L'arte egizia. Il potere dell'immagine 8854803111, 9788854803114

Avvicinandoci alle opere d’arte ereditate dall’antico Egitto, dobbiamo tener presente che molte di esse non sono state c

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L'arte egizia. Il potere dell'immagine
 8854803111, 9788854803114

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Giuseppina Capriotti Vittozzi

L’ARTE EGIZIA Il potere dell’immagine

ARACNE

Copyright © MMV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN

88–548–0311–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre 2005

Sommario

1. Introduzione

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2. Storia e mito 2.1 Le origini del mondo: il cosmo 2.2 II caos fuori della valle 2.3 II sovrano, tra storia e mito 2.4 L'immagine del faraone trionfante

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3. Realtà e immagine 3.1 Creazione: parola e immagine 3.2 La capacità creatrice dello scriba e dell'artista 3.3 La magia 3.4 II potere magico dell'immagine-segno 3.5 Un'arte funzionale

18 18 19 20 21 23

4. L'immagine e la persona 4.1 L'immagine del sovrano 4.1.1 L'Antico Regno 4.1.2 II Medio Regno 4.1.3 II Nuovo Regno 4.1.3.1 U N NUOVO RAPPORTO

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TRA IMMAGINE E FRUITORE

4.1.3.2 L'EPISODIO DI AMARNA

4.1.4 II periodo tardo 4.1.5 L'epoca tolemaica e romana, 4.2 La scultura privata 4.2.1 L'Antico Regno 4.2.2 II Medio Regno 4.2.3 II Nuovo Regno 4.2.4 II periodo tardo 4.2.5 L'epoca tolemaica e romana

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35 36 39 39 42 42 44 45

5. Identità funzionale di immagine e scrittura geroglifica 5.1 II dono della rigenerazione 5.2 La barca di Mutemuia 5.3 Ptah signore di Maat 5.4 Un rebus per Ramesse

47 47 49 49 49

6. L'arcaismo

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7. I modi della rappresentazione artistica 7.1 Immagine frontale e di profilo 1.2 L'introduzione della dimensione spazio-temporale nell'arte

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8. Lavorare la pietra in Egitto 8.1 Le pietre 8.2 Tra interrogativi e incertezze 8.3 1 vasi in pietra 8.4 La scultura in pietra tenera 8.5 La scultura in pietra dura 8.6 L'ottimizzazione dellerisorsenelle officine

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9. L'architettura come immagine

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10. Il retaggio dell'arte egizia 11. Breve bibliografia ragionata 12. Cronologia

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io

. Introduzione Volgendoci a considerare l’arte dell’antico Egitto, dobbiamo tener presente che abbiamo davanti uno sviluppo lungo più di tre millenni, a partire dal periodo predinastico, fino all’Impero Romano. Sopravvivenze dell’iconografia egizia si rintracciano inoltre nell’arte copta, avendo la chiesa dei cristiani d’Egitto conservato anche l’antica lingua in quella liturgica. Questo sviluppo, che si protrae lungamente nel tempo, dà l’impressione di una incredibile capacità di auto–conservazione, e dunque ha spesso stimolato l’idea di un non–sviluppo, come se la cultura e l’arte egizia fossero immutabili nel tempo, chiuse in una sorta di torre d’avorio che è la Valle del Nilo, impermeabili a contatti e stimoli e dunque sempre uguali a se stesse. Tale errore di lettura è reperibile ancora oggi in pubblicazioni di argomento storico. La fedeltà dell’arte egizia alla propria tradizione è indubbiamente un dato chiaro, che verrà commentato in questo quaderno, ma dobbiamo anche tener conto del fatto che essa ci è tanto più evidente perché la nostra considerazione dell’arte è focalizzata in particolare sull’arte della corte regale e dell’ambiente che da essa promana. La tentazione di chi si avvicina a studiare, e presentare ad un pubblico, un periodo o un ambito della storia dell’arte, è invariabilmente quella di scegliere gli oggetti più significativi, spesso i più sorprendenti per bellezza, raffinatezza tecnica, fascino. Se tale scelta comporta dei rischi, essi sono tanto più gravi quando ci accingiamo a considerare l’arte di una civiltà lontana nel tempo, laddove intorno all’eccellenza di tali picchi 11

emergenti, spesso il fondovalle è avvolto nella nebbia e solo qualche sprazzo è visibile o riconoscibile. D’altra parte, operare delle scelte è inevitabile e, a causa della stessa nebbia, esse cadono spesso, necessariamente, sulle opere prodotte dall’ambiente regale, insomma sull’arte ufficiale. Assolutamente indispensabile, dunque, per chi si avvicina allo studio dell’arte egizia, è la coscienza di tale parzialità, che investe la stessa produzione di ambiente regale; un caso esemplare è quello dell’architettura templare: le grandi costruzioni del Nuovo Regno hanno quasi completamente obliterato l’architettura templare dei periodi precedenti, ad esempio quella del Medio Regno, e solo alcune strutture, a suo tempo smontate e sepolte, o utilizzate come riempitivo, all’interno delle aree templari, sono state “ripescate” e ricostruite dagli archeologi, come ad esempio la cappella della barca di Sesostri I a Karnak. È questa una vera perla, ma ormai completamente fuori contesto. La coscienza della parzialità delle nostre conoscenze, deve tener conto anche di un fondamentale processo formativo della civiltà egizia: ciò che gli Egiziani ricordarono sempre come l’unificazione delle Due Terre, la Valle e il Delta. La realtà arcaica, semplificata dall’ideologia faraonica come una duplicità, dovette essere ben più variegata e multiforme. Ciascun centro, ogni città, aveva culti propri, miti e tradizioni diverse, diverse culture formali. Una traccia evidente di questa diversità originaria si trova nei periodi successivi, soprattutto a un livello mitologico e religioso, laddove sotto lo smalto dell’unificazione riemergono divinità e miti locali, che a tratti si confondono sotto una sovrapposizione di figure divine — più che un sincretismo — ma sempre riappaiono, dandoci quell’impressione di un politeismo confuso e infinitamente prolisso. La molteplicità delle origini, che riusciamo ancora a distinguere nei fenomeni religiosi, resta invece molto più nascosta per quanto riguarda l’arte figurativa, durante lo sviluppo dell’epoca dinastica.

2. Storia e mito Ogni civiltà ha di se stessa una certa immagine e una concezione delle proprie origini. Gli Egizi del periodo dinastico concepivano se stessi particolarmente in rapporto all’ambiente, il cui elemento unificante era il grande fiume, e in rapporto all’organizzazione politica, facente capo al sovrano. La concezione del mondo fu dunque profondamente influenzata dal peculiare ambiente fisico dell’Egitto: un grande fiume che percorre il deserto in direzione sud–nord dando vita ad un’oasi stretta e lunga 12

centinaia di chilometri, l’infuocato astro solare che, su un percorso est–ovest torna giornalmente alla vita; un ambiente deserto, mortale e affascinante insieme, nel quale si celavano ricchezze ma che velava al contempo un mondo sconosciuto e caotico. In rapporto a questo ambiente nacquero dunque i miti cosmogonici e si sviluppò la concezione del reale. 2.1 Le origini del mondo: il cosmo Come narra lo storico greco Erodoto, quando il Nilo straripava, l’Egitto assumeva l’aspetto di un immenso lago dal quale emergevano, qua e là, delle collinette. Da questa immagine scaturì la riflessione mitologica e religiosa e si ritrova nei vari racconti cosmogonici legati ai diversi centri religiosi dell’Egitto antico. Nella molteplicità dei miti, riconosciamo comunque l’elemento acquatico, un oceano primordiale (Nun), dal quale emerge un’isola, un tumulo primordiale, o sul quale si coagula un agglomerato di canne, un’isola natante. Sulle acque può nascere anche il sole, all’aprirsi mattutino della ninfea azzurra. 2.2 Il caos fuori della valle La visione egizia dell’ambiente lungo il fiume, cosmo perfetto che emerge dalle acque primordiali, comporta tuttavia il riconoscimento di ampie zone marginali e incontrollabili, che premono ai confini del mondo ordinato che è l’Egitto. Lo stesso oceano primordiale, cui si deve l’emergere del cosmo, è un elemento incontrollabile e imprevedibile, che ingoierà la creazione alla fine del tempo. Ciò che sta ai margini, dunque, presenta per gli Egizi un doppio valore: un aspetto fecondo e creativo, uno pericoloso e distruttivo. Particolarmente significativi di questo ambiente di confine sono gli acquitrini, i folti papireti, densi di vita e di pericoli, la cui flora e fauna sono generalmente connessi con la rigenerazione della vita. Dall’altro lato il deserto, arido e ostile, racchiude tesori preziosi d’oro e pietre e cela le vie per paesi lontani e ricchi di beni esotici. Gli acquitrini sono rappresentati molto spesso, sia in ambiente funerario che templare. Una pittura proveniente dalla tomba tebana di Nebamon, conservata al British Museum (fotografia in copertina), mostra il defunto armato di bastone da lancio mentre si avvicina al papireto su una barchetta; dietro di lui sta la sposa adorna di fiori di loto e munita di menat, accessorio caro ad Hathor. Un gatto fulvo, che attacca un uccello davanti al defunto, ricorda l’animale che nel cap. 17 del Libro dei Morti aggredisce il serpente Apopi, nemico della rinascita del sole. Sulla prua 13

della barca si vede un’oca, così come in un’altra immagine ambientata nei papireti che si trova nel mammisi di Kom Ombo: essa potrebbe rappresentare la teologia ermopolitana, alludendo all’uovo cosmico e primordiale, dal quale viene il soffio della vita. 2.3 Il sovrano, tra storia e mito Nella concezione egizia del mondo e della storia, figura irrinunciabile è il faraone, garante dell’ordine e del buon funzionamento del cosmo davanti agli dei, al punto che, quando in epoca romana il sovrano — l’imperatore romano — sarà figura lontana e a tratti di incerta identità, i sacerdoti nelle iscrizioni templari non rinunceranno alla figura regale ma lasceranno vuoto il cartiglio, che abitualmente ne avvolge il nome e lo rende immediatamente individuabile, o scriveranno all’interno semplicemente il titolo faraonico pr aA, (per aa, Grande Casa, dal quale deriva il nostro termine “faraone”). Senza il sovrano, nella concezione egizia, l’Egitto non potrebbe sopravvivere. La visione del passato, per gli Egizi, era dunque confrontabile ad una fila di sovrani nelle cui mani si era tramandato il governo, e quindi la vita del paese. Elenchi di nomi regali furono scolpiti sulle pareti di templi e di tombe, e qui citiamo solo la lista del tempio di Abido, realizzata durante la XIX dinastia. Questi elenchi monumentali attingevano a delle opere esistenti indubbiamente nelle biblioteche, in particolar modo templari, nelle quali si conservava la memoria del passato. Conosciamo il nome di uno di questi sacerdoti compilatori, ai quali dobbiamo notizie di una storia che si ammanta di mito: Manetone, vissuto quando l’Egitto aveva ormai faraoni di origine macedone, i Tolemei, successori di Alessandro Magno. La visione del passato, così come quella della realtà geografica, si confonde con il mito, ma questo è un modo di intendere solo nostro, e non rispondente a quello egizio, per il quale non sarebbe stato comprensibile un tale sdoppiamento: la realtà vibrava di forze e potenzialità in essa connaturate, poiché in essa abitavano le divinità; la storia portava i semi di una rigenerazione che per noi non è facile cogliere. La letteratura ci conserva, ad esempio nelle Lamentazioni del principe Ipu, scritto nel periodo seguente la caduta dell’Antico Regno, la visione terrifica del mondo allorquando si sfalda il potere regale e il caos prende il sopravvento sul cosmo ordinato: Si va ad arare con lo scudo (…). Il Nilo scorre ma non si ara per lui 14

poiché ciascuno dice “Non sappiamo ciò che avverrà nel Paese” (…). Le donne sono sterili e non si diviene più incinte. Khnum non crea più (…) Il fiume è pieno di sangue (…). Il deserto si è esteso sulla terra coltivata. Traduzione di S. Donadoni Questi stessi periodi in cui il mondo sembra rovesciarsi non ci hanno tramandato, generalmente, immagini regali. L’arte di corte, con il suo linguaggio artistico capace di far vivere fino a noi le immagini dei faraoni, sembra allora spegnersi così come, per gli Egizi, sembrava spegnersi la vita stessa del paese. In alcuni casi, tuttavia, sono questi i momenti propizi per intravedere altri aspetti dell’arte egizia, quelli che lasciano riemergere tradizioni locali, espressioni non ufficiali e “accademiche” . 2.4 L’immagine del faraone trionfante Come esempio per la comprensione del rapporto tra storia e mito — utilizzando i nostri parametri — e dell’importanza dell’immagine del sovrano in questo ambito, possiamo analizzare un modulo iconografico antichissimo e molto diffuso, quello del sovrano che, levato il braccio, abbatte i nemici dell’Egitto. Una faccia della famosa tavolozza di Narmer, datata agli albori dell’unità delle Due Terre (fine del IV millennio a.C.), ci mostra il sovrano che, indossando la Corona Bianca dell’Alto Egitto abbatte i nemici. Nel corso di tutta la storia dinastica troviamo lo stesso modulo ampiamente rappresentato soprattutto nei rilievi templari (fig. 1): nella struttura architettonica del tempio, che il Nuovo Regno ha canonizzato e tramandato, tale immagine, di grandi proporzioni, era rappresentata di solito sui piloni e comunque sui muri esterni, dove doveva rendere presente il re e il suo potere di dominare le forze del caos. L’insieme dei nemici, tenuti dal faraone per i capelli, rappresenta l’altra faccia del mondo oltre i confini, quella pericolosa, e tuttavia vitale, e ben se ne comprende allora la rappresentazione sui piloni del tempio, ai confini del cosmo perfetto da esso rappresentato (si veda anche § 9). Si è spesso scritto che la tavolozza di Narmer ricorda l’unificazione delle Due Terre da parte di questo re e sappiamo dalle iscrizioni che le grandi immagini di abbattimento dei nemici di ambiente templare fanno talora riferimento a precise popolazioni, tuttavia non dobbiamo considerare queste rappresentazioni come 15

il ricordo di un particolare momento storico, quale può essere per noi un monumento, che sia una statua o una lapide: esse si collocano nel mito, rendono presente la particolare funzione faraonica della tutela dell’Egitto. Al tempo di Ramesse II, quando l’arte aveva subito profondi mutamenti con l’avvento in essa delle dimensioni del tempo e dello spazio (cfr. § 7.2), questo modulo iconografico potrà anche essere sostituito con la

Figura . Karnak, VII pilone, Thutmosi III abbatte i nemici.

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grandiosa narrazione della battaglia di Qadesh contro gli Hittiti, un particolare evento storico nel quale, tuttavia, il mito prorompe attraverso l’intervento salvifico del dio Amon. Con le rappresentazioni del faraone trionfante, possono essere messe in relazione quelle del sovrano che, aiutato da alcune divinità, tira la rete per l’uccellagione negli acquitrini: anche in questo caso la funzione regale è quella di contenere le forze caotiche qui rappresentate dagli uccelli palustri. Mentre veniva assorbito dalle culture dell’alta valle del Nilo, per essere ritrovato nei templi meroitici (in epoca romana, nell’attuale Sudan), il modulo iconografico rappresentante il faraone trionfante entrò nella koinè artistica del Mediterraneo in un’epoca molto antica: esso fu attribuito a divinità vicino–orientali combattenti, fino a Melqart cipriota, ad Eracle greco e all’Ercole italico e romano. L’immagine di colui che, levato il braccio armato, abbatte le forze caotiche è divenuto familiare nella nostra cultura figurativa, fino alla rappresentazione di San Michele Arcangelo o a quella, curiosamente femminile, di Maria Vergine come Madonna del soccorso la quale, armata di un nodoso randello, scaccia il demonio che attacca un fanciullo.

Figura . Rilievo del mammisi di File: il dio Khnum modella sul tornio Horo il bambino.

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3. Realtà e immagine 3.1 Creazione: parola e immagine Tra i racconti della creazione degli antichi Egizi, due in particolare ci colpiscono e, in questo nostro cammino di comprensione, possono esserci d’aiuto. Essi d’altra parte trovano corrispondenza nei due racconti biblici contenuti in Genesi 1 e Genesi 2: il dio primordiale chiama in esistenza grazie alla forza creatrice della sua parola, oppure è artefice della figura umana che modella nella creta. Ptah, il grande dio di Menfi, è colui che crea attraverso la parola, come leggiamo in una stele del re Shabaka (XXV dinastia), che ci ha lasciato un testo (detto “teologia menfita”), scritto in uno stile riferibile all’Antico Regno, che si dice copiato sulla pietra da un antico papiro; in questo testo, un altro famoso racconto della creazione, quello eliopolitano incentrato sull’Enneade, viene ripreso e messo in rapporto con Ptah: Accade che il cuore e la lingua abbiano potere su tutte le altre membra (…). La sua (cioè di Ptah) Enneade è in cospetto a lui come denti e labbra (…) L’Enneade invero è i denti e le labbra di questa bocca che pronunciò i nomi di ogni cosa (…) Venne in esistenza ogni parola divina per mezzo di quel che il cuore aveva pensato e che la lingua aveva ordinato. Traduzione di S. Donadoni Nella creazione da parte di Ptah, si realizza pienamente, dunque, la potenzialità della parola pronunciata, il legame diretto e immediato tra la volontà concepita nel “cuore” e la sua venuta in esistenza. Una particolare attenzione merita l’espressione riguardante l’ordine dato dalla lingua: il termine che indica il dare ordini (wD, udj) è quello spesso utilizzato per il faraone, si tratta dell’impartire un ordine performativo, ovvero l’ordine che immediatamente crea; la lingua, in quanto organo preposto alla parola, è un tutt’uno con essa, e non un semplice strumento, la lingua e l’idioma si identificano in una coincidenza tra organo, parola e realtà creata. In quanto creatore, Ptah è anche il protettore degli artisti. Nello stesso testo, si legge anche: 18

Così Ptah fu contento dopo che ebbe creato ogni cosa e ogni parola divina. Egli creò gli dèi, fece le città, fondò i nômi (province), pose gli dei nei loro santuari, consolidò le loro offerte, fondò i loro santuari, fece i loro corpi simili ai loro desideri. Così entrarono gli dei nei loro corpi di qualsiasi specie di legno, di qualsiasi specie di pietra, di qualsiasi specie di minerale. Traduzione di S. Donadoni La creazione di Ptah riguarda tutto il reale: allo stesso modo le cose e le parole, dunque i geroglifici, che del reale sono una trasposizione e insieme un prototipo. Conosciamo inoltre, in Egitto, un dio che si sporca le mani con la creta: è Khnum, il vasaio che, posta la materia sul tornio, la modella fino a produrre il fanciullo divino e regale (fig. 2). Queste immagini della creazione ci aiutano a comprendere i due fondamentali aspetti della creazione culturale egizia: la scrittura geroglifica e l’arte figurativa, strettamente connesse tra loro. 3.2 La capacità creatrice dello scriba e dell’artista Tutte le funzioni vitali dell’Egitto facevano capo al faraone, che ne garantiva la tutela di fronte al caos esterno, ma anche la rigenerazione attraverso i riti: il sovrano era dunque sacerdote garante del culto, e allo stesso tempo artefice di testi e immagini sacre; tali funzioni venivano tuttavia delegate a degli specialisti. In un passo dei Testi delle Piramidi, iscritti nelle tombe regali nella seconda metà dell’Antico Regno, leggiamo, nella traduzione di A. Roccati, che il faraone «è scriba del rotolo divino: dice ciò che è (legge) e fa essere ciò che non è (scrive)». La capacità di creare attraverso la parola è qui attribuita al sovrano, scriba di testi sacri, emulo del dio Thot, inventore della scrittura: la parola chiama in esistenza; non esiste, dunque, una distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione; dalla parola procede la realtà; la parola è epifania. Gli scribi–sacerdoti–maghi, capaci di scrivere e pronunciare parole assolutamente efficaci, erano degli specialisti che operavano all’interno della Casa della Vita, un’importante istituzione legata ai templi, dove si esercitavano tutte le attività rivolte al mantenimento e al rinnovo della vita. Una delle attività fondamentali della Casa della Vita era quella di creare testi sacri, sia per il rituale templare che per quello funerario. Tra gli specialisti della Casa della Vita c’erano lo “scriba del libro divino” (zS mDAt nTr, zesh medjat netjer) e il sacerdote lettore (Xry-Hb, khery-heb): per 19

la potenza creatrice della parola scritta e pronunciata, i libri della Casa della Vita erano segreti e inaccessibili; essi sono definiti “emanazioni di Ra” o “anime di Ra” (bAw, bau) e dunque capaci di attualizzare la potenza del dio creatore. Oltre alla funzione di scriba, al sovrano veniva anche attribuita quella di creatore di immagini. Il faraone è definito “colui che mette al mondo chi lo ha messo al mondo” per la sua prerogativa di creare immagini divine, capacità che egli delega a degli specialisti. Nella Casa della Vita, c’era infatti anche lo scultore, cioè colui che era in grado di creare l’immagine che sarebbe stata poi sottoposta al rituale di “apertura la bocca” affinché potesse essere “viva”: il termine per indicare la creazione di immagini è lo stesso che per “partorire” (ms, mes). L’immagine, come la parola, può essere assolutamente efficace. La Casa della Vita è dunque il luogo dove un gruppo estremamente specializzato di persone rende possibile il mantenimento e il rinnovo della vita del paese e dei singoli: ciò è possibile perché attraverso i testi e le immagini sacre si rende presente e attiva la divinità con tutto il suo potere rigenerante; a tali attività della Casa della Vita sono ovviamente connesse quelle mediche, per il mantenimento del corpo, e allo stesso modo quelle funerarie. La Casa della Vita attua il cosmo ordinato degli dei, è un luogo dove ciascun elemento ha senso al fine di rigenerare l’esistenza, dove misteriosamente si conoscono i processi della vita: è dunque il luogo della sapienza, dei rituali e della magia. Ancora nella Bibbia (Esodo 7, 8–13) fin nella letteratura greca e romana, il sacerdote–mago egizio, legato alla Casa della Vita, viene rappresentato come colui che compie mirabolanti prodigi: il suo armamentario di magia è generalmente costituito da libri–rotoli, dai quali egli legge recitando in un’antica lingua rituale formulari incomprensibili quanto efficaci. Durante il suo viaggio in Egitto, l’imperatore Adriano sarebbe stato testimone delle incredibili capacità magiche di Panchrates, un sacerdote di Eliopoli. 3.3 La magia Il termine “magia” fin qui utilizzato richiede tuttavia delle precisazioni, per evitare fraintendimenti dovuti al nostro bagaglio culturale. Gli studi recenti di Y. Koenig hanno ben chiarito la difficoltà di impiegare il nostro termine “magia” per definire la cultura magico–religiosa dell’Egitto antico: la magia, nella Valle del Nilo, non era considerata infatti come distaccata e anzi opposta alla sfera religiosa, ma ne costituiva l’espressione, fondando il rapporto tra uomini e realtà. Come ha sottolinea20

to Koenig, per capire il pensiero magico egizio bisogna tener presente, in esso, l’assoluta identità tra significato e significante, sia per quanto riguarda la parola pronunciata/scritta che nell’arte figurativa. Nella nostra cultura, un legame più o meno casuale, e certamente non necessario, connette la parola/significante al suo significato: ogni parola può essere sostituita da un sinonimo o addirittura tradotta in altra lingua; qualcosa di analogo può avvenire con le immagini. Nella cultura egizia, invece, la parola non può essere arbitrariamente scelta ma è strettamente necessaria: per essere efficace, dunque creatrice, deve essere scritta e risuonare solo in un determinato modo che è il suo proprio, poiché quello è il nome dato dalla divinità creatrice a ciascuna cosa, un nome capace di chiamare ancora in esistenza. Per questo motivo la parola sacra non può essere tradotta, perciò i maghi egizi in epoca romana continuano a recitare le loro antiche formule ormai incomprensibili ai più, mentre degli scrittori antichi, come Erodoto (Storie II, 52), Luciano di Samosata (De Dea Syria 2) o Giamblico (I misteri dell’Egitto VII, 5) ci tramandano la consapevolezza che gli Egizi avevano avuto il privilegio di apprendere per primi i nomi divini. In particolare, Giamblico, vissuto tra III e IV sec. d.C., scrive: …se i nomi venissero attribuiti sulla base di una semplice convenzione, sarebbe senza nessuna importanza usarne uno piuttosto che un altro; ma se essi sono legati alla natura degli esseri, quelli che più vi si avvicinano penso siano i più graditi agli dèi; per questo è preferibile usare i nomi delle lingue dei popoli sacri così come sono: una traduzione, infatti, non permetterebbe di conservarne il medesimo senso… I misteri dell’Egitto VII, 5, traduzione di A. Anzaldi L’identità tra significante e significato è riconoscibile anche nell’arte figurativa: l’immagine è ciò che essa rappresenta. 3.4 Il potere magico dell’immagine–segno La ricerca dell’immortalità degli antichi Egizi, attraverso i processi di rigenerazione, passa dunque per i rituali di una magia “simpatica”, nella quale si riconosce l’energia vitale che lega i simili o ciò che entra in contatto. Lungi dall’avere un fine decorativo, dunque, i numerosi segni che chiunque si avvicini all’Egitto antico vede pullulare, infinitamente ripetuti, sulle pareti dei templi o delle tombe, hanno una funzione precisa e utilitaristica. Soffermiamoci, a mo’ di esempio, solo a considerare il segno 21

del papiro : esso dà forma alle colonne templari e allo scettro delle dee; rappresenta, in un segno araldico, lo stesso Egitto; è raffigurato in folte macchie brulicanti di animali nelle tombe e sulle pareti dei templi. Nella scrittura geroglifica, il suo nome wAD (uadj) indica anche il colore verde e con esso la frescura vitale e la rinascita. Come altri esseri animali e vegetali che attingono vita dal Nilo, il papiro è il simbolo della vita che si rigenera. Una minuscola colonna a forma di papiro, in maiolica verde–azzurra, poteva dunque essere usata come amuleto. Per tutta la storia dell’Egitto faraonico, ciò che ai nostri occhi appare come uno squisito, elegante senso della decorazione, ad uno sguardo più approfondito si rivela come l’espressione di una particolare concezione della realtà, dove ogni oggetto si carica di un potere simbolico, considerando il termine “simbolo” nel suo senso etimologico: dal verbo συµβαλλειν (symbállein), nel suo senso originario di “mettere insieme”, deriva il sostantivo συµβολον (s´y mbolon), il quale designava un oggetto che, spezzato in due parti perfettamente uguali, identificava un rapporto (di amicizia, ospitalità, ecc.) stabilito tra due persone. Avviene dunque che anche i minuscoli e squisiti oggetti da toletta si carichino di una vita propria: i vasetti per il trucco possono essere portati sulle spalle da fanciulli/nani/scimmie, figure legate alla rigenerazione o all’erotismo; i lucidi, tondi specchi, emergendo da manici a forma di papiro o di loto, alludono all’astro diurno che rinasce, fino a

Figura . Karnak, “battesimo” della regina Hatshepsut.

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ritrovarli, raffigurati sulle pareti dei templi, in un rituale nel quale è protagonista Hathor, dea della femminilità e della rigenerazione. L’acqua del grande fiume è ovviamente un elemento importante nei rituali della rigenerazione: una scena, più volte raffigurata sulle pareti dei templi, ci mostra uno dei momenti importanti dell’accesso alla regalità, quando il nuovo re, attraverso un “battesimo” operato da due divinità (spesso Horo e Thot), nasce alla nuova vita regale (fig. 3). Gli dei versano sul capo del sovrano dell’acqua che, nei rilievi, non è rappresentata come lo è solitamente attraverso una linea spezzata continua, ma come una sorta di catena formata di segni della vita (anx, ankh): l’identificazione acqua–vita è dunque espressa con inequivocabile chiarezza. Particolarmente efficace, è l’esempio di un recipiente rituale, conservato al Metropolitan Museum di New York, studiato da H.G. Fischer: si tratta di un oggetto raffinatissimo, per le proporzioni e la tecnica di lavorazione, datato al periodo Predinastico. La padronanza di una grande perizia tecnica ha permesso di ricavare un recipiente di forma complessa da una pietra dura e compatta come la grovacca. L’oggetto si articola tra il segno geroglifico kA (ka, spirito), costituito da due braccia, e il segno anx (ankh, vita) da quelle inquadrato; la parte bassa del segno ankh funge da versatoio. Il liquido che veniva posto all’interno, probabilmente l’acqua, si impregnava così del potere dei due segni e della forza rigenerante dello stesso colore scuro e tendente al verde della pietra. La funzione di questo antichissimo recipiente non appare sostanzialmente diversa da quella delle statue magiche di epoca tarda (fig. 4), coperte di figure e iscrizioni, sulle quali si lasciava scorrere l’acqua che, raccoltasi in una cavità ai piedi della scultura, veniva utilizzata a scopo profilattico, essendosi impregnata delle capacità salvifiche della statua stessa. 3.5 Un’arte funzionale Nella nostra cultura, l’opera d’arte è soprattutto una forma di comunicazione, nell’antico Egitto l’arte figurativa, così come la scrittura geroglifica, per quanto ci è dato capire, nasce con una funzione diversa. Avvicinandoci alle opere d’arte ereditate dall’antico Egitto, dobbiamo tener presente che molte di esse non sono state concepite e “partorite” affinché qualcuno fruisse e godesse della loro bellezza, e tra queste le più famose e stupefacenti, come la maschera d’oro di Tutankhamon. J. Assmann ha ben focalizzato che non siamo di fronte ad opere che vogliono comme23

morare la persona, comunicare qualcosa; l’immagine non è dunque un segno (sema), ma un vero e proprio corpo (soma). Sculture a tuttotondo, rilievi, iscrizioni, non sono stati realizzati per essere ammirati o letti, ma perché, semplicemente, esistano. Così Assmann, in totale assenza di una funzione semiotica, definisce l’arte come “somatica”. Il riconoscimento di tale funzione dell’arte non nega tuttavia l’esistenza di immagini concepite anche con lo scopo di comunicare, di essere viste: la distinzione può essere operata, piuttosto semplicemente, tra le immagini destinate a

Figura . Statua magica detta “Torso Borgia”. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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luoghi chiusi, inaccessibili, e quelle invece che si imponevano all’attenzione di un pubblico. Le immagini funerarie chiuse nelle tombe, i rilievi nelle stanze più occulte dei templi, fino alle preziosissime statue di culto, accessibili solo ad un gruppo ristrettissimo di sacerdoti, rendono presente e attuale un dio, un personaggio, dei riti. Nessuno può negare, tuttavia, che la grande sfinge della piana di Giza, oltre ad essere per gli Egizi una vera e viva divinità, fosse anche un segno. La cultura egizia dell’Antico Regno ci ha lasciato esempi notevoli di arte statuaria destinata semplicemente ad esistere: il caso più famoso ci è dato forse dalla statua di re Gioser della III dinastia (fig. 5), ritrovata in una stanza chiusa davanti alla piramide a gradoni di Saqqara; all’altezza degli occhi della statua, in origine resi vivi dall’incastonatura in pietre dure o pasta vitrea, due fori nella parete di pietra permettevano al sovrano di guardare fuori.

Figura . Statua di Gioser. Il Cairo, Museo Egizio.

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4. L’immagine e la persona Il desiderio di sopravvivere, proiettando la propria identità al di là della morte biologica, stimolò nell’antico Egitto lo sviluppo dell’arte figurativa e del genere letterario autobiografico; la consapevolezza della propria personalità si appoggiava ad una concezione piuttosto complessa dell’io, che proprio per la sua poliedricità appare particolarmente efficace: di fronte alla duplicità di carne e spirito che la nostra cultura ha ereditato attraverso il mondo greco, la concezione egizia è molto più complicata e di difficile definizione. L’uomo esiste attraverso vari aspetti che lo individuano e che sopravvivono alla sua morte biologica: tali aspetti, rintracciabili nella cultura egizia attraverso le fonti scritte ed iconografiche, compongono la personalità che si individua in un uomo fisico, il cui corpo si cerca in ogni modo di conservare dopo la morte affinché la sua ombra, l’akh, il ka, il ba — elementi di difficile definizione nella nostra cultura, ma intuibili come energia vitale, potenza individuale, capacità di movimento — abbiano sede e mantengano unità. Altrettanto vitale è il nome, che identifica l’individuo secondo quel senso originario che lega il nome all’atto della creazione. L’assoluta necessità di mantenere intatto il corpo, che per gli Egizi fu tuttavia facilitata dal clima secco del deserto dove le tombe venivano scavate, dettò lo sviluppo dell’arte figurativa e in particolare del ritratto: la statua, non materia inerte ma viva, è identificabile con la persona in quanto sede della sua energia vitale (a tal proposito si ricordi quanto espresso nel testo citato al § 3.1). Lo sviluppo del ritratto, in Egitto, è dunque molto precoce: i caratteri fisionomici personali emergono in maniera più o meno evidente nel corso della storia, di periodo in periodo, di scultura in scultura. J. Assmann ha definito quest’arte come frutto dell’esigenza della Selbstthematisierung (“autotematizzazione”) dell’uomo egizio. 4.1 L’immagine del sovrano 4.1.1 L’Antico Regno Già alle origini del periodo dinastico, nelle immagini di Gioser della III dinastia, la tendenza all’idealizzazione, dovuta in particolare al prevalere del gusto geometrico, dialoga con l’esigenza realistica, riassumendo i particolari fisionomici nella predilezione per il gusto stereo26

metrico delle masse: così nella statua già citata e nei rilievi notiamo un profilo assolutamente personale per il grande naso a becco e le labbra sporgenti. Nella IV dinastia, i numerosi ritratti di Micerino (fig. 6) ostentano caratteri personali, talvolta spinti ad un vivo realismo, mentre nelle

Figura . Gruppo di Micerino in compagnia della dea Hathor e della personificazione di un nomo. Il Cairo, Museo Egizio.

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immagini del predecessore Chefren (fig. 7) i tratti individuali appaiono più idealizzati, forse anche per la presenza del marcato trucco degli occhi, assente in Micerino. 4.1.2 Il Medio Regno Dopo la crisi della monarchia centralizzata e lo sviluppo di potentati locali con il conseguente affermarsi di un’arte non di corte, la statuaria regale si ripresenta con immagini piuttosto impersonali, quasi la ripresa dell’idea stessa della figura regale, più che un’immagine personale, con le statue di Sesostri I, per poi esprimersi in uno dei filoni ritrattistici più impressionanti della storia dell’Egitto. Le numerose immagini di Sesostri III, dal viso intensamente segnato dai tratti pesanti (fig. 8), ci impongono la sensazione di una personalità con la quale si può entrare vivamente in contatto: un uomo concreto con preoccupa-

Figura . Testa in alabastro di Chefren. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

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zioni e tensioni interne. J. Assmann mette in relazione queste novità con una novità culturale che si manifesta anche in ambito letterario, e cioè la scoperta o comunque la messa in valore dell’uomo interiore. A. Roccati ha sottolineato l’accentuata funzione comunicativa dell’arte del Medio Regno e a questo riguardo va ricordato che diversi colossi regali portanti il nome di Ramesse II, ritrovati a Tanis, sono in realtà delle creazioni del Medio Regno usurpate durante la XIX dinastia, come ha acutamente riconosciuto H. Sourouzian.

Figura . Testa in granito di Sestori III. Il Cairo, Museo Egizio.

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4.1.3 Il Nuovo Regno Nel corso del Nuovo Regno, si produssero in Egitto profondi cambiamenti culturali e artistici. Nella prima parte della XVIII dinastia, le immagini regali lasciano trapelare, dalle forme idealizzate, dei tratti individuali: all’occhio inesperto, talvolta, le immagini sembrano “tutte uguali” e non immediatamente attribuibili come nella XII dinastia, tuttavia le variazioni fisionomiche, pur omogeneizzate dal trucco sempre presente, hanno permesso agli studiosi di stabilire l’iconografia dei vari sovrani. Un caso indicativo è quello della statuaria della regina Hatshepsut e di Thutmosi III, che regnarono insieme molto a lungo: le immagini dei due sono state a lungo confuse, ma Hatshepsut è riconoscibile per il viso triangolare mentre Thutmosi III per la mascella breve e un po’ squadrata, il naso

Figura . Statua in grovacca di Thutmosi III. Il Cairo, Museo Egizio.

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piuttosto grosso. A marcare la differenza di identità, in alcuni casi, interviene un particolare anatomico che solo in questo periodo troviamo nell’arte figurativa egizia: il pomo d’Adamo per Thutmosi III, che sembra ribadire, discretamente, le differenze tra i due (fig. 9). Nel corso di uno stesso regno si possono notare variazioni iconografiche: nel caso di Thutmosi III, ad esempio, le immagini più idealizzate sono quelle dell’età più matura, quando persino il naso si raddrizza. Una caratteristica della statuaria regale emergente nel corso della XVIII dinastia è l’aspetto infantile del viso che spesso troviamo, come ad esempio in Amenhotep II. Anche l’arte raffinata del tempo di Amenhotep III produce, tra altri generi, un tipo statuario che lo ritrae con fattezze fanciullesche, estremamente idealizzate: esso non sembra riconducibile all’età infantile del re ma sarebbe da connettere con una visione particolare della regalità nella sua funzione rigenerante. In questo tipo l’idealizzazione può spingersi ad una estrema quanto elegante geometrizzazione dei tratti: una testa a Brooklyn (fig. 10) mostra in particolare un’ardita e

Figura . Testa di Amenhotep III. New York, Brooklyn Museum.

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insolita linea che unisce il naso e le sopracciglia, formando quella che, forse non a caso, sembra la silhouette della palma–dum, una pianta dai forti significati di rigenerazione e rinascita. Non va dimenticato che, nel suo lungo regno, Amenhotep III celebrò vari giubilei (festa–sed), che avevano proprio la funzione di rigenerare il potere del sovrano. 4.1.3.1 UN NUOVO RAPPORTO TRA IMMAGINE E FRUITORE Nel corso della XVIII dinastia, si afferma il gigantismo delle immagini regali e un diverso atteggiamento del capo e degli occhi: le palpebre, acquistando spessore, non sono più un semplice listello o un taglio netto, ma si reclinano sui globi oculari dirigendo lo sguardo verso il basso, in un atteggiamento di pensosa benevolenza. Tale atteggiamento si trova per la prima volta nella statuaria colossale di Amenhotep III e successivamente nei colossi di Akhenaten (fig. 11) per poi essere ripreso abitualmente da Ramesse II. Questo particolare trattamento si accentua nella statuaria colossale, nella quale la sezione del globo oculare è visibilmente obliqua in modo da proiettare lo sguardo del colosso verso lo spettatore. Il genere è sicuramente interprete di una rinnovata idea della regalità in rapporto all’umanità circostante e si oppone ad un certo genere statuario attestato in epoca thutmoside, nel quale il sovrano era rappresentato con il viso lievemente rivolto verso l’alto, in una sorta di apoteosi. Se lo sguardo rivolto verso il basso si è affermato inizialmente nella statuaria di enormi proporzioni, esso si ritrova anche in immagini di misure inferiori, come la famosa statua torinese di Ramesse II, nella quale anche il capo accenna un lieve movimento verso il basso (fig. 12). L’impressione è quella di trovarsi davanti ad una divinità benevola che entra in rapporto con chi guarda. Tali novità della statuaria regale accentuano, nel corso del Nuovo Regno, la capacità comunicativa dell’arte che si rivolge, nelle grandi aree templari, ad ampi gruppi umani. 4.1.3.2 L’EPISODIO DI AMARNA Durante la XVIII dinastia, si verificò anche la frattura di Amarna: i cambiamenti religiosi, politici e artistici voluti da Amenhotep IV/Akhenaten (fig. 11). La riproduzione artistica dei lineamenti personali del sovrano, più o meno marcata nel tempo, lascia ora spazio a delle immagini che risultarono brutte in modo stupefacente ai primi egittologi che vi entrarono in contatto: esse ci colpiscono ancora, ad ogni sguardo, come la prima volta. Gli studiosi hanno più volte tentato di capire fino a 32

che punto le immagini di Akhenaten riproducano la sua realtà fisica e alcuni hanno tentato di giustificare la sua deformità riconoscendo delle patologie. D’altra parte diversi studiosi hanno giustamente inteso vedere, nell’immagine del sovrano, una sorta di idealizzazione alla rovescia: S. Donadoni ha intuito che “non sembra inverosimile che una così energi-

Figura . Colosso di Akhenaten. Il Cairo, Museo Egizio.

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Figura . Statua di Ramesse II. Torino, Museo Egizio.

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ca tipizzazione intenda distaccare le figure regali da quelle del resto dell’umanità” fino a creare “una immagine identificabile a scopo di culto”. Si può osservare, ad esempio, che l’aspetto androgino del re — con il ventre e i fianchi pesanti e talvolta il seno sporgente — può rinviarci alle figure tradizionali della divinità del Nilo che unisce caratteri maschili e femminili ad indicare la fecondità del fiume. D’altra parte, la fortissima caratterizzazione dei personaggi della famiglia regale si appoggia, probabilmente, su reali caratteristiche fisionomiche, alle quali tuttavia non doveva corrispondere una patologia, come ha dimostrato ancora, recentemente, G. Robins. 4.1.4 Il periodo tardo Nel I millennio avanti Cristo, l’immagine regale va indirizzandosi verso una progressiva idealizzazione. Nel caso della XXV dinastia, di origine nubiana, i sovrani si individuano facilmente per due aspetti distintivi tra novità e arcaismo: i tratti somatici di tipo africano e le proporzioni del corpo riprese dalla IV dinastia (cfr. § 6). La XXVI dinastia (saitica), e in maniera analoga ancora la XXX, di origine autoctona, ci hanno lasciato immagini regali di grande raffinatezza nelle quali, al di là dell’idealizzazione, sono talvolta riconoscibili i tratti personali, come nel caso di Amasi, talvolta distinto da un viso lievemente equino (fig. 13).

Figura . Testa in grovacca verde di Amasi. Berlino, Ägyptisches Museum.

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4.1.5 L’epoca tolemaica e romana Dopo la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno, il paese viene governato da una dinastia di origine macedone e la presenza della cultura greca nel paese si fa sempre più forte. La statuaria regale si sviluppa allora in tre direzioni diverse: la scultura di tipo ellenistico, oggetto di studio da parte degli archeologi di formazione classica; la scultura che si muove nella tradizione egizia; la scultura greco–egizia, che presenta caratteri misti. La statuaria greco–egizia mostra casi interessanti nei quali, all’interno di un’impostazione egizia, vengono trasposti caratteri fisionomici tratti dalla scultura ellenistica (fig. 14).

Figura . Testa di Tolomeo VI. Alessandria, Museo Greco–Romano.

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Parallelamente a questo sviluppo, continua ad esistere la scultura di tipo tradizionale che nonostante il progressivo vacillare dei rigidi canoni, resta sostanzialmente fedele a se stessa, sforzandosi di riprodurre le immagini tradizionali, quelle che il periodo saitico aveva trasmesso (fig. 15). L’estrema raffinatezza di questi tipi statuari esprime la sopravvivenza di un’espressione formale tradizionale: è l’idea stessa del faraone che viene qui rappresentata, la figura mitica del sovrano, al di là del suo carattere personale che è invece riscontrabile nella scultura greco–egizia. In un periodo nel quale quella egizia deve convivere con altre culture, e in particolare con quella greca dominante, si nota, soprattutto in ambito templare, un ripiegamento sulla tradizione: la figura del sovrano è assolutamente indispensabile alla sopravvivenza dell’Egitto. Tuttavia il riconoscimento di una varietà di linguaggi artistici e la convivenza di immagini regali di diversa matrice comportano il venir meno dell’assoluta adesione ad un unico linguaggio e aprono le porte

Figura . Testa di sovrano tolemaico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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ad una miriade di idiomi locali; mentre la scultura faraonica del passato, pur con alcune varianti, si presentava come sostanzialmente omogenea, in epoca tolemaica assistiamo ad un incontrollato moltiplicarsi di linguaggi formali. In epoca romana, quando il sovrano sarà lontano, la varietà dei linguaggi nata con i Tolemei sarà portata alle estreme conseguenze, spesso in senso degenerativo rispetto ai canoni tradizionali: alcuni imperatori, da Augusto (fig. 16) a Caracalla, saranno rappresentati in un linguaggio misto, come già i Tolemei, mentre per Domiziano, più fedel-

Figura . Statua di Augusto. Il Cairo, Museo Egizio.

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mente legato alla tradizione egizia, si inseriranno caratteri fisionomici in un modello faraonico (fig. 17). 4.2 La scultura privata 4.2.1 L’Antico Regno La scultura privata nasce come concessione regale a personalità strettamente legate alla corte: il possedere un’immagine realizzata in pietra, che possa sfidare il tempo, è una prerogativa del sovrano, che egli può estendere a persone vicine a lui. Durante la IV dinastia, ven-

Figura . Statua di Domiziano. Benevento, Museo del Sannio.

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gono realizzate sculture di grandissimo pregio, dai caratteri personali estremamente realistici (fig. 18). Con il passare del tempo, si assiste ad un fenomeno che è stato talvolta descritto con il termine di “democratizzazione” di quelle che in origine erano prerogative regali: un sempre maggiore numero di privati possono accedere al cammino di rigenerazione e rinascita dopo la morte e possedere un’immagine duratura di sé. Nella V e VI dinastia, abbiamo un moltiplicarsi di statue di privati che, pur essendo spesso di buona qualità, mostrano una certa unifor-

Figura . Statua di legno di Kaaper, IV–V dinastia. Il Cairo, Museo Egizio.

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mità nei tratti, quasi il segno di una produzione di serie: in queste sculture l’uomo è spesso accompagnato dalla sposa, talvolta dai propri figli (fig. 19).

Figura . Gruppo statuario di due sposi, V dinastia. Il Cairo, Museo Egizio.

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4.2.2 Il Medio Regno Nel corso del Medio Regno, si sviluppa sempre più la capacità dei privati di avere un monumento personale: si va dalle numerose semplici stele funerarie, nelle quali tuttavia il formulario mantiene il ricordo dell’antica concessione regale, alle figurine in legno, fino a statue di alti dignitari che sono chiaramente prodotte in officine dell’ambiente di corte. Si sviluppa anche, in questo periodo, un genere statuario che si ritrova a lungo nel corso della storia: la statua cubo, nella quale l’individuo è rappresentato accovacciato, con le ginocchia raccolte al petto; questo tipo, che ci appare di proporzioni ovviamente pesanti, offre ampia e regolare superficie alla possibilità di incidervi iscrizioni. Nel corso della XII dinastia, soprattutto nell’ambito della scultura privata dell’ambiente più elevato, si osserva il fenomeno dello Zeitgesicht (il volto del tempo): la rappresentazione artistica dei lineamenti sofferti del re condiziona quella dei personaggi in vista del suo regno. 4.2.3 Il Nuovo Regno Il Nuovo Regno è caratterizzato da una cultura molto dinamica, fortemente influenzata dalla sempre più accentuata apertura dell’Egitto verso l’esterno. Il movimento di beni economici e di persone stimola il diversificarsi delle professioni e l’aumento di una classe sociale media, per così dire di “professionisti” di cultura elevata: di fronte ad un certo numero di statue pregevoli di cortigiani, i cui tratti copiano da vicino la statuaria regale, si vanno moltiplicando gli esempi di statuaria realizzata in ambito privato. Soprattutto in epoca ramesside, si sviluppano dunque una cultura e un’arte figurativa che non sono espressione dell’istituzione faraonica, ma invece dell’individuo, il quale rappresenta se stesso come persona che cammina nella storia, pur entrando in contatto con il mito, attraverso la collocazione delle statue all’interno dei recinti templari. Le statue, o gruppi famigliari, di privati, realizzate in quest’epoca, presentano caratteri stilistici vari: si va dall’aspetto estremamente raffinato del tempo di Amenhotep III, che fa sentire la sua influenza anche nei periodi successivi (fig. 20), a un modellato piuttosto aspro; in 42

Figura . Gruppo statuario di due sposi, seconda metà della XVIII dinastia. Londra, British Museum.

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ambedue i casi, tuttavia, i caratteri fisionomici restano piuttosto generici, presentando il “volto del tempo” e affidando all’iscrizione l’identificazione della persona. 4.2.4 Il periodo tardo Dopo il Nuovo Regno, si va affermando sempre più l’uso dei privati di collocare proprie statue non solo nella tomba ma anche all’interno del

Figura . Statua di sacerdote teoforo (XXX dinastia). New York, Brooklyn Museum (testa), Il Cairo, Museo Egizio (corpo).

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recinto templare, al fine di poter beneficiare dei riti e delle offerte del tempio stesso. Le statue possono rappresentare il personaggio secondo il modulo della statua–cubo, ma spesso si tratta di statue naofore o teofore, generi già affermati dal periodo ramesside: la persona è raffigurata seduta, o più spesso in ginocchio, talvolta in piedi, mentre porge davanti a sé un naos — cioè un’edicola contenente una o più figure divine — oppure, più raramente, delle statuette divine (fig. 21). Sulla scultura le iscrizioni dedicatorie si allungano, fino a diventare, spesso, delle vere autobiografie. Convivono due tendenze: da un lato l’idealizzazione, che a tratti lascia trapelare qualche carattere individuale, e dall’altro uno stile vigorosamente veristico. 4.2.5 Il periodo tolemaico e romano Inizialmente si sviluppano le tendenze tipiche del periodo tardo e si osserva, in qualche caso, il ricorso alle proporzioni colossali anche per le statue di privati. Con il trascorrere del tempo, le sculture private ripiegano su uno stile sempre più essenziale nelle linee, fino ad ottenere, talvolta, delle rappresentazioni piuttosto rudi e impersonali (fig. 22).

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Figura . Statua di un privato del periodo romano, dal Fayum. Il Cairo, Museo Egizio.

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5. Identità funzionale di immagine e scrittura geroglifica Si è già accennato al fatto che, nell’avvicinarci alla cultura figurativa egizia, non possiamo tralasciare la scrittura geroglifica: non solo essa è partecipe delle regole dell’arte figurativa ma dobbiamo tener conto che le due espressioni, oltre che essere complementari, rivestono una stessa funzione. I geroglifici scrivono le parole indicandone sia i suoni che il valore semantico: abbiamo dunque dei veri e propri segni–parola, ma anche dei segni fonetici e altri che hanno la funzione di indicatori semantici. Ad esempio, nel nome del dio Ptah, (ptH) i segni p, t e H hanno valore fonetico, mentre ,immagine di una divinità accovacciata, è un indicatore semantico o determinativo. Questo sistema è riconoscibile, ad esempio, anche in alcune sculture, dove l’immagine stessa ha il valore dell’indicatore semantico rispetto all’iscrizione contenente il nome. Per comprendere la complementarità, e anzi l’identità funzionale tra immagine e scrittura geroglifica, ricorriamo qui ad alcuni semplici esempi. 5.1 Il dono della rigenerazione Scegliamo, tra le numerose scene raffigurate sulle pareti dei templi, un’immagine ricorrente (fig. 23) nella quale una divinità consegna al faraone un insieme di oggetti che corrispondono in realtà a dei geroglifici, rendendo l’immagine una vera iscrizione perfettamente leggibile: una dea porge al sovrano una foglia di palma , che alla sua estremità inferiore porta il segno raffigurante un giro di corda e un girino , mentre all’estremità superiore è appeso, quasi come una lanterna, il padiglione della festa–sed , talvolta arricchito, in basso, da una combinazione di segni che spesso si trova sulle pareti dei templi: su un paniere stanno . La foglia di palma rnp (renep) serve a scrivere il termine “anno”, ma anche “essere giovane”, essendo la palma esplicitamente legata alla rigenerazione. Il segno Sn (shen) serve a scrivere i termini “circonferenza”, “chiusura”, “cartiglio” e fa riferimento alla protezione magica di un cerchio e, dunque, al cartiglio entro il quale va scritto il nome regale. Il girino Hfn (hefen) è utilizzato per indicare “un centinaio di migliaia”. 47

Il segno del padiglione della festa–Sed Hb-sd (heb–sed) rappresenta la struttura doppia, nella quale sono affiancati i due troni, dell’Alto e del Basso Egitto, rappresentati di lato, secondo i canoni egizi della rappresentazione bidimensionale. La festa–Sed era il giubileo regale, un insieme di riti solenni che avevano la finalità di rigenerare il potere del sovrano e veniva celebrato di solito, per la prima volta, dopo trent’anni di regno, mentre i successivi potevano essere più frequenti. Sembra che il giubileo potesse essere celebrato in base alla necessità: alcuni sovrani, come ad esempio Amenhotep III, ne hanno avuti diversi.

Figura . Rilievo nel mammisi di File: la dea Nekhbet concede migliaia di giubilei al piccolo Horo.

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Infine, i tre segni affiancati, wAs (uas) anx (ankh) Dd (djed), indicano “potere” “vita” e “stabilità”, abitualmente attribuiti al faraone. Le dee che offrono tutto ciò al re sono solitamente connesse con la regalità e la divinità rappresentata può essere definita, nell’iscrizione affiancata all’immagine, come “colei che dà innumerevoli anni al sovrano” o anche “che moltiplica i giubilei”. Sembra chiara, dunque, la possibilità di lettura dell’intera rappresentazione. 5.2 La barca di Mutemuia La madre di Amenhotep III porta il nome teoforo di Mutemuia. Al British Musem è conservata una scultura complessa e raffinata, rappresentante la dea Mut seduta nella sua barca: le divinità egizie, in particolare nel Nuovo Regno, venivano mostrate durante le cerimonie nelle loro barche processionali. In questo caso, l’intera scultura si presenta come il nome monumentale della regina madre: Mut–em–uia equivale a mwt (la dea) – m (preposizione “in”) – wiA ( “la barca”). 5.3 Ptah, Signore di Maat Tra gli epiteti del dio Ptah, uno dei più ricorrenti è “Signore di Maat”: in numerose rappresentazioni del dio, la sua figura mummiforme è in piedi su un piedistallo la cui forma è quella di un segno geroglifico spesso utilizzato per scrivere Maat (mAat) . Anche in questo caso è evidente la possibile lettura dell’immagine. 5.4 Un rebus per Ramesse In un gruppo scultoreo di grandi proporzioni al Museo del Cairo (fig. 24), vediamo un fanciullo regale accovacciato che, nel tipico atteggiamento dell’infanzia, porta il dito alla bocca: il bimbo si trova sotto la protezione del dio falco Hurun, egli porta sul capo il disco solare e tiene in mano una pianta tipica dell’Alto Egitto. La figura infantile, con i suoi attributi, è leggibile come Ramessu, il nome di nascita di Ramesse II: il disco solare è Ra (ra), il fanciullo può essere ms (mes), la pianta è sw (su). 49

Figura . Gruppo colossale di Ramesse II bambino. Il Cairo, Museo Egizio.

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6. L’arcaismo L’arte egizia dà spesso un’impressione di immobilità, di immutabilità nel tempo: questo erroneo giudizio è dettato anche dal fatto che, nel corso della storia dell’antico Egitto, l’arte figurativa come le altre espressioni culturali ha sempre guardato alla tradizione come ad un modello. Pochi sono i momenti di rottura, e il più vistoso è indubbiamente il periodo di Amarna. Negli ambienti templari, dove si conservava la memoria della tradizione, gli specialisti — siano essi dediti alla produzione di testi che di immagini — erano capaci di far rivivere antichi modelli: si poteva comporre testi in uno stile antico, un po’ come alcuni latinisti di oggi sono capaci di fare, oppure realizzare immagini del tutto simili a quelle prodotte secoli, o addirittura millenni prima. In qualche caso gli egittologi hanno difficoltà a superare i dubbi: ad esempio è stata discussa la reale antichità di alcune sculture che potrebbero essere state realizzate in periodi più tardi di quelli ai quali le opere ci richiamano ad un primo sguardo. Si potrebbe considerare, a tal riguardo, la magnifica testa Salt conservata al Louvre, citata da S. Donadoni nel suo volume sull’arte egizia, la quale spesso è stata datata alla IV dinastia mentre potrebbe rientrare nell’esperienza di Amarna. I vivacissimi rilievi tombali mostranti la vita nei papireti pongono analoghi problemi: in alcuni casi è difficile distinguere se dei frammenti fuori contesto provengano da tombe dell’Antico Regno o da altre delle dinastie XXV e XXVI. Questo periodo tardo, soprattutto, ci mostra un fortissimo gusto per le epoche passate: le realizzazioni artistiche possono così assumere l’aspetto di vere antologie della cultura antica, le sculture possono sembrare dei veri pastiches. Consideriamo qui, come esempio, una statua di Montuemhat (fig. 25), personaggio di spicco a Tebe tra XXV e XXVI dinastia, la cui tomba — un vero palazzo funerario — si presenta appunto come un’incredibile antologia di erudizione, sia nei testi che nel programma figurativo. La statua ci presenta il personaggio nel tradizionale atteggiamento stante, con la gamba sinistra gradiente, le braccia lungo i fianchi; egli indossa la shendyt, il tradizionale gonnellino pieghettato, e le proporzioni del corpo, oltre all’atteggiamento, ci rimandano alla statuaria regale dell’Antico Regno, della quale ripropone il canone (si veda ad esempio la statuaria di Micerino, fig. 6); un effetto piuttosto stridente, dunque, è prodotto dalla parrucca, di un modello in voga nella seconda metà del Nuovo Regno (da Amenhotep III al periodo ramesside), la quale incornicia un viso aspramente veristico, come spesso nella statuaria privata di alto livello del tempo di Montuemhat. 51

Durante la XXV dinastia di origine nubiana, la ricerca erudita servì anche a legittimare una dinastia straniera che, tuttavia, nell’iconografia regale, impiegò nuovi attributi non egizi insieme alla ripresa — e all’esagerazione — dell’antico canone di proporzioni fisiche risalente all’Antico Regno. Non si dimentichi che il testo teologico già citato, la cosiddetta “teologia menfita” (§ 3.1), è stato tramandato da quest’epoca. Nel periodo della XXVI dinastia (saitica), nel quale sempre più forte è la pressione sull’Egitto di culture e poteri politici esterni, l’arcaismo è un mezzo per riaffermare l’identità del paese: attraverso una strenua ricerca della tradizione, si giunge a realizzazioni raffinatissime. Durante il periodo tolemaico, alcuni ambienti templari, depositari della tradizione, rendono nuovamente attuali antichi modelli, per legittimare i nuovi governanti di origine macedone, mentre altri ambienti sacerdotali si ripiegano sul culto della tradizione proprio in opposizione alle novità allogene. Alcune sculture regali ci mostrano un sovrano assolutamente privo di caratteri personali, in una raffinatissima immagine di tradizione saitica (fig. 15): le sculture sono spesso prive di iscrizione, poiché è la stessa idea tradizionale del faraone che si vuole rendere presente. Sulla stessa linea, si muove una straordinaria statua regale, realizzata in calcite (alabastro), conservata al British Museum: essa coniuga l’antico modello della statua di Gioser della III dinastia, riproponendo lo stesso manto e un identico copricapo, con un viso impersonale che ricalca le rappresentazioni regali di tradizione saitica (fig. 15). Figura . Statua di Montuemhat. Il Cairo, Museo Egizio.

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7. I modi della rappresentazione artistica Il lavoro dell’artista sulla pietra ci viene reso noto anche dai rilievi, spesso in calcare o in arenaria. In alcune tombe, dei lavori non finiti ci mostrano lo stadio antecedente. Il sistema base per la creazione di rilievi, o di semplici pitture, era quello di disegnare delle griglie sulla parete lisciata: un vero foglio a quadretti nel quale riportare le figure secondo misure e proporzioni consolidate (fig. 26). Il disegno veniva fatto generalmente in rosso, con le correzioni in nero. Esso seguiva probabilmente un “cartone” preparatorio in papiro: diversamente dalla pit-

Figura . Quadrettatura su una figura umana.

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tura della nostra tradizione, nella quale il cartone era un modello 1:1 e veniva appoggiato all’intonato fresco per ricalcare il disegno con il metodo dello spolvero o con una punta, in Egitto il modello veniva copiato seguendo la quadrettatura. Conosciamo anche degli schizzi su ostraca, schegge di calcare che, diffuse in abbondanza in alcune aree lungo la valle, e in particolare nella necropoli tebana (Valle dei Re, Valle delle Regine, tombe dei nobili), fornivano un supporto scrittorio a disposizione di tutti: su di essi gli artisti abbozzavano dei particolari da disegnare per perfezionarne la resa, ma anche schizzavano figurine in libertà, scherzi della fantasia che animavano i momenti di ozio. Il sistema della quadrettatura si legò ad un preciso canone di proporzioni: l’altezza della figura umana rientrava in 18 quadrati dai piedi alla linea dei capelli sulla fronte, segnando i vari quadrati dei punti precisi della figura. Dalla XXVI dinastia, le proporzioni divennero più allungate, in conseguenza di una revisione del canone collegata alla riforma dell’unità di misura, il cubito: dal periodo saitico (XXVI dinastia), dunque, la figura umana rientra in 21 quadrati di altezza. 7.1 Immagine frontale e di profilo Nei modi della rappresentazione artistica dell’antico Egitto, ci colpiscono da un lato la fissa frontalità della scultura a tuttotondo e dall’altro la rigida rappresentazione di profilo delle immagini bidimensionali. Nelle statue prevale in modo assoluto la visione frontale: le immagini divine, nella loro rigidità, portano nel rapporto con colui che compie i riti la propria qualità divina che induce all’adorazione; le immagini regali, ugualmente, stimolano alla venerazione e comunque rendono possibile un rapporto viso a viso. Nei rilievi e nelle pitture, gli Egizi adottarono un sistema abbastanza rigido per rappresentare gli oggetti e la figura umana, rinunciando alla visione naturalistica che, necessariamente, mostra all’occhio di chi guarda alcuni aspetti, nascondendone altri. Nell’arte egizia si rappresenta un oggetto qualificandolo con i suoi aspetti fondamentali, a prescindere dalla visione naturalistica: così avviene che la figura umana abbia il viso di profilo, l’occhio frontale, come le spalle, mentre le gambe e i piedi sono ancora di profilo. Anche nella rappresentazione di una struttura architettonica si ricorre ad uno strano miscuglio di angoli visuali: abbiamo la rappresentazione in pianta unitamente a degli elementi dell’alzato. Alcuni rari casi dell’arte bidimensionale ci mostrano visi frontali, dei quali gli studiosi hanno tentato di comprendere il valore: si tratta ad esempio di 54

alcune rappresentazioni dei nemici abbattuti dal faraone (fig. 1) che, raccolti in una sorta di mazzo, sono rappresentati di profilo a sinistra e a destra, mentre al centro vediamo dei visi frontali ai quali dovevano corrispondere dei visi volti sul lato opposto; questo accenno di profondità spaziale serve a rappresentare i nemici dei quattro punti cardinali, in una visione universalistica dell’impegno del sovrano nel controllare il mondo caotico oltre i confini. Alcune divinità sono rappresentate ugualmente in modo frontale, come Bes, protettore di Horo bambino e dei fanciulli in generale: D. Meeks e Ch. Favard–Meeks hanno supposto che questo lo ponga in relazione con l’utero materno; anche la rappresentazione frontale di Qadesh, divinità di origine vicino–orientale, sarebbe da leggere in connessione con il fatto che la dea è madre della divinità solare. D’altra parte l’iconografia di Qadesh ricalca quella egizia di Hathor, rappresentata sui capitelli hathorici. Nel caso di Bes, invece, sembra importante il suo ruolo apotropaico, di combattente degli spiriti avversi alla maternità e all’infanzia: questa sua qualità giustifica, almeno in parte, la frontalità, poiché è colui che fa fronte a dei nemici. Tale aspetto può offrirci elementi di riflessione anche riguardo alle rappresentazioni di profilo: davanti ai rilievi dei templi o delle tombe, si ha l’impressione di assistere a scene alle quali non possiamo partecipare; il sovrano che compie riti o il defunto che esercita delle attività sembrano appartenere ad una dimensione nella quale non possiamo entrare. Grazie alla frontalità alcune divinità, come Bes protettore o le stesse immagini di culto, entrano in contatto con il nostro mondo o, almeno, ci offrono un’interfaccia rispetto al mondo degli dei, o dei defunti, una sorta di punto di comunicazione. Dall’Antico Regno, la scultura del defunto può essere strettamente connessa con la cosiddetta falsa–porta, la rappresentazione, per gli Egizi perfettamente funzionale, di un punto di passaggio tra due realtà diverse; la falsa–porta si può trovare anche nei templi, come ad esempio nelle cappelle di Abido, a segnare il luogo di contatto con la divinità. Tutto questo può offrirci una chiave di lettura per comprendere il diverso valore delle rappresentazioni frontali e di profilo: le prime offrono un’opportunità di contatto, le altre rappresentano un mondo che basta a se stesso. D’altra parte, nella rappresentazione bidimensionale della figura umana, ci colpisce che, nonostante le spalle siano di regola mostrate frontalmente, in alcuni casi vengono delineate di profilo, e questo avviene di norma quando non si rappresenta una figura in azione, ma una statua o anche una mummia, ciò può suggerire l’idea che l’abituale frontalità delle spalle coincida con la messa in atto di un’azione. 55

7.2 L’introduzione della dimensione spazio–temporale nell’arte Le figurazioni bidimensionali della tradizione artistica egizia mostrano semplicemente il compimento di atti, per lo più rituali, o comunque raffiguranti una dimensione mitica. La riforma del periodo di Amarna, voluta da Akhenaten, introduce la dimensione spazio–temporale nella raffigurazione artistica e, dunque, un elemento di contingenza che coincide con la storia: le figure si muovono in uno spazio e interagiscono costituendo una dimensione temporale. Nelle rappresentazioni amarniane si rompe la rigida tradizione precedente, e tuttavia nell’arte della prima metà della XVIII dinastia sono già rintracciabili i segni di questo rinnovamento che verrà portato a compimento con il regno di Akhenaten ed ereditato dall’epoca ramesside. Già nelle tombe tebane della XVIII dinastia, infatti, la pittura era stata utilizzata per se stessa e non come coloritura di spazi quasi geometricamente definiti dal rilievo: in tal modo, le figure si erano in qualche modo liberate dalla rigidezza mentre, formate da libere pennellate di colori vivi e trasparenti, si muovevano con una vivacità e un dinamismo nuovo. Si veda ad esempio la scena di caccia negli acquitrini dalla tomba di Nebamon, conservata al British Museum (fotografia in copertina). Nel periodo ramesside, nei rilievi templari, il sovrano che abbatte i nemici perde la sua rigida e statica posizione per essere collocato al centro di un turbine di figure, mentre si muove sul carro da guerra; i luoghi della battaglia vengono rappresentati con un vero intento topografico. Sempre in questo periodo, anche la scultura a tuttotondo presenta delle novità, abbandonando in alcuni casi la rigida frontalità per collocare le figure su più piani: al museo del Cairo, ad esempio, si può ammirare un gruppo statuario dove Horo e Seth, posti di profilo, incoronano il sovrano visto frontalmente. La scultura porta oggi il cartiglio di Ramesse III (XX dinastia) ma è stata probabilmente usurpata ad un sovrano precedente, forse Amenhotep III. Nel cortile dello stesso museo del Cairo, è visibile un gruppo colossale nel quale Ramesse II stante è accompagnato da una divinità femminile che non gli sta a fianco, come nella tradizione, ma alle spalle, nel tipico atteggiamento protettivo della regina e di alcune dee che possiamo vedere nei rilievi.

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8. Lavorare la pietra in Egitto Il desiderio di oltrepassare i confini del tempo, di proiettarsi nell’eternità, dettò dunque agli antichi Egizi l’esigenza di lavorare i materiali più duri, le pietre più resistenti; fu questo desiderio a sfidare, con esito vittorioso, le difficoltà tecniche nel lavorare le pietre più ostiche che la natura ponesse a disposizione. Il durare eterno della pietra era dunque determinante nella scelta del materiale. 8.1 Le pietre Nei pressi della valle del Nilo erano disponibili pietre piuttosto tenere, che furono utilizzate soprattutto per l’architettura, ma anche per la scultura; nel deserto, invece, percorribile con terribili difficoltà soprattutto attraverso gli uadi, fiumi fossili che creano strade di pietra e silice nel Sahara sterminato, gli Egizi trovavano pietre durissime e dai colori brillanti, oltre che l’oro. Tutti questi materiali avevano come elemento comune l’incorruttibilità: l’oro, che non si ossida, era la carne stessa degli dèi; le pietre dure, belle e oltremodo resistenti, acquistavano un valore magico anche grazie al colore. Il calcare chiaro, così come l’arenaria, venivano generalmente dipinti, e in vari casi ci sono conservati i colori vivaci, sia nella scultura a tutto tondo, che nei rilievi parietali. Tuttavia al calcare, proprio per il suo essere bianco, era attribuito un significato di purezza. Questa idea era connessa soprattutto con l’alabastro (calcite), che è tendente al giallo ma ha la singolare capacità di farsi attraversare dalla luce. Le varietà di pietra dai toni dal giallo al rosso, dovevano il proprio pregio alla solarità delle tinte: la quarzite, dalla grana luminosa, variante dal giallo al rosso; il granito rosa, utilizzato appositamente negli obelischi dedicati alla divinità solare. Le pietre scure, tanto utilizzate in Egitto, dovevano il proprio valore al nesso con l’ambiente fertile del Nilo, e dunque all’idea di rigenerazione e rinascita. Il nero era il colore del limo che ogni anno portava nuova vita, mentre il verde era il simbolo stesso della vita. Le numerose pietre scurissime, come la diorite e il basalto, andavano dunque ad affiancarsi alle pietre di tonalità verde, tra le quali la grovacca o basanite, proveniente dall’Uadi Hammamat in pieno deserto orientale: la grovacca, molto dura e compatta, sapientemente lavorata poteva attribuire alle figure un incarnato satinato, oppure, fortemente polita, raggiungeva una straordinaria lucentezza. Accanto alla grovacca, altre pietre nella tonalità del verde erano il serpentino o la breccia. 57

8.2 Tra interrogativi e incertezze Le fonti per la conoscenza delle tecniche di lavorazione sono le più varie; l’Egitto, infatti, grazie al clima arido del deserto, ha conservato anche i materiali più deperibili: abbiamo dunque, oltre agli attrezzi in pietra e in metallo, quelli in legno, come i mazzuoli logorati dall’uso, che sembrano capaci di restituirci la fatica di chi li ha impugnati, colpo dopo colpo… Ci restano poi le fonti scritte, come ad esempio i papiri, che talvolta citano i materiali occorrenti per determinate opere. Abbiamo infine, scolpiti nella pietra, i rilievi delle tombe che mostrano le varie fasi di lavorazione (fig. 27–28): un vero e proprio “film” documentario. Nonostante l’abbondanza delle fonti, tuttavia, non sempre siamo in grado di definire perfettamente tutte le particolari fasi di lavorazione. Un aiuto ci viene dato anche dal ritrovamento di sculture non finite, lasciate in differenti stadi di abbozzo e rifinitura, e di modelli per scultore, o meglio modelli didattici per chi andava imparando il mestiere. La scultura egizia, famosa per la sua perfezione, raggiunta in tempi remoti, era prodotta con mezzi relativamente semplici. Le pietre più dure venivano efficacemente lavorate e lisciate ben prima dell’età del ferro. Gli uomini del nostro tempo molto spesso si sono chiesti se gli Egizi non fossero in possesso di qualche metodo misterioso per “temprare” il rame o il bronzo e ottenere così strumenti di lavoro partico-

Figura . Artisti al lavoro con vari attrezzi. Tebe ovest, tomba di Rekhmira.

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larmente solidi per trattare le pietre dure. In realtà, quella egizia restò sostanzialmente, nel tempo, una civiltà della pietra: la fusione dei metalli, nel trascorrere del tempo, fu conosciuta e utilizzata, e con esiti raffinati, tuttavia l’uso di utensili di pietra restò prioritario per buona parte della storia egizia. La selce fu indubbiamente una grande risorsa: essa è reperibile in molti luoghi non lontani dalla valle e la sua estrema durezza forniva strumenti efficaci e poco costosi; essi, tuttavia, richiedevano una straordinaria perizia tecnica da parte degli artigiani. Per lavorare pietre molto dure, inoltre, venivano usati anche attrezzi fatti in materiali durissimi, come la dolerite. Anche in questo caso, come in genere per la ricostruzione dei procedimenti tecnici dell’antichità, si è ricorso all’archeologia sperimentale per capire le possibilità di realizzazione, le difficoltà e i tempi: tentativi sono stati fatti per i vasi e per la statuaria, per la quale sono intervenuti anche degli scultori contemporanei che hanno sperimentato strumenti simili a quelli antichi. È possibile che una prima sbozzata degli oggetti avvenisse nella cava, al fine di alleggerire il più possibile il carico del trasporto. Per sbozzare un oggetto, venivano usati degli attrezzi nei quali una scheggia di pietra molto dura (selce o altro) veniva fissata ad un manico di legno (fig. 29).

Figura . Artisti al lavoro. Bassorilievo di Kaemrehu al Museo del Cairo (disegno di G. Capriotti Vittozzi).

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8.3 I vasi in pietra Fin dai tempi più antichi, già nel IV millennio a. C., la civiltà egizia ha prodotto dei bellissimi vasi in pietra, dall’alabastro, luminoso e piuttosto tenero, alle pietre scure e durissime come la diorite. I vasi hanno delle forme varie e raffinatissime. Anche in questo caso, siamo aiutati da rilievi che mostrano artigiani all’opera (fig. 30). Lo strumento per creare il contenitore è un trapano che conosciamo anche come segno geroglifico: in fondo ad un’asta, una sorta di forchetta serviva a fissare una punta probabilmente di selce o di altra pietra dura; in alto, un manico obliquo facilitava la rotazione, mentre sotto di esso venivano fissati dei pesi in pietra affinché il lavoro fosse più efficace. La lavorazione esterna e la lisciatura avveniva con mezzi e metodi usati anche per la scultura. 8.4 La scultura in pietra tenera La pietra veniva sbozzata, inizialmente, con un piccone di pietra (fig. 29). Il blocco manteneva, inizialmente, una forma di parallelepipedo sulle cui facce si riportava un modello similmente ai rilievi. Man mano che si procedeva nel liberare la figura dalla pietra, gli attrezzi diventavano ovviamente più minuti. I più usati, nella scultura in pietra tenera, spesso il calcare compatto, erano il mazzuolo e lo scalpello; con questo la pietra tenera veniva attaccata quasi parallelamente alla superficie. Un certo dibattito, tra gli studiosi, sussiste sull’uso dei tipi

Figura . Uso del piccone in pietra.

Figura . Fabbricazione di vasi in pietra.

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di mazzuolo, uno allungato ed uno piriforme, e sugli scalpelli con manico o senza. Spesso si ritiene che lo scalpello con manico venisse usato solo per il legno. Era possibile lavorare la pietra tenera con scalpelli in rame, nell’epoca più antica (dal Protodinastico) e poi in bronzo dal Medio Regno. Il rame poteva essere indurito grazie al martellamento a freddo, ma anche per la presenza di impurità nella fusione. Altri attrezzi utilizzati erano la sega e il trapano tubolare. La prima, in rame o in bronzo, era utilizzata con l’aiuto di paste abrasive, probabilmente per liberare dei particolari della statua dalla pietra. Il trapano veniva utilizzato con una finalità analoga e consisteva in un tubo probabilmente di rame che, fatto girare, penetrava con l’ausilio di abrasivi, producendo dei cilindri di pietra che venivano poi eliminati. L’ultima fase del lavoro consisteva nella lisciatura delle superfici che poteva giungere a rendere i tratti quasi fossero plasmati nel burro. Si conosce l’uso di una raspa, che doveva essere fatta di una foglia di bronzo picchiettata su un’anima di legno, tuttavia l’ultima finitura era ottenuta con mezzi più delicati, come le paste abrasive a base di sabbia, che venivano strofinate con l’aiuto di un ciottolo. 8.5 La scultura in pietra dura Anche nel caso della scultura in pietra dura, l’abbozzo iniziale era condotto con un piccone in pietra (fig. 29), che in questo caso doveva essere durissima. Mentre nella scultura in pietra tenera si poteva usare un repertorio di attrezzi in rame o in bronzo, questi metalli non erano utili per attaccare le pietre dure: è certo quindi che, almeno fino alla metà circa del I millennio a.C., quando si cominciò ad usare attrezzi in ferro, la scultura di questo tipo veniva condotta con attrezzi in pietra. L’osservazione dei rilievi, che rappresentano artisti al lavoro, ci mostra come, dopo il primo lavoro di sgrossatura, l’artista egizio procedeva con attrezzi a percussione diretta: mentre gli artisti nostri contemporanei, come coloro che li hanno preceduti nella scultura occidentale, eseguono lavori di precisione modulando l’azione della mano che punta lo scalpello e quella dell’altra che batte con il mazzuolo, l’artista egizio batteva direttamente con un percussore sull’opera conciliando in un solo colpo forza e precisione; questo sistema richiede una destrezza e una sicurezza della mano in azione veramente stupefacente. Nei ritocchi di massima precisione, dove si doveva produrre dei particolari minuti, si usava una sorta di punteruolo, formato da una sottile scheggia di pietra immanicata. 61

Un attrezzo del genere serviva probabilmente anche a ottenere le iscrizioni geroglifiche sulla pietra dura, dove venivano picchiettate e non incise. Anche in questo caso, la finitura veniva fatta con l’impiego di abrasivi, come ciottoli appositi e paste. Per alcuni attrezzi, come la sega e il trapano, era comunque usato il metallo: in alcune sculture, si notano tracce di sega e gli studiosi tendono a supporre che si tratti anche in questo caso di seghe in rame il cui lavoro era rafforzato dall’impiego di paste abrasive, probabilmente a base di sabbia di quarzo o di smeriglio. Anche per il trapano vale lo stesso principio: si trattava di quello tubolare che ha lasciato tracce evidenti in alcune sculture. Sono stati fatti vari tentativi di riprodurre l’operazione con mezzi analoghi a quelli antichi: gli esperimenti sono stati condotti con trapano tubolare in rame e abrasivi non fissati come la sabbia mista a quarzo o lo smeriglio. Gli esiti più vicini a quelli antichi sono stati ottenuti con lo smeriglio bagnato, e si è notato anche che l’aggiunta di un lubrificante come l’olio d’oliva accelera l’operazione. 8.6 L’ottimizzazione delle risorse nelle officine L’arte egizia, che ha lasciato nella pietra mirabili esempi di raffinatezza e perfezione fin dai tempi più antichi, si avvaleva di mezzi estremamente semplici. Ci troviamo di fronte ad un’apparente contraddizione: ai risultati più raffinati corrispondono i mezzi più arcaici. Gli esiti di straordinaria minuzia e delicatezza sono inversamente proporzionali, per così dire, alla raffinatezza dei mezzi: in questo divario si inserisce la maestria umana; la distanza tra i mezzi e il risultato può essere colmata solo dall’impegno dell’uomo. Questo fu possibile, in Egitto, per la capacità di coordinare il lavoro di vere squadre di artisti/artigiani e operai: l’osservazione di opere non finite lascia credere che una scultura non era opera di una sola persona, così che, mentre alcuni scolpivano, altri lisciavano. Le capacità organizzative, che riuscirono a portare a termine costruzioni colossali, furono poste in opera anche per la scultura, che va considerata come opera collettiva più che individuale. Alle capacità di coordinamento e di cooperazione, si affiancava probabilmente, anche per l’arte figurativa, l’organizzazione “scolastica” che conosciamo meglio per la formazione degli scribi: in questo ambiente laborioso e produttivo, si faceva tesoro di ciascuna conquista e la si trasmetteva, perfezio62

nando sempre più le tecniche, secondo un’attitudine all’insegnamento che tanto chiaramente emerge dalla letteratura egizia.

9. L’architettura come immagine La concezione mitologico–religiosa degli Egizi, per la quale la figura, necessariamente, rende presente una realtà, investì dello statuto tipico dell’immagine anche l’architettura dello spazio sacro. Il tempio, nella forma codificata che ci è stata tramandata dal Nuovo Regno, si presenta come l’immagine tridimensionale e pietrificata, dunque destinata all’eternità, di un ambiente mitico. L’area sacra, leggermente sopraelevata, è circondata da un muro di cinta in mattoni crudi dall’andamento ondulato, a rappresentare le acque primordiali del Nun. Il pilone (fig. 31), cioè la struttura d’ingresso, costituita da due elementi monumentali e trapezoidali, affiancati, tra i quali si apre l’accesso, ripete la forma delle montagne dell’orizzonte tra le quali si eleva e compare quotidianamente la divinità solare. In asse con il pilone, in un progredire da spazi aperti a spazi chiusi e inaccessibili, si giunge al naos, dove abita la divinità. Davanti a questo, si apre il grande atrio ipostilo (fig. 32 e fotografia sul retro di copertina), cioè sostenuto da una selva di colonne papiriformi, le quali riproducono il papi-

Figura . Il pilone del tempio di Luxor nella riproduzione della Dèscription de l’Égypte, vol. III, pl. 6.

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reto primordiale, nel quale il dio si è mostrato la prima volta, al momento della creazione. Le colonne riproducono dunque i fusti e i fiori di papiro, il pavimento, in origine nero, rende presente il limo della piena, il soffitto è stellato. Nella parte bassa delle pareti, le figurazioni dei nomoi (province) del paese, che portano i frutti della fecondità della terra, fondano la

Figura . Karnak, navata centrale dell’atrio ipostilo.

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palude primordiale in Egitto. Nei grandi templi che ci sono rimasti del periodo tolemaico e romano, come Dendera, Esna, Edfu, le colonne dell’atrio ipostilo hanno capitelli vegetali molto più vari e complessi, forse a rispecchiare la ricchezza floreale che accompagna le stesse rappresentazioni dei nomoi. L’architettura egizia era vivacemente dipinta, e tracce del colore sono ancora oggi visibili (si veda fotografia sul retro di copertina).

10. Il retaggio dell’arte egizia Il patrimonio artistico e iconografico dell’Egitto condizionò già in tempi piuttosto antichi l’arte e il gusto di altri paesi mediterranei. Le popolazioni vicino–orientali ed egee ebbero rapporti intensi con la Terra del Nilo, sia di tipo commerciale che culturale. I contatti con il mondo miceneo hanno lasciato tracce anche nei poemi omerici e ritrovamenti nelle oasi occidentali alla valle del Nilo sembrano testimoniare che i Micenei gestissero dei traffici, attraverso la via delle oasi, con la Nubia, predecessori di quei Greci che sono ivi attestati qualche secolo più tardi. Innegabile è l’influenza della statuaria egizia sull’origine della scultura greca monumentale, in particolare sul tipo dei kouroi arcaici e ben chiara è la presenza di Greci in Egitto, in particolare nell’importante città–emporio di Naucrati. I traffici Fenici e Greci nel Mediterraneo ebbero un ruolo importante nella diffusione dell’imagerie egizia e un valido esempio ci è dato dalle preziose coppe d’argento e di bronzo trovate nella Tomba Bernardini e conservate al Museo di Villa Giulia a Roma; si tratta di pregevolissimi manufatti giunti in Italia attraverso il commercio fenicio e decorati con scene di gusto egizio e orientale. Particolarmente interessante è una coppa in argento (I.61574), datata tra la fine dell’VIII sec. e gli inizi del VII sec. a.C. dove ritroviamo l’immagine di Isi che allatta il piccolo Horo nel papireto, barchette di papiro e divinità egizie come Osiri, lo scarabeo, il fanciullo solare sul loto. Al centro della coppa c’è l’immagine del faraone vittorioso sui nemici. È evidente che gli artigiani attinsero, con intenzioni decorative, ad un repertorio figurativo ben conosciuto nella valle del Nilo e assunto quale icona di un Oriente che, già allora, sbarcava in Occidente come metafora di un lusso esotico e fascinoso. In epoca ellenistica, il modello della regalità orientale e segnatamente egizia, di origine divina, si diffuse nel Mediterraneo insieme al 65

culto di divinità di origine nilotica e a nuovi aspetti dell’iconografia egizia. Durante il periodo romano, le possibilità di circolazione offerte dall’impero facilitarono il diffondersi di idee e immagini. Particolarmente interessante è il caso di imperatori romani che favorirono il modello egizio e i culti isiaci e arrivarono a farsi rappresentare in veste faraonica anche in Italia, come nel caso di Domiziano a Benevento. Intanto l’uso di tecniche, in particolare quella dei colori nella pittura, veniva raffinato attraverso i contatti con Alessandria d’Egitto. Un caso interessante, che può essere esemplificativo, è la diffusione in ambiente romano di immagini del paesaggio nilotico, ravvivato dalla presenza non solo di animali e piante esotiche, ma anche di nani, pigmei che si agitano su barchette e in varie attività, spesso in posizioni oscene: viene dunque assunto a Roma, generalmente come un motivo decorativo alquanto buffonesco, quello che in origine ammantava significati religiosi legati alla rigenerazione, perché tale era il portato di nani, scimmie e fanciulli, tanto più collegati alle acque del Nilo. La ripresa delle immagini egizie in Occidente non si fermò nel tempo: un aspetto particolare è stato seguito negli anni recenti da una ricerca dell’Università “Roma Tre” a partire da alcuni studi di S. Casartelli Novelli riguardanti il monachesimo altomedievale dell’ambiente irlandese come formatosi dal modello egizio e influenzato dalla cultura copta. Infine, la presenza sul suolo dell’Urbe di sculture egizie insieme a quelle greche e romane, stimolò nel Medioevo e nel Rinascimento romano la ripresa di modelli: un esempio ci è dato da un numero abbastanza ampio di leoni e sfingi prodotti dall’ambiente dei marmorari romani della famiglia dei Vassalletto nel XIII secolo, che riproponendo modelli egizi ricalcano anche l’uso di collocare queste figure ai lati dell’accesso al luogo di culto, le chiese in questo caso. Intanto, nei paesi del centro Europa, forse i contatti attraverso le crociate, stimolarono la ripresa di temi e iconografie nelle cattedrali gotiche. I motivi iconografici di origine egizia valicarono i secoli, dai temi decorativi svolti dal Pinturicchio nell’Appartamento Borgia, in Vaticano, fino alla moda egittizzante in architettura che possiamo anche ritrovare nella Villa Borghese a Roma.

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11. Breve bibliografia ragionata Questa breve nota bibliografica si propone di offrire un panorama accessibile a lettori non specialisti di lingua italiana, offrendo tuttavia degli spunti di approfondimento. L’editoria sull’arte egizia è vastissima e continuamente rinnovata: dalle edicole alle librerie è possibile reperire una quantità di volumi patinati e brillanti nei colori. Il lettore che si avvicina alla materia trova, tuttavia, sulla sua strada, una serie di “trappole”: vista la richiesta del grande pubblico, non tutte le pubblicazioni sono curate da specialisti; ci si può trovare tra le mani libri di semplici dilettanti, ma anche di veri venditori di fumo che macinano grossolanamente farina vecchia. Oltre al volume di S. Donadoni, citato in apertura, si veda lo stesso autore ed altri in A.M. Donadoni Roveri (a cura di), Civiltà degli Egizi. Le arti della celebrazione, ed. Electa, Milano 1989. Inoltre, sono reperibili sul mercato italiano opere tradotte di studiosi stranieri; tra queste si citano i tre volumi curati da J. Leclant, pubblicati da Rizzoli e più volte ristampati (recentemente riproposti con il “Corriere della Sera”): J. Leclant et al., Il mondo egizio. I faraoni, Milano 1979; l’opera è composta da tre titoli: Il tempo delle piramidi, L’impero dei conquistatori, L’Egitto del crepuscolo. Inoltre abbiamo di K. Michalowski, L’arte dell’antico Egitto, ed. Garzanti, Milano 2001: l’edizione italiana contiene una bella introduzione all’arte egizia di A. Roccati. Recentemente edito in Italia, è un notevole volume scritto da egittologi tedeschi: R. Schulz – M. Seidel (a cura di), Egitto. La terra dei faraoni, ed. Könemann, Colonia 1997. Un interessante approccio con la cultura egizia, e quindi con l’arte, si trova in B.J. Kemp, Antico Egitto. Analisi di una civiltà, ed. Electa, Milano 2000. Sul significato dell’immagine personale: J. Assmann, Preservation and Presentation of Self in Ancient Egyptian Portraiture, in P. Der Manuelian (a cura di), Studies in Honor of William Kelly Simpson, Boston 1996, pp. 55–81. Un’introduzione alla cultura egizia e quindi all’arte si può trovare in Alessandro Roccati e Giuseppina Capriotti Vittozzi (a cura di), Tra le palme del piceno: Egitto, Terra del Nilo. Catalogo della mostra a San Benedetto del Tronto, 14 luglio – 30 ottobre 2002, Poggibonsi 2002. Sul canone di rappresentazione: W. Davis, The Canonical Tradition in Ancient Egyptian Art, Cambridge 1989; E. Iversen, Canon and Proportions in Egyptian Art, II ed., Warminster 1975; G. Robins, Proportions and Style in Ancient Egyptian Art, Austin 1994. Sulle figure frontali nelle rappresentazioni bidimensionali: C. Favard–Meeks, Face et profile dans l’iconographie égyptienne, «Orientalia 67

Lovaniensia Periodica» 23 (1992), pp. 15–36; G. Capriotti Vittozzi, Dal caos al cosmo: immagini egizie dell’alterità, in “Aegyptus” LXXXII (2002), pp. 47–66. Sulla figura regale nel periodo di Amarna, recentemente: G. Robins, Image and reality in Amarna Art, in N. Grimal – A. Kamel – C. May–Sheikholeslami, Hommages Fayza Haikal, Cairo 2003 (BdE 138), pp. 225–229. Sul villaggio degli artisti a Deir el–Medina, e dunque sull’arte del periodo ramesside, si veda anche, in questa stessa collana, G. Capriotti Vittozzi, Deir el–Medina: il villaggio degli artisti delle tombe regali a Tebe, ed. Aracne, Roma 2004. Sulla statuaria privata in epoca ramesside: L. Sist, Riflessi sociali nella statuaria ramesside, in L’impero ramesside. Atti del Convegno in onore di S. Donadoni, Università di Roma “La Sapienza” 23–24 novembre 1994, Roma 1997 (Vicino Oriente, Quaderno 1), pp. 173–192. Per un approccio con la magia egizia, si veda A. Roccati (a cura di), La magia in Egitto ai tempi dei Faraoni. Atti del Convegno Internazionale, Milano 29–31 ottobre 1985, Verona 1987, e, più recentemente, La magie en Egypte: à la recherche d’une définition. Actes du colloque, organisé par le Musée du Louvre, les 29 et 30 septembre 2000, a cura di Y. Koenig, Parigi 2002. Sulla figura dello scriba e il valore della scrittura: A. Roccati, Lo scriba, in S. Donadoni, L’uomo egiziano, Bari 1990; A. Roccati, Hieroglyphs. Concernig royal and private texts, in “Jaarbericht Ex Oriente Lux” 35–36 (1997–2000), pp. 27–32; H.J. Fischer, Some Emblematic Uses of Hieroglyphs with Particular Reference to an Archaic Ritual Vessel, in Ancient Egypt in the Metropolitan Museum Journal 1–11 (1968–1976), New York 1977. Sulle pietre e le tecniche di lavorazione: D. Arnold, Building in Egypt, Oxford 1991; S. Aufrère, L’univers minéral dans la pensée égyptienne, Il Cairo 1991 (BdE 105,1–2); N. de Garis Davis, The Tomb of Rekhmira, New York 1943; J. Devaux, “Définition de quelques caractéristiques techniques de la statuaire de pierre tendre en Égypte ancienne” in Revue d’Égyptologie 49 (1998), pp. 59–89; J. Devaux, “Nature du métal employé pour les outils des sculpteurs Égyptiens” in Revue d’Égyptologie 50 (1999), pp. 275–277; J. Devaux, “Définition de quelques caractéristiques techniques de la statuaire de pierre dure en Égypte ancienne” in Revue d’Égyptologie 51 (2000), pp. 39–67; A. El–Khouli, Egyptian Stone Vessels, Mainz am Rhein 1978; A. Lucas – J.R. Harris, Ancient Egyptian Materials and Industries, London 1962; P.T. Nicholson (a cura di), Ancient Egyptian Materials and Technology, Cambridge 2000; A. Preti, 68

L’estrazione degli obelischi egizi, Torino 1988; J. Vercoutter, “Le rôle des artisans dans la naissance de la civilisation égyptienne” in Chronique d’Égypte 68 (1993), pp. 70–83; C.R. Williams, The decoration of the tomb of Per–neb: the technique and the colour conventions, New York 1932. Sul retaggio dell’arte egizia, si veda il volume derivato dalla missione in Egitto dell’Università degli Studi “Roma Tre”, con introduzione di S. Casartelli Novelli, Progetto pilota Deir el Ahmar, Deir Amba Bishoi “Convento Rosso”, Roma 2004. Inoltre: G. Capriotti Vittozzi, Il fanciullo, il nano, la scimmia: immagini “grottesche” e religiosità popolare tra Greci ed Egizi, in “Polis” 1 (2003), pp. 141–154; G. Capriotti Vittozzi, L’imperatore Adriano e la religione egizia alla luce delle recenti scoperte, in Potere e religione nel mondo indo–mediterraneo tra Ellenismo e tarda antichità. Atti dell’Incontro di studio della Società Italiana di Storia delle Religioni, Roma – ISIAO 28–29 ottobre 2004, in stampa; G. Capriotti Vittozzi, Note sull’interpretatio dell’Egitto nel Medioevo. Leoni e sfingi nella Roma medievale, in Imagines et iura personarum nell’Egitto antico. Atti del IX Convegno Internazionale di Egittologia e Papirologia per i novanta anni di Sergio Donadoni, Palermo, 10–13 novembre 2004, in stampa. Infine, si segnala un’editoria periodica di qualità, che è possibile reperire in edicola: la rivista “Archeo”, ed. De Agostini, ha pubblicato nel tempo diversi dossier monografici sull’Egitto e l’arte egizia, spesso a cura di S. Pernigotti. Recentemente, la stessa casa Editrice, ha pubblicato una rivista tutta dedicata all’Egitto, “Pharaon”, curata da egittologi.

12. Cronologia A scopo orientativo, si offre qui una tavola cronologica che segue le grandi suddivisioni convenzionali per gli egittologi. La cronologia dell’antico Egitto è tuttora oggetto di studio e, in molti casi, ancora da definire, soprattutto per quanto riguarda i periodi più antichi. Si può notare, infatti, come da un testo all’altro, le date possano cambiare. La periodizzazione qui riportata, dunque, è semplicemente orientativa. Periodo Protodinastico (0–I–II dinastia) Antico Regno (III–VI dinastia) Primo Periodo Intermedio (VII–XI dinastia) Medio Regno (XI–XII dinastia) 69

3000–2650 2650–2150 2150–2060 2060–1780

Secondo Periodo Intermedio (XIII–XVII dinastia) Nuovo Regno (XVIII–XX dinastia) Terzo Periodo Intermedio (XXI–XXIV dinastia) Periodo Tardo (XXV–XXX dinastia) Epoca greco–romana: — conquista di Alessandro Magno — dinastia tolemaica — annessione all’Impero Romano

1780–1550 1550–1075 1075–745 745–332 332 305–30 30

Referenze fotografiche Fig. 1: J. Leclant (a cura di), I faraoni. L’impero dei conquistatori, Milano 1980, p. 72 fig. 57. Fig. 2: H. Junker, Winter E., Das Geburtshaus des Tempels der Isis in Philä, Wien 1965, p. 96. Fig. 3: R.H. Wilkinson, Symbol and Magic in Egyptian Art, London 1994, p. 168. Fig. 4: L. Kákosy, Egyptian Healing Statues in three Museums in Italy (Turin, Florence, Naples), Torino 1999, tav. XXXIX. Fig. 5: A.M. Donadoni Roveri – E. Leospo, Splendori dell’antico Egitto, Novara 1985, p. 29. Fig. 6: Ibid., p. 72. Fig. 7: S. Donadoni, L’Egitto, Torino 1981, p. 38. Fig. 8: W. Westendorf, Das Alte Ägypten, München s.d., p. 91. Fig. 9: G. Legrain, Statues et statuettes de rois et de particuliers, CGC, vol. I, Le Caire 1906, pl. XXX. Fig. 10: J. Leclant et al., Il mondo egizio. I faraoni. L’impero dei conquistatori, Milano 1979, p. 157. Fig. 11: Ibid., p. 169. Fig. 12: W. Westendorf, Das Alte Ägypten, München s.d., p. 170. Fig. 13: C. Aldred, Egyptian Art, London 1980, p. 227. Fig. 14: Cleopatra regina d’Egitto, Catalogo della mostra, Roma Palazzo Ruspoli 12 ottobre 2000 – 25 febbraio 2001, Milano 2000, p. 77, n. I.68 Fig. 15: Alessandro Roccati e Giuseppina Capriotti Vittozzi (a cura di), Tra le palme del piceno: Egitto, Terra del Nilo. Catalogo della mostra a San Benedetto del Tronto, 14 luglio – 30 ottobre 2002, Poggibonsi 2002, p. 59. Fig. 16: Cleopatra regina d’Egitto, Catalogo della mostra, Roma Palazzo Ruspoli 12 ottobre 2000 – 25 febbraio 2001, Milano 2000, p. 100. Fig. 17: H.W. Müller, Il culto di Iside nell’antica Benevento, Benevento 1971, tav. VIII,1. 70

Fig. 18: A.M. Donadoni Roveri – E. Leospo, Splendori dell’antico Egitto, Novara 1985, p. 56. Fig. 19: R.S. Bianchi, Splendors of Ancient Egypt from Egyptian Museum Cairo, London 1996, p. 59. Fig. 20: J. Leclant et al., Il mondo egizio. I faraoni. L’impero dei conquistatori, Milano 1979, p. 181. Fig. 21: J. Leclant et al., Il mondo egizio. I faraoni. L’Egitto del crepuscolo, Milano 1979, p. 158. Fig. 22: R.S. Bianchi, Splendors of Ancient Egypt from Egyptian Museum Cairo, London 1996, p. 213. Fig. 23: H. Junker, Winter E., Das Geburtshaus des Tempels der Isis in Philä, Wien 1965, p. 14. Fig. 24: J. Leclant et al., Il mondo egizio. I faraoni. L’impero dei conquistatori, Milano 1979, p. 188. Fig. 25: J. Leclant et al., Il mondo egizio. I faraoni. L’Egitto del crepuscolo, Milano 1979, p. 141. Fig. 26: E. Iversen, Canon and Proportions in Egyptian Art, II ediz., Warminster 1975, tav. 3. Fig. 27: N. de Garis Davis, The Tomb of Rekhmira, New York 1943. Fig. 29: D. Arnold, Building in Egypt, Oxford 1991, p. 261 fig. 6.13. Fig. 30: A. El–Khouli, Egyptian Stone Vessels, Mainz am Rhein 1978, III, tav. 146. Fig. 32: A.M. Donadoni Roveri, Civiltà degli Egizi. Le arti della celebrazione, ed. Electa, Milano 1989, p. 65.

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