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Italian Pages /472464 [464] Year 2004
Se la lettera ai Romani è il testo classico della dottrina della giustificazione in Paolo, le lettere ai Corinti ne sono la testimonianza più incisiva della teologia della croce. Le due lettere mostrano come Paolo metta concretamente a frutto l'annuncio del Crocifisso nell'edificazione della comunità: il kerygma della croce non può condurre a una sapienza individualistica né a una sopravvalutazione dei doni dello Spirito, e d'altra parte costituisce la legittimazione dell'apostolato di Paolo. Nelle lettere ai Corinti, per riprendere una formula felice, Paolo fa della teologia applicata, e a questa è dedicata gran parte dei diciotto excursus che nel commento di Friedrich Lang approfondiscono i momenti salienti delle lettere ai Corinti e gli aspetti più rilevanti della loro interpretazione.
NT 07/1
ISBN 8839406859
€ 39.70
9 788839 406859
Nuovo Testamento Seconda serie a
cura di Peter Stuhlmacher e Hans Weder
7 Le lettere ai Corinti
Paideia Editrice
Le lettere ai Corinti F riedrich Lang
Paideia Editrice
Titolo originale dell'opera:
J?.ie Briefe an die Korinther
Ubersetzt und erklart von Friedrich Lang
Traduzione italiana di Franco Bassani Revisione di Monica Negri
© Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1986, .11994 © Paideia Editrice, Brescia 2004
ISBN
88.394·0685.9
Indice del volume
9
Elenco delle abbreviazioni
II
Introduzione
I2 I4 18 22
Corinto La prima lettera Gli avvenimenti tra la prima e la seconda lettera La seconda lettera
Prima lettera ai Corinti 3I
Inizio della lettera (1,I-9)
37
Parte prima Le divisioni nella comunità (I,Io-4,2I)
96
Parte seconda Disordini morali nella comunità (5,1-6,20)
II7
Parte terza Risposte a questioni sulla condotta di vita (7, 1- I 1, I)
I77
Parte quarta Risposta ai quesiti sul culto (1 I,2-14,40)
262
Parte quinta La risurrezione dei morti (I5,I-s8)
307
Chiusa della lettera Comunicazioni e saluti (16,1-24)
Seconda lettera ai Corinti 315
Inizio della lettera (I,I-II)
320
Parte prima Sguardo retrospettivo sugli eventi passati (I,I2-7,I6)
394
Parte seconda La colletta per la comunità di Gerusalemme (8,I-9,I5)
8
Indice del volume
4o6
Parte terza Paolo chiude la partita con gli avversari (1o,I-IJ,I3)
445
Chiusa della lettera (13,1 1-13)
449
Bibliografia
4 59
Indice analitico Excursus
41 114
I gruppi di Corinto La posizione di Paolo riguardo a corporeità e sessualità
137
Il matrimonio nella concezione di Paolo
172
Il fondamento dell'etica paolina
186
La posizione della donna secondo Paolo e nelle comunità paoline
200
La cena in Paolo
210
Formule di confessione in Paolo
224
La concezione della chiesa e dei carismi in Paolo
�3 9
L'amore in Paolo
254
Profezia e glossolalia nelle comunità paoli
258
Il culto nelle comunità paoline
270
La tradizione paolina della pasqua e i racconti evangelici della risurrezione
302
La speranza paolina nella risurrezione
362
Il problema di un'evoluzione dell'escatologia paolina
370
Paolo e il Gesù terreno
435
La malattia di Paolo
443 446
Formule a tre membri (triadiche) in Paolo
Gli avversari di Paolo nella seconda lettera ai Corinti
Elenco delle abbreviazioni
Scritti biblici Ab. Abacuc. Abd. Abdia. Agg. Aggeo. Am. Amos. Apoc. Apocalisse. Atti Atti degli Apostoli. Bar. Baruc. Cant. Cantico dei cantici. Col. Lettera ai Colossesi. I, .1 Cor. Prima, seconda lettera ai Corinti. I, .1 Cron. Primo, secondo libro delle Cronache. Dan. Daniele. Deut. Deu teronomio. Ebr. Lettera agli Ebrei. Ecci. Ecclesiaste. Ef. Lettera agli Efesini. Es. Esodo. Esd. Esdra. Est. Ester. Ez. Ezechiele. Fil. Lette ra ai Fili ppesi. Film. Lettera a Filemone. Gal. Lettera ai Galati. Gd. Lettera di Giuda. Gdt. Giuditta. Gen. Genesi. Ger. Geremia. Giac. Lettera di Giacomo. Giob. Giobbe. Gion. Giona. Gios. Giosuè. Giud. Giudici. Gl. Gioele. Gv. Vangelo di Giovanni. I, .1, 3 Gv. Prima, se conda, terza lettera di Giovanni. Is. Isaia. Lam. Lamentazioni. Le. Vangelo di Luca. Lev. Levitico. I, .1 Macc. Primo, secondo libro dei Maccabei. Mal. Malachia. Mc. Vangelo di Marco. Mich. Michea. Mt. Vangelo di Matteo. Naum Naum. Neem. Neemia. Num. Numeri. Os. Osea. I, .1 Pt. Prima, seconda lettera di Pietro. Prov. Proverbi. I, .1 Re Primo, secondo libro dei Re. 1, .1, 3, 4 Regn. Primo, secondo, terzo, quarto libro dei Regni (LXX). Rom. Lettera ai Romani. Rut Rut. Sal. Salmi. I, .1 Sam. Primo, secondo libro di Samuele. Sap. Sapienza di Sa lomone. Sir. Siracide (Ecclesiastico). So f. Sofonia. 1, .1 T ess. Prima, seconda lettera ai Tessalonicesi. I, .1 Tim. Prima, seconda lettera a Timo teo. Tit. Tito. Toh. Tobia. Zacc. Zaccaria.
Scritti giudaici del II sec.
a. C.
-
I sec.
d. C.
Enoc etiopico (n sec. a.C. - 1 sec. d.C.). Iub. Libro dei Giubi lei (n sec. a.C.). LXX Septuaginta {traduzione greca dell'A.T.). Q Scritti delle grotte di Qumran (ni-I sec. a.C.): rQM Rotolo della Guerra; rQS Regola della Comunità; rQSa Regola della Congregazione; 4QFlor Flori legio. Test. XII Testamenti dei dodici Patriarchi (11 sec. a.C., con interpo lazioni cristiane): Test. Ben. Testamento di Beniamino; Test. Dan Testa mentum Dan; Test. Gad Testamento di Gad; Test. Io s. Testamento di Giuseppe; Test. Iss. Testamento di Issacar; Test. Naph. Testamento di Neftali; Test. Rub. Testamento di Ruben Hen. aeth.
Scritti giudaici del IlII sec. d. C. e posteriori Apoc. Mos. Apocalisse di Mosè (I sec. d.C.). Bar. syr. Apocalisse siriaca di Baruc (inizio II sec. d.C.). bBer. Talmud babilonese, trattato Berakot. Ber. Mishna, trattato Berakot. bjeb. Talmud babilonese, trattato Jeba mot. bQidd. Talmud babilonese, trattato Qiddusin. CD Documento di Damasco (Qumran). 3 Esd. Terzo libro di Esdra (fine II sec. a.C.). 4 Esd. Quarto libro di Esdra (fine I sec. d.C.). Filone Filone di Alessandria (ca. 20 a.C. so d.C.): Ali. Legum Allegoriae; Op. De opificio mundi; Vit. Mos. De Vita Mosis. Giuseppe (storico giudaico, n. 37IJ8, m. dopo il roo): Ap. Contra Apionem. Hen. slav. Enoc slavo (fine 1 sec. d.C.). Ket. Mish na, trattato Ketubbot. Makk. Mishna, trattato Makkot. Midr. Qoh. Mi drash su Qohelet. Ned. Mishna, trattato Nedarim. Pes. Mishna, trattato Pesa}:lim. Sanh. Mishna, trattato Sanhedrin. tBer. Tosefta, trattato Bera kot. Vit. Ad. Vita di Adamo ed Eva (I sec. d.C.). -
Letteratura profana greca e romana Dio Chrys. Dio ne di Prusa (ca. 40-I 20 d.C., poi chiamato Crisostomo): Or. Orazioni. Epitteto (ca. so-IJO d.C., rappresentante principale della stoa più recente): Diss. Dissertazioni. Liv. Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C., storico romano). Marco Aurelio Marco Aurelio Antonino (imperatore romano [I6I-r8o d.C.] e filosofo): A se stesso. Platone (428-348 a.C., fi losofo greco): Men. Menone; Symp. Simposio; Tim. Timeo. Strabone (63 a.C.- I9 d.C., geografo greco): Geographica.
Scritti cristiani del IlII sec. d. C. e posteriori 1 Clem. Prima lettera di Clemente (fine I sec.). 2 Clem. Seconda lettera di Clemente (metà II sec.). Did. Didachè (Dottrina dei dodici apostoli, I sec.; Siria?). Giustino Giustino martire (m. I65 ca.; Efeso, Roma): Apol. Apo logia; Dial. Dialogo con Trifone giudeo. Herm. Pastore di Erma (Roma, prima metà n sec.): Sim. Similitudines. Ign. Ignazio di Antiochia (m. po co dopo il I 1o): Eph. Agli Efesini. Mart. Poi. Martirio di Policarpo. Ori gene Origene di Alessandria (185-254): Cels. Contra Celsum.
Lessici e opere collettive' Bauer W. Bauer, Griechisch-Deutsches Worterbuch zu den Schriften des N. T. und der ubrigen urchristlichen Literatur, sI 97I. Bill. (H.L. Strack -) P. Billerbeck, Kommentar zum N. T. aus Talmud und Midrash. GLNT Grande Lessico del N. T. RAC Reallexikon fur Antike und Christentum.
TRE Theologische Realenzyklopadie.
Introduzione
Le due lettere ai Corinti ci consentono di farci direttamente un'idea della vita di una giovane comunità, in prevalenza etnicocristiana, nella sfera missionaria dell'apostolo Paolo. Nelle due lettere l'apostolo fa, per così dire, della «teologia applicata» (H. Conzelmann), in quanto la sua teologia viene messa a contatto con i problemi concreti della vita della comunità, e interviene nei rapporti della comunità col suo «pa dre spirituale». Si vede da presso l'opera missionaria del teologo Paolo nella sua veste di fondatore di comunità, predicatore, pastore e guida di comunità, e insieme l'appassionata controversia dell'apostolo con i predicatori di un vangelo diverso. Se la lettera ai Romani è il testo clas sico dell'annuncio paolino della giustificazione, le lettere ai Corinti sono la testimonianza più incisiva della sua «teologia della croce». La prima lettera mostra come Paolo metta a frutto nella pratica l'annun cio del crocifisso nell'edificazione della comunità; la seconda mostra con quanta decisione egli intervenga con essa per difendere il suo uffi cio di apostolo contro le accuse degli avversari. Lo stesso annuncio del la giustificazione del peccatore mediante la sola fede in Gesù Cristo, che nella lettera ai Galati è difeso da Paolo contro giudaizzanti che predicano la giustizia della legge, nelle lettere ai Corinti viene da lui sostenuto da un lato contro la tendenza a una sapienza individualisti ca e contro una sopravvalutazione entusiastica dei doni dello Spirito, dall'altro contro chi contesta la legittimità del suo apostolato. Il ricco scambio epistolare di Paolo con la comunità di Corinto non ci è conservato in tutta la sua estensione. Tra le difficoltà interpretati ve rientra anche la questione di come le lettere conservateci s'inseri scano nel corso degli avvenimenti, sul quale non è più possibile fare piena luce.
CORINTO 1.
La città di Corinto
Città commerciale posta sull'istmo, già ricordata da Omero (Iliade per la sua agiatezza, col suo porto settentrionale sul golfo omo nimo (Lecheo) e quello orientale sul Golfo Saronico (Cenere), Corin to doveva la sua ricchezza soprattutto alla sua posizione tra due mari. Nell'antichità, per passare dall'Egeo all'Adriatico le merci venivano trasbordate sull'istmo; Corinto era quindi il centro per il trasbordo delle merci nel traffico tra oriente e occidente, e tra la Grecia conti nentale a nord e la penisola del Peloponneso a sud. Vi fioriva inoltre la produzione artigianale, soprattutto della ceramica e della lavorazio ne dei metalli. In seguito alla sollevazione della Lega Achea, nel 146 a.C. la Corinto antica fu totalmente distrutta dai romani. Giulio Cesa re la rifondò come colonia romana nel 44 a.C.; la città acquistò rapi damente importanza, e dal 2 7 a. C. divenne la sede del governatore della provincia d' Acaia, divenuta provincia senatoria nel 44 d.C. La sua popolazione era mista di greci, romani, orientali e anche giudei. È stata ritrovata l'architrave spezzata della porta di una «sinagoga degli ebrei». Sul piano culturale e religioso, il sincretismo era la caratteristi ca della nuova Corinto cosmopolita. Accanto a templi greci e romani c'erano santuari di Iside, di Serapide e della madre degli dei originaria dell'Asia Minore. La proverbiale dissolutezza di Corinto, messa in evidenza specialmente dai rivali ateniesi, non era probabilmente molto maggiore che in ogni altra città di mare. La prostituzione sacra nel tempio di Afrodite sull'acropoli, di cui spesso s'è parlato, secondo H. Conzelmann si basa sul fraintendimento di un'indicazione di Strabo ne (8,6,20 ). 2, 5 70)
2..
La comunità di Corinto
Accanto a Efeso, Corinto fu il centro più importante del lavoro missionario di Paolo. In quest'affollata capitale di provincia, l' aposto lo fondò la comunità cristiana nel corso del suo cosiddetto secondo viaggio missionario, svolgendovi la sua attività negli anni 50- 5 2 d.C. circa. Da Atene, dove evidentemente non era riuscito a fondare una co munità, Paolo aveva rimandato il giovane collaboratore Timoteo a Tes salonica, per consolidare la locale comunità, come risulta da 1 Tess. (3,
Corinto
13
I s.), scritta a Corinto nel 50 d.C. Di conseguenza Paolo era solo quan do iniziò a predicare il vangelo a Corinto (I Cor. 2,3 -5 ). Abitava e la vorava presso la coppia di giudeocristiani Aquila e Priscilla (Prisca), da poco espulsi da Roma; inizialmente insegnava nella sinagoga, poi, dopo l'arrivo di Sila (Silvano) e Timoteo dalla Macedonia, nella casa del timorato di Dio Tito Giusto (Atti I 8, I -8). I primi convertiti in Acaia furono Stefana e la sua famiglia (I Cor. I 6, I 5 ); costoro, insieme con Cri spo e Gaio, furono battezzati dallo stesso Paolo (I Cor. I, I 4 ss. ). Do po diciotto mesi di attività a Corinto, nel 5 I/ 5 2 d.C., dietro accusa dei giudei, l'apostolo fu portato in giudizio davanti al proconsole Gallio ne, un fratello del filosofo Seneca, che tuttavia non accolse l'accusa. Dopo Paolo, per un certo tempo svolse la sua attività a Corinto Apol lo, giudeocristiano di Alessandria, di formazione ellenistica, mentre Paolo dopo aver viaggiato per l'altopiano dell'Asia Minore, svolgeva attività missionaria nella zona di Efeso ( 5 2-5 5 d.C.). Apollo ebbe evi dentemente molto successo presso i corinti, poiché questi, quando egli in seguito si trovava a Efeso, lo pregarono di far loro visita di nuovo, cosa che però non avvenne, malgrado le insistenze di Paolo (I Cor. I 6, I 2). A Corinto non predicò Pietro personalmente, ma nella comunità i suoi seguaci formavano un gruppo importante. Il numero dei mem bri della comunità dev'essere cresciuto costantemente, sia per effetto della predicazione di Paolo e di Apollo, sia per l'arrivo di membri da altre comunità. Dal punto di vista sociale la maggioranza era costituita di persone di basso ceto, artigiani, schiavi, lavoratori del porto ( 1 Cor. I ,26). Accanto ai poveri, che non potevano portare nulla con sé per il pasto in comune, v'erano però anche dei benestanti che disponevano di molte provviste (I Cor. I I ), possedevano case, come ad esempio Gaio (Rom. I6,23), e sostenevano chi era socialmente debole. Vi erano anche donne che stavano al servizio della comunità (Prisca, Febe ). Dal punto di vista religioso, la comunità era costituita prevalentemente di persone di provenienza gentile (I Cor. I 2,2 ); v'era tuttavia anche una minoranza di giudeocristiani, cui apparteneva soprattutto il ceppo più antico (Prisca e Aquila, Crispo, Sostene).
LA PRIMA LETTERA
1. Occasione e caratteristiche della lettera
Le nostre due lettere canoniche ai Corinti non rappresentano l'inte
ro scambio epistolare di Paolo con la comunità. Da Efeso, anteceden
temente alla prima lettera, l'apostolo aveva già inviato a Corinto una cosiddetta «lettera precedente», nella quale metteva in guardia dall'ave re rapporti con impudichi. La comunità aveva però erroneamente ri ferito questo avvertimento agli impudichi del mondo, interpretazione che Paolo corregge in 5 ,9- I I . La questione se nelle lettere canoniche siano state inserite parti della lettera precedente tocca il dibattuto pro blema dell'unitarietà dei due scritti. A mio giudizio la lettera prece dente è totalmente perduta. Dopo la partenza dell'apostolo, a Corinto erano sorti dissidi e disordini d'ogni genere, che si possono rilevare dalla prima lettera. Nella giovane comunità si facevano notare di con tinuo i precedenti costumi gentili e gli usati modi di pensare, il che portava a un travisamento entusiastico della predicazione paolina. I seguaci di Cloe riferirono all'apostolo che a Corinto s'erano formati dei gruppi, che si richiamavano in maniera esclusiva a singoli predica tori o al Cristo innalzato ( I , I 2 s.). Paolo fu informato inoltre di una grave impudicizia ( 5, I ) e di incon venienti nella celebrazione della cena ( I I , I 8); dei latori di queste noti zie non si fanno i nomi. Per venire a capo dei dissidi che erano scop piati, la comunità scrisse una lettera all'apostolo che l'aveva fondata, in cui poneva quesiti sulla liceità del matrimonio (7, I ), sul consumo del la carne proveniente dai sacrifici agli idoli (8, I ), sui doni dello Spirito ( I 2, I ), sulla colletta per Gerusalemme ( I 6, I ) e su Apollo (I 6, I 2 ). A portare a Paolo la lettera con i quesiti la comunità inviò a Efeso ( I 6, I 7) una delegazione di tre persone (Stefana, Fortunato e Acaico); in tal modo, Paolo poté quindi venire ulteriormente informato a viva vo ce da questi rappresentanti della comunità sulla situazione a Corinto. Stando a 4, I 7, per parte sua Paolo aveva inviato a Corinto il suo col laboratore Timoteo, perché confermasse la comunità nella dottrina dell'apostolo. Alla notizia dei dissidi, Paolo, quasi al termine della sua attività in Efeso, scrisse la prima lettera ai Corinti, in cui prendeva posizione sulla loro tendenza a formare gruppi e (a partire da 7, I ) ri spondeva ai quesiti della comunità. Secondo quanto dice in I 6,8, l'apo stolo intendeva rimanere a Efeso ancora fino alla pentecoste; 1 Cor. è
La prima lettera
IS
stata quindi scritta nella primavera (del 54 o, più probabilmente, del 5 5 ). Con questo suo scritto ai corinti, secondo dopo la lettera prece dente, Paolo sperava di sistemare quanto prima quei disordini. - Di fronte alle molte notizie sulla situazione della comunità e alla varietà delle questioni poste da essa, non ci si può aspettare che la lettera sia lo sviluppo sistematico di un tema unitario, come ad esempio la lettera ai Romani. Per di più Paolo, il quale dettava le sue lettere, scrive in uno stile discorsivo vivo e dialogico. Nella sua esposizione ricorre tal volta alla struttura circolare ( 1 -4, 8 - I o, 1 2- 1 4); certe sezioni si presen tano inoltre come excursus ( capp. J, 9, I 3); in realtà questi capitoli chia riscono il fondamento teologico in base al quale Paolo argomenta. 2.
Contenuto e struttura
Dopo il saluto d'apertura e il ringraziamento a Dio per la ricchezza spirituale della comunità ( I , I -9), in una prima parte Paolo si batte per l'unità della chiesa contro la pratica, diffusasi a Corinto, di formare dei gruppi ( I , 10-4,2 I ), e contrappone innanzi tutto la parola della cro ce, in quanto sapienza e potenza di Dio, alla sapienza di questo mon do ( I , I 8-J,2J). Nella seconda parte Paolo si occupa dei disordini mo rali di cui ha saputo ( 5 , 1 -6,2o), prendendo in considerazione un caso di grave impudicizia ( 5, I- I 3 ), la pratica di ricorrere a processi davanti al giudice gentile (6, 1 - 1 I ) e la frequentazione di prostitute (6, 1 2-20). Nella terza parte l'apostolo prende posizione su problemi di condotta di vita (7, I - 1 1 , 1 ); vi sostiene il principio della libertà cristiana sia nella questione matrimonio o celibato (7, 1 -40), sia a proposito del consuma re la carne dei sacrifici agli idoli ( 8, 1 - I 1 , 1 ). Delle questioni sorte rela tivamente alle riunioni liturgiche Paolo si occupa nella quarta parte (II,2- I 4,40), dove tratta del velo sul capo delle donne (I 1 ,2- 1 6), della celebrazione della cena conformemente alla sua istituzione ( 1 1 , 1 7-34) e del rapporto dei molteplici doni dello Spirito con l'amore, senza il quale tutti i carismi sono inutili ( 1 2,I - I J,I J ). Su questa prospettiva del l'amore egli fonda lo svolgimento ordinato del culto e il primato della profezia sull'estatico parlare le lingue ( 1 4, 1 -40). L'apostolo si oppone continuamente alla sopravvalutazione entusiastica del possesso dello Spirito, in forza della quale i corinti trasferiscono completamente l'escatologia nel presente. Di conseguenza, l'argomentazione di tutta la lettera ha il suo culmine teologico nella quinta parte, dove Paolo
I6
Introduzione
difende l'unione con Cristo nel corpo spirituale, contro la negazione della risurrezione futura ( 1 5 , 1 - 5 8). La chiusa della lettera contiene un accenno alla colletta, informazioni sui progetti di viaggio di Paolo e sulla prossima visita di Timoteo, una notizia su Apollo, esortazioni, saluti e un augurio finale di mano dell'apostolo ( 1 6, 1 -24). - Se, in con seguenza delle notizie allora attuali sulle divisioni e a causa dei vari quesiti della comunità, la lettera mostra una struttura complessiva piut tosto lassa, acquista tuttavia una sua unità teologica perché su tutti i problemi Paolo prende posizione a partire dalla «teologia della cro ce», testimoniando sempre a fondamento, norma e scopo della comu nità, Gesù Cristo crocifisso e innalzato (G. Friedrich). Nel far ciò, il giudeo della diaspora Paolo, come per la sua testimonianza ricorre a parole di Gesù (7, 1 0; 9, 1 4) e a formule di fede del cristianesimo primiti vo, così si vale sia di tradizioni sapienziali e dell'apocalittica giudaica, sia di idee ellenistiche, interpretandole nel senso della sua cristologia. 3· Caratteri della religiosità corinzia
Di fronte a una comunità tanto composita qual era quella di Corin to, non c'è da aspettarsi di trovarvi sostenuta una teologia perfetta mente unitaria; a seconda della provenienza e del modo di pensare dei vari membri della comunità, nella ricezione e rielaborazione dell'an nuncio di Cristo fatto dall'apostolo saranno intervenute concezioni religiose differenti. Per sua stessa testimonianza, a Corinto, come già prima in Asia Minore e in Macedonia, Paolo ha predicato il vangelo del crocifisso, libero dalla legge ( 1 Cor. 2, 1 - 5). Nel contesto della sua lotta contro la divisione tra i gruppi, la sua testimonianza è in opposizione alla sapienza mondana. Presso i greci il sapere mondano era da sempre in grande considerazione, ma anche nel giudaismo ellenistico la tradi zione sapienziale, cui si univano idee stoiche, esercitava un forte in flusso su tutta la vita. Ciononostante, per spiegare le divisioni e i di sordini morali della comunità di Corinto, non basta richiamare costu mi e concezioni precedenti. Il fattore decisivo fu la predicazione pao lina del potere dell'evento Cristo, che fa entrare in un nuovo eone. Nel la croce di Cristo Dio ha riconciliato a sé l'uomo peccatore (2 Cor. 5, I 9) e mediante il suo Spirito ha fondato la libertà della fede. Al vec chio mondo è stato inferto il colpo mortale; in Cristo ha avuto inizio il mondo nuovo di Dio, al quale i cristiani partecipano già ora nella fe-
La prima lettera
I7
de, in quanto comunità nuova che supera le precedenti differenze tra giudei e greci, liberi e schiavi, uomini e donne. Sulla base dell'Antico Testamento, Paolo ha inteso il dono dello Spirito nel battesimo come caparra del compimento escatologico del mondo (2 Cor. 1,22). La ra dice dei disordini che si producono a Corinto sta, a mio parere, in un'interpretazione dello Spirito che si scosta da questa (cf. excursus «l gruppi di Corinto» dopo I Cor. I , I 7). I pneumatici di Corinto crede vano di avere già parte al compimento nello Spirito ( I Cor. 4,8). Per costoro la risurrezione ha già avuto luogo con la ricezione dello Spiri to nel battesimo; negano perciò «la risurrezione dei morti» ( 1 Cor. I 5,1 2), ossia una risurrezione futura dei defunti col loro corpo. - Ac canto all'unilaterale cristologia dell'innalzamento e all'escatologia al presente, l'altro elemento in gioco era una concezione magica natura listica dell'efficacia dei sacramenti. Nel cap. I O Paolo combatte l'opi nione dei corinti che battesimo e cena garantiscano già il possesso del la salvezza. Nella religione dei misteri colui che iniziava ai misteri sta va in un rapporto spirituale particolarmente stretto con l'iniziato. Pa re che, analogamente, anche i pneumatici di Corinto abbiano attribui to un'importanza particolare a chi li aveva battezzati, provocando co sì una divisione in gruppi. Negli studi sul Nuovo Testamento, per que sti diversi elementi della religiosità dei corinti è divenuta corrente l'espressione «entusiasmo pneumatico». È evidente che non si avanza no richieste di ottemperare alla legge giudaica. Paolo, inoltre, non fa diretto riferimento al cosiddetto decreto apostolico (Atti 1 5 ,20.29), anche se tocca problemi affatto simili. 4· L 'unitarietà letteraria della prima lettera
L'autenticità di questa lettera, che tratta in modo così vivo e con creto le questioni e necessità d'una comunità di etnicocristiani in una metropoli, è generalmente riconosciuta. Si discute invece se la lettera così com'è oggi costituisca un'unità, o sia stata compilata da varie let tere ad opera di un redattore posteriore. Poiché la maggior parte degli interpreti ritengono la seconda lettera ai Corinti una composizione da più lettere, in linea di principio non si può escludere questa possibilità nemmeno per la prima. La struttura lassa è dovuta alla notizia dei dissidi tra i gruppi e ai quesiti della comunità. Tuttavia, contro l'unita rietà della lettera vengono addotte tensioni di natura storica e di teo-
I8
Introduzione
logia pratica. S'indicano qui brevemente le incrinature e le suture più rilevanti. a) Nei capp. 8 e I0,2J-I I , I Paolo difende la libertà di principio di mangiare la carne dei sacrifici agli idoli, se ciò non reca scandalo al fratello più debole; al contrario, in 1 o, I - 22 il sacramento crea un' oppo sizione tra cena del Signore e banchetto sacrificale pagano che ha ca rattere preclusivo. b) L'inno all'amore (cap. I 3) interrompe la trattazione sui. doni del lo Spirito, dove I 2,3 I e 14,1 producono l'effetto di un'artificiosa mes sa tra parentesi; perciò si propone che la successione dei capitoli sia 1 2, 14, I 3 · c) N el cap. 9 pare che Paolo s i difenda d a attacchi al suo ufficio di apostolo, mentre nei capp. 1 -4 non c'è sentore di simili attacchi. d) In I , I o ss. Paolo conosce le parole d'ordine dei vari partiti; in I I, I 8 ss. sembra invece non avere informazioni tanto precise; perciò I 1 , 1 8 ss. trarrebbe origine da una situazione precedente. e) In 4, I 9 Paolo scrive: «Presto verrò da voi>>; secondo 1 6, 5-8 in tende però rimanere a Efeso fino a pentecoste, per andare poi a Corin to attraversando la Macedonia, cosa che richiederà più tempo. Queste tensioni all'interno del testo hanno condotto a diverse ipo tesi di suddivisione. Lo smembramento di una lettera si rende però ne cessario solo quando il testo rimanda inequivocabilmente a situazioni redazionali diverse, il che per la prima lettera non può essere dimo strato in modo cogente. Nel seguente commento si dovranno illustra re gli argomenti esegetici a favore dell'unitarietà della prima lettera. GLI AVVENIMENTI TRA LA PRIMA E LA SECONDA LETTERA
Gli Atti degli Apostoli riferiscono, dopo il soggiorno di Paolo a Corinto in cui fondò la comunità, solo un altro suo viaggio in Grecia attraverso la Macedonia, con una sosta invernale di tre mesi a Corinto (Atti 2 0, I - J ), prima di mettersi in viaggio per consegnare i proventi del la colletta a Gerusalemme. Il doloroso scontro dell'apostolo con i co rinti non è menzionato da Le. Sull'intervallo tra le due lettere si deve perciò guardare alle informazioni di 2 Cor., la cui interpretazione pur troppo non è sempre perspicua. Tra tutte le lettere di Paolo, questo scritto è perciò quello di più difficile comprensione, poiché contiene allusioni ad avvenimenti che erano noti ai destinatari, ma che non sia-
Gli avvenimenti tra la prima e la seconda lettera
19
mo più in grado di chiarire con precisione in tutti i loro particolari. Pao lo aveva sperato di poter mettere ordine nella situazione della comu nità con la prima lettera e con l'invio di Timoteo, che si trovava allora in viaggio per Corinto ( 1 Cor. 4, I 7), ma questi aveva evidentemente portato cattive notizie (cf. 2 Cor. I , I ), così che Paolo dovette darsi an cora da fare per i corinti. 1.
I progetti di viaggio di Paolo
Tra la prima e la seconda lettera canonica, l'apostolo fece a Corinto la cosiddetta «visita intermedia», in cui si giunse a uno scontro. Secon do il suo progetto primitivo (1 Cor. 16, 5 -7), Paolo aveva l'intenzione di percorrere nei primi mesi del 5 5 la Macedonia e di trattenersi abba stanza a lungo a Corinto. L'apostolo mise effettivamente in atto que sto suo piano nel tardo autunno del 5 5 (Atti 20, 1 -J). Ora, però, Paolo parla di un altro progetto di viaggio (2 Cor. 1 , 1 5 s.), secondo cui, do po una breve visita a Corinto, intende prima visitare la Macedonia e poi ritornare di nuovo a Corinto, per farsi dare dalla comunità l' ac compagnamento per il viaggio a Gerusalemme. A quel tempo Paolo progettava di certo di recarsi per mare in Giudea, dopo aver raccolto le offerte della Macedonia e dell' Acaia. Evidentemente questo secon do progetto non fu messo in atto, o non per intero. Probabilmente l'apostolo, al termine della fallita visita intermedia (inizio estate 5 5 ), a voce aveva fatto intravedere alla comunità un suo ritorno di lì a poco (cf. 2 Cor. 2, 1). Paolo però non fece questa visita per un riguardo ver so la comunità (2 Cor. I 3,2 ); scrisse invece una lettera «dura», e inviò a Corinto Tito con questa cosiddetta «lettera di lacrime». 2.
La visita intermedia di Paolo
Secondo 2 Cor. 1 J, I s. Paolo vuole venire per la terza volta a Corin to. Nella sua seconda visita aveva minacciato che la volta successiva non avrebbe avuto più nessun riguardo. In 2 Cor. 2, I si parla di una vi sita «in tristezza». Questa specificazione non si addice alla permanen za in cui fu fondata la comunità. Perciò, tra la visita della fondazione e la terza, l'apostolo dev'essere stato a Corinto una seconda volta. Que sta cosiddetta «visita intermedia» dovette aver luogo all'inizio del l' estate del 5 5, nel corso del suo viaggio per mare. Non è più possibile
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Introduzione
chiarire bene che cosa in tale visita abbia causato la tristezza di Paolo. L'aver trovato dei peccatori impenitenti (2 Cor. 1 3,2) non fu la sola causa; in 2 Cor. 7,I 2 Paolo parla di un determinato uomo «che ha com messo l'iniquità» . Questo «autore dell'iniquità» ha rattristato non so lo l'apostolo, ma tutta la comunità. Ciò non si riferisce all'incestuoso di 1 Cor. 5, I - 5; consegnare uno a Satana è una misura molto più pe sante della punizione indicata per l'autore dell'iniquità in 2 Cor. 2,6I I. L'incidente deve quindi essersi prodotto durante la visita interme dia, deve avere interessato Paolo direttamente e deve aver pesato sulla comunità. L'ipotesi che uno dei corinti abbia sospettato, in sua assen za, l'apostolo di aver sottratto denari della colletta (2 Cor. I 2, I 6 ss.), senza che la comunità intervenisse a difenderlo, non rende pienamen te conto della durezza dello scontro. Dev'essersi trattato di un attacco alla persona dell'apostolo, profondamente offensivo per la coscienza che questi aveva della sua missione. Si possono solo formulare delle ipotesi. A mio parere, la cosa più verisimile è che, davanti all'assem blea della comunità, uno dei corinti abbia rinfacciato a Paolo di non essere un apostolo legittimo, senza che la comunità intervenisse. Ora, in 2 Cor. I I si presuppone che vi siano contestatori dell'apostolato di Paolo venuti da fuori. Alla notizia della loro comparsa a Corinto, Pao lo si decise a fare la sua visita intermedia. Ciò fa pensare che l'autore dell'iniquità agisse sotto l'influsso di questi agitatori, e che la maggior parte della comunità fosse fortemente impressionata da costoro. 3· La lettera intermedia
Evidentemente nella sua seconda visita Paolo non riuscì a rimettere pienamente ordine nella situazione tesa. Perciò alla sua partenza pro mise alla comunità di ritornare presto; dopodiché fece ritorno a Efeso. No n si conoscono nei particolari i motivi per cui non fece la visita pro messa. La rimpiazzò, comunque, in primo luogo con una lettera scrit ta «tra molte lacrime)) (2 Cor. 2,4), poi con l'invio di Tito. Dovendo portare con sé i proventi della colletta, restava valido inoltre il suo pro getto di un viaggio a Gerusalemme attraverso la Macedonia e l' Acaia. Dopo l'incidente occorsogli nel frattempo a Corinto, è comprensibile che l'apostolo scrivesse «con grande pena e angoscia nel cuore», poi ché doveva presupporre che la comunità fosse interamente succube dei missionari a lui avversi. Si discute se la cosiddetta «lettera delle la-
Gli avvenimenti tra la prima e la seconda lettera
2I
crime» sia interamente perduta o se ci sia parzialmente conservata in 2 Cor. La maggioranza degli interpreti considera appartenenti alla lette ra delle lacrime i quattro capitoli polemici 2 Cor. IO- I 3; taluni (R. Bult mann; E. Dinkler) vi aggiungono anche la cosiddetta «apologia del l'ufficio di apostolo» (2 Cor. 2, 14-6, 1 3 + 7,2-4). Nell'ipotesi che 2 Cor. sia un'unica lettera, o che IO-I3 siano di data successiva a I -9, la lette ra delle lacrime dovrebbe considerarsi perduta per intero. In I o- I 3 non si fa più menzione di un attacco rivolto a Paolo da uno dei corinti; nem meno vi si parla di una prevedibile richiesta di Paolo perché l'autore dell'iniquità venga punito. Per lo più si conviene quindi che la lettera delle lacrime è conservata solo in misura incompleta nei quattro capi toli polemici. Il tentativo di ritornare alla situazione precedente a tutte le ricerche storiche da J .S. Semler (I 776) in poi, vedendo nelle due let tere ai Corinti degli scritti unitari, senza supporre una lettera e una vi sita intermedie, fallisce di fronte alla lettera del testo (ad es. 2 Cor. I 3, I). Paolo sostò in tutto tre volte a Corinto, in occasione della fonda zione della comunità (50-52 circa), per la visita intermedia (inizio esta te 55) e nella sosta invernale (55/56). 4·
I viaggi di Tito
Da Efeso Paolo inviò certamente Tito a Corinto con la lettera delle lacrime, affinché riconquistasse all'apostolo quella comunità (2 Cor. 7, 6 ss. ); i due concordarono allora di incontrarsi di nuovo a Troade (2 Cor. 2, I 3 ). Allorché Tito giunse da Paolo in Macedonia e poté rife rirgli del pentimento dei corinti, l'apostolo lo rimandò a Corinto con due accompagnatori perché portasse a termine la raccolta delle offerte (2 Cor. 8,I 6-24); verisimilmente in questa circostanza Tito portò con sé anche la cosiddetta «lettera di riconciliazione» (2 Cor. 1-9). Il nu mero dei viaggi di Tito è legato al problema dell'unitarietà della lettera ed è quindi oggetto di discussione. Se in 2 Cor. I 2, I 8 Paolo si riferisce all'invio di Tito ricordato in 8,I 8, i capp. 1 0- I 3 devono essere stati scrit ti contemporaneamente o posteriormente al cap. 8. È questo un argo mento piuttosto forte a favore dell'unitarietà di 2 Cor. e della datazio ne dei capitoli polemici a una situazione posteriore a quella della lette ra di riconciliazione. Qualora questi capitoli appartengano alla lettera delle lacrime, sono possibili due interpretazioni. Se l'aoristo di I 2, I 8 è un aoristo dello stile epistolare (con significato di presente), l'invio di
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Introduzione
Tito qui menzionato può riferirsi alla sua visita per regolare il conflit to, nel caso avesse da consegnare la lettera delle lacrime. Se invece l' ao risto è da intendere con significato di passato, allora I 2, I 8 rinvia a un precedente viaggio di Tito, che aveva lo scopo di avviare la colletta. A mio giudizio, quest'ultima interpretazione è da preferirsi, dal momen to che, proprio al culmine della crisi, difficilmente si sarebbe potuto far procedere con successo la colletta. In tal modo, dopo l'invio di Ti moteo ( 1 Co r. 4, I 7) , si hanno tre visite di Tito a Corinto: il primo viag gio con un accompagnatore (2 Cor. I 2, I 8), all'inizio della colletta «l'an no precedente» (2 Cor. 8, I o); il secondo per mettere fine al conflitto (2 Cor. 7, 6 ss. ); e il terzo con due fratelli, per portare a termine la col letta (2 Cor. 8,6. 1 6-24). LA SECONDA LETTERA 1. Motivo e carattere della seconda lettera
A Efeso Paolo si era trovato in grave pericolo di morte ( I ,8). In se guito s'era diretto a nord, sulla strada di Troade, dove aveva convenu to d'incontrarsi con Tito. Malgrado le buone opportunità missionarie, non avendo trovato Tito, fu preso da inquietudine e gli andò incontro in Macedonia. Anche qui inizialmente fu in grandi angustie, finché Ti to non tornò da Corinto con buone notizie. Subito dopo (inizio au tunno del 55) Paolo scrisse la lettera di riconciliazione ( 1 -9}, oppure, nell'ipotesi dell'unitarietà della lettera, l'intera 2 Cor., per eliminare i malintesi che ancora rimanevano, per comunicare ai corinti il pieno ri pristino da parte sua della comunione con loro e preparare il viaggio a Gerusalemme. 2 Cor. è la lettera più personale di Paolo, e insieme la testimonianza teologicamente più importante del suo modo di concepire l'ufficio di apostolo come ministero di sofferenza nella sequela di Gesù. Mai co me qui l'apostolo consente di vedere a fondo nel suo cuore e nella sua vita di fede. Provocato dagli avversari, parla delle esperienze di visio ne, di cui egli non era solito fare uso alcuno nel suo lavoro nella co munità. È toccante l'elenco delle sofferenze di 2 Cor. I 1,23 ss., che nello stile della cronaca ci dice di più sulle fatiche e sofferenze aposto liche di Paolo che non gli Atti degli Apostoli. Nel suo sforzo per con quistare la comunità di Corinto, Paolo trova i toni teneri, accattivanti, dell'amore che viene dal cuore e della sollecitudine paterna, ma attacca
La seconda lettera
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anche con veemenza i seduttori con espressioni durissime, dicendoli falsi apostoli e servi di Satana. In 2 Cor. il tema e la persona dell'apo stolo sono uniti nel modo più stretto. Respingendo le accuse contro la sua persona, l'apostolo si batte anche per la legittimità del suo aposto lato e per la preservazione dei corinti nel vangelo del Cristo crocifis so. Le confidenze personali di Paolo sono esclusivamente al servizio dell'annuncio che gli è affidato. La sua presentazione dell'azione apo stolica passa spesso inavvertitamente al «noi» della comunità cristiana. In tal modo la vita apostolica diventa anche modello esemplare per la vita di tutti i cristiani. 2.
Contenuto
Il tema guida di 2 Cor. è la legittimità dell'ufficio di apostolo di Paolo. La lettera si compone di tre parti chiaramente articolate (I -7; 8 e 9; I O- I J), la cui connessione suscita tuttavia seri problemi. Dopo il saluto iniziale e il ringraziamento per essere stato salvato dal pericolo mortale ( I , I - I 1 ), nella prima parte ( 1 , 1 2-7, 1 6) Paolo getta uno sguar do retrospettivo sulle vicende passate. Inizia difendendosi dalle accuse e chiarendo dei malintesi ( 1 , 1 2-2, I I ). In 2, 1 2 incomincia la descrizione del viaggio di Paolo da Efeso alla Macedonia passando per Troade. Il racconto è interrotto da un'ampia trattazione sulla natura dell'ufficio di apostolo (2, 1 4-7,4). In questa sezione, che ha l'aspetto di un excur sus, Paolo tratta della propria idoneità al ministero apostolico fondata sulla chiamata divina (2, 1 4-J,6), parla della gloria (3,7-4,6) e delle sof ferenze (4,7- 5 , 1 0) dell'ufficio di apostolo e ne descrive il compito co me ministero di riconciliazione ( 5 , 1 I -6, I o). In 6, I I -7,4 Paolo si rivol ge di nuovo alla comunità con la preghiera di restare in pìena comu nione, preghiera in cui è inserito un avvertimento contro il commer cio con gli idolatri (6, I 4-7, I ). Nella terza sezione di questa prima parte (7, 5 - I 6) Paolo completa il racconto del suo viaggio ed esprime la sua gioia per la notizia portata da Tito del ritorno della comunità di Corinto. Nella seconda parte l'apostolo tratta in due capitoli autono mi (capp. 8 e 9) della colletta per la comunità madre di Gerusalemme. Nella terza parte (capp. I O- I J), con impegno affatto rinnovato, regola i conti con i suoi avversari di Corinto. Comincia col respingere le ac cuse mosse alla sua persona dagli intrusi agitatori ( I o, I - 1 8), poi oppo ne loro il suo «stolto» gloriarsi d'essere apostolo (I I, I - I 2, I 3 ), che in
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Introduzione
realtà è un gloriarsi della sua debolezza. Infine Paolo anticipa la sua ter za visita ( I 2, I 4- I 3, I o), minacciando punizioni in forza della sua auto rità apostolica nel caso la comunità non si lasci correggere. Una breve ammonizione finale, il saluto e l'augurio di benedizione concludono la lettera ( I J,I I - I 3)· La difesa dell'apostolato paolino che domina l'in tera lettera presuppone gravi accuse alla dignità apostolica di Paolo da parte degli avversari. 3· Gli avversari di Paolo nella seconda lettera ai Corinti
Tra la redazione della prima lettera e quella della seconda, devono es sere giunti a Corinto dei predicatori cristiani che predicavano un «altro Gesù» (I I ,4), contestavano a Paolo la dignità di vero apostolo e cercavano di tirare dalla loro parte la comunità ( I I ,2o). Di conseguen za a Corinto s'era creata una situazione diversa rispetto a quella di 1 Cor. Nell'interpretazione si deve distinguere tra le affermazioni e ri chieste di questi missionari forestieri, desumibili da 2 Cor. I o- I 3, e le aspettative e i criteri con cui i pneumatici di Corinto giudicavano na tura e compiti del ministero apostolico e d eli,essere cristiani, su cui ci informano le due lettere; da queste due posizioni va inoltre distinto il modo in cui lo stesso Paolo ha inteso la propria opera di apostolo chiamato da Gesù Cristo, cosa che trova espressione soprattutto nella cosiddetta apologia dell'ufficio di apostolo (2, I 4-6, I 3 + 7,2-4). I rivali di Paolo che s'erano introdotti nella comunità erano certa mente dei giudeocristiani (I 1 ,22 s.), ma non si può definirli dei «giu daizzanti» come gli avversari della Galazia, poiché non avevano prete so dai corinti né la circoncisione, né l'osservanza della legge giudaica. Inoltre, nel testo non si afferma direttamente che costoro si siano pre sentati con lettere di raccomandazione della comunità madre di Geru salemme (Io,I 2). Gli avversari suscitarono una forte impressione con manifestazioni estatiche dello Spirito e miracoli ( I I , I 8; I 2, I 2), rinfac ciando a Paolo di non essere un vero pneumatico (I o,2) né un abile oratore (I 1 ,6). Se Paolo spiega loro di essere un inesperto nel parlare, ma non nella conoscenza ( I I ,6), non se ne deve concludere che gli av versari fossero «gnostici». Le pericopi di 1 Cor. che parlano della gno si si riferiscono ai cori nti pneumatici, non ai predicatori di 2 Cor. 1 o I 3 . Le indicazioni di Paolo sui suoi avversari in 2 Cor. I o- 1 3 suggeri scono l'idea che si trattasse di predicatori itineranti, giudeocristiani
La seconda lettera
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ellenisti, venuti a Corinto dali' area missionaria di Pietro in Siria, forse da Antiochia, che combattevano Paolo in quanto «falso apostolo» (cf. 2
Cor. I 3, I O E).
4· Carattere composito della seconda lettera ai Corinti
Questa lettera dà l'impressione di essere ben poco unitaria. Mostra fratture nello sviluppo delle idee, non spiegabili come «salti» nel corso della dettatura. Da tempo, perciò, sono stati sollevati dubbi sulla sua unità letteraria. Vi sono soprattutto quattro punti di tensione e sutura, su cui fanno leva le diverse ipotesi di suddivisione. a) I capitoli 1 -7 sono interamente nel segno dell'avvenuta riconcilia zione tra comunità e apostolo (cf., ad es., 7, 1 6). Per contro, nei capp. 1 o- I 3 Paolo si batte con passione, in una dura polemica, per sottrarre la comunità all'influenza dei missionari che vi si sono introdotti. In IO, I , del tutto improvvisamente, comincia l'autodifesa dalle accuse ostili. b) Il resoconto sui viaggi di Paolo s'interrompe in 2, 1 3 per ripren dere in 7, 5 . L'apologia dell'ufficio di apostolo (2, I4-7,4) fa l'effetto del l'inserimento di un lungo excursus. c) Anche il complesso 2, I4-7,4 non è perfettamente unitario. I di scorsi dell'apostolo per conquistarsi un posto nel cuore dei corinti ( 6, I I - I 3 e 7,2-4) sono interrotti da una messa in guardia contro il com mercio con idolatri (6, I 4-7, I ), in cui s'incontrano espressioni proprie del linguaggio dei testi di Qumran. d) I capitoli 8 e 9 sembrano un doppione. Dall'introduzione di 9, 1 non risulta che Paolo ha già trattato della colletta nel cap. 8. Inoltre l'apostolo mette davanti agli occhi a mo' d'esempio e di sprone in 8, I 5 i macedoni ai corinti, e in 9,2 ss. l' Acaia ai macedoni. Sulla base di queste osservazioni sono state fatte numerose propo ste di suddivisione della lettera, nelle quali la cosiddetta «lettera di guerra» (2 Cor. I o- I 3) viene datata ora prima, ora dopo la «lettera di riconciliazione» (2 Cor. I -9 ). Anche oggi, tuttavia, vengono fatte valere importanti ragioni a fa vore del carattere unitario di 2 Cor. Il cambiamento di tono a partire da 1 o, I si spiega se si pensa che, poco dopo la stesura dei capp. I -9, Pao lo abbia apposto alla lettera una chiusa «in cui esprimeva con energia il permanere ancora in lui di preoccupazioni per la comunità, e in cui
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·Introduzione
soprattutto discuteva dei suoi progetti di viaggio per il prossimo futu ro, di cui non aveva trattato in 1 -9» (W.G. Kiimmel, Einleitung, 2 5 3). A ogni proposta di suddivisione va inoltre chiesto di motivare in ma niera convincente perché un successivo redattore abbia prodotto la composizione che ci si trova davanti oggi. Per l'antichità sono attestati casi di combinazione di due lettere mediante l'aggiunta di una lettera a un'altra (ad es. la lettera ai Filippesi di Poli carpo), ma non vi sono esempi di «incastro» di una lettera in un'altra. Nelle raccolte di lettere poteva avvenire che si lasciassero cadere prescritti e saluti finali, come ad esempio nelle lettere di Isocrate e di Apollonio di Tiana. Si è con cordi nel riconoscere che la suddivisione in più lettere è necessaria solo se determinate parti di una lettera presuppongono situazioni re dazionali differenti. Nel caso di 2 Cor. questa circostanza è contro versa. Non si possono portare prove pienamente convincenti né per il carattere unitario, né per quello composito dello scritto; nessuna delle due posizioni può fare a meno di elementi ipotetici. Nella lettera di guerra IO- I J Paolo valuta la situazione della comunità di Corinto in modo così differente da 1 -7, che a mio parere non dovrebbe essere possibile una redazione all'incirca contemporanea delle due parti. La durezza dei capitoli finali, se successivi, non avrebbe annullato lo sco po ottenuto con la lettera di riconciliazione? La spiegazione secondo cui i capp. 1 -9 sarebbero rivolti alla comunità, 10- 1 3 agli agitatori ve nuti da fuori, non regge, perché Paolo si rivolge continuamente all'in tera comunità. Per queste ragioni ritengo che la cosa più verisimile sia che i capitoli polemici 1 0- 1 3 siano una parte della lettera delle lacrime, scritta da Paolo dopo le amare esperienze della seconda visita. D'altra parte è possibile anche una redazione successiva (H. Windisch, C.K. Barrett), per la quale 2 Cor. 1 2, 1 8 fornisce un buon argomento. A mio parere, la pericope 2 Cor. 6, 1 4-7, 1 è da considerarsi un'aggiunta serio re (v. ad loc.). Alla lettera di riconciliazione ( 1 -8), che era la sua re azione al ritorno dei corinti, Paolo aggiunse, come scritto accompa gnatorio, una raccomandazione per la colletta (cap. 9) rivolta alle co munità della provincia d'Acaia; il cap. 8 è destinato alla lettura davanti alla comunità di Corinto, il cap. 9 davanti a quelle della provincia (cf. Col. 4, 1 6; P. Stuhlmacher). N el mettere insieme le lettere di Paolo per uso ecclesiastico, il re dattore, che non disponeva le varie parti secondo l'ordine storico del le lettere, ma in base al loro contenuto, ha unito la lettera delle lacri-
La seconda lettera
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me, più breve e da lui ulteriormente accorciata ( I O- I J), alla lettera di riconciliazione, più lunga e più importante; il suo intento era far per venire alla comunità la trattazione paolina, teologicamente importan te, sull'essenza dell'ufficio di apostolo contenuta nella lettera di ricon ciliazione, e la confutazione da parte di Paolo d'una falsa dottrina che contraffaceva l'annuncio della croce. I rapporti dell'apostolo Paolo con la comunità di Corinto com prendono quindi le tappe seguenti: permanenza di Paolo con Silvano e Timoteo, in cui fu fondata la comunità ( I Cor. 2, 1 - 5; 2 Cor. 1 , 1 9; 505 2 d.C. circa); lettera precedente ( I Cor. 5,9; 5 3/54 circa); invio di Ti moteo ( I Cor. 4, 1 7; I 6, I o); prima lettera canonica {primi mesi del 5 5); primo invio di Tito con un fratello per raccogliere la colletta (2 Cor. 1 2, 1 8); visita intermedia di Paolo a Corinto, con la «tristezza» causata da un membro della comunità (2 Cor. 2, 5; 7, 1 2; inizio estate 5 5); lette ra di mezzo («lettera delle lacrime», forse conservata in parte in 2 Cor. 10- 1 3; piena estate 5 5 ) e, contemporaneamente, secondo invio di Tito per sistemare il dissidio (cf. 2 Cor. 7,6 ss.); lettera di riconciliazione (2 Cor. 1 -8), con l'annessa raccomandazione per la colletta (2 Cor. 9) alle comunità della provincia d' Acaia (inizio autunno 5 5 ) e contempora neo terzo invio di Tito con due fratelli, per portare a termine la collet ta (2 Cor. 8, 1 6-24); terza visita di Paolo a Corinto, per la sosta nell'in verno del 5 5/5 6 (2 Cor. I J, I ; Atti 20, 1- 3 ; tardo autunno 5 5 ).
Prima lettera ai Corinti
Inizio della lettera
(1,1-9)
1.
Indirizzo e saluto ( I , I -J )
1 Paolo, per volontà di Dio chiamato ad apostolo di Cristo Gesù, e i l fra tello Sostene, 2 alla comunità di Dio in Corinto, ai santificati in Cristo Ge sù, chiamati a essere santi, insieme a tutti coloro che invocano il nome del nostro Signore Gesù Cristo in ogni luogo, presso di loro e presso di noi. 3 Sia con voi grazia e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo. 2 Deut. 31 ,Jo; Sal. 99,6; Gl. J, s. 3 .2 Cor. 1 ,2.
Nell'indirizzo e saluto (prescritto) Paolo si attiene al formulario epistolare orientale che si articola in due momenti: la menzione del mittente e del destinatario e, in una proposizione a sé, il saluto. È una caratteristica di Paolo qualificare ogni volta mittente e destinatario con determinazioni più precise e, nel saluto, riprendere l'augurio di pace giudaico (shalom), dandogli forma cristiana. 1 -3. Paolo non scrive come persona privata, ma nella sua veste uffi ciale di «chiamato ad apostolo di Cristo Gesù». L'apostolo non parla né agisce per autorità propria, ma per incarico e con l'autorità di colui che lo ha inviato: Paolo è l' «inviato» autorizzato del Signore Gesù Cristo crocifisso e innalzato. Come Dio, il Padre, era operante nell'agi re di Gesù Cristo, così la chiamata di Paolo sulla via di Damasco ad opera di Cristo segue alla decisione di Dio, e quindi tutto il ministero apostolico di Paolo avviene per volere di Dio. Non c'è quindi uomo che possa far venir meno l'obbligo che ha Paolo di predicare Cristo. Per principio un apostolo di Gesù Cristo non è un isolato, poiché il Signore ha affidato l'attuazione del vangelo alla voce di molti testimo ni. Come mittente accanto a sé Paolo nomina il suo collaboratore So stene; questi è definito fratello nella fede cristiana, ed è quindi escluso dall'autorità apostolica. Sostene è un corinzio che conosce la situazio ne di quella comunità e che, all'atto della stesura della lettera, è con Paolo a Efeso. Non è certo peraltro che si tratti dello stesso Sostene menzionato in Atti I 8, I 7 come capo di sinagoga. A. Schlatter pensa fos-
3 .2
1
Cor. I , I -J. Indirizzo e saluto
se stato conquistato alla fede cristiana da Apollo. Insieme con Paolo Sostene è testimone dell'annuncio della croce, ma non è coautore della lettera; in tutto quel che segue, infatti, Paolo scrive per lo più in prima persona. Forse Paolo ha dettato a Sostene la lettera. Anche Apollo si trova a Efeso, dove opera nello spirito della missione paolina. Nel pre ambo lo Paolo non lo menziona come mittente, in quanto lo rispetta come missionario autonomo e non vuole inserirlo nella cerchia più ristretta dei suoi collaboratori. - La lettera è indirizzata alla comunità che Paolo ha fondato a Corinto. «Comunità di Dio» è la denomina zione, proveniente dall'Antico Testamento (ad es. Deut. 3 I ,Jo), con cui la chiesa primitiva, nella sua fede nella definitiva rivelazione di Dio in Gesù Cristo, presenta se stessa come il popolo escatologico di Dio. Paolo si serve del termine tradizionale ekklesia per indicare sia una chiesa locale o un comunità domestica, sia l'intera cristianità; si espri me in questo la sua concezione della chiesa come corpo di Cristo (1 Cor. 1 2 ) . Indipendentemente dal luogo e dal numero dei membri, vi è chiesa ovunque Dio chiama degli uomini alla comunione con sé, me diante il vangelo di Cristo. L'indicazione di luogo «in Corinto» desi gna la località dove in concreto c'è una tale comunità. Chiesa univer sale e comunità particolare devono la loro qualifica di «comunità di Dio» all'operante chiamata di Dio; la chiesa universale non è quindi solo la somma delle comunità locali in termini di organizzazione. Sor prende la duplice attribuzione: «i santificati in Cristo Gesù» e «chia mati a essere santi». Per la concezione biblica, santo è tutto ciò che, persona o cosa, appartiene a Dio. Sono santi gli uomini che Dio ha eletto e ha chiamato alla comunione con sé. Nella primitiva comunità e nella setta giudaica di Qumran, «santi», «eletti», «chiamati» sono de nominazioni correnti dei membri di una comunità che si considera l'escatologico popolo di Dio. Servendosi di queste espressioni già in uso, Paolo chiama i cristiani di Corinto «chiamati a essere santi» (cf. Rom. 1 ,7). L'espressione che viene usata per prima, «i santificati in Cristo Gesù», che in Paolo s'incontra solo qui, è una precisazione pre liminare con cui l'apostolo sottolinea il radicamento della santifica zione nell'evento Cristo: i cristiani sono uomini santificati mediante la fede nell'azione salvifica di Dio in Cristo. L'atto della santificazione, che vale una volta per tutte, è avvenuto attraverso l'azione di riconci liazione di Dio in Gesù Cristo (2 Cor. 5 , 1 8); i cristiani sono stati resi partecipi di quest'atto divino di riconciliazione, in quanto credenti
1
Cor. 1, I- 3. Indirizzo
e
saluto
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che col battesimo sono stati inseriti nell'evento Cristo (1 Cor. 6, 1 1 ; cf. Rom. 6,3 ss.). Del loro accoglimento nella comunione con Dio sono debitori non alle loro opere religiose o morali, ma solo alla grazia di Dio in Cristo. La loro santità è giustizia non conquistata ma donata o, per dirla con Lutero, una «giustizia estranea» (iustitia aliena). Questa santità loro donata i cristiani devono serbarla sempre con una vita nel la santificazione (1 Tess. 4,3). L'aggiunta «insieme a tutti coloro che ... » ha sempre creato difficoltà per gli interpreti, poiché alla lettera l' espres sione si riferisce a tutta la cristianità, mentre il contenuto specifico dell'epistola non può essere indirizzato a tutti i cristiani dell'ecumene. Tuttavia non è necessario ritenere che l'espressione sia l'aggiunta di un rielaboratore successivo che, nella lettura liturgica davanti alla co munità, volesse indirizzare la lettera a tutti i cristiani. In realtà, l'aggiun ta si spiega col concetto paolina di chiesa, che comprende tutti i cri stiani. Poiché a Paolo piace alludere, fin dall'inizio della lettera, alla si tuazione particolare della comunità cui si rivolge, con queste parole intende dire ai corinti, così orgogliosi dei loro doni dello Spirito, che anch'essi fanno parte della comunità di tutti coloro che sono membri del corpo di Cristo. All'epoca non si era ancora consolidata la desi gnazione «cristiani» per indicare i credenti in Cristo, o, almeno, Paolo non la usa nelle sue lettere. L'espressione per l'adorazione di Jahvé im piegata nella traduzione greca dell'Antico Testamento (LXX), «invo care il nome del Signore» (ad es. Sal. 99 [98],6), in Gl. ha significato escatologico (3,5). Per la fede cristiana la promessa dei profeti è giunta a compimento in Gesù Cristo. Nei primi tempi, perciò, quell'espres sione servì a indicare i cristiani, che nel culto invocavano Gesù come loro Signore (Rom. 1 0,9. 1 3). Poiché il Cristo innalzato è il Signore di tutti gli uomini, non c'è bisogno di sottolineare in particolare che è il Signore del mittente così come del destinatario della lettera. Le parole «presso di loro e presso di noi» fanno tutt'uno con l'indicazione che precede, «in ogni luogo», e sottolineano l'universalità della chiesa in tutto il mondo. Secondo un'altra interpretazione, tutta l'aggiunta si ri ferirebbe, per analogia con z Cor. 1 , 1 , ai cristiani d'Acaia fuori di Co rinto, che sarebbero stati convertiti da Paolo e Sostene, ai quali pure perciò questi si rivolgerebbero. Tuttavia, la concezione universalistica che Paolo ha della chiesa depone piuttosto a favore di un'interpreta zione nel senso della chiesa nel suo insieme, che non nel senso di una delimitazione locale non accennata nel testo. Va inoltre osservato che
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Cor. 1 ,4-9. Ringraziamento per la ricchezza dei doni di grazi
nella prima lettera Paolo non si occupa ancora della colletta in Acaia. Quanto al saluto, articolato in tre momenti, di questo prescritto, die tro c'è l'augurio di pace giudaico. Shalom significa la condizione di to tale benessere, basato su un rapporto privo d'incrinature tra Dio e po polo, e che non riguarda solo l'interiorità, ma abbraccia l'intero vive re. All'inizio del saluto Paolo pone regolarmente il concetto fonda mentale della sua teologia, «grazia» (charis), che richiama il saluto gre co (chairein). In questo termine Paolo include l'intero operare salvifi co di Dio in Gesù Cristo (cf. 2 Cor. 8,9 ) . In Cristo, Dio ha riconciliato a sé l'uomo peccatore e instaurato la pace con lui (Rom. 5 , 1 ). Con «pace» non s'intende qui in primo luogo una disposizione dell'anima, ma l'ordinato rapporto con Dio instaurato da Cristo, rapporto dal quale, nella libertà della fede, nasce anche la pace del cuore. Grazia e pace vengono da Dio, che in Gesù Cristo ha reso vera la sua promes sa. Come persone Dio e Cristo sono distinti, ma nel loro operare sal vifico sono intesi come unità. Il Dio invisibile s'è rivolto agli uomini in Gesù Cristo suo figlio (Rom. I ,J). Dio è Padre in quanto creatore di ogni vita, e nel nome di Gesù ci è consentito invocarlo come «Padre nostro». Con la sua obbedienza fino alla morte di croce, Gesù Cristo è stato innalzato a Signore sopra ogni potestà (Fil. 2,6- 1 1 ) . La formula liturgica «nostro Signore Gesù Cristo», che comprende la confessione «Gesù è Signore» (1 Cor. 1 2,3; Rom. 10,9; Fil. 2, 1 1 ), è usata soprattut to nel linguaggio della preghiera. Nel testo greco il v. 3 non ha verbo; lo si può intendere sia all'indicativo che all'ottativo, come asserzione e come preghiera. Esprime il ringraziamento per la nuova vita in Cristo e la preghiera che anche in futuro Dio conceda grazia e pace. 2.
Ringraziamento per la ricchezza dei doni di grazia nella comunità ( 1 ,4-9)
Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, per la grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, 5 perché in lui siete stati fatti ricchi in tutto, in ogni discorso e in ogni conoscenza. 6 La testimonianza di Cristo, infatti, è stata convalidata in voi, 7 così che a voi che attendete la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo non manca alcun dono della grazia. 8 Egli vi renderà saldi sino alla fine, affinché siate irreprensibili il giorno del Signore nostro Gesù Cristo. 9 È fedele Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla comunione col suo figlio Gesù Cristo, Signore nostro.
4
s2
Cor. 8,7. 8 Fil.
.
I,6. Io; Am. s I 8. 9 IO, I J .
1 Cor. 1,4-9. Ringraziamento per la ricchezza dei doni di grazia
3S
Secondo lo stile epistolare greco, all'indirizzo e saluto Paolo fa se guire il cosiddetto proemio, che comprende ringraziamento e preghie ra (cf. Fil. I , I - I I ) . Il più delle volte già in questa sede l'apostolo accen na al tema principale della lettera. Così Paolo mette qui in rilievo la ric chezza di doni di grazia tra i corinti, e affida alla fedeltà di Dio la co munità esposta al pericolo dell'entusiasmo. Tutto il ringraziamento è condotto nello stile elevato della preghiera. 4-9. Il ringraziamento non è una vuota formalità, ma nasce dal sa pere che solo Dio può donare la fede, in virtù della quale una comuni tà sorge e permane. Con l'espressione «il mio Dio» (cf. Rom. I , 8; Fil. I ,J ) l'arante dà voce alla sua personale relazione con Dio. Di norma nelle sue preghiere l'apostolo include le sue comunità; qui ringrazia Dio di aver chiamato, nella libertà della sua grazia, i corinti alla comunione col suo figlio Gesù Cristo. La grazia così ricevuta si esplica nell' ope rare dei doni di grazia (carismi). Alla comunità di Corinto ne sono sta ti donati in misura particolarmente abbondante. In quest'abbondanza di doni Paolo mette specificamente in evidenza «parola, discorso» (lo gos) e «conoscenza» (gnosis), ai quali, come effetti dello Spirito, a Co rinto si dava molta importanza. Con «ogni sorta di discorso» si pensa prevalentemente a profezia e glossolalia, e con «ogni sorta di cono scenza» alle diverse forme d'intelligenza del disegno salvifico divino. Qui all'inizio Paolo parla in termini generali, senza fare riferimenti concreti, ma tocca subito il nocciolo della controversia, in quanto proprio la sopravvalutazione che i corinti fanno dei doni dello Spirito li ha condotti all'errore di trascurare la croce. Come spesso accade al l'inizio delle epistole, nei vv. 6-8 lo sguardo dell'apostolo si rivolge al passato, presente e futuro della comunità. Il vangelo predicato a Co rinto è detto qui «la testimonianza di Cristo». Taluni interpreti fanno di Cristo il soggetto della testimonianza, ma a partire da 1 ,2 3 è eviden te il significato «la testimonianza che ha per oggetto il crocifisso». Con un'espressione giuridica attenuata, che indica la conferma legal mente valida di una testimonianza, Paolo afferma che nella comunità di Corinto il vangelo è stato «consolidato» (cf. 2 Co r. I ,2 1 ), cioè ha messo radici robuste e ha dato frutti. Per opera della grazia di Dio so no stati dati tanti doni alla comunità, che nessun carisma vi manca. Ciò non significa che ogni singolo cristiano possieda tutti i carismi, ma sot tolinea la ricchezza della comunità. Come Paolo, i corinti vivono nel l'attesa del ritorno prossimo di Cristo, della «manifestazione» potente
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1 Cor. 1 ,4-9. Ringraziamento per l a ricchezza dei doni d i grazia
e visibile del Signore alla fine del mondo, per la quale Paolo usa altro ve il termine «parusia» ( I Cor. I s,zJ; I Tess. J , I J ; 4, 1 s; 5,2J ) . Il riferi mento più prossimo per il pronome «egli» all'inizio del v. 8 è Gesù Cristo, che rappresenta quindi il soggetto grammaticale della preser vazione della comunità. Ciò non esclude, tuttavia, come soggetto logi co della frase, Dio, alla cui fedeltà nel v. 9 vengono affidati i corinti (cf. 2 Cor. 1,2 1 ; Fil. 1 ,6). L'ultima parola sulla vita dell'apostolo e della comunità sarà del Signore Gesù Cristo ( I Cor. 4, 5), cui Dio ha affida to il giudizio finale (2 Cor. 5 , 1 0). L'infausto «giorno di Jahvé» dei profeti dell'Antico Testamento (Am. 5 , 1 8) è diventato per i cristiani il «giorno del Signore nostro Gesù Cristo», nel quale possono sperare di essere «irreprensibili» in quanto giustificati in Cristo. Al posto del la preghiera compare nel v. 9, nella forma d'una cosiddetta dichiara zione di fedeltà, l'affermazione che promette la fedeltà di Dio, nella quale Paolo ripone la sua fiducia per la preservazione della comunità. Dio che li ha chiamati completerà anche l'opera iniziata (Fil. 1 ,6). In quanto «figli di Dio» che in Cristo sono stati accolti (Gal. 4,6), i cre denti debbono questo loro accoglimento nella comunione con Dio al figlio di Dio che è morto per loro. Il concetto di «chiamati» compren de per Paolo sia l'inserimento nella chiesa, sia la partecipazione alla futura signoria di Dio. L'intera pericope mostra il significato fondamentale che ha l'opera re salvifico di Dio per la vita della comunità cristiana, e contiene quin di anche un monito ai corinti a non sentirsi spiritualmente troppo si curi di sé.
Parte prima
Le divisioni nella comunità
( 1,1 0-4,2 1)
L'unità della comunità sta tanto a cuore all'apostolo che la sua prima preoccupazione è opporsi ai raggruppamenti formatisi a Corinto, di cui gli ha riferito la gente di Cloe ( 1 , 1 1 ). Questa sezione mostra in maniera esemplare il modo in cui Paolo procede nei confronti di di sordini nella comunità. Parte dalla situazione concreta, la illumina mettendola in relazione con la teologia della croce, e mette in luce i principi teologici in base ai quali infine prende posizione. Dal punto di vista della forma, quindi, le esortazioni di I, I o e 4, 1 6 costituiscono la cornice dell'argomentazione teologica dell'apostolo.
1. Esortazione all'unità ( I , I0- 1 7) Ma vi esorto, fratelli, nel nome di nostro Signore Gesù Cristo a essere tutti unanimi nel parlare e a non permettere che sorgano divisioni tra voi, bensì a essere saldamente uniti in un solo pensiero e una sola convinzione. 1 I Di voi, fratelli miei, mi è stato infatti riferito dalla gente di Cloe che tra voi regnano le contese. 1 2. Mi riferisco a questo: ognuno di voi dice: «io so no di Paolo», «io di Apollo», «io di Cefa», «io di Cristo». I J Cristo è forse diviso? Forse è stato crocifisso per voi Paolo, oppure siete stati battezzati nel nome di Paolo? I4 Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, 1 s affinché nessuno possa dire che siete stati battez zati nel mio nome. I6 Ho battezzato anche la famiglia di Stefana; oltre a questi, non so se ho battezzato qualcun altro. I 7 Giacché Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo, e non con abile sapienza di parola, affinché non sia svuotata la croce di Cristo. 10
ro Fil. 2.,2.. 12. Atti 1 8,2.4. 14 Atti 1 8,8; Rom. 16,2.3. 17 Atti 9, 1 5 .
10. Poiché Paolo concepisce la chiesa come il corpo di Cristo, il cui fondamento, centro e fine è il Signo re innalzato, l'esortazione all'unità della comunità è un motivo essenziale e frequente della sua parenesi (cf. Fil. 1 ,27-2,4). L'esortazione invita a tener conto, nella vita quoti diana, dell'unità donata in Cristo. Di conseguenza Paolo rafforza la sua esortazione richiamandosi al nome del Signore Gesù Cristo, sa-
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1 Cor. I , I 0- 1 7. Esortazione all'unità
pendosi unito con gli interlocutori in una comunione fraterna. Le di visioni della comunità di Corinto forniscono un'occasione concreta per l'esortazione all'unità. L'espressione greca «dire la stessa cosa» è un modo corrente per indicare l'unanimità nel pensare, nel parlare e nell'agire. Ciò significa che la comunità non deve permettere che sor gano divisioni (schismata) che distruggono il fondamento delle convin zioni comuni. Il termine «scisma» qui non ha ancora il significato che avrà in seguito nel diritto ecclesiastico. Paolo scrive con la speranza che la sua esortazione aiuti a ripristinare l'unità a Corinto. La formazione di gruppi non ha ancora portato alla completa divisione in partiti or ganizzati ciascuno per sé; Paolo, infatti, si rivolge di continuo all'inte ra comunità, la quale inoltre celebra ancora unita la cena del Signore ( I I , I 7 ss.). 1 1- 1 7. In conseguenza del formarsi di gruppi, a Corinto s'è arrivati a continue liti (erides), nate non solo da litigiosità personale, ma dal l'appassionata presa di posizione per l'uno o l'altro missionario. Paolo ne è stato informato dalla gente di Cloe. Di costei non si sa nulla; non è nemmeno certo se fosse cristiana; il nome Cloe, «la bionda», è do cumentato anche nella letteratura greca, ad esempio come appellativo di Demetra. La «gente di Cloe», evidentemente dei cristiani, sono i suoi figli o i suoi servi. Non si può nemmeno stabilire se Cloe vivesse a Corinto oppure a Efeso; il passo in esame documenta solo gli intensi scambi tra le due città di mare. È del resto verisimile che Cloe insieme con la sua casa facesse parte della comunità di Corinto, poiché i latori della notizia sembrano conoscere la situazione locale dal di dentro. Sorprende che, nonostante I, 1 6, Paolo non menzioni i tre corinti che si trovano presso di lui, Stefana, Fortunato e Acaico; ciò tuttavia non esclude che abbia parlato con loro della situazione di Corinto. Forse non voleva gettare sulla delegazione, che aveva un altro incarico, il so spetto di aver denunciato la comunità. Non si può neppure stabilire se Paolo avesse ricevuto la notizia prima o dopo l'arrivo della delegazio ne, che doveva avergli consegnato la lettera con i quesiti della comuni tà. Secondo tutte le apparenze, a Corinto dopo la loro partenza erano sorte nuove liti; che Paolo parli subito, all'inizio della lettera, dei gruppi che si sono formati è un argomento forte a favore del carattere recente della notizia delle divisioni. Paolo chiarisce cos'è in gioco in tale contesa, citando le parole d'ordine dei gruppi: «'io sono di Paolo', 'io di Apollo', 'io di Cefa', 'io di Cristo'». Le parole «ognuno dice»
1 Cor. I , I o- 1 7. Esortazione all'unità
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indicano che evidentemente solo a fatica i singoli membri della comu nità potevano sottrarsi a una presa di posizione. Paolo non parla qui dei motivi per cui si formano gruppi. Dei quattro capigruppo menzio nati, tre sono missionari; tra questi, Paolo e Apollo sono nominati nell'ordine secondo cui hanno operato a Corinto. Dopo di loro, a Co rinto ha forse predicato personalmente anche Pietro (Cefa) ? In questa serie occupa una posizione speciale Cristo, il Signore della chiesa. Dall'interpretazione di queste parole d'ordine dei gruppi dipende la questione, dibattuta fin dalla chiesa antica, del numero e della natura dei cosiddetti «partiti» di Corinto (v. excursus dopo 1 , 1 7). Le succes sive domande del v. IJ, che intendono rendere evidente il carattere ri provevole del formarsi dei gruppi, mettono in luce dove Paolo veda il fondamento dell'unità della comunità: l'unità è fondata sull'opera sal vifica di Dio nella croce e risurrezione di Cristo, nella quale i corinti sono stati immessi mediante il battesimo. Le domande derivano in modo consequenziale dalla radice cristologica della concezione paoli na della chiesa. La prima domanda presuppone che la comunità, in quanto corpo di Cristo, sia interamente determinata da Cristo. Come fondamento della chiesa, egli è uno; perciò chi divide la comunità at tacca il Signore stesso. Ciò vale anche per il quarto gruppo, che riven dica Cristo solo per sé. La seconda domanda mostra nella morte espia trice e vicaria di Gesù l'origine della giustificazione. Porre un predica tore umano al posto del salvatore crocifisso equivarrebbe a divinizza re un uomo. Di proposito Paolo qui prende come esempio se stesso. La terza domanda, che fa riferimento al battesimo come atto dell'inse rimento nel corpo di Cristo, è anche un rifiuto del malinteso di pren dere il missionario che battezza per un mistagogo (il sacerdote che in troduce al mistero). Il mistagogo che, aspergendo d'acqua il battez zando, lo purifica e l'introduce nel tempio per l'iniziazione, è consi derato il «padre spirituale» dell'iniziato. La formulazione usata nel v. 1 3 indica che nei primi tempi il battesimo veniva impartito nel nome del Signore Gesù Cristo (Atti 2,3 8; 8, 1 6; 1 0,48). La formula battesima le trinitaria «nel nome del Padre e del figlio e dello Spirito santo» si incontra per la prima volta in Mt. 28,19 s., verso la fine del 1 secolo. Neli' antichità il nome sta al posto della persona con tutto il suo pote re. Nel battesimo ha luogo un cambio di signoria: il battezzando viene dato in proprietà a Gesù Cristo, così che da quel momento in poi ap partiene al suo nuovo Signore che l'ha acquistato a caro prezzo ( 1
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1
Cor.
I ,I0- 1 7· Esortazione all 'unità
Cor. 7,23). Nel v. 1 4 Paolo può anche ricordare di aver battezzato
solo pochi; di ciò ringrazia Dio, perché così non s'è dato alcun prete sto per fare erroneamente di lui un mistagogo o un capogruppo. L'apostolo nomina per primi come battezzati da lui Crispo e Gaio. Il primo, probabilmente, è lo stesso Crispo capo delle sinagoghe, di cui si parla in Atti I 8,8, passato alla fede con tutta la sua casa subito agli inizi. Invece Gaio non può venir identificato né col Gaio macedone di Atti I 9,29, né con l'accompagnatore di Paolo originario di Derbe (Atti 2.0,4). Probabilmente va identificato col Gaio nominato in Rom. I 6,2 3, che ospitava Paolo e tutta la comunità. Nel v. I6 Paolo aggiunge di ave re battezzato anche la casa di Stefana; del resto, non sa più con esat tezza chi abbia battezzato ancora. Forse Stefana viene ricordato in se conda battuta perché in quel momento si trova a Efeso, mentre Paolo con i suoi pensieri è a Corinto (cf. I 6, I 7}. «Casa» è termine veterote stamentario per indicare l'intera famiglia, compresi i servi. Il battesi mo di intere «case» non è però una prova certa della pratica di battez zare i neonati nella chiesa primitiva. I familiari di Stefana, il primo con vertito d'Acaia, si misero prontamente al servizio della comunità, ac quistandosi in tal modo grande considerazione ( I 6, I 5 }. I tre uomini battezzati da Paolo erano tutti e tre di condizione elevata. Il fatto che Paolo abbia battezzato solo poche persone non va per nulla conside rato una sottovalutazione teologica del battesimo, ma si connette col compito dell'apostolo. Rom. 6 è la citazione classica a sostegno dell'im portanza fondamentale del battesimo per la vita cristiana nella teolo gia di Paolo. Il compito principale dato a Paolo sulla via di Damasco è di predicare il vangelo di Gesù Cristo tra i gentili (Gal. I , I 6). L'azione riconciliatrice di Dio va predicata al «servizio della riconciliazione» (2 Cor. 5 , I 8), affinché gli uomini possano credere ed essere salvi. Perciò la predicazione del vangelo è la funzione centrale dell'ufficio apostoli co. Al pari di Pietro (Atti I o,48), evidentemente anche Paolo ha spesso affidato il compito di battezzare ai collaboratori, come Silvano o Ti moteo. Col v. 1 7b Paolo passa alla pericope successiva, nella quale la parola della croce viene contrapposta alla sapienza di questo mondo. Il genere e il modo della predicazione dev'essere conforme al suo con tenuto, l'annuncio della croce. Nell'espressione «sapienza della paro la» si hanno di mira insieme forma e contenuto del discorso. La predi cazione non deve avvenire con «elucubrate parole di sapienza» . La frase finale: «affinché non sia svuotata la croce di Cristo» rivela il si-
I gruppi di Corinto
4I
gnificato negativo che ha qui «sapienza», ovvero la sapienza di questo mondo; non s'intende quindi il carisma del «discorso di sapienza» (1 Cor. I 2,8). Nel giudaismo ellenistico la sapienza (sophia) è un concet to essenziale nella rivelazione: la vera sapienza è in Dio e viene da Dio. Si contrappone alla sapienza mondana che si acquista dalla consi derazione della realtà immediata, senza riconoscere il creatore divino (cf. Sap. 9,9- I 8). Paolo sa che, per il modo di vedere puramente intra mondano, la croce di Cristo è uno scandalo e una stoltezza. Le cono scenze della sapienza mondana possono essere esposte con logica ri gorosa e con abili strumenti retorici, ma per Paolo la spinta decisiva alla vera sapienza non viene dalla forma retorica, bensì dal contenuto della predicazione, che è la sapienza rivelata da Dio nella croce e ri surrezione di Gesù Cristo. Quest'affermazione dell'apostolo non si gnifica assolutamente che a chi predica è consentito ignorare del tutto le regole dell'arte del parlare; significa solo che la forma esteriore deve conformarsi alla cosa che dev'essere proclamata e che la retorica non deve nascondere la parola della croce. Excursus I gruppi di Corinto La questione se i gruppi di Corinto fossero tre oppure quattro di pende dall'interpretazione della quarta parola d'ordine «io sono di Cristo». La tradizione manoscritta non dà motivo di espungerla come glossa posteriore. Il v. 1 3 si lega meglio con quanto precede se alla fine del v. I 2 viene nominato Cristo. L'enumerazione di tre soli nomi in 1 Clem. 47,3 può riferirsi a 1 Cor. 3,22, dove Paolo menziona solo i tre missionari. Taluni interpreti vedono nella quarta asserzione l'antitesi che Paolo contrappone alle precedenti parole d'ordine dei gruppi. Se condo questo modo di vedere, le tre parole d'ordine rispecchiano la successione in cui i predicatori hanno svolto la loro attività a Corinto. In tal modo il formarsi dei gruppi si spiegherebbe in maniera affatto plausibile, se a tale soluzione non si opponesse il parallelismo delle quattro formule. La lettera del testo depone a favore dell'ipotesi che a Corinto i gruppi fossero quattro, col che sorge la questione della na tura di questi gruppi, di soluzione particolarmente difficile per il «partito di Cristo». Se Paolo polemizzasse in distinte pericopi con ogni singolo gruppo,
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I gruppi di Corinto
se ne potrebbe desumere l'impronta teologica di ciascuno di essi. In passato, seguendo F.C. Baur, spesso si sono ascritti i partiti di Cefa e di Cristo all'ambito giudeocristiano, e quelli di Paolo e di Apollo a quello etnicocristiano. Si è ipotizzato che la pericope 1 , 1 8-2 5 fosse ri volta contro il gruppo di Apollo, poiché questi aveva dimestichezza con la sapienza alessandrina, oppure che 3,9- 1 1 polemizzasse contro la pretesa di una posizione di preminenza per Pietro (cf. Mt. 1 6, 1 8). Nel dibattito odierno vengono considerati vero bersaglio delle accuse di Paolo ora i cosiddetti «gnostici» dominanti nel gruppo di Cristo, ora i membri del partito di Cefa (P. Vielhauer}, ora i seguaci di Apollo (G. Sellin). Sulla base di 2 Cor. 10- 1 3 G. Sellin considera Apollo un ri vale di Paolo «del genere degli apostoli pneumatici», e nella quarta pa rola d'ordine vede un accenno alla concezione che Apollo aveva di sé come di «intermediario tra i suoi e Cristo». Ma le argomentazioni di Paolo non consentono di ravvisare una polemica rivolta contro un gruppo preciso. La contrapposizione tra sapienza umana e sapienza divina è già preparata nella tradizione sapienziale giudeo-ellenistica. È anche verisimile che Apollo avesse dimestichezza con concezioni ales sandrine (cf. Filone}, ed è probabile che i pneumatici di Corinto si sia no vantati di possedere la sapienza pneumatica. Ma non c'è alcuna di retta polemica né contro Apollo né contro Pietro. Dal testo non è nem meno dato capire quale dei gruppi abbia fatto nascere la divisione. L'apostolo, rivolgendosi di continuo all'intera comunità, polemizza con la formazione di gruppi in quanto tale (H. Conzelmann) e con danna in tutti i quattro gruppi, come un'offesa all'unità del corpo di Cristo, la loro pretesa di esclusività. Il suo rimprovero non è rivolto in primo luogo contro i missionari stessi che vengono nominati, bensì contro l'errore dei seguaci nel valutare i loro capigruppo. In 1 Cor. 3 , 5 - 1 5 a mo' di esempio Paolo parla di sé e di Apollo, per illustrare il com pito del predicatore come ministro e collaboratore di Dio. In questa circostanza Pietro non viene nominato, proprio perché a Corinto non ha predicato di persona. Diversamente, ci si dovrebbe aspettare che, nella tradizione della comunità di Corinto, si fosse conservata da qual che parte una traccia della visita di questo ragguardevole apostolo. Il formarsi di un gruppo di Pietro si può spiegare in questo modo: cri stiani convertiti da Pietro nell'area della sua missione in Siria (cf. Gal. 2, 1 1 - 1 4), venuti a Corinto, si schierarono qui per Pietro in quanto pri mo tra gli apostoli di Gesù Cristo. - Nel fenomeno dei gruppi forma-
I gruppi di Corinto
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tisi a Corinto, di cui Paolo non indica i motivi, si deve a mio parere considerare sia la specificità teologica dei predicatori Paolo, Apollo e Pietro, sia anche un modo entusiastico d'intendere la sapienza e i doni dello Spirito da parte dei corinti che accolsero l'annuncio di Gesù. - La teologia di Paolo è la meglio conosciuta. Le lettere ai Galati e ai Ro mani sono il documento più chiaro dell'annuncio dell'apostolo sulla giustificazione del peccatore in virtù della sola fede in Cristo, senza le opere della legge giudaica, mentre le lettere ai Corinti documentano efficacemente la sua predicazione della parola della croce. - Apollo, se condo Atti I 8,24 ss., era un giudeo di Alessandria, proveniente proba bilmente dalla cerchia dei seguaci di Giovanni Battista, istruito nella fede cristiana da Prisca e Aquila (Rom. 1 6,3; cf. I Cor. I 6,I9; Luca si serve del diminutivo Priscilla Atti I 8, I 8.26); è descritto come un pre dicatore eloquente, esperto della Scrittura e di spirito fervente. Evi dentemente la sua predicazione incontrò grande favore presso i corio ti (cf. I Cor. I 6, I 2 ) . Poiché Paolo giudicava in termini nettamente po sitivi la sua azione missionaria e cercò anche di persuaderlo a far ritor no a Corinto, si può pensare che la teologia e la prassi missionaria di Apollo fossero vicine alla concezione che Paolo aveva del vangelo. L'immagine della personalità di Simon Pietro, uno dei dodici, s'è ri flessa soprattutto nei vangeli e negli Atti degli Apostoli. La sua teolo gia dev'essere desunta da tutto il Nuovo Testamento. Fin da quando Gesù era in vita, Pietro era il portavoce del gruppo dei discepoli; dopo pasqua, la prima apparizione del Risorto fu per lui (I Cor. I 5 , 5 ; Le. 24,34). Nei primi anni assunse perciò la posizione di guida nella pri mitiva comunità di Gerusalemme (cf. Gal. I , I 8 s.). Durante la perse cuzione dei cristiani sotto Erode Agrippa 1 (intorno al 44 d.C.), Pietro dovette fuggire da Gerusalemme (Atti 1 2, I 7) e si diede a predicare il vangelo nella diaspora di Siria. In occasione del cosiddetto convegno apostolico (nel 48 d.C. circa), le tre «colonne», Giacomo, il fratello del Signore, Pietro e Giovanni, rappresentavano la missione tra i giudei, mentre Paolo e Barnaba furono confermati, con la stretta di mano, missionari per i gentili. Personalmente Pietro non va annoverato nella cerchia dei giudeocristiani rigorosi, i cosiddetti «giudaizzanti>) (cf. Gal. 2,4 ss.). Nel discorso di Gal. 2, I4-2 1 , sulla decisiva questione della redenzione dei peccatori mediante la fede in Gesù Cristo, Paolo presuppone una fondamentale concordanza con Pietro, e in I Cor. I 5, 1 1 sottolinea il suo pieno accordo con i primi apostoli nella predica-
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l gruppi di Corinto
zio ne di croce e risurrezione del Signore. D'altro canto, dal racconto dello scontro tra Paolo e Pietro in Antiochia (Gal. 2, 1 1 - 1 4) risulta che, dopo l'arrivo degli inviati di Giacomo, Pietro tornò a tener conto dei precetti giudaici relativi a cibi e purità. Se ne deve dedurre che, ai fini di una pacifica convivenza di ex giudei e gentili nella comunità, nella sua successiva attività missionaria in area siriaca Pietro abbia ri spettato il cosiddetto decreto apostolico, ossia la rinuncia all'idolatria, l'astinenza dal nutrirsi di sangue e animali soffocati e l'astensione dal l'impudicizia (Atti 1 5,20.29 ). Con tale premessa, si può supporre che a Corinto il gruppo di Pietro abbia parimenti assunto una siffatta posi zione giudeocristiana «moderata», come Pietro stesso. Così facendo, costoro evidentemente mettevano in straordinario risalto, con chiuso spirito di partito, che il loro capogruppo era il primo apostolo. Per quanto concerne il cosiddetto , poiché per Paolo il soggetto della rivelazione, anche di quella nella creazione, è sempre il Dio che opera in giudizio e grazia, quale non può essere conosciuto dalla sola natura, ma solo dall'operato rivelatore di Dio in Israele e in Gesù Cristo. Se anche nell'interpretazione paolina della tradizione sa pienziale giudeo-ellenistica sono confluiti dei motivi stoici, resta tut tavia una differenza fondamentale tra l'annuncio di Paolo e la teologia naturale dei filosofi stoici. Per gli stoici la divinità coincide con la ra gione del mondo e, con la sua ragione, il singolo uomo partecipa di Dio (cf. Atti 1 7,28). Per Paolo, invece, Dio non è semplicemente una denominazione della più profonda realtà del mondo, bensì è, confor-
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1 Cor.
1 ,�6- 3 I . La composizione della comunità chiamata da Dio
memente al pensiero veterotestamentario, il creatore e Signore auto nomo del mondo e della storia, conoscibile per l'uomo solo nella mi sura in cui egli stesso s'è rivelato, manifestatosi con una rivelazione definitiva nella croce di Cristo come il Dio dell'amore. La potenza e sapienza di Dio che si nascondono dietro la debolezza e stoltezza della croce, anche se rivolte a tutti gli uomini, sono accessibili solo alla fede. La fede nella parola della croce è quindi la fine di ogni ideologia e di ogni visione del mondo che rifiutino l'azioBe rivelatrice del Dio invisibile .
.2.. 1.2. La composizione della comunità chiamata da Dio ( I ,26-3 I) Guardate anche la vostra chiamata, fratelli: non sono molti i sapienti se condo la carne, non molti i potenti, non molti i nobili. 27 Ma Dio ha scelto ciò che per il mondo è stolto per confondere i s apienti, e Dio ha scelto ciò che per il mondo è debole per confondere ciò che è forte, 28 e Dio ha scelto ciò che è ignobile per il mondo ed è disprezzato, ciò che non è nulla, per annientare ciò che è qualcosa, 29 affinché nessun(a) uomo (carne) si glo ri davanti a Dio. 30 E per opera sua voi siete in Cristo Gesù, il quale è di venuto per noi sapienza da Dio, e giustizia e santifìcazione e redenzione, 3 I affinché, come sta scritto, «chi si gloria si glori del Signore! ». %6 Sir. 10,1 4; Le. 1,52. JO 6,1 1. 31 Ger. 9,22 s.; 2 Cor. 10,17. 26
La tesi della pericope precedente, secondo cui Dio ha fondato la salvezza degli uomini non sulla sapienza del mondo ma sulla croce di Cristo, è ora illustrata da Paolo dapprima in rapporto alla composi zione sociale della comunità di Corinto. La pericope I ,26-3 I è formu lata, dal punto di vista retorico, mediante una disposizione parallela delle idee e uno stile dialogico. Gli aggettivi neutri, che vanno riferiti ai membri della comunità, danno all'espressione un significato genera le che non risulta così offensivo per nessuno. I concetti di sapienza e forza con i rispettivi contrari, che fin qui sono stati i concetti guida, vengono ulteriormente sviluppati con l'aggiunta del nuovo aspetto del la condizione di nascita. Questi versetti ci consentono di conoscere le relazioni sociali della comunità. .2.6-29. Nell'evento Cristo è giunto a compimento il principio vete rotestamentario per cui «Dio caccia dal trono i potenti e innalza gli umili» (Sir. 1 0, I 5 ; cf. Le. I , 5 2); teologicamente ciò ha valore essenzia le per la giustificazione degli empi (Rom. 4, 5) ed è visibile anche nella
1 Cor.
1,2.6-J I . La composizione della comunità chiamata da Dio
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chiamata rivolta alla comunità. La composizione sociale della comuni tà di Corinto, fatta di uomini che, giudicati con criteri umani, non val gono molto, è per Paolo un segno dell'elezione della grazia di Dio. Il filosofo giudeo Celso (n sec. d.C.) giudica la stessa circostanza una prova della nullità della dottrina cristiana (Origene, Cels. 3,44). Dio non ha chiamato a far parte della comunità molte persone colte della élite intellettuale, non molti potenti, importanti per la loro posizione politica o religiosa o per il loro denaro e le loro ricchezze, né molte persone in vista delle nobili famiglie cittadine. I membri della comuni tà appartenevano soprattutto ai ceti socialmente inferiori; erano in pre valenza artigiani, piccoli commercianti e schiavi. Secondo 1 Cor. I I de v'esserci stato anche un esiguo numero di persone ricche. Prisca, Aqui la e Gaio, presso i quali dimorava Paolo, erano proprietari di una casa; anche l'ex capo delle sinagoghe, il giudeo Crispo, doveva aver avuto una posizione socialmente elevata. Erasto (Rom. 1 6,2 3) era un abbien te cittadino romano; probabilmente aveva rivestito la carica di questo re (amministratore delle finanze). In generale i cosiddetti timorati di Dio erano più ricchi dei proseliti passati per intero al giudaismo. Pre sumibilmente la maggior parte delle persone che Paolo ricorda per no me occupavano una posizione socialmente elevata e mettevano a di sposizione della comunità i loro averi e le loro case (G. Theissen). Dio ha scelto ciò che il mondo considera stolto, debole e ignobile allo sco po di smascherare la nullità e inanità, ai fini della salvezza, dei grandi della terra e delle categorie della sapienza umana. La terza espressio ne, relativa a «ciò che è ignobile per il mondo», viene ampliata con «ed è disprezzato»; infine tutte le precedenti espressioni vengono riepilo gate nella forma generale e radicale dell'opposizione tra «ciò che non è nulla» e «ciò che è qualcosa». È un segno distintivo dell'operare crea tore di Dio «chiamare ciò che non è, perché sia» (Rom. 4, 1 7). L'inten to ultimo dell'elezione divina mira a vincere il fondamentale atteggia mento egocentrico degli uomini e il vanto che ne deriva. Chi si gloria, quasi potesse vivere di sé, nega di fatto la propria permanente dipen denza da Dio. Paolo è ricorso al motivo del vantarsi in modo partico lare per sviluppare il suo annuncio della giustificazione. La fede nella parola della croce costituisce la rinuncia radicale a ogni vanto umano (Rom. 3,27). Il tratto fondamentale caratteristico della fede è l'atteggia mento di ascolto e accoglienza. 30-3 1 . Anche i corinti debbono la loro condizione di cristiani non
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Cor. 1,26-3 1 . La composizione della comunità chiamata da Dio
all'opera loro, ma all'elezione divina. Si deve a Dio se sono «in Cristo Gesù», se cioè sono stati inseriti col battesimo nella signoria di Cristo, mediante la loro accettazione credente del vangelo. Nella loro qualità di membri del corpo di Cristo, uomini che secondo criteri umani sono considerati dei «nulla», sono uniti a Cristo nella fede e pertanto figli di Dio ed eredi del futuro regno di Dio. Essere «in Cristo» è una for mula fissa (cf. Fil. 2, 5 ) con cui Paolo descrive nella sua interezza l'in serimento di tutto l'uomo, corpo, anima e spirito, nell'evento salvifico della croce e risurrezione di Gesù Cristo. Il nome di Gesù Cristo è se guito da una formula cristologica quadripartita, in cui si confessa e si loda la sua funzione salvifica per la comunità. Dio ha fatto di Gesù Cristo la nostra sapienza. La sapienza, messa in risalto dall'aggiunta «da Dio», è al primo posto perché in I , 1 8-2 5 è il concetto guida. In Cristo «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscen za», sì che per mezzo suo i cristiani hanno avuto parte alla sapienza di Dio (Col. 2,3 .9 s.). Questa sapienza di Dio, contrapposta ai criteri di valore della sapienza del mondo, ha di mira, come indicano i concetti che seguono, la salvazione degli uomini. Ciascuno dei tre termini stret tamente connessi, giustizia, santificazione e redenzione, designa qui l'intero evento della salvezza; non si descrive, quindi, un progresso graduale dalla giustificazione alla santificazione e da questa alla defi nitiva redenzione. Poiché siamo giustificati grazie alla morte in croce di Cristo per noi, Cristo è la nostra giustizia (2 Cor. 5,2 1 ; Rom. I0,4). Poiché siamo «santificati in Cristo GesÙ» ( I Cor. I ,2 ), Cristo è la no stra santificazione; in base a ciò Paolo chiama i cristiani alla santifica zione ( I Tess. 4,3). Poiché per mezzo di Cristo siamo stati riscattati dalla potenza del peccato e della morte ( I Cor. 7,2 3 ), Cristo è la nostra «redenzione». Dal momento che l'atto decisivo della redenzione è av venuto con la morte espiatrice e vicaria di Gesù sulla croce, Paolo può servirsi del termine «redenzione» (apolytrosis) sia per la liberazione escatologica dal corpo mortale (Rom. 8,23), sia per la condizione pre sente dei credenti (Rom. 3,2 4) . Per indicare la redenzione già avvenuta sulla croce, l'apostolo impiega anche il termine «riconciliazione» (ka tallage, 2 Cor. 5, I 8 s.; Rom. 5, I I ) ; in quanto riconciliati tramite Cri sto, possiamo così sperare con fiducia nella redenzione escatologica (Rom. 5, I o) . In 1 Cor. 6, I I , ai tre sostantivi, giustizia, santificazione e redenzione, corrispondono, in ordine inverso, tre espressioni verbali: «voi siete stati lavati (che corrisponde alla purificazione dalle colpe
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Cor. 2,1 - s . La predicazione di Paolo a Corinto
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mediante il riscatto dalla servitù del peccato), siete stati santificati (che corrisponde a «santificazione» ), siete stati dichiarati giusti (che corri sponde a «giustizia») mediante il nome del Signore Gesù Cristo e me diante lo Spirito del nostro Dio». Dietro 1 Cor. 6, I I vi è probabilmen te una formula di fede, ripr�sa da Paolo, con la quale i cristiani descri vono l'effetto del battesimo. L'autore della salvezza è il Signore cro cifisso e innalzato; perciò il vanto e la lode spettano a lui, non agli uo mini. A questo scopo Paolo introduce di nuovo una testimonianza scritturistica dall'Antico Testamento, alludendo ai versetti di Ger. 9, �2 s., nei quali Dio ammonisce gli uomini a non gloriarsi della loro sa pienza, forza e ricchezza. N el la sua argomentazione Paolo inserisce la citazione con l'aggiunta della formula «nel Signore» riferita a Cristo. Gloriarsi nel Signore è il contrario del gloriarsi umano, poiché di fatto significa gloriarsi della croce (Gal. 6,I 4) e della debolezza (2 ·cor. I 1 , 30). L'apostolo ne dà un esempio toccante, preso dalla sua -stessa vita, nella cosiddetta «stolta vanteria» di 2 Cor. I I , I 6- I 2, I o. .2.1 .3. La predicazione di Paolo a Corinto (2, I -5) 1 E anch'io, fratelli, quando sono venuto da voi, non sono venuto a predicar vi il mistero di Dio con sovrastante eloquenza o sapienza. 2 Mi ero infatti imposto di non sapere nulla tra voi se non (soltanto) Gesù Cristo, e quello crocifisso. 3 E mi presentai in mezzo a voi in debolezza e timore e con gran de tremore; 4 la mia parola e la mia predicazione non consistettero in per suasive parole di sapienza, ma in dimostrazione dello Spirito e della p oten za, 5 affinché la vostra fede non poggi su sapienza di uomini, ma su poten za di Dio. 4
r
Tess. 1 , 5 .
1-5. Oltre alla composizione sociale della comunità, anche il modo in cui Paolo si presentò a Corinto mostra come la chiamata della co munità non si svolse secondo i criteri né con i mezzi della sapienza mondana. La comunità fu chiamata da Dio mediante la parola della croce, annunciata dall'apostolo. Come in I Tess. 2 , I - I 2, Paolo ricorda ai membri della comunità gli inizi della sua attività. Durante la sua pri ma sosta a Corinto negli anni 50- 5 2 d.C., non aveva cercato di fare im pressione su di loro con l'ingegno della dottrina e lo splendore del l'oratoria, cui i greci erano particolarmente sensibili; da amministrato re dei misteri divini (I Cor. 4, I ), diede la massima importanza non alla
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Cor. 2,1- S. La predicazione di Paolo a Corinto
forma ma al contenuto della sua predicazione. Coi termini «parola» (eloquenza) e «sapienza» Paolo fa riferimento a I , I 7. Alla sapienza di Dio e a quella del mondo corrispondono maniere di parlare diverse e determinate. Nella sua predicazione Paolo confidava nella forza della parola della croce, che non ha bisogno del sostegno di artifici retorici o filosofici; altrimenti c'è il pericolo che venga nascosto o eliminato il carattere scandaloso della croce. Il contenuto della predicazione pao lina è qui definito « mistero di Dio». Questa lezione è da preferirsi alla variante «testimonianza di Dio», altrettanto ben documentata da anti chi manoscritti greci; infatti «mistero» prepara 2,6- I 6, mentre la lezio ne «testimonianza di Dio» potrebbe essersi formata per assimilazione a I ,6. Il vangelo, in cui Dio ha reso noto il suo disegno salvifico celato fin dagli inizi, rimane un mistero di Dio, poiché la rivelazione della potenza e della sapienza di Dio nella croce di Cristo può essere colta solo dalla fede, ma non può essere resa razionalmente evidente. Paolo aveva preso la ferma risoluzione di non conoscere nient'altro, a Co rinto, che Gesù Cristo crocifisso. Il contenuto di questo sapere, di cru ciale importanza e che non si può passare sotto silenzio, è l'annuncio del crocifisso. A Corinto, tra le altre cose, Paolo ha predicato anche la risurrezione e parusia del Signore e il giudizio universale, ma tutte que ste tematiche ricevono la loro impronta e significato particolari dalla connessione con l'evento di riconciliazione nella croce di Gesù Cristo. Giustamente, quindi, il crocifisso sta al centro dell'annuncio di Cristo (cf. Gal. 3 , 1 ). Nella controversia con i pneumatici di Corinto si discu te se la presenza nella comunità del Signore innalzato nello Spirito possa essere disgiunta dalla sua morte vicaria sulla croce. Chi separa il cosiddetto «Cristo storico» dal «Cristo kerygmatico» non può richia marsi alla predicazione di Paolo; questi è testimone del Gesù terreno morto sulla croce e del Cristo innalzato che opera mediante lo Spirito, come di una sola e medesima persona. In passato s'è spesso pensato che, dopo l'insuccesso di Atene, Paolo avesse deciso di non predicare più, in termini generali, sull'operare di Dio nella natura e nella storia come aveva fatto nel discorso dell'Areopago (Atti I 7,22-3 I ), ma di concentrarsi interamente sull'annuncio della croce. Questa interpre tazione biografica, tuttavia, non trova alcun appoggio nei testi, senza contare poi che non si sa fino a che punto il discorso d eli'Areopago riproduca con esattezza la predicazione di Paolo. Secondo Gal. I , I6, fin dalla sua chiamata, in cui il Gesù crocifisso gli era apparso nelle ve-
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2,1 - 5 . La predicazione di Paolo a Corinto
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sti di glorificato, Paolo aveva il compito di predicare il figlio di Dio tra i gentili. La sua decisione non era motivata dallo scarso successo di Atene, ma derivava dall'obbedienza all'incarico ricevuto. Come la pre dicazione dell'apostolo, nel contenuto e nella forma, era interamente improntata alla croce, così anche il modo in cui Paolo si presentava esteriormente si conformava alla parola della croce. Per chi predicava un Signore crocifisso non sarebbe stato appropriato un contegno su perbo. Allorché ·Paolo iniziò la sua attività a Corinto, era ancora mol to preoccupato per la tenuta delle comunità macedoni ( I Tess. 3,7 s.). Considerava tutto il suo ministero apostolico come sequela di Gesù nella sofferenza (cf. 2 Cor. 4,7- I 5 ) . La frase in cui ricorda di essersi presentato in debolezza e timore e con grande tremore (cf. Is. I 9, I 6; 2 Cor. 7, I 5; Fil. 2, I 2 ) ha un significato teologico fondamentale, secondo la regola paradossale per cui «nella debolezza giunge a compimento la potenza» di Dio (2 Cor. 1 2.,9). Proprio degli attacchi e delle sofferenze che l'apostolo patisce Dio ha fatto una testimonianza del Cristo croci fisso. Perciò Paolo non considera la propria debolezza uno sgradevole difetto, ma un elemento costitutivo del suo ministero apostolico di sofferenza (2 Cor. I 1 ,29 s.). Meno il predicatore innalza se stesso, tanto più può divenire strumento della potenza di Dio. Nella sua pre dicazione a Corinto, Paolo non s'era valso di raffinata arte oratoria né di ingegnosi metodi di persuasione, come usano comunemente gli uo mini d'affari e i divulgatori della sapienza mondana (cf. I Tess. 2,3 ss.), ma aveva fatto affidamento sul potere di persuasione del suo annun cio. Parola e kerygma sono due termini per indicare la predicazione del vangelo nelle sue diverse forme; non necessariamente Paolo con esse distingue tra predicazione pubblica (kerygma) e colloquio pastorale (parola), per quanto abbia praticato l'uno e l'altro. A proposito del l'affermazione negativa, «non in persuasive parole della sapienza», la tradizione testuale presenta numerose varianti, senza essenziali diffe renze di significato. È difficile stabilire quale fosse il testo originario. La difficoltà della lezione qui adottata sta nel fatto che l'aggettivo «per suasivo» è grammaticalmente corretto, ma non è altrimenti attestato nella letteratura greca. Probabilmente il testo originario diceva: «non in persuasione della sapienza», e fu poi ampliato in varie forme; in rap porto a esso l'espressione che segue, «in dimostrazione dello Spirito e della potenza», costituisce formalmente un parallelo, a sottolineare la contrapposizione tra sapienza mondana e divina. Anziché l'accosta-
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. .1,1 -s. La predicazione di Paolo a Corinto
1 Cor
mento di potenza e sapienza di Dio ( 1 ,24), compare qui la coppia con cettuale «Spirito e potenza». Già nell'Antico Testamento lo Spirito e la potenza di Dio sono strettamente congiunti (cf. Mich. 3,8; Sap. 5 ,24). Quanto alla dimostrazione dello Spirito e della potenza, la differenza non è tra argomentazione razionale e persuasione con la forza del sen timento. Il termine «dimostrazione», che non ha il significato di una prova logica, mette in evidenza la possente efficacia della parola. Nella sua predicazione Paolo confida nell'azione dello Spirito di Dio, senza però polemizzare contro il ricorso alle facoltà intellettuali che Dio ci ha donato. Il suo pensiero è «prigioniero di Cristo» (2 Cor. 10, 5 ). La di mostrazione dello Spirito e della potenza non consiste nemmeno pri mariamente nel dimostrare lo Spirito con prodigi e glossolalia estatica, come pensano gli entusiasti di Corinto, cui Paolo mette davanti agli occhi l'annuncio della croce e il potere costruttivo dell,amore. La ri mozione della parola della croce mediante le manifestazioni estatiche dello Spirito è giudicata dall'apostolo una ricaduta nella sapienza di questo mondo e in un comportamento carnale. In I Tess. 1,5 ci dà an che una chiave per interpretare questo passo, quando dice che la sua predicazione del vangelo avvenne «non solo nella parola, ma anche nella potenza e nello Spirito santo e in grande certezza». Secondo que ste parole, si ha la dimostrazione dello Spirito e della potenza quando le parole del predicatore non restano vuote e inefficaci, ma suscitano la fede nei cuori degli uditori mediante la potenza della parola e dello Spirito di Dio (cf. l'interpretazione di Lutero del terzo articolo di fe de). Da soli, infatti, eloquenza umana e argomentare filosofico non pos sono far sì che chi riceve l'annuncio riconosca nella morte in croce di Gesù la rivelazione della potenza e sapienza di Dio. Per donare nella fede la certezza della salvezza, nella sua intenzione salvifica Dio ha preferito la parola paradossale della croce alla sapienza del mondo. La fede non deve fondarsi su sapienza di uomini, ma sulla potenza di Dio. Tutte le conoscenze che derivano dall'indagine umana sulla realtà sog giacciono alla relatività del sapere umano e sono costantemente espo ste alla messa in questione mediante argomenti migliori e conoscenze nuove. La fede, in cui sono in gioco vita e morte nel loro significato ul timo, deve poggiare su un terreno saldo ed essere certa. Dio non è le gato a un particolare punto di vista spazio-temporale, né è sottoposto al divenire storico. La sua parola rimane in eterno (/s. 40,8; I Pt. 2,2 5). Dio, «che fa vivere i morti e chiama ciò che non è perché sia» (Rom.
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Cor. 2,6- I 6. Il vangelo, misteriosa sapienza di Dio
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4,I 7), ha anche il potere di tradurre in atto la sua promessa (Rom. 4,2 1 ). La certezza della fede (certitudo), quindi, si fonda proprio con la di struzione della sicurezza che gli uomini hanno in se stessi (securitas). z.2..
Il vangelo, misteriosa sapienza di Dio ( 2,6- 1 6)
E noi tuttavia predichiamo la sapienza tra i perfetti, ma non sapienza di questo mondo, o dei principi di questo mondo, che sono soggetti alla ca ducità; 7 predichiamo invece il mistero della nascosta sapienza di Dio, che Dio ha predeterminato prima di tutti i tempi per la nostra glorificazione. 8 Nessuno dei principi di questo mondo l'ha conosciuta; se infatti l'avesse ro conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. 9 Ma (noi predichiamo) come sta scritto: «Quel che occhio non vide né orecchio udì, e quel che non nacque nel cuore dell'uomo, quel che Dio ha preparato per coloro che lo amano». I o Dio l'ha rivelato a noi mediante lo Spirito; lo Spi rito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. I I Giacché chi tra gli uomini conosce l'uomo, se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche Dio nessuno l'ha conosciuto - solo lo Spirito di Dio. I 2 Ma noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, bensì lo Spirito che è da Dio, affin ché conosciamo ciò che ci è stato donato da Dio. I 3 Di questo anche par liamo non con parole quali insegna la sapienza umana, ma con {parole) qua li insegna lo Spirito, esponendo ai ricolmi di Spirito l'operare dello Spirito (lo spirituale). I4 L'uomo d'animo terreno (psichico) non comprende ciò che viene dallo Spirito di Dio; per lui, infatti, è una stoltezza, e non è capa ce di intenderlo, perché dev'essere giudicato spiritualmente. I s L'uomo ri colmo di Spirito (pneumatico), invece, giudica su ogni cosa; egli stesso, pe rò, non è giudicato da nessuno. I6 Infatti «chi ha conosciuto la mente del Signore sì da poterla dirigere» ? Ma noi abbiamo la mente di Cristo. 6
7 Rom.
1 6,2 5 . 9 ls. 64,3; 65,I6; Sir. I , Io. 10 Dan. 2,22. 16
/s. 40, 1 3 LXX; Rom. 1 1 ,34·
6-1 6. La pericope z,6- I 6 ha un'impronta particolare sul piano sia linguistico, sia stilistico. Dal discorso in prima persona Paolo passa al «noi», che non è solo un plurale letterario, ma si riferisce concreta mente a Paolo e ai suoi collaboratori in veste di predicatori del mes saggio della croce ( I , I 8). Dopo che, per un certo tempo, Paolo ebbe operato da solo a Corinto, lo raggiunsero dalla Macedonia Silvano (Sila) e Timoteo (Atti I 8,s). La pericope non ha p i ù forma di dialogo, bensì di tesi, quasi di confessione, e non interpella concretamente la comunità di Corinto. Ma, soprattutto, le affermazioni suonano come se Paolo avesse improvvisamente mutato la sua posizione, e fosse pas-
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Cor. 2,6- 1 6.
Il vangelo, misteriosa sapienza di Dio
sato nel campo degli entusiasti pneumatici. Mentre fino a quel mo mento aveva rifiutato radicalmente l'aspirazione elitaria alla sapienza, ora sembra difendere, per un determinato gruppo di iniziati, una spe ciale sapienza misterica: «ma noi parliamo di sapienza tra i perfetti». In 2, I 4 s. i perfetti di 2,6 sono definiti come uomini ripieni dello Spiri to (pneumatici), a differenza di quelli che pensano in modo terreno (psichici). A ciò s'aggiunge, nella pericope successiva (3, I -4), l'affermazione, che ha il tono d'un rimprovero, in cui Paolo dice di non aver potuto parlare ai corinti come a dei pneumatici, ma di aver dato loro solo lat te, anziché cibo solido. Da questa singolarità della pericope e dalla sua posizione nel con testo derivano per l'interpretazione gravissime difficoltà, cui gli stu diosi non hanno ancora trovato una soluzione univoca. Si discute so prattutto su due questioni, riguardanti l'una la cerchia dei destinatari, l'altra l'oggetto di questa predicazione di sapienza: I . I perfetti di 2,6, che hanno accesso alla misteriosa sapienza di Dio, sono solo un gruppo particolare di pneumatici, dotati di eccezionali do ni dello Spirito, oppure si tratta di tutti i cristiani che col battesimo hanno ricevuto lo Spirito ? 2. La «misteriosa sapienza» ha un contenuto superiore, che va oltre l'annuncio del Cristo crocifisso, oppure si riferisce proprio alla «paro la della croce» ( I , I 8)? Le due questioni sono intimamente connesse, e dipendono dalla valutazione che si dà dello sfondo storico-religioso su cui si stagliano queste affermazioni. La parola chiave «perfetti» (teleioi) è adoperata in senso tecnico so prattutto nelle religioni misteriche dell'ellenismo per indicare gli ini ziati, e perciò fa subito pensare al linguaggio dei misteri. La parola chiave «sapienza» (sophia) è un concetto guida sia per i greci in cerca della verità sia per il giudaismo ellenistico. Per il resto, i termini «mi stero» (mysterion) e «predeterminare» (prohorizein) del v. 7, e «rivela re» (apokalyptein) del v. I o, rimandano all'apocalittica giudaica, col suo schema dei due eoni e del disvelamento del mistero di Dio alla fi ne dei tempi ad opera degli apocalittici. Alcuni dei termini di questa pericope, che Paolo non usa altrove, come pure la contrapposizione tra uomini psichici e pneumatici dei vv . 1 4 s., sono tipici della concezione di Dio e dell'uomo dello gno-
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2,6- 1 6. Il vangelo, misteriosa sapienza di
Di
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sticismo del n secolo. Per questo, in passato, sulle orme di Bultmann s'è spesso sostenuta la tesi che Paolo, in questa pericope, in veste del «vero gnostico della croce», ricorrerebbe a espressioni e idee gnosti che, per colpire i suoi avversari con le loro stesse armi. Stando a que st'interpretazione, le «fratture» nello sviluppo delle idee si spiegano con l'impiego, da parte di Paolo, del bagaglio terminologico gnostico per la predicazione dell'annuncio della croce. Da questa posizione, è ancor più conseguente la tesi secondo cui la pericope non sarebbe stata redatta da Paolo, ma dai suoi avversari corinti in risposta a uno scritto paolino, e sarebbe stata inserita in seguito nella lettera (M. Widmann). Ma decisivi non sono soltanto i termini che compaiono, bensì la struttura di fondo e tutto il modo di pensare entro cui i con cetti vengono usati. Per determinare quale sia la situazione storico-re ligiosa che fa da sfondo alla pericope, la questione decisiva è se l' op posizione qui menzionata tra psichici e pneumatici si riferisca a due classi di uomini separate per le loro disposizioni naturali, come vuole la gnosi, o se si tratti di una contrapposizione che ha un altro fonda mento. Nel caso dei perfetti della gnosi, la conoscenza della sapienza divina si basa sull'unità sostanziale di Dio, che è luce, con l'uomo re dento mediante la conoscenza, il cui vero io è visto come parte della divina sostanza di luce; non possedendo la scintilla divina, gli «psichi ci» sono preda dell'annientamento nella morte, al pari di ogni materia caduca, mentre le anime dei pneumatici ascendono alla divinità. Non si può però dire che in questa pericope si parli di un'unità di natura tra Dio e gli uomini pneumatici. Al contrario, qui Paolo muove dalla premessa che nessuno può superare la lontananza tra Dio e gli uomini peccatori con le sue forze naturali (cf. Rom. I-J), e pone espres samente l'accento sul carattere di «dono» che ha lo «Spirito che è da Dio» (v. I 2). Perfetto nel senso di Paolo è il credente che Cristo ha conquistato, ma che sa di non essere ancora alla meta (Fil. J, I 2-I 5). Di fronte a questa diversità nella struttura fondamentale dei rapporti tra Dio e l'uomo, l'ipotesi di uno sfondo gnostico, a mio giudizio, non è sostenibile. Se è vero che la contrapposizione tra psichici e pneumatici non è mai documentata direttamente nella tradizione sapienziale giudeo-elleni stica, essa può tuttavia essere ricavata dall'esegesi del testo greco di Gen. 2,7, e trova affermazioni analoghe in Filone d'Alessandria, il qua le interpreta Gen. I ,2 7 nel senso dell'uomo ideale e 2,7 in quello del-
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.z.,6- 16. Il vangelo, misteriosa sapienza di Di
l'uomo empirico. La distinzione tra i due tipi di uomo, quello che ha mente terrena e quello dotato dello Spirito della sapienza divina, era nota a Paolo dalla letteratura sapienziale giudeo-ellenistica. La tradi zione sapienziale sottolinea come la (vera) sapienza non appartenga all'uomo per natura, ma gli debba essere donata da Dio. «Invocai il Si gnore, e venne a me lo spirito della sapienza» (Sap. 7 ,7; cf. anche la sa pienza che è dall'alto, a differenza di quella terrena, psichica, di Giac. 3 , 1 5 ). L'uomo naturale non vale nulla «se gli manca la sapienza che viene da te» (Sap. 9 ,6). «Miseri sono i pensieri dei mortali e instabili i nostri disegni. Giacché il corpo corruttibile (soma) è di peso all'anima (psyche) e la tenda terrena (skenos) grava lo spirito (nous) tanto supe riore. Appena sappiamo cosa c'è sulla terra e solo a fatica comprendia mo ciò che abbiamo tra le mani. Ma quel che è in cielo, chi l'ha inda gato ? E chi ha conosciuto il tuo consiglio? A meno che tu non abbia dato la sapienza e inviato dall'alto il tuo santo Spirito (pneuma)» (Sap. 9, 1 4- 1 7). Nella struttura dell'uomo, si contrappone qui l'uomo terre no (con corpo, anima e spirito) all'uomo «pneumatico» che ha ricevu to «lo Spirito santo dall'alto». Su questa base, a mio giudizio, si deve vedere nella tradizione sapienziale giudeo-ellenistica, congiunta con l'interpretazione apocalittica della rivelazione, la collocazione storico religiosa della pericope 2,6- 1 6. Al tempo di Paolo la combinazione di tradizioni sapienziali e apocalittiche era già corrente. Ora Paolo, per parte sua, interpreta queste tradizioni giudeo-elleni stiche in un senso nuovo, sulla base cioè della rivelazione della sapien za e potenza di Dio nella croce e risurrezione di Gesù Cristo. La con seguenza è una riduzione e forte concentrazione delle concezioni sa pienziali apocalittiche sull'evento Cristo. Questa reinterpretazione in senso cristologico spiega sufficientemente una certa tensione tra il con tenuto delle affermazioni teologiche e gli strumenti linguistici che la esprimono. Il contenuto della misteriosa sapienza che secondo 2,6 Pao lo e i suoi collaboratori predicano tra i perfetti, non è quindi una sa pienza più elevata che vada oltre il crocifisso, ma solo «un'interpreta zione che approfondisce la parola della croce» (U. Wilckens ), che Pao lo non aveva ancora presentato ai corinti in questa forma. Per comprendere poi il seguito di 3, 1 -4 è inoltre da osservare che Paolo usa i termini «perfetti» e «pneumatici» in una duplice accezio ne, ossia in senso fondamentale e teologico per differenziare i cristiani credenti dai non cristiani che non possiedono lo Spirito (2,6), e in sen-
1 Cor. 2,6-9.
La sapienza di Dio rivelata in Cristo è un mistero
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so etico pedagogico per designare un processo di crescita e maturazio ne, come indicano le immagini del latte per i bambini e del cibo solido per gli adulti di 3 , 1 -4. Nel battesimo tutti i cristiani hanno ricevuto lo Spirito santo (1 Cor. 1 2, 1 3 ); pertanto, tutti i cristiani battezzati sono fondamentalmente uomini «ricolmi dello Spirito» (pneumatici), anche i corinti, cui Paolo nell'esordio della lettera ha attestato la loro ric chezza in doni dello Spirito ( 1,7). In questo senso il termine «perfetti» di 2,6 descrive come «depositari dello Spirito» e «pneumatici» (cf. Rom. 8,9) tutti i cristiani, non solo uno speciale gruppo di persone straordi nariamente dotate di doni dallo Spirito. Dal punto di vista pedagogi co, invece, le espressioni di 3 , 1 -4 hanno di mira la crescita nella fede e la dimostrazione del dono battesimale nel vivere quotidiano. Poiché per la concezione biblica lo Spirito non è una proprietà stabile, ma è la potenza di Dio che dà forma nuova al vivere, per i battezzati «deposi tari dello Spirito>> si tratta, ogni giorno da capo, di «camminare secon do lo Spirito» (Gal. 5,2 5 ). Sul piano della condotta cristiana della vita vi sono principianti e progrediti, bambini e adulti. Poiché Paolo giu dica la disputa tra i gruppi di Corinto una ricaduta nel comportamen to dell'uomo «carnale» che pensa in modo terreno, non può, da que sto punto di vista, rivolgersi ai corinti come a degli «pneumatici», os sia uomini maturi e adulti. C'è un'ironia polemica nel fatto che, pro prio ai corinti pneumatici, che tanto presumono della loro sapienza, Paolo debba far vedere che il loro ardore nella disputa tra i gruppi è· un «comportamento carnale». Se si tiene presente questo duplice aspetto nell'uso dei termini «per fetti» e «pneumatici», il ragionamento dell'apostolo in 1 , 1 8-3,4 è pie namente comprensibile, senza dover supporre una frattura nella reda zione né un'interpolazione successiva. 2.2.. 1 .
La sapienza di Dio rivelata in Cristo è un mistero ( 2,6-9)
Nella pericope 1 , 1 8-2 5 il corso delle idee era caratterizzato dalla con trapposizione della «parola della croce» alla «sapienza del mondo»; in quella sede, il concetto di «sapienza» aveva qualità negativa in quanto fallace ricerca umana della sapienza. Alla fine del v. 24 e nel v. 30 s'in contra però anche il concetto di sapienza inteso in senso positivo. Pao lo ora si appropria del concetto di «sapienza di Dio», solo accennato in 1,24, e nella pericope 2,6- 1 6 lo espone più diffusamente. Il ragiona-
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Cor.
1,6-9. La sapienza di Dio rivelata in Cristo è un mistero
mento viene quindi portato avanti in modo consequenziale, mantenen do la contrapposizione tra sapienza divina e umana. La sapienza divina è stata rivelata in via definitiva nella croce e risur rezione di Gesù Cristo. In 2, I il vangelo predicato da Paolo era stato chiamato «mistero di Dio». Adesso Paolo chiarisce perché il decreto salvifico di Dio, nascosto dall'inizio dei tempi, rivelato in Cristo e ora predicato dagli apostoli col vangelo, sia tuttavia ancora una «misterio sa saptenza». 6- 7. La «sapienza di Dio» ( 1,24) rivelata in Cristo è predicata tra gli uomini, ma solo i perfetti l'accolgono. Il termine «perfetto» (teleios) ha significati diversi nelle diverse tradizioni. Per la filosofia stoica, per fetto è il sapiente cui non manca alcuna virtù, l'uomo realmente libe ro, non dominato dalle passioni, che si lascia interamente guidare dal la ragione (nous oppure logos), identica alla divinità. Anche il «progre diente», che è in cammino verso lo scopo, può essere annoverato pro letticamente tra i perfetti. Nelle religioni misteriche ellenistiche è det to «perfetto» l'iniziato (miste); questi non ha conquistato il suo nuovo status attraverso il perfezionamento etico, ma l'ha ricevuto in modo magico naturalistico, attraverso il contatto (visione, pasto, sposalizio) con la divinità. Filone, filosofo giudeo della religione, s'è servito del lin guaggio dei misteri per definire il sapiente come l'uomo perfetto che vede la divinità. Nella gnosi la perfezione si basa sull'unità naturale dello gnostico con la divina sostanza di luce. Paolo ha ripreso il termi ne «perfetto» dal giudaismo ellenistico (cf., ad es., Deut. I 8, 1 3 LXX; Sap. 9,6 LXX: «Se qualcuno fosse perfetto tra gli uomini, sarebbe considerato un nulla, se gli mancasse la tua [di Dio] sapienza»), ma gli ha dato un contenuto nuovo sulla base della cristologia; in Fil. J, I 2- I 5 prende le distanze da una concezione cristiana della perfezione di tipo entusiastico, e accentua il compimento venturo. La sapienza che Paolo predica viene prima caratterizzata negativa mente: non è la «sapienza di questo mondo» né dei «principi (archon ton) di questo mondo». Fin dall'antichità nella chiesa si discute se con quest'espressione s'intendano potenze politiche o demoniache. L'in terpretazione nel senso demoniaco è stata sostenuta soprattutto me diante raffronti con materiale gnostico mitologico. A favore dell'inter pretazione politica depone, invece, il dato linguistico per cui Paolo ap plica sempre il termine «principi», «potenti» (archontes) a potenze del la politica terrena e ad autorità statali (Rom. 1 3,2 ss.), mentre il termi-
1 Cor. 1,6-9.
La sapienza di Dio rivelata in Cristo è un mistero
65
ne «dominazioni» (archai) è sempre riferito alle potenze demoniache ultraterrene (Rom. 8,3 8). È vero che in 2 Cor. 4,4 l'apostolo definisce Satana il «dio di questo mondo», ma non lo chiama «principe del mon do»; quest'espressione si trova solo in Giovanni (Gv. I 2,J I; I4,30; I 6, 1 I ). Inoltre l'interpretazione politica è suggerita dal contrasto tra sa pienza divina e umana, che determina tutto il ragionamento; principi «che sono soggetti alla caducità» {participio presente) appartengono alla sfera degli uomini mortali. Il richiamo a Pilato e a Caifa, che ave vano condannato a morte Gesù, era un topos corrente nella predica zione missionaria della chiesa primitiva (cf. Atti 3,23; I 3,27). Nel v. 7 Paolo definisce positivamente la sapienza che viene predicata, come la «sapienza di Dio nel mistero», come sapienza misteriosa. Misteriosa questa sapienza lo è in due sensi: fino all'invio di Gesù Cristo era na scosta agli uomini come un mistero (mysterion); ma anche dopo la ri velazione in Cristo rimane misteriosa. La sua origine ultima è l'eterno decreto di Dio. Fin da prima della fondazione del mondo, Dio ha pre determinato «per la nostra glorificazione» (v. 7), nel suo disegno sal vifico in Cristo (cf. Ef I ,4 s.), che nella fede in Gesù Cristo noi «sare mo resi conformi all'immagine del suo figlio, affinché sia il primoge nito di molti fratelli» (Rom. 8,29 s.; cf. 2 Cor. 3, I 8; 4,6) . Secondo la teo logia di Paolo, l'elezione eterna (ekloge) si realizza storicamente attra verso la chiamata alla comunione con Gesù Cristo ( I ,9; 1 Tess. 1 ,4 s.). Mediante la riconciliazione in Cristo, Dio ha posto le basi per l'edifi cazione e il futuro compimento della propria signoria. N ella comu nione col Signore innalzato i credenti vedono «la gloria del Signore, e vengono trasformati nella medesima immagine di gloria in gloria» (2 Cor. J , I 8). Il disegno salvifico concepito da Dio prima di tutti i tempi era celato alle generazioni antiche, ma ora in Cristo è manifesto (cf. Rom. 1 6,2 5 s.). È questo il contenuto fondamentale del cosiddetto «schema di rivelazione», che compare pienamente costituito nelle let tere deuteropaoline (cf. Col. I ,26 s.; Ef 3,5.9 s.; 2 Tim. 1,9 s.; Tit. I ,2 s.; 1 Pt. 1 ,20) . La rivelazione in Cristo non sopprime totalmente il ca rattere di «mistero» della sapienza di Dio, poiché questa sapienza è «na scosta nella croce». Mediante l'evento Cristo essa è bensì divenuta pre dicabile nel vangelo, ma non è disponibile per gli uomini, poiché non può essere universalmente compresa dalla sapienza umana, ma può venir colta solo nella fede mediante lo Spirito santo (cf. vv Io-14). 8-9. Nei vv 8 e 9 Paolo sostiene la sua affermazione che i rappre.
.
66
. .1, 1o-I6. La conoscenza della sapienza divina mediante lo Spirito
1 Cor
sentanti della sapienza di questo mondo non hanno conosciuto la sa pienza di Dio rivelatasi nella croce di Gesù, con due argomenti che ri chiamano l'uno l'evento storico della crocifissione di Gesù, l'altro una parola della Scrittura. Giustiziando Gesù, giudicato da loro un preten dente al ruolo di messia politico, i rappresentanti delle due autorità, la giudea e la romana, hanno dimostrato di non aver conosciuto la sua vera essenza. Paolo chiama qui il Gesù crocifisso il «Signore della glo ria», poiché per lui il Gesù Cristo crocifisso e quello innalzato sono la medesima persona. Nel giudaismo l'espressione «Signore della gloria» è un predicato di Dio (Hen. aeth. 22, I 4; 63,2, ecc.). All'evento storico si aggiunge la testimonianza della Scrittura. L'introduzione «come sta scritto» fa presagire una citazione dall'Antico Testamento. Il passo però, nei termini letterali in cui è citato, non è attestato né nell'Antico Testamento, né negli scritti giudaici extracanonici. Secondo Origene proverrebbe dall'Apocalisse di Elia, sotto il nome del quale circolava no vari scritti apocrifi, ma il versetto non è contenuto nei frammenti pervenutici di questo scritto. La provenienza della citazione rimane quindi incerta. Gerolamo non la riteneva una citazione letterale, ma una parafrasi di fs. 6,3 . Probabilmente si tratta di un'allusione a più passi, ossia /s. 64,3; 65, 1 6 e Sir. I , I o (H. Gese). La presenza della cita zione in un testo copto, il Testamento di Giacobbe, dipende da 1 Cor. 2,9 (0. Hofius). Il passo 2,9 ha avuto in seguito un ruolo importante tra gli gnostici. Il contenuto della citazione non descrive soltanto i mi steri delle «cose ultime», ma include anche la partecipazione alla sal vezza che, nella fede in Cristo, già ora è donata «a coloro che amano Dio» (Rom. 8,28). La salvezza escatologica, nota solo a Dio e promes sa dai profeti dell'Antico Testamento, nell'evento Cristo è divenuta realtà e con la parusia sarà compiuta nella gloria. 2.2.2.
La conoscenza della sapienza divina mediante lo Spirito
(2, IO- I6) 1 0-14. Ciò che mai prima è entrato nel cuore di un uomo, mediante lo Spirito Dio l'ha rivelato a noi cristiani che accogliamo nella fede la parola della croce. Veramente, nelle considerazioni sulla conoscenza delle profondità di Dio ad opera dello Spirito (vv. IO- I 5 ) non si parla espressamente di Gesù Cristo, ma dal v. I 6, verso cui tende tutta l'ar gomentazione, risulta evidente che s'intende lo Spirito che ci è stato
1 Cor. 2, 1 0- 1 6.
La conoscenza della sapienza divina mediante lo Spirito
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donato mediante la rivelazione della sapienza di Dio nella croce di Gesù Cristo. Il nesso tra sapienza e Spirito è ben noto a Paolo dalla tradizione sapienziale giudaica (cf. Sap. 7,7). In Cristo, Dio ha svelato il suo eterno disegno salvifico e s'è mostrato «nel cuore»; lo Spirito di Dio del v. I I è identico allo Spirito di Cristo del v. I 6, che i credenti hanno ricevuto nel battesimo. Lo Spirito è il soggetto che scruta e co nosce; lo Spirito di Dio, il creatore d'ogni cosa, scruta e penetra tutto, anche le «profondità di Dio». Quest'espressione si riferisce all'inten zione salvifica ultima che Dio tiene in serbo nel suo cuore fin dall'ini zio e ha rivelato in Cristo. Il termine «profondità» (bathos) compare già nell'Antico Testamento (Dan. 2,22 LXX); nello gnosticismo del n sec. d.C. divenne il termine tipico per designare l'essenza di Dio. Nel v. I I l'apostolo descrive il processo della conoscenza in Dio mediante lo Spirito, sul modello del conoscere nell'uomo. Lo spirito umano (pneuma in senso antropologico) è il centro dell'io e l'autocoscienza, mediante cui l'uomo conosce quel che è «nel suo cuore», ossia quel che accade nel suo pensiero, nel suo sentire e nella sua volontà. Analoga mente, lo Spirito di Dio sa che cosa c'è nel profondo del cuore di Dio e conosce il suo disegno salvifico, che nessun uomo ha conosciuto fin ché Dio non l'ha svelato in Cristo. Dietro tutto ciò sta la concezione biblica secondo cui Dio può essere conosciuto soltanto nella misura in cui egli stesso si dà a conoscere (cf. Gv. I , I 8). Il v. I 2 è caratterizza to dalla gioia e dalla gratitudine perché Dio ha dato ai credenti di co noscere la sua opera salvifica in Gesù Cristo, col dono dello Spiri to santo, che ogni cristiano ha ricevuto nel battesimo (1 Cor. I 2, I J; Atti 2,3 8). Quando Paolo usa il termine «lo Spirito» senza nessuna aggiun ta, di norma intende lo Spirito di Dio e di Cristo, lo Spirito santo. Per analogia con lo «Spirito di Dio», impiega qui «pneuma» per lo «spiri to del mondo», che si oppone allo Spirito di Dio e corrisponde alla «sapienza di questo mondo» (cf. v. 6). I cristiani, che possono pensarsi come «nuove creature» (2 Cor. 5 , 1 7 ) , sanno che tali non sono divenuti per la propria forza e ragione (M. Lutero), ma per lo «Spirito che vie ne da Dio» (v. 1 2). È un impenetrabile mistero dell'operare di Dio nel l'uomo, in che modo lo Spirito di Dio permei talmente lo spirito del l'uomo che lo Spirito santo e lo spirito umano non sono più distingui bili psicologicamente. Quel «Cristo vive in me» (Gal. 2,20), che Paolo testimonia di se stesso, non è spiegabile razionalmente, ma è speri mentato nella fede. Dai frutti, comunque, si fa manifesto dove, di voi-
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1
Cor. 2.,1 0- 1 6.
La conoscenza della sapienza divina mediante lo Spirito
ta in volta, operi lo Spirito di Dio e dove lo spirito egoista d eli 'uomo (cf. Gal. 5,19-24). Mediante lo Spirito che riceve da Dio, il credente giunge a conoscere non solo la volontà salvi6.ca di Dio, ma anche la vera situazione dell'uomo davanti a Dio. Solo così l'uomo, che nella sua naturale volontà di autorealizzazione vuoi vivere con le sue pro prie risorse, conosce con gratitudine tutti i doni di grazia che Dio gli ha fatto. Nel v. 1 3 si ha il passaggio dal conoscere al parlare. Il genere e la maniera del parlare devono conformarsi all'origine di questa cono scenza. La sapienza di Dio può essere conosciuta solo mediante lo Spirito di Dio, secondo la regola che il simile conosce il simile. Di conseguenza, la rivelazione di Dio in Cristo dev'essere predicata con parole «quali lo Spirito (di Dio) insegna», non «con parole quali inse gna la sapienza umana». Ciò che Paolo riferisce della sua predicazione a Corinto (2, 1 - 5 ) è per principio applicabile a ogni predicazione cri stiana, non importa se di dotti teologi o di altri predicatori; Paolo ha predicato «non con persuasive parole di sapienza umana, ma in di mostrazione dello Spirito e della potenza». La fine del v. 1 3 può inter pretarsi in modi diversi. Il verbo greco qui adoperato (synkrinein) si gnifica «confrontare» (2 Cor. 10, 1 2) oppure, in senso ermeneutico, «significare», «intendere» (G. Dautzenberg); inoltre, il dativo pneu matikois può essere inteso come un maschile ( = per uomini spirituali) oppure come un neutro (= con cose spirituali). Ricollegandosi alle pa role insegnate dallo Spirito, taluni interpreti preferiscono considerarlo neutro. Ne risultano quindi i due significati: «Confrontare cose spiri tuali con cose spirituali ( = con precedenti rivelazioni dello Spirito), oppure «interpretare ciò che è spirituale (= rivelazioni dello Spirito) con parole che vengono dallo Spirito». Nella pericope, tuttavia, l'ac cento è posto sul fatto che le rivelazioni dello Spirito di Dio possono essere accolte solo da uomini che hanno già ricevuto lo Spirito di Dio (vv. 1 2 e 14). Perciò, a mio giudizio, il contesto depone per una lettura al maschile, nel senso: «noi (= i predicatori cristiani) esponiamo cose spirituali (= rivelazione di Dio in Cristo) a uomini spirituali» ( = i cre denti che hanno ricevuto lo Spirito di Dio nel battesimo). In questa interpretazione vengono inclusi nel processo complessivo della predi cazione del vangelo coloro che parlano, i mezzi del parlare (le parole che lo Spirito insegna loro) e gli ascoltatori della «parola della croce» che viene predicata. Coerentemente, segue subito una spiegazione del perché non tutti gli uomini accolgano l'annuncio della croce. A que-
I
Cor. 2, 1 0- 1 6.
La conoscenza della sapienza divina mediante lo Spirito
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sto scopo Paolo contrappone gli uomini che hanno mente terrena (psi chici) agli uomini spirituali (pneumatici). Per l'antropologia greca, la denominazione di «uomo psichico» in contrapposizione all' «uomo pneumatico» è affatto inusuale; per essa, infatti, anima (psyche) e spi rito (pneuma oppure nous) sono strettamente legati l'una all'altro e si contrappongono al corpo (soma) materiale e transitorio. In Paolo, tut tavia, la definizione di «psichico» per l'uomo naturale e adamitico è comprensibile in base alla traduzione greca del racconto veterotesta mentario della creazione. lvi, a proposito della creazione di Adamo, in Gen. 2,7 si dice che Dio «alitò sul suo volto il soffio della vita, e l'uo rno divenne così un'anima vivente (eis psychen zosan)», ossia un essere vivente. Sulla base di questo passo biblico, Paolo può chiamare l'uomo terreno (corpo, anima e spirito), in quanto discendente di Adamo, uo mo «psichico». In 1 Cor. 1 5 ,4 5 -49, collegandosi a Gen. 2,7, all'Adamo fatto di terra, l'uomo «terreno» (choi1eos), Paolo contrappone il Cristo innalzato, l'uomo «celeste» (epouranios) che è «Spirito (pneuma) che dà vita». In 1 Cor. 2,1 2- 1 4 si prende invece in considerazione l'uomo adamico nella sua intelligenza e disposizione alla conoscenza, e in quanto «uomo psichico» lo si distingue dall' «uomo pneumatico», il cui comportamento è interamente guidato dallo Spirito santo che viene da Dio. In Paolo, la contrapposizione tra l'uomo che ha mente terrena e quello guidato dallo Spirito è preparata teologicamente dalla contrap posizione veterotestamentaria tra Dio che è «Spirito» e l'uomo che è «carne» (/s. 3 I,J). Ciò che viene dallo Spirito di Dio può essere accol to e compreso solo da uomini che siano essi stessi ripieni dello Spirito di Dio. E quanto ha espresso in modo insuperabile Martin Lutero, nel la sua spiegazione del terzo articolo di fede. Per gli uomini che hanno mente terrena, l'evento della croce e risurrezione di Gesù Cristo è una «stoltezza» ( 1 , 1 8): un tale evento può essere giudicato solo «spiritual mente» e può essere conosciuto solo nella fede mediante lo Spirito. 1 5· «L'uomo spirituale giudica su ogni cosa». Ciò non significa che il cristiano sia perfettamente onnisciente nei vari ambiti del sapere uma no, ma che egli giudica tutto quel che gli si presenta in base alla cono scenza dell'azione salvifica di Dio in Cristo, e in base a essa orienta il suo comportamento. L'affermazione successiva, «egli stesso non è giu dicato da nessuno», letta sullo sfondo della contrapposizione tra uo mini psichici e pneumatici, viene a significare che «l'uomo spirituale non può essere giudicato in modo corretto da nessuno che non abbia
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1 Cor .2., I o- I 6. .
La conoscenza della sapienza divina mediante lo Spirito
lo Spirito». L'uomo «illuminato» dallo Spirito santo (2 Cor. 4,6) rima ne un enigma impenetrabile per l'uomo che ha mente terrena (psichi co), poiché a costui tutta la sfera e il modo d'essere dello «Spirito da Dio» (v. 1 2) sono inaccessibili. Interpretata così, il senso della frase non è di escludere che un profeta possa venir giudicato da un profeta o da un altro pneumatico (contro tale esclusione cf. I Cor. 14, 29) . Il dono della «discriminazione degli spiriti» ( I Cor. 1 2,10) riguarda pro prio le rivelazioni dello Spirito dei carismatici. Per principio, tutte le affermazioni fatte nell'assemblea liturgica devono venir esaminate dal la comunità ( I Tess. 5,1 9-22); non vi si sottraggono neppure le affer mazioni dei profeti e di coloro che hanno il dono della glossolalia. 16. Per finire, a sostegno della sua tesi che l'azione dello Spirito di Dio rimane incomprensibile all'uomo che ha mente terrena, Paolo por ta ancora una prova scritturistica, con una citazione da Is. 40, 1 3 . Qui vi, nel testo ebraico si dice: «Chi dirige lo Spirito del Signore? Chi può essere suo consigliere e istruirlo ?» Con la domanda si vuoi dire che nessun uomo può farlo. Paolo cita in forma abbreviata dai LXX, dove anziché «Spirito del Signore» si usa l'espressione «mente del Signore» (nous kyriou ), e riferisce inoltre il «Signore» della citazione a Gesù Cri sto, nella cui croce è stata rivelata la nascosta sapienza di Dio. Basan dosi sull'espressione usata nella citazione, Paolo dice «mente (nous) di Cristo» per «Spirito (pneuma) di Cristo», inteso in unità sia con lo Spi rito di Dio (Rom. 8,9 ), sia con lo Spirito santo ricevuto nel battesimo. In stile elevato, l'intera pericope parla con una tale certezza della co noscenza della sapienza di Dio, che in essa s'è potuto vedere una espressione dell'orgoglio spirituale e dell'entusiastica sicurezza di sé dei pneumatici di Corinto. In realtà, però, le affermazioni sono soste nute e permeate dalla gioia e dalla gratitudine dell'apostolo per l'even to Cristo, che cioè in Gesù Cristo Dio sia venuto presso noi uomini, donando ai credenti «la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Ge sù Cristo» (2 Cor. 4,6). Non c'è perciò contraddizione alcuna tra la conoscenza di Dio mediante lo Spirito nel tempo della fede, di cui si parla qui, e I Cor. I J,8- I J, secondo cui la nostra conoscenza, finché viviamo in questo mondo, rimane imperfetta; nello stesso passo, alla conoscenza presente (indiretta e frammentaria) si contrappone la co noscenza perfetta e il «vedere faccia a faccia» (v. 1 2) del compimento escatologico.
2.3. Il compito del predicatore (3, 1 - 1 7) 2.3.1. Immaturità dei corinti (3, 1 -4) 1 E io, fratelli, non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma solo come a uomini di carne, come a fanciulli minorenni in Cristo. 2 Vi ho dato latte da bere, non cibo solido, giacché non eravate ancora in grado di tollerarlo. Nemmeno ora lo siete; 3 infatti siete ancora carnali. Infatti, dal momento che tra voi regnano invidia e discordia, non siete forse carnali e non vivete al modo dell'uomo ? 4 Quando infatti uno dice: «lo sono di Paolo», e un altro: «lo di Apollo», non siete allora uomini (carnali)?
1 Ebr.
s , I 2- 1 4;
l
Pt. 2,1. 4 1 ,1 2.
Il vocativo «fratelli» segna l'inizio di una nuova sezione. Paolo ora affronta l'atteggiamento di rivalità connesso al disordine dei gruppi e gli contrappone, a mo' di critica positiva, il vero compito del predica tore in quanto ministro di Dio. Parlando in prima persona, si rifà alla sua predicazione a Corinto ( 2,1 - 5) e comincia spiegando perché non poté trattare i corinti da «uomini spirituali» (pneumatici), ma solo da uomini «carnali». Al suo arrivo, erano ancora dei principianti nella fe de, e col loro attuale conflitto tra gruppi, anziché diventare adulti in Cristo, mostrano di essere ricaduti in una mentalità che non tiene conto della loro incorporazione nel corpo di Cristo, ed è invece con forme al comportamento egoista dell'uomo naturale. L'apostolo qui parla in atteggiamento pedagogico da pastore della comunità. No n rin nega quanto ha detto all'inizio della lettera sulla ricchezza dei corinti i n materia di doni dello Spirito, ma rivela loro la distanza che c'è tra il loro compito di vivere da «nuove creature» e il loro effettivo compor tamento attuale, dominato da invidia e rivalità. Così facendo, Paolo si ripromette di ricondurre i corinti a un comportamento che si addica a cristiani battezzati, che hanno ricevuto il dono dello Spirito santo. 1-4. Una comunità spiritualmente viva non nasce dall'oggi al doma ni, ma ha bisogno di un certo tempo per crescere; Paolo concede per i corinti una simile fase per la loro formazione iniziale e per la crescita ulteriore. Paragona i principianti nella fede a fanciulli minorenni in Cristo; costoro lottano ancora per deporre le antiche abitudini e, es sendo agli inizi, non hanno ancora molta esperienza di vita comunita ria. Come nella crescita organica naturale, anche nella vita spirituale si è in grado di tollerare e di sfruttare solo da un nutrimento adeguato allo stadio di sviluppo che s'è raggiunto. Paolo si serve qui delle imma-
72.
1 Cor.
3,5-9. I predicatori in quanto ministri e collaboratori di Dio
gini correnti nella filosofia popolare greca, quella del latte dei poppan ti per i principianti, e del cibo solido degli adulti per i progrediti e ma turi (cf. Ebr. 5 , I 2- 14); non precisa però i singoli gradi dello sviluppo, ma richiama solo la contrapposizione tra immaturità e maturità; alla fase iniziale della minore età del bambino deve seguire il tempo della maggiore età, della maturità. A questo punto l'affermazione dell'apo stolo assume il tono di un rimprovero per i corinti: «Voi siete ancora carnali! ». Nei vv . 1 e 3 gli aggettivi «carneo» (sarkinos = fatto di carne) e «carnale» (sarkikos = del genere della carne) sono adoperati indiffe rentemente per indicare il comportamento dell'uomo naturale ed egoi sta. Nelle dispute causate dai giudizi sui missionari i corinti rivelano di essere ricaduti in un siffatto atteggiamento «umano, troppo uma no». Nel v. 4 Paolo allude di nuovo concretamente alle parole d'ordi ne dei partiti: «Quando uno dice: .:Io sono di Paolo', e l'altro: 'Io di Apollo', non vi comportate come l"uomo vecchio', non animato dallo Spirito di Dio» (cf. Rom. 8, 1 7)? Paolo considera qui solo i gruppi di Paolo e di Apollo, perché nel seguito intende mostrare quale sia il corretto rapporto tra i predicatori del vangelo e la comunità, prenden do a esempio il proprio comportamento e quello del suo successore a Corinto, Apollo. 2.3.2. . I predicatori in quanto ministri e collaboratori di Dio (3, 5 -9) 5 Ma che cos'è Apollo? E che cosa Paolo? Servi tori essi sono, attraverso i quali siete divenuti credenti, e ciascuno secondo quel che il Signore gli ha dato. 6 Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma Dio ha fatto crescere. 7 Ora, né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere. 8 Chi pianta e chi irriga sono una cosa sola, ma ciascuno riceverà la p rop ria mer cede secondo il proprio lavoro. 9 Noi siamo infatti collaboratori di Dio; voi siete podere di Dio, edificio di Dio .
s
4,1 . 6 Is. s,I ss.; 6I ,J. 9 Ger. I,Io; 24,6; Mt. I J,J-9·
Il formarsi dei gruppi a Corinto non è condannabile solo perché di sgrega la comunità, ma anche perché falsa la posizione che per prin cipio il predicatore dell'annuncio di Cristo ha davanti a Dio e alla co munità. I predicatori non sono signori, ma servitori ( 1 Cor. 4, I ; 2 Cor. I ,24). È questo un concetto fondamentale di Paolo nel suo contrasto con i corinti, i quali, con la loro aspirazione alla sapienza e col loro orgoglio spirituale, corrono il pericolo di lasciare che la comunità sia
1
Cor.
3 , 5 -9.
I predicatori in quanto
ministri e collaboratori di Dio
73
dominata da singoli uomini spirituali fuori dell�ordinario. I predica tori attendono all'opera del Signore per incarico di Dio; lavorano non con doni propri ma ricevuti, e nel loro operare formano un'unità. È quindi assurdo e contrario al senso del loro mandato mettere l�uno contro l'altro, come capi di gruppi, singoli missionari. Con la corretta valutazione del predicatore e dell'uomo spirituale straordinario, Paolo difende a un tempo la libertà della comunità. s-9· Il chiasmo creato dall'anteposizione di Apollo e le domande re toriche tradiscono l'influsso dello stile della diatriba. Paolo esemplifi ca su Apollo e su se stesso ciò che di principio vale per ogni predica tore del vangelo. Sono ministri di Dio, mediante i quali gli uomini han no la possibilità di giungere alla fede in Cristo, e può essere edificata la comunità. Ciò avviene per mezzo del «ministero della riconciliazio ne» istituito da Dio, che ha la funzione di predicare la definitiva azio ne riconciliatrice di Dio nella croce di Cristo (2 Cor. 5 , 1 7-2 1). Poiché l'opera salvifica di Dio e di Cristo sull'uomo costituisce un'unità, gli inviati di Gesù Cristo sono anche ministri di Dio. L'unità dei ministri nella loro comune dipendenza, per l'attuazione del loro servizio, dal l'operare dello Spirito e dalla potenza di Dio non significa però uni formità. Ogni predicatore, insieme col dono particolare che il Signore gli ha conferito, ha ricevuto anche un compito particolare. Ciò che vale per tutti i membri del corpo di Cristo (cf. 1 Cor. 1 2) vale senz'al tro per il rapporto reciproco dei predicatori e dei ministri spirituali, apostoli, profeti o maestri. L'apostolo descrive la sua funzione di fon datore della comunità e la prosecuzione della sua opera da parte del suo successore Apollo con le immagini, di provenienza veterotesta mentaria, del piantare e curare una coltivazione (/s. 5 , 1 -7; «piantagio ne del Signore», /s. 61 ,3). Piantare e irrigare sono bensì attività diffe renti, ma ambedue necessarie. Con queste immagini, Paolo riconosce pienamente, nel diverso compito di Apollo, un servizio autonomo e ne cessario nel lavoro di edificazione della comunità. Per quanto impor tanti possano essere le attività umane, l'azione decisiva viene da Dio che dà alla pianta di crescere e prosperare. Non sono i predicatori i veri protagonisti nell'edificazione della comunità, dal momento che, anche con tutte le tecniche del mondo, non sono in grado di suscitare metodicamente la fede negli ascoltatori; essi sono solo strumenti di Dio il quale, con l'opera del suo Spirito, fa nascere e crescere nella co munità fede, amore e speranza. Colui che pianta e colui che irriga non
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1 Cor. 3 , 5 -9· I
predicatori in quanto ministri e collaboratori di Dio
svolgono, è vero, lo stesso compito, ma sono una sola cosa in questo: ambedue dipendono dali'operare di Dio e sono occupati nella stessa opera di Dio. Gesù aveva separato l'idea del compenso dalla commi stione con l'idea di prestazione e del diritto corrispondente, facendone l'espressione della sovrana grazia donatrice di Dio; analogamente an che Paolo mantiene il motivo del compenso, non inteso come paga mento di prestazioni umane, ma come libero dono della grazia di Dio. Ogni predicatore riceverà la sua mercede, in base al proprio lavoro mis sionario con i suoi compiti particolari. Davanti a Dio non va perduto nemmeno il minimo servizio compiuto nel suo nome. Paolo considera suo «vanto» (2 Cor. 1,14), suo compenso di grazia (I Cor. 9, 1 6 ss.) e sua gioia (I Tess. 2, 19) poter superare la prova del giudizio finale da vanti al Signore insieme con le comunità da lui fondate. In quanto strumento dell'operare di Dio, i predicatori dipendono interamente da Dio; lo stesso vale anche per la comunità in quanto opera di Dio. Il genitivo «di Dio», collocato nell'enfatica posizione incipitaria, mostra l'intendimento di tutta la frase: Dio opera tutto in tutti. Ma, nel far ciò, opera attraverso degli uomini. Considera degni di collaborare alla sua opera salvifica, in qualità di suoi ministri, uomini deboli e fallibili. I predicatori sono «collaboratori di Dio» soprattutto allorché si pon gono interamente al servizio di Dio, rinunciando a ogni umano glo riarsi. Il termine greco per «collaboratori» (synergoi) linguisticamente potrebbe anche intendersi come denotante la comunione dei predica tori tra loro. Nei vv . 5-8 sta tuttavia in primo piano la dipendenza del l'operare umano da Dio, sulla quale a sua volta si fonda la comunione tra i ministri. Intesa nel senso paolino, la definizione «collaboratore di Dio» significa il contrario del sinergismo, di quella concezione, cioè, secondo la quale, nel conseguimento della salvezza, l'uomo operereb be insieme a Dio con le sue opere religiose e morali. La definizione «collaboratore di Dio» dev'essere intesa come espressione appropriata della dottrina paolina della giustificazione e dei carismi. La comunità è opera di Dio che dà la fede e i doni mediante i quali nasce e cresce la comunità. L'immagine del podere di Dio, della piantagione del Signo re, viene completata con quella dell'edificio, che si connette strettamen te col tempio, casa di Dio. Già in Ger. 1 , 1 o; 24,6 il piantare e l'edifica re sono accostati e riferiti al popolo di Dio. Anche la setta di Qumran concepisce se stessa come «piantagione eterna» e come «una dimora santa p er Israele» ( 1 QS 8,5). L'immagine dell'edificio fu in seguito am-
1 Cor. 3, Io-1 f·
La responsabilità del predicatore nel giudizio finale
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piamente impiegata soprattutto nella gnosi. I l termine greco usato nel v. 9 (oikodome) può indicare sia l'attività dell'edificare (l'edificazione, ad es. I Cor. I4,5), sia anche il suo risultato (l'edificio, come in questo caso). Nel passo qui in esame, Paolo applica l'immagine dell'edificio alla comunità nel suo insieme, ma talvolta la applica ai corinti cui si ri volge ( 1 Cor. J , I 6), oppure indica con essa il corpo del singolo cristia no, in quanto tempio dello Spirito santo (6, I 2) . 1- 3 · 3 ·
La responsabilità del predicatore nel giudizio finale {J, I O- I 5)
I o Secondo la grazia di Dio che mi è stata conferita, come un sapiente ar chitetto ho gettato il fondamento; un altro poi vi costruirà sopra. Ma cia scuno badi a come vi costruisce sopra. 1 I Nessuno infatti può porre un fondamento diverso da quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo. I 2 E se sopra questo fondamento qualcuno costruisce con oro, argento, pietre pre ziose, (o) legno, fieno, paglia, I 3 l'opera di ciascuno sarà resa manifesta; la svelerà infatti il giorno (del giudizio), allorché si manifesterà col fuoco. E il fuoco mostrerà (avendola saggiata) come l'opera di ciascuno sia stata co struita. I4 Se l'opera che uno ha costruito sopra resisterà, costui riceverà la mercede. I s Ma se l'opera di qualcuno brucerà, egli patirà danno (oppure: sarà punito); egli stesso però sarà salvo, ma come attraverso il fuoco. 10 Is. 3,3 LXX. I I Ef. 1,1o; 1 Pt. 1,4-6. IJ /s. 66,1 5 s.; Mal. 3,I9. I S Am. 4,1 1 .
10-1 5. In questa pericope, partendo dalla sua opera di fondatore del la comunità di Corinto, e da quella di Apollo quale missionario che ha continuato il suo lavoro, Paolo prende in concreta considerazione i co struttori che edificano sopra il fondamento. Le affermazioni dell'apo stolo sono, nella sostanza, applicabili a tutti coloro che predicano il vangelo. L'esposizione è complicata dal fatto che quella dell'edificio ri mane l'immagine determinante, ma a partire da questo motivo princi pale vengono fatti emergere aspetti collaterali di volta in volta diversi, che portano, nel corso dell'esposizione, a degli slittamenti dell'imma gine principale. Nel materiale figurativo di questa pericope sono con fluite due correnti della tradizione: da un lato, l'immagine veterotesta mentaria della casa di Dio (Giud. I 8,3 I , ecc.) e quella dell'edificio, dif fusa nel giudaismo per indicare la comunità di Dio (CD J,I9), dall'al tro i topoi, consueti nella filosofia stoica, del fondamento, a indicare il gettare le basi attraverso l'insegnamento elementare, e dell'ulteriore co struzione per indicare il perfezionamento della formazione spirituale.
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1 Cor.
}, IO- I S.
La responsabilità del predicatore nel giudizio finale
Questi diversi motivi dell'immagine dell'edificio sono dominati dalla concezione biblica per cui Dio metterà in atto il giudizio finale me diante il fuoco (/s. 66,1 5 ). L'obiettivo teologico è che il predicatore ri sponderà del suo lavoro missionario nel giudizio escatologico. L'an nuncio della riconciliazione non esclude il giudizio, poiché il dono dello Spirito non sopprime la responsabilità dell'uomo, ma fonda anzi la responsabilità dell'uomo liberato dalla schiavitù di peccato, legge e morte. 1 0- 1 5· Dall'edificio Paolo passa all'edificatore. Spesso egli chiama la sua funzione di apostolo «la grazia di Dio che mi è stata conferita» (Rom. 1 2,3; 1 5,1 5; Gal. 2,9; cf. Ef 3 ,7); vi traspare il ringraziamento dell'ex persecutore per la chiamata ricevuta e, insieme, la consapevo lezza dell'elezione di grazia da parte di Dio. Con un'espressione di /s. 3,3 presa dai LXX, Paolo afferma di aver posto le fondamenta da «ar chitetto esperto», cioè di aver eseguito la fondazione della comunità di Corinto in modo irreprensibile. Non è vanteria per la propria uma na sapienza, ma una testimonianza dell'apostolo di essere stato fedele al compito ricevuto da Dio. Insieme con i muri di fondazione, sono stati tracciati anche perimetro e sagoma dell'edificio; c'è però ancora spazio per la scelta dei materiali con cui realizzarlo. Di essa sono re sponsabili i costruttori che dirigono il seguito dell'opera. Paolo ha fondato la comunità sull'annuncio del crocifisso; il Signore Gesù Cri sto crocifisso e innalzato è fondamento, centro e scopo della comuni tà. Là dove il fondamento è già stato posto, non se ne può porre un al tro. In quanto testimoni della risurrezione di Gesù Cristo, gli apostoli stanno al principio della predicazione del vangelo; tutti i predicatori successivi dipendono dalla predicazione dei primi testimoni, che sta a fondamento della chiesa. Ciò significa che ogni predicazione della chie sa è, per essenza, interpretazione che attualizza la testimonianza apo stolica e, insieme, fonda il carattere normativo della sacra Scrittura nei confronti della tradizione ecclesiastica. L'affermazione che Gesù Cri sto è il fondamento della chiesa viene sviluppata ulteriormente in Ef 2,2o; qui si dice che la chiesa è edificata «sul fondamento degli aposto li e dei profeti, laddove Gesù Cristo è la pietra angolare». In età suba postolica la formula di Ef 2,20 tiene conto del fatto che, per la chiesa successiva, l'annuncio di Cristo è mediato dalla testimonianza degli apostoli e dei profeti (cristiani; cf. anche Ef 4, 1 1 , dove vengono ag giunti anche evangelisti, pastori e maestri). Il v. 1 1 contiene di fatto
1 Cor. J , I O- I J .
La responsabilità del predicatore nel giudizio finale
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una messa in guardia dell'apostolo nei confronti di ogni tipo di predi cazione che alteri il vangelo di Gesù Cristo. È però da chiedersi se il versetto sia in polemica diretta col partito di Cefa. Se a Corinto i par tigiani di Pietro avessero preteso che tutte le comunità riconoscessero in Pietro la roccia su cui poggia la chiesa (Mt. I 6, 1 8}, si dovrebbe in realtà supporre che il conflitto tra i gruppi fosse stato provocato da tale pretesa; a mio giudizio, però, il carattere non polemico del testo si oppone a tale interpretazione. Il concetto della successiva edificazione sposta l'attenzione dalle fondamenta ai materiali da costruzione che vengono usati per l'opera. Paolo elenca materiali da costruzione in due serie di tre elementi ciascuna, articolate in base al criterio della prezio sità e della resistenza. L'elenco inizia col materiale più costoso e dure vole (oro) e termina con quello più povero e facilmente infiammabile (paglia}. Se si pensasse a degli edifici reali, la prima serie dovrebbe ri ferirsi a un palazzo costruito con blocchi di marmo prezioso, ricca mente decorato con oro e argento, e i materiali della seconda serie a una povera casa di legno, o addirittura a una capanna, di quelle che si costruivano per la festa giudaica dei tabernacoli. La situazione escato logica fa invece pensare piuttosto alla letteratura apocalittica, dove la gloria della signoria di Dio pienamente attuata viene raffigurata con oro, argento e pietre preziose (cf. Apoc. 2 1 ) . È veri simile che in gene rale Paolo non avesse in mente nessun edificio determinato, ma voles se solo contrapporre l'una all'altra la maniera migliore di costruire, la più costosa e la più solida possibile, a una scadente, povera e instabile. Comunque poi s'interpretino i materiali, il contesto chiarisce l'idea fondamentale: l'apostolo intende distinguere un'opera missionaria in grado di superare la prova del giudizio escatologico, da un lavoro per la comunità che vi venga invece condannato per aver falsato il vange lo. Le immagini dei materiali da costruzione non vanno forzate con un'interpretazione che le riferisca concretamente a certi uomini in par ticolare o a certe concezioni teologiche. Poiché l'uomo non è in grado di vedere nei cuori, l'ultima parola sul valore o disvalore dell'efficacia missionaria del predicatore spetta solo al Signore ( 1 Cor. 4,4 s.). La vi sione paolina del giudizio escatologico si accorda con i tratti fonda mentali sviluppatisi nella predicazione profetica e nell'attesa escatolo gica dell'Antico Testamento, ribaditi poi anche nella predicazione di Gesù; Gesù e Paolo non hanno però ripreso le peculiarità delle ulte riori elaborazioni che la raffigurazione del giudizio ha avuto nell' apo-
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1 Cor. 3,1 o- 1 5. La
responsabilità del predicatore nel giudizio finale
calittica giudaica. Un passo fondamentale sul compiersi del giudizio finale attraverso il fuoco è /s. 66, 1 5 s.: «Perché, ecco che Jahvé viene nel fuoco e i suoi carri sono come l'uragano, per saziare la sua collera con ardore e la sua minaccia con fiamme di fuoco. Perché con il fuoco Jahvé si fa giudice, con la spada, su ogni carne; numerose saranno le vittime di jahvé» (tr. Bible de jérusalem; cf. inoltre Mal. J,I9; Mt. J, 1 0; I 3,40; 2 Tess. I ,8). L'antica visione profetica del «giorno di Jahvé» (Am. 5 , 1 8) s'è combinata con l'affermazione sul giudizio di Jahvé col fuoco. Si spiega così la costruzione della frase greca del v. I 3 a, che è passibile di varie interpretazioni: «l'opera di ciascuno sarà resa mani festa; la manifesterà infatti il giorno (del giudizio), poiché esso (il gior no di Jahvé) si manifesterà col fuoco». A quest'affermazione generale sul giungere del giorno del giudizio, segue nel v. 1 3 b una specifica de scrizione della prova che saggia le opere di ciascuno col fuoco; in pro posito, il pensiero s'ispira al motivo della prova escatologica del fuo co, relativamente raro nell'Antico Testamento. Il modo di dire pro verbiale sui metalli nobili che vengono saggiati col fuoco è corrente sia nella letteratura sapienziale giudaica, sia nel mondo greco e roma no. Nella Bibbia viene usato per lo più a proposito di Dio che prova i cuori in situazioni storiche; v. ad esempio Prov. I 7, 3 : «Come il cro giolo saggia l'argento e il forno l'oro, così Dio prova i cuori»; l'autore di I Pt. riferisce quest'affermazione biblica alla prova di sé che i cri stiani danno nelle sofferenze del mondo (I ,7; cf. 4, 1 2). In Mal. 3,2 s. quest'idea viene trasposta sulla prova del giudizio escatologico: «esso (il giorno di Jahvé) è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei follatori. Egli (Dio) allora siederà per fondere e purgare, purificherà i figli di Levi e li affinerà come oro e argento, affinché offrano di nuovo sacrifici a Jahvé secondo giustizia». In I Cor. J,I J, però, non si tratta di purificare delle persone in vista di loro ulteriori servizi, ma di esa minare il valore ultimo delle opere compiute; gli scadenti materiali da costruzione che bruciano raffigurano l'inconsistenza dell'opera per la salvazione delle persone. La concezione del giudizio di Dio mediante il fuoco, ben presente nell'escatologia persiana, non si trova in questa veste nell'Antico Testamento. Secondo le attese più tarde della reli gione persiana, nel giudizio tutti gli uomini dovranno passare attra verso un fiume di metallo incandescente che brucia gli empi, mentre è come latte tiepido per i giusti. La concezione biblica del giudizio fina le si concentra su «la rivelazione del giusto giudizio di Dio, che darà a
I Cor.
J,Io-I S·
La responsabilità del predicatore nel giudizio finale
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ciascuno secondo le sue opere» (Rom. 2, 5 s.). Nel vaglio delle opere di 1 Cor. 3 , 1 3 , a Paolo interessano l'incorruttibilità e l'irrevocabilità del giudizio divino. I vv. 1 4 e 1 5 descrivono le conseguenze della prova escatologica del fuoco. Il buon costruttore, la cui opera ha superato la prova, riceverà la ricompensa. Viene così ripreso il motivo della mer cede del v. 8. Il cattivo costruttore, la cui opera non ha retto alla pro va, dovrà sopportare un danno (perdita, discapito), oppure, secondo un altro significato del termine, invece della mercede riceverà una pu nizione (così A. Stumpff, GLNT 111, I 52 3). Paolo qui non dice in che consista il danno o la punizione del cattivo costruttore. È possibile che si pensi alla vergogna del missionario che, dopo la perdita della sua opera, si trova davanti a Dio senza frutto, contrapposta alla gloria che per l'apostolo rappresentano le sue comunità rimaste fedeli fino al giudizio finale (cf. Fil. 2, 1 6). La chiusa del versetto chiarisce come la persona del predicatore in questione non sarà vittima del fuoco an nientatore, ma sarà salvata, sia pure non senza angoscia e pericolo, ma solo «come attraverso il fuoco». Queste parole alludono senz'altro al l'espressione veterotestamentaria «come un tizzone sottratto all'in cendio» (Am. 4, 1 I; Zacc. 3 ,2), per dire che solo «a stento» Dio lo sal va. Non c'è qui l'idea di una purificazione attraverso il fuoco in un lungo processo («purgatorio»); tale concezione s'è introdotta nell'in terpretazione di questo passo solo con Clemente Alessandrino e Ori gene. Poiché in questa pericope espressione figurata e non figurata non si corrispondono sempre perfettamente, non è possibile interpre tare concretamente i singoli elementi della frase. Con l' «opera» che è stata rigettata, non s'intendono le persone conquistate alla fede dal predicatore, ma l'insieme del suo lavoro missionario. La ricompensa o la riprovazione da parte di Dio dell'opera missionaria non sopprime la fondamentale decisione per salvezza o perdizione, che si compie nell'accoglimento o nel rifiuto dell'azione riconciliatrice di Dio nella croce di Gesù Cristo. Con le immagini del passaggio attraverso il giu dizio escatologico, Paolo non intende annullare il suo annuncio della giustificazione con una dottrina della remunerazione, ma vuole far capire ai predicatori che alla fine dovranno rispondere davanti a Dio e a Cristo del loro lavoro nella comunità, come farà ogni cristiano per il suo comportamento in questa vita terrena (2 Cor. 5, I o) . Il Dio ope rante in giudizio e grazia con la giustificazione dona ai credenti il per dono dei peccati in nome di Cristo e li rende responsabili della nuova
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1
Cor. J,I6- I 7. La comunità, tempio di Dio
vita; ciò non esclude che il Signore giudichi in forma definitiva del ve ro valore dell'operare umano nel giudizio finale. 2·3 ·4·
La comunità, tempio di Dio (J, I 6- I 7)
Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi ? Se uno distrugge (annienta) il tempio di Dio, Dio lo distruggerà (annien terà); poiché è santo il tempio di Dio, che siete voi. 16
17
1' 6, 19; .z
Cor. 6, 16. 1 7 SaL 79,1 .
L'attenzione dell'apostolo si sposta ora dai missionari alla co munità nel suo complesso. Paolo ricorda ai corinti la loro nuova con dizione davanti a Dio quali membra del corpo di Cristo. L'immagine dell'edificio diventa quella del tempio in cui Dio dimora. Paolo ha cer tamente preso già dalla chiesa giudeocristiana l'espressione «tempio di Dio» per designare la comunità; l'espressione era corrente anche nella setta giudaica di Qumran ( 1 QS 8,8 s.). Dietro sta l'idea veterotesta mentaria della dimora di Dio come espressione della sua presenza nel suo popolo, inizialmente nel tabernacolo, la «tenda dell'incontro», poi nel tempio sul monte Sion; infine il Deuteronomista, ben attento alla trascendenza di Dio, parla più precisamente del nome di Dio che di mora nel tempio. Quest'idea veterotestamentaria è stata più tardi tra sposta alla fine dei tempi e spiritualizzata. La comunità cristiana pri mitiva ha pensato se stessa come il popolo di Dio escatologico, cui Dio ha dato lo Spirito come caparra dell'atteso compimento universa le; essa ha visto realizzata in se stessa la promessa del tempio della fine dei tempi (Mc. 1 4, 5 8), non costruito da mano d'uomo ma dal figlio, nel quale Dio ha preso dimora tra gli uomini. Mentre, per la concezio ne stoica, Dio è presente nei singoli uomini mediante il logos (ragio ne), sulla base della tradizione veterotestamentaria Paolo parla del di morare dello Spirito di Dio nella comunità. La comunità è opera e pro prietà di Dio; perciò chi distrugge la comunità colpisce Dio stesso (cf. Sal. 79, 1 ). Oltre al pericolo dei cattivi costruttori che continuano male il lavoro sul fondamento già posto, c'è evidentemente anche il rischio che venga intaccato il fondamento stesso, ossia Gesù Cristo, col risul tato di guastare e annientare la comunità nella sua stessa essenza. Pao lo qui non fa nomi, ma mette insistentemente in guardia la comunità dalle infauste conseguenze del conflitto tra i gruppi e dell'orgoglio spi rituale. L'avvertimento è da lui formulato nello stile di una cosiddetta 1 6- 1 7.
1 Cor.
J,I 8-.2J. Critica della falsa sapienza e della vanteria
8I
norma del diritto divino escatologico, secondo cui, nel futuro giudizio finale, Dio annienterà chi ora, nel tempo della storia, distrugge la co munità di Dio, santa perché appartenente a Dio. Si esprime in queste frasi la fede del cristianesimo primitivo, per la quale gli uomini non devono anticipare il definitivo giudizio di Dio (Mt. 7, 1 - 5), il quale farà valere con forza il suo diritto su tutti i suoi nemici nel giudizio finale. E. Kasemann ha avanzato la supposizione che tali «proposizioni del diritto sacro» fossero enunciate nella comunità da profeti, e che quin di assumessero il valore d'una maledizione. Con la frase conclusiva, «è santo il tempio di Dio, che siete voi», Paolo vuole chiarire ai corinti che, nel giudizio escatologico, non soltanto i predicatori dovranno render conto del loro operato, ma che anche l'intera comunità è responsabile perché la sua unità non venga distrutta da divisioni e conflitti. 1.4.
Critica della falsa sapienza e della vanteria (J, I 8-2J)
18 Nessuno illuda se stesso. Se uno pensa di essere sapiente tra voi in que sto mondo, si faccia stolto per diventare (realmente) sapiente. 19 Poiché la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio. Sta scritto, infatti : «Co lui che coglie i sapienti nella loro scaltrezza», .20 e ancora: «il Signore co nosce che i pensieri dei sapienti sono vani». 21 Perciò nessuno si glori d'un uomo; giacché tutto è vostro: 22 sia Paolo sia Apollo sia Cefa, sia mondo sia vita sia morte, sia presente sia futuro, tutto è vostro, 2.3 e voi siete di Cristo e Cristo è di Dio. 1 9 Giob. 5 , 1 J . 2.0 Sal. 94,1 1 .2.2 1 , 1 2.; Rom. 8,38. .
La trattazione teologica sul corretto rapporto tra predicatori e co munità si conclude con un breve ma pressante ammonimento contro l'umana vanteria. Col tema di sapienza e stoltezza Paolo ritorna così al suo punto di partenza e, con una conclusione che corona la sua trattazione, contrappone al culto tributato dai corinti a persone, la ve ra libertà della comunità in virtù della sua appartenenza a Cristo. 1 8-13. Paolo sa con quanta facilità gli uomini illudano se stessi. Tale pericolo è particolarmente grave per chi pensa di essere in possesso della sapienza. Paolo vede evidentemente il pericolo dell'autoillusione anche nell'aspirazione dei corinti alla sapienza, aspirazione che ha por tato alla venerazione esclusiva di singoli apostoli e missionari. Non c'è qui solo la percezione, nel senso socratico, della fallibilità di ogni sa pere umano, ma il contrasto tra la sapienza di Dio e quella di questo
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1
Cor.
J,I 8-zJ. Critica della falsa sapienza e della vanteria
mondo. Chi pensa di sapere qualcosa secondo i criteri della sapienza mondana deve prendere coscienza della superficialità e fragilità di tali criteri rispetto alla verità di Dio. Con tale esortazione l'apostolo non vuole, ovviamente, fornire un pretesto all'idea che i cristiani debbano astenersi dalla fatica del pensiero e del lavoro spirituale. La sapienza di Dio rivelata in Cristo può essere conquistata solo con l'accettazio ne nella fede della «stolta» parola della croce. In tal modo l'uomo di venta realmente sapiente, in quanto rispetta i limiti di ogni sapere uma no e in Cristo si unisce a Dio, che è la sorgente della sapienza. Il v. I 9 è una breve ricapitolazione di quanto detto in I , I 8-2 5 e costituisce propriamente la premessa per la critica dell'umana vanteria. A soste gno della sua tesi che la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio, conformemente al suo consueto modo di argomentare, Paolo adduce qui due testimonianze scritturistiche. La prima citazione, trat ta da Giob. s , I J, dice che Dio «coglie i sapienti nella loro astuzia». Scostandosi dai LXX e servendosi forse di un'altra traduzione, Paolo usa qui un verbo molto concreto, che corrisponde all'incirca all'espres sione «acciuffare qualcuno». Dio è così superiore agli uomini, che co loro che nella loro presunta sapienza si ribellano a lui è come si fosse ro introdotti da sé nella trappola che li «agguanta». Nella seconda ci tazione, tratta da Sal. 94, I I, anziché «i pensieri degli uomini», nello sviluppo del testo l'apostolo pone «i pensieri dei sapienti». Con que ste parole nella sacra Scrittura Dio stesso ha testimoniato che la sa pienza di questo mondo non regge davanti a lui. Nel v. 2 I Paolo ne trae la conseguenza. La lettera della frase greca può essere interpretata in due modi: o «nessuno si glori davanti al foro degli uomini», oppure «nessuno meni gran vanto (= si vanti) di uomini». Quest'ultima inter pretazione si adatta meglio al contesto dell'orgogliosa esaltazione di capi di gruppi. Nella sostanza, però, non c'è gran differenza, poiché tanto il gloriarsi che deriva dalla propria presunta sapienza, quanto l'esaltazione di altri uomini, sono contrari al principio che la gloria conviene solo al Signore. La lotta contro l'esaltazione di uomini e il culto di persone è insieme una lotta per la libertà della comunità. Nel v. 22 Paolo passa alla sua presa di posizione conclusiva, nella quale fa intervenire ancora una volta le parole d'ordine dei gruppi, giudican dole alla luce della libertà della fede. Non solo un gruppo scelto, ma tutti i cristiani appartengono a Gesù Cristo, che Dio ha innalzato a Signore su tutte le potenze (Fil. 2,9 ss. ). La libertà dei credenti da tutte
1
Cor.
J,I8-2J. Critica della falsa sapienza e della vanteria
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le potenze e minacce di questo mondo si fonda sull'unione con questo Signore. Perciò, senza restrizioni, si può dire: «tutto è vostro)). É veri simile che qui Paolo faccia propria una massima della filosofia stoica, secondo cui il sapiente è re e signore di tutte le cose; Paolo, però, riempie di un contenuto nuovo questo principio della fede nel Cristo crocifisso e innalzato. Il sapiente stoico raggiunge la sua imperturba bilità di fronte alle potenze del mondo ritirandosi volontariamente dentro di sé, dal momento che in definitiva nulla di quanto tocca la ragione dall'esterno la riguarda. L'apostolo fonda, invece, la libertà dei credenti, non in loro stessi, intelletto, volontà o sentimento che sia, ma nell'unione col loro Signore, cui è dato ogni potere in cielo e in terra. Questo Signore è egli stesso passato attraverso sofferenza e contrarietà e, col dono della sua vita, ha reso possibile la comunione dei credenti con Dio. Dio ha detto di sì a questa sua via di amore che serve, s'è identificato col crocifisso e l'ha innalzato sopra ogni poten za celeste, terrena e infera. La massima stoica non viene limitata nella sua estensione, ma motivata in modo affatto diverso. Il credente non è sottratto alla legge di presente e futuro, vita e morte, ma, mediante il perdono dei suoi peccati, è liberato dal suo passato e ha in Cristo una speranza che nemmeno la morte potrà più distruggere. In questa li bertà della fede non c'è posto nella comunità per il culto di singole persone. La comunità di Corinto non è di proprietà di nessuno dei predicatori che hanno operato in essa; costoro sono semmai ministri e collaboratori di Dio che con i loro doni servono la comunità. L'unio ne con Cristo non definisce soltanto il rapporto del predicatore con la comunità, ma anche la fondamentale posizione del cristiano nei con fronti di questo mondo perituro e dei suoi ordinamenti. I cristiani continuano a vivere, in qualità di credenti, nel «vecchio» mondo, ma non sono più dominati dalle potenze del peccato e della morte; non si ritirano in se stessi, ma dal loro Signore, che ha dato la vita per gli uo mini, sono liberati e chiamati a servire il mondo e gli uomini. I cre denti appartengono a un Signore che ha vinto il mondo (cf. Gv. 1 6,3 3); nella comunione con questo Signore parteciperanno al giudizio sul mondo ( 1 Cor. 6,2). - La chiusa dei capp. 1 -3 contiene, in forma bre ve, la stessa esaltazione della libertà della fede in Cristo, celebrata da Paolo nell'inno di Rom. 8,3 8 s.
3·
Paolo e la comunità di Corinto (4,1-2. 1 )
Nel capitolo 3 l'apostolo ha svolto i l tema dei criteri i n base ai quali i predicatori del vangelo dovranno venire giudicati come ministri e collaboratori di Dio. Nel capitolo che segue, applica questi criteri a se stesso (4, 1 -5) e alla comunità di Corinto (4,6- I J). Infine testimonia ai corinti il suo amore di padre della comunità (4, 1 4-2 1). ].I.
Nessuno giudichi Paolo anzitempo (4, 1 -5)
1 Così ci si deve considerare: come servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. 2 Ora, dagli amministratori si vuole solo che li si trovi fe deli. 3 A me poco importa di venire giudicato da voi o da un (altro) giorno di giudizio; anzi, neppure mi giudico da me stesso. 4 Giacché io non ho coscienza di colpa alcuna, ma non per questo sono (già) giustificato; è piut tosto il Signore che emette il giudizio su di me. 5 Dunque non giudicate nulla prima del tempo, finché non venga il Signore: egli illuminerà ciò che sta nascosto nelle tenebre e rivelerà i propositi dei cuori. E allora ciascuno avrà da Dio la sua lode. I J,J. 3 9,3 . f Mt. 7,1 .
Paolo comincia parlando dei predicatori del vangelo col plurale «noi», ma il v. 3 mostra che quello cui pensa è l'adeguata valutazione del suo ministero di apostolo. Nelle considerazioni di 3,5- 1 5 ha sot tolineato che i predicatori sono ministri e collaboratori di Dio, sulla cui opera l'ultima parola sarà detta solo nel giudizio escatologico. In questo senso, tutti dovranno considerare Paolo e i suoi collaboratori, e in generale tutti i predicatori del vangelo, come «servi tori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio». Il termine greco qui impiegato per «servitore» (hyperetes) designa di regola un collaboratore che aiuta qualcuno nel suo lavoro, come ad esempio Marco, quando fu chiama to ad accompagnare, in qualità di aiutante, Paolo e Barnaba nei loro primi viaggi missionari (Atti 1 3,5 )· Nel passo in esame ha però lo stes so significato del ministro (diakonos) di J, 5 e vuole sottolinearne la responsabilità nei confronti di chi gli ha conferito l'incarico. Questa prospettiva è espressa con forza ancora maggiore in taluni prescritti epistolari, dove Paolo chiama se stesso «schiavo (doulos) di Gesù Cristo» (Rom. 1 , 1; Fil. 1 , 1 ). Poiché Dio ha rivelato il suo disegno sal vifico in Gesù Cristo, i predicatori del vangelo sono ministri di Cri sto, che confessano loro Signore; essi agiscono per incarico di Dio, 1 - 5.
1
Cor. 4, 1 - 5 .
Nessuno giudichi Paolo anzitempo
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che in Cristo s'è rivolto agli uomini. In quanto predicatori della paro la della croce, in cui s'è rivelata la «misteriosa» sapienza di Dio (2,7) che era nascosta, essi sono «amministratori dei misteri di Dio». Gli am ministratori (oikonomoi) non sono proprietari di case o beni, ma mi nistri incaricati che devono render conto ai loro padroni. Nella predi cazione di Gesù, il mistero del regno di Dio (Mc. 4, 1 1 ) consisteva nel sapere che nell'operare di Gesù si avvicinava già la futura signoria di Dio. Dalla situazione postpasquale, Paolo si volge indietro a riconsi derare la missione del Gesù terreno, e vede ricapitolati i misteri di Dio nella croce e risurrezione di Gesù Cristo. Amministrare i misteri di Dio non significa avere una speciale conoscenza dei misteri che vada oltre la croce (cf. 2,6- 1 6), ma significa predicare Gesù Cristo crocifis so e risuscitato. Anche i filosofi stoici si concepivano come ministri di Zeus, messaggeri e annunciatori della divinità e interpreti del volere di vino (Epitteto, Diss. 3,22 ); è difficile, però, che quest'autocomprensio ne del sapiente stoico abbia influenzato la coscienza che l'ex fariseo Paolo aveva della propria vocazione apostolica. Quando si tratta di am ministratori, per la loro attività vale il criterio solito. Paolo allude qui a un detto proverbiale che viene dali' esperienza, per cui in generale agli amministratori si richiede soprattutto affidabilità nell'adempimento del loro incarico. Non è richiesta da poco; vi sono numerosi esempi di amministratori che a essa sono venuti meno con arbitrio, appropria zione indebita e infedeltà. Paolo invero non dice, ma presuppone di aver adempiuto fedelmente all'incarico affidatogli al momento della sua chiamata (Gal. 1 , 1 5 s.). Nel v. 3 l'apostolo dà una direzione nuova al corso dei suoi pensieri, andando oltre tale affermazione generale, attinta all'esperienza dei rapporti umani: in assoluto non c'è uomo che, in definitiva, sia competente in materia di giudizio sul suo mini stero di apostolo; solo il Signore, che gliene ha dato l'incarico, potrà giudicarlo nel giudizio finale. Con ciò Paolo non rivendica per sé un diritto speciale, sottraendosi alla prova e alla responsabilità cui è sot toposto ogni predicatore; pensa, piuttosto, alle condizioni necessarie per un giudizio definitivo e giusto. Queste condizioni sono già accen nate in J, I J- I 5, dov'è detto che il vero valore di un ministero missio nario si manifesta solo nel giudizio finale. Poiché gli uomini vedono solo ciò che hanno davanti agli occhi, mentre il Signore scoprirà anche i più profondi moti del cuore, a lui solo compete l'ultimo giudizio sull'azione apostolica di Paolo. Né alla comunità di Corinto, né ad al-
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Cor. 4, 1-5.
Nessuno giudichi Paolo anzitempo
cun altro tribunale umano Paolo può riconoscere il diritto di giudica re in materia; per questo non ha per lui nessuna importanza come lo giudicano, e sempre per questo egli stesso rinuncia a giudicarsi. L'apo stolo argomenta qui in base alla differenza tra tribunale umano e tri punale divino, già consueta per i dottori giudei (Bill. 1 1 1, 3 36). Da que sti accenni non è necessario trarre la conclusione che i corinti volesse ro portare Paolo davanti a un tribunale ufficiale, anche se l'apostolo non poteva ignorare che a Corinto vi erano gruppi che criticavano il suo operato e intendevano chiedergliene conto. Paolo mette l'accento sull'incompetenza di principio di qualsiasi istanza umana a dare un giudizio conclusivo sul ministero apostolico. Con quanta consequen zialità Paolo faccia valere anche per la propria persona l'esclusiva com petenza del Signore, lo mostra la frase successiva: è bensì vero che Pao lo non ha coscienza di sue infedeltà nell'esercizio del suo ufficio di apostolo, ma sa che questo non lo giustifica, perché il giudizio ultimo spetta al Signore. Con kyrios egli intende il Signore Gesù Cristo, da vanti al cui tribunale tutti dobbiamo comparire (2 Cor. 5 , 1 0). In Rom. 2,5 Paolo parla del «giusto giudizio di Dio» con espressioni veterote stamentarie. Come Dio e Cristo, distinti come persone, formano una unità nella loro azione salvifica, così formano un'unità nel loro opera re nel giudizio escatologico. Dio ha messo, per così dire:t l'attuazione del giudizio finale nelle mani del suo figlio Gesù Cristo, cui spetterà pronunciare il giudizio ultimo sugli uomini, che ha liberato dal potere del peccato e della morte con la sua morte espiatrice e vicaria. Nel l'espressione greca «non sono conscio di nulla>> si avverte l'eco del concetto di «coscienza», che non ha diretti equivalenti in ebraico. Pao lo attribuisce alla coscienza un significato importante nel comporta mento dell'uomo, come risulta soprattutto da Rom. 2, 1 4- 1 7 e 1 Cor. 8- 1 o. Per Paolo, però, la coscienza non è un organo decisionale asso luto, ma dipende dal volere di Dio. Essa dà all'uomo la consapevolez za di conformarsi o di scostarsi dalle norme etiche; è solo un'istanza che giudica criticamente, non che pone delle leggi. Anche se all'apo stolo la coscienza non ha da rimproverare alcuna colpa nell'esercizio del suo ministero, non per questo egli è giustificato, perché il giudizio ultimo spetta al Signore, che dispone delle premesse per un giudizio definitivo e giusto. Cristo giudicherà nella futura parusia. Il giudizio escatologico attende tutti, anche i pneumatici; per questo vale la rego la di non giudicarsi da sé prima del tempo. Paolo mette così in pratica
1 Cor. 4,6- 1 0.
Contro la presunzione dei corinti
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la parola di Gesù di Mt. 7, 1 : «Non giudicate, affinché non siate giudi cati». Con espressioni di tono apocalittico, l'apostolo descrive la fun zione rivelatrice del giudice universale. Al suo ritorno, il Signore met terà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre, e renderà manifesti i più profondi moti dei cuori. La seconda frase, con il parallelismo dei suoi membri, esprime in modo concreto quanto la prima diceva con un'im magine. Il motivo veterotestamentario del Dio che vede nel profondo dei cuori ( 1 Sam. 1 6,7; I Re 8,39; Sap. 1,6; Sir. 42, 1 8; cf. I Tess. 2,4) vie ne qui impiegato in senso escatologico. Nel giudizio finale non c'è più nessuna possibilità di nascondere i fatti come nei tribunali umani, poi ché vengono alla luce i veri motivi degli uomini. Nell'impero greco romano v'era l'uso di �ributare un elogio pubblico agli uomini che s'erano acquistati meriti nella vita politica; ma anche in questo caso si tratta di effimeri giudizi umani. Decisivo è l'elogio che viene da Dio, come sottolinea il «di Dio» posto volutamente in rilievo a conclusione della frase; tale lode viene pronunciata nel giudizio finale, dov'è possi bile esaminare l'insieme dell'operare umano. Nell'atteggiamento fidu cioso della sua fede, Paolo confida che Dio non sarà un Signore avaro, e che riconoscerà a pieno il lavoro dei predicatori del vangelo. Che a questo punto Paolo parli solo di lode, e non anche di biasimo e puni zione (cf. J , I 3 ), fa capire quanto egli guardi al giudizio finale dalla po sizione e dalla prospettiva del fedele amministratore dei misteri di Dio. J .l..
La presunzione spirituale è in contrasto con la sequela della croce (4,6- 1 3)
Col nuovo vocativo «fratelli», Paolo sposta la sua attenzione dai predicatori dell'annuncio di Cristo alla comunità, applicando alla si tuazione di Corinto i criteri esposti nel cap. 3· Nel far ciò, per stigma tizzare la superbia spirituale dei corinti, si vale dell'artificio del con trasto: alla presunzione della comunità di Corinto contrappone la vita di sofferenze degli apostoli. 3.2..1 . Contro la presunzione dei corinti (4,6- 1o) Queste cose, fratelli, le ho riferite a me e ad Apollo per voi, perché in noi impariate (la regola): 'non oltre ciò che sta scritto', e perché nessuno (di voi) s'inorgoglisca per l'uno contro l'altro. 7 Che cosa poi ti distingue? Che hai
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Cor. 4t6- 1 o. Contro la presunzione dei corinti
che non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché ti vanti come non l' aves si ricevuto ? 8 Già siete sazi, già siete diventati ricchi; senza di noi siete per venuti alla sign oria regale! Oh, foste davvero pervenuti alla signoria, per ché anche noi potessimo regnare con voi! 9 Penso, infatti, che Dio abbia messo noi apostoli all'ultimo posto, come dei condannati a morte. Giacché siamo divenuti spettacolo per il mondo, per angeli e uomin i . ro Noi siamo stolti per Cristo, voi invece siete sapienti in Cristo; noi (siamo) deboli, voi invece (siete) forti; voi (siete) onorati, noi invece (siamo) disprezzati. 6 Rom. I Z,J. 10 Is. s,z i . 6-8. Paolo si riallaccia a J, 5 ss., dove aveva parlato di sé e di Apollo con le immagini del piantare e irrigare, sottolineando la dipendenza della crescita dall'agire di Dio e ribadendo la responsabilità del predi catore nel giudizio ultimo. In tutta la pericope le affermazioni valgo no per tutti i predicatori, ma, nell'interesse dei corinti, Paolo ha scelto come esempi se stesso e Apollo, affinché per la comunità la sua am monizione a non dividersi in gruppi fosse espressa nel modo più con creto e più evidente possibile. Dai rapporti tra Paolo e Apollo i corinti devono imparare quanto sia assurda e contraria alla Scrittura l'esalta zione esclusiva di singoli predicatori. Nella forma un po' involuta del la seconda proposizione finale, «perché nessuno s'inorgoglisca per l'uno contro l'altro», è espresso il fatto che molti corinti prendono par tito per un maestro contro l'altro, e insieme si fa valere il giudizio di Paolo che condanna come presunzione ogni vantarsi di uomini. L' apo stolo mette qui in luce come, alla radice più profonda della formazio ne dei partiti, vi sia la presunzione spirituale dei corinti. In questo senso, anche senza considerare la prima proposizione finale, l'argo mentazione che ne risulta è lineare. Per la breve frase formulata a mo' di detto, «non oltre ciò che sta scritto», non s'è finora trovata un'in terpretazione che convinca tutti. Il più che si possa fare è desumerne il significato dai passi veterotestamentari tratti da Paolo nell'esposizione da lui fin qui svolta ( 1 , 1 9.20.J I; 2,9. 1 6; 3, 1 9 s.). Con queste citazioni Paolo ha voluto confortare la sua tesi che Dio non ha fondato la sal vezza sulla sapienza del mondo, ma sul Cristo crocifisso, tesi con la quale l'apostolo ha polemizzato contro la discordia tra gruppi a Co rinto. Paolo e Apollo hanno predicato il Cristo promesso dall'Antico Testamento (2 Cor. 1 ,20). Se, dunque, i corinti, nel loro desiderio di sapienza, vanno oltre quanto questi predicatori hanno predicato, essi vengono meno non solo all'annuncio paolino, ma anche alla testimo-
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Cor. 4,6- 1 0.
Contro la presunzione dei corinti
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nianza scritturistica dell'Antico Testamento, contraria all'esaltazione di uomini; devono imparare da Paolo e da Apollo a non oltrepassare i limiti della testimonianza della Scrittura, e ad astenersi dall'esaltare de gli uomini. L'articolo determinativo davanti alla frase: «non oltre ciò che sta scritto» fa pensare che si tratti di un detto noto a Corinto, vuoi che i corinti, misconoscendo l'autentica libertà cristiana, avessero for mulato la loro esaltata coscienza di libertà nel motto: «Oltre ciò che sta scritto» (A. Schlatter, I 5 3 s.}, vuoi che lo stesso Paolo, a Corinto, nei suoi discorsi avesse messo in guardia dall'andare oltre la testimo nianza della Scrittura. Nel v. 7 l'apostolo, con una concatenazione di tre domande, si rivolge direttamente agli entusiasti seguaci dei vari ca pigruppo, che sulle loro insegne innalzano un predicatore abbassando l'altro, per esaltare così se stessi al di sopra dei seguaci dell'altro. Chi ti distingue? Il verbo greco propriamente significa «differenziare»; in questo caso il differenziare da un altro significa «assegnare un prima to» (cf. Apoc. I 5,9). La risposta che la domanda si aspetta è «nessuno», il che mostra come non vi sia nessun primato reale, ma solo immagi nario. La diversa ripartizione dei doni non è motivo che giustifichi la formazione di partiti nella comunità. La seconda domanda sottolinea come tutto ciò che l'uomo ha, siano talenti naturali o doni dello Spiri to (carismi), non sono merito suo, ma doni gratuiti di Dio. Vi è di con tinuo il pericolo che la gioia del possesso e dell'uso dei doni faccia di menticare il donatore. La terza domanda, traendo le conseguenze del le prime due, vuole essere la condanna di ogni forma di presunzione. Se veramente tutto quello che hai l'hai ricevuto, perché ti glori, quasi non l'avessi ricevuto? A partire dal v. 8, con due passaggi (vv. 8 e 9/ I o) Paolo contrappone alla supponenza esaltata dei corinti il disprezzo cui sono esposti gli apostoli in questo mondo. L'entusiastico senso di trionfo dei corinti viene descritto con tre frasi dalla formulazione bra chilogica. Certi interpreti le intendono come interrogative retoriche; ma il rimprovero cui mira Paolo riesce più tagliente se le si intende come proposizioni dichiarative con senso ironico. Sazietà spirituale, ricchezza e signoria caratterizzano una condizione di perfezione in cui l'uomo ha raggiunto il suo fine e non ha più bisogno di nulla. Per il fatto di possedere lo Spirito, i corinti s'illudono di vivere già nel re gno escatologico e di essere ormai sfuggiti alle limitazioni del mondo storico terreno. La terza espressione, «regnare», mostra che essi cre dono di partecipare già alla regale signoria di Dio, nella quale regnano
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Cor. 4,6- 1 o.
Contro la presunzione dei corinti
insieme col messia Gesù Cristo. I corinti non distinguono più tra chiesa e regno di Dio, fede e visione (2 Cor. 5, 7), spostando tutta nel presente la speranza futura; per effetto della loro concezione entusia stica dello Spirito, eliminano dalla loro speranza futura l'elemento tem porale (escatologia al presente) e s'illudono di essere già al termine, di menticando che ancora li attende il giudizio escatologico. Al contrario l'apostolo, che pure vive nell'attesa di una fine prossima, ribadisce il «non ancora» della risurrezione dei morti, che avverrà solo nel futuro con la parusia di Cristo. Paolo, che descrive il credente come un corri dore che è ancora lungo il percorso (Fil. J , I 2- I4), combatte come pre sunzione ed esaltazione l'illegittima anticipazione della gloria futura da parte dei corinti, che salta a piè pari la realtà storica. Il «senza di noi» dell'apostolo richiama la loro vera posizione. Con amara ironia l'apostolo aggiunge: fosse vero che siete già pervenuti alla signoria, co sì potrei anch'io partecipare con voi alla gloria futura, e sarei libero dalle fatiche e dalle pene dell'ufficio apostolico ! Paolo fonda la sua propria attesa del futuro sull'appartenenza al Gesù Cristo crocifisso e glorificato, col quale pure saranno innalzati alla gloria coloro che sof frono con lui (Rom. 8, I 7). Il presente è ancora il tempo della sequela della croce; a decidere l'inizio del compimento escatologico è il Signo re, ed è precluso all'uomo anticipare da sé la gloria futura. 9- 1 0. Nel v. 9 Paolo descrive la reale situazione degli apostoli nel mondo; nel far ciò, pensa soprattutto alle sue proprie esperienze. Quanto è detto degli apostoli, in un senso più ampio vale per tutti i cristiani che non si conformano a questo mondo (Rom. I 2,2). L'af fermazione, che viene introdotta come opinione personale di Paolo, riprende la contrapposizione tra l'annuncio della croce e la sapienza di questo mondo. Dio ha messo gli apostoli all'ultimo posto; essi sono come uomini condannati a morte. Con ciò Paolo paragona i predica tori della parola della croce ai gladiatori destinati alla morte, che ven gono fatti combattere nell'arena per offrire uno spettacolo al pubbli co avido di sensazioni. La predicazione degli apostoli riguarda tutti. L 'universo intero degli angeli e degli uomini segue la lotta di questi annunciatori di Dio che predicano come salvatore un crocifisso. Nel v. I o, a quest'immagine degli apostoli disprezzati vengono contrap posti, con «noi» e «voi» in incisivo contrasto, i corinti orgogliosi del loro patrimonio spirituale. Paolo riprende qui i tre motivi di sapienza, potenza e onore, con i quali aveva descritto in 1 ,26 la composizione
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Cor. 4, 1 1 - 1 3 . La vita di sofferenze degli apostoli
9I
sociale della comunità; ora questi concetti gli servono per caratteriz zare la presunzione religiosa. Paolo e gli altri apostoli sono stolti in nome di Cristo; ciò vale per il tribunale della sapienza mondana, che non riconosce la sapienza di Dio nella croce di Cristo. I corinti sono intelligenti in Cristo; in realtà «si ritengono intelligenti» (/s. 5,2 I ) e respingono perciò la sapienza di Dio. Gli apostoli sono deboli e di sprezzati; i corinti, invece, forti e onorati. L'ironia sta nel fatto che co sì Paolo fa vedere come i sedicenti privilegi dei corinti siano il contra rio della forza e della gloria di Dio. 3.1.1.
La vita di sofferenze degli apos toli {4,1 1 - 1 3)
1 1 Fino al presente momento soffriamo fame e sete e nudità, e veniamo mal trattati e non abbiamo fissa dimora (andiamo erranti), 1 2 e fatichiamo la vorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportia mo; 1 3 offesi, consoliamo. Siamo divenuti come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino a oggi. II 2
Cor. 1 1,27; Mt. 8,20.
u.
Mt.
5,.44; Le.
6,28.
Gli ultimi versetti, giustapposti senza congiunzioni, danno una de scrizione concreta delle fatiche e sofferenze apostoliche. Il passaggio è preparato nell'ultima parte del v. I O dalla successione «voi»-«noi» in posizione invertita. La breve pericope costituisce formalmente un co siddetto catalogo di peristasi, un'enumerazione di angustie e pericoli che il missionario deve saper sostenere (cf. gli altri cataloghi in 2 Cor. 4,7- 10; 6,9. I o; I I ,2J-3 J). I vv . 1 2b e 1 3 a hanno forma di antitesi; le due forti immagini di 1 3 h concludono con efficacia la descrizione. 1 1 - 1 3 . L'elenco descrive principalmente la vita di Paolo nei suoi viag gi missionari, ricca di fatiche e di pericoli. A differenza degli altri apo stoli, Paolo non accettava di essere mantenuto dalle comunità e lavo rava esercitando il suo mestiere di tessitore di tende, a Corinto, ad esempio, presso Prisca e Aquila (Atti I 8,J; cf. 1 Tess. 2,9). Come il fi glio dell'uomo di Mt. 8,20, egli non aveva una dimora stabile, fu mal trattato e perseguitato, nel suo peregrinare fu spesso esposto a fame, sete e penuria di vestiario. Paolo fornisce un'enumerazione ancor più particolareggiata in 2 Cor. I 1 ,23-3 3 · Nelle antitesi dei vv. 1 2b e I Ja echeggiano parole di Gesù (cf. Le. 6,28; Mt. 5,44). Nella sua vita l'apo stolo ha dato egli stesso prova di ciò cui, in Rom. I 2, 1 4.20, ha esorta to i cristiani nella loro sequela di Gesù. I termini greci «spazzatura» e
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I Cor.
4,14-1 7. Esortazione amorevole
«rifiuto» alla fine della pericope sono usati come espressioni offensive per indicare persone affatto misere e disprezzate (cf. all'incirca il no stro modo di dire spregiativo «la peggior feccia»). Con queste imma gini forti, Paolo sottolinea il contrasto con l'entusiastico sentimento di trionfo dei corinti. Dal punto di vista teologico, i cataloghi di peri stasi mostrano come la vita dei predicatori della parola della croce non sia separabile dal contenuto della loro predicazione. Secondo Fil. J, Io, «conoscere Cristo» vuoi dire sperimentare nella propria vita la co munione con la sua passione e la forza della sua risurrezione. «Il di scepolo non è da più del maestro e il servo non è da più del suo signo re» (Mt. 10,24). L'esistenza dell'apostolo si svolge nella sequela del crocifisso; per Paolo, la «dimostrazione dello Spirito e della potenza» ( I Cor. 2,4) contraddice alla presunzione spirituale dei corinti. 3 ·3·
Paolo, padre della comunità di Corinto (4,1 4-2 1 )
3·3 · 1 ·
Esortazione amorevole (4, 1 4- 1 7)
1 4 Non per farvi vergognare scrivo questo, ma per ammonirvi come miei figli carissimi. 1 5 Se anche avete diecimila pedagoghi in Cristo, non (avete) però molti padri; poiché io vi ho generato in Cristo Gesù mediante il van gelo. 1 6 Vi esorto dunque: attenetevi al mio esempio! 1 7 Proprio per que sto vi ho inviato Timoteo, mio figlio diletto e fedele nel Signore, che vi ri corderà le mie istruzioni (vie) in Cristo Gesù, come insegno ovunque in ogni comunità. lf
GaL 4, 1 9. 16 1 1, 1
Ora, in chiusura, Paolo prende un tono amichevole. Nella du ra critica alla presunzione dei corinti, era sua intenzione non di umi liarli e farli vergognare, ma di esortarli per l'amore che porta loro. Co me fondatore della comunità, egli ha uno speciale rapporto con essa: è il padre spirituale della comunità, che mediante il vangelo l'ha conqui stata alla fede in Cristo e nella sua sollecitudine paterna vuole perciò aiutare i suoi figli diletti a correggersi. Paolo separa nettamente il rap porto del padre con i suoi figli da quello dell'educatore (pedagogo) con gli allievi a lui affidati. Nell'antichità il paidagogos non era né maestro né educatore, che è il significato odierno del termine, bensì un sorve gliante piuttosto incolto; era per lo più uno schiavo che aveva il com pito di sorvegliare i ragazzi dai sei anni alla pubertà, e di badare all'or dine esterno della loro condotta. Paolo non riferisce direttamente que1 4-1 6 .
1 Cor. 4, 1 8-2 1 .
Annuncio della visita
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sto concetto un po' spregiativo ad Apollo che ha insegnato dopo di lui; parla in termini più generali. Se anche aveste tanti altri educatori e sorveglianti in Cristo, avete però un padre solo! Come l'uomo ha un solo padre in senso biologico, lo stesso vale in senso spirituale per una comunità. La pericolosa formazione dei gruppi a Corinto non può can cellare il fatto che Paolo ha fondato la comunità. Paolo si dice qui pa dre della comunità, che l'ha generata mediante il vangelo; per il suo rap porto con la comunità gli accade di usare anche l'immagine della ma dre che partorisce i figli nel dolore (Gal. 4, 1 9) e ne ha cura (I Tess. 2,7). L'esortazione del v. 1 6, che letteralmente suona: «Siate"miei imitato ri! », significa che i corinti devono prendere come modello Paolo, nella sua veste di predicatore e seguace del Gesù Cristo crocifisso e risusci tato (cf. 1 Cor. I 1 , 1 ). 1 7. Sulla base di questo contesto, l'appello del v. 1 6 diventa un'esor tazione per la comunità di Corinto a desistere dalla sua superba ambi zione di sapienza e a prendere sul serio la sequela della croce. No n so lo l'apostolo ora ammonisce per amore, ma per lo stesso motivo ha già inviato a Corinto il suo più fidato collaboratore (Fil. 2,20) e aiutante nella fondazione di comunità (I Tess. 3,2), Timoteo. Evidentemente, al momento della stesura della lettera questi era già in viaggio, altri menti Paolo l'avrebbe citato tra i mittenti nel prescritto della lettera. Timoteo dovrà rafforzare la comunità nella fede, ricordandole il van gelo predicato da Paolo. L'espressione «vie in Cristo GesÙ», riferita al le istruzioni di Paolo, s'ispira alla tradizione giudaica, secondo la qua le tutta la vita è regolata dall'interpretazione della torà (halaka). Nei primi tempi della chiesa, l'annuncio cristiano era detto «via del Signo re» (Atti 1 8,2 5). Secondo Atti 1 6, 1 , Timoteo accompagnava l'apostolo dai tempi della sua visita a Listra nel suo secondo viaggio missionario, e conosceva perciò le istruzioni che Paolo aveva dato ovunque nelle comunità dell'Asia Minore e della Grecia. Annuncio della visita (4, 1 8-2 1 )
J.J . .l.
Ma alcuni s i sono gonfiati d 'orgoglio, quasi io non dovessi venire da oi. 19 Ma, se il Signore vorrà, presto verrò da voi e sperimenterò non le parole, ma la potenza di questi che si sono gonfiati. 20 Giacché il regno di Dio non sta in parole, ma in potenza. 2 1 Che cosa volete? Che venga da voi col bastone, o con amore e nello spirito della mitezza? 18
v
19 1 6,8
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.20 �,4 . .21 2 Cor.
I J,IO.
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l Cor. 4, 1 8 -2 1 .
Annuncio della visita
1 8-20. A Corinto era evidentemente oggetto di discussione se la pre vista visita di Paolo avrebbe effettivamente avuto luogo. Sembra che alcuni critici dell'apostolo avessero diffuso la voce che non sarebbe venuto perché su di lui non si poteva fare assegnamento, forse anche con l'accusa che Paolo stesso non ne aveva più il coraggio. Questa vo ce malevola potrebbe aver ricevuto ulteriore alimento dal fatto che Pao lo, nel frattempo, anziché venire di persona, aveva inviato Timoteo. Perciò l'apostolo, di fronte a queste calunnie, promette con estrema determinazione la sua prossima visita a Corinto. L'aggiunta «se il Si gnore vorrà» non vuole togliere nulla alla fermezza della promessa, ma solo chiarire che un eventuale fallimento del progetto non sarebbe da ascrivere a insufficiente risolutezza di Paolo, ma all'intervento del Signore. Secondo 1 Cor. 1 6,8, Paolo intende rimanere ancora a Efeso fino a pentecoste (v. intr ., p. 1 9 ). Questa indicazione non è necessa riamente inconciliabile con 4, 1 9, se si pon mente all'atteggiamento di ferma opposizione che l'apostolo tiene nella pericope. In 4,1 9, con «presto» Paolo non intende dare un'indicazione di tempo precisa, ma solo sottolineare la certezza della sua venuta. Perciò i due passi non contengono alcun motivo cogente per una divisione della lettera. Quando Paolo verrà a Corinto esaminerà quanta potenza stia dietro i gonfi discorsi degli entusiasti di Corinto. Come risulta dal versetto se guente, il punto in questione è come la signoria di Dio si manifesti al presente nei credenti. Gli entusiasti credono di regnare già ora con Cri sto mediante lo Spirito ricevuto nel battesimo (4,8). Ma questa pretesa si accorda con la loro condizione reale, dal momento che essi vivono ancora nel corpo terreno e li aspetta il giudizio escatologico? Nella sua visita a Corinto, Paolo vuole chiarire l'infondatezza delle grandi parole dei suoi critici. A guisa di motivazione, alla contrapposizione tra parola (logos) e potenza (dynamis) l'apostolo fa seguire un'afferma zione in forma di sentenza riguardante il regno di Dio, del quale non si d à una descrizione completa, ma se ne evidenzia solo un tratto ca ratteristico che si oppone a una concezione entusiastica di esso. «Il re gno di Dio non sta in parole, ma in potenza». L'espressione «in paro le», riferita qui ai gonfi discorsi degli avversari di Paolo, è intesa nega tivamente ed equivale alle parole della sapienza di questo mondo. Con questa frase, Paolo non contesta che la chiesa viva della parola della riconciliazione e che la predicazione del regno di Dio avvenga con la dimostrazione dello Spirito e della potenza (2,4). In Paolo, il concetto
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Cor. 4, 1 8-2 1 . Annuncio della visita
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L'entrale della predicazione di Gesù, «regno di Dio» o «signoria di Dio» (basileia tou theou), è relativamente raro; egli lo usa sia nel senso futu ro (I Cor. 6,9; I 5, 50; Gal. 5,2 1 ), sia presente (l Cor. 4,20; Rom. 1 4, 1 7). Come per Gesù, anche per Paolo la signoria regale di Dio è primaria rnente una dimensione escatologica futura; poiché, però, fin d'ora i cre Jenti sono rivolti al Signore del futuro regno di Dio, questo opera già dentro il presente. 2 1 . Paolo conclude con un avvertimento inteso a risparmiargli un intervento pesante sulla comunità. La domanda un po' ironica in cui pone l'alternativa se dovrà venire col bastone o con amore, lascia tra sparire la sua decisione ad agire; essa si riallaccia alle immagini del pe dagogo e del padre (4, 1 5) e mostra che Paolo vuole venire alla comu nità nella veste di padre. Al padre si convengono entrambe le cose, il trattare amorevolmente i figli e il punirli, e anche la punizione viene dal sentimento paterno. Dipende ora interamente dal comportamento dei corinti come l'apostolo dovrà agire a Corinto nella sua visita. La prima parte della lettera è così conclusa. Essa è completamente improntata alla contrapposizione della sapienza di questo mondo alla parola della croce, sul cui terreno Paolo combatte in termini teologici la formazione dei gruppi a Corinto.
Parte seconda
Disordini morali nella comunità
(5 , 1 -6,2o)
La parte successiva, che si occupa di diversi casi di disordine morale nella comunità di Corinto, inizia senza una particella di collegamento; vi predomina il tema dell'impudicizia che, con le pericopi 5, 1 - 1 3 e 6,1 2-20, incornicia il problema della rinuncia al ricorso ai tribunali ci vili di 6, 1 - 1 1 . Anche se un nesso diretto con l'aspirazione alla sapienza dei corinti dei capp. 1 -4 non è dichiarato, i casi affrontati mostrano comunque in tutta chiarezza quanto poco i corinti abbiano motivo d'essere orgogliosi della loro presunta «sapienza». Residui non ancora dominati del modo di vivere gentile, insieme con l'esagerata coscienza pneumatica che i corinti hanno della loro libertà, hanno condotto ai disordini morali nella comunità. In ogni caso, tali disordini sono offe se alla santità della comunità. In 3,1 6 s. la comunità era detta tempio di Dio, e il tempio di Dio è santo. Se nei capp. 1 -4 l'apostolo pensava prevalentemente all'unità della comunità, in questa seconda parte po ne invece l'accento sulla sua santità. 1.
Monito contro l'impudicizia (5, 1 - 1 J)
1.1.
Un caso di grossolana impudicizia ( 5, 1 - 5)
I Soprattutto, si sente parlare di impudicizia tra voi, e di un'impudicizia qua le non si trova nemmeno tra i gentili: che cioè uno si tiene la moglie di suo padre. 2. E voi siete gonfi d'orgoglio, né vi siete rammaricati, affinché fosse tolto di mezzo a voi chi ha compiuto quest'atto? 3 lo infatti, che non sono tra voi fisicamente ma lo sono in spirito, ho già emesso il giudizio, come fossi presente di persona, su colui che ha fatto questo: 4 nel nome del Si gnore nostro Gesù, quando voi siete riuniti e il mio spirito con la potenza del nostro Signore Gesù è presso di voi, 5 quest'uomo sia consegnato al Sa tana per la rovina della carne, affinché il suo spirito sia salvo nel giorno del Signore. 1 Lev. 1 8,8; 20, 1 1 .
4 Mt. 1 8, 1 8 .
s
1
Tim. 1,20.
1 - 5. I giudei dell'antichità consideravano l'impudicizia il vizio car dinale dei gentili e vi vedevano una conseguenza dell'idolatria. Nella
1 Cor. J ,I - s .
Un caso di grossolana impudicizia
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tradizione sapienziale giudeo-ellenistica, la combinazione di idolatria e corruzione dei costumi costituisce un topos corrente (Sap. I4). Anche il cristianesimo primitivo condannava l'impudicizia come offesa alla santità della comunità di Dio. Per questo, quasi tutti i cosiddetti cata loghi di vizi contengono un ammonimento contro l'impudicizia, mes sa per lo più al primo posto (I Cor. 6,9; Gal. 5, I 9) . In questa pericope si parla di un caso straordinario d'impudicizia particolarmente grave, quale non s'è mai sentita nemmeno tra i gentili, e che richiede perciò una punizione di genere speciale. L'esclusione del malfattore dalla co munità non è solo un procedimento giuridico, ma un'azione cultuale secondo il diritto santo di Dio, e rientra nell'ambito di benedizione e maledizione. Per comprendere questo procedimento deciso dall' apo stolo è necessario ricordare che la premessa è il concetto di comunità del popolo di Dio nell'Antico Testamento. Se in Israele viene commes sa una grave colpa, questa concerne l'intera comunità, poiché per cau sa sua è stato intaccato il rapporto d'alleanza tra Dio e il popolo. In Israele, la cacciata del peccatore dalla comunità e la sua esecuzione hanno lo scopo di ripristinare il rapporto d'alleanza che è stato gua stato. In base a Lev. I 8,8 e 2o, I I la relazione sessuale con la moglie del padre dev'essere punita con la morte dei due responsabili. In Deut. I 7, 5 -7 viene regolata l'esecuzione della pena di morte per reati gravi: «fa rai uscire alle porte della tua città quell'uomo o quella donna colpevo li di questa cattiva azione, e lapiderai quest'uomo o questa donna fino a che morte ne segua. Non si potrà essere condannati a morte che sul la deposizione di due o tre testimoni, non si verrà messi a morte sulla deposizione di un solo testimone. I testimoni per primi metteranno ma no all'esecuzione del condannato, poi tutto il popolo vi metterà ma no. Farai sparire il male di mezzo a te» {tr. Bible de ]érusalem). Nello stesso modo Paolo, in base all'idea del corpo di Cristo, concepisce la comunità cristiana come un'unità, non come una somma di individui; l'apostolo però procede come uno che è legato alla legge di Cristo (Gal. 6,2 ), non secondo la legge veterotestamentaria presa alla lettera, ma tie ne conto dell'opera salvifica compiuta da Dio in Cristo. Egli procede secondo il principio che ha fatto valere in I Cor. 3, 1 5 per i cattivi mis sionari: l'uomo dev'essere salvato, ma «come attraverso il fuoco». C'è però la differenza che in quel caso si tratta del fuoco del giudizio esca tologico, mentre qui la rovina della carne è una punizione tempora nea, che deve servire alla salvazione nel giudizio finale (cf. I I ,J I s.).
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l
Cor. s , I - s .
Un caso di grossolana impudicizia
1-5. Con l'iniziale «soprattutto» Paolo fa riferimento, in tono di rimprovero, a una situazione che contraddice pesantemente l'atteggia mento di corinti tanto pieni di sé. Con la sua accusa contro l'impudi cizia in generale, egli pensa già al caso speciale di gravissima impudici zia, inaudito anche per i gentili. Paolo ha sentito di questo caso in Efeso; da chi, non è detto, probabilmente non dalla gente di Cloe, né dai rappresentanti della comunità di Corinto che si trovano con lui; in questo caso li avrebbe certo nominati. Dall'indicazione di Paolo, «che cioè uno si tiene la moglie di suo padre», non è possibile chiarire con precisione di che genere di grave impudicizia si tratti. Presa alla lettera l'espressione consente due ipotesi: il matrimonio con la madre natura le o la matrigna dopo la morte o la separazione del padre, oppure una relazione sessuale non legalizzata con la madre naturale o la matrigna, vuoi dopo la morte o la separazione del padre, vuoi permanendo il ma trimonio del padre. L'espressione «tenere» fa pensare a un tempo lun go, quindi a un matrimonio o a un'unione che dura da tempo. Il rap porto sessuale con la madre naturale era proibito in tutto il mondo an tico, che il padre fosse in vita o meno. Poiché l'espressione «moglie del padre» (Lev. 1 8,8; Deut. 27,20), sia nella Bibbia ebraica che nei LXX, designa la matrigna a differenza della madre naturale, Paolo ha in men te una relazione sessuale con la matrigna. Molti interpreti pensano a un matrimonio del membro in questione della comunità con la seconda moglie, vedova o separata, del padre, quindi a un matrimonio con la matrigna diventata libera. Il matrimonio con la matrigna era vietato dal diritto giudaico e da quello romano, non però da quello greco el lenistico vigente a Corinto, ragione per cui i rabbi in via eccezionale consentivano ai proseliti anche tali matrimoni. Di fronte però all'ecce zionalità del caso e alla gravità della punizione per il misfatto, è a mio giudizio più verisimile si tratti di una relazione sessuale con la matri gna, forse ancor vivo il padre, che non di un matrimonio. Paolo fa re sponsabile solo l'uomo; forse la donna non appartiene alla comunità, dato che Paolo in 1 Cor. 7 pone uomo e donna su un piano di parità giu ridica. L'apostolo condanna con estrema durezza questo grave caso di impudicizia, ma rivolge il rimprovero in primo luogo alla comunità, che ha consentito che al suo interno avvenisse questo, senza interveni re. La comunità è il tempio di Dio (3, 1 6). Avrebbe dovuto piangere una simile mancanza, anziché vantarsi della sua ricchezza spirituale; avreb be dovuto escludere il colpevole dalla sua comunione, sia per la santi-
1
Cor.
5,1-5.
Un caso di grossolana impudicizia
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tà della comunità, sia per prevenire l'effetto contagioso del cattivo esempio. Poiché la comunità, per indifferenza o per la sua concezione entusiastica della libertà, non ha fatto niente, interviene con la sua au torità apostolica il fondatore della comunità che, pur fisicamente as sente, in spirito è fortemente partecipe alla vita della comunità. Den tro di sé egli ha già pronunciato il giudizio sul colpevole; siccome, pe rò, la comunità, in quanto direttamente colpita, dovrà agire in prima persona per ripristinare da sé la propria santità violata, l'apostolo de cide un procedimento che, in conformità col suo giudizio, la comunità dovrà mettere in atto nel nome del Signore Gesù. Paolo confida che la comunità riconosca nella sua decisione una direttiva data dallo Spirito di Dio, e la faccia propria. I vv . 3 - 5 presentano diverse possibilità di col legare tra loro le varie parti del periodo. L'invito a consegnare il malva gio al Satana dipende dal verbo principale: «Ho già emesso il giudizio (e deciso)»; inoltre, è meglio unire la formula con cui viene data l'au torizzazione, «nel nome del Signore nostro GesÙ», non con l'assem blea della comunità, cui pure si adatterebbe (Mt. 1 8,2o), ma con l'azio ne centrale della consegna al Satana; in questo caso, la frase di mezzo indica la riunione liturgica come il luogo o la circostanza in cui tale consegna deve aver luogo. I corinti dovranno, quindi, riunirsi per una liturgia, cui in spirito parteciperà anche Paolo; in tale comunione la comunità in preghiera dev'essere consapevole che il Signore innalzato è con lei con la potenza del suo Spirito, e nel suo nome dovrà conse gnare al Satana il colpevole (cf. I Tim. 1,2o). Quest'azione non costi tuisce solo un'espulsione istituzionale dalla comunità, ma un «atto giu ridico pneumatico sacrale» (H. Conzelmann), dietro il quale sta la con cezione veterotestamentaria di maledizione e scomunica. Una maledi zione non è solo una parola di minaccia, ma un potere di distruzione che produce effetti, così come anche la benedizione è più di un mero auspicio, poiché concede la gratuita protezione di Dio. La scomunic� dalla comunità significa a un tempo l'esclusione dall'ambito della be nedizione e il momentaneo abbandono al Satana, che esercita la sua si gnoria sui figli dell'ira (cf. 1 QS 4, 1 5 ss.) e, in quando «pervertitore», uccide gli uomini ( I Cor. I O, I o). Gesù ha dato alla sua comunità il po tere «in terra, di legare e di sciogliere» (Mt. 1 8,1 8); i corinti devono agire con questo potere e consegnare al Satana il malvagio «nel nome del Signore nostro Gesù». Occorre tracciare un netto segno di separa zione, affinché sia ripristinata la santità violata della comunità, e si de-
100
I Cor. s,6-8.
Invito a santificarsi
intervenire subito, perché quella grave colpa non si diffonda oltre. La consegna al Satana avviene . Forse che Dio pensa ai buoi? 1 0 O non parla invece per noi? Sì, per noi (infatti) sta scritto che l'aratore deve arare e il trebbiatore trebbiare nella speranza di partecipare del raccolto. 1 I Se noi abbiamo seminato in voi le cose spirituali, è troppo se mietiamo da voi beni terreni? I 2 Se altri hanno parte a questo potere su di voi, non l'abbiamo ancor più noi? Ma non ci siamo valsi di questo diritto, e sopportiamo invece ogni cosa per non porre ostacoli al vangelo di Cristo.
1 1 5,8 s
.
.1 4,1 5; 2
Cor. 3,2 s. 3 4,3 s. 4 9, I4. 9 Deut. 2 5,... I 1 Rom. I 5,27.
1 .1 2
Cor. 1 1,7 s.
Per il modo stesso in cui sono formulate, tutte e quattro le do mande del v. 1 esigono una risposta affermativa. Paolo rivendica quel la libertà per la quale Cristo ci ha liberati (Gal. 5, I ), che vale per tutti i cristiani e include la libertà relativamente ai cibi; ma rivendica inoltre per sé il titolo di apostolo. Nel caso di Paolo, i due segni costitutivi dell'apostolato sono, in primo luogo, l'apparizione di Gesù Cristo ero1 - 1 .2. .
I 50
1
Cor. 9,1 - 1 1. I l diritto dell'apostolo
cifisso e risuscitato, in secondo luogo l'incarico di predicare il vangelo conferitogli dal Signore risorto. Con la sua terza domanda Paolo riba disce come entrambi questi segni calzino per la sua persona (cf. I Cor. I s,8; Gal. 1 , 1 5) e con la quarta ricorda di essere stato colui che ha fon dato la comunità di Corinto. Un apostolo legittimo è un ministro di Dio, per mezzo del quale Dio produce la fede ed edifica la comunità (I Cor. 3,5-9). I corinti sanno da sé che la loro comunità è il frutto della predicazione paolina. In 2 Cor. 3,2 s. Paolo definisce la comunità la lettera di raccomandazione che Cristo ha scritto per lui. Nel v. 2 ac cenna all'esistenza di altri cristiani che gli contestano apertamente di essere un apostolo legittimo. La lettera del testo non permette di capi re dove si trovino questi oppositori; verisimilmente questi «altri» so no da cercare prevalentemente fuori di Corinto (nell'area missionaria di Pietro), anche se Paolo sa bene di non essere, come apostolo, abba stanza pneumatico per molti spirituali di Corinto. Spiega comunque ai corinti che, non riconoscendo Paolo come apostolo, sopprimono es si stessi la loro esistenza di comunità cristiana (4, 1 5). Il sigillo serve co me segno esterno della validità di un'autenticazione. La comunità di Corinto è quindi il segno visibile della legittimità dell'ufficio apostoli co paolina. Il v. 3 introduce la successiva difesa dell'apostolo di fronte ai suoi critici (cf. 4,3 s.). Questi «critici» sono in primo luogo pneu matici entusiasti di Corinto (cf. il «giudicare» che spetta ai pneumatici in 2, 1 4 s.), che vogliono chieder conto a Paolo e valutare quale sia la sua posizione in fatto di armamento ed equipaggiamento spirituale per il ministero apostolico. In proposito, difficilmente si pensa a un vero e proprio interrogatorio davanti a un tribunale. Le altre domande di Paolo riguardano lo speciale diritto dell'apostolo. La cosa migliore è interpretare i vv. 4 e 5 già alla luce del v. 6; il «noi» introdotto col v. 4 ha di mira Paolo e Barnaba. Il senso esige quindi di integrare: non abbiamo il diritto di mangiare e di bere a «spese della comunità» ? In base alla parola di Gesù di Le. 10,7 s.; Mt. 1 0, 1 0; cf. 9, 14, gli apostoli hanno tutti diritto a essere mantenuti dalla comunità. Paolo e Barnaba hanno spontaneamente rinunciato a tale diritto (cf. Atti 4,36 s.; I 1 ,22 ss.). Anche il v. 5 va riferito al mantenimento dell'apostolo da parte della comunità: non abbiamo il diritto di portare con noi come moglie una sorella ( = sorella nella fede cristiana) «a spese della comunità» ? Per tale diritto Paolo rinvia alla prassi degli apostoli; secondo il cap. 7 egli non era sposato. Non si può stabilire con certezza chi siano gli «al-
1
Cor.
9,1-1.2.. Il diritto dell'apostolo
I5I
tri apostoli»; si discute soprattutto se Paolo annoveri o meno tra gli apostoli la cerchia dei dodici. Certamente annovera Pietro tra gli apo stoli (Gal. I, I 9 s.) e, a mio parere, anche i dodici. È probabile che fac ciano parte degli apostoli anche i giudeocristiani Andronico e Giunia (Rom. I 6,7). Dalla lettera del v. 5 non si può concludere che tutti gli apostoli fossero sposati. Accanto agli apostoli vengono menzionati in particolare «i fratelli del Signore» (espressione della comunità primiti va). I fratelli carnali di Gesù, Giacomo soprattutto, godevano di una posizione di particolare considerazione nella comunità egli inizi. La speciale menzione dei fratelli del Signore accanto agli apostoli lascia supporre che Paolo non li annoveri tra questi; non è certo che neppu re Gal. I , I 9 includa Giacomo nella cerchia degli apostoli. Il marcato rilievo attribuito a Pietro alla fine del versetto si rapporta alla sua fun zione, agli inizi, di guida della comunità primitiva; del resto egli è il capo missionario giudeocristiano nell'area siriaca. Il testo non presup pone che Pietro con la moglie sia stato a Corinto. Evidentemente Pao lo e Barnaba, nella loro attività in comune in Siria e Asia Minore, sono vissuti del lavoro delle loro mani. Più volte Paolo sottolinea di essersi guadagnato da vivere con il suo lavoro di artigiano (I Tess. 2,9; 2 Cor. I 1 ,7 ss.; cf. Atti 1 8,3; 20,23 s.). I greci benestanti consideravano il la voro manuale un'attività indegna di un cittadino libero. Gli avversari di Paolo usano la rinuncia di Paolo al mantenimento ad opera della comunità per rivolgergli l'accusa di non osare rivendicare questo di ritto dell'apostolo, perché non sarebbe un apostolo legittimo. Nel v. 7 Paolo adduce i soldati, i vignaioli (cf. 2 Tim. 2,4.6) e i pastori come esempi noti ed evidenti a tutti del principio che l'operaio merita la sua mercede, ossia concretamente che l'apostolo ha il diritto d'essere so stentato dalla comunità. Ancor più importante di questi esempi tratti dalla vita del lavoro umano è il richiamo alla legge veterotestamenta ria; nelle legge mosaica, infatti, Dio ha rivelato la sua volontà. Come prova desunta dalla legge mosaica Paolo adduce Deut. 2 5,4 (cf. I Tim. 5 , 1 8), il cui testo originario dice: «Non legherai il muso a un bue che trebbia». Con una deduzione dal minore al maggiore, da questo passo i rabbi hanno concluso che un uomo che lavori sul campo di un altro ha diritto a ricevere parte dei frutti raccolti (Bill. 111, 3 8 5). Paolo inter preta escatologicamente l'Antico Testamento sulla base dell'evento Cristo. Nel far ciò gli accade di ricorrere sia al metodo tipologico ( I o, I - I J), sia a quello allegorico (Gal. 4,24 ss.). L'esegesi tipologica inter-
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1 Cor.
9,1 - 1 2. Il diritto dell'apostolo
preta eventi del passato come «prefigurazioni» di eventi futuri della storia della salvezza. L'interpretazione allegorica, sviluppata dagli stoi ci e ripresa dal giudaismo ellenistico, presuppone per contro, al posto del senso letterale, un più profondo senso spirituale. La domanda «for se che Dio si preoccupa per i buoi ?», che per la sua stessa formulazio ne richiede una risposta negativa, mostra che Paolo usa il passo in ma niera allegorica, riferendo lo ai predicatori cristiani. Dappertutto ( os sia, in ogni caso), attraverso le parole dell'Antico Testamento, Dio si rivolge ai cristiani nel presente, esortando e ammonendo ( 1 o, 1 I ). La parola dell'aratore e del trebbiatore o è una citazione da uno scritto apocrifo perduto (cf. 2,9 ), oppure, più verisimilmente, è una libera in terpretazione di Deut. 2 5,4. Nel v. I I l'affermazione di 1 ob viene ap plicata a Paolo e ai suoi collaboratori. Le parabole di Gesù (Mt. I J,J-9 par.; 24-30; 3 I s. par.; Mc. 4,26-29) hanno reso corrente tra i cristiani l'immagine del seminare e mietere per indicare la predicazione missio naria; Paolo si serve qui della metafora della semina per indicare la sua opera di fondatore della comunità di Corinto. Insieme con i suoi col laboratori egli ha sparso il seme spirituale (la parola della croce); non c'è perciò nulla di grave se, in cambio, con doni materiali la comunità assicura all'apostolo il mantenimento (cf. Rom. I 5,27). Nel v. 1 2 l'at tenzione si sposta su altri missionari che si differenziano espressamen te da Paolo. Costoro usano senza esitazione la loro autorità (potere di screzionale) nei confronti di corinti, per vivere a spese della comunità; a maggior ragione questo diritto spetterebbe al fondatore della comu nità. I missionari giudeocristiani itineranti venivano mantenuti dalla comunità, poiché, da contadini o pescatori quali erano, nei loro viaggi non avevano alcuna possibilità di svolgere un lavoro proprio. Non si devono circoscrivere gli «altri» agli avversari di 2 Cor. IO- I J, il cui in serimento nella lettera è avvenuto solo dopo la redazione, a Corinto, della prima lettera. La trattazione dei vv. 4- 1 2a ha dimostrato in diverse maniere il di ritto dell'apostolo al sostentamento da parte della comunità. Sobbar candosi pesanti fatiche, Paolo non ha invece fatto alcun uso del diritto che gli spetta, per non creare inciampo al vangelo. Già in 1 Tess. 2, 5 s. Paolo prende le distanze dai filosofi che vanno in giro predicando per desiderio di onore e di guadagno (e forse anche dai missionari giudeo cristiani suoi avversari). Nella pericope che segue espone più diffusa mente i motivi teologici che lo hanno spinto alla sua rinuncia.
2.2.2..
La rinuncia di Paolo (9, I J- I 8)
1 3 Non sapete che quelli che celebrano il culto nel tempio mangiano di ciò che appartiene al tempio, e che coloro che prestano il loro ufficio all'altare divengono partecipi dell'altare ? 14 Così anche il Signore ha disposto che coloro che predicano il vangelo vivano del vangelo. 1 5 Ma di tutto ciò io non ho mai fatto uso. Non lo scrivo certo perché (d'ora in poi) ciò valga anche per me; preferirei piuttosto morire che ... - no, nessuno (mi) annullerà il mio vanto. 16 Se infatti io p redico il vangelo, non ne consegue per me alcun van to; giacché necessità mi spinge, e guai a me se non predicassi il vangelo. 17 Se lo facessi di mia iniziativa, avrei (diritto a) un compenso. Ma se non lo faccio di mia iniziativa, mi è (solo) stato affidato un mandato. 1 8 Qual è allora il mio compenso? Che io, in qualità di predicatore del vangelo, pre dichi gratuitamente, senza far uso del diritto che il vangelo mi dà. 13
Num. I 8,8.J I . 14 Le. 10,7; Mt. I o, Io. 16 Ger.
20,9.
1 3- 1 8. Paolo fonda espressamente la sua rinuncia spontanea al man tenimento sul diritto dell'apostolo, risalente a Gesù, di vivere a carico della comunità. Rinvia quindi alla regola propria di ogni ordinamento cultuale, nota anche a Corinto, secondo cui tutti coloro che servono il tempio dal tempio ricevono anche il loro sostentamento (cf. Num. 1 8, 8.3 x; Deut. 1 8,1 ss.). Le due frasi hanno lo stesso significato; probabil mente la prima si riferisce a tutto il personale del tempio, ivi inclusi i leviti, la seconda in modo speciale ai sacerdoti che servono l'altare. Paolo riconosce un riferimento positivo alla comunità cristiana soltan to nell'ordinamento veterotestamentario, non nei culti pagani . L'argo mentazione muove da motivi umani razionali, passa alla legge mosaica e culmina in una parola del Signore. Paolo cita Le. 1 0,7 (Mt. x o, 1 o) non esattamente alla lettera, ma presuppone che la parola del Signore sia conosciuta a Corinto. Sulla base di questo diritto da lui dimostrato, nel v. I 5 l'apostolo spiega la sua personale, netta rinuncia a esso, e ri badisce la sua ferma intenzione di attenersi a tale rinuncia anche per il futuro. Non scrive col segreto proposito di indurre i corinti a soste nerlo con un donativo. Quanta importanza abbia per Paolo la rinun cia al mantenimento, lo mostra l'esclamazione che segue: «Preferirei piuttosto morire che. . . » - ci si aspetterebbe «desistere da questa rinun cia». Ma Paolo interrompe la frase, riprendendo da capo: «Nessuno de ve annullarmi il mio vanto>>. L'anacoluto esprime la tensione appassio nata e la ferma risolutezza dell'apostolo a non cedere su questo punto; evidentemente per la vita apostolica di Paolo questa rinuncia ha un
I 54
1
Cor. 9,1 J-18. La rinuncia di Paolo
grande significato teologico. Qui Paolo considera anche tale rinuncia un motivo di vanto per sé. Sta forse indulgendo, contro i suoi stessi principi, a gloriarsi ? Sarebbe così solo se si vantasse di un'azione con cui pretendesse d'affermarsi di fronte a Dio. Ma in realtà si sta vantan do di un comportamento che gli procura fatica e sofferenza; pertanto, egli si vanta in definitiva della croce (Gal. 6, 1 4), in cui è all'opera la forza di Dio. Con le proposizioni che seguono (v. I 6) Paolo spiega perché tenga tanto a quella rinuncia. Egli non può trarre alcun titolo di vanto per sé dal fatto di predicare il vangelo, perché la predicazione gli è imposta come una necessità. «Guai» per la sua vita (Os. 7, I 3) se venisse meno all'incarico di Dio! Si fa evidente qui quanto la conce zione paolina dell'apostolato sia fondamentalmente segnata dalla sua chiamata (Gal. I , I 5 s., cf. Ger. I ,6; I Cor. I s ,8). Sulla via di Damasco, con la forza di un destino fatale, Dio ha messo l'ex fariseo su una via affatto nuova per tutta la sua vita a venire. Ma Dio non è un destino im personale come il fato ellenistico-romano, ma una persona che ci sta di fronte. Là dove Dio interviene con la sua potenza, l'uomo non è più in grado di opporsi (Am. 3,8; cf. Ger. 20,9); Dio tuttavia non sop prime la libertà d eli 'uomo, ma lo chiama anzi alla vera libertà. Ora Pao lo comincia a mostrare come stiano le cose in fatto di ricompensa sul piano dei meriti. Su questo piano il lavoratore salariato di condizione libera ha diritto a una mercede come compenso per il suo volontario impegno nel lavoro. Ciò non vale per lo schiavo, che è obbligato al la voro e non ha col suo padrone un rapporto di lavoro salariato. Paolo applica quest'idea al suo ministero apostolico, considerandosi «schia vo di Gesù Cristo» (Rom. I ,I). Paolo avrebbe diritto alla mercede se predicasse il vangelo di sua volontà, come lavoratore salariato libero. (Riferito a Paolo, il v. 1 7a, costruito come un'ipotetica della realtà, ha valore irreale). Ma Paolo non è diventato apostolo per propria deci sione, bensì per intervento di Dio. Poiché in realtà egli non predica il vangelo di sua iniziativa, in quanto investito della funzione di aposto lo si trova nella condizione d'uno schiavo cui sia affidata una mansio ne di amministratore, che non ha quindi alcun diritto a un compenso. Se, ciononostante, nel v. 1 8 Paolo s'interroga sul suo compenso, egli si trasferisce con ciò sul piano della grazia (Rom. 4,4). Questo passaggio è espresso col paradossale gioco di parole: il suo «compenso», che è a un tempo il suo «vanto» (v. I 5), consiste nel predicare il vangelo «sen za compenso» (gratuitamente). Il «fatto>> che egli pratichi la sua attivi-
1
Cor.
9, r 9-2 3. La libertà di Paolo
al servizio di tutti
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tà non lascia spazio per un impegno spontaneo; la sua spontaneità trova posto solo nel «modo» in cui diffonde gratuitamente la buona novella. Paolo opera quindi per servire, se possibile, a tutti. La sua ri nuncia al mantenimento è quindi l'esercizio dell'amore fondato in Cristo, che esiste per gli altri. Il «compenso di grazia» consiste nel do no della libertà di Paolo da se stesso e dai criteri di questo mondo, al fine di servire gli altri nell'amore (cf. v. 19). Quest'atteggiamento non contraddice alla dottrina della giustificazione, poiché il compenso non riguarda il conseguimento della salvezza nel giudizio escatologico, ma l'operare dell'apostolo nel presente, che avviene nella fede e sul cui valore il giudizio ultimo sarà pronunciato dal Signore (3, 1 5 ). - Con la sua rinuncia per amore al mantenimento, Paolo dà ai forti di Corinto un esempio che dovrebbero imitare, rinunciando a mangiare a scopi dimostrativi carne sacrificata agli idoli, per non indurre in peccato i fratelli deboli e, al tempo stesso, si contrappone ai «critici» dei corinti, come loro legittimo apostolo. 1.1.3.
La libertà di Paolo al servizio di tutti (9, 19-23)
19 Infatti, libero come sono da tutti, mi sono fatto schiavo di tutti per gua dagnare quanti più possibile. 20 E mi sono fatto come un giudeo con i giu dei, per guadagnare giudei; (mi sono fatto) come uno sotto la legge con co loro che sono sotto la legge - pur non essendo io stesso sotto la legge -, per guadagnare quelli sotto la legge; 2 1 (mi sono fatto) come un senza legge con i senza legge - pur non essendo io senza legge davanti a Dio, ma vi vendo nella legge di Cristo -, per guadagnare quelli senza legge. 22 Mi so no fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare in ogni modo qualcuno 2 3 E faccio tutto per il vangelo, per aver parte a esso. .
19 Mt. 20,26.
%0 Atti 16,3 ; 2 1 ,20-26. %1
7, 1 9;
Gal. 6,2. 22 2 Cor.
I 1 ,29.
Paolo svolge ora il tema della libertà richiamata nel v. I , riferendosi alla sua attività missionaria. Il legame assoluto di Paolo con Cristo nella fede fonda la sua libertà da se stesso e dagli uomini, e tale libertà è il presupposto della sua dedizione a tutti i gruppi. La pratica missio naria di Paolo è un effetto della sua cristologia d'ispirazione escato logica. Se la salvezza non si consegue con le opere della legge ma con la fede in Cristo, è tolto il discrimine tra giudei e gentili (cf. Ef 2, 1 5 s.) ed è offerta una nuova apertura nei confronti di entrambi i gruppi.
I s6
I
Cor. 9, 1 9-2.). L a libertà di Paolo al servizio di tutti
Tale apertura non va scambiata con un'abile capacità tattica di adat tamento in ogni direzione. Il v. I 9 espone inizialmente, a mo' di tito lo, il principio missionario di Paolo; i vv . 20-22a lo applicano ai di versi gruppi; il v. 22b ricapitola il tutto, mentre il versetto finale riba disce ancora una volta l'intenzione centrale. 1 9-23. Poiché Paolo non dipende da nessuno, può rivolgersi ugual mente a tutti. In quanto «schiavo di Cristo», gli è data la libertà di far si servo di tutti (2 Cor. 4, 5) conformemente alla parola di Gesù: «Chi tra voi vuole essere grande sia vostro servo» (Mt. 20,26). Martin Lute ro ha espresso in modo insuperabile tale idea con queste due frasi: «Un cristiano è un libero signore di tutte le cose, e non sottoposto a nessu no» (in virtù della fede). «Un cristiano è un servitore sollecito di tutte le cose, e sottoposto ad ognuno» (in virtù dell'amore). La rinuncia di Paolo al suo diritto al mantenimento è in funzione del suo compito missionario: in questo modo l'apostolo vuole conquistare al vangelo il maggior numero possibile di uomini. Paolo sa però anche che la fede non è cosa di tutti (cf. 2 Tess. 3,2 ). Egli ha davanti agli occhi i due grup pi in cui divide l'umanità, giudei e gentili. Nella sua trattazione Paolo non abbandona la sua effettiva posizione, quella di giudeo di nascita. L'espressione «stare sotto la legge» caratterizza il giudeo che aderisce alla legge mosaica. Da questo punto di vista, in Paolo s'è prodotta una frattura radicale, in quanto, come credente, egli è ora «sotto la grazia» (Rom. 6, 1 5 ) . Benché esonerato dalla legge, Paolo può tuttavia rispetta re per amore i costumi giudaici (cf. Atti 1 6,3; 2 1 ,20-26) e farsi così «co me un giudeo» senza ricadere nella servitù della legge. I gentili vengo no invece definiti dal punto di vista giudaico come «senza legge», poi ché non hanno la legge di Mosè (cf. Rom. 2,I 4). Come in precedenza l'apostolo ha detto di farsi «come un giudeo» per i giudei, così ora di ce di farsi «come un senza legge» per i gentili. Paolo non ha il gusto del le antinomie, ma descrive semplicemente il suo reale rapporto con la legge. Per lui la libertà dalla legge non significa assenza di legge, ma unione con Cristo, nel quale la legge di Mosè è giunta a compimento. Nella fede in Cristo si perviene alla vera obbedienza, poiché un adempimento della legge con cui l'uomo si fa valere non è più un' ob bedienza infantile. Il dovere di Paolo di obbedire alla volontà di Dio si compie in quanto nel suo operare egli è «costretto» dali' amore di Cristo (2 Cor. 5,14). Il suo rapporto con Dio non è più determinato primariamente dalla legge di Mosè, bensì dalla «legge di Cristo», ossia
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Cor. 9,24-27. La rinuncia nella competizione per una corona eterna
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dall'amore (Gal. 6,2; cf. Rom. I J,8- I o). In contrapposizione all'essere «senza legge davanti a Dio», in questo passo Paolo usa l'espressione «incorporato alla legge di Cristo» (ennomos Christou). Dal momento della sua conversione, Paolo si regola su Cristo come «norma» della sua condotta di vita (1 Cor. 7, 1 9; Gal. 5,6; 6,2). La legge di Mosè con serva il suo significato di promessa di Cristo. Giustamente Lutero ha spiegato che Paolo non ha fatto di Cristo un «nuovo Mosè». Per l'apo stolo l'amore è il compimento della legge, così come per Gesù tutta la legge si compendia nel duplice comandamento dell'amore (Mt. 22,3740 ). Col richiamo ai deboli Paolo accenna alla questione della carne dei sacrifici del cap. 8. Se con i deboli s'intendessero solo i gentili sen za legge del v. 2 1 , nel v. 22 ci si dovrebbe aspettare, in corrispondenza, un riferimento ai giudei. Viene usato il termine « guadagnare» non tan to per esprimere che Paolo mira solo alla conversione di non cristiani; è possibile si pensi ai deboli in generale, quindi anche a cristiani deboli (2 Cor. 1 1 ,29). Nel v. 22 di proposito Paolo non menziona i forti, af finché non si sentano confermati nella loro mancanza di riguardi. L'at tenzione di Paolo per i deboli è espressione della sua teologia della cro ce. Ricapitolando, l'apostolo afferma di essersi fatto tutto a tutti per salvare in tutti i modi (gioco di parole con «tutti») qualcuno. L'ade sione a Cristo nella fede fonda la speranza della salvazione nel giudi zio finale. Affinché la sua apertura a giudei e ai gentili non venga fra intesa come un adattamento a ogni costo, come un «andare dove tira il vento», Paolo ricorda infine il motivo che guida tutto il suo lavoro missionario, ossia la partecipazione al vangelo. Poiché nel vangelo so no contenuti la vita e la salvezza, si sente obbligato a predicarlo al mag gior numero possibile di uomini prima della parusia di Cristo, e iscri ve se stesso nel novero dei credenti cui, mediante il vangelo, è dato spe rare nella salvazione finale. La sua personale salvezza dipende dal suo rimanere fedele all'incarico apostolico. 2.2.4.
La rinuncia nella competizione per una corona eterna (9,24-27)
24 N o n sapete che i corridori nello stadio corrono tutti, ma uno solo ottie ne il premio ? Correte in maniera da attenerlo! 2 5 Ogni atleta si attiene a una completa rinuncia; costoro lo fanno per una corona corruttibile, noi inve ce per una incorruttibile. 26 lo corro, ma non alla cieca; faccio pugilato, ma
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1 Cor. 9,24-27. La rinuncia nella competizione per una corona eterna
non dando colpi al vento, 2.7 bensì do colpi mirati al mio corpo e lo sotto metto affinché, mentre predico agli altri, non sia riprovato io stesso. 24 Fil.
},14
•
.15 2
Tim. 4,8; 1 Pt. St4·
La pericope, unitaria per stile e contenuto, ha una funzione di rac cordo: da un lato fa riferimento alla rinuncia di Paolo (cap. 9), dall'al tro prepara l'ammonizione rivolta ai forti nel cap. 1 o. Anche in altre situazioni si pratica spontaneamente la rinuncia per conseguire un de terminato scopo. Paolo fa qualche esempio prendendolo dallo sport. L'immagine della competizione veniva usata dai filosofi cinico-stoici per descrivere la pratica delle virtù con tutte le sue rinunce. Le gare negli stadi erano note in tutto il mondo ellenistico. Ai corinti erano particolarmente familiari i giochi istmici, che vennero celebrati di nuo vo a partire dal 44 a.C. Nell'atletica leggera, il pentathlon comprende va corsa, salto in lungo, lancio del disco e del giavellotto, lotta; dell' atle tica pesante facevano parte il pugilato e il pancrazio, una combinazio ne di lotta e pugilato. �4-� 7. Il primo esempio di Paolo è la corsa, nella quale tutti corro no ma solo uno ottiene il premio della vittoria. L'immagine vale solo per un aspetto particolare della fede cristiana (cf. Fil. 3,14), con la qua le tutti, se possibile, devono conseguire il fine della vita eterna. Il pun to che qui Paolo vuole evidenziare è lo sforzo del corridore in vista della meta, da cui deriva l'esortazione, per i credenti di Corinto, allo zelo nella corsa della fede. Ogni atleta sa che senza un duro allenamen to non è possibile alcun successo, e s'impone di conseguenza la rinun cia a tutto ciò che è dannoso per la sua capacità di ottenere risultati. Nell'antichità la corona era l'agognato segno onorifico per il vincitore (nei giochi istmici una corona di pino, in quelli di Atene e di Olimpia una corona d'olivo, mentre a Delfi una d'alloro). I cristiani non lotta no per una semplice corona corruttibile, ma per la corona della vita eterna (cf. 2 Tim. 4,8; 1 Pt. 5,4; Giac. 1 , 1 2; Apoc. 2, 1 o; J , I 1 ); a maggior ragione debbono evitare ciò che impedisce il conseguimento del fine. Paolo presenta se stesso come modello di tenace corridore della fede; poi cambia l'immagine con quella del pugilato; Paolo non è un pugile inesperto che, incapace di colpire nel segno, «dà colpi al vento». Egli dà invece colpi mirati contro il suo corpo per fortificarlo in vista della lotta. Alla lettera l'espressione greca significa portare un colpo preciso sotto l'occhio dell'avversario in maniera da chiuderglielo, rendendolo incapace di combattere. Anche qui occorre prestare attenzione all'in-
1
Cor.
1 0, 1 - 1 3 . L'esempio ammonitore della generazione del deserto
I 59
tenzione precisa dell'immagine. Non si tratta di un'ascesi di principio, né di ostilità nei confronti del corpo, ma dell'impegno consapevole di tutto l'uomo per il suo fine eterno. La rinuncia di Paolo non avviene per il motivo egoistico del proprio perfezionamento, ma è conseguen za dell'amore servizievole. Paolo non vuoi essere un testimone del van gelo solo a parole, ma con tutta la sua vita. Un apostolo che predichi agli altri, ma che con il suo comportamento smentisca costantemente quello che dice, toglie credibilità a se stesso e al suo annuncio. Taluni i nterpreti vedono qui un'allusione all'araldo (annunciatore) dello sta dio, ma un simile riferimento specifico non è verisimile, dal momento che i termini «predicare», «inesperto» e «riprovevole» sono affatto cor renti nel linguaggio della predicazione cristiana. 1. 3·
L'esempio ammonitore della generazione del deserto ( 1 o, 1 - 1 3)
1 - 1 3 . L'esposizione fatta fin qui ha mostrato come gli entusiasti di Corinto deducano la loro libertà di frequentare le prostitute e di par tecipare a banchetti sacrificali pagani dal loro possesso dello Spirito e della conoscenza, poiché a loro giudizio le cose e i fatti materiali non possono recare danno alle realtà pneumatiche. Ora, invece, emerge un'altra radice della loro coscienza di essere liberi, ossia la loro fiducia nell'effetto magico dei sacramenti del battesimo e della cena. I pneuma tici di Corinto sono quindi anche dei sacramentalisti (G. Bornkamm). È un dato d'esperienza che l'entusiasmo spiritualista e il falso sacra mentalismo vanno spesso di pari passo. Paolo si rivolge ora ai forti e indica loro il pericolo a cui si sono esposti col loro comportamento li bertino. Vista in questi termini, la pericope è un attacco di Paolo alla combinazione di sicurezza insieme pneumatica e sacramentale (H. Conzelmann) dei corinti pneumatici. L'obiettivo dei vv . 1 - 1 3 è espres so da Paolo stesso nel v. 1 2: «Chi crede di star dritto, badi di non ca dere». Paolo prepara così la sua messa in guardia dall'idolatria dei vv. 14-22. I forti di Corinto, che non credono all'esistenza degli idoli e partecipano quindi dimostrativamente ai pasti rituali pagani, corrono a loro volta il rischio di essere vittime dell'idolatria, poiché dietro gli idoli sono in agguato i demoni (vv. 19 ss.). Chi si espone di proposito al pericolo dell'idolatria e dell'impudicizia ne perisce, come mostra l'esempio della generazione degli israeliti del deserto. - La pericope tratta di eventi della storia dell'uscita dall'Egitto; nel far questo Paolo
I 6o
1 Cor. I o, I - s . I doni salvifi.ci che ci sono stati dati
potrebbe appoggiarsi non a un midrash giudeocristiano in sé conclu so, ma a varie idee dell'interpretazione giudeo-ellenistica. Con l'espres sione «non voglio che ignoriate» Paolo di solito comunica alla co munità qualche cosa di nuovo; in tal caso la novità è l'applicazione ti pologica del racconto dell'esodo alla comunità cristiana. Per l' aposto lo la comunità della nuova alleanza è in stretta connessione con la storia dell'antica alleanza; perciò l'instaurazione dell'antico popolo di Dio ad opera di Dio (esodo e marcia nel deserto) costituisce un tipo, una «prefigurazione» dell'instaurazione del nuovo popolo di Dio esca tologico mediante l'evento Cristo (incorporazione mediante il battesi mo e viatico permanente mediante la cena). In Cristo è giunta a com pimento la storia della promessa veterotestamentaria (2 Cor. I ,20 ). Le promesse veterotestamentarie sono «modelli» dell'evento Cristo. A partire dalla comunità cristiana Paolo si volge indietro alle esperienze della generazione del deserto e iscrive il battesimo e la cena nelle strut ture degli inizi d'Israele. Perciò la scelta e l'organizzazione degli avve nimenti sono determinate dai sacramenti cristiani e non seguono rigo rosamente la successione del racconto veterotestamentario. Teologi camente battesimo e cena formano qui già un'unità, anche se Paolo non impiega ancora, per indicarli, il termine comune di «sacramenti» (mi steri). La forza dell'argomentazione paolina si basa sul contrasto tra il conferimento effettivo dei doni salvifici fatto a tutti gli israeliti e il fat to che, ciononostante, la maggior parte di essi non abbia raggiunto lo scopo, essendosi dati all'idolatria e all'impudicizia. Ai corinti viene quindi ripetuto con insistenza: la ricezione dei sacramenti non dà la garanzia automatica della salvezza! Dopo il v. 5 si ha una certa cesura; all'interpretazione tipologica delle peregrinazioni nel deserto seguono l'utilizzazione paradigmatica di taluni tratti particolari (vv. 6- I I) e infine la conclusione parenetica (vv. I 2 s. ) . L'interpretazione tipologi ca è interamente al servizio della paraclesi. �·3 · • ·
I doni salvifici che ci sono stati dati (ro,r-s)
I Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri sono stati tutti sotto la nube e hanno tutti attraversato il mare, 2 e tutti sono stati battez zati in Mosè nella nube e nel mare. 3 E tutti loro hanno mangiato lo stesso cibo spirituale 4 e tutti hanno bevuto la stessa bevanda spirituale; hanno bevuto, infatti, dalla roccia spirituale che li seguiva; e la roccia era Cristo.
r
Cor.
I o, I - s . I
doni salvifici che ci sono stati dati
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5 Ma Dio non si compiacque nella maggior parte di loro; infatti furono at terrati nel deserto. 1 Es. I J,ZI s. J Es. 1 6t4. 4 Es. 1 7,6. S Num. I4ti6. 1-5. Al battesimo corrisponde, presso i Padri, lo stare sotto la nube e l'attraversamento del mare dei giunchi. Paolo può tranquillamente presupporre come noto il racconto dell'esodo. Secondo Es. 1 3,2 1 , Jah vé precedeva gli israeliti, di giorno in una nube a forma di colonna, di notte in una colonna di fuoco (cf. Es. 1 4, 1 9 s.). Lo stare «sotto» la nu be si riferisce a Sal. 1 05,39: «Distese una nube per coprirli» (cf. Sap. 1 9, 7). Il passaggio attraverso il mare è così descritto in Es. 14,2 1 s.: «Le acque si divisero e gli israeliti marciarono attraverso il mare su terreno asciutto». Anche se gli israeliti non erano toccati dall'acqua, erano cir condati dai flutti; secondo l'interpretazione rabbinica, il mare formò una specie di «volta» (Bill. 111, 40 5 ). All'unicità dell'esodo dall'Egitto, la «pre-figurazione» della redenzione ad opera di Cristo, corrisponde l'unicità del battesimo. Nel v. 2 s'incontra l'applicazione al battesimo. L'espressione «essere battezzati in Mosè» è costruita per analogia con «essere battezzati in Cristo» (Rom. 6,3; Gal. 3,27); si tratta di un'ab breviazione dell'espressione «essere battezzati nel nome di Cristo, o del Signore GesÙ» (Atti 8, 1 6; 1 9, 5 ; cf. Atti 3 , 1 6; 1 Cor. I , I J}, e designa il diventare proprietà di Cristo e perciò anche l'appropriarsi della sal vezza in Cristo. La nube è il segno della presenza di Dio; a essa, nel battesimo, corrisponde lo Spirito. La relazione tipologica esprime un nesso storico-salvifico, ma non significa l'identità degli avvenimenti dell'esodo con i sacramenti cristiani. Il pane e il vino della cena sono messi in rapporto col dono del cibo della manna (Es. 1 6,4} e della be vanda dalla roccia (Es. 1 7,6; Num. 20,7- 1 1 ). Il linguaggio sacramentale cristiano chiama questi doni «cibo spirituale» e «bevanda spirituale»; nell'ambito dell'Antico Testamento, «spirituale» significa l'origine di vina e la natura sovraterrena di questi doni (E. Schweizer, GLNT x, 1o6o). Il v. 4b presuppone la preesistenza di Cristo (cf. Fil. 2,6). L'idea della roccia che segue gli israeliti deriva da una tradizione aggadica del giudaismo che deduceva da Num. 20,7- 1 1 e 2 1 , 1 6 che la roccia li ac compagnava nel loro cammino per monti e valli. Il filosofo giudeo Fi lone di Alessandria (ca. 2 5 a.C. - 40 d.C.) interpretò allegoricamente la roccia come la sapienza; Paolo la mette in rapporto col Cristo preesi stente. Come Cristo è mediatore della creazione (8,6), così lo è per l'operare salvifico di Dio in Israele. C'è qui una differenza rispetto
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1
Cor. Io,6- I J. Monito contro la sicurezza in se stessi
alla cena, dove non si tratta del Gesù Cristo preesistente, ma del Gesù Cristo crocifisso e innalzato (Ch. Wolff). Per ben cinque volte Paolo sottolinea che «tutti» gli israeliti hanno ricevuto gli stessi doni salvifi ci. A ciò contrappone semplicemente il fatto che, ciononostante, la maggior parte di loro non si salvarono, poiché per la loro disobbe dienza furono atterrati nel deserto (Num. 1 4, 1 6; Sal. 78,3 1 ) . Tutto ciò è inteso a mettere in guardia i pneumatici di Corinto dal loro errato insistere sulla ricezione dei sacramenti. 2..3.2.. Monito contro la sicurezza in se stessi (I o,6- I J)
Questi eventi avvennero come esempi per noi, perché non desiderassimo il male, come quelli desiderarono. 7 Non divenite idolatri come divennero alcuni di loro; come sta scritto: «il popolo sedette a mangiare e bere, e si alzarono per danzare». 8 No n diamoci alla fornicazione come alcuni di lo ro fornicarono: e ne morirono in un sol giorno ventitremila. 9 Non met tiamo alla prova Cristo come fecero alcuni di loro, e perirono vittime dei serpenti. Io Non mormorate come alcuni di loro mormorarono, e periro no per opera dello sterminatore. I I Ora, tutto ciò è accaduto loro prefigu rativamente, ed è stato scritto a monito per noi, per i quali è giunta la fine dei tempi (del mondo). I2 Quindi, chi ritiene di star diritto guardi di non ca dere. I 3 Nessuna tentazione vi ha colti, se non umana. Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita per poterla sopportare. 6
6 Num.
I I,..f. ss. 7
Es. 32,6. 8 Num. 25,1
ss. 9 Num. 2 I , J s. 10
Es. 16,2 s. 13 Giac.
I , I J s.
A partire dal v. 6 Paolo applica gli avvenimenti dell'esodo alla situazione di Corinto. Quei fatti sono esempi che servono di ammo nizione alla comunità cristiana. «Tipo» designa «la prefigurazione che annuncia l'evento escatologico» (L. Goppelt, GLNf XIII, 148 1). In apertura Paolo p ar la del desiderio del male, presente nella generazione del deserto; allude con ciò alla nostalgia degli israeliti per le «pentole di carne dell'Egitto» (Es. 1 4, 1 -4; Num. 1 1 ,4 ss.). Parlando poi di idola tria e impudicizia, sceglie i due comportamenti che a Corinto hanno avuto una parte speciale. Dalla storia del vitello d'oro (= l'immagine del toro) l'apostolo ricava un monito per i corinti contro l'idolatria. Paolo cita Es. 3 2,6 secondo i LXX. Il mangiare e bere di cui si parla avveniva in banchetti sacrificali, mentre la danza cultuale davanti al vitello (Lutero ha tradotto il verbo con «giocare») illustra l'idolatria. 8- 1 3. Nel v. 8 Paolo ricorda l'impudicizia degli israeliti con le moa6-7.
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Cor.
xo,6- I ). Monito contro la sicurezza in se stessi
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bite di Shittim (Num. 2 5 , 1 - 9; et Sal. 1 06,28 s.) e la loro partecipazione ai banchetti sacrificati del Baal di Peor, e insieme la terribile punizione che Dio comminò loro. Secondo Num. 2 5,9 per un'epidemia persero la vita 24 ooo israeliti («in un sol giorno», nel testo dell'Antico Testa mento, non c'è). Forse il numero errato di 23 ooo che si trova in Paolo è dovuto al ricordo di Num. 26,62. La partecipazione dei corinti a ban chetti sacrificati pagani li porta a mettere alla prova e a tentare Cristo il Signore (cf. v. 22). Nel v. 9 Paolo ricorda l'insoddisfazione degli israeliti nel deserto e la morte di molti, vittime dei serpenti (Num. 2 1 , 5 s.; cf. Sal. 78,1 8). Più volte, nell'Antico Testamento, s i ricordano le mormorazioni nel deserto come espressione della mancanza di fiducia degli israeliti nella provvidenza di Dio (Es. 1 6,2 s.; Num. 1 4,2.36; 16, 1 1 ; 1 7,6). Paolo allude a una punizione del popolo ad opera dello sterminatore (cf. Num. 1 7,6 - I 5 ; Sap. 1 8,20-2 5). Con lo «Sterminatore» s'intende senz'altro l'angelo vendicatore inviato da Dio (come in Es. 1 2,23; 2 Sam. 24, 16; 1 Cron. 2 1 , I 2. I 5). Nel v. I I si mostra come la ti pologia venga inserita nello schema tempo del deserto - tempo finale e come abbia di mira il presente cristiano, inteso come il tempo del com pimento escatologico. Gli avvenimenti della storia dell'esodo hanno carattere esemplare e vengono riportati come monito per i cristiani che vivono nel tempo finale, inaugurato con la morte e risurrezione di Gesù Cristo. Il plurale «tempi del mondo» allude alle diverse epoche del vecchio eone (cf. 1 Cor. 2,7; 4 Esd. 1 1 ,44). Con una sentenza di for ma ritmica Paolo trae le conseguenze dell'intera pericope, mettendo in guardia i pneumatici di Corinto dalla loro sicurezza di sé, basata sui sacramenti. «Star diritti» ha qui il senso di «star fermi nella fede» ( 1 6, 1 3; Rom. 1 1 ,20). All'avvertimento Paolo unisce però subito, nel v. 1 3, una consolante promessa, così che per loro la tentazione non deve ne cessariamente diventare motivo di disperazione. Paolo rinvia alla fe deltà di Dio che conosce i limiti delle nostre forze. Non si dice chi sia il tentatore. Secondo 7,5 e 1 Tess. 3,5 la tentazione proviene da Satana c Dio la permette (cf. Giac. 1 , 1 3). La tentazione è caratterizzata come umana, cioè è «sopportabile per la debolezza della natura umana» (J. Jeremias, GLNT 1, 986). Il Dio fedele, insieme con la tentazione darà anche la via d'uscita dalla situazione pericolosa, così che nessuno sia tentato al di sopra delle sue forze. Paolo pensa qui anche alla prossima parusia di Cristo; nel v. 1 3 b si basa forse su un cosiddetto preesistente (> sono verisimilmente una creazione di Paolo; in ogni caso egli è il pri mo in cui sia dato cogliere tale concezione (Rom. 1 2 e 1 Cor. 1 2). L'apo stolo illustra la comunione istituita dalla cena del Signore mediante il culto sacrificate giudaico (cf. 9, 1 3). Egli rimanda ai pasti sacrificali del popolo d'Israele, costituitosi sulla base della discendenza naturale. Ai tempi di Paolo si praticava ancora il culto sacrificale nel tempio di Ge rusalemme. I sacerdoti, che ricevevano una parte della vittima sacri ficata (Lev. 7,6), erano detti soci dell'altare. Nel banchetto sacrificate comunitario di ringraziamento (toda) una parte della vittima è con sacrata a Jahvé, mentre il resto viene consumato il giorno stesso dai partecipanti al banchetto (Lev. 7, 1 5). Col mangiare insieme si costi tuisce uno stretto legame tra Dio e i partecìpanti (communio sacrale). Con i vv. 1 9 s. Paolo vuole respingere un malinteso. L'affermazione che col pasto sacrificate si costituisce una stretta comunione con la divinità potrebbe suscitare l'impressione che Paolo ritenga gli idoli delle vere divinità. È quanto egli respinge recisamente; in realtà non ci sono dei accanto a Jahvé, e nemmeno c'è carne sacrificata agli dei (8, 4-6). Già nel giudaismo, accanto alla concezione dell'impotenza e ina nità degli dei pagani (/s. 40), v'era anche l'idea che l'idolatria in realtà fosse rivolta ai demoni (Lev. 1 7,7; Deut. 32, 1 7; fs. 6 5 , 1 1 ; Sal. I o6,37). Chi, da cristiano, prende parte ai pasti sacrificati pagani entra volonta riamente nell'ambito dei demoni o degli spiriti malvagi, il che è peri coloso per i sedicenti forti e, nella sua cura pastorale, Paolo vuole pro teggere i corinti da tale pericolo. Perciò cena del Signore e banchetti cultuali pagani sono incompatibili, poiché nei due casi si costituisce una comunione sacramentale tra i partecipanti e il signore del banchet to, in un caso con Cristo, nell'altro con i demoni. Non si deve mettere insieme Cristo con i demoni. In materia il punto di vista decisivo è l'effetto di stabilire una comunione, che il pasto cultuale ha. Di fronte a un banchetto cultuale pagano, dedicato essenzialmente a divinità stra niere, si può praticare la confessione in Dio e in Cristo (8,6) solo ri nunciando a partecipare alla mensa delle divinità pagane (cf. 10,28). N eli'Antico Testamento l'espressione «mensa del Signore» designa
r
Cor.
1 0,2. 3 - 1 1 , 1 .
Sulla carne sacrificata agli idoli
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l'altare di Jahvé (Mal. 1 ,7. 1 2), nella cena del Signore designa invece la mensa di Gesù Cristo; il tavolo del sacrificio pagano è spesso detto «mensa del dio» (L. Goppelt, GLNT XIII, 1 3 8 1 s.). Come in I o,I6, Pao lo parla di vino e pane in ordine inverso rispetto a quello in cui ven gono distribuiti. Il v. 22 è un serio ammonimento ai pneumatici di Co rinto, tanto sicuri di sé, a non cadere negli errori della generazione del deserto e a non suscitare la gelosia di Dio. Paolo allude a Deut. 32,2 I , dove Dio annuncia agli israeliti u n castigo per i l culto che hanno tri butato agli idoli. Sarebbe un'enormità pensare che i cristiani siano più forti del loro Signore Gesù Cristo, che è stato innalzato a Signore su tutte le potestà (Fil. 2, 1o). 2. 5.
Presa di posizione conclusiva sul consumo di carne sacrificata agli idoli ( 1 o,2 3- I 1 , 1)
Tutto è lecito, ma non tutto giova al bene (è utile). Tutto è lecito, m a non tutto edifica. 2.4 Nessuno cerchi il proprio utile, ma quello dell'altro. 25 Tutto ciò che si vende al mercato delle carni mangiatelo, senza fare in dagini per ragioni di coscienza. 2.6 Poiché «del Signore è la terra e quanto contiene {la sua abbondanza)». 27 Se uno degli increduli vi invita e voi vo lete andare, mangiate tutto quel che vi viene servito, senza fare indagini per ragioni di coscienza. 28 Ma se qualcuno vi dicesse: «Questa è carne (sacra) dei sacrifici», non mangiatene, per riguardo verso colui che vi ha avvertito e per la coscienza. 29 Voglio dire non la vostra coscienza, ma quella dell'al tro. Perché, infatti, la coscienza di un altro dovrebbe giudicare della mia li bertà? 30 Se mangio qualcosa con rendimento di grazie, perché dovrei es sere condannato per ciò di cui rendo grazie? 3 1 Che voi mangiate, beviate o facciate qualunque altra cosa, fate tutto per l'onore di Dio! 32 Non date un motivo d'inciampo né ai giudei, né ai greci, né alla comunità di Dio, 3 3 così come anch'io vivo per compiacere tutti in tutto, e non cerco il mio vantaggio, ma quello dei molti, affinché si salvino 1 1 I Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. 2. 3
.
23 6,12. 24 Rom. 1 5,2. 2 6 Sal. 24, 1. JO Rom. 14,14;
3,1 7; 4,9.
1
Tim. 4,4. 31 CoL 3,17. 11,1
..,16; Fil.
Fin qui Paolo ha esposto due criteri di giudizio a proposito del man giare carne sacrificata agli idoli. Nel cap. 8 ha detto che davanti a Dio i cibi non comportano né svantaggio né vantaggio. Da questo punto di vista il cristiano è libero; deve però porre limiti alla sua libertà in con siderazione del fratello debole. Nel cap. IO Paolo ha poi sostenuto che
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1
Cor. I0,23- 1 1, I . Sulla carne sacrificata agli idoli
la partecipazione a banchetti sacrificali cultuali mette in contatto con i demoni, ed è quindi decisamente da evitare per amore della confes sione di Cristo. Qui, concludendo, l'apostolo dà ai corinti istruzioni concrete per il loro comportamento nella vita quotidiana, facendo va lere al riguardo i due criteri precedentemente svolti. Può sorgere un attrito tra il cap. 8 e il 10 solo se non si presta attenzione alla differen za tra contatti di tipo cultuale e contatti di tipo sociale. Nel cap. 5 Paolo ha già precisato che il cristiano non può e non deve lasciar cadere del tutto i rapporti sociali col suo ambiente. In forza di quanto è stato detto fin qui è altrettanto evidente che la sola possibilità del cristiano di fronte all'idolatria è un «no» deciso. In definitiva, nella questione del mangiare insieme con dei gentili, il fattore discriminante è se lo si debba considerare un pasto sacrificale cultuale, e quindi una circostan za di confessione di fede, oppure un semplice stare insieme sociale. 23-24. Nel v. 23 Paolo riprende il principio formulato in 6, 1 2, appli candolo alla cooperazione dei cristiani all'edificazione della comunità (cf. 8, 1 ). Chi è legato a Cristo nella fede è libero in tutto (3,23), ma il suo Signore lo chiama a servire gli altri. L'egocentrica dimostrazione della propria libertà distrugge la comunione e impedisce l'edificazione della comunità. In apertura Paolo formula in termini affatto generali il comandamento cristiano dell'amore come servizio agli altri (Rom. 1 5, 2 ); Fil. 2,4 ss. mostra che egli intende questo comportamento come pro va che si è alla sequela di Gesù Cristo. - Nella comunità di Corinto v'erano pneumatici entusiasti che, a scopo dimostrativo, mangiavano pubblicamente carne proveniente dai sacrifici agli idoli (i «forti» del cap. 8); v'erano poi altri membri della comunità che si lasciavano fuor viare dall'esempio dei forti ad agire contro la loro coscienza (debole) e a mangiare anch'essi di quella carne (si tratta dei «deboli» del cap. 8); infine, v'erano anche degli avversari di principio della pratica di man giare la carne sacrificata agli idoli, i quali, al pari dei giudei, cercavano di difendersi dalla contaminazione indagando sulla provenienza della carne (I o,2 5 ). Per i giudei era in generale vietato il consumo di carne proveniente dal mercato. Nei vv. 2 5 -27 l'apostolo tratta dapprima di due casi in cui i corinti possono, senza scrupoli di coscienza, praticare la libertà cristiana. In seguito, per mezzo di un terzo caso (vv. 28-30}, invita a circoscrivere la propria libertà con la rinuncia spontanea a mangiare le carni sacrificate agli idoli, là dove il riguardo per gli altri lo richiede.
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Cor. 10,2 3- I 1, 1 . Sulla carne sacrificata agli idoli
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I 0,2 S- I I , I . A proposito della carne proveniente dal mercato Paolo sostiene senza limitazioni la libertà cristiana in materia di cibi, poiché in questo caso non si tratta di mangiare in comunione con gentili. In questo caso la coscienza del credente legata a Cristo non esige che questi faccia delle indagini sulla provenienza della carne. Paolo critica in tal modo gli scrupoli legalisti dei cristiani deboli. Pur non citando alcuna parola di Gesù sui precetti alimentari, su questo punto Paolo adotta completamente la presa di posizione di Gesù in Mc. 7· L'apo stolo perciò si dissocia chiaramente dal ritualismo legale dei giudei. Nel v. 26 Paolo fonda la libertà cristiana con la fede nella creazione, citando da Sal. 24, 1 : «di Jahvé è la terra e quanto contiene» (cf. Sal. 50, 1 2). Questo versetto serviva ai rabbi per giustificare che nessuno do vesse mangiare prima di aver pronunciato una benedizione (tBer. 4, 1). Tutti i doni della creazione appartengono a Dio, e quel che Dio ci dà come nutrimento è in sé puro e può venir consumato senza ripensa menti (Rom. 1 4, 1 4.20; cf. 1 Tim. 4,4). Questa libertà vale per i cristiani in caso d'invito in una casa privata di gentili. Anche in questo caso il cristiano non deve indagare se tra i piatti che vengono serviti vi sia carne proveniente da sacrifici agli idoli. I cristiani possono mangiare senza preoccupazione tutta la carne che l'ospite gentile fa servire loro, fintantoché non si dica loro espressamente che si tratta di carne sacri ficata agli idoli; fino a quel punto, infatti, non s'intacca il carattere pu ramente sociale del pasto. Che in questo caso non si possa includere l'invito a un pasto sacrificale in un tempio pagano, in cui è evidente fin dall'inizio il carattere cultuale, è chiarito da quanto si dice in 10, 1 4 22 . Nella casa privata gentile la situazione cambia però nel momen to in cui qualcuno dei commensali qualifica la carne che viene servita come «carne sacra dei sacrifici». A questo punto per il cristiano si pre senta una situazione in cui egli deve testimoniare praticamente la sua confessione di Cristo (status confessionis) non mangiando di quella car ne. In questa situazione in cui confessa la propria fede il cristiano ren de onore a Dio testimoniando chiaramente col comportamento il pro prio «no» all'idolatria e la propria appartenenza a Gesù Cristo. A que sto punto la scena ha assunto in certo modo un carattere pubblico (cf. Le. 1 2,8) e il mangiare in tal caso equivarrebbe a un pasto cultuale. La confessione di Cristo, mediante la rinuncia all'assunzione della carne proveniente da sacrifici qualificata come tale, deve avvenire «per ri guardo verso colui che vi ha avvertito e per la coscienza». Gli inter-
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1
Cor. r 0,2. 3 - I I, I . Sulla carne sacrificata agli idoli
preti si sono dati molta pena per chiarire chi sia colui che dà l'avverti mento (ho menysas). La lettera del testo lascia aperte molte possibilità; potrebbe essere lo stesso padrone di casa gentile (H. Conzelmann) oppure un ospite gentile (H. Lietzmann), cui si addice particolarmen te l'espressione «sacra carne dei sacrifici», (anziché carne dei sacrifici «agli idoli»). Potrebbe anche essere un cristiano che per cortesia si ser ve della denominazione gentile - ma la cosa è meno verisimile. A mio parere, la spiegazione più ovvia è che l'informazione sia data dal pa drone di casa gentile, che certo sa che cosa sta facendo servire. A Pao lo non interessa né stabilire esattamente chi sia colui che dà l'avverti mento, né quali siano i suoi motivi, ma gli interessa solo il fatto che con quell'affermazione è sorta una situazione di confessione. Nel v. 2 7 Paolo s'era rivolto ai cristiani scrupolosi (con coscienza debole) al plurale, il che non va riferito esclusivamente a un invito rivolto a più, ma anche a quello rivolto a uno solo. Finora si pensava alla coscienza del cristiano (debole) cui ci si rivolgeva. Ora, nel v. 29, Paolo passa al singolare e chiarisce che, col caso or ora proposto, che richiede una confessione, non intende «la propria coscienza» (del cristiano debole) ma quella «dell'altro». Il termine di riferimento più prossimo per que sto «altro» è il sunnominato informatore, quindi il padrone di casa gen tile. Peraltro è anche possibile pensare, per questo «altro», a un cri stiano debole che in seguito senta parlare del fatto e se ne scandalizzi (H. Lietzmann; H.D. Wendland). Tuttavia, in base a 29b e 30 è prefe ribile l'interpretazione che fa riferimento alla coscienza di un gentile. Le domande dei vv . 29b e 30 spesso (sulla scorta di H. Lietzmann) ven gono interpretate come un'obiezione avanzata dai forti, che Paolo si farebbe da sé secondo lo stile della diatriba. Contro quest'interpreta zione depongono, però, sia l' «infatti» che introduce la frase, sia la fun zione che nella pericope hanno i vv. 3 1 -3 3 . Questi ultimi in realtà non sono una risposta diretta a quelle domande, ma costituiscono una ge nerale esortazione conclusiva. Il legame causale col v. 29a mostra che le due domande intendono fornire una giustificazione e un'ulteriore spiegazione del fatto che la rinuncia ad assumere carne sacrificata agli idoli non è dovuta alla coscienza stessa del cristiano, ma alla consi derazione per la coscienza di un «altro» che, nella nostra interpreta zione, è il padrone di casa gentile. Il gentile deve rendersi conto che il cristiano non mangia alla leggera carne sacrificata agli idoli, benché la sua fede gli proibisca l'idolatria. Paolo difende qui quella libertà cri-
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Cor.
I o,2. 3 - 1 I, 1 . Sulla carne sacrificata agli idoli
I 7I
stiana in materia di cibi che pratica egli stesso. In 4, I - 5 ha già esposto come egli non si renda dipendente dal giudizio dell'altro, ma si regoli invece su quanto gli dice la coscienza, lasciando l'ultima parola al giu dizio del Signore. Per l'apostolo la coscienza non è un'istanza autono rna e normativa, ma la voce che giudica criticamente se un'azione è conforme o contraddice alla volontà di Dio rivelata in Cristo. Perché dunque il cristiano dovrebbe lasciar criticare da un gentile e far dipen dere dalla di lui coscienza la propria libertà di mangiare carne sacrifi cata agli idoli, o di non mangiarla in caso debba confessare la propria fede? L'agire del credente non è determinato da una coscienza «estra nea». Paolo lo dice in prima persona. Se il cristiano si lasciasse deter minare da una coscienza estranea, farebbe da sé getto della propria li bertà. Se, invece, rinuncia spontaneamente a mangiare in considera zione della coscienza di un altro (gentile o cristiano debole), non sop prime la sua libertà, ma l'esercita al servizio dell'amore. Paolo si schie ra a favore di un uso della libertà cristiana guidato dall'amore. In tale libertà il cristiano accoglie la carne dalla mano del creatore come un dono buono di Dio, rivolgendogli per essa una preghiera di ringrazia mento (cf. 1 Tim. 4,4). Questo passo mostra come la cristianità primi tiva avesse accolto dalla tradizione giudaica l'uso della preghiera al momento dei pasti. - Con tale presa di posizione concreta, Paolo non dà unilateralmente ragione né ai forti né ai deboli di Corinto. Concor da con i forti sulla libertà in materia alimentare, ma critica il loro man giare in maniera dimostrativa la carne sacrificata agli idoli come un venir meno all'amore. Nei deboli, invece, l'apostolo condanna l'imba razzo e scrupolo legalista in un campo in cui Gesù Cristo ci ha reso li beri. Nell'esortazione dei versetti conclusivi Paolo estende il proble ma particolare dei cibi a ogni comportamento; tutto ciò che i cristiani fanno dev'esser fatto in onore di Dio (cf. Col. 3 , 1 7). In tal modo Paolo riconosce nella glorificazione di Dio il criterio supremo di ogni agire cristiano, che include in sé entrambi i punti di vista svolti nei capp. 8 e I O. La regola di non dare scandalo all'altro non vale solo nel trattare con sorelle e fratelli cristiani. La comunità di Corinto aveva a che fare con giudei e greci (ossia gentili) del mondo mediterraneo ellenistico e costituiva una comunità locale nell'ambito dell'intera cristianità. Il compito missionario del cristiano è rivolto a tutti gli uomini. Nel v. 3 3 Paolo propone se stesso come modello, e si rifà alla presentazione della sua prassi missionaria di 9,20-22. L'intenzione che lo guida nella
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n fondamento dell'etica paolina
sua libertà al servizio di tutti non è l'egoistico desiderio di piacere agli altri e di adattarsi a loro, ma lo sforzo di cercare, anziché il proprio vantaggio, quel che è meglio per gli altri, e questo meglio in definitiva è la loro salvazione nel giudizio finale. Cristo ha dato la vita per gli uo mini e ha predicato l'amore per il prossimo e per il nemico. Paolo è se guace di Gesù Cristo al servizio degli altri. Da questo punto di vista i corinti debbono farsi imitatori dell'apostolo, quindi anche di Gesù Cri sto. Paolo usa spesso il motivo del modello (Fil. 3,1 7; 4,9; 1 Tess. 1,6). Ma per i credenti Cristo è più di un modello, in quanto con la sua morte espiatrice e vicaria sulla croce li ha liberati dalla schiavitù di peccato, legge e morte. Nemmeno l'uomo più devoto può «imitare>> l'azione re dentrice compiuta una volta per tutte da Gesù Cristo sulla croce. Excursus Il fondamento dell'etica paolina Il principio dell'etica paolina è di tipo affatto diverso da quello, ad esempio, della dottrina greca della virtù. Secondo la filosofia stoica, con la sua ragione il singolo partecipa al logos o ragione del mondo; su ciò si fonda la sua capacità di darsi una formazione etica e il suo dove re di vivere secondo virtù. Il saggio, che vive secondo ragione e resiste agli affetti, col suo comportamento è in grado di accordarsi con la di vinità e col destino. L'etica di Paolo non è nemmeno un ampliamento di quella giudaica. L'uomo del giudaismo considera la legge, di cui si compiace, come il più alto dono di Dio a Israele. Egli consegue la sal vezza col suo agire e confida che Dio sia benevolo col peccatore, la sciando intervenire nel giudizio la grazia là dove colpe e meriti si bi lanciano. Secondo Paolo, giudei e greci hanno peccato e sono privi di quella gloria che Dio aveva destinato loro (Rom. 3,23). La radice de cisiva dell'etica paolina è l'escatologica azione salvifica di Dio nella morte e risurrezione di Gesù Cristo. Chi crede in Cristo ottiene la giustificazione e la salvezza solo per grazia (sola gratia). Sull'esclusivi tà della grazia, in cui l'operare salvifico di Dio non viene completato dall'opera religiosa ed etica dell'uomo, si basa anche la libertà della fede. - Mediante l'azione salvifica di Dio in Cristo i credenti sono bensì liberati dalle potenze del vecchio eone, ma continuano a vivere in «questo» mondo transitorio. La loro esistenza è quella di «nuove creature» (2 Cor. 5 , 1 7) , ma il nuovo eone non è ancora iniziato in mo-
D fondamento dell'etica paolina
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do visibile, poiché morte e risurrezione di Gesù Cristo non si sono an cora accompagnate col compimento del mondo. Su questo «imbricarsi degli eoni» si basa per Paolo l' «interferire di indicativo e imperativo» che va descritto propriamente come relazione necessariamente para dossale, di cui il credente deve sostenere la tensione nella propria esi stenza. Il rapporto tra indicativo e imperativo può essere illustrato con 1 Cor. 5,7: «Togliete il lievito vecchio, affinché siate una pasta nuova, così come siete realmente azzimi (in virtù dell'opera riconciliatrice di Dio in Cristo)». L'esortazione alla santificazione si radica interamente nell'indicativo dell'evento Cristo. Con la sua morte espiatrice e vicaria sulla croce e col suo Spirito, Gesù Cristo è fondamento, forza, metro di misura e scopo della «nuova vita» dei credenti. L'etica paolina è quindi decisamente fondata sulla cristologia. Que sto principio è svolto in maniera evidente nella fondamentale pericope di 2 Cor. 5,I4-2 1 . Cristo «è morto per tutti, affinché i viventi non vi vano più per se stessi, ma per colui che per loro è morto e risuscitato» (2 Cor. 5 , 1 5 ; cf. Rom. 1 4,7-9). Mediante l'azione riconciliatrice di Dio nella croce di Gesù, i credenti vengono inseriti nella giustizia salvifica di Dio, così da diventare «in Cristo», con tutto il loro essere, «giusti zia di Dio» (2 Cor. 5 ,2 I). Paolo fonda l'esortazione a patire il male piut tosto che a commetterlo ( I Cor. 6,7) richiamando come i cori nti siano «stati lavati, santificati e detti giusti nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del Dio nostro» (v. I I ). Quando esorta «con la dolcez za e la mansuetudine di Cristo» (2 Cor. I o, I ), l'apostolo fonda la sua parenesi sull'insieme di quanto Dio ha donato agli uomini con la sua azione salvifica in Cristo (cf. Rom. 1 2, I s.). - Con la redenzione a ope ra di Cristo i credenti sono diventati proprietà del loro nuovo Signo re, per il quale devono vivere e al quale devono obbedire in tutto il lo ro comportamento. È compito di Paolo portare i gentili all' obbedien za della fede (Rom. I,7; cf. 2 Cor. I o,5). Cristo ha dischiuso definitiva mente la volontà di Dio, dichiarando il duplice comandamento del l'amore sostanza di tutta la legge (Mt. 22,3 7-40). Così anche Paolo chia ma a obbedire al volere di Dio con una vita nell'amore determinata dallo Spirito, perché «l'amore è il compimento della legge» (Rom. I J, 8- Io). Nello Spirito si perviene al compimento delle esigenze della leg ge (Rom. 8,4) e all' «osservanza dei comandamenti di Dio» ( I Cor. 7, 19). I cristiani debbono seguire Cristo come modello (I I , I ; Fil. 2,5 ss.). Il radicamento cristologico delle istruzioni etiche di Paolo può es-
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Il fondamento dell'etica paolina
sere ulteriormente svolto in maniera specifica come fondazione sacra mentale, pneumatologica ed escatologica dell'etica paolina. Per quanto concerne la fondazione sacramentale si deve fare riferi mento in primo luogo al battesimo. Il testo classico per questa con nessione tra battesimo e nuova vita è il capitolo Rom. 6. Il paralleli smo tra le affermazioni relative all'evento del battesimo e all'evento Cristo (6,5-7 e 8- 1 0) indica dove il battesimo si fondi e donde il sacra mento tragga la sua forza. Mediante il battesimo i credenti vengono inseriti nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, così che la morte espiatrice e vicaria di Gesù diventa la loro morte ed essi da quel mo mento appartengono con tutta la loro vita al loro nuovo Signore e, in quanto tali, possono sperare anche di risuscitare in futuro con Cristo. Nella seconda parte (Rom. 6, 1 2 ss.) Paolo ribadisce che, al servizio da schiavi sotto il regime del peccato, deve ora subentrare l'obbedienza libera dei credenti al servizio della giustizia. La formula efficace di G. Bornkamm esprime in maniera concisa e precisa il nesso tra battesimo e nuova vita: «Il battesimo è l'attribuzione della nuova vita e la nuova vita è il ricevere il battesimo» (p. 50). È probabile che pure in I Cor. 6, 1 1 si alluda al battesimo. - Se il battesimo è l'instaurazione della nuo va vita, la cena è un rafforzamento, più volte ripetuto, sulla via della fede. La presenza del Signore in pane e vino obbliga i partecipanti a un comportamento di amore e comunione, conforme alla missione di Gesù Cristo (cf. l'esegesi di I Cor. 1 I , 1 7 ss.). La fondazione pneumatologica dell'etica paolina si presenta soprat tutto in Rom. 8 e Gal. 5 . La nuova vita, fondata sul battesimo, di colo ro «che sono in Cristo GesÙ» (Rom. 8, I ) è al tempo stesso una vita «secondo lo Spirito» (v. 4) o «nello Spirito» (Gal. 5 , 1 6. 2 5 ) o anche un «essere sospinti dallo Spirito» (Rom. 8, 1 4), poiché il Signore innalzato è presente tra i suoi nello Spirito (cf. 2 Cor. J,I 7)· Lo Spirito di Dio o di Cristo è forza e metro di misura della vita cristiana nell'obbedienza al Signore, cui i credenti sono stati consegnati nel battesimo. In Gal. 5 Paolo chiarisce che il dono dello Spirito obbliga a deporre le «opere della carne», dando la forza necessaria a una vita d'obbedienza e amo re; quest'ultimo, poi, è il primo «frutto dello Spirito» (Gal. 5 , 1 9-22). «Se viviamo nello Spirito, camminiamo anche nello Spirito» (v. 2 5 ). In I Cor. 1 2 la vita nello Spirito viene anche definita concretamente nel l' efficacia dei differenti doni dello Spirito (carismi), tutti prodotti da un medesimo Spirito (I Cor. I 2,1 1 ) .
Il fondamento dell'etica paolina
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Poiché nella cristologia paolina croce e risurrezione di Gesù Cristo sono visti come un evento escatologico che troverà compimento nella futura parusia, le istruzioni etiche di Paolo sono costantemente fonda te anche escatologicamente. Il lato presente dell'escatologia si esprime già neli' evento del battesimo. La fede che confida nella parola della croce si esplica nell'amore (Gal. 5,6) ; la nuova vita nell'amore (il pre sente) è anche un «attendere nello Spirito, mediante la fede, la giusti zia in cui si deve sperare» (v. 5 ) . La vita «nel Signore» {I Cor. 7,22; I s , 58; Fil. 4, 1 .4), fondata sul morire «con Cristo» (Rom. 6,8), troverà com pimento nella futura parusia di Cristo in un essere «con (presso) il Si gnore» ( I Tess. 4, 1 7) o «con (presso) Cristo» (Fil. 1 ,23 ) e nell'essere conglorificati con Cristo (Rom. 8, 1 7). Il vivere nella tensione tra «già adesso» e «non ancora» invita a sfrut tare il tempo (cf. Ef 5 , 1 6) e mette in guardia dal trattare come valori ultimi i beni passeggeri di questo mondo. Tale atteggiamento nei con fronti del mondo transeunte, improntato all'escatologia futura, viene illustrato in I Cor. 7,29-3 1 , nel cui contesto viene applicato alle que stioni concrete della vita coniugale. Le esortazioni di Rom. I 3 vengo no fondate guardando alla fine imminente (Rom. I 3, I 1- 14) . Nella pe ricope 1 Cor. I 5,29-34, servendosi di vari esempi, l'apostolo mette in luce il nesso tra la futura risurrezione dei morti e la vita nel presente. L'attesa del futuro non è un consolarsi col pensiero dell'aldilà, ma una forza che stimola a dar prova di sé nella vita terrena. Paolo mette tutto il suo zelo nel condurre a Cristo, nella parusia, la comunità santa e pura (2 Cor. I I ,2 ). Occasionalmente Paolo, per rafforzare la sua esor tazione, richiama il giudizio futuro (2 Cor. 5 , 1 o; cf. 1 Cor. 6,9 s.; Gal. 6,7 s.). Il giudizio in base alle opere ha il compito di garantire che la giustificazione mediante la fede in Cristo non va fraintesa come «gra zia a buon mercato». Il fatto che il Signore abbia l'ultima parola nel giudizio ( 1 Cor. 4,4 s.) sottolinea la serietà con cui Dio, col dono della grazia, ci dà delle responsabilità (Rom. 2,4). Il richiamo al giudizio di 2 Cor. 5 , 1 0 è supportato dalla speranza, illustrata nel v. 8, di «dimora re presso il Signore» col corpo spirituale del compimento escatologi co. Là dove Paolo esprime la certezza che i credenti supereranno il giudizio escatologico, non ripone la sua fiducia nell'affidabilità degli uomini, ma nella fedeltà e misericordia di Dio (Fil. 1,6; 1 Cor. I ,8); perciò la prossima venuta del Signore è motivo di gioia (Fil. 4,4-6) . Ricapitolando, la parenesi di Paolo, col suo fondamento escatologi-
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Il fondamento dell'etica paolina
co cristologico, si può definire una «etica della grazia» (H.D. Wend land). La libertà donataci in Cristo (Gal. 5 , 1 ) non porta alla sregola tezza e all'arbitrio dell'uomo, ma consiste nel nuovo vincolo con Cri sto Signore (I Cor. 7,22 s.; 9,2 1 }, da cui deriva nell'ambito etico una vita in fede, amore e speranza (I Cor. I J, I J).
Parte quarta
Risposta ai quesiti sul culto
( 1 1 ,2- 1 4,40)
Se la condotta del cristiano è strettamente legata al culto nell'assem blea della comunità, quest'ultimo dovrà svolgersi come «culto della vi ta quotidiana» (E. Kasemann). In questa nuova sezione Paolo affronta problemi del culto, occupandosi al riguardo di tre argomenti: il com portamento delle donne nel culto ( I I ,2- I 6), la celebrazione istitutiva della cena del Signore ( I I , I 7-34) e la valutazione dei doni dello Spirito (capp. I 2- I 4). L'espressione «per quanto concerne poi» (peri de), con cui di solito si fa riferimento a un quesito, si trova solo in I 2, I , ma è verisimile che anche la trattazione del cap. I I si basi su un quesito del la comunità. Forse la lode di I I ,2 si riferisce a una comunicazione in materia della comunità (H. Lietzmann). Comunque Paolo non si sa rebbe occupato in questo contesto del dovere delle donne di coprirsi il capo durante il culto, se nella comunità non vi fossero state delle dif ficoltà su tale questione. 1.
Sul dovere delle donne di coprirsi il capo durante il culto ( I I,2- I 6)
In questa pericope s'intersecano due aspetti, da un lato il rapporto tra uomo e donna nella vecchia e nella nuova creazione e, dall'altro, il conseguente comportamento della donna nella sua partecipazione at tiva al culto con la preghiera (glossolalica) e col discorso profetico. I giudeocristiani avevano fatto propria l'usanza giudaica che la don na comparisse in pubblico col capo coperto. Anche in Grecia la regola era che la donna rispettabile uscisse velata; quivi, però, l'usanza muta va con la moda. N ella comunità di Corinto, il cui nucleo era costituito di giudeocristiani, di norma le donne avranno preso parte al culto a capo coperto; così, comunque, dovettero andare le cose nel primo pe riodo in cui Paolo fu attivo a Corinto. In seguito, invece, evidentemen te molte donne, sullo slancio dell'entusiasmo dei corinti, hanno inter pretato la libertà cristiana includendovi anche l'abbandono dell'uso di
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I
Cor. 1 1,2-6.
Contegno decoroso e indecoroso durante il culto
coprirsi il capo. I vv. 1 3 - I 6 fanno capire con tutta chiarezza quale sia l'intenzione dell'apostolo sulla questione: Paolo vuole che nel culto della comunità le donne compaiano a capo coperto, rispettando quin di l'uso allora praticato ovunque nelle comunità cristiane. Paolo non si limita semplicemente a ribadire quest'usanza (giudeocristiana), ma cerca di creare l'accordo tra i corinti, dando a quell'uso un fondamen to teologico. Nel far ciò egli argomenta col racconto veterotestamen tario della creazione e con visioni del mondo del giudaismo ellenisti co, nel quale le tradizioni sapienziali giudaiche s'erano in parte com binate con motivi stoici. Nella tradizione sapienziale il ricorso all'ar gomentazione mediante la creazione e il costume era corrente. Poiché secondo il cap. 14 il discorso profetico trova posto nell'assemblea cul tuale della comunità, non è corretto riferire la pericope I 1 ,2- 1 6 alla pre ghiera domestica così da evitare una contraddizione con 14,3 3 -J6. Nel testo non si dice direttamente nemmeno che le affermazioni si limita no ai coniugi, anche se in Gen. 2,24 si ha presente il rapporto coniugale. L'uso che voleva coperto il capo delle donne si ispirava a quel che nel mondo antico si considerava decenza, decoro, onore e, viceversa, indecenza e disonore. Le donne devono coprirsi il capo, perché il por tare scoperti i capelli lunghi era considerato indecente. Questa conce zione di onore e disonore è un aspetto storicamente condizionato, e oggi non più accettabile, dell'argomentazione condotta nella pericope. Fondamentalmente Paolo sostiene la tesi che nel corpo di Cristo tutti i membri hanno la stessa dignità e dovere religiosi (Gal. 3,28), ma che la fede non sopprime i caratteri specifici dei generi conformemente al la creazione. Egli esorta in nome dell'amore a non dare scandalo ad al tri membri della comunità (dalla coscienza debole), col venir meno al decoro e all'ordine morale (cf. capp. 8- 1 0). La sezione contiene un'evi dente critica alla concezione entusiastica che della libertà avevano le donne di Corinto, che pregavano e profetizzavano a capo scoperto nel l'assemblea. Nel complesso non c'è alcun motivo cogente per conside rare questa sezione un'interpolazione postpaolina. 1.1.
Contegno decoroso e indecoroso durante il culto ( I 1 ,2-6)
2 Vi lodo poiché in ogni cosa vi ricordate di me e vi attenete alle tradizioni come ve le ho trasmesse. 3 Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e l'uomo è il capo della donna, e il capo di Cristo è Dio. 4 Ogni uo-
1
Cor. 1 1 ,2 -6.
Contegno decoroso e indecoroso durante il culto
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mo che nella preghiera e nei discorsi profetici tenga qualcosa sul capo diso nora il proprio capo. s Ma ogni donna che preghi o profetizzi a capo sco perto disonora il suo capo; è infatti come se fosse rasata. 6 Poiché, se una donna non si mette il velo, si tagli pure i capelli! Ma se per una donna è una vergogna tagliarsi i capelli o farsi rasare, allora deve coprirsi. 3 3,23;
Ef
5,2 3 .
Il v. 2 ha in certo modo funzione di raccordo. Proseguendo I I, I Paolo può affermare in tono di lode che per l'essenziale i corinti si sono attenuti a quanto egli ha detto loro in fatto di vita e di dottrina. Il v. I 7 mostra però come nella comunità vi siano anche dei fenomeni che l'apostolo non ha potuto lodare. Pressoché senza preamboli, nel v. J, con la formula «voglio che sappiate», con cui di solito introduce qualcosa di nuovo, Paolo passa al problema di come debbano presen tarsi le donne nel culto; la novità è l'uso escatologico cristologico del racconto della creazione. L'apostolo pone all'inizio un principio teo logico (v. 3) dal quale deve risultare l'atteggiamento esposto nei vv. 46. Questo principio contiene una serie ordinata per gradi, a fondamen to della quale c'è una successione cosmologica di ordini, com'era uso, in forme diverse, nella filosofia ellenistica e in Filone (ad es. Dio, mon do, uomo). In Paolo la serie non è costruita né in ordine ascendente (donna, uomo, Cristo, Dio), né in quello contrario semplicemente di scendente, ma è riorganizzata a partire da Cristo. L'orientamento cri stologico si esprime nel fatto che all'inizio della serie c'è Cristo in quan to capo dell'uomo, e al termine c'è Dio in quanto capo di Cristo. For malmente uomo e donna sono equiparati in quanto ambedue hanno un capo sopra di sé, Cristo per l'uomo, l'uomo per la donna; come tali l'uno e l'altra sono orientati a Cristo, il quale a sua volta ha un capo sopra di sé, cioè Dio, il Padre (8,6). Il figlio è sottomesso al Padre cui obbedisce (Fil. 2,8; cf. 1 Cor. 3,2 3; 1 5 ,27 s.). Da questo rapporto di Cri sto con Dio, caratterizzato da amore e obbedienza, uomo e donna de vono apprendere amore e obbedienza nei loro reciproci rapporti. In questa serie ascendente verso Dio sono presupposte sia la preesistenza e l'innalzamento di Cristo, sia la fede nel compimento della vecchia creazione mediante la nuova creazione in Cristo (cf. 8,6). Va inoltre osservato che nella sua esposizione Paolo usa il termine «capo» con significati diversi, in senso traslato nel v. 3, in senso proprio nei vv. 4 e 5 . In ebraico, «capo» in senso traslato designa la guida di una comuni tà, in greco la personalità determinante, superiore alle altre. Nella no2-6.
I 8o
I
Cor. 1 1,2-6.
Contegno decoroso e indecoroso durante il culto
stra serie è proposta un'articolazione di sovraordinazione e subordi nazione. Nel giudaismo ellenistico ebbe una sua parte l'idea filosofica che ciò che precede nel tempo (arche come origine e inizio) sia anche ciò che è superiore e determinante. Poiché, secondo Gen. 2, I 8-23, la donna fu creata più tardi di Adamo, come «aiuto» per lui (cf. vv 8 s.), da questo punto di vista l'uomo è il capo della donna. Nel giudaismo, malgrado Gen. I ,2 7 dove uomo e donna sono equiparati e visti ambe due nella similitudine con Dio propria dell'uomo, ciò ha portato a quella concezione patriarcale che Giuseppe riassume nella frase: «Sot to ogni punto di vista la donna è sottoposta all'uomo» (Ap. 2,2o i ). Nei vv . 1 I e I 2, ispirandosi a Gesù Cristo, Paolo corregge questa concezio ne giudaica, pur senza proclamare il superamento della fondamentale struttura patriarcale. In questa pericope non fa uso del racconto del peccato originale per giustificare la subordinazione della donna (cf. 2 Cor. I 1 ,3). Nei vv 4-6 si ha l'applicazione del principio del v. 3 all'at teggiamento dell'uomo e della donna nel culto. Benché sia in discus sione solo se la donna debba coprirsi il capo, l'atteggiamento di uomo e donna è presentato in parallelo, il che mostra nuovamente (cf. 7,2 s.) un trattamento formalmente uguale di uomo e donna. Nel v. 5 Paolo giudica, senza criticarla, la partecipazione attiva al culto da parte di donne dotate di carismi, quando il loro modo di presentarsi sia deco roso, come un fatto che si addice alla comunità di Gesù Cristo. Nel cor so dell'argomentazione si fa riferimento alla copertura del capo (vv 4 ss.) e all'acconciatura dei capelli (v. I 4). L'uomo, che porta i capelli cor ti, nel culto deve presentarsi a capo scoperto; la donna, che porta i ca pelli lunghi (v. 1 5), deve invece coprirsi. Nel mondo orientale e nel giu daismo, il fatto che una donna compaia in pubblico con i capelli lun ghi è sentito come scandaloso ed equivale a uscire con le spalle scoper te, giudicato impudico perché suscita il desiderio degli uomini. Che una donna si presentasse in pubblico non velata, cosa che poteva esse re interpretata come un segnale di seduzione rivolto agli uomini, per il marito giudeo era un motivo di divorzio (Ket. 8,6; Bill. n, 1 62). Nel giu daismo il vero soggetto del culto è l'uomo; perché si possa celebrare un rito, si richiedono almeno dieci uomini. Sul piano del culto e del di ritto, donne, bambini e schiavi non erano pari agli uomini. Fin dai tem pi antichi i sacerdoti giudei durante i riti avevano un copricapo (Es. 2 8,40 ). Sul monte Horeb il profeta Elia si coprì il viso col mantello al lorché, nel «tenue e silenzioso sussurrare del vento» (1 Re 1 9, I 3 ), av.
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1
Cor.
1 1,7-1�.
Giustificazione teologica
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vertì la presenza di Dio. Era antica usanza che colui che dirigeva la preghiera nella sinagoga fosse coperto con un apposito mantello (Bill. IV, I so). La pratica giudaica, tuttora in uso, di coprirsi quando si legge la torà o si prega, è un segno di rispetto davanti a Dio. Nel Talmud babilonese si dice: «Gli uomini ora si coprono il capo, ora lo scopro no. Le donne, invece, lo tengono sempre coperto, e i bambini sempre scoperto» (Ned. 3ob; Bill. 111, 424). - Infine Paolo vede l'usanza giu deocristiana connessa con l'ordine della creazione divina e con la testi monianza dell'Antico Testamento. Mediante la redenzione in Cristo, i credenti partecipano di nuovo a quella gloria (doxa) che Dio aveva de stinato agli uomini e che essi avevano perduto col loro peccato (Rom. 3,23 s.). Secondo 2 Cor. 3, 1 8 i cristiani «guardano a volto scoperto la gloria del Signore come in uno specchio e vengono trasformati nella sua immagine di gloria in gloria» (cf. 2 Cor. 4,6; Rom. 8,30 ). Perciò, a differenza che nel giudaismo, è consentito a donne cristiane pregare e profetizzare pubblicamente nell'assemblea liturgica (v. 5). Tuttavia, nella visione dell'apostolo, questa facoltà donata di recente nello Spi rito (2 Cor. J , I 2- I 8) non sopprime la differenza tra i sessi posta dalla creazione e il rispetto del decoro in pubblico che essa prescrive. In ba se a queste premesse si capiscono le affermazioni dei vv. 4-6. L'uomo che nell'assemblea prega a capo coperto come la donna non fa onore al compito destinatogli, di essere «immagine e riflesso>> della gloria di Dio (v. 7) e «disonora» il suo capo. Ma la donna che nel culto prega con i capelli sciolti va contro il decoro e «disonora» il suo capo. La donna senza velo è considerata come fosse rasata a zero. Tagliare i ca pelli con le forbici o rasare a zero il capo col rasoio era allora il più gra ve oltraggio che si potesse infliggere a una donna (cf. /s. 3, I 7). Perciò la donna deve presentarsi in pubblico con il capo coperto e non farsi simile alla donna rasata ( = disonorata). Nella sua polemica contro la concezione che della libertà hanno gli entusiasti di Corinto, Paolo met te in luce come non si debba abusare della libertà della fede per andar contro, a scopo dimostrativo, alla specificità dei sessi e al connesso de coro che si richiede per il pubblico contegno dell'uomo e della donna. I .2.
Giustificazione teologica ( I I ,7- I 2)
7 L'uomo infatti non deve coprirsi il capo, poiché è immagine e riflesso di Dio, mentre la donna è riflesso dell'uomo. 8 Non l'uomo, infatti, deriva dal-
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Cor. I I ,7- 1 2. Giustificazione teologica
la donna, ma la donna dall'uomo. 9 Poiché l'uomo non fu creato per la don ma la donna per l'uomo. 10 La donna deve quindi portare sul capo una «potenza» (un segno del suo potere) a motivo dell'angelo. n Tuttavia, nel Signore né la donna è qualcosa senza l'uomo né l'uomo senza la donna. 12 Se, infatti, la donna deriva dall'uomo, anche l'uomo esiste attraverso la donna; ma tutto viene da Dio. na,
Nella sua esposizione dei vv 4-6 Paolo s'è servito dei criteri della decenza e dell'onore e, per contro, dell'indecenza e del disonore nel modo di presentarsi in pubblico, che avevano corso nel suo tempo. Ora, nei versetti che seguono, cerca di fornire sostegno teologico al l'atteggiamento da lui richiesto in due maniere, dapprima con i raccon ti veterotestamentari della creazione (vv. 7- 1 0), p oi con la nuova cor relazione tra uomo e donna nell'ambito della signoria di Cristo (vv I 1 s.). Inizia nel v. 7 con una tesi forte, che nei vv 8 e 9 viene fatta di scendere dall'Antico Testamento, per poi essere utilizzata nel v. 10 per l'atteggiamento da assumere nel culto. Nei vv I 1 e 1 2 il modo di vedere la questione sulla base della creazione subisce una decisiva cor rezione e integrazione cristologica in virtù dell'ordinamento derivante dalla nuova creazione in Cristo. In questi versetti, infine, viene formu lata la posizione caratteristica di Paolo. 7- 12. Durante il culto l'uomo non deve coprirsi il capo poiché egli è «immagine e riflesso» di Dio. Qui l'apostolo si riferisce al primo rac conto della creazione, quello sacerdotale, di Gen. 1 ,27: «E Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; uomo e donna li creò». L'interpretazione rabbinica include nella relazione di somi glianza con Dio solo l'uomo, poiché in 1 ,27b il singolare «lo» è riferi to a un solo uomo, mentre col plurale «li» (uomo e donna) di 1,27c non viene ripetuta specificamente l'espressione «a immagine di Dio». In Gen. 5,3 quest'espressione viene usata solo per l'uomo (Set). Per la don na Paolo non parla di «immagine», ma solo di «riflesso» (v. 7). Il ter mine greco doxa ha due significati: da un lato quello di «gloria» (Rom. 1 ,2 3 ), soprattutto la gloria escatologica (Rom. 8, 1 8.2 1 ), dall'altro quel lo di «vanto», «onore» (I Cor. 10,3 I ; I Tess. 2,6). Il vero soggetto del lo splendore (kabod) e della gloria è Dio. N ella visione giudaica, in quanto «immagine di Dio», l'uomo riflette la gloria di Dio; «in Cri sto» ha recuperato la doxa (Rom. 3,23 s.) ed è quindi, per così dire, di rettamente «immagine e riflesso di Dio» (cf. Sap. 7,26) e non deve dunque coprirsi, dando così onore a Dio. Poiché Eva deriva da Ada.
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rno, la donna è detta «riflesso» dell'uomo nel senso di una gloria deri vata, ossia derivata dall'uomo (Gen. 2,22; J, I 6); in quanto «riflesso» dell'uomo, deve anche rendere onore al suo «capo» (v. 3; cf. Prov. I I , I 6 LXX). Nel v. 8 Paolo si basa sul secondo racconto della creazio ne, quello jahvista (Gen. 2,22 s.}, per il quale Eva fu creata dalla costo la di Adamo e gli fu condotta davanti come suo «aiuto» (v. 1 8). Secon do quest'interpretazione del racconto della creazione, l'uomo è perciò il capo della donna, che deriva da lui, e per lui è stata creata. La conse guenza pratica di 7-9 è che, in accordo col v. 7a, nel v. Io ci si aspette rebbe: «Perciò quando prega e profetizza la donna deve avere un velo sul capo». Anziché «velo» troviamo invece un termine greco (exousia) che significa «potenza» o «autorizzazione». Un gioco di parole con un termine aramaico a doppio senso (G. Kittel; G. Schwarz) sarebbe stato incomprensibile per i corinti, che non avevano familiarità con questa lingua semitica; il senso inteso da Paolo deve quindi trovarsi nel termine greco. Per arrivare a scoprire questo senso occorre tener presente anche l'espressione «a motivo dell'angelo» che si trova alla fine del versetto. Gli esegeti non hanno ancora trovato una spiegazio ne del passo che sia accettata da tutti. L'interpretazione tradizionale considerava il velo sul capo come un segno della subordinazione della donna all'uomo (cf. Gen. 3 , 1 6) e vedeva nell'angelo (buono) un cu stode dell'ordine divino della creazione. Sul piano linguistico, però, il termine greco non indica il potere che l'uomo ha sulla donna, ma un potere che spetta alla donna stessa. Un'interpretazione diffusa, basata sulla storia delle religioni, fondandosi su Gen. 6, 1 -4, vede nel velo che copre il capo della donna una forza che la protegge dagli angeli mal vagi (H. Lietzmann; H. Conzelmann). Da questi angeli vengono degli influssi demoniaci, cui si può sottrarre solo chi sottostà alla signoria di Dio. «E questi spiriti si leveranno contro i figli degli uomini e con tro le donne perché (da loro) sono usciti» (Hen. aeth. I 5 , I 2 ). In tale prospettiva, la «potenza» sul capo della donna cristiana è un segno della sua appartenenza all'ambito protettivo della signoria di Cristo. È possibile anche un'interpretazione a partire dalla presenza dell'angelo buono nel culto. Il culto è il luogo della presenza di Dio, in cui a Dio vengono resi onore e lode. In occasione del culto, secondo la conce zione giudaica, sono presenti nella comunità gli angeli santi che stan no intorno a Dio (fs. 6; cf. I QSa 2, 5 -9). Se la donna assiste al culto col capo scoperto, offende il decoro davanti a Dio e agli angeli, e non ren-
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Ccw. 1 I , I J - 1 6.
Invito ai corinti a giudicare da sé
de onore a Dio e al suo capo, l'uomo, ma li disonora. Perciò deve por tare il velo sul capo in segno del suo potere e diritto di parlare le lingue in pubblico per pregare e profetizzare, dal momento che si presenta in maniera non scandalosa, ma conforme alla sua specificità di donna (cf. M. D. Hooker; A. Jaubert). Col «tuttavia)), che conclude l'esposizione e mette in evidenza l'essenziale, nei vv . I I e I 2 l'apostolo espone la sua concezione cristiana del rapporto tra uomo e donna, in accordo col suo principio di Gal. 3,28. Nella chiesa di Gesù Cristo tutti i mem bri hanno uguale dignità e responsabilità religiosa «nel Signore». Con ciò non si sopprime la specificità di uomo e donna sancita dalla crea zione, ma si sottolinea piuttosto la loro reciproca correlazione e ugua glianza di diritti nelle questioni della fede e della salvezza. Anche per questo l'apostolo si rifà al racconto della creazione. Dio ha disposto che Eva fosse creata dopo Adamo, ma che da allora in poi l'uomo fos se generato dalla donna (sua madre). Nell'ambito della signoria di Ge sù Cristo non c'è più una subordinazione unilaterale della donna, ben sì la subordinazione di uomo e donna a Dio e a Cristo loro Signore. Secondo Paolo, il significato originario di Gen. I ,27 giunge a compi mento solo in Cristo. L'argomentazione è paragonabile al richiamo che fa Gesù all'originaria volontà di Dio a proposito del divorzio. Sulla base di 1 Cor. 8,6 resta però il dubbio che nei vv. 7- 1 0 Paolo faccia propria l'interpretazione giudaica di Gen. I ,27, secondo la quale solo l'uomo è «immagine di Dio)) mentre la donna è considerata «riflesso dell'uomo)). I.J.
Invito ai corinti a giudicare da sé ( I I , I J - 1 6)
1 3 Giudicate da voi stessi: è conveniente che una donna preghi davanti a Dio senza essere velata? 14 Non insegna la natura stessa che per un uomo è una vergogna portare capelli lunghi, 1 5 mentre per una donna è un onore, se ha capelli lunghi? Giacché a lei i capelli sono dati come velo. 1 6 Se poi qual cuno ritiene di dover contestare, (sappia che) non è questo il nostro costu me, né quello delle comunità di Dio.
IJ 10, 1 5.
1 3-16. Paolo non vuole imporre dall'alto ai corinti una certa usan
za; per questo, con vari tentativi, cerca di portarli al proprio modo di vedere. La domanda del v. I 3 vuole una risposta negativa: non si con viene che una donna preghi Dio, nelle pubbliche riunioni del culto,
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Cor. I I ,I J - 1 6. Invito ai corinti a giudicare da sé
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senza essere velata. Il fatto eccezionale che, nel culto ellenistico dei misteri, le sacerdotesse agissero con i capelli sciolti, non ebbe influen za sull'uso generale; per le donne cristiane la cosa senz' altro non poté e non dovette costituire un fatto esemplare. Nei versetti che seguono, come argomento a suo favore, Paolo propone un'idea che si avvicina molto al modo di pensare dei filosofi stoici. Per lo stoico, vivere se condo ragione significa lo stesso che vivere secondo natura, poiché per lui Dio e natura formano in definitiva un'unità. Paolo concepisce invero la natura come creazione di Dio, ma anche in questa prospetti va l'idea di un ordine divino del creato può fornire molte indicazioni per un comportamento dell'uomo che corrisponda al volere di Dio (cf. ad es. Rom. 1 ,26). La natura, quindi, «insegna», e Paolo fa qui ap pello al sentimento naturale dei lettori. Poiché nel mondo di allora si riteneva che la donna che esponeva in pubblico i capelli lunghi recasse offesa al decoro, Paolo si riferisce espressamente alla differenza per cui le donne portano i capelli lunghi e gli uomini corti. Nel mondo el lenistico per un uomo portare i capelli lunghi era segno di essere un cosiddetto «effeminato». Per la donna, al contrario, i capelli lunghi sono dati a mo' di «velo>>, e anche di ornamento; ciò viene inteso evi dentemente come un'indicazione della natura, secondo cui la donna non deve comparire in pubblico senza velo. D'altra parte, il modo di acconciarsi i capelli è un artificio mutevole, che dipende dalla moda e dai cambiamenti storici. Tra uomo e donna resta comunque una diffe renza naturale in relazione alla barba; per restare fedeli alla natura gli stoici non se la facevano tagliare (Epitteto, Diss. 1 , 1 6,9- 1 4). Paolo non sfrutta oltre questo «insegnamento» della natura, che per lui resta una idea marginale. Egli fonda la sua concezione in primo luogo sulla te stimonianza dell'Antico Testamento e sull'ordine «nuovo» prodotto dall'evento Cristo. Alla fine della pericope lo stesso apostolo ha l'im pressione che non ancora tutti i critici potrebbero essere stati persuasi dalla sua argomentazione, con i punti di vista tanto diversi di cui si vale. D'altra parte ci sono uomini che vogliono imporre a ogni costo il loro punto di vista per puro piacere della disputa. A costoro, in termi ni brevi e stringati, Paolo rivolge un invito a riflettere: volete conside rare da più la vostra opinione che quella di tutta la cristianità? Paolo e i suoi collaboratori non conoscono il costume che nel culto le donne preghino a capo scoperto, un'usanza ignota anche nelle altre comunità cristiane, ad esempio di Siria e Palestina. Qui, alla fine, Paolo fa appel-
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La posizione della donna secondo Paolo
lo all'unità della chiesa cristiana, che per lui è l'unità del corpo di Cri sto. No n che necessariamente la verità stia sempre dalla parte della mag gioranza. Secondo la concezione riformata, l'unità della chiesa risiede in primo luogo nella fede nel vangelo di Gesù Cristo, non nelle ceri monie esterne. Nella sua lotta contro una falsificazione entusiastica della libertà della fede, Paolo considera l'offesa al decoro nel culto co munitario un comportamento contrario all'amore, che è il primo frut to dello Spirito. Excursus La posiz io ne della donna secondo Paolo e nelle comunità paoline Il giudizio che Paolo dà della donna è improntato all'Antico Testa mento e alla missione di Gesù Cristo, mentre nei confronti del movi mento di emancipazione ellenistico l'apostolo ha un atteggiamento di forte riserva. Nell'Israele antico la posizione della donna era fissata dall'ordine pa triarcale vigente. La donna era sottoposta al potere dell'uomo, vuoi a quello del padre, vuoi a quello del marito cui il padre l'aveva data in moglie. Era considerata proprietà dell'uomo che l'aveva acquistata con regolare contratto d'acquisto, il che non escludeva che tra marito e moglie si sviluppasse un rapporto personale di amore (Gen. 24,67) e di fedeltà. Dal punto di vista religioso la donna era considerata mem bro della comunità nazionale e cultuale, ma era esclusa dal rito del sa crificio sacerdotale (Es. 2J, I 7)· Per contro, certe donne furono anche profetesse (Miriam, Num. 1 2,2; Debora, Giud. 4,4; Hulda, 2 Re 22, 1 4; Noadia, Neem. 6, 14). Nel giudaismo la posizione della donna fu mol to limitata dal ritualismo e dal clericalismo. N el tempio di Erode v'era uno speciale atrio delle donne, e nelle sinagoghe donne e uomini sede vano separati. Recitare lo sema' (Deut. 6,4) e portare le insegne delle preghiere era consentito solo ai maschi liberi (Ber. J ,J). Il giudeo pio due volte al giorno ringraziava Dio nella sua preghiera di lode per non averlo creato gentile, donna o (dal punto di vista rabbinico) ignorante (oppure schiavo) (Bill. 111, 6 1 r ) . Difficile ricondurre a un denominatore comune la posizione della donna in Grecia. Sarà bene tenere presenti le differenze tra Asia Mi nore e Atene o Sparta, tra città e campagna e tra ceti superiori e infe-
La posizione della donna secondo Paolo
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riori. In età ellenistica, sull'onda delle tendenze stoiche all'uguaglian za e per influsso delle religioni misteriche, che in origine furono culti familiari, si svilupparono ovunque rapporti più liberi (K. Thraede, RAC VIII, 198 ss.). In molti culti (ad es. di Artemide, Dioniso, Deme tra) v'erano donne a fungere da sacerdotesse; l'Apollo delfico manife stava i suoi oracoli mediante la Pizia. In età ellenistica vi furono molte poetesse, cantanti e suonatrici soliste, oltre a donne che studiavano e filosofavano. In età imperiale romana le donne conquistarono tutto il mondo delle professioni. Differenziandosi dalla scarsa considerazione della donna nel giudai smo, Gesù diede l'impulso decisivo a una sua rivalutazione. A uomo e donna ha riconosciuto la stessa dignità religiosa, chiamando alla fi gliolanza di Dio e guarendo anche le donne, così come aveva fatto con i poveri, con chi non conosceva la legge e con i peccatori. Non nella cerchia dei dodici, ma nella sequela di Gesù si trovano delle «discepo le» (Le. 8, 1 -4 ) ; contro la tradizione giudaica, una donna giudea parali tica è detta «figlia di Abramo» (Le. I J, I 6), mentre una cananea è mol to lodata per la sua grande fede (Mt. 1 5,28). L'espressione più chiara ed efficace della rivalutazione della donna da parte di Gesù si ha nel suo divieto del divorzio e nel racconto della donna che gli unge il ca po (Mc. 14,3 ss. par.). Due fattori hanno influenzato in modo decisivo la posizione della donna nella chiesa primitiva: la rivalutazione della donna da parte di Gesù e la discesa dello Spirito santo su uomini e donne, secondo la promessa profetica relativa alla fine dei tempi (Gl. 3 , 1 - 5 ; Atti 2, 1 7 ss.). Tutti i membri della comunità hanno ricevuto il dono dello Spirito (1 Cor. 1 2, 1 3 ; Rom. 8) e sono quindi chiamati alla testimonianza e al servizio. Le figlie di Filippo avevano il dono della profezia (Atti 2 1 ,9 ) . Donne benestanti mettevano a disposizione la loro casa per le riu nioni liturgiche (per es. la madre di Giovanni Marco, Atti 1 2, 1 2, op pure Ninfa, Col. 4, 1 5). Gli Atti degli Apostoli riferiscono in varie cir costanze di donne che ebbero una parte nell'attività missionaria e nel lavoro nella comunità (cf. anche Evodia e Sintiche, Fil. 4,2 s.). I co niugi Prisca (Priscilla) e Aquila furono istruiti da Apollo sulla via di Dio (Atti 1 8,26); in Rom. 1 6,3 Paolo li dice ambedue suoi collaborato ri in Cristo, mentre chiama Febe «ministra» (diakonos) della comunità di Cenere (Rom. 1 6,1). Spesso nella diaspora donne «timorate di Dio», aperte alla fede giudaica, furono le prime ad aderire alla fede in Cristo
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La posizione della donna secondo Paolo
(ad es. Lidia a Filippi, Atti I 6, I 4, ragguardevoli donne di Tessalonica, Atti 1 7,4). Il fondamento del ministero della donna nella comunità è il dono dello Spirito, in modo speciale i carismi della diaconia, del di scorso profetico e della preghiera (glossolalica). Gli inizi di un «mini stero» stabile, o di uno stato, delle vedove, che svolgevano prevalente mente compiti di diaconi, sono riconoscibili nelle lettere pastorali (cf. I Tim. s ,J - 1 6). Paolo giudica la posizione della donna nella prospettiva della vo lontà creatrice di Dio e della nuova creazione inaugurata dall'evento Cristo. In quanto «nuove creature» in Cristo (2 Cor. 5 , 1 7), uomini e donne hanno ricevuto in ugual misura grazia e obblighi; essi devono di volta in volta mettere il carisma donato loro al servizio dell'edifica zione della comunità. L'uguaglianza di diritti tra uomo e donna è espressa in 1 Cor. I I , I I s. come nella fondamentale frase di Gal. 3,28, che forse lo stesso Paolo ha ripreso e fatto propria: «Qui non c'è giu deo né greco, qui non c'è schiavo né libero, qui non c'è uomo e don na: tutti siete infatti uno solo in Cristo GesÙ». In questa tesi l' espres sione « qui non c'è» non significa un livellamento e un uguagliamento totali. «Ovviamente l'apostolo non intende dire che queste differenze esterne non esistono più - l'uomo rimane uomo e la donna donna, an che dopo il battesimo - ma davanti a Dio hanno perduto qualsiasi signi ficato salvifico» (F. Mussner, 264). Nell'accentuazione dell'originario volere creatore di Dio e nella rivalutazione della donna, Paolo ha se guito Gesù. Sulla questione del divorzio, contro Deut. 24, I -4 Gesù ha fatto valere di nuovo il significato originario di Gen. I ,2 7 e 2,24. In questo senso anche Paolo in 1 Cor. 1 1 si rifà al racconto biblico della creazione, mettendolo in relazione col nuovo, escatologico, ordine salvifico «nel Signore» (v. 1 I ). Il nuovo che Gesù Cristo ha portato non conduce alla distruzione della creazione, ma serve al compimento del la volontà di Dio che vuole la vita e la salvezza degli uomini. I n 1 Cor. I I Paolo ha peraltro legato così strettamente la sua interpretazione dei racconti della creazione alla tradizione esegetica giudaica, che tra il v. 7 e il v. 1 I è pressoché incontestabile la tensione di una contraddizio ne. La permanenza della specificità creaturale dei sessi anche nella nuova esistenza dei credenti dopo il battesimo non contraddice Gal. 3 ,28. Un problema particolare è la valutazione di ciò che nel mondo del tempo era considerato conveniente o indecoroso nel modo di pre sentarsi in pubblico. L'apostolo si lascia guidare dal giudizio comune
La posizione della donna secondo Paolo
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del suo tempo; non v"'era in lui il trasporto dell'entusiasta che gli fa cesse «sorvolare» la realtà data; è, anzi, questo ciò che egli rimprovera ai pneumatici entusiasti (del tipo libertino o ascetico) di Corinto. In Fil. 4,8 esorta la comunità a fare oggetto dei suoi pensieri ciò «che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e meri ta lode». «Quel che gentili e giudei esigono dai loro, quel che è consi derato virtù nel mondo che circonda i cristiani è ciò cui anche i cri stiani devono tendere» (G. Friedrich, ad loc.). Tuttavia i criteri del de coroso e dell'indecoroso in materia di abbigliamento e acconciatura dei capelli sono sottoposti al mutamento storico, il che significa che al riguardo si devono tenere presenti le mutate condizioni culturali e sociali. Sarebbe perciò nettamente contrario all'intenzione teologica di Paolo trasferire direttamente le sue istruzioni sul dovere delle don ne di coprirsi il capo all'atteggiamento che devono tenere le donne nel culto oggi. Al giorno d'oggi la posizione cultuale, giuridica e sociale della donna è totalmente differente da quella dei tempi protocristiani. Sul ministero della donna nella comunità in I Cor. 1 1 , 5 l'apostolo dà un'indicazione d'importanza fondamentale. Egli giudica affatto posi tivamente la partecipazione attiva delle donne al culto pubblico della comunità, mediante la preghiera e la profezia, quando non abbia luo go alcuna infrazione dimostrativa del decoro. Il precetto di I Cor. 14, 3 3-36, che contraddice a questo passo imponendo alle donne di tacere (se ne veda la relativa esegesi), con molta verisimiglianza è da conside rarsi un'interpolazione posteriore, originata dalla situazione della lot ta antignostica. Riprendendo lo schema giudeo-ellenistico delle tavole domestiche (Col. J,1 8-4, 1 ; E - f 5 ,22-6,9), i discepoli di Paolo hanno cristianizzato le esortazioni rivolte a uomo e donna mediante la for mula «nel Signore»; amore e obbedienza diventano in tal modo i con cetti guida per il loro comportamento reciproco. I mariti devono ama re le loro mogli «come Cristo ha amato la chiesa» (Ef 5,2 5). Che poi la richiesta subordinazione della donna (Col. 3, 1 8; Ef 5,22) non sia in tesa come riconferma d'un dominio patriarcale dell'uomo sulla donna, ma nel senso della dipendenza reciproca nell'obbedienza al Signore, lo mostra il titolo premesso alla tavola domestica nel suo complesso: «Sottomettetevi l'uno all'altro nel timore di Cristo» (Ef 5,2 1 ). Paolo non ha incitato a trasformare dalle fondamenta l'ordine socia le del suo tempo; in questo ha avuto la sua importanza anche il punto di vista dell'attesa prossima della parusia.
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1 Cor. r 1, 1 7-2.2..
Gli abusi nella celebrazione della cena del Signore
Nel suo giudizio sulla posizione della donna l'apostolo non è stato influenzato né dal movimento di emancipazione ellenistico, né dal l'esigenza di una fondamentale ascesi sul piano storico, né da un at teggiamento di sottovalutazione della donna; la sua presa di posizione risulta consequenzialmente dalla sua concezione della missione di Ge sù Cristo e dell'escatologia. .1. La scorretta celebrazione della cena del Signore e quella conforme alla sua istituzione ( I 1 , 1 7-34) 2. 1 .
Gli abusi nella celebrazione della cena del Signore Corinto ( I 1 , 1 7-22)
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Nel darvi le mie disposizioni, non posso però lodare che vi riuniate non vostro vantaggio ma a vostra vergogna. 18 Sento innanzitutto che, quan do vi radunate nella comunità, vi sono divisioni tra voi, e in parte (anche lo) credo. 19 È necessario, infatti, che si formino tra voi dei partiti, affinché si manifestino quelli tra voi di virtù provata. 2.0 Quando dunque vi riunite nell'assemblea, non è possibile mangiare la cena del Signore . 2 1 Ciascuno, infatti, anticipa il proprio pasto nel mangiare, e l'uno ha fame, l'altro è ubria co. 22 No n avete forse case per mangiare e per bere? O disprezzate la co munità di Dio e fate arrossire quelli che non hanno? Che devo dirvi ? Devo lodarvi ? In questo non vi lodo. 17
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1 , 1 0 SS.
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1 7-2.2. Paolo passa al nuovo tema della «cena del Signore», che pure
tocca un problema dell'assemblea liturgica, cominciando col limitare, con un biasimo di carattere generale, la lode espressa nel v . .2. Mentre già sta impartendo disposizioni, l'apostolo non può dire che le riunio ni liturgiche dei corinti vadano nel migliore dei modi, ché anzi vanno nel peggiore, con la conseguenza che la comunità non ne è rafforzata, ma piuttosto ne viene divisa. Il testo non dice quando avessero luogo le celebrazioni del culto. A Troade i cristiani si raccoglievano di do menica per spezzare il pane (Atti 20,7; cf. 1 Cor. 1 6,2; Did. 14, 1 ). Al l' «innanzi tutto» del v. 1 8 non corrisponde in seguito un «in secondo luogo» detto espressamente. Di fatto, però, i disordini nell'uso dei do ni dello Spirito (capp. 1 2- 1 4) costituiscono il secondo fondamentale og getto di biasimo. Attraverso comunicazioni orali, di cui non si cono scono i latori, Paolo ha saputo che a Corinto si arriva a delle divisioni anche nelle assemblee della comunità. La notizia gli pare un po' esage-
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Cor. 1 1 , 1 7-2.2.. Gli abusi nella celebrazione della cena del Signore
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rata, ma ritiene che in parte sia vera. Il termine greco per indicare qui le divisioni è lo stesso che in I , I o; tutte e due le volte è in gioco l'unità del corpo di Cristo. Nel cap. I I le divisioni sono dovute, in buona mi sura, anche alle differenze sociali tra i membri della comunità (cf. a 1 , 26). Le divisioni (schismata) del v. I 8 sono riprese d a Paolo nel v. I 9 con l'altro termine «partiti» (haireseis), che in questo passo ha lo stesso si gnificato. È probabile che nel v. 1 9 Paolo segua un'affermazione apo calittica del cristianesimo primitivo relativa alla comparsa di eretici nel tempo escatologico. Nella chiesa subapostolica «eresia» divenne il ter mine tecnico per indicare una dottrina erronea, in contraddizione col dogma della chiesa, mentre lo «scisma» si riferisce alle divisioni del l'unità della chiesa. È necessario che a Corinto si giunga alla forma zione di partiti, affinché si possa vedere chi nella comunità è fedele e fidato. Paolo vede questo necessario processo di separazione del gra no dal loglio anche nella prospettiva escatologica; nel giudizio finale il Signore pronuncerà l'ultimo giudizio sull' «opera» dei cristiani (2 Cor. 5 , 1 0; cf. 1 Cor. 3,1 3). I criteri della buona o della cattiva prova risulta no dal comportamento nella cena del Signore descritto nel prosieguo. L'ipotesi che in I 1 , 1 8 ss. Paolo si mostri meno ben informato che in I , I o ss., e che quindi la pericope in questione faccia parte di una lette ra precedente, non risulta dal testo in maniera cogente. Quali siano i disordini cui pensa nei vv. I 8 s., Paolo lo dice subito concretamente nei vv. 20-22; si veda il «dunque» (= per conseguenza) che introduce la frase. A Corinto i cristiani celebravano la cena del Signore riunen dosi verso sera nella casa di un membro abbiente della comunità per un vero pasto comune, alla fine del quale seguiva la celebrazione sa cramentale con la distribuzione di pane e vino. Ora, l'apostolo ritiene che le celebrazioni dei corinti nelle loro riunioni non meritino più il nome di «cena del Signore», ossia di pasti offerti dal Signore Gesù Cristo, poiché nel loro caso si tratta in realtà di diversi pasti privati uno accanto all'altro, non di un pasto della comunità. Nel v. 2 I Paolo spiega perché così non sia possibile celebrare la cena del Signore in modo adeguato, che sia conforme al senso della morte di Gesù ed esprima la comunione fraterna fondata sul sacrificio di Gesù. Eviden temente nella comunità di Corinto la denominazione di «cena del Si gnore» per indicare la cena era già corrente; a partire dalla Didachè si impose invece la denominazione di «eucaristia», a motivo del ringra ziamento per i doni ricevuti. Alla «cena del Signore» Paolo contrappo-
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·Cor. I 1 , 1 7-2.2..
Gli abusi nella celebrazione della cena del Signore
ne l'espressione «il proprio pasto», in cui ciascuno consuma da sé cibi suoi che s'è portato da casa. Questo comportamento egoista all'atto del pasto offende il carattere comunitario del pasto del Signore. Paolo indica brevemente, ma in modo abbastanza chiaro, che cosa distrugga la comunità nel modo di mangiare dei corinti. I membri della comuni tà che si riuniscono per la cena portandosi il loro cibo, non attendono, per mangiare, d'esser tutti riuniti, ma iniziano senz'altro a consumare quanto hanno portato. Dal contesto si capisce che Paolo ha di mira i membri ricchi della comunità. I poveri, gli schiavi e i salariati, che po tevano arrivare solo tardi, una volta terminata la giornata di lavoro, molti dei quali inoltre non potevano portare con sé nulla da mangiare, nel loro pasto restavano pressoché a secco. La differenza nella durata del pasto e nei cibi che si portavano impediva che si avesse luogo un pasto comunitario. Paolo menziona in tono di rimprovero gli estremi della situazione: uno soffre la fame perché non ha niente, l'altro è ubria co perché ha ecceduto. La critica di Paolo è rivolta alla distruzione che la comunione fraterna di fatto subisce nel corso del pasto vero e pro prio che precede l'atto sacramentale conclusivo. Nelle domande finali dell'apostolo risuona la sua indignazione di fronte a questi abusi e in sieme l'invito a rimuoverli. Chi ha tanto appetito da non poter atten dere d'iniziare insieme il pasto serale, smorzi prima il grosso della fa me a casa sua (cf. vv . 3 3 s.). La frantumazione della cena del Signore in singoli pasti privati porta al disprezzo della chiesa di Dio, per la quale Cristo ha dato la vita. I ricchi rimangono tra loro e non fanno entrare nella comunione i poveri che hanno poco o nulla. In questo modo pec cano contro l'amore e contro il senso della cena del Signore. Come s'è giunti a Corinto a tali abusi ? Le affermazioni del testo non giustificano l'ipotesi che i corinti abbiano trattato pane e vino della ce lebrazione sacramentale come cibi comuni, o abbiano intenzionalmen te voluto screditare la celebrazione eucaristica accompagnandola con l'ostentazione di un pasto. Nel cap. I O l'apostolo mette in guardia mol to chiaramente i corinti dal sentirsi sicuri di sé, contando su un' effica cia magica naturalisti ca dei sacramenti (cf. anche I 5,29 ). Nel cap. I 1 Paolo non li rimprovera di profanare l'atto sacramentale finale, bensì di non tener conto del nuovo ordine salvifico instaurato con la morte di Gesù, col loro egoismo individualista e di gruppo e con l'indisponi bilità dei ricchi alla comunione fraterna con i poveri. Gli entusiasti pneumatici di Corinto erano al tempo stesso dei sacramentalisti che
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credevano che i sacramenti garantissero la salvezza. Costoro riteneva no che, partecipando alla fine al pasto sacramentale, i poveri e gli schia vi ricevessero il dono decisivo; consideravano irrilevante per l' effica cia del sacramento il loro comportamento egoistico nel pasto vero e proprio. Paolo, invece, ribadisce con forza, nel nuovo ordine escato logico della salvezza, l'unità del sacramento con la prova dell'amore. Per amore Cristo ha dato la sua vita per gli uomini. Chi, dunque, nel modo in cui consuma il pasto, distrugge la comunione e offende l'amo re per i fratelli, va contro il significato della cena del Signore, qual è insito nella sua istituzione. 2..2.
La tradizione dell'istituzione della cena del Signore ( I I ,2 3 -26)
Infatti ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: il Signore Ge la notte in cui fu consegnato, prese del pane, 24 rese grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo per voi; fate questo in memoria di me�. 25 Al lo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice e disse: «Questo ca lice è la nuova alleanza nel mio sangue; ogni volta che ne berrete fate que sto in memoria di me». 16 Poiché tutte le volte che mangiate questo pane e bevete da questo calice proclamate la morte del Signore, finché egli venga». 23
sù,
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Mc. 1 4,22-24; Mt. 26,26-28; Le. 22, 1 9 s. 25 Es. 24,8; Ger.
J I ,J I .
.z6 Mc. 1 4t2 5; Mt. 26,29;
Le. 22, 1 6- 1 8.
Nella sua critica al comportamento dei corinti, Paolo si richiama alla tradizione della cena che ha trasmesso loro in occasione della fon dazione della comunità, allo scopo di indurre quest'ultima a celebrare la cena del Signore in maniera conforme alla sua istituzione. I vv. 2J2 5 sono un resoconto, d'impronta liturgica, della fondazione della ce na ad opera di Gesù, che spiega quale sia l'origine della celebrazione cristiana della cena del Signore (eziologia del culto); in quanto poi il racconto dell'istituzione veniva pronunciato nel corso della celebra zione della cena, si tratta insieme anche di un'anamnesi cultuale. A sua volta Paolo ha ricevuto questo racconto nell'ambito di una tradizione risalente fino alla celebrazione dell'ultima cena compiuta da Gesù la sera del suo commiato. La preposizione «da» (apo) designa la persona da cui trae origine la tradizione (a differenza del para di Gal. I , I 2 ). I concetti «ricevere da» e «trasmettere a» sono espressioni che, nella tra dizione dottrinale giudaica di cui qu i si tratta, designano in maniera specifica la trasmissione orale; erano peraltro espressioni correnti an2 3·
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1 1,23-26. La tradizione dell'istituzione della cena del Signore
che nella grecità, per indicare il rispetto della tradizione d'una scuola. Nel passo in esame non si pensa a una rivelazione diretta nell'evento di Damasco o in una qualche visione ma, oltre alla derivazione da Ge sù, al fatto che anche nella predicazione del vangelo opera col suo Spi rito il Signore innalzato. É probabile che Paolo abbia ripreso questa tradizione sulla cena dalla comunità siriaca di Antiochia (oppure già a Damasco). Nel testo greco la citazione ha inizio al v. 23b col «che» dichiarativo e si conclude col v. 2 5 ; nel v. 26 iniziano l'interpretazione e il commento dell'apostolo. 23b-z s. A proposito del racconto di 23b-2 5 va detto che la possibi lità che Paolo abbia inserito delle aggiunte alla tradizione comunemen te accolta (ad es. il «per voi» nella parola sul corpo, oppure l'aggettivo «nuova» nella parola dell'alleanza) non può essere di principio esclu sa, ma dal confronto condotto in base alla storia della tradizione non risulta alcuna reale necessità di avanzare tale ipotesi. Dopo le parole di introduzione, Paolo riferisce il racconto come gli era stato trasmesso. I quattro racconti dell'istituzione, tre dei sinottici più quello di Paolo (Mc. 1 4,22-2 5; Mt. 26,26-29; Le. 22, 1 5 -20 e 1 Cor. 1 1,23-2 5 ) si posso no ripartire in due tipi di tradizione. Uno è rappresentato da Marco, su cui si basa il racconto di Matteo col suo ampliamento liturgico, l'altro è rappresentato da Paolo e Luca (22, 1 9 s.), i quali a loro volta si basano su una tradizione comune o su tradizioni strettamente impa rentate. Nella forma attuale nessuno dei quattro racconti greci è iden tico all'originario racconto semitico. La formulazione e l'interpreta zione presentano uno sviluppo storico della tradizione in tre linee di verse, ma quanto al senso della cena c'è pieno accordo tra tutti e quat tro i racconti. Il tipo rappresentato nella tradizione da Marco accosta pane/corpo e vinofsangue e contiene un'apertura escatologica sul pa sto nel regno di Dio. Il tipo rappresentato da Paolo e Luca accosta pa ne/corpo e calice/nuova alleanza e contiene il cosiddetto comando del la ripetizione (Paolo sia a proposito del pane che del calice, Luca solo a proposito del pane) con un accenno alla prospettiva escatologica («finché egli venga», v. 26; cf. Le. 22, 1 6- 1 8 ). Come in passato, si discu te ancor oggi quale dei tipi sia da considerare il più antico nella storia della tradizione. Il termine «alleanza» è contenuto in entrambi i tipi (Marco: «il mio sangue dell'alleanza», Paolo: «la nuova alleanza nel mio sangue»). Per lo più si sostiene che da Marco a Paolo vi sia uno sviluppo. A mio parere, la priorità del racconto paolino ha dalla sua
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I I,.lJ-2.6. La tradizione dell'istituzione della cena del Signore
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una grande verisimiglianza, in quanto è più facile intendere l'accosta mento di corpo e sangue come conseguenza di un parallelismo forma tosi nella liturgia, piuttosto che supporre che questi due termini paral leli siano stati più tardi trasformati nella coppia disomogenea «corpo» «alleanza». L'espressione «dopo aver cenato, prese il calice», nei primi tempi spesso ritenuta un accenno alla conclusione della celebrazione della cena del Signore, si riferisce senz'altro al terzo calice della cena pasquale, nell'ambito della quale Gesù, nell'ultima cena, interpretò il senso della sua morte imminente. Il racconto paolina testimonia che Gesù, la sera prima della sua cattura ed esecuzione, ha istituito la cena; su questo Paolo concorda col racconto sinottico della passione. Nella tradizione cristiana il verbo «consegnare» (cf. /s. s J, I 0. 1 2) viene colle gato con la tradizione della dedizione del figlio per opera del Padre (Rom. 4,2 5; 8,32) e si riferisce all'intero processo del suo sacrificio nella morte, non solo in modo speciale al suo tradimento ad opera di Giuda, che pure viene indicato con lo stesso verbo. I sinottici assegna no il carattere di cena pasquale all'ultima cena di Gesù con i suoi di scepoli mediante l'inserimento nel contesto (cf. Mc. 1 4, 1 2- 1 6); in Gv. Gesù muore il pomeriggio del giorno in cui, la sera, si mangerà l' agnel lo pasquale (cf. Gv. 1 8,28, I 9, I 4). In ogni pasto di festa in cui si beva vino, il padrone di casa giudeo pronuncia una lode sul pane, spezza la schiacciata di pane e distribuisce i pezzi tra i commensali. Secondo Ber. 6, 1 la lode sul pane diceva: «Lodato sii tu, Jahvé, nostro Dio, re del l'universo, che dalla terra fai venire il pane». Il padrone di casa tiene un pezzo di pane per sé e, iniziando a mangiare, dà inizio al pasto in comune. Dopo il pasto, il padrone di casa (o un ospite da lui richiesto di ciò) chiude il convito, pronunciando un ringraziamento sul calice di vino. Secondo Pes. IOJa,2o la lode sul vino suona: «Lodato sii tu, Jahvé, nostro Dio, re dell'universo, che hai creato il frutto della vite». �3b-2.6. Nell'ultima cena Gesù si comportò con i suoi discepoli co me il padrone di casa che offre il pasto. Sollevò la schiacciata di pane dal tavolo, vi pronunciò sopra la lode e spezzò il pane per distribuirlo tra i discepoli. In Paolo, la parola pronunciata nell'offrire il pane che Gesù ripartiva è: «Questo è il mio corpo per voi». L'ausiliare «è», tan to discusso ali'epoca della riforma, è chiarito da Paolo stesso in I o, I 6 s. con l'affermazione della partecipazione reale al corpo di Cristo of ferto con la sua morte, e al suo sangue versato sulla croce. La parola sul pane suona quindi: mangiando dello stesso pane che viene distri-
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buito, i commensali partecipano all'efficacia salvifica del corpo di Ge sù offerto nella morte, e vengono così inclusi nella comunione del cor po (ecclesiologico) di Cristo. Le parole di Gesù che dicono il signifi cato del pasto, e il mangiare e bere dei discepoli, sono strettamente con giunti tra loro: parole e atti costituiscono la comunione sacramentale col Signore e, pertanto, anche dei commensali tra loro. Tutto il raccon to di Paolo è dominato dall'idea dell'instaurazione del nuovo ordine salvi:fico escatologico in virtù della morte espiatrice e vicaria di Gesù. La morte violenta di Gesù è interpretata come evento salvifico che tor na a beneficio dei discepoli, ovvero dei «molti» (/s. 5 3 , I 2; Mc. I 4,24; «molti» in senso inclusivo, equivalente a «tutti»). L'espressione mar ciana «per molti» dovrebbe essere più antica del «per voi» di Paolo, spiegabile con l'atto di offrire il pane nella celebrazione della cena del Signore. Nell'espressione paolina «per voi» (cf. «per i nostri peccati» di 1 Cor. 1 5 ,3) si congiungono insieme il motivo del sacrificio di espia zione (Rom. 3,2 5 ) e quello della morte vicaria (2 Cor. 5 , I 4). In Marco la proposizione participiale «che è versato per molti» (Mc. 26,28, per la remissione dei peccati) qualifica il «mio sangue dell'alleanza» cui suc cede immediatamente. L'ordine di ripetere (certamente aggiunto più tardi) è il comando di distribuire per sempre pane e vino e, insieme, le parole con cui questi vengono offerti nella cena del Signore della co munità cristiana. Non si tratta quindi di un cosiddetto banchetto di commemorazione dei defunti, come si tenevano nel mondo ellenisti co, soprattutto il giorno genetliaco del defunto, ma della presentifica zione sacramentale dell'azione di Gesù, presente tra i suoi in qualità di Signore innalzato (cf. Mt. 28,20). L'espressione «in memoria» (in mio ricordo) viene dalla tradizione giudaica (Es. I 2, I 4; I 3 ,9, ecc.; Sal. I 1 1 , 4). I cristiani «ricordano» il loro redentore i n quanto nella celebrazio ne della cena del Signore tornano di continuo a partecipare all' effica cia salvifica della sua morte e gliene rendono grazie (nel giorno del Si gnore, Did. 1 4, I ). La formula abbreviativa «allo stesso modo» del v. 2 5 si riferisce ali' atto di prendere il calice, al ringraziamento su di esso e al farlo girare tra i commensali. Il calice è il bicchiere al termine del pasto, su cui viene pronunciato il rendimento di grazie (nella cena pa squale questo è il terzo bicchiere). A Corinto la duplice distribuzione, del pane e del vino, era fatta congiuntamente ed era spostata al termi ne del pasto vero e proprio. N on è impossibile, anche se non è dimo strabile con certezza, che questa forma di celebrazione fosse praticata
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già in Antiochia (e forse già dalla primitiva comunità di Gerusalem me) e che Paolo l'abbia introdotta tale e quale a Corinto. Nella tradi zione paolina le parole con cui si porge il calice parlano della nuova alleanza (in greco diatheke, equivalente all'ebraico berit); Lutero tra dusse con «il nuovo testamento». È necessaria un'alleanza nuova sia perché in quella antica non s'è giunti alla piena obbedienza al volere di Dio, sia perché l'instaurazione del nuovo ordine escatologico della salvezza comporta il superamento del peccato (delle colpe precedenti, Rom. 3 ,2 5 ). E evidente qui che non si tratta dell'identificazione di due sostanze, ma dell'inserimento dei credenti nell'efficacia salvifica della morte in croce di Gesù. Il sangue di Gesù versato sulla croce è inteso come il sacrificio di espiazione con cui Dio ha cancellato i peccati del l'umanità, riconciliando con sé il mondo. Mediante la morte e risurre zione di Gesù s'è realizzata la promessa del profeta Geremia (3 1 ,3 1 34; LXX 3 8,3 1 ss.; cf. Es. 24,8) relativa alla conclusione di un nuovo patto alla fine dei tempi. Taluni interpreti ritengono l'aggettivo «nuo vo» riferito al patto un'interpretazione della chiesa primitiva o dello stesso Paolo. La parola con cui viene offerto il vino in Paolo significa quindi che, bevendo da questo calice, i commensali del Signore hanno parte all'efficacia salvifica del sangue versato di Gesù, e vengono inse riti nel nuovo ordine escatologico della salvezza che Dio ha promesso a tutti i popoli (cf. /s. 2 5 e 5 3). A proposito del calice, il comando della ripetizione è formulato un po' più diffusamente. È possibile che con l'espressione «ogni volta che ne berrete» si pensi a celebrazioni della cena in condizioni di povertà, in cui non si disponga del vino. A Co rinto la cena del Signore veniva regolarmente celebrata con pane e vi no. Nel v. 26 Paolo fa capire in che cosa egli veda il significato teolo gico della cena del Signore. Ogni celebrazione di essa è una proclama zione di quella morte di Gesù, che per il pensiero teologico dei pneu matici di Corinto non aveva più molta importanza. Sul piano lingui stico la forma verbale di «proclamare» può intendersi sia come impe rativo che come indicativo. L'indicativo è preferibile, poiché tutta la frase (introdotta da «giacché») costituisce una proposizione causale. La proclamazione ha luogo mediante le parole che interpretano la mor te di Gesù. Con ciò si pensa soprattutto all'enunciazione del racconto dell'istituzione e alla proclamazione della morte salvifica di Gesù o a una preghiera della cena. Nell'espressione «finché egli venga», cioè nel la parusia, riecheggia presumibilmente la prospettiva escatologica as-
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Le conseguenze
sente nel testo di Paolo. Il «finché» non ha qui significato meramente temporale, ma anche finale (cf. /s. 62, 1 .6 s.) e rinvia al fine escatologi co che deve essere raggiunto mediante la proclamazione (0. Hofi us) Contro la trionfalistica teologia della gloria dei corinti, Paolo pone l'accento sulla morte in croce di Gesù e assegna la celebrazione della cena del Signore al tempo in cui si vive ora, quello della fede, non an cora della visione (.2 Cor. 5,7); nella morte sulla croce si fonda la spe ranza nel compiersi della missione di Gesù Cristo con l'universale e visibile signoria di Dio. La proclamazione della morte di Gesù non è un triste lamento funebre, ma la gioiosa testimonianza della vittoria ( 1 5 , 5 7) con cui Dio ha istituito l'ordine escatologico della salvezza. .
.1. 3 .
Le conseguenze ( 1 1 ,2 7-34)
Perciò chi mangia del pane o beve dal calice del Signore indegnamente (in maniera inappropriata) sarà responsabile del corpo e sangue del Signo re. 28 Ciascuno esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice. 29 Perché chi mangia e beve, se non distingue il corpo (= se non giudica ret tamente) mangia e beve a sua condanna. 30 Per questo tra voi vi sono mol ti deboli e infermi, e non pochi sono m orti 3 1 Se ci giudicassimo noi stes si, non verremmo giudicati. 32 Ma, se (ora) siamo giudicati dal Signore, ve niamo corretti (puniti} per non essere poi condannati insieme al mondo. 33 Perciò, fratelli miei, quando vi riunite per mangiare, aspettatevi gli uni gli altri . 34 E se qualcuno ha fame, mangi a casa, affinché non vi raduniate a vostra condanna. Per il resto darò disposizioni quando verrò. '-7
.
31 Prov. 3 , 1 2;
Ebr.
1 2, 5 ss. 34 1 6, 5 .
.2. 7-34. Dal racconto tradito della cena e dalla sua concezione della cena del Signore, Paolo trae ora le conseguenze per eliminare gli abusi di Corinto. Con un'espressione tratta dal linguaggio giudiziario, l' apo stolo sottolinea la responsabilità che hanno nel giudizio escatologico coloro che prendono parte alla cena del Signore. Chi pecca contro il fratello pecca contro Cristo (cf. 1 Cor. 8, 1 1 s.). L'avverbio «indegna mente» (anaxios) non indica indegnità morale, ma un comportamento contrario al carattere della cena qual è definito dalla sua istituzione; offendere con un comportamento indisciplinato e senza amore la co munità della nuova alleanza escatologica che si fonda sulla morte vica ria di Gesù significa non avere rispetto per l'efficacia salvifica di que sta morte. Per questo l'apostolo esorta tutti i partecipanti alla cena a
1 Cor. 1 1 ,17-34·
Le conseguenze
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esaminare se stessi. Criterio di quest'esame di sé che deve precedere la cena è un atteggiamento appropriato al dono salvifico datoci nella ce na del Signore dal Cristo innalzato. Il v. 29 riprende i vv . 2 7 s., descri vendo con maggior precisione il criterio d eli'esame di sé in rapporto all' «inappropriatezza» del comportamento. Chi mangia del pane e be ve dal calice, «se non distingue il corpo» va contro il significato della cena e quindi in definitiva contro lo stesso Gesù Cristo che la offre. Il termine greco per «distinguere» (diakrinein) ha varie sfumature di si gnificato. In questo passo il punto di vista centrale non è tanto la dif ferenziazione tra gli elementi della cena e i cibi profani (anche questo conta, naturalmente), bensì la valutazione corretta e la considerazione adeguata di quel corpo di cui si tratta nella cena del Signore. Al ri guardo, mi pare, va evitata la rigida alternativa di restringere il senso del termine corpo (soma) o al solo corpo di Gesù offerto nella morte, oppure solo alla chiesa in quanto corpo di Cristo; si tratta piuttosto di riconoscere la connessione teologica di questi due aspetti e di rispet tarla nella propria azione. Col loro comportamento fraterno, coloro che prendono parte alla cena del Signore devono riconoscere nella pra tica che, mediante il corpo di Gesù offerto nella sua morte, è stata isti tuita la nuova comunione del corpo (ecclesiologico) di Cristo, di cui es si, in quanto credenti, possono ora essere membri. È questa la maniera in cui essi devono riconoscere il corpo nella sua specifica peculiarità di corpo del Signore, comportandosi di conseguenza. Chi non lo fa man gia e beve a propria condanna. Anche se qui si hanno presenti in pri mo luogo le punizioni temporali del v . JO, i vv . 3 1 e 3 2 mostrano tut tavia che per Paolo rientra nel tema anche la considerazione del giudi zio escatologico. Col «per questo» introduttivo, Paolo giudica i fre quenti casi di malattia e di morte che si verificano nella comunità di Corinto come conseguenze delle offese recate alla cena del Signore. Con ciò l'apostolo non vuoi dire che gli elementi stessi della cena sia no materie dagli effetti perniciosi in modo magico naturalistico, il che non esclude che i pneumatici di Corinto intendessero così le cose (cf. cap. 10 e 1 5,39). In questi accidenti Paolo vede all'opera il Signore Cri sto, in veste di giudice che reagisce con punizioni temporali agli abusi nella cena del Signore. Un comportamento indisciplinato e privo di amore durante la cena, e il disprezzo per i poveri (vv. 2 1 s.) non si con ciliano con la serietà della morte vicaria di Gesù Cristo. Con un gioco di parole sui verbi krinein («esaminare»), diakrinein («giudicare») e ka-
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La cena in Paolo
takrinein («condannare»), Paolo insegna che cosa debbano fare i co rinti per non attirarsi tali conseguenze. Se ci esaminassimo corretta mente giudicandoci da noi stessi, non verremmo «condannati» ed espo sti a dolorose conseguenze materiali. L'ammonimento è diretto in pri mo luogo ai corinti anche se, con molta discrezione, Paolo si esprime alla prima persona plurale. Questo consiglio dell'apostolo, rivolto alla situazione concreta di Corinto, non va frainteso come fosse un meto do a disposizione dei cristiani, quasi essi potessero sottrarsi a malattie e morte con una corretta celebrazione della cena. I malati e i defunti di Corinto non coincidevano tutti con gli «indegni». Paolo non conside ra le punizioni già verificatesi a Corinto con numerose morti e malat tie una condanna all'annientamento, ma una correzione divina. Egli applica ai cristiani un principio veterotestamentario: «Dio corregge quelli che ama» (Prov. J, I 2). Questa visione della sofferenza dei giu sti, che la considera un'educazione in vista del meglio, s'era già andata preparando nella tradizione sapienziale giudeo-ellenistica (cf. Sap. I I , 9 s.) e i n maniera più profonda era stata fatta propria dai cristiani in relazione alla croce di Gesù (Ebr. I 2, 5 - I o). Dio «educa» i suoi figli con la sofferenza e altre correzioni affinché, perseveranti nella fede, non siano condannati nel giudizio escatologico, ma possano salvarsi nel giudizio dell'ira di Dio che condannerà i peccatori impenitenti (1 Tess. I, I o). Al termine, dando un consiglio pratico, Paolo mette in evidenza ancora una volta il punto saliente, al fine di eliminare gli abu si di Corinto. I corinti, per mangiare, devono aspettarsi a vicenda, af finché non sia inficiato il carattere comunitario della cena e cessi l'umi liazione dei poveri. Diversamente le loro riunioni sono per loro moti vo di condanna anziché di benedizione. I ricchi che avessero un appe tito tale da non poter attendere l'inizio in comune del pasto nell'as semblea della comunità, mangino prima a casa loro. Paolo ha anche altre disposizioni da dare, ma si riserva di darle a voce in occasione della prossima visita che farà a Corinto ( I 6, 5 ) .
Excursus La cena in Paolo 1.
Le trattazioni di Paolo nei capp.
1 0, 1 1 e
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La prima lettera ai Corinti è il solo scritto in cui l'apostolo Paolo tratti con una certa ampiezza della tradizione sulla cena da lui accolta
La cena in Paolo
20 I
e della celebrazione della cena del Signore. Egli non dà qui una tratta zione a sé stante del significato teologico e dello svolgimento liturgico della cena, così come in 1 Cor. 7 non aveva sviluppato una teologia completa del matrimonio. Paolo non fa che opporsi in termini critici agli abusi e divisioni presentatisi a Corinto nella celebrazione della ce na del Signore, dovuti anche a differenze sociali, e cerca di indirizzare i corinti a una celebrazione della cena conforme alla sua istituzione da parte di Gesù, richiamandoli al loro dovere nei confronti della tradi zione consegnata loro al momento della fondazione della comunità. Le relative pericopi di I Cor. fanno tuttavia conoscere con sufficiente chiarezza i tratti fondamentali della concezione paolina della cena. In I Cor. I o, I- 1 3 l'apostolo mette in relazione battesimo e cena con gli avvenimenti dell'uscita degli israeliti dall'Egitto e delle peregrina zioni nel deserto, per mettere in guardia i corinti dall'opinione che la ricezione dei sacramenti garantisca automaticamente la salvezza. In 1 0, 1 4-22, ai forti che nei templi prendono parte a banchetti sacri:ficali pagani per ostentare la libertà da loro conquistata col possesso dello Spirito e la conoscenza, Paolo chiarisce l'incompatibilità tra cena del Signore e banchetto rituale pagano, dal momento che in ciascun caso si stabilisce una comunicazione col signore del banchetto. Quel che c'è di comune nelle due celebrazioni conviviali è solo la partecipazio ne o comunione (koinonia), col Cristo presente al pasto nel caso della cena del Signore, con i demoni nel caso del banchetto sacrificale paga no. Da questa contrapposizione non si può desumere il carattere della cena del Signore in quanto sacrificio della messa; la morte espiatrice di Gesù Cristo, irripetibile e vicaria, ha tolto, per la comunità cristiana, il culto sacrificale (cf. Ebr.). Nell'ambito di questa pericope Paolo cita in 1 Cor. I o, I 6 una tradi zione sulla cena che nel v. 1 7 interpreta nel senso dell'idea, che gli è caratteristica, del corpo di Cristo. Questa tradizione, nota ai corinti dall'istruzione ricevuta sulla cena, col suo parallelismo di pane/corpo e vino (calice)/sangue, si avvicina di più al racconto marciano della ce na che al tipo di tradizione rappresentato da Paolo e Luca, in cui ven gono coordinati tra loro corpo e nuova alleanza. Quanto a concezione teologica non c'è alcuna differenza essenziale tra 1 o, I 6 e I I ,2 3-2 5 . Mangiando dell'unico pane e bevendo dall'unico calice, che non aveva corrispondenza nell'uso giudaico del tempo (H. Schiirmann), ma che anticipa l'unico «calice della salvezza» (Sal. I I 6, I 3) nel banchetto mes-
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La cena in Paolo
sianico (D. Daube; cf. Bill. IV, I I 64), i commensali partecipano all'effi cacia salvi:fica del corpo di Gesù offerto nella sua morte, e del sangue di Gesù versato sulla croce, diventando così una sola comunità, unita nel nuovo ordine escatologico della salvezza. Le due operazioni della cena, quella col pane e quella col calice (v. I 6), costituiscono un'unità nella loro efficacia salvi fica. Il racconto della cena, che Paolo cita in I I ,2 3 h- 2 5 come direttiva che dà il criterio di una celebrazione della cena del Signore a misura della morte di Gesù, è stato senz'altro da lui riferito quale l'ha ricevu to dalla comunità di Antiochia (o di Damasco). In tale tradizione la parola con cui viene offerto il pane suona: «Questo (il pane spezzato) è il mio corpo per voi» ( I I ,24). L'espressione «per voi» include insie me i significati di «a vostro beneficio», «in vista di voi» e «in vece vo stra», e descrive il sacrificio del corpo di Gesù nella morte violenta co me una morte vicaria per i commensali della cena del Signore. Nella concezione di Paolo la formula «per voi» (o «per i nostri peccati» I 5, 3 ) probabilmente combina già il motivo dell'espiazione (Rom. 3,2 5 ) con l'idea della sostituzione vicaria (2 Cor. 5 , 1 4). È materia di discus sione se l'espressione «per voi» abbia fatto parte in origine dell'affer mazione sul corpo; sul piano linguistico una costruzione che pospon ga l'espressione preposizionale (cf. Deut. 28,23 LXX) non è impossi bile (G. Delling). In Marco e Matteo, nella parola sul calice il motivo della sostituzione vicaria e dell'espiazione è legato al sangue dell'alle anza versato da Gesù Cristo. È verisimile che nel contesto della cele brazione cristiana della cena del Signore il «per voi» abbia preso il po sto della più antica espressione «per i molti» (/s. 5 3, 1 2; «molti» in sen so inclusivo, equivalente a «tutti»; Mc. I 4,24). In Paolo la parola sul calice suona: «Questo calice (il vino nel calice) è la nuova alleanza in virtù del mio sangue» ( 1 1 ,2 5 ) . Viene così descritta l'instaurazione del nuovo ordine salvifico escatologico mediante il sangue versato da Ge sù sulla croce. Molti interpreti pensano che in Paolo e in Luca la tra dizione originariamente dicesse: «Questo calice è l'alleanza nel mio sangue» (C h. Wolff); taluni anche ritengono il termine «nuovo» (o «nuova alleanza») un'interpretazione della comunità primitiva o dello stesso Paolo. In ogni caso, anche in Marco, sostanzialmente si pensa alla nuova alleanza escatologica. Sulla questione poi se vi sia qui un rapporto con Es. 24,8 ofe con Ger. 3 I ,3 I e, nel caso, come vada inteso teologicamente, non c'è una posizione concorde degli .esegeti. Nel co-
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mando della ripetizione (fare = «celebrare»), con l'espressione ((in mia memoria» non s'intende una semplice rievocazione, bensì il riconosci mento del significato dell'evento storico-salvifico per l'esistenza at tuale di chi partecipa alla celebrazione; cf. la concezione giudaica della festa della pasqua: «In ogni tempo l'uomo è tenuto a considerarsi co me uno che è stato tratto fuori dall'Egitto» (Pes. I o, 5 b). La parola su pane e vino non va intesa come una doppia similitudine costruita sulla coppia di termini «carne (sarx) e sangue» {I Cor. 1 5,50), dal momento che nel linguaggio dei sacrifici i termini «corpo (soma) e sangue>> non vengono adoperati. - Nella sua interpretazione e applicazione del rac conto tradizionale della cena di I I ,26 Paolo pone l'accento sulla mor te in croce di Gesù. In qualsiasi celebrazione della cena del Signore decisiva è la proclamazione (che ha luogo con parole, J. Schniewind, GLNT 1, I 9 I ) della morte di Gesù Cristo. Il Signore innalzato è pre sente nella cena in veste di crocifisso, con l'efficacia salvifica della sua morte espiatrice e vicaria. È verisimile che in I Cor. I 6,20-24 Paolo impieghi elementi prove nienti dalla liturgia della cena (G. Bornkamm), per inculcare ancora una volta nell'animo dei corinti, a conclusione di quanto ha detto, la loro responsabilità per una celebrazione della cena del Signore che sia con forme alla sua istituzione. L'invito a scambiarsi il bacio santo in segno di comunione fraterna, dopo la lettura della lettera davanti all'assem blea, compare spesso nella chiusa delle lettere paoline (Rom. I 6, 1 6; 2 Cor. I J, I 2; I Tess. 5,26). In Giustino (Apol. 1 ,65) il bacio santo apre la celebrazione della cena; forse quest'usanza v'era già ai tempi di Paolo. L'invocazione maranatha (1 6,22; cf. Did. 1 o,6) significa «Vieni, Signo re nostro! » (così in Apo c. 22,20). Usata nella cena del Signore, quest'in vocazione riprende la prospettiva escatologica sulla venuta del Signo re nella parusia, combinandola con la fede nella presenza, nella cena, del Cristo innalzato, nella veste del padrone di casa che offre i doni della salvezza. 2.
Considerazioni sull'evoluzione storica della tradizione dei testi sulla cena
Allo stato attuale degli studi, in questo complesso di difficili pro blemi, non è possibile basarsi su risultati della scienza neotestamenta ria che siano accettati da tutti. Come formule iniziali per la formazio-
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ne della tradizione nelle comunità che parlavano greco, si assumono versioni diverse delle parole con cui vengono offerti pane e vino. Non è più ricostruibile con certezza l'originaria forma semitica (ebraica o aramaica) che le parole ebbero sulle labbra di Gesù; nessuno dei quat tro racconti dell'istituzione della cena (Mc. 1 4,22-2 5 ; Mt. 26,26-29; Le. 22, 1 5 - 20; 1 Cor. 1 1 ,2 3-2 5) coincide perfettamente col racconto origi nario; pertanto, sullo sviluppo delle tradizioni si possono solo formu lare delle considerazioni. Il problema se l'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli sia stata o meno una cena pasquale deve rimanere aperto. In ogni caso, comun que se ne voglia stabilire la data precisa, Gesù ha tenuto il suo convito di commiato in un momento in cui il pensiero della pasqua era domi nante. Secondo la tradizione di Le. 22,7-20, la cena ha avuto luogo nella cornice della pasqua. È inoltre più verisimile che il collegamento della cena con la festa della pasqua sia originario, e non che sia stato invece operato dai cristiani, i quali solo in un secondo momento avreb bero collegato la cena, che celebravano regolarmente (almeno ogni do menica), con la pasqua che si celebrava solo una volta all'anno. La da tazione giovannea della morte di Gesù al momento dell'uccisione de gli agnelli pasquali vuole probabilmente esprimere il concetto teologi co che Gesù è stato sacrificato come l'agnello pasquale dei cristiani (cf. 1 Cor. 5 ,7; cf. anche Gv. 19,3 3 s.). La scomparsa degli specifici riferi menti alla pasqua nei racconti dell'istituzione della cena in Marco e Paolo è dovuta al fatto che i cristiani ponevano l'accento sulle parole con cui venivano offerti il pane e il vino, parole con cui Gesù diede al la cena un nuovo significato teologico. In considerazione della sua pre tesa messianica, in occasione della sua ultima sosta a Gerusalemme Gesù dovette mettere nel conto la morte violenta. Egli concepì il dono vicario della propria vita (cf. Mc. 1 o,4 5) come il compimento della sua comunione di mensa con pubblicani e peccatori (Mc. 2, 1 5 ss.), in cui aveva aperto loro la comunione con Dio e l'aspettativa della parteci pazione alla futura signoria di Dio. Per quanto concerne la data dei racconti dell'istituzione, oggi come in passato c'è chi sostiene la priorità della tradizione di Marco come di quella di Paolo. Se si ritiene la tradizione marciana un «resoconto narrativo» facente parte originariamente del racconto marciano della passione, e la tradizione paolina una «eziologia del culto» d'impronta liturgica, spiegando poi Le. 22, 1 9 s. come una composizione redazio-
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2.0 5
naie che combina Mc. con I Cor. 1 1 ,23-2 5 (R. Pesch), il racconto mar ciano si presenterà come una tradizione più antica rispetto al testo paolino (anche se questo fu scritto prima). Oggi, però, si sostiene pre valentemente l'idea che tutti e quattro i racconti dell'istituzione sono testi d'impronta liturgica e che i tre evangelisti sinottici, nel loro rac conto della passione, hanno introdotto ciascuno il testo corrente nella celebrazione della cena del Signore nella propria comunità, così come anche Paolo deve aver riferito il racconto della cena della comunità di Antiochia (o di Damasco). Il racconto di Mt. 26,26-29 si basa sulla tradizione di Marco, il suo stile in molti punti è stato levigato e mo stra l'influsso dell'atto di porgere pane e vino nella celebrazione cri stiana (cf. ad es. la ripetizione «prendete», «mangiate», e la trasforma zione dell'indicativo marciano «e tutti ne bevvero» nell'imperativo). In Mt. 26,28 l'aggiunta «per la remissione dei peccati» (Mc. 1 ,4} è un'ul teriore interpretazione teologica, sostanzialmente appropriata, del mo dello marciano. Più complesso il rapporto tra I Cor. 1 1,23-25 e Le. 22, 1 9 s., che si basano ambedue su una comune tradizione orale. I due racconti con tengono elementi della tradizione sia antichi sia recenti. L'espressione participiale «che è versato per voi» concordata col dativo «sangue» è grammaticalmente ostica ed è ad esempio più recente della concisa for mula paolina «nel mio sangue». D'altro canto, quest'espressione di Paolo è grecizzata e si rivela in tal modo secondaria rispetto a Luca. Per l'intelligenza teologica della cena è significativo che ambedue i filoni della tradizione, quello di Marco e quello di PaolofLuca, con tengano sia il motivo della morte vicaria (Paolo nella parola sul pane, Marco in quella sul calice), sia l'idea della stipulazione di un'alleanza (Mc. «il mio sangue dell'alleanza», Paolo «la nuova alleanza nel mio sangue»). A favore della priorità della tradizione paolina è possibile ad durre importanti argomenti (G. Bornkamm; E. Schweizer). L'unione del gesto sul pane e di quello sul calice ha rafforzato la tendenza al pa rallelismo delle relative parole di offerta (cf. la formulazione di Giusti no, Apol. 1 ,66: «questo è il mio corpo>>, «questo è il mio sangue»). D'altro canto, nello sviluppo successivo, l'interesse s'è vieppiù concen trato sugli elementi del pane e del vino (cf. Ign., Eph. 20,2 ) . Inoltre, l'espressione marciana «il mio sangue dell'alleanza», con la sua dupli ce precisazione non esattamente corrispondente al testo di Es. 24,8, è decisamente sorprendente e difficile sul piano linguistico. La versione
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più antica della parola di offerta sul pane dev'essere stata: «Questo è il mio corpo per molti>>, e quella sul calice: «Questo calice è la (nuova) alleanza nel mio sangue». È tuttavia possibile anche la versione mar ciana. La prospettiva escatologica (Mc. 1 4,2 5) fece parte della tradizio ne più antica (cf. /s. 2 5,6 ss.; Hen. aeth. 62, 1 3 s.), mentre il comando della ripetizione è da considerarsi un ampliamento liturgico. La for mula iniziale dello sviluppo della tradizione greca univa il richiamo al la precedente morte espiatrice e vicaria di Gesù sulla croce con la pro spettiva della futura comunione di mensa nella signoria di Dio piena mente realizzata. Su quanto ha preceduto la versione di Marco e di Paolo non si pos sono avanzare che supposizioni. Penso non si debba escludere che il detto relativo all'instaurazione dell'ordine salvifico escatologico risal ga a Gesù stesso (o alla comunità primitiva), anche se nelle parole di Gesù il termine «alleanza» non compare in nessun altro passo. L'idea della «nuova alleanza» era comunque viva nella comunità di Qumran (CD 6,1 9; 8,2 1 ; 1 9,3 3 s.; 1 QS 5,7- 1 0), mentre non la si trova quasi mai nel giudaismo ellenistico. Poiché l'espressione «sangue dell'alleanza» designa per lo più il sangue della circoncisione (Bill. 1, 99 1 ), occorre pensare, oltre che a Es. 24,8, anche a un riferimento a Ger. 3 1 ,3 1 ss., anche se non vi si parla di sangue versato. In base ai canti del profeta Isaia relativi al servo di Dio (soprattutto /s. 5 3), l'attesa del futuro in cludeva la prospettiva dell'instaurazione dell'ordine escatologico della salvezza (Sal. 22,26 ss.; cf. anche Mt. 1 9,28). A ciò si aggiunga che il concetto di «alleanza» costituisce senz' altro un «concetto correlativo» (J. Behm, GLNT n, 1 09 1 ) a quello della signoria di Dio predicata da Gesù. La risurrezione di Gesù fu interpretata come conferma della sua mis sione messianica da parte di Dio, e il rinnovamento ad opera di Gesù, nelle sue apparizioni postpasquali, della comunione di mensa con i di scepoli fuggiti dopo la crocifissione, ha rafforzato la fede, basata sulle parole di commiato di Gesù, che nella cena il Signore innalzato è pre sente con l'efficacia salvifica della sua morte espiatrice e vi caria, e che egli adempirà la promessa della comunione escatologica di mensa con i suoi (Mc. 14,2 5 ) .
3· Caratteri fondamentali della concezione paolina della cena 3 . 1 . Per Paolo, al centro della celebrazione della cena del Signore c'è la predicazione della morte in croce di Gesù Cristo, presente nella ce na come Signore innalzato che, dando da mangiare il pane e facendo bere dal calice i commensali, li fa partecipi dell'efficacia salvifica della sua morte espiatrice e vicaria e li inserisce così nell'ordine escatologi co della salvezza che la sua morte ha instaurato. Questa accentuazione non è dovuta solo alla polemica con i pneumatici di Corinto, ma è una espressione essenziale della teologia paolina della croce. Una semplice celebrazione in comune tra amici non merita, secondo Paolo, il nome di «cena del Signore». 3.2. Al tempo stesso la comunione con Cristo nella cena fonda e raf forza la comunione reciproca tra coloro che vi partecipano. Il sacrifi cio del corpo di Gesù nella sua morte violenta è il fondamento della chiesa come «corpo di Cristo». Perciò la distruzione della comunione fraterna è anche un insulto al Signore presente nella cena. L'apostolo attribuisce alla celebrazione in comune della cena del Signore un'im portanza decisiva per l'unità della chiesa e per il rafforzarsi della fede dei membri della comunità. 3. 3 . Paolo sottolinea la stretta connessione della celebrazione sacra mentale con la costante preservazione di fede, amore e speranza in tut to il comportamento. I sacramenti sono per lui non soltanto dei sim boli, bensì efficaci strumenti di grazia che però non garantiscono au tomaticamente la salvezza (cf. 1 Cor. 1 0). Chi propriamente agisce nella cena del Signore è il kyrios. Nella cena i credenti ricevono la co munione con Cristo e la remissione dei peccati (Mt. 26,28), ma non è la loro fede a produrre nella cena la presenza del Signore innalzato. 3 ·4· Paolo vede la cena del Signore nell'orizzonte escatologico. N el la comunione di mensa col Signore Gesù Cristo crocifisso e innalzato, che pronuncerà l'ultimo giudizio sugli uomini (2 Cor. 5 , 1 o), la cele brazione apre una prospettiva sul futuro e rafforza la speranza nell'in staurazione visibile della piena signoria di Dio (1 Cor. 1 5,28).
3· I do ni dello Spirito ( 1 2, I - I 4,40)
Il nuovo tema dei doni dello spirito riguarda un ulteriore problema della vita religiosa della comunità di Corinto, problema sul quale Pao lo deve prendere posizione in termini critici. L'introduzione del passo
�o8
I
Cor.
1 2.,1-J.
n segno distintivo dello Spirito di Dio
mostra come a offrire l'occasione di trattare il tema sia stata una ri chiesta di quella comunità. I capp. 1 2- 1 4 sono la risposta dell'apostolo ai corinti, che per iscritto avevano chiesto che cosa si dovesse pensare degli «pneumatici», ossia di coloro che hanno doni dello Spirito, op pure degli stessi doni dello Spirito. Il termine greco può essere inteso sia come un maschile, sia come un neutro (doni dello Spirito). In con creto, a Corinto il problema erano prima di tutto i doni del parlare le lingue (glossolalia) e della profezia, che godevano di altissima consi derazione. Paolo parte dal concetto di «pneumatico» (cf. 2, 1 3) per pas sare poi, generalizzando, ai doni dello Spirito (pneumatika), che defi nisce come doni della grazia divina (charismata). In questi capitoli si ha la miglior visione che ci dia tutto il Nuovo Testamento di una cele brazione cristiana del culto intorno alla metà del 1 secolo. Paolo inco mincia con l'indicare nella confessione di Gesù kyrios il criterio deci sivo con cui si debbono valutare tutti i doni dello Spirito ( 1 2, 1 -3 ) . Svi luppa poi la molteplicità dei doni nell'unità dello Spirito ( 1 2,4- 1 1 ) e la molteplicità delle membra nell'unità del corpo ( 1 2, 1 2-J I ). In tal modo indica il legame della dottrina dei carismi con la cristologia e la dottri na della chiesa (ecclesiologia). Nel cap. 1 3 celebra l'amore (agape) co me frutto e forza fondamentali dello Spirito, per mezzo dei quali sol tanto tutti i carismi diventano operanti nell'edificazione della comuni tà, e pone quindi anche le basi su cui nel cap. 14 potrà fondare la prio rità del discorso profetico rispetto alla glossolalia. J. I .
I doni dello Spirito e la chiesa ( I 2, I-J I )
J. I . I .
Il segno distintivo dello Spirito di Dio { t 2, 1 -3)
1 Riguardo agli uomini spirituali (o ai doni dello Spirito), fratelli, non vo glio che siate nell'ignoranza. 2. Voi sapete che, quando eravate gentili, era vate attirati verso gli idoli muti come trascinati. 3 Perciò vi annuncio che nessuno, parlando nello Spirito di Dio, dice: «Maledetto è Gesù», e nessu no può dire: «Gesù è Signore» se non nello Spirito santo. 1
1 4, 1 .
.1 Ab. 2.,18; SaL
u s , S ·7·
3
Rom.
10,9; Fil
2.,1 1 .
1-3. Interpellando i corinti come «fratelli� e dichiarandosi pronto a istruirli ancora sulla questione che hanno posto, Paolo introduce la nuova pericope. Nei vv. 2 e 3 incomincia col delimitare in linea di prin cipio l'ambito entro il quale soltanto si può parlare a buon diritto di uo mini spirituali ovvero di doni dello Spirito: tale ambito è quello entro
1 Cor. 1 .2., 1 -3 .
Il segno distintivo dello Spirito di Dio
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cui opera lo Spirito di Dio e di Gesù Cristo (cf. Rom. 8). Particolar mente elevata era la considerazione di cui godevano a Corinto coloro che in estasi parlavano le lingue. Sull'effetto inebriante dell'estasi, pro dotta dall'invasamento dello spirito della divinità (Platone, Men. 99C d), Paolo rimanda i corinti allo loro stessa esperienza di quand'erano ancora gentili. Quest'affermazione complessiva sul precedente com portamento da gentili non esclude che a Corinto vi fosse una mino ranza giudeocristiana, né intende dire che tutti gli attuali membri della comunità di Corinto siano stati in precedenza iniziati a una qualche religione misteri ca. Nel mondo ellenistico gli effetti deli' estasi erano generalmente noti. Prima i corinti erano totalmente in potere dei loro dei pagani, da loro celebrati nelle feste (ad es. quella di Dioniso) con processioni orgiastiche. Il senso letterale del testo, non del tutto chia ro, induce a credere che nel v. 2 si pensi a fenomeni estatici, ivi inclusa probabilmente l'influenza esercitata dal culto patrio e dalla forza del l'abitudine. L'apostolo nomina gli dei pagani con la tradizionale espres sione giudaica, «gli idoli muti» (cf. Ab. 2, 1 8; Sal. I I 5 , 5 .7), per dire che il loro carattere è quello di morte immagini, opera della mano dell'uo mo, e di potenze senza parola e senza efficacia. Nella sua affermazio ne di principio del v. 3, con due pregnanti espressioni parallele, Paolo descrive la confessione nel Signore Gesù come un effetto dello Spirito di Dio, dello Spirito santo, e quindi come il criterio decisivo per giu dicare tutte le espressioni dello Spirito nella comunità cristiana. Si di scute se la formula «maledetto è GesÙ» venisse realmente pronunciata nel culto di Corinto. W. Schmithals, tra gli altri passi, fonda principal mente su questo la sua tesi che i corinti fossero degli gnostici, che nel culto avrebbero maledetto il Gesù terreno perché, in base al dualismo di carne e spirito, essi avrebbero adorato solo il Cristo - Spirito innal zato. N on c'è però alcuna prova di una cristologia gnostica dualistica già formata nella prima metà del 1 sec. d.C. Da I Cor. I 5,3 - 5 si può inoltre desumere che i corinti non avevano messo in discussione l'ori ginaria confessione cristiana nella risurrezione di Gesù Cristo croci fisso; in I Cor. I 2, I 3 l'apostolo ribadisce loro che nel battesimo hanno ricevuto lo Spirito santo (cf. v. 3). Adolf Schlatter pensava alla maledi zione di Gesù nella sinagoga giudaica, ma nel contesto non si ha pre sente il culto giudaico, bensì pagano (estatico). In quest'epoca iniziale il culto dell'imperatore (0. Cullmann) non ebbe ancora parte alcuna. Il modo migliore di intendere la formula è quello di vedervi una in-
2 IO
Formule di
confessione in Paolo
venzione di Paolo, costruita per analogia con l'acclamazione cristiana: « Gesù è il Signore)) (H. Conzelmann). N elle comunità etnicocristianc la confessione in Gesù kyrios, che nel culto veniva pronunciata in di verse occasioni (Rom. I 0,9 in occasione del battesimo; Fil. 2, I I ), ha sostituito la più antica confessione giudeocristiana «Gesù è il messia»; l'identità di Cristo e messia è inclusa nel nome proprio «Gesù Cri sto». La confessione nel kyrios celebra in Gesù Cristo, crocifisso e da Dio risuscitato e innalzato, il Signore della chiesa e dell'universo. Se condo Rom. 10,9 la confessione è fatta con le labbra e col cuore, e te stimonia che il credente, in tutto il suo comportamento, è determinato dal Signore (1 ,2) e quindi anche dallo Spirito (2 Cor. J, 1 7). Di conse guenza la formula opposta: «maledetto è GesÙ» descrive un atteggia mento fondamentalmente ostile a Cristo, e include tutto l'ambito dei non credenti, nel quale Cristo non è riconosciuto come kyrios, ed è quindi di fatto condannato come bestemmiatore (T. Holtz). L'operare dello Spirito santo e il rifiuto di Gesù come Signore si escludono a vi cenda. Da solo l'atteggiamento estatico non è ancora un segno del l'operare dello Spirito di Dio, dal momento che anche tra i gentili si danno fenomeni estatici, come i corinti sanno per esperienza diretta. Decisivo è che oggetto della confessione sia l'azione salvifica di Dio nella croce e risurrezione di Gesù Cristo. Là dove opera lo Spirito di Dio, ivi Cristo viene «glorificato)) con la parola e con l'azione (Fil. 1 ,20). Come Paolo ha illustrato nei capp. 1 - 3, la fede in Cristo non è una possibilità della sapienza di questo mondo. Perciò nessuno può confessare che Gesù è il Signore se non nello Spirito santo. Excursus Formule di confessione in Paolo Nella chiesa protocristiana non esisteva ancora una confessione del la fede nel Dio uno e trino altrettanto completa di quella più tardi co stituita dal cosiddetto simbolo apostolico. Paolo, tuttavia, ci tramanda già formule di fede cristologiche e soteriologiche, con cui la comunità testimonia l'evento salvifico in Cristo e, confessando la persona e l' ope ra salvifica di Gesù Cristo, dà onore a Dio con la sua lode. La più antica confessione della primitiva comunità palestinese dice va: Gesù è il messia (l'unto = il Cristo: Mc. 8,29; 14,6 I ; Gv. 9,22; cf. Atti 2,36; 9,22; 1 7,3). Nelle comunità ellenistiche v'era anche la con-
Formule di confessione in Paolo
2I I
fessione in Gesù figlio di Dio (Mt. 1 4,3 3 ; I 6, I 6; Mc. I , I I ; 9, 7; 14,61; Gv. I ,34; I I ,27; Atti 9,2o; Rom. I , J; I Gv. 4, I 4; 5,5; Ebr. I,2; 4, I 4) . Il titolo onorifico «figlio dell'uomo» (usato, a mio parere, da Gesù stes so) non è entrato nella confessione. Nelle formule di confessione paoline predomina il titolo onorifico di kyrios, che celebra Gesù Cristo come Signore della chiesa e di tutte le potenze. Tre volte si trova in Paolo la formula «Gesù è Signore» (Rom. I o,9; I Cor. I 2,3; Fil. 2, I I), che dev'essere stata la confessione principale delle comunità ellenistiche; già l'inno prepaolino di Fil. 2,6I I, infatti, va in questa direzione. Rom. I0,9 mostra come questa for mula fosse usata come confessione (certamente nel battesimo); qui i cristiani vengono definiti come coloro che «invocano il nome del Si gnore» (Rom. I O, I 2 s., dove si fa riferimento a Gl. 3,5; cf. I Cor. I ,2). In I Cor. 8,5 s. Gesù Cristo viene contrapposto, in quanto figlio del l 'unico Dio, ai molti dei e ai molti signori del mondo ellenistico. Nelle religioni misteriche si adoravano come signore (kyrios) e signora (ky ria) particolari divinità salvifiche, soprattutto Serapide, Iside e anche l'Artemide di Efeso. Fil. 2,9- I I , riprendendo espressioni da /s. 45,23, rende testimonianza a Gesù, Signore escatologico dell'intera creazio ne. Nella compiuta signoria di Dio tutte le potenze piegheranno il gi nocchio davanti a lui e dovranno rendergli omaggio con l' acclamazio ne «Gesù Cristo è Signore ! » a onore di Dio, il Padre. I c�edenti già ora lo adorano come loro Signore. La confessione è al tempo stesso una proclamazione davanti al mondo. In Rom. 1 0,9 ci si presentano due diverse forme fondamentali del l'affermazione confessionale cristologica. Nella cosiddetta omologia si adopera il verbo «confessare»: confessare che Gesù è il kyrios; in essa si testimonia la presenza, mediante lo Spirito, del Signore innalzato nella sua comunità riunita per il culto. La cosiddetta formula di fede (il «credo», col verbo «credere» seguito da proposizione dichiarativa) testimonia la passata azione salvifica di Dio come fondamento della fede: credere «che Dio lo ha risuscitato (Gesù) dai morti». Si fa qui evi dente che la confessione che Gesù Cristo, il figlio di Dio, è il Signore crocifisso e innalzato da Dio su tutte le potenze, rappresenta il conte nuto fondamentale delle formule cristologiche. Dalle formule di confessione in senso vero e proprio vanno distinti (sotto l'aspetto formale) in primo luogo gli inni (v. l'inno a Dio di Rom. 1 I ,JJ-36 e gli inni a Cristo di Fil. 2, 5 - 1 1 : Col. 1 , 1 5 -20; E br. I ,J s.; I Tim.
2 I .2.
Formule di confessione in Paolo
J, I 6), che descrivono !,itinerario di Cristo, dal suo essere presso il Pa dre, attraverso umiliazione e innalzamento, fino alla sua signoria esca tologica; e, in secondo luogo, le cosiddette eulogie (Ef I ,J-I4; I Pt. 1 , 3 - I 2), che parlano della comunità in prima e seconda persona plurale, e nelle quali la formula iniziale di benedizione impronta l'intera strut tura. Gli inni possono anche assumere carattere confessionale, come viceversa le confessioni hanno anche una funzione di lode. Il termine ebraico che indica «confessare» (hoda) significa anche lodare (cf. Mt. I I ,2 5 ); il termine greco (homologein ), che letteralmente significa «dire la stessa cosa, essere d'accordo», fu usato prevalentemente nel senso di «accordare, promettere» (Mt. 14,7). La radice dell'uso del «confessare» nel linguaggio cristiano va vista probabilmente nel logion di Gesù di Mt. IO,J 2 / Le. 1 2,8 (H. von Cam penhausen), dove al «confessare» si contrappone il «rinnegare». La confessione svolge anche la funzione di unire e separare (cf. I Cor. I 2, 3 ; Gv. 9,22). Con la sua professione di fede in Cristo la comunità cri stiana prende le distanze da giudei e gentili. In una fase successiva del lo sviluppo, la confessione serve a difendersi dai falsi maestri ( I Gv. 2,22; 4,2 s.; 4,1 5 ; 5, 5). La confessione solenne ha in sé un aspetto pub blico (davanti agli uomini: Le. I 2,8), un aspetto vincolante (Timoteo può venir richiamato alla confessione che ha pronunciato: I Tim. 6, I 2 ss.) e un aspetto definitivo (quello del suo significato escatologico: Le. I 2,8; cf. O. Michel, GLNT VII I, 5 92 s.). Situazione e luogo della con fessione erano vari. In E br. I 3 , 1 5 la lode di Dio nell'assemblea della comunità è presentata come «il frutto delle labbra che confessano il suo nome». La confessione aveva luogo inoltre soprattutto in occasio ne del battesimo (Rom. Io,9; cf. la successiva aggiunta del versetto At ti 8,37) e dell'ordinazione ( I Tim. 6, 1 2), nella controversia con perso ne di fede diversa ( Gv. 9,22) e nella lotta contro falsi maestri ( I Gv. 4,I 5), più tardi davanti al giudice in caso di accusa (Mart. Poi. 8,2) e verisimilmente anche in occasione della cacciata dei demoni (Giusti no, Dia/. JO,J). Stanno in stretto rapporto con le formule di confessione cristologi che varie espressioni di fede, simili a confessioni, concernenti singoli momenti dell'evento della salvezza, in particolare la morte e risurre zione di Gesù Cristo (formule soteriologiche). La più antica è la co siddetta formula della risurrezione, che ha origine fin dalla comunità primitiva di lingua aramaica. Compare in due forme: 1 . come afferma-
Formule di confessione in Paolo
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zione in cui Dio è pensato come colui che agisce, col verbo all'attivo: «Dio ha risuscitato Gesù dai morti» (Atti J,I 5 ; 4, Io; I J,JO; Rom. 1 0,9; 1 Cor. 6, 14; 1 Tess. I , I o) oppure al passivo (Le. 24,34; Gv. 2,22; Rom. 4,2 5; 6,4; 1 Cor. I 5,4.2o; col participio passivo: Rom. 6,9; 7,4; 8,34; 2 Cor. 5 , 1 5 ; 2 Tim. 2,8); 2. come predicazione participiale: «Dio, che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore» (Rom. 4,24; 2 Cor. 4, 14; Gal. 1 , 1 ; Col. 2, 1 2). Nel Nuovo Testamento il participio è divenuto un predicato di Dio ( = il risuscitato re). La morte in croce di Gesù viene testimoniata con diverse espres sioni, ancor più varie. La cosiddetta formula del dono di sé presenta la morte di Gesù come sacrificio vicario della vita per i peccatori. Come soggetto dell'evento salvifico in essa viene nominato a volte Dio (Rom. 8,3 2; cf. 4,2 5 ), a volte Gesù Cristo ( Gal. 1 ,4; 2,2o; cf. Ef 5,2.25; Tit. 2, 1 4). Lo stesso senso ha la cosiddetta formula della morte: «Cristo è morto per noi (o per i nostri peccati)» (Rom. 5 ,6.8; I Cor. 8, 1 I ; I 5,3; 2 Cor. 5, 14 s.; cf. 1 Pt. 3 , 1 8) . Nel frammento di tradizione giudeocristia na che Paolo riprende e interpreta in Rom. 3 ,2 5 s. la morte di Gesù è presentata come morte espiatrice e vicaria, con riferimento a Lev. I 6 ( 1 Gv. 2,2; 4, Io; Ebr. 2, 1 7). - Spesso le affermazioni relative a morte e risurrezione di Gesù sono unite l'una all'altra. Ciò vale, in primo luo go, per l'antica formula di Rom. 4,2 5 : Gesù, Signore nostro, «che è sta to sacrificato per le nostre trasgressioni ed è stato risuscitato a nostra giustificazione». La formula di fede di 1 Tess. 4, I 4 è un richiamo con ciso degli eventi salvifici, con lo stesso significato. Una stretta connes sione tra morte espiatrice e vicaria e risurrezione si trova anche nella tradizione citata da Paolo in 1 Cor. 1 5,3-5, la cui origine risale proba bilmente alla comunità primitiva. Quest'antichissima ricapito l azione dell'annuncio cristiano va definita non una formula di confessione, ma un «sommario catechetico» (P. Stuhlmacher; v. ad loc.). Dietro l'espres sione che rinvia all'innalzamento di Cristo, «che è alla destra di Dio» (R o m. 8,J4; cf. Atti 2,J J; s ,J I; 7, 5 5 ; Ef I ,2o; Col. J , I ; I Pt. J,22; Ebr. I ,J), c'è il passo veterotestamentario di Sal. I I O, I . Oltre alle formule confessionali a un solo membro riferite a Cristo, in 1 Cor. 8,6 Paolo ne conserva anche una a due membri, riferentesi a Dio e a Cristo: noi cristiani abbiamo «un solo Dio, il Padre, da cui è ogni cosa e noi per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, per mezzo del quale è ogni cosa, e noi per mezzo di lui» (cf. analoghe formule a due membri in I Tim. 2,5 ; 6, I J; 2 Tim. 4, 1). Finché la comunità primitiva
2 I4
1 Cor. 1 2,-4- I I .
M olti doni, un solo Spirito
visse nell'ambito del giudaismo, non vi fu motivo di includere nella confessione la fede nell'unico Dio, dal momento che i giudei confessa vano Jahvé come l'unico Dio (Deut. 6,4); ma in un ambiente in cui vi vevano anche gentil i andava testimoniata prima di tutto la fede nel Dio unico, il Padre di Gesù Cristo. Anche la confessione di I Cor. 8,6 deve risalire a tempi relativamente assai antichi, poiché Paolo poté ri prenderla già dalla comunità giudeocristiana ellenistica. N elle loro formule confessionali i cristiani confessano la fede in una persona, Dio Padre, e in Gesù Cristo, il figlio di Dio e kyrios. Le espressioni sote riologiche testimoniano i singoli atti dell'evento salvifico, e insieme il lustrano così il significato del cosiddetto titolo onorifico. In seguito le affermazioni sul Pevento salvifico sono entrate soprattutto nel secon do articolo di fede del credo apostolico. L'evoluzione che ha portato alla confessione tripartita della fede in Dio Padre, in Gesù Cristo e nello Spirito santo, ha avuto il suo punto di partenza nelle cosiddette formule triadiche (cf. 2 Cor. I J, I J E). Oltre a formule di confessione, dichiarazioni di fede soteriologiche, inni, tradizioni parenetiche (nella chiusa delle lettere) e all'antico fram mento di tradizione di I Cor. I 5,3- 5, si trovano in Paolo anche formu le d'impronta liturgica (ad es. dossologie: Rom. 1,25; 9, 5; 2 Cor. 1 I,J 1; formule di benedizione e maledizione: I Cor. I 6,22; Gal. 1 6, 1 6; invo cazioni di preghiera come maranatha: I Cor. I6,22) e tradizioni sacra mentali; a questo riguardo, la tradizione della cena di I Cor. I I,23-2 5 è quella cui spetta l'importanza maggiore (cf. ad loc. ). -
3.1.2.
Molti doni, un solo Spirito ( I 2,4- I I )
4 Vi
sono (varie) ripartizioni di doni della grazia, ma (c'è) uno stesso Spiri to; 5 e vi sono (varie) ripartizioni di servizi, ma c'è lo stesso Signore; 6 e vi sono (varie) ripartizioni di effetti, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tut ti. 7 E a ciascuno la manifestazione dello Spirito è data per l'utilità ( comu ne). 8 A uno è data dallo Spirito parola di sapienza, a un altro dal medesi mo Spirito parola di conoscenza, 9 a un altro, nel medesimo Spirito, fede, a un altro, nell'unico Spirito, dono di sanare, Io a un altro potere di opera re miracoli, a un altro profezia (il dono del discorso profetico}, a un altro il dono di discernere gli spiriti, a un altro ancora (vari) generi di (parlare le) lin gue, a un altro il dono di interpretarle. 1 1 Ma tutto ciò opera l'unico e me desimo Spirito, che assegna (i suoi doni) a ciascuno come vuole. 8-IO Rom. 1 2,6-8. IO I Tess.
s,I9-2 1 .
1 Cor. 1 .1,4- 1 1. Molti doni,
un
solo Spirito
2. 1 S
4- 1 1 . In questa pericope Paolo tratta della varietà dei doni di grazia nell'unità dello Spirito. La variegata ricchezza dei doni ha la sua ori gine da Dio che, mediante il suo Spirito, ripartisce in maniera diversa i carismi secondo il suo volere. Il termine greco che viene qui adopera to (diairesis) contiene sia il senso della ripartizione (v. I 1), sia quello della conseguente diversità dei doni. Nei vv . 4-6, per mezzo della formula a tre membri (triadica) Dio, Signore, Spirito, la cui successio ne può anche variare (cf. 2 Cor. I J, I J), viene descritto l'operare di Dio con tre frasi costruite in parallelo. Culmine della triade ascendente è Dio, che include in sé l'operare di Cristo e dello Spirito. Per indicare i doni dello Spirito (pneumatika ), che a Corinto venivano fraintesi in senso entusiastico, Paolo impiega qui il concetto di «doni di grazia» ( charismata), da lui promosso all'uso tecnico, per sottolineare con es so il carattere di regalo e l'indisponibilità dei doni divini. Poiché si parla dei doni dello Spirito, in quanto origine dei doni (v. 1 I ) lo Spiri to è posto all'inizio della serie. Ciò non contraddice all'idea che Dio è l'autore e il dispensatore ultimo di ogni dono, dal momento che Dio opera nel nostro mondo mediante Gesù Cristo e lo Spirito santo. I tre concetti con cui vengono illustrati i doni dello Spirito sono messi pro priamente in corrispondenza con i termini che designano di volta in volta il relativo dispensatore: doni di grazia � Spirito; ministeri � Si gnore; effetti � Dio, che come agente ultimo opera tutto in tutti. «In tutti» va inteso prevalentemente in senso personale, poiché qui si han no presenti i membri della comunità con i loro doni. È vero che i cari smi sono assegnati ai credenti in maniere differenti - e non solo i pneumatici entusiasti, ma tutti i cristiani hanno i loro doni di grazia ma la loro origine è la stessa: sono effetti della grazia o dello Spirito di Dio e servono tutti al medesimo scopo, come si dice ricapitolando nel v. 7: a ciascuno la rivelazione dello Spirito è data «per l'utilità>>, ossia non per il suo privato godimento, ma al servizio di tutti e a edificazio ne della comunità (cap. 14). Nei vv. 8- 1 0 c'è un'enumerazione di di versi doni dello Spirito. Il confronto col v. 28 e con Rom. 1 2,3-8 mo stra come l'elenco non sia completo, non contenga un rigoroso ordine sistematico, né una gerarchia che intenda avere un valore di principio. Nella pericope qui in esame mancano, ad esempio, i doni diaconali che in Rom. 1 2 vengono esposti ampiamente; in vece loro in 1 Cor. 1 2 ri cevono una forte accentuazione sapienza e conoscenza, funzioni che hanno a che fare con la predicazione, così come i doni di operare mi-
2 I6
1
Cor.
J 2,-4- 1
[. Molti doni, un solo Spirito
racoli e i poteri estatici. In tal modo Paolo tiene in considerazione la concreta situazione di Corinto, dove la glossolalia estatica era ritenuta il più alto dono dello Spirito. L'elenco illustra le molteplici manifesta zioni dello Spirito. Nel v. 8 l'apostolo inizia con la distinzione tra di scorsi di sapienza e discorsi di conoscenza. È pressoché impossibile de finire con chiarezza l'effettiva differenza tra questi due doni. Entram bi i ternùni designano un genere di discorso che, prodotto dallo Spiri to, rivela e istruisce, ma non li si può porre in alternativa l'uno all'al tro (come fa J. Weiss), associando il primo ai profeti (gnosis), il secon do ai maestri (sophia ). Un esempio di discorso di sapienza Paolo l'ha dato sicuramente in 1 Cor. 2,6- I 6, e si dovrebbe avere anche un discor so di conoscenza nella trattazione di 8, I I ss., dove Paolo mette in luce le basi della vera conoscenza. Quanto a contenuto, i due tipi di discor so si riferiscono al vangelo, in quanto sapienza rivelata in Cristo e po tenza di Dio per la salvazione. Forse la sapienza è più orientata alla vi sione, data dallo Spirito, del disegno salvi fico di Dio, mentre il discor so di conoscenza mira maggiormente alla corretta valutazione della situazione del momento in cui si deve operare secondo lo Spirito di Dio, e dà alla comunità le istruzioni che ne conseguono. Poiché nel v. 9, continuando la serie dei carismi, viene menzionata la fede, è difficile si tratti di una deternùnata misura della comune fede cristiana, ma si tratterà di una fede quale viene donata a singole persone particolar mente dotate di carismi, ossia della fede che fa miracoli e muove le mon tagne (cf. I J,l; Mt. I 7,2o), cosa che si accorda bene con i doni, nomi nati subito dopo, dell'operare guarigioni e miracoli. Dopo il dono del le guarigioni, nel v. 1 0 si parla ancora di altre forze che operano mira coli, pensando prevalentemente al potere di cacciare i demoni (esorci smi). «Atti di potenza» e «miracoli» sono termini equivalenti; l'unio ne di queste due espressioni vuole mettere in evidenza la forza e l'effi cacia di questi doni, particolarmente estese e superiori a quelle dei de moni. Del dono del discorso profetico in rapporto con la glossolalia si tratterà diffusamente nel cap. 1 4 . Formalmente, alla profezia viene co ordinato il discernimento degli spiriti, esattamente come al parlare le lingue è coordinata l'interpretazione delle lingue. Nei LXX il termine greco per «discernere» (diakrinein) ha il significato ermeneutico di «intendere», «interpretare». In base a ciò, per l'espressione «discerni mento degli spiriti>> (diakriseis pneumaton) è stata proposta la tradu zione «interpretazioni di rivelazioni dello Spirito» (G. Dautzenberg).
1 Cor. 1 2, 1 2-.16.
Molte membra, un solo corpo
2. 1 7
I l senso che allora ne risulterebbe sarebbe questo: vi sono profeti che i nterpretano le rivelazioni dello Spirito che sono state fatte ad altri profeti. Tuttavia, il verbo menzionato ( diakrinein) e il corrispondente sostantivo ( diakrisis) nei LXX e negli scritti cristiani non sono in ge nere usati per indicare specificamente l'interpretazione della profezia. Al riguardo si dovrà quindi conservare l'aspetto, contenuto nella tra duzione abituale con «discernimento degli spiriti>>, della capacità di appurare se sia all'opera lo Spirito di Dio o un altro spirito (demonia co). Giudizio ed esame delle manifestazioni dello spirito sono neces sari perché vi sono anche falsi profeti (cf. Ger. 28; Mt. 7, 1 5; Did. 1 1 ,8) e opere dello spirito demoniaco (cf. 1 2,2). Rom. 1 2,6 richiama, come criterio di tale esame, che il discorso profetico sia conforme alla fede. Secondo 1 Tess. 5 , 1 9-2 1 l'intera comunità ha il compito di esaminare le manifestazioni dello Spirito, ivi incluse anche le manifestazioni dei carismatici. Con intento polemico nei confronti della sopravvalutazio ne che se ne faceva a Corinto, Paolo pone il parlare le lingue, insieme con l'interpretazione di esse, al termine del suo elenco. Il plurale «ge neri di lingue» accenna al fatto che la glossolalia comprendeva diverse lingue (cf. 1 3 , 1 ) e forme di espressione. Sul modo di comportarsi di chi parlava le lingue il cap. 1 4 dà informazioni più precise. Con l'af fermazione conclusiva del v. 1 1 l'apostolo sottolinea ancora una volta l'origine unica dei doni dello Spirito; con ciò rafforza ogni membro della comunità nell'uso dei doni a lui elargiti e inculca nei pneumatici che anch'essi sono debitori dei loro particolari doni dello Spirito alla grazia di Dio e non a loro stessi. 3.1.3. Molte membra, un solo corpo ( 1 2,1 2-26) 1.1 Giacché come il corpo è uno solo, pur avendo molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un solo corpo, così anche Cri sto. 1 3 Infatti, siamo stati tutti battezzati in un solo Spirito per un solo cor po, sia giudei sia greci, sia schiavi sia liberi, e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito. 1 4 Anche il corpo, infatti, non consiste di un solo membro, ma di molti. 1 5 Se il piede dice(sse): «Poiché non sono mano, non apparten go al corpo», non per questo non appartiene al corpo. 1 6 E se l'orecchio di ce(sse): «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per que sto non appartiene al corpo. 17 Se tutto il corpo fosse occhio, dove sareb be l'udito? E se fosse tutto udito, dove sarebbe l'odorato? 1 8 Ora Dio ha posto le membra nel corpo, ciascuna di esse come ha voluto. 19 Ché se tut-
2I8
l
Cor. 1 2, 1 1-16. Molte membra, un solo corpo
te fossero un solo m embro , dove sarebbe il corpo? 10 Ora, invece, molte sono le membra, ma uno solo il corpo. 21 Non può l'occhio dire alla ma no: «N on ho bisogno di te», né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi » . 2 2 Bensì (proprio) le membra che sembrano essere più deboli sono molto più necessarie, 2 3 e le membra del corpo che riteniamo meno onorevoli le rivestiamo di maggior onore, sicché quelle indecorose ricevono più decoro, 14 mentre le nostre (membra) onorevoli non ne hanno bisogno. Ma Dio ha contemperato il corpo, dando maggior onore al membro che ne aveva meno, 15 affinché non vi fosse divisione nel corpo, ma le membra provvedessero concordemente le une alle altre. 26 E se un solo membro soffre, tutte le mem bra soffrono con esso; se un solo membro è onorato, tutte le membra si ral legrano con esso. 12 s.
1 0, 1 7; Rom. 1 2,4
s.
13 GaL
3,28. 26 Rom. 1 2,1 S·
Dai doni dello Spirito Paolo passa all'ambiente in cui i diversi doni dello Spirito operano concretamente, ovvero la chiesa. Lo Spirito di Dio è la forza viva che opera nel «corpo di Cristo». Anche qui domi na lo stesso rapporto di unità e mo l t eplic i tà. I membri della comunità, la cui unità come chiesa si fonda nel loro legame col medesimo Signo re nell'unico Spirito, sono i soggetti dei diversi doni dello Spirito. La struttura complessiva di questa pericope è caratterizzata dall'immagi ne per cui la cooperazione delle molte membra nel corpo, che è u no, serve a definire l'unità della chiesa e la sua funzione di viva comunio ne di fede e di servizio reciproco, animata dallo Spirito di Dio e di Gesù Cristo. Fondamentale per lo sviluppo del pensiero di Paolo è la realtà della chiesa come comunione dei battezzati, che nel v. 2 7 egli definisce senz'altro «corpo di Cristo». L'apostolo illustra l'unità della chiesa con la similitudine, proveniente dalla tradizione stoica, della co operazione delle membra nell'organismo fisico, mostrando in tal mo do i compiti dei singoli cristiani nell'insieme della comunità. Al tempo stesso con quest'immagine si rivolge, esortando e consolando, alla si tuazione concreta di Corinto. 1.1- I J. Nel v. 1 2 l'apostolo comincia col prendere in considerazione il corpo umano, sottolineandone l'unità nella, e malgrado la, molte plicità delle membra. Nel finale del v. 1 2 si ha, per la prima volta e in una concisione straordinaria, l'applicazione di quest'idea: come il cor po, così anche il Cristo (crocifisso e innalzato). Il senso di questo ra pido paragone può venir meglio definito in base ai vv. I I e I J . Il «giac ché» che introduce il v. I 2, che rimanda al precedente v. I I, induce a
1 Cor. 1 2, 1 2-26. Molte membra,
un
solo corpo
219
completare con: così è anche là dove Cristo opera col suo Spirito. I l v. 1 2 costituisce però l'accordo iniziale della nuova sezione, della quale formano la cornice i concetti di corpo (v. 1 2) e corpo di Cristo (v. 27). Va da sé, quindi, l'interpretazione del paragone sulla base del v. I J , a esso coordinato con valore causale, in cui si parla di «un corpo solo», formatosi per opera di Spirito e battesimo, e dunque della chiesa come la comunione dei battezzati. Nel v. I 3 Paolo prosegue: poiché noi tut ti (cioè i membri della chiesa) siamo stati battezzati mediante un solo Spirito - «per un solo corpo». Si discute se la preposizione (eis) abbia senso locale (in, dentro), oppure consecutivo (così che si formi un so lo corpo, una unità}. Poiché «corpo di Cristo» è un'espressione im prontata alla tradizione della cena ( 1 o, 1 6), e poiché Paolo nel v. 2 7 de signa senz'altro la comunità di Corinto come «corpo di Cristo», è dif ficile che l'espressione «un solo corpo» (ben soma) del v. 1 3 designi solo astrattamente l'unità, e non la comunione concreta, prodotta dal sacrificio del corpo di Cristo nella morte, e dallo Spirito di Dio dona to nel battesimo. A mio giudizio, se s'intende «corpo» in astratto, co me equivalente a «unità», l'interpretazione di eis del v. 1 3 con signifi cato consecutivo non è in grado di cogliere a pieno l'affermazione con creta di Paolo del v. 2 7. Qui, infatti, Paolo non dice: voi siete un'unità, ma: voi siete «corpo di Cristo» (cf. l'espressione «un corpo solo in Cristo» di Rom. I 2, 5 e l'altra, formulata in senso personale, «uno solo (heis) in Cristo>> di Gal. 3 ,28). L'assenza dell'articolo davanti a «corpo di Cristo» nel v. 2 7 indica la differenza tra il corpo di Cristo in senso ecclesiologico e il corpo di Gesù Cristo offerto nella morte. La chiesa come «corpo di Cristo» ha il suo fondamento nell'opera di riconcilia zione compiuta da Dio in Cristo e dall'operare dello Spirito di Dio (cf. la nuova creazione di 2 Cor. 5 , 1 7); essa non è solo il risultato di un'associazione di uomini che credono. Cristo e la chiesa, come co munione di coloro che, attraverso battesimo e cena, partecipano del l' efficacia salvifica della sua morte, sono per Paolo strettamente con giunti. La loro unione va paragonata alla coappartenenza al popolo di Dio escatologico di messia e figlio dell'uomo, che rappresenta i «santi dell'altissimo» (Dan. 7, 1 3 .22.27) e che Paolo in 1 Cor. 1 5,4 5 intende co me l'ultimo Adamo. Sulla base di questa connessione effettiva del con cetto di chiesa con l'evento Cristo, il conciso paragone del v. 1 2 può es sere concretamente così esplicitato: come il corpo (dell'antica creazio ne) è uno solo benché abbia molte membra, così è anche dell' «unico
2�0
r
Cor. I1,1 2-26.
Molte membra, un solo corpo
corpo» (v. 1 3: della nuova creazione}, costituito mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo nella sua morte vicaria (2 Cor. 5 , 1 4}, unito ad opera dello Spirito di Dio come «corpo di Cristo» (v. 27) a forman: la comunione fraterna dei battezzati (v. 1 3). Il battesimo non soppri me le differenze esteriori, di natura etnica, sociale e sessuale, tra giudei e gentili, schiavi e liberi, uomini e donne (cf. Gal. 3,28}, ma per mezzo dello Spirito di Dio viene fondata una nuova comunione in cui, ri spetto alla salvezza, le strutture e i valori del vecchio mondo non han no più alcun significato. L'unico Spirito (di Dio e di Cristo} determina l'unità della chiesa fatta di giudei e di gentili. In connessione con l'even to battesimale si trova sempre l'enumerazione dei gruppi e degli stati del vecchio mondo ( 1 Cor. 1 2,1 3; Gal. 3 ,27 s.; cf. l'invito a spogliarsi dell'uomo vecchio di Col. J,Io ss.), e l'evento del battesimo in Rom. 6,4- 1 I ha le sue radici nell'evento salvifico della morte e risurrezione di Gesù Cristo. Il dissetarsi di un solo Spirito (v. 1 3b), che taluni inter preti riferiscono alla cena, sottolinea ancora una volta la ricezione del lo Spirito unificante nel battesimo; a favore di quest'interpretazione depone il verbo all'aoristo, èhe dice l'azione avvenuta una sola volta nel passato. L'idea del dissetare corrisponde all'immagine del versare lo Spirito (Gl. 3 , 1 ; Atti 2, 1 7. 1 8.33; 1 0,45). 14-26. Nei vv. 14-26 l'apostolo illustra il paragone del v. 1 2 con l'im magine metaforica dell'organismo corporeo, caro al mondo ellenisti co. Nella vecchia similitudine, nota soprattutto dall'apologo di Mene nio Agrippa (Livio 2,3 2 s.), le membra del corpo si riferiscono ai vari gruppi che fanno parte dello stato; nello stoicismo tardo l'immagine fu usata anche per i singoli uomini, visti come «membri» (e non solo «parti») dell'umanità. Se il corpo, che è uno ma composto di molte membra, deve funzionare come organismo vivente, non deve venire a mancare nessuno dei due poli, non quello dell' «unità» né quello della «molteplicità». Il corpo nel suo complesso vive del fatto che ogni sin golo membro badi alla propria funzione e, per converso, ogni singolo membro dipende dal fatto che anche il corpo nel suo insieme svolga il proprio compito. Paolo ritiene l'organizzazione delle membra nel cor po opera del creatore, che ha assegnato alle membra la loro funzione nell'organismo secondo il suo volere (v. 1 8). Riferito alla chiesa, ter mine reale del paragone, ciò significa che i cristiani obbediscono al vo lere di Dio solo allorché ognuno, col dono datogli da Dio, collabora all'edificazione della comunità. Nei vv . 14- 1 8 Paolo tratta dapprima
r
Cor. 1 2, 1 2-26. Molte membra,
un
solo corpo
22 1
della molteplicità delle membra nell,unità del corpo, mostrando la ne cessaria appartenenza delle singole membra con la loro specifica fun zione al complesso del corpo. La cosa viene illustrata prendendo a mo' d'esempio importanti parti del corpo, come mano e piede, occhio e orecchio. (Taluni interpreti intendono, con L utero, i vv. 1 5 e 16 co me frasi interrogative). Analogamente ciascun membro della comuni tà, con i doni dello Spirito che gli sono stati donati, deve svolgere un compito utile al servizio della comunità. Nei vv. 1 9-2 1 Paolo tratta del l'altro aspetto, quello dell'unità del corpo nella molteplicità delle mem bra, illustrando con l'esempio di occhio e orecchio, testa e piedi, come ogni membro dipenda dagli altri e dal buon funzionamento di tutto l'organismo. Così facendo, l'apostolo usa polemicamente l'immagine del corpo contro la concezione entusiastica dello Spirito dei pneuma tici di Corinto, i quali, guardando dall'alto in basso gli altri membri del la comunità, hanno così distrutto l'unità della comunità. Con gli esem pi dei vv 1 5 - 1 7 Paolo consola quelli che nella comunità erano deboli e disprezzati e, considerandosi inutili, provavano sensi d'inferiorità; con gli esempi dei vv. 2 1 ss. critica invece la presunzione dei forti, inse gnando loro che anch'essi, malgrado il loro entusiasmo pneumatico, dipendono dagli altri. Nei vv 22-26 Paolo mette in evidenza l'equili brio che Dio vuole nel corpo tra le membra più forti e quelle più de boli, tra le più stimate e le meno stimate, mirando con ciò a indurre al la disponibilità a realizzare nella chiesa la comunione mediante l'amo re soccorrevole. Le membra considerate più deboli sono particolar mente necessarie, e alle «membra indecorose» (gli organi genitali) vie ne dato con le vesti un onore maggiore. Dio vuole che nel corpo do mini l'accordo e la cura reciproca. Nel v. 26 è chiaramente visibile in che modo la convivenza dei singoli cristiani nella comunità influisca sull'attuazione dell'immagine dell'organismo: la comunione deve in cludere tutta l'ampiezza del vivere umano con le sue gioie e le sue sof ferenze (cf. Rom. 1 2, 1 5). Con questa similitudine del corpo e delle membra Paolo impartisce tanto ai forti quanto ai deboli di Corinto una lezione chiara: i forti non hanno alcun motivo di inorgoglirsi, mentre i deboli non devono abbandonarsi a sentimenti d'inferiorità, poiché tutti, con i loro doni dello Spirito, sono al servizio gli uni degli altri, e devono contribuire all'edificazione della comunità. .
.
3·•·4·
I vari doni e ministeri nella chiesa (1 2,27-3 1)
voi siete il corpo di Cristo e ciascuno membro (di esso). 2 8 E nella comunità, infatti, Dio ha posto gli uni in primo luogo apostoli, in secondintenda un membro della comunità che non compren de il parlare le lingue e per questo è detto profano (che non capisce). Queseinterpretazione s'inserisce meglio nell'argomentazione di quel l'altra secondo cui gli ospiti che non fanno parte della comunità nel culto occupano posti speciali (cf. v. 23). Tutti i membri della comunità che non comprendono la glossolalia rispetto a essa sono nella condi zione di profani. Per quanto buona sia la preghiera di lode e di ringra ziamento del glossolalo prodotta dallo Spirito, gli altri membri della co munità non ne vengono edificati. Al termine l'apostolo illustra ancora una volta quale sia il comportamento che desidera nel culto, con un riferimento alla propria persona. Anch'egli parla le lingue, più ancora di tutti i corinti, e ringrazia Dio per questo dono di grazia; la sua criti ca alla glossolalia non nasce dall'invidia di chi ne è privo; ma nella comunità Paolo non fa alcun uso di questo dono, perché con esso non può istruire (chatecheso) nessuno nella fede (cf. Gal. 6,6; dal verbo gre co è derivato il termine «catechesi»). A questo punto Paolo esprime la sua posizione di principio e la sua ferma risolutezza con un'iperbole: preferisco dire nell'assemblea cinque parole in linguaggio comprensi bile, piuttosto che diecimila nelle lingue! Tanto è importante per Pao lo l'intelligibilità del parlare nel culto per I> edificazione della comunità. 3.3.2. L,effetto di glossolalia e profezia sugli increduli
(14,20-2 5 )
2.0 Fratelli, non siate bambini nel giudizio, siate invece bambini (minoren ni) nella malvagità, ma adulti nel giudizio. 21 Nella legge sta scritto: «Par lerò a questo popolo tramite uomini di lingua forestiera e tramite labbra di stranieri, ma nemmeno così mi ascolteranno, dice il Signore ». 22. Perciò il
1
Cor. 14,�0-� 5· L'effetto di glossolalia
e
profezia sugli increduli
247
parlare le lingue serve come segno non per i credenti, ma per gli increduli, la profezia invece (serve come segno) non per gli increduli ma per i creden ti. �3 Se tutta l'assemblea si riunisse e tutti parlassero le lingue, nel caso ve nissero anche dei profani o degli increduli, non direbbero che siete fuori di senno ? �4 Qualora invece tutti profetassero e venisse qualche incredulo o profano, verrà convinto da tutti, giudicato da tutti; � 5 tutti i segreti del suo cuore diverranno manifesti e, prostrandosi a terra, adorerà Dio e confesse rà: «Veramente Dio è tra voi». 11
/s.
.z8,1 1 s .2 5 .
/s. 4 5 , 1 4; Zacc.
8,.zJ.
20-2 5. Rivolgendosi di nuovo ai suoi interlocutori e interpellandoli in maniera conciliante, Paolo passa a criticare la sopravvalutazione, a Corinto, della glossolalia. Nell'esortazione, la contrapposizione tra fanciulli e adulti si riferisce all'uso della ragione. Nel trattare col male i corinti devono essere ingenui come fanciulli che non sanno nulla, ma devono essere adulti (teleioi) quanto a giudizio e razionalità (nel sen so della ragione rinnovata di Rom. 1 2,2). Nel parlare le lingue l'intel letto è inattivo (v. I 4). Paolo vuole che i corinti si convincant> da sé del potere edificante del discorso profetico. A questo scopo si richia ma prima (v. 2 I ) a una parola del profeta Isaia (/s. 28,I I s.), applican dolo poi (v. 22) alla glossolalia e al discorso profetico. Chiarisce in se gu ito la sua opinione ipotizzando due casi esemplificativi, di cui l' esem pio del v. 23 rip rende e concretizza quello del v. 22a, e l'esempio dei vv. 24 s. quello del v. 22b. Secondo il modo di esprimersi dei rabbi, per i quali i profeti erano interpreti della torà, nel v. 2 I con «legge» s'in tende tutto l'Antico Testamento, ossia appunto legge e profeti. La let tera della citazione paolina d'Isaia si scosta tanto dal testo ebraico, quanto dai LXX; forse qui Paolo segue un'altra traduzione greca, nota anche al tardo traduttore Aquila. Nella citazione è detto che an che il parlare di Dio per mezzo di uomini di lingua straniera (ossia la lingua dei conquistatori assiri) non ha trovato ascolto in coloro cui era rivolto (ossia nel popolo d'Israele), rimasto nella sua incredulità e disobbedienza. Nel v. 22 l'apostolo riferisce la «lingua forestiera» del la citazione alla glossolalia cristiana, laddove l'elemento comune è l'incomprensibilità, e vede nel parlare le lingue un segno per gli incre duli, nel discorso profetico un segno per i credenti. Secondo il suo si gnificato generale, segno (semeion) è un «contrassegno che identifica un individuo o un oggetto e in tal modo lo rende riconoscibile o co statabile» (K.H. Rengstod, G LNT xn, 6 5 ). La glossolalia è un segno
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1 Cor.
14,20-.15. L'effetto di glossolalia e profezia sugli increduli
per gli increduli in quanto costoro, messi di fronte a essa, rimangono nella loro incredulità. Il discorso profetico, invece, è un segno per i cre denti, perché ha il potere di suscitare la fede e di confermarla. Come mostrano gli esempi concreti dei vv. 2 3-2 5, l'accento è posto ogni vol ta sull'effetto che glossolalia e profezia hanno sugli ascoltatori cui so no rivolte. Dal v. 22 non è necessario trarre la conclusione che i pneu matici di Corinto riconoscessero il predicato onorifico di «credenti» solo ai glossolali. Gli esempi sono ipotetici, ma quanto all'effetto dei due carismi si basano su esperienze della comunità. Se nell'assemblea del culto tutti parlano le lingue, nel caso entrassero dei non cristiani che, come nella sinagoga, possono partecipare come ospiti, ne avreb bero l'impressione di una confusione incomprensibile e penserebbero che lì tutti sono usciti di senno. Il termine «profano» che qui accom pagna quello di incredulo designa un estraneo (a differenza del v. 16); in questo passo profani e increduli hanno lo stesso significato di per sone che non fanno parte della comunità. Al contrario, il discorso pro fetico, che è comprensibile, ha il potere di toccare la coscienza degli ascoltatori ospiti e di indurii alla conversione. Se tutti parlano in ma niera profetica, qualora entri un ascoltatore non cristiano, questi viene interrogato e giudicato da tutti (cf. 2, 1 5 ) , ossia gli si chiede del suo rapporto con Dio, nello stile dei discorsi giudiziari lo si invita alla pe nitenza e, con la forza della parola di Dio, lo si convince nella sua co scienza del suo peccato davanti a Dio. Il discorso profetico è, insieme, predicazione del giudizio e della grazia; trapassa la facciata che l 'uomo s'è costruito e gli fa prendere coscienza della sua vera condizione da vanti a Dio. Solo Dio conosce veramente i cuori. «La parola di Dio è viva e potente e affilata più di ogni spada a doppio taglio» (Ebr. 4, 1 2). Il Signore ha anche il potere di portare allo scoperto ciò che è nasco sto nel cuore dell'uomo (cf. 4,5). Raggiunto dalla parola di Dio, l'ospite, convinto nella sua coscienza, si prostrerà a terra in adorazione, e con fesserà che Dio è davvero presente nella comunità. Per dir questo Paolo si serve di un'espressione biblica (cf. fs. 45,14; Zacc. 8,23). I vv . 24 e 25 descrivono la conversione dall'incredulità a fede e confessione, ma non forniscono nessun elemento preciso per stabilire una successione esatta delle tappe del processo di conversione. Con gli esempi addotti, Paolo illustra come la glossolalia, a differenza della profezia, non eser citi alcuna efficacia missionaria su chi è fuori della comunità. La pro fezia è superiore alla glossolalia sotto due punti di vista: esercita una
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Cor. 14,26-40. Istruzioni per l'ordinamento del culto
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azione verso l'interno, in quanto edifica la comunità, e verso l'esterno, essendo in grado di conquistare a Cristo dei non credenti. 3·3·3·
Istruzioni per l'ordinamento del culto ( 14,26-40)
26 Che deve dunque avvenire, fratelli ? Quando vi riunite, ciascuno ha (qual cosa): chi ha un canto, chi ha un insegnamento, chi ha una rivelazione, chi ha un parlare le lingue, chi ha un'interpretazione; tutto avvenga per l'edifi cazione. 27 Se qualcuno parla le lingue, siano due o al massimo tre, e parli no uno dopo l'altro; e vi sia uno che interpreti. 28 Se però non c'è un inter prete, costui nel(l'assemblea del)la comunità taccia, ma parli a se stesso e a Dio. 29 I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. 30 Ma se uno che sta seduto riceve una rivelazione, il primo taccia. 3 1 Tutti infatti potete pro fetare, uno dopo l'altro, affinché tutti apprendano e tutti ricevano esortazio ne. 32 Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti, 33 giacché Dio non è un Dio del disordine, ma della pace. Come in tutte le comunità dei santi 34 le donne debbono rimanere in si lenzio nelle assemblee della comunità; a loro infatti non è consentito parlare, ma siano sottomesse, come dice anche la legge. 3 5 Se però vogliono appren dere qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, poiché è disdicevole per una donna parlare nel(l'assemblea del)la comunità. 36 O (forse) la parola di Dio è venuta da voi, o è giunta solo a voi? 37 Se uno pensa di essere un profeta o un pneumatico, riconosca che ciò che vi scrivo è comandamento del Signore; 3 8 ma se uno non lo riconosce, non sarà riconosciuto (da Dio). 39 Perciò, fratelli miei, aspirate alla profezia e non ostacolate il parlare le lingue. 40 Tutto però avvenga con decoro e in (buon) ordine.
.16 1 2,8- J O. l.9 I Tess. s,I9-2I. 33 Rom. I S,J3· 34 Gen. J,I6; l Tim. 2,1 1 s.
Nei vv. 26 ss. Paolo trae le conseguenze della sua esposizione di principio e dà istruzioni concrete sul modo in cui vanno esercitate glo ssolali a e profezia nell'assemblea della comunità. Fine ultimo è l'edificazione della comunità, che non si consegue con l'entusiasmo estatico e col balbettare inintelligibile, ma col parlare comprensibile. A questo scopo è necessario che le riunioni per il culto abbiano uno svolgimento ordinato. La forza che si oppone ai comportamenti sog gettivi senza riguardo per gli altri e che si mette al servizio del bene e della salvezza degli altri è l'amore. L'ordine nel culto nasce quindi dallo Spirito dell'amore. Nel v. 26 l'apostolo parte dal presupposto che la comunità di Corinto possieda una non comune dovizia di doni 16-3 3.
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Cor. r-t,26-4o. Istruzioni per l'ordinamento del culto
dello Spirito, come fa capire l'espressione «ciascuno ha» . Paolo cita a mo' d'esempio alcuni doni dello Spirito con cui i membri della comu nità arricchiscono il culto. L'elenco ha dei punti di contatto col v. 6 c con I 2,8-1o, ma non pretende di essere completo, né vuole riprodurre fedelmente lo svolgimento del culto. Come già nel v. 1 s , si mostra pu re che, oltre alla predicazione della parola e alla preghiera, anche il canto (nel testo greco, il salmo) faceva parte delle componenti essen ziali del culto protocristiano. Non è possibile chiarire con certezza se ogni volta il culto della parola fosse unito a una cena. In Col. J, I 6; Ef 5 , I 9 si fa menzione di salmi, inni e odi. Esempi di salmi sono Le. I ,46 ss. e 1 ,68 ss.; di inni Fil. 2,6- 1 I; Col. 1 , 1 5-20, e di odi i canti di Apoc. 4,8 ss.; 5,9 ss.; ecc. L'insegnamento spesso si rifaceva a parole dell'An tico Testamento, interpretandole alla luce dell'evento Cristo. Mentre nell" elenco del v. 6 le forme della predicazione in termini comprensi bili sono contrapposte alla glossolalia, qui invece quest'ultima, insie me con la sua interpretazione, viene messa nella stessa serie delle rive lazioni che lo Spirito dà ai profeti. Nei versetti seguenti le idee fonda mentali dei capp. 1 2- 1 4 vengono trasformate in rapide istruzioni per dar forma al culto. I vv 27.28 riguardano per primi coloro che parla no le lingue. A parlare devono essere solo due o al massimo tre, devo no parlare uno dopo l'altro e dev'esserci qualcuno che interpreta. Evi dentemente a Corinto ognuno si metteva a parlare quando lo Spirito lo ispirava, senza preoccuparsi degli altri. Dalle disposizioni che Paolo dà si capisce che nella sua estasi il glossolalo - e anche Paolo era uno di loro (v. 1 8) - non era del tutto privo di coscienza né di autocontrol lo. Se non c'è a disposizione un interprete, o se il glossolalo non sa in terpretare da sé i suoi discorsi (cf. vv 5 - I J), per principio nella comu nità deve tacere e rivolgere la sua preghiera estatica a Dio quand'è a casa sua (v. 2). Analoga la disposizione che riguarda i profeti dei vv. 29 s. In considerazione delle capacità di ascolto della comunità, anche in questo caso devono essere solo due o tre a parlare (qui non si dice più «al massimo») e gli altri devono giudicare. Il criterio di tale giudi zio è contenuto in 1 2,3 e in Rom. 1 2,6. Con gli «altri» non si inten dono qui tutti i membri della comunità, ma altri profeti o altri cari smatici, dotati del carisma del discernimento degli spiriti (G. Friedrich, G LNT XI, 6 3 6); in 1 2, I o coloro che hanno il dono del discernimento degli spiriti sono distinti dai profeti. Ciò non elimina l'esortazione a tutta la comunità perché esamini ogni cosa (1 Tess. 5,19-2 1 ). Taluni .
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che parlano le lingue sono in grado di tradurre da sé i loro discorsi estatici, mentre il profeta non può esaminarsi da sé; analogamente, questo dovrebbe valere anche per il discorso del glossolalo una volta che sia stato trasposto in termini intelligibili. Il profeta e come lui il glossolalo non sono dei virtuosi solisti dello Spirito, ma fanno tutt'uno con altri carismatici che prestano il loro contributo all'edificazione della comunità. Il profeta enuncia con coscienza lucida proposizioni comprensibili ed è in grado d'interrompersi immediatamente se a un altro profeta viene data una rivelazione. Nel profeta «la personalità re sponsabile» (G. Friedrich, GLNT XI, 62 5) si conserva; non è un «pos seduto», ma uno che riceve una rivelazione e predica la parola a esor tazione e consolazione della comunità. In questo la profezia del cri stianesimo primitivo differisce fondamentalmente dalla mantica (arte divinatoria) e dal fenomeno ellenistico dell'entusiasmo (cf. I 2,2 ). Pao lo non vuole togliere la parola ai profeti; uno dopo l'altro essi posso no tutti prendere la parola, così che tutte le rivelazioni donate loro pos sano essere messe a frutto per la comunità. Il profeta si sottomette al l'operare dello Spirito. Che lo Spirito s'impossessi di lui non elimina totalmente la sua coscienza di sé e la sua facoltà di autocontrollo; lo Spirito dell'amore lo mette in grado di adattarsi spontaneamente all'or dine necessario all'edificazione della comunità. Un simile comporta mento si conforma allo Spirito di Dio, poiché Dio è il «Dio della pa ce» (Rom. I 5,33; 1 Tess. 5 ,23). Che Paolo nel v. 3 3 contrapponga al di sordine non l'ordine ma la pace mostra (cf. I ,3) quanto egli pensi in base al nuovo ordine salvifico prodotto dall'evento Cristo. In I Cor. I4 il principio che deve regolare l'ordinamento del culto discende dal lo Spirito dell'amore di cui I Cor. 1 3 ha tessuto la lode. 33h-36. I vv 33b-36 hanno come tema il precetto che nell'assemblea cultuale le donne tacciano. Questa pericope interrompe le istruzioni riguardanti i profeti, che riprendono nel v. 37· Il suo contenuto con traddice I I , 5 dove Paolo consente che le donne preghino e profetizzi no, purché si presentino a capo coperto. Sul piano linguistico questi versetti contengono espressioni che vengono usate nelle posteriori ta vole domestiche (ad es. in Ef. 5,24) e in I Tim 2, 1 I s. Nella tradizione testuale il passo è attestato in tutti i più antichi manoscritti greci. I co pisti dei più importanti manoscritti del cosiddetto testo occidentale e delle traduzioni latine hanno però evidentemente avvertito l'interru zione dell'argomento della profezia e hanno collocato i vv 34 s. dopo .
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il v. 40. Alla luce di questi dati, la paternità paolina della pericope è for temente discussa. V ale in primo luogo la pena tratteggiare brevemente il contenuto dei versetti contestati. La frase introduttiva (v. 3 3b) rammenta ai corinti il loro essere mem bri della chiesa universale. In tutte le comunità vige la regola che alle donne non sia permesso di parlare nell'assemblea cultuale, «come dice anche la legge». È probabile che con questa sottomissione si faccia ri ferimento a Gen. 3, 1 6, anche se ivi non si fa menzione del tacere. La lettera del v. 34 parla di un divieto incondizionato per le donne di par lare nel culto, che include anche il parlare sotto ispirazione. In tutto il capitolo, infatti, per indicare il «parlare» si usa sempre lo stesso verbo (lalein) che nei vv . 2. 5 .6. 1 J . I 8 ecc. è riferito alla glossolalia, nei vv. 3 .6.29 al discorso profetico, e nel v. 1 9 al parlare con l'intelletto. È ve ro che nella sinagoga giudaica non v'era nessun divieto di principio per le donne di parlare, ma era costume che nell'assemblea le donne ascol tassero in silenzio. Da Deut. 22, 1 6 i rabbi deducevano «che la donna non ha il diritto di parlare al posto dell'uomo>> (Bill. 111, 467). Se le don ne vogliono «apprendere>> qualcosa, devono interrogare i loro mariti a casa; a nubili e vedove qui non si pensa. Il divieto di parlare viene fon dato (oltre che con la legge, v. 34) con l'usanza corrente (cf. 1 I ,2 ss.) secondo cui è sconveniente per una donna parlare nell'assemblea della comunità. Ciò vale in generale. Il v. 36 ricorda ai corinti che non sono in posizione di monopolio, e non possono quindi introdurre usi di te sta propria. L'annuncio di Cristo non è partito da loro, né sono la sola comunità sorta mediante la predicazione del vangelo (cf. I I, 1 6). Per evitare la contraddizione di questo passo con I 1 , 5 sono state avanzate diverse proposte d'interpretazione. I . Alcuni (ad es. Ph. Bachmann) riferiscono il pregare e profetizzare di I 1 , 5 non al culto della comunità, ma alla preghiera domestica. Ana loga la soluzione di A. Schlatter, che paragona il silenzio delle donne alla rinuncia di Paolo ai discorsi estatici nella comunità. Secondo I 4,4, tuttavia, la profezia edifica la comunità e deve quindi venir pronuncia ta davanti a questa. 2. L'ipotesi di H. Lietzmann che Paolo in I I , 5 avrebbe tollerato so lo controvoglia il profetizzare delle donne, e in 14,) 3-3 6 avrebbe espresso la sua vera opinione, attribuisce all'apostolo una concessione tattica in contraddizione con la sua vera concezione teologica.
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3 · Numerosi interpreti leggono nel v. 3 5 che i l divieto di parlare non riguarderebbe il pregare e profetizzare ispirati, ma solo un fastidioso interrompere il culto con domande (G. Delling; H.D. Wendland; Ch. Wolff). Resta la difficoltà che da un lato il verbo «parlare» non viene specificato in questo senso (cf. l'uso che se ne fa nel resto del capito lo), e dall'altro che anche l'usanza (giudaica) considera in generale in decoroso il parlare della donna nell'assemblea. 4· Per tutti questi motivi, a mio parere è da preferire l'ipotesi che la peri cop e 3 3 h- 3 6 sia da considerarsi interpolazione di un copista sulla base della situazione delle lettere pastorali (H. Conzelmann; G. Daut zenberg; G. Fitzer). D'altra parte, il fatto che il passo non manchi in nessun manoscritto del Nuovo Testamento ha un notevole peso. Lo si dovrà spiegare pen sando che tutta la successiva tradizione si basi su un archetipo già in terpolato. Anche l'interpolazione non si può dimostrare con certezza. La paternità paolina si può sostenere senza che vi sia contraddizione con 1 I , 5 solo se si limita il significato di assunse il significato di «procla matore del futuro». Nel caso dell'oracolo greco più importante, quel lo di Delfi, la pizia sedeva su un tripode collocato su una fenditura del terreno da cui saliva del fumo che la ispirava. Il profeta al servizio del l' oracolo aveva il compito di disporre le espressioni ispirate della pizia in una forma ufficiale, per lo più in esametri, da proclamare a coloro che erano venuti a chiedere consiglio. I suoi responsi concernevano l'intero ambito del vivere privato, politico e cultuale. In un senso più ampio potevano venir detti «profeti» anche poeti e filosofi. Nell'Antico Testamento, prima del profetismo in senso proprio, si ebbero schiere di profeti itineranti che, con l'ausilio di strumenti mu sicali, si esaltavano e nella loro estasi balbettavano discorsi (v. «Saul tra i profeti», I Sam. 10,5 ss.). Vi erano inoltre gruppi di profeti che si raccoglievano intorno a una figura di spicco (ad es. Eliseo, 2 Re 2,3 ss.), vivevano insieme ed erano legati a un santuario (Gilgal, 2 Re 4,3 8). Di
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Profezia e glossolalia nelle comunità paoline
queste cerchie sono tramandati dei detti, mentre tra loro l'estasi non aveva alcuna parte. In Eliseo il dono dello Spirito si manifestava nel potere di compiere miracoli (2 Re 2, 1 9-2 5 ; 4, 1 -7. I 8-3 5). Dai cosiddetti profeti della Scrittura vanno distinti i «profeti del tempio», che eserci tavano la loro funzione accanto al sacerdote proclamando oracoli, e che furono aspramente combattuti dai primi (cf. ad es. /s. 3, 1 -3 ; Mich. 3 , 5-7; Ger. 27,1 4- 1 6). La caratteristica decisiva dei profeti da Amos a Malachia consistette nel trasmettere ai re e al popolo la parola di Jahvé che avevano ricevuto. Essi iniziano sempre le loro parole con la for mula: «Così dice il Signore». Il profeta si concepisce come nunzio di Jahvé, cui spetta rivolgere agli uomini la parolà di Jahvé, annunciante per lo più un'imminente azione di Dio (di condanna o salvezza). Nel la loro predicazione di condanna o di salvezza i profeti si servivano di diverse forme del discorso (minaccia e promessa, con netta prevalenza della prima, invettiva, ammonimento, condanna, a volte anche canti). Accanto alla ricezione della parola di Dio mediante audizioni, si parla anche di visioni, che il più delle volte hanno di mira una parola, il che rende plausibile l'ipotesi che i profeti ricevessero spesso la parola di Jahvé mediante visioni. Anche nel Nuovo Testamento il profeta è «per sua natura il procla matore della parola di Dio» (G. Friedrich, GLNT XI, s 68). I profeti del l' Antico Testamento sono qui considerati uomini che hanno predetto in anticipo (pro in senso temporale) quanto s'è compiuto in Cristo (2 Cor. 1 ,20). Anche i profeti del primitivo cristianesimo predicono bensì il futuro (cf. Agabo, Atti 2 1, 1 0 s.), ma il loro compito principale consiste nell'esortare e consolare la comunità sulla base della rivela zione, e darle autorevoli istruzioni sul suo cammino in virtù dello Spi rito di Dio. Mentre i maestri trasmettono tradizioni kerygmatiche e parenetiche, i profeti parlano spontaneamente alla comunità sulla base di una rivelazione e, nella veste di chi ha cura delle anime, le dicono in concreto che cosa deve fare in determinate situazioni. Nello Spirito il profeta riceve l'intelligenza dei misteri divini ( 1 3,2; cf. Rom. 1 1 ,2 5 ss.; 1 Cor. 1 5,5 1). Anche il discorso di sapienza e di conoscenza ( 1 2,8) tra smettono conoscenza (gnosis) di misteri a edificazione della comunità (cf. 14,6); ma i depositari di questi carismi acquistano la loro conoscen za «immergendosi nella riflessione sui misteri della fede» (G. Fried rich, GLNT vi, 63 1 }, mentre la profezia riposa sull'ispirazione. I pneu matici di Corinto hanno abusato della conoscenza cristiana quasi fos-
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se «sapienza del mondo» ( 1 ,2o), sicché la loro gnosis « gonfia» (8, 1 ) cre ando divisioni nella comunità. Anche nella concezione di Paolo il pro feta parla come uomo ispirato, comunicando la rivelazione che gli è accordata (I 4,JO), ma non è invasato alla maniera degli estatici gentili ( 1 Cor. 1 2,2 ). Il fatto di essere sotto il potere dello Spirito produce, a livello di contenuti, confessione di Gesù Signore ( I 2,3). C'è qui una dif ferenza fondamentale rispetto alla mantica ellenistica (che è arte divi natoria). Paolo parla delle visioni di cui ha fatto esperienza (2 Cor. I 2, I ss.) solo perché gli avversari ve l'hanno indotto, ma il contenuto de cisivo della predicazione è per lui il mistero di Dio rivelato nella croce di Cristo ( I ,24; 2,7). Benché il profeta cristiano sia anch'egli affatto ri colmo dello Spirito e da esso determinato, non per questo viene meno il suo essere persona responsabile; se a un altro è data una rivelazione, è in grado d'interrompersi ( I4,JO). L'autentico spirito profetico si su bordina all'azione dello Spirito di Dio in altri profeti ( 1 4,32). Nella glossolalia, l'effetto dello Spirito particolarmente apprezzato a Corinto, ciò che per prima cosa balza agli occhi è la forma estatica. Il sostantivo greco (glossa) su cui è costruito il termine «glossolalia» ha tre significati: I . lingua, nel senso di organo del parlare; 2. linguag gio; 3 · espressione oscura che ha bisogno di spiegazione. Non è possi bile stabilire con assoluta certezza quale di queste sfumature di signi ficato fosse determinante nell'espressione «parlare in lingue». Secon do Atti 2 vi ha una parte anche il parlare lingue straniere. Paolo, però, non identifica, bensì paragona la glossolalia col parlare lingue stranie re ( 1 Cor. I 4, I o ss.; cf. anche I 4,2 I s.). La si può definire il linguaggio degli angeli (I J,I). D'altro canto, il senso di «parola straniera, incom prensibile, misteriosa» o. Behm, GLNT II, s 6 I ) si adatta bene alle «pa role ineffabili» che Paolo ha udito nel suo rapimento al terzo cielo (2 Cor. 1 2,3 s.). In ambedue i casi la glossolalia è intesa come una mera vigliosa lingua celeste e spirituale, inintelligibile per l'uomo comune. Possedeva molte forme di espressione, e Paolo del resto parla di sva riati «generi di lingue» ( 1 2, 1 0.28). La glossolalia è un discorrere ( 1 4,2), pregare ( I 4,1 4· 1 7) e cantare {v. I s} estatico prodotto dallo Spirito, con suoni inarticolati (cf. vv. 7 s.), parole e gruppi di parole misteriose che senza interpretazione non si possono comprendere. Negli Atti degli Apostoli la glossolalia è in stretta connessione con la profezia ( I 9,6); secondo Atti 2, lo Spirito disceso dal cielo spartito in lingue di fuoco su ciascun apostolo diede loro la facoltà di parlare lingue straniere (2,8
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ss.). Nei vv. 1 7 s. il parlare «in altre lingue» è descritto come il com piersi della promessa di Gioele (3, 1 s.) secondo la quale negli ultimi giorni figli e figlie, giovani e vecchi, servi e serve «profetizzeranno». Paolo separa chiaramente la glossolalia dalla profezia; riconosce sì in essa un autentico effetto dello Spirito e mette in guardia dal soffo carla ( 14,39; 1 Tess. 5,1 9), ma, in considerazione dell'edificazione della comunità, dà decisamente la priorità al discorso profetico. Ambedue i carismi hanno a che fare con misteri divini ( 1 4,2 }, ma la profezia va ri tenuta superiore proprio perché, col suo esprimersi in parole compren sibili, rende fruttuosi per la comunità i misteri dell'escatologico ope rare salvifico di Dio. L'intelletto umano non partecipa al prodursi del discorso estatico, rimane «senza frutto» (v. 1 4), tanto che, su degli estranei, i glossolali, col loro parlare tutti insieme, danno l'impressio ne di gente fuori di senno (v. 23). D'altro canto, anche il glossolalo man tiene abbastanza autocontrollo da poter tacere, se parlano altri o se non vi sono interpreti (vv. 27 s.). La glossolalia avviene in lode di Dio (v. r 6), ma compiendola il glossolalo edifica solo se stesso, non la co munità (v. 4). Il discorso estatico incomprensibile non ha la forza di raggiungere la coscienza dei non credenti e di condurli ad adorare Dio (vv. 24 s.). Perciò l'apostolo assegna alla glossolalia un posto nel culto solo se viene interpretata, cioè tradotta in un discorso intelligibile vuoi dallo stesso glossolalo, vuoi da un altro carismatico. Profeti e glosso lati devono inserirsi spontaneamente nell'ordine che, per l'edificazio ne della comunità, il culto deve necessariamente avere (v. 40). Excursus Il culto nelle comunità paoline L'opera del Gesù terreno, l'intervento salvifìco escatologico di Dio nella croce e risurrezione di Gesù Cristo e la discesa dello Spirito pro messo per la fine dei tempi ebbero come conseguenza che in età post pasquale i cristiani iniziarono ben presto a celebrare un loro proprio culto, di tipo nuovo rispetto a quello del tempio e della sinagoga, con forme allo loro consapevolezza di essere chiesa di Gesù Cristo. La primitiva comunità palestinese si considerò il nuovo, escatologi co popolo di Dio, fondato dalla morte espiatrice e vicaria di Gesù Cristo. Approvò la fondamentale confessione giudaica della fede nel Dio unico, rimanendo nell'ambito cultuale giudaico. Essa tuttavia con-
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siderò il tempio prevalentemente come luogo della preghiera (Mc. I I , r 7; Atti 2,46), dal momento che il culto del sacrificio aveva perduto il suo significato per effetto della morte sacrificale di Gesù Cristo. I riti del cristianesimo primitivo non furono più legati a un luogo sacro. La comunità si riuniva nel nome di Gesù (Mt. 1 8,2o) in (spaziose) case private (Atti 2,46; I 2, I 2), praticava la preghiera come Gesù le aveva insegnato a pregare nel Padrenostro, battezzava nel nome di Gesù Cri sto (Atti 2,3 8) e teneva di volta in volta nelle diverse dimore la celeb-ra zione della cena, per rendere di nuovo presente l'ultima cena di Gesù (Mc. 1 4,22-24) in un clima di gioia escatologica e nella previsione della venuta prossima del Signore (Mc. I 4,2 5; v. l'invocazione maranatha di 1 Cor. I 6,22). Nella sua assemblea liturgica (Mt. 28,20) e nella cena la comunità faceva l'esperienza della presenza del Signore innalzato; sa peva di essere colmata e sospinta dallo Spirito santo (Atti 2,4); nei pri mi tempi profezia (Atti 2, 1 7) e glossolalia (Atti 1 0,46; cf. 2,4 ss.) ave vano manifestamente un ruolo di rilievo (cf. Atti r 1 ,27 s.; I 5,3 2). Nelle sue riunioni la comunità veniva rafforzata dalla testimonianza degli apostoli sull'azione salvifica di Dio in Cristo (Atti 2,42); usava l' Anti co Testamento come sua sacra Scrittura, come sua «Bibbia», interpre tando la morte di Gesù alla luce delle promesse dei profeti (cf. Le. 24,26 s.). Ancora non c'erano forme liturgiche fisse con assemblee re golari. Più tardi la comunità giudeocristiana di Gerusalemme, sotto la guida di Giacomo, fratello del Signore, tornò evidentemente ad accen tuare maggiormente l'osservanza della legge del Sinai e il legame con il culto giudaico. Nelle comunità giudeocristiane ellenistiche della diaspora l'uso del la traduzione greca dell'Antico Testamento acquistò una grande im portanza per il pensiero teologico e per l'azione liturgica dei cristiani. La presa di distanza dal tempio e dalla legge giudaica rese possibile ap plicare in senso figurato i concetti del culto alla predicazione e al lavo ro missionario della chiesa. Dalla tradizione palestinese furono riprese molte espressioni (abba, amen, alleluia, osanna, maranatha). Anche il culto giudaico della sinagoga, con i suoi momenti fondamentali di pre ghiera, lettura scritturistica, predica e benedizione dovette esercitare una sua influenza. Nelle lettere paoline, come nel resto del Nuovo Testamento, non vie ne mai descritto l'intero svolgimento di un rito protocristiano, benché tutte le comunità ne celebrassero regolarmente. Comunque, in 1 Cor.
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Il culto nelle comunità paoline
Paolo prende espressamente posizione nei confronti delle assemblee liturgiche degli etnicocristiani di colà, così che dalla sua trattazione si possono individuare le componenti essenziali del culto nelle comunità paoline. Occorre tener presente che la comunità di Corinto disponeva di una particolare ricchezza di doni dello Spirito e che, in conseguen za della sua concezione entusiastica di libertà e Spirito, attribuiva gran dissimo valore ai fenomeni estatici; ciononostante, gli elementi costi tutivi del culto cristiano devono essere stati all'incirca gli stessi in tutte le comunità paoline. Comune a tutte era l'uso «delle Scritture» (cioè dell'Antico Testamento) e la confessione di Dio, il Padre, e di Gesù quale kyrios ( I Cor. 8,6), in virtù della quale i cristiani prendevano le distanze dai giudei, ma soprattutto dai culti pagani. Comuni erano an che le fondamentali affermazioni di fede, quali sono contenute nell'an tica formula di Cristo di I Cor. I 5 , 3- 5 . Comuni il battesimo nel nome di Gesù Cristo (cf. I Cor. I,IJ) e la tradizione dell'istituzione della ce na, qual è insegnata da Paolo in I Cor. I I,2J-2 5 come norma vincolan te per la celebrazione della cena del Signore; comune, infine, l'attesa della prossima parusia del Signore ( I ,8; 7,29-3 I ; I6,22). Più volte l'apo stolo ricorda ciò che è usuale «in tutte le comunità» (4,I 7; 7, 1 7; I I , I 6). A Corinto, nella grande abbondanza di doni dello Spirito, i due ca rismi di profezia e glossolalia (estatica) erano al centro dell'evento cul tuale. Pur dando un giudizio di sostanziale parità di valore per i due doni dello Spirito, Paolo dà la priorità al discorso profetico, perché edi fica la comunità ( I 4,4) e ha efficacia missionaria (I4,23-2 5 ). In particolare, in I Cor. Paolo menziona successivamente i seguenti elementi carismatici nella vita del culto: preghiera e profezia pneuma tica da parte di donne ( I I,s), le diverse forme intelligibili della predi cazione della parola, ossia discorso di sapienza e di conoscenza (I 2,8; cf. I , 5 ; I J,2; I4,6), con particolare evidenza la profezia nel senso di di scorso profetico ( I 2, I o; 1 3,2.8; I4,6.22), il pregare con l'intelletto ( 1 4, I 5 ), esprimere la preghiera di ringraziamento e dire «amen» ( 1 4, 1 6), la comunicazione di una rivelazione ricevuta (apokalypsis, 1 4,26), il can tare un canto (di propria composizione) di tipo salmodiale ( I 4,26) e, superiore a tutti gli altri, il dono del discernimento degli spiriti ( I 2,1o); inoltre, accanto alle funzioni kerygmatiche, con un suo rilievo parti colare menziona l'insegnamento (didache, 1 , 5; I 2,28 s.; I 4,6.26) e infi ne i doni estatici dello Spirito, il più delle volte citati per ultimi, cioè il parlare le lingue ( 1 2, Io.28; I J,I .8; 14,2 ss.; I4, 1 3.I 8.26.39) e, a esso co-
Il culto nelle
comunità paoline
16 I
ordinata, l'interpretazione della glossolalia ( I 2, IO.Jo; I4,5· I J.2 6.z8), poi la preghiera estatica (nello Spirito, I4,I4) e il canto estatico salmo diante ( I4, I 5). Benché la lettura della Scrittura non sia ricordata espres samente, considerando I Cor. I O e 2 Cor. J, anch'essa deve aver avuto un suo posto nel culto, così come l'invocazione, simile a una confessio ne: Gesù è Signore ( I 2,3). Tutto ciò avviene ancora senza uno schema liturgico fisso. Nella sua polemica contro l'entusiasmo pneumatico di Corinto, Paolo dimostra come dallo Spirito d eli'amore, che non ricer ca il proprio ( I J,s) e ha riguardo per l'altro, in virtù di un comporta mento conforme allo Spirito derivi l'ordine nel culto e nella conviven za pacifica. Alla questione se a ogni riunione di culto della chiesa primitiva si unisse una celebrazione della cena (come pensano O. Cullmann e H.D. Wendland), non è possibile dare una risposta certa. Che la cena del Si gnore sia trattata per conto proprio nel cap. I I , e che nel cap. I4 non se ne parli più, rende più verisimile che vi fossero liturgie specifiche per la parola e la preghiera. Chi dirigesse il culto a Corinto non si dice. Nella sinagoga giudaica la guida era nelle mani del capo della sinagoga (Le. 1 3,I4; Atti I J,I 5), a fianco del quale stava il servitore della sinagoga (Le. 4,20). In 1 Cor. I 2,28 Paolo menziona il dono della direzione, concernente di certo sia il culto che la celebrazione della cena (cf. anche gli episcopi di Fil. I, I e i presidenti di I Tess. 5 , I 2; Rom. I 2,8). A conclusione del culto veni va un augurio benedicente. Il bacio santo, l'anatema e l'invocazione maranatha ( 1 Cor. 16,22) fanno parte probabilmente dell'inizio della liturgia della cena (cf. Did. I o,6). Ai tempi di Paolo era già usanza sta bile la celebrazione della domenica, primo giorno della settimana, gior no della risurrezione di Cristo ( I 6,2 ). No n è certo, invece, se la festa della pasqua venisse celebrata in forma cristianizzata (cf. Le. 22, I 5-20). Paolo giudica il culto essenzialmente da due punti di vista: sotto l'aspetto predominante dell'edificazione della comunità mediante la funzione che a questo scopo esercitano i diversi carismi, e consideran do costantemente il carattere missionario della chiesa nel mondo.
Parte quinta
La risurrezione dei morti
( 1 5 , 1 - 5 8)
Senza elementi di connessione, Paolo introduce direttamente il nuovo tema, nel quale è in gioco il cuore dell'annuncio cristiano. Dal punto di vista teologico fin qui tutta la lettera è andata nella direzione della questione escatologica, in quanto agli entusiasti di Corinto Paolo ha dovuto obiettare di continuo che fede e possesso dello Spirito non si gnificano ancora l'ingresso nel compimento escatologico. Subito al l'inizio della lettera si trova un accenno alla parusia ( I ,7) . Che cosa ab bia fornito l'occasione di trattare il tema è ben visibile nel v. I 2: Paolo ha sentito (senza che si sappia da chi) che a Corinto taluni affermano che non c'è una risurrezione dei morti. A Corinto non si negava la ri surrezione di Gesù. Quando fu fondata la comunità, i corinti hanno accolto la tradizione della morte e risurrezione di Gesù Cristo ( I 5 ,J 5); gli entusiasti, addirittura, si cullano fin d'ora nella gioia di essere già partecipi, nello Spirito, della signoria di Cristo (4,8), ma non rico noscono la risurrezione futura dei cristiani morti nel frattempo, poi ché fondamentalmente negano una risurrezione corporea dei morti. È verisimile che chi negava la risurrezione dei morti si rappresentasse anche quella di Cristo come risurrezione «pneumatica». Paolo non dà una dimostrazione filosofica della sopravvivenza di tutti gli uomini o di tutte le anime dopo la morte, ma fonda esplicitamente l'attesa della risurrezione corporea dei morti sulla risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Perciò in questo capitolo Paolo pensa in primo luogo a coloro che si sono addormentati «in Cristo», anche se la fede nel Dio che ha risuscitato Cristo dai morti racchiude in sé la speranza nell'avvento dell'universale signoria di Dio su tutti gli uomini. 1.
La risurrezione di Cristo quale base dell'argomentazione (1 5,I-1 1)
1 Vi rammento, fratelli, il vangelo che vi ho predicato, che anche voi avete ricevuto, in cui anche perseverate, 2 dal quale anche siete salvati, se vi atte nete alla parola come io ve l'ho predicata, a meno che non siate pervenuti
I
Cor. I s,I-� I . La risurrezione di Cristo quale base dell,argomentazione
26 3
alla fede invano. 3 Vi ho infatti tramandato in primo luogo ciò che anch'io ho ricevuto, che Cristo è morto per i nostri peccati secondo la Scrittura, 4 e che fu sepolto e (fu) risuscitato il terzo giorno secondo la Scrittura, 5 e che apparve a Cefa, po i ai dodici. 6 In seguito apparve a p iù di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la più parte vive ancora, mentre alcuni si sono (già) addormentati. 7 Dopodiché apparve a Giacomo e poi a tutti gli apo stoli. 8 E ultimo di tutti apparve anche a me, come all'aborto. 9 Io, infatti, sono l'ultimo tra gli apostoli, non degno di essere chiamato apostolo, per ché ho perseguitato la comunità di Dio. Io Ma per grazia di Dio sono quel lo che sono, e la sua grazia in me non è s tata vana, ma ho lavorato molto più di tutti loro; non io invero, ma la grazia di Dio con me. 1 1 Sia io, dun que, sia loro, così predichiamo e così voi siete pervenuti alla fede. 1
Gal.
I , I I;
/s. 5 J,I . 3 /s. 53,4 s.; Lev. 16. 4 Os. 6,2. 8 9, 1 .
10 .2
Cor.
1 1 ,23.
Rivolgendosi di nuovo ai corinti con una certa solennità, Paolo enuncia il vangelo (cf. Targum a fs. s J, I , dove «notizia» è reso con beiora = evangelium, O. Betz) che ha predicato loro durante la perma nenza a Corinto in cui fondò la comunità, vangelo cui quest'ultima de ve la propria esistenza. In tal modo chiarisce loro che la risurrezione di Gesù, insieme con la sua morte sulla croce, costituisce il cuore del l'annuncio cristiano e il fondamento della fede. Il vangelo è una po tenza di Dio per la salvazione di tutti coloro che credono (Rom. I , I 6). I corinti hanno accolto il vangelo con fede e in essa permangono, ma col loro comportamento attuale corrono il pericolo di allontanarsene. Conseguiranno la salvezza solo se si atterranno alla «parola della ri conciliazione» (2 Cor. 5, I 9) che Paolo ha predicato loro. Poiché la fe de non è un possesso stabile, occorre darne prova di continuo. Se i co rinti venissero meno al vangelo di Paolo, che è il vangelo di tutti gli apo stoli (cf. v. I 1 ), invano sarebbero pervenuti alla fede. Essenziale, per Paolo, è tener fede al contenuto del vangelo, così come l'apostolo lo espone in Rom. 1 , I 7 ss., con la giustificazione del peccatore mediante la sola fede nell'azione salvifìca di Dio in Cristo, non l'attenersi alla lettera precisa di una formula predefinita e fissa. Paolo q ui dovrebbe comunque aver presente la lettera del frammento di tradizione I 5 ,J b- 5 . Al tempo di Paolo circolavano più formule d i fede che testimoniavano il significato salvifìco della morte e della risurrezione di Gesù Cristo, e che potevano variare nella loro articolazione (v. excursus «Formule di confessione in Paolo» dopo I 2,J). Per Paolo la fede viene dall'ascol to della predicazione (= «notizia», akoe di /s. 5 J , I ), e la predicazione 1-5.
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1
Cor. I J, I·I I . La risurrezione di Cristo quale base dell'arg�mentazione
dalla parola di Cristo (Rom. IO, I 7). Tutto questo Paolo mette sotto gli occhi degli entusiasti di Corinto i quali, con la loro sopravvalutazionc del Signore innalzato e degli effetti dello Spirito, corrono il pericolo di sopprimere la «parola della croce» ( I , I 8). In primo luogo, come co sa fondamentale, Paolo ha trasmesso ai corinti una tradizione su Cri sto che anch'egli aveva a sua volta ricevuto. L'antico persecutore della comunità cristiana non era stato uno dei discepoli del Gesù terreno, ma aveva anch'egli accolto la tradizione; tuttavia, con l'apparizione di Cristo sulla via di Damasco, è stato chiamato a testimone del Risorto e appartiene con ciò - ultimo - alla schiera degli apostoli. Le espres sioni tecniche, correnti nella tradizione dottrinale giudaica, mostrano che Paolo, come già in 1 I ,2J, cita qui un patrimonio orale di tradizio ne già organizzato, che ha ricevuto dalla comunità di Antiochia. Il brano di tradizione qui ripreso ha inizio col «che» dichiarativo a metà del v. 3 e, in uno stadio precedente, terminava dopo il v. 5 con l'appa rizione di Gesù ai dodici, come si deduce dalla costruzione bipartita della formula a quattro membri, e dalla mancanza del «che» nel v. 6. Molti interpreti fanno terminare la formula subito dopo «apparve», ma è difficile che mancassero i testimoni dell'apparizione. Nelle formule di fede e nei canti protocristiani non si trova mai una struttura com pletamente costruita a membri paralleli, quantunque la forma giudaica del parallelismo dei membri, ben nota dai salmi, abbia esercitato un suo influsso. La circostanza che il v. 6a contenga espressioni non paoline («in una volta», cf. Rom. 6,Io «una volta per tutte») e che il v. 7 sia formalmente parallelo al v. 5, fa apparire verisimile che già in età p re paolina la formula dei vv. 3 b 5 sia stata ampliata per farne un «som mario catechetico», nel quale Paolo ha inserito il v. 6b, prolungandolo poi ancora col v. 8 (P. Stuhlmacher). In molti punti il lessico della for mula dei vv. 3b-5 si discosta dal consueto linguaggio paolina (cf. Jere mias, Parole, I 2 I ). Paolo ad esempio non parla altrove del peccato al singolare, né usa l'espressione «secondo la Scrittura» o «i dodici». Il perfetto passivo del verbo «resuscitare» oltre che qui compare solo in 2 Tim. 2,8, pure in una formula di fede. Sulla provenienza del brano di tradizione 3b- 5 , ossia del sommario catechetico ampliato, a impianto soteriologico, non è stata raggiunta una visione concorde. La formula greca proviene senz' altro da una comunità giudeocristiana ellenistica di lingua greca (gli «ellenisti» di Atti 6, 1 ? ), il che peraltro non esclude che all'origine di questo sviluppo della tradizione vi sia una base ara-
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Cor. I S ,I - 1 1 .
La risurrezione di Cristo quale base dell'argomentazione
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maica proveniente dalla primitiva comunità gerosolimitana. Questo frammento di tradizione 3 b- 5 è la più antica sintesi dell'annuncio di Cristo tramandataci dal Nuovo Testamento; probabilmente ha accol to in sé formule elementari di un solo membro, relative rispettivamen te alla morte e alla risurrezione di Gesù. Forse questa formula di fede, di tipo confessionale, veniva impiegata anche in occasione del battesi mo. Non è più possibile chiarire con certezza se le singole affermazio ni di fede siano in rapporto con narrazioni orali di passione, sepoltu ra, risurrezione e apparizioni di Gesù (U. Wilckens) ma, trattandosi di un sommario, la cosa non manca di verisimiglianza. 3-4. L'impianto dei vv. 3 b- 5 è contraddistinto da due affermazioni, ambedue evidenziate dall'espressione «secondo le Scritture», ossia «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» e «fu risusci tato il terzo giorno secondo le Scritture». Ognuna di queste due affer mazioni è seguita da una proposizione dichiarativa che la conferma: la morte viene confermata con la sepoltura, la risurrezione con rappari zione di Cristo a Pietro e alla cerchia dei dodici. Per effetto della posi zione dei quattro «che» dichiarativi, ci si trova di fronte a un'esposi zione degli eventi della salvezza nella loro successione; in tal modo viene anche testimoniata l'identità del Gesù crocifisso col Cristo risu scitato. Per l'argomentazione di Paolo ciò che importa è la risurrezio ne di Gesù, che l'apostolo non ha bisogno di dimostrare diffusamente, dal momento che i corinti non l'hanno direttamente messa in discus sione. La risurrezione di Gesù è il «SÌ» di Dio alla morte vicaria di Ge sù sulla croce, morte che non è mercede del peccato (Rom. 6,2 3 ) , ma la vittoria su peccato e morte (I Cor. 1 5,5 5). Il peccato è l'ostacolo che impedisce l'ingresso nella signoria di Dio; l'eliminazione di quest'osta colo è la premessa necessaria per la partecipazione al compimento futuro. La testimonianza della morte e risurrezione di Cristo funge quindi da base per la trattazione successiva, sino alla fine del capitolo. Soggetto dell'affermazione del v. 3 è Cristo (senza articolo), che qui è usato non come nome proprio, ma come titolo. Nel cristianesimo el lenistico il titolo giudaico di messia entrò a far parte del nome di Gesù Cristo, nel quale poi anche giudeocristiani come Paolo continuarono a percepirlo. Il titolo di maestà «Cristo» è particolarmente usato nelle formule di fede che rendono testimonianza della passione e morte di Gesù (cf. ad es. Rom. 5,6.8; 1 4,9· 1 5; I Cor. 5,7; 8,1 I; Gal. 2,2 1 ; l Pt. 3, 1 8), poiché Gesù fu crocifisso in quanto pretendente al titolo di mes-
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l Cor. r s , I - I I . La
risurrezione di Cristo quale base dell'argomentazione
sia. N o n c'è contraddizione tra le affermazioni secondo cui nella mor te e risurrezione di Cristo è stato Dio a operare, e le affermazioni for mulate in termini cristologici, secondo cui Cristo è morto e risorto (ad es. 1 Tess. 4,I 4; cf. Rom. I 4,9). Gesù, infatti, non ha subito la mor te come un destino estraneo, ma l'ha presa su di sé obbedientementc come volere del Padre. Nella formula qui adoperata la morte di Gesù viene caratterizzata come morte espiatrice e vicaria per i peccati degl i uomini; in essa si congiungono in unità i motivi di provenienza vete rotestamentaria della vicarietà (/s. 5 3) e delPespiazione (Lev. 1 6). Con le «Scritture» s'intende tutto l'Antico Testamento. L'espressione «per (hyper) i nostri peccati» letteralmente non compare né nel testo ebrai co né in quello greco di Is. 5 3; ciononostante l'affermazione è influen zata da questo canto sul servo di Dio sofferente che «fu trafitto a cau sa dei nostri crimini» (v. 5 ) e che «si è consegnato egli stesso alla mor te ed è stato annoverato tra i criminali, mentre portava il peccato dei molti e intercedeva per i criminali» (v. I 2; tr. Bible dejérusalem). L'av venuta sepoltura ribadisce la realtà della morte di Gesù: non fu una morte apparente. In quest'affermazione Paolo vide probabilmente an che un accenno indiretto alla risurrezione di Gesù col corpo. Se peral tro vi si debba vedere una concisa ricapitolazione del racconto della deposizione di Gesù nel sepolcro (Mc. I 5,42-46) è cosa di cui si discu te. La seconda affermazione principale testimonia la risurrezione di Gesù il terzo giorno. Il verbo al passivo indica l'agire di Dio, mentre il tempo perfetto ha in sé anche un senso di presente. La risurrezione di Ges"4 avvenuta una volta per tutte determina in permanenza la vita dei credenti. Le formule a un solo membro hanno per lo più il verbo al l'attivo, secondo l'antico modello: «Dio lo ha (Gesù) risuscitato dai morti» (2 Cor. 4,1 4). La risurrezione di Gesù include qui anche il suo innalzamento. Dio ha insediato Gesù in qualità del Signore di tutte le potenze (Fil. 2,9 ss.); solo in Le. tra la risurrezione e l'ascensione di Gesù c'è un intervallo di quattordici giorni. Le due espressioni «dopo tre giorni» (Mc. 8,3 I ; 9,3 I ; 1 0,34; il computo giudaico include il vener dì sera e la notte che precede il giorno della risurrezione) e «il terzo giorno» (Le. 9,22 e costantemente in Le.) sono sinonime e designano il terzo giorno, quello che in seguito i cristiani hanno solennizzato col nome di domenica (giorno del Signore, Apoc. I , I o). Questa datazione è nata probabilmente per effetto della prima apparizione del Cristo ri sorto, col che si dovrebbe riconoscere che essa ebbe luogo a Gerusa-
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La risurrezione di Cristo quale base dell'argomentazione
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lemme, oppure per l'annuncio da parte delle donne del ritrovamento del sepolcro vuoto (H. von Campenhausen). È senz' altro verisimile che Paolo abbia avuto conoscenza del nucleo del racconto relativo al se polcro vuoto (Mc. I 6, I -8), ma non è più possibile dimostrarlo in manie ra probativa. Teologicamente l'espressione «il terzo giorno» fa riferi mento al passo veterotestamentario di Os. 6,2: «Il terzo giorno ... ci solleverà, così che noi viviamo davanti a lui», che il giudaismo riferiva all'intervento salvifico di Dio in favore dei giusti (K. Lehmann). S· Al pari dei racconti dei vangeli sinottici sulla passione e la pa squa, la formula di fede dei vv. 3b- 5 testimonia la morte e risurrezione di Gesù Cristo come gli avvenimenti decisivi della salvezza. La risur rezione viene qui confermata mediante la manifestazione di Gesù Cri sto risuscitato davanti ai suoi discepoli. La prima apparizione toccò a Cefa (Pietro) e costituì la base della sua posizione di guida nella pri mitiva comunità degli inizi. Il verbo greco che viene qui adoperato per «apparire» è il termine tecnico usato dai LXX per indicare la presenza di Dio che si rivela nella teofania, in cui l'apparizione avviene per ini ziativa di Dio; a partire da tale impiego, il verbo designerà non solo un fenomeno intrapsichico o un'esperienza di visioni, bensì una com parsa visibile del Risorto come avvenimento in cui i discepoli incon trano il Signore (cf. 1 Cor. 9, I ), cosa che non esclude il conferimento di un incarico mediante una parola del Signore (cf. il collegamento costante, nei vangeli, dell'apparizione di Gesù con l'invio dei discepo li). L'apparizione a Pietro viene riferita solo da Gv. 2 1 ,4 ss., ma s'è depositata in un'antica formula di fede: «Il Signore è stato veramente risuscitato ed è apparso a Simone)) (Le. 24,34). In ordine cronologico, dopo Pietro anche i dodici ricevettero un'apparizione di Cristo (Mt. 28, 16-20; Le. 24,36 ss.; cf. Mc. I 6, 1 4 s.). La menzione di dodici anziché undici discepoli si spiega col fatto che «i dodici» era la denominazione del gruppo dei discepoli ormai consolidata con la loro chiamata pre pasquale. Un argomento forte contro l'ipotesi che la cerchia dei dodi ci si sia costituita solo dopo la pasqua, per effetto dell'apparizione del Risorto, è che ben difficilmente si sarebbe potuto inserire Giuda in ta le cerchia dopo che aveva tradito Gesù. Nei primi tempi della chiesa, i dodici discepoli di Gesù rappresentavano l'escatologico popolo di Dio per analogia con le dodici tribù d'Israele (cf. Mt. I 9,28). Nei primi an ni, al posto del traditore Giuda, fu scelto Mattia (Atti I ,26); invece, do po la morte nel 44 d.C. di Giacomo di Zebedeo, uno dei dodici, non
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Cor. I f,I-I 1 . La risurrezione di
Cristo quale base dell'argomentazione
fu eletto nessuno a succedergli (Atti 1 2,2 ). All'apparizione del Signore innalzato si collegava per gli apostoli l'incarico di predicare Gesù Cri sto (cf. Mt. 28,1 6-20). Con l'apparizione di Gesù ai dodici si conclude il brano originario della tradizione; si compiva così la chiamata dei principali testimoni di Cristo. 6-8. Nell'elenco dei destinatari di un'apparizione di Cristo, che Pao lo ha accolto e certamente anche ampliato con altre tradizioni, l' apo stolo inserisce il rimando ai testimoni ancora viventi della risurrezione (v. 6b), evidenziando al termine (v. 8) l'apparizione del Signore a lui toccata sulla via di Damasco. L'enumerazione delle suddette appari zioni è fatta in un ordine cronologico in cui assumono una posizione speciale la prima, accaduta a Pietro, e l'ultima, a Paolo; tale enumera zione sottolinea come il tempo delle apparizioni del Risorto, e con ciò anche quello della chiamata degli apostoli, sia ormai compiuto e con cluso. 6- 1 1 . L'apparizione a più di cinquecento fratelli «in una volta» diffi cilmente si può identificare con l'evento della pentecoste (Atti 2), do ve si parla delle discesa dello Spirito santo, non di un'apparizione di Gesù. A. Schlatter avanza l'ipotesi che quest'apparizione a un gruppo non abbia avuto luogo a Gerusalemme, ma in Galilea. Certamente non tutti questi cinquecento fratelli in seguito hanno esercitato attività mis sionaria; per questo non sono stati messi nel novero degli apostoli ri portato in seguito («tutti gli apostoli>>). La successiva osservazione di Paolo nel v. 6 prima di tutto pone l'accento sul fatto che quelli di loro che ancora vivono possono testimoniare la risurrezione, ma con l'af fermazione specificamente sottolineata nella conclusione, che alcuni di loro sono già morti, pensa anche alla risurrezione futura: è forse possibile che dei fratelli che Cristo ha degnato di un'apparizione ri mangano per sempre nella morte ? Paolo prepara così la tesi che domi nerà lo svolgimento che segue, secondo cui anche coloro che si sono addormentati «in Cristo» risorgeranno in futuro (col corpo) al pari del Signore stesso. «Dopodiché apparve a Giacomo e poi a tutti gli apo stoli». Giacomo, il fratello del Signore, quando Gesù viveva non era sta to uno dei suoi seguaci; a ciò forse si rapporta il fatto che l' apparizio ne per lui sia avvenuta dopo che ad altri; una datazione precisa relati vamente a tempo e luogo non è comunque più possibile. Per effetto dell'apparizione di Cristo accordatagli (oltre che della parentela con
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Gesù?) Giacomo ebbe una grande autorità nella primitiva comunità di Gerusalemme (Gal. I , I 9; 2,6) e ne fu in seguito la guida fino alla sua morte nel 62 d.C. Anche quest'apparizione non viene raccontata nel Nuovo Testamento; solo l'apocrifo Vangelo degli Ebrei ne dà breve mente notizia (Gerolamo, De viris illustribus 2 ). A mio parere il con cetto «tutti gli apostoli» non coincide con la cerchia dei dodici (A. Har nack) né indica i dodici più Giacomo (K. Holl), bensì designa una più ampia cerchia di giudeocristiani che erano stati testimoni di un' appa rizione di Cristo ed erano stati quindi chiamati a predicare il Signore risorto; tra questi, Paolo metteva anche i giudeocristiani Andronico e Giunia (Rom. 1 6,7) . È probabile che anche Barnaba appartenesse alla cerchia degli apostoli (cf. Atti I4, I4). Non è possibile stabilire con cer tezza se il fratello del Signore Giacomo avesse il titolo di apostolo; è verisimile che Paolo (9, 5) non lo annoverasse nella cerchia degli apo stoli (cf. F. Mussner su Gal. I , 1 9). L'ipotesi che il v. 7., in quanto co siddetta formula di legittimazione, provenga da un gruppo rivale che attribuiva a Giacomo la prima apparizione, e quindi la suprema auto rità nella comunità, non trova alcun fondamento nella forma dell'espo sizione, che senza alcuna polemica elenca semplicemente una succes sione di apparizioni. Quanto al luogo delle apparizioni, Paolo (a dif ferenza dei vangeli) non fornisce appigli di alcun genere. Mentre Le. non mette l'evento di Damasco tra le apparizioni pasquali, nel v. 8 Paolo pone se stesso come ultimo nella serie dei destinatari di un' ap parizione del Signore risorto, e fonda su questo la sua pretesa d'essere un legittimo apostolo che ha visto il Signore (9, 1 ) e ha ricevuto da lui il mandato di predicare il vangelo ai gentili (Gal. I , I 2. I 6). Paolo di stingue in maniera fondamentale la sua chiamata ad apostolo da rive lazioni mediante visioni che pure, secondo 2 Cor. I 2, I ss., ha avuto. L'apparizione di Cristo vicino a Damasco fa di lui un testimone in dipendente di Gesù Cristo risorto, e quindi un apostolo della stessa dignità dei primi apostoli di Gerusalemme. Questo, però, non era me rito suo, ma un dono della grazia che Dio gli aveva concesso. La stra ordinarietà della sua chiamata ad apostolo, destinata a lui per ultimo e toccata a un persecutore della comunità, è espressa da Paolo con l'im magine dell' «aborto». Il termine può anche significare la nascita pre matura, ma designa l'anomalia e il fallimento di un parto mancato, che dà alla luce un bimbo morto. L'inizio della vita di Paolo sia da cristia no sia da apostolo è stato come il dar la vita a un morto. Nel versetto
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La tradizione paolina della pasqua
seguente Paolo stesso chiarisce e giustifica il senso del termine «abor to». Egli è il minimo tra gli apostoli e da sé non merita di essere detto apostolo, poiché ha perseguitato la comunità di Dio, ossia i cristiani, escatologico popolo di Dio (Gal. I , 2 3 ; Atti 9, I), soprattutto i cosid detti ellenisti di Atti 6, I (M. Hengel). Ciò tuttavia non sopprime mini mamente la sua autorità, poiché il suo ufficio di apostolo non è opera sua, ma è dovuto all'intervento di Dio (cf. 9, I 6). Chi contesta il manda to conferito a Paolo dal Signore colpisce in definitiva il Signore stesso. L'apostolo è testimone della risurrezione e ministri di Dio e della co munità. Paolo deve questo suo compito esclusivamente alla grazia di Dio che perdona e ricrea, e che nell'opera missionaria dell'apostolo ha dato ricchi frutti. Nel suo ministero ha lavorato più di ogni altro apo stolo, cioè s'è addossato più fatiche e più pene (cf. 2 Cor. I I ,2 J ss.) e ha anche avuto più successo. Di nuovo Paolo, per evitare che si frain tenda la sua affermazione come vanteria, sottolinea che tutto questo l'ha operato attraverso di lui la grazia di Dio che era con lui. Il v. I I indica in certo modo l'obiettivo della pericope I . I I . Per quanto diffe renti possano essere la storia precedente e l'azione missionaria di Pao lo e degli altri apostoli, in quanto apostoli essi predicano tutti lo stes so annuncio di Cristo, qual è contenuto nel frammento di tradizione di 3h- s . La predicazione paolina del decisivo significato salvifico della morte e risurrezione di Gesù Cristo non è una dottrina speciale, ma la testimonianza comune a tutti gli apostoli, e su tale annuncio si fonda la fede dei corinti. Non se ne può peraltro dedurre necessariamente che coloro che negano la risurrezione dei morti abbiano però inteso la risurrezione di Gesù alla maniera di Paolo come risurrezione col corpo. Con questa pericope (vv. I - I I ) Paolo ha dunque esposto il fonda mento da tutti ammesso su cui può ora costruire la sua successiva ar gomentazione. Excursus La tradizione paolina della pasqua e i racconti evangelici della risurrezione Tanto Paolo quanto i vangeli testimoniano morte e risurrezione di Gesù Cristo quali gli avvenimenti decisivi della salvezza, costituenti il fondamento della chiesa. L'uno e gli altri interpretano la morte in cro ce di Gesù come morte espiatrice e vicaria per i peccati degli uomini, e
La tradizione paolina della pasqua
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la sua risurrezione come una specifica azione salvifica di Dio successi va all'evento della croce, con cui Dio ha innalzato dalla morte il Gesù crocifisso fino a sé nella sfera del suo potere, rendendolo così tutt'uno con sé. In tal modo Dio ha dichiarato valida la morte espiatrice e vica ria di Gesù, ha instaurato il nuovo ordine escatologico della salvezza, promesso dai profeti dell'Antico Testamento, e, mediante l'effusione dello Spirito santo, ha fondato la chiesa. In sé l'atto della risurrezione, quanto alla sua natura di opera di Dio, non viene descritto da nessuna parte nel Nuovo Testamento; né qualcuno ha potuto osservarlo (le guardie del sepolcro erano «come morte», Mt. 28,4). La fede nella ri surrezione di Gesù poggia sulla manifestazione di Gesù Cristo risorto e innalzato. Paolo e gli evangelisti tramandano concordemente che il Signore innalzato è apparso solo a coloro che Dio ha scelto per questo (Atti 1 0,40 s.; cf. Gal. 1 , 1 5) e che hanno agito da testimoni della sua ri surrezione. Ciò comporta che non sia possibile alcuna dimostrazione della risurrezione che prenda le mosse da fattori esterni alla fede. L'in dagine storica si ferma ai testimoni delle apparizioni del Signore o da vanti al ritrovamento del sepolcro vuoto (Mc. I 6,6), cui fu attribuita una tale importanza da suscitare la tradizione giudaica della sottra zione della salma da parte dei discepoli (Mt. 27,62-66; 28, I I - I 5). Relativamente alle apparizioni stesse non c'è perfetto accordo tra l'enumerazione di Paolo e i racconti degli evangelisti. L'apparizione del Signore a Pietro, che Paolo pone all'inizio, ha avuto evidentemen te una funzione fondamentale, benché i vangeli (persino Gv. 2 1 ,4 ss.) non ne contengano nessun racconto preciso. Essa è riecheggiata nel l'antica formula di fede di Le. 24, 34 ed è probabile che anche sullo sfondo di Mt. I 6, I 6- I 8 vi sia il nucleo di un racconto di apparizione. In ogni caso gli Atti degli Apostoli rappresentano Pietro come la figu ra guida tra gli apostoli dei primi tempi. Il luogo di quest'apparizione a Pietro è oggetto di discussione. Molti interpreti, sulla base di Mc. 16,7; Mt. 28, 16-20 e Gv. 2 1 , 1 5 - 1 7, la collocano in Galilea, mentre se condo Le. e Gv. Gesù è apparso ai discepoli la sera stessa del giorno di pasqua a Gerusalemme. Si suppone spesso che, a causa dell'apparizio ne del Risorto, dalla Galilea Pietro avrebbe fatto ritorno a Gerusalem me; secondo Mc. I 6,7 i discepoli dovrebbero vedere Gesù in Galilea, secondo quanto ha predetto loro in Mc. I 4,2 8. L'apparizione del Si gnore che Paolo presenta per seconda, quella alla cerchia dei discepoli (cioè agli undici discepoli indicati come il gruppo dei dodici) in tutti i
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vangeli è raccontata più diffusamente, pur con diversità nei particolari tra i vari racconti (Mc. 1 6,7; 16,14 ss.; Mt. 28, 1 6-2o; Le. 24,36-49; Gv. .20, 1 8-29). In Mt. all'apparizione è collegato il comando missionario; in Le. insieme con l'apparizione del Risorto che si fa identificare col Gesù terreno e spiega il senso della Scrittura, c'è la promessa dello Spi rito (cf. Atti 1,8), mentre in Gv., oltre all'invio a predicare, c'è il dono dello Spirito santo ( Gv. 20,2 I .22 ). La terza apparizione, quella davanti a più di cinquecento fratelli, non viene narrata da nessuna parte del Nuovo Testamento, a meno che non la si voglia vedere accennata nel racconto della pentecoste. Si suppone che quest'apparizione a un grup po abbia avuto luogo a Gerusalemme a causa del gran numero di per sone dopo la pentecoste (H. Grass ), oppure in Galilea tra i seguaci di Gesù (A. Schlatter). Paolo ne ha conoscenza dalla tradizione; i testi moni ancora vivi garantiscono che è avvenuta realmente. Il giudaismo conosce solo visioni di individui singoli. L'apparizione di Gesù a Gia como (Gal. I,19; 2,9), il fratello del Signore (Mc. 6,3), menzionata per quarta, analogamente all'apparizione a Pietro non è raccontata diffu samente nel Nuovo Testamento. È verisimile che l'apparizione di Ge sù risuscitato abbia condotto il fratello del Signore alla fede in Cristo, e abbia costituito il fondamento della sua successiva autorità nella co munità gerosolimitana. Quanto poi all'apparizione di Cristo a «tutti gli apostoli» nominata per quinta, mancando l'espressione «in una vol ta sola», molti interpreti pensano a più eventi accaduti a singoli indivi dui. Poiché certamente Pietro e i dodici facevano parte della cerchia dei dodici, si tratta in questo caso di quel genere di apparizione che ha condotto alla cerchia allargata degli apostoli (cf. Rom. I 6,7). L'appa rizione a Paolo, posta al termine della serie, è testimoniata dalla sua stessa affermazione (Gal. 1 , 1 5 - I 7); negli Atti viene ulteriormente ela borata in tre narrazioni (diverse nei particolari: Atti 9,3 - 1 8; 22,6-2 I ; 26, 1 .2- 1 8). Presso Damasco, allo zelante fariseo Paolo, persecutore della comunità cristiana, Gesù Cristo risorto è apparso in veste del Signore innalzato e confermato da Dio nella sua missione quale escatologico latore di salvezza, Signore che l'ha chiamato alla fede e insieme ad apostolo dei gentili. L'affermazione di Paolo sulla sua chiamata è una testimonianza forte e autonoma sulla realtà della risurrezione e delle apparizioni del Signore, poiché da teologo esperto Paolo distingue bene tra l'incontro con Cristo occorsogli sulla via di Damasco e le sue esperienze di rapimento nelle visioni (2 Cor. 1 2, 1 - 10). Per Paolo, con
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Cor. I s , I .1- I 9·
La negazione della risurrezione dei morti
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questa apparizione si è conclusa l'epoca della chiamata degli apostoli ( 1 5,8). Da questa prospettiva dell'apostolo, ai predicatori itineranti comparsi all'inizio del n sec. d.C. (Did. 1 3,3-6) si può riconoscere so lo la dignità di «inviati» incaricati dalla comunità (cf. 2 Cor. 8,2 3; Fil. 2,2 5) o di profeti. z.
Le conseguenze per la fede di una negazione della risurrezione dei morti ( 1 5 , 1 2- 1 9)
1 2 Ora, se si predica di Cristo c he è risorto dai morti, come possono alcuni tra voi dire che non c'è risurrezione dei morti? r 3 Se non c'è risurrezione dei morti, nemmeno Cristo è risorto. 14 Ma se Cristo non è risorto, vana è anche la nostra predicazione e vana la vostra fede. I 5 E ce ne stiamo anche quali falsi testimoni di Dio, per aver testimoniato contro Dio che egli ha risuscitato il Cristo, che invece non è risorto, se i morti in realtà non ven gono risuscitati. 16 Se infatti i morti non vengono risuscitati, nemmeno Cristo è risuscitato. 17 Ma se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 1 8 Perciò coloro che si sono addormen tati in Cristo sono perduti. 19 Se noi abbiamo riposto la nostra speranza in Cristo per questa vita soltanto, siamo più miserevoli di tutti gli uomini. 20 Ma Cristo è risuscitato dai morti, come primizia di coloro che si sono ad dormentati. 1 .1 .2
Tim.
2., I
8. 18
r
Tess.
4, 14.
Per coerenza logica il v. 20 rientra ancora nella pericope 1 2- 1 9 in quanto premessa portante del ragionamento, ma costituisce anche la base e il primo movimento della trattazione successiva. Nella città portuale di Corinto, col sincretismo della sua vita reli giosa, saranno circolate idee assai varie sulla questione della sopravvi venza o meno dopo la morte. I seguaci d'una concezione filosofica de rivante da Platone sostenevano l'idea che la morte liberasse l'anima immortale dal carcere del corpo. Per gli epicurei, sulla base dell'atomi smo, con la morte la personalità umana si dissolveva completamente. I seguaci delle religioni misteriche speravano dalla loro iniziazione in nanzi tutto la protezione e l'aiuto della divinità in vista di una vita fe lice nell'aldiqua, anche se talvolta ci è attestato che l'iniziazione con ferirebbe una vita nell'Ade (Sofocle, fr. 837; Apuleio, Metamorfosi I I , 2 1 ,6). Considerando la situazione nel suo insieme, s i deve dire che nel l'ellenismo prevaleva un atteggiamento di grande riserva nei confronti di una vita nell'aldilà. In ogni caso, per il pensiero greco l'idea di una
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1 Cor. I J, I 2- I 9· La
negazione della risurrezione dei morti
risurrezione dei morti col corpo era scandalosa, come risulta evidente nella scena di Atti 1 7,32. La risurrezione dei morti ha avuto invece un ruolo importante nelle testimonianze (posteriori) dell'escatologia per siana. Nell'Antico Testamento, solo negli scritti tardi (/s. 2 5,8; 26, 19; Dan. 1 2, 1 .2) ci s'imbatte direttamente nella fede nella risurrezione (ba sata su tradizioni più antiche}, fede che acquistò molta importanza nell'apocalittica giudaica. Fondandosi sulle promesse dei profeti, i fa risei attendevano una risurrezione universale dei morti alla fine dei tempi, mentre l'aristocrazia sacerdotale sadducea, che riconosceva so lo la torà, respingeva la risurrezione dei morti come un'innovazione. Contro i sadducei Gesù difese la fede nella risurrezione (Mc. 1 1 , 1 8.27 par.) che, attraverso di lui, divenne una solida componente della spe ranza cristiana nel futuro. Come fariseo, Paolo aveva già condiviso la fede nella risurrezione, ma morte e risurrezione di Gesù gli hanno for nito un fondamento nuovo e affidabile per questa speranza, dando una impronta nuova a tutta la sua escatologia. A Corinto l'apostolo ha predicato l'annuncio della morte e risurre zione di Gesù Cristo e dell'aspettativa, donata con la fede, della parte cipazione alla futura signoria di Dio ( 6,9 ). È probabile che nei primi tempi dell'azione paolina la predicazione della parusia occupasse una posizione più centrale rispetto al più ampio approfondimento del te ma della risurrezione corporea dei morti (cf. 1 Tess. 4, 1 3 - 1 7) che diven ne invece necessario per effetto della controversia con gli entusiasti pneumatici. Probabilmente sui cristiani di Corinto hanno agito in se guito anche idee ancor precedenti. Benché nel v. I 2 Paolo parli solo di alcuni negatori della risurrezione dei morti, tutta la comunità viene da lui rimproverata di spiritualismo entusiastico. Il. ss. Paolo pone all'inizio la tesi di «taluni» membri della comuni tà di Corinto: «Non c'è risurrezione dei morti». La lettera di questo motto consente diverse interpretazioni. Si suppone forse, in base a concezioni platoniche, l'immortalità dell'anima, negando solo la risur rezione col corpo ? Paolo, però, non contrappone mai la risurrezione con il corpo all'immortalità dell'anima, di cui peraltro non parla mai. Oppure i corinti che sostengono questa tesi pensano, come i Tessalo nicesi preoccupati per i casi di morte, che avranno parte alla vita eter na solo quei cristiani che saranno ancora in vita al momento della pa rusia di Cristo ? In base a idee apocalittiche protocristiane si potrebbe anche pensare
1 Cor. I J , I 2- I 9.
La negazione della risurrezione dei morti
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a quella sospensione della (millenaria) signoria di Cristo che, secondo
Apoc. 20 e 2 I , precederà la vittoria finale sul diavolo, la risurrezione universale dei morti, il giudizio universale e la piena signoria di Dio. Tuttavia, la lettera di I 5, I 2 nega la risurrezione dei morti in termini generali, e d'altro canto Paolo non dà mai un segno chiaro di pensare a un regno messianico intermedio (cf. a 1 5,24). Ora, si sa dalla lettera attuale che i pneumatici di Corinto sostene vano una concezione magica naturalistica dei sacramenti (cap. I o) e che vivevano nel felice sentimento di essere già pervenuti alla signoria in sieme col Cristo innalzato (4,8) . .Regnare con Cristo presuppone la fe de in una risurrezione di Gesù Cristo (che i corinti si rappresentano di natura pneumatica). Queste indicazioni del testo suggeriscono l'ipote si che i corinti negatori della risurrezione credessero d'essere già ri sorti con Cristo mediante il battesimo e la ricezione dello Spirito, e di essere già stati trasferiti nella condizione del compimento (cf. le espres sioni di Col. 2, I 2; Ef 2,6). Sostenevano, quindi, una concezione ana loga a quella degli eretici gnostici verso la fine del secolo (2 Tim. 2, I 8), i quali insegnavano che la risurrezione è già avvenuta (J. Schniewind). L'opinione espressa da diversi interpreti, secondo cui Paolo non avreb be capito, o non avrebbe capito bene, la posizione dei corinti che ne gavano la risurrezione, non ha punti d'appoggio evidenti nel testo. La differenza tra Paolo e i corinti risiede soprattutto nel diverso modo d'intendere l'efficacia della ricezione dello Spirito. Se la risurrezione è già stata anticipata col battesimo, non c'è più una risurrezione dei mor ti nel futuro, a meno di non supporre una doppia risurrezione, una spi rituale nel presente e una corporea nel futuro. I sostenitori della tesi del v. 1 2b, a mio parere, hanno contestato la risurrezione dei morti fu tura perché per loro non c'è in generale una risurrezione della carne. Per la loro concezione, Gesù costituisce una singolare eccezione al lo ro generale rifiuto della risurrezione dei morti, oppure, cosa più pro babile, essi intendevano l'affermazione tradizionale della risurrezione nel senso di una rì surrezione di Gesù Cristo nello Spirito. Il testo non dice espressamente come i pneumatici pensassero il destino dei cristia ni battezzati che muoiono prima della parusia, ma è conforme al loro modo di pensare che riconoscessero che lo Spirito donato nel battesi mo, in quanto sostanza del mondo divino perfetto, non possa essere distrutto dalla morte del corpo materiale (cf. I 5,29 ). 1 .1- 1 9. Come mostra l'uso del perfetto, nel v. 1 2 Paolo si rifà alla ri-
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I Cor.
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s , r 2- 1 9.
La negazione della risurrezione dei morti
surrezione di Cristo testimoniata nel v. 4, e con la domanda che segul' fa subito capire (alla fine del v. 1 2) che in quest'opera di Dio egli vedl' un'obiezione decisiva alla tesi dei corinti che negano la risurrezione. Nei vv. 1 3- 19, con due distinti movimenti (vv. 1 3 - 1 5 e 1 6- 1 9), l'apo stolo trae le conseguenze che discendono logicamente dalla tesi di chi nega la risurrezione (v. 1 2c). Con un'argomentazione ipotetica, dalla generale negazione della risurrezione si deduce che, se non si desse ri surrezione dei morti, nemmeno Cristo sarebbe stato risuscitato (vv. 1 3 e 1 6), il che per i credenti porterebbe con sé le conseguenze negati ve ricordate nei vv. 1 4. 1 5 e 1 7-1 9. Ora Paolo, nel v. 20, alla tesi dei nc gatori della risurrezione (v. 1 2c) e alle conseguenze negative che ne di scendono (vv. 1 3- 1 9), contrappone un nuovo principio che, a mo' di premessa positiva, sopprime le conseguenze negative tratte in via sol tanto ipotetica dal v. 1 2c: «Ma Cristo è risuscitato dai morti» (cf. Th.G. Bucher). Secondo il v. 20 Cristo è risuscitato dai morti «come primi zia di coloro che si sono addormentati». È racchiuso qui il significato escatologico della risurrezione di Gesù. La sua risurrezione non è solo il ritorno alla vita, all'interno della storia, di un individuo che poi mo rirà di nuovo, ma è l'evento escatologico della risurrezione dell'ultimo Adamo (z Cor. I 5,45), del «figlio dell'uomo» (Dan. 7, 1 3) come rappre sentante dei «santi dell'altissimo» (Dan. 7, 1 8 .27) e della nuova creazio ne su cui si fonda la futura risurrezione dei morti nella parusia di Cri sto. La risurrezione di Gesù Cristo dai morti, compiuta nel passato dalla potenza di Dio, è l'evento fondante su cui si basa la futura risur rezione dei morti e che con certezza la porta con sé. Per Paolo, l'argo mentazione di forma negativa, «se non c'è risurrezione dei morti, nem meno Cristo è risuscitato», nella realtà è stata superata e trasformata dall'operare di Dio in quella positiva: poiché Cristo è risuscitato, an che i morti risorgeranno. Nei vv. 14 e 1 5 vengono tratte in via ipoteti ca le conseguenze della premessa negativa «Cristo non è risuscitato» (v. 1 4 a) . Si mostra qui quanto sia stretta la connessione concreta tra l'opera di riconciliazione di Dio in Cristo, la predicazione del vangelo e la fede dei cristiani (cf. 2 Cor. 5 , 1 4-2 1 ). La predicazione degli apo stoli si fonda sull'evento Cristo della croce e risurrezione di Gesù, e il «ministero della riconciliazione» (2 Cor. 5,1 8) rende possibile la fede della comunità. Senza il «sÌ» di Dio, mediante l'opera della risurrezio ne, alla morte espiatrice e vicaria di Gesù, questi sarebbe un preten dente messianico fallito e, secondo Deut. 2 1 -2 3, maledetto, che non
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Cor. I s,I2- 19·
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verrebbe predicato né verrebbe riconosciuto nella fede come Signore e portatore della salvezza. L'azione salvifica di Dio nella croce e risur rezione di Cristo è il contenuto centrale del vangelo predicato da tutti gli apostoli. Senza questo contenuto, vuota e senza senso è la predica zione dei predicatori, inconsistente e infondata la fede della comunità. Nel v. 1 5 il pensiero passa dall'annuncio ai predicatori. Se il contenuto dell'annuncio è falso, i predicatori di quest'annuncio si rivelano testi moni falsi, che con la loro testimonianza sulla risurrezione di Cristo si sono messi contro Dio, facendolo mentitore. Poiché se è vero che non c'è risurrezione dei morti, Dio non ha risuscitato nemmeno Cristo. Non c'è quasi bisogno di dire che Paolo intende tutto ciò nel senso dell'irrealtà. In Paolo l'espressione «testimoni di Dio» non compare mai come una formula fissa, né è premessa necessaria della formula zione paolina «falsi testimoni di Dio». Nei LXX l'espressione «falsi te stimoni» (Mt. 26,6o) s'incontra solo in Susanna 6o. Nel v. 1 6 Paolo ri pete la conseguenza negativa per la risurrezione di Cristo derivante dal la tesi dei negatori della risurrezione. Ma se Cristo non è risuscitato, viene meno anche il perdono dei peccati donatoci con la fede. C'è qui uno sviluppo del v. 1 4. Senza la conferma da parte di Dio della morte espiatrice e vicaria di Gesù mediante la risurrezione di Cristo, vana sa rebbe la fede dei cristiani nella liberazione dalla servitù di peccato, legge e morte (Rom. 8, 1 -3). I credenti sarebbero ancora sotto la signo ria delle potenze del vecchio mondo. L'espressione «nei vostri pecca ti» riprende il plurale dalla formula di Cristo del v. 3· Nel v. 1 8 Paolo descrive le conseguenze della negazione della risurrezione per coloro che si sono addormentati, ossia per i cristiani che sono già morti. Sa rebbe stato un errore la loro fede in Cristo quale loro redentore da pec cato e morte, e sarebbero «perduti» in senso escatologico (cf. 1 , 1 8). Un Gesù morto, non accolto nella sfera della potenza di Dio, non po trebbe liberarli dal potere della morte, né salvarli dal venturo giudizio d'ira di Dio (1 Tess. I,Io), che nel giudizio universale sarà pronuncia to sugli iniqui e sui peccatori. Nel v. 1 9 Paolo ricapitola ancora una volta le suddette conseguenze logiche d'una negazione della risurre zione dei morti in un'argomentazione conclusiva. In essa, alla fede in Cristo in questa vita viene contrapposta la perfetta comunione con Cristo nel futuro sulla base della risurrezione dei morti (cf. 2 Cor. 5 ,68). Se la speranza che i cristiani hanno riposto nel loro Signore fosse limitata alla vita terrena, nel caso non vi fosse una risurrezione dei mor-
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1 Cor.
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Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro
ti, sarebbero più miserevoli di tutti gli uomini. Non s 'ingannerebbero soltanto nella loro speranza nella futura comunione perfetta con Cri sto, ma prenderebbero inutilmente su di sé le pene e le sofferenze di chi segue la croce in questo mondo. Il passo mostra efficacemente che Paolo vede nel Gesù terreno, crocifisso e sepolto, e nel Cristo risusci tato, innalzato e in.s ediato nella potenza di Dio, una sola e identica per sona. La fede cristiana per l 'apostolo è molto più della convinzione che «la vicenda Gesù va avanti» (W. Marxsen), più q uindi di un atteggia mento puramente intramondano che s 'ispira alle esigenze etiche del Gesù terreno. La fede nella giustificazione del peccatore in forza del l 'opera salvifica di Dio in Cristo include per Paolo la certezza della re denzione nel compimento futuro. La speranza nel compimento non è un consolarsi col futuro, ma dimostra anzi, già in questa vita, di essere una forza che motiva e sostiene (Rom. 5 , I - 5 ) . 3·
Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro ( I 5,20-28)
20 Ma Cristo è risu sc it ato dai morti, come primizia di coloro che si sono ad dormentati. 2 r Poiché, infatti, per un uomo è venuta la morte, sempre per un uomo verrà la risurrezione dei morti. 2.2 Come infatti tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno anche vivificati in Cristo. 23 Ma ciascuno al suo posto: Cristo come primizia, poi, alla sua venuta, quelli che appartengono a Cri sto ; 24 poi (sarà) la fine, quando consegnerà la signoria a Dio, il Pa dre, dopo aver annientato ogni signoria e ogni potestà e potenza. l.f Deve regnare, infatti, finché «non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi». 2 6 L'ultimo nemico a esse re annientato è la morte. 2 7 Giacché «ogni cosa ha messo sotto i suoi piedi». Ma quando si dice: «Ogni cosa è sottomessa», è chiaro che si eccettua colui che gli ha sottomesso ogni cosa. 2.8 Quando dunque ogni cosa gli sarà sottomessa, allora anche il figlio si sottometterà a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutto . .20 Col. 1 , 1 8 . .2 1 Rom. s , I 2. I 8 . 2.2 s. Dan. 3. 1 .
7 I J 27 ,
.
.
2 5 Sal. I IO,I
.
.27 Sal 8,7.
Il punto di partenza ( 1 5,20)
.2.0. Paolo pone all'inizio il fatto della risurrezione di Gesù Cristo
come primizia di coloro che si sono addormentati, sottolineando con ciò il legame tra la futura risurrezione dei morti e la risurrezione di Gesù già avvenuta per intervento di Dio. Paolo si basa qui sul fonda-
1
Cor. 1 5,20-28.
Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro
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mento che ha posto in I 5 , I - I I e attribuisce a Cristo un requisito ulte riore: egli è la «primizia di coloro che si sono addormentati». Nell'An tico Testamento il termine greco aparche designa la primizia che si of fre a Dio per tutto il raccolto (Es. 23,I 9; Deut. 26, I ss.). Paolo usa tal volta questo termine per indicare i primi convertiti di una comunità (Rom. I 6, 5 ; 1 Cor. I 6,23 ); ma nel passo in esame è evidente che s>in tende la primizia della risurrezione, come mostra il genitivo che segue. Nello stesso senso in Col. I , I 8 Cristo è detto «l'inizio, il primogenito dai morti». L'espressione non ha solo valore temporale, ma anche cau sale e concreta: la risurrezione di Gesù è vista come avvenimento escatologico, come l'avvio del compimento finale che in futuro porte rà con sé la risurrezione di coloro che si sono addormentati in Cristo. Sulla base di questo nesso, lo Spirito è detto la «primizia» (Rom. 8,2 3) o «caparra» (2 Cor. I ,2o; 5, 5) del compimento escatologico. Dapprima si svolgono le conseguenze che ha per il futuro la risurre zione di Gesù Cristo (vv. 2 I -28); poi si prende in considerazione il si gnificato della futura risurrezione dei morti per la vita presente (vv. 29-34). Nei vv. 2 1 -28 l 'apostolo si oppone all 'anticipazione della ri surrezione nel battesimo, e illustra al contempo il significato che ha per il futuro il kerygma richiamato nei vv. 3 - 5 (U. Luz). Per far ciò si serve nei vv . 21 s. della corrispondenza tra Adamo e Cristo, e nei vv. 23-28 dell'argomento del definitivo annichilimento di tutte le potenze ostili a Dio, inclusa la morte, la quale, nonostante l'opera di riconci liazione compiuta da Dio, esercita ancora il suo potere sugli uomini fino al compimento del mondo. 3.2.
La fondazione della risurrezione dei morti nell'ambito della tipologia Adamo-Cristo ( I 5 ,2 I e 22)
Nei vv. 21 s. Paolo sintetizza il parallelismo tra Adamo e Cri sto con una frase concisa che suona come una sentenza. La cosiddetta tipologia Adamo-Cristo ha un'affinità formale con lo schema mitico dell'origine e della fine. Certamente Paolo interpreta il parallelismo tra Adamo e Cristo a partire dall'idea giudaica che la personalità di un capostipite determina l'azione e il destino di coloro che appartengono alla sua stirpe (E. Schweizer, GLNT XIII, 732). Egli concepisce Gesù Cristo come il «figlio dell'uomo» (Dan. 7, 1 3) che rappresenta «i santi dell'altissimo» (Dan. 7,27). Al primo Adamo, terreno, Paolo contrap2 1 -.2..2..
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Cor. 1 5,10-2 8.
Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro
pone in I 5,45 -49 Gesù Cristo come il secondo Adamo, escatologico (l'uomo che viene dal cielo). Il primo Adamo è il rappresentante del l'umanità naturale e storica; il secondo Adamo, Gesù Cristo, è il rap presentante dell'umanità escatologica. In questo confronto è contenu ta sia l'analogia positiva di Adamo con Cristo, sia il contrasto radicalt· tra l'uomo terreno e quello celeste. L'analogia tra le due figure consi ste nel fatto che in ambedue i casi il rappresentante esercita un effetto determinante su quelli che gli appartengono (v. 22 ). Il rapporto di op posizione è ulteriormente sviluppato nei vv . 4 5 -48. Gli effetti del pri mo sui suoi vengono così descritti nel v . 2 I (senza verbi nel testo gre co): «Poiché per un uomo (è venuta) la morte, sempre per un uomo (verrà) la risurrezione dei morti». Adamo è rappresentante della vecchia umanità, in quanto per suo tramite peccato e morte sono venuti nel mondo (Rom. 5 , I 2). All'origine della morte ad opera di un uomo cor risponde la sconfitta della morte ad opera di un uomo. Dalla formu lazione di Rom. 5 , 1 2. 1 8, che pone l'accento sul ruolo di un solo uomo, si deve desumere che anche in I 5,2 1 , malgrado la formulazione in ter mini indefiniti, dev'essere riconosciuta la posizione singolare di Ada mo e di Cristo in virtù della loro efficacia su quelli che appartengono loro (cf. la presenza dell'articolo nel v. 22). Nel v. 22 il chiarimento, che è insieme motivazione, nella seconda parte si scosta sorprenden temente dalla forma del parallelismo per il verbo al futuro: «Come infatti tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno anche vivificati in Cristo». Questo futuro è necessario perché la risurrezione dei morti rientra nel futuro della parusia ( 1 Tess. 4, 1 6; cf. Rom. 6, 5 ). Esso espri me anche la correzione che l'apostolo apporta alla collocazione della risurrezione nel presente da parte degli entusiasti pneumatici di Co rinto. L'espressione «in Adamo» è costruita per analogia con la formula cristiana «in Cristo» che include molti aspetti. Il senso causale ivi contenuto è chiarito dal «per» del v. 2 1 . Il v. 22 è costruito quasi si trattasse di un processo che si svolga in maniera causale naturale, inte ressando l'umanità intera. Non si fa menzione né del peccato come in frazione al comandamento di Dio, né della morte come ricompensa del peccato (Rom. 6,23), e nemmeno del giudizio finale di Dio sugli em pi. Nello slancio della sua argomentazione, Paolo si concentra qui sol tanto sull'influsso che i due rappresentanti hanno su coloro che appar tengono loro in fatto di vita e di morte, poiché di questo si tratta nel la risurrezione. Come Paolo intenda il senso teologico della tipologia
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Cor. 1 5,20-28. Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro
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Adamo-Cristo è mostrato nella pericope Rom. 5 , 1 2-2 I , che potrebbe definirsi un autentico commento dell'apostolo al nostro passo. Secon do quella pericope, per i membri della vecchia umanità la morte non è solo la conseguenza fatale della trasgressione di Adamo, ma anche la conseguenza dei loro propri peccati (Rom. 5, I 2 ) . Lo schema mitico di inizio e fine, che Paolo interpreta secondo la concezione biblica della storia dell'umanità, viene di conseguenza modificato in senso storico. Per l'apostolo il destino degli uomini è determinato in misura decisiva dal loro comportamento nei confronti del volere di Dio. Lo chiarisce il fatto che Paolo in Rom. 5, I 2 ss. descrive lo stretto rapporto che i due poli «vita>> e «morte» hanno con legge e peccato e con la giustificazio ne mediante Cristo. Ciò determina anche il senso del secondo (vv. 2 3 s.), corrisponde al la serie di Dan. 7, con le fasi successive dei vv. I 3 s. (comparsa del fi glio dell'uomo), 1 8 (i «santi dell'altissimo»), 27 (regno eterno; v. anche Mt. 24,27-3 1, P. Stuhlmacher). Il pieno mandato di Gesù Cristo si com pie con la vittoria sull'ultimo nemico, la morte. Chi nega la risurrezio ne dei morti nega con ciò stesso la vittoria finale di Cristo. Nel v. 24b-c Paolo illustra con due proposizioni temporali ciò che accadrà alla fine. La prima riguarda la consegna della signoria al Padre (col verbo al presente), la seconda l'annientamento di ogni signoria, potestà e potenza (col verbo al passato). Cronologicamente la sconfit ta delle potenze precede la consegna della signoria al Padre, poiché l'eli minazione delle potenze ostili a Dio e della morte (v. 26) è il presup posto perché Dio sia tutto in tutti (v. 28). Vengono prese in conside razione tre fasi: I . dalla risurrezione di Cristo fino alla risurrezione dei morti al momento della parusia, 2. dalla parusia alla consegna della si-
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Cor. I 5 ,20-28. Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro
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gnoria di Cristo al Padre, 3 . l'eterna, universale signoria di Dio Padre, fine ultimo dell'evento Cristo e di tutta la storia. Il testo non dice espressamente quando abbia inizio il dominio di Cristo, se con l'in nalzamento o con la parusia, né stabilisce in maniera univoca in che fase abbia luogo l'annientamento delle potenze ostili a Dio. Secondo la dottrina giudaica apocalittica dei due eoni, all'eone attuale segue la signoria di Dio nel mondo futuro; i rabbi hanno sviluppato questo schema: I . mondo attuale, 2. signoria del messia, 3. signoria di Dio. La concezione d'un interregno messianico di quattrocento anni è docu mentata per la prima volta dopo la distruzione di Gerusalemme in 4 Esd. 7,26 ss., il che non esclude che possa anche essere più antica. Il pro blema delle tradizioni impiegate da Paolo in questa pericope è ancora oggetto di discussione. Non è possibile chiarire con sicurezza (ma in base a Dan. 7 non lo si può nemmeno escludere) se Paolo abbia colle gato la tradizione prepaolina relativa alla sottomissione delle potenze a Cristo al momento del suo innalzamento (Fil. 2,9 ss.; Ef. 1 ,2 I; 4,8 ss.; 1 Pt. 3,22) con una tradizione apocalittica cristiana relativa alla conse gna del regno di Cristo al Padre (U. Luz) o alla sostituzione del (mil lenario) regno di Cristo col nuovo cielo e la nuova terra (Apoc. 20 s.). In Apoc. 20, alla signoria di Cristo insieme con i suoi, dopo una nuova breve signoria di Satana, fa seguito la risurrezione universale dei mor ti, il giudizio universale e la caduta della morte nella palude di fuoco. In nessun passo, però, Paolo fa pensare chiaramente all'attesa d'un in terregno messianico (H.-A. Wilcke). Quanto alla signoria di Cristo, si deve partire dalla tradizione approvata da Paolo in Rom. 1 ,3 s; 8,34, se condo cui Cristo, con la sua risurrezione, è stato innalzato «alla destra di Dio» (Sal. 1 I O, 1 ) . Su questa base è ovvio riferire il «dominare» di Cristo al tempo che va dal suo innalzamento fino alla consegna della signoria al Padre. La preghiera che alla fine tutte le potenze formula no e la loro confessione di Gesù quale il kyrios (Fil. 2,9- I I ) è «a onore di Dio Padre». La signoria di Cristo, nel tempo che va dal suo innal zamen to fino alla parusia, si attua nella confessione e obbedienza di fe de della chiesa e nella liberazione dei cristiani dalla servitù di peccato, legge e morte (cf. Rom. 8). Cristo usa in maniera visibile la potenza accordatagli nel suo innalzamento (cf. Mt. 28,1 8) solo nel tempo che va dalla parusia alla sconfitta di tutte le potenze nemiche di Dio. L'ul timo atto che precede la consegna della signoria a Dio è l'annientamen to della morte (v. 26). Come Dio ha creato ogni cosa mediante Cristo
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Cor. I j ,2.o-z8. Le conseguenze della risurrezione di Cristo per il futuro
(8,6) così, nell'intervallo tra il suo innalzamento e l'inizio dell'univer sale signoria di Dio, Dio opera mediante la signoria di Cristo, che per l'autorità di Dio tiene anche il giudizio finale (2 Cor. 5 , I o). Fino alla parusia la signoria di Cristo è, dal punto di vista terreno, come ancora nascosta sotto la croce; è il tempo della chiesa combattuta e combat tente, che per l'apostolo si esplica nella dialettica di morire e vivere (2 Cor. 4,8- 1 2). Alla parusia tutti, anche i nemici di Cristo, riconosceran no la sua signoria o dovranno sperimentare la sua potenza. Nell'even to del compimento, che ha inizio con la parusia, vige il «tempo di Dio», che non può più venir misurato con misure cronologiche terrene; per ciò Paolo rinuncia consapevolmente a definire all'interno della «fine» una successione secondo intervalli terreni (cf. 1 5, 5 2). L'esclusione e la finale sconfitta delle potenze ostili a Dio ad opera di Cristo è già testi moniata, a parere di Paolo, nei due salmi 1 1 0 e 8, interpretati in senso messianico. Il primo passo scritturistico citato è Sal. I I o, I, dove Dio dice al re giudeo: «Siedi alla mia destra, finché faccia dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi» . Si discute se in età precristiana i giudei abbia no interpretato il salmo riferendo lo al messia atteso. I cristiani, comun que, ben presto l'hanno riferito alla risurrezione e all'innalzamento di Gesù Cristo (cf. Rom. 8,34; Ef I ,2o s.; Col. J , I ; Ebr. I ,J . I J; 8, I ; I o,1 2). Nella citazione di Paolo, dove il passo è messo in terza persona, viene aggiunto «tutti» per sottolineare l'annientamento di tutte le potenze ostili a Dio. Secondo il disegno salvifico di Dio, Cristo deve dominare (regalmente) finché «egli» abbia sottomesso tutti i suoi nemici. Data la costruzione della frase, per Paolo «egli» va riferito al soggetto del do minare, quindi a Cristo, il quale secondo il v. 24 eliminerà ogni signo ria, potestà e potenza; in Sal. I 1 o, invece, è Dio che mette sotto i piedi del kyrios i nemici. Se si considera l'unità funzionale nell'operare di Dio e di Cristo, nella sostanza non c'è alcuna essenziale differenza. L'ulti mo nemico, il più potente, che verrà distrutto è la morte; si adempie così la promessa profetica di Is. 2 5 ,8. Con la personificazione della morte (cf. l'angelo della morte messo in relazione col Satana) si vuole esprimere, come col peccato, il suo potere sugli uomini. Sul Cristo ri suscitato la morte non ha più alcun potere (Rom. 6,9); la morte ha an che perduto ogni diritto su coloro che in Cristo sono giustificati (Rom. 8,3 8 s.), ma fino alla fine del mondo esercita il suo potere sugli uomini, malgrado l'azione riconciliatrice di Dio nella croce di Cristo. Secondo la concezione giudaica la morte è entrata nel mondo per l'invidia del
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demonio (Sap. 2,24; cf. Ebr. 2 , 1 4); in Rom. 5 , 1 2 Paolo riconduce inve ce il potere della morte ai peccati degli uomini. Per sua natura, la ri surrezione dei morti è strettamente connessa col superamento del po tere della morte. Nel v. 26 Paolo tuttavia non dice nulla di questo nes so tra l'annientamento della morte e la risurrezione universale dei mor ti. Nel versetto non si parla dei non cristiani, né si risponde alla do manda se gli empi rimangano nella morte o risuscitino per il giudizio. Il secondo passo scritturistico che profetizza la signoria di Cristo è Sal. 8,7 in cui si descrive la signoria dell'uomo sul creato: «Tutto tu (Dio) hai posto sotto i suoi (dell'uomo) piedi» (v. in Mc. 12,36 il colle gamento di Sal. 1 10,1 con Sal. 8,7) . I cristiani hanno riferito questo salmo a Gesù Cristo in quanto l'uomo escatologico o figlio dell'uomo (Ef 1 ,22); verisimilmente la spinta venne dall'espressione «figlio del l'uomo» (Sal. 8,5). Anche in questa citazione è discutibile se il sogget to che sottomette ogni cosa sia da vedere in Dio o in Cristo. Secondo il v. 28 a sottomettere qui è Dio. In Sal. 8,7 Paolo vede un accenno al l'universale signoria di Dio, e l'accentuazione del «tutto>> costituisce l'elemento di passaggio. Se Dio ha sottomesso «tutto» a Cristo, evi dentemente Dio, in quanto colui che sottomette, è escluso dal «tutto». Molti interpreti traducono questo passo nel modo seguente: «Ma quan do egli (Cristo) avrà dichiarato (dopo la sua vittoria su tutte le poten ze ostili): tutto (ora) è sottomesso ! » . Questa traduzione non fa risalta re a sufficienza che Paolo sta argomentando servendosi della Scrittura, e non descrive semplicemente gli eventi futuri. Nel v. 28 Paolo parla della compiuta signoria di Dio che fa seguito alla consegna al Padre del la signoria di Cristo, di cui s'è detto nel v. 24. Quando Cristo avrà por tato a termine il compito, posto con la sua signoria, di sconfiggere le potenze ostili a Dio, anche il figlio si sottometterà a colui che tutto gli ha sottoposto. Questo genere di spontanea sottomissione del figlio al Padre non toglie l'unità dell'operare di Padre e figlio. L'espressione di tenore mistico «affinché Dio sia tutto in tutto» non significa che Cri sto, la chiesa e il mondo «scompariranno» in Dio, ma pone l'accento sul carattere onnicomprensivo e pervasivo della signoria di Dio. In es sa sono diventate realtà i primi tre voti del Padrenostro e s'è superata la frattura tra chiesa e mondo, immanenza e trascendenza, tempo ed eternità. «Il compimento consiste ... nella fine di ogni disputa sulla 'ap partenenza del Cristo a Dio', com'è già stato detto in J,2J» (E. Schwei zer, Fs. Kummel, 3 1 2; cf. anche GLNT XIV, 200 s.). Il rapporto Padre-
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Cor. 1 5,.19-34· Risurrezione dei morti e vita nel presente
figlio vuoi dire una relazione fatta di amore e obbedienza. Forse Pao lo ha ulteriormente approfondito l'idea dell'obbedienza di Cristo nel la sua umiliazione che va al di là del suo innalzamento (Fil. 2,8- I I ) fi no alla sua subordinazione al Padre nella compiuta signoria di Dio. Come Cristo prima dell'evento salvi fico era uguale a Dio «in figura di vina» (Fil. 2,6), così nella signoria al termine della sua missione è stret tamente unito al Padre; la signoria di Cristo è assunta entro l'univer sale signoria del Padre (Fil. 2, I I c). Così, anche di coloro che apparten gono a Cristo si può dire che regnano con Cristo (cf. 2 Tim. 2, I 2 ) - non fin da adesso, come pensano i corinti (4,8), ma in futuro - e giudiche ranno il mondo (6,2; cf. Dan. 7, 2 7) . L'invio di Cristo e la destinazione dell'uomo hanno nella signoria di Dio il loro compimento ultimo. Da teologo della Scrittura Paolo descrive qui l'evento di compimento con l'aiuto dei due salmi interpretati messianicamente. In Sal. 1 I o, I si par la del kyrios, e nel v. 5 della distruzione dei re nel giorno dell'ira di Dio. In Sal. 8,5 s'incontra l'espressione «figlio dell'uomo», che corrisponde alla formula aramaica di Dan. 7, I 3 . Ciò fa pensare che il motivo della consegna della signoria del figlio al Padre (v. 24) corrisponda alla con segna del potere al figlio dell'uomo ad opera dell' «antico di giorni» ( = Dio) di Dan. 7, I 3 . Secondo una recente proposta di soluzione (0. Betz, ]esus und das Danielbuch, I 2 1 ss.), il termine «parusia» costituisce la chiave del rap porto con Dan. 7,I 3, dove i LXX usano lo stesso verbo da cui è de ri vato il sostantivo «parusia». L'accostamento di Sal. I IO, I e 8,7 con Dan. 7,1 3 ss. spiega anche la consegna della signoria del messia a Dio, che nella Scrittura non è attestata altrove. I vv . 2 3 - 2 8 non forniscono una presentazione completa dello svol gimento degli eventi finali. La pericope mostra quanto Paolo, con una sua rielaborazione creatrice, abbia messo a frutto nella sua escatologia a base cristologica l'attesa giudaica della fine. 4· Es empi del nesso tra la risurrezione dei morti
e la vita nel presente ( 1 5,29-34) .19 Giacché che farebbero, altrimenti, coloro che si fanno battezzare per i morti? Se proprio i morti non vengono risuscitati, perché allora si fanno battezzare per loro ? 30 Perché anche noi ci esponiamo al pericolo ogni mo mento? 3 1 Ogni giorno io muoio, com'è vero che voi, fratelli, siete il mio vanto che ho in Cristo Gesù, nostro Signore. 32. Se (solo) secondo il modo
1 Cor. 1 5 ,29-34. Risurrezione dei morti
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vita nel presente
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dell'uomo (= per questa vita) ho combattuto a Efeso contro le :fiere, a che mi gioverebbe? Se i morti non vengono risuscitati, allora «mangiamo e be viamo, perché domani saremo morti». 33 Non lasciatevi ingannare. «La cat tiva frequentazione guasta i buoni costumi». 34 Ritornate in voi secondo giustizia e non peccate. Giacché taluni non hanno conoscenza di Dio; ve lo dico a vostra vergogna. 31 2
Cor. 4, 10 s. 32 fs.
22, I J. 34 I
Tess.
s ,6-8.
Quanto l'apostolo ha detto fin qui a proposito della corrisponden za tra Adamo e Cristo e della vittoria finale di Cristo su tutte le po tenze ostili a Dio, si fonda sul vincolo indissolubile tra la risurrezione dei morti e la risurrezione di Gesù Cristo. Qui, ricorrendo ad alcuni esempi, mostra il significato della futura risurrezione dei morti per la vita presente. A questo scopo adduce un'usanza battesimale non pao lina della comunità di Corinto, la sua vita apostolica di sofferenze e la vita nella responsabilità etica. Il frutto della risurrezione di Cristo per il presente è la viva speranza dei cristiani (I Pt. 1 ,3) nella loro risurre zione al momento della parusia, speranza che dà prova di sé nell' ob bedienza cristiana. 2.9-34. All'inizio Paolo parla di «taluni» membri della comunità di Corinto che si fanno battezzare per i morti. La preposizione «per» (by per) significa qui «al posto, a favore» dei morti, come dimostra la frase che segue: se i morti non vengono risuscitati, la benedizione del batte simo non può più giovar loro e quel battesimo è affatto assurdo. Il co siddetto «battesimo vicario» per i morti presuppone la fede in un'effi cacia magica del battesimo. Per suo mezzo, parenti e familiari che ave vano accolto l'annuncio cristiano, ma erano morti prima di ricevere il battesimo, venivano a partecipare della benedizione del sacramento. Nei misteri dionisiaci era possibile compiere vicariamente i riti d'ini ziazione per defunti non iniziati. I padri della chiesa riferiscono come nel n e 111 secolo alcune sette cristiane (marcioniti, cerintiani, monta nisti) abbiano praticato il cosiddetto «battesimo vicario», proprio sul la base di I Cor. 1 5 ,29. Giovanni Crisostomo racconta, a proposito dei marcioni ti, come inscenarono il battesimo di un catecumeno morto: nascosero una persona sotto il catafalco, le fecero rispondere alla do manda rivolta al morto, se desiderasse il battesimo, dopodiché battez zarono il vivo per il morto. È difficile definire con precisione che futu ro attendessero per i loro morti i corinti sostenitori del battesimo vi cario. Se il battesimo doveva essere di una qualche utilità per i morti,
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I Cor.
I J,2.9-34· Risurrezione dei morti e vita nel presente
devono aver contato su una qualche forma di vita dopo la morte. Se condo il v. I 2 «tal uni» negano la risurrezione dei morti, e secondo il v . 29 «taluni» si fanno battezzare per i morti. La lettera dei due passi non obbliga a identificare i due gruppi, ma nemmeno ne esclude l'identifi cazione, che è assai verisimile. Per degli spiritualisti che nel dono dello Spirito che accompagna il battesimo vedono l'instaurazione decisiva di una nuova vita imperitura e attribuiscono al sacramento un'effica cia magica, il battesimo vicario ha senz'altro un senso. Paolo, che nega l'efficacia magica dei sacramenti al pari dell'anticipazione della risur rezione dei morti nel battesimo, non approva né condanna l'usanza co rinzia, ma l'adduce semplicemente come un esempio concreto, allo sco po di mettere in luce la contraddizione tra tale pratica e la negazione della risurrezione dei morti. Il v. 29 è uno dei passi più difficili e di scussi di questa lettera, per il quale non s'è ancora trovata una spiega zione unanime. Sono stati fatti numerosi tentativi di renderlo compren sibile in un senso che eviti il battesimo vicario. Sulla base di Mc. I 0,3 9; Le. I 2, 5 o, al verbo «essere battezzati» Schlatter dà il significato di « mo rire», pensando a dei predicatori che, nella sequela di Cristo, prendo no la morte su di sé, per servire ai morti con la loro testimonianza co me fece Cristo (cf. 1 Pt. J , I 9)· Altri (ad es. M. Raeder) riferiscono il pas so a non cristiani che entrano nella comunità allo scopo di essere uniti nella risurrèzione con i loro congiunti cristiani defunti. È però molto problematico che il «per» (hyper) possa avere questo significato finale dello sperato ricongiungimento con i morti. Secondo la lettera del te sto si deve pensare al battesimo vicario (W. G. Kiimmel; H. Conzel mann). Accanto al battesimo per i morti, nel v. 30 Paolo mette i peri coli cui a ogni ora è esposto nel suo ministero apostolico (cf. 2 Cor. I I , 26), nel corso del quale spesso ha dovuto mettere i n conto la possibili tà di morire. Senza risurrezione dei morti questa vita apostolica di pa timenti perderebbe il suo senso. Paolo chiama le persecuzioni, i tor menti e le sofferenze che deve sostenere ogni giorno un «morire quo tidiano» (cf. Rom. 8,36; 2 Cor. 4, I o s.; 6,9; I I ,2J). «Sempre, pur essen do vivi, noi veniamo esposti alla morte, affinché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor. 4, I 1 ). L'apostolo non ha esagerato, parlando di un morire quotidiano. Lo testimonia con una sorta di formula di giuramento sul vanto che la comunità di Corinto costituisce per lui. Più volte Paolo dice che nella parusia le sue comu nità torneranno a vanto per lui (Rom. I 5, I 7; 2 Cor. 1 , I 4; Fil. 2,I6; 1
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Risurrezione dei morti e vita nel presente
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Tess. 2, I 9 ). Questo vanto gli è stata accordato per l'opera di Cristo. Dal punto di vista linguistico sarebbe possibile intendere il termine greco kauchesis (vanto) in senso attivo, come il vantarsi di Paolo per i corinti (cf. 2 Cor. 7,8 ) , anche se i passi citati lo rendono inverisimile. Proseguendo con gli esempi concreti, il v. 3 2 non si presenta come un periodo ipotetico dell'irrealtà, ma come l'allusione a un fatto partico lare di cui Paolo ha fatto esperienza a Efeso. Dalla sua permanente condizione di pericolo, Paolo sceglie ora un caso di pericolo mortale particolarmente grave. In che consistesse in concreto il pericolo che lo minacciava e in che circostanzia gli sia occorso, non è detto. La grave angustia di 2 Cor. I ,8 - I I non è ancora in vista. L'espressione «combat tere contro le fiere» è usata in modo figurato per indicare una lotta in cui si tratta di vita o di morte (cf. Rom. 1 6,4) . Contro l'ipotesi di una vera lotta con le fiere nell'arena depone in primo luogo il fatto che Pao lo non ne fa parola in 2 Cor. I I , e in secondo luogo che chi era stato condannato alla fiere perdeva il diritto di cittadino romano (cf. Apoc. 22,2 5). L'espressione «secondo il modo dell'uomo» acquista senso dal la contrapposizione con la speranza nella risurrezione. Per chi conta solo sulle possibilità umane del vivere terreno la risurrezione dei mor ti è una vuota illusione. Senza la risurrezione sarebbe inutile in defini tiva sostenere i più gravi pericoli. La disponibilità del martire alla sof ferenza è sostenuta dalla speranza in una vita dopo la morte (cf. 2 Mace. 7,9 ). Quanto sta qui a cuore a Paolo non è un calcolo egoistico su una ricompensa celeste, ma il nesso per cui, se qui soffriamo con Cristo, con lui saremo poi anche glorificati (Rom. 8,I 7) . Se i morti non ven gono risuscitati, non ha senso addossarsi tanti patimenti, ma è invece senz'altro logico vivere secondo il detto di /s. 22,1 3 LXX (cf. Sap. 2, 6). Se tutto finisce con la morte, di regola si allenta la forza che fa sì che l'uomo si conduca in maniera responsabile, e diventa lecito godere il più possibile la vita terrena. Dalla citazione di fs. 22, 1 3 non si deve concludere che i negatori della risurrezione mettessero anche in prati ca quel detto. Al termine Paolo ritiene necessario mettere in guardia la comunità dall'illusione e dall'errore ( 6,9; Gal. 6,7) . A tale scopo si ser ve di un detto proverbiale assai diffuso a quel tempo: «la cattiva fre quentazione guasta i buoni costumi». Non è possibile appurare se Pao lo sapesse che si trattava di un verso giambico tratto dalla commedia Thais del poeta attico Menandro (circa il 3oo a.C.). Il proverbio mette in guardia dalle cattive frequentazioni in generale, perché hanno un
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effetto contagioso; dal contesto si capisce che la messa in guardia in clude a nche le chiacchiere ingannatrici dei negatori della risurrezione. L'entusiastico ottimismo dei pneumatici di Corinto, con cui ques ti s'illudono di essere già risorti con Cristo (cf. 4,8) e che induce alcuni di loro a negare la futura risurrezione dei morti, agli occhi dell' apo stolo è u no stato di esaltazione religiosa. Il vero «realismo» escatolo gico consiste per Paolo nel vivere la vita presente alla luce del giorno che verrà (1 Tess. s , 1 - 1 1 ). Egli esorta i corinti a p rendere atto della lo ro vera condizione, a mettersi sul terreno della misura e dell'equilibrio e a non minimizzare il peccato. Le conseguenze negative che la loro concezione entusiastica dello Spirito ha per la condotta di vita ( capp. 5 -7) mostrano come essi siano su una strada sbagliata. Sono bensì or gogliosi della loro conoscenza (8, I }, ma in realtà alcuni di loro non h anno alcuna conoscenza del Dio «che fa vivere i morti» (Rom. 4, 1 7) e non fanno che mettere in pratica la loro ignoranza del Dio vivente. Paolo, nella sua cura pastorale, non può risparmiare ai corinti questa dichiarazione umiliante. Col termine «alcuni» che era stato usato anche nel v. I 2 il cerchio intorno alla pericope I 5 , I 2-34 si chiude. f· Natura e modo della risurrezione ( I 5,3 5 -49) 3 s Ora qualcuno dirà: «Come vengono risuscitati i morti ? Con che corpo verranno?». 36 Stolto, quel che semini non prende vita se (p rima) non muo re. 37 E ciò che tu semini, non semini il corpo che nascerà, ma un nudo se me, di grano ad esempio, o di una delle altre piante. 38 E Dio gli dà un cor po come ha voluto, e a ciascun seme un corpo a lui proprio. 39 Non ogni carne è la medesima carne, ma una è la carne dell'uomo, altra la carne degli armenti, altra la carne degli uccelli, altra ancora quella dei pesci. 40 E vi so no corpi celesti e corpi terrestri; ma uno è lo splendore di quelli celesti, al tro quello dei terrestri. 41 Uno è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna, altro ancora lo splendore delle stelle; ogni stella, infatti, differi sce dall'altra per splendore. 42 Così anche la risurrezione dei morti: si se mina nella corruttibilità e si risuscita nell'incorruttibilità; 43 si semina nel l' ignominia e si risuscita nella gloria; si semina nella debolezza e si risuscita nella forza; 44 si semina un corpo naturale, si risuscita un corpo spirituale. Se c'è un corpo naturale, ve n'è anche uno spirituale. 45 Sta anche scrit to: il primo uomo, Adamo, divenne «Un essere (anima, psych e) vivente», l'ul timo Adamo divenne spirito (pneuma) vivificante. 46 Ma non (viene) pri ma il pneumatico, bensì lo psichico, e solo dopo il pneumatico. 47 Il primo
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uomo è dalla terra, terreno; il secondo uomo è dal cielo. 48 Come è fatto il (l'uomo) terreno, così sono anche i terreni; e come è fatto il (l'uomo) cele ste, così sono anche i celesti; 49 e come abbiamo portato l'immagine dell'uo mo terreno, porteremo anche l'immagine del(l'uomo) celeste. 36 Gv. 1 2.,14. 38 Gen. 1,1 1 . 45 Gen. 2.,7; Dan. 7, 1 3 s. 49 Rom. 8,.19.
5.1. La varietà dei corpi nell'antica creazione ( 1 5,3 5 -4 1 ) 3 5-4 1. Se fi n qui s'è respinto i l dubbio concernente i l «fatto» d ella risurrezione, ora il problema riguarda il «modo» di essa. Paolo affron ta ora in stile interrogativo un'importante obiezione che verisimil mente a Corinto dava adito a vivaci discussioni. Il problema del « mo do» viene subito precisato in questo senso: «Con che corpo i risusci tati verranno (fuori dai sepolcri)?». Con questa domanda, formulata in due tempi (come = con che corpo), si vuole dimostrare l'impossibi lità della risurrezione corporale. L'argomentazione di Paolo è rivolta contro due concezioni erronee della risurrezione, in primo luogo con tro l'irrisione dei negatori spiritualisti della risurrezione che ritengono impossibile una risurrezione del corpo una volta che questo sia putre fatto, in secondo luogo contro la concezione dominante nei circoli fa risaici, secondo cui con la risurrezione i corpi d'un tempo verrebbero restituiti nella stessa natura e aspetto (Bill. 111, 474). L'apostolo perciò sottolinea la realtà di un nuovo corpo spirituale e insieme la diversità del futuro corpo risorto rispetto a quello terreno. Come Gesù rese comprensibile agli uomini la futura signoria di Dio mediante parabole che attingevano alla vita della natura, così anche Paolo si serve qui della similitudine del granello seminato nel terreno, dal quale Dio crea una nuova pianta. All'apostolo è affatto estranea la moderna idea di sviluppo; egli intende la crescita come effetto della meravigliosa forza creatrice di Dio. La forza creatrice di Dio; potentissima e multiforme, quale la vecchia creazione ci dà modo di percepire, vale secondo Pao lo anche per la nuova creazione nel compimento escatologico. Chi ne ga la risurrezione è detto stolto, pazzo, non perché manchi d'intellet to, ma perché non riconosce nell'antica e nella nuova creazione la me ravigliosa forza di Dio (cf. Mc. 1 2,24). La prima risposta di Paolo nel v. 36 ribadisce come ogni cosa riacquisti la vita passando attraverso la morte. Il seme deve prima morire, se deve nascerne la nuova pianta (cf. Gv. 1 2,24). «C'è un morire che è la premessa del vivere» (A. Schlat-
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ter, 4 3 3 ). Sul fondamento della morte e risurrezione di Gesù, quel che si vede nel seme vale analogamente anche per i credenti, i quali sono «in Cristo». Per il nuovo genere di corporeità Paolo considera la du plice possibilità che nella parusia i morti vengano risuscitati e i vivi tra sformati (v. 5 1 ). La seconda risposta, che Paolo dà nel v. 3 7, mette in evidenza la diversità del futuro nuovo corpo rispetto a quello terreno. Nella terra si semina un semplice granello di frumento o di un'altra pianta. Poiché spesso corpo e abito sono usati come sinonimi, qui si parla del «nudo» seme; per Paolo il corpo terreno è «nudo» rispetto a quello nuovo che sarà rivestito di gloria. Il seme non ha ancora la na tura e la forma ( = corpo) del gambo e della spiga che Dio fa crescere da lui. Per Paolo, sulla base dell'Antico Testamento, una vita senza corpo non è pensabile. L 'uomo terreno ha un corpo naturale ed effi mero, quello risuscitato vivrà pure in un corpo, ma di tutt'altro gene re. La terza risposta, che l'apostolo dà nel v. 38, rinvia alla grande va rietà di corpi della vecchia creazione. La meravigliosa potenza creatri ce di Dio dà a ciascun seme «un corpo a lui proprio». Paolo ricorda la dovizia di generi e di forme di vita esistenti in natura, che al momento della creazione Dio ha prodotto secondo il suo volere (cf. Gen. 1 , 1 1 s.) Poiché nel versetto seguente gli esseri viventi terreni sono ordinati secondo i generi, anche l'affermazione sulle piante va interpretata in maniera analoga: Dio dà a ogni genere di seme una forma di pianta che gli è propria. La varietà dei corpi di cui parla l'immagine del seme vie ne ora mostrata e illustrata nella realtà della creazione. Gli esseri vi venti terreni hanno un corpo di carne (sarx) . L'antropologia biblica ve terotestamentaria non può venir compresa del tutto mediante la distin zione greca di materia e forma, sostanza e accidenti. Per il pensiero giu daico, in ogni essere vivente sostanza e forma esteriore sono legati tra loro in una viva unità organica. Gli esseri viventi terreni del mondo animale e umano possiedono un corpo di «carne e sangue» (v. 5 o), ma non hanno la medesima forma. «Carne» può designare tutto l'essere vivente nella sua forma concreta, quando si voglia esprimere la debo lezza, seducibilità e transitorietà dell'essere terreno. Sulla base del rac conto della creazione (Gen. 1 ,20 ss.), gli esseri viventi della terra ven gono suddivisi in uomini, animali terrestri, uccelli e pesci; questi gene ri si distinguono tra loro per la forma «carnale». Dai corpi terreni si differenziano i corpi celesti, che non consistono di carne e sangue, ben sì sono di natura celeste. Perciò Paolo, nel suo discorso, dal termine car-
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Natura e modo della risurrezione
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ne (sarx) passa qui a parlare dei corpi (somata). Il termine doxa riferi to a corpi celesti e terreni designa la lucentezza o lo splendore (G. Kit tel, GLNT n, 1 3 56); tuttavia, dal momento che l'aspetto esteriore fa tutt'uno con l'essenza, nel termine riecheggia anche la differenza tra la natura carnale degli esseri viventi terreni e la «natura di luce» dei cor pi celesti. I corpi celesti irraggiano uno splendore luminoso (doxa, Sir. 4 3,9 LXX), ma anche i corpi terrestri possiedono nel loro aspetto este riore uno «splendore» loro proprio. Anche i corpi celesti non brillano tutti della stessa luce né splendono della stessa chiarezza. Sole, luna e stelle hanno luminosità differenti e anche le stelle differiscono tra loro per lucentezza. 5.2.
Il corpo nuovo della risurrezione ( 1 5,42-49)
42-44. Paolo vede ora nella vecchia creazione, nella quale Dio crea di continuo corpi tanto svariati, un'analogia o una similitudine della nuova. Al riguardo, considera in primo luogo la totale eterogeneità del corpo risorto rispetto a quello terreno. La vecchia creazione è caratte rizzata da provvisorietà, debolezza e imperfezione; se la nuova deve invece permanere in eterno e conformarsi alla c·ompiuta signoria di Dio, dev'essere differente dal vecchio mondo (cf. Apoc. 2 1 ). Essa non è so lo di un genere diverso, ma opposto. Paolo dà voce a questa differen za fondamentale nella forma dichiarativa della sentenza col tempo al presente; nei vv . 42 ss., con tre concise antitesi retoricamente ben co struite, contrappone l'una all'altra la natura della vecchia e della nuo va creazione, prendendo in considerazione l'uomo in questo mondo e in quello futuro. Lo stesso Dio che nella vecchia creazione fa sorgere vita dalla morte è all'opera anche nella risurrezione escatologica. Nel v. 42, dalla metafora del chicco di semente trae l'immagine del semina re, applicandola all'uomo, il quale viene chiamato alla vita terrena in una maniera che lo lascia sottoposto alla corruttibilità. «Si risuscita nell'incorruttibilità»: la profonda frattura tra vita corruttibile e incor ruttibile non può venir superata dallo sviluppo naturale, ma solo dalla meravigliosa forza creatrice di Dio. «Si semina nell'ignominia» (ati mia): il contrario della gloria è la spregevolezza, nel senso di miseria; Paolo pensa all'uomo esposto al peccato e alla tentazione, privo della gloria di Dio (Rom. 3,2 3). «Si risuscita nella gloria»: il termine greco che qui s'introduce (doxa) designa la gloria escatologica della risurrezio-
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Cor. 1 5,3 s-49· Natura e modo della risurrezione
ne, di contro all'uomo terreno fallibile. «Si semina nella debolezza»: si intende l'uomo esposto alle avversità, alla malattia e alle sofferenze, in capace di fare il bene che vuole (Rom. 7, I 9). «Si risuscita nella forza» : il termine greco per indicare la forza (dynamis) viene spesso usato al posto di pneuma (cf. Rom. I ,4}, lo Spirito creatore di Dio. Dio, che ha risuscitato Cristo dai morti, vivificherà anche i corpi mortali dei cre denti mediante il suo Spirito che abita in essi (Rom. 8, 1 I ). La quarta antitesi (v. 44a) ricapitola le tre precedenti, riferendole specificamente alla corporeità: «Si semina un corpo naturale (psichi co), si risuscita un corpo spirituale (pneumatico)». Il concetto di «psichico» non ha nulla a che vedere con la dottrina greca dell'immortalità dell'anima, ma de signa piuttosto il corpo dell'uomo terreno (cf. 2, 14) . Il corpo psichico è il corpo dell'uomo naturale, fatto di carne e sangue, sul quale c'è l'impronta di Adamo; nel v. 47 è detto «terreno». Poiché Paolo pensa alla creazione dell'uomo prima del peccato originale, con l'espressione «corpo naturale» non s'intende sottolineare specificamente il dominio del peccato. Come il corpo psichico non è fatto di materia psichica, così nemmeno il corpo pneumatico è fatto di materia spirituale, ma è un corpo interamente permeato dallo Spirito di Dio (W.G. Kiimmel). Nel battezzato il corpo spirituale non è ancora presente sotto le spo glie del corpo terreno, ma verrà donato da Dio ai credenti solo in fu turo. Ai pneumatici di Corinto Paolo obietta che nell'uomo non c'è una «realtà intimissima», pneumatica e prodotta mediante i sacramen ti, «in cui la vita celeste sia a tal punto divenuta sua proprietà, da non rinviarlo all'atto creatore di Dio» (E. Schweizer, GLNT XIII, 705 ). La forma del corpo non costituisce l'elemento di continuità in cui la so stanza carnale si scambierebbe con quella pneumatica; Dio, invece, da rà all' «io», che resta identico in questa vita e in quella futura, un corpo conforme ai due diversi modi di essere. Il decisivo fattore di continui tà tra la vecchia e la nuova creazione è la meravigliosa potenza del Dio che resta fedele al suo originario progetto creatore e alle sue promes se. La proposta di vedere nel corpo spirituale il «corpo specificamente proprio» (idion soma) destinato all'uomo «perfetto» al momento della creazione (Ch. Burchard) riconosce con particolare energia l'unitarie tà d eli' operare divino nella vecchia e nella nuova creazione. 45-46. Con la tesi del v. 44b Paolo dà la risposta decisiva alla doman da del v. 3 5 . Nes suno può contestare l'esistenza del corpo naturale; a esso corrisponde escatologicamente un corpo spirituale. La tesi, già
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Natura e modo della risurrezione
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contenuta logicamente nella corrispondenza antitetica dei vv. 42b-44a, viene ulteriormente fondata teologicamente mediante l,Antico Testa mento e la cristologia. Nel v. 4 5 Paolo collega il passo. Gen. 2,7 con la risurrezione e l'innalzamento di Gesù Cristo. Nella pri fna metà del ver setto si basa sul testo greco di Gen. 2,7 LXX, in cui completa il sog getto «l'uomo» con «il primo» e «Adamo», al fine di chiarire la corri spondenza tra il primo Adamo, terreno, e il secondo, escatologico ( = Cristo). Su Adamo plasmato con la polvere della terra Dio soffiò un «alito di vita», e quegli divenne «un'anima vivente», cioè un essere vi vente. In quanto creatura terrena Adamo ha vita in virtù dell' «anima» . A questa citazione Paolo collega nel v. 4 5 b un'affermazione cristolo gica, che per lui discende da Gen. 2,7 in conformità al disegno salvifì co divino, sulla base della tipologia Adamo-Cristo: l'ultimo Adamo divenne «Spirito vivificante». Così l'apostolo descrive Gesù Cristo ri sorto e innalzato, che opera mediante lo Spirito (cf. Rom. 1 ,4; 2 Cor. J , 1 7). A proposito del Cristo preesistente non si parla di pneuma, men tre quello fatto uomo era «nella forma della carne peccatrice» (Rom. 8,3). Mediante lo Spirito di Dio e di Cristo, ai credenti che nel battesi mo hanno già ricevuto la «primizia» dello Spirito (Rom. 8,2 3), nella fu tura risurrezione il creatore donerà anche un corpo spirituale confor me alla forma d'essere escatologica. La certezza di questo corpo esca tologico spirituale non viene a Paolo solo dall'impiego tipologico di Gen. 2,7; essa è per lui altrettanto certa della sua vita di apostolo, poi ché il Gesù Cristo innalzato al modo d'essere celeste che opera me diante lo Spirito gli è apparso presso Damasco e l'ha chiamato a essere apostolo. I termini «psichico» e «pneumatico» del v. 46 corrispondo no al corpo psichico e pneumatico del v. 44; è quindi possibile, ed ef fettivamente appropriato, completare con «corpo», ma Paolo ha scel to volutamente una formulazione generale poiché quel che i corinti non ammettono è proprio un «corpo» pneumatico. Secondo l'inter pretazione tipologica di Gen. 2,7 il primo modo di essere non è quello pneumatico escatologico che porta l'impronta di Cristo, ma quello psichico, che porta il segno di Adamo e definisce la vita terrena. Sulla nuova vita dei cristiani prodotta dal battesimo la croce getta ancora la sua ombra, e il corpo dei credenti deve ancora passare attraverso la morte. D'altra parte è un fatto che sta sotto gli occhi di tutti che nella storia Cristo è venuto molto più tardi di Adamo. 47-49. È controverso quale sia la concezione storico-religiosa che
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Cor. I S , J S -49· Natura e modo della risurrezione
Paolo sostiene nell'osservazione incidentale del v. 46. Il filosofo giu deo-ellenistico Filone di Alessandria che, anche se la cosa non è certa, forse presuppone un antico mito dell'uomo primordiale o di due uo mini primordiali antitetici, parla di due generi (gene) di uomo, quello celeste e quello terreno (Ali. 1 ,3 1 s.), e vede nell'uomo citato in Gen. 1 , 27, conforme all'idea di Dio (secondo il dualismo platonico), l'uomo ideale) e in quello di cui parla in seguito Gen. 2,7, formato con la pol vere della terra, l'Adamo terreno (Op. I 34) - mentre in seguito la gnosi sfrutterà in maniera affatto speculativa Gen. 2,7. Su Paolo, inve ce, in « I Cor. 1 5 ,45-49 esercita probabilmente la sua influenza la tra dizione protocristiana del figlio dell'uomo» (Wilckens, Rom. 5, 3 1 3). Il v. 46 si può comprendere anche come una rettifica della posizione dei pneumatici di Corinto che, in forza del dono dello Spirito nel battesi mo, si illudono di essere già nell'esistenza escatologica, ossia di essere già «risorti», e quindi sottratti alle condizioni terrene. A essi Paolo ri sponde che ciò che viene per primo, in cui siamo già ora, non è l'esi stenza determinata interamente dallo Spirito nella quale anche il cor po è trasformato, ma la vita del credente nella situazione terrena. La vita della risurrezione nel corpo spirituale verrà solo con la parusia. Nel v. 47 l'apostolo si occupa più specificamente dei due rappresen tanti dell'umanità, Adamo e Cristo, menzionati nel v. 4 5 · Il primo uomo è detto terreno: è fatto di terra e terrestre è il suo genere. Il se condo uomo è descritto in base alla sua origine: egli è «dal cielo». Dal momento del suo innalzamento, Cristo è in cielo, da dove è atteso nella parusia come il salvatore «che trasfigurerà il corpo della nostra umiltà, per renderlo uguale al corpo della sua gloria (Fil. 3,20 s. ) . L'uomo dal cielo è contraddistinto da incorruttibilità, gloria e poten za (cf. vv 4 2 b -44a) . È materia di dibattito tra gli studiosi se questo di scorso sull' «uomo» celeste si colleghi col figlio dell'uomo di Dan. 7, 1 3 s. che l'apocalittica giudaica ha identificato col messia (Hen. aeth.; 4 Esd. ). Più volte Paolo allude a passi di Dan. (ad es. in Rom. 5 , 1 3 al lude a Dan. 7, 1 0, in Rom. 9,28 a Dan. 5 ,28 LXX, in I Cor. 6,2 a Dan. 7,22, in I Cor. 1 3,3 a Dan. 3,19 s. e in Fil. 2, 1 5 a Dan. 1 2,3); a mio pa rere ha conosciuto la concezione del figlio dell'uomo di Dan. 7, 1 3 ss. e l'ha sfruttata nella sua teologia di 1 Cor. 1 5,4 5-49, anche se non usa direttamente il termine «figlio dell'uomo». In ogni caso Paolo conce pisce Cristo come l'uomo escatologico che alla fine dei tempi, dopo la parusia, annienterà tutte le potenze ostili a Dio (cf. vv 24 e 28). Ada.
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1 Cor.
1 5 ,3 5 -49. Natura e modo della risurrezione
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mo e Cristo non sono rappresentati solo come singole personalità, ma come rappresentanti della vecchia e della nuova umanità. La concezio ne personale individualistica della risurrezione sta all'interno di una visione universale cosmica. Il genere di ciascun «Adamo» determina quello di coloro che gli appartengono. Gli uomini naturali apparten gono all'Adamo terreno in forza della derivazione fisica. Gli uomini che sono «in Cristo» appartengono al Gesù Cristo innalzato in forza dell'unione col loro Signore, prodotta dallo Spirito nella fede. Perciò anche qui analogia e diversità s'intrecciano. «Come è fatto il (l'Ada mo) terreno, così sono fatti anche i (gli uomini) terreni, e come è fatto il (l'Adamo) celeste, così sono fatti anche i (gli uomini) celesti». Ada mo ha un corpo cui dà la vita l'anima (in ebraico nefes; in greco psy che) ; così anche i discendenti di Adamo hanno un corpo animale, ter reno. Cristo è stato innalzato al cielo e opera mediante lo Spirito; così anche coloro che appartengono a lui, nella risurrezione escatologica con corpo e spirito saranno plasmati interamente dallo Spirito di Dio e di Cristo. Se in questo contesto i cristiani sono detti uomini «cele sti», ciò vale di loro in quanto uomini che sperano, che cioè già ora sono uniti nella fede col Cristo innalzato, ma che solo in futuro rice veranno il nuovo corpo e saranno «portati in cielo» con Cristo (cf. Ef. 2,6). Il versetto non dice che i cristiani, per quanto imitino Cristo, lo eguaglieranno nel loro comportamento etico, né attribuisce loro una azione salvifìca quale quella che Gesù Cristo ha compiuto con la mor te in croce. I «santificati in Cristo GesÙ» ( 1,2) sono credenti che han no ricevuto l'opera riconciliatrice di Dio in Cristo. Che cosa prema a Paolo, lo chiarisce meglio il v. 49· La frase (all'aoristo) «come abbiamo portato l'immagine del(l'Adamo) terreno» è formulata dalla prospetti va del compimento escatologico. In questo mondo, in quanto uomini mortali, portiamo ancora in noi l'immagine dell'Adamo terreno. «Im magine» si avvicina qui a «figura», che è portata quasi fosse una veste e designa però anche il modo d'essere di chi la porta: «si è appunto ciò che si porta» (E. Brandenburger). Prendendo le distanze da uno sche ma atemporale di immagine come archetipo, nella seconda parte della frase Paolo impiega volutamente il futuro: «così porteremo anche l'im magine di quello (l'uomo = Cristo) celeste», beninteso nel corpo spiri tuale escatologico. Paolo pensa qui manifestamente all'equiparazione «del corpo della nostra umiltà» col «corpo della sua gloria» (Fil. 3,2 1 ; cf. Rom. 8,29) .
2.98
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Cor. 1 s. so-s8. Trasfonnazione dei credenti e vittoria sulla morte
Le argomentazioni dell'apostolo nei vv . 44b-49 non presuppongo no che i corinti sostenessero una cristologia gnostica dell'uomo pri mordiale redentore. Paolo ribadisce la natura di futuro e la certezza del nuovo corpo risorto contro la concezione che vede nel battesimo, e quindi al presente, la risurrezione, e contro la sopravvalutazione dello Spirito nei pneumatici di Corinto. 6. Trasformazione dei credenti e vittoria sulla morte
nella compiuta signoria di Dio (1 s,so- s 8)
50 Questo affermo, fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né la corruttibilità eredita l'incorruttibilità. 5 1 Ecco, vi dico un mi stero: non tutti ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati, s 2 in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba. Suonerà, infatti (la tromba), e i morti saranno risuscitati incorrotti e noi verremo trasfor mati. 5 3 È necessario, infatti, che questo corpo corruttibile rivesta l'incor ruttibilità e che questo corpo mortale rivesta l'immortalità. 54 Quando que sto corpo corruttibile avrà rivestito l'incorruttibilità e questo corpo morta le l'immortalità, sarà adempiuta la parola che sta scritta: «La morte è stata ingoiata nella vittoria. 5 5 Morte, dov'è la tua vittoria? Morte, dov'è il tuo pungiglione?». 56 Il pungiglione della morte è il peccato, e la forza del pec cato è la legge. 57 Ma siano rese grazie a Dio che ci concede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. 5 8 Perciò, miei fratelli carissimi, sia te saldi, irremovibili, e abbondate sempre più nell'opera del Signore, sapen do che la vostra fatica, nel Signore, non è vana. JI l Tess. 4, 1 s - 1 7. s� Mt. 24,J I; l J , I J; 7,8 . S 7 Rom. 7,2 5 . sS I 6, I J .
Tess. 4JI6.
Sl 2
Cor. 5·4· S4 1S. 2 f,8. ss Os. I J ,I4· s6 Rom.
50. Il. v. 5 0 ha funzione di raccordo; da una parte, sottolineando la differenza tra il corpo naturale e quello spirituale, conclude l'argo mentazione dei vv. 3 6-49; dall'altra, rivolgendosi di nuovo ai fratelli, introduce la descrizione dell'evento escatologico del compimento. Contro la concezione spiritualistica della risurrezione degli entusiasti di Corinto, Paolo afferma la corporeità dell'esistenza escatologica, non dandosi, per il suo modo di pensare, vita senza corpo. Con pari deci sione, però, ribadisce anche la totale eterogeneità del corpo risorto ri spetto alla corporeità terrena. L'apostolo non sostiene l'esatta restitu zione del corpo precedente, com'era stato ammesso dai rabbi nell'in teresse dell'identità della persona; in materia Paolo segue Gesù, che nella disputa con i sadducei ha paragonato la forma dell'esistenza esca-
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Cor. 1 s,so- s 8. Trasformazione dei credenti e vittoria sulla morte
299
tologica con quella degli angeli (Mc. 1 2, I 8-27 par.). Della netta frattu ra tra la vita storica terrena e quella pneumatica escatologica Paolo ha già detto nei vv. 42-44. Questa cesura riguarda tutti, non solo coloro che sono morti in Cristo, ma anche quei cristiani che sperimenteranno ancor vivi il giorno della parusia. Nessuno potrà partecipare alla com piuta signoria di Dio col corpo «di carne e sangue» (cf. Gal. I , I 6) con cui gli uomini vivono in questo mondo. Paolo usa al riguardo la for mula protocristiana «ereditare il regno di Dio» (Mt. 2 5,34; I Cor. 6,9 s.; Gal. 5 ,2 I }, connessa con l'idea dell'eredità della terra promessa (cf. Deut. 19, 1 4). Le due proposizioni dei vv. 5 0a e 5 0b non sono da rife rire rispettivamente ai viventi e ai morti, nel senso di un parallelismo dei membri di tipo sintetico (J. Jeremias); esse descrivono con uguale significato la condizione della corruttibilità. «Carne e sangue» è espres sione giudaica corrente per indicare gli uomini di questo mondo, il cui sangue sostiene la vita come sua linfa vitale. L'uomo mortale è sotto posto nella sua interezza alla corruttibilità, la quale non può evolvere da sé nell'incorruttibilità. 5 1- 5 8. Col tono festoso di un avvio importante, nel v. 5 1 Paolo dà risposta alla domanda sul destino di quei cristiani che al momento del la parusia saranno ancora vivi. Lo fa con una frase che egli stesso defi nisce un «mistero», poiché riguarda l'operare salvifico di Dio nel fu turo, non un evento della storia che sta alle nostre spalle. Si tratta di un'anticipazione profetica che è stata manifestata a Paolo (o a qualche altro profeta) nello Spirito (cf. Rom. I 1 ,2 5 ). È pressoché impossibile delimi tare con precisione il contenuto di tale rivelazione; la ripetizio ne dell'affermazione relativa alla trasformazione (v. 5 1 e fine del v. 5 2) rende verisimile che con l'espressione «suonerà, infatti, la tromba» inizi il chiarimento di Paolo (Ch. Wolff}; si veda l'immagine analoga in 1 Tess. 4, 1 6 e in Mt. 24,30 s. È ben difficile che la frase di 5 1 b voglia dire che tutti i cristiani sperimenteranno da vivi la parusia; il suo senso è piuttosto che «non tutti ci addormenteremo, ma tutti saremo tra sformati» (H.D. Wendland). Nel «mistero» che viene comunicato, ciò su cui è posto l'accento è che nessuno può partecipare all'escatologica signoria di Dio così com'è ora. Secondo il chiarimento dell'apostolo del v. 5 2, i morti risorgeranno «incorruttibili», dunque col nuovo cor po spirituale, e coloro che a quel momento saranno ancora in vita sa ranno «trasformati». Nell'occasione Paolo, col risalto dato al «noi», esprime la sua aspettativa di sperimentare da vivo la parusia (cf. I Tess.
300
1 Cor.
t
J,so-s8. Trasformazione dei credenti e vittoria sulla
morte
4, 1 5 - 1 7). In molti manoscritti, quest'attesa rimasta irrealizzata viene corretta con un mutamento del testo. Paolo non condivide la conce zione apocalittica secondo cui tutti risorgeranno col vecchio corpo per il giudizio finale, dopodiché l'aspetto dei giusti sarà trasformato nella gloria mentre quello degli empi muterà in peggio (Bar. syr. 50 s.; cf. Dan. 1 2,2). In I Tess. 4 e in I Cor. 1 5 l'accento è posto sulla fonda mentale equivalenza della trasformazione nel nuovo corpo per i morti e per chi alla parusia è ancora in vita. Chi muore prima del ritorno di Cristo non è svantaggiato, come temono i tessalonicesi, e nemmeno favorito; Paolo non dice mai che il dono del nuovo corpo ha luogo per i cristiani subito dopo la morte. Nel v. 5 2a viene descritta con mo tivi apocalittici tradizionali il carattere improvviso e miracoloso dell'in staurarsi del compimento. La trasformazione del vecchio mondo av viene «in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima trom ba». Alla fine della storia, per descrivere gli avvenimenti i criteri usuali di spazio e tempo vengono meno. Con l'ultima tromba non s'intende l'ultima di una serie di sette (cf. Apoc. 1 1 , 1 5 ), bensì la tromba escato logica che introduce l'atto finale (/s. 27, 1 3; Sof 1 , 1 6; Zacc. 9, 1 4). «La tromba risuonerà con clamore; tutti la sentiranno d'improvviso e ne saranno spaventati» (4 Esd. 6,23). L'inizio degli eventi finali al momen to della parusia è descritto in maniera analoga in 1 Tess. 4, 1 6: «Il Si gnore, a un cenno di chiamata, a una voce dell'arcangelo e alla tromba di Dio, discenderà dal cielo» (cf. Mt. 24,3 1 ). In queste espressioni si di ce anche che Dio determina il momento della fine (Mc. 1 3,3 2). Nel l'apocalittica è per lo più un angelo che suona l'ultima tromba; Paolo usa il verbo in forma impersonale: «vi sarà suono di tromba» (Bauer). Allora i morti saranno risuscitati incorruttibili e «noi» verremo tra sformati. Nel v. 5 3 l'apostolo, parlando di ciò che dovrà accadere se condo il disegno salvifico di Dio, dice sinteticamente quanto riguarda i morti e coloro che saranno vivi al momento della parusia. Descrive la trasformazione nella corporeità escatologica con l'immagine, diffu sa nell'antichità, di una veste che s'indossa (2 Cor. 5,4), cui aveva già accennato nel v. 49· Ai credenti, che hanno rivestito il Cristo nel bat tesimo (Gal. 3,27), è dato sperare che nell'ora del compimento la forza creatrice di Dio li rivestirà del corpo spirituale. Secondo l'aspettativa apocalittica i giusti e gli eletti saranno rivestiti della «veste della glo ria» e della «veste della vita» (Hen. aeth. 62, 1 5 s.). Paolo rinuncia a de scrivere più in dettaglio lo stato del compimento, ma sottolinea, con-
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Cor. 1 s,so- s 8. Trasformazione dei credenti e vittoria sulla morte
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tro i pneumatici di Corinto, il carattere futuro del processo escatolo gico di trasformazione. Quando la natura terrena sarà rivestita d'in corruttibilità e il corpo mortale d'immortalità, sarà divenuto realtà quel superamento della morte che promette la Scrittura. A questo scopo Paolo fa riferimento a due parole dei profeti. Il primo, Is. 2 5 ,8, nel te sto ebraico dice: «Egli (Dio) distruggerà per sempre la morte». Paolo segue qui una traduzione greca che si scosta dai LXX. La seconda pa rola, Os. I J, I4, nel testo originale suona: «Dov'è, o morte, il tuo fla gello ? Dov'è, o inferi, la vostra peste?». Qui, nel v. 5 5 , la citazione pao lina coincide con i LXX, che però leggono: «Morte, dov'è il tuo dirit to? Inferi, dov'è il vostro pungiglione ?». Lutero, basandosi su un'altra tradizione, traduce: «Morte, dov'è il tuo pungiglione ? Inferno, dov'è la tua vittoria?». Mentre nel testo ebraico Dio evoca il flagello pestife ro della morte come minaccia per il popolo riottoso, Paolo assume queste domande in combinazione con Is. 2 5,8 come espressione della vittoria sulla morte. Dio rimane fedele alle sue promesse e per mezzo di Cristo sconfiggerà anche l'ultimo e più potente nemico, la morte. «Considera ora le sue parole, con che potenza a partire dalla Scrittura parla della morte e la descrive come fosse del tutto ingoiata e tracan nata, così che più nulla rimane di quella che ha divorato e ingoiato tut ti gli uomini» (Lutero). Il v. 56 fa l'effetto di una glossa di commento, ma non c'è alcun mo tivo di trattarlo come un'interpolazione. Nei vv . 3 5 -49 Paolo non ha considerato il nesso, per lui costitutivo, della morte con legge e pecca to; ora, con due frasi concise che hanno forma di tesi, mostra come per la sua teologia la risurrezione dei morti sia inseparabile da peccato e legge e dalla giustificazione mediante la morte espiatrice e vicaria di Cristo. Il termine «pungiglione» si usa per indicare sia il pungolo ap puntito (Prov. 26,3; Sir. 3 8,2 5 ) sia l'aculeo mortifero dello scorpione (Apoc. 9, I o); in senso traslato simbolizza un dominio dispotico (cf. 1 Re I 2, I I ) . Secondo Paolo è il peccato che conferisce alla morte il suo diritto sui peccatori e il suo potere dispotico sugli uomini. La legge è la potenza del peccato, poiché aiuta il peccato a esercitare la sua signo ria: «senza la legge, infatti, il peccato era morto» (Rom. 7,8). Il peccato si serve del comandamento, lo usa come trampolino e suscita i deside ri. La legge rende imputabile il peccato (Rom. 5 , 1 3) e accusa il pecca tore nel giudizio finale (Rom. 2, 1 2). Da quest'infausta combinazione di peccato, legge e morte, Dio ci ha liberati mediante l'evento della
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La speranza paolina nella risurrezione
salvezza in Gesù Cristo (Rom. 8). Con lo sguardo rivolto alla definiti va vittoria della vita sulla morte, Paolo esce in un'esclamazione di rin graziamento a Dio (cf. Rom. 7,2 5). Con la proposizione relativa col verbo al presente, «che ci dà la vittoria», si vuoi dire che fin d'ora i credenti sono riconciliati con Dio mediante la morte di Cristo. N ella risurrezione escatologica verranno liberati anche del loro corpo cadu to in preda alla morte. Il gioioso grido di ringraziamento non è ancora la conclusione dell'apostolo. È caratteristico della speranza di Paolo nella risurrezione il trarne delle conseguenze per la vita nel presente. Dopo aver sottolineato la sua unione con i «fratelli carissimi» e con le sorelle, esorta la comunità di Corinto a non lasciarsi distogliere dal vangelo che egli ha predicato loro (vv . 3 - 5 ), vangelo che, con la risur rezione di Gesù Cristo, fonda la speranza nella futura risurrezione dei morti. La speranza nella risurrezione si dimostra nella fede fattiva. La comunità è l'edificio di Dio; i predicatori portano avanti l' «opera del Signore>> (3,9; I 6, 1 o) come collaboratori di Dio; in quest'opera di edi ficazione della comunità tutti i membri di essa devono collaborare e in tal modo progredire. L'ultima frase del capitolo sulla risurrezione dei morti getta un'occhiata fiduciosa verso il fine nella compiuta signoria di Dio. Il faticoso lavoro al servizio del Signore, che ha vinto peccato e morte, avrà il suo riconoscimento nella futura gloria dell'universo trasformato dalla potenza creatrice di Dio. Excursus La speranza paolina nella risurrezione
Con la sua attesa della futura risurrezione e trasformazione dei cor pi, Paolo si colloca nella tradizione della promessa profetica della vit toria sulla morte, della predicazione di Gesù e dell'apocalittica giudai ca; ma il modo in cui egli fonda sulla morte e risurrezione di Gesù Cri sto la speranza nella risurrezione lo separa dall'attesa giudaica del fu turo e, ancor più, dalle concezioni greche ellenistiche dell'aldilà. In Grecia la risurrezione dei morti era considerata impossibile (Omero, Iliade 24, 5 5 1 ; Eschilo, Eumenidi 648), oppure un miracolo che poteva riguardare casi singoli (Platone, Symp. 1 79c). Ai greci era estranea una risurrezione universale dei morti al termine della storia, e Paolo evidentemente si discosta dall'idea greca ellenistica di eternità. Mai egli si confronta direttamente con la dottrina filosofica dell'im-
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mortalità dell'anima; per Paolo, che concepisce la risurrezione come rivivificazione di tutto l'uomo in virtù di un atto creatore di Dio, quel la nell'immortalità dell'anima non è una vera speranza (cf. 1 Tess. 4, 1 3 ). Contro un totale dissolvimento dello spirito umano nella divinità come nella mistica ellenistica, e contro la trasformazione o divinizza zione dell'uomo mediante un atto cultuale d'iniziazione come nelle religioni misteri che, l'apostolo afferma che nulla nell'uomo sopravvi ve a quella radicale interruzione della vita operata dalla morte in quan to verdetto pronunciato sul peccato. Nell'Antico Testamento si racconta, per l'epoca più antica, di sin gole risurrezioni miracolose dai morti a proposito dei profeti Elia ed Eliseo (1 Re 1 7, 1 7-24 e 2 Re 4,1 8-3 7; 1 3,20 s.), che però non ebbero alcuna influenza sull'antica concezione che i morti vivono un' esisten za umbratile nella tomba o nello sheol (gli inferi), dove non c'è Dio (le cose stanno diversamente in Sal. 1 39) né lo si ringrazia (Sal. 6,6 ) . Tut tavia, la fiducia nella fedeltà di Dio al patto stipulato, che non si ferma nemmeno davanti alla morte, condusse al «ciò nondimeno» della fede nel nascondimento in Dio (Sal. 73,23 s.; cf. Sal. 1 6, 1 o; Giob. 19,2 5 ss.). La vera e propria fede nella risurrezione ha inizio con l'apocalisse di /s. 24- 27 (intorno al 300 a.C.), in /s. 26, 19, ed è testimoniata chiara mente in Dan. 1 2,2 s. (circa il 1 6 5 a.C.), dove si parla di una risurre zione «alla vita eterna» e «all'eterna infamia e vergogna>>. Sulla que stione dell'influenza dell'escatologia persiana sulla fede nella risurre zione gli studiosi recenti si sono fatti molto più cauti. - La fede nella risurrezione ha avuto sostegno soprattutto nell'idea di remunerazio ne, che porta a una risurrezione dei giusti (i martiri delle guerre mac cabaiche non possono rimanere esclusi dalla signoria di Dio, cf. 2 Macc. 7,9. 14 ), e nell'idea di giustizia {tutti debbono essere indotti a render conto). I sadducei (Mc. 1 2, 1 8-27 ) e i samaritani rifiutavano la risurrezione in quanto era un'innovazione. Per contro, i farisei basa vano la fede nella risurrezione sulla preghiera (seconda benedizione della preghiera delle Diciotto benedizioni) e, dopo la distruzione di Gerusalemme, la elevarono a dogma: «Chi nega la risurrezione non ha parte al mondo futuro» (Sanh. 1 0, 1 ; Bill. 1, 923 ) . Nell'apocalittica giudaica si trovano testimonianze chiare e descrizioni dettagliate della risurrezione dei morti soprattutto nell'apocalisse di Hen. aeth. (ad es. 5 1 , 1 ) , nell'apocalisse di 4 Esd. (ad es. 7,32 ) e nell'apocalisse di Bar. syr. ( 5o s.). La distinzione di una risurrezione dei giusti precedente l'inter-
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regno messianico dalla risurrezione universale dei morti alla fine del mondo (cf. Apoc. 20) s'è imposta nella sinagoga solo all'inizio del III sec. d.C. (Bill. 111, 827 s.). In Mc. 1 2,18-27 Gesù fonda la risurrezione dei morti con l'idea di Dio di Es. 3,6 e definisce la vita dei risorti un «essere come gli angeli del cielo)) (cf. Dan. I2,J; Bar. syr. 5 1,10: «diverranno uguali ad angeli e simili alle stelle»). L'apostolo Paolo ha fondato e rimodellato in maniera decisiva la fe de nella risurrezione a partire dalla cristologia: Al pari di Gesù prende le distanze dalla concezione farisaica che i morti risorgano così come sono stati deposti nel sepolcro (cf. Bar. syr. 5 o,2: «Allora il loro aspet to non sarà cambiato. Giacché, quali essa [la terra] li ha accolti, così anche li renderà»; nel cap. 5 I questa tesi viene combinata con un mu tamento d'aspetto in meglio o in peggio, secondo Dan. I2,2). D'altro canto, nella sua controversia con la concezione della salvezza dei pneumatici entusiasti di Corinto, ha energicamente evidenziato il ca rattere corporeo e futuro della risurrezione dei morti. L'innesto del credente, mediante il battesimo, nella morte e risurrezione di Gesù Cristo è il fondamento della nuova trasformazione dei cristiani (Rom. 6,4), ma la conformità col Cristo innalzato nella risurrezione si realiz zerà solo in futuro (Rom. 6, 5 .8). Per la fede nella risurrezione di Paolo sono quindi essenziali i tratti seguenti: I. Paolo concepisce la risurrezione di Gesù Cristo come la base e l'anticipazione dell'escatologica risurrezione dei morti. Gesù è la «pri mizia di coloro che si sono addormentati» ( I Cor. 1 5,2 0). Attraverso la sua risurrezione Cristo è stato insediato come salvatore (Fil. 3,2o; Atti 5,30 s.), giudice (2 Cor. 5,Io; Atti 10,40-42) e kyrios (Fil. 2,9 ss.). Questa concezione domina in tutto il Nuovo Testamento. Gesù è «l'inizio, il primogenito dai morti» (Col. I,I8), primogenito di molti fratelli (Rom. 8,29), il principe della vita (Atti J,I 5), il primo nella ri surrezione dei morti (Atti 26,23), l'autore della salvezza (Ebr. 2,ro). 2. Paolo non concepisce la risurrezione come un processo che ri sulti per evoluzione dalla natura dell'uomo, ma come un operare crea tore di Dio sull'uomo (cf. Rom. 4,I7). Come Gesù fu risuscitato «ad opera della gloria del Padre» (Rom. 6,4), così Dio, che ha risuscitato Cristo dai morti, farà vivere col suo Spirito i corpi mortali (Rom. 8,1 r ) «mediante quella potenza con cui può sottomettere a sé ogni cosa» (Fil. J , 2 I; cf. I Cor. 6,14; Ef. 1 ,19 s.; Mc. 1 2, 24). Gloria, Spirito e po-
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3o5
tenza includono in uno stesso significato il portentoso agire creatore di Dio che supera la morte (cf. l'espressione vetero testamentaria rela tiva al braccio teso o forte di Dio, Es. 6,6; /s. 5 J, I; 62,8). 3. L'azione creatrice di Dio nella risurrezione concerne tutto l'uo mo. Poiché Paolo, secondo il modo di pensare veterotestamentario, non sa rappresentarsi la vita senza corpo e concepisce l'uomo in ma niera unitaria come essere vivente con corpo, (anima) e spirito, prende sul serio la morte del corpo vedendovi la fine radicale di tutto l'uomo - mentre gli spiritualisti la riferiscono solo al corpo materiale - e giu dica la morte la «mercede del peccato» (Rom. 6,23). A ciò corrisponde l'idea che la risurrezione non è in primo luogo il ricongiungimento del corpo con l'anima, ma la rigenerazione di tutto l'uomo in un nuo vo corpo spirituale (soma pneumatikon ), conforme alla forma del l'esistenza escatologica. L'identità della persona responsabile si man tiene mediante la fedeltà di Dio alla sua promessa, non mediante com ponenti materiali, l'aspetto, o un qualche nucleo spirituale dell'uomo naturale. 4· Paolo collega la risurrezione dei morti alla parusia di Cristo e al futuro compimento del mondo. Di fronte all'attesa giudaica del futu ro egli sottolinea il carattere presente della salvezza, poiché in Gesù Cristo il messia è già apparso (2 Co r. 6,2 ) , ma di fronte alla concezio ne della salvezza al presente dei pneumatici di Corinto egli sottolinea invece risolutamente che la risurrezione è ancora a venire ( 1 5 ,22, ecc.; 2 Cor. 4, 14). Paolo spera di poter essere testimone della vicina parusia ( 1 5 , 5 I s.). Egli colloca la risurrezione dei morti all'interno di un pro cesso cosmico di rinnovamento, al termine del quale la potenza della morte verrà annientata. Secondo Rom. 8, 1 8-2 5 non solo i credenti so spirano nell'attesa della redenzione del corpo, ma anche l'intera crea zione anela al manifestarsi dei figli di Dio. In Paolo l'ammissione di una prima risurrezione al fine di partecipare all'interregno messianico, e di una seconda risurrezione universale dei morti per il giudizio fina le non è documentata direttamente né in I Cor. 1 5 ,24 né in Fil. J, I I, ma sulla base di Dan. 7 non è nemmeno da escludersi (cf. a 1 5 ,24). Pao lo è consapevole che l'esistenza nel compimento escatologico non può essere descritta in maniera oggettivante mediante i concetti del mondo spazio-temporale. Perciò rinuncia, come Gesù, a dipingere in concre to la vita eterna, mettendo l'accento sull' «essere presso il Signore» (I Tess. 4,1 7; Fil. 1 ,23; cf. 1 Cor. I J, I 2; I 5,49).
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5 . Paolo non usa mai le espressioni «risurrezione di tutti gli uomini>>, «risurrezione dei giusti e degli empi» (Atti 24,1 5), oppure «risurrezio ne per il giudizio» (Gv. 5,29). Le sue affermazioni dirette si concen trano su «i morti in Cristo»; egli intende la risurrezione prevalente mente come evento salvifico. Ciò nonostante, sulla base di Dan. 1 2,2 s. si deve riconoscere che l'apostolo ha contato su una risurrezione universale dei morti (Rom. 2,5 s.; 2, 1 2; 2 Cor. 5,10, cf. 2 Tim. 4,1; 1 Pt. 4,1 5). Anche Rom. 8 contiene indirettamente che l'azione creatrice di Dio nel compimento escatologico riguarda l'intera umanità.
Chiusa della lettera
Comunicazioni (16,1-24) I.
e
saluti
La colletta per la comunità di Gerusalemme ( 1 6, 1 -4)
I Riguardo poi alla colletta per i santi, fate anche voi come ho disp o sto per le comunità di Galazia. 2 O gni primo giorno della settimana ognuno di voi tenga da parte (qualcosa) presso di sé e risparmi quanto ritiene, affinché non si facciano collette allorché io venga. 3 Quando poi sarò presente, invierò con mie lettere coloro che voi riterrete a portare il dono del vostro amore a Gerusalemme. 4 Se sarà opportuno che vada anch'io, viaggeranno co n me. 1 GaL
2, Io . .2. Atti .zo,7; Apoc. I,Io.
I -4. Come di consueto, al termine Paolo deve ancora regolare qual che faccenda e trasmettere comunicazioni, prima di concludere la let tera con esortazioni, saluti e benedizione. Rientra nel ministero per l'edificazione della comunità anche la colletta per la comunità madre di Gerusalemme. Dall'introduzione (cf. 7, 1) non è dato desumere con certezza se nella lettera della comunità si facesse menzione della col letta, ma la cosa è senz'altro verisimile (2 Cor. 8,4). La colletta non è un pagamento dovuto, simile all'imposta giudaica per il tempio (K. Holl), ma un'offerta spontanea alla comunità di Gerusalemme. Paolo usa la denominazione di «santi» per tutti i cristiani, ma in questo caso si ha a che fare con una formula fissa per indicare la comunità madre, che forse questa usava per se stessa (2 Cor. 8,4; 9, 1 . 1 2; Rom. 15,25 s.); tale comunità doveva lottare con difficoltà economiche e aveva biso gno d'aiuto (cf. Atti 1 1,27 ss.). A Paolo stava sempre molto a cuore la colletta concordata nel convegno apostolico (Gal. 2, 1 0) . Per lui essa non è solo un'opera di sostegno finanziario, ma un'espressione del l'unità della chiesa fatta di giudei e gentili, e un segno dell'unione col luogo originario dell'annuncio di Cristo e con il sacro ulivo d'Israele (Rom. I I, 1 7) . La colletta veniva fatta in tutta l'area missionaria di Pao lo, e anche i corinti avevano dichiarato la loro disponibilità a parteci parvi. Per la sua messa in atto l'apostolo dà ora alla comunità gli stessi consigli che aveva impartito alle comunità della Galazia. La lettera ai Galati non contiene peraltro nessuna di queste disposizioni, che forse
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Cor.
16,s- 1.z. Progetti di viaggio e raccomandazioni
Paolo ha dato oralmente (cf. Atti I 8,23). Nel computo giudaico, il pri mo giorno della settimana è la domenica cristiana, giorno della risur rezione, il terzo dopo la morte di Gesù. Paolo non dice espressamente che quel giorno la comunità si riunisce per il culto, ma si deve comun que sup p orlo La celebrazione domenicale risale ai primissimi tempi (F. Hahn), anche se la denominazione «giorno del Signore» non s'in contra prima di Apoc. I,Io. Ciascuno a casa sua quel giorno deve met tere da parte quanto è nelle sue possibilità; la colletta non si fa quindi durante il culto. Nei primi tempi non v'era un apposito incaricato per le questioni di denaro. L'apostolo desidera che al suo arrivo il denaro messo da parte possa essere raccolto rapidamente e senza tanta fatica per formare un dono comune. Il modo in cui avverrà la consegna non è ancora del tutto fissato. Per evitare sospetti, l'apostolo dà molta im portanza a che la colletta venga consegnata da incaricati delle comuni tà donatrici, come poi di fatto avvenne (Atti 20,4). Al suo arrivo egli consegnerà a questi incaricati una lettera di presentazione. Il dono viene designato con lo stesso termine usato per la grazia divina (cha ris) e assume in tal modo il carattere di un dono spontaneo dell'amore e della gratitudine verso Dio. Paolo non sa ancora se potrà o dovrà fa re egli stesso quel viaggio (in Rom. I5 ,25 è deciso a farlo). Se ne varrà la pena e se gli parrà opportuno, Paolo andrà anch'egli con gli incari cati. Sugli sviluppi successivi della questione della colletta Paolo tratta diffusamente in 2 Cor. 8 e 9· In Atti 20,4 non si nomina nessuno di Co rinto tra gli accompagnatori dell'apostolo nel suo viaggio. .
2. Progetti di viaggio e raccomandazioni ( I 6,5- I2) s Verrò da voi quando avrò attraversato la Macedonia; passerò infatti solo per la Macedonia. 6 Da voi mi fermerò un po', se possibile, o anche tra scorrerò l'inverno, per essere poi congedato da voi per dove andrò. 7 N on voglio infatti vedervi solo di passaggio, giacché spero di rimanere qualche tempo con voi, se il Signore lo vorrà. 8 Mi tratterrò a Efeso fino a pente coste, 9 poiché mi si è aperta una porta per una ricca opera, e anche gli av versari sono molti. 10 Se verrà Timoteo, vedete che non si trovi in sogge zione presso di voi; lavora infatti come me all'opera del Signore. I I Nessu no dunque gli manchi di riguardo; e congedatelo in pace affinché venga da me; lo attendo infatti con i fratelli. 12 Quanto al fratello Apollo, l'ho spes so pregato che venisse da voi con i fratelli. Ma non era affatto sua intenzio ne venire ora; verrà però non appena gli si presenterà l'occasione. J 4, 1 9. 9 2 Cor. �,12. 10 4, 17.
1
Cor. 16,5-12.. Progetti di viaggio e raccomandazioni
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5- 1 2.. Contro coloro che andavano dicendo che Paolo non sarebbe affatto venuto a Corinto, l'apostolo aveva parlato di una sua prossima visita (4,1 9); adesso egli espone più diffusamente i suoi progetti di viaggio e fa sapere che rimarrà ancora per un certo tempo a Efeso. N on è questa una base cogente per assegnare le località alle diverse lettere. Per la visita che ha in mente, Paolo non intende compiere il percorso diretto via mare da Efeso a Corinto, ma vuole arrivare a Corinto at traversando la Macedonia. Ha deciso, non di andare in Macedonia do po aver fatto una breve sosta a Corinto, ma al contrario di limitarsi ad attraversare la Macedonia, per poter rimanere più a lungo a Corinto. Forse vi trascorrerà tutto l'inverno, quando la navigazione s'interrom peva. L'apostolo si adopera di non dare ai corinti alcun motivo d'in soddisfazione. Per questo, nel suo piano attuale, non prevede di vede re solo di passaggio la comunità, ma di rimanere con essa un periodo piuttosto lungo e di svolgere in essa la sua attività. Tuttavia, come tutti i suoi progetti di viaggio, anche questo dipende dalla volontà del Signore (2 Cor. 1 , 1 7; cf. Giac. 4, 1 s; in Atti 1 8,2 1 ed Ebr. 6,3 la formula è: «se Dio lo vuole»). Che cosa Paolo farà dopo, non è ancora certo (v. 4). Dovunque poi egli andrà, la comunità dovrà dargli l'accompagna mento. In seguito l'apostolo ha effettivamente messo in atto questo piano (cf. Atti 20,1 -3; 2 Cor. 2, 1 2 s.), dopo aver nel frattempo proget tato un viaggio diverso. Secondo quest'ultimo piano (2 Cor. 1,1 5 s.) intendeva passare per Corinto e visitare prima la Macedonia, e di lì tornare poi di nuovo a Corinto per farsi dare da questa comunità l'ac compagnamento per il viaggio in Giudea. Paolo vuole rimanere anco ra a Efeso fino alla festa giudaica di pentecoste, la «festa del cinquan tesimo giorno» (Tob. 2, 1 LXX) dopo la pasqua. La 1 Cor. è scritta proprio da Efeso, forse intorno a pasqua (cf. 5 ,7 s.). L'immagine della porta aperta per indicare la possibilità di una predicazione efficace è usata da Paolo anche in 2 Cor. 2, 1 2. Là dove viene predicata la parola della croce, non mancano mai gli avversari, di parte sia gentile sia giu daica. Nei vv. 10 s. Paolo aggiunge ancora una raccomandazione per il suo giovane collaboratore Timoteo, che non è menzionato né nel pre scritto né nella lista dei saluti; evidentemente, al momento della reda zione della lettera, questi si trova ancora in viaggio per Corinto (cf. At ti 19,22); l'aoristo di 4, 1 7 mostra che l'invio di Timoteo è già avvenu to. La sua autorità di apostolo non impedisce a Paolo di unire stretta mente a sé il giovane collaboratore; tutti e due lavorano all' «opera del
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1
Cor.
I6,1 3-.2.4· Esortazioni e saluti
Signore» ( 1 5,58). La comunità dovrà accogliere Timoteo amichevol mente, consentirgli una permanenza fruttuosa e rifornirlo del necessa rio per il ritorno da Paolo. Sui possibili motivi dei timori di Timoteo non si può dire nulla di sicuro: forse soggezione nei confronti degli orgogliosi pneumatici. Paolo attende il collaboratore insieme con altri fratelli al loro ritorno; a causa dei molti pericoli, i missionari cristiani non viaggiavano volentieri da soli (cf. anche Mc. 6,7). Infine l'apostolo comunica anche che Apollo, che pure si trova a Efeso, non s'è piegato alle sue pressioni perché si recasse a Corinto con dei fratelli. Probabil mente, nella lettera della comunità, i corinti avevano chiesto una visita di Apollo. Non si sa quali motivi personali o circostanze esterne in quel momento abbiano trattenuto Apollo dal viaggio; egli farà comun que la sua visita a Corinto non appena ne avrà l'occasione; in 2 Cor. di lui non si parla più. Il passo mostra che i corinti apprezzavano molto Apollo e che tra Paolo e il suo successore v'erano buoni rapporti. l·
Esortazioni e saluti ( 1 6,IJ -24)
13 Vigilate, state saldi nella fede, siate coraggi osi e siate forti! 14 Tutto av venga tra voi nell'amore. 15 Vi raccomando ancora, fratelli: sapete che la ca sa di Stefana è primizia dell'Acaia, e ha votato se stessa al servizio dei san ti. 16 Siate dunque anche voi obbedienti verso di loro e verso quanti col laborano e si affaticano. 1 7 Godo dell'arrivo di Stefana, di Fortunato e di Acaico, che hanno supplito alla vostra assenza. 18 Essi infatti hanno allie tato il mio spirito come il vostro. Sappiate riconoscere siffatte persone. 19 Le comunità della provincia d'Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca con la comunità della loro casa. 20 Vi salutano i fra telli tutti. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. 21 Questo saluto è di mia mano, di Paolo. 22 Se qualcuno non ama il Signore sia maledetto. Marana tha. 2 3 La grazia del Signore Gesù sia con voi. 24 Il mio amore è con voi tutti in Cristo Gesù. 13 SaL 3 1,25. IS 1,16; Rom. 16,5.
16 1 Tess. 5,12 s. .2.0 Rom. 16,16. 22 Apoc. 22,20.
1 3- 1 8. I vv. 13 e 14 suonano come esordio della conclusione. Paolo però aggiunge ancora alcune esortazioni che ricordano la conclusione di 1 Tess. (5, 12 ss.). La comunità deve essere vigilante e attenta (1 Tess. s,6), nell'attesa della parusia vicina, dev'essere irremovibilmente salda sul fondamento del vangelo (1 5 ,J - 5 ), e attenersi, fedele e intrepida, al Signore (Sal. 3 1 ,25)· Nel v. 1 4 Paolo riassume in un'esortazione conci sa la «via più preziosa» del cap. 13. I membri della comunità pervenuti
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Cor. r6,IJ-.14· Esortazioni e saluti
3I I
alla fede fin dall'inizio godono di una particolare considerazione (Rom. I 6, 5 ); a essi spetta per lo più una funzione di guida nella comunità. Nella provincia senatoria di Acaia (Grecia centrale e meridionale), di cui Corinto è la capitale, Stefana e la sua famiglia sono stati i primi cristiani, che Paolo stesso ha battezzato ( I , I 6). Costoro si sono messi spontaneamente al servizio delle comunità, acquistando autorità col loro impegno per il vangelo. Non solo all'apostolo e ai suoi inviati i corinti devono deferenza, ma anche ai fratelli che nella comunità si adoperano in maniera speciale (I Tess. 5,I 2); tra questi c'è anche Febe, nella vicina Cenere (Rom. I 6, I ). Nella comunità carismatica, all'au torità acquistata col ministero fa riscontro la subordinazione sponta nea; ancora non c'è un'organizzazione istituzionale. Il richiamo al pri mo convertito Stefana porta Paolo a ricordare con gioia e gratitudine l'arrivo dei tre delegati della comunità di Corinto, che si trovano a Efeso presso Paolo, consentendogli di avere un contatto e uno scam bio personale con la loro comunità; Fortunato e Acaico non vengono menzionati altrove nel Nuovo Testamento. Nel v. I 8 Paolo fa sentire ai corinti di aver avuto preoccupazioni per loro, ma la visita dei rap presentanti della comunità, che probabilmente gli hanno portato la let tera con i quesiti dei corinti, ha rallegrato e confortato Paolo, ed è que sto un nuovo motivo per la comunità di tranquillizzarsi. 19-24. Nei vv. 19 ss. seguono i consueti saluti della chiusa delle let tere. A partire da Efeso, centro della missione, sono sorte ulteriori co munità nella parte occidentale dell'Asia Minore (2 Cor. 2,I 2; Col. 4,I3; Apoc. 2 e 3). L'apostolo è in collegamento con tutte e manda i sa luti in nome loro. Paolo aveva già conosciuto i coniugi Prisca e Aquila a Corinto, dove aveva abitato e lavorato presso di loro (Atti I 8,2 s.); al momento i due si trovano a Efeso. La comunità della loro casa è il numeroso personale di questa coppia benestante o, più verisimilmen te, la comunità che si riunisce nella loro casa per il culto. Dopo la cita zione delle comunità della provincia e il risalto dato alla casa di Aqui la e Prisca (in quest'ordine nel v. I 9), «tutti i fratelli» del v. 20 si riferi sce ai cristiani di Efeso (o ai collaboratori che stanno immediatamente vicino a Paolo). Le lettere dell'apostolo venivano lette davanti alla co munità riunita (Col. 4, I 6), dopodiché i suoi membri si salutavano col bacio santo (I Tess. 5,26; 2 Cor. I J, I 2; Rom. I 6, I 6). Era uso generale associare un bacio al saluto, ma il bacio santo dei cristiani è l'espres sione della comunione fraterna prodotta dallo Spirito santo, nella
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Cor.
r6,I J-2.4· Esortazioni
e
saluti
quale anche mittente e destinatari delle lettere sono congiunti tra loro. Nel n sec. d.C. il bacio santo veniva abitualmente scambiato all'inizio della celebrazione della cena (Giustino, Apol. I ,6 5 ); probabilmente quest'usanza esisteva già ai tempi di Paolo. Con questa premessa, le brevi affermazioni dei vv. 20-22, in funzione di esortazione finale del l'unica lettera in cui Paolo tratta diffusamente della cena del Signore, assumono un contesto illuminante, benché i versetti possano essere intesi anche senza supporvi elementi liturgici (come dice A. Schlatter). In calce alla lettera che è stata dettata, nel v. 2 I Paolo aggiunge ancora il saluto di propria mano (Gal. 6, 1 I ; Film. I 9; Col. 14, I 8 ) che conferi sce una forza particolare alle frasi conclusive. Nel v. 22 Paolo usa for mule fisse provenienti dall'inizio della liturgia della cena del Signore (G. Bornkamm). In Did. I o,6 si mette in guardia dal partecipare abu sivamente alla cena con l'avvertimento: «Chi è santo venga; chi non lo è, faccia penitenza! Maranatha. Amen». L'espressione «Chi non ama il Signore», che si trova solo in Paolo, fa da contraltare alla confessio ne di Gesù quale kyrios ( I 2,3 ) . Chi nell'incredulità respinge Cristo si oppone a Dio e viene perciò abbandonato dall'apostolo al giudizio dell'ira di Dio con la formula di maledizione «anatema» (cf. J , I 7) · È questo un monito per quei membri della comunità di Corinto che sfi dano il Signore ( I o,22 ) . L'invocazione «maranatha», ripresa dalla pri mitiva comunità palestinese, ha senso imperativo: «Vieni, Signore no stro!» (cf. H.P. Riiger, TRE 111, 6o7) . Poiché in Paolo la prospettiva escatologica (Mc. I 4,2 5 ) della cena del Signore è viva ( 1 I ,26) , l'invoca zione per la venuta escatologica del Signore di Apoc. 22,20 è qui deter minante. D'altro canto Paolo sottolinea la presenza del Signore nella cena con tale energia che s'impone la presa in considerazione di en trambi i momenti; in questa prospettiva, l'invocazione prega il Signo re presente nella cena di tornare presto nella parusia. Tutte le lettere di Paolo iniziano e terminano col conforto della grazia. L'augurio «La grazia del nostro Signore Gesù Cristo sia con voi» si trova anche in Rom. I 6,2o; 1 Tess. 5,28; in forma simile in 2 Cor. I J, I J; Gal. 6, 1 8; Fil. 4.23; Col. 4, 1 8; Film. 2 5; cf. Apoc. 22,2 1 . Al consueto augurio di gra zia, Paolo aggiunge qui eccezionalmente un'ulteriore assicurazione del proprio personale amore. Anche se l'apostolo ha dovuto dire alla co munità di Corinto parole dure, il suo rapporto con essa resta impron tato all'amore celebrato nel cap. I 3 , che attinge la sua forza all'amore di Dio in Gesù Cristo.
Seconda lettera ai Corinti
Inizio della lettera (I,I-1 1)
1.
Indirizzo e saluto ( 1 , 1-2)
1 Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volere di Dio, e il fratello Tirnoteo, alla comunità di Corinto e a tutti i santi di tutta l' Acaia: 2 Grazia sia con voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo.
I
1 Cor. 1,1 s.; I6,Io.
2 1
Cor. I,).
Indirizzo e saluto sono simili a quello della prima lettera. An che qui viene messa in evidenza l'autorità apostolica di Paolo. Con Paolo non c'è pi ù Sostene, che è rimasto a Efeso; al suo posto è men zionato ora come secondo mittente Timoteo, che i corinti conoscono fin dalla fondazione della comunità (1,19) e per una visita successiva (1 Cor. 1 6, 1 o); questi, quindi, da Corinto dev'essere tornato a Efeso, per fare poi con Paolo il viaggio in Macedonia. Dell'andamento e dei risultati della missione di Timoteo, ormai indietro nel tempo, Paolo non si occupa più. La designazione dei destinatari è più breve, ma fa riferimento a un uditorio più vasto; la lettera è infatti diretta non solo alla comunità della città di Corinto, ma anche a tutti i cristiani della provincia di Acaia. Evidentemente, per derivazione dal centro della missione, sono sorte nei dintorni di Corinto anche piccole comunità domestiche che vivono in stretti rapporti con la comunità del capo luogo della provincia; la lettera dovrà essere letta anche in queste co munità (cf. Col. 4, 1 6). Da questa situazione s'è sviluppata la successiva concezione metropolitana. Il saluto è uguale parola per parola a quel lo di 1 Cor. I ,J. 1-2.
2.
Ringraziamento per il conforto di Dio in gravi tribolazioni (I,J-1 1)
3 Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre della mi sericordia e Dio di ogni consolazione, 4 che ci consola in ogni nostra tri bolazione, affinché possiamo consolare coloro che si trovano in ogni tri-
3 16
2
Cor.
I,}-11. Ringraziamento per il conforto di Dio in gravi tribolazioni
bolazione con quella consolazione con cui anche noi siamo consolati da Infatti, come giungono copiosamente su di noi le sofferenze di Cri sto, così anche per mezzo di Cristo avremo copiosa consolazione. 6 Quan do siamo tribolati è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo consolati è per la vostra consolazione, la quale si manifesta nel sopportare pazientemente le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. 7 E la nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, poiché sappiamo che come siete partecipi delle sofferenze lo sarete anche della consolazione. 8 Non vogliamo infatti che siate all'oscuro, fratelli, sulla tribolazione che abbiamo patito in Asia, dove siamo stati gravati oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da dubitare anche della vita. 9 A bbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte, affinché non riponiamo la nostra fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Io Egli ci ha liberato da quella mor te e ci redimerà. In lui abbiamo riposto la nostra speranza che ci libererà ancora, I I grazie anche all'aiuto della vostra preghiera per noi, affinché dal la bocca di molti sia reso per noi un ringraziamento a più voci per la grazia donataci. D i o. 5
3
Ef 1 ,3; l Pt.
I,J . ..
7,6.
s -hiO.
8 cf. l Cor.
l s,J.2.. 9 Rom.
4,17· I l 4,1 S·
La cosiddetta lettera della consolazione comprende i capp. 1 -8; col cap. 9 vi è stata apposta una raccomandazione delle collette per le co munità circostanti dei dintorni di Corinto (v. intr., p. 26). Di reg ola nell'esordio della lettera Paolo rende grazie a Dio per la fede della comunità; se ne scosta solo nella lettera ai Galati e nella se conda ai Corinti. Invece che col ringraziamento, Paolo inizia qui con una lode a Dio per la sua salvazione, di cui anche la comunità ha be neficiato. Si mostra con ciò la singolarità della lettera, che è la più per sonale di Paolo e ha come tema il suo ufficio di apostolo; persona e ufficio costituiscono in Paolo un'unità inscindibile. La forma di questa preghiera di lode e di ringraziamento è impron tata alla formula giudaica della lode (ebr. beraka, gr. eulogia ), com'è adoperata soprattutto nei salmi recitati nel culto (toda,) e nelle pre ghiere. Essa compare come introduzione in Dan. 3,28 e Sal. 144, I, come conclusione in Sal. 41,14; 72, 1 8; 1 06,48 e come ritornello nella preghiera delle Diciotto benedizioni. La struttura della formula di lo de, che determina direttamente i vv. 3 e 4, è riconoscibile ad esempio in Sal. 66,20: «Benedetto sia Dio, che non ha rigettato la mia preghiera e non distoglie da me la sua bontà» . Il motivo della lode è descritto con dei participi, che qui sono stati tradotti con proposizioni relative. Questa formula di lode (eulogia) è adoperata in Ef I,J - 1 4 e 1 Pt. I,J
2
Cor.
1,3-11.
Ringraziamento per il conforto di Dio in gravi tribolazioni
317
ss. in relazione alla redenzione ricevuta per mezzo di Cristo. Nella comunità l' orante rende grazie a Dio di aver ascoltato la sua invoca zione di aiuto, salvandolo dalla potenza della morte o da altri pericoli. Nei vv 8- 1 1 Paolo ricorda di essere stato salvato da un grave pericolo di morte in Efeso. Sotto l'aspetto retorico, l'intera pericope è costruita con arte sui due termini guida, in opposizione polare, «tribolazione» e «consolazione». .
2..1.
Lode a Dio che consola l'apostolo e fa di lui un consolatore
(1,3 -7) La formula giudaica «Sia benedetto Dio» viene cristianizzata me diante l'aggiunta «Padre del Signore nostro Gesù Cristo». Gesù, che è in una particolare relazione col Padre, ha insegnato ai suoi discepoli a pregare Dio come padre; per opera di Cristo siamo accolti in qualità di figli di Dio. Nello stile e nel linguaggio della preghiera Dio viene meglio definito come «Padre della misericordia» e «Dio delle consola zioni»; egli è il creatore della misericordia (Sal. I OJ,J) e un Signore ca pace di consolare in ogni situazione. Questa sollecitudine misericor diosa di Dio per gli uomini ha avuto la sua massima espressione nella salvazione da peccato e morte mediante l'evento Cristo (cf. Rom. 1 2, 1 ). È quanto dicono analoghe predicazioni di Dio nel Nuovo Testa mento: «il Dio della pazienza e della consolazione» (Rom. 1 5,5 ), «il Dio della pace» (Rom. I 5,JJ; Fil. 4,9; I Tess. 5 , 2 J), «il Dio dell'amore e della pace» (2 Cor. I J, I I ) . 4-7. La formulazione in termini generali del v. 4 si conforma allo stile liturgico. In quanto arante Paolo si vede immediatamente in co munione con gli altri cristiani; l'unione dell'apostolo con le sue comu nità il più delle volte si esprime già nell'esordio delle lettere. Conso lando Paolo, Dio fa di lui un consolatore per le sue comunità, il che produce tra loro una stretta comunione di sofferenza e consolazione ( I Cor. 1 2,26). I vv 5-7 mostrano nel Gesù Cristo sofferente e glorifi cato colui che dona la forza che fa di Paolo il consolatore della comu nità. La corrispondenza di sofferenza e consolazione nell'apostolo si basa sul nesso di croce e innalzamento in Gesù Cristo. Paolo concepi sce le sofferenze che deve affrontare nel suo ministero missionario co me una partecipazione alle sofferenze di Cristo; egli sperimenta «la co munione con le sue sofferenze» e «la potenza della sua risurrezione» 3·
.
3 18
2
Cor.
1 ,3 -II.
Ringraziamento per il conforto di Dio in gravi tribolazioni
(Fil. J, Io). Le sofferenze di Cristo si riversano in gran copia su di lui; ciò, in fondo, vale per chiunque sia unito a Cristo nella fede; i predica tori e gli apostoli devono sentire con particolare forza l'urto col mon do. Le sofferenze nella sequela della croce non sono un'estrinseca imitazione della morte in croce di Gesù né ne hanno il significato so teriologico, ma sono l'espressione dell'unione esistentiva dei credenti col loro Signore. Proprio nella sofferenza è dato al cristiano di speri mentare in modo speciale la comunione col Cristo crocifisso e risusci tato. Mediante il suo Spirito il Signore innalzato dà forza e fiducia a chi sopporta contrarietà, facendogli pervenire per questa via copiosa consolazione. La missione di Cristo è all'insegna del suo dono di sé per gli altri; analogamente, anche tribolazione e consolazione dell' apo stolo sono al servizio della comunità. In quanto egli stesso consolato, è in grado di confortare la comunità nella sua paziente sopportazione delle sofferenze. Non è necessario qui far intervenire l'idea di Col. I, 24; nel nostro passo si sottolinea solo che le sofferenze e la consola zione dell'apostolo hanno un'efficacia anche sulla comunità. Anche la comunità deve vedere le sue sofferenze nella comunione con i patì menti di Cristo, sopportandole con pazienza e consolazione. Non è possibile dire con esattezza in che consistesse la tribolazione dei co rinti; le giovani comunità cristiane dovevano comunque sostenere l' op posizione da parte sia dei gentili sia dei giudei. Paolo guarda con fidu cia al futuro della comunità, riponendo la sua speranza non tanto nel la costanza dei corinti, quanto nella consolazione e nella forza di Cri sto, dalle quali egli stesso si sente sostenuto. z •.z..
Paolo salvato da un pericolo mortale ( 1 ,8-I I )
8-11. Si addice all'unione dell'apostolo con la comunità che Paolo faccia partecipi i corinti della sua personale esperienza. Il discorso in termini generali del v. 8 non consente di definire con precisione quale sia la difficile situazione in cui si trovò l'apostolo. «Asia» è la provin cia romana d'Asia, comprendente la parte occidentale dell'Asia Mino re con capitale Efeso. Non è possibile che qui s'intenda l'avvenimento ricordato in 1 Cor. I 5,3 2, ormai passato da tempo. L'inizio del v. 8 fa pensare a un pericolo di morte corso ultimamente. Molti interpreti mettono in rapporto quest'angustia con la sommossa in Efeso dell' ar gentiere Demetrio (Atti 1 9,23), ma se veramente si trattasse di questo,
2
Cor. I,J-II. Ringraziamento per il conforto di Dio in gravi tribolazioni
319
quella sommossa dovrebbe essere stata qualcosa di più pericoloso di quanto racconti Luca. Altri esegeti pensano a una grave malattia. Ve risimilmente però si tratta di un pericolo proveniente dall'esterno, in cui Paolo incorse ad Efeso o nel suo viaggio verso Troade (cf. 1 1 ,26). Il pericolo fu comunque tanto grave che Paolo dovette pensare alla morte, e mise a dura prova le sue stesse forze. Il v. 9 descrive l'atteg giamento interiore dell'apostolo in quella situazione di pericolo mor tale. S'era già dato per morto e aveva accettato la sua morte come de creto di Dio; vedeva la volontà divina nel dover riporre la sua fiducia non in se stesso, ma solo in Dio. La formula «che risuscita i morti» (Rom. 4, I 7) è una predicazione giudaica di Dio che s'incontra nella preghiera delle Diciotto benedizioni. Paolo aveva confidato che Dio potesse strapparlo anche dalla stretta della morte; per lui il potere di Dio di risuscitare i morti s'è manifestato soprattutto in Gesù crocifis so. Questa fiducia di Paolo non è andata delusa: Dio è intervenuto con la sua meravigliosa potenza, salvandolo dal pericolo di morte. Nei salmi l'espressione «salvare dalla morte» può avere due significati: «li berare dalla morte» oppure «dare la vita traendo fuori dalla sfera della morte». L'aiuto di cui l'apostolo ha fatto esperienza fonda la speranza di ulteriore salvazione nel futuro. Paolo ha acquisito la ferma fiducia che anche in futuro Dio lo assisterà con la sua potenza salvatrice. An che in questo caso la comunione dell'apostolo con la comunità pro durrà i suoi effetti. Indirettamente Paolo sollecita i corinti a pregare per il suo ministero, così come già le altre comunità sostengono l' apo stolo con le loro preghiere. Si deve rendere grazie a Dio poiché, inter venendo a salvarlo, ha reso possibile e continuerà a rendere possibile l'opera di Paolo. Nel culto deve salire a Dio un ringraziamento a più voci da parte dei molti membri della comunità per la salvazione del l'apostolo, che qui è detta un «dono di grazia» (charisma). Anche la gra ve tribolazione di Paolo deve contribuire ad accrescere il rendimento di grazie a Dio. Il ringraziamento del v. I I e la lode del v. 3 fanno del la pericope un'unità linguistica e teologica in sé conchiusa.
Parte prima
Sguardo retrospettivo sugli eventi passati (I, I 2-7,I6) 1. Chiarimento
di malintesi ( I , I 2-2, I J)
Dopo il preambolo della lettera costruito nello stile della preghiera, Paolo passa immediatamente a parlare delle accuse che gli sono state mosse a Corinto, concernenti soprattutto due punti: Paolo sarebbe in sincero nel suo comportamento e nelle sue lettere, e inaffidabile nei suoi progetti di viaggio. L'eliminazione di questi elementi di dissenso è la premessa necessaria per una riconciliazione definitiva tra apostolo e comunità. 1.1.
Sincerità dell ' apos tolo ( 1 , 1 2- 14)
12 Giacché questo è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza di esserci comportati nel mondo, e specialmente verso di voi, con sincerità e divina schiettezza, non con la sapie nza della carne ma con la grazia di Dio. 13 Non vi scriviamo infatti null'altro che ciò che leggete e comprendete; ma io spero che ci comprenderete fino in fondo, 14 così come in parte ci ave te già compreso, che noi siamo il vostro vanto, come anche voi sarete il nostro vanto nel giorno del nostro Signore Gesù. 1.2 2.,1 7; Atti 2J,I. 14 Fil. 2,16.
Da Tito, ritornato da Corinto, Paolo ha saputo che la mag gioranza della comunità sta di nuovo dalla parte dell'apostolo che l'ha fondata; perciò, all'inizio della cosiddetta lettera di riconciliazione, vuole chiarire fino in fondo i malintesi che ancora restano. L'unione tra Paolo e i corinti è salda solo se nei rapporti reciproci c'è piena sin cerità. - A Corinto è stato mosso all'apostolo il rimprovero di manca re di franchezza (cf. 2,17; 1 0,2). Paolo respinge tale rimprovero appel landosi, per la lealtà della sua condotta, alla testimonianza della sua coscienza. La coscienza conosce le azioni degli uomini e può quindi testimoniare se queste corrispondono o contraddicono al volere di Dio. Paolo considera suo vanto il poter dire con buona coscienza di essersi condotto nella sua vita senza secondi fini, con la sincerità e schiettez1.1-14.
2
Cor.
1,12-14. Sincerità dell'apostolo
32 l
za che Dio vuole, non con egoismo e furbizia umane. Ciò vale per tut ta la sua vita di apostolo dei gentili che sta sotto gli occhi del mondo (1 Cor. 4, 1 3; Fil. 2, 1 6), ma soprattutto per i suoi rapporti con la comu nità di Corinto, dalla quale non ha accettato alcun sostentamento. Paolo è consapevole di dovere la forza richiesta da quest'irreprensibi le condotta alla grazia di Dio, non alle sue proprie facoltà; perciò il suo vantarsi non è un esaltare se stesso, ma un dar gloria al Signore (I Cor. I,JI). Nel v. 1 3, dal tema della schiettezza nel comportamento in ge nerale, Paolo passa in particolare a quello della sincerità nelle sue let tere. Evidentemente a Corinto gli si è rimproverato di perseguire, in fondo, scopi diversi da quelli di cui parla nelle sue lettere. Il problema non è che il profondo contenuto teologico delle lettere paoline talvol ta sia difficile da capire (cf. 2 Pt. 3 , 1 6); ciò che i corinti rinfacciano a Paolo è invece un'oscurità voluta e un inganno consapevole. Se que st' accusa sia in relazione anche col cambiamento del suo programma di viaggio ( 1 , 1 5 s.) è, per quanto plausibile, non del tutto sicuro, poi ché non si sa se Paolo ha comunicato per lettera il suo secondo piano di viaggio. In IO,IO gli si rimprovera una discrepanza tra la forza che manifesta nelle lettere e la debolezza quand'è presente di persona. Paolo assicura i corinti che nelle sue lettere non usa espressioni che vogliano dissimulare; egli intende dire esattamente quel che le parole scritte fanno capire al lettore. L'apostolo agisce per incarico di Dio, perciò non ha bisogno di nascondere le sue vere intenzioni dietro formule impenetrabili. Paolo spera che, come fin qui i corinti in parte l'hanno capito, in futuro lo comprenderanno fino in fondo; con que sto riconoscimento egli testimonia alla comunità la sua fiducia in essa e la prega per il futuro di aver piena fiducia in lui. Allora capiranno anche che cosa unisca nel profondo l'apostolo e la comunità. Nel giu dizio escatologico si farà manifesto ciò che Paolo significa per la co munità, e la comunità tornerà a vanto dell'apostolo. Nella parusia di Cristo la comunità ringrazierà e loderà Dio perché Paolo le ha predi cato il vangelo, e l'apostolo potrà indicare la comunità come l'opera che Dio gli ha donato (I Tess. 2, 19; Fil. 2,1 6). L'unione tra loro si fon da in definitiva sul dono della grazia di Dio che in comune hanno ri cevuto in Gesù Cristo.
I.�.
Affidabilità dell'apostolo { I ,I s-22)
1 s E con questa convinzione avevo deciso in un primo tempo di venire da voi, perché riceveste una seconda dimostrazione di grazia, r6 e da voi re carmi i n Macedonia, dalla Macedonia venire di nuovo da voi, e avere poi
da voi l'accompagnamento per la Giudea. 17 Decidendo così ho forse agi to con leggerezza? O quello che decido lo decido secondo la carne così che in me vi sia oltre al «sì, sì» anche un «no, no»? 18 Per la fedeltà di Dio, la nostra parola a voi non è insieme «SÌ» e «no». 19 Giacché il figlio di Dio, Gesù Cristo, che tra voi è stato predicato da noi, da me, Silvano e Timoteo, non è stato insieme , ma in lui s'è fatto realtà il «SÌ». .20 Di tutte le promesse di Dio, infatti, egli è il «SÌ»; attraverso lui, quindi, risuona an che il nostro «amen» a Dio per la sua gloria. .21 È Dio che ci rafforza con voi in Cristo e ci ha unto, .22. che ci ha anche impresso il sigillo e ci ha dato come caparra lo Spirito nei nostri cuori. 16 l Cor. I6,s s. 17 Giac. s,Il; Mt. s,37· 18 l Cor. 1,9. %0 l Cor. 14,16. %% s,s; Ef. 1,13 s.
1 s-� 1. Paolo affronta ora il rimprovero mossogli, vale a dire che non ci si può fidare delle sue promesse. Questo rimprovero potrebbe basarsi sul fatto che Paolo evidentemente non ha fatto l'annunciata vi sita a Corinto come aveva promesso. È caratteristico del modo di ar gomentare dell'apostolo il modo in cui respinge l'accusa. Comincia col richiamare il suo incarico apostolico, principio fondamentale del suo ministero missionario (vv I 7- 22). A partire da tale principio gli è pos sibile far vedere come, dato il mutamento di situazione, proprio cam biando il suo progetto sia rimasto fedele al suo compito di apostolo (1 ,2J -2,4). L'itinerario descritto nei vv I 5 s. viene collocato entro l'at tività di predicazione dell'apostolo, che si fonda sull'opera di riconci liazione compiuta da Dio in Cristo. Dalla fedeltà di Dio, che in Gesù Cristo ha realizzato tutte le sue promesse, si desume in conclusione la veridicità del vangelo e di coloro che vi si attengono. La predicazione di Paolo testimonia l'operare di Dio nella croce e risurrezione di Gesù Cristo. In quest'opera Dio non ha detto insieme «sÌ» e «no», ma con la redenzione in Cristo ha portato a termine un'univoca opera salvifi ca. Nella formulazione di questo pensiero Paolo fu forse influenzato dalla circostanza che il termine ebraico «amen», connesso col verbo che significa «aver stabilità», «essere veritiero e affidabile», corrispon de al «sÌ» greco (nai). Confidando che i corinti l'avessero compreso bene, Paolo aveva deciso di visitare la comunità. L'itinerario di cui par la nei vv. I 5 s. è diverso da quello che aveva comunicato in 1 Cor. I 6, .
.
2
Cor.
1 , 1 s-.1.1.
Affidabilità dell'apostolo
32 3
5 -9; secondo quanto aveva detto in quella sede, Paolo voleva prima vi sitare la Macedonia e proseguire poi nel suo viaggio fino a Corinto per potervi rimanere piuttosto a lungo. Col secondo, nuovo itinerario ( 1 , 1 5 s.) voleva recare ai corinti una gioia ancor più grande; secondo questo progetto intendeva invece prima recarsi per mare da Efeso a Corinto, visitare poi la Macedonia e di qui ritornare di nuovo a Co rinto, per farsi dare dai corinti l'occorrente per il viaggio in Giudea. La tanto discussa espressione «perché riceveste una seconda dimostra zione di grazia» (v. 1 5) si riferisce probabilmente, non alla seconda permanenza a Corinto successiva a quella della fondazione della co munità, ma alle due soste in città previste nel secondo piano, cosa che sarebbe stata una duplice dimostrazione di grazia, poiché Paolo inten deva servire per due volte la comunità col vangelo. Da quest'affermazione trapela quanto Paolo si concepisse come stru mento e predicatore della grazia divina. Il secondo itinerario dev'esse re stato progettato dall'apostolo nell'intervallo tra la redazione della prima lettera e la visita «dell'afflizione» menzionata in 2, 1 , la cosid detta visita intermedia; il rapporto di fiducia era ancora intatto, e Pao lo contava già con certezza di recarsi a consegnare di persona la col letta (a differenza di - quanto si dice in I Cor. 1 6,3 s.). Purtroppo non è più possibile stabilire quando e in che modo Paolo abbia comunicato alla comunità il suo secondo piano di viaggio. Gli interpreti hanno preso in considerazione diverse possibilità: la comu nicazione potrebbe essere avvenuta attraverso Tito in occasione del suo primo viaggio per la colletta (cf. 1 2,1 8), oppure oralmente ad ope ra dello stesso Paolo nel corso della sua visita intermedia (v. intr., p. 1 9); potrebbe aver avuto luogo nella cosiddetta «lettera delle lacrime» oppure potrebbe essere stata fatta oralmente da Tito durante il suo soggiorno a Corinto per comporre il conflitto; è anche possibile che solo ora, nella lettera di riconciliazione, Paolo presenti con precisione il suo secondo piano. Da nessuna parte si accenna a uno scritto del l'apostolo successivo a I Cor. e antecedente la visita intermedia. Il rim provero dei corinti presuppone che Paolo non abbia mantenuto la pro messa di una visita. Al momento della redazione della «lettera delle la crime» Paolo era già deciso a non andare egli stesso a Corinto e a in viare in sua vece Tito. L'ipotesi più verisimile perciò è che Paolo, par tendo dopo l'infruttuosa visita intermedia, abbia promesso ai corinti che, viaggiando per mare, sarebbe tosto ritornato a visitarli (A. Schlat-
3 24
l
Cor. 1,1 s-21. Affidabilità dell'apostolo
ter). Perché poi non l'abbia fatto, lo spiega in 2,1-4. In seguito, allor ché partì da Efeso, riprese infine il suo primo progetto (I Cor. 1 6, 5-7; cf. Atti 20,1 -3). Quando Paolo prese in considerazione il suo secondo progetto, non lo fece alla leggera; al contrario, voleva che i corinti aves sero la gioia di due visite. Con la seconda domanda del v. 1 7 l' aposto lo tratta in modo fondamentale del suo comportamento: Paolo non è uomo da prendere le sue decisioni in «maniera carnale», ossia senza considerare il suo compito e senza farsi guidare dallo Spirito di Dio. Vengono definite «carnali» quelle decisioni nelle quali il «sÌ» significa anche «no»; manca a esse la chiarezza, così che con esse non si sa a che punto ci si trova. Nell'uso giudaico la ripetizione di «sÌ» e «no» serve a rafforzare una promessa o un rifiuto (cf. Mt. 5,37). Secondo il v. 1 8 l'inaccettabile di queste decisioni «carnali» sta nella contemporanea presenza di «sÌ» e «no». Paolo chiama Dio a testimone che le sue pa role sono univoche e sincere. La formula asseverativa «Dio è fedele» {cf. 1 Cor. 1 ,9; I O, I J; I Tess. 5,24) ha qui la funzione d'un giuramento {cf. Gal. 1 ,20). La parola dell'apostolo, che include la sua predicazione e le sue promesse, riceve la sua chiarezza e affidabilità dall'operare salvifico di Dio in Cristo. Nella giustificazione che dà nel v. 19, Paolo risale dalla parola della predicazione al contenuto di essa, il crocifisso (1 Cor. 2,2). La formula completa «il figlio di Dio, Gesù Cristo» rica pitola la confessione di Cristo di Rom. 1 ,3 s. e mostra come il titolo onorifico «figlio di Dio» sia un elemento fisso della cristologia paoli na (Rom. 5,1o; 8,3 2; I Cor. 1 ,9; Gal. I , 1 6; 2,2o; 1 Tess. I , I o); tale titolo si fonda in modo speciale nelle cosiddette formule di missione (Rom. 8, 3 ; Gal. 4,4). La predicazione paolina del Cristo non è un annuncio particolare, bensì la predicazione di tutti gli apostoli; per questo Paolo ricorda qui anche i suoi collaboratori Silvano e Timoteo che l'hanno accompagnato nel suo secondo viaggio missionario in Asia Minore e in Grecia. In seguito Silvano svolse la sua attività nella cerchia di Pie tro (I Pt. 5 , 1 2). La missione di Gesù Cristo ha un marchio chiaro: Ge sù Cristo è il «sÌ incarnato» delle promesse di Dio. In lui è giunto a compimento e in futuro si compirà tutto ciò che Dio ha promesso nel l' Antico Testamento. Il v. 20 è di cruciale importanza per la posizione di Paolo nei confronti dell'Antico Testamento. In Cristo tutte quante le promesse di Dio sono diventate realtà: la promessa di benedizione fatta ad Abramo (Gen. 1 2,3), la promessa del messia e della sua signo ria regale (2 Sam. 7, I 3 ss.; Is. I I , I- 5; Zacc. 9,9), la promessa della nuo-
2
Cor.
I, I s-22.
Affidabilità dell'apostolo
32 s
va alleanza (Ger. 3 1,3 1 -34; Ez. 3 7, 26 ecc.), la promessa del servo di Dio che porta i peccati dei molti (/s. s J, I 2), la promessa del figlio del l'uomo e della sua vittoria finale sulle potenze ostili a Dio (Dan. 7, 1 3 ss.) . Accanto alla contrapposizione tra giustizia della legge e giustizia della fede, di vecchia e nuova alleanza (2 Cor. 3), c'è in Paolo il nesso positivo di promessa e compimento mediante l'evento Cristo, e ambe due questi rapporti per Paolo sono testimoniati dalla legge e dai pro feti (cf. Rom. 3,2 1 ). A lode di Dio i credenti pronunciano il loro «amen» al «SÌ» dell'opera salvifica di Dio in Gesù Cristo. Dal culto giudaico la chiesa primitiva ha preso l'uso di rispondere con amen alla lettura del la Scrittura e alle preghiere. Spesso Paolo usa l'amen al termine di una benedizione (Rom. 1 5,3 3; Gal. 6, 1 8; Fil. 4,2 3 ?) o di una dossologia (Rom. 1 ,2 5; 9, 5; 1 1 ,36; 1 6,27; Gal. 1 ,5 ; Fil. 4,2o). Il passo qui in esame è una prova che nel culto cristiano l'amen veniva pronunciato come responsorio (cf. 1 Cor. 14, 1 6). In Cristo tutti i cristiani sono uniti a for mare una comunità. Nei vv . 2 1 s. Paolo riprende espressioni della tra dizione per descrivere le benedizioni del battesimo (E. Dinkler). Il par ticipio presente all'inizio del versetto esprime sinteticamente che cosa il battesimo significhi per i cristiani nel presente: per suo mezzo ai cre denti è data una posizione sicura in Cristo (cf. I Cor. 1 , 6. 8 ); il verbo greco tradotto con «rafforzare» nell'uso giuridico significa «conferma re legalmente». L'espressione «rafforzare (dentro) in Cristo» è influ enzata probabilmente dalla formula «battezzare in Cristo» (Rom. 6,3). I tre participi che seguono si riferiscono all'atto del battesimo che è già stato ricevuto, e descrivono quel che con esso Dio ha compiuto nei credenti. Il battesimo è definito in primo luogo un' «unzione» per ché con esso viene dato lo Spirito santo; col «crisma», l'olio, s'intende lo Spirito (I Gv. 2,20). Nell'Antico Testamento re, sacerdoti e profeti per la loro funzione venivano unti con olio. Per il suo compito messia nico Dio ha unto anche Gesù con lo Spirito (Le. 4, 1 8; /s. 6 1 , 1 s.); ana logamente anche i cristiani, ricevendo lo Spirito nel battesimo, vengo no «unti» per il loro compito di testimoni di Gesù Cristo. L'uso del-: l'unzione nel contesto della somministrazione del battesimo è docu mentato solo a partire dal n secolo (in Teofilo di Antiochia); era cor rente soprattutto tra gli gnostici e i mandei. Il battesimo viene poi descritto come «impressione di un sigillo», perché con esso i credenti vengono dati in proprietà al loro nuovo Si gnore Gesù Cristo. Nella pratica giuridica imprimere un sigillo signi-
J 2.6
2
Cor.
1 ,23-2,-4.
Il cambiamento nel piano della visita a Corinto /
fica « apporre un marchio di proprietà». Nel linguaggio criStiano l'espressione ha un aspetto escatologico (Apoc. 7,3) preparato dal mo tivo veterotestamentario dell'apporre il sigillo in vista della preserva zione nel giudizio finale (Ez. 9,4 ss.; cf. 4 Esd. 6, 5 ) . I membri della co munità che Cristo ha redento a caro prezzo ( 1 Co r. 7,2 3) nel battesi mo hanno «ricevuto il sigillo mediante lo Spirito santo che è stato pro messo» (Ef 1,1 3), divenendo in tal modo proprietà di Gesù Cristo. Nel giudaismo la circoncisione era il sigillo dell'alleanza (cf. Rom. 4, 1 1 ) ; per i cristiani il battesimo ha preso il posto della circoncisione (Col. 2.,1 1 ). Solo nel n secolo il battesimo viene definito «sigillo» (sphragis) (Herm., sim. 9,1 6,J-5; 2 Clem. 7,6). In età neotestamentaria l'atto di fare il segno della croce con l'acqua (cf. Mc. 8,34; E. Dinkler) non è ancora documentato. Del battesimo infi ne si dice che per suo mezzo Dio ha posto nei nostri cuori come «caparra» o «anticipo» lo Spirito (2 Cor. 5 , 5; Ef 1,14; cf. 4,30). Giuridicamente un contratto d'acquisto entra in vigore col pagamento di un anticipo; questa situazione viene trasferita al rapporto tra lo Spirito che ci è già donato e la redenzione definitiva. Tre delle espressioni q u i adoperate per il battesimo hanno in ambito giuridico il significato di «accertamento»; in ambito religio so sottolineano la certezza della speranza nella salvezza escatologica. Tutte e quattro le affermazioni si riferiscono allo Spirito santo, che è la «primizia» del compimento (Rom. 8,2 3 ) Secondo questa descrizio ne protocristiana, nel battesimo opera il Dio «uno e trino» che rende i credenti proprietà di Gesù Cristo e fa loro il dono dello Spirito santo. .
1.3. Il vero motivo del cambiamento nel piano della visita a Corinto ( 1 ,23-2,4) Ma io chiamo Dio a testimone sulla mia anima (= vita) che solo per ri sparmiarvi non sono venuto a Corinto. 24 Noi non siamo padroni della vostra fede, ma collaboratori della vostra gioia; giacché nella fede voi siete saldi . .z 1 A ciò infatti m'ero deciso, a non venire di nuovo tra voi nell'affli zione. 2 Se infatti io rattristo voi, chi allieterà me se non colui che io stesso ho rattristato? 3 E così vi ho scritto affinché, venendo, non fossi rattristato da coloro dei quali avrei dovuto gioire; avevo tuttavia fiducia che per tutti voi la mia gioia fosse anche la vostra. 4 Vi ho scritto infatti in grande affli zio ne e angoscia del cuore, tra molte lacrime, non per rattristarvi, ma per ché conosceste l'amore immenso che ho per voi. 23
23 Rom. 1,9.
�4-4, 5 · .2.,1 11,21. 4 7,8.
2
Cor.
1 ,23 -2,4. Il cambiamento nel p iano della visita a Corinto
3 27
.z 3-.14. Solo ora Paolo dice il vero motivo del cambiamento di pro gramma per la sua visita: il riguardo dell'apostolo per la comunità, det tato dalla sollecitudine per le loro anime. Paolo non è più tornato a Corinto dopo la visita intermedia perché non voleva essere costretto a farvi uso della sua autorità apostolica per punire (cf. I Cor. 4,2 1; 2 Cor. 1 3 ,2 s.). Come in 1 , 1 8, con una formula asseverativa chiama Dio a testimone di questo motivo della sua mancata visita: possa Dio to gliergli la vita, se la sua affermazione non è vera. Il v. 24 spiega il mo tivo del riguardo: tra apostolo e comunità le cose non sono in termini tali che questi sia signore e padrone della fede della comunità. L' apo stolo è semmai un servitore di Dio e della comunità; nella chiesa solo Gesù Cristo è «Signore». Con ciò Paolo respinge anche l'accusa di ti ranneggiare la comunità (cf. 4,5; 10,8). L'apostolo collabora a che cre sca nella comunità la «gioia nel Signore» (cf. Fil. 3 , 1 ) che è un frutto dello Spirito (Gal. 5,22 ). Per sua natura la predicazione della buona novella serve alla gioia degli uomini; per fedeltà al suo compito, dun que, Paolo ha omesso la visita. Egli non vuole dominare sulla comuni tà; mediante il suo servizio i corinti sono diventati cristiani «adulti» e hanno acquistato la loro propria stabilità nella fede. .z, 1-4. Paolo si era fermamente riproposto di non dovere di nuovo venire a Corinto in condizioni che dovessero causare dispiacere o far lo soffrire. Con la visita trascorsa nell'afflizione non è possibile s'in tenda quella della fondazione della comunità; l'afflizione di cui si par la nel v. 5 dev'essersi prodotta quindi in una seconda visita, la cosi d detta «visita intermedia», tra quella della fondazione e la terza visita annunciata in 1 2,14 e 1 3, 1 (v. intr., p. 19). La comunità è la gioia e il «vanto» dell'apostolo ( 1 , 1 4); Paolo distruggerebbe quindi la fonte del la sua propria gioia se rattristasse la comunità. Questa relazione di re ciprocità esprime l'amore di Paolo per la comunità. Nel v. 3 Paolo ri manda a una lettera nella quale ha scritto ai corinti proprio questo, per non dovere, alla sua venuta, provare afflizione per quelli che do vrebbero essere la sua gioia; egli infatti confida che per tutti i membri della comunità la sua gioia sia anche la loro, come dev'essere per i mem bri del corpo di Cristo (I Cor. 1 2,26). Sottolineando il «tutti», sta cer cando di conquistare la minoranza che eventualmente gli fosse ancora contraria. La lettera di cui parla non può coincidere né con I Cor. né con la cosiddetta «lettera di riconciliazione», ma deve trattarsi della co siddetta «lettera delle lacrime» appena nominata al v. 4, che Paolo ha
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2
Cor.
2, s - 1 I.
Rimozione della discordia tra ap ostolo e comunità
scritto dopo la visita intermedia. Per la nostra interpretazione questa lettera intermedia è contenuta in parte nei capitoli polemici IO- 1 3 (cf. intr., pp. 26 s.) e sulla base della descrizione del v. 4 è detta la «lettera delle lacrime» (cf. intr., pp. 20 s.). Paolo l'ha scritta «in grande affli zione e angoscia di cuore�; dopo l'increscioso scontro durante la vi sita intermedia, la preoccupazione dell'apostolo per la sopravvivenza stessa della comunità era fortissima. In quella difficilissima situazione s'era deciso a malincuore a non recarsi per il momento a Corinto, con trariamente a quanto aveva promesso, e di mandarvi invece Tito inter venendo sulla comunità con una lettera; è probabile che Tito abbia portato con sé a Corinto la lettera delle lacrime. Questa lettera tanto dolorosa per Paolo, scritta «tra molte lacrime», non mirava ad afflig gere la comunità, anche se temporaneamente, di fatto, l'effetto fu que sto (7,8), ma doveva al contrario mostrarle lo straordinario amore del l'apostolo per essa. Paolo non agiva per vanità offesa o per desiderio di vendetta, ma da padre spirituale della comunità voleva ricondurla sulla retta via. La «lettera delle lacrime» ha preso il posto di una «visi ta nell'afflizione� che fu tralasciata per amorevole riguardo. • ·4·
Rimozione della discordia tra apostolo e comunità ( 2, 5 - I I)
5 E se qualcuno ha causato afflizione, non h a rattristato solo me, ma in par te almeno, per non dire troppo, tutti voi. 6 Per l'interessato è sufficiente questo castigo che gli è venuto dai più, 7 così che dovreste al contrario ri volgergli ora benevolenza e consolazione, perché non soccomba sotto un' af flizione troppo forte. 8 Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi l'amore. 9 Anche per questo vi ho scritto, infatti, per vedere alla prova se siete obbedienti in tutto. Io A chi voi perdonate anch'io perdono; poiché quello che ho perdonato, se qualcosa ho avuto da perdonare, (l'ho perdo nato) per voi davanti a Cristo, 1 I affinché non siamo soggiogati dal Satana, giacché non ne ignoriamo le intenzioni. 6 7,1 1 s. 7 CoL J , I J .
5- I I . Come il rapporto dell'apostolo con la comunità era ispirato in passato all'amore, lo stesso vale per il presente e per il futuro. Dacché Tito ha portato la notizia del ritorno dei corinti, il rapporto di fiducia s'è ripristinato (7,I 6). Nel v. 5 Paolo si riferisce un po' più precisamen te all' «afflizione» cui ha accennato solo brevemente in 2, I , parlando di colui che l'ha causata. Né qui né in 7,8 ss. Paolo fornisce un racconto
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Cor.
2, 5 - 1
1. Rimozione della discordia tra apostolo e comunità
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dell'episodio che sia abbastanza concreto da poterlo ricostruire con esattezza; i corinti lo conoscevano ed egli ne richiama solo quel che tocca i suoi rapporti con la comunità. Lo scontro penoso non può ri ferirsi al cosiddetto incestuoso di 1 Cor. 5, poiché costui non ha rat tristato Paolo personalmente; d'altra parte, il castigo nominato nel v. 6 è più blando dell'abbandono al Satana. È presumibile che nel corso della visita intermedia un membro della comunità di Corinto abbia attaccato personalmente l'apostolo e l'abbia offeso gravemente, senza che la comunità intervenisse in suo favore. La punizione richiesta da Paolo (nella lettera delle lacrime) per il «colpevole» (7, 1 2) nel frattem po è stata evidentemente messa in atto dalla maggior parte della co munità; perciò ora nella lettera di riconciliazione (cf. intr., p. 26) Pao lo prega che si agisca con amore nei confronti della persona punita. Dal momento che costui ha riconosciuto il suo torto e ricevuto il suo castigo, non si deve più affliggerlo. Per delicatezza nei suoi confronti Paolo non fa il suo nome, né dice altro sul contenuto dell'offesa. Dal v. 5 h si capisce che il comportamento del «colpevole» aveva riguarda to l'intera comunità. Ciò avalla l'ipotesi che l'interessato avesse conte stato la legittimità dell'apostolato paolino davanti a tutta la comunità, poiché una tale accusa non solo colpiva al cuore l'apostolo nella co scienza della sua missione, ma metteva in questione anche la legittimi tà della fondazione della comunità. Alludendo a quella parte della co munità che non è stata rattristata dall'incidente, Paolo pensa a quella minoranza che non ha approvato la punizione dell'offensore (v. 6). Poi ché Paolo ha richiesto quella punizione in nome d eli'autorità del suo ufficio di apostolo, gli interessa che la comunità non tratti l'accaduto solo come un'offesa alla sua persona. Paolo avrà lasciato alla comunità la scelta del genere e della forma del castigo; in che sia consistito non viene detto. Non può trattarsi né di un rimprovero fatto una volta per tutte, né di un'esclusione per sempre dalla comunità; è verisimile che per un certo tempo si siano interrotti i rapporti col colpevole. Paolo ha appreso da Tito che nel frattempo la persona punita s'è pentita del la sua azione. Per questo il periodo di castigo deve lasciare il posto a un amore tanto maggiore e la comunità perdonare il peccatore pentito e consolarlo. L'apostolo sa bene che un dolore eccessivo può spingere un uomo alla disperazione. Il perdono della comunità in conformità al perdono di Cristo (Col. J , 1 3) significa in concreto che la persona pu nita dev'essere accolta di nuovo nella piena comunione fraterna. Nel
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.l
Cor. 2., 1 .2- I J. L'ansiosa attesa di Tito
v. 9 Paolo indica un ulteriore motivo di quel suo scritto: voleva vedere fin dove arrivasse l'obbedienza della comunità; allora non poteva an cora sapere come i corinti avessero accolto la sua richiesta di punire chi l'aveva offeso. N el frattempo ha saputo da Tito che la comunità ha superato questa prova. L'obbedienza a Paolo deriva dall'obbedienza nei confronti del vangelo predicato dall'apostolo (Rom. Io, I 6). Nel v. 1 0 Paolo ribadisce il suo pieno accordo con i corinti nella disponibili tà al perdono. A chi essi perdonano, anch'egli perdona. Nel caso del l'offesa che ha ricevuto durante la visita intermedia, anch'egli per la co munità ha perdonato all' «autore dell'iniquità» per obbedienza al Si gnore innalzato. Con la riserva contenuta nell'osservazione «se qual cosa ho avuto da perdonare» fa capire che non agisce per motivi per sonali; non essendosi sentito offeso personalmente, da questo punto di vista non ha nulla da perdonare. I cristiani devono ispirarsi al coman damento dell'amore e al comportamento di Gesù Cristo. Se la comu nità non rispondesse al perdono divino in Cristo anche con la propria disponibilità a perdonare, darebbe spazio all'avversario di Cristo. Il Satana cerca soprattutto come distogliere gli uomini dall'obbedienza al volere di Dio, per aggiogarli ai suoi scopi di discordia e distruzione. Gesù ha concepito tutta la sua azione come una lotta contro il Satana (Le. I O, I 8). Anche Paolo vede il nemico di Dio costantemente intento a disturbare il suo lavoro missionario e a distogliere i cristiani dalla fe de con colpi astuti (cf. 1 Cor. 7, 5; 2 Cor. 1 1,2; 1 Tess. 2, 1 8). 1. 5.
L'ansiosa attesa di Tito (2, 1 2 e 1 3)
1.z Allorché giuns i a Troade per predicare il vangelo di Cristo , e mi si ap rì una porta nel Signore, 1 3 non ebbi pace nel mio spirito per non aver trova to il mio fratello Tito; p erciò presi congedo da quelli e partii per la Mace
donia. 12. 1
Cor. 1 6,9; Atti 2o,6 s. 13 7, 5 .
1 2- 1 3 . Nel v. 12 ha inizio il racconto del viaggio da Efeso verso la Macedonia passando per Troade, racconto che verrà proseguito in 7, 5 . Dopo aver pregato di trattare con mitezza l '«autore dell'iniquità», Paolo torna nuovamente a parlare del passato: non vuole dare sempli cemente un resoconto del suo viaggio, bensì mettere davanti agli occhi della comunità quanto per tutto quel tempo la preoccupazione per lo ro non gli abbia dato pace. Dopo la visita intermedia a Corinto Paolo
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Cor.
2,1 4-7,4· Natura dell'ufficio di ap ostolo
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rimase ancora un certo tempo a Efeso; in seguito lasciò la città che era stata il centro della sua attività per quasi tre anni e si mise in viaggio verso Troade, nel nord -est dell'Asia Minore, per svolgervi la sua at tività missionaria. L'occasione e il momento preciso di questa parten za da Efeso non sono menzionati; è verisimile che abbia avuto luogo solo dopo il pericolo mortale ricordato in I ,8 - I 1 . Nella città portuale di Troade v'era già probabilmente un piccolo numero di cristiani, che Paolo aveva conquistato alla fede nel suo secondo viaggio missionario (cf. Atti I 6,8 ss.; 20,7 ) . Qui vi si presentarono all'apostolo favorevoli possibilità per una copiosa attività, come dice con un'espressione cor rente nel linguaggio missionario ( 1 Cor. I 6,9; Col. 4,3; Atti 14,27; Apoc. 3,8). L'immagine della porta che si apre è usata in senso traslato per indicare l'occasione di un proficuo lavoro missionario. In propo sito i missionari cristiani sanno bene di non avere essi stessi il potere di aprirsi la strada verso il cuore degli uomini, ma che Dio, mediante il suo Spirito, deve rendere efficace la parola della croce. Malgrado le buone possibilità missionarie di Troade, Paolo non attese là l'arrivo di Tito, col quale aveva convenuto d'incontrarsi in quella città. Deside rava sapere il più presto possibile dal suo resoconto su Corinto come la comunità avesse accolto la sua lettera. No n trovando a Troade il suo collaboratore e fratello nella fede, fu preso da tale intima inquie tudine, da non poter reggere oltre; prese commiato da quei cristiani e si mise in viaggio per la Macedonia incontro a Tito. Tanta era la ten sione dell'apostolo, che rinunciò persino alla favorevole situazione missionaria di Troade; da questo i corinti possono giudicare quanto gli stia a cuore la loro comunità. Tito era gentile di nascita e Paolo si era opposto alla sua circoncisione in occasione del convegno apostoli co (Gal. 2,3). Non aveva preso parte alla fondazione della comunità di Corinto; ciononostante gli era riuscito di appoggiare con forza l' azio ne della lettera delle lacrime, riconquistando a Paolo i corinti. A Co rinto portò a termine la colletta per Gerusalemme (2 Cor. 8,6). Secon do la lettera a Tito più tardi questi svolse la sua attività come capo di comunità a Creta. 2.
Natura dell'ufficio di apostolo (2,14-7,4)
Dopo 2,1 3 il racconto si interrompe bruscamente; in modo relati vamente repentino, con una lode a Dio, Paolo inizia una trattazione
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2
Cor.
2., 1 4-7,4·
Natura dell'ufficio di apostolo
assai ampia sul suo ministero apostolico di predicazione del vangelo. In 7, 5, con parole simili a quelle di 2, 1 J, riprende il filo del suo rac conto, riferendo dell'arrivo di Tito in Macedonia e dell'annuncio libe ratorio che questi gli fece del ritorno della comunità di Corinto. Secondo la maggior parte delle recenti ipotesi di suddivisione della lettera, con 2, 14 ha inizio uno scritto di Paolo sull'ufficio di apostolo che abbraccia i capp. 2, 1 4-7,4 (con l'esclusione di 6, 1 4-7, 1 ) e che cro nologicamente va collocato prima della cosiddetta lettera di riconci liazione (capp. I -8). Questa cosiddetta «apologia dell'ufficio di apo stolo» da alcuni viene considerata parte della lettera delle lacrime in sieme con i capitoli polemici 10-1 3 (R. Bultmann; E. Dinkler), da altri è vista come una lettera a sé, che Paolo avrebbe inviato a Corinto an cor prima della sua visita intermedia (G. Bornkamm). Secondo la pri ma interpretazione, nel corso della sua visita intermedia Paolo avreb be conosciuto più a fondo la posizione del suo oppositore e avrebbe risposto a quell'attacco alla legittimità del suo apostolato con la lettera delle lacrime (2, 1 4-7,4; 10- I J). Secondo il modo di vedere di Born kamm, Paolo venne a sapere dell'arrivo a Corinto di missionari avver si che non riconoscevano in lui un apostolo legittimo. Perciò espose diffusamente in una lettera la sua concezione del ministero apostolico, sperando in tal modo di poter sistemare la situazione recentemente creatasi a Corinto. L'inquietudine invece si fece più acuta, così che Pao lo si vide costretto a recarsi personalmente a Corinto per mare (visita intermedia). A seguito dell'andamento negativo di questa visita Paolo scrisse i polemici capp. I o- 1 J, che costituiscono una parte della lettera delle lacrime e sono la reazione dell'apostolo allo scontro verificatosi nel corso della visita intermedia. - Vi sono anche importanti ragioni a sostegno dell'appartenenza della sezione 2, 1 4-7,4 alla lettera di ricon ciliazione (W.G. Kiimmel; C.K. Barrett). A mio parere, il ricordo del la preoccupazione e trepidazione provate a Troade indussero in segui to Paolo a sviluppare diffusamente il fondamento teologico della sua opera apostolica, che era stato l'oggetto del doloroso conflitto di Co rinto, al fine di rendere comprensibili ora alla comunità i suoi motivi da una posizione di maggior distanza e con un'esposizione distaccata. Per questo tale sezione fa ora l'effetto di un ampio excursus.
2.1. Paolo è abilitato al ministero apostolico (2, L4- 3 ,6)
La lode di 2, 14 costituisce un nuovo inizio. Secondo 1 , 1 2 a Corinto s'era accusato l'apostolo di esercitare il suo ufficio con motivi disone sti. Per questo ora Paolo, a partire da 2, 14, si confronta con i suoi av versari che gli contestano di essere un apostolo legittimo (P. Stuhlma cher). Il senso fondamentale della sua autodifesa è contenuto in 2, 1 7: Paolo non s'è arrogato da sé l'ufficio di apostolo, ma Dio ha chiamato quegli che un tempo era stato un persecutore dei cristiani e l'ha reso idoneo a servirlo. La prima parola di Paolo sul suo ufficio è perciò una lode alla grazia di Dio che gli è toccata (cf. I Cor. 1 5,10). Nessuno è adatto da sé al «ministero della riconciliazione» (5,1 8). È Dio che ha reso Paolo capace del ministero apostolico, e come segno visibile della legittimità del suo apostolato Cristo gli ha donato la comunità di Co rinto (3,1 -6). 2.1.1. Lode a Dio di Paolo per il suo ministero apostolico
{2, 14- 1 7) 14 Ma sia grazie a Dio che in Cristo sempre ci conduce in trionfo e manife sta per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza in ogni luogo. 1 5 Noi siamo infatti un profumo di Cristo per Dio tra coloro che sono salvati e tra coloro che si perdono; 16 per gli uni (siamo) un odore di morte per la morte, per gli altri un profumo di vita per la vita. E chi mai è capace di far questo ? 17 Poiché non siamo come i molti (altri) che trafficano la parola di Dio, ma con coscienza schietta, come viene da Dio, parliamo {responsabil mente) davanti a Dio in Cristo. IJ 1 Co r. 1,18. 16 3,5 s. 17 1 , 1 2; 4,2.
1 4-17. L'espressione liturgica «sia grazie a Dio» (Rom. 6,1 7; 7,2 5; I Cor. I 5 , 5 7; 2 Cor. 8,16; 9, 1 5) è parallela alla formula di lode «sia lode a Dio» e come questa è seguita da participi. Paolo ringrazia Dio di portarlo sempre in trionfo in Cristo. Con quest'immagine si riferisce a tutta la sua attività di predicazione dal momento della sua chiamata, e con «sempre» e «in ogni luogo» esprime la dimensione universale della sua concezione dell'apostolato. Nell'immagine del trionfo Dio è il trionfatore che sulla via di Damasco ha «vinto» il suo ex persecutore Paolo, facendo di lui con la sua chiamata un cristiano credente e in sieme l'apostolo dei gentili, predicatore dell'annuncio della croce, e come vinto Dio ora lo porta nel suo trionfo. Ciò non vale nella stessa
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Cor.
2, 1 4- 1 7. Lode a
Dio di Paolo per il suo ministero apostolico
misura per gli altri apostoli (per Pietro, ad es., malgrado il suo diniego di Gesù). In 4, 1-6 Paolo tratta più da presso i temi dell' «illuminazione per la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Gesù Cristo» e del duplice effetto della parola della croce ( 1 Cor. 1 , 1 8). Un'altra interpre tazione dell'immagine vede in Dio il vincitore che in Cristo ha vinto le potenze del vecchio mondo (Col. 2,1 5) e porta in trionfo con sé l' apo stolo come suo araldo. L'immagine successiva del dolce profumo della conoscenza di Dio descrive la manifestazione della sapienza e della potenza di Dio nella croce di Cristo (cf. 4,6); Paolo diffonde questo profumo mediante la predicazione della parola della croce. Nel giu daismo ellenistico la sapienza era paragonata al profumo di piante odo rose e dell'incenso (Sir. 24,20 s.). Nello gnosticismo del n sec. d.C. era molto diffusa l'immagine del «profumo» dell'inviato della luce e della conoscenza. Quanto viene qui detto con l'immagine del profumo è descritto in 4,6 con quella del risplendere della luce. Nel v. 1 5 Paolo designa se stesso nella sua funzione di apostolo come il «profumo di Cristo» per Dio. Il profumo viene da Cristo, in cui si nascondono «tut ti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col. 2,3). L'espressione «un profumo per Dio» è usata nel linguaggio sacrificaie veterotesta mentario (Gen. 8,2 1, ecc.). Il profumo delle vittime sale a Dio che se ne compiace. La sapienza di Dio rivelata nella croce, invece, in Cristo è discesa da Dio agli uomini. Talvolta Paolo paragona il suo ministero di predicazione a un sacrificio (cf. Fil. 2, I 7; Rom. I 5, I 6); in questo pas so non si pone l'accento sull'idea che l'apostolo sia sacrificato, ma si sottolinea che al servizio di Dio egli predica agli uomini la conoscenza della gloria di Dio in Cristo. La predicazione di Paolo (e dei suoi col laboratori) ha un'efficacia differente tra coloro che sono salvati e co loro che si perdono. Il vangelo è un annuncio di salvezza per tutti, ma il suo effetto è diverso per coloro che lo accolgono nella fede e per co loro che lo rifiutano nell'incredulità. «La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per noi che siamo salvati è potenza di Dio» (z Cor. 1,1 8). In quanto predicatore e rappresentante della paro la della croce, l'apostolo è per gli uni un «odore di morte» che porta morte, per gli altri un «odore di vita» che promette vita. La separazio ne avviene con la presa di posizione nei confronti dell'annuncio, pre dicato dali' apostolo, della conoscenza della gloria di Dio sul volto di Gesù Cristo (4,6). Di fronte alla torà del Sinai la separazione tra vita e morte avviene mediante l'adempimento dei comandamenti (Gal. 3,1 2),
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Cor. J , I -J. La comunità, la lettera di raccomandazione di Cristo
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ma di fronte al vangelo come «potenza di Dio per la salvazione» (Rom. 1, I 6) avviene mediante la fede nell'azione conciliatrice di Dio in Cri sto ( 5 , I 9). Per il nostro limitato pensiero di uomini, l'intreccio di de terminazione divina e libertà di decisione umana rimane un mistero insolubile. L'eterno disegno salvifico di Dio si realizza nella storia con la chiamata alla fede ( I Tess. I ,4 s.) mediante la predicazione dell'an nuncio di croce e risurrezione di Gesù Cristo. N ella teologia di Paolo la predestinazione divina è strettamente legata all'operare salvi:fico di Dio in Gesù Cristo (cf. Rom. 8,30). Quale sarebbe l'uomo capace da sé di trasmettere un annuncio su cui si decide della vita o della morte? Col termine «capace» (hikanos, cf. Es. 4,I o LXX) è pronunciata la pa rola chi ave che guida il corso dei pensieri nella controversia di Paolo con gli avversari che gli contestano la legittimità del suo ufficio di apo stolo. Nel v. I 7 si presuppone che Dio abbia reso Paolo «capace» del ministero apostolico. In quanto tale l'apostolo si distingue dai «molti (altri) che trafficano la parola di Dio». Paolo allude con ciò ai predica tori itineranti giudeocristiani che lavorano con lettere di raccomanda zione (3, 1 ; IO, I 2. I 8) e si fanno mantenere dalle comunità (cf. I I ,7-I 2). Nei suoi avversari vede evidentemente dei missionari simili ai predica tori itineranti religiosi e filosofici (cf. I Tess. 2,3 -7) che a quel tempo si spostavano di città in città, facendosi abbondantemente pagare con beni materiali la loro sapienza. In qualità di apostolo Paolo non si ser ve della parola di Dio per il suo interesse, non «traffica» il vangelo, ma predica l'annuncio della croce con coscienza limpida, onestamente e senza secondi fini (cf. I , I 2 ) , come un nunzio che fa le veci di Cristo ( 5,20), legato e liberato dalla verità di Dio. In tutto il suo operare apo stolico egli sta sotto lo sguardo di Dio e nel suo parlare è responsabile davanti a lui ( I 2,I9). Paolo presagisce che i suoi critici di Corinto in terpreteranno immediatamente queste sue parole come un volersi rac comandare da sé. z. I.l.. La comunità è la lettera di raccomandazione di Cristo per Paolo (J, I-J) 1 Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo biso gno, come taluni, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra ? 2 Siete voi la nostra lettera (di raccomandazione), scritta nel nostro cuore, conosciuta e letta da tutti gli uomini. 3 Vi è manifesto che siete una lettera di Cristo composta mediante il nostro ministero, scritta non con inchio-
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2
Cor.
3 , 1 -}. La comunità, la lettera di raccomandazione di Cristo
stro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavo le di carne, cioè i vostri cuori. 1 5 , 1 2.; 1 0,12.. % 1 Cor.
9,.2.. 3· Es.
.2.4,1 2.; Ez. 1 1,19; 36,2.6; Ger.
J I,J3·
1-3. La prima domanda retorica, che per la sua forma rimanda a una
risposta negativa, fa capire che all'apostolo l'accusa di raccomandare se stesso era già stata mossa più volte (cf. 5 , 1 2; I 0, 1 2. 1 8). La seconda domanda, cui pure va data per Paolo risposta negativa, nell' espressio ne «come taluni» contiene una punta polemica contro missionari ostili che fanno uso di lettere di raccomandazione ( I o, 1 2. 1 8). Costoro si fan no certificare dalle comunità in cui hanno operato le loro possenti azio ni pneumatiche, per servirsene di raccomandazione presso le nuove co munità in cui si presentano. Nell'antichità l'uso di lettere commenda tizie era comune ovunque, nel mondo greco, nel giudaismo (cf. Atti 9,2) e anche nell'ambiente cristiano (Atti 1 5,23; 1 8,27). Nemmeno Paolo rifiuta in linea di principio questa pratica (Rom. 1 6, 1 s.); all'occasione, scrive anch'egli una lettera di raccomandazione, come mostra il caso della lettera a Filemone. Nulla nel testo indica che gli avversari fosse ro muniti di lettere commendatizie della comunità madre gerosolimi tana; l'espressione «per voi o da parte vostra» depone nettamente con tro quest'ipotesi; anche i corinti, infatti, avrebbero potuto rilasciare loro una raccomandazione agli avversari di Paolo. Se i missionari di capp. 1 0- 1 3 fossero stati inviati da Gerusalemme, difficilmente si sa rebbero fatti rilasciare una lettera di raccomandazione dalla comunità di Corinto. A differenza dei suoi avversari, a Paolo non sono necessa rie lettere commendatizie per il suo ministero apostolico. E nemmeno ha bisogno di raccomandare se stesso lodandosi, poiché il Signore stes so lo raccomanderà con l'opera che Cristo gli ha donato per mezzo dello Spirito di Dio. Paolo traspone ora il motivo della lettera di rac comandazione alla comunità stessa. La lettera commendatizia che Cri sto ha scritto per l'apostolo Paolo è la comunità di Corinto, pervenuta alla fede mediante lo spirito di Dio e scolpita nel cuore del suo padre spirituale (cf. 7,3). Il plurale di 2, 14-3,6 si riferisce al solo Paolo. La me no attestata lezione «scritta nei vostri cuori» (invece di «nei nostri cuo ri»), che pure avrebbe un senso comprensibile, va tuttavia considerata un'attrazione del soggetto «voi». L'immagine qui è determinata, e in parte interrotta, da riferimenti concreti, come mostra anche la fine del v. 3 · La comunità di Corinto, con i suoi stretti legami con Paolo, frut to evidente e riconoscibile della sua azione apostolica, sta sotto gli oc-
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Cor. 3 ,4-6. Paolo ministro della nuova alleanza
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chi di tutti; la notizia della nascita di questa comunità s'è spinta lonta no, ben oltre i confini della città (cf. 1 Tess. 1 ,7-9 ), così che ognuno può leggere e capire questa lettera di Cristo. Il fatto stesso che i corinti sia no pervenuti alla fede rende evidente che la comunità è la lettera con cepita da Cristo, che Paolo in quanto predicatore della parola della croce ha messo per iscritto. Di fatto le lettere a quel tempo venivano scritte con inchiostro su papiro; da questo punto di vista, per la co munità le cose stanno diversamente: è stata chiamata in vita mediante lo Spirito del Dio vivente (cf. Deut. 9, I o) che dona la fede e la vita (Rom. 8, I o). A partire da questQ momento il corso delle idee è deter minato da passi dell'Antico Testamento, e con i concetti che se ne at tingono viene messa in risalto la differenza tra la torà del Sinai e l'an nuncio di Cristo. La legge di Mosè era scritta su tavole di pietra (Es. 24, I 2; J I , I 8; 3 2,1 5 s.); a essa si contrappone la nuova alleanza, pro messo da Geremia e realizzatosi in Gesù Cristo, col quale Dio mette nel cuore degli uomini il suo Spirito (Ger. 3 1 ,3 1-3 3). Il rinnovellarsi dei cuori ad opera dello Spirito è descritto da Ezechiele come la sostitu zione dei cuori di pietra con cuori di carne (Ez. 1 I, I 9; 36,26). La co munità è sorta col dono, da parte di Dio, dello Spirito nel cuore dei corinti (cf. Rom. 5,5). La tradizione sapienziale giudaica parla di «ta vole del cuore» (Prov. 7,3). Sulla base di questo nesso i cuori dei co rinti sono definiti «tavole di carne», dove «di carne» significa «rinno vate mediante lo Spirito» (Ez. I I , I 9), ossia proprio ciò che nell'antite si carne-spirito viene detto «spirituale». Il riferimento alla «nuova al leanza» introduce il leitmotiv dello sviluppo successivo. 2. 1.3 .
Paolo ministro della nuova alleanza {3 ,4-6)
Per mezzo di Cristo tale fiducia abbiamo davanti a Dio. 5 Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come fosse da noi, ma la nostra ca pacità viene da Dio, 6 il quale ci ha reso capaci di essere ministri della nuo va alleanza, non della lettera, ma dello Spirito. La lettera, infatti, uccide, men tre lo Spirito vivifica. 5 2, 1 6 s. 6 Rom. 7,6; 1 Cor. I I ,2j. 4
4-6. Nel v. 4 Paolo si riallaccia alla domanda sollevata in 2, 1 6 defi
nendo espressamente la sua idoneità al ministero apostolico un dono di Dio. La comunità è il frutto visibile della sua azione. Per mezzo di Cristo Paolo ripone tutta la sua fiducia in Dio, il quale mediante il suo
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Cor. 3,4-6. Paolo ministro della nuova aHeanza
Spirito contribuisce al successo della predicazione del vangelo. Que sta fiducia non viene dall'accresciuta coscienza di sé di una persona orgogliosa, ma è prodotta da Cristo che domina per intero la nuova vita dell'apostolo (Gal. 2,2o). Paolo è consapevole di non poter attri buire a se stesso tutto ciò che è in grado di fare col suo pensiero e con la sua riflessione, ma di doverlo a Dio. In quanto «schiavo di Cristo Gesù» (Rom. I, I) non può fare progetti di sua iniziativa, né ha da sé la forza necessaria al ministero apostolico. Quel che egli è lo è per grazia di Dio ( I Cor. I 5,Io). Dio stesso l'ha chiamato a essere apostolo e l'ha reso capace di essere «ministro della nuova alleanza». Risplende in que sto tutta la grandezza del ministero apostolico. La nuova alleanza è il nuovo ordine salvifico escatologico che Dio ha instaurato mediante l'evento Cristo. Il termine greco diatheke esprime meglio del nostro «alleanza» il carattere dell'ordinamento, della disposizione divina. «Servire», «ministro» e «ministero» sono termini che Paolo usa con particolare frequenza in 2 Cor. (in tutto una ventina di volte); anche i missionari che si sono introdotti a Corinto definiscono se stessi «mi nistri di Cristo» (I I ,2J). Il servire è il carattere della missione di Gesù, e chi vuoi essere grande tra i suoi discepoli dev'essere un servitore (Mc. I 0,43-45). Paolo applica il concetto di «ministro» (diakonos) allo stesso Gesù Cristo (Rom. I 5,8; Gal. 2,I 7), agli apostoli ( I Cor. 3 ,5) e a membri della comunità che svolgono le funzioni di diaconi (Rom. I 6, I ). L'espressione «ministro della nuova alleanza» s'incontra soltanto qui; con essa Paolo designa la caratteristica particolare del suo aposto lato a differenza dell'alleanza antica. L'espressione «nuova alleanza» viene da Ger. 3 I ,3 I (3 8,3 I LXX); era già in uso nella chiesa prepaoli na per indicare il nuovo ordine salvifico instaurato mediante la morte espiatrice e vicaria di Gesù Cristo ( 1 Cor. I I ,2 5; Le. 22,20 ). La nuova alleanza ha carattere escatologico ed è determinata non dalla lettera della legge, ma dallo Spirito promesso da Dio per la fine dei tempi (Ez. 3 6,26; Gl. J,I- 5 ). Dall'opera salvifica di Gesù Cristo, che ha adempiuto le promesse profetiche per la fine dei tempi, dipende il dono dello Spirito che si ri ceve nel battesimo. Spirito di Dio è la forza vivificante che nel futuro darà compimento alla «nuova creazione» (Rom. 8, I o s.; I Cor. I 5,4 5 ). In Paolo la contrapposizione della nuova alleanza all'antica s'ispira al mutamento di eone, che ha le sue radici nell'evento Cristo. Poiché la nuova alleanza mediante il sacrificio di Cristo nel segno dello Spirito è
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Cor. 3,7- 1 1 . Il ministero nell'antica e nella nuova alleanza
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l'escatologico ordine salvifico della vita, a mo' di giustificazione Paolo può aggiungere: «la lettera, infatti, uccide, ma lo Spirito vivifica» . Que st' antitesi non si riferisce all'opposizione tra forma e contenuto, op pure tra testo con un significato fisso e attività spontanea e creatrice dello spirito, e nemmeno a quella tra coscienza intima e azione esterna oppure tra idea e realizzazione; quell'antitesi è piuttosto espressione dell'opposizione tra giustizia della legge e giustizia della fede. Per Pao lo la torà (nomos) del Sinai, data al popolo Israele per mezzo di Mosè, viene da Dio (Gal. J, 19 ), contiene la volontà di Dio ed è perciò «santa, giusta e buona» (Rom. 7, 1 2). Questa legge di Mosè è detta dall'apo stolo «lettera» (gramma), nella misura in cui l'uomo ne abusa per giu stificarsi davanti a Dio. Il tentativo di conseguire la salvezza mediante l'adempimento della legge porta ineluttabilmente alla morte, non solo perché l'uomo non ha affatto la forza di adempiere perfettamente tutti i precetti, ma soprattutto perché l'uso improprio della legge a fini di autoaffermazione toglie onore a Dio e porta con sé la condanna per l'uomo. La legge che sta scritta in lettere fa del peccatore un trasgres sore dei comandamenti di Dio, lo accusa nel giudizio escatologico e lo abbandona così alla morte. Il termine «legge» per Paolo ha anche il si gnificato di «scrittura» (graphe) dell'Antico Testamento. L' espressio ne «la legge e i profeti» (Rom. 3,2 1 ) significa tutto l'Antico Testamen to. Della Scrittura veterotestamentaria Paolo non vede solo la funzio ne di morte, ma anche la promessa dello Spirito e della vita, che prelu de a Cristo (cf. Rom. 8,2), e la giustizia della fede prevista da Dio nel suo eterno disegno salvifico {cf. Gen. I s,6; Ab. 2,7). 2.2. La gloria del ministero apostolico (3,7-�h6) 2.2.1. Il ministero nell'antica e nella nuova alleanza (3,7- 1 1 ) 7 E s e i l ministero che conduce alla morte, le cui lettere furono incise su pietre, compariva nella gloria, al punto che gli israeliti non potevano fissare il volto di Mosè a causa della gloria, che pure era passeggera, su] suo vol to, 8 quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito ? 9 Poiché se già il ministero che conduce alla condanna fu glorioso, tanto più abbonda di glo ria il ministero che conduce alla giustizia. 10 Anzi, sotto questo aspetto ciò che era glorioso non lo è più a confronto di questa gloria sovreminente. 1 1 Se dunque ciò che è perituro risplendette di gloria, molto più glorioso sa rà ciò che permane. 7 Es. 34,28 s. 10 Es. 34,29-3 5.
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Cor.
3,7- I J .
n ministero nell'antica e nella nuova alleanza
Le considerazioni di 3,7- I 8 fanno riferimento alla narrazione vete rotestamentaria di Es. 3 4,29-3 5 dove si racconta di un fulgore che ri splendeva sul volto di Mosè allorché questi discese dal monte Sinai con le tavole della legge, così che gli israeliti ebbero subito timore ad avvicinarglisi. Mosè li chiamò a sé e comunicò loro quel che Dio gli aveva detto, dopodiché si mise un velo sul volto. Entrando nella tenda dell'alleanza per parlare con Dio, Mosè si tolse il velo, ma quando uscì se lo mise di nuovo. Gli israeliti videro che il suo volto risplendeva. In questo racconto lo splendore sul volto di Mosè viene interpretato come riflesso della gloria di Dio a seguito della sua vicinanza a Dio per quaranta giorni (Es. 34,28). Nell'Antico Testamento non si dice nulla del cessare di questo splendore. I rabbi suppongono che sia du rato fino alla morte di Mosè, anzi persino nel sepolcro. - Tra gli ese geti si discute quale sia la tradizione interpretativa concernente il pas so di Es. con cui Paolo si sta confrontando in questa sezione. Si è ipo tizzato che Paolo abbia utilizzato una predica da lui stesso preceden temente tenuta nella sinagoga (Moule), o che abbia corretto in un sen so da lui voluto un midrash giudeocristiano (S. Schulz), oppure che abbia interpretato in maniera polemica uno scritto dei suoi avversari dei capp. I 0-1 3 (D. Georgi). In tale scritto Mosè e Gesù Cristo non verrebbero rappresentati in corrispondenza ascendente ne'Ila veste dei cosiddetti > della ri velazione divina in Cristo, ma come «ministero della riconciliazione», in cui indirizzare agli uomini con la propria testimonianza la «parola della riconciliazione». Paolo vede il suo ministero di apostolo dei gen tili nel quadro del disegno salvi.fico divino, secondo il quale Dio chia ma tutti i popoli al regno di Dio, per dar compimento poi anche alla promessa fatta al popolo eletto Israele (Rom. I 1 ). Nel v. 2 1 Paolo trat ta ancora e con più precisione dell'atto di riconciliazione di Dio e del «perdono dei peccati» ricordato nel v. 1 9, parlando della persona di Cristo. Anche qui Dio è il soggetto dell'azione che per noi significa un «felice scambio» (Lutero): «Colui che non aveva conosciuto il pec cato, (Dio) lo ha fatto peccato per noi, perché ho i fossimo in lui giu stizia di Dio». È questo l'unico passo in cui Paolo parla direttamente dell'assenza di peccato in Gesù, comunque presupposta nei fatti in mol te affermazioni (ad es. Rom. 5 , 1 9; 8,3 ; Fil 2,8). Gesù non ha conosciu to il peccato nelle proprie azioni, dal momento che è vissuto nella to tale obbedienza al volere del Padre, che perciò l'ha innalzato (Fil. 2,6I I ) . Dell'innocente Gesù Dio ha fatto peccato «per noi», affinché pos siamo vivere in nuova comunione con Dio. Secondo Gal. 3, I 3 Cristo ci ha redento dalla maledizione della legge, divenendo per noi maledi zione egli stesso, come sta scritto: «Maledetto colui che pende dal le gno» (Deut. 2 1 ,23). Si ha qui la formulazione della morte espiatrice e vicaria di Gesù nell'ambito della controversia tra la giustificazione per fede e la giustificazione in forza della legge. Nella morte di Gesù Pao lo vede realizzate le affermazioni sul servo di Dio (fs. 5 3 ,5 . 1 2). È pro babile che nel v. 2 I Paolo abbia seguito una formula di fede giudeocri stiana in cui Gesù era detto vittima per i peccati (cf. peccato = vittima
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Cor. 6,J-IO. La prova che Paolo dà di sé nel ministero apostolico
per i peccati, Lev. 4,2 1.24; 5,1 2; 6, 1 8 LXX). La «giustizia di Dio» è qui il risultato dell'azione riconciliatrice di Dio, e designa «la qualità della nuova vita concessa ai credenti in forza del sacrificio espiatorio di Ge sÙ» (P. Stuhlmacher, Versohnung, 1 oo; cf. anche U. Wilckens su Rom. 3 2 5 ). La scelta dei termini astratti «peccato» e «giustizia di Dio», in vece delle espressioni concrete «peccatori» e «giustificati», che con tengono l'idea della nuova creazione del v. 1 7, ha la sua più profonda ragione obiettiva nella «vicarietà includente» dell'evento espiatorio, nel quale gli uomini peccatori sono strettamente uniti nel loro essere con Gesù Cristo crocifisso e risorto (0. Hofius). 6,1 -2. I primi versetti del nuovo capitolo sono connessi per conte nuto alla pericope precedente. Il termine «collaboratori», da comple tare con «di Dio» nel senso di 1 Cor. 3 ,9, si rifà a 5,20 secondo il quale Dio esorta attraverso gli apostoli. Rientra perciò nel compito aposto lico di Paolo esortare i corinti a non essere infedeli alla parola della ri conciliazione. I corinti avrebbero ricevuto invano la grazia di Dio, se ricadessero in un atteggiamento che fosse un vivere per sé, anziché per il Signore (5,1 5 ). L'opera di salvezza che hanno ricevuto in Cristo li obbliga a una condotta di amore e obbedienza. Nel v. 2 Paolo giusti fica la sua esortazione con la parola della Scrittura di Is. 49,8 (LXX). La formula rabbinica con cui viene introdotta la citazione intende dire che Dio stesso parla attraverso la Scrittura. Paolo interpreta il tempo del divino compiacimento, di cui nella citazione, come il tempo della grazia, il p iù favorevole agli uomini, sottolineando così il carattere pre sente della salvezza in Cristo (cf. Le. 4, 1 7 ss.). Per il singolo !'«adesso» (nyn ), fondato dall'evento Cristo, si realizza nel tempo salvifico esca tologico, nel momento in cui accoglie con fede la «parola della ricon ciliazione>) ( 5, I 9) ,
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2.4.2. L a prova che Paolo dà di sé nel ministero apostolico ( 6, 3 -1 o) 3 N o n diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga calunniato il (nostro) ministero, 4 ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta pazienza, in tribolazioni, in angustie, in ansietà, s in percosse, in prigionia, in tempi di tumulto, in fatiche, in notti insonni, nel digiu no, 6 in schiettezza, in conoscenza, in longanimità, in bontà, nello Spirito santo, in amore sincero, 7 nella parola della verità, nella potenza di Dio; con le armi della giustizia nella destra e nella sinistra, 8 in onore e disono re, in cattiva fama e buona fama, ritenuti corruttori, e invece veri tieri, 9 sco-
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Cor.
6,3- 10. La prova che Paolo dà di sé nel ministero apostolico
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nosciuti, eppure ben noti, moribondi ed ecco viviamo, puniti ma non mes si a morte, Io tribolati, eppure sempre lieti, poveri, ma facciamo ricchi mol ti, gente che non ha nulla, ma abbiamo tutto. 4- 10 l Cor. 4, 1 1 - I J. 6 Gal.
s,l.l. s. 7 Rom.
I J,Il.. 9 Sal. 1 18, 1 7 s.
Il comportamento dei predicatori dev'essere conforme alla natura dell'annuncio di riconciliazione; perciò Paolo spiega ora che questa regola è per lui in vigore. La pericope 3-1 o si collega sintatticamente (con i participi greci dei vv. 3 s.) al verbo principale «esortiamo)> (v. I ). Il tutto è una descrizione del ministero apostolico nello stile d'un cosiddetto catalogo di peristasi, del tipo delle pericopi 4,8- 1o, I I 2 3 29 e 1 Cor. 4, 1 1 - 1 3. Il fatto di vedere il proprio «vanto» nei patimenti della sequela della croce distingue Paolo dai suoi avversari, che si van tano invece di pregi esteriori ( 5, I 2). La figura letteraria del catalogo di peristasi consiste in una elenca zione piuttosto libera di tribolazioni, spesso in forma di struttura an titetica, in cui dà prova di sé il sapiente o Puomo di Dio. Questa for ma s'incontra sia nella letteratura greca (Dio Chrys., Or. 8,I 5 ss.), sia nell'apocalittica giudaica (ad es. Hen. slav. 66,6). Paolo ricorre a que sta forma, ma le dà un contenuto interamente in funzione della sua cristologia. I vv 3 e 4 costituiscono una sorta di titolo che indica il te ma: in essi si espone come Paolo si dimostri ministro di Dio. Il catalo go si apre con l'espressione «in molta pazienza», cui fa seguito l'enu merazione delle situazioni nelle quali l'apostolo dà prova di grande sopportazione. Introdotte da «in» compaiono qui prima tre terne nei vv 4c, 5a e 5b, poi quattro coppie nei vv 6 e 7a. Dal v. 7b fino a 8b vengono elencate le armi e le situazioni con cui e in cui si svolge il ministero, introdotte in greco da dia (attraverso). A partire dal «come corruttori>> del v. 8c, anziché sostantivi compaiono aggettivi e partici pi. Alle tribolazioni dei vv 4 e 5 si contrappongono nei vv 6 e 7 le forze con l'aiuto delle quali Paolo sostiene i patimenti. Molti dei con cetti qui impiegati compaiono anche nei cosiddetti cataloghi di virtù; nelle «virtù» Paolo vede dei carismi. Nella ricapitolazione dei versetti finali (Sc- I o) le antitesi sono contenute entro le singole parti delle pro posizioni. - In tutta la pericope si manifesta come Paolo non concepi sca gli apostoli come «campioni che lottano per la virtù», ma come strumenti di Dio che nelle avversità e angustie del loro ministero san no di essere sostenuti dalla forza e dallo Spirito di Dio. 3-4. Paolo sa che le debolezze e gli errori personali di un predicato,
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Cor. 6,J- IO.
La prova che Paolo dà di sé nel ministero apostolico
re possono essere fatti pesare sul ministero; perciò sotto ogni aspetto egli è attento a che nessun biasimo possa ricadere sul ministero apo stolico a causa del suo comportamento personale (cf. 1 Cor. 9,I 2; 1 Tess. 5,22). Nel parlare e nell'agire si comporta come si conviene a un ministro di Dio. Anche gli avversari di Paolo hanno avanzato la prete sa di essere «ministri di Cristo» (I 1 ,23); Paolo dimostra di essere vero ministro di Dio attraverso il suo ministero apostolico di sofferenza. s- 10. La grande pazienza dell'apostolo (cf. /s. 40,J I ) si manifesta nelle svariate avversità del suo ufficio. Vengono menzionate dapprima (v. 4) tribolazioni, angustie e ansietà in generale (cf. Rom. 8,3 5), poi le percosse nelle persecuzioni, come la punizione giudaica nelle sinago ghe (cf. 1 1 ,24) e quella romana delle verghe (cf. I I,25; Atti 16,22), la prigione (cf. I r,23) e i tumulti col pericolo dei linciaggi (cf. Atti 14, I 9 ) . In seguito vengono angustie derivanti dal ministero della predica zione: fatiche, rese più pesanti dal fatto che Paolo rinuncia a vivere a spese della comunità; notti insonni e frequenti digiuni, con i quali non si pensa a esercizi ascetici, ma alle privazioni di cibo e bevanda duran te i viaggi, dovute alla situazione (cf. I I ,27). Col v. 6 si nominano le forze con cui Paolo svolge il suo ministero: schiettezza ( 1 , I 2) e cono scenza (cf. I Cor. I 2,8), longanimità (Col. J , I 2) e bontà (Rom. 2,4). Tutto ciò è frutto dello Spirito santo (Gal. 5 ,22.2 5) che dona l'amore sincero (Rom. I 2,9), il quale non cerca il proprio ( I Cor. I J, 5)· Nel v. 7 compaiono le armi con cui Paolo conduce la sua battaglia spirituale. La «parola della verità» (cf. Sal. 1 I 9,43) è il vangelo (4,2; Col. I, 5; Ef 1 , I 3 ), la parola della riconciliazione che Paolo predica. La potenza di Dio produce i suoi effetti in parola e Spirito attraverso l'apostolo ( I Cor. 2,4). I ministri della riconciliazione non combattono con la forza e l'astuzia, ma con le «armi della giustizia» (Rom. 6,1 3; I J, I 2). Nella destra il soldato romano teneva l'arma offensiva, la spada, e nella si nistra lo scudo per difendersi (cf. l'armamento cristiano in I Tess. 5,8 ed Ef 6,I4- 1 7). Con parola e Spirito gli apostoli sono armati da Dio per l'attacco e la difesa nella battaglia della fede (10,4 s.). Con due coppie di contrari nel v. 8 Paolo descrive dapprima la reazione positiva e negativa degli uomini alla predicazione apostolica: l'apostolo rimane fedele al suo incarico sia nell'onore che nel disonore, nella calunnia ( I Cor. 4, I 2 s.) e nella lode (Gal. 4,14). Non solo la calunnia, ma anche la lode può diventare una tentazione, se non se ne dà l'onore a Dio. Poi lo stile cambia: con attribuzioni antitetiche riferite agli apostoli, Paolo
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Cor. 6,1 1-13 e 7,.2-4. Paolo chiede una riconciliazione completa
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afferma il carattere paradossale del suo. apostolato, per il quale la glo ria del ministero si manifesta proprio nell'umiliazione e nei patimenti. Il giudizio del mondo, infatti, è sempre contrario a quello di Dio. È questo il significato della prima antitesi (Se): dal punto di vista degli uomini gli apostoli sono giudicati dei corruttori, mentre in realtà di fendono la verità di Dio che solo la fede riconosce. I giudei hanno perseguitato Paolo perché predicava la libertà dalla legge, ma anche i suoi avversari giudeocristiani l'hanno considerato un corruttore. Ana logamente, «sconosciuti, eppure ben noti» significa: «oscuri», gente sconosciuta agli occhi degli uomini ma ben noti a Dio e alla comunità. Quanto si vuole esprimere non è solo il fatto di essere conosciuti, ma anche il riconoscimento: uomini che il gran mondo non riconosce, ma che nella comunità sono riconosciuti come incaricati di Dio. Le due antitesi successive riprendono da 4,10 s. l'opposizione vita-morte at tenendosi a Sal. 1 1 8, 1 7 s.: «Non morrò, ma vivrò e predicherò le ope re del Signore. Il Signore mi castiga severamente, ma non mi abbando na alla morte». Nel morire quotidiano dell'apostolo ( I Cor. 1 5,3 I ) si manifesta la vita di Gesù (2 Cor. 4, I 1 ); è castigato ( 1 2,7), ma non mes so a morte (cf. ad es. Atti 1 4, 1 9). Veramente a Paolo non mancano le tribolazioni; anche i corinti vi contribuiscono in misura considerevole con il loro entusiasmo, ma questo non distrugge la gioia dell'apostolo, perché essa ha il suo fondamento in Cristo (Rom. 4,1 7; Fil. 4,4). Este riormente è povero, ma avendo ricevuto in Cristo grandi doni (8,9 ), può far ricchi molti; a lui «che non ha nulla» (cf. FiL 4, 1 2) appartiene invece ogni cosa ( I Cor. 3,2 1 s.). L'intera pericope è una viva illustrazione del principio che la poten za di Dio giunge a compimento nella debolezza. A differenza dei pa ralleli stoici e apocalittici, le antitesi paoline sono interamente ispirate alla teologia della croce. 2. 5. Paolo chiede una riconciliazione completa
{6, 1 1 -7,4 senza 6,14-7, 1 ) 6 1 1 La nostra bocca s'è aperta verso d i voi, o corinti, il nostro cuore s'è al largato. 1.2 Non siete allo stretto in noi; è nei vostri cuori che state stretti. 13 Rendeteci il contraccambio, parlo come a miei figli, aprite il vostro cuo re anche voi! 7 .z Fateci posto nei vostri cuori! Non abbiamo fatto del male a nessuno, non abbiamo rovinato nessuno, non abbiamo ingannato nessu no. 3 Non lo dico per condannare (voi); già prima infatti vi ho detto che
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Cor. 6,1 1-13 e 7,.2-4. Paolo chiede una riconciliazione completa
siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. 4 Grande è la mia fiducia verso di voi; grande è il mio vanto per voi; sono ricolmo di consolazione; ho gioia sovrabbondante in ogni nostra tribolazione. 6,1 1 Sal
1 19,32.
13 1 Cor. 4,14. 7,2 1 2 , 1 7. 3 6, u s.
La pericope 6, 1 1 -7,4 contiene un monito d'impronta apocalittica a evitare la comunione con idolatri, che interrompe il tema dell' «aprire i cuori» ( 6, 1 3 ; 7,2). La maggior parte degli interpreti, perciò, considera la pericope parenetica 6, 1 4-7, 1 un'interpolazione di un tardo redatto re. Il commento di questa pericope (interpolata) è posto dopo 7,4. Alla trattazione realistica che descrive l'ufficio apostolico come mi nistero della riconciliazione, a partire dal v. I I fa seguito la preghiera personale di Paolo di una piena riconciliazione con i corinti. Dopo le passate discordie, da parte sua la piena fiducia nella comunità è ora ri pristinata. La parola della croce che Paolo ha illustrato nella lettera ha chiarito ai corinti che anche umiliazione e patimenti appartengono al l'essenza del ministero apostolico. Ora Paolo prega e confida che an che la comunità gli rinnovi la sua piena fiducia. 6,1 1-7,4. Nei vv. I 1 - 1 3 Paolo rivela quali siano la disposizione e l'atteggiamento con cui egli difende il proprio apostolato. Nel far ciò per la prima volta apostrofa esplicitamente i suoi lettori chiamandoli «corinti» e mostra loro quanto si senta legato a loro personalmente. Egli ha parlato davanti a loro, davanti a loro s'è espresso apertamente senza nascondere nulla. La franchezza delle sue parole viene dal suo cuore aperto. I corinti hanno di nuovo tutto il loro posto nel cuore dell'apostolo che ha fondato la loro comunità. A Paolo non importa se la fiducia reciproca non è ancora ripristinata del tutto, ma pensa alla grettezza di cuore dei corinti. Evidentemente Paolo sa bene che una parte della comunità continua a nutrire diffidenza nei suoi confronti. Ma le cose non devono restare così. Nel v. 1 3 Paolo invita la comunità ad aprirsi a lui con la stessa disponibilità alla riconciliazione e con la stessa fiducia che egli ha verso di essa. Dicendo questo, egli parla loro con l'amore fiducioso con cui un padre parla ai suoi figli ( 1 Cor. 4, 14 ) . Qui il suo cuore si apre senza riserve; l'apostolo vuole conquistare i corinti con una «pastorale dichiarazione d'amore» (0. Schmitz). La pericope interpolata 6, 1 4-7, 1 verrà spiegata come unità a sé dopo 7,4. Nel v. 2 del nuovo capitolo Paolo continua 6, 1 3 : «Fateci posto nei. vostri cuori!», rivolgetemi la stessa fiducia e lo stesso amore che io ri volgo a voi ! L'amore non nasconde la verità, ma ne gioisce (1 Cor. 13,
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6, 1 1 - r 3
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Paolo chiede una riconciliazione completa
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6}. Concisamente e con decisione Paolo respinge le accuse che sono
state sollevate contro di lui a Corinto. «Non abbiamo fatto del male a nessuno»; l'apostolo usa qui lo stesso verbo di 7,1 2, dove accenna al sopruso da lui subito ad opera di un corinzio (verisimilmente con un duro attacco al suo ufficio di apostolo). «Non abbiamo rovinato nes suno», cioè non abbiamo portato nessuno all'eterna rovina (cf. 1 Cor. 8, 1 1). (A. Schlatter) mette insieme più passi dell'Antico Testa mento. La prima citazione del v. 1 6b combina Lev. 26, 1 2 con Ez. 37, 27. La presenza di Dio esige la purità del suo popolo. Nel v. 1 7 ven gono uniti /s. 5 2, 1 I ed Ez. 20,34.4 I , mentre l'ultima citazione, quella del v. I 8, richiama la promessa di Dio di 2 Sam. 7, I 4. La formula «Dio, l'onnipotente» s'incontra già in Am. 3, 1 3 LXX. 7,1. L'autore vede realizzate nella comunità cristiana le promesse della presenza di Dio e ne desume il dovere per i cristiani della piena santificazione ( 1 Tess. 4,3 ) nel timore di Dio, mediante la separazione
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Cor. 6, 1 4-7,1. Monito contro la comunione con idolatri
da ogni essere impuro e gentile. Nell'espressione «macchia della carne dello spirito�, di suono poco paolino, la «carne» e lo «spirito» sono visti come componenti antropologiche dell'uomo (cf. «corpo» e «spi rito», 1 Cor. 7,34). La pericope 6, 1 4-7,I contiene sette termini che in tutto il Nuovo Te stamento si trovano soltanto qui (ad es. «legare al giogo estraneo», «ac cordo», «macchia»). Paolo non dà mai al Satana il nome di «Beliar» né usa per Dio l' epi teto «onnipotente». L'espressione «macchia della carne e dello spiri to» (7, I ) non si accorda con l'antitesi tra sarx e pneuma, che in Paolo ha portata teologica. Tutta la lingua della pericope rivela influssi evi denti degli scritti di Qumran. L'associazione delle due coppie luce-te nebre e Dio-Beliar rimanda a una tradizione presente anche a Qum ran (J. Gnilka). Col solo argomento linguistico non è possibile certo dimostrare in maniera cogente la paternità non paolina della pericope. Nel caso l'autore fosse Paolo, si potrebbe intendere la pericope 6, 147,1 come un grido d'avvertimento che l'apostolo rivolge alla comunità di Corinto perché si separi definitivamente da coloro che continuano a difendere la causa dei «falsi apostoli e operatori fraudolenti» (2 Cor. I I , I 3- I 5; P. Stuhlmacher). Ma il termine greco qui usato per «incre dulo» (apistos), che compare molto raramente nei LXX e in fs. 1 7, 1 0 si riferisce al culto di Adone, in I Cor. 6,6; 7, 1 2- I s; 10,27; 1 4,22-24 viene costantemente riferito da Paolo ai gentili. Le singolarità linguistiche dell'intera pericope 6, 14-7,I a mio giudizio depongono per una reda zione non paolina. La seguente riflessione può rendere comprensibile il motivo dell'in serimento tra 6,1 3 e 7,2 di questo brano parenetico d'ispirazione apo calittica, redatto da un giudeocristiano nella situazione postpaolina. In 6, 1 3 e 7,2 Paolo invita i corinti ad «aprire il cuore» alla piena riconci liazione con lui. Chi legga quest'esortazione estrapolandola dalla con creta situazione di Corinto e interpretandola come una fondamentale istruzione apostolica per la vita cristiana, può sospettarvi facilmente il pericolo di un'apertura illimitata dei cristiani nei confronti dell' am biente gentile, e ritenere perciò qui appropriata una necessaria delimi tazione di tale apertura. Negli intenti della pericope, l'invito ad «apri re il cuore» non deve spingersi al punto di far scomparire del tutto il confine tra comunità e mondo. Si fraintenderebbe radicalmente l'aper tura nell'amore com'è intesa da Paolo, se per essa la comunità perdese
2
Cor. 7, 5 - 1 6.
Gioia di Paolo per il ritorno della comunità
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se la sua identità cristiana. In questa prospettiva, ritengo che un autore successivo abbia inserito questa pericope a guisa di monito alla comu nità a non ricadere nei vizi gentili e come invito pressante alla santifi cazione (cf. 1 Tess. 4,3). 3· Gioia di Paolo per il ritorno della comunità (7, 5-1 6)
In 7,5 ss. il racconto del viaggio dell'apostolo da Efeso alla Macedo nia attraverso Troade riprende da dov'era stato lasciato in 2, 1 2 s. Qui Paolo aveva ricordato che, malgrado le buone prospettive missionarie offerte da Troade, egli era proseguito oltre, perché la sua preoccupa zione per la comunità di Corinto non gli dava pace. Era quindi partito per la Macedonia, per andare incontro a Tito da lui inviato a Corinto; non si dice in quale località precisa avvenisse l'incontro (Filippi o Tes salonica). 7,5 riprende il filo interrotto in 2, I J . Nel contesto attuale, la cosiddetta «apologia dell'ufficio apostolico» (2, I 4-7,4) fa P effetto di un lungo excursus. Per questo spesso la si se para dalla cosiddetta lettera della riconciliazione. Lo stile distaccato e argomentativo dell'apologia, unitamente al rapporto dell'apostolo con la comunità, animato da fiducia piena di speranza, sono evidentemen te assai differenti dai capp. I o- I J, con la loro appassionata polemica. La piena fiducia espressa in 7,4 si spiega molto bene con le buone no tizie portate da Tito riferite in seguito. A ciò si aggiunga nei vv. 5-7 la ripresa e la riproposizione dei concetti di consolazione, gioia e affli zione del v. 4· L, apologia dell'ufficio apostolico non contiene nessun riferimento a circostanze concrete, che non possa inserirsi senza frat ture nella situazione della lettera di riconciliazione. Che cosa ha indotto l'apostolo a interrompere il suo racconto del viaggio e a introdurre un'ampia esposizione della sua concezione del l'apostolato? C.K. Barrett, richiamando come Paolo in Macedonia non si sia subito incontrato con Tito, ce ne fornisce una spiegazione illu minante. Paolo era molto inquieto e preoccupato; in questo periodo di attesa davanti alla mente di Paolo dovettero passare ancora una vol ta le più profonde ragioni teologiche di tutto il suo conflitto con i co rinti, che rendevano evidente la fondamentale differenza tra la sua in vestitura di messaggero dell'annuncio della croce e la concezione della missione che avevano i suoi rivali a Corinto. Giunto nel suo raccon to del viaggio a quel momento di trepida attesa di Tito, mise per iscrit-
388
2
Cor.
7,5-7. Il consolante racconto di Tito
to per i corinti quel che allora aveva nell'animo e lo separava sul piano teologico dai suoi avversari. La digressione rispetto al racconto si spie ga a mio parere col vivo ricordo che ha Paolo dei pensieri che si agita vano nella sua mente, in quel periodo passato in Macedonia nell'attesa e nella preoccupazione. Per la comprensione di un nesso testuale, tal volta possono essere utili anche considerazioni psicologiche; anche l'apostolo era un uomo vivo, con i suoi sentimenti e i suoi ricordi. 3. 1 . Il consolante racconto di Tito (7, 5-7) Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, noi (nella nostra debolezza carnale) non abbiamo avuto quiete, ma da ogni parte eravamo tribolati; battaglie all'esterno, angosce dentro. 6 Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito, 7 e non solo con la sua venuta, ma anche con la consolazione con cui è stato da voi consolato; egli ci ha annunciato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore e il vostro zelo per me, così che io ne gioisco ancora di più. s
s
2, 1 3; 4,8. 6 /s. 49, 1 3; 1 ,3
s.
5-7. Il collegamento di senso causale con quanto precede indica che nel seguito Paolo intende parlare del motivo della sua grande gioia (v. 4). Allorché l'apostolo pervenne in Macedonia non vi trovò Tito, così che continuò a essere preoccupato e a non trovar pace. « La nostra car ne» si riferisce allo stesso Paolo nella sua fragilità di uomo terreno. In Macedonia s'è scontrato con difficoltà da ogni parte: all'esterno l'osti lità di giudei e gentili, all'interno angosce e timori, soprattutto la pre occupazione per la tenuta della sua opera missionaria a Corinto. La svolta s'è prodotta col ritorno di Tito che portava la lieta notizia che la comunità di Corinto era tornata a stare dalla parte deli' apostolo che l'aveva fondata. È tipico di Paolo che attribuisca questo rapido cam biamento non a sforzi umani, ma all'intervento della grazia di Dio. Con espressioni veterotestamentarie Dio è detto colui «che consola gli af flitti» (/s. 49,1 3). Nell'apertura della lettera Paolo aveva già lodato Dio come il «Padre della misericordia e Dio di ogni consolazione» ( 1 ,3 s.). Se l'arrivo del suo collaboratore fu per l'apostolo una consolazione, tanto più lo fu la notizia che questi portava con sé: a Corinto la mis sione di Tito aveva avuto successo. Anche di questo l'apostolo parla in termini di «consolazione»: la sua consolazione consiste nel fatto che a Corinto Tito sia stato consolato. La comunità è stata presa da penti-
2
Cor.
7,8- I 3a. L'effetto salutare della lettera delle lacrime
3 89
mento per il suo comportamento nei confronti di Paolo; Tito ha potu to riferire che essa ha di nuovo desiderio dell'apostolo e vorrebbe una sua visita, che è dispiaciuta del suo temporaneo distacco da lui e che è pronta a obbedire a Paolo con rinnovato zelo. La gioia di Paolo si è pertanto fatta ancor più grande; ora egli può mettere la parola «fine» al conflitto, poiché sa che la comunità è di nuovo dalla sua parte. 3·�· L'effetto salutare della lettera delle lacrime (7,8- 1 3 a) 8 Giacché, se anche vi ho afflitti con la mia lettera, non me ne dispiace; e se me ne è dispiaciuto - vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tem po, vi ha afflitti 9 ora ne gioisco, non perché avete sofferto, ma perché ave te sofferto in vista del pentimento (conversione). Infatti vi siete afflitti se condo il volere di Dio, sicché non avete patito danno in alcun modo da parte ·nostra. Io Giacché l'afflizione conforme al volere di Dio produce una conversione che porta alla salvezza, e di essa non ci si pente, mentre l'affli zione del mondo produce la morte. I I Ecco, infatti, questo vostro affligger vi secondo il volere di Dio quanta sollecitudine ha prodotto in voi, e in più scuse, indignazione, timore, desiderio, zelo, punizione! Sotto ogni aspetto vi siete dimostrati innocenti in questa vicenda. I 2 Perciò, se anche io vi ho scritto, non è stato né per colui che commette l'ingiustizia né per colui che la subì, ma perché apparisse manifesto il vostro zelo per noi davanti a Dio. I 3a Da questo siamo stati consolati. -
8 2,4. I l 2,6 S. 12 2,9.
Con un passaggio logico coerente Paolo parla ora della causa che l'ha indotto a scrivere la lettera delle lacrime (2,4; v. intr., pp. 20 s.) e a inviare Tito a Corinto. Guardando indietro dopo le notizie portate da Tito, l'apostolo può includere nella gioia che ora lo riempie anche quel la lettera «dura» che ha fortemente colpito i corinti; la lettera, infatti, ha contribuito in modo decisivo al ritorno a Paolo della comunità. 8- 1 3 a. Col «giacché» iniziale Paolo chiarisce la conclusione del v. 7· Allorché scrisse la lettera delle lacrime, all'apostolo era chiaro che essa avrebbe senz'altro afflitto i corinti; gli era poi dispiaciuto nel frattem po di aver scritto con un tono tanto brusco, tanto più che non era si curo degli effetti che la lettera avrebbe provocato. Dal racconto di Tito ora egli sa che quella dura lettera per un certo tempo ha realmen te molto afflitto i corinti, ma sa anche ciò che è molto più importante, che cioè il suo scritto ha indotto la comunità alla conversione; perciò non è pentito di aver scritto la lettera in quel modo. La costruzione
3 90
�
Cor. 7,8- I3a. L'effetto salutare della lettera delle lacrime
della lunga frase in cui si dice questo si chiarisce meglio se si conside rano le frasi da «vedo infatti» a «vi ha afflitti» come un inciso, nel quale è inserita inoltre la limitazione «anche se solo per breve tempo». La lettera che ha causato dolore è la cosiddetta lettera delle lacrime, che Paolo aveva scritto dopo il doloroso incidente di Corinto, invece di fare a breve la visita promessa, e che verisimilmente Tito aveva por tato con sé a Corinto. Dal modo in cui si è espresso in 2,4 si capisce che l'apostolo vi aveva usato un tono estremamente aspro. Nel frattem po Paolo s'era dibattuto tra alti e bassi, incerto se la lettera gli avrebbe riconquistato i corinti o se invece li avrebbe definitivamente allonta nati da lui. Adesso il racconto di Tito gli ha tolto questa preoccupa zione dal cuore: la lettera delle lacrime ha prodotto un effetto benefi co. Come potrebbe Paolo rallegrarsi di affliggere coloro la cui gioia è la sua propria gioia (2,2)? Si rallegra piuttosto che la sua dura lettera abbia indotto la comunità alla conversione e vede nella sua afflizione una «tristezza divina» (Lutero). Il termine sinottico «penitenza», «con versione» (metanoia ), in Paolo compare solo qui e in Rom. 2,4. Per lui lo stato di fatto della conversione è contenuto nella morte del vecchio uomo e nel vivere del nuovo. Nel passo qui in esame la «conversione» non si riferisce, come di solito, a quella che avviene nel battesimo, ma a un pentimento all'interno della vita cristiana. Paolo distingue due tipi di afflizione: un'afflizione conforme al volere di Dio che è «se condo Dio», e l' �� sia andata perduta per intero; qualche tempo dopo la lettera di ricon ciliazione, il conflitto si sarebbe riacceso, forse per la ricomparsa a Co rinto dei provocatori, e Paolo sarebbe proceduto contro di loro con il massimo rigore. Contro tutto ciò depone però il fatto che in 1 o- 1 3 l'apostolo, benché non solo attacchi i rivali introdottisi nella comuni tà, ma muova rimproveri alla comunità stessa, non parla mai di un nuo vo «distacco» da lui dei corinti, che sarebbe avvenuto in un periodo relativamente breve dopo la completa riconciliazione di 7. 1 6. Nel caso si voglia mantenere l'unità letteraria dell'intera lettera, non si dà il giusto peso alla differenza nel tono e nel rapporto di Paolo con i corinti. Lo Schlatter interpreta i capitoli polemici I o- I 3 come una dichiarazione di guerra agli avversari, in vista della «purificazione del la comunità» cui Paolo mira, e, a sostegno dell'unitarietà della lettera, si richiama soprattutto all'annunciata terza visita ( I 3 ,I ss.), invero già presupposta in I -9, ma il cui scopo verrebbe indicato solo nella parte finale. Se però Paolo nella stesura della lettera di riconciliazione era tanto sicuro della comunità come attesta in 7, I 6, che bisogno v'era di minacciare rigorose misure di purificazione nella visita imminente? L'idea che al termine della lettera Paolo abbia messo per iscritto, con parole che gli venivano dal cuore, la sua collera contro i mestatori fo restieri (W.G. Kiimmel) non tiene sufficientemente in conto che la critica colpisce anche la comunità e che quindi doveva quanto meno pregiudicare lo scopo della lettera di riconciliazione. Per quanto attiene l'operazione del redattore, la spiegazione più sem plice è anche la più evidente: voleva conservare per la chiesa sia le af fermazioni di 2 , I 4-7,4 sulla concezione paolina di apostolato, sia i capp. 10- 1 3; appose quindi alla lettera di riconciliazione (1 -9), più lunga e
408
2 Cor. ro,I -6.
Debole da vicino, forte da lontano?
teologicamente più rilevante, la «lettera delle lacrime», più breve e po lemica, lasciando cadere i dettagli nel frattempo superati, senza voler affermare, con questa successione, che storicamente la stesura di I o- I 3 fosse successiva a quella di 1 -9. L'articolazione interna della terza parte è chiara. Nella prima sezio ne Paolo respinge le accuse rivoltegli dagli avversari ( I o, I - I 8); la parte centrale contiene il «vanto controvoglia dell'apostolo» ( I I, I - I 2, 1 3 ), provocato dai rivali, e nella terza sezione Paolo prepara la sua immi nente visita ( I 2, I 4- I J , I o). - In questa lotta appassionata la persona e la causa dei missionari sono tra loro legate nel più stretto dei modi. Con l'apostolato di Paolo è in gioco il suo annuncio della riconciliazione in Cristo, e quindi anche la salvezza della comunità; ciò spiega il rigo re teologico della controversia. 1.
La difesa dell ' apostolo dagli attacchi alla sua persona (Io, I - 1 8)
In questo capitolo Paolo è alle prese soprattutto con due rimprove ri dei missionari giudeocristiani ellenistici, introdottisi nella comunità dopo la stesura di 1 Cor. : di essere debole quando si presenta di per sona, e di inclinare alla vanteria. 1.1.
Paolo respinge il rimprovero di debolezza (Io, 1 - 1 1 )
1. 1 . 1 .
Debole da vicino, forte da lontano? ( I o,I -6)
1 E io stesso, Paolo, vi esorto per la mansuetudine e la dolcezza di Cristo, io che (come si sostiene) sono così sottomesso davanti a voi faccia a faccia, ma di lontano mi mostro così animoso contro di voi. 2 Vi prego che non mi
costringiate, quando verrò, a presentarmi così animoso e deciso come riten go di dover procedere contro alcuni che pensano che noi camminiamo se condo la carne. 3 Giacché, se camminiamo nella carne, non militiamo secon do la carne. 4 Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma han no da Dio la potenza di abbattere le fortezze: con essa abbattiamo ragiona menti 5 e tutto ciò che s'innalzi contro la conoscenza di Dio, e rendiamo prigioniera ogni intelligenza nell'obbedienza a Cristo; 6 perciò siamo pron ti a punire ogni disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà per fetta. J
1o,1o. 2
1 Cor.
4,1 1 . 4 Rom. I J , I l. s /s. 1, 11
ss.
Paolo inizia la sua ammonizione della comunità, ponendo mar catamente in evidenza la propria persona (cf. Gal. 5,2); non necessa1 -4.
2
Cor.
IO, I-6. Debole da vicino, forte da lontano?
409
riamente c'è qui un contrasto con Tito, ricordato in 7, I4 s. e 8,1 6. Per la sua ammonizione l'apostolo si richiama alla «mansuetudine e dol cezza di Cristo». Questi termini designano di solito delle virtù cristia ne (Gal. 5,2 3; Fil. 4, 5 ) , ma qui sono riferiti a Cristo stesso. Con ta le espressione Paolo non volge indietro lo sguardo in primo luogo verso il comportamento del Gesù terreno (cf. Mt. I 1,29), né lo rivolge in avanti verso la misericordia del giudice escatologico (cf. 5, I o), ma sintetizza con essa l'intero evento della salvezza in Gesù Cristo, come fa in Rom. 1 2, I con il concetto delle opere misericordiose di Dio (R. Leivestad). Cristo ha dimostrato la sua amorevolezza e bontà, discen dendo dalla gloria di Dio all'umiltà della condizione umana e della morte (8,9; Fil. 2,6-8), per riconciliarci con Dio ( 5 , 1 8 s.). Paolo si richia ma qui alla rivelazione della forza di Dio nella debolezza della croce (I 3,4); su questa base cristologica egli respinge il rimprovero di essere debole. La croce è debolezza solo per un modo «carnale» di vedere le cose; per i credenti in essa si dimostra la forza di Dio, potente nei de boli. Perciò l'apostolo non si mette contro Gesù Cristo, per il fatto di condurre con tanta asprezza la battaglia in cui si decide dell'annuncio della croce; al contrario, in questo modo dà prova proprio di fedeltà al suo incarico. Su questo punto, un cedimento per debolezza portereb be ad accogliere una confusione tra carne e spirito. Nel v. I b Pao lo riferisce il primo dei rimproveri contro di lui che circolano a Co rinto: «Quando si presenta di persona (Paolo) è sottomesso (umile), ma quand'è lontano usa parole animose e fa l'uomo di polso» (cf. v. Io) . Con «umile» (tapeinos) gli avversari danno voce al loro disprezzo e malevolenza, mentre Paolo adopera il termine in senso positivo a si gnificare il devoto dell'Antico Testamento (7,6). Se i capp. IO- I J fan no parte della lettera delle lacrime - come si suppone in questo com mento - la caratterizzazione del comportamento di Paolo quand'è lontano non può che riferirsi a lettere da lui scritte in precedenza (ad es. la cosiddetta «lettera precedente» e 1 Cor.; v. intr., p. I4). In osse quio a quanto ha detto nel v. I, Paolo prega i cori nti di non metterlo nella condizione di dover far uso, nella prossima visita, del suo diritto apostolico di punire ( I J,2; 1 Cor. 4,2 I ). Nell'accenno a certe persone («alcuni») ci compaiono dinanzi gli avversari. L'apostolo è fermamen te deciso a procedere con assoluta severità contro i suoi denigratori, che nei suoi riguardi diffondono il giudizio che egli viva in maniera carnale. Con quest'espressione che compare alla fine del v. 2 Paolo al-
410
.z
Cor. Io, x -6. Debole da vicino, forte da lontano ?
lude forse a una parola d'ordine di questi rivali, che getta luce anche sulla concezione che costoro hanno di sé. Quando parlano di «cam minare secondo la carne» non hanno di mira in prima istanza delle mancanze morali. Quest'accusa non colpirebbe nel segno nel caso di Paolo, il quale nella sua parenesi esorta alla santificazione (I Tess. 4,3) e richiama le comunità a seguire il suo esempio (I Cor. I I , I ). Il rim provero deriva da una concezione entusiastica dell'efficacia dello Spi rito. Gli avversari accampano in loro favore la pretesa che nella loro attività missionaria lo Spirito di Dio operi in maniera particolarmente visibile; si vantano delle loro opere portentose e delle manifestazioni estatiche dello Spirito, denunciando in Paolo l'assenza dei «segni del l' apostolo» (I 2, I 2 ) : rimproverano a Paolo di non essere un vero «pneu matico» (E. Kasemann). Questo rimprovero concerne tutto il suo mo do di vivere, non solo singoli casi di fallimento, come ad esempio il suo insuccesso nella visita intermedia. A questa fondamentale critica dell'operato di Paolo era facile che potessero aggiungersi altri rimpro veri, come quello di insincerità ( r , r 2 s.), inaffidabilità ( I , I 4 ss.), inetti tudine (2, 16), oscurità (4,3), avidità fraudolenta ( 1 2,I4 ss.). L'apostolo concede senz'altro di vivere ancora - come ogni credente - nel corpo terreno (Gal. 2,20), ma non conduce la sua battaglia «in maniera car nale», cioè per motivi egoistici, né con i metodi della sapienza terrena. Equipaggiato dell'armamento spirituale (I Tess. 5,8; cf. Ef 6,1 4-I 7), egli combatte con le «armi della giustizia» ( 6,7). Paolo si serve di questa immagine guerresca in senso traslato, per indicare la predicazione del l'annuncio di riconciliazione (Rom. 6, I J; I J, I 2). La potenza dello Spi rito di Dio è in grado di abbattere tutte le raffinate costruzioni intel lettuali che si ergono contro la conoscenza di Dio. Il termine usato a questo scopo, logismoi («cavilli»), è già stato adoperato dai filosofi gre ci contro i sofisti; con esso Paolo attacca la sapienza di questo mondo (I Cor. I , 1 8-2 5); forse ha presente Prov. 2 1 ,22. s-6. L'immagine delle «fortezze» viene ulteriormente sviluppata nel v. 5 . La sapienza «carnale» confida in tutto ciò che è elevato e forte, e se ne serve per ribellarsi alla conoscenza di Dio, il quale ha manifesta to la sua forza e la sua sapienza nella croce di Gesù Cristo. Col suo ministero Paolo vuole «imprigionare» il pensiero dell'uomo, per con durlo all'obbedienza a Cristo. Non si tratta di una dichiarazione di guerra all'uso della ragione umana - per l'apostolo l'esercizio delle fa coltà dell'intelletto rientra nel compito dato da Dio con la creazione;
2
Cor. 10,7- 1 1 . L'autorità dell'apostolo
41 I
quel che invece Paolo vuole è superare l'infausto legame del pensiero con l'egoismo umano, spesso indebitamente scambiato con la «liber tà», mediante l'unione dei credenti col loro Signore che nella verità ren de liberi (Gal. 5, I). Dal suo atteggiamento fondamentale, nel v. 6 Pao lo deduce una conseguenza concreta per il co mportame nto che terrà nella sua imminente visita a Corinto. L'apostolo è deciso a puni re ogni disobbedienza, non appena i corinti avranno di nuovo riconosciuto la sua autorità apostolica e l'obbedienza della comunità sarà stata piena mente ripristinata. Senza questa premessa, le misure punitive cui met tesse mano potrebbero spingere la comunità totalmente dalla parte degli avversari. È qui evidente che nei capp. I o- 1 3 Paolo non è affatto sicuro della comunità, come lo è invece in 7, I6. La minaccia della pu nizione è rivolta certo anche ai membri della comunità che persistono nella disobbedienza, ma vale in primo luogo per i missionari intrusi, che vogliono alienare all'apostolo la sua comunità. Nulla si dice della forma e del modo della punizione; in ogni caso i «falsi apos t oli» do vranno essere allontanati definitivamente dalla comunità di Corinto. ·
1.1.2. L'autorità dell'apostolo (10,7- I 1) 7
Guardate bene ciò che avete davanti agli occhi. Se qualcuno è convinto di appartenere a Cristo, si ricordi anche di questo, che noi pure apparteniamo a Cristo tanto quanto lui. 8 Se anche mi vantassi ancor di più dell'autorità che il Signore ci ha dato per vostra edificazione, e non per vostra rovina, non dovrei vergognarmene. 9 Ma non vorrei dare l'impressione di volervi spa ventare con le mie lettere. 10 Perché le sue lettere - si dice - sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e le sue parole dimesse. 1 1 Chi par la così, rifletta però su questo: come noi operiamo con la parola per lettera da lontano, così saremo anche con i fatti, una volta presenti. 7 1 Cor.
1 , 1 2. 8 1 2,6;
I J, I O. 1 1
1 3,2.
7- 1 1 . Nel v. 7 Paolo invita la comunità a guardare quel che sta sotto gli occhi di tutti, facendo appello alla personale capacità di giudizio dei corinti (cf. I Cor. I O, I 5 ). L'idea che avevano di sé i m is sionari avversi si esp rimeva nella parola d'ordine «io appartengo a Cristo»; «qualcu no» sta a rapp res entare una plura lità (cf. v. I 2). Un tempo si riteneva che la formula «appartenere a Cristo)) si riferisse al cosiddetto parti t o di Cristo di I Cor. I , I 2. Ma in I O- I J i rivali dell'apostolo si sono in trodotti a Corinto solo dopo la prima lettera, e probabilmente hanno
4I2
2 Cor. 10,7- 1 1 . L�autorità
dell'apostolo
trovato consenso nel partito di Cristo. Sulla base delle loro dimostra zioni di poteri pneumatici dovettero avanzare la pretesa di essere in unione particolarmente stretta con Cristo; secondo I I,2 3 chiamavano se stessi «ministri di Cristo». Contro tutto ciò Paolo ricorda che ogni credente che sia stato incorporato nella signoria di Cristo mediante il battesimo appartiene a Cristo ( 1 Cor. 3,23; Gal. 3 , 29) e che egli stesso, in quanto apostolo chiamato da Dio, può dire di sé di appartenere a Cristo con pari diritto dei suoi avversari. In questo confronto non è contenuta un'approvazione delle dimostrazioni, messe in atto dai so billatori forestieri, della loro «speciale» appartenenza a Cristo. Al loro richiamarsi al Gesù terreno, come suppongono i sostenitori della tesi che vede in costoro dei giudaizzanti, difficilmente Paolo avrebbe po tuto controbattere: «anch'io come voi». Per la legittimità del suo apo stolato Paolo si richiama alla chiamata del Signore che gli ha conferito l'autorità di cui dispone. Sulla via di Damasco Paolo non è solo dive nuto cristiano, ma anche apostolo (Gal. I , I I . I 5 s.). Al di là della sua appartenenza a Cristo, potrebbe vantarsi ancora di più a motivo della sua autorità apostolica; ma questo fu intervento della grazia di Dio, non suo merito. Perciò, della sua dignità apostolica Paolo non fa og getto di vanto, ma anche quando lo facesse, non andrebbe contro la verità. In quanto predicatore dell'opera riconciliatrice di Dio in Cri sto, la missione dell'apostolo è di edificare, non demolire la comunità. Anche là dove deve «abbattere» (v. 4) e «punire» (v. 6), lo fa al servi zio dell'edificazione (cf. Ger. 1 , 1 o; 24,6). I vv. 9- I I costituiscono logi camente un'unità; nel testo greco il v. 9 è una proposizione finale au tonoma (H. Kramer). Paolo non intende suscitare nei corinti l'impres sione di voler intimorire, di lontano, la comunità con le sue lettere, come già gli si rimprovera a Corinto. Col «si dice» nel v. I o cita ap punto questo ·rimprovero: «le sue lettere sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e le sue parole dimesse». Nemmeno i critici di Paolo possono contestare che le sue lettere abbiano un notevole peso teologico; gli aggettivi «dure e forti» non si riferiscono necessariamen te al tono polemico, che nelle lettere precedenti non era così brusco come nell'attuale lettera di lotta. Gli avversari criticano invece la pre senza fisica di Paolo; a questa circostanza, del resto, allude egli stesso: non era con la sua presenza fisica, né con artifici retorici, che faceva impressione sui suoi ascoltatori ( 1 Cor. 2, 3 s.; 2 Cor. 1 I ,6; Gal. 4, I 3 s.). Non solo ad Atene, ma anche a Corinto l'uditorio ellenistico ave-
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Cor. 10,12- 1 8. Paolo respinge il rimprovero di vanteria
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va notevoli esigenze quanto alla forma del parlare. Tuttavia, i l rimpro vero non riguarda in prima linea la mancanza di p reparazi one retorica o di formazione culturale greca. Secondo il v. 2 a Paolo si rimprovera va di non essere uno «pneumatico», mancandogli i doni del parlare esta tico e dei portenti pneumatici. In realtà Paolo possedeva una quantità di doni carismatici, compreso il carisma della glossolalia (1 Cor. 1 4, 1 8), ma nel suo lavoro con la comunità vi rinunciava volutamente, rien trando tali carismi nel rapporto personale dell'orante con Dio. Chi rim provera a Paolo una discrasia tra la sua debolezza quand'è presente di persona e le sue lettere tanto forti quand'è lontano, avrà modo di sen tire L'autorità dell'apostolo nella visita che si accinge a fare. «L 'inte ressato», ossia chi parla in questo modo, è uno qualsiasi del gruppo degli avversari, senza che si pensi a una persona in particolare. Paolo afferma con forza che in lui non c'è differenza tra l'autorità con cui scrive di lontano le sue lettere e quella con cui agisce di persona, espri mendo con ciò la sua ferma decisione, alla prossima venuta, di «punire ogni disobbedienza» (v. 6), s o prattu tto gli avversari che con la loro at tività sovversiva confondono la comunità. 1.2. Paolo respinge il rimprovero di vanteria ( 1 0, 1 2- 1 8) 1 2 Giacché noi non abbiamo l'audacia di uguagliarci a certe persone o di pa ragonarci a quelli che raccomandano se stessi; costoro mancano d'intelli genza, poiché si misurano solo su se stessi e si confrontano con se stessi. 1 3 N o i, invece, non ci vogliamo vantare oltre misura, ma secondo la misura del criterio che Dio ci ha assegnato, perché potessimo arrivare fino a voi. 14 Né ci assegniamo una misura eccessiva (ci innalziamo oltre misura), qua si non fossimo arrivati fino a voi, poiché col vangelo di Cristo siamo giunti fino a voi 1 5 Non ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui, ma abbiamo la speranza che, con l'aumentare della vostra fede, cresceremo in mi sura sovrabbondante ai vostri occhi secondo il nostro criterio, 1 6 per portare il vangelo oltre i vostri confini; e non vogliamo vantarci secondo un criterio al trui di quanto altri hanno compiuto. 1 7 «Chi si vanta, si vanti del Signo re». 1 8 Poiché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma co lui che il Signore raccomanda. 1.2 3,1. 1 3 Rom. 1 2,3 . I S Rom. I S,20.24. 17 Ger. 9,22 s.; r Cor. I,J I . 1 8 1 Cor. 4,5. .
12- 1 8. Nel respingere il rimprovero di vanteria, Paolo passa anche ad attaccare la smodata presunzione degli avversari. Qui non menzio na direttamente i «superapostoli» ( I 1,5) o «ministri di Cristo» ( I I,23),
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Cor. IO,I Z-I 8. Paolo respinge il rimprovero di vanteria
ma !,allusione risulta dal contesto. Per quanto riguarda sia Papparte nenza a Cristo sia la legittimità del suo ufficio di apostolo, Paolo non è in alcun modo da meno dei suoi avversari, ma se intendesse racco mandarsi da sé - dice ora con ironia - non potrebbe misurarsi con lo ro. Il gioco di parole con i verbi greci enkrinein-synkrinein significa «mettersi nella stessa categoria di qualcuno e confrontarsi con lui». I missionari introdottisi nella comunità fanno uso di lettere di racco mandazione (3, 1 ) per essere da essa riconosciuti. È vero che in I 1 ,22 erano stati definiti «ebrei», «israeliti)> e «figli di Abramo», ma con que sto non è detto che fossero degli inviati della comunità madre di Ge rusalemme (v. a 2 Cor. 3, 1 ). Gli avversari lavorano con l'ausilio di let tere di raccomandazione di comunità in cui hanno operato, dalle quali si sono fatti certificare le operazioni che hanno compiuto nello Spirito e i loro portenti. Paolo non ha bisogno di questo genere di raccoman dazioni, poiché il Signore stesso gli ha rilasciato la sua lettera di racco mandazione (3,3). Nel v. I 8 l'apostolo espone il pensiero conduttore della sua argomentazione: quella decisiva è la raccomandazione del Signore. Gli avversari prendono come misura solo se stessi, non han no altro criterio che la loro stessa soggettività, mentre Paolo si regola sul criterio che Dio gli ha dato quando l'ha chiamato. Alla fine del v. I 2 e all'inizio del v. 1 3 il testo greco non è tradito in modo concorde. La versione occidentale del testo omette le parole «mancano d'intelli genza; noi, invece». Secondo questa lezione abbreviata, Paolo sarebbe il soggetto di tutta la frase e il senso sarebbe che, mentre gli avversari si confrontano con Paolo misurandosi su di lui, l'apostolo rinuncia a ogni confronto con altri e si misura solo su se stesso, ossia col proprio compito (R. Bultmann). Ma il testo più lungo è meglio attestato; in es so Paolo definisce «privo d'intelligenza» il comportamento degli av versari perché si misurano solo su se stessi, anziché sul metro di misu ra di Dio. La fede in Cristo significa per Paolo la rinuncia radicale a qualsiasi vanto di sé. A differenza dei suoi avversari, il suo vantarsi non è dismisura, ma è conforme alla misura che Dio gli ha assegnato. Paolo esprime quest'idea con un'artificiosa ripetizione dei termini «misurare, misura e metro di misura». Il termine greco per il criterio di misura (kanon) è divenuto nel n secolo la designazione corrente del la regola della fede. «La misura del criterio secondo il quale Dio ha as segnato all'apostolo la sua misura» è l'incarico per la missione presso i gentili, che Paolo ha ricevuto nella sua chiamata (Gal. I , I 5 s.). Questo
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Cor. 10,12- 1 8. Paolo respinge il rimprovero di vanteria
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incarico include anche i corinti, un tempo gentili. Nel testo greco i vv. 1 4- 1 6 costituiscono un solo periodo. L'apostolo non ha oltrepassato la misura assegnatagli da Dio, dal momento che la comunità di Corin to rientra nel campo assegnato al missionario dei gentili. In occasione del convegno apostolico le autorità di Gerusalemme hanno solenne mente riconosciuto con la stretta di mano l'incarico dato a Paolo della missione presso i gentili (Gal. 2,9 ). Paolo non è uno che per estendere la sua attività fino a Corinto abbia dovuto oltrepassare i limiti asse gnatigli, poiché con la predicazione del vangelo s'è spinto fino a Co rinto obbedendo al volere di Dio. L'apostolo vede il successo del suo lavoro in accordo con l'incarico della missione ai gentili, e interpreta le due cose come effetto della grazia di Dio. Paolo evita di «edificare sul terreno di altri»; ripone il «suo onore nel predicare il vangelo non là dove il nome di Gesù Cristo è già conosciuto» (Ro m. 1 5,20) . N on ha quindi bisogno di vantarsi fuori misura per aver occupato il campo d'azione di altri predicatori. Tutti infatti possono vedere che sono sta ti i suoi avversari a introdursi nel terreno della missione di Paolo, non Paolo in quello degli avversari. L'apostolo non si vanta del lavoro di altri, ma spera di allargare il campo del suo lavoro missionario. Il ri spetto della misura assegnatagli da Dio non significa che debba limita re la sua azione a Corinto. N o n appena avrà assolto il suo compito con i corinti e la loro fede si sarà fatta più forte - e in questo rientra soprattutto che riconoscano Paolo come loro apostolo - egli si spin gerà col vangelo in paesi in cui l'annuncio di Cristo non è ancora stato predicato. È possibile che qui Paolo pensi già all'occidente (Rom. I 5 ,23 s.). In tal modo Paolo spera, con l'aiuto di Dio, di «pervenire alla mas sima altezza secondo la sua propria misura» (Bauer) . È quindi confor me all'incarico e al metodo missionario dell'apostolo dei gentili non edificare su terreno altrui (Ro m. I 5 ,20); non intende mietere gloria per sé da un campo di lavoro che altri (i missionari giudeocristiani) hanno preparato. Per condannare la vanteria Paolo si richiama alla parola del profeta Geremia (9,22 s.) che ha già citato in 1 Cor. 1, 3 1 . Nel v. 1 8 trae da questa parola scritturistica le conseguenze per i suoi rivali. Costoro pretendono da Paolo una «prova» mediante azioni potenti ( I J,J), ma sono loro stessi senza prova, poiché non Dio li raccomanda, ma sono loro a raccomandare se stessi. Dio ha raccomandato Paolo per il fatto che egli ha fondato la comunità mediante lo Spirito di Dio; è questa la lettera di raccomandazione del Signore per l'apostolo (2 Cor. J,J).
2. Controvoglia rapostolo si vanta (I I , I - 1 2, I J)
Provocato dai suoi avversari, Paolo si mette sul terreno problemati co del proprio vanto, e in più riprese e con accentuazioni sempre di verse ribadisce con chiarezza che si tratta di stoltezza non conforme allo Spirito di Gesù Cristo. Benché nella forma di cui si serve vanti se stesso, Paolo in realtà si vanta del Signore. Con questo ironico «parla re da stolto» egli cerca di rintuzzare le ingiustificate accuse degli av versari e di strappare la maschera dal viso a questi «apostoli menzo gneri» . È questa la controversia più dura con degli avversari che si co nosca di Paolo. Nella prima pericope Paolo prepara la comunità al suo stolto vantarsi pregandola di tollerarlo ( I I , I -2 I a). Il vero vanto ( 1 1 , 2 I h- I 2,I J) riguarda due punti forti: le fatiche e sofferenze dell'apo stolo ( I 1 ,2 I h-3 3 ) e le speciali rivelazioni del Signore ( I 2, I - I O) 2.1 . Il confronto con gli avversari e
lo smascheramento dei falsi apostoli ( I I , I -2 I a)
2.1 . 1 . Paolo prega la comunità di sopportare la sua stoltezza
( I I , I -4) I Oh, se poteste tollerare un po' di stoltezza da parte mia! Ma sì, la tollera te anche da me. 2 Io provo infatti per voi uno zelo divino, poiché vi ho promesso a un unico sposo, per presentare (voi quale) vergine pura a Cri sto 3 Ma temo che, come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, co sì anche i vostri pensieri vengano traviati dalla sincera e pura dedizione a Cristo. 4 Se infatti viene uno che vi predica un altro Gesù, che noi non ab biamo predicato, o se ricevete un altro spirito che non avevate ricevuto (at traverso la mia predicazione), o un altro vangelo che non avevate accolto, voi siete ben disposti a tollerarlo! .
I
1 1, 1 6 ss
..
3 Gen.
3,4. 1 3. 4 Gal. 1 ,6-9.
1-4. I missionari che si sono introdotti a Corinto, con la presenta zione che hanno dato di se stessi hanno evidentemente fatto molta im pressione. Per Paolo vantarsi è stolto e «irragionevole», perché è un togliere a Dio il suo onore. I corinti accettano volentieri questa stol tezza da parte dei mestatori forestieri, perciò Paolo li prega di tollera re anche da lui un po' di stoltezza, e confida che lo faranno. Come Dio veglia con zelo sulla fedeltà all'alleanza del suo popolo (Es. 20, 5 s.), così Paolo interviene con santo zelo in difesa della retta fede dei co-
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Cor. 1 1 ,1-4. Paolo prega la comunità di sopportare la sua stoltezza
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rinti, poiché il distacco da Paolo significherebbe anche il rigetto del l' annuncio della croce. Nel v. 2 Paolo descrive il suo servizio alla co munità con l'immagine veterotestamentaria del fidanzamento e delle nozze. Col fidanzamento il padre della sposa si assume il dovere di con servare sua figlia intatta per lo sposo. Con le nozze la sposa esce dal potere paterno per essere introdotta nella casa dello sposo. Nel nostro versetto lo sposo è Cristo; nel chiamarla alla fede, Paolo ha promesso la comunità in sposa a Cristo, e vuole conservargliela come una vergi ne pura fino alla parusia. Dietro quest'affermazione vi sono l'immagi ne del matrimonio di Jahvé con Israele (Os. 1 -3; /s. 50,1; 54,1 -6; 62, 5) e il paragone apocalittico del tempo salvifico con la gioia del banchet to escatologico (/s. 25,6). Il paragone della comunità con la sposa s'in contra già in Is. 49, 1 8 ed era familiare al giudaismo rabbinico tramite l'interpretazione allegorica del Cantico dei Cantici, mentre ancora sco nosciuto al giudaismo antico era il paragone del messia con lo sposo (Mc. 2, 1 9; J. Jeremias ). Per la prima volta Paolo descrive qui il rappor to tra Cristo e la comunità con l'immagine dello sposo e della sposa, che in seguito in Ef 5,22-23 verrà ampiamente sviluppato (cf. Mc. 2, 19 ss.; Mt. 22,2; 25,1 ss.; Gv. 3,29; Apoc. 19,7.9; 2 1 ,2.9; 22,1 7). Nella gnosi era molto diffusa l'immagine della coppia celeste (syzygia) L'immagi ne della sposa fa da tramite col ricordo di Eva. Paolo teme seriamente che i corinti soggiacciano alla seduzione dei missionari forestieri, e pos sano quindi lasciarsi allontanare dalla sincera e pura dedizione al cro cifisso. Negli sviluppi datigli dal giudaismo apocalittico e rabbinico, il racconto della seduzione di Eva mediante l'inganno del serpente (Gen. 3) diede origine all'idea che il Satana nelle vesti del serpente avesse se dotto Eva alla lussuria (Hen. aeth. 69,6; b]eb. 1 03b). Il versetto seguen te indica il motivo per cui l'apostolo teme che i corinti possano stac carsi da lui. Paolo fa qui un'affermazione sulla predicazione dei mis sionari che raccomandano se stessi. L'espressione «se viene uno» non si riferisce a una figura singola, ma al gruppo degli intrusi (cf. vv. 5 · 1 2); forse uno di loro ebbe particolare spicco come buon parlatore. A. Schlatter ha pensato al riguardo a un giudice con funzione arbitrale, venuto da Gerusalemme, cioè Pietro, cui la comunità avrebbe affidato la decisione della controversa questione. Ma non si dice da nessuna parte che «chi viene» fosse stato chiamato dal partito di Pietro, come suppone Schlatter. Paolo caratterizza gli avversari con tre dati: predi cano un altro Gesù e portano un altro Spirito e un altro vangelo, di.
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Cor. 1 1 , s -1 s. La pari dignità di Paolo in quanto apostolo
versi da quelli di Paolo. Queste differenze, che riguardano temi affat to centrali per la teologia, spiegano perché l'apostolo combatta con tanto rigore gli avversari. - Questi dati consentono di definire meglio il carattere teologico degli avversari (v. excursus dopo I J,Io)? Contro la concezione che, come in Gal. 1 ,6-9, siano dei giudeocristiani ligi al la legge (i cosiddetti giudaizzanti) sta il fatto che in IO- I J non si solle va la questione della legge e della circoncisione, come avviene invece in Gal. I sostenitori del carattere gnostico degli avversari rimandano al richiamo alla «conoscenza» di I 1 ,6; tu ttavia la predicazione di un altro Gesù non si addice a una cristologia gnostica dualistica. Ultima mente si considerano i missionari intrusi per lo più come dei predica tori itineranti giudeocristiani ellenistici, venuti a Corinto dalla regione siriaca, territorio missionario di Pietro. Costoro si richiamano alle lo ro portentose operazioni pneumatiche (cf. I 2, I - I 2), accusano Paolo di debolezza e di comportamento carnale ( I o, I ss.) e i corinti acconsenti rono tranquillamente a tali accuse. I sobillatori stranieri sostengono una «teologia della gloria» contro la paolina «teologia della croce»; si scostano quindi dalla predicazione di Paolo nella cristologia, nella concezione dello Spirito e nella dottrina della salvezza. 2..1.2. La pari dign ità di Paolo in quanto apostolo e la falsità dei superapostoli ( I I , 5 - I 5 ) 5 Ora io ritengo di non essere per nulla inferiore ai superapostoli. 6 E se anche sono un profano nel parlar forbito, non lo sono nella conoscenza, bensì l'abbiamo dimostrata in tutto e per tutto davanti a voi. 7 O forse ho commesso una colpa umiliando me stesso per innalzare voi? Giacché vi ho predicato gratuitamente il vangelo di Dio. 8 Ho spogliato altre comunità e ho accettato da loro denaro («soldo>>) per poter servire voi. 9 E trovan domi presso di voi ed essendo nel bisogno, non sono stato di peso a nessu no; infatti alle mie necessità hanno provveduto i fratelli giunti dalla Mace donia. E in ogni circostanza ho cercato di non esservi di peso, e anche in seguito mi comporterò così. Io Com'è vero che la verità di Cristo è in me, non mi si toglierà questo vanto in terra d 'Acaia. I I Perché? Perché non vi amo? Lo sa Dio. 1 2 Ciò che faccio, invece, lo farò ancora, per togliere il pretesto a quanti cercano un pretesto per potersi vantare di stare al pari di noi. 13 Giacché questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti che si presentano come apostoli di Cristo. 14 E ciò non fa meraviglia, perché lo stesso Satana si pre senta come angelo della luce. 1 5 Non è quindi gran cosa se anche i suoi mi-
2 Cor. 1 1 , 5 - 1 5. La pari dignità di Paolo in
quanto apostolo
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nistri si presentano come ministri della giustizia; la loro fine sarà conforme alle loro azioni. s 1 1 ,1 3; 1 2,1 1 . 6 10,10. 7 I Cor. 9,1 8 . 8 Fil 4,10.1 s s.
10 I Cor. 9, 1 5· 13 Fil.
3,2; Apoc. 2,2.
Nei vv s - I I Paolo si contrappone ai missionari forestieri, nella consapevolezza della sua pari dignità con loro come apostolo, e nei vv. 1 2- 1 5 denuncia la falsità dei «superapostoli». Il passaggio dal v. 4 al v. 5 ha una funzione chiave per la definizione degli avversari. Molti in terpreti suppongono che qui vi sia un salto nel corso delle idee e rife riscono i «superapostoli» del v. 5 non ai predicatori di cui s'è parlato al v. 4, ma ai primi apostoli, quelli di Gerusalemme. Paolo avrebbe in mente le autorità di Gerusalemme ma, non osando attaccarle diretta mente, parlerebbe di loro con timoroso rispetto; nei vv. 1 3 - 1 5, invece, tutta la violenza del suo attacco sarebbe rivolta ai loro inviati, che pro babilmente hanno esorbitato dal loro mandato a Corinto (E. Kase mann). Indubbiamente Paolo non avrebbe potuto chiamare «falsi apo stoli» e «operai fraudolenti» i primi apostoli, dato che in 1 Cor. I 5 , 1 1 sottolinea con tanta energia la sua comunione con loro nella predica zione di croce e risurrezione di Cristo; ma nel testo nulla indica che nel v. 5, unito in nesso causale al precedente, si parli di predicatori di versi da quelli del v. 4 e dei vv 1 3- 1 5 · La critica cui si allude nel v. 6, secondo cui Paolo sarebbe un cattivo parlatore, fa pensare a missiona ri giudeocristiani ellenistici, non ad apostoli o inviati palestinesi. 5· Il termine «superapostoli» (v. s; 1 2,1 1), a mio giudizio, non vuoi essere il riconoscimento obbiettivo d'una superiore autorità apostoli ca, ma vuole sferzare ironicamente la vanteria smisurata dei missionari intrusi, i quali verisimilmente si richiamavano soprattutto a Pietro, e che probabilmente rimproveravano a Paolo di non reggere il confron to con i primi apostoli. Paolo può dire di sé a pieno diritto di non es sere per nulla da meno, come apostolo, di questi predicatori intrusi, senza che ciò significhi uguaglianza nel genere e nel contenuto della predicazione. In 1 0, 1 2 ha spiegato con sufficiente chiarezza di non voler essere messo insieme con questa gente. Paolo affronta due criti che che gli sono state mosse dagli agitatori forestieri: di non essere un fine parlatore (v. 6) e di non accettare sostentamento dalla comunità (vv 7- 1 2). 6-1 5· Per quanto concerne la prima critica, Paolo riconosce d'essere un «profano» nel parlare, cioè un oratore non abile. Gli interpreti si chiedono se con quest'espressione ci si riferisca a una specifica istru4- 5.
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Cor.
I I ,J-I S·
La pari dignità di Paolo in quanto apostolo
zione retorica e al possesso di una formazione ellenistica, oppure al libero discorso pneumatico. È possibile che gli avversari si siano pa voneggiati di tutte queste facoltà, adatte a lusingare orecchie greche. Per Paolo l'elemento decisivo non è la forma artistica del discorso, ma il suo contenuto. Dice egli stesso che il suo parlare consistette «non in persuasive parole di sapienza, ma nella dimostrazione dello Spirito e della potenza» (I Cor. 2,4). Paolo ha predicato il Cristo crocifisso come la sapienza e potenza di Dio ( I Cor. 1,1 8-2 5); in questo ha dimo strato pienamente di essere un apostolo. La vera conoscenza di Dio non consiste in rappresentazioni che gli uomini si fanno di Dio, ma nel l' accoglimento per fede dell' autorivelazione di Dio in Gesù Cristo. In questa materia cruciale Paolo non è un profano, e questa conoscenza di Dio egli ha reso manifesta ai corinti tutti in tutta la sua ampiezza e in ogni modo possibile. Alla seconda critica Paolo dedica una diffusa trattazione, e anche in seguito la riprenderà ancora ( I 2,I J - I 8). L'apo stolo non ha accettato nessun sostegno materiale dalla comunità di Corinto, come invece facevano i suoi avversari (cf. I I ,20 ) . A Corinto s'è procurato il sostentamento col suo lavoro di artigiano (come fab bricante di tende o come sellaio, Atti I 8,3) e ha ricevuto inoltre dona tivi dalle comunità di Macedonia. In I Cor. 9, I4 Paolo difende il dirit to di un apostolo a essere mantenuto dalla comunità, richiamandosi a una parola del Signore, ma espone anche le ragioni teologiche per cui egli rinuncia a tale diritto. A Tessalonica Paolo aveva lavorato giorno e notte per non essere di peso alla comunità e per non essere confuso con i predicatori itineranti avidi di guadagno (I Tess. 2,1 - I 2). L'apo stolo vedeva nella predicazione gratuita del vangelo il suo «vanto» e la ricompensa della grazia (I Cor. 9, I6- I 8). Gli avversari, invece, non ave vano scrupoli a farsi ben sostentare dai corinti ( I I ,20 }, richiamandosi verisimilmente all'indicazione del Signore, e consideravano la rinuncia di Paolo un argomento contro la legittimità del suo apostolato. Paolo domanda ora ironicamente se per caso è stata una colpa l'accollarsi quel lavoro faticoso. Egli descrive il suo ministero presso i corinti, che ha compiuto per amore della comunità, con l'espressione biblica «umi liare se stessi ed essere innalzati» (cf. Le. 1 4, I I; Fil. 2,8 s); con le sue fatiche egli ha «umiliato se stesso» per «innalzare» la comunità, solle vandola d'un peso; in quell' «essere innalzato» c'è forse anche l'eco del l'idea che la comunità ottiene la salvezza eterna per mezzo del mini stero dell'apostolo. Nei vv. 8 s. Paolo spiega che cosa gli ha reso pos-
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Cor. I I, S - I S · La pari dignità di Paolo in quanto apostolo
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sibile svolgere la sua attività a Corinto; oltre al guadagno dovuto al la voro delle sue mani, ha ricevuto doni in denaro da altre comunità. A questo proposito usa, con voluta esagerazione, espressioni militari: ha «saccheggiato» altre comunità, facendosi dare da queste il «soldo» del suo ministero a Corinto. Anche quando si trovò in necessità non ac cettò alcun sostentamento dalla comunità di Corinto, per non essere di peso a nessuno. La parola greca che viene usata qui (katanarkao) è un termine tecnico della medicina che significa «stordire» (cf. narco si). Alle sue necessità sovvennero i fratelli che venivano dalla Macedo nia. Ciò poté avvenire attraverso Silvano e Timoteo (Atti 1 8, 5) oppure attraverso inviati delle comunità macedoni (cf. Fil. 4, 1 5 s.). Non essere di peso ai corinti fu della massima importanza per Paolo, che intende restare fedele a questo principio anche per il futuro. Questa rinuncia al sostentamento stava così a cuore all'apostolo, da fargli asseverare con una sorta di formula di giuramento («per la verità di Cristo che è in me», cf. Rom. 9, 1 ) la sua ferma decisione a non farsi togliere da nes suno in Acaia questo «vanto» ( I Cor. 9, 1 s). Nemmeno gli avversari riusciranno a distoglierlo da questa prassi cui s'è finora attenuto. Pao lo teme che la sua rinuncia a farsi sostentare dai corinti possa essere interpretata come una mancanza di amore per loro; ma tutto il suo comportamento è talmente ispirato dall'amore, che non ritiene neces sario ribadire il suo amore per la comunità, accontentandosi di appel larsi a Dio che vede nei cuori. Nel v. 1 2 lo sguardo dell'apostolo si vol ge al futuro: anche per il futuro si atterrà alla sua rinuncia al sostenta mento. Egli vuole in tal modo vanificare l'intento degli avversari, ge losi della considerazione di cui Paolo gode agli occhi della comunità a motivo del suo disinteresse. Poiché però questi missionari venuti da fuori non intendono rinunciare al sostentamento, cercano un' occasio ne «per star bene quanto Paolo». Il loro scopo sarebbe raggiunto se an che Paolo accettasse il sostentamento dalla comunità; ma l'apostolo non vuoi fare questo favore ai suoi rivali. Un'altra interpretazione muove dalla premessa che i rivali si vantassero del loro diritto di apo stoli e in questo volessero godere della stessa considerazione di Paolo; ma l'apostolo non intende cambiare il suo modo di comportarsi, e fa quindi crollare i piani ambiziosi degli avversari. Egli vuole in tal mo do aprire gli occhi ai corinti, perché vedano il vero carattere dei sobil latori forestieri. Dopo il «confronto» con i «superapostoli», nei vv . 1 J I 5 segue una terribile invettiva conto i missionari infiltratisi nella co-
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Cor. 1 1,5- r s .
La pari dignità di Paolo in quanto apostolo
munità. Con un'operazione di «smascheramento della natura diabo lica degli avversari» (H. Windisch) di tono profetico, Paolo strappa loro la maschera dal volto, denunciando in loro dei ministri di Satana. «Questa gente» presenta solo la facciata di apostolo di Cristo, senza esserlo realmente. Perciò Paolo li chiama «falsi apostoli» e «operai fraudolenti». È possibile, ma non certo, che gli avversari si definissero «apostoli», poiché ai tempi di Paolo questo titolo non era ancora cir coscritto alla cerchia dei dodici come in Luca; del resto, anche gli in viati delle comunità erano detti «apostoli» (cf. 8,2 3; Fil. 2,2 5 ) . Secondo 1 1,2 3 si proclamavano «ministri di Cristo». Il termine «pseudoaposto li» è stato coniato dallo stesso Paolo sul modello degli «pseudoprofe ti» delr�Antico Testamento (Ger. 3 3,8 LXX; Mt. 7, 1 5, ecc.), così come, dalla sua prospettiva teologica, anche i giudaizzanti sono da lui detti «falsi fratelli» (Gal. 2,4; 2 Cor. 1 I ,26). Il secondo concetto, quello di «operai fraudolenti», ossia missionari che predicano un altro vangelo, ingannando perciò la comunità, è adoperato da Paolo in Fil. 3,2 anche per i giudaizzanti. Ciò però non dimostra che anche gli avversari di Corinto fossero tali; in Fil. 3 Paolo contrappone la giustizia della fede a quella della legge, cosa che invece non fa in 2 Cor. 1 o- 1 3 . Con que ste designazioni polemiche degli avversari l'apostolo fa capire inequi vocabilmente ai corinti che devono decidersi in maniera chiara tra lui e gli intrusi. Sulla base dell'apocalittica e della predicazione di Gesù, Paolo concepisce la controversia tra il vangelo e il falso insegnamento come una lotta tra Cristo e il Satana. Secondo le attese giudaiche, pri ma dell'instaurazione del regno di Dio i suoi nemici si presenteranno con accresciuta potenza e astuzia. Paolo interpreta la paradossale com parsa di «pseudoapostoli» all'interno della chiesa pensando che in essi sia all'opera il Satana. Il signore delle tenebre (cf. 6,14 s.) si traveste da angelo della luce. Nel giudaismo questo motivo è legato alla seduzio ne di Eva (cf. I 1 ,3); nel paradiso Eva vide il Satana che in forma di an gelo si. sporgeva dal muro (Apoc. Mos. 1 7); quando, dopo la cacciata, Eva lungo il Tigri faceva penitenza, «il Satana si adirò e assunse la fi gura luminosa dell'angelo» e andò da lei per sedurla una seconda volta ( Vit. Ad. 9 ss.). Se lo stesso Satana s'è trasformato in una figura di lu ce, non fa meraviglia che anche uomini che sono suoi strumenti segua no il suo esempio. Non stupisce, quindi, che gli esecutori del Satana si mimetizzino da «ministri della giustizia». È possibile che gli agitatori stranieri si siano arrogati anche questo titolo ma, a mio parere, è più
2 Cor.
1 I,16-2.1a. Rinnovata preghiera di tollerare il suo stolto vantarsi
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verisimile che anche questa designazione sia una costruzione di Paolo stesso. Analogamente all'angelo di luce che in realtà è il Satana, anche l'espressione «ministro della giustizia» non dice la vera natura dei «mi nistri di Satana». Il titolo non è una prova che gli avversari fossero pre dicatori giudaizzanti della giustizia della legge. La maschera assunta dagli avversari in definitiva non serve a nulla: la loro fine sarà confor me alle loro opere. A costoro Paolo minaccia la condanna nel giudizio. La pericope I I, 5- I 5 si dimostra una compatta controversia di Paolo con i missionari introdottisi a Corinto. 2.. 1 .3. Rinnovata preghie ra di tollerare il suo stolto vantarsi
( I I , I 6-2 I a) 1 6 Lo dico ancora una volta, nessuno mi prenda per uno stolto; o meglio, prendètemi pure per stolto, così che possa anch'io vantarmi un poco. 1 7 Quello che dico ora, non lo dico nel senso del Signore, ma nella parte del lo stolto, in quest'impresa del vantarsi. r 8 Poiché molti si vantano in modo carnale, mi vanterò anch'io. 19 Voi, intelligenti quali siete, vi compiacete as sai degli stolti. 20 Tollerate, infatti, se uno vi schiavizza, se uno vi sfrutta, se uno vi tira dalla propria parte, se uno si erge al di sopra di voi, se uno vi colpisce in vi so. 2 1 a Devo riconoscerlo a mia vergogna: per tutto questo noi siamo stati troppo deboli! 16 1 1,1. 18 Fil. 3,4. 19 r Cor. 4,10.
1 6 -2 1 a. Paolo riprende quanto ha detto in 1 1 , 1 e chiarisce di nuovo che il vantarsi è stolto, perché non si conforma allo Spirito di Cristo. In realtà Paolo si vanta del Signore; perciò non è stolto e nessuno può prenderlo per tale. Se però i corinti lo considerano tale, devono anche accettare da lui «Un discorso da folle». Con le sue parole Paolo perse gue lo scopo di aprire gli occhi alla comunità sul vero carattere dei suoi avversari. L'apostolo non .si stanca di ribadire come egli stia par lando in un ruolo fittizio, poiché il vantarsi non è «secondo il Signo re». Se si vanta è perché intende raccogliere la sfida dei suoi avversari. Il termine greco che viene qui usato (hypostasis) in questo contesto non significa «fiducia», ma semplicemente l' «intenzione» del vantarsi (cf. 9,4}. Il vantarsi proviene dalla natura egocentrica dell'uomo natu rale. Anche gli avversari rientrano nei «molti» (cf. v. 20); si vantano in maniera carnale, poiché il loro orgoglio sono le loro origini terrene e i
4.24
2
Cor. 1 I,2Ib- I z,I 3· I vanti di Paolo
loro privilegi (v. 22). Provocato dai rivali, anche Paolo si mette a van tarsi. Con grande ironia, Paolo dice ai corinti che dovranno tollerare anche lui, dal momento che sono così «intelligenti» da non cogliere le millanterie dei suoi avversari. Nel v. 20, con cinque espressioni conci se, lanciate come delle sferzate, Paolo ci fa vedere alcuni tratti concreti del comportamento dei sobillatori forestieri a Corinto. Costoro «schia vizzano>> la comunità; con ciò non s'intende la servitù sotto la legge, ma l'atteggiamento da padroni degli avversari. Essi «divorano» la co munità, facendosi mantenere negli agi. Tengono in pugno i corinti e li «tirano dalla propria parte», adescando la comunità a un altro vangelo mediante le raccomandazioni che forniscono di se stessi e grazie alle loro portentose dimostrazioni di potenza. Trattano altezzosamente la comunità dall'alto in basso e «la colpiscono in viso»: pongono cioè im pedimenti ai corinti e li terrorizzano; così ancora una volta viene de scritto efficacemente il loro farla da padroni. In tutto questo c'è una ironia pungente: «Non vedete che per questa gente non siete che stru menti per i loro scopi ?» (R. Bultmann). Riferendosi all'accusa di 10,10 l'apostolo riconosce, con sottile irrisione, di non essere stato in grado di dare siffatta «dimostrazione di potenza» a Corinto. - Lo smasche ramento dei falsi apostoli è al tempo stesso un appello pressante alla comunità a non lasciarsi ulteriormente ingannare e a fare ritorno al pre dicatore della parola della croce. .1•
.1. I vanti di Paolo (I 1,2 I b- 1 2, 1 3)
Nel suo «vantarsi da stolto» Paolo mette in evidenza specialmente due ambiti, quello delle fatiche e dei patimenti del ministero apostoli co (I 1,22-23) e quello delle rivelazioni straordinarie del Signore ( 1 2, 1 I O) . Pur avendo già notato come i l «discorso del folle» faccia uso dei più svariati artifici retorici, Windisch è del parere che la retorica di que sto discorso «sgorghi dal sentimento». Recentemente, sulla base delle suddette «tracce di formazione tecnica», è stata elaborata una conce zione generale di storia della tradizione secondo cui la forma dell'au todifesa di Paolo in 10- 1 3 avrebbe le sue radici nella tradizione socra tica e nell'apologia del vero filosofo contro il finto filosofo e predica tore itinerante «sofistico» (H.D. Betz). Certamente è possibile che, es sendo molto diffusi in ambito pubblico, locuzioni e mezzi stilistici di tali controversie, frequenti in quel tempo, fossero familiari all'aposto-
2
Cor. I I ,2 1h-33· Fatiche e patimenti dell,apostolo
425
lo. Va detto però che l'immediatezza appassionata della difesa di Pao lo, che nasce dal bel mezzo della lotta, differisce in maniera sostanziale da un impiego puramente letterario di modelli retorici e metodi apo logetici tradizionali. .z.�. I .
Fatiche e patimenti dell'apostolo ( 1 I ,2 1 b-33)
In ciò in cui uno osa - parlo in stoltezza - oso anch'io. 2.2 Sono ebrei? Anch'io. Sono israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io. 2.) So no ministri di Cristo ? Parlo contro ogni ragionevolezza: io lo sono ancor di più, molto di più in fatiche, molto di più in prigione, oltre misura in percosse, spesso in pericolo di morte. 24 Cinque volte ho ricevuto da giu dei i trentanove colpi nella flagellazione, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta lapidato; 2 5 tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte in alto mare. 26 Sono stato più volte in viaggio, in peri colo a causa di fiumi, in pericolo a causa di briganti, in pericolo a causa del mio stesso popolo, in pericolo a causa di gentili, in pericolo nella città, in pe ricolo nel deserto, in pericolo sul mare, in pericolo a causa di falsi fratelli; 27 in fatica e travaglio, in frequenti veglie, in fame e sete, in frequente di giuno, in freddo e nudità; 28 e oltre a tutto ciò il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le (mie) comunità. 29 Chi è debole che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo che io non bruci di dolore? 30 Se dunque è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. 3 r Dio, il Padre del Signore Gesù, che sia benedetto in eterno, sa che non mento. 32 A Damasco il governatore del re Areta sorvegliava la città dei da masceni per catturarmi; 3 3 ma fuggii dalle sue mani, calato in una cesta at traverso una finestra delle mura (cittadine) . 21b
.14 Deut.
25,3 .
9J24 S.
21 b-2 3·
.2.5 Atti
16,21; 14,19. 1.7 6,4 s.;
r
Cor. 4,u. 1.9
r
Cor. 9,22. JO 1 2,5.9
s.
).2. Atti
Paolo si accinge in certo modo a correre lo stesso «rischio» degli avversari, ossia a vantarsi. In tutto il discorso del folle ci si trova di fronte a un duplice paradosso: Paolo, che non è stolto, fa la parte dello stolto; ma nei vv. 23 -29 non si vanta della sua forza, come fanno gli stolti, ma da seguace di Cristo si vanta della sua debolezza, come si addice all'annuncio della croce. Vi è chi pensa che nel v. 22 Paolo si confronti non con gli avversari, ma con i primi apostoli di Gerusalem me che sarebbero dietro costoro; diversamente, non potrebbe adesso riconoscere la qualità di «ministri di Cristo» a dei «ministri di Sata na». Ma quest'interpretazione, a mio giudizio, misconosce lo sviluppo coerente del discorso e il carattere paradossale dei vanti dell'apostolo.
426
2 Cor. 1 1 ,2 1 b-33· Fatiche e patimenti dell'apostolo
Nel v. 22 Paolo non procede seriamente a un confronto tra sé e i primi apostoli, ma con i suoi concorrenti di Corinto conduce una po lemica tutta ironia. Per spiegare la polemica, rivolta nel v. 5 ai super apostoli e nei vv. 1 3- 1 5 ai ministri di Satana, s'è recentemente suppo sto che Paolo abbia dovuto tener conto della presenza tra i sobillatori di Corinto anche di diretti seguaci di Pietro; perciò, ricordandosi di Mc. 8,3 3, avrebbe pensato che quegli intrusi fossero momentaneamen te caduti sotto l'influsso di Satana, come Pietro a Cesarea di Filippi. I rivali di Paolo si pavoneggiavano della loro origine giudaica; sotto questo punto di vista Paolo può affermare la sua piena parità con essi. Gli avversari sono «ebrei», «israeliti», «discendenti di Abramo». Il pri mo nome, molto più raro che non «giudeo» o «israelita», era adopera to vuoi come designazione arcaizzante del popolo, vuoi per i giudei della diaspora originari della Palestina; è il nome onorifico del giudeo di stirpe pura, che rispetta rigorosamente le tradizioni dei padri (cf. 2 Mace. 7,3 1), oppure designa i giudei che parlano l'aramaico, a diffe renza degli compare solo con Origene, e non è preso invece in considerazione da Paolo, che designa costantemente la croce di Cri sto con stauros. L'immagine dell' «angelo del Satana» suggerisce un uso figurato della «spina nella carne». L'espressione proverbiale «gettare una spina negli occhi» significa «fare molto male» a qualcuno (Bill. 1 11, 5 3 4). In base ai vv. 8 s. non si tratta di una singola ingiuria, ma di una sofferenza permanente di cui Paolo non fu liberato nonostante le sue preghiere. Ciò fa pensare a una sofferenza cronica, legata a forti dolori (cf. 1 2, 1 0 E). Dietro la frase sull'angelo di Satana «che colpisce (il cor po) con pugni» stanno sia la concezione antica del carattere demonia co delle malattie, sia l'idea biblica della divina pedagogia del dolore. Dio ha dato al Satana il potere di infliggere dolore ali' apostolo mediante un suo inviato (v. Giob. ). Paolo attribuisce al nemico di Dio i danni che vengono recati al suo ministero apostolico; ma anche queste ope razioni del Satana sono in definitiva subordinate al potere e all'inten zione salvatrice di Dio. 8-9. Tre volte (una dopo l'altra o in momenti diversi) nella preghie ra Paolo ha invocato il Signore che lo liberasse dalle sue sofferenze. Nel v. 9 l'espressione «la potenza di Cristo» indica che con kyrios s'in tende Gesù Cristo. Il passo testimonia che Paolo ha conosciuto e pra ticato la preghiera rivolta al Signore innalzato (cf. 1 Tess. 3 , 1 3 s.). Alla sua preghiera il Signore diede questa risposta: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si compie nella debolezza» . La triplice preghiera =
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2
Cor.
1 .1, 1 -IO.
Rivelazioni del Signore e debolezza dell'apostolo
è spesso documentata tanto nella tradizione giudaica (cf. Mt. 26,44) quanto nella grecità. Il testo non dice direttamente in quale stato Pao lo abbia ricevuto la risposta del Signore, se in una visione estatica o in sogno; non dice nemmeno se udì soltanto il Signore o se anche lo vi de. L'apostolo pone l'accento solo sulla risposta del Signore. Questa parola ha la funzione di far capire il significato teologico della «spina nella carne», e forniscono una chiave importante per comprendere i patimenti apostolici di Paolo. - Si è recentemente supposto che Paolo rivesta questa rivelazione nella forma di un'aretalogia, genere lettera rio in cui si descrivevano, nell'ellenismo, i miracoli di guarigione, ad esempio nel culto di Asclepio (H.D. Betz). Dal punto di vista della storia delle forme la parola del Signore sarebbe analoga a un oracolo di guarigione della divinità invocata. Col rifiuto della guarigione l' apo stolo però «parodierebbe» l' aretalogia, con l'intento di criticare le fal se idee degli avversari sul nesso tra la verità di una dottrina e il suo suc cesso esteriore. Non è verisimile, a mio giudizio, che Paolo si sia basa to su tale modello letterario, poiché le analogie formali con la preghie ra e con la risposta non si presentano negli stessi testi. - La parola del Signore innalzato, pur contenendo una risposta negativa alla preghie ra di liberazione dalla sofferenza fisica, ha una valenza positiva in quan to dà un significato al destino di sofferenza dell'apostolo. Non sono solo parole di consolazione che rimandano al futuro, né espressione della rassegnazione. Essa dà all'apostolo la forza non solo di soppor tare la sofferenza come un destino irrevocabile, ma persino di ralle grarsene (cf. Rom. 5;3 - 5 ), e presenta le conseguenze della morte e ri-: surrezione di Gesù Cristo nella vita dell'apostolo. La risposta: «Ti ba sta la (mia) grazia» in primo luogo vuoi dire: di più non ti è dato; m'a, attraverso il collegamento con la croce (cf. 1 3,4), la risposta assume il valore d'una promessa: non ti occorre di più, la mia grazia ti basta a tutto, poiché essa dimostra la sua forza nella debolezza. Grazia e for za qui hanno pressoché lo stesso senso. Nella vita di sofferenza del l' apostolo giunge a pieno effetto la potenza di Cristo, poiché qui non si dimostra la forza propria dell'uomo. La sofferenza è il segno della stretta unione con Cristo, non della separazione dal Signore. Per il fi losofo stoico lo spirito della divinità opera nella disposizione raziona le dell'uomo. Paolo intende la forza di Dio come un dono ogni giorno nuovo, dato ai credenti mediante l'operare della potenza di Cristo nei loro cuori (v. 9; cf. Rom. 8,1 1 ). Paolo non abbellisce, non lamenta e
La malattia di Paolo
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nemmeno dichiara irrilevante la sofferenza, bensì coglie in essa l'occa sione in cui la potenza di Cristo giunge a effetto attraverso la debolez za del suo ministro. (Sulla sofferenza nel giudaismo, v. Bill. n, 274 ss.). 1 0. Nei vv 9b e 10 Paolo ci fa sapere che insegnamento ha tratto dalla risposta del Signore: d'ora innanzi preferirà vantarsi della sua debolezza (cf. Fil. 3,5 -7), affinché dimori in lui la potenza di Cristo. Dietro sta l'idea del «dimorare» della sapienza presso il popolo di Dio (Sir. 24,1 1 - 1 3 ; cf. Gv. 1 , 1 4). Il vantarsi del v. 9b si compie nell'accetta zione della sofferenza apostolica. La parola chiave «debolezza» viene ora collocata in un breve catalogo di sofferenze che ha punti di con tatto con 6,4-7 (cf. 4,8- 1 1) e annovera oltraggi, necessità, persecuzioni e angosce che come predicatore Paolo deve sopportare. Poiché nei de boli è potente la forza di Dio, per amore di Cristo Paolo consente con letizia alla sua vita di patimenti. La motivazione