 il numero dei telespettatori passò, in appena quattro anni, da poco più di 2 milioni a 15, pari alla metà della popolazione iraniana. 41 La prodigalità non conosceva limiti. Come ai tempi in cui l’Europa altomedievale era affamata di tessuti
raffinati, di spezie e oggetti di lusso provenienti dall’Oriente, si poneva la questione di trovare modi alternativi per pagare merci tanto ambite. Un millennio prima erano gli schiavi a essere inviati nei paesi musulmani per contribuire a finanziare gli acquisti che procedevano in direzione opposta. Ora la possibilità di accedere al prezioso oro nero doveva anch’essa fare i conti con un lato più oscuro: la vendita di armi e di tecnologia nucleare. I governi nazionali svolgevano aggressive attività di lobby sulla vendita delle armi, che avveniva o in forma diretta, mediante aziende di proprietà statale, oppure favorendo compagnie che garantivano numerosi posti di lavoro e ingenti entrate fiscali. Alla metà degli anni Settanta il Medio Oriente nel suo insieme era responsabile di oltre il 50 per cento delle importazioni globali di armamenti. Nel solo Iran, la spesa per la difesa aumentò di quasi dieci volte nei sei anni precedenti il 1978, mentre nello stesso periodo le aziende statunitensi ricevevano ordinazioni per un valore di quasi 20 miliardi di dollari; la spesa militare totale in questi anni è stata stimata in oltre 54 miliardi di dollari, avendo raggiunto alla fine un’incidenza di quasi il 16 per cento del prodotto nazionale lordo. 42 Lo scià non aveva granché bisogno di essere convinto quando si trattava di comprare armi. Era un uomo così ossessionato dagli aerei, dai missili e dall’artiglieria, che una volta si rivolse all’ambasciatore britannico in Iran per chiedergli: «Quanti cavalli eroga la ruota dentata del carro armato Chieftain?»: una domanda alla quale il diplomatico rispose con difficoltà. 43 Tutti erano ansiosi di essere della partita, dall’Unione Sovietica ai francesi, dai tedeschi dell’Est ai britannici. In presenza di una disponibilità di risorse apparentemente illimitata, era soltanto questione di quali sistemi di missili terra-aria sarebbero stati comprati, di quali dispositivi antiaerei o di quali caccia sarebbero stati venduti, e di quali intermediari scegliere per concludere gli accordi in un mondo in cui sembrava difficile, per i nuovi arrivati, muoversi con successo. In Iraq la spesa militare raggiunse quasi il 40 per cento del bilancio nazionale, aumentando di oltre sei volte tra il 1975 e il 1980. Pochi si
preoccupavano delle conseguenze di quella che in breve divenne una corsa regionale agli armamenti tra Iran e Iraq, o della possibilità che le risorse sempre maggiori spese per la difesa accrescessero pericolosamente il prestigio e il peso dei militari in entrambi i paesi. Al contrario, finché ci fu domanda – e capacità di pagare – non furono frapposti ostacoli in materia di acquisto di grandi arsenali da parte dei paesi di tutto il Medio Oriente e del golfo Persico. Quanti più carri armati Chieftain venivano ordinati dall’Iran, quanti più jet Mirage da Israele, caccia MiG-21 e MiG-23 dalla Siria, carri sovietici T-72 dall’Iraq e jet USA F-5 dall’Arabia Saudita, tanto meglio era per le economie della Gran Bretagna, della Francia, dell’URSS e degli USA . 44 La medesima impostazione fu seguita nel campo dell’energia nucleare. All’inizio del XXI secolo, l’idea stessa che Stati come l’Iran sviluppassero una qualsiasi forma di potenziale nucleare è diventata oggetto di diffidenza e di condanna internazionale. La questione dell’energia nucleare è ormai inestricabilmente connessa con quella della proliferazione delle armi di distruzione di massa. Il potenziale nucleare dell’Iraq – e l’impossibilità per gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica di ispezionare gli impianti, i laboratori e le centrifughe che si pensava, si sosteneva o si sapeva che esistessero nel paese – furono un elemento fondamentale della giustificazione addotta per l’invasione del 2003 che rovesciò Saddam Hussein. Analoghi punti interrogativi in merito all’evidente determinazione dell’Iran a sviluppare un potenziale nucleare e alla sua capacità di trattare materiali radioattivi hanno provocato reazioni simili. «Non possiamo permettere che la politica e la mitologia oscurino la realtà» disse il segretario di Stato John Kerry nell’inverno del 2013. «[Il presidente Obama] è deciso e ha chiarito di essere pronto a usare la forza rispetto alle armi iraniane, e ha schierato gli uomini e gli armamenti necessari per conseguire quell’obiettivo, se dovrà essere conseguito.» 45 L’idea stessa di volersi dotare dell’energia nucleare è stata considerata un pericolo per la sicurezza regionale e globale. Gli iraniani, aveva detto il vicepresidente Dick Cheney nel 2005, «sono già seduti su una massa imponente di petrolio e di gas. Non si riesce a
capire perché abbiano bisogno anche del nucleare per generare energia». «Per un grande produttore di petrolio come l’Iran» conveniva Henry Kissinger «l’energia nucleare è uno spreco di risorse.» 46 Decenni prima, entrambi vedevano le cose in modo assai diverso, così come le varie amministrazioni succedutesi alla Casa Bianca nel periodo postbellico. In realtà, l’acquisizione di risorse nucleari era stata attivamente incoraggiata dagli Stati Uniti nell’ambito di un programma il cui nome e le cui finalità oggi appaiono quasi comici: Atomi per la Pace. Concepito dall’amministrazione Eisenhower, questo piano era volto a consentire agli USA di partecipare a «un consorzio atomico internazionale», e fondamentalmente prevedeva che i governi amici avessero accesso a 40.000 chilogrammi di uranio235 per ricerche non militari. 47 Per tre decenni la condivisione di tecnologia, componenti e materiali nucleari era stata un elemento essenziale della politica estera statunitense, un incentivo diretto alla cooperazione e alla solidarietà contro il blocco sovietico. Nel momento in cui l’URSS stava diventando una forza con cui fare i conti in Asia e nel golfo Persico, gli USA avvertivano acutamente l’esigenza di rafforzare il proprio sostegno allo scià, che sembrava essere l’unico leader affidabile nella regione, anche se c’erano altri che non la pensavano nello stesso modo: un importante personaggio saudita avvertiva l’ambasciatore statunitense a Riyad che lo scià era «un megalomane mentalmente instabile». Se Washington non lo capiva, aggiunse, «dev’esserci qualcosa che non va nelle capacità [americane] di osservazione». 48 Sebbene non mancassero gli scettici che mettevano in guardia dal dare al sovrano iraniano «tutto quello che vuole», l’ampliamento dell’influenza sovietica nella regione convinse altri – e in particolare Kissinger – che il sostegno allo scià andasse rafforzato. Perciò, quando quest’ultimo andò in visita a Washington alla metà degli anni Settanta, il memorandum preparato da Kissinger per il presidente richiamava l’attenzione sull’importanza di un appoggio concreto da parte americana, parlando dello scià come di «un uomo di straordinaria abilità e preparazione», una lode che sorvolava sui livelli
cronici di corruzione e inefficienza raggiunti in Iran. 49 Gli Stati Uniti erano talmente ansiosi di dare sostegno ai piani per destabilizzare il confinante Iraq, che contribuirono a fomentare il conflitto con i curdi. Ciò ebbe un esito tragico, a causa di una ribellione miseramente fallita e delle pesanti rappresaglie scatenate contro la minoranza curda nel Nord del paese. Dopo aver incoraggiato la rivolta, gli USA rimasero a guardare mentre l’Iran mostrava segnali di apertura nei confronti dell’Iraq e in breve raggiungeva un accordo su vecchie dispute di confine, sacrificando con ciò i curdi. 50 «Anche nel contesto di un’azione coperta da segreto, la nostra è stata un’iniziativa cinica» concluse la Commissione Pike, che negli anni Settanta indagava sulla diplomazia clandestina americana. 51 Forse non a caso, dopo aver dichiarato che nel primo volume delle sue memorie non c’era spazio sufficiente per discutere questa vicenda, Kissinger non mantenne la promessa di trattarla nel secondo volume. 52 Sotto altri aspetti, lo scià faceva anche piani per il futuro. Si rendeva conto che la cuccagna petrolifera dell’inizio degli anni Settanta non sarebbe durata in eterno e che le riserve di petrolio alla fine si sarebbero esaurite, il che lasciava nell’incertezza le forniture energetiche dell’Iran stesso. Nonostante l’abbassamento dei termostati negli Stati Uniti, la domanda di petrolio continuava ad aumentare, il che consentiva all’Iran – e agli altri paesi petroliferi – di prepararsi per il lungo termine con le tasche piene. Quella nucleare, concludeva un rapporto espressamente commissionato dallo scià, era «la fonte di energia più economica» in grado di garantire il fabbisogno dell’Iran. In base al duplice presupposto che i prezzi del petrolio sarebbero solo aumentati e che i costi di costruzione e manutenzione delle centrali elettronucleari si sarebbero ridotti, lo sviluppo dell’industria nucleare sembrava un passo ovvio da intraprendere, soprattutto perché questo prestigioso progetto avrebbe dimostrato quanto si era modernizzato l’Iran. 53 Lo scià se ne assunse personalmente la responsabilità, incaricando il dottor Akbar Etemad, della nuova Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, di riferire direttamente a lui. 54 Il primo passo fu nei confronti degli americani. Nel 1974 fu
raggiunto un accordo preliminare in base al quale gli USA convenivano di vendere all’Iran due reattori, oltre all’uranio arricchito. La portata dell’intesa fu ulteriormente ampliata nel 1975, quando i due paesi conclusero un accordo commerciale da 15 miliardi di dollari, che comprendeva una clausola in base alla quale l’Iran avrebbe acquistato dagli Stati Uniti otto reattori a un prezzo fisso di 6,4 miliardi di dollari. 55 L’anno successivo il presidente Ford approvò un contratto che consentiva all’Iran di acquistare e mettere in funzione un sistema di fabbricazione statunitense che includeva un impianto di riprocessamento in grado di estrarre plutonio dal combustibile del reattore nucleare, e quindi metteva Teheran in condizione di attivare un «ciclo del combustibile nucleare». Il capo di gabinetto del presidente Ford non ebbe alcuna esitazione nell’approvare questa vendita: negli anni Settanta Dick Cheney non aveva difficoltà a «capire» quali fossero le motivazioni dell’Iran. Gli acquisti dello scià dagli Stati Uniti facevano parte di un piano ambizioso e molto più vasto, che attingeva tecnologia, competenze e materie prime da altri paesi occidentali. Nel 1975 iniziarono i lavori su due reattori ad acqua pressurizzata presso Bushihr, sul Golfo, dopo la firma dei relativi contratti con la Kraftwerk Union AG , della Germania Ovest, e l’impegno di quest’ultima a fornire il carico iniziale di combustibile e le ricariche necessarie per dieci anni. Ulteriori lettere di intenti furono firmate con la Kraftwerk, oltre che con la Brown Boveri e con la francese Framatome, per altri otto reattori, e tali accordi prevedevano che l’Iran fosse rifornito di uranio arricchito. Intese indipendenti furono raggiunte anche per il riprocessamento in Francia dell’uranio, che sarebbe poi stato restituito a Teheran per l’arricchimento e quindi o riutilizzato nel paese o rivenduto a una terza parte scelta dall’Iran. 56 Sebbene l’Iran fosse tra i firmatari del Trattato di non-proliferazione nucleare del 1968, nella comunità dell’intelligence si parlava comunemente dello sviluppo di un programma clandestino per la produzione di armi nucleari: il che non costituiva certo una sorpresa, dato che di tanto in tanto lo scià dichiarava che l’Iran si sarebbe messo in condizione di costruire armi «certamente, e prima di quanto si
potrebbe pensare». 57 Un rapporto della CIA del 1974 sulla proliferazione nucleare in generale concludeva che, per quanto l’Iran fosse in una fase iniziale di sviluppo del programma, era probabile che lo scià avrebbe raggiunto questo obiettivo alla metà degli anni Ottanta, «se sarà ancora vivo». 58 Anche altri paesi avevano cura di investire in impianti nucleari per usi civili, ma con l’intento di mettersi al contempo in grado di produrre armi. Negli anni Settanta l’Iraq, sotto la guida di Saddam Hussein, spendeva a tutto spiano con lo scopo specifico di costruire una bomba nucleare. 59 Saddam era ambizioso, e fissò «un obiettivo di produzione di sei bombe all’anno», secondo il dottor Khidir Hamza, che negli anni Ottanta fu posto a capo del programma. Uno sviluppo su questa scala avrebbe dato all’Iraq, nell’arco di due decenni, un arsenale superiore a quello della Cina. Non si badava a spese. Scienziati e ingegneri iracheni venivano mandati in massa a formarsi all’estero, soprattutto in Francia e in Italia, mentre in patria si faceva tutto il possibile per utilizzare il programma civile in modo da ricavarne le tecnologie, le capacità e l’infrastruttura necessarie per creare un arsenale nucleare. 60 Gli iracheni seguivano il loro programma con determinazione. Avendo già acquistato dall’Unione Sovietica un reattore di ricerca da 2 megawatt che aveva raggiunto la criticità nel 1967, si disposero a procurarsi un reattore a gas moderato a grafite e un impianto di riprocessamento per il plutonio che ne sarebbe derivato. Quando le richieste avanzate alla Francia furono respinte, procedettero a sondare il terreno in Canada, nella speranza di riuscire ad acquistare un reattore simile a quello che nel 1974 aveva consentito all’India di sperimentare un ordigno nucleare. Tale mossa indusse i francesi a riprendere i negoziati, che portarono a un accordo per la costruzione di un reattore di ricerca Osiris e di un reattore di ricerca più piccolo, entrambi da alimentare con uranio arricchito al livello necessario per la fabbricazione di armi. Ulteriori materiali essenziali beni a duplice uso (sia civile sia militare) furono acquistati dall’Italia, tra cui celle calde e anche un impianto di separazione e trattamento in grado di
estrarre il plutonio dall’uranio irradiato, con la capacità di produrre 8 chilogrammi all’anno. 61 Era opinione dei più che ci fosse sotto qualcosa e che l’energia non fosse l’unica motivazione. Gli israeliani, in particolare, tenevano sotto controllo gli sviluppi con grande preoccupazione, raccogliendo informazioni dettagliate sulla militarizzazione dei loro vicini, e concentrando l’attenzione sull’impianto Tammuz di al-Tuwaitha, nei pressi di Baghdad, più noto come Osirak. Israele, inoltre, investiva massicciamente nel proprio programma di armamento nucleare, oltre che in un sistema missilistico, sviluppato a partire da progetti francesi, che era in grado di trasportare testate in un raggio di poco superiore a 300 chilometri. 62 All’epoca della guerra di Yom Kippur si riteneva che Israele avesse costituito un arsenale di tredici ordigni nucleari. 63 L’Occidente chiudeva un occhio al momento opportuno. In Iraq, per esempio, all’inizio degli anni Settanta i britannici giunsero alla conclusione che, «pur essendo repressivo e decisamente sgradevole, l’attuale governo sembra avere un saldo controllo della situazione». Era un regime stabile, e quindi un interlocutore con cui poter fare affari. 64 Analogamente passò inosservata l’attività del Pakistan, che negli anni Settanta costruiva impianti a grandi profondità nel sottosuolo per poter effettuare test segreti e alla fine una detonazione coronata da successo. Nel cuore di una montagna della catena dei Ras Koh, nel Belucistan, furono scavate cinque gallerie orizzontali, progettate in modo che ciascuna potesse resistere a una detonazione da 20 chilotoni. 65 Come notarono mestamente gli scienziati pachistani, «il mondo occidentale era certo che un paese sottosviluppato quale il Pakistan non avrebbe mai potuto padroneggiare questa tecnologia», eppure i paesi occidentali facevano al tempo stesso «sforzi febbrili e continui per venderci di tutto … letteralmente ci supplicavano di comprare il loro materiale». 66 Alla luce di ciò, non è difficile rendersi conto di quanto le severe arringhe contro la proliferazione nucleare pronunciate da paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che rifiutavano di assoggettarsi alle ispezioni e alle regole dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, suonassero fastidiose per coloro che, invece, non vi si
potevano sottrarre ed erano costretti a condurre le proprie ricerche in segreto; ma la vera ipocrisia, a guardare le cose con obiettività, stava nell’entusiasmo con cui il mondo sviluppato si precipitava a incassare moneta sonante o a procurarsi petrolio a buon mercato. Ci furono tiepidi tentativi di limitare la diffusione dei materiali nucleari. Nel 1976 Kissinger propose al Pakistan di rinunciare al suo progetto per il riprocessamento e di appoggiarsi invece sull’impianto in costruzione in Iran, fornito dagli Stati Uniti nell’ambito di un piano elaborato da Dick Cheney in persona, in base al quale l’installazione iraniana doveva servire da punto di snodo per le esigenze energetiche di tutta la regione. Quando il presidente del Pakistan rifiutò l’offerta, gli USA minacciarono di sospendere il pacchetto di aiuti al paese. 67 Anche Kissinger cominciava ormai a essere dell’avviso che fosse poco avveduto consentire a governi stranieri di accedere alle tecnologie e ai progetti alla base dello sfruttamento dell’energia nucleare. «Francamente mi sto stancando dell’accordo con l’Iran [per la costruzione di reattori nucleari]» disse a una riunione del dipartimento di Stato nel 1976, nonostante il ruolo di primo piano che aveva svolto nel negoziato. «L’ho appoggiato, ma in qualunque regione si guardi, c’è una frode … siamo l’unico paese così fanatico e poco realista da fare cose contrarie ai nostri interessi nazionali.» 68 Simili considerazioni lasciavano intravedere come a Washington andasse rafforzandosi la sensazione che gli Stati Uniti fossero bloccati in una situazione che offriva opzioni limitate. È ciò che espressero chiaramente i membri del Consiglio per la sicurezza nazionale alla fine degli anni Settanta, salvo poi dichiarare che «gli Stati Uniti non avevano alcuna alternativa strategica visibile allo stretto rapporto con l’Iran», avendo bruciato i ponti politici altrove. 69 Sebbene le critiche al regime dello scià, e in particolare ai metodi brutali della Savak, fossero in aumento sui mezzi di comunicazione occidentali, il governo USA continuò ad appoggiarlo apertamente e costantemente. Il presidente Carter andò a Teheran nel 1977 per l’ultimo dell’anno, e fu ospite d’onore a una cena che celebrava la ricorrenza. «L’Iran» disse il presidente «è un’isola di stabilità in una delle aree più travagliate del mondo, e ciò era merito della «grande leadership dello scià». Il
successo del paese doveva molto a «Vostra Maestà e alla vostra leadership, nonché al rispetto e all’ammirazione e all’amore che il vostro popolo nutre per voi». 70 Questo quadro a tinte rosee non edulcorava la realtà, la negava: nubi tempestose si stavano addensando all’orizzonte ed erano evidenti a tutti. In Iran la crescita demografica, la rapida urbanizzazione e la spesa incontrollata da parte di un regime repressivo producevano un cocktail tossico. Né erano d’aiuto la corruzione endemica e le centinaia di milioni di dollari incamerati come «provvigione» per ogni reattore dalla famiglia reale e dal suo entourage. 71 Verso la fine degli anni Settanta la situazione a Teheran era grave, con folle sempre più numerose che scendevano in piazza per protestare contro la mancanza di giustizia sociale e il crescente costo della vita, dovuto al calo dei prezzi del petrolio nel momento in cui la produzione globale cominciava a essere superiore alla domanda. La crescente ondata di dissenso andava a tutto vantaggio dell’ayatollah Khomeini, che ora si trovava in esilio a Parigi dopo essere stato allontanato dall’Iraq in seguito all’accordo stretto con lo scià nel 1975. Brillante comunicatore e uomo capace di cogliere gli umori del paese, come aveva fatto Mossadeq trent’anni prima, Khomeini – il cui figlio maggiore era stato probabilmente assassinato dalla Savak nel 1977 – assunse il controllo della situazione proponendone una lettura che, a un tempo, diagnosticava i mali dell’Iran e indicava i rimedi per curarli. Con una mossa a sorpresa che piacque ai rivoluzionari di sinistra, agli islamisti intransigenti e a quasi tutti coloro che erano estranei alla cerchia privilegiata degli affari d’oro, Khomeini dichiarò che era venuto il momento che lo scià si facesse da parte. I beneficiari di una buona leadership sarebbero stati il popolo iraniano e l’islam, e non lo scià. Per dissipare i timori che l’Iran potesse diventare uno Stato teocratico, Khomeini promise che predicatori e religiosi intransigenti non avrebbero governato il paese direttamente, ma avrebbero fornito una guida, ed enunciò quattro princìpi che avrebbero informato il futuro dell’Iran: l’adozione della legge islamica; lo sradicamento della
corruzione; la cancellazione delle leggi ingiuste; e la fine dell’intervento straniero negli affari interni del paese. Non era un programma di facile presa, ma era efficace, perché parlava a una molteplicità di interlocutori e faceva i conti con i problemi e le difficoltà non solo dell’Iran ma del mondo islamico nel suo complesso. La tesi che la ricchezza del paese veniva dirottata nelle mani di pochi a spese dei molti era non soltanto convincente ma incontrovertibile. Negli anni Settanta, oltre il 40 per cento della popolazione era sottonutrita rispetto agli standard dell’Organizzazione mondiale della sanità; la disuguaglianza imperava, i ricchi diventavano più ricchi, mentre la condizione dei poveri dava scarsi segni di miglioramento, o forse nessuno. 72 Toccava al popolo iraniano manifestare, proclamò Khomeini; fate appello ai soldati, «anche se vi sparano addosso e vi uccidono». Che decine di migliaia di noi muoiano come fratelli. Ma dimostrate che «il sangue è più forte della spada». 73 Mentre la situazione si faceva sempre più tesa, lo scià – su cui gli Stati Uniti avevano appuntato tante speranze – andò all’aeroporto di Teheran, dove rilasciò una breve dichiarazione in cui diceva di sentirsi stanco e di aver bisogno di un periodo di riposo, per poi lasciare il paese per l’ultima volta. 74 Se lo scià avrebbe potuto impedire quanto poi accadde, è ancora oggetto di dibattito. Più chiaro è invece come reagirono alla situazione alcuni leader europei. In quella che il presidente Carter definì «una delle peggiori giornate della mia vita diplomatica», il cancelliere Schmidt assunse un atteggiamento «personalmente offensivo» durante le discussioni sul Medio Oriente, sostenendo che «l’interferenza americana in [questa regione] … aveva causato problemi per il petrolio in tutto il mondo». 75 Gli Stati Uniti avevano perseguito una politica di completa negazione della realtà e lessero il futuro decisamente troppo tardi. All’inizio del 1979 Washington inviò a Teheran il generale Robert Huyser, comandante in capo delle forze USA in Europa, per dare prova del sostegno americano allo scià e, soprattutto, convincere l’esercito che gli Stati Uniti continuavano ad appoggiare il regime. Non ci volle molto a Huyser per capire che i presagi erano funesti, e che la sua stessa vita era potenzialmente in pericolo. Vide quanto
bastava per rendersi conto che i giorni dello scià erano finiti, e che l’ascesa di Khomeini non poteva essere fermata. 76 La politica americana era ridotta a brandelli. Tempo, fatica e risorse erano stati investiti a profusione in Iran, così come nei paesi vicini, fin dalla seconda guerra mondiale. Molti leader erano stati corteggiati e viziati, mentre quelli che rifiutavano di adeguarsi erano stati deposti o sostituiti. I metodi utilizzati in quella regione cruciale dell’Asia avevano registrato un fallimento spettacolare. I paesi occidentali, per citare Sir Anthony Parsons, all’epoca ambasciatore britannico a Teheran, «guardavano nel telescopio giusto … ma [noi eravamo] concentrati sull’obiettivo sbagliato». 77 Quel ch’era peggio, la retorica antiamericana ora univa quasi tutti i paesi dell’area mediorientale. Siria e Iraq guardavano all’URSS ; l’India era più vicina a Mosca che a Washington, mentre il Pakistan era disposto ad accettare il sostegno USA come e quando gli faceva comodo. L’Iran era un pezzo cruciale del puzzle, e ora anch’esso pareva in pericolo o prossimo a cadere. Sembrava che fosse la fine di un’era, come notò Khomeini in un discorso verso la fine del 1979: «Tutti i problemi dell’Oriente derivano da quegli stranieri venuti dall’Occidente e, al momento, dall’America» disse. «Tutti i nostri problemi vengono dall’America.» 78 La caduta dello scià suscitò panico a Washington e speranze a Mosca. Il collasso dell’Iran sembrava un punto di svolta che poteva offrire opportunità. Era quasi comico constatare quanto malamente i paesi occidentali avessero giudicato la situazione non soltanto in Iran ma anche altrove, per esempio in Afghanistan, dove l’ambasciata USA a Kabul, nel 1978, riferiva che i rapporti erano eccellenti. 79 In effetti, agli occhi ottimistici degli americani, l’Afghanistan sembrava una storia di grande successo, proprio come era accaduto con l’Iran: il numero delle scuole era aumentato di dieci volte dal 1950, e molti più studenti si volgevano alle discipline tecniche come la medicina, il diritto e la scienza; anche l’istruzione delle donne progrediva, dato che il numero delle ragazze che frequentavano una scuola primaria era in rapido aumento. Circolavano voci che il presidente Dāwūd, che aveva preso il potere nel 1973, fosse stato reclutato dalla CIA e che i
programmi progressisti che perseguiva fossero idee seminate dagli americani. Sebbene la diceria non fosse vera, il fatto che richiedesse indagini da parte dei diplomatici sia di Washington sia di Mosca dimostra chiaramente quanto intense fossero le pressioni perché le due superpotenze competessero e perché praticassero l’ultima versione del Grande Gioco in Asia. 80 Era di importanza cruciale, a questo punto, come la situazione si sarebbe stabilizzata dopo un breve periodo di turbolenza. In effetti, sembrava che gli Stati Uniti fossero decisamente spiazzati. La loro scommessa sullo scià e sull’Iran pareva perduta; ma ce n’erano altre, lungo le vecchie Vie della Seta, che erano ancora aperte. Ora che l’Iran era in preda alla rivoluzione e l’Iraq sembrava accasarsi con un pretendente sovietico, gli USA dovevano pensare bene alla loro mossa successiva. Ma finì in un disastro.
XXIV
LA VIA ALLA CATASTROFE
La rivoluzione iraniana fece crollare l’intero castello di carte costruito dagli Stati Uniti nella regione. I segnali di instabilità erano evidenti da tempo. La corruzione del regime dello scià, combinata con la stagnazione economica, la paralisi politica e la brutalità della polizia, formavano una miscela tossica che faceva il gioco dei critici più radicali, le cui promesse di riforma cadevano su un terreno fertile. Ad alimentare il nervosismo di quanti temevano per l’andamento delle vicende iraniane era la netta sensazione che l’URSS stesse attivamente tramando per trarre vantaggio dalla situazione. L’attività sovietica proseguì anche dopo che il KGB ebbe perso la sua risorsa principale, il generale Ahmad Mogharebi, considerato da Mosca «il miglior agente della Russia», che aveva contatti in tutti i settori dell’élite iraniana. Mogharebi fu arrestato nel settembre 1977 dalla Savak, che si era insospettita per i regolari abboccamenti con i suoi contatti nel KGB . 1 Tale circostanza spinse i sovietici a intensificare la loro attività nel paese. All’inizio del 1978 si ipotizzò che, a monte dei volumi insolitamente consistenti di scambi in rial iraniani registrati sui mercati valutari svizzeri, vi fosse l’ordine impartito agli agenti sovietici di finanziare i loro sostenitori in Iran; inoltre, la qualità assai elevata di «Navid», il bollettino d’informazione distribuito dal partito di sinistra Tudeh, convinse alcuni che esso venisse stampato non soltanto con l’assistenza di Mosca, ma direttamente presso la sua ambasciata a Teheran. I nuovi campi allestiti fuori dei confini del paese per addestrare alla guerriglia i dissidenti iraniani (insieme ad altri) e istruirli sulla dottrina marxista erano un sintomo inquietante del fatto che Mosca si stava preparando a colmare qualsiasi vuoto, in caso di
caduta dello scià. 2 Il suo interesse per l’Iran faceva parte di un più ampio impegno in una regione che sembrava destinata ad attraversare un periodo di profondi mutamenti. Ulteriore sostegno fu quindi dato anche al presidente siriano Assad, sebbene il KGB lo considerasse «un piccolo borghese sciovinista e pieno di sé». 3 Tra quanti osservavano da vicino l’evolversi della situazione, alcuni ritenevano che fosse imminente una catastrofe. Verso la fine del 1978 William Sullivan, l’ambasciatore statunitense a Teheran, inviò a Washington un cablogramma intitolato Pensare l’impensabile, in cui sollecitava l’immediata messa in atto di piani di emergenza. La proposta fu ignorata, così come la sua raccomandazione di tentare, alla prima occasione, «di realizzare un modus vivendi tra i [capi] militari e quelli religiosi». L’ambasciatore intendeva dire che gli USA avrebbero dovuto cercare di aprire dei canali di comunicazione con Khomeini prima che prendesse il potere anziché dopo. 4 Ma, alla Casa Bianca, voci autorevoli continuavano a sostenere che gli USA erano in grado di controllare la situazione, confermando il sostegno allo scià e appoggiando la proposta, avanzata alla fine del gennaio 1979 dal primo ministro Shapur Bakhtiar, che l’ayatollah Khomeini venisse arrestato appena avesse messo piede in territorio iraniano. 5 L’ottusa futilità di tali propositi divenne evidente nell’arco di qualche giorno. Il 1° febbraio 1979 l’ayatollah Khomeini atterrò a Teheran, dopo quattordici anni di esilio. Folle immense si radunarono per accoglierlo all’aeroporto, e lo seguirono lungo il cammino verso la sua prima meta, il Cimitero dei Martiri, una ventina di chilometri a sud della capitale, dove erano in attesa circa 250.000 sostenitori. «Prenderò a pugni in faccia questo governo» tuonò Khomeini in tono di sfida. «D’ora in poi sarò io a nominare il governo.» In un servizio su questo discorso, la BBC stimò che 5 milioni di persone si assiepassero ai bordi delle strade percorse dall’ayatollah per entrare nella capitale. 6 La situazione subì una rapida evoluzione mentre i sostenitori di Khomeini assumevano il controllo del paese. L’11 febbraio l’ambasciata USA fu chiusa, e Sullivan inviò a Washington il seguente cablogramma: «L’esercito si arrende. Khomeini vince. Stiamo distruggendo tutti i documenti coperti da segreto». La distruzione del
materiale sensibile era ancora in corso quando, tre giorni dopo, la folla invase l’area dell’ambasciata americana, sebbene l’ordine venisse ben presto ristabilito dagli uomini di Khomeini. 7 Il 16 febbraio l’ambasciatore Sullivan ebbe un incontro con Mehdi Bazargan, il nuovo primo ministro fresco di nomina, e gli disse che gli Stati Uniti non avevano alcun interesse a intervenire negli affari interni dell’Iran. 8 Meno di una settimana dopo, gli USA riconobbero formalmente il nuovo governo, che il 1° aprile, in seguito a un referendum nazionale, dichiarò che il paese si sarebbe chiamato «Repubblica islamica dell’Iran». Alla fine dell’anno, un secondo referendum approvò una nuova Costituzione, la quale stabiliva che da allora in poi «le leggi dello Stato in campo penale, economico, culturale, militare, politico, ecc. [dovevano] essere conformi alle norme “islamiche”». 9 Gli Stati Uniti avevano scommesso pesantemente sull’Iran e sullo scià per decenni. Ora dovevano pagare un prezzo elevato per il cattivo esito dell’azzardo. Le onde d’urto della rivoluzione si propagarono in tutto il mondo, facendo quasi triplicare i prezzi del greggio. Il loro effetto sulle economie dei paesi avanzati assetate di petrolio fu disastroso, in quanto l’inflazione minacciava di di andare fuori controllo. Mentre iniziava a serpeggiare il panico, c’erano timori che la crisi si espandesse: prima della fine di giugno, in tutti gli Stati Uniti un numero allarmante di stazioni di servizio rimasero chiuse per mancanza di rifornimenti. Gli indici di gradimento del presidente Carter precipitarono al 28 per cento, un livello quasi senza precedenti, più o meno lo stesso di Nixon al nadir dello scandalo Watergate. 10 Alla vigilia della campagna per le elezioni presidenziali, parve che il cambio di regime a Teheran ne avrebbe potuto influenzare pesantemente l’esito. Non era soltanto il prezzo crescente del petrolio a minacciare di far deragliare le economie occidentali. Nello stesso senso agivano anche la massiccia cancellazione di ordinativi e l’immediata nazionalizzazione dell’industria iraniana. La BP (British Petroleum), erede dell’originaria concessione Knox D’Arcy, fu costretta a una consistente riorganizzazione (e alla vendita di parte delle sue azioni),
dopo che i giacimenti che contribuivano per il 40 per cento alla sua produzione globale scomparvero di colpo. Stessa sorte toccò ai contratti per la costruzione di acciaierie, per la ristrutturazione dei terminal aeroportuali e la creazione di porti, che furono accantonati da un giorno all’altro, e a quelli per le forniture di armi, che furono annullati e stracciati. Nel 1979 Khomeini cancellò acquisti dagli USA per 9 miliardi di dollari, il che lasciò i produttori con un deficit di bilancio non facile da colmare e con notevoli quantità di merci da smistare verso altri paesi, meno inclini a militarizzarsi di quanto lo fosse stato lo scià. 11 Di fatto, se prima della rivoluzione il programma nucleare aveva già subìto un rallentamento a causa della difficile situazione economica, con l’ascesa al potere di Khomeini fu totalmente cancellato. Il costo delle mancate commesse per compagnie quali Creusot-Loire, Westinghouse Electric Corporation e Kraftwerk Union – con sedi, rispettivamente, in Francia, Stati Uniti e Germania occidentale – fu dell’ordine di 330 miliardi di dollari. 12 Di fronte alle avversità, qualcuno esibì un ammirevole stoicismo: «Non dobbiamo mai dimenticare quanti vantaggi abbiamo tratto dal regime dello scià» scrisse il diplomatico Sir Anthony Parsons, veterano del Medio Oriente e ambasciatore britannico a Teheran al momento del ritorno di Khomeini. «Il mondo degli affari britannico e l’industria hanno ricavato enormi quantità di denaro dall’Iran.» 13 Non arrivò a dirlo, ma era chiaro che i bei tempi erano finiti; era meglio celebrare ciò che il passato aveva concesso piuttosto che lamentare ciò che il futuro avrebbe negato. Per gli Stati Uniti, però, la posta in gioco andava al di là delle ricadute economiche e politiche interne. Era di qualche consolazione il fatto che Khomeini e il clero a lui vicino avessero scarsa considerazione per la politica atea dell’Unione Sovietica, e poca simpatia – o affinità – per i gruppi di sinistra iraniani. 14 Ma anche se con la caduta dello scià l’URSS non guadagnava terreno, gli Stati Uniti venivano costretti decisamente sulla difensiva, giacché una serie di punti d’appoggio fino ad allora sicuri divennero precari o andarono del tutto perduti.
Subito dopo aver preso il potere, Khomeini chiuse le strutture di intelligence americane presenti in Iran che servivano da sistemi di allarme avanzato per gli attacchi nucleari sovietici, e da stazioni d’ascolto per monitorare i test missilistici in Asia centrale. Questo privò gli USA di un mezzo essenziale di raccolta di informazioni sulla superpotenza rivale in un momento in cui erano diventate ancor più importanti in conseguenza degli intensi negoziati in corso tra USA e URSS per non aumentare il numero delle rampe di lancio per missili balistici strategici. La chiusura di stazioni che svolgevano un ruolo di primo piano nel procedimento di verifica minacciava quindi di compromettere non solo gli accordi sugli armamenti strategici che avevano richiesto anni di trattative, ma anche i delicatissimi negoziati in corso. Ci sarebbero voluti almeno cinque anni, disse il direttore della CIA , ammiraglio Stansfield Turner, alla commissione del Senato sui servizi d’informazione, per ristabilire la capacità di monitorare i test e gli sviluppi dei missili sovietici. 15 In seguito agli eventi in corso in Iran, nei servizi di intelligence USA si era aperta una «vera lacuna», osservò Robert Gates, il funzionario della CIA responsabile delle informazioni sull’URSS (e futuro direttore dell’agenzia, oltre che segretario della Difesa). Sforzi «eccezionalmente riservati» furono quindi compiuti per costruire altrove nuove alleanze che colmassero la lacuna. In tale contesto, vi furono colloqui ad alto livello con la dirigenza cinese sull’allestimento di strutture sostitutive nella Cina occidentale, da cui scaturì una visita segreta dell’ammiraglio Turner e di Gates a Pechino nell’inverno 1980-81, di cui si ebbe notizia soltanto molti anni dopo (anche se con pochi dettagli degni d’interesse). 16 Stazioni d’ascolto furono approntate a Qitai e a Korla, nello Xinjiang, dall’Ufficio delle operazioni Sigint (Signals Intelligence, «Raccolta di informazioni tramite intercettazione di segnali»), la cui gestione fu affidata al Dipartimento tecnico dello stato maggiore dell’Esercito popolare di liberazione della Cina, in stretta collaborazione con consiglieri e tecnici statunitensi. 17 La fattiva cooperazione tra militari e servizi d’informazione statunitensi e cinesi fu un effetto secondario della caduta dello scià.
Nel frattempo la rivoluzione iraniana, se non avvantaggiò l’URSS dal punto di vista politico, di certo lo fece dal punto di vista militare. Nonostante gli sforzi compiuti dal personale dell’ambasciata americana a Teheran per distruggere i documenti più importanti, la velocità e la forza dell’onda di cambiamento che aveva trasformato il paese produssero alcune perdite rovinose. Lo scià aveva acquistato una flotta di caccia F-14 Tomcat, insieme a un avanzato sistema missilistico aria-aria Phoenix, a missili Hawk terra-aria e a una gamma di sofisticate armi anticarro. I sovietici riuscirono a venire in possesso di preziosissime immagini ravvicinate, e in qualche caso anche dei relativi manuali di istruzioni. Non si trattò soltanto di una perdita imbarazzante, ma di un evento con implicazioni potenzialmente gravi per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dei loro alleati. 18 La sensazione che un mondo familiare stesse subendo un rapido collasso adesso si stava diffondendo anche a Washington, poiché non era soltanto in Iran che le cose sembravano all’improvviso molto diverse. Gli USA avevano attentamente tenuto d’occhio la situazione in Afghanistan, la cui importanza strategica era aumentata ulteriormente in seguito alla rivoluzione khomeinista. Nella primavera del 1979, per esempio, un’unità della CIA effettuò una ricognizione per valutare il paese come possibile ubicazione sostitutiva dei siti d’intelligence perduti in Iran. 19 Ma la situazione in Afghanistan era in rapida evoluzione, e sembrava sempre più probabile che ricalcasse il corso di quella iraniana. La turbolenza era iniziata quando il re Zahir Shah, grande amante degli scacchi, era stato deposto dal cugino Muḥammad Dāwūd, il quale si era insediato come presidente nel 1973. Poi, cinque anni più tardi, lo stesso Dāwūd fu spodestato. La sua caduta non fu una grande sorpresa, data la crescente brutalità di un regime che giustiziava abitualmente senza processo gli oppositori politici, fatti sdraiare a faccia in giù nel cortile del famigerato e cronicamente sovraffollato carcere di Pul-i Charkhi, alle porte di Kabul. 20 I comunisti intransigenti che presero il posto di Dāwūd si dimostrarono altrettanto spietati, nonché inflessibilmente progressisti
nel formulare un ambizioso programma di modernizzazione del paese. Era tempo, dichiaravano, di incrementare drasticamente i livelli di alfabetizzazione, di spezzare la struttura «feudale» del sistema tribale, di porre fine alla discriminazione etnica e di conferire diritti alle donne, tra cui la parità educativa, la sicurezza del posto di lavoro e l’accesso all’assistenza sanitaria. 21 I tentativi di introdurre mutamenti di vasta portata provocarono una reazione forsennata, che fu particolarmente energica da parte del clero musulmano; proprio come sarebbe accaduto all’inizio del XXI secolo, gli esperimenti di riforma riuscirono soltanto a unire i tradizionalisti, i proprietari terrieri, i capi tribali e i mullah, che fecero causa comune per proteggere i propri interessi. L’opposizione divenne ben presto aperta e minacciosa. La prima importante sollevazione popolare ebbe luogo nel marzo 1979 a Herat, nella parte occidentale del paese, dove i paladini dell’indipendenza nazionale, di un ritorno alla tradizione e del rifiuto dell’influenza esterna traevano incoraggiamento dagli eventi in corso oltre la frontiera iraniana. I rivoltosi se la presero con ogni sorta di bersaglio, compresi i russi residenti in città, che furono massacrati da una folla inferocita. 22 L’agitazione si estese di lì a poco ad altre città, compresa Jalalabad, dove unità militari afghane rifiutarono di contrastare il movimento e si rivoltarono, invece, contro i loro consiglieri sovietici, uccidendoli. 23 L’URSS reagì a questi eventi con cautela, e il senescente Politburo concluse che si dovesse sostenere la pur irritante dirigenza afghana dal grilletto facile, alcuni dei cui membri avevano rapporti di vecchia data con l’Unione Sovietica, in modo da aiutarla a controllare i disordini che, intanto, erano scoppiati anche a Kabul. Furono prese, quindi, diverse misure per rilanciare il regime, guidato stavolta dal presidente Nur Muḥammad Taraki, ben visto da Mosca e considerato da alcuni, per i suoi scritti su «temi del socialismo scientifico», alla stregua di un «Maksim Gor’kij dell’Afghanistan», davvero un elogio non da poco. 24 Generosi rifornimenti di grano e di altri prodotti alimentari furono inviati da oltreconfine, e vennero condonati i pagamenti degli interessi su prestiti rilevanti. Per contribuire a
rimpinguare le casse del governo, i sovietici si offrirono anche di pagare il gas afghano più del doppio di quanto lo avevano pagato per tutto il decennio precedente. 25 Pur respingendo le richieste di armi chimiche e di gas tossico, Mosca fornì assistenza militare inviando 140 pezzi di artiglieria, 48.000 fucili e quasi 1000 lanciagranate. 26 Di tutto ciò si prendeva nota a Washington, dove le implicazioni del «graduale ma inequivocabile» aumento dell’impegno sovietico in Afghanistan venivano attentamente valutate. Se l’Unione Sovietica avesse fornito assistenza militare diretta a Taraki e inviato truppe, osservava un rapporto di alto livello, ci sarebbero state conseguenze non soltanto in Afghanistan, ma lungo tutta la spina dorsale dell’Asia, in Iran, in Pakistan e in Cina, e anche oltre. 27 L’incertezza su quanto sarebbe accaduto in seguito fu messa in evidenza dall’assassinio dell’ambasciatore USA a Kabul, nel febbraio 1979. Pochi giorni dopo il ritorno in patria di Khomeini, il veicolo blindato dell’ambasciatore Adolph Dubs fu sequestrato in pieno giorno per le strade della capitale afghana, a un finto posto di blocco della polizia. L’ambasciatore fu portato all’hotel Kabul (oggi il lussuoso Kabul Serena Hotel), dove fu tenuto in ostaggio per qualche ora prima di essere ucciso durante un improvvisato tentativo di liberazione. 28 Malgrado l’incertezza sull’identità dei mandanti e sulle ragioni del rapimento, ce n’era a sufficienza per spingere gli Stati Uniti a un impegno più diretto nelle vicende afghane. Gli aiuti al paese furono immediatamente sospesi, e fu dato sostegno agli anticomunisti e ad altri oppositori del nuovo governo. 29 Questo segnò l’inizio di un lungo periodo durante il quale gli Stati Uniti cercarono spontaneamente e attivamente di cooperare con gli islamisti, i cui interessi nell’opporsi al programma di riforme varato dal regime di sinistra erano naturalmente allineati con quelli americani. Ci vollero decenni perché diventasse chiaro qual era il prezzo di questo accordo. Dietro questa nuova impostazione c’era il timore che l’Afghanistan potesse cadere in mano ai sovietici, che nella seconda metà del 1979 sembravano prepararsi all’intervento militare. La questione delle intenzioni sovietiche salì al primo posto nell’ordine del giorno delle riunioni dell’intelligence USA e divenne argomento di una valanga di
documenti di sintesi sugli sviluppi più recenti, ma neppure in questo modo si riuscì a capire quanto stava accadendo. 30 Un rapporto presentato al Consiglio per la sicurezza nazionale con il titolo Che cosa stanno facendo i sovietici in Afghanistan? forniva una risposta che non poteva essere biasimata per il suo candore: «Semplicemente, non lo sappiamo». 31 Se da una parte era difficile venire a capo di ciò che aveva in mente Mosca, dall’altra era ovvio che la caduta dello scià significava che gli USA avevano perso il loro principale alleato nella regione. E si aveva l’inquietante sensazione che un effetto domino stesse per peggiorare ulteriormente la situazione. I sovietici nutrivano esattamente la stessa preoccupazione. Gli eventi in corso in Iran non avevano procurato loro alcun vantaggio, e in realtà erano considerati da Mosca dannosi per gli interessi dell’URSS, in quanto la presa del potere da parte di Khomeini, più che dischiudere opportunità, le aveva ridotte. I militari sovietici predisposero quindi piani d’emergenza per un consistente dispiegamento di forze qualora si rendesse necessario consolidare quello che il segretario generale del PCUS Leonid Brežnev chiamava «il governo della nazione amica dell’Afghanistan». Gli USA , che tenevano sotto controllo i movimenti di truppe a nord sia del confine iraniano sia di quello afghano, registrarono l’invio a Kabul di un reparto di forze speciali Specnaz, insieme a un battaglione di paracadutisti che, concluse la CIA , erano stati schierati per proteggere la base aerea di Bagram, il principale punto di accesso per i rifornimenti sovietici. 32 In questa fase critica entrò improvvisamente in gioco il futuro dell’Afghanistan. Nel settembre 1979 una lotta di potere portò alla rimozione di Nur Muḥammad Taraki a opera di Hafizullah Amin, un uomo tanto ambizioso quanto difficile da decifrare. Era stato esplicitamente stroncato come possibile leader in alcuni editoriali apparsi sulla «Pravda», l’organo ufficiale che nell’URSS rifletteva l’opinione del Politburo. 33 Ora a Mosca veniva denunciato come un nemico della rivoluzione, un uomo che cercava di manipolare ai propri fini le rivalità tribali, e «una spia dell’imperialismo americano». 34 I sovietici erano preoccupati anche delle voci che Amin fosse stato reclutato dalla CIA : una diceria che era stata vigorosamente
diffusa anche dai suoi nemici in Afghanistan. 35 I verbali delle riunioni del Politburo dimostrano che la leadership di Mosca reagì con estrema apprensione al riorientamento di Amin verso gli USA , e al gran desiderio di questi ultimi di sostenere un governo amico a Kabul. 36 Intanto i sovietici stavano diventando sempre più ansiosi. I frequenti incontri di Amin, prima del suo putsch, con il facente funzione di capo della missione USA in Afghanistan sembravano indicare che Washington si stava riposizionando dopo il catastrofico fallimento della sua politica in Iran. Quando Amin, subito dopo aver preso il potere, si fece sempre più aggressivo nei rapporti con i sovietici a Kabul e, al tempo stesso, mostrò segnali di apertura nei confronti degli USA , si rese necessario passare all’azione. 37 Se l’URSS non avesse perseverato nel sostenere i suoi alleati adesso, era il ragionamento, sarebbe stata sconfitta non soltanto in Afghanistan ma nell’intera regione. Il generale Valentin Varennikov in seguito raccontò che gli ufficiali di grado più elevato «erano preoccupati del fatto che gli Stati Uniti, se fossero stati cacciati dall’Iran, avrebbero trasferito le loro basi in Pakistan e si sarebbero impadroniti dell’Afghanistan». 38 A impensierire la dirigenza sovietica erano anche gli sviluppi in corso altrove, dai quali ricavava l’impressione che l’URSS fosse forzatamente costretta sulla difensiva. Il Politburo discusse di come Washington e Pechino avevano migliorato le loro relazioni alla fine degli anni Settanta, rilevando che anche qui Mosca stava perdendo terreno. 39 Gli Stati Uniti tentavano di creare un «nuovo grande impero ottomano» esteso su tutta l’Asia centrale, dissero a Brežnev i maggiori dirigenti del Partito comunista dell’Unione sovietica nel dicembre 1979; l’assenza di un sistema globale di difesa alimentava questi timori: significava che l’America avrebbe potuto puntare un pugnale al cuore dell’Unione Sovietica. 40 Come dichiarò poco tempo dopo Brežnev in un’intervista alla «Pravda», l’instabilità dell’Afghanistan rappresentava una «grandissima minaccia alla sicurezza dello Stato sovietico». 41 La sensazione di dover fare qualche cosa era palpabile. Due giorni dopo la riunione tra Brežnev e i principali dirigenti, fu dato l’ordine di mettere a punto un piano d’invasione basato su uno
schieramento iniziale di 75.000-80.000 uomini. Il capo di stato maggiore, generale Nikolaj Ogarkov, un pragmatico ufficiale della vecchia scuola, reagì con veemenza. Ingegnere di formazione, Ogarkov sostenne che tale forza sarebbe stata di gran lunga troppo esigua per riuscire a tenere sotto controllo le vie di comunicazione e a difendere le posizioni chiave in tutto il paese. 42 Ma fu messo a tacere dal ministro della Difesa, Dmitrij Ustinov, un sopravvissuto politico di consumata abilità, incline a fare pompose affermazioni sulla brillante tradizione delle forze armate sovietiche: la loro abilità in combattimento, disse, era garanzia della capacità di «portare a compimento qualsiasi incarico assegnato dal partito e dal popolo». 43 Che lo credesse veramente è un conto, ma ciò che importava adesso era che lui e la sua generazione di veterani della seconda guerra mondiale, la cui capacità di comprendere il mondo in mutamento si stava rapidamente affievolendo, erano certi che gli americani stessero progettando di soppiantare l’URSS . Sembra che Ustinov, verso la fine del 1979, si sia domandato: «Se [loro possono] fare tutti questi preparativi sotto il nostro naso, perché noi dovremmo starcene acquattati, fare i prudenti e perdere l’Afghanistan?». 44 Il 12 dicembre, in un una riunione del Politburo, Ustinov e un gruppo di anziani ingrigiti come Leonid Brežnev, Andrej Gromyko, Jurij Andropov e Konstantin Černenko, diedero ufficialmente il via libera a un dispiegamento di truppe sovietiche in Afghanistan. 45 Non era stata una decisione facile da prendere, aveva detto Brežnev, secondo quanto riportò la «Pravda» qualche settimana più tardi. 46 Un paio di settimane dopo la riunione, la vigilia di Natale del 1979, le forze sovietiche cominciarono a dilagare oltre il confine nell’ambito dell’Operazione Štorm 333. Non si trattava di un’invasione, dichiarò Ustinov ai comandanti dell’esercito che guidavano le truppe in territorio afghano, attenendosi a una linea che sarebbe stata ribadita innumerevoli volte dai diplomatici e dai politici sovietici nel corso del decennio successivo; era piuttosto il tentativo di riportare la stabilità in un periodo in cui «la situazione politica e militare in Medio Oriente» era in tumulto, e in seguito alle richieste del governo di Kabul «di prestare assistenza internazionale all’amico popolo
afghano». 47 Dal punto di vista di Washington, il momento non avrebbe potuto essere peggiore. Nonostante i timori sovietici circa l’espansione statunitense in Afghanistan, stava diventando penosamente chiaro fino a che punto arrivasse la debolezza americana in tutta la regione. Partito dall’aeroporto di Teheran all’inizio del 1979, lo scià era passato da un paese all’altro in cerca di una residenza permanente. Nell’autunno il presidente Carter era stato sollecitato dai membri più autorevoli della sua amministrazione a consentire a un uomo morente, che era stato un amico fedele degli Stati Uniti, di entrare nel paese per sottoporsi a cure mediche. Mentre si discuteva della cosa, il nuovo ministro degli Esteri di Khomeini disse ai consiglieri del presidente in tono categorico che «con questo state aprendo il vaso di Pandora». 48 La documentazione della Casa Bianca mostra che Carter era consapevole di quanto alta fosse la posta in gioco, se avesse consentito allo scià di entrare negli USA . «Che cosa mi consigliate di fare, gente, se [gli iraniani] invadono la nostra ambasciata e prendono in ostaggio i nostri?» chiese il presidente. Non ricevette risposta. 49 Il 4 novembre, due settimane dopo l’ingresso dello scià nel Cornell Medical Center di New York, studenti militanti iraniani assalirono gli agenti di sicurezza dell’ambasciata USA a Teheran e assunsero il controllo del complesso, prendendo in ostaggio sessanta membri del corpo diplomatico. Sebbene l’intento iniziale fosse stato, a quanto pare, quello di inscenare una breve ed energica protesta contro la decisione di ammettere lo scià negli USA , la cosa ebbe una rapida escalation. 50 Il 5 novembre l’ayatollah Khomeini espresse il suo commento sulla situazione dell’ambasciata americana. Le sue parole non furono moderate, e tantomeno fece un appello alla calma. Le ambasciate di Teheran, dichiarò, erano terreni di coltura per «complotti sotterranei [che] vengono orditi» per abbattere la Repubblica islamica dell’Iran. In prima linea nell’orchestrare questi complotti, proseguì, c’era «il grande Satana, l’America». Con ciò richiese agli USA di consegnare «il traditore», in modo che potesse affrontare la giustizia. 51
I tentativi iniziali degli americani di disinnescare la situazione oscillarono tra l’inetto e l’improvvisato. Un inviato si vide negare recisamente un’udienza con l’ayatollah e non fu in grado di consegnare la sua lettera, recante un appello personale del presidente Carter a Khomeini. Nel frattempo, a un altro inviato fu dato l’incarico di aprire trattative con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP ), i cui membri erano implicati in attacchi terroristici come il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, e il cui obiettivo principale era la costituzione di uno Stato palestinese a spese di Israele. Se la rivelazione del fatto che gli Stati Uniti stavano cercando di utilizzare l’OLP come canale per arrivare agli iraniani suscitò un certo imbarazzo, ancor di più lo fece la notizia che gli iraniani non intendevano consentire all’OLP di svolgere un ruolo di mediazione nella crisi. 52 Il presidente Carter decise allora di intraprendere un’azione più incisiva, che non soltanto sbloccasse la situazione degli ostaggi, ma servisse anche come dichiarazione d’intenti volta a chiarire che, sebbene lo scià fosse caduto, gli USA erano una forza con cui fare i conti nel centro dell’Asia. Il 12 novembre 1979, in un tentativo di mettere sotto pressione finanziaria il regime di Khomeini, Carter annunciò un embargo sul petrolio iraniano. «Nessuno» dichiarò nel darne notizia «dovrebbe sottovalutare la determinazione del governo e del popolo americano.» 53 Due giorni dopo il presidente si spinse ancora oltre, emanando un ordine esecutivo che congelava beni iraniani per un valore di 12 miliardi. Questa azione decisa ebbe effetti positivi all’interno, e Carter beneficiò di quello che fu descritto come il picco di popolarità di un presidente da quando i sondaggi Gallup erano stati inventati. 54 La dimostrazione di forza ebbe però scarso effetto sulla situazione degli ostaggi. L’embargo sul petrolio fu liquidato da Teheran come ininfluente. «Il mondo ha bisogno di petrolio» disse l’ayatollah Khomeini in un discorso una settimana dopo l’annuncio di Carter. «Il mondo non ha bisogno dell’America. È a noi che abbiamo il petrolio, non a voi, che si rivolgeranno altri paesi.» 55 L’embargo non era comunque facile da imporre da un punto di vista logistico, dato che il
petrolio iraniano passava spesso da terze vie, e quindi avrebbe potuto ugualmente arrivare negli USA . Inoltre, poiché il boicottaggio esercitava comunque una pressione sull’offerta, rischiava inevitabilmente di far lievitare i prezzi, giocando in definitiva a favore del regime iraniano incrementandone le entrate. 56 Il sequestro dei beni suscitava non poche paure nel mondo arabo, che nell’azione degli Stati Uniti vedeva un temibile precedente, e la situazione di stallo non fece che acuire i dissensi politici con i paesi che, come l’Arabia Saudita, non condividevano la politica di Washington in Medio Oriente, in particolare rispetto a Israele. 57 Così, un rapporto della CIA stilato qualche settimana dopo l’introduzione dell’embargo concludeva: «È improbabile che le nostre attuali pressioni economiche abbiano un qualsiasi effetto positivo; [anzi] il loro impatto può essere negativo». 58 Inoltre, molti paesi occidentali erano riluttanti a farsi trascinare nell’escalation di una crisi con Teheran. «Divenne ben presto evidente» scrisse Carter «che anche i nostri alleati più stretti in Europa non si sarebbero esposti a potenziali boicottaggi petroliferi, né avrebbero messo a rischio i loro accordi diplomatici per gli ostaggi americani.» L’unico modo per indurre a una riflessione era avanzare «la minaccia diretta di ulteriori mosse da parte degli Stati Uniti». 59 Il segretario della Difesa di Carter, Cyrus Vance, fu quindi inviato in giro per le capitali dell’Europa occidentale con il messaggio che, se non fossero state imposte sanzioni all’Iran, gli USA avrebbero intrapreso azioni unilaterali, non escludendo l’ipotesi di minare il golfo Persico, se necessario. 60 Ciò avrebbe avuto naturalmente un effetto sui prezzi del petrolio, e quindi sulle economie sviluppate. Per esercitare pressione su Teheran, Washington era costretta a minacciare i propri sostenitori. Fu su questo drammatico sfondo di misure disperate, controproducenti e malamente concepite nell’intento di imporre un accomodamento in Iran che agli USA giunse la notizia che le colonne sovietiche stavano marciando verso sud, dirette in Afghanistan. I dirigenti statunitensi furono colti completamente di sorpresa. Quattro giorni prima dell’invasione, il presidente Carter e i suoi consiglieri
avevano valutato piani di occupazione delle isole al largo della costa iraniana e predisposto operazioni militari segrete per rovesciare Khomeini. Una situazione inquietante era diventata critica. 61 Già alle prese con la disastrosa vicenda degli ostaggi, gli Stati Uniti adesso erano costretti a fare i conti con una massiccia espansione della potenza sovietica nella regione. Inoltre, le valutazioni di Washington combaciavano con quelle di Mosca: con ogni probabilità, una mossa in Afghanistan era destinata a fare da preludio all’ulteriore espansione di una superpotenza a spese dell’altra. Era verosimile che le mire sovietiche fossero rivolte, dopo l’Afghanistan, all’Iran, dove si prospettavano disordini provocati da agitatori, come suggerì un rapporto dei servizi d’informazione all’inizio del 1980. Carter doveva pertanto cominciare a considerare l’eventualità che si rendesse necessario «essere pronti a inviare forze USA in Iran». 62 Il presidente americano alzò i toni della retorica nel discorso sullo stato dell’Unione del 23 gennaio 1980. L’invasione sovietica dell’Afghanistan, disse, significava che una regione di «grande importanza strategica» adesso era sotto minaccia; la mossa di Mosca aveva eliminato un cuscinetto e aveva portato l’URSS a tiro non soltanto di un’area che «contiene oltre due terzi del petrolio esportabile del mondo», ma anche del cruciale stretto di Hormuz, «dal quale deve passare gran parte del petrolio mondiale». Dopodiché scandì una minaccia attentamente formulata. «La nostra posizione deve essere assolutamente chiara» disse. «Qualsiasi tentativo da parte di una forza esterna di acquisire il controllo della regione del golfo Persico sarà considerato un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America, e un simile attacco sarà respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare.» Si trattava di una dichiarazione provocatoria, che riassumeva perfettamente l’atteggiamento nei confronti del petrolio del Medio Oriente e della posizione costruita inizialmente dalla Gran Bretagna e poi ereditata dagli Stati Uniti: qualunque tentativo di modificare lo status quo avrebbe incontrato una feroce opposizione. Questa era politica imperiale a tutti gli effetti, tranne che nel nome. 63 Le parole altisonanti di Carter, però, contrastavano con quanto
stava accadendo sul campo. I colloqui con gli iraniani sul rilascio degli ostaggi, proseguiti dietro le quinte, stavano diventando sempre più farseschi. Non soltanto avvenivano fra rappresentanti di Teheran e un assistente presidenziale che ad alcuni incontri indossava una parrucca, baffi finti e occhiali; ma, mentre si svolgevano, l’ayatollah Khomeini continuava a fare discorsi sugli «Stati Uniti che divorano il mondo» e su come si dovesse dare una lezione al «grande Satana». 64 Alla fine, nell’aprile 1980, il presidente Carter decise di mettere un punto alla vicenda e autorizzò l’Operazione Eagle Claw (Artiglio d’Aquila), una missione segreta per liberare gli ostaggi da Teheran e portarli in salvo. Il risultato fu un fiasco da far arrossire uno scolaretto. Otto elicotteri partiti dalla portaerei a propulsione nucleare USS Nimitz dovevano incontrarsi con un’unità terrestre in una località nei pressi di Tabas, nell’Iran centrale, dove sarebbero stati guidati dal colonnello Charlie Beckwith e da una nuova unità di truppe scelte, battezzata Delta Force. L’operazione si rivelò da subito un fallimento: un elicottero tornò indietro a causa delle condizioni atmosferiche; un altro ebbe un guasto a un rotore e fu abbandonato intatto, mentre di un terzo si scoprì che aveva un sistema idraulico danneggiato. Beckwith concluse che non era più possibile portare a termine la missione e ottenne dal presidente il permesso di interromperla. Mentre gli elicotteri facevano ritorno alla Nimitz, uno di essi si avvicinò troppo a un aereo da rifornimento C-130, provocando un’esplosione che abbatté entrambi e costò la vita a otto militari americani. 65 Fu un disastro anche sul piano della propaganda. Khomeini, com’era prevedibile, lo dipinse come un atto della divina provvidenza. 66 Altri rimasero attoniti per l’inettitudine mostrata nella missione fallita. Il fatto che gli Stati Uniti non fossero riusciti a ottenere la liberazione degli ostaggi né con il negoziato né con la forza dava ampia dimostrazione di quanto il mondo stesse cambiando. Ancor prima del fallimento della missione di salvataggio, alcuni dei consiglieri del presidente pensavano che fosse necessario agire con decisione in modo da non apparire impotenti. «Dobbiamo fare qualcosa» disse Zbigniew Brzezinski, il consigliere per la sicurezza
nazionale del presidente, «per rassicurare gli egiziani, i sauditi e gli altri paesi della Penisola arabica che gli USA sono pronti a far valere la loro potenza.» E ciò significava stabilire «subito una visibile presenza militare nell’area». 67 Ma gli Stati Uniti non erano soli nel tentativo di trovare una risposta a questi eventi tumultuosi che consentisse loro di tutelare i propri interessi e la propria reputazione. Il 22 settembre l’Iraq lanciò un attacco a sorpresa all’Iran, bombardandone gli aerodromi e iniziando un’invasione terrestre lungo tre direttrici che puntavano sulla provincia del Khūzestān e le città di Ābādān e Khorramshahr. Gli iraniani non ebbero dubbi su chi vi fosse dietro questi attacchi. «Dalla manica di Saddam» tuonò Khomeini «[erano] uscite le mani dell’America.» 68 L’attacco, sostenne il presidente Bani-Sadr, era il frutto di un piano generale americano-iracheno-israeliano le cui finalità erano variamente descritte come tentativi di deporre il governo islamico, di riportare sul trono lo scià o di imporre la disintegrazione dell’Iran in cinque repubbliche. In ogni caso, affermava, Washington aveva fornito agli iracheni il piano per l’invasione. 69 Sebbene l’idea che dietro l’attacco iracheno ci fossero gli USA sia stata sostenuta da alcuni commentatori e ripetuta da molti altri, ci sono poche prove solide a sostegno di questa tesi. Al contrario, le fonti – che comprendono milioni di pagine di documenti, registrazioni audio e trascrizioni recuperate nel 2003 nel palazzo presidenziale a Baghdad – indicano chiaramente che Saddam aveva agito da solo, scegliendo un momento favorevole per colpire un vicino instabile con cui aveva molti conti da regolare, essendo uscito perdente cinque anni prima da una serie di aggiustamenti territoriali. 70 Questi documenti mostrano che l’intelligence irachena aveva intensificato fortemente l’attività di raccolta d’informazioni nei mesi precedenti l’attacco, quando evidentemente a Baghdad si cominciava a pensare a un’invasione a sorpresa. 71 Saddam era stato spinto anche da una dose massiccia di insicurezza e da una marcata vena di megalomania. Era ossessionato da Israele e
dall’incapacità degli arabi di sconfiggere un paese che era «una longa manus degli Stati Uniti d’America e degli inglesi», e al tempo stesso lamentava che qualunque azione aggressiva intrapresa dagli arabi contro Israele avrebbe indotto l’Occidente a decidere una rappresaglia contro l’Iraq. Se attaccassimo Israele, ammoniva i suoi alti ufficiali, gli americani «lancerebbero una bomba atomica su di noi». Il «primo bersaglio» dell’azione occidentale «sarà Baghdad, non Damasco o Amman». 72 In qualche modo, nella mente di Saddam, la conclusione sembrava obbligata: un attacco contro Israele avrebbe messo l’Iraq a rischio di annientamento; pertanto si doveva dare la precedenza a un attacco all’Iran. Il binomio Israele-Iran ricorreva con una certa frequenza nella tronfia retorica utilizzata tanto da Saddam quanto dai personaggi più autorevoli della dirigenza irachena, che parlavano in toni esaltati di un Iraq destinato ad assumere la guida degli arabi di ogni paese. L’attacco del 1980 all’Iran fu presentato come un esempio di rivendicazione di terre che erano state «estorte» durante l’aggiustamento territoriale del 1975. Questa mossa avrebbe incoraggiato altri, disse Saddam ai suoi alti ufficiali, e avrebbe spronato «tutta la gente» cui erano state sottratte le terre a sollevarsi e a pretendere a sua volta ciò che era suo di diritto: un messaggio rivolto soprattutto ai palestinesi. 73 Saddam si convinse che l’invasione dell’Iran avrebbe giovato alla causa degli arabi in generale. Se era una simile logica perversa a guidarlo, non c’era molto da meravigliarsi che il primo ministro di Israele, Menachem Begin, prendesse a descrivere l’Iraq di Saddam come «il più irresponsabile di tutti i regimi arabi, con la possibile eccezione di Gheddafi». 74 Saddam, inoltre, era stato turbato dalla rivoluzione iraniana, e andava borbottando che la rimozione dello scià e l’ascesa dell’ayatollah Khomeini erano «esclusivamente una decisione americana». I disordini erano il punto di partenza di un piano generale, dichiarò, che si sarebbe servito del clero musulmano per «spaventare la gente del Golfo in modo che [gli americani] potessero avervi una presenza e potessero plasmare la situazione nella regione» come meglio credevano. 75 Questo genere di paranoia si mescolava a
momenti di genuina lucidità, come quando il leader iracheno colse immediatamente il significato dell’entrata sovietica in Afghanistan, e si rese conto di che cosa ciò volesse dire per l’Iraq. Forse l’URSS avrebbe fatto la stessa cosa in futuro per arrivare a Baghdad, chiese; anche in Iraq sarebbero stati istituiti governi fantoccio, con la scusa di portare aiuto? «È questo», chiese a Mosca, il modo in cui tratterete gli altri vostri «amici in futuro»? 76 Le sue apprensioni non fecero che aumentare mentre l’URSS si dava da fare per trarre vantaggio dal sentimento antiamericano diffuso in Iran e cominciava a corteggiare Khomeini e la sua cerchia. 77 Saddam comprese che anche questo era potenzialmente dannoso e che l’Iraq rischiava di essere abbandonato da Mosca in favore del suo vicino. «La penetrazione sovietica nella regione … dovrebbe essere controllata» disse ad alcuni diplomatici giordani nel 1980. 78 Sentendosi sempre più isolato, era pronto a prendere le distanze dai suoi protettori sovietici, che negli anni Settanta avevano costantemente appoggiato la sua ascesa al potere. La disillusione di Saddam fu una delle ragioni per cui i sovietici non furono informati dell’imminente attacco fino al giorno prima che fosse sferrato, il che produsse una reazione gelida da parte di Mosca. 79 A quel punto, secondo i rapporti dei servizi d’informazione iracheni, il fatto che l’Iran soffrisse di una «crisi economica soffocante» e non fosse in condizione di «difender[si] su vasta scala», rappresentava un’opportunità troppo favorevole per lasciarsela sfuggire. 80 La caduta dello scià aveva messo in moto una straordinaria catena di eventi. Alla fine del 1980, l’intero centro dell’Asia era in uno stato fluido. Il futuro dell’Iran, quello dell’Iraq e quello dell’Afghanistan erano in bilico, dipendendo dalle scelte compiute dai loro leader e dall’intervento di forze esterne. Indovinare come sarebbero andate le cose in ciascuno di questi paesi, per non parlare della regione nel suo complesso, era pressoché impossibile. La reazione degli Stati Uniti fu il tentativo di cavarsela tenendo i piedi in tutte le scarpe. I risultati furono disastrosi: se era vero che i semi del sentimento antiamericano erano stati gettati già prima nel corso del XX secolo, non era affatto inevitabile che questi si trasformassero in odio sfrenato. Ma le
decisioni politiche prese dagli USA negli ultimi due decenni del secolo avrebbero avuto l’effetto di avvelenare gli animi in tutta la regione compresa tra il Mediterraneo e l’Himalaya. Certo, all’inizio degli anni Ottanta gli Stati Uniti avevano una mano difficile da giocare. Inizialmente l’attacco iracheno parve una fortuna insperata ai dirigenti USA , che vedevano nell’aggressione di Saddam Hussein un’opportunità per riprendere i contatti con Teheran. Brzezinski, stando a un autorevole consulente che partecipava alle riunioni sulla crisi indette in questo periodo, «non faceva mistero del fatto che l’attacco iracheno era uno sviluppo potenzialmente positivo, che avrebbe aumentato la pressione sull’Iran per il rilascio degli ostaggi». 81 La pressione sul regime di Khomeini era amplificata dalla consapevolezza che, per rispondere all’attacco, l’Iran aveva un disperato bisogno dei pezzi di ricambio per gli armamenti precedentemente acquistati dagli USA . Agli iraniani fu fatto sapere che Washington sarebbe forse stata disposta a fornire i materiali in questione – il cui valore era dell’ordine delle centinaia di milioni di dollari – se gli ostaggi fossero stati rilasciati. Teheran si limitò a ignorare l’avance, che aveva avuto l’approvazione personale del presidente Carter. 82 Ancora una volta, l’Iran era un passo avanti: i suoi agenti si erano dimostrati intraprendenti, comprando gli agognati ricambi altrove, perfino dal Vietnam, che aveva ingenti scorte di armamenti USA catturati durante la guerra. 83 L’Iran veniva massicciamente rifornito anche da Israele, che aveva deciso che Saddam Hussein andava fermato a tutti i costi. La disponibilità degli iraniani e degli israeliani a fare affari tra loro era per molti versi sorprendente, soprattutto alla luce del modo sprezzante in cui Khomeini in particolare parlava regolarmente degli ebrei e di Israele. «L’islam e il suo popolo trovarono il loro primo sabotatore nel popolo ebraico, che è all’origine di ogni calunnia e di ogni intrigo antislamico» aveva scritto nel 1970. 84 Iran e Israele si erano trasformati in improbabili alleati grazie all’intervento di Saddam Hussein nel Golfo. Questa era una delle ragioni per cui la retorica di Khomeini nei confronti delle minoranze e delle altre religioni nei primi anni Ottanta
si ammorbidì, allorché si riferiva al giudaismo come a «una religione rispettabile sorta tra la gente comune», pur distinguendolo dal sionismo, che almeno ai suoi occhi era un movimento politico (e parassitario) essenzialmente contrapposto alla religione. Questo mutamento di posizione nei confronti dei diversi culti era di portata così ampia che la Repubblica islamica dell’Iran arrivò a emettere francobolli con una silhouette di Gesù Cristo e un versetto del Corano scritto in armeno. 85 Non era soltanto in fatto di vendite di armi che Israele e l’Iran cooperavano, ma anche nelle operazioni militari. Uno specifico bersaglio di comune interesse era il reattore nucleare iracheno Osirak. Secondo un agente dei servizi d’informazione, una missione di attacco all’impianto era stata discussa da rappresentanti iraniani e israeliani durante colloqui segreti tenuti a Parigi ancor prima dell’inizio dell’aggressione di Saddam. 86 Poco più di una settimana dopo il lancio dell’attacco iracheno contro l’Iran, il reattore fu oggetto di un audace raid di quattro jet F-4 Phantom iraniani, che colpirono i laboratori di ricerca e l’edificio del centro di controllo. Otto mesi più tardi, nel giugno 1981, i piloti dei caccia israeliani fecero di meglio, danneggiando gravemente il reattore in un momento in cui era ampiamente diffuso il timore che stesse per raggiungere la criticità. 87 L’attacco iracheno all’Iran era stato concepito in vista di una vittoria rapida e facile. Inizialmente, nonostante il raid su Osirak, la situazione era sembrata promettente per Baghdad. Ma con il passare del tempo le cose cominciarono a mettersi male per l’Iraq. L’URSS punì Saddam per la sua azione unilaterale negandogli le forniture di armi e sospendendone gli invii, lasciando così il leader iracheno frustrato e a corto di opzioni. Ammettendo francamente che la guerra non andava bene come si era aspettato, questi riuniva regolarmente intorno a sé i suoi fedelissimi per lamentarsi, inventando un’inverosimile cospirazione internazionale dopo l’altra per giustificare gli insuccessi. Ma la sostanza era che sempre più gli iracheni si ritrovavano superati in combattimento e inferiori per armamenti. In un’occasione, alla metà del 1981, Saddam chiese ai suoi generali in tono quasi disperato: «Adesso cerchiamo di comprare armi sul mercato nero. Non possiamo
procurarcene nello stesso modo in cui riescono a farlo gli iraniani?». 88 In effetti, l’Iran si stava dimostrando ricco di risorse, in ripresa, e sempre più ambizioso. Con l’estate del 1982 le truppe iraniane non soltanto erano riuscite a espellere gli iracheni dai territori che avevano conquistato, ma erano anche penetrate a loro volta oltre la frontiera. Nel giugno di quell’anno uno speciale rapporto d’intelligence preparato dalla statunitense National Security Agency dipingeva un quadro inequivocabile: «L’Iraq ha sostanzialmente perso la guerra con l’Iran … Non c’è molto che gli iracheni possano fare, da soli o in collaborazione con altri arabi, per rovesciare la situazione militare». 89 Con il vento in poppa, ora gli iraniani cercavano di diffondere in altri paesi l’idea di rivoluzione islamica. Finanziamenti e supporto logistico furono forniti alle forze radicali sciite in Libano e a organizzazioni come Hezbollah (il Partito di Dio), mentre si tentava di fomentare disordini a Mecca e di sostenere un colpo di stato in Bahrein. «Credo che gli iraniani rappresentino senza alcun dubbio una minaccia capitale per i paesi del Medio Oriente» disse, a quanto riferito, il segretario alla Difesa Caspar Weinberger nel luglio 1982. «Sono un paese in mano a una banda di pazzi.» 90 Paradossalmente, quindi, le crescenti difficoltà in cui versava l’Iraq di Saddam Hussein erano un dono del cielo per gli USA. Sebbene gli ostaggi dell’ambasciata, dopo essere stati trattenuti per oltre un anno, fossero stati finalmente lasciati partire da Teheran in seguito a un accordo stretto dietro le quinte, la fine dello stallo non aveva segnato un miglioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Iran. Per contro, i sovietici continuavano a corteggiare Khomeini, come la CIA rilevava con allarme. L’URSS sembrava avere a sua volta il vento in poppa, specialmente alla luce del suo apparente successo in Afghanistan, dove le truppe avevano occupato le città e messo al sicuro le principali vie di comunicazione e sembravano, quantomeno dall’esterno, avere il controllo della situazione. La pressione diplomatica esercitata sull’Unione Sovietica, nel quadro della quale rientrava anche il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980, non diede risultati tangibili. Dal punto di vista di Washington, c’era poco su cui puntare
le speranze, finché ai dirigenti non venne in mente che c’era una mossa ovvia da fare: sostenere Saddam. Come disse più tardi il segretario di Stato George Shultz, se l’Iraq avesse continuato a ritirarsi, il paese sarebbe potuto facilmente andare incontro a un collasso, il che avrebbe rappresentato «un disastro strategico per gli Stati Uniti». 91 Oltre a causare turbolenza in tutto il golfo Persico e in tutto il Medio Oriente, ciò avrebbe portato a un rafforzamento della posizione di Teheran sui mercati internazionali del petrolio. Lentamente ma con sicurezza emerse una nuova linea politica. Gli USA decisero di puntare forte sull’Iraq: era la casella della scacchiera dove maggiori erano le possibilità di Washington di riuscire a influenzare quanto accadeva nel centro dell’Asia. Aiutare Saddam era un modo per rimanere impegnati nell’area, oltre che per contrastare l’avanzata sia dell’Iran sia dell’Unione Sovietica. Il sostegno assunse varie forme. Dopo aver depennato l’Iraq dall’elenco degli Stati fiancheggiatori del terrorismo, gli USA si attivarono per contribuire a puntellarne l’economia, accrescendo il credito finanziario a supporto del settore agricolo e consentendo a Saddam di acquistare prima attrezzature non militari e poi tecnologia a duplice uso, come camion pesanti che potevano essere utilizzati per trasportare equipaggiamento in prima linea. I governi dell’Europa occidentale furono incoraggiati a vendere armi a Baghdad, mentre la diplomazia USA lavorava senza sosta per convincere altre potenze regionali, come il Kuwait e l’Arabia Saudita, a contribuire al finanziamento della spesa militare irachena. Le informazioni raccolte dagli agenti USA cominciarono a essere trasmesse a Baghdad, spesso tramite il re Hussein di Giordania, un intermediario fidato. 92 L’amministrazione americana guidata dal presidente Reagan aiutò l’Iraq anche a incrementare le esportazioni di petrolio – e quindi pure le entrate – incoraggiando e facilitando un prolungamento degli oleodotti fino all’Arabia Saudita e alla Giordania, in modo da superare i problemi dell’invio attraverso il golfo Persico causati dalla guerra con l’Iran. L’obiettivo era quello di «rettificare lo squilibrio delle esportazioni petrolifere tra Iran e Iraq»: in altre parole, di pareggiare il campo di gioco. 93
Inoltre, dalla fine del 1983, nell’ambito di un’iniziativa battezzata Operation Staunch (Operazione Tamponamento), furono adottate misure concrete per ridurre le vendite di armi e pezzi di ricambio all’Iran, in un tentativo di contenerne i progressi sul campo di battaglia. Ai diplomatici statunitensi fu data istruzione di chiedere alle nazioni ospitanti di «considerare l’opportunità di bloccare qualunque traffico di equipaggiamento militare di qualsiasi origine che possa esistere tra il vostro paese e l’Iran», finché non fosse stato concordato un cessate il fuoco nel Golfo. I diplomatici dovevano sottolineare che i combattimenti stavano «minacciando tutti i nostri interessi»; era imperativo, affermavano le istruzioni, «diminuire la capacità dell’Iran di prolungare la guerra». 94 Questa misura era volta anche a guadagnare la fiducia degli iracheni e di Saddam, che continuavano a nutrire una profonda diffidenza nei confronti degli Stati Uniti e dei loro moventi, malgrado tutti gli sforzi compiuti. 95 Quando il presidente Reagan, alla fine del 1983, inviò a Baghdad il suo ambasciatore straordinario Donald Rumsfeld, uno degli obiettivi espliciti di quest’ultimo fu quindi quello di «iniziare un dialogo e stabilire un rapporto personale» con Saddam Hussein. Per usare le parole delle istruzioni di Rumsfeld, l’emissario doveva rassicurare il leader iracheno che gli USA «avrebbero considerato qualsiasi significativo rovescio delle sorti dell’Iraq una sconfitta strategica per l’Occidente». 96 La missione di Rumsfeld fu giudicata un notevole successo sia dagli americani sia dagli iracheni. Fu inoltre «un ottimo sviluppo» a parere dei sauditi, che erano altrettanto preoccupati dell’esportazione dell’islam sciita in tutto il Medio Oriente a opera di Khomeini. 97 Talmente importante era l’allineamento con l’Iraq che Washington era pronta a minimizzare il ricorso alle armi chimiche da parte di Saddam, che, come riferiva un rapporto, era una pratica «quasi quotidiana». 98 Sforzi per dissuaderne gli iracheni dovevano essere fatti, ma in forma riservata, in modo da «evitare di sorprenderli spiacevolmente con prese di posizione pubbliche». 99 Veniva rilevato altresì che una critica all’uso delle armi chimiche (rigorosamente bandite dal Protocollo di Ginevra del 1925) avrebbe fornito all’Iran
una vittoria propagandistica senza contribuire in alcun modo ad allentare le tensioni. Gli Stati Uniti cercarono di impedire le spedizioni di componenti utilizzati per la fabbricazione del gas «mostarda» (o iprite), ed esercitarono forti pressioni sugli iracheni perché non si servissero delle armi chimiche sul campo di battaglia, soprattutto dopo che l’Iran sottopose la questione alle Nazioni Unite nell’ottobre 1983. 100 Tuttavia, anche quando divenne evidente che gas tossico era stato utilizzato contro l’Iran nel corso dell’Operazione Badr del 1985, nessuna critica venne mossa pubblicamente, a parte blande dichiarazioni secondo le quali gli USA stessi erano fortemente contrari all’uso di armi chimiche. 101 Alla luce di questo, però, era estremamente imbarazzante che la capacità produttiva dell’Iraq, come osservava un alto funzionario americano, fosse resa possibile «principalmente da aziende occidentali, tra le quali forse una filiale estera statunitense». Non ci voleva molto per rendersi conto di come ciò sollevasse scomodi interrogativi sulla complicità con l’acquisizione e l’uso delle armi chimiche da parte di Saddam. 102 Con il tempo, si rinunciò anche ai misurati commenti pubblici e alle istanze riservate rivolte agli alti funzionari iracheni sulle armi non convenzionali. Alla metà degli anni Ottanta, quando i rapporti delle Nazioni Unite conclusero che l’Iraq stava usando sostanze chimiche contro i suoi stessi cittadini, gli Stati Uniti reagirono con il silenzio. Non vi fu traccia di una qualsiasi condanna delle azioni continuate e brutali di Saddam contro la popolazione curda irachena. Nei rapporti militari americani si osservava semplicemente che «agenti chimici» venivano usati con grande frequenza contro obiettivi civili. L’Iraq, per gli Stati Uniti, era più importante dei princìpi del diritto internazionale, e più importante delle vittime. 103 Analogamente, poco si disse o si fece per limitare il programma nucleare in Pakistan, in virtù dell’accresciuta importanza strategica del paese dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan. In tutto il mondo i diritti umani passarono abbondantemente in secondo piano rispetto agli interessi degli USA . Non si era fatto tesoro delle lezioni dell’Iran prerivoluzionario: gli Stati Uniti di certo non desideravano
approvare i cattivi comportamenti, ma era inevitabile che vi fosse un danno per la loro reputazione e un prezzo da pagare se si sostenevano i dittatori e quanti erano pronti a maltrattare le loro stesse popolazioni o dediti a provocare i propri vicini. 104 Un esempio tipico fu l’aiuto dato ai ribelli che in Afghanistan si opponevano all’invasione sovietica e che sulla stampa occidentale divennero noti collettivamente come «mujahidin», letteralmente coloro che s’impegnano nel «jihad». In realtà si trattava di un insieme eterogeneo, formato da nazionalisti, ex ufficiali dell’esercito, fanatici religiosi, capi tribali, opportunisti e mercenari. Erano anche, all’occasione, rivali in competizione tra loro per il reclutamento, per il denaro e le armi, tra le quali le migliaia di fucili semiautomatici e di RPG-7 (lanciagranate con propulsione a razzo) forniti dalla CIA fin dall’inizio del 1980, prevalentemente tramite il Pakistan. Nonostante la sua incoerenza organizzativa, la resistenza alla macchina militare sovietica si dimostrò fastidiosa, costante e capace di demoralizzare. Gli attacchi terroristici divennero una caratteristica essenziale della vita quotidiana delle grandi città afghane, o lungo l’autostrada del Salang e la via che dall’Uzbekistan si dirigeva a sud verso Herat e Kandahar, le arterie principali che pompavano truppe e armamenti dall’URSS in Afghanistan. I rapporti inviati a Mosca sottolineavano il preoccupante aumento del numero degli eventi ostili, oltre alla difficoltà di identificare i responsabili: i ribelli, secondo un memorandum, erano istruiti a mescolarsi alla popolazione locale in modo da non poter essere individuati. 105 Il crescente successo dei ribelli afghani fu impressionante. Nel 1983, per esempio, un’incursione guidata dal comandante Jalaluddin Haqqani riuscì a catturare due carri armati T55, insieme ad armamenti vari come cannoni antiaerei, lanciarazzi e obici, nascondendoli in una rete di tunnel nei dintorni di Khost, vicino al confine pakistano. Queste armi furono poi utilizzate in azioni contro i convogli che passavano allo scoperto lungo le autostrade, e fornirono preziosi strumenti di propaganda per convincere le popolazioni locali che alla potente Unione Sovietica si potevano infliggere duri colpi. 106 Trionfi come questi demoralizzavano le truppe russe, che
reagivano con brutalità. Alcuni soldati scrivevano della propria «sete di sangue» e del desiderio inestinguibile di vendetta provocato dalla vista di colleghi e compagni morti o feriti. Le rappresaglie erano raccapriccianti, con bambini uccisi, donne stuprate e ogni civile sospettato di essere un mujahid. Si creò così un circolo vizioso, in cui un numero crescente di afghani era indotto a sostenere i ribelli. 107 Come ha scritto un osservatore, per i comandanti sovietici rendersi conto che la mazza dell’Armata Rossa non riusciva a rompere la noce di un nemico sfuggente e privo di coordinamento era una cosa che dava da pensare. 108 La forza della rivolta impressionava gli USA , il cui obiettivo non era più quello di contenere l’espansione sovietica in Afghanistan. Verso l’inizio del 1985, infatti, si era cominciato a parlare di sconfiggere l’URSS e di espellere completamente i russi dal paese. 109 In marzo il presidente Reagan firmò la Direttiva 166 sulla sicurezza nazionale, in cui si affermava che «l’obiettivo ultimo della politica [degli USA ] è l’espulsione delle forze sovietiche dall’Afghanistan»; per raggiugerlo, continuava il testo, era necessario «migliorare l’efficienza militare della resistenza afghana». 110 Che cosa questo significasse divenne presto chiaro: un drastico aumento della quantità di armi fornite ai ribelli. La decisione suscitò un prolungato dibattito sull’opportunità di includervi i missili Stinger, temibili lanciatori portatili capaci di abbattere un aereo a una distanza di 5 chilometri e dotati di una precisione notevolmente superiore rispetto ad altre armi disponibili all’epoca. 111 I beneficiari della nuova linea politica erano uomini come Jalaluddin Haqqani, i cui successi militari contro i sovietici e la cui devozione religiosa convinsero il deputato USA Charlie Wilson – più tardi portato sul grande schermo dal brillante successo hollywoodiano La guerra di Charlie Wilson (2007) – a descriverlo come la «virtù personificata». Grazie all’accesso ad armamenti più abbondanti e migliori, Jalaluddin riuscì a costruirsi una posizione di potere nell’Afghanistan meridionale, mentre le sue idee integraliste venivano rafforzate dai successi sul campo, resi possibili dopo il 1985 dal flusso di armi americane. Questo non comportò da parte sua alcuna lealtà
nei confronti degli Stati Uniti. In realtà, doveva diventare una spina nel loro fianco: dopo l’11 settembre, fu definito il terzo uomo più ricercato in Afghanistan. 112 Gli Stati Uniti sostenevano una cinquantina di questi comandanti, versando loro cifre mensili comprese tra i 20.000 e i 100.000 dollari, a seconda dei loro risultati e della loro importanza. Anche dall’Arabia Saudita arrivò un fiume di denaro a sostegno dei mujahidin, effetto delle sue simpatie per la retorica della militanza islamica impiegata dalla resistenza, e della volontà di aiutare i musulmani perseguitati. Uomini di provenienza saudita che, seguendo l’impulso della propria coscienza, andarono a combattere per la causa dell’Afghanistan godevano della più alta considerazione. Personaggi come Osama bin Laden – dotati di importanti conoscenze, di eloquenza e di carisma – erano nella posizione ideale per fungere da canali di distribuzione di ingenti somme di denaro offerte da benefattori della Penisola arabica; e, per converso, il loro accesso a tali risorse ne fece inevitabilmente figure di spicco del movimento stesso dei mujahidin. 113 Il significato di tutto questo doveva diventare evidente in seguito. Anche il sostegno cinese alla resistenza afghana ebbe implicazioni a lungo termine. La Cina aveva dichiarato fin dall’inizio la propria opposizione all’invasione sovietica, che ai suoi occhi era espressione di una politica espansionistica dalle conseguenze negative. La mossa compiuta dall’URSS nel 1979 era una «minaccia alla pace e alla sicurezza in Asia e nel mondo intero», secondo un quotidiano cinese dell’epoca; l’Afghanistan non era il vero obiettivo dei sovietici, che intendevano servirsi del paese semplicemente come di un trampolino per spingersi a sud, verso il Pakistan e l’intero subcontinente». 114 Quanti si opponevano all’esercito sovietico erano quindi attivamente corteggiati anche da Pechino, e riforniti di armi in quantitativi che aumentarono costantemente durante gli anni Ottanta. Di fatto, quando le truppe americane conquistarono le basi dei talebani e di al-Qaeda a Tora Bora, scoprirono grandi riserve di lanciagranate con propulsione a razzo e di lanciamissili a canne multiple di fabbricazione cinese, oltre a mine e fucili inviati dalla Cina in Afghanistan due decenni prima. Con una serie di manovre di cui
anch’essa ebbe poi a pentirsi, la Cina a sua volta incoraggiò, reclutò e addestrò musulmani uiguri nello Xinjiang, per poi aiutarli a prendere contatto e a unirsi ai mujahidin. 115 Da allora la radicalizzazione della Cina occidentale ha rappresentato per Pechino un serio problema. Questo massiccio sostegno rafforzò la resistenza afghana all’Armata Rossa, e i sovietici si ritrovarono sfiniti e costretti a subire ingenti perdite di materiale, uomini e denaro. Nell’agosto 1986, in un deposito alle porte di Kabul, i ribelli fecero saltare una riserva di munizioni stimata in 40.000 tonnellate, per un valore di circa 250 milioni di dollari. Poi, ancora nel 1896, ci fu il trionfo dei missili USA Stinger, che abbatterono tre elicotteri d’assalto MI-24 nei pressi di Jalalabad e si dimostrarono talmente efficaci da rendere necessario un cambiamento nell’uso della copertura aerea in Afghanistan: i piloti sovietici furono costretti a modificare i loro schemi di atterraggio, mentre le missioni aeree venivano compiute perlopiù di notte per ridurre i rischi di abbattimento. 116 Verso la metà degli anni Ottanta le prospettive cominciavano a farsi rosee per Washington. Erano stati compiuti grandi sforzi per ingraziarsi Saddam Hussein e per costruire un rapporto di fiducia con l’Iraq, e in Afghanistan la situazione stava migliorando: le forze sovietiche erano ormai sulla difensiva, e alla fine, dai primi mesi del 1989, non ebbero altra scelta che ritirarsi completamente dal paese. Di fatto, gli Stati Uniti erano riusciti non solo a frustrare i tentativi di Mosca di estendere la propria influenza e autorità nel cuore dell’Asia, ma anche a costruire nuove reti proprie, adattandosi ai modi e ai tempi imposti dalle mutate circostanze. Era un peccato, affermava un documento d’intelligence redatto nella primavera del 1985, che, stante «l’importanza storica e geostrategica dell’Iran», i rapporti tra Washington e Teheran fossero così insoddisfacenti. 117 In realtà, un anno prima, l’Iran era stato ufficialmente bollato come «Stato fiancheggiatore del terrorismo», il che si traduceva nel divieto assoluto di esportazioni e di vendite connesse alle armi, con un rigido controllo sulla tecnologia e l’equipaggiamento a duplice uso, e nell’imposizione di una lunga serie di restrizioni finanziarie ed economiche.
Era una vera disdetta, osservava un altro rapporto risalente più o meno allo stesso periodo, che gli USA non avessero «alcuna carta da giocare» nel rapporto con l’Iran; forse, suggeriva l’autore, valeva la pena prendere in considerazione «una politica più audace, e magari più rischiosa». 118 C’era molto da guadagnare, per entrambe le parti. Essendo Khomeini ormai vecchio e malandato, Washington era ansiosa di identificare la nuova generazione di leader destinata ad ascendere a posizioni di potere. Secondo alcuni rapporti, nella politica iraniana c’era una «fazione moderata» ansiosa di entrare in contatto con gli USA e arrivare a una riconciliazione; un impegno con questi moderati avrebbe favorito la costruzione di legami che probabilmente in futuro si sarebbero rivelati preziosi. A tutto ciò si sommavano le speranze che l’Iran potesse contribuire svolgere un’attività di mediazione per il rilascio di ostaggi occidentali catturati in Libano da terroristi militanti di Hezbollah all’inizio degli anni Ottanta. 119 Anche dal punto di vista dell’Iran, un rapporto più costruttivo con gli USA presentava dei vantaggi. La situazione che si stava determinando in Afghanistan, dove gli interessi iraniani e americani erano perfettamente allineati, era un punto di partenza promettente, un segno che la cooperazione era non soltanto possibile, ma forse anche fruttuosa. Inoltre, la propensione dell’Iran a perseguire un miglioramento dei rapporti aveva anche altre ragioni, non ultima quella degli oltre 2 milioni di rifugiati che si erano riversati nel paese dal 1980. Non era facile per Teheran assorbire questo flusso migratorio, ed era perciò probabile che la dirigenza iraniana fosse più disponibile a coltivare amicizie che potessero ridurre l’instabilità in tutta la regione. 120 Oltretutto l’Iran aveva difficoltà ad accedere alle fonti di equipaggiamento militare in un periodo segnato da continui e pesanti combattimenti con l’Iraq. Nonostante le sorti volgessero in suo favore e nonostante i massicci acquisti di armi sul mercato nero, ottenere armamenti e ricambi dagli Stati Uniti era una prospettiva sempre più allettante. 121 Pertanto, furono compiuti cauti sondaggi in vista dell’apertura di canali di comunicazione. Gli incontri iniziali furono stizzosi, aspri e sgradevoli. Decisi a convincere gli iraniani, gli americani offrirono informazioni che in
seguito si rivelarono «sia fondate sia ingannevoli» sulle intenzioni sovietiche, concentrandosi soprattutto sulle presunte mire territoriali dell’URSS su parti del paese, nel tentativo di persuadere gli interlocutori che schierarsi con gli USA presentava ovvi vantaggi. 122 Con il procedere dei colloqui, crebbe anche il flusso di informazioni su argomenti che erano di particolare interesse per gli Stati Uniti, come l’efficienza bellica dell’equipaggiamento sovietico. Gli americani avevano sempre seguito con grande attenzione tali questioni. In Afghanistan avevano pagato 5000 dollari per un fucile d’assalto AK-74 , da poco introdotto dall’esercito sovietico e caduto nelle mani dei ribelli, 123 e tenevano sempre le orecchie ben aperte su ciò che i combattenti afghani pensavano circa le qualità, i limiti e le vulnerabilità del carro armato T-72 e dell’elicottero d’assalto MI-24 «Krokodil». Fu così che appresero dell’ampio ricorso al napalm e ad altri gas tossici da parte dei sovietici, o della particolare efficienza delle forze speciali Specnaz, massicciamente impiegate in tutto il paese, probabilmente perché meglio addestrate rispetto ai soldati regolari dell’Armata Rossa. 124 Il risultato di tutto ciò fu un dossier che si sarebbe rivelato prezioso vent’anni dopo. Tra Iran e Stati Uniti c’era una naturale convergenza di interessi. Le affermazioni dei negoziatori iraniani che «l’ideologia sovietica è diametralmente opposta a quella iraniana» collimavano con i giudizi americani sul comunismo, che potevano essere espressi in modo altrettanto enfatico. Anche il fatto che l’URSS , in questa fase, stesse dando un consistente supporto militare all’Iraq era cruciale. «I sovietici» disse un personaggio di primo piano durante i colloqui «stanno uccidendo soldati iraniani.» 125 A distanza di qualche anno, Iran e USA forse non erano passati dalla peggiore inimicizia alla migliore amicizia, ma erano sempre più desiderosi di lasciarsi alle spalle le divergenze e di lavorare a un obiettivo comune. Questo tentativo di tracciare un sentiero nel bel mezzo delle rivalità tra le grandi potenze era una linea politica tradizionale, che sarebbe risultata immediatamente riconoscibile agli occhi delle precedenti generazioni di diplomatici e leader iraniani. Ansiosi di consolidare il rapporto, gli Stati Uniti cominciarono a
inviare armi all’Iran in violazione del loro stesso embargo, nel mentre continuavano a esercitare pressioni sui governi stranieri perché non vendessero armi a Teheran. Alcuni erano contrari a questa svolta, compreso il segretario di Stato George Shultz, il quale osservava che l’iniziativa avrebbe potuto portare a una vittoria iraniana, e a «una nuova ondata di antiamericanismo in tutta la regione». 126 Altri sostenevano che fosse nell’interesse degli Stati Uniti che Iran e Iraq si sfiancassero a vicenda. L’anno precedente Richard Murphy, uno degli assistenti di Shultz, aveva affermato in sede di audizioni congressuali che «la vittoria di uno dei due contendenti [Iran o Iraq] non è né militarmente realizzabile né strategicamente desiderabile», opinioni che ebbero un’eco nei commenti di alti funzionari della Casa Bianca. 127 La prima consegna di 100 sistemi missilistici TOW (tube-launched, optically-tracked, wire-guided, ossia «missile lanciato da tubo, filoguidato, a puntamento ottico») venne effettuata nell’estate del 1985. Le armi furono spedite mediante un intermediario che era ansioso di rafforzare i legami con Teheran: Israele. 128 Visto dalla prospettiva dell’inizio del Terzo millennio, quando i leader iraniani invocano quotidianamente che Israele sia «cancellato dalla carta geografica», questo rapporto amichevole appare sorprendente. Ma alla metà degli anni Ottanta i legami erano così stretti che il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin poté dichiarare: «Israele è il miglior amico dell’Iran, e noi non intendiamo cambiare posizione». 129 La disponibilità israeliana a partecipare al programma statunitense di invio di armi a Teheran era dovuta in gran parte al desiderio di mantenere l’Iraq in una condizione che lo costringesse a concentrare la propria attenzione sul suo vicino orientale, invece di pensare ad azioni altrove. Tuttavia c’erano questioni importanti e delicate connesse all’accordo con l’Iran. La proposta USA prevedeva che Israele inviasse sistemi d’arma ed equipaggiamento americani a Teheran, prima di ricevere un compenso da Washington. Di conseguenza, il governo di Tel Aviv chiese – e ottenne – conferma che l’operazione fosse stata autorizzata al livello più alto negli Stati Uniti. In effetti, essa aveva l’approvazione diretta e personale dello stesso presidente Reagan. 130
Fra l’estate del 1985 e l’autunno del 1986 l’Iran ricevette dagli USA parecchi invii consistenti, in cui rientravano oltre 2000 missili TOW , diciotto missili antiaerei Hawk e due partite di pezzi di ricambio per gli stessi sistemi Hawk. 131 Non tutti furono recapitati tramite Israele: dopo qualche tempo, infatti, le consegne cominciarono a essere effettuate per via diretta, un processo che finì per intorbidire ancora più le acque, quando i ricavi delle vendite furono utilizzati per fornire fondi ai Contras in Nicaragua. Fin dai tempi della crisi dei missili a Cuba, Washington era letteralmente ossessionata dalla minaccia del comunismo sulla porta di casa, e quindi finanziava con entusiasmo tutti quei gruppi o movimenti in grado di fungere da efficaci baluardi contro la retorica e la politica di sinistra; e nel farlo sorvolava sui loro lati negativi. I Contras, che in effetti erano un raggruppamento eterogeneo di ribelli spesso impegnati in aspri conflitti intestini, erano un importante beneficiario della dottrina anticomunista americana e della conseguente cecità in politica estera. Proprio come in Medio Oriente le azioni segrete dell’amministrazione americana differivano da quelle ufficiali, così, in modo speculare, in America centrale il governo statunitense appoggiava forze di opposizione a dispetto della sua stessa legislazione, che lo vietava espressamente. 132 La situazione precipitò alla fine del 1986, allorché una serie di fughe di notizie svelò quanto era accaduto. Lo scandalo minacciò di far cadere il presidente. Il 13 novembre Reagan si rivolse alla nazione tramite radio e televisioni, in orario di massimo ascolto, per pronunciare un discorso su «una questione di politica estera estremamente delicata e di grande importanza». Era un momento ad alto rischio, per superare il quale dovette far ricorso a tutto il suo non trascurabile charme. Il presidente americano voleva evitare di scusarsi o di apparire sulla difensiva, e ciò richiedeva una spiegazione. Le sue considerazioni sintetizzarono alla perfezione le ragioni dell’importanza dei paesi mediorientali e dell’esigenza dell’America di esercitarvi a tutti i costi la propria influenza. «L’Iran» disse agli spettatori inchiodati davanti ai teleschermi «ha una collocazione geografica tra le più critiche al mondo. Si trova fra l’Unione Sovietica e l’accesso alle acque calde dell’oceano Indiano. La
geografia spiega perché l’Unione Sovietica ha inviato un esercito in Afghanistan per dominare quel paese e, se possibile, Iran e Pakistan. La geografia conferisce all’Iran una posizione cruciale, dalla quale gli avversari potrebbero interferire con i flussi di petrolio provenienti dagli Stati arabi che contornano il golfo Persico. Indipendentemente dalla geografia, i giacimenti petroliferi iraniani sono importanti per la salute a lungo termine dell’economia mondiale.» Ciò giustificava «il trasferimento di piccole quantità di armi difensive e di pezzi di ricambio» disse. Senza specificare con precisione che cosa fosse stato inviato a Teheran, affermò che «queste modeste consegne, nel loro insieme, potevano facilmente entrare in un unico aereo da carico». Tutto ciò che aveva tentato di fare era mettere «una fine onorevole ai sei anni di guerra sanguinosa» tra Iran e Iraq, «per eliminare il terrorismo sostenuto dagli Stati» e «ottenere il ritorno a casa di tutti gli ostaggi sani e salvi». 133 La sua prestazione non riuscì a evitare le spettacolari ricadute che si ebbero a Washington quando si venne a sapere che gli USA avevano venduto armi all’Iran in quella che sembrava una contropartita diretta per il ritorno degli ostaggi americani. Il clima si fece ancor più velenoso quando emerse che i personaggi implicati da vicino nell’iniziativa Iran-Contras avevano distrutto documenti che testimoniavano come le azioni segrete e illegali fossero state autorizzate dal presidente stesso. Reagan comparve davanti a una commissione istituita per indagare sulla vicenda, dove si difese sostenendo che la sua memoria non era più in grado di ricordare se avesse o no autorizzato le vendite di armi all’Iran. Nel marzo 1987 tenne un altro discorso televisivo alla nazione, questa volta per esprimere la sua collera per le «attività intraprese a mia insaputa»: un’affermazione che giocava a rimpiattino con la verità, come Reagan stesso ora riconosceva. «Qualche mese fa dissi al popolo americano che non avevo scambiato armi con ostaggi. Il mio cuore e le mie migliori intenzioni ancora mi dicono che è vero, ma i fatti e le prove mi dicono qualcosa di diverso.» 134 Queste imbarazzanti rivelazioni ebbero profonde conseguenze sull’amministrazione Reagan, nel cui ambito una serie di esponenti di
primo piano furono successivamente imputati con accuse che andavano dalla cospirazione allo spergiuro, all’occultamento di prove. Tra questi, Caspar Weinberger, segretario della Difesa; Robert McFarlane, consigliere per la Sicurezza nazionale, così come il suo successore, John Poindexter; Elliott Abrams, vicesegretario di Stato per gli Affari interamericani; e una folla di alti funzionari della CIA , tra cui Clair George, direttore aggiunto delle operazioni. Il prestigioso elenco dimostrava quanto lontano gli USA fossero disposti ad arrivare per difendere la loro posizione nel cuore del mondo. 135 Nello stesso senso deponeva il fatto che le accuse si rivelarono nulla più che una messinscena: più tardi, alla vigilia di Natale del 1992, tutte le figure di rilievo ottennero il perdono presidenziale da George H.W. Bush, oppure videro ribaltati i verdetti di colpevolezza. «Che le loro azioni fossero giuste o sbagliate,» recitava il provvedimento presidenziale «il denominatore comune delle loro motivazioni è stato il patriottismo.» L’effetto sulle loro finanze personali, sulle loro carriere e le loro famiglie, continuava il presidente, era «grossolanamente sproporzionato a qualunque misfatto o errore di giudizio essi possano aver commesso». 136 Diversi tra i destinatari del perdono erano già stati riconosciuti colpevoli di accuse che andavano dallo spergiuro all’occultamento di informazioni al Congresso, mentre il processo a Weinberger sarebbe dovuto iniziare due settimane più tardi. Si trattò di un classico caso di giustizia elastica e di «fini che giustificano i mezzi». Le ripercussioni andarono ben al di là dei confini di Washington. Saddam Hussein montò su tutte le furie quando si diffusero le notizie sui rapporti degli USA con l’Iran, in un momento in cui l’Iraq credeva di avere il sostegno di Washington contro il suo vicino e acerrimo rivale. In una serie di riunioni tenute subito dopo il primo discorso televisivo di Reagan del novembre 1986 per valutare ciò che aveva detto il presidente, Saddam si mise a strepitare che le vendite di armi rappresentavano un’ignobile «pugnalata alla schiena» e che il comportamento degli Stati Uniti rappresentava una nuova soglia minima in fatto di «condotta malvagia e immorale». 137 Gli USA erano
decisi a «spargere altro sangue [iracheno]», concluse, mentre altri concordavano che quanto era emerso fosse soltanto la punta dell’iceberg. Era inevitabile, osservò un personaggio di primo piano qualche settimana più tardi, che gli USA continuassero a cospirare contro l’Iraq; questo era tipico delle potenze imperialiste, convenne il vice primo ministro Tareq Aziz. 138 La collera e la sensazione di essere traditi erano tangibili. «Non fidarti degli americani – gli americani sono bugiardi – non fidarti degli americani» è la cantilena implorante che si può ancora sentire su nastri audio recuperati a Baghdad oltre vent’anni dopo. 139 Lo scandalo Iran-Contras, o Irangate, costò il posto a qualcuno a Washington, ma ebbe un ruolo decisivo nella formazione di una mentalità da assedio in Iraq alla metà degli anni Ottanta. Traditi dagli USA , Saddam e i suoi accoliti ora vedevano cospirazioni ovunque. Il leader iracheno cominciò a parlare di infiltrati e collaborazionisti e a tagliare loro la gola se li individuava; altri paesi arabi, i cui rapporti con l’Iran o con gli USA sembravano troppo stretti per sentirsi tranquilli, cominciarono improvvisamente a essere considerati con profondo sospetto. Come concluse un successivo rapporto USA di alto livello, Saddam si era convinto dopo l’Irangate che «di Washington non ci si potesse fidare e che [gli americani] avessero nel mirino lui personalmente». 140 La convinzione che gli USA fossero propensi a comportarsi slealmente e a fare il doppio gioco non era certo infondata. Gli americani erano stati pronti a stringere rapporti di amicizia con lo scià; adesso stavano cercando di istituire legami con il regime dell’ayatollah Khomeini. In Afghanistan davano aiuti militari ed economici a un gruppo di personaggi impresentabili esclusivamente in ragione di una rivalità di vecchia data con l’URSS . Lo stesso Saddam era stato tolto dal frigorifero quando era convenuto ai politici di Washington, ma poi sacrificato quando questa convenienza era venuta meno. Il fatto di mettere al primo posto gli interessi americani non era di per sé il problema; la questione era che condurre una politica estera di tipo imperiale richiede una sensibilità più raffinata, oltre che una più approfondita riflessione sulle conseguenze a lungo
termine. Comunque sia, nella lotta per il controllo dei paesi delle Vie della Seta nell’ultimo scorcio del XX secolo gli Stati Uniti stringevano patti e facevano accordi in modo estemporaneo, risolvendo i problemi dell’oggi senza preoccuparsi del domani, e in qualche caso ponendo le premesse per problemi molto più spinosi in futuro. L’obiettivo di espellere i sovietici dall’Afghanistan era stato conseguito, ma poco si era riflettuto su ciò che sarebbe potuto accadere dopo. La dura realtà del mondo che gli Stati Uniti avevano creato era anche troppo ovvia in Iraq negli ultimi anni Ottanta e all’inizio del decennio successivo. Imbarazzati funzionari americani, dopo il disastro dell’Irangate, facevano del loro meglio per «riacquistare credibilità presso gli Stati arabi», come disse il segretario della Difesa. 141 Nel caso dell’Iraq, questo significava concedere opportunità di credito straordinariamente ampie, sviluppare iniziative per incrementare il commercio – il che comportava l’allentamento delle restrizioni sull’esportazione di dispositivi a duplice uso e di altri generi di alta tecnologia – e finanziare l’asfittico settore agricolo. Tutte misure che furono prese nel tentativo di ristabilire un rapporto di fiducia con Saddam, 142 ma che a Baghdad vennero interpretate in modo assai diverso. Pur sottoscrivendo gli accordi che gli venivano offerti, il leader iracheno pensava che facessero parte di un’altra trappola: forse un preludio a un attacco militare, o forse un modo per aumentare la pressione in un momento in cui onorare i debiti lievitati durante la guerra con l’Iran stava diventando un problema. Gli iracheni, sosteneva l’ambasciatore americano a Baghdad, erano «assolutamente convinti che gli Stati Uniti … stessero mettendo nel mirino l’Iraq. Se ne lamentavano di continuo … E penso che Saddam Hussein lo credesse davvero». 143 Alla fine del 1989, nella dirigenza irachena cominciarono a circolare voci che gli USA stessero organizzando un colpo di Stato contro Saddam Hussein. Tareq Aziz disse chiaro e tondo al segretario di Stato americano, James Baker, che l’Iraq aveva prove del fatto che gli USA stavano progettando di rovesciare Saddam. 144 La mentalità da assedio si era trasformata in una paranoia così acuta che, qualunque mossa facessero gli americani, era suscettibile di essere fraintesa.
Non era difficile capire le apprensioni dell’Iraq, specialmente quando, nel luglio 1990, le garanzie sui prestiti che erano state promesse da Washington furono improvvisamente cancellate, dopo che i tentativi della Casa Bianca di convogliare il sostegno finanziario verso Baghdad erano stati frustrati dal Congresso. Quel che è peggio, alla revoca di un finanziamento da 700 milioni di dollari, si aggiunsero sanzioni come punizione per l’uso passato di gas tossico. Dal punto di vista di Saddam, questo era un caso di storia che si ripete: gli USA che promettevano una cosa e poi ne facevano un’altra, e per giunta per vie traverse. 145 A questo punto le forze irachene si stavano concentrando nel Sud del paese. «Normalmente questo non ci riguarderebbe affatto» disse l’ambasciatrice USA a Baghdad, April Glaspie, quando incontrò Saddam Hussein il 25 luglio 1990. Uno dei documenti più compromettenti della fine del XX secolo, una trascrizione non ufficiale di un colloquio dell’ambasciatrice USA con il leader iracheno, rivela che Glaspie disse a Saddam di avere «istruzioni dirette dal presidente Bush di migliorare i nostri rapporti con l’Iraq», e sottolineò con ammirazione «gli straordinari sforzi [di Saddam] per ricostruire il … paese». Tuttavia, disse Glaspie al leader iracheno, «sappiamo che avete bisogno di fondi». L’Iraq stava vivendo tempi difficili, ammise Saddam, che era «cordiale, ragionevole e perfino caloroso durante l’incontro», secondo un altro memorandum reso pubblico in seguito. 146 La trivellazione direzionale dei giacimenti di gas, le dispute confinarie di vecchia data e il basso prezzo del petrolio erano tutti fattori che ponevano problemi per l’economia, disse, così come i debiti accumulati durante la guerra con l’Iran. C’era potenzialmente una soluzione, continuò: prendere il controllo della via d’acqua dello Shaṭt al-‘Arab, una regione per la quale l’Iraq era impegnato in un’annosa disputa con il Kuwait, avrebbe contribuito a risolvere alcuni dei problemi del momento. «Qual è l’opinione degli Stati Uniti su questo?» chiese. «Non abbiamo alcuna opinione sui conflitti tra arabi, come la vostra disputa con il Kuwait» rispose l’ambasciatrice. E proseguì chiarendo ciò che questo significava: «Il segretario [di Stato James] Baker mi ha
dato ordine di sottolineare la direttiva, comunicata all’Iraq già negli anni Sessanta, che la questione del Kuwait non ha rapporto con l’America». 147 Saddam aveva chiesto un semaforo verde agli USA , e gli era stato dato. La settimana seguente invase il Kuwait. Le conseguenze si dimostrarono catastrofiche. Nel corso dei tre decenni successivi le vicende globali sarebbero state dominate da eventi che avevano luogo in paesi situati lungo la spina dorsale dell’Asia. La lotta per il controllo e l’influenza in questi paesi produsse guerre, insurrezioni e terrorismo internazionale, ma anche opportunità e aspettative, non soltanto in Iran, Iraq e Afghanistan, ma anche in una fascia territoriale estesa a est del mar Nero, dalla Siria all’Ucraina, dal Kazakistan al Kirghizistan, dal Turkmenistan all’Azerbaigian, e anche dalla Russia alla Cina. La storia del mondo si è sempre imperniata su questi paesi. Ma dal momento dell’invasione del Kuwait, tutto è ruotato intorno alla comparsa della Nuova Via della Seta.
XXV
LA VIA ALLA TRAGEDIA
L’invasione del Kuwait nel 1990 ha dato il via a una straordinaria sequenza di eventi che hanno plasmato il periodo a cavallo tra il XX e il XXI secolo. In passato i britannici erano rimasti colpiti da Saddam Hussein, che definivano «un giovanotto presentabile» dal «sorriso accattivante», privo dell’«affabilità di facciata» di molti suoi colleghi; era uno a cui piaceva parlare «senza menare il can per l’aia». Era un uomo, scriveva l’ambasciatore britannico a Baghdad alla fine degli anni Sessanta, «con cui, se fosse stato possibile incontrarsi più spesso, si poteva trattare». 1 Visto dai francesi come un «de Gaulle arabo», personaggio caldamente ammirato dal presidente francese Jacques Chirac per il suo «nazionalismo e socialismo», agli inizi degli anni Ottanta Saddam era uno su cui gli Stati Uniti erano disposti a puntare, nel tentativo di migliorare quella che Donald Rumsfeld chiamava «la posizione statunitense nella regione». 2 Attaccare il Kuwait, come disse Saddam ai suoi più stretti collaboratori nel dicembre 1990, era una forma di autodifesa che s’innestava sulla scia dello scandalo Irangate e delle rivelazioni sulla doppiezza della politica americana. 3 Il resto del mondo, tuttavia, la vedeva diversamente: poco dopo l’invasione furono imposte sanzioni economiche all’Iraq, e le Nazioni Unite chiesero un immediato ritiro delle truppe. Dal momento che Baghdad si limitò a ignorare la crescente pressione diplomatica, si passò a pianificare una soluzione più drastica. Il 15 gennaio 1991 il presidente George H.W. Bush autorizzò l’uso della forza «conformemente alle mie responsabilità e all’autorità attribuitami dalla Costituzione in qualità di presidente e comandante in capo, e nel rispetto delle leggi e dei trattati degli Stati Uniti». La frase iniziale della Direttiva 54 sulla sicurezza nazionale,
che dava via libera all’uso delle armi da parte delle «forze convenzionali aeree, navali e terresti degli Stati Uniti, in collaborazione con le truppe dei nostri alleati della coalizione», brillava per l’assenza di riferimenti all’invasione irachena, alla violazione della sovranità territoriale del Kuwait e del diritto internazionale. Per contro, con una dichiarazione destinata a stabilire la rotta della politica estera americana dei trent’anni successivi, ad apertura del documento il presidente affermava quanto segue: «L’accesso al petrolio del golfo Persico e la sicurezza degli Stati amici che occupano una posizione chiave nella regione sono vitali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti». 4 Invadendo il Kuwait, Saddam Hussein aveva lanciato una sfida diretta al potere e agli interessi statunitensi. Ebbe dunque luogo un poderoso assalto, condotto da truppe inviate da un’ampia coalizione di paesi e guidate dal generale Norman Schwarzkopf, il cui padre aveva contribuito a mantenere l’Iran sotto il controllo alleato durante la seconda guerra mondiale, per poi giocare un ruolo non solo nell’Operazione Ajax, che aveva deposto Mossadeq, ma anche nella nascita della Savak, il servizio d’intelligence iraniano che terrorizzò i suoi stessi concittadini dal 1957 al 1979. Le incursioni aeree alleate presero di mira tutte le principali strutture militari, le linee di comunicazione e i depositi di armi, mentre le forze di terra avanzavano nel Sud dell’Iraq e in Kuwait: era l’Operazione Desert Storm (Tempesta nel deserto), tanto spettacolare quanto rapida. Il 28 febbraio 1991, un mese e mezzo dopo l’avvio delle operazioni militari, il presidente Bush ordinò il cessate il fuoco, proclamando in un discorso televisivo a reti unificate che «il Kuwait è stato liberato. L’esercito iracheno è in rotta. I nostri obiettivi militari sono stati raggiunti. Il Kuwait è stato restituito ai kuwaitiani, che possono decidere del proprio destino». Non era «un momento di euforia, certamente non il momento di esultare», proseguiva il presidente. «Ora dobbiamo guardare oltre la vittoria e la guerra.» 5 Gli indici di gradimento di Bush salirono alle stelle, superando persino i livelli stratosferici raggiunti dal presidente Truman il giorno in cui fu annunciata la resa della Germania, nel 1945. 6 Parte del
motivo era che gli scopi della guerra erano stati chiaramente definiti e rapidamente raggiunti, con perdite fortunatamente molto ridotte tra le forze della coalizione. Gli Stati Uniti avevano escluso a priori il rovesciamento di Saddam, a meno che quest’ultimo non facesse uso di «armi chimiche, biologiche o nucleari», appoggiasse attacchi terroristici o distruggesse i pozzi petroliferi del Kuwait: in ciascuno di questi casi, aveva dichiarato il presidente Bush, «diventerà precipuo obiettivo degli Stati Uniti detronizzare l’attuale leadership irachena». 7 La decisione di porre fine all’azione militare nel più breve tempo possibile fu ampiamente apprezzata in tutto il mondo arabo e non solo, a dispetto del fatto che le forze irachene avessero sabotato e dato alle fiamme molti pozzi petroliferi kuwaitiani. Questo aspetto venne ignorato, in parte per la percezione che avanzare sulla capitale irachena sarebbe stato un inaccettabile «spostamento di obiettivo», riferì il presidente in un libro co-firmato con il suo consigliere per la Sicurezza nazionale Brent Scowcroft, alla fine degli anni Novanta. Oltre al rischio di inimicarsi gli alleati nel mondo arabo e anche in altre aree, estendere la guerra terrestre in territorio iracheno per «tentare di eliminare Saddam» avrebbe avuto un prezzo troppo elevato. 8 «Decidemmo di non avanzare su Baghdad» concordava Dick Cheney, segretario alla Difesa, in un discorso tenuto al Discovery Institute nel 1992, «perché non era mai rientrato tra i nostri obiettivi. Non era quello che [gli Stati Uniti] si erano impegnati a compiere, non era quello che aveva deciso il Congresso, non era il motivo per cui era stata costituita la coalizione». Inoltre, proseguiva Cheney, gli Stati Uniti non volevano «restare impantanati nel tentativo di conquistare e poi governare l’Iraq». Togliere di mezzo Saddam sarebbe stato difficile, ammetteva l’allora segretario alla Difesa, «e quello che mi chiedevo io era: quante altre perdite di vite americane poteva valere Saddam? E la risposta è “veramente poche”». 9 Cercare di contenere Saddam Hussein senza rovesciarlo era la posizione ufficiale. Quella ufficiosa, però, era diversa. Nel maggio 1991, a poche settimane dal cessate il fuoco, il presidente Bush approvò un piano per «creare le condizioni per rimuovere Saddam
Hussein dal potere». A tale scopo fece stanziare una somma rilevante, pari a 100 milioni di dollari, per le operazioni clandestine. 10 Fin dagli anni Venti gli Stati Uniti avevano sostenuto attivamente regimi allineati ai loro più ampi interessi strategici. Ora Washington sembrava nuovamente pronta a considerare un regime change, per imporre la propria visione in questa parte del mondo. Le aspirazioni americane a una prova di forza, all’epoca, erano state in parte alimentate dai giganteschi cambiamenti geopolitici cui il mondo aveva assistito nei primi anni Novanta. Il Muro di Berlino era caduto poco tempo prima dell’invasione del Kuwait, e i mesi successivi alla sconfitta dell’Iraq avevano visto l’implosione dell’Unione Sovietica. Il giorno di Natale del 1991 il presidente Michail Gorbačëv rassegnava le dimissioni dalla carica di presidente dell’URSS , annunciando la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che dava vita a quindici Stati indipendenti. Il mondo stava assistendo a «cambiamenti di proporzioni quasi bibliche», dichiarò al Congresso il presidente Bush poche settimane dopo. «Per grazia di Dio, l’America [ha] vinto la guerra fredda.» 11 In Russia la transizione innescò uno scontro furioso per il potere che sfociò in una crisi costituzionale terminata con il definitivo esautoramento della vecchia guardia nel 1993, dopo che i carri armati bombardarono la Casa Bianca di Mosca, sede del Parlamento. Fu un periodo di importanti mutamenti anche in Cina, dove cominciavano ad avere effetto le riforme introdotte da Deng Xiaoping e altri dirigenti dopo la morte di Mao Zedong nel 1976, trasformando una potenza su scala regionale e isolata dal mondo in un paese con crescenti ambizioni economiche, militari e politiche. 12 In Sudafrica stava finalmente per chiudersi dopo tanto tempo l’oppressiva stagione politica dell’apartheid. Sembrava che ovunque i tamburi della pace stessero risuonando con forza, esultanti. In passato il mondo era diviso in due, disse il presidente Bush davanti al Senato e alla Camera dei Rappresentanti in seduta congiunta, ma adesso c’era «una sola potenza predominante: gli Stati Uniti d’America». 13 L’Occidente aveva trionfato. Qualche scorciatoia
morale in Iraq era legittimata a fronte della finalità superiore dell’evangelizzazione, quella di accelerare la diffusione del marchio di garanzia e del dono offerto dall’impero americano: la democrazia. Nel decennio successivo all’invasione del Kuwait, quindi, gli Stati Uniti perseguirono una politica al tempo stesso ambiziosa e ambigua. Il mantra costantemente ripetuto era che si liberavano paesi come l’Iraq per promuovere la teoria e la prassi della democrazia; ma insieme c’era anche il tentativo di proteggere e rafforzare, gelosamente e non di rado brutalmente, gli interessi americani in un mondo in rapido mutamento, praticamente a qualunque costo. Per l’Iraq, la Risoluzione n. 687 delle Nazioni Unite, approvata dopo la fine della guerra del Golfo, conteneva misure relative alla sovranità del Kuwait, ma introduceva anche sanzioni per «la vendita o la fornitura di … beni e prodotti diversi da medicinali e articoli sanitari», o alimentari. 14 Tali misure avevano lo scopo di costringere il governo al disarmo, soprattutto a interrompere i programmi per la costruzione di armi di distruzione di massa, chimiche e biologiche, obbligandolo inoltre a riconoscere la sovranità del Kuwait. Le restrizioni generalizzate sulle esportazioni e sulle transazioni finanziarie irachene ebbero un impatto devastante, specie sulla fascia di popolazione più povera. Una prima valutazione pubblicata dalla rivista «Lancet» indicava in 500.000 il numero di bambini morti per malnutrizione e malattie in cinque anni, come diretta conseguenza di queste politiche. 15 Nel 1996, intervistando l’allora rappresentante statunitense alle Nazioni Unite Madeleine Albright per il programma televisivo «60 Minutes», la giornalista Lesley Stahl sostenne che erano morti più bambini a causa delle sanzioni in Iraq che a Hiroshima nel 1945. «Penso si tratti di una scelta molto difficile» replicò Albright, aggiungendo tuttavia che «pensiamo ne valga la pena». 16 Le sanzioni non furono l’unica restrizione applicata all’Iraq dopo il cessate il fuoco. Dopo che questo entrò in vigore, vennero imposte delle no-fly zones a nord del 36° parallelo e a sud del 32° (poi estese fino al 33°), pattugliate dall’aviazione americana, francese e britannica, che negli anni Novanta effettuarono quasi 200.000 voli di ricognizione. 17 Le zone interdette al volo, che nell’insieme coprivano
oltre la metà del territorio iracheno, erano state create ufficialmente allo scopo di proteggere la minoranza curda a nord e la popolazione sciita a sud. Ma il fatto che fossero state imposte unilateralmente, in assenza di un mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, mostrava che l’Occidente era pronto a ingerirsi negli affari interni di un altro paese e a prenderne il controllo, appena gli conveniva. 18 Una nuova dimostrazione si ebbe nel 1998, quando il presidente Bill Clinton appose la sua firma all’Iraq Liberation Act, che definiva formalmente come obiettivo politico degli Stati Uniti quello di «appoggiare gli sforzi per abbattere il regime guidato da Saddam Hussein e promuovere la formazione di un governo democratico in sostituzione del suddetto regime». 19 Clinton annunciò, inoltre, che erano stati messi a disposizione «dell’opposizione democratica irachena» 8 milioni di dollari, con il preciso scopo di consentire alle voci dei dissidenti che lottavano contro Saddam di «unirsi … per lavorare insieme con maggiore efficacia». 20 I tentativi di ridisegnare lo scenario a vantaggio degli Stati Uniti e dei loro alleati non si limitarono all’Iraq. Il presidente Clinton, per esempio, stabilì contatti con la leadership iraniana, con il proposito di riaprire il dialogo e migliorare i rapporti tra i due paesi, che, a seguito dello scandalo Irangate e, poi, del tragico abbattimento di un aereo passeggeri iraniano da parte della USS Vincennes Navy nel 1988, erano precipitati al livello più basso. Per quanto non sia ancora ben chiaro il quadro completo delle rappresaglie di Teheran, molti indizi puntano il dito contro una lunga serie di attentati terroristici compiuti contro obiettivi statunitensi, tra i quali probabilmente lo schianto del volo Pan Am 103 su Lockerbie, nel dicembre 1998, e l’attentato contro una base militare nei pressi di Dhahran, in Arabia Saudita, nel 1996. 21 Dal momento che un’indagine delle autorità americane aveva argomentato con convinzione il coinvolgimento degli iraniani in quest’ultima vicenda, il presidente Clinton inviò tramite un intermediario una lettera di protesta al presidente Khatami. Teheran replicò con toni aggressivi, respingendo come «generiche e irricevibili» le accuse americane di complicità nella morte di diciannove militari statunitensi. Senza contare, proseguiva la risposta,
che gli Stati Uniti rivelavano la loro malafede nel mostrarsi indignati per un attentato terroristico quando non avevano fatto nulla per «perseguire o estradare i cittadini americani, facilmente identificabili, responsabili dell’abbattimento del volo di linea iraniano» avvenuto circa dieci anni prima. Ma il messaggio iraniano offriva anche segnali positivi per il futuro: il presidente americano poteva contare sul fatto che l’Iran non aveva «alcuna intenzione ostile nei confronti degli americani». Anzi, nelle parole del messaggio, «il popolo iraniano non solo non nutriva alcuna inimicizia, ma provava rispetto per il grande popolo americano». 22 Questo passo avanti trovò eco in Afghanistan, dove furono aperti canali di comunicazione con il regime dei talebani dopo che la loro guida suprema, il mullah Omar, nel 1996 stabilì contatti con gli americani tramite un intermediario. Ancora una volta, i primi segnali sembravano promettenti. «I talebani hanno grande considerazione per gli Stati Uniti» dichiarò uno dei massimi leader del movimento afghano, stando a un rapporto confidenziale del primo incontro redatto dall’ambasciata americana a Kabul; inoltre, non avevano dimenticato l’appoggio fornito da Washington «durante il jihad contro i sovietici». E più di ogni altra cosa «i talebani volevano intrattenere buoni rapporti con gli Stati Uniti». 23 Un messaggio così conciliatorio dava adito a un certo ottimismo, così come il fatto che in Afghanistan l’America disponesse di contatti e vecchie amicizie che potevano rivelarsi utili in futuro. Tra gli amici di vecchia data c’era il signore della guerra Jalaluddin Haqqani, una «risorsa» al servizio della CIA fin dai tempi dell’invasione sovietica, le cui posizioni (relativamente) liberali nei confronti delle politiche sociali e dei diritti delle donne furono menzionate in una nota riservata che sottolineava la sua crescente importanza in seno al gruppo dei talebani. 24 Gli Stati Uniti erano preoccupati soprattutto dal ruolo dell’Afghanistan come covo e focolaio di terroristi e militanti jihadisti. I talebani si erano impadroniti di Kabul nel 1996, suscitando nei paesi confinanti un crescente allarme per un possibile aggravarsi dell’instabilità nell’area, l’ascesa del fondamentalismo religioso e la prospettiva di un nuovo coinvolgimento della Russia in una regione
dalla quale si era appena ritirata in seguito al collasso dell’Unione Sovietica. Queste preoccupazioni furono espresse nel corso di un incontro ad alto livello con i dirigenti talebani che ebbe luogo a Kandahar, nell’ottobre 1996. Ai funzionari americani fu assicurato che i campi di addestramento per i militanti erano stati chiusi, e che avrebbero potuto verificarlo direttamente accedendovi e ispezionandoli. I dirigenti talebani, tra i quali il mullah Ghous, ministro degli Esteri afghano de facto, fornirono risposte incoraggianti anche alle domande su Osama bin Laden, le cui attività erano motivo di crescenti timori da parte dell’intelligence statunitense. Secondo la CIA , bin Laden era collegato agli attacchi contro i soldati americani in Somalia nel 1992, all’attentato dinamitardo contro il World Trade Center nel 1993 e alla creazione di un «network di centri di reclutamento e rifugi per militanti di al-Qaeda in Egitto, Arabia Saudita e Pakistan». In un rapporto dell’intelligence si legge che il saudita era «uno dei più importanti sponsor finanziari delle attività dell’estremismo islamico nel mondo». 25 «Sarebbe utile» dissero i funzionari statunitensi ai rappresentanti afghani «se i talebani potessero dirci dove si trova, e garantirci che non possa sferrare attacchi [terroristici].» Gli afghani replicarono che bin Laden si trovava presso di loro «come ospite, come rifugiato» e come tale sussisteva da parte loro un obbligo di trattarlo «con rispetto e senso dell’ospitalità», coerentemente con la cultura pashtun. «I talebani» dissero gli esponenti del regime «non avrebbero consentito a nessuno di usare il [loro] territorio per attività di stampo terroristico.» In ogni caso, bin Laden aveva «promesso di non compiere attacchi [terroristici]» finché viveva in Afghanistan e aveva inoltre ottemperato alla richiesta del regime, quando, insospettiti dal fatto che vivesse in caverne nella zona di Tora Bora, a sud di Jalalabad, gli avevano chiesto di «andarsene e trasferirsi in una casa normale». 26 Se a prima vista queste dichiarazioni potevano apparire rassicuranti, non erano però categoriche come avrebbero voluto gli americani, i quali a quel punto cambiarono tattica. «Quell’uomo è un pericolo vivente» ribadirono gli inviati di Washington alle controparti
talebane. «Tutti i paesi, anche quelli grandi e potenti come gli Stati Uniti, hanno bisogno di amici. [E] l’Afghanistan ha particolarmente bisogno di amici.» Era un colpo di avvertimento: l’implicazione era che ci sarebbero state conseguenze, se bin Laden fosse stato coinvolto in ulteriori attacchi terroristici. La risposta del mullah Rabbani, importante esponente del gruppo dirigente talebano, fu chiara nel ribadire ciò che era stato detto fino a quel momento. Le sue parole furono citate in un cablogramma spedito a Washington e, per conoscenza, alle missioni diplomatiche a Islamabad, Karachi, Lahore, Riyad e Gedda: «In questa parte del mondo vige una legge secondo la quale quando qualcuno cerca rifugio deve ricevere asilo, ma se ci sono persone che compiono atti terroristici, si possono segnare a dito: sappiamo ciò che facciamo e non permetteremo a nessuno di compiere simili bieche attività». 27 Le rassicurazioni dei talebani non furono mai realmente verificate, né al tempo stesso prese alla lettera. Nella primavera del 1998 la CIA stava lavorando a un piano per la cattura di bin Laden che prevedeva di ottenere l’appoggio e la collaborazione di «elementi tribali» in Afghanistan, per quella che veniva definita dai suoi ideatori come un’«operazione perfetta». «La pianificazione per il sequestro di [Osama bin Laden] sta procedendo molto bene», riferiva a maggio un rapporto della CIA sottoposto ad ampia censura; era stato tracciato uno schema «dettagliato, ponderato, realistico», anche se non privo di rischi. Quanto al fatto che il piano fosse approvato dall’alto, era tutto da vedere. Come disse una persona coinvolta nel progetto, «le probabilità che l’operazione ricevesse il via libera [erano] 50 e 50». Il parere dei vertici dell’esercito era meno ottimistico. Fu riferito che il comandante della Delta Force era «inquieto» sui dettagli del piano, mentre il comandante delle Operazioni speciali congiunte pensava che quello fosse «un passo troppo lungo» per la gamba della CIA . A dispetto di una «prova generale finale dell’operazione», che ottenne una valutazione positiva, il progetto fu accantonato. 28 Prima che fosse avviato ogni tentativo concreto di risolvere il problema bin Laden, furono gli eventi a decidere. Il 7 agosto 1988 al-
Qaeda compì due attentati esplosivi simultanei contro le ambasciate statunitensi a Nairobi e Dar-es-Salaam, le due maggiori città del Kenya e della Tanzania, uccidendo 224 persone e ferendone migliaia di altre. Bin Laden si ritrovò immediatamente in cima alla lista dei sospetti. La reazione di Washington arrivò in meno di quindici giorni, con il lancio di 78 missili Cruise contro quattro presunte basi di al-Qaeda in Afghanistan. «Il nostro obiettivo era il terrore» dichiarò il 20 agosto il presidente Clinton in un discorso televisivo. «La nostra missione era chiara: colpire la rete di gruppi radicali collegata e fondata da Osama bin Laden, forse il principale organizzatore e finanziatore del terrorismo internazionale oggi al mondo.» Clinton – che in quello stesso periodo era invischiato nello scandalo a luci rosse legato ai suoi rapporti con la stagista Monica Lewinsky, per il quale stava rischiando la poltrona e che appena tre giorni prima lo aveva costretto ad apparire in televisione con un messaggio alla nazione proprio su quel tema – non si era consultato con i talebani prima dell’attacco con cui si era cercato di eliminare la mente del complotto. Nel tentativo di prevenire le critiche, Clinton disse nel suo annuncio: «Voglio che il mondo comprenda che le nostre azioni non erano dirette contro l’islam». Che era assolutamente, continuava il presidente nel suo scomodo ruolo di assediato, «una grande religione». 29 Era già un problema che i tentativi di togliere di mezzo Osama bin Laden fossero falliti, ma quel che è peggio è che suscitarono l’aperta ostilità dei talebani, i quali espressero subito la loro più viva indignazione per l’attacco lanciato contro il territorio afghano, nonché contro un ospite la cui colpevolezza nei recenti attentati in Africa orientale non era stata provata. Il mullah Omar dichiarò che i talebani «non avrebbero mai consegnato bin Laden a nessuno e lo avrebbero protetto, se necessario, a costo della loro vita». 30 Come spiegava un documento elaborato dall’intelligence USA , bin Laden e il suo estremismo godevano di una notevole considerazione nel mondo arabo, in cui l’idea dell’«ingiustizia e vittimizzazione» delle popolazioni musulmane andava a braccetto con la diffusa convinzione che «la politica americana sosteneva i regimi corrotti … e aveva come
obiettivo quello di dividere, indebolire e sfruttare il mondo arabo». Erano pochi i fautori del terrorismo dello sceicco saudita, concludeva il rapporto, ma «molti condividevano, almeno in parte, la sua visione politica». 31 Punti di vista condivisi dallo stesso mullah Omar che, tre giorni dopo gli attacchi missilistici sferrati dagli americani, in una strana telefonata al dipartimento di Stato a Washington dichiarò che quel gesto «si sarebbe rivelato controproducente e avrebbe sollevato un’ondata di sentimenti antiamericani nel mondo islamico». Nel corso della telefonata, che solo di recente è stata desegretata e che costituisce l’unico contatto diretto di cui si abbia notizia tra il numero uno afghano e i funzionari del governo di Washington, il mullah Omar metteva l’accento sulle «attuali difficoltà interne» che si trovava a sperimentare il presidente Clinton, un riferimento al caso Lewinsky. Tenuto conto di questo e al fine di «ridare popolarità agli Stati Uniti nel mondo islamico» dopo il disastroso attacco unilaterale, sosteneva il mullah Omar, «il Congresso dovrebbe obbligare il presidente Clinton a dare le dimissioni». 32 Gli attacchi americani nel frattempo venivano bollati come un’aggressione contro «l’intero popolo afghano» da Wakīl Ahmed Muttawakil, un importante portavoce dei talebani. In seguito al lancio dei Cruise, a Kandahar e a Jalalabad si erano svolte grandi manifestazioni antiamericane, riferiva Ahmed, che non molto tempo dopo parlò dell’attacco con funzionari di Washington. «Se [i talebani] avessero potuto replicare nello stesso modo colpendo Washington,» dichiarò il portavoce «lo avrebbero [fatto].» 33 Com’era successo a Saddam Hussein quando aveva scoperto che gli Stati Uniti avevano venduto armamenti all’Iran, mentre proclamavano di sostenere l’Iraq, la cosa più pregiudizievole era sentirsi traditi e ingannati: con una mano l’America porgeva un messaggio di pace, con l’altra usava il randello. Wakīl Ahmed espresse immediatamente un forte disappunto di fronte all’inconsistenza delle prove con cui gli americani cercarono di giustificare i bombardamenti missilistici. La dirigenza talebana aveva sempre affermato chiaramente che avrebbe agito contro bin Laden in
presenza di prove che ne dimostrassero la responsabilità in attacchi terroristici condotti dal suolo afghano. 34 E, in effetti, il mullah Omar aveva chiesto quasi subito al dipartimento di Stato di sostanziare le accuse contro il saudita. 35 Alcuni ritenevano che fossero state montate ad arte, disse l’esponente talebano, mentre altri facevano rilevare che bin Laden «in passato era stato un guerrigliero, addestrato con il sostegno degli USA ». Le accuse avanzate dagli Stati Uniti si riducevano alla fin fine ad «alcuni documenti» che era ben difficile chiamare prove; quanto alla videocassetta consegnata ai talebani, che avrebbe dovuto «contenere qualcosa di nuovo» a proposito di Osama, era semplicemente imbarazzante, priva di qualunque valore probatorio. L’attacco era stato un gesto ignobile, disse Ahmed; aveva causato la morte di afghani innocenti e violato la sovranità del paese. Se gli americani volevano davvero risolvere il problema Osama bin Laden, concludeva il portavoce, dovevano rivolgersi ai sauditi: se l’avessero fatto, la questione sarebbe stata risolta nel giro «non di ore, ma di minuti». 36 Per ironia della storia, gli Stati Uniti erano giunti alla stessa conclusione, come dimostra la valanga di messaggi diplomatici, ricerche e raccomandazioni su come ottenere il sostegno di Riyad. 37 Le ripercussioni degli attacchi statunitensi furono disastrose. Come affermava un importante studio dell’intelligence americana sulla minaccia di al-Qaeda redatto un anno dopo gli eventi, al di là del fallimento del tentativo di eliminare bin Laden l’attacco non fece che rafforzare, presso una larga parte del mondo arabo e non solo, la sua immagine di «uomo solo che non si piegava davanti a un aggressivo bullo più forte di lui». C’erano dei pericoli reali nella crescente percezione dell’«arroganza culturale americana»; era poi inquietante, si scriveva nella relazione, che l’attacco statunitense fosse «moralmente discutibile» e finisse per rispecchiare certe caratteristiche degli attentati imputati a bin Laden, in cui persone innocenti erano vittime di obiettivi politici che giustificavano l’uso della forza. Di conseguenza, «gli attacchi missilistici lanciati come ritorsione … potrebbero in ultima analisi rivelarsi come una scelta che ha fatto più male che bene». Gli Stati Uniti dovevano inoltre essere consapevoli, aggiungeva profeticamente la relazione, che attacchi del genere
avrebbero probabilmente causato «un nuovo ciclo di attentati terroristici». 38 Prima ancora che ciò accadesse, il fallito intervento americano aveva già avuto conseguenze spiacevoli. All’interno del gruppo dirigente talebano la visione del mondo esterno si radicalizzò, via via che metteva salde radici il sospetto sulla doppiezza dell’Occidente. Si consolidò una mentalità da assedio che servì solo a rafforzare posizioni religiose sempre più estremiste, insieme a una crescente spinta a esportare la versione talebana dell’islam radicale su scala mondiale, ancorché tale ambizione venisse giudicata in un contemporaneo rapporto della CIA come molto difficile da realizzare. 39 Le pressioni da parte degli Stati Uniti servirono solo a spingere chi si trovava già su posizioni fermamente conservatrici a diventare sempre più fondamentalista. Esponenti come il mullah Rabbani, numero due del regime e capo della Shūrā di Kabul (sorta di Consiglio dei ministri), che temevano che la mancata espulsione di bin Laden potesse aggravare l’isolamento internazionale dell’Afghanistan, furono messi in minoranza dal mullah Omar, facendo sì che a prevalere fosse la sua linea intransigente di non collaborare e non capitolare di fronte agli stranieri. La conseguenza di tutto ciò fu un avvicinamento tra i talebani e i bellicosi progetti di un bin Laden intenzionato a liberare i musulmani dalla morsa dell’Occidente per riportarli a un chimerico mondo premedievale. 40 Era esattamente questo lo scopo degli attentati dell’11 settembre 2001. Un rapporto dell’intelligence americana risalente al 1999 aveva già rilevato come bin Laden avesse «un ego smisurato e ipertrofico»; «vede se stesso» recita il documento «come un attore in uno scenario storico quanto mai ampio e antico: per esempio, crede di stare combattendo contro gli ultimi crociati». 41 Era quindi altamente rivelatore il fatto che ogni singola registrazione audio e video da lui diffusa dopo gli attacchi alle Torri Gemelle citasse come riferimento le crociate o i crociati. Accade spesso che i rivoluzionari scelgano di richiamarsi a un passato idealizzato, ma sono pochi coloro che rivolgono lo sguardo indietro di mille anni per trarne ispirazioni e
giustificazioni per le loro azioni terroristiche. Nei mesi che precedettero l’11 settembre l’intelligence statunitense segnalò la crescente minaccia posta da al-Qaeda. Un rapporto top secret del 6 agosto 2001 indirizzato al presidente Bush, minacciosamente intitolato «Bin Ladin [sic] determinato a colpire gli USA », riferiva la conclusione dell’FBI secondo la quale informazioni raccolte grazie a «circa 70 indagini sul campo» in corso in tutti gli Stati Uniti «indicavano modelli ricorrenti di attività sospette in questo paese, coerenti con la preparazione di dirottamenti o altri tipi di attacchi». 42 Nel frattempo il nervosismo da parte statunitense era stato sufficiente a tenere aperto il dialogo con il regime di Kabul, con la ripetuta rassicurazione che «gli Stati Uniti non erano contro i talebani di per sé [e] non stavano cercando di distruggerli». Il problema era bin Laden. Se si fosse riusciti a risolverlo, suggerivano i diplomatici americani nella regione, «avremmo un tipo di rapporti ben diverso». 43 Il problema non fu risolto. Alle 8.24 del mattino dell’11 settembre 2001 apparve chiaro che qualcosa era andato veramente storto. I controllori del traffico aereo avevano cercato per undici minuti di mettersi in contatto con il volo 11 dell’American Airlines diretto da Boston a Los Angeles, dopo aver dato istruzione ai piloti di salire a 35.000 piedi. La risposta, quando la ricevettero, non fu quella prevista: «Abbiamo alcuni aerei. State tranquilli, e andrà tutto bene. Stiamo tornando all’aeroporto.» 44 Alle 8.46 ET (ora della costa orientale), il Boeing 767 si lanciò contro la Torre Nord del World Trade Center. Nel giro di un’ora e diciassette minuti, caddero altri tre aerei passeggeri che erano stati dirottati: il volo United 175 colpì la Torre Sud del World Trade Center; il volo American 77 fu guidato contro il Pentagono; il volo United 93 si schiantò al suolo nei pressi di Shanksville, Pennsylvania. 45 Negli attentati dell’11 settembre morirono 2977 persone, oltre a diciannove terroristi. L’impatto psicologico degli attacchi, che causarono il crollo delle due Torri Gemelle e danni all’edificio del Pentagono, fu enorme. Gli atti terroristici perpetrati contro ambasciate e truppe americane all’estero erano già abbastanza scioccanti, ma
un’operazione coordinata contro obiettivi sul territorio nazionale era devastante. Lo spaventoso e ossessionante filmato degli aerei pilotati fino a colpire deliberatamente i grattacieli, e le successive scene del disastro, cariche di caos e di tragedia, richiedevano una risposta immediata ed epica. «Stiamo ricercando i responsabili di questi atti malvagi» dichiarò il presidente George W. Bush in un discorso alla televisione la sera stessa dell’attacco. «Ho ordinato che tutte le risorse della nostra intelligence e delle forze dell’ordine siano impiegate per trovare questi responsabili e assicurarli alla giustizia.» Con la successiva ammonizione che «non faremo distinzioni tra i terroristi che hanno compiuto questi atti e chi offre loro protezione». 46 Da ogni angolo del mondo giunse un’ondata di solidarietà, anche da zone a prima vista improbabili quali la Libia, la Siria e l’Iran, il cui presidente espresse «profondo rammarico e condoglianze per le vittime», aggiungendo che era «un dovere a livello internazionale cercare di sconfiggere il terrorismo». 47 Fu immediatamente ovvio che dietro gli attacchi c’era bin Laden – anche se l’ambasciatore dei talebani in Pakistan sostenne che il saudita non disponeva delle risorse necessarie a eseguire un «piano così ben organizzato». 48 Il giorno dopo gli attacchi, Wakīl Ahmed dichiarò alla rete del Qatar alJazeera che i talebani «biasimavano l’attacco terroristico, chiunque vi fosse dietro». 49 A poche ore dagli attentati erano già state messe a punto strategie per risolvere il problema bin Laden. Un piano d’azione diramato la mattina del 13 settembre evidenziava l’importanza di coinvolgere l’Iran e prendere contatti con le autorità di Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan e Cina, i paesi confinanti o vicini all’Afghanistan. Nel corso della settimana successiva fu predisposto un piano per «rinvigorirli», nella prospettiva di prepararli a un’imminente azione militare contro i talebani. 50 Il primo passo della risposta all’11 settembre fu mettere in fila i paesi delle Vie della Seta. Particolare attenzione fu rivolta a una delle terre confinanti con l’Afghanistan, il Pakistan, che nutriva simpatie per i talebani e aveva con loro rapporti da almeno una, se non due generazioni. Gli attacchi terroristici esigevano che Islamabad ora facesse una scelta chiara, si
sentì dire il capo dell’Inter-Services Intelligence pachistano, tra «bianco e nero … senza spazio per il grigio». Il paese doveva decidere se «affiancare gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, oppure mettersi contro di loro». 51 Mentre venivano messi in posizione i pezzi in vista dell’attacco contro l’Afghanistan, si decise di inviare ai talebani un ultimo, minaccioso avvertimento, che doveva essere recapitato di persona al presidente pachistano o al suo capo della sicurezza. «È nell’interesse vostro e della vostra sopravvivenza consegnare tutti i capi di alQaeda, chiudere i campi dei terroristi e permettere agli Stati Uniti di accedere alle strutture usate dai terroristi stessi.» Se «una persona o gruppo qualsivoglia legato in qualche modo all’Afghanistan» fosse stato coinvolto in attacchi terroristici contro gli Stati Uniti, la rappresaglia sarebbe stata «devastante». «Del regime talebano» ammoniva il secco messaggio «non sarebbe rimasta pietra su pietra.» 52 Era un ultimatum chiaro e reciso: o i talebani consegnavano Osama bin Laden, o ne avrebbero subìto le conseguenze. Al di là di tutti gli sforzi per rintracciare il saudita e distruggere la struttura di al-Qaeda, la posta in gioco era ben più alta di una caccia all’uomo. La prospettiva di Washington, infatti, assunse ben presto contorni più ampi: il controllo vero e proprio del centro dell’Asia. Si levarono voci influenti per sostenere che occorreva ridisegnare completamente i paesi di quell’area, in modo da potenziare radicalmente la tutela degli interessi e della sicurezza degli Stati Uniti. Gli USA giocavano col fuoco da decenni. Da decenni il cuore dell’Asia era considerato di estrema importanza, al punto che dalla seconda guerra mondiale in poi divenne normale fare esplicito riferimento a questa regione quale area di diretta rilevanza per la sicurezza nazionale americana. La posizione geografica tra est e ovest la rendeva strategicamente vitale nel quadro delle rivalità tra le superpotenze, e le sue risorse naturali – petrolio e gas, innanzitutto – facevano sì che i destini dei paesi del golfo Persico e di quelli immediatamente confinanti fossero di primaria importanza per la sicurezza nazionale degli USA . Il 30 settembre 2001, tre settimane dopo l’orrore dell’11 settembre, il
segretario alla Difesa Donald Rumsfeld presentò al presidente le sue «riflessioni strategiche» su quello che gli Stati Uniti potevano e dovevano cercare di portare a termine nel prossimo futuro, come parte dei loro «obiettivi bellici». «Secondo i piani, a breve partiranno le prime incursioni aeree contro al-Qaeda e i talebani» annotava Rumsfeld, che avrebbero segnato l’inizio di quella che veniva definita una «guerra». Era importante, scriveva, «convincere o costringere gli Stati a non dare più sostegno al terrorismo». Ma le sue successive affermazioni rivelavano ambizioni di incredibile e drammatica portata. «Se la guerra non cambierà in maniera sostanziale la carta politica del mondo, gli Stati Uniti non avranno raggiunto il loro scopo.» Quale fosse il senso di queste parole veniva poi spiegato con chiarezza nelle righe successive: «Il [governo degli Stati Uniti] dovrebbe puntare a un obiettivo di questo tipo: nuovi regimi in Afghanistan e in un altro Stato-chiave (o due)». 53 Inutile precisare di quali Stati stesse parlando il segretario alla Difesa: erano l’Iraq e l’Iran. Gli attentati dell’11 settembre cambiarono il modo in cui gli Stati Uniti affrontavano il mondo nel suo insieme. Il futuro dell’America dipendeva dalla sicurezza della spina dorsale dell’Asia, che corre dalla frontiera occidentale dell’Iraq, con la Siria e la Turchia, fino all’Hindu Kush. Il concetto fu esposto con grande enfasi dal presidente Bush alla fine di gennaio 2002. A quella data, lo scontro con i talebani era già risolto: erano stati scacciati dalle città principali, a cominciare da Kabul, dopo poche settimane dall’inizio dell’Operazione Enduring Freedom (Libertà duratura), che aveva comportato massicci bombardamenti aerei e un vasto spiegamento di forze terrestri. Bin Laden era ancora a piede libero, ma gli Stati Uniti, spiegò il presidente Bush nel suo discorso sullo stato dell’Unione, avevano valide ragioni per puntare verso obiettivi più ampi e ambiziosi. Molti regimi in precedenza ostili nei confronti degli interessi americani «sono rimasti abbastanza tranquilli dall’11 settembre in poi, ma noi conosciamo la loro vera natura». Ne era un esempio la Corea del Nord, Stato-canaglia per eccellenza. Ma al centro dell’attenzione c’era la minaccia rappresentata da altri due paesi: l’Iran e l’Iraq. Entrambi, insieme al regime di Pyongyang,
«costituivano un asse del male, che si stava armando per minacciare la pace nel mondo». Smantellare questo asse era cruciale: «La nostra guerra contro il terrore è iniziata bene, ma siamo solo all’inizio». 54 La determinazione ad assumere il controllo era travolgente. Abbattere i regimi esistenti ritenuti destabilizzanti e pericolosi era divenuto un fondamento del pensiero strategico degli Stati Uniti e dei loro alleati. Fu data priorità all’eliminazione dei pericoli imminenti, curandosi ben poco di quello che sarebbe accaduto – o sarebbe dovuto accadere – in seguito. Risolvere i problemi a breve termine era più importante dello scenario di lungo periodo. Lo si diceva esplicitamente nei piani contro l’Afghanistan elaborati nell’autunno del 2001. «Non è il caso che il [governo degli Stati Uniti] si angusti per la situazione che si verrà a creare dopo la fine del regime talebano» consigliava un documento redatto quando gli attacchi aerei erano già in corso. Il punto chiave era sconfiggere al-Qaeda e i talebani; di ciò che poi sarebbe accaduto ci si poteva preoccupare in un secondo momento. 55 La stessa visione a breve termine apparve evidente nel caso dell’Iraq, dove all’attenzione tutta rivolta a rovesciare Saddam Hussein faceva da contraltare una mancanza di pianificazione rispetto al futuro assetto del paese. Il desiderio di sbarazzarsi del dittatore iracheno era nell’agenda politica di Bush fin dagli esordi della sua amministrazione, se meno di settantadue ore dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, mesi e mesi prima dell’11 settembre, il nuovo segretario di Stato Colin Powell chiedeva già chiarimenti a proposito della «linea di condotta [americana] riguardo al regime change in Iraq». 56 Dopo gli attacchi alle Torri Gemelle, l’attenzione si spostò quasi immediatamente su Saddam. In un momento in cui le truppe statunitensi sembravano assumere inesorabilmente il controllo dell’Afghanistan, il dipartimento della Difesa stava già lavorando intensamente per preparare una nuova, massiccia campagna militare contro l’Iraq. La domanda era semplice, come chiariscono gli appunti preliminari per un incontro tra Donald Rumsfeld e il generale Tommy Franks, capo del Comando centrale: «Come cominciare?». 57 Vennero prese in esame tre possibili cause, ognuna delle quali
poteva giustificare un intervento militare. Forse il fatto che «Saddam attacca i curdi nel Nord?» si chiedeva Rumsfeld nel novembre 2001; o forse un «collegamento con gli attacchi dell’11 settembre o con quelli all’antrace?» (dopo l’invio di lettere contaminate alle sedi di numerosi media e a due senatori, nel settembre 2001); oppure perché non una «contesa sulle ispezioni per la ricerca di armi di distruzione di massa?». Quest’ultima eventualità sembrava promettente, come dimostra il successivo commento: «Cominciare fin d’ora a pensare alle richieste di ispezione». 58 Nel corso del 2002 e all’inizio del 2003 divennero sempre più forti le pressioni esercitate sull’Iraq, incentrate sul problema delle armi chimiche e biologiche e delle armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti si concentrarono sulla questione con uno zelo quasi religioso. In assenza della «pistola fumante» circa un collegamento tra Baghdad e l’11 settembre, riferiva un rapporto, l’unico leader che avrebbe potuto offrire appoggio militare agli USA , anche se a un «costo politico elevato», era Tony Blair; in un altro rapporto si sottolineava il fatto che «molti, se non la maggior parte, dei paesi alleati o comunque amici degli Stati Uniti – specialmente in Europa – nutrivano forti dubbi … su un attacco a tutto campo contro l’Iraq». Fu così che, anche in previsione del fatto che dalle Nazioni Unite non giungesse un chiaro mandato per un’azione armata, si cominciò a lavorare alla definizione di un quadro legale per giustificare un intervento militare su larga scala. 59 In particolare, si puntò a istruire contro Baghdad un atto d’accusa secondo il quale il paese non solo era intenzionato a perseguire un programma di fabbricazione di armi di distruzione di massa, ma per di più lo faceva in gran segreto, ostacolando al tempo stesso il lavoro degli ispettori della IAEA , l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. In alcuni casi, questa linea di condotta fu motivo di contrasti con gli stessi osservatori, che videro il loro ruolo sminuito, compromesso, se non totalmente a rischio. Nella primavera del 2002, per esempio, il brasiliano José Bustani, direttore generale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC ), fu destituito dopo una sessione speciale a porte chiuse: era la prima volta
che il responsabile di un’importante ente internazionale veniva rimosso dalla carica che ricopriva. 60 Furono privilegiate informazioni raccolte da fonti occasionali e spesso inaffidabili, e le illazioni furono presentate come fatti. Tutto ciò era frutto di una salda determinazione a far apparire inconfutabili le accuse contro l’Iraq di Saddam. «Ogni affermazione che faccio qui oggi» disse il segretario di Stato Colin Powell all’ONU , il 5 febbraio 2003, «è sostenuta da fonti, da solide fonti. Queste non sono solo asserzioni. Ciò che vi stiamo fornendo sono fatti e conclusioni basati su un solido lavoro d’intelligence.» 61 Ma non era affatto così. Nemmeno una settimana prima, un rapporto della IAEA concludeva che «a tutt’oggi non abbiamo trovato nessuna prova che l’Iraq abbia riattivato il suo programma di armamenti nucleari dagli anni Novanta in poi», aggiungendo che «[sarebbero] state necessarie ulteriori attività di verifica». 62 Affermazioni riecheggiate da un comunicato rilasciato nella stessa data, il 27 gennaio 2003, da Hans Blix, capo della UNMOVIC , la Commissione di monitoraggio, verifica e ispezione delle Nazioni Unite, in cui si affermava che, nonostante gli ispettori fossero stati talvolta ostacolati nel loro lavoro, «nel complesso l’Iraq ha finora risposto adeguatamente» alle richieste degli ispettori. 63 Come emerse chiaramente in seguito, non esisteva alcun legame tra Saddam Hussein e gli attacchi terroristici di al-Qaeda del 2001. A dire il vero, i milioni di pagine di documenti recuperati a Baghdad dopo l’invasione, iniziata il 19 marzo 2003, hanno evidenziato ben pochi riferimenti al terrorismo. Anzi, i materiali d’archivio dell’intelligence irachena rivelarono che si era fatto tutto il possibile per tenere a freno personaggi come Abū Abbas, uno dei leader del Fronte di liberazione palestinese, autore negli anni Ottanta di alcune spettacolari operazioni; per giunta, essi misero in luce l’esistenza di precise disposizioni che facevano assoluto divieto di prendere di mira obiettivi americani, tranne che nel caso di un attacco statunitense contro l’Iraq. 64 Anche il presunto programma di riarmo nucleare su vasta scala, così vivido e reale nelle menti di coloro che vedevano nell’Iraq una minaccia alla pace non solo nella regione ma nel mondo intero, ha
trovato ben poco riscontro nei fatti. I rimorchi che, secondo Powell, trasportavano attrezzature mobili per la produzione di armi biologiche ed erano «nascosti in folti boschetti di palme … e spostati una volta la settimana o una volta al mese per evitare di venire individuati» risultarono essere palloni sonda per le previsioni meteo, esattamente come avevano detto gli iracheni. 65 La determinazione nel togliere di mezzo Saddam Hussein a qualunque costo andava a braccetto con la cronica carenza di programmazione per il dopo. Progetti e libri scritti prima e durante l’invasione disegnavano un futuro idilliaco che attendeva l’Iraq dopo la liberazione. Il petrolio iracheno, proclamava con grande ottimismo un importante studio, era «una risorsa formidabile». Da solo aveva il potenziale di «beneficiare ogni singolo cittadino del paese, a prescindere dalle origini etniche o dall’affiliazione religiosa». 66 L’ingenuo presupposto che il benessere sarebbe stato condiviso in modo equo e pacifico fra tutti i cittadini iracheni la dice lunga su quanto irrealistiche fossero le aspettative americane sul dopo invasione. Eppure, il ritornello che i problemi si sarebbero risolti da soli era ricorrente. «L’Iraq, a differenza dell’Afghanistan, è un paese piuttosto ricco» dichiarò durante una riunione nel febbraio 2003 Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca. «Il paese dispone di incredibili risorse che appartengono al popolo iracheno. Quindi … l’Iraq [dovrebbe facilmente] essere in grado di sostenere sulle proprie spalle gran parte dell’onere della ricostruzione.» Concetto che riecheggia quasi identico nelle parole di Paul Wolfowitz, il vice di Donald Rumsfeld, pronunciate durante un’udienza del Comitato per gli stanziamenti della Camera dei rappresentanti, tenutasi otto giorni dopo l’inizio dell’invasione, nel marzo 2003. Non c’era ragione di preoccuparsi, insisteva Wolfowitz: «Stiamo parlando di un paese realmente in grado di finanziare la propria ricostruzione, e relativamente in fretta». Gli introiti del petrolio, fu la sua disinvolta predizione, avrebbero portato nelle casse dai 50 ai 100 miliardi di dollari nel corso dei «due o tre anni» successivi. 67 L’idea che spodestando Saddam l’Iraq si sarebbe trasformato nella terra dell’abbondanza era una gigantesca pia illusione. Quando le
truppe americane erano entrate in Afghanistan, alcuni funzionari del dipartimento di Stato annotarono con toni solenni che gli Stati Uniti «non dovevano impegnarsi in alcun modo militarmente dopo la caduta dei talebani, dal momento che saranno fortemente mobilitati nella lotta al terrorismo su scala mondiale». 68 Analoghe le aspettative per quanto riguardava l’Iraq: in base ai piani elaborati dal Comando centrale, sarebbero stati necessari 270.000 uomini per invadere il paese, ma nel giro di tre anni e mezzo ne sarebbero bastati sul campo non più di 5000. E, in effetti, tutto ciò sembrava plausibile, quando veniva illustrato con slide di PowerPoint a persone che vedevano solo quello che volevano vedere. 69 Queste erano «guerre light», vale a dire conflitti che si sarebbero risolti velocemente, in modo da consentire la nascita di un nuovo equilibrio in una regione chiave dell’Asia. In entrambi i casi, invece, le guerre si sono rivelate lunghe e costose. L’Iraq è stato in pratica travolto dal conflitto civile, dopo la caduta di Baghdad e la grande insurrezione che ne è seguita, mentre in Afghanistan la reazione all’intervento americano è stata altrettanto forte e determinata di quella contro l’Unione Sovietica negli anni Ottanta, con il Pakistan impegnato ancora una volta a offrire l’indispensabile sostegno agli irriducibili combattenti della resistenza. Molte migliaia di soldati hanno dato la vita, mentre sono più di 150.000 i reduci di guerra statunitensi che hanno riportato ferite e lesioni corrispondenti a una percentuale di invalidità pari almeno al 70 per cento. 70 Si aggiungano a ciò le centinaia di migliaia di civili afghani e iracheni uccisi o feriti in azioni belliche o – solo per essersi trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato, vittime del fuoco incrociato, dei droni o delle autobombe – come «danni collaterali». 71 I costi finanziari si sono impennati a un ritmo stupefacente. Secondo uno studio recente, il conto dell’impegno militare americano in Iraq e in Afghanistan ammonterebbe a 6000 miliardi di dollari: 75.000 dollari per ogni famiglia americana, tenendo conto anche delle cure mediche a lungo termine e delle indennità di invalidità. Una cifra che rappresenta circa il 20 per cento dell’aumento del debito pubblico statunitense tra il 2001 e il 2012. 72
Il fatto poi che l’intervento abbia sortito un effetto più limitato del previsto ha soltanto peggiorato la situazione. Nel 2011 il presidente Obama aveva praticamente già dato per perso l’Afghanistan. A riferirlo è il suo ex segretario alla Difesa Robert Gates, il quale comprese quanto fosse fosca la situazione durante una riunione alla Casa Bianca tenuta nel mese di marzo. «Ero seduto lì e pensavo: il presidente non si fida del suo comandante [il generale David Petraeus], non sopporta [il presidente afghano] Karzai, non crede nella sua stessa strategia e non la considera la sua guerra. Dal suo punto di vista, si tratta solo di uscirne.» 73 Una descrizione a cui fece rabbiosamente eco il presidente Karzai, una figura creata, sostenuta e, a giudizio di molti, arricchita dall’Occidente. «Come nazione», ha detto Karzai allo scrittore William Dalrymple, l’Afghanistan ha sofferto enormemente a causa della politica statunitense; gli americani «non hanno combattuto il terrorismo dov’era, dov’è ancora. Hanno continuato a danneggiare l’Afghanistan e il suo popolo». C’era una sola parola per definire tutto questo, ed era «tradimento». 74 In Iraq, nel frattempo, c’è ben poco da mettere sul tavolo a fronte delle perdite di vite umane, dei costi smisurati e dell’assenza di speranze per il futuro. Oggi, circa quindici anni dopo la caduta di Saddam Hussein, il paese figura agli ultimi posti negli indici che misurano la transizione a una democrazia prospera. Sul terreno dei diritti umani, della libertà di stampa e di espressione, dei diritti delle minoranze, della corruzione, l’Iraq non è messo meglio di quanto fosse sotto Saddam Hussein, e in alcuni casi è addirittura peggiorato. Il paese è rimasto paralizzato dalle incertezze e dai disordini, mentre le minoranze hanno subìto sconvolgimenti disastrosi e assurde violenze. E le aspettative per il futuro sono tutt’altro che rosee. Poi, naturalmente, c’è il danno alla reputazione dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare. «Dovremmo evitare quanto più possibile di creare l’immagine degli americani che uccidono i musulmani» disse Rumsfeld in tono di ammonimento al presidente Bush, due settimane dopo l’11 settembre. 75 Ma questa apparente sensibilità venne rapidamente messa in ombra dalle immagini dei prigionieri rinchiusi senza processo nel limbo di Guantánamo, una
località deliberatamente scelta perché consente di negare ai detenuti la protezione garantita dalla Costituzione statunitense. Indagini relative al periodo precedente la guerra in Iraq, condotte negli Stati Uniti e nel Regno Unito, hanno dimostrato che le prove a carico di Saddam erano state distorte, manipolate e fabbricate per sostenere decisioni già prese preventivamente a porte chiuse. Gli sforzi per controllare i media nell’Iraq del dopo Saddam – dove il concetto di libertà veniva strombazzato da quegli stessi giornalisti che usavano «informazioni approvate dal governo statunitense» per sottolineare «le speranze in un prospero futuro democratico» – richiamano alla mente i commissari politici di stampo sovietico, che autorizzavano solo la pubblicazione di articoli basati non sulla realtà, ma su un sogno. 76 E, come se ciò non bastasse, abbiamo assistito alla «consegna» di prigionieri non condannati da un tribunale, alla tortura istituzionalizzata e agli attacchi con i droni contro individui ritenuti pericolosi, ma la cui pericolosità non è stata dimostrata. Va a favore della complessità e del pluralismo dell’Occidente il fatto che questi argomenti possano essere discussi in pubblico, e che siano stati in molti a scandalizzarsi per l’ipocrisia del messaggio del primato della democrazia, da un lato, e la prassi del potere imperialistico, dall’altro. Alcuni sono rimasti così inorriditi da decidere di divulgare informazioni segretate, che mettevano a nudo come questa politica viene perseguita: in modo pragmatico, estemporaneo e, spesso, senza grande considerazione del diritto internazionale e della giustizia. In nessuno di questi casi l’Occidente si è messo in buona luce, e le agenzie d’intelligence ne erano ben consapevoli, tanto da lottare per mantenere segreti i rapporti sulla natura e sulla portata delle torture, anche a fronte di interrogazioni dirette da parte del Senato degli Stati Uniti. Se fin qui abbiamo focalizzato l’attenzione sui tentativi compiuti dagli Stati Uniti per influenzare e forgiare il destino di Iraq e Afghanistan, è importante non trascurare gli sforzi profusi per provocare un cambiamento politico anche in Iran, tra i quali vanno annoverate le sanzioni energicamente imposte da Washington e rivelatesi forse controproducenti. Com’era avvenuto negli anni
Novanta in Iraq, è chiaro che a farne le spese sono stati soprattutto i poveri, i deboli e le persone prive di diritti, che hanno visto ulteriormente peggiorare le loro già difficili condizioni di vita. Le limitazioni sulle esportazioni petrolifere hanno avuto ovviamente un impatto sul tenore di vita degli iraniani, ma anche su quello di persone che vivono dall’altra parte del mondo. In un mercato globale dell’energia, il prezzo unitario di gas, energia elettrica e carburante riguarda gli agricoltori del Minnesota, i tassisti di Madrid, le studentesse dell’Africa subsahariana e i coltivatori di caffè in Vietnam. Siamo tutti toccati direttamente da una politica di potere decisa a migliaia di chilometri di distanza. È facile dimenticare che nel mondo in via di sviluppo pochi centesimi possono fare la differenza tra la vita e la morte; l’imposizione di embarghi può significare un’asfissia silenziosa per coloro che non riescono a far sentire la propria voce: le madri nelle baraccopoli di Mumbai, coloro che intrecciano cesti nei sobborghi di Mombasa o le donne che cercano di opporsi alle attività illegali di estrazione mineraria in Sud America. E tutto questo per costringere l’Iran a rinunciare a un programma nucleare realizzato grazie alla tecnologia statunitense, venduta negli anni Settanta a un regime dispotico, intollerante e corrotto. Di fatto, a parte le pressioni diplomatiche ed economiche esercitate su Teheran, gli Stati Uniti hanno chiarito senza mezzi termini di aver valutato la possibilità di usare la forza contro l’Iran per porre fine al suo programma di arricchimento dell’uranio. Nelle fasi finali dell’ultima amministrazione Bush, l’allora vicepresidente Dick Cheney affermò di aver sostenuto con forza la necessità di bombardare gli impianti nucleari iraniani, anche se reattori come quello di Bushihr sono ora massicciamente protetti dai Tor, sofisticati sistemi missilistici terra-aria russi. «Probabilmente ero un fautore dell’opzione militare ben più di molti miei colleghi» disse Cheney nel 2009. 77 Più d’uno lo mise in guardia dal ricorso ad attacchi preventivi che, lungi dal migliorare la situazione in tutta la regione, l’avrebbero peggiorata, ma il politico americano ha ribadito più volte la sua idea. Per esempio nel 2013, quando sostenne che i negoziati con l’Iran sarebbero falliti, a meno di non minacciare un intervento militare.
«Altrimenti stento a capire come faremo a raggiungere il nostro obiettivo» dichiarò alla ABC News. 78 Sostenere che l’Occidente, per ottenere ciò che vuole, debba minacciare l’uso della forza – ed essere disposto a non fermarsi alle parole – è diventato un mantra a Washington. «L’Iran dovrà dimostrare che il suo programma nucleare ha veramente scopi pacifici» sentenziò il segretario di Stato John Kerry nel novembre 2013. L’Iran dovrebbe tenere a mente, ammonì, che «il presidente … ha detto chiaramente di non aver escluso [la] minaccia [di un intervento militare] tra le opzioni in gioco». È un messaggio che Kerry ripeté spesso. «L’opzione militare a disposizione degli Stati Uniti è pronta» affermò il segretario di Stato in un’intervista al canale televisivo saudita al-Arabiya nel gennaio 2014. Se necessario, aggiunse, gli Stati Uniti avrebbero «fatto quel che dovevano fare». 79 «Come ho avuto modo di chiarire più volte nel corso del mio mandato,» sottolineò il presidente Obama «non esiterò a usare la forza quando sarà necessario per difendere gli Stati Uniti e i loro interessi.» 80 Al di là delle minacce per costringere l’Iran a sedersi al tavolo dei negoziati, sembra che gli Stati Uniti stessero intraprendendo azioni dietro le quinte per raggiungere, in un modo o nell’altro, il loro obiettivo. Pur esistendo diverse potenziali fonti per il virus informatico Stuxnet che colpì le centrifughe dell’impianto nucleare di Natanz e poi altri reattori in tutto l’Iran, molti indicatori suggeriscono che le strategie informatiche altamente sofisticate e aggressive miranti al programma nucleare iraniano potrebbero essere ricondotte agli Stati Uniti, e in particolare direttamente alla Casa Bianca. 81 Il cyberterrorismo è accettabile, a quanto pare, fintantoché a praticarlo sono le agenzie d’intelligence occidentali. Come la minaccia di usare la forza contro l’Iran, la protezione di un ordine globale funzionale agli interessi occidentali è semplicemente un nuovo capitolo del tentativo di mantenere un caposaldo negli antichi crocevia della civiltà. Le poste in gioco sono troppo alte per consentire di fare altrimenti.
Conclusione
LA NUOVA VIA DELLA SETA
Da molti punti di vista, la fine del XX secolo e l’inizio del XXI si sono rivelati disastrosi per gli Stati Uniti e l’Europa, impegnati nella fallimentare battaglia per mantenere la loro posizione nei territori di vitale importanza che collegano l’Est con l’Ovest. Ciò che è apparso evidente negli ultimi decenni è la mancanza di prospettiva dell’Occidente rispetto alla storia globale, ovvero rispetto al quadro complessivo, ai temi più vasti e agli schemi più ampi che sono in gioco nella regione. Nelle menti dei pianificatori, dei politici, dei diplomatici e dei generali, i problemi dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Iraq sembravano distinti, separati e soltanto vagamente connessi tra loro. Eppure, basta fare un passo indietro per avere una visuale migliore e la chiara percezione di una vasta regione in subbuglio. In Turchia infuria la battaglia per conquistare l’anima del paese, con i provider di Internet e i social media che vengono chiusi per capriccio da un governo diviso sull’idea di futuro. Un dilemma replicato in Ucraina, dove differenti visioni nazionali hanno lacerato il paese. Anche la Siria sta attraversando un’esperienza traumatica di profondo cambiamento, mentre le forze del conservatorismo e del liberalismo si combattono a vicenda con costi enormi. Il Caucaso ha attraversato anch’esso un periodo di transizione, con il ribollire di numerose controversie legate all’identità e al nazionalismo, in particolare in Cecenia e in Georgia. Poi, naturalmente, c’è la regione più a est, con il Kirghizistan, dove la Rivoluzione dei Tulipani del 2005 è stata il preludio a un lungo periodo di instabilità politica, e lo Xinjiang, nella Cina occidentale, dove la popolazione uigura è diventata sempre più irrequieta e ostile, e gli attacchi terroristici una minaccia tale da indurre le autorità a decretare che una semplice barba lunga è indizio di intenzioni
sospette, e a varare un vero e proprio programma, chiamato «Project Beauty», per dissuadere le donne dal portare il velo. Ma c’è ben di più in gioco, al di là dei maldestri interventi occidentali in Iraq e in Afghanistan, o dei tentativi di esercitare pressioni in Ucraina, in Iran o altrove. Da est a ovest, stanno ancora una volta rinascendo le Vie della Seta. È facile sentirsi confusi e turbati di fronte ai disordini e alla violenza nel mondo islamico, al fondamentalismo religioso, agli scontri tra la Russia e i suoi vicini, o alla lotta della Cina contro l’estremismo nelle sue province occidentali. Ciò a cui stiamo assistendo, però, è lo spettacolo di una regione in preda alle doglie; una regione che una volta dominava il paesaggio intellettuale, culturale ed economico, e che ora sta riemergendo. Sono tutti segnali che indicano che il centro di gravità del mondo si sta spostando, per ritornare nel punto dove è stato per millenni. Ci sono ragioni evidenti per quello che sta accadendo. Prima di tutto, ovviamente, le ricchezze naturali della regione. Monopolizzare le risorse della Persia, della Mesopotamia e del Golfo fu una priorità durante la prima guerra mondiale, e gli sforzi per vincere il premio più importante della storia hanno da allora dominato l’atteggiamento del mondo occidentale in questa regione. Come se non bastasse, la posta in gioco è diventata ancora più alta rispetto ai tempi di Knox D’Arcy e dei vasti giacimenti petroliferi da lui scoperti: è comprovato, infatti, che le riserve combinate di greggio sotto il mar Caspio ammontano, esse sole, quasi al doppio quelle di tutti gli Stati Uniti. 1 Dal Kurdistan, dove sono stati recentemente scoperti nuovi giacimenti di petrolio per un valore di centinaia di milioni di dollari al mese (nel campo di Taq Taq, per esempio, la produzione è passata, dal 2007 in poi, da 2000 a 250.000 barili al giorno), all’enorme giacimento di Karachaganak, al confine tra Kazakistan e Russia, che contiene presumibilmente circa 1200 miliardi di metri cubi di gas naturale, oltre a gas liquido e petrolio grezzo, i paesi di questa regione stanno scricchiolando sotto il peso delle loro risorse naturali. Poi c’è il bacino del Donbass, a cavallo della frontiera tra l’Ucraina orientale e la Russia, da tempo famoso per i giacimenti di carbone contenenti riserve estraibili stimate in circa 10 miliardi di tonnellate. Anche
questa è un’area di crescente importanza, in virtù della scoperta di ulteriori ricchezze minerali. Stime basate su recenti perizie geologiche eseguite dal Servizio geologico degli Stati Uniti hanno indicato la presenza di 1,4 miliardi di barili di petrolio e e circa 70 miliardi di metri cubi di gas naturale, oltre a notevoli volumi di liquidi da gas naturale. 2 Per non parlare dei giacimenti del Turkmenistan, paese che, con i suoi poco meno di 20.000 miliardi di metri cubi di gas naturale stimati, controlla il quarto più grande giacimento del mondo. Poi ci sono le miniere dell’Uzbekistan e del Kirghizistan, nella catena montuosa del Tian Shan, i cui giacimenti auriferi sono secondi solo a quelli del bacino del Witwatersrand, in Sud Africa. In Kazakistan si trovano invece berillio, disprosio e altre «terre rare», vitali per la produzione di telefoni cellulari, computer portatili e batterie ricaricabili, oltre all’uranio e al plutonio, essenziali per l’energia e le testate nucleari. La terra stessa è ricca e preziosa. Un tempo i cavalli dell’Asia centrale erano una merce altamente apprezzata, ambita alla corte imperiale cinese come nei mercati di Delhi, famosa fra i cronisti di Kiev come fra quelli di Costantinopoli e Pechino. Oggi, gran parte delle steppe tenute a pascolo sono state trasformate, nella Russia meridionale e in Ucraina, in campi di grano incredibilmente produttivi; in effetti, la terra con il marchio chernozem (letteralmente «terra scura») è molto fertile e ricercata: una ONG ha scoperto che nella sola Ucraina vengono annualmente scavate e vendute quantità di terreno per un valore di quasi un miliardo di dollari. 3 L’impatto in termini di instabilità, disordini o guerre che travagliano questa regione non si fa sentire solo nel prezzo del carburante alle pompe di benzina in tutto il mondo; incide sul costo della tecnologia che usiamo, e anche su quello del pane che mangiamo. Nell’estate del 2010, per esempio, a causa di cattive condizioni meteorologiche il raccolto in Russia fu pessimo, con una produzione ben al di sotto della domanda interna. Non appena il probabile deficit risultò evidente, venne posto un immediato divieto sull’esportazione di cereali, diventato effettivo con un preavviso di dieci giorni. L’impatto sui prezzi dei cereali in tutto il mondo fu
anch’esso immediato: aumentarono del 15 per cento in soli due giorni. 4 I disordini in Ucraina, all’inizio del 2014, ebbero un impatto analogo: il prezzo del grano salì alle stelle, per timore che i tumulti potessero ripercuotersi sulla produzione del terzo più grande esportatore mondiale. Le altre colture in questa parte del mondo seguono princìpi simili. Una volta l’Asia centrale era famosa per gli alberi di arancio di Babur e, più tardi, per i tulipani, tanto apprezzati nel XVII secolo nelle capitali dell’Europa occidentale che singoli bulbi venivano talora scambiati con intere case sui canali di Amsterdam. Oggi è il papavero a fare la parte del leone: la sua coltivazione, innanzitutto in Afghanistan, sostiene il sistema mondiale del consumo dell’eroina e ne determina il prezzo, e naturalmente influisce sui costi dei trattamenti per la tossicodipendenza, la cura e la riabilitazione, così come sul costo dei mezzi per contrastare la criminalità organizzata. 5 Questa è una parte del mondo che può sembrare strana e insolita se guardata con gli occhi dell’Occidente, e anche estranea fino alla stravaganza. In Turkmenistan, nel 1998, è stata eretta una gigantesca statua d’oro del presidente che ruota su sé stessa per indicare la direzione del sole; mentre quattro anni dopo sono stati rinominati i mesi, e aprile (in precedenza aprel) è stato ribattezzato gurbansoltan, dal nome della defunta madre del presidente di allora. Oppure c’è il vicino Kazakistan, dove il presidente Nursultan Nazarbaev è stato rieletto nel 2011 con un impressionante 96 per cento di consensi, e celebri pop star come Elton John e Nelly Furtado si sono esibite in concerti privati per la famiglia presidenziale, secondo quanto è trapelato da fonti diplomatiche, dopo aver ricevuto offerte impossibili da rifiutare. 6 In Tagikistan, che ha detenuto per breve tempo il record per l’asta della bandiera più alta del mondo, l’attenzione è ora concentrata sulla costruzione del più grande teatro dell’Asia centrale, da affiancare alla più grande biblioteca della regione, al museo più vasto e alla casa da tè più capiente. 7 Nel frattempo in Azerbaigian, sulla sponda occidentale del mar Caspio, il presidente Aliyev – la cui famiglia è stata paragonata dai diplomatici statunitensi ai «Corleone del famoso Padrino» – ha dovuto
accontentarsi, alle ultime elezioni, di un appena meno convincente 86 per cento di voti. Apprendiamo anche che il figlio del leader azerbaigiano pare essere proprietario, a Dubai, di una serie di ville e appartamenti del valore di 45 milioni di dollari, pari a 10.000 anni di reddito medio dei suoi concittadini. Non male, per un ragazzino di undici anni. 8 Più a sud c’è l’Iran, il cui presidente, qualche anno fa, ha pubblicamente negato l’Olocausto e accusato «i poteri e despoti occidentali» di aver diffuso il virus HIV «al fine di vendere farmaci e apparecchiature mediche ai paesi poveri». 9 È una regione che gli occidentali associano ad arretratezza, dispotismo e violenza. Per troppo tempo, ha dichiarato l’allora segretario di Stato Hillary Clinton nel 2011, l’Asia centrale è stata una terra «straziata da conflitti e divisioni», in cui il commercio e la cooperazione sono stati soffocati da «barriere burocratiche e altri ostacoli al movimento di merci e persone»; l’unica strada verso un «futuro migliore per i popoli che vivono lì», ha concluso Clinton, è cercare di creare condizioni durature di stabilità e sicurezza. Solo allora sarà possibile «attrarre maggiori investimenti privati», a suo parere essenziali per lo sviluppo sociale ed economico. 10 Nonostante la loro apparente «estraneità», queste terre sono sempre state di importanza fondamentale nella storia mondiale, in un modo o nell’altro, collegando est e ovest e ponendosi come un crogiolo dove, dall’antichità a oggi, si sono incontrate e scontrate idee, abitudini e lingue. E oggi le Vie della Seta stanno riacquistando importanza, un fenomeno che molti ignorano o a cui non prestano interesse. Gli economisti non hanno ancora rivolto l’attenzione alle ricchezze che si trovano sotto e sopra il suolo, sotto le acque o sepolte nelle montagne delle catene che collegano l’Himalaya al mar Nero, all’Asia Minore e al Levante. Si concentrano su gruppi di paesi senza connessioni storiche i cui indici misurabili appaiono a prima vista simili, come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), spesso ormai sostituiti dal nuovo trend dei MIST (Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia). 11 In realtà, è al vero Mediterraneo – il «centro del mondo» – che dovremmo invece guardare. Non c’è un Selvaggio
Oriente, nessun nuovo mondo da scoprire, ma una regione e una serie di connessioni che riemergono sotto i nostri occhi. Le città si stanno espandendo rapidamente, e nuovi aeroporti, villaggi turistici, hotel di lusso e prestigiosi edifici sorgono in paesi che hanno a disposizione enormi somme per soddisfare qualunque fantasia. Ad Aşgabat, in Turkmenistan, sono stati costruiti un nuovo palazzo presidenziale e un’arena per gli sport invernali indoor che sono costati centinaia di milioni di dollari, mentre stime prudenti ritengono che la regione turistica di Avaza, sulla costa orientale del mar Caspio, abbia già registrato investimenti per oltre 2 miliardi di dollari. Il moderno terminal dell’aeroporto internazionale di Heydar Aliyev a Baku – con i suoi giganteschi bozzoli di legno e le pareti in vetro concavo – lascia ben pochi dubbi, ai viaggiatori che arrivano in un Azerbaigian imbevuto di petrolio, sull’ambizione e sulla ricchezza del paese; e lo stesso vale per la Crystal Hall, una sala da concerti costruita per ospitare l’edizione 2012 dell’Eurovision Song Contest. Insieme alle dimensioni di Baku è cresciuta anche la possibilità di scelta per i viaggiatori internazionali, che per dormire nella capitale dell’Azerbaigian ora possono optare per uno dei vari Hilton, Kempinski, Radisson, Ramada, Sheraton e Hyatt Regency, oltre a un bel gruppo di nuovi boutique hotel. E questo è soltanto l’inizio: solo nel 2011 il numero di camere in città è raddoppiato, e ci si aspetta che la cifra raddoppi entro i prossimi quattro anni. 12 Oppure c’è Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno, praticamente sconosciuta al di fuori dell’industria petrolifera. Lì le tariffe del nuovo hotel Erbil Rotana sono più alte di quelle degli alberghi della maggior parte delle capitali europee e di molte grandi città americane: le camere standard partono da 290 dollari a notte, tariffa che include la colazione e l’uso della spa (ma non il wi-fi). 13
Sono stati fondati nuovi centri urbani, inclusa una nuova capitale: Astana, in Kazakistan, sorta dal nulla in meno di vent’anni. Adesso è sede di uno spettacolare Palazzo della Pace e della Riconciliazione disegnato da Norman Foster, oltre che del Bayterek, una torre a forma di albero alta 100 metri, in cui ha trovato posto un uovo d’oro e dove i visitatori vengono incoraggiati ad appoggiare la mano sull’impronta lasciata dal presidente kazako ed esprimere un desiderio. A uno sguardo impreparato sembra la terra di una nuova frontiera, un luogo da cui spuntano miliardari che comprano le opere d’arte più belle nelle case d’asta di Londra, New York e Parigi, felici di acquistare i migliori immobili del mondo a prezzi che hanno dell’incredibile per i residenti abituali: sul mercato immobiliare di Londra la spesa media dei compratori delle ex repubbliche sovietiche è quasi tre volte superiore a quella degli acquirenti provenienti dagli Stati Uniti o dalla Cina, e quattro volte più alta rispetto a quella degli acquirenti locali. 14 Esclusive case private e celebri edifici a Manhattan, Mayfair, Knightsbridge e nella Francia meridionale vengono acquistati, uno dopo l’altro, da magnati del rame uzbeki, da finanzieri che hanno fatto la loro fortuna grazie al commercio di potassio negli Urali, o dai signori del petrolio kazaki, che pagano qualsiasi cosa a peso d’oro, di solito in contanti. Alcuni investono le loro fortune su calciatori di fama mondiale come Samuel Eto’o, comprato da un oligarca del mar Caspio per giocare nell’Anzhi Makhachkala, un club del Daghestan, e che per un po’ è stato il calciatore più pagato al mondo; altri non lesinano spese per costruire l’immagine del loro paese. E così Baku si è trovata a ospitare i Mondiali di calcio femminile Under 17, contrassegnati dalla performance di Jennifer Lopez alla cerimonia d’apertura: una notevole differenza rispetto all’inaugurazione della stessa manifestazione di due anni prima – durata in tutto dieci minuti – tenutasi a Trinidad e Tobago, dove l’esibizione di una piccola compagnia di danza era stata seguita da poche centinaia di spettatori. 15 Nuovi collegamenti stanno emergendo lungo la spina dorsale dell’Asia, che uniscono questa regione chiave al Nord, al Sud, all’Est e all’Ovest e prendono molte e diverse strade, forme e configurazioni,
proprio com’è accaduto per millenni. Questi collegamenti sono stati integrati da nuovi tipi di arterie, come il Northern Distribution Network, una serie di corridoi di transito per la consegna di «merci non letali» alle forze statunitensi e della coalizione presenti in Afghanistan, che attraversano la Russia, l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Kirghizistan e il Tagikistan, impiegando in diversi casi le infrastrutture costruite dall’URSS negli anni Ottanta durante l’occupazione sovietica. 16 Poi, naturalmente, ci sono i gasdotti e gli oleodotti che portano l’energia ai consumatori in grado di pagarla in Europa, India, Cina e altrove. Le condotte attraversano la regione in ogni direzione, collegandosi al porto di Ceyhan, nella Turchia sudorientale, o sparpagliandosi in tutta l’Asia centrale per soddisfare la necessità di combustibili fossili in Cina, di pari passo con la sua crescita economica. Sono stati aperti e messi in connessione anche nuovi mercati, stimolando una stretta cooperazione tra Afghanistan, Pakistan e India, paesi i cui interessi convergono quando si tratta di accedere a maggiori quantità di energia a costi inferiori, grazie a un nuovo gasdotto che avrà una capacità di 27 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno. La via – seguendo la strada principale che va dai giacimenti di gas del Turkmenistan verso Herat e Kandahar, e poi verso Quetta e Multan – sarebbe stata altrettanto familiare ai mercanti sogdiani attivi duemila anni fa, così come ai mercanti di cavalli del Seicento, ma anche ai progettisti e agli strateghi della ferrovia inglese dell’epoca vittoriana, così come ai poeti che viaggiavano per lavoro diretti alla corte medievale dei Ghaznavidi. Le linee esistenti e quelle già progettate collegano l’Europa alle riserve di petrolio e gas al centro del mondo, aumentando l’importanza politica, economica e strategica non solo degli Stati esportatori, ma anche di quelli i cui territori sono solcati dai gasdotti: come la Russia ha dimostrato, le forniture di energia possono essere utilizzate come un’arma, sia con l’aumento dei prezzi sia, semplicemente, bloccandone l’accesso, come ha fatto con l’Ucraina. Molti paesi europei dipendono pesantemente dal gas russo, e molti altri da società in cui la Gazprom, che fa capo al Cremlino, detiene un
ruolo strategico o addirittura di pieno controllo: c’è quindi da aspettarsi che uno dei problemi del XXI secolo sarà proprio l’uso di energia, risorse e gasdotti come armi economiche, diplomatiche e politiche. Forse è un segnale allarmante che la tesi di dottorato del presidente Putin riguardasse la pianificazione strategica e gli usi delle risorse minerarie russe (anche se alcuni hanno messo in dubbio che la dissertazione sia opera sua, e persino che abbia mai conseguito un dottorato). 17 A est, questi gasdotti trasportano la linfa vitale di domani, mentre la Cina si garantisce forniture di gas per i prossimi trent’anni, per un valore di 400 miliardi di dollari per l’intera durata del contratto. Questa somma astronomica, da pagare parzialmente in anticipo, offre a Pechino la sicurezza energetica a cui ambisce, oltre che giustificare il costo del nuovo gasdotto stimato in 22 miliardi di dollari, e garantisce a Mosca libertà di manovra e ulteriore forza nei rapporti con vicini e rivali. Non sorprende, quindi, che la Cina sia stato l’unico membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a non ammonire la Russia per le azioni intraprese durante la crisi ucraina del 2014; la fredda realtà del commercio reciprocamente vantaggioso è un argomento molto più convincente della politica del rischio calcolato dell’Occidente. La rete dei trasporti, proprio come quella dei gasdotti, si è spaventosamente estesa negli ultimi tre decenni. Importanti investimenti nelle ferrovie transcontinentali hanno già aperto linee per il traffico merci lungo gli 11.000 chilometri della ferrovia internazionale Yuxinou, che collega la Cina con un grande centro di distribuzione nei pressi di Duisburg, in Germania, visitato nel 2014 dal presidente cinese Xi Jinping in persona. Treni lunghi quasi un chilometro hanno cominciato a trasportare milioni di computer portatili, scarpe, vestiti e altre merci non deperibili in una direzione, ed elettronica, pezzi di ricambio e apparecchiature mediche nell’altra, in un viaggio che dura sedici giorni, molto più veloce della rotta marittima dai porti cinesi sul Pacifico. Nel 2013 sono stati annunciati 43 miliardi di dollari di investimenti nel miglioramento dei collegamenti ferroviari, il che lascia prevedere
che il numero dei container trasportati in treno ogni anno aumenterà dai 7500 del 2012 ai 7,5 milioni entro il 2020. 18 E questo è solo l’inizio: sono in programma linee ferroviarie che passeranno attraverso l’Iran, la Turchia, i Balcani e la Siberia per arrivare fino a Mosca, Berlino e Parigi, e nuove tratte che collegheranno Pechino al Pakistan e il Kazakistan all’India. Si parla anche di un tunnel lungo 300 chilometri da costruire sotto lo stretto di Bering, che permetterà ai treni di partire dalla Cina e, attraverso l’Alaska e il Canada, arrivare fino agli Stati Uniti continentali. 19 Con calma e circospezione, il governo cinese sta creando reti per collegarsi ai minerali e alle fonti di energia e garantirsi l’accesso a città, porti e oceani. Non passa mese senza l’annuncio di massicci finanziamenti per riqualificare o costruire da zero infrastrutture in grado di aumentare notevolmente i volumi e la velocità degli scambi commerciali. E questo in partnership con paesi il cui status è passato da quella che i cinesi definiscono «amicizia di ferro» a relazioni, per così dire, «per tutte le stagioni». 20 Questi cambiamenti hanno già portato alla rinascita delle province occidentali cinesi. Poiché il costo del lavoro è più basso nelle regioni interne che sulla costa, molte aziende hanno cominciato a trasferirsi nelle città nei dintorni della Porta di Zungaria, l’antica porta di ingresso all’Ovest del paese, dalla quale passano oggi i treni moderni. La Hewlett-Packard ha delocalizzato la produzione da Shanghai a Chongqing, nel Sudovest, dove produce 20 milioni di computer portatili e 15 milioni di stampanti all’anno, per poi spedire milioni di pezzi in treno verso i mercati occidentali. Imitata subito da altri, come la Ford Motor Company. E c’è anche Foxconn, leader nella produzione di componenti elettronici e uno dei principali fornitori di Apple, che ha consolidato la sua presenza a Chengdu a scapito dei suoi precedenti impianti a Shenzhen. 21 Anche altre reti di trasporto sono state attivate. Cinque voli al giorno portano uomini d’affari e turisti dalla Cina ad Almaty, in Kazakistan; da Baku, trentacinque aerei a settimana volano da e per Istanbul, e molti altri verso varie città in tutta la Russia. I tabelloni degli arrivi e delle partenze in aeroporti come Aşgabat, Teheran,
Astana e Taškent mostrano una vasta e crescente rete di trasporti tra le città di questa regione, ed evidenziano al contempo quanto sia debole il collegamento con l’Europa, dalla quale sono pochi i voli in arrivo, soprattutto rispetto a quelli verso il Golfo, l’India e la Cina. In questa regione, che in passato ha dato i natali ai più importanti studiosi del mondo, stanno emergendo anche nuovi centri di eccellenza intellettuale. In tutto il golfo Persico sono sorti campus sovvenzionati da governanti locali e magnati, e amministrati dalle università di Yale, Columbia e altre; poi ci sono gli Istituti Confucio, centri culturali no-profit che promuovono la diffusione della lingua e cultura cinesi, presenti in tutti i paesi tra la Cina e il Mediterraneo, a dimostrazione della generosità e della buona volontà di Pechino. Allo stesso modo, si stanno costruendo nuovi centri per le arti, dallo straordinario Museo nazionale del Qatar al Museo Guggenheim di Abu Dhabi, al Museo d’arte moderna di Baku, oltre a nuovi e imponenti edifici come la Biblioteca nazionale a Taškent o la cattedrale di Sameba a Tbilisi, pagata dal tycoon georgiano Bidzina Ivanishvili, lo stesso che in un’asta nel 2006 acquistò il Ritratto di Dora Maar, celebre dipinto di Picasso, per 95 milioni di dollari. Questa è una regione che sta rinascendo e tornando agli antichi splendori. Case di moda occidentali come Prada, Burberry e Louis Vuitton stanno costruendo nuovi e immensi negozi, con numeri di vendita strabilianti in tutto il golfo Persico, in Russia, in Cina e nell’Estremo Oriente (e così, con deliziosa ironia, i tessuti pregiati e le sete vengono ora venduti là dove hanno avuto origine). 22 L’abbigliamento è sempre stato un segno di distinzione sociale, dai capitribù unni di duemila anni fa agli uomini e alle donne del Rinascimento, cinque secoli fa. L’odierno insaziabile appetito per i marchi più esclusivi ha una ricca tradizione storica e rappresenta un evidente indicatore delle nuove élite emergenti, nei paesi che vedono aumentare la loro ricchezza e importanza. Per chi ha gusti più esotici e nocivi, c’è il sito web crittografato dove si possono comprare e vendere armi, droga e altro in forma anonima, e il cui nome è stato deliberatamente scelto per richiamare le vie di comunicazione e gli empori commerciali del passato: la Via della Seta.
Mentre le forze dell’ordine sono impegnate in un costante gioco del gatto col topo con chi sviluppa nuove tecnologie miranti al controllo del futuro, la battaglia per il passato sta ugualmente assumendo un’importanza decisiva nella nuova era in cui stiamo entrando. Non tanto perché la storia venga riesaminata e rivalutata a proprio piacimento, anche se di certo andrà così via via che sbocceranno e cresceranno nuove università e nuovi campus. È che il passato rappresenta un argomento assolutamente vivo e vitale, lungo le Vie della Seta. La battaglia per l’anima dell’islam, tra sètte rivali e leader e dottrine antagoniste, è altrettanto serrata che nel primo secolo dopo la morte del profeta Muḥammad, ed è strettamente correlata alle interpretazioni del passato. Le relazioni tra la Russia e i suoi vicini, da un lato, e con il mondo occidentale, dall’altro, si sono dimostrate ugualmente instabili e profonde. Le vecchie rivalità e inimicizie possono essere attizzate – o smorzate – trascegliendo dalla storia esempi in cui i conti siano pari o, al contrario, regolati solo a favore di una parte. Dimostrare quanto fossero utili e importanti in passato le relazioni reciproche può diventare assai vantaggioso per il futuro: è una delle ragioni per cui la Cina sta investendo così massicciamente nel legarsi alle Vie della Seta verso Ovest, ribadendo quindi l’esistenza di un patrimonio comune di scambi commerciali e intellettuali. La Cina è stata l’avanguardia della rivoluzione nel settore delle telecomunicazioni nell’intera regione, promuovendo la costruzione di reti telefoniche cablate e di impianti di trasmissione dati che consentono alcune delle velocità di download più rapide al mondo. Tutto questo è stato in gran parte costruito da Huawei e ZTE , due aziende che hanno stretti legami con l’Esercito popolare di liberazione, grazie a prestiti agevolati offerti dalla China Development Bank o ricevuti sotto forma di aiuti intergovernativi che hanno permesso la realizzazione di strutture all’avanguardia in Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan, paesi in cui la Cina è interessata a realizzare operazioni commerciali a lungo termine, vista la stabilità della regione e, soprattutto, la ricchezza del sottosuolo. Queste società di telecomunicazioni hanno suscitato negli Stati Uniti preoccupazioni tali da rendere necessarie specifiche udienze del
Congresso. La conclusione di questi dibattiti è stata che Huawei e ZTE «non possono essere ritenute affidabili», sulla base del fatto che sono troppo soggette «all’influenza dello Stato cinese e costituiscono quindi una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti». Un giudizio paradossale, specie alla luce della successiva rivelazione che la NSA , la National Security Agency, ha allestito un programma clandestino denominato Operazione Shotgiant per infiltrare e hackerare i server della Huawei. 23 Che l’Occidente guardi alla Cina con crescente preoccupazione non fa meraviglia, essendo già in pieno corso la costruzione di una nuova rete cinese estesa all’intero pianeta. Fino alla metà del XX secolo era possibile salpare da Southampton, Londra o Liverpool e navigare alla volta dell’altro capo del mondo senza lasciare il territorio britannico, passando per Gibilterra e Malta, poi da Port Said; da lì a Aden, Bombay e Colombo, fermandosi nella Penisola malese per raggiungere infine Hong Kong. Oggi sono i cinesi a poter fare qualcosa di simile. I loro investimenti nei Caraibi sono cresciuti di oltre quattro volte fra il 2004 e il 2009, mentre in tutta la regione del Pacifico si stanno costruendo strade, stadi sportivi e scintillanti edifici governativi grazie ad aiuti, prestiti agevolati o investimenti diretti dalla Cina. Anche l’Africa ha visto un notevole intensificarsi delle iniziative, poiché il paese asiatico sta costruendo una serie di teste di ponte per cercare di conquistare una posizione di favore nell’ambito dei «Grandi Giochi» oggi in corso: una componente della competizione per l’energia, le risorse minerarie, le forniture alimentari e l’influenza politica in un momento in cui il cambiamento climatico avrà probabilmente un impatto significativo su ciascuno di questi settori. L’era dell’Occidente è a un crocevia, se non al capolinea. Nella dichiarazione di apertura di un documento redatto dal dipartimento della Difesa americano nel 2012, la prima frase del presidente Obama chiariva senza mezzi termini la percezione a lungo termine del futuro: «La nostra nazione è in un momento di transizione». Il mondo si sta trasformando sotto i nostri occhi, continuava, e ciò «richiede la nostra
leadership [affinché] gli Stati Uniti d’America rimangano la forza più grande al servizio della libertà e della sicurezza che il mondo abbia mai conosciuto». 24 In pratica, come chiarisce il documento, ciò significava nientemeno che un completo cambio di orientamento da parte degli Stati Uniti. «Dovremo necessariamente», veniva spiegato, «riposizionarci verso l’area Asia-Pacifico.» Nonostante tagli di bilancio da 500 miliardi di dollari nelle spese per la difesa già previsti per il decennio a venire, e con la probabilità di ulteriori riduzioni, Obama volle sottolineare che i tagli «non andranno a scapito di questa regione critica [l’Asia-Pacifico]». 25 Volendo sintetizzare brutalmente la relazione, si può dire che se per un secolo gli Stati Uniti hanno concentrato gran parte della loro attenzione sui rapporti con i paesi dell’Europa occidentale, adesso è venuto per loro il momento di guardare altrove. Alla stessa conclusione è giunto, dal canto suo, il ministero della Difesa britannico, che in una recente relazione ha riaffermato l’idea che il mondo stia attraversando una fase di turbolenza e trasformazione. Il periodo fino al 2040 «sarà un momento di transizione», hanno osservato gli autori dello studio, con l’understatement tipico dell’amministrazione pubblica britannica. Tra le sfide da affrontare nei prossimi decenni, continua il documento, ci sono «la realtà di un cambiamento climatico, la rapida crescita della popolazione, la scarsità delle risorse, la recrudescenza dell’ideologia e lo spostamento del potere da Occidente a Oriente». 26 Mentre il cuore del mondo si rimodella, cominciano a nascere anche istituzioni e organizzazioni destinate a plasmare i rapporti in quest’area cruciale. Originariamente istituita per facilitare la collaborazione politica, economica e militare tra Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Cina, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO ) sta diventando sempre più influente e si sta a poco a poco trasformando in una valida alternativa all’Unione europea. Alcuni deplorano l’organizzazione come «un veicolo per le violazioni dei diritti umani», sottolineando le lacune degli Stati membri nel rispettare la convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura, oltre alla palese mancanza di tutele per le minoranze; altri la
considerano invece il futuro, e paesi come la Bielorussia e Sri Lanka hanno ottenuto il formale permesso di partecipare alle riunioni come osservatori. 27 Alla Turchia questo non basta, e ha chiesto con insistenza di aderire come membro a pieno titolo, in modo da prendere le distanze dall’Europa. Nel 2013, in un’intervista televisiva, il primo ministro turco ha annunciato che il paese potrebbe rinunciare al prolungato e frustrante tentativo di entrare nell’Unione europea, e volgere lo sguardo a est; la SCO , ha affermato il leader turco, «è migliore e più potente, e poi abbiamo valori in comune». 28 Questi commenti non vanno forse presi in senso letterale, perché i paesi e le popolazioni di questa parte del mondo sono da tempo abituati a giocare su più tavoli contemporaneamente e a manipolare gli interessi concorrenti a proprio vantaggio. Tuttavia, quando le menti si rivolgono al nuovo ordine mondiale che sta emergendo, non è una coincidenza che le stesse conclusioni vengano tratte a Washington, a Pechino, a Mosca e altrove. È il momento, ha affermato nel 2011 il segretario di Stato americano Hillary Clinton, di «concentrare la nostra attenzione su una nuova Via della Seta» che aiuterà l’intera regione asiatica a fiorire. 29 È un tema ripreso dal presidente cinese Xi Jinping. Per più di duemila anni, ha dichiarato ad Astana nell’autunno del 2013, durante un importante viaggio in Asia centrale, i popoli che vivono nella regione che collega l’Est e l’Ovest sono stati in grado di coesistere, cooperare e prosperare nonostante le «differenze di razza, fede e cultura». Per la Cina è una «priorità di politica estera», ha continuato il leader di Pechino, «sviluppare rapporti di cooperazione amichevole con i paesi dell’Asia centrale». È giunto il momento, ha proseguito, di rendere più stretti i legami economici, migliorare le comunicazioni, incoraggiare gli scambi e incrementare la circolazione monetaria. È arrivato il momento, ha detto, di costruire una «cintura economica per la Via della Seta»: in altre parole, una Nuova Via della Seta. 30 Il mondo intorno a noi sta cambiando. Stiamo entrando in un’era in cui il dominio politico, militare ed economico dell’Occidente comincia a essere messo in discussione, provocando un senso d’incertezza inquietante. La falsa alba di una «Primavera araba» ha promesso
un’ondata di liberalismo e un impeto di democrazia, che ha invece lasciato il posto all’intolleranza, alla sofferenza e alla paura in tutta la regione, mentre il cosiddetto «Stato Islamico in Siria e Iraq» e i suoi adepti cercano di prendere il controllo del territorio, del petrolio e delle menti delle proprie vittime. Non c’è dubbio che ci aspettano ulteriori turbolenze, anche a causa della drastica caduta del prezzo del petrolio, che minaccia di avere una ricaduta sulla stabilità degli Stati del Golfo, della Penisola arabica e dell’Asia centrale, i quali, dopo aver vissuto per generazioni sulle spalle dei ricchi giacimenti di petrolio e gas, ora si trovano a lottare per il pareggio di bilancio e sono costretti a introdurre misure di austerità. La contrazione dell’economia e l’instabilità politica vanno di pari passo, e di rado si risolvono in modo rapido e facile. A nord del mar Nero, l’assorbimento della Crimea da parte della Russia e il suo coinvolgimento in Ucraina hanno destabilizzato i rapporti tra Mosca e Washington, oltre che con l’Unione europea, in netto contrasto con la traiettoria dell’Iran, a lungo uno Stato reietto e che ora sembra tornato al suo ruolo tradizionale di perno da cui si potranno diffondere pace e prosperità. E poi, ovviamente, c’è la Cina, entrata con tutta evidenza in una fase di transizione in cui la folle velocità della crescita economica degli ultimi due decenni sta rallentando, per prendere un ritmo che molti definiscono «new normal»: costante, ma non strabiliante. Il modo in cui la Cina s’impegnerà con i suoi vicini, vecchi e nuovi, e il ruolo che svolgerà sul palcoscenico globale contribuiranno a caratterizzare il XXI secolo. Le immense risorse investite nel 2013 nel progetto «One Belt, One Road» (una cintura [di infrastrutture], una via, ovvero la Nuova Via della Seta) di Xi Jinping sembrano realmente indicare che la Cina stia pianificando il futuro. Altrove, traumi e difficoltà, sfide e problemi, somigliano ai dolori del parto, segni di un nuovo mondo che sta emergendo davanti ai nostri occhi. Mentre ci chiediamo da dove arriverà la prossima minaccia, come affrontare nel modo migliore il fondamentalismo religioso, come negoziare con Stati che sembrano intenzionati a ignorare il diritto internazionale e come costruire relazioni con popoli, culture e regioni alla cui comprensione abbiamo
dedicato poco tempo e, talvolta, nemmeno quello, reti e connessioni si stanno tranquillamente saldando – o meglio, rinsaldando – lungo la spina dorsale dell’Asia. Le Vie della Seta rinascono a nuova vita.
NOTE
Prefazione 1. Eric Wolf, L’Europa e i popoli senza storia, trad. it. Bologna, il Mulino, 1990, p. 35. 2. A. Herrmann, Die älteste türkische Weltkarte (1076 n. Chr.), in «Imago Mundi», I, 1, 1935, pp. 21-28, e anche Maḥmud al-Kashghari, Dīwān lughāt al-turk. Compendium of the Turkic Dialects, ed. ingl. a cura di R. Dankhoff e J. Kelly, 3 voll., Cambridge, MA , 1982-85, vol. 1, pp. 82-83. Per l’ubicazione della città, V. Goryacheva, Srednevekoviye gorodskie tsentry i arkhitekturnye ansambli Kirgizii, Frunze, 1983, in particolare le pp. 54-61. 3. Per la crescente domanda di generi di lusso in Cina, vedi, per esempio, Crédit Lyonnais Securities Asia, Dipped in Gold. Luxury Lifestyles in China, 2011; per l’India, vedi Ministero degli Affari interni, Houselisting and Housing Census Data, New Delhi, 2012. 4. Vedi, per esempio, Transparency International, Corruption Perception Index 2013 (www.transparency.org); Reporters without Borders, World Press Freedom Index 2013-2014 (www.rsf.org); Human Rights Watch, World Report 2014 (www.hrw.org). 5. Genesi 2,8-9. Per le idee sull’ubicazione del Giardino dell’Eden, Jean Delumeau, Storia del paradiso. Il giardino delle delizie, trad. it. di L. Grasso, Bologna, il Mulino, 1994. 6. Per Mohenjo-daro e altri siti, vedi Jonathan Mark Kenoyer, Ancient Cities of the Indus Valley Civilization, Karachi, Oxford University Press, 1998. 7. Sima Qian, Records of the Grand Historian. Han Dynasty, trad. ingl. di Burton Watson, 2 voll., edizione riveduta, New York, Columbia University Press, 1971, 123, vol. 2, pp. 234-235. 8. Ferdinand von Richthofen, Über die zentralasiatischen Seidenstrassen bis zum 2. Jahrhundert n. Chr., in «Verhandlungen der Gesellschaft für Erdkunde zu Berlin», 4, 1877, pp. 96-122. 9. Edward W. Said, Orientalismo, trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Si noti anche la reazione drasticamente positiva e fortemente venata di romanticismo di pensatori francesi quali Foucault, Sartre e Godard nei
confronti dell’Oriente e della Cina in particolare. Richard Wolin, French Intellectuals, the Cultural Revolution and the Legacy of the 1960s. The Wind from the East, Princeton, Princeton University Press, 2010. 10. Bābur-Nāma, Memoirs of Babur, Prince and Emperor, trad. ingl. di W. Thackston, London, 2006, pp. 173-174. 11. W. Thackston, Treatise on Calligraphic Arts. A Disquisition on Paper, Colors, Inks and Pens by Simi of Nishapur, in M. Mazzaoui e V. Moreen (a cura di), Intellectual Studies on Islam. Essays Written in Honor of Martin B. Dickinson, Salt Lake City, 1990, p. 219. 12. Shams al-Din al-Muqaddasī, Aḥsanu-t-taqāsīm fī ma‘rifati-l-aqālīm, ed. ingl. a cura di B. Collins, The Best Divisions for Knowledge of the Regions, Reading, Garnet, 2001, p. 252 (trad. it. La migliore divisione per la conoscenza delle regioni, in I cammini dell’Occidente. Il Mediterraneo tra i secoli IX e X, Padova, Cleup, 2001); Ibn al-Faqīh, Kitāb al-buldān, trad. ingl. Book of Countries, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness. Arab Travellers in the Far North, a cura di P. Lunde e C. Stone, London, 2011, p. 113. 13. Citato da Nicola Di Cosmo, Ancient China and Its Enemies. The Rise of Nomadic Power in East Asian History, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 137. 14. Vedi, per esempio, Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. it. in «Opere», 12 voll., Torino, Boringhieri, 1966, vol. 3, p. 480; Jacques Derrida, Résistances de la psychanalyse, Paris, Galilée, 1996, pp. 8-14.
I. La creazione della Via della Seta 1. Colin Renfrew, Inception of Agriculture and Rearing in the Middle East, in «Comptes Rendus Palevol», V, 1-2, 2006, pp. 395-404; Guillermo Algaze, Ancient Mesopotamia at the Dawn of Civilization. The Evolution of an Urban Landscape, Chicago, University of Chicago Press, 2008. 2. Erodoto, Le storie, 1, 135, trad. it. Milano, Mondadori e Fondazione Lorenzo Valla, 1988, vol. 1, p. 157. 3. Vedi in generale John Curtis e St John Simpson (a cura di), The World of Achaemenid Persia. History, Art and Society in Iran and the Ancient Near East, London, New York, Tauris, 2010. 4. Erodoto, Le storie, cit., 8, 98, vol. 8, p. 119; D. Graf, The Persian Royal Road System, in Heleen Sancisi-Weerdenburg, Amelie Kuhrt e Margaret Cool Root (a cura di), Continuity and Change, Leiden, Nederlands Instituut voor het Nabije Oosten, 1994, pp. 167-189. 5. Henry Rawlinson, The Persian Cuneiform Inscription at Behistun, Decyphered and Translated, in «Journal of the Royal Asiatic Society», XI, 1849, pp. 1-192.
6. Esdra 1,2. Vedi anche Isaia 44,24-28; 45,1-3. 7. Roland G. Kent, Old Persian. Grammar, Texts, Lexicon, New Haven, American Oriental Society, 1953, pp. 142-144. 8. Erodoto, Le storie, cit., 1, 135, vol. 1, p. 157. 9. Ivi, 1, 214, vol. 1, p. 237. 10. Eschilo, I persiani. Si notino anche gli atteggiamenti più ambigui, Pierre Briant, History and Ideology. The Greeks and «Persian Decadence», in Thomas Harrison (a cura di), Greeks and Barbarians, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2002, pp. 193-210. 11. Euripide, Le baccanti, vv. 1-22, trad. it. in Id., «Tragedie», vol. 3, a cura di Olimpio Musso, Torino, UTET , 2001, p. 539. 12. Plutarco, Vite parallele. Vita di Alessandro, 32-33, trad. it. Torino, Einaudi, 1958, vol. 2, pp. 261-262. Indossava una tenuta fortunata a giudicare da un famoso mosaico che adornava la più vasta casa di Pompei: Ada Cohen, The Alexander Mosaic. Stories of Victory and Defeat, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. 13. Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, 5, 1, trad. it. Milano, Mondadori e Fondazione Lorenzo Valla, 1998, vol. 1, pp. 207-209. 14. Mary Beard, Was Alexander the Great a Slav?, in «Times Literary Supplement», 3 luglio 2009. 15. Arriano, L’anabasi di Alessandro, 6, 29, trad. it. Milano, Rizzoli, 1994, vol. 2, pp. 581-585; anche Plutarco parla dell’importanza dell’atteggiamento pacifico e generoso di Alessandro, Vite parallele. Alessandro, cit., 59, pp. 284285. 16. Arriano, Anabasi di Alessandro, cit., 3, 21-22, vol. 1, pp. 293-297. 17. Curzio Rufo, Storie di Alessandro Magno, cit., 8, 8, vol. 2, p. 227. 18. A. Shahbazi, Iranians and Alexander, in «American Journal of Ancient History», II, 1, 2003, pp. 5-38. Vedi su questo anche M. Olbryct, Aleksander Wielki i swiat iranski, Gdansk, 2004; M. Brosius, Alexander and the Persians, in J. Roitman (a cura di), Alexander the Great, Leiden, 2003, pp. 169-193. 19. Vedi soprattutto Pierre Briant, Darius dans l’ombre d’Alexandre, Paris, Fayard, 2003. 20. Per il concetto di huaxia, vedi Charles Holcombe, A History of East Asia. From the Origins of Civilization to the Twenty-First Century, Cambridge, Cambridge University Press, 2010; per la Grande Muraglia, A. Waldron, The Problem of the Great Wall of China, in «Harvard Journal of Asiatic Studies», XLIII, 2, 1983, pp. 643-663, e soprattutto N. Di Cosmo, Ancient China and Its Enemies, cit. 21. Vedi, tra le fonti più recenti, James Romm, Ghost on the Throne. The Death of Alexander the Great and the War for Crown and Empire, New York, Alfred Knopf, 2011. Si è variamente sostenuto che Alessandro sia morto di febbre
tifoidea, di malaria, di leucemia, di avvelenamento da alcool (o malattia connessa) oppure per un’infezione dovuta a una ferita; alcuni affermano che fu assassinato: A. Bosworth, Alexander’s Death. The Poisoning Rumors, in James Romm (a cura di), The Landmark Arrian. The Campaigns of Alexander, New York, Pantheon Books, 2010, pp. 407-411. 22. Vedi Robin Waterfield, Dividing the Spoils. The War for Alexander the Great’s Empire, Oxford, Oxford University Press, 2011. 23. Kenneth Sheedy, Magically Back to Life. Some Thoughts on Ancient Coins and the Study of Hellenistic Royal Portraits, in Kenneth Sheedy (a cura di), Alexander and the Hellenistic Kingdoms. Coins, Image and the Creation of Identity, Sydney, Australian Centre for Ancient Numismatic Studies, Macquarie University, 2007, pp. 11-16; K. Erickson e N. Wright, The «Royal Archer» and Apollo in the East. Greco-Persian Iconography in the Seleukid Empire, in N. Holmes (a cura di), Proceedings of the XIVth International Numismatic Congress, Glasgow, 2011, pp. 163-168. 24. L. Robert, De Delphes à l’Oxus. Inscriptions grecques nouvelles de la Bactriane, in «Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions», 1968, pp. 416-457. 25. J. Jakobsson, Who Founded the Indo-Greek Era of 186/5 BCE ?, in «Classical Quarterly», LIX, 2, 2009, pp. 505-510. 26. D. Sick, When Socrates Met the Buddha. Greek and Indian Dialectic in Hellenistic Bactria and India, in «Journal of the Royal Asiatic Society», XVII, 3, 2007, pp. 253-254. 27. J. Derrett, Early Buddhist Use of Two Western Themes, in «Journal of the Royal Asiatic Society», XII, 3, 2002, pp. 343-355. 28. B. Litvinsky, Ancient Tajikistan. Studies in History, Archaeology and Culture (1980-1991), in «Ancient Civilisations», I, 3, 1994, p. 295. 29. S. Nath Sen, Ancient Indian History and Civilisation, Delhi, 1988, p. 184. Vedi anche Rafique Ali Jairazbhoy, Foreign Influence in Ancient India, London, Asia Publishing House, 1963, pp. 48-109. 30. Plutarco, Peri tes Alexandrou tukhes he arête, 5, 4 in Plutarco, Moralia, trad. it. La fortuna o la virtù di Alessandro Magno. Prima orazione, Napoli, M. D’Auria, 1998; J. Derrett, Homer in India: The Birth of the Buddha, in «Journal of the Royal Asiatic Society», II, 1, 1992, pp. 47-57. 31. James George Frazer, The Fasti of Ovid, London, Macmillan, 1929; J. Lallemant, Une Source de l’Enéide: le Mahabharata, in «Latomus», XVIII, 1959, pp. 262-287; R.A. Jairazbhoy, Foreign Influence in Ancient India, cit., p. 99. 32. Christoph Baumer, The History of Central Asia. The Age of the Steppe Warriors, London, New York, Tauris, 2012, pp. 290-295. 33. V. Hansen, The Silk Road, Oxford, 2012, pp. 9-10. 34. Sima Qian, Records of the Grand Historian, cit., 123, vol. 2, p. 238. 35. Ivi, 129, vol. 2, p. 440.
36. H. Creel, The Role of the Horse in Chinese History, in «American Historical Review», LXX, 3, 1965, pp. 647-672. Sulle pareti delle caverne di Dunhuang sono dipinti parecchi cavalli celesti: T. Chang, Dunhuang Art through the Eyes of Duan Wenjie, New Delhi, 1994, pp. 27-28. 37. Scavi recenti (2011) del mausoleo dell’imperatore Wu a Xi’an, Agenzia Xinhua, 21 febbraio 2011. 38. Huan Kuan, Yan Tie Lun, citato da Ying-shih Yu, Trade and Expansion in Han China. A Study in the Structure of Sino-Barbarian Economic Relations, Berkeley, University of California Press, 1967, p. 40. 39. Vedi, per esempio, Sima Qian, Records of the Grand Historian of China, cit., 110, vol. 2, pp. 145-146. Per alcuni commenti sull’educazione, i costumi e le mode degli Xiongnu, pp. 129-130. 40. Vedi Ying-shih Yu, Trade and Expansion in Han China, cit., pp. 48-54. 41. Ivi, p. 47; su questo vedi anche Raoul McLaughlin, Rome and the Distant East. Trade Routes to the Ancient Lands of Arabia, India and China, London, New York, Continuum, 2010, pp. 83-85. 42. Sima Qian, Records of the Grand Historian of China, cit., 110, vol. 2, p. 143. 43. S. Durrant, The Cloudy Mirror. Tension and Conflict in the Writings of Sima Qian, Albany, NY , 1995, pp. 8-10. 44. Sima Qian, Records of the Grand Historian of China, cit., 123, vol. 2, p. 235. 45. Edward H. Schafer, The Golden Peaches of Samarkand. A Study of T’ang Exotics, Berkeley, University of California Press, 1963, pp. 13-14. 46. V. Hansen, The Silk Road, cit., p. 14. 47. Thomas Burrow, A Translation of Kharoshthi Documents from Chinese Turkestan, London, 1940, p. 95. 48. V. Hansen, The Silk Road, cit., p. 17. 49. Rafe de Crespigny, Biographical Dictionary of Later Han to the Three Kingdoms (23-220 AD ), Leiden, Brill, 2007. 50. M. Rahim Shayegan, Arsacids and Sasanians. Political Ideology in PostHellenistic and Late Antique Persia, Cambridge, Cambridge University Press, 2011. 51. Nathan Stewart Rosenstein, Imperatores victi. Military Defeat and Aristocratic Competition in the Middle and Late Republic, Berkeley, California University Press, 1990; vedi anche Sara Elise Phang, Roman Military Service. Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate, Cambridge, Cambridge University Press, 2008. 52. Peter J. Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, trad. it. Milano, Garzanti, 2006, pp. 20-21. Per il divieto di matrimonio, vedi soprattutto Sara Elise Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 BC - AD 235). Law and Family in the Imperial Army, Leiden, Brill, 2001. 53. Christopher Howgego, The Supply and Use of Money in the Roman World 200
B.C . to A.D . 300, in «Journal of Roman Studies», LXXXII, 1992, pp. 4-5.
54. Alan K. Bowman, Life and Letters from the Roman Frontier. Vindolanda and its People, London, British Museum Press, 1994. 55. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, 17, 52, Milano, Rusconi, 1985-1998, vol. 3, p. 534. Gli studiosi moderni stimano che la popolazione di Alessandria raggiungesse il mezzo milione di abitanti, per esempio Roger S. Bagnall e Bruce W. Frier, The Demography of Roman Egypt, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 54, 104. 56. D. Thompson, Nile Grain Transport under the Ptolemies, in P. Garnsey, K. Hopkins e C. Whittaker (a cura di), Trade in the Ancient Economy, Berkeley, University of California Press, 1983, pp. 70-71. 57. Strabone, XVII, 1 (L’Africa di Strabone. Libro XVII della «Geografia», trad. di Nicola Biffi, Modugno, BA , Edizioni dal Sud, 1999). 58. Cassio Dione, Storia romana, 51, 21, trad. it. Milano, Rizzoli, 1996, vol. 4, p. 323; Gaio Svetonio Tranquillo, Le vite di dodici Cesari, trad. it. Bologna, Zanichelli, 1982, vol. 1, Augusto, 41, p. 133; Richard Duncan-Jones, Money and Government in the Roman Empire, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, p. 21; M. Fitzpatrick, Provincializing Rome. The Indian Ocean Trade Network and Roman Imperialism, in «Journal of World History», XXII, 1, 2011, p. 34. 59. Svetonio, Le vite di dodici Cesari, cit., loc. cit. 60. Ivi, 29, p. 117; l’affermazione di Augusto è confermata dalle testimonianze archeologiche: P. Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1989. 61. Per la tassazione sulle vie carovaniere, vedi J. Thorley, The Development of Trade between the Roman Empire and the East under Augustus, in «Greece and Rome», XVI, 2, 1969, p. 211; R. Ritner, Egypt under Roman Rule. The Legacy of Ancient Egypt, in Cambridge History of Egypt, 1, p. 10; Naphtali Lewis, Life in Egypt under Roman Rule, Oxford, Clarendon Press, 1983, p. 180. 62. Vedi N. Lewis, Life in Egypt, cit., pp. 33-34; R. Ritner, Egypt under Roman Rule, cit., 1, pp. 7-8; Alan K. Bowman, L’Egitto dopo i faraoni. Da Alessandro Magno alla conquista araba. 332 a.C. - 642 d.C., trad. it. Firenze, Giunti, 1988, pp. 106-107. 63. Per la registrazione di nascite e morti nell’Egitto romano, R. Ritner, Poll Tax on the Dead, in «Enchoria», XV, 1988, pp. 205-207. Per il censimento, compresa la sua datazione, J. Rist, Luke 2:2. Making Sense of the Date of Jesus’ Birth, in «Journal of Theological Studies», LVI, 2, 2005, pp. 489-491. 64. Marco Tullio Cicerone, De imperio Cnei Pompei (Pro lege Manilia), in Cicerone, Le orazioni, trad. it. Torino, UTET , 1981, vol. 2, p. 287. 65. Gaio Sallustio Crispo, La congiura di Catilina, 11, 5-6, in Opere, trad. it. Torino, UTET , 1963, vol. 1, p. 101; Andrew Dalby, Empire of Pleasures. Luxury
and Indulgence in the Roman World, London, Routledge, 2000, p. 162. 66. Friedhelm Hoffman, Martina Minas-Nerpel e Stefan Pfeiffer, Die dreisprachige Stele des C. Cornelius Gallus. Übersetzung und Kommentar, Berlin, Walter De Gruyter, 2009, pp. 5 sgg.; G. Bowersock, A Report on Arabia Provincia, in «Journal of Roman Studies», LXI, 1971, p. 227. 67. Wilfred Schoff, Parthian Stations of Isidore of Charax. An Account of the Overland Trade between the Levant and India in the First Century BC , Philadelphia, 1914. Si è spesso ritenuto che il testo si occupasse di vie commerciali; Fergus Millar mostra che ciò è sbagliato: Caravan Cities. The Roman Near East and Long-Distance Trade by Land, in «Bulletin of the Institute of Classical Studies», XLII, S71, 1998, pp. 119 sgg. Per l’identificazione di Alexandropolis, vedi Peter M. Fraser, Cities of Alexander the Great, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 132-140. 68. Strabone, II, 5 (in The Geography of Strabo, 8 voll., ed. e trad. ingl. H. Jones, Cambridge, MA , 1917-1932, vol. I, p. 454); Grant Parker, Ex Oriente Luxuria. Indian Commodities and Roman Experience, in «Journal of the Economic and Social History of the Orient», XLV, 1, 2002, pp. 64-66; M. Fitzpatrick, Provincializing Rome, cit., pp. 49-50. 69. G. Parker, Ex Oriente Luxuria, cit., pp. 64-66; M. Vickers, Nabataea, India, Gaul, and Carthage. Reflections on Hellenistic and Roman Gold Vessels and RedGloss Pottery, in «American Journal of Archaeology», XCVIII, 1994, p. 242; E. Lo Cascio, State and Coinage in the Late Republic and Early Empire, in «Journal of Roman Studies», LXXXI, 1981, p. 82. 70. Citato da Grant Parker, The Making of Roman India, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, p. 173. 71. In Hermann Kulke e Dietmar Rothermund, Storia dell’India, trad. it. Milano, Garzanti, 1991, p. 125. 72. Lionel Casson (a cura di), The Periplus Maris Erythraei. Text with Introduction, Translation and Commentary, Princeton, Princeton University Press, 1989, 48-49, p. 80; 56, p. 84. 73. W. Wendrich, R. Tomber, S. Sidebotham, J. Harrell, R. Cappers e R. Bagnall, Berenike Crossroads. The Integration of Information, in «Journal of the Economic and Social History of the Orient», XLVI, 1, 2003, pp. 59-62. 74. V. Begley, Arikamedu Reconsidered, in «American Journal of Archaeology», LXXXVII, 4, 1983, pp. 461-481; G. Parker, Ex Oriente Luxuria, cit., pp. 47-48. 75. Vedi Timothy Power, The Red Sea from Byzantium to the Caliphate, AD 5001000, il Cairo, New York, American University in Cairo Press, 2012. 76. Publio Cornelio Tacito, Annali, 2, 33, trad. it. Milano, Mondadori, 1994, p. 167. 77. Petronio, Satyricon, 30-38, 55, trad. it. Torino, Einaudi, 1967, pp. 35-45, 69. 78. Marco Valerio Marziale, Epigrammi, 5, 37, trad. it. Torino, Einaudi, 1964,
pp. 322-323. 79. Talmud Bavli, citato in A. Dalby, Empire of Pleasures, cit., p. 266. 80. Decimo Giunio Giovenale, Satire, 3, vv. 62-66, trad. it. Milano, Mondadori, 1990, pp. 115-117. 81. L. Casson, Periplus Maris Erythraei, cit., 49, p. 80; 56, p. 84; 64, p. 90. 82. Lucio Anneo Seneca, I benefici, VII, 9, 5, in Tutte le opere, trad. it. Milano, Bompiani, 2000, p. 476. 83. Tacito, Annali, cit., 2, 33, p. 167. 84. Gaio Plinio Secondo (Plinio il Giovane), Storia naturale, 6, 20, trad. it. Torino, Einaudi, 1982-83, vol. 1, p. 683. 85. Ivi, 6, 26, vol. 1, p. 711. 86. Ivi, 12, 41, vol. 3, p. 57. 87. H. Harrauer e P. Sijpesteijn, Ein neues Dokument zu Roms Indienhandel, P. Vindob. G40822, in «Anzeiger der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, phil.-hist.Kl.122», 1985, pp. 124-155; vedi anche Lionel Casson, New Light on Maritime Loans. P. Vindob. G 40822, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», LXXXIV, 1990, pp. 195206; e Fergus Millar, Looking East from the Classical World, in «International History Review», XX, 3, 1998, pp. 507-531. 88. L. Casson, Periplus Maris Erythraei, cit., 39, p. 74. 89. Javier Teixidor, Un Port roman du désert. Palmyre et son commerce d’Auguste à Caracalla, Paris, Librairie d’Amérique et d’orient Adrien-Maisonneuve, 1984; Ernest Will, Les Palmyréniens. La Venise des sables (Ier siècle avant-IIIème siècle après J.-C.), Paris, Colin, 1992. 90. Ammiano Marcellino, Storie, 14, 3, trad. it. Milano, Rusconi, 1989, p. 107. 91. J. Cribb, The Heraus Coins. Their Attribution to the Kushan King Kujula Kadphises, c. AD 30-80, in Martin Price, Andrew Burnett e Roger Bland (a cura di), Essays in Honour of Robert Carson and Kenneth Jenkins, London, Spink, 1993, pp. 107-134. 92. L. Casson, Periplus Maris Erythraei, cit., 43, pp. 76-78; 46, pp. 78-80. 93. Ivi, 39, p. 76; 48-49, p. 81. Per i Kushan, vedi la raccolta di saggi in V. Masson, B. Puris, C. Bosworth et al. (a cura di), History of Civilizations of Central Asia, 6 voll., Paris, UNESCO , 1992-2005, vol. 2, pp. 247-396. 94. Donald Leslie e Kenneth Gardiner, The Roman Empire in Chinese Sources, Roma, Bardi, 1996, specialmente pp. 131-162; vedi anche R. Kauz e L. Yingsheng, Armenia in Chinese Sources, in «Iran and the Caucasus», XII, 2008, pp. 157-190. 95. Sima Qian, Records of the Grand Historian of China, cit., 123, vol. 2, p. 241. 96. Vedi anche Berthold Laufer, Sino-Iranica. Chinese Contributions to the History of Civilisation in Ancient Iran, Chicago, 1919, e Roman Ghirshman, Iran. From the Earliest Times to the Islamic Conquest, Harmondsworth, Penguin Books,
1954. 97. T. Power, The Red Sea, cit., p. 58. 98. E.H. Schafer, The Golden Peaches of Samarkand, cit., p. 1. 99. Il fatto che l’ambasceria recasse gusci di tartaruga, corno di rinoceronte e avorio lascia pensare che gli inviati fossero stati ben informati sui gusti cinesi: F. Hirt, China and the Roman Orient, Leipzig, 1885, pp. 42, 94. Su questo vedi R. McLaughlin, Rome and the Distant East, cit. 100. M. Fitzpatrick, Provincializing Rome, cit., p. 36; Quinto Orazio Flacco, Odi, 1, 12, vv. 53-56, in Odi, Epodi, trad. it. Milano, Mondadori, 2004, p. 41. 101. Benjamin Isaac, The Limits of Empire. The Roman Army in the East, Oxford, Clarendon Press, 1990, p. 43; Susan Mattern, Rome and the Enemy. Imperial Strategy in the Principate, Berkeley, University of California Press, 1999, p. 37. 102. Harold Mattingly (a cura di), A Catalogue of the Coins of the Roman Empire in the British Museum, 6 voll., London, British Museum Publications, 194062, vol. 3, p. 606. Per la campagna di Traiano, vedi Julian Bennett, Trajan: Optimus Princeps. A life and times, London, Routledge, 1997, pp. 183-204. 103. Cassio Dione, Storia romana, cit., 68, 29, vol. 8, p. 87; Jordanes, Romana, in Iordanis Romana et Getica, Berolini, apud Weidmannos, 1882, pp. 34-35. 104. Lattanzio, Come muoiono i persecutori, trad. it. Roma, Città Nuova Editrice, 2005, 5, pp. 50-51. 105. A. Invernizzi, Arsacid Palaces, in Inge Nielsen (a cura di), The Royal Palace Institution in the First Millennium BC , Athina, The Danish Institute at Athens, 2001, pp. 295-312; A. Invernizzi, The Culture of Nisa, between Steppe and Empire, in Joe Cribb e Georgina Herrmann (a cura di), After Alexander. Central Asia before Islam. Themes in the History and Archaeology of Western Central Asia, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 163-177. L’ormai dimenticata Nisa è sede di molti magnifici esempi di forme d’arte ellenistiche: V. Pilipko, Rospisi Staroi Nisy, Tashkent, 1992; P. Bernard e F. Grenet (a cura di), Histoire des cultes de l’Asie Centrale préislamique, Paris, 1991. 106. Per Characene, Leonardo Gregoratti, A Parthian Port on the Persian Gulf. Characene and its Trade, in «Anabasis», II, 2011, pp. 209-229. Per la ceramica, vedi per esempio H. Schenk, Parthian Glazed Pottery from Sri Lanka and the Indian Ocean Trade, in «Zeitschrift für Archäologie Außereuropäischer Kulturen», II, 2007, pp. 57-90. 107. F. Rahimi-Laridjani, Die Entwicklung der Bewässerungslandwirtschaft im Iran bis in Sasanidisch-frühislamische Zeit, Wiesbaden, 1988; Rika Gyselen, La géographie administrative de l’empire sasanide. Les témoignages sigillographiques, Paris, 1989. 108. Ahmad Taffazoli, List of Trades and Crafts in the Sassanian Period, in
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II. La Via delle Fedi 1. Harry Falk, Asókan Sites and Artefacts. A Source-book with Bibliography, Mainz, von Zabern, 2006, p. 13; E. Seldeslachts, Greece, the Final Frontier? The Westward Spread of Buddhism, in Ann Heirman e Stefan P. Bumbacher (a cura di), The Spread of Buddhism, Leiden, Brill, 2007, specialmente pp. 158160. 2. D. Sick, When Socrates Met the Buddha, cit., p. 271; per la letteratura Pali coeva, Oskar von Hinüber, A Handbook of Pāli Literature, Berlin, New York, W. De Gruyter, 1996. 3. Gérard Fussman, The Mat «Devakula». A New Approach to its Understanding, in D. Srivasan (a cura di), Mathurā. The Cultural Heritage, New Delhi, 1989, pp. 193-199.
4. Per esempio, P. Rao Bandela, Coin Splendour. A Journey into the Past, New Delhi, 2003, pp. 32-35. 5. D. MacDowall, Soter Megas, the King of Kings, the Kushana, in «Journal of the Numismatic Society of India», 1968, pp. 28-48. 6. Si noti per esempio la descrizione di Dio nel Libro dei Salmi come «il Dio degli dèi … il Signore dei signori» (Sal 136,2-3), o l’analoga descrizione in Deuteronomio (10,17). L’Apocalisse ci dice come la bestia verrà sconfitta, perché l’Agnello è «il Signore dei signori e il Re dei re» (Ap 17,14). 7. The Lotus of the Wonderful Law or The Lotus Gospel. Saddharma Pundarīka Sūtra Miao-Fa Lin Hua Chung, trad. ingl. di W. Soothill, London, 1987, p. 77. 8. Xinru Liu, Ancient India and Ancient China. Trade and Religious Exchanges AD 1-600, Oxford, Oxford University Press, 1988, p. 102. 9. Sukhāvatī-vyūha. Description of Sukhāvatī, the Land of Bliss, trad. ingl. di F. Müller, Oxford, 1883, pp. 33-34; The Lotus of the Wonderful Law, cit., pp. 107, 114. 10. Daniel Schlumberger, Marc Le Berre e Gérard Fussman (a cura di), Surkh Kotal en Bactriane, vol. 1, Les Temples. Architecture, sculpture, inscriptions, Paris, Boccard, 1983; V. Gaibov, Ancient Tajikistan Studies in History, Archaeology and Culture (1980-1991), in «Ancient Civilizations from Scythia to Siberia», I, 3, 1995, pp. 289-304. 11. Richard Salomon, Ancient Buddhist Scrolls from Gandhara, Seattle, University of Washington Press, 1999. 12. James Harle, The Art and Architecture of the Indian Subcontinent, New Haven, Yale University Press, 1994, pp. 4357. 13. Vedi soprattutto Étienne de la Vaissière, Histoire des marchands sogdiens, Paris, Collège de France, Institut des Hautes Études Chinoises, 2002; trad. ingl. Sogdian Traders. A History, Leiden, Brill, 2005. 14. K. Jettmar, Sogdians in the Indus Valley, in P. Bernard e F. Grenet, Histoire des cultes de l’Asie centrale préislamique, cit., pp. 251-253. 15. Clement Huart, Le livre de Gerchāsp, poème persan d’Asadī junior de Toūs, 2 voll., Paris, 1926-29, vol. 2, p. 111. 16. Jacques Giès, Laure Feugère e André Coutin (a cura di), Painted Buddhas of Xinjiang. Hidden Treasures from the Silk Road, London, British Museum Press, 2002; T. Higuchi e G. Barnes, Bamiyan. Buddhist Cave Temples in Afghanistan, in «World Archaeology», XXVII, 2, 1995, pp. 282 sgg. 17. M. Rhie, Early Buddhist Art of China and Central Asia, vol. 1, Leiden, Brill, 1999; Ran Wei, Ancient Chinese Architecture. Buddhist Buildings, Wien, Springer, 2000. 18. G. Koshelenko, The Beginnings of Buddhism in Margiana, in «Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae», XIV, 1966, pp. 175-183; Richard Foltz, Religions of the Silk Road. Premodern Patterns of Globalization, Basingstoke,
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concezioni e le metodologie di Stark sono risultate controverse, vedi «Journal of Early Christian Studies», VI, 2, 1998. 40. Plinio il Giovane, Lettera 96, in Carteggio con Traiano, trad. it. Milano, Rizzoli, 1994, pp. 887-891. 41. Ivi, Lettera 97, pp. 897-899. 42. J. Helgeland, R. Daly e P. Patout Burns (a cura di), Christians and the Military. The Early Experience, Philadelphia, 1985. 43. Michael Roberts, Poetry and the Cult of the Martyrs, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1993; Geoffrey de Sainte Croix, Christian Persecution, Martyrdom and Orthodoxy, Oxford, 2006. 44. Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, Apologetico, 42, 1, in Opere apologetiche, trad. it. Roma, Città Nuova, 2006, p. 309; G. Stoumsa, Barbarian Philosophy. The Religious Revolution of Early Christianity, Tübingen, 1999, pp. 69-70. 45. Tertulliano, Ai pagani, I, 7, 34, in Opere apologetiche, cit., p. 379. 46. Wilhelm Baum e Dietmar W. Winkler, Die Apostolische Kirche des Ostens, Klagenfurt, Kitab, 2000, pp. 13-17. 47. S. Rose, Roman Edessa. Politics and Culture on the Eastern Fringes of the Roman Empire, 114-242 CE , London, 2001. 48. Tamila Mgaloblishvili e I. Gagoshidze, The Jewish Diaspora and Early Christianity in Georgia, in Tamila Mgaloblishvili (a cura di), Ancient Christianity in the Caucasus, London, Taylor & Francis, 1998, pp. 39-48. 49. J. Bowman, The Sassanian Church in the Kharg Island, in «Acta Iranica», 1, 1974, pp. 217-220. 50. The Book of the Laws of the Countries. Dialogue on the Fate of Bardaisan of Edessa, trad. ingl. di H. Drijvers, Assen, 1965, p. 61. 51. J. Asmussen, Christians in Iran, in The Cambridge History of Iran. The Seleucid, Parthian and Sasanian Periods, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, 3.2, pp. 929-930. 52. Sebastian Brock, A Martyr at the Sasanid Court under Vahran II: Candida, in «Analecta Bollandiana», XCVI, 2, 1978, pp. 167-181. 53. Eusebio di Cesarea, Preparazione evangelica, 1, 4 (trad. it. Roma, Città Nuova, 2012, 3 voll., vol. I); A. Johnson, Eusebius’ «Praeparatio Evangelica» as Literary Experiment, in Scott Johnson (a cura di), Greek Literature in Late Antiquity. Dynamism, Didacticism, Classicism, Aldershot, Ashgate Publishing Group, 2006, p. 85. 54. Peter Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, trad. it. Torino, Einaudi, 1992; Chris Wickham, L’eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C., trad. it. Roma-Bari, GLF editori Laterza, 2014, pp. 60-61. 55. Beate Dignas ed Engelbert Winter, Rome and Persia in Late Antiquity.
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72. Joel Walker, The Legend of Mar Qardagh. Narrative and Christian Heroism in Late Antique Iraq, Berkeley, University of California Press, 2006, 6, p. 22. 73. Vedi in generale J. Rist, Die Verfolgung der Christen im spätkirchen Sasanidenreich. Ursachen, Verlauf, und Folgen, in «Oriens Christianus», LXXX, 1996, pp. 17-42. La documentazione non è scevra di problemi di interpretazione: Sebastian Brock, Saints in Syriac. A Little-Tapped Resource, in «Journal of East Christian Studies», XVI, 2, 2008, specialmente pp. 184-186. 74. Josef Wiesehöfer, Ancient Persia, 500 BC to 650 AD , London, Tauris, 2001, p. 202.
III. La Via a un Oriente Cristiano 1. O. Knottnerus, Malaria in den Nordseemarschen. Gedanken über Mensch und Umwelt, in M. Jakubowski-Tiessen e J. Lorenzen-Schmidt, Dünger und Dynamit. Beiträge zur Umweltgeschichte Schleswig-Holsteins und Dänemarks, Neumünster, 1999, pp. 25-39; P. Sorrel et al., Climate Variability in the Aral Sea Basin (Central Asia) during the Late Holocene Based on Vegetation Changes, in «Quaternary Research», LXVII, 3, 2007, pp. 357-370; H. Oberhänsli et al., Variability in Precipitation, Temperature and River Runoff in West Central Asia during the Past ~2000 Yrs, in «Global and Planetary Change», LXXVI, 2011, pp. 95-104; O. Savoskul e O. Solomina, Late-Holocene Glacier Variations in the Frontal and Inner Ranges of the Tian Shan, Central Asia, in «Holocene», VI, 1, 1996, pp. 25-35. 2. N. Sims-Williams, Sogdian Ancient Letter II, in Annette Juliano e Judith Lerner (a cura di), Monks and Merchants. Silk Road Treasures from Northern China. Gansu and Ningxia 4th-7th Century, New York, Harry N. Abrams with The Asia Society, 2001, pp. 47-49. Vedi anche Frantz Grenet e N. SimsWilliams, The Historical Context of the Sogdian Ancient Letters, in Transition Periods in Iranian History, in «Studia Iranica», 5, 1987, pp. 101-122; N. SimsWilliams, Towards a New Edition of the Sogdian Letters, in Éric Trembert ed Étienne de la Vaissière (a cura di), Les Sogdiens en Chine, Paris, École française d’Extrême-Orient, 2005, pp. 181-193. 3. Étienne de la Vaissière, Huns et Xiongnu, in «Central Asiatic Journal», XLIX, 1, 2005, pp. 3-26. 4. Peter J. Heather, L’impero e i barbari. Le grandi migrazioni e la nascita dell’Europa, trad. it. Milano, Garzanti, 2010, pp. 209-279; A. Poulter, Cataclysm on the Lower Danube. The Destruction of a Complex Roman Landscape, in N. Christie (a cura di), Landscapes of Change. Rural Evolutions in Late Antiquity and the Early Middle Ages, Aldershot, Ashgate, 2004, pp. 223254.
5. Vedi Frantz Grenet, Crise et sortie de crise en Bactriane-Sogdiane aux Ive-Ve s. de n.è. De l’héritage antique à l’adoption de modèles sassanides, in La Persia e l’Asia Centrale da Alessandro al X secolo. Atti dei Convegni Lincei, CXXVII, Roma, 1996, pp. 367-390; É. De la Vaissière, Sogdian Traders, cit., pp. 97-103. 6. Geoffrey Greatrex e Samuel Lieu, The Roman Eastern Frontier and the Persian Wars, Part II, AD 363-630, London, Routledge, 2002, pp. 17-19; Otto Maenchen-Helfen, The World of the Huns, Berkeley, University of California Press, 1973, p. 58. 7. Sebbene gli studiosi abbiano a lungo dibattuto sulla possibile datazione di questa costruzione, recenti progressi nella datazione con radiocarbonio e nella datazione mediante luminescenza stimolata otticamente ora collocano con certezza in questo periodo l’erezione di quell’enorme fortificazione: J. Nokandeh et al., Linear Barriers of Northern Iran. The Great Wall of Gorgan and the Wall of Tammishe, in «Iran», XLIV, 2006, pp. 121-173. 8. James Howard-Johnston, The Two Great Powers in Late Antiquity. A Comparison, in A. Cameron, G.R.D. King e J. Haldon, The Byzantine and Early Islamic Near East, cit., vol. 3, pp. 190-197. 9. R. Blockley, Subsidies and Diplomacy. Rome and Persia in Late Antiquity, in «Phoenix», XXXIX, 1985, pp. 66-67. 10. G. Greatrex e S. Lieu, The Roman Eastern Frontier and the Persian Wars, cit., pp. 32-33. 11. Vedi P.J. Heather, La caduta dell’impero romano, cit., pp. 239-308. 12. San Girolamo, A Principia, in Le Lettere, CXXVII, trad. it. Roma, Città Nuova, 1963, vol. 4, p. 280. 13. Jordanes, Getica, 30, in Iordanis Romana et Getica, ed. ted. a cura di T. Mommsen, Berlin, 1882, pp. 98-99 (Storia dei Goti, 30, ed. it. a cura di E. Bartolini, Milano, TEA , 1991). 14. John E. Hill, Through the Jade Gate to Rome. A Study of the Silk Routes during the Late Han Dynasty, 1st to 2nd Centuries CE . An Annotated Translation of the Chronicle of the «Western Regions» from the Hou Hanshu, Charleston, NC , 2009. 15. P. Sarris, Empires of Faith, cit., pp. 41-43. 16. Un documento degli inizi del IV secolo elenca le tribù che si erano riversate nell’Impero romano: Alexander Riese (a cura di), Geographi latini minores, Hildesheim, G. Olms, 1964, pp. 1280-1289. Per un altro esempio, vedi Sidonio Apollinare, Panegirico per Avito, in Carmina, trad. it. Genova, S. Marco dei Giustiniani, 1982. 17. Ammiano Marcellino, Storie, cit., 31, 2, pp. 807-808. 18. Prisco di Panion, Testimonia, frammento 49, in Prisci Panitae Fragmenta, trad. it. Firenze, Le Monnier, 1979. 19. Ammiano Marcellino, Storie, cit., loc. cit.
20. D. Pany e K. Wiltschke-Schrotta, Artificial Cranial Deformation in a Migration Period Burial of Schwarzenbach, Central Austria, in «VIAVIAS », 2, 2008, pp. 1823. 21. Prisco, Testimonia, frammento 24, 2, in Prisci Panitae Fragmenta, cit. Per i successi degli Unni, P.J. Heather, La caduta dell’impero romano, cit., pp. 365420. 22. Bryan Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, trad. it. RomaBari, GLF editori Laterza, 2008, pp. 116-117. 23. Salviano di Marsiglia, Il governo di Dio, 4, 12, 54, trad. it. Roma, Città Nuova, 1994, p. 127. 24. Zosimo, Storia nuova, 2, 7, 1, trad. it. Milano, Rusconi, 1977, p. 103. 25. J. Asmussen, Christians in Iran, cit., pp. 929-930. 26. Sebastian Brock, The Church of the East in the Sasanian Empire up to the Sixth Century and its Absence from the Councils in the Roman Empire, in Syriac Dialogue. First Non-Official Consultation on Dialogue within the Syriac Tradition, Wien, 1994, p. 71. 27. Averil Cameron e Robert Hoyland (a cura di), Doctrine and Debate in the East Christian World, 300-1500, Farnham, Ashgate, 2011, p. XI. 28. Willis Barnstone, The Restored New Testament. A New Translation with Commentary, Including the Gnostic Gospels of Thomas, Mary and Judas, New York, 2009. 29. Norman Tanner, The Decrees of the Ecumenical Councils, 2 voll., Washington, DC , Georgetown University Press, 1990, vol. 1; Averil Cameron, Il tardo impero romano, trad. it. Bologna, il Mulino, 1995, pp. 65-86. 30. Vedi Philip Wood, The Chronicle of Seert. Christian Historical Imagination in Late Antique Iraq, Oxford, Oxford University Press, 2013, pp. 23-24. 31. Sebastian Brock, The Christology of the Church of the East in the Synods of the Fifth to Early Seventh Centuries. Preliminary Considerations and Materials, in G. Dagras (a cura di), A Festschrift for Archbishop Methodios of Thyateira and Great Britain, Athina, 1985, pp. 125-142. 32. W. Baum e D.W. Winkler, Die Apostolische Kirche des Ostens, cit., pp. 19-25. 33. Sinodo di Dadjesus, in Jean-Baptiste Chabot (a cura di), Synodicon orientale, ou Recueil de synods nestoriens, Paris, Impr. Nationale, 1902, pp. 285-298; S. Brock, The Christology of the Church of the East, cit., pp. 125-142; Id., The Church of the East, cit., pp.73-74. 34. P. Wood, The Chronicle of Seert, cit., pp. 32-37. 35. Gregorio Nazianzeno, Fuga e autobiografia, trad. it. Roma, Città Nuova, 1987, p. 183. 36. San Cirillo di Alessandria, Letter to Paul the Prefect, in J. McEnerney (trad. ingl.), Letters of St Cyril of Alexandria, 2 voll., Washington, DC , 1985-87, vol. 2, 96, pp. 151-153.
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Technology in al-Andalus, in Michael Morony (a cura di), Production and the Exploitation of Resources, Aldershot, Ashgate, 2002, pp. 327-339.
VI. La Via delle Pellicce 1. W. Davis, Readings in Ancient History. Illustrative Extracts from the Sources, 2 voll., Boston, 1912-13, vol. 2, pp. 365-367. 2. Ibn Khurradādhbih, Kitāb al-masālik wa-l-mamālik, trad. ingl. Book of Roads and Kingdoms, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., pp. 99-104. 3. Emeri van Donzel e Andrea Schmidt, Gog and Magog in Early Christian and Islamic Sources. Sallam’s Quest for Alexander’s Wall, Leiden, Brill, 2010; vedi anche Fuat Sezgin, Anthropogeographie, Frankfurt, 2010, pp. 95-97; I. Krachovskii, Arabskaya geographitcheskaya literatura, Moskva, 2004, specialmente pp. 138-141. 4. A. Gow, Gog and Magog on «Mappaemundi» and Early Printed World Maps. Orientalizing Ethnography in the Apocalyptic Tradition, in «Journal of Early Modern History», II, 1, 1998, pp. 61-62. 5. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān, trad. ingl. in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., p. 12. 6. Ivi, pp. 23-24. 7. Ivi, p. 12; per Tengri, vedi Uno Harva, Die religiösen Vorstellungen der altaischen Völker, Helsinki, Suomalainen Tiedeakatemia, 1938, pp. 140-153. 8. R. Mason, The Religious Beliefs of the Khazars, in «Ukrainian Quarterly», LI, 4, 1995, pp. 383-415. 9. Si noti quindi una recente tesi contraria che nega la connessione tra sufismo e mondo nomade: J. Paul, Islamizing Sufis in Pre-Mongol Central Asia, in É. de la Vaissière, Islamisation de l’Asie Centrale, cit., pp. 297-317. 10. Abū Hāmid al-Gharnātī, Tuḥfat al-albāb wa-nukhbat al-i‘jāb wa-Riḥlah ilá ūrubbah wa-Āsiyah, trad. ingl. The Travels, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., p. 68. 11. A. Khazanov, The Spread of World Religions in Medieval Nomadic Societies of the Eurasian Steppes, in Michael Gervers e Wayne Schlepp (a cura di), Nomadic Diplomacy, Destruction and Religion from the Pacific to the Adriatic, Toronto, Joint Centre for Asia Pacific Studies, 1994, pp. 11-34. 12. E. Seldeslachts, Greece, the Final Frontier? The Westward Spread of Buddhism, in Ann Heirman e Stephan Peter Bumbacher (a cura di), The Spread of Buddhism, Leiden, Brill, 2007; R. Bulliet, Naw Bahar and the Survival of Iranian Buddhism, in «Iran», XIV, 1976, pp. 144-145; Muhammed Ibn Ja’Far AlNarshakhī, The History of Bukhara, cit., p. 49. 13. Costantino Porfirogenito, De Administrando Imperio, 37, a cura di Gyula
Moravcsik, trad. ingl. di Romilly Jenkins, Washington, DC , Dumbarton Oaks Center for Byzantine Studies, 1967, pp. 166-170. 14. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān, cit., p. 22. Alcuni studiosi minimizzano l’importanza del nomadismo pastorale nella steppa, per esempio B. Zakhoder, Kaspiiskii svod svedenii o Vostochnoi Evrope, 2 voll., Moskva, 1962, vol. 1, pp. 139-140. 15. Douglas Morton Dunlop, The History of the Jewish Khazars, Princeton, Princeton University Press, 1954, p. 83; Igory Baranov, Tavrika v epokhu rannego srednevekov’ia (saltovo-maiatskaia kul’tura), Kiev, Naukoma Dumka, 1990, pp. 76-79. 16. A. Martinez, Gardīzī’s Two Chapters on the Turks, in «Archivum Eurasiae Medii Aevi», II, 1982, p. 155; T. Noonan, Some Observations on the Economy of the Khazar Khaganate, in Peter B. Golden, Haggai Ben-Shammai e András Róna-Tas (a cura di), The World of the Khazars, Leiden, Brill, 2007, pp. 214215. 17. I. Baranov, Tavrika, cit., pp. 72-76. 18. Shams al-Din al-Muqaddasī, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., pp. 169-170. 19. Abū Hāmid al-Gharnātī, The Travels, cit., p. 67. 20. M. McCormick, Le origini dell’economia europea, cit., pp. 419-435. 21. James Howard-Johnston, Trading in Fur, from Classical Antiquity to the Early Middle Ages, in Esther Cameron (a cura di), Leather and Fur. Aspects of Early Medieval Trade and Technology, London, Archetype Publications, 1998, pp. 65-79. 22. al-Mas‘ūdī, Kitāb al-tanbīh wa-al-ishrāf, trad. ingl. The Meadows of Gold and Mines of Precious Gems, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, p. 161. 23. Shams al-Din al-Muqaddasī, The Best Divisions for Knowledge of the Regions, cit., p. 169. 24. Abū Hāmid al-Gharnātī, The Travels, cit., p. 75. 25. R. Kovalev, The Infrastructure of the Northern Part of the «Fur Road» between the Middle Volga and the East during the Middle Ages, in «Archivum Eurasiae Medii Aevi», XI, 2000-01, pp. 25-64. 26. Shams al-Din al-Muqaddasī, The Best Divisions for Knowledge of the Regions, cit., p. 252. 27. Ibn al-Faqīh, Book of Countries, cit., p. 113. 28. Shams al-Din al-Muqaddasī, The Best Divisions for Knowledge of the Regions, cit., p. 245. 29. Per una rassegna recente, vedi G. Mako, The Possible Reasons for the ArabKhazar Wars, in «Archivum Eurasiae Medii Aevi», XVII, 2010, pp. 45-57. 30. Ralph Johannes Lilie, Die byzantinische Reaktion auf die Ausbreitung der
Araber. Studien zur Strukturwandlung des byzantinischen Staates im 7. und 8. Jahrhundert, Munich, 1976, pp. 157-160; James Howard-Johnston, Byzantine Sources for Khazar History, in P.B. Golden, H. Ben-Shammai e A. Róna-Tas, The World of the Khazars, cit., pp. 163-194. 31. Il matrimonio della figlia dell’imperatore Eraclio con il khagan turco al culmine del conflitto con i persiani all’inizio del settimo secolo era l’unica eccezione: C. Zuckermann, La Petite Augusta et le Turc. Epiphania-Eudocie sur les monnaies d’Héraclius, in «Revue numismatique», CL, 1995, pp. 113-126. 32. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān, cit., p. 56. 33. D.M. Dunlop, The History of the Jewish Khazars, cit., p. 141. 34. Vedi Peter B. Golden, The Peoples of the South Russian Steppes, in The Cambridge History of Early Inner Asia, Cambridge, 1990, pp. 256-284; A. Novosel’tsev, Khazarskoye gosudarstvo i ego rol’ v istorii Vostochnoy Evropy i Kavkaza, Moskva, 1990. 35. Peter B. Golden, Irano-Turcica. The Khazar Sacral Kingship, in «Acta Orientalia», LX, 2, 2007, pp. 161-194. Alcuni studiosi interpretano il mutamento nella natura del ruolo del khagan come risultato di un cambiamento nelle credenze e nelle pratiche religiose durante questo periodo. Vedi per esempio J. Olsson, Coup d’état, Coronation and Conversion. Some Reflections on the Adoption of Judaism by the Khazar Khaganate, in «Journal of the Royal Asiatic Society», XXIII, 4, 2013, pp. 495-526. 36. R. Kovalev, Commerce and Caravan Routes along the Northern Silk Road (Sixth-Ninth Centuries). Part I: The Western Sector, in «Archivum Eurasiae Medii Aevi», XIV, 2005, pp. 55-105. 37. al-Mas‘ūdī, The Meadows of Gold, cit., pp. 131, 133; T. Noonan, Some Observations on the Economy of the Khazar Khaganate, cit., p. 211. 38. Istakhrī, Kitāb suwar al-aqalīm, trad. ingl. Book of Roads and Kingdoms, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., pp. 153-155. 39. Jean Darrouzès, Notitiae episcopatuum Ecclesiae Constantinopolitanae, Paris, Institut francaise d’études byzantines, 1981, pp. 31-32, 241-242, 245. 40. Istakhrī, Book of Roads and Kingdoms, cit., pp. 154-155. 41. R. Mason, The Religious Beliefs of the Khazars, cit., p. 411. 42. C. Zuckerman, On the Date of the Khazars’ Conversion to Judaism and the Chronology of the Kings of the Rus’ Oleg and Igor. A Study of the Anonymous Khazar Letter from the Genizah of Cairo, in «Revue des Etudes Byzantines», LIII, 1995, p. 245. 43. Ivi, pp. 243-244. Per quanto riguarda i prestiti dagli scritti di Costantino, P. Meyvaert e P. Devos, Trois énigmes cyrillo-méthodiennes de la «Légende Italique» résolues grâce à un document inédit, in «Analecta Bollandiana», LXXV, 1955, pp. 433-440. 44. P. Lavrov (a cura di), Materialy po istorii vozniknoveniya drevnishei
slavyanskoi pis’mennosti, Leningrad, 1930, p. 21; F. Butler, The Representation of Oral Culture in the «Vita Constantini», in «Slavic and East European Review», XXXIX, 3, 1995, p. 372. 45. The Letter of Rabbi Hasdai, in Jacob Rader Marcus (a cura di), The Jew in the Medieval World, Cincinnati, Hebrew Union College Press, 1999, pp. 227-228. Vedi anche su questo N. Golb e O. Pritsak (a cura di), Khazarian Hebrew Documents of the Tenth Century, London, 1982. 46. The Letter of Joseph the King, in J.R. Marcus, The Jew in the Medieval World, cit., pp. 228-232. Per una discussione della data e del contesto, Peter B. Golden, The Conversion of the Khazars to Judaism, in P.B. Golden, H. BenShammai e A. Róna-Tas, The World of the Khazars, cit., pp. 123-162. 47. R. Kovalev, Creating «Khazar Identity» through Coins. The «Special Issue» Dirhams of 837/8, in Florin Curta (a cura di), East Central and Eastern Europe in the Early Middle Ages, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2005, pp. 220-253. Per il cambiamento nelle pratiche sepolcrali, V. Petrukhin, The Decline and Legacy of Khazaria, in Przemysław Urbańczyk (a cura di), Europe around the Year 1000, Warszawa, DIG , 2001, pp. 109-122. 48. Corano 2,285; 3,84. 49. C. Zuckerman, On the Date of the Khazars’ Conversion, cit., p. 241. Vedi anche N. Golb e O. Pritsak, Khazarian Hebrew Documents, cit., p. 130. 50. al-Mas‘ūdī, The Meadows of Gold, cit., p. 132; per il giudaismo dell’élite, R. Mason, The Religious Beliefs of the Khazars, cit., pp. 383-415. 51. N. Golb e O. Pritsak, Khazarian Hebrew Documents, cit.; al-Mas‘ūdī, The Meadows of Gold, cit., p. 133; Istakhrī, Book of Roads and Kingdoms, cit., p. 154. 52. Ibn Khurradādhbih, Book of Roads and Kingdoms, cit., p. 110. 53. Ivi, pp. 111-12. 54. Ivi, p. 112. 55. Ibn al-Faqīh, Book of Countries, cit., p. 114. 56. Liutprando di Cremona, che visitò Constantinopoli nel decimo secolo, pensava che il nome dei Rus’ derivasse dalla parola greca rousios, ossia rosso, a causa del caratteristico colore dei loro capelli: Liutprando di Cremona, Antapodosis, V, XV, Milano, Fondazione Lorenzo VallaMondadori, 2015, p. 333. In realtà, la parola deriva dalle parole scandinave roþrsmenn e roðr che significano remare. S. Ekbo, Finnish «Ruotsi» and Swedish «Roslagen» – What Sort of Connection?, in «Medieval Scandinavia», XIII, 2000, pp. 64-69; Wladyslaw Duczko, Viking Rus. Studies on the Presence of Scandinavians in Eastern Europe, Leiden, Brill, 2004, pp. 22-23. 57. Simon Franklin e Jonathan Shepard, The emergence of Rus’ 750-1200, London, Longman, 1996. 58. Costantino Porfirogenito, De Administrando Imperio, cit., 9, pp. 58-62. 59. Ivi, 9, p. 60.
60. Ibn Rusta, Kitāb al-a‘lāq an-nafīsa, trad. ingl. Book of Precious Gems, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., p. 127. 61. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān, cit., p. 45. 62. Ibn Rusta, Book of Precious Gems, cit., p. 127. 63. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān, cit., pp. 46-49. 64. A. Winroth, The Conversion of Scandinavia, New Haven, 2012, pp. 78-79. 65. M. Bogucki, The Beginning of the Dirham Import to the Baltic Sea and the Question of the Early Emporia, in Anna Bitner-Wróblewska e Ulla LundHansen (a cura di), Worlds Apart? Contacts across the Baltic Sea in the Iron Age. Network Denmark-Poland 2005-2008, København, 2010, pp. 351-361. Per la Svezia, Inger Hammarberg, Brita Malmer e Torun Zachrisson, Byzantine Coins Found in Sweden, Kungl. Vitterhets Historie och Antikvitets Akademien, 1989; C. von Heijne, Särpräglat. Vikingatida och tidigmedeltida myntfynd från Danmark, Skåne, Blekinge och Halland (ca. 800-1130), Stockholm, 2004. 66. T. Noonan, Why Dirhams First Reached Russia. The Role of Arab-Khazar Relations in the Development of the Earliest Islamic Trade with Eastern Europe, in «Archivum Eurasiae Medii Aevi», IV, 1984, pp. 151-182, e soprattutto Id., Dirham Exports to the Baltic in the Viking Age, in K. Jonsson e B. Malmer (a cura di), Sigtuna Papers. Proceedings of the Sigtuna Symposium on Viking-Age Coinage 1-4 June 1989, Stockholm, 1990, pp. 251-257.
VII. La Via degli Schiavi 1. Ibn Rusta, Book of Precious Gems, cit., pp. 126-127. 2. Ibid. 3. Costantino Porfirogenito, De Administrando Imperio, cit., 9, p. 60. 4. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān, cit., p. 47. 5. D. Wyatt, Slaves and Warriors in Medieval Britain and Ireland, 800-1200, Leiden, Boston, Brill, 2009. 6. L. Delisle (a cura di), Littérature latine et histoire du moyen âge, Paris, 1890, p. 17. 7. Vedi J. Henning, Strong Rulers – Weak Economy? Rome, the Carolingians and the Archaeology of Slavery in the First Millennium AD , in J. Davis e M. McCormick (a cura di), The Long Morning of Medieval Europe. New Directions in Early Medieval Studies, Aldershot, Ashgate, 2008, pp. 33-53; per Novgorod, vedi H. Birnbaum, Medieval Novgorod. Political, Social and Cultural Life in an Old Russian Urban Community, in «California Slavic Studies», XIV, 1992, p. 11. 8. Adamo di Brema, Storia degli arcivescovi della Chiesa di Amburgo, a cura di
Ileana Pagani, Torino, UTET , 1996, p. 433. 9. B. Hudson, Viking Pirates and Christian Princes. Dynasty, Religion and Empire in the North Atlantic, Oxford, Oxford University Press, 2005, p. 41; in generale, vedi anche S. Brink, Vikingarnas slavar: den nordiska träldomen under yngre järnålder och äldsta medeltid, Stockholm, 2012. 10. T. Noonan, Early Abbasid Mint Output, in «Journal of Economic and Social History», XXIX, 1986, pp. 113-175; R. Kovalev, Dirham Mint Output of Samanid Samarqand and its Connection to the Beginnings of Trade with Northern Europe (10th Century), in «Histoire & Mesure», XVII, 3-4, 2002, pp. 197-216; T. Noonan e R. Kovalev, The Dirham Output and Monetary Circulation of a Secondary Samanid Mint. A Case Study of Balkh, in R. Kiernowski (a cura di), Moneta Mediævalis. Studia numizmatyczne i historyczne ofiarowane Profesorowi Stanisławowi Suchodolskiemu w 65. Rocznicę urodzin, Warsaw, 2002, pp. 163174. 11. R. Segal, Islam’s Black Slaves. The Other Black Diaspora, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2001, p. 121. 12. Ibn Ḥawqal, Kītāb ṣūrat al-ard, citato da D. Ayalon, The Mamluks of the Seljuks. Islam’s Military Might at the Crossroads, in «Journal of the Royal Asiatic Society», VI, 3, 1996, p. 312. Da qui in avanti userò «Turcomanno» anziché «Turco» per distinguere i popoli delle steppe dagli antenati della Turchia moderna. 13. W. Scheidel, The Roman Slave Supply, in K. Bradley, P. Cartledge, D. Eltis e S. Engerman (a cura di), The Cambridge World History of Slavery, 3 voll., Cambridge, Cambridge University Press, 2011-, vol. 1, pp. 287-310. 14. Vedi F. Caswell, The Slave Girls of Baghdad. The Qiyan in the Early Abbasid Era, London, Tauris, 2011, p. 13. 15. Tacito, Annali, cit., 15, 69. 16. Ibn Buṭlān, Taqwīm al-ṣiḥḥa, citato da G. Vantini, Oriental Sources concerning Nubia, Heidelberg, Heidelberger Akademie der Wissenschaften, 1975, pp. 238-239. 17. Kaykāvūs ibn Iskandar ibn Qābūs, Naṣīḥat-nāma known as Qābūs-nāma, ed. ingl. a cura di R. Levy, London, Luzac and Co. Ltd, 1951, p. 102. 18. Ibid. 19. D. Abulafia, Asia, Africa and the Trade of Medieval Europe, in M. Postan, E. Miller e C. Postan (a cura di), Cambridge Economic History of Europe. Trade and Industry in the Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 19872, p. 417 (trad. it. in Storia economica Cambridge, ed. it. a cura di Valerio Castronovo, vol. 2, Commercio e industria nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1997). Vedi anche D. Mishin, The Saqaliba Slaves in the Aghlabid State, in M. Sebök (a cura di), Annual of Medieval Studies at CEU 1996/1997, Budapest, 1998, pp. 236-244.
20. Ibrāhīm ibn Ya‘qūb, trad. ingl. in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., pp. 164-165. Sul ruolo di Praga come centro del traffico di schiavi, D. Třeštík, «Eine große Stadt der Slawen namens Prag». (Staaten und Sklaven in Mitteleuropa im 10. Jahrhundert), in P. Sommer (a cura di), Boleslav II. der tschechische Staat um das Jahr 1000, Prague, 2001, pp. 93-138. 21. Ibn al-Zubayr, Book of Gifts and Rarities, cit., pp. 91-92. Vedi A. Christys, The Queen of the Franks Offers Gifts to the Caliph Al-Muktafi, in W. Davies e P. Fouracre (a cura di), The Languages of Gift in the Early Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, pp. 140-171. 22. Ibrāhīm ibn Ya‘qūb, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., pp. 162-163. 23. R. Naismith, Islamic Coins from Early Medieval England, in «Numismatic Chronicle», CLXV, 2005, pp. 193-222; Id., The Coinage of Offa Revisited, in «British Numismatic Journal», LXXX, 2010, pp. 76-106. 24. M. McCormick, New Light on the «Dark Ages». How the Slave Trade Fuelled the Carolingian Economy, in «Past & Present», CLXXVII, 2002, pp. 17-54; anche J. Henning, Slavery or Freedom? The Causes of Early Medieval Europe’s Economic Advancement, in «Early Medieval Europe», XII, 3, 2003, pp. 269277. 25. Ibn Khurradādhbih, Book of Roads and Kingdoms, cit., p. 111. 26. Ibn Ḥawqal, Kītāb ṣūrat al-ard, trad. ingl. in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., p. 173. 27. Ibid. Anche Shams al-Din al-Muqaddasī, in AA.VV., Ibn Fadlān and the Land of Darkness, cit., p. 170. 28. al-Jāḥiẓ, Kitāb al-Ḥayawān, citato in C. Verlinden, L’Esclavage dans l’Europe mediévale, 2 voll., Bruges, 1955-77, vol. 1, p. 213. 29. Ibid. 30. C. Verlinden, L’Esclavage dans l’Europe mediévale, cit., vol. 2, pp. 218-230, 731-732; W. Phillips, Slavery from Roman Times to the Early Transatlantic Trade, Manchester, Manchester University Press, 1985, p. 62. 31. H. Loyn e R. Percival (a cura di), The Reign of Charlemagne. Documents on Carolingian Government and Administration, London, Arnold, 1975, p. 129. 32. Anche in Germania in passato era di uso comune un termine analogo, Servus, come normale forma di saluto. 33. Adamo di Brema, Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum, trad. ingl. T. Reuter, History of the Archbishops of Hamburg-Bremen, New York, 2002, I, pp. 39-41 (ed. it. a cura di I. Pagani, Storia degli arcivescovi della Chiesa di Amburgo, Torino, UTET , 1996). 34. Pactum Hlotharii I, in M. McCormick, New Light on the «Dark Ages», cit., p. 47. 35. G. Luzzatto, Breve storia economica dell’Italia medievale: dalla caduta
dell’Impero Romano al principio del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1970, pp. 81, 110-112; W. Phillips, Slavery from Roman Times, cit, p. 63. 36. M. McCormick, New Light on the «Dark Ages», cit., pp. 48-49. 37. Hudūd al-‘Ālam, in «The Regions of the World». A Persian Geography 372 AH982 AD, trad. ingl. di V. Minorsky, a cura di C. Bosworth, London, Luzac & Co., 1970, pp. 161-162. 38. Ibn Faḍlān, Book of Ahmad ibn Faḍlān’, cit., p. 44; Ibn Khurradādhbih, Book of Roads and Kingdoms, cit., p. 12; Martinez, Gardīzī’s Two Chapters on the Turks, cit., pp. 153-154. 39. The Russian Primary Chronicle, trad. ingl. di S. Cross e O. SherbowitzWetzor, Cambridge, MA , The Mediaeval Academy of America, 1953, p. 61. 40. Annales Bertiniani, a cura di G. Waitz, Hannover, Impensis Bibliopolii Hahniani, 1883, p. 35. 41. al-Mas‘ūdī, The Meadows of Gold, cit., pp. 145-146; Ibn Ḥawqal, Book of the Configuration of the Earth, cit., p. 175. 42. Ibn Ḥawqal, Book of the Configuration of the Earth, cit., p. 178. 43. R. Kovalev, Mint Output in Tenth Century Bukhara. A Case Study of Dirham Production with Monetary Circulation in Northern Europe, in «Russian History/Histoire Russe», XXVIII, 2001, pp. 250-259. 44. The Russian Primary Chronicle, cit., p. 86. 45. Ivi, p. 90. 46. H. Halm, Das Reich des Mahdi. Der Aufstieg der Fatimiden (875-973), Munich, C.H. Beck, 1991; F. Akbar, The Secular Roots of Religious Dissidence in Early Islam. The Case of the Qaramita of Sawad Al-Kufa, in «Journal of the Institute of Muslim Minority Affairs», 12.2, 1991, pp. 376-390. Sul collasso del califfato in questo periodo, vedi M. van Berkel, N. El Cheikh, H. Kennedy e L. Osti, Crisis and Continuity at the Abbasid Court. Formal and Informal Politics in the Caliphate of al-Muqtadir, Leiden, 2013. 47. Bar Hebraeus, Ktābā d-maktbānūt zabnē, ed. ingl. a cura di E. Budge, The Chronography of Gregory Abul Faraj, 2 voll., Oxford, Oxford University Press, 1932, vol. 1, p. 164. 48. Matteo di Edessa, Armenia and the Crusades. Tenth to Twelfth Centuries. the Chronicle of Matthew of Edessa, trad. ingl. di A. Dostourian, Lanham, National Association for Armenian Studies and Research, 1993, I, 1, p. 19. M. Canard, Baghdad au IVe siècle de l’Hégire (Xe siècle de l’ère chrétienne), in «Arabica», IX, 1962, pp. 282-283. Su questo vedi R. Bulliet, Cotton, Climate, and Camels in Early Islamic Iran. A Moment in World History, New York, Columbia University Press, 2009, pp. 79-81; R. Ellenblum, The Collapse of the Eastern Mediterranean. Climate Change and the Decline of the East, 950-1072, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 32-36. 49. R. Ellenblum, Collapse of the Eastern Mediterranean, cit., pp. 41-43.
50. C. Mango, The Homilies of Photius Patriarch of Constantinople, Cambridge, MA , Harvard University Press, 1958, pp. 88-89. 51. The Russian Primary Chronicle, cit., pp. 74-75. 52. Jonathan Shepard, The Viking Rus and Byzantium, in S. Brink e N. Price (a cura di), The Viking World, London - New York, Routledge, 2008, pp. 498501. 53. Vedi per esempio A. Poppe, The Building of the Church of St Sophia in Kiev, in «Journal of Medieval History», VII, 1, 1981, p. 15-66. 54. J. Shepard, Viking Rus, cit., p. 510. 55. T. Noonan e R. Kovalev, Prayer, Illumination and Good Times. The Export of Byzantine Wine and Oil to the North of Russia in Pre-Mongol Times, in «Byzantium and the North», Acta Byzantina Fennica, VIII, Helsinki, 1997, pp. 73-96; M. Roslund, Brosamen vom Tisch der Reichen. Byzantinische Funde aus Lund und Sigtuna (ca. 980-1250), in M. Müller-Wille (a cura di), Rom und Byzanz im Nordern. Mission und Glaubensweschel im Ostseeraum während des 814 Jahrhunderts, Akademie der Wissenschaften und der Literatur, Stuttgart, 1997, 2, pp. 325-385. 56. L. Golombek, The Draped Universe of Islam, in P. Parsons Soucek (a cura di), Content and Context of Visual Arts in the Islamic World. Papers from a Colloquium in Memory of Richard Ettinghausen, University Park, PA , edito per la College Art Association da Pennsylvania State University Press, 1988, pp. 97-114. Sulla produzione tessile ad Antiochia dopo il 1098, vedi T. Vorderstrasse, Trade and Textiles from Medieval Antioch, in «Al-Masāq», XXII, 2, 2010, pp. 151-171. 57. D. Jacoby, Byzantine Trade with Egypt from the Mid-Tenth Century to the Fourth Crusade, in «Thesaurismata», XXX, 2000, p. 36. 58. Valeria Fiorani Piacentini, Merchant Families in the Gulf. A Mercantile and Cosmopolitan Dimension: The Written Evidence (11th-13th Centuries AD), in «ARAM », 11-12, 1999-2000, Leuven, pp. 145-148. 59. D. Goitein, A Mediterranean Society. The Jewish Communities of the Arab World as Portrayed in the Documents of the Cairo Geniza, 6 voll., Berkeley, University of California Press, 1967-93, vol. 4, p. 168 (trad. it. Una società mediterranea, compendio in un volume, a cura di Jacob Lassner, Milano, Bompiani, 2002); D. Jacoby, Byzantine Trade with Egypt, cit., pp. 41-43. 60. Nāṣir-i Khusraw, Safarnāma, trad. ingl. di W. Thackston, Nāṣer-e Khosraw’s Book of Travels, Albany, NY , 1986, pp. 39-40. 61. D. Jacoby, Byzantine Trade with Egypt, cit., p. 42; S. Simonsohn, The Jews of Sicily 383-1300, Leiden, Brill, 1997, pp. 314-316. 62. M. Vedeler, Silk for the Vikings, Oxford, Philadelphia, Oxbow Books 2014. 63. E. Brate e E. Wessén, Sveriges Runinskrifter. Södermanlands Runinskrifter, Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1924-36, p. 154.
64. S. Jansson, Västmanlands runinskrifter, Stockholm, Almquist & Wiksell, 1964, pp. 6-9. 65. G. Isitt, Vikings in the Persian Gulf, in «Journal of the Royal Asiatic Society», XVII, 4, 2007, pp. 389-406. 66. P. Frankopan, Levels of Contact between West and East. Pilgrims and Visitors to Constantinople and Jerusalem in the 9th-12th Centuries, in S. Searight e M. Wagstaff (a cura di), Travellers in the Levant. Voyagers and Visionaries, Durham, Astene, 2001, pp. 87-108. 67. Vedi J. Wortley, Studies on the Cult of Relics in Byzantium up to 1204, Farnham, Ashgate, 2009. 68. S. Blöndal, The Varangians of Byzantium, trad. ingl. di B. Benedikz, Cambridge, Cambridge University Press, 1978; J. Shepard, The Uses of the Franks in 11th-Century Byzantium, in «Anglo-Norman Studies», XV, 1992, pp. 275-305. 69. P. Frankopan, The First Crusade. The Call from the East, London, 2012, pp. 87-88 (trad. it. La prima crociata: l’appello da Oriente, Milano-Torino, Bruno Mondadori, 2013). 70. H. Hoffmann, Die Anfänge der Normannen in Süditalien, in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibiliotheken», XLVII, 1967, pp. 95-144; Graham Loud, The Age of Robert Guiscard. Southern Italy and the Norman Conquest, Harlow, Longman, 2000. 71. al-‘Utbī, Kitāb-i Yamīnī, trad. ingl. di J. Reynolds, Historical memoirs of the amír Sabaktagín, and the sultán Mahmúd of Ghazna, London, 1868, p. 140. Più in generale vedi C. Bosworth, The Ghaznavids, 994-1040, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1963. 72. A. Shapur Shahbāzī, Ferdowsī. A Critical Biography, Costa Mesa, CA , 1991, soprattutto pp. 91-93; anche G. Dabiri, The Shahnama. Between the Samanids and the Ghaznavids, in «Iranian Studies», XLIII, 1, 2010, pp. 13-28. 73. Y. Bregel, Turko-Mongol Influences in Central Asia, in R. Canfield (a cura di), Turko-Persia in Historical Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 53 sgg. 74. A. Herrman, Die älteste türkische Weltkarte, cit., pp. 21-28. 75. Yūsuf Khāṣṣ Ḥājib, Kutadgu Bilig, ed. ingl. a cura di R. Dankoff, Wisdom of Royal Glory (Kutadgu Bilig). A Turko-Islamic Mirror for Princes, Chicago, The University of Chicago Press, 1983, p. 192. 76. Per l’ascesa dei Selgiuchidi, vedi C. Lange e S. Mecit (a cura di), The Seljuqs. Politics, Society and Culture, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2011. 77. Per un dibattito su alcune contraddizioni nelle fonti qui citate, vedi O. Safi, Politics of Knowledge in Pre-Modern Islam. Negotiating Ideology and Religious Inquiry, Chapel Hill, NC , 2006, pp. 35-36.
78. D.M. Dunlop, History of the Jewish Khazars, cit., p. 260; A. Peacock, Early Seljuq History. A New Interpretation, Abingdon, 2010, pp. 33-34; M. Dickens, Patriarch Timothy, cit., pp. 117-139. 79. Aristakes Lastivertsi, Patmut‘iwn Aristakeay Vardapeti Lastivertts‘woy, trad. ingl. di R. Bedrosian, Aristakēs Lastivertc‘i’s History, New York, 1985, p. 64. 80. Per un elenco delle fonti sulla battaglia di Manzikert, vedi C. Hillenbrand, Turkish Myth and Muslim Symbol, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2007, pp. 26 sgg. 81. Frankopan, The First Crusade, cit., pp. 57-86. 82. Ivi, pp. 13-25. 83. Bernoldo di Costanza, Die Chroniken Bertholds von Reichenau und Bernolds von Konstanz, a cura di I. Robinson, Hannover, Hahnsche Buchhandlung, 2003, p. 520. 84. P. Frankopan, The First Crusade, cit., pp. 1-3, 101-113. 85. Ivi, passim. Sulla paura dell’Apocalisse, vedi J. Rubenstein, Armies of Heaven. The First Crusade and the Quest for Apocalypse, New York, Basic Books, 2011.
VIII. La Via al Paradiso 1. Albert of Aachen (Alberto di Aquisgrana), Historia Ierosolimitana, ed. ingl. a cura di Susan B. Edgington, Oxford, Clarendon, 2007, 5, 45, p. 402; P. Frankopan, The First Crusade, cit., p. 173. 2. Raymond d’Aguilers (Raimundus de Agiles), Historia Francorum qui ceperunt Iherusalem, in AA.VV. (a cura di), Le «Liber» de Raymond d’Aguilers, Paris, Geuthner, 1969, 14, p. 127. Per la spedizione e le Crociate in generale, C. Tyerman, Le guerre di Dio. Nuova storia delle Crociate, trad. it. Torino, Einaudi, 2012. 3. Fulcher of Charters (Fulcherio di Chartres), Gesta Francorum Iherusalem Peregrinantium, ed. ingl. a cura di F. Ryan, A History of the Expedition to Jerusalem 1095-1127, Knoxville, University of Tennessee Press, 1969, 1, 27, p. 122. C’è molto da apprendere dalle ricerche attuali sui rapporti tra salute mentale e l’estrema violenza in combattimento. Per esempio in R. Ursano et al., Posttraumatic Stress Disorder and Traumatic Stress. From Bench to Bedside, from War to Disaster, in «Annals of the New York Academy of Sciences», MCCVIII, 2010, pp. 72-81. 4. Anna Comnena, Alexias, ed. ingl. a cura di P. Frankopan ed E.R.A. Sewter, The Alexiad, London, Penguin Books, 2009, XIII, 11, pp. 383-384; per il ritorno di Boemondo in Europa, L. Russo, Il viaggio di Boemondo d’Altavilla in Francia, in «Archivio storico italiano», DCIII, 2005, pp. 3-42; P.
Frankopan, The First Crusade, cit., pp. 188-189. 5. R. Chazan, «Let Not a Remnant or a Residue Escape». Millenarian Enthusiasm in the First Crusade, in «Speculum», LXXXIV, 2009, pp. 289-313. 6. al-Harawī, Kitāb al-ishārāt ilā ma‘rifat al-ziyārāt, in A. Maalouf, The Crusade through Arab Eyes, London, 1984, p. XIII. Da notare anche Ibn al-Jawzī’, alMuntaẓam fī tārīkh al-mulūk wa-al-umam, in C. Hillenbrand, The Crusades. Islamic Perspectives, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1999, p. 78. In generale su questo vedi P. Cobb, The Race for Paradise. An Islamic History of the Crusades, Oxford, Oxford University Press, 2014. 7. Per un resoconto delle sofferenze, S. Eidelberg (a cura di), The Jews and the Crusaders, Madison-London, University of Wisconsin Press, 1977. Vedi M. Gabriele, Against the Enemies of Christ. The Role of Count Emicho in the AntiJewish Violence of the First Crusade, in M. Frassetto (a cura di), Christian Attitudes towards the Jews in the Middle Ages. A Casebook, Abingdon, Routledge, 2007, pp. 61-82. 8. P. Frankopan, The First Crusade, cit., pp. 133-135, 167-171; J. Pryor, The Oath of the Leaders of the First Crusade to the Emperor Alexius I Comnenus. Fealty, Homage - πίστις, δουλεία, in «Parergon», Nuova serie, II, 1, 1984, pp. 111141. 9. Raymond d’Aguilers, Le «Liber», cit., 10, pp. 74-75. 10. P. Frankopan, The First Crusade, cit., in particolare pp. 186 sgg. 11. Ibn al-Athīr, al-Kāmil fī l-tā´rīkh, ed. ingl. a cura di D. Richards, The Chronicle of Ibn al-Athir for the Crusading Period from al-Kāmil fī´l-ta´rīkh, Aldershot, Ashgate, 2006, p. 13. 12. D. Jacoby, Byzantine Trade with Egypt, cit., pp. 44-45. 13. S. Goitein, A Mediterranean Society, cit., vol. 1, p. 45. 14. A. Greif, Reputation and Coalitions in Medieval Trade. Evidence on the Maghribi Traders, in «Journal of Economic History», IL, 4, 1989, p. 861. 15. Ibn Khaldūn, Dīwān al-mubtada´, ed. franc. a cura di V. Monteil, Discours sur l’histoire universelle (al-Muqaddima), Paris, Sindbad, 1978, p. 522. 16. P. Frankopan, The First Crusade, cit., pp. 29-30. 17. E. Occhipinti, Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Roma, Carocci, 2000, pp. 2021. 18. J. Riley-Smith, The First Crusaders, 1095-1131, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 17. 19. Monachi Anonymi Littorensis (monaco anonimo del Lido), Historia de translatione sanctorum magni Nicolai, in Recueil des Historiens des Croisades, Historiens Occidentaux, V, Paris, 1895, pp. 272-275; J. Prawer, The Crusaders’ Kingdom. European Colonialism in the Middle Ages, London, Phoenix, 2001, p. 489. 20. Codice diplomatico della repubblica di Genova, 3 voll., Roma, 1859-1940, vol. 1,
p. 20. 21. B. Kedar, Genoa’s Golden Inscription in the Church of the Holy Sepulchre. A Case for the Defence, in G. Airaldi e B. Kedar (a cura di), I comuni italiani nel regno crociato di Gerusalemme, Atti del Colloquio «The italian Communes in the Crusading Kingdom of Jerusalem», Gerusalemme, 24-28 maggio 1984, Genova, 1986, pp. 317-335. Vedi anche M.L. Favreau-Lilie, che sostiene che questo documento potrebbe essere stato manomesso in un momento successivo, Die Italiener im Heiligen Land vom ersten Kreuzzug bis zum Tode Heinrichs von Champagne (1098-1197), Amsterdam, 1989, p. 328. 22. A. Dandolo, Chronica per extensum descripta, in Rerum Italicarum Scriptores, 25 voll., Bologna, 1938-58, vol. 12, p. 221. Vedi anche Monachi Anonymi, Historia, cit., pp. 258-259. 23. M. Pozza e G. Ravegnani, I Trattati con Bisanzio 992-1198, Venezia, Il Cardo, 1993, pp. 38-45. Per la data delle concessioni, per molto tempo fatta risalire al penultimo decennio dell’undicesimo secolo, vedi P. Frankopan, Byzantine Trade Privileges to Venice in the Eleventh Century. The Chrysobull of 1092, in «Journal of Medieval History», XXX, 2004, pp. 135-160. 24. Monachi Anonymi, Historia, cit., pp. 258-259; A. Dandolo, Chronica, cit., p. 221. Vedi anche D. Queller e I. Katele, Venice and the Conquest of the Latin Kingdom of Jerusalem, in «Studi Veneziani», XXI, 1986, p. 21. 25. F. Miklosich e J. Müller, Acta et Diplomata graeca medii aevi sacra et profana, 6 voll., Vindobona (Vienna), 1860-90, vol. 3, pp. 9-13. 26. R.J. Lilie, Byzantium and the Crusader States, 1096-1204, trad. ingl. di J. Morris e J. Ridings, Oxford, Clarendon Press, 1993, pp. 87-94; Noch einmal zu den Thema «Byzanz und die Kreuzfahrerstaaten», in «Poikila Byzantina», IV, 1984, pp. 121-174. Trattato di Devol, in The Alexiad, XII, 24, pp. 385-396. 27. S. Epstein, Genoa and the Genoese: 958-1528, Chapel Hill - London, University of North Carolina Press, 1996, pp. 40-41; D. Abulafia, Southern Italy, Sicily and Sardinia in the Medieval Mediterranean Economy, in Id., Commerce and Conquest in the Mediterranean, Aldershot, Variorum, 1993, 1, pp. 24-27. 28. T. Asbridge, The Significance and Causes of the Battle of the Field of Blood, in «Journal of Medieval History», XXIII, 4, 1997, pp. 301-316. 29. Fulcher of Charters, Gesta Francorum, cit., p. 238. 30. G. Tafel e G. Thomas, Urkunden zur älteren handels und Staatsgeschichte der Republik Venedig, 3 voll., Vienna, 1857, vol. 1, p. 78; D. Queller e I. Katele, Venice and the Conquest, cit., pp. 29-30. 31. G. Tafel e G. Thomas, Urkunden, cit., vol. 1, pp. 95-98; R.J. Lilie, Byzantium and the Crusader States, cit., pp. 96-100; T. Devaney, «Like an Ember Buried in Ashes». The Byzantine-Venetian Conflict of 1119-1126, in T. Madden, J. Naus e V. Ryan (a cura di), Crusades. Medieval Worlds in Conflict, Farnham, Ashgate,
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the Later Medieval and Early Modern World, Durham, NC , Carolina Academic Press, 1983; M. Allen, The Volume of the English Currency, 1158-1470, in «Economic History Review», LIV, 4, 2001, pp. 606-607. 43. Questo è chiaramente dinostrato dal caso del Giappone nel XIV secolo, vedi A. Kuroda, The Eurasian Silver Century, 1276-1359. Commensurability and Multiplicity, in «Journal of Global History», IV, 2009, pp. 245-269. 44. V. Fedorov, Plague in Camels and its Prevention in the USSR, in «Bulletin of the World Health Organisation», XXIII, 1960, pp. 275-281. Per i primi esperimenti, vedi per esempio A. Tseiss, Infektsionnye zabolevaniia u verbliudov, neizvestnogo do sik por poriskhozdeniia, in «Vestnik mikrobiologii, epidemiologii i parazitologii», VII, 1, 1928, pp. 98-105. 45. Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, I giornata, Introduzione. 46. T. Ben-Ari, S. Neerinckx, K. Gage, K. Kreppel, A. Laudisoit et al., Plague and Climate. Scales Matter, in «PLoS Pathog», VII, 9, 2011, pp. 1-6. Anche B. Krasnov, I. Khokhlova, L. Fielden e N. Burdelova, Effect of Air Temperature and Humidity on the Survival of Pre-Imaginal Stages of Two Flea Species (Siphonaptera: Pulicidae), in «Journal of Medical Entomology», XXXVIII, 2001, pp. 629-637; K. Gage, T. Burkot, R. Eisen e E. Hayes, Climate and Vector-Borne Diseases, in «Americal Journal of Preventive Medicine», XXXV, 2008, pp. 436-450. 47. N. Stenseth, N. Samia, H. Viljugrein, K. Kausrud, M. Begon et al., Plague Dynamics are Driven by Climate Variation, in «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», CIII, 2006, pp. 13110-13115. 48. Alcuni studiosi sostengono che i primi casi identificati provengano da iscrizioni tombali rinvenute in un cimitero nel Kirghizistan orientale risalenti al periodo tra il 1330 e il 1340. S. Berry e N. Gulade, La Peste noire dans l’Occident chrétien et musulman, 1347-1353, in «Canadian Bulletin of Medical History», XXV, 2, 2008, p. 466. Ma questo si basa comunque su un equivoco. Vedi J. Norris, East or West? The Geographic Origin of the Black Death, in «Bulletin of the History of Medicine», LI, 1977, pp. 1-24. 49. Gabriele de’ Mussis, Historia de Morbo, in The Black Death, ed. ingl. a cura di R. Horrox, Manchester, Manchester University Press, 2001, pp. 14-17; M. Wheelis, Biological Warfare at the 1346 Siege of Caffa, in «Emerging Infectious Diseases», VIII, 9, 2002, pp. 971-975. 50. M. de Piazza, Chronica, in R. Horrox, Black Death, cit., pp. 35-41. 51. Anonimalle Chronicle, in R. Horrox, Black Death, cit., p. 62. 52. John of Reading, Chronica, in R. Horrox, Black Death, cit., p. 74. 53. Ibn al-Wardī, Risālat al-naba’ ‘an al-waba´, citato in M.W. Dols, The Black Death in the Middle East, Princeton, Princeton University Press, 1977, pp. 57-
63. 54. M. Dods, Ibn al-Wardi’s «Risalah al-naba» an al-waba, in D. Kouymjian (a cura di), Near Eastern Numismatics, Iconography, Epigraphy and History, Beirut, 1974, p. 454. 55. M.W. Dols, Black Death in the Middle East, cit., pp. 160-161. 56. Boccaccio, Decameron, cit., I giornata, Introduzione. 57. Gabriele de’ Mussis, Historia de Morbo, cit., p. 20, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, vol. 9, p. 675. 58. John Clynn, Annalium Hibernae Chronicon, in R. Horrox, Black Death, cit., p. 82. 59. Louis Heylgen, Breve Chronicon Clerici Anonymi, in R. Horrox, Black Death, cit., pp. 41-42. 60. R. Horrox, Black Death, cit., pp. 44, 117-118; M.W. Dols, Black Death in the Middle East, cit., p. 126. 61. Bengt Knutsson, A Little Book for the Pestilence, in R. Horrox, Black Death, cit., p. 176; John of Reading, Chronica, cit., pp. 133-134. 62. S. Simonsohn (a cura di), The Apostolic See and the Jews. Documents, 4921404, Toronto, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, 1988, 1, n. 373. 63. In generale su questo vedi O. Benedictow, The Black Death, 1346-1353. The Complete History, Woodbridge, Boydell Press, 2004, pp. 380 sgg. 64. O. Benedictow, Morbidity in Historical Plague Epidemics, in «Population Studies», XLI, 1987, pp. 401-431; Id., What Disease was Plague? On the Controversy over the Microbiological Identity of Plague Epidemics of the Past, Leiden, Brill, 2010, in particolare pp. 289 sgg. 65. F. Petrarca, Le Familiari. Libri I-IV, ed. a cura di U. Dotti, Urbino, Argalìa, 1970, pp. 72 sgg. 66. Historia Roffensis, in R. Horrox, Black Death, cit., p. 70. 67. S. Pamuk, Urban Real Wages around the Eastern Mediterranean in Comparative Perspective, 1100-2000, in «Research in Economic History», XII, 2005, pp. 213-232. 68. S. Pamuk, The Black Death and the Origins of the «Great Divergence» across Europe, 1300-1600, in «European Review of Economic History», XI, 2007, pp. 308-309; S. Epstein, Freedom and Growth. The Rise of States and Markets in Europe, 1300-1750, London, Routledge, 2000, pp. 19-26. Anche M. Bailey, Demographic Decline in Late Medieval England. Some Thoughts on Recent Research, in «Economic History Review», XLIX, 1996, pp. 1-19. 69. H. Miskimin, The Economy of Early Renaissance Europe, 1300-1460, Cambridge, Cambridge University Press, 1975; D. Herlihy, The Black Death and the Transformation of the West, Cambridge, Harvard University Press, 1997. 70. D. Herlihy, The Generation in Medieval History, in «Viator», V, 1974, pp. 347-
364. 71. Per la contrazione in Egitto e nel Levante, vedi A. Sabra, Poverty and Charity in Medieval Islam. Mamluk Egypt 1250-1517, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. 72. S. DeWitte, Mortality Risk and Survival in the Aftermath of the Medieval Black Death, in «Plos One», IX, 5, 2014, pp. 1-8. Sul miglioramento nelle diete, T. Stone, The Consumption of Field Crops in Late Medieval England, in C. Woolgar, D. Serjeantson e T. Waldron (a cura di), Food in Medieval England. Diet and Nutrition, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 11-26. 73. S. Epstein, Freedom and Growth, cit., pp. 49-68; van Bavel, People and Land. Rural Population Developments and Property Structures in the Low Countries, c. 1300-c. 1600, in «Continuity and Change», XVII, 2002, pp. 9-37. 74. S. Pamuk, Urban Real Wages, cit., pp. 310-311. 75. Anna Bijns, Unyoked is Best! Happy the Woman without a Man, in K. Wilson, Women Writers of the Renaissance and Reformation, Athens, 1987, p. 382. In proposito vedi T. de Moor e J. Luiten van Zanden, Girl Power. The European Marriage Pattern and Labour Markets in the North Sea Region in the Late Medieval and Early Modern Period, in «Economic History Review», 2009, pp. 1-33. 76. J. De Vries, The Industrial Revolution and the Industrious Revolution, in «Journal of Economic History», LIV, 2, 1994, pp. 249-270; J. Luiten van Zanden, The «Revolt of the Early Modernists» and the «First Modern Economy». An Assessment, in «Economic History Review», LV, 2002, pp. 619-641. 77. E. Ashtor, The Volume of Mediaeval Spice Trade, in «Journal of European Economic History», IX, 1980, pp. 753-757; Id., Profits from Trade with the Levant in the Fifteenth Century, in «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», XXXVIII, 1975, pp. 256-287; P. Freedman, Spices and Late Medieval European Ideas, cit., pp. 1212-1215. 78. Sull’importazione dei pigmenti a Venezia, vedi L. Matthew, «Vendecolori a Venezia». The Reconstruction of a Profession, in «Burlington Magazine», CXIV, 1196, 2002, pp. 680-686. 79. Marin Sanudo, Laus Urbis Venetae, in A. Aricò (a cura di), De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia (1493-1530), Milano, Cisalpino-La goliardica, 1980, pp. 21-23; per i cambiamenti negli spazi interni in questo periodo, vedi R. Good, Double Staircases and the Vertical Distribution of Housing in Venice 1450-1600, in «Architectural Research Quarterly», XXXIX, 1, 2009, pp. 73-86. 80. B. Krekic, L’Abolition de l’esclavage à Dubrovnik (Raguse) au XVe siècle: mythe ou réalité?, in «Byzantinische Forschungen», XII, 1987, pp. 309-317. 81. S. Mosher Stuard, Dowry Increase and Increment in Wealth in Medieval Ragusa (Dubrovnik), in «Journal of Economic History», XLI, 4, 1981, pp. 795-811.
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moderni; più scettico in proposito è W. Schultz, in Mansa Musa’s Gold in Mamluk Cairo. A Reappraisal of a World Civilizations Anecdote, in J. Pfeiffer e S. Quinn (a cura di), History and Historiography of Post-Mongol Central Asia and the Middle East. Studies in Honor of John E. Woods, Wiesbaden, 2006, pp. 451457. 8. Ibn Baṭṭūṭa, Travels, cit., vol. 4, p. 25, 957. 9. B. Kreutz, Ghost Ships and Phantom Cargoes. Reconstructing Early Amalfitan Trade, in «Journal of Medieval History», XX, 1994, pp. 347-357; A. Fromherz, North Africa and the Twelfth-Century Renaissance. Christian Europe and the Almohad Islamic Empire, in «Islam and Christian Muslim Relations», XX, 1, 2009, pp. 43-59; D. Abulafia, The Role of Trade in Muslim-Christian Contact during the Middle Ages, in D. Agius e R. Hitchcock (a cura di), The Arab Influence in Medieval Europe, Reading, Ithaca Press, 1994, pp. 1-24. 10. Vedi il lavoro pionieristico di M. Horton, Shanga. The Archaeology of a Muslim Trading Community on the Coast of East Africa, London, 1996; anche S. Guérin, Forgotten Routes? Italy, Ifriqiya and the Trans-Saharan Ivory Trade, in «Al-Masāq», XXV, 1, 2013, pp. 70-91. 11. D. Dwyer, Fact and Legend in the Catalan Atlas of 1375, Chicago, 1997; J. Messing, Observations and Beliefs. The World of the Catalan Atlas, in J. Levenson (a cura di), Circa 1492. Art in the Age of Exploration, New Haven, Yale University Press, 1991, p. 27. 12. S. Halikowski Smith, The Mid-Atlantic Islands. A Theatre of Early Modern Ecocide, in «International Review of Social History», LXV, 2010, pp. 51-77; J. Lúcio de Azevedo, Épocas de Portugal Económico, Lisboa, 1973, pp. 222-223. 13. F. Barata, Portugal and the Mediterranean Trade. A Prelude to the Discovery of the «New World», in «Al-Masāq», XVII, 2, 2005, pp. 205-219. 14. Lettera di Re Dionigi del Portogallo, 1293, in J. Marques, Descobrimentos Portugueses. Documentos para a sua História, 3 voll., Lisboa, 1944-71, vol. 1, n. 29; per le rotte mediterranee vedi C.-E. Dufourcq, Les Communications entre les royaumes chrétiens et les pays de l’Occident musulman dans les derniers siècles du Moyen Age, in Les Communications dans la Péninsule Ibérique au Moyen Age. Actes du Colloque, Paris, 1981, pp. 30-31. 15. Gomes Eanes de Zurara, Crónica da Tomada de Ceuta, Lisboa, 1992, pp. 271276; A. da Sousa, Portugal, in P. Fouracre et al. (a cura di), The New Cambridge Medieval History, 7 voll., Cambridge, Cambridge University Press, 1995-2005, vol. 7, pp. 636-637. 16. A. Dinis (a cura di), Monumenta Henricina, 15 voll., Lisboa, 1960-74, vol. 12, pp. 73-74, trad. ingl. P. Russell, Prince Henry the Navigator. A Life, New Haven, 2000, p. 121. 17. P. Hair, The Founding of the Castelo de São Jorge da Mina. An Analysis of the Sources, Madison, 1994.
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nervosi del Corpo umano», in «Virginia Gazette», 5 maggio 1774. 63. Citato in N. Dirks, Scandal of Empire, cit., p. 17.
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65/1599 . In proposito vedi anche P. Kennedy e J. Siegel, Endgame: Britain,
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238. 7. Dibattito alla Camera dei Comuni, 31 marzo 1939, Hansard, CCCXLV, p. 2415. 8. Ivi, p. 2416. Vedi G. Roberts, The Unholy Alliance. Stalin’s Pact with Hitler, London, 1989; R. Moorhouse, The Devil’s Alliance. Hitler’s Pact with Stalin, London, 2014. 9. Lev Bezymenskij, Stalin und Hitler. Das Pokerspiel der Diktatoren, London, 1967, pp. 186-192. 10. Jeffrey Herf, The Jewish Enemy. Nazi Propaganda during World War II and the Holocaust, Cambridge, MA , Belknap Press of Harvard University Press, 2006. 11. Winston Churchill, La Seconda guerra mondiale, 6 voll., trad. it. Milano, Mondadori, 1948-53, vol. 1, L’addensarsi della tempesta, parte I, Da guerra a guerra, p. 401. 12. L. Bezymenskij, Stalin und Hitler, cit., pp. 142, 206-209. 13. Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, trad. it. Milano, Rizzoli, 2011, pp. 120-136. 14. Citato da Eberhard Jäckel a Axel Kahn, Hitler. Sämtliche Aufzeichnungen, 1905-1924, Stuttgart, Deutsche Verlags Anstalt, 1980, p. 186. 15. John Weitz, Hitler’s Diplomat. The Life and Times of Joachim von Ribbentrop, New York, Weidenfeld and Nicolson, 1992, p. 6. 16. Simon Sebag Montefiore, Gli uomini di Stalin. Un tiranno, i suoi complici e le sue vittime, trad. it. Milano, Rizzoli, 2005, p. 328. 17. H. Hegner, Die Reichskanzlei 1933-1945, cit., pp. 337-338, 342-343; per il trattato e il suo allegato segreto, Documents on German Foreign Policy, 19181945, Serie D, 13 voll., London, 1949-64, vol. 7, pp. 245-247. 18. S.S. Montefiore, Gli uomini di Stalin, cit., p. 329. 19. Nikita S. Kruscev, Kruscev ricorda, a cura di Strobe Talbott, trad. it. Milano, Sugar, 1970, p. 145. 20. L. Bezymenskij, Stalin und Hitler, cit., pp. 21-22; Dimitri Volkogonov, Trionfo e tragedia. Il primo ritratto russo di Stalin, trad. it. Milano, Mondadori, 1991, p. 360. 21. L. Kovalenko e V. Maniak, 33’i. Golod. Narodna kniga-memorial, Kiev, 1991, p. 46, in Timothy Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Milano, Rizzoli, 2011, p. 78. 22. Per Vyšinskij e i processi spettacolo, vedi Arkadij Vaksberg, Stalin’s Prosecutor. The Life of Andrei Vyshinsky, New York, 1990, e Nicolas Werth et al. (a cura di), The Little Black Book of Communism. Crimes, Terror, Repression, Cambridge, MA , 1999. 23. Mark Jansen e Nikita Petrov, Stalin’s Loyal Executioner. People’s Commissar Nikolai Ezhov, 1895-1940, Stanford, 2002, p. 69.
24. Vadim Rogovin, Partiya Rasstrelianykh, Moskva, 1997, pp. 207-219; vedi anche L. Bezymenskij, Stalin und Hitler, cit., p. 96; D. Volkogonov, Trionfo e tragedia, cit., p. 377. 25. Speech by the Führer to the Commanders in Chief, 22 agosto 1939, in Documents on German Foreign Policy, Serie D, 7, pp. 200-204; Ian Kershaw, Hitler, vol. 2: 1936-1945, trad. it. Milano, Bompiani, 2001, p. 323. 26. Second speech by the Führer, 22 agosto 1939, in Documents on German Foreign Policy, 1918-1945, Serie D, 7, p. 205; Ian Kershaw, Hitler, 1936-1945, cit., p. 325. 27. Speech by the Führer to the Commanders in Chief, 22 agosto 1939, cit., p. 204. 28. Klaus-Jürgen Müller, Das Heer und Hitler. Armee und nationalsozialistiches Regime, 1933-1940, Stuttgart, Deutsche Anstalt, 1969, p. 411, n. 153; Müller non fornisce una fonte a sostegno di questa affermazione. 29. Winfried Baumgart, Zur Ansprache Hitlers vor den Führern der Wehrmacht am 22. August 1939. Eine quellenkritische Untersuchung, in «Viertejahreshefte für Zeitgeschichte», XVI, 1968, p. 146; I. Kershaw, Hitler, 1936-1945, cit., p. 325. 30. Gustavo Corni, Hitler and the Peasants. Agrarian Policy of the Third Reich, 1930-1939, New York, Berg, 1990, pp. 66-115. 31. Vedi per esempio R.-D. Müller, Die Konsequenzen der «Volksgemeinschaft». Ernährung, Ausbeutung und Vernichtung, in W. Michalka (a cura di), Der Zweite Weltkrieg. Analysen-Grundzüge-Forschungsbilanz, Weyarn, Seehamer Verlag, 1989, pp. 240-249. 32. Alex J. Kay, Exploitation, Resettlement, Mass Murder. Political and Economic Planning for German Occupation Policy in the Soviet Union, 1940-1941, Oxford, Berghahn Books, 2006, p. 40. 33. A. Bondarenko (a cura di), God krizisa, 1938-1939. Dokumenty i materialy v dvukh tomakh, 2 voll., Moskva, 1990, vol. 2, pp. 157-158. 34. Edward E. Ericson, Feeding the German Eagle. Soviet Economic Aid to Nazi Germany, 1933-1941, Westport, CT, Praeger, 1999, pp. 41 sgg. 35. Alan Bullock, Hitler. Studio sulla tirannide, trad. it. Milano, Mondadori, 1965, p. 514. 36. Stephen G. Fritz, Ostkrieg. Hitler’s War of Extermination in the East, Lexington, The University Press of Kentucky, 2011, p. 39. 37. Christopher R. Browning, Le origini della soluzione finale. L’evoluzione della politica antiebraica del nazismo, settembre 1939-marzo 1942, trad. it. Milano, il Saggiatore, 2008, p. 30; T. Snyder, Terre di sangue, cit., p. 159. 38. Gabinetto di Guerra, 8 settembre 1939, CAB 65/1; Anita Praẓmowska, Britain, Poland, and the Eastern Front, 1939, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 182. 39. La Legazione britannica a Kabul al Foreign Office, London, Katodon 106, 24 settembre 1939, citato da Milan Hauner, The Soviet Threat to Afghanistan
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XXIII. La Via della Rivalità tra Superpotenze 1. P. Pham, Ending «East of Suez». The British Decision to Withdraw from Malaysia and Singapore, 1964-1968, Oxford, Oxford University Press, 2010. 2. George W. Stocking, Middle East Oil. A Study in Political and Economic Controversy, Nashville, TN , Vanderbilt University Press, 1970, p. 282; H. Astarjian, The Struggle for Kirkuk. The Rise of Hussein, Oil and the Death of Tolerance in Iraq, London, 2007, p. 158. 3. Moscow and the Persian Gulf, Intelligence Memorandum, 12 maggio 1972, in FRUS , 1969-1976. Documents on Iran and Iraq, 1969-72, E-4, p. 307. 4. «Izvestija», 12 luglio 1969. 5. J. Buchan, Days of God, cit., p. 129. 6. K. Kwarteng, Ghosts of Empire, cit., pp. 72-73. 7. Il Dipartimento di Stato all’ambasciata in Francia, colloquio Davies-Lopinot sull’Iraq e il golfo Persico, 20 aprile 1972, in FRUS , 1969-1976. Documents on Iran and Iraq, 1969-72, E-4, p. 306. 8. G. Payton, The Somali Coup of 1969. The Case for Soviet Complicity, in «Journal of Modern African Studies», XVIII, 3, 1980, pp. 493-508. 9. R. Popp, Accommodating to a Working Relationship, cit., p. 408. 10. Soviet Aid and Trade Activities in the Indian Ocean Area, rapporto CIA , S-6064, 1974; V. Goshev, SSSR i strany Persidskogo zaliva, Moskva, 1988. 11. Agenzia USA per il controllo degli armamenti e il disarmo, World Military Expenditure and Arms Transfers, 19681977, Washington, DC , 1979, p. 156; Rajan Menon, Soviet Power and the Third World, New Haven, Yale University Press, 1986, p. 173; per l’Iraq, A. Fedchenko, Irak v bor’be za nezavisimost, Moskva, 1970. 12. S. Mehrotra, The Political Economy of Indo-Soviet Relations, in Robert Cassen (a cura di), Soviet Interests in the Third World, London, SAGE , 1985, p. 224; L. Racioppi, Soviet Policy towards South Asia since 1970, Cambridge, 1994, pp. 63-65. 13. Louis Duprée, Afghanistan, Princeton, NJ , Princeton University Press, 1973, pp. 525-526. 14. The Shah of Iran. An Interview with Mohammad Reza Pahlavi, in «New Atlantic», 1° dicembre 1973. 15. Ibid. 16. Boardman a Douglas-Home, agosto 1973, FCO 55/1116. Vedi anche O.
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XXIV. La Via alla Catastrofe 1. C. Andrew e V. Mitrokhin, L’archivio Mitrokhin, cit., pp. 191-193. 2. M. Sreedhar e J. Cavanagh, US Interests in Iran. Myths and Realities, cit., p. 140. 3. Christopher Andrew e Oleg Gordievskij, La storia segreta del KGB , trad. it. Milano, Rizzoli, 1991, p. 580. 4. William H. Sullivan, Mission to Iran. The Last Ambassador, New York, W.W. Norton, 1981, pp. 201-203, 233; vedi anche G. Sick, All Fall Down, cit., pp. 81-87; A. Moens, President Carter’s Advisors, cit., p. 244. 5. Zbigniev Brzezinski, Power and Principle. Memoirs of the National Security Adviser, 1977-1981, London, Weidenfeld and Nicolson, 1983, p. 38. 6. Exiled Ayatollah Khomeini returns to Iran, BBC News, 1° febbraio 1979. 7. G. Sick, All Fall Down, cit., pp. 154-156; D. Farber, Taken Hostage. The Iran Hostage Crisis and America’s First Encounter with Radical Islam, Princeton, Princeton University Press, 2005, pp. 99-100, 111-113. 8. Cyrus Vance, Hard Choices. Critical Years in America’s Foreign Policy, New York, Simon and Schuster, 1983, p. 343; Betty Glad, An Outsider in the White House. Jimmy Carter, His Advisors, and the Making of American Foreign Policy, Ithaca, NY , Cornell University Press, 2009, p. 173. 9. Costituzione della Repubblica islamica dell’Iran, Art. 4, Roma, Centro Culturale Islamico Europeo, 1982. 10. Presidential Approval Ratings. Historical Statistics and Trends, www.gallup.com. 11. Anthony Cordesman, The Iran-Iraq War and Western Security, 1984-1987, London, 1987, p. 26. Vedi anche D. Kinsella, Conflict in Context. Arms Transfers and Third World Rivalries during the Cold War, in «American Journal of Political Science», XXXVIII, 3, 1994, p. 573. 12. M. Sreedhar e J. Cavanagh, US Interests in Iran. Myths and Realities, cit., p. 143. 13. Comment by Sir A.D. Parsons, Her Majesty’s Ambassador, Teheran, 1974-1979, in N. Browne, Report on British Policy on Iran, 1974-1978, London, 1980, Allegato B. 14. R. Cottam, US and Soviet Responses to Islamic Political Militancy, in Nikki Keddie e Mark Gasiorowski (a cura di), Neither East nor West. Iran, the Soviet Union and the United States, New Haven, CT , Yale University Press, 1990, p. 279; A. Rubinstein, The Soviet Union and Iran under Khomeini, in «International Affairs», LVII, 4, 1981, p. 599. 15. La deposizione di Turner fu fatta filtrare alla stampa, Turner Sees a Gap in Verifying Treaty. Says Iran Bases Can’t Be Replaced until ‘84, in «New York Times», 17 aprile 1979.
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XXV. La Via alla Tragedia 1. Paul al Foreign & Commonwealth Office, Saddam Hussein al-Tikriti, 20 dicembre 1969, FCO 17/871; Saddam Hussein, telegramma dall’ambasciata britannica, Baghdad a Foreign e Commonwealth Office, Londra, 20 dicembre 1969, FCO 17/871. 2. Rumsfeld Mission: December 20 Meeting with Iraqi President Saddam Hussein, National Security Archive. Sui francesi e Saddam, vedi C. Saint-Prot, Saddam Hussein: un gaullisme arabe?, Paris, 1987; vedi anche D. Styan, France and Iraq: Oil, Arms and French Policy Making in the Middle East, London New York, I.B. Tauris, 2006. 3. Saddam and his Senior Advisors Discussing Iraq’s Historical Rights to Kuwait and the US Position, 15 dicembre 1990, in K. Woods, D. Palkki e M. Stout, Saddam Tapes, cit., pp. 34-35. 4. Presidente George H.W. Bush, National Security Directive 54. Responding to Iraqi Aggression in the Gulf, 15 gennaio 1991, National Security Archive. 5. G. Bush, Speaking of Freedom. The Collected Speeches of George H. W. Bush, New York, 2009, pp. 196-197. 6. J. Woodard, The America that Reagan Built, Westport, CT , 2006, p. 139, n. 39. 7. Presidente George H.W. Bush, National Security Directive 54. Responding to Iraqi Aggression in the Gulf, cit. 8. G. Bush e B. Scowcroft, A World Transformed, New York, Knopf, 1998, p. 489. 9. Citato da J. Connelly, In Northwest: Bush-Cheney Flip Flops Cost America in Blood, in «Seattle Post-Intelligencer», 29 luglio 2004. Vedi anche B. Montgomery, Richard B. Cheney and the Rise of the Imperial Vice Presidency, Westport, CT , 2009, p. 95. 10. W. Martel, Victory in War: Foundations of Modern Strategy, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, p. 248. 11. Presidente Bush, Address before a Joint Session of the Congress on the State of the Union, 28 gennaio 1992, in PPPUS : George Bush, 1992-1993, p. 157. 12. Sul collasso dell’Unione Sovietica, vedi S. Plokhy, The Last Empire: The Final Days of the Soviet Union, New York, Basic Books, 2014; per la Cina in questo periodo, L. Brandt e T. Rawski (a cura di), China’s Great Economic Transformation, Cambridge, 2008. 13. Bush, State of the Union, 28 gennaio 1992, p. 157. 14. Risoluzione ONU 687 (1991), Clausola 20.
15. S. Zahdi e M. Smith Fawzi, Health of Baghdad’s Children, in «Lancet», 346.8988, 1995, p. 1485; C. Ronsmans et al., Sanctions against Iraq, in «Lancet», 347.8995, 1996, pp. 198-200. I dati sulla mortalità in seguito sono stati rivisti al ribasso: S. Zaidi, Child Mortality in Iraq, in «Lancet», 350.9084, 1997, p. 1105. 16. 60 Minutes, CBS , 12 maggio 1996. 17. B. Lambeth, The Unseen War. Allied Air Power and the Takedown of Saddam Hussein, Annapolis, 2013, p. 61. 18. Per una panoramica, vedi C. Gray, From Unity to Polarization. International Law and the Use of Force against Iraq, in «European Journal of International Law», XIII, 1, 2002, pp. 1-19. Anche A. Bernard, Lessons from Iraq and Bosnia on the Theory and Practice of No-Fly Zones, in «Journal of Strategic Studies», XXVII, 2004, pp. 454-478. 19. Iraq Liberation Act, 31 ottobre 1998. 20. Presidente Clinton, Statement on Signing the Iraq Liberation Act of 1998, 31 ottobre 1998, in PPPUS : William J. Clinton, 1998, pp. 1938-1939. 21. S. Aubrey, The New Dimension of International Terrorism, Zurich, 2004, pp. 53-56; M. Ensalaco, Middle Eastern Terrorism: From Black September to September 11, Philadelphia, 2008, pp. 183-186; sull’attentato di Dharan, in ogni caso, è da tenere presente C. Shelton, The Roots of Analytic Failure in the US Intelligence Community, in «International Journal of Intelligence and CounterIntelligence», XXIV, 4, 2011, pp. 650-651. 22. Risposta alla lettera di Clinton, non datata, 1999. Clinton Presidential Records, Near Eastern Affairs, Box 2962; Folder: Iran-US , National Security Archive. Per il dispaccio di Clinton, consegnato dal ministro degli Esteri dell’Oman, vedi Message to President Khatami from President Clinton, non datato, 1999, National Security Archive. 23. Afghanistan: Taliban seeks low-level profile relations with [United States government] – at least for now, Ambasciata USA a Islamabad, 8 ottobre 1996, National Security Archive. 24. Afghanistan: Jalaluddin Haqqani’s emergence as a key Taliban Commander, Ambasciata USA a Islamabad, 7 gennaio 1997, National Security Archive. 25. Usama bin Ladin: Islamic Extremist Financier, biografia CIA 1996, National Security Archive. 26. Afghanistan: Taliban agrees to visits of militant training camps, admit Bin Ladin is their guest, Consolato USA di Peshawar, cablo, 9 gennaio 1996, National Security Archive. 27. Ibid. 28. National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, Washington, DC , 2004, pp. 113-114. 29. Presidente Clinton, «Address to the Nation», 20 agosto 1998, in PPPUS :
Clinton, 1998, p. 1461. Tre giorni prima, il presidente aveva reso l’ormai famosa testimonianza in cui sosteneva che la sua precedente dichiarazione «non ho avuto rapporti sessuali con quella donna, Miss [Monica] Lewinsky» era veritiera, e che l’affermazione «non c’è una relazione sessuale, una relazione sessuale impropria o alcun altro tipo di relazione impropria» era corretta, a seconda «del significato che l’espressione “c’è” ha», Appendices to the Referral to the US House of Representatives, Washington, DC , 1998, 1, p. 510. 30. Afghanistan: Reaction to US Strikes Follows Predictable Lines: Taliban Angry, their Opponents Support US , Ambasciata USA a Islamabad, cablo, 21 agosto 1998, National Security Archive. 31. Bin Ladin’s Jihad: Political Context, Dipartimento di Stato USA , Bureau of Intelligence and Research, Intelligence Assessment, 28 agosto 1998, National Security Archive. 32. Afghanistan: Taliban’s Mullah Omar’s 8/22 Contact with State Department, Dipartimento di Stato USA , cablo, 23 agosto 1998, National Security Archive. 33. Osama bin Laden: Taliban Spokesman Seeks New Proposal for Resolving bin Laden Problem, Dipartimento di Stato USA , cablo, 28 novembre 1998, National Security Archive. 34. Ibid. 35. Afghanistan: Taliban’s Mullah Omar’s 8/22 Contact with State Department, Dipartimento di Stato USA , cablo, 23 agosto 1998, National Security Archive. 36. Ibid. 37. Per esempio, Afghanistan: Tensions Reportedly Mount within Taliban as Ties with Saudi Arabia Deteriorate over Bin Ladin, Ambasciata USA a Islamabad, cablo, 28 ottobre 1998; Usama bin Ladin: Coordinating our Efforts and Sharpening our Message on Bin Ladin, Ambasciata USA a Islamabad, cablo, 19 ottobre 1998; Usama bin Ladin: Saudi Government Reportedly Turning the Screws on the Taliban on Visas, Ambasciata USA a Islamabad, cablo, 22 dicembre 1998, National Security Archive. 38. Osama bin Laden: A Case Study, Sandia Research Laboratories, 1999, National Security Archive. 39. Afghanistan: Taleban External Ambitions, Dipartimento di Stato USA , Bureau of Intelligence and Research, 28 ottobre 1998, National Security Archive. 40. A. Rashid, Taliban: The Power of Militant Islam in Afghanistan and Beyond, edizione rivista, London, I.B. Tauris, 2008. 41. Osama bin Laden: A Case Study, cit., p. 13. 42. Bin Ladin Determined to Strike in US , 6 agosto 2001, National Security Archive.
43. Searching for the Taliban’s Hidden Message, Ambasciata USA a Islamabad, cablo, 19 settembre 2000, National Security Archive. 44. The 9/11 Commission Report: Final Report of the National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, New York, 2004, p. 19. 45. Ivi, passim. 46. Presidente George W. Bush, Address to the Nation on the Terrorist Attacks, 11 September 2001, in PPPUS : George W. Bush, 2001, pp. 1099-1100. 47. Arafat Horrified by Attacks, But Thousands of Palestinians Celebrate; Rest of World Outraged, FOX News, 12 settembre 2001. 48. Dichiarazione di Abdul Salam Zaeef, ambasciatore dei talebani in Pakistan, 12 settembre 2001, National Security Archive. 49. Al-Jazeera, 12 settembre 2001. 50. Action Plan as of 9/13/2001, 7:55am, Dipartimento di Stato USA , 13 settembre 2001, National Security Archive. 51. Deputy Secretary Armitage’s Meeting with Pakistani Intel Chief Mahmud: You’re Either with Us or You’re Not, Dipartimento di Stato USA , 13 settembre 2001, National Security Archive. 52. Message to Taliban, Dipartimento di Stato USA, cablo, 7 ottobre 2001, National Security Archive. 53. Memorandum for President Bush: Strategic Thoughts, Office of the Secretary of Defense, 30 settembre 2001, National Security Archive. 54. Presidente Bush, discorso sullo Stato dell’Unione, 29 gennaio 2002, PPPUS : Bush, 2002, p. 131. 55. US Strategy in Afghanistan: Draft for Discussion, National Security Council Memorandum, 16 ottobre 2001, National Security Archive. 56. Information Memorandum. Origins of the Iraq Regime Change Policy, Dipartimento di Stato USA , 23 gennaio 2001, National Security Archive. 57. Untitled, appunti di Donald Rumsfeld, 27 novembre 2001, National Security Archive. 58. Ibid. 59. Europe: Key Views on Iraqi Threat and Next Steps, 18 dicembre 2001; Problems and Prospects of «Justifying» War with Iraq, 29 agosto 2002; entrambi prodotti dal Dipartimento di Stato USA , Bureau of Intelligence and Research Intelligence Assessment, National Security Archive. Lord Goldsmith al Primo Ministro, Iraq, 30 luglio 2002; Iraq: Interpretation of Resolution 1441, bozza, 14 gennaio 2003; Iraq: Interpretation of Resolution 1441, bozza, 12 febbraio 2003, The Iraq Enquiry Archive. 60. To Ousted Boss, Arms Watchdog Was Seen as an Obstacle in Iraq, in «New York Times», 13 ottobre 2013. 61. Remarks to the United Nations Security Council, 5 febbraio 2003, National Security Archive.
62. The Status of Nuclear Weapons in Iraq, 27 gennaio 2003, IAEA , National Security Archive. 63. An Update on Inspection, 27 gennaio 2003, UNMOVIC , National Security Archive. 64. K. Woods e M. Stout, New Sources for the Study of Iraqi Intelligence, cit., soprattutto pp. 548-552. 65. Remarks to the United Nations Security Council, 5 febbraio 2003; vedi Iraqi Mobile Biological Warfare Agent Production Plants, rapporto CIA , 28 maggio 2003, National Security Archive. 66. The Future of the Iraq Project, Dipartimento di Stato USA , 20 aprile 2003, National Security Archive. 67. Ari Fleischer, Press Briefing, 18 febbraio 2003; Paul Wolfowitz, Testimony before House Appropriations Subcommittee on Defense, 27 marzo 2003. 68. US Strategy in Afghanistan: Draft for Discussion, Memorandum del National Security Council, 16 ottobre 2001, National Security Archive. 69. Planning Group Polo Step, Compilation di slide dello US Central Command, c. 15 agosto 2002, National Security Archive. 70. H. Fischer, US Military Casualty Statistics: Operation New Dawn, Operation Iraqi Freedom and Operation Enduring Freedom, in Congressional Research Service, RS22452 , Washington, DC , 2014. 71. Le stime del numero di vittime civili in Iraq e in Afghanistan tra il 2001 e il 2014 si collocano normalmente in una fascia tra le 170.000 e le 220.000. Vedi per esempio www.costsofwar.org. 72. L. Bilmes, The Financial Legacy of Iraq and Afghanistan: How Wartime Spending Decisions Will Constrain Future National Security Budgets, in Harvard Kennedy School Faculty Research Working Paper Series, marzo 2013. 73. R. Gates, Memoirs of a Secretary at War, New York, Knopf, 2014, p. 577. 74. How is Hamid Karzai Still Standing?, in «New York Times», 20 novembre 2013. 75. Memorandum for President Bush: Strategic Thoughts, National Security Archive. 76. «Rapid Reaction Media Team» Concept, Dipartimento delle Difesa USA , Office of the Assistant Secretary for Special Operations and Low-Intensity Conflict, 16 gennaio 2003, National Security Archive. 77. M. Phillips, Cheney Says He was Proponent for Military Action against Iran, in «Wall Street Journal», 30 agosto 2009. 78. Kerry presses Iran to prove its nuclear program peaceful, Reuters, 19 novembre 2013. 79. Full Text: Al-Arabiya Interview with John Kerry, 23 gennaio 2014, www.alarabiya.com.
80. Presidente Obama, Remarks by the President at AIPAC Policy Conference, 4 marzo 2012, White House. 81. D. Sanger, Obama Order Sped Up Wave of Cyber-Attacks against Iran, in «New York Times», 1° giugno 2012; Id., Confront and Conceal. Obama’s Secret Wars and Surprising Use of American Power, New York, 2012.
Conclusione. La Nuova Via della Seta 1. B. Gelb, Caspian Oil and Gas. Production and Prospects, 2006; BP Statistical Review of World Energy, giugno 2006; PennWell Publishing Company, Oil & Gas Journal, 19 dicembre 2005; Energy Information Administration, Caspian Sea Region: Survey of Key Oil and Gas Statistics and Forecasts, luglio 2006; National Oil & Gas Assessment, US Geological Survey (2005). 2. T. Klett, C. Schenk, R. Charpentier, M. Brownfield, J. Pitman, T. Cook e M. Tennyson, Assessment of Undiscovered Oil and Gas Resources of the Volga-Ural Region Province, Russia and Kazakhstan, US Geological Service, 2010, pp. 3095-3096. 3. Zelenyi Front, Vyvoz chernozema v Pesochine: brakon’ervy zaderrzhany, Comunicato stampa, Kharkiv, 12 giugno 2011. 4. World Bank, World Price Watch, Washington, DC , 2012. 5. L’Afghanistan è responsabile del 74 per cento della produzione mondiale di oppio, in calo rispetto al 92 per cento del 2007, United Nations Office on Drugs and Crime – World Drug Report 2011, Vienna, 2011, p. 20. Suona ironico, ma come mostrano i prezzi base dell’oppio nei luoghi di produzione, più sono efficaci le campagne per ridurne la produzione, più salgono i prezzi, rendendo perciò la coltivazione e il contrabbando ancora più lucrosi. Per qualche dato recente, vedi Afghanistan Opium Price Monitoring: Monthly Report, Ministero per il contrasto ai narcotici, Repubblica islamica dell’Afghanistan, Kabul, e Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Kabul, marzo 2010. 6. Lifestyles of the Kazakhstani leadership, Cablo diplomatico USA , EO 12958 , 17 aprile 2008, WikiLeaks. 7. «Guardian», 20 aprile 2015. 8. President Ilham Aliyev – Michael (Corleone) on the Outside, Sonny on the Inside, Cablo diplomatico USA , 18 settembre 2009, WikiLeaks EO 12958 ; per le proprietà di Aliyev a Dubai, in «Washington Post», 5 marzo 2010. 9. Citato in HIV created by West to enfeeble third world, claims Mahmoud Ahmadinejad, in «Daily Telegraph», 18 gennaio 2012. 10. Hillary Clinton, Remarks at the New Silk Road Ministerial Meeting, New
York, 22 settembre 2011, Dipartimento di Stato USA . 11. J. O’Neill, Building with Better BRICS , in «Global Economics Paper», n. 66, Goldman Sachs, 2003; R. Sharma, Breakout Nations. In Pursuit of the Next Economic Miracles, London, Norton, 2012 (trad. it. Nazioni in fuga: alla ricerca dei prossimi miracoli economici, Torino, Codice, 2014); J. O’Neill, The Growth Map: Economic Opportunity in the BRIC s and Beyond, London, Portfolio Penguin, 2011 (trad. it. BRIC : i nuovi padroni dell’economia mondiale, Milano, Hoepli, 2012). 12. Jones Lang Lasalle, Central Asia. Emerging Markets with High Growth Potential, febbraio 2012. 13. www.rotana.com/erbilrotana. 14. The World in London: How London’s Residential Resale Market Attracts Capital from across the Globe, Savills Research, 2011. 15. Il campione internazionale Samuel Eto’o, originario del Camerun, ha giocato nel Barcellona e poi nell’Inter, che ha lasciato nel 2011, Associated Press, 23 agosto 2011. L’apertura del torneo Under-17 della Women’s World Cup del 2010 è stata segnata da una cerimonia di apertura di dieci minuti, che ha visto l’esibizione della «premiata troupe di ballo Shiv Shakit», Grand Opening: Trinbagonian treat in store for U-17 Women’s World Cup, in «Trinidad Express», 27 agosto 2010. 16. T. Kutchins, T. Sanderson e D. Gordon, The Northern Distribution Network and the Modern Silk Road: Planning for Afghanistan’s Future, Center for Strategic and International Studies, Washington, DC , 2009. 17. I. Danchenko e C. Gaddy, The Mystery of Vladimir Putin’s Dissertation, versione rivista della presentazione tenuta dagli autori a un convegno del Brookings Institution Foreign Policy Program, 30 marzo 2006. 18. Putin pledges $43 billion for infrastructure, Associated Press, 21 giugno 2013. Per alcune stime, vedi International Association Coordinating Council on Trans-Siberian Transportation (International Association), Transsib: Current Situation and New Business Perspectives in Europe-Asian Traffic, UNECE Workgroup, 9 settembre 2013. 19. Vedi per esempio il «Beijing Times», 8 maggio 2014. 20. Hauling New Treasure along Silk Road, in «New York Times», 20 luglio 2013. 21. Per un rapporto sull’impatto della Cina sui prezzi dell’oro al dettaglio, vedi World Gold Council, China’s Gold Market: Progress and Prospects, 2014. Le vendite in Cina di Prada e delle società collegate sono salite del 40 per cento nel solo anno 2011 (Annual Report, Prada Group, 2011). Alla fine del 2013, gli introiti del Gruppo Prada nella Grande Cina erano quasi il doppio di quelli dell’America del Nord e del Sud sommati (Annual Report, 2014). 22. Vedi per esempio il recente annuncio di un investimento di 46 miliardi di dollari per costruire il Corridoio economico Cina-Pakistan, Xinhua (Nuova
Cina), 21 aprile 2015. 23. Investigative Report on the US National Security Issues Posed by Chinese Telecommunications Companies Huawei and ZTE , Rapporto alla Camera dei Rappresentanti del Congresso USA , 8 ottobre 2012. 24. Dipartimento della Difesa, Sustaining US Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, Washington, DC , 2012. 25. Presidente Obama, Remarks by the President on the Defense Strategic Review, 5 gennaio 2012, La Casa Bianca. 26. Ministero della Difesa USA , Strategic Trends Programme: Global Strategic Trends – Out to 2040, London, 2010, p. 10. 27. FIDH , Federazione Internazionale per i Diritti Umani, Shanghai Cooperation Organisation: A Vehicle for Human Rights Violations, Paris, 2012. 28. Erdoǧan’s Shanghai Organization remarks lead to confusion, concern, in «Today’s Zaman», 28 gennaio 2013. 29. Hillary Clinton, Remarks at the New Silk Road Ministerial Meeting, 22 settembre 2011, New York City. 30. Presidente Xi Jinping, Promote People-to-People Friendship and Create a Better Future, Xinhua, 7 settembre 2013.
RINGRAZIAMENTI
Per uno storico, non c’è al mondo luogo migliore di Oxford per lavorare. Le biblioteche e le loro raccolte non sono seconde a nessuno, e gli addetti che vi lavorano riescono a scovare materiali con un’abilità eccezionale. Sono grato, in particolare, alla Bodleian Library, all’Oriental Institute Library, alla Sackler Library, alla Taylor Slavonic and Modern Greek Library e alla Middle Eastern Library presso il St. Antony’s College, e a tutto il loro personale. Non avrei potuto scrivere questo libro senza ricorrere alle straordinarie risorse dell’università di Oxford e senza il sostegno e la pazienza di coloro che le gestiscono. Ho trascorso molto tempo anche negli Archivi nazionali di Kew a leggere lettere, telegrammi e memorandum del Foreign Office, a sfogliare i verbali delle riunioni di gabinetto ed esaminare le proposte del ministero della Difesa; documenti che mi arrivavano sempre nel giro di non più di quaranta minuti. Sono grato a tutti coloro che vi lavorano per la loro efficienza e cortesia. L’University Library di Cambridge mi ha permesso di consultare i documenti di Lord Hardinge, mentre il Churchill Archives Centre del Churchill College di Cambridge mi ha gentilmente messo a disposizione i diari privati di Maurice (Lord) Hankey e mi ha reso accessibili gli straordinari documenti conservati nell’archivio della Propaganda Research Section, raccolti da Mark Abrams. Devo ringraziare il BP (British Petroleum) Archive della Warwick University e il suo direttore, Peter Housego, per avermi aiutato a rintracciare un gran numero di documenti relativi alla BP e alle società che l’hanno preceduta, la Anglo-Persian Oil Company e la Anglo-Iranian Oil Company. Sono grato altresì al National Security Archive della George Washington University, una raccolta non governativa di documenti desegretati relativi agli affari internazionali e alla storia degli Stati Uniti del XX e XXI secolo, in particolare, che costituisce una vera e propria miniera di preziose fonti primarie sugli ultimi decenni. La possibilità di trovare tanti documenti in un unico luogo mi ha risparmiato ripetuti viaggi oltreatlantico, che mi sarebbero costati molto più tempo e frustrazioni.
Il mio ringraziamento va inoltre al preside e ai docenti del Worcester College di Oxford, sempre meravigliosamente gentili con me fin da quando, una ventina di anni fa, misi piede al college come Junior Research Fellow. Ho avuto la fortuna di lavorare a fianco di un insigne gruppo di studiosi all’Oxford Centre for Byzantine Research, dove Mark Whittow in particolare è stato una fonte inesauribile di ispirazione e incoraggiamento. Le conversazioni e le discussioni con colleghi e amici, a Oxford e altrove, e durante i miei viaggi in Gran Bretagna, Europa, Asia e Africa, mi hanno aiutato ad affinare le idee migliori e, talvolta, a scartare quelle meno buone. Diversi colleghi e amici hanno letto singoli capitoli del libro, e verso tutti loro ho un debito di gratitudine. Paul Cartledge, Averil Cameron, Christopher Tyerman, Marek Jankowiak, Dominic Parviz Brookshaw, Lisa Jardine, Mary Laven, Seena Fazel, Colin Greenwood, Anthony McGowan e Nicholas Windsor hanno letto parti del libro offrendomi commenti utili e incisivi, che mi hanno aiutato a migliorarlo. Sono grato ad Angela McLean per avermi indirizzato verso le più recenti ricerche sulla peste nera e sulla diffusione di epidemie nell’Asia centrale. In anni come questi, in cui i libri di storia tendono a concentrarsi su argomenti sempre più ristretti lungo archi temporali sempre più brevi, il fatto che le case editrici Bloomsbury e Knopf siano state liete di accogliere un volume ambizioso come questo, che abbraccia secoli, continenti e culture così diversi, mi riempie di emozione. Il mio editor, Michael Fishwick, mi è stato fin dall’inizio di fondamentale aiuto, spingendomi ad allargare gli orizzonti e concedendomi poi, con pazienza, il tempo di farlo. Il suo buonumore, lo sguardo acuto e il continuo sostegno sono stati per me una preziosissima sicurezza. Sono grato anche a Andrew Miller della Knopf per le brillanti osservazioni, le domande e le idee al tempo stesso utili e tempestive. Alla Bloomsbury ci sono molte persone che devo ringraziare. Anna Simpson ha diretto i lavori con grazia esemplare, assicurandosi che tutto fosse nel posto giusto al momento giusto – dalla scelta dei caratteri tipografici alle mappe, dalle illustrazioni all’impaginazione – per trasformare un documento digitale in un bellissimo libro reale. Peter James ha letto più volte il manoscritto, offrendo eleganti suggerimenti su come e dove migliorare il testo; i suoi ottimi consigli sono stati molto apprezzati. Catherine Best ha svolto un lavoro egregio come correttrice di bozze, individuando problemi che non avevo nemmeno notato, mentre David Atkinson si è eroicamente occupato dell’indice analitico. Le mappe sono opera di Martin Lubikowski, la cui abilità è stata pari soltanto alla pazienza, mentre Phil Beresford ha contribuito ad assemblare le suggestive immagini degli inserti. Emma Ewbank è responsabile di una grafica di copertina semplicemente straordinaria. Sono grato a Jude Drake e a Helen Flood per il loro aiuto
nell’esortare le persone a leggere ciò che ho scritto. Ho un particolare debito di gratitudine nei confronti di Catherine Clarke la quale, diversi anni fa, mentre pranzavamo insieme a Oxford mi disse che, secondo lei, sarei stato in grado di riunire diversi filoni di ricerca in un unico lavoro. La cosa allora mi lasciò dubbioso, e quelle stesse perplessità sono ricomparse spesso durante la stesura, specie a notte fonda. Le sono grato per il suo consiglio, il sostegno e l’incoraggiamento, così come devo gratitudine all’instancabile Zoe Pagnamenta, mia paladina a New York. Chloe Campbell, come un angelo custode, ha letto le bozze dell’intero libro, appianando dubbi ed eliminando cattive abitudini con garbo e diplomazia. Ai miei genitori piace ricordare che mi hanno insegnato a camminare e a parlare. Sono stati loro a regalarmi, quando ero ragazzo, il mio prediletto planisfero e a permettermi di appenderlo alla parete della mia camera da letto (anche se non mi permisero mai di usare il nastro adesivo né di incollare gli adesivi di Star Wars in mezzo agli oceani). Mi hanno insegnato a pensare con la mia testa e a mettere in dubbio quello che ascoltavo e leggevo. Io e i miei fratelli siamo stati fortunati a crescere in una casa dove a tavola si potevano ascoltare tante lingue diverse, e da noi ci si aspettava che seguissimo e partecipassimo alla conversazione. Avere imparato a capire quel che dicono gli altri, ma anche a cercare di intuire quel che vogliono veramente dire, si è rivelata una risorsa preziosa. Sono grato ai miei fratelli e alle mie sorelle, fin da piccoli i miei migliori amici, per avermi spinto verso obiettivi ambiziosi e per essere stati i miei critici più severi: fra tutte le persone che conosco, sono gli unici a pensare che studiare il passato sia facile. Mia moglie Jessica è al mio fianco da venticinque anni, ed è per me fonte d’ispirazione fin da quando studiavamo insieme con entusiasmo all’università, quando discutevamo del senso della vita, parlavamo dell’importanza dei popoli tribali e ballavamo negli scantinati dei college di Cambridge. Ogni giorno stento a credere alla fortuna che ho avuto. Le Vie della Seta non sarebbe mai stato scritto senza di lei. Tuttavia, questo libro è dedicato ai nostri quattro figli che, ogni volta che uscivo dal mio studio o riemergevo da archivi esotici o dotati di aria condizionata per riflettere sul problema del giorno, hanno osservato, ascoltato e posto domande sempre più interessanti. Katarina, Flora, Francis e Luke, siete il mio orgoglio e la mia gioia. Ora che il libro è finito, posso finalmente giocare con voi in giardino per tutto il tempo che volete.
Inserto fotografico
I prodotti tessili delle Vie della Seta erano molto apprezzati e talvolta venivano utilizzati come mezzo di pagamento. Questo tessuto dell’VIII o IX secolo raffigura i famosi cavalli dell’Asia centrale. The Vincent Astor Foundation Gift © Metropolitan Museum of Art
Le Vie della Seta presentano innumerevoli sfide, ostacoli e barriere naturali. Per esempio, i monti del Pamir, con i loro valichi ben protetti, la fortezza di pietra di Tashkurgan, nei pressi di Kashgar… © Feng Wei Photography / Getty Images
…o l’infido deserto di Taklamakan, nello Xinjiang, Cina occidentale. © Feng Wei Photography / Getty Images
Donne che preparano una seta appena tessuta. Immagine dipinta dall’imperatore cinese Huizong della dinastia Song, inizio XII secolo. Pictures from History / Bridgeman Images
Scultura in ceramica raffigurante un mercante sogdiano sul dorso di un cammello battriano, risalente all’epoca della dinastia Tang (618-907). Pictures from History / David Henley / Bridgeman Images
Le ricche decorazioni dei palazzi sogdiani a Panjakent attestano l’entità dei profitti ricavati dal commercio con l’Asia. Walter Callens / Getty Images
Iscrizione a Naqsh-e Rustām del sommo sacerdote Kirdīr, che proclama il trionfo dello zoroastrismo. Kaveh Kazemi / Getty Images
I Buddha di Bamiyan, simboli della diffusione del buddhismo in Asia centrale. Afghan School / Valley of the Buddhas, Bamyan, Afghanistan / Bridgeman Images
Traduzione sogdiana di un salmo cristiano redatta in caratteri siriaci. Propagandare la fede usando le lingue locali era un mezzo molto importante per la sua diffusione. Pictures from History / Bridgeman Images
La crocifissione, illustrazione tratta dai Vangeli Rabbula, manoscritto miniato siriaco del VI secolo.
Moneta con la figura del «califfo stante», che forse ritrae il profeta Muḥammad in persona. Photo12 / UIG via Getty Images
Pagina di una copia del Corano tinta con indaco, Nord Africa, IX-X secolo. Marie-Lan Nguyen / Commons
Il nuovo impero musulmano convogliò un flusso di ricchezza in Asia centrale. Qui il sultano appare circondato dai suoi cortigiani; da un manoscritto del poema epico persiano Shāhnāma di Firdūsī. Topkapi Palace Museum, Istanbul, Turkey / Bridgeman Images
I governanti musulmani erano grandi mecenati delle arti e delle scienze. Dibattito tra studiosi in una biblioteca abbaside; immagine tratta dalle Maqāmāt di al-Ḥarīrī. Photo © PVDE / Bridgeman Images
La mappa di Maḥmūd al-Kāshgharī, che mostra Balāsāghūn come centro del mondo.
Illustrazione della spiegazione delle fasi lunari proposta da al-Bīrūnī. © Pictures from History / Bridgeman Images
La guerra e il commercio andavano di pari passo. Le minacciose mura difensive di Bukhara. De Agostini / Getty Images
Particolare di una pietra runica di Tillinge, in Svezia, per commemorare la morte di un avventuriero scandinavo nel «Serkland», la terra dei Saraceni.
I Vichinghi erano fortemente coinvolti nel traffico di esseri umani. La fama di popolo violento ebbe un ruolo decisivo nel loro successo. ben stansall/afp/Getty Images
I Mongoli dilagarono in Asia con straordinaria rapidità. Qui Gengis Khan, spalleggiato dai suoi uomini, insegue un nemico. Fine Art Images / Heritage Images / Getty Images
Non erano solo i commerci e le conquiste a seguire le Vie della Seta, ma anche le epidemie. La più devastante fu la peste nera, che nel XIV secolo decimò le popolazioni dell’Asia e dell’Europa. Le vittime raffigurate nella Bibbia di Toggenburg mostrano i caratteristici bubboni che, secondo Boccaccio, potevano avere le dimensioni di una mela. Pictures from History / Bridgeman Images
L’oro dell’Africa occidentale era famoso in tutto il Mediterraneo. In questo particolare dell’Atlante catalano (1375), il grande sovrano del Mali Mansa Musa, «il re più ricco e nobile della terra», tiene in mano una grande pepita d’oro. Bibliothèque Nationale, Paris / Bridgeman Images
Nel XV secolo la Cina manifestò un crescente interesse per il mondo al di là del Pacifico. L’ammiraglio cinese Zheng He esplorò l’oceano Indiano e le coste dell’Africa orientale. Questa pittura murale del tempio cinese di Penang, in Malaysia, raffigura una delle sue navi. © Chris Hellier / Alamy
Mappa dell’oceano Indiano, del golfo Persico e del golfo del Bengala realizzata da Jan Huygen van Linschoten, il decano dei cartografi europei. Culture Club / Getty Images
Hernán Cortés e Xicoténcatl, la cui alleanza portò alla scomparsa degli Aztechi. Cortés diceva di soffrire di una malattia che si poteva curare solo con l’oro.
Il trafficato porto di Kozhikode, nel Sudovest dell’India, un secolo dopo la spedizione di Vasco da Gama. I mercanti europei che affluivano in Asia potevano trarre lauti profitti rivendendo le merci ai nuovi ricchi in patria. Private Collection / The Stapleton Collection / Bridgeman Images
Lo spettacolare mausoleo di Gūr-i Mīr a Samarcanda, dove riposano i resti di Tamerlano e dei suoi eredi. Getty Images
Il Taj Mahal, simbolo d’amore e del netto incremento della ricchezza in India nel XVII secolo. Getty Images
La delegazione olandese ricevuta a Udaipur dal Maharana Sangram Singh nel 1711 (particolare). Trattare per ottenere (o rinnovare) i privilegi commerciali era vitale per gli interessi dei mercanti europei. © Victoria and Albert Museum, London
Il secolo d’oro olandese: Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra. In primo piano, un piatto dai tipici colori bianco e blu delle porcellane asiatiche. Fine Art Images / Heritage Images / Getty Images
La Compagnia delle Indie Orientali fece la fortuna di tanti suoi funzionari, ma quando fallì fu necessario un intervento di salvataggio da parte del governo che suscitò molti malumori nelle colonie britanniche. Nel 1773 alcuni uomini vestiti da «indiani» gettarono per protesta il tè nelle acque del porto di Boston. Il Boston Tea Party fu una pietra miliare lungo la via verso la Dichiarazione d’indipendenza americana. De Agostini / Getty Images
L’assassinio di Alexander Burnes a Kabul, il 2 novembre 1841. Burnes era diventato popolare come cronista delle vicende dell’Asia centrale. Private Collection / © Look and Learn / Elgar Collection / Bridgeman Images
Sir Edward Grey, ministro degli Esteri britannico all’inizio della prima guerra mondiale. Grey riteneva che avere buoni rapporti con la Russia fosse decisivo per la tutela degli interessi della Gran Bretagna in India e nel golfo Persico. Getty Images
Lo scià Moẓaffar od-Dīn, le cui richieste di prestiti furono fonte di problemi, ma anche di opportunità, per Londra e San Pietroburgo.
Herbert Backe, ideatore del piano per dividere l’Unione Sovietica in una zona di «surplus» e una zona di «deficit». Il suo piano prevedeva che milioni di russi morissero di fame. Bundesarchiv
La residenza montana di Hitler secondo la rivista «Homes & Gardens», «la massima fonte di ispirazione in materia di arredamento». Per l’espansione tedesca a est, il Führer trasse ispirazione dall’India britannica e dai coloni europei nel Nord America. Il Volga, ebbe a dire, doveva essere il Mississippi della Germania, e la popolazione indigena doveva essere respinta al di là di quella frontiera. Heinrich Hoffmann / ullstein bild via Getty Images
William Knox D’Arcy, un «capitalista di prim’ordine», che ottenne una concessione esclusiva per «sondare, forare e trivellare a volontà le profondità del suolo persiano» per sessant’anni. General Photographic Agency / Getty Images
Mohammed Mossadeq, primo ministro iraniano, deposto nel 1953 da un complotto orchestrato dalla CIA . Si diceva che lasciasse dietro di sé «una leggera scia di profumo d’oppio». Keystone-France / Gamma-Keystone via Getty Images
Mohammed Mossadeq, eletto «uomo dell’anno» dalla rivista «Time» nel 1952.
Reza Pahlavi, scià dell’Iran, con la moglie. «Le mie visioni sono stati miracoli che hanno salvato il paese» disse a un giornalista che lo intervistava. Dmitri Kessel / The LIFE Picture Collection / Getty Images
Il ritorno dell’ayatollah Khomeini in Iran, nel 1979, fu celebrato con incontenibile entusiasmo a Teheran. La BBC calcolò che fossero scese nelle strade circa 5 milioni di persone. Associated Press
Saddam Hussein nella sua tenuta da campo preferita. Negli anni Sessanta del Novecento fu individuato dai britannici come una persona con cui «si poteva trattare». Pierre perrin / Gamma-Rapho via Getty Images
Osama bin Laden. Rapporti dell’intelligence statunitense prima dell’11 settembre 2001 notavano che il suo messaggio godeva di notevole considerazione nel mondo arabo, anche se pochi ne condividevano i metodi terroristici. Getty Images
Il Khan Shatyr Entertainment Centre ad Astana, in Kazakistan. La futuristica tenda trasparente ospita un centro commerciale, impianti sportivi, sale cinematografiche e una spiaggia turistica al coperto. Edson Walker / Getty Images
L’aeroporto internazionale Heydar Aliyev di Baku, in Azerbaigian, è uno degli avveniristici snodi di comunicazione costruiti lungo la nuova Via della Seta.
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