Lars von Trier, l'estremo esteta 8869348318, 9788869348310

Lars von Trier è indiscutibilmente uno dei registi più significativi del panorama cinematografico degli ultimi anni, non

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Italian Pages 428 [371] Year 2023

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Table of contents :
Frontespizio
Colophon
L’autore
La collana
Un regista controverso… e poco “dogmatico”
Introduzione
Il cinema di Lars von Trier
Una storia che inizia presto
L’enfant prodige – o terrible
Il successo a Cannes e la trilogia Europa
Il cambiamento di rotta e la trilogia del Cuore d’Oro
Dogme95
La tecnologia
Automavision
Il principio delle ostruzioni
Il genere di Lars von Trier
Il rapporto con gli attori
Il trauma e il testamento bifronte
Melancholia (2011) / Le onde del destino (1996)
Dogville (2003) / Medea (1988)
Filmografia
Bibliografia
Ringraziamenti
Note
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Lars von Trier, l'estremo esteta
 8869348318, 9788869348310

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Cineuropa

Enrico Maria Scavone

Lars von Trier, l’estremo esteta

 

© Bibliotheka Edizioni Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma tel: (+39) 06. 4543 2424 [email protected] www.bibliotheka.it

I edizione, giugno 2023 e-Isbn 9788869348327 Tutti i diritti riservati. Direttore della collana “Cinema del ‘900”: Massimo Moscati Editing: Cesare Paris Progetto gra co: Riccardo Brozzolo

 

Enrico Maria Scavone Enrico Maria Scavone, 27 anni, originario di Nicotera, in Calabria. Emigrato a 18 anni a Milano, si è laureato in Giurisprudenza per poi lavorare come avvocato in uno studio legale nel capoluogo meneghino; attualmente lavora a Roma presso la Banca d’Italia. La passione per la poesia e per la scrittura è iniziata per curiosità durante l’adolescenza, ed è proseguita sino ad oggi. Alcuni suoi componimenti sono apparsi in Collana Poetica – I Poeti di Via Margutta vol. 106 (Dantebus). Alla scrittura unisce un’altra grande passione: quella per la settima arte.

 

Cineuropa “Cineuropa” è una nuova proposta editoriale incentrata su registi e attori che hanno fatto grande il cinema europeo. Figure iconiche, capaci di sovvertire il mondo della settima arte e altresì di imporsi nell’ambito della moda, del costume, della società, qui riscoperte secondo una nuova ottica critica, capace di coglierne gli aspetti più interessanti, controversi, nascosti. Una collana che analizza nel dettaglio la carriera di artisti a tutto tondo e il loro percorso professionale che, in molti casi, ha coinciso simbioticamente con la loro dimensione esistenziale.

 

Lars von Trier ha avuto un rapporto particolare con sua madre, una donna forte, come lui stesso l’ha de nita, la quale, da una parte, gli ha confessato serenamente sul letto di morte l’identità del suo vero padre – scelto per i suoi geni artistici – ; dall’altra parte, è stata colei che gli ha donato la prima telecamera 8mm: “ogni lm è fondamentalmente per irritarla e provocarla”, ha detto il regista danese. Io ho avuto un rapporto particolare con mia madre, una donna decisamente forte, la quale, da una parte, ha inevitabilmente infuso il suo ascendente sulle mie scelte; dall’altra, mi ha confessato sul letto di morte – se ce ne fosse bisogno – il suo amore incondizionato. Anche io mi sento di dire che tutto quello che faccio, incluso il presente lavoro, è per lei – ogni tanto anche per provocarla – , in virtù di questo stesso amore, cara mammina.

Un regista controverso… e poco “dogmatico”

“Non si sa mai il nale. Bisogna morire per sapere esattamente cosa succede dopo la morte, anche se i cattolici hanno le loro speranze”. (Lars von Trier) Peso massimo del cinema danese, Lars von Trier è una personalità controversa nota per lm provocatori dalla violenza a volte insopportabile. Ha diretto, in particolare, L’elemento del crimine (1984), Le onde del destino (1996) e Dancer in the Dark (2000) oltre alla prima (di una trilogia) mini-serie televisiva The Kingdom – Il Regno (1994). Per questo prefatore ci si potrebbe fermare qui per de nire la qualità di von Trier. Fortunatamente l’autore di questo saggio, approfondito e complesso, non si è fatto condizionare dai “capricci” del curatore di collana. E si è immerso con competenza nell’opera dell’ostico autore di Antichrist (2009), Melancholia (2011), Nymphomaniac (2013), La casa di Jack (2018). Per Dancer in the Dark si aggiudicò la Palma d’Oro a Cannes, lo stesso Festival che poi lo ha bandito per sette anni (nel 2011) per questa dichiarazione, fatta in conferenza stampa, su Adolf Hitler: «Sto solo dicendo che capisco quell’uomo. Non è proprio un bravo ragazzo, ma capisco molto di lui e simpatizzo un po’ con lui. Io sto con gli ebrei, ma non troppo, perché Israele fa proprio schifo». Per poi,

prontamente, correggersi: «Se ho ferito qualcuno con i commenti che ho fatto stamattina, vorrei sinceramente scusarmi. Non sono né antisemita, né razzista, né nazista». Troppo comodo! Diventa complicato capire cosa può passare per la testa di un artista, ma è certo che il rischio concreto è che si metta in discussione tutta la sua opera. E quindi, per esempio, ridimensionare ciò che avvenne in un incontro organizzato a Parigi, il 20 marzo 1995, al Théâtre de l’Odéon, per il centenario del cinema, quando von Trier proclamò la nascita del “Dogma 95”. Criticando la deriva “borghese” della New Wave, il giovane danese, coronato dalla stima suscitata da alcune sue pellicole, esortava a battersi contro “l’illusione” e il ritorno alle regole spartane della ripresa cinematogra ca. Insieme a Thomas Vinterberg – Festen – Festa in famiglia (1998), Le forze del destino (2003), Il sospetto (2012), Un altro giro (2020): ecco a chi dedicare il prossimo saggio! – presentarono i 10 principi del “Dogma” accompagnati da un “voto di castità” (questo libro li sviluppa ampiamente), qui possiamo velocemente ricordarne qualche suggestione: le riprese devono avvenire in ambienti naturali, il suono non dovrebbe mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa, la fotocamera deve essere tenuta sulla spalla, il lm deve essere a colori, sono vietati trucchi e ltri, il lm non deve contenere alcuna azione super ciale (sono vietati omicidi, armi, ecc.), le alienazioni temporali e geogra che sono vietate (il lm si svolge qui e ora), i lm di genere sono inaccettabili, il formato della pellicola deve essere uno standard 35 mm, il regista non deve essere accreditato. Sembra di essere su “Scherzi a parte”. E la critica andò dietro, nonostante i due non rispettassero minimamente il loro decalogo. Poi la ciliegina sulla torta, il voto di castità: «Giuro come regista di astenermi da qualsiasi gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un’“opera”, perché considero il momento più importante della totalità. Il mio

obiettivo nale è forzare la verità fuori dai miei personaggi e dalla cornice dell’azione. Giuro di farlo con tutti i mezzi disponibili e a costo di ogni buon gusto e considerazioni estetiche». Dopo un decennio, i due “soci” gettarono la spugna, e si svincolarono dal “Dogma”: «Ha altri progetti in mente, altre s de da intraprendere», spiegò un portavoce di Zentropa, la sua casa di produzione. Certo von Trier ha sempre fatto in modo di assumere la visione opposta al cinema tradizionale, e su questo assunto ha costruito la sua carriera. Non ha mai nito con la sua frenesia di sperimentazione, senza timore di apparire sgradevole. Nel 2022, a 66 anni, il regista ha rivelato di essere a etto dal morbo di Parkinson: «Mi prenderò una piccola pausa e scoprirò cosa fare. Ma certamente spero che le mie condizioni migliorino. È una malattia che non si può estirpare; puoi lavorare sui sintomi, però. Devo solamente abituarmi a questo e non essere vergognoso di fronte alle persone. E poi andare avanti, perché cos’altro dovrei fare?». Forza della natura Lars von Trier: si può non condividerlo, ma non rimanergli indi erente. Massimo Moscati

Introduzione

Il presente saggio si propone di dare una personale interpretazione del lavoro cinematogra co di Lars von Trier, quanto più approfondita e meditata. La materia è vasta, seppur nel palmarès di lungometraggi del regista danese si possono contare 13 titoli: alcuni, infatti, sforano le convenzionali durate medie di un lm (ad es. Dogville – 2003 – con i suoi 178 minuti e la ‘Director’s cut’ di Nymphomaniac – 2014(1) – che, sommando Vol. I e Vol. II, arriva a 330 minuti)(2). La materia è inoltre complessa: in particolare le ultime pellicole di von Trier, da Antichrist (2009) a La Casa di Jack (The House That Jack Built) (2018) – le cosiddette opere del periodo postmalattia – sono state oggetto di analisi e saggi scienti ci, in diversi casi di taglio psicologico e psicoanalitico(3): nelle immagini e nelle azioni inscenate sono rinvenibili numerosi elementi che danno il senso di un viaggio in una ‘condizione mentale’ in cui il protagonista o uno dei personaggi si trova. Lo stesso von Trier in una intervista ha a ermato come ad esempio Melancholia (2011) parli, appunto, della “sua condizione mentale”(4). A fronte di tale vastità e complessità, anche al ne di circoscrivere il discorso e o rire al lettore uno studio che eviti di risultare super ciale, il presente saggio si struttura in un’analisi di 2 coppie di lm di Lars von Trier, scelte sulla base di a nità che l’autore del presente lavoro ha trovato signi cative per comprendere appieno l’opera ed il sapore del regista danese. Le coppie di lm, dunque, derivano da una decisione arbitraria e non conseguono ad un’opera di classi cazione operata dalla critica o dal regista: è noto, infatti, come la produzione di Lars von Trier sia suddivisa –

seppur non nella sua interezza – in trilogie di cui in ogni caso si terrà conto(5). In particolare, il lavoro è strutturato in questo modo: 1) in primo luogo, si procederà ad una panoramica dell’opera del regista, so ermandosi sugli aspetti di vita e di contesto socioculturale che secondo il punto di vista del presente autore hanno avuto una rilevanza signi cativa sulla sua produzione cinematogra ca; 2) in secondo luogo, si procederà all’analisi delle coppie di lm: (i) la prima coppia è costituita dai lm Melancholia (2011) e Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996); (ii) la seconda coppia è costituita dai lm Dogville (2003) e Medea (1988). Si precisa che Medea non viene annoverato tra i lungometraggi del regista, in quanto lm realizzato per la televisione danese; tuttavia, considerato che è altresì basato su una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer, il lavoro può essere considerato ugualmente rilevante ai ni che qui interessano. Si precisa inoltre che i restanti lungometraggi, mediometraggi e cortometraggi(6), così come le serie e opere per la televisione di Lars von Trier, non scompariranno dalla costellazione visibile sulla volta notturna della presente analisi, ma ria oreranno con il loro brilluccichio qui e lì, quando l’occhio scrutatore attentamente focalizzato su un pianeta scivolerà inevitabilmente sui loro bagliori frastagliati. Laddove possibile, si lascerà spazio alle parole espresse direttamente dal regista(7). Un grande aiuto per i contenuti del presente lavoro è derivato dalla lettura delle opere di Linda Badley: Lars von Trier (Contemporary Film Directors) (2011); Lars Von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations (2022). Per la forma, invece, ed in particolare per la strutturazione dell’analisi su coppie di lm, tra i cui interstizi far a orare le immagini e i suoni del resto del magma creativo di Lars von Trier, si deve molto

all’abbacinante opera Allucinazioni Americane (2021) di Roberto Calasso.

Il cinema di Lars von Trier

“E proprio perché tutto è concluso mi piacerebbe poter dire due parole di saluto e di commiato […] Festeggiavamo le nozze d’argento con lo zio Carlo e la zia Titty. Raccoglievamo dei soldi e li mettemmo in una vecchia calza […] ma qui invece abbiamo raccolto ogni giorno un sogno per dieci anni e l’abbiamo messo qui [portando la mano al cuore] … ma viene il giorno per la zia Titty e per lo zio Carl, è arrivato anche per noi, in cui la festa nisce. Una mattina ci svegliamo, allunghiamo la mano e riusciamo ad a errare solo l’aria. E io, e noi due, questo trio, non è nient’altro che una saga ormai. Tu che per me eri tutta la mia vita e io che un tempo ero la tua, non dobbiamo mai più prenderci per mano… chi è allora, a chi mandiamo questo saluto? All’uomo che se sbaglia è sempre il primo, a maledire se stesso per tutte le sue colpe, ma è anche il primo a comprendere e a perdonare quando siamo noi a sbagliare. Di chi sto parlando?” “Ravn” “Più forte” “Ravn” “Ravn. Ci hai portati tutti nel tuo cuore, Ravn. Hai fatto di tanti uno solo. Hai dato generosamente il tuo amore a ognuno di noi e ora scompari, come una bolla nell’acqua, vai verso più grandi imprese. Ma una cosa ti promettiamo, sotto una buona o una cattiva stella, vicini o lontani, ti porteremo sempre nei nostri cuori riconoscenti, sarai sempre qui, in ogni momento, tu sei sempre stato al nostro

anco, ma chi di noi, maledizione, chi è stato – al tuo – anco? Però sappi questo: da oggi, la rondine garrisce sotto il tetto, l’aria è dolce e serena, il sole splende, questo non è un addio, ma un arrivederci”: ton di applausi incerti nei freddi colori di una sala riunioni. Così recita Kristo er (Jens Albinus) in una delle scene conclusive del lm commedia Il grande capo (Direktøren for det hele) del 2006 – scritto e diretto da Lars von Trier – quando, da proprietario ttizio di una società di informatica danese, sta per siglarne l’atto di vendita a favore di un islandese – Finnur – interpretato men che meno che dal regista Friðrik Þór Friðriksson (per intenderci colui che ha diretto Figli della natura – Börn náttúrunnar – , 1991, candidato al premio Oscar del 1992 come miglior lm straniero). E già questo la dice lunga. Scrivere un commiato così all’inizio di un libro su Lars von Trier credo che farebbe rabbrividire il regista danese; o forse lo farebbe ridere, in linea con il peculiare humour che ha informato ogni sua opera e che sarebbe riduttivo de nire black o all’inglese. In primis, perché Lars von Trier non è mica nito. Vero è che dopo La casa di Jack, ha a ermato di non voler più girare altri lungometraggi – “non più” – per evitare di fare lm che siano “sciatteria”, poiché fare soldi diverrebbe l’unico obiettivo(8). Non è possibile opporvi a tale decisione la recente realizzazione de Il regno Exodus (Riget Exodus) (2022), da lungo tempo programmato epilogo della serie televisiva Il regno (Riget) – apparsa nel 1994, con una seconda stagione Il regno 2 (Riget II) nel 1997 – , conclusasi esattamente 25 anni dopo, in perfetto pendant con I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks) di David Lynch(9). Vero è, inoltre, che, contestualmente all’anteprima fuori concorso del suo ultimo lavoro alla 79ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematogra ca di Venezia, è stata di usa la notizia che Lars von Trier è malato di Parkinson.  È apparso dunque emaciato e molto dimagrito rispetto al passato, rassicurando i presenti (in sala e a casa)

sulle sue condizioni. Tuttavia, che Lars von Trier avesse problemi di salute non era e non è un mistero: lui stesso ebbe modo di a ermare: “Non sto mai bene… Guarda, ci sono sempre quattordici cose diverse che non vanno in me, quindi è imbarazzante”(10); ciò non gli ha impedito di realizzare le opere che sono la ragione di questo lavoro, così come non è detto che implicheranno un’impossibilità assoluta di realizzare ulteriori progetti nei giorni a venire, che si augura siano ancora tanti(11). In secundis, un commiato così, posto asetticamente all’inizio di questa trattazione, lancerebbe un messaggio di cinema che è proprio l’antitesi del suo lavoro: è l’opposto di qualsiasi immagine, suono, dialogo è lecito aspettarsi in un suo lm, a meno che non sia immerso in un contesto di profonda e sottile ironia, come avviene appunto ne Il grande capo. Sì, perché von Trier ha realizzato tutto fuorché lm scontati, con messaggi mielosi o e etti speciali anestetizzanti. Parlando con alcuni amici, conoscenti, passanti, da alcuni gli si rimprovera di essere autoreferenziale, involto in se stesso e mosso da un piacere subdolo sadomasochistico nello scioccare gli spettatori attraverso scene che rivelano esclusivamente propri dissidi interiori. Intervistato a Cannes nel 2000, a anco di Björk, per il suo Dancer in the Dark (2000) vittorioso della Palma d’Oro, una giornalista francese, dopo aver de nito il lm una centrale nucleare di emozioni, con molte virtuosità tecniche e con un’evidente caratterizzazione politica contro la pena di morte, chiese a Lars von Trier cosa intendesse lasciare nello spirito dello spettatore attraverso i suoi lm, forse l’emozione per accedere a una qualche verità; Lars von Trier rispose: “io posso fare lm solo per me stesso”. E continuò: “Se poi riesco ad avere una corrispondenza con il pubblico, sono felice” (12). “Faccio lm per me stesso”, è la frase che spesso sentiamo provenire dalla bocca del regista danese e, nel suo sperimentalismo eclettico sviluppato a blocchi di trilogie –

o meglio trilogie e duologie – , è il l rouge che lega i tasselli del ricco mosaico della sua opera. In questo, pur cambiando approcci e opinione, pur maturando consapevolezze ulteriori, von Trier è stato fedele alla sua missione: “Mi sento un po’ come un esploratore che è stato lanciato su un’isola deserta e a cui è stato detto di andare verso est(13). Non ha senso cambiare rotta perché qualcosa sembra più eccitante. Ho deciso di non farlo. Ho deciso di andare ad est perché credo che, scienti camente, niente può essere ottenuto da scout che non prendono la strada che è stata loro indicata. […] Provo ad evitare di guardare nuovi lm, perché la cosa peggiore che potrebbe capitare è che io diventi entusiasta per qualcosa. […] ho una nuova metafora, che è che io faccio lm che non verrebbero altrimenti mai realizzati. I miei lm sono come la stella mancante in una costellazione”(14).

Una storia che inizia presto

Il suo rapporto con il cinema inizia presto: la madre ad 8 anni gli regala una 8mm e subito occano cortometraggi(15). “E quando avevo 10 anni, volevo una sala di montaggio più di ogni altra cosa al mondo”, e sulla fonte dell’interesse per il cinema: “Ho uno zio che è un regista – Børge Høst – che ha fatto alcuni documentari ben accolti. Mi ha fatto scoprire alcune cose”(16). Pochi sanno tuttavia che Lars Trier (all’epoca il ‘von’ non era ancora stato aggiunto) ebbe prima di tutto un debutto come attore: recitò infatti nella serie TV per ragazzi L’estate segreta (Hemmelig sommer, 1969) – prodotta dalla società cinematogra ca danese Lanterna – dove interpretò un ragazzo di 11 anni(17) (all’epoca lui in realtà ne aveva 12) chiamato appunto Lars. Chissà cosa avrebbe da dire ora, guardando al contenuto della serie: prodotta per adolescenti, è infatti la storia dell’amicizia tra i giovani Sara e Lars, durante le lunghe vacanze estive mentre i genitori sono impegnati a lavorare. Entrambi della stessa età, lei però di estrazione sociale superiore, fantasiosa e drammatica; lui della classe operaia, pratico e coscienzioso. Quando si legano, nasce un’innocente storia di crescita. Alla Lundtofte Skole di Kongens Lyngby(18), i suoi compagni lo prendevano in giro per essere diventato una ‘movie star’: “Ma non me ne può fregare di meno. Sono io quello che ha fatto un po’ di soldi e mi sono saltato 3 settimane di scuola mentre registravamo”. Con i quali soldi – è stato pagato circa 3.000 corone danesi – si comprò un organo elettronico. “Ma non sono molto per la musica. Più di ogni

altra cosa, lo userò probabilmente per produrre suoni quando faremo dei cortometraggi”(19): le sue idee sono chiare n dall’inizio. E, difatti, alla domanda circa il suo futuro da attore: “Non lo so, ma so che mi piacerebbe essere qualcosa nei lm”. E qualcosa è diventato! Nato nel 1956, von Trier cresce in un ambiente familiare molto particolare, che avrà impatti evidenti sul suo futuro cinema, n dai primi anni della scuola. Il padre – che poi si rivelerà adottivo – di origini ebree e la madre comunista militante, credono fermamente in un’educazione libera del bambino: la formazione impartita prevede dunque che il piccolo Lars sia lasciato a sé, autonomamente responsabile nello stabilire le proprie autolimitazioni in una sorta di autogestione (decisione di orari, andare a scuola o meno). L’ambiente permissivista crea disagi e di coltà non appena il giovane Lars si interfaccia con il resto di una società scolastica e cittadina fortemente gerarchizzata, cresciuta secondo canoni di educazione completamente di erenti. Nella ricostruzione della sua infanzia, nel documentario di Stig Björkman Tranceformer – A Portrait of Lars von Trier (1997), il regista parla di una mancanza di amore sotto forma di autorità, poiché l’autorità stessa è una forma d’amore. Così crescono nel bambino delle paure assurde, come quella per la bomba atomica, che portano ad espedienti per esorcizzare la realtà: racconta ad esempio di aver passato ore intere sotto al tavolo compiendo dei rituali magici. Ecco, dunque, l’origine del viaggio nella condizione mentale di von Trier. Il regista in un’intervista a ermò: “Io viaggio dentro. Mi dispiace solo che la mia immaginazione sia troppo egocentrica e quindi molto limitata. Detto questo, può suonare pretenzioso, ma vorrei precisare che ogni spezzone che giro viene da un pensiero. Ogni stacco, ogni fotogramma è voluto e pensato. Non lascio mai nulla al caso”(20). Gli ‘student lms’ – ossia i corto e mediometraggi prodotti nel periodo della carriera accademica – sono i manufatti a partire dai quali la critica cinematogra ca ha

generalmente sviluppato la propria analisi, volgendo all’indietro gli anni della sua attività. In realtà, è dal 1967 che il giovane danese ha incominciato ad usare una macchina da presa: prodotto amatoriale, a quest’anno risale Viaggio a squashland (TUREN TIL SQUASHLAND), cortometraggio d’animazione della durata di 2 minuti circa, ideato e diretto da Lars Trier(21). Inizia così il periodo di lunghe e rudimentali carrellate con la bicicletta, di riprese di interni con pellicole per esterni e viceversa in modo da alterare i colori e ottenere delle tonalità più acide. Il lavoro è svolto da solo sia nelle riprese che nel montaggio, un approccio che segnerà i primi anni di attività del regista(22). Il corto del 1971 Un ore (EN BLOMST), di circa 7 minuti, è accompagnato interessantemente dal Messiah di Georg Friedrich Händel, la cui musica sarà ricorrente nelle opere del regista danese. Quindi, già molto prima di studiare teoria cinematogra ca all’Università di Copenaghen e regia cinematogra ca alla Scuola Nazionale di Cinema della Danimarca(23), Lars (von) Trier ebbe eccome le mani in pasta. È, tuttavia, con i 37 minuti de Il giardiniere di orchidee (Orchidégartneren) (1977), mediometraggio prodotto con il Filmgruppe 16(24), presentato all’interno della sua domanda di ammissione alla Scuola Nazionale di Cinema ma poi per imbarazzo eliminato dalla documentazione, che ha inizio l’ascesa di Lars l’‘enfant prodige’ – o “terrible” a detta di lui stesso(25).

L’enfant prodige – o terrible

De nito da lui stesso “esibizionista” alla maniera di David Bowie, suo “modello di riferimento” all’epoca(26), è Il giardiniere di orchidee che la critica riconosce come la prima opera degna di nota del regista. Basato su un romanzo inedito, Il giardiniere di orchidee vede von Trier stesso nei panni di un artista ebreo alla ricerca della sua identità in una serie di scene – il cui ordine cronologico è ambiguo – che raccontano liberamente le esperienze del protagonista (Victor Marse, il cui vero nome è Felimann von Marseburg) in accostamenti peculiari, ricchi di ambivalenza. Von Trier non conosceva ancora la scottante verità sulle sue origini non ebraiche, eppure la ricerca dell’identità era già forte in lui, sullo sfondo dell’Olocausto. Sotto l’in uenza evidente de Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, in una sequenza il protagonista/Trier è travestito da u ciale nazista, e si trucca. Fra tutti, un tema emerge che sarà importante: il ritorno alla natura, luogo dove trovare conforto, proprio come von Trier da bambino(27), moto da alcuni associato a un ritorno all’infanzia e all’inconscio, di cui la natura ne è immagine tarkovskiana: nell’epilogo, infatti, è il giardiniere delle orchidee (da cui il titolo) che trova solerzia tra i ori e le piante(28). Con il Filmgruppe 16, viene realizzato un altro interessante mediometraggio: Menthe – la ragazza felice (Menthe – la bienheureuse), del 1979, in lingua francese e nello stile di Marguerite Duras, che è una variazione di Histoire d’O (1954)(29), testo che ispirerà anche Manderlay

(2005) (il sequel di Dogville e secondo capitolo della trilogia, mai completata, ‘USA – Terra delle Opportunità’). Il mediometraggio, arricchito dalle sonorità di Erik Satie ‘Gymnopedie #1’(30), rileva per le immagini signi cative, che dimostrano come molto albergava in nuce nella mente del giovane autore: ambientato a Roissy in Francia, appaiono qui e lì, come miraggi, scene di palme e vegetazione orida, a rappresentare un sud lontano e ambito, verso cui fuggire. E che dire poi delle mele, delle ri essioni sul nord freddo e inaccogliente, delle sevizie sessuali attraverso scene che rievocano La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc) (1928) di Dreyer: “Che il miracolo possa durare, che la grazia non scompaia mai”, sono le ultime parole scritte nella lettera nale di Menthe. I primi compagni di avventura sono Tom Elling alla fotogra a e al montaggio Tómas Gislason.  L’eco di von Trier riecheggia da subito nel circuito dei Festival europei. I tre realizzano nel 1980 il cortometraggio Nocturne, che è valso a von Trier un premio al Munich International Festival of Film Schools(31). All’epoca il ‘von’ tra Lars e Trier era ben consolidato: il primo uso pubblico dell’aristocratica particella avvenne, infatti, con un articolo di giornale del 1976 avente ad oggetto il periodo di psicosi creativa di Strindberg (18941897), accompagnato da una foto dello “scrittore e artista Lars von Trier” in posa davanti alla tenuta di Holte dove Strindberg scrisse La signorina Julie (Fröken Julie) (1888)(32): “La follia di Strindberg e di Munch erano per me l’apice del romanticismo”(33). Von Trier dà inoltre credito ad un professore della Scuola di Cinema, un certo Gert Fredholm, con cui ebbe varie discussioni, tanto che alla ne quest’ultimo lo battezzò esoticamente in Lars ‘von’ Trier(34), fermo restando l’ispirazione da Sternberg e Stroheim, registi austriaci che assunsero artisticamente il ‘von’ assieme a personaggi aristocratici del palcoscenico germanico(35). “Si potrebbe de nire una provocazione da parte mia – spiegò von Trier – ma mi piacerebbe molto

vederla come un’aristocrazia interiore, che io irradio, e inoltre, naturalmente, nel cinema danese e in Danimarca in generale è vietato irradiare qualsiasi cosa”(36): è la cd. ‘Legge di Jante’, la quale sottende un modello di comportamento che, all’interno delle comunità scandinave, critica e ritrae negativamente, come indegne e inappropriate, le realizzazioni individuali e il successo del singolo; il regista la metterà a dura prova nei suoi lm, così come era sottinteso dal ‘von’ arbitrariamente utilizzato: “Sono convinto che le provocazioni siano molto importanti, soprattutto in una democrazia. Il PC o politically correct è la cosa più pericolosa che si possa immaginare, perché nessuno mette in discussione nulla. Allora tutto si ferma. Ho cercato di aiutare con le provocazioni e con varie tecniche. Sia politicamente…” e, seppur molto insoddisfatto con i risultati, “alcuni lm mi sembrano molto e caci” (37). Del 1982 è poi Immagini di una liberazione (Befrielsesbilleder), lavoro con cui von Trier si diplomò alla Scuola Nazionale di Cinema della Danimarca nonché primo lm della scuola ad essere distribuito regolarmente nelle sale cinematogra che. Gli valse il premio all’European Student Film Festival(38) ed è stato altresì proiettato nella sezione Panorama durante il 34° Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Immagini di una liberazione è un lm molto importante per il regista: ambientato a Copenaghen durante l’ultimo periodo della Seconda Guerra Mondiale, tratta delle vicende di un u ciale tedesco, Leo Mandel (Edward Fleming), che visita la sua amante danese, Esther (Kirsten Olesen), nei giorni successivi alla ne dell’occupazione della Danimarca da parte della Germania nazista: l’u ciale tedesco verrà tradito dalla sua stessa amante e giustiziato nella foresta dove, pochi istanti prima della sua cattura, rievoca i momenti idilliaci della sua infanzia, quando ‘parlava’ con gli uccelli (i.e. ritorno alla natura). Al momento della morte ascende verticalmente sopra i pini di Gripskov Forest, in una scena che von Trier stesso ha de nito “poesia della natura”(39). È interessante come il lm combini sequenze di una storia inventata

giustapposte ad immagini documentarie mai viste prima, recuperate dagli archivi della Danish Broadcasting Corporation (DR): immagini di tedeschi e di traditori danesi che vengono inseguiti per le strade, derisi e picchiati – “nel complesso, immagini che non si possono creare, poiché hanno qualcosa di vero”(40). Un doppio binario narrativo che ricorrerà sovente nei lm del regista danese che ha come unità fondamentale l’immagine, la cui locuzione è ricorrente persino nel titolo dell’opera. La spinta propulsiva del giovane von Trier, insieme ai suoi di collaboratori, era dunque di creare delle immagini e delle atmosfere che vivessero di vita propria: è il von Trier manierista del primo periodo. L’e etto visivo è ricercato ed elevato a tal punto che lo stesso diviene il punto focale del lm, attraverso l’utilizzo di una tecnica impeccabile per dire alla gente una storia che non vogliono sentirsi dire(41). In questo, spiegò lo stesso regista, è normale che si creino dei parallelismi con i grandi maestri creatori di immagini, ad esempio Tarkovskij o Bertolucci, con la precisazione che gli stessi non possono essere plagiati: “Quando si approfondisce un tema e si cercano le immagini da utilizzare, si veri cano alcuni parallelismi, come quando il fuoco e l’acqua si incontrano. È un’idea classica. Crea un’immagine, un’atmosfera, una tensione, eccetera, eccetera. Così, creo alcune immagini parallele a quelle di Tarkovskij, ma anche a quelle di altri vecchi creatori di immagini. È una vecchia verità, vedi, che questi elementi creano un’immagine”(42). Ricerca di immagini ‘vere’; immagini d’e etto – che la rappresentazione degli scon tti e dei perdenti permette di raggiungere meglio: “Il male riguarda molto di più l’aspetto visivo, mentre il bene non ha a atto buone immagini”(43). Immagini di una liberazione nisce nel modo in cui inizia, in un cerchio narrativo che è ancora solidamente legato alla drammaturgia tradizionale(44), irrorato da ciò che von Trier considerava elemento fondamentale di ogni lm: “La passione è il sangue vitale del cinema e il cinema dovrebbe sempre nutrirsi di una qualche passione”(45). Schierato, quindi,

contro le opere e l’intero paese danesi, noiosi e insipidi per la paura verso il fascino ed il miracolo: la paura per gli e etti, che vedeva imperante attorno a sé.

Il successo a Cannes e la trilogia Europa

Anche il successo arriva molto presto. Cannes: per Lars von Trier è stato trionfo e scandalo. È lì che il mondo ha conosciuto il regista; lì che le sue opere hanno avuto il primo accesso agli altri. Non tutte; Il regno fu presentato a Venezia(46), ivi incluso Il regno Exodus. Per le altre maggiori sue opere è stato così: L’elemento del crimine (Forbrydelsens element, 1984), Epidemic (1987), Europa (1991), Le onde del destino (1996), Gli idioti (Idioterne, 1998), Dancer in the Dark (2000), Dogville (2003), Manderlay (2005), Antichrist (2009), Melancholia (2011), La casa di Jack (2018). Mancano in sostanza Il grande capo (2006) e Nymphomaniac (2013). Non che l’interesse per Lars von Trier sia riducibile alla sola nazione francese; sarebbe un errore pensarlo. È pur vero che, per i pochi giorni in totale trascorsi nella cittadina costiera – per Le onde del destino neanche riuscì ad arrivarci per via della sua fobia di viaggiare(47) – , la sua reputazione lì, sulle coste meridionali di Francia, costituisce il nucleo dell’intero mito di Lars von Trier come la maggior parte del mondo lo conosce. In particolare la Francia ha, dunque, deciso di prendere in considerazione le opere di von Trier, soprattutto i parigini: La Revue du Cinéma e Positif n da subito hanno mostrato grande interesse per il regista danese(48). Dalla vittoria della Palma d’Oro con Dancer in the Dark – oscurata dai pettegolezzi sul con itto fra il regista e Björk – no ad arrivare allo scandalo del 2011 per le parole su Hitler durante la conferenza stampa per Melancholia e il conseguente status di persona non grata con il quale venne bandito dal Festival per 7 anni; in ne, il ritorno con La casa

di Jack, che fece allontanare dalla sala molti critici e spettatori incapaci di vedere il lm no alla ne. L’elemento del crimine, 1984(49), primo lungometraggio del regista come già precisato, viene presentato in concorso al 37º Festival della cittadina francese, vincendo il Grand Prix tecnico(50). Oltre ai già citati Gislason ed Elling, fondamentale è stata la collaborazione con Niels Vørsel, che ha coscritto la sceneggiatura(51). L’opera è considerata lm neo-noir sperimentale: sperimentale è aggettivo che potrebbe addirsi all’intera produzione di von Trier, pur non volendo risultare riduttivi. Quando era giovane, chiarisce von Trier, rimase a ascinato da David Bowie. Station to Station era il suo album preferito. Lo vide in tre concerti quando andò in Danimarca e ascoltò i suoi album più e più volte, ipnotizzato dalla uida reinvenzione del suo personaggio: “Tutti gli artisti hanno il loro tempo. Quando Bowie era al suo apice, sviluppava ogni album a partire da quello successivo. Con i registi, come Dreyer per esempio, c’è un tipo di sviluppo simile, il che signi ca che poteva, in un lungo arco di tempo, fare lm molto interessanti. Si potrebbe dire lo stesso di Kubrick. Con riferimento a me, sto cercando di fare lo stesso, nel senso che non farò mai lo stesso lm. È un grosso problema, dal punto di vista commerciale, ovviamente. Dopo aver fatto un lm come Gli idioti, che è per un pubblico molto più ristretto, non è facile nanziare un grande lm come Dancer in the Dark, perché dopo Le onde del destino, tutti vogliono vedere ‘Le onde del destino II’, fatto come lm successivo. Ma io non posso e non voglio farlo. Perché voglio andare avanti. Ed è per questo che è importante per me fare un lm come Gli idioti ogni tanto. E se alla gente non piace… non me ne può fregare di meno”(52). L’elemento del crimine è esempio magistrale della tecnica barocca del von Trier del primo periodo, caratterizzata da trame opache, voci fuori campo autocoscienti e manipolazioni insolite di suoni e immagini(53). Le scene

iniziali del lm sono sfocate visioni di un Cairo (i.e. viaggio verso il sud) immerso come nei sogni, e di un cavallo che si contorce e si arrampica su uno spiovente: “Il primo lm di fronte al quale ho pianto è stato quello sul piccolo ragazzo che riceve un piccolo pony selvaggio e alla ne deve dirgli addio – e mentre il cavallo si allontana verso l’orizzonte, si volta e gli dà un ultimo sguardo d’addio prima che continui ad andare oltre. Era molto potente! Non ricordo il nome della storia, ma penso abbia avuto diverse varianti. Funziona ogni volta, perché è anche una storia a proposito del dover dire addio alla tua infanzia e addentrarti nell’ignoto […] Forse, è tutto un tornare indietro allo sguardo ipnotizzante del cavallo nel lm della mia infanzia”(54). Le scene del Cairo anche in questo caso sono recuperate da reperti documentaristici in 8mm realizzati, tra gli altri, da un architetto e da un pittore, poi ingrandite in 35mm. Perché Il Cairo? “Avevamo bisogno di un protagonista principale che tornasse in Europa. Il lm è sull’Europa, un’Europa che è per metà sott’acqua e doveva tornare a casa da un luogo che non fosse l’America – non volevo che l’America entrasse nella storia – e per questo abbiamo scelto Il Cairo”(55). Sotto gli in ussi di Kafka e Borges, in contesti ambientali e narrativi non poi così di erenti da L’infernale Quinlan (Touch of Evil) di Orson Welles (1958)(56), il protagonista è un detective inglese di nome Fisher (Michael Elphick) che vive appunto a Il Cairo e si rivolge ad uno psicanalista (un uomo sovrappeso con sulla spalla una scimmia, interpretato da Ahmed El Shenawai) per liberarsi del suo mal di testa persistente. Si sottopone ad ipnosi, nell’afa africana, e nel viaggio mentale approda in un’Europa distopica e fatiscente. Non vediamo la luce del giorno nel lm, solo la notte, contro il buio della quale si succedono paesaggi di macerie e detriti, relitti di città, fogne e sotterranei, avvolti da una esasperante luce giallo ocra: è il paesaggio interiore del protagonista? Anche in Immagini di una liberazione la vicenda era immersa in luoghi bui di un’Europa alla ne del periodo nazista: e cos’è il nazismo se non il più grande trauma del vecchio

continente(57)? Il manierismo curato in ogni dettaglio restituisce la sensazione di un assurdo labirinto in cui il detective Fisher diventa Harry Grey, il serial killer che sta inseguendo. È la fede indiscussa nel libro di criminologia scritto da Osborne, il suo professore malato, dal titolo appunto ‘L’elemento del crimine’, che fa cadere Fisher nel tranello. “Non posso fermarmi nché non capisco. Devo fare le cose secondo le regole”, dice il protagonista alla sua compagna prostituta, Kim (Me Me Lai), che risponde di non poterlo seguire no a questo punto. L’ipnotizzatore/narratore stesso, che lo ha condotto in questa Europa da incubo, gli dice: “Ho paura che lasci indietro anche me, Harry” (chiamandolo con il nome dell’assassino). Diventa lui stesso l’assassino, dunque, per via della fede cieca nel metodo. Il lm, a tratti horror, mostra come le azioni idealistiche del protagonista niscono col perpetrare il problema che cerca di risolvere: sono quindi il fallimento di un credente nel perseguire la sua religione? È il primo segnale di critica di von Trier ad ogni tipo di fondamentalismo (religioso, politico, artistico, scienti co)(58)? Alla pedissequa osservanza dell’insegnamento discendente dai ‘libri’? L’elemento del crimine fu anche l’occasione per la prima – emblematica – apparizione al grande pubblico del regista: Cannes 1984, dove il giovane Lars si presentò con i capelli completamente rasati e con indosso un giubbotto di pelle nera. Suscitò controversie, anche perché fu meno che entusiasta nel ricevere solo un premio ‘tecnico’. Disse di essersi abbigliato così perché nel lm recitava una piccola parte vestito in quel modo; attraverso una scelta del genere, creava una connessione romantica tra la realtà e il lm da lui realizzato, nonostante il nero e la rasatura che avevano inquietato l’uditorio internazionale(59). Di Bowie, infatti, Lars von Trier apprezza anche il concetto di artista come parte dell’opera d’arte, così come di Fassbinder e Pasolini(60). Il regista ha ricercato questa commistione tra l’opera e la vita, tant’è che c’è chi ha detto che l’obiettivo della sua carriera sia stato realizzare “un prototipo di

iniziativa autorista… per costruire Lars von Trier, il regista d’autore”(61). Mescolando spettacolo, provocazione e scandalo, Lars von Trier ha sperimentato una performance di sé che, al di là dei risultati perseguiti, funziona in ogni caso come uno strato metacinematogra co o un paratesto(62) per la sua opera. Nel corso della sua carriera, il regista ha, infatti, lanciato manifesti e proclami a mo’ di propaganda comunista, proposto antigeneri e creato scandali tra quelle che sono strategie paratestuali più ovvie come trailer, teaser e annunci(63). Di recente, nella prima foto pubblicitaria per La casa di Jack, von Trier ha posato in una versione troll del mietitore con la falce in un fotogramma iconico di Vampyr – Il vampiro (Vampyr – Der Traum des Allan Grey, 1932) di Dreyer, annunciando enigmaticamente che il lm “celebra l’idea che la vita è malvagia e senz’anima, cosa tristemente dimostrata dalla recente ascesa dell’homo trumpus – il re dei topi”. Ancora, una foto pubblicitaria per Antichrist parodiava la posa di Hitchcock con un corvo sulla spalla per Gli uccelli (The Birds, 1963), che a sua volta era una parodia della poesia caratteristica di Edgar Allan Poe Il corvo (The Raven, 1845) (64) . Per Melancholia, un cupo Lars von Trier teneva in mano una clessidra accanto alla didascalia: ‘niente più lieto ne’ – ricordandoci che i suoi lm sono niti nei modi più brutali (a ripensarci): con la peste, l’impiccagione e l’omicidio di massa, per citarne alcuni. Von Trier ha persino sfruttato a suo vantaggio il asco della conferenza stampa di Melancholia – a Cannes – posando con un bavaglio di nastro adesivo sulla bocca per protestare contro il suo silenzio forzato e indossando con aria di s da una maglietta con la scritta ‘PERSONA NON GRATA’, cosa che ha trasformato la denuncia in un elemento di distinzione(65). Insomma, il carattere ‘esibizionista’ e provocatorio di von Trier non tardò a manifestarsi; lo stesso non è venuto meno nel corso della carriera del regista, seppur è evidente una diminuzione importante delle sue uscite pubbliche dopo il 2005 e, soprattutto, un loro profondo ridimensionamento successivamente alle controversie di Cannes nel 2011.

Come primo tassello della trilogia Europa, L’elemento del crimine ci restituisce un continente fotografato nella sua decadenza del dopoguerra, languidamente immerso nel proprio caos e senso di morte. E presenta un’idealista che si scontra con la dura realtà: l’eroe (o l’antieroe) si immerge con ducia in un pantano puzzolente, determinato a raddrizzare tutti i torti, ma, come sottolinea von Trier, “si può essere certi che quando hanno fatto la cosa giusta, è andata male e l’hanno anche fatta male”. Il male, dunque, viene perpetuato da chi idealisticamente crede di sovvertirlo(66). Siamo però immersi in una storia che emerge attraverso l’ipnosi: che cos’è la storia se non una percezione virtuale, come è stato detto, che non esiste se non nella memoria? “Ne L’elemento del crimine il motivo dell’ipnosi è un puro postulato, un’illusione, una nzione (make-believe). In Epidemic, l’ipnosi si esprime realmente, in modo documentaristico e organico. E in ne, in Europa, lm ancora non scritto all’epoca, l’idea era di ipnotizzare lo spettatore”(67). È l’ipnosi ad essere tema ed anche tecnica. Il regista a ermò di aver cercato di utilizzarla addirittura con gli attori: a suo dire, Dreyer ipnotizzò la donna che interpretò Giovanna d’Arco nel lm da lui diretto, circostanza che cercherà di replicare con Bess (Emily Watson) ne Le onde del destino(68). Attraverso l’ipnosi, il soggetto diventa un burattino nelle mani del regista; in realtà chi recita è il regista che prende le sembianze dell’attore ipnotizzato. È questo, dunque, l’obiettivo di von Trier? È per questo che amerà lavorare in maniera ricorrente con gli stessi attori, in qualche modo già plagiati? L’ipnosi in ogni caso pare spandersi irrimediabilmente, come una malattia. La prima trilogia ebbe la seguente suddivisione: ~ L’elemento del crimine – sostanza non organica; ~ Epidemic – sostanza organica; ~ Europa – sostanza concettuale(69). La

sostanza

organica

di

Epidemic

(1987)

venne

considerata dai produttori come il peggior lm che avessero mai visto. “A very private lm”, “un lm molto privato”, lo ha de nito von Trier(70) e per questo da lui molto amato, nonostante il regista abbia a ermato di non “essere in buoni rapporti”(71) con le sue prime opere, ivi inclusi i suoi progetti accademici riguardo ai quali ha dichiarato: “se si ottiene qualcosa, non è grazie a qualcosa, ma piuttosto a dispetto di qualcosa, e in questo senso la scuola di cinema ha funzionato molto bene”(72). Se è l’ipnosi ad esprimersi nelle immagini grezze di Epidemic, di certo la stessa non è diretta allo spettatore, considerate le scelte stilistiche e tecniche lontane da ogni consenso di popolo(73). In un’Europa languidamente spettrale e in bianco e nero, i cui muri scricchiolanti producono strani rumori per le in ltrazioni di salnitro che ne fanno cadere gli intonaci – “una specie di malattia delle mura”-, von Trier e Niels Vørsel interpretano se stessi mentre scrivono una sceneggiatura su un personaggio chiamato Dott. Mesmer (interpretato a sua volta da Lars von Trier), il quale cerca di curare un’epidemia contro la volontà della Facoltà di Medicina (i.e. l’autorità scienti ca) di una città sconosciuta; il Dott. Mesmer si reca in campagna per aiutare la gente, senza sapere che sarà lui stesso a di onderla. Ancora una volta l’idealista; ancora una volta la perpetrazione inevitabile del male. Un doppio registro narrativo è qui però decisamente esplicito, anche per la compresenza di due stili distinti che si contrappongono: la binarietà sarà signi cativa nell’intera opera del regista(74). Il secondo atto della trilogia è un lm (i.e. il meta- lm) sulla creazione di un lm in cui, da un lato, ci sono le inquadrature mozza ato composte a rappresentare le vicende del Dott. Mesmer (i.e. il lm all’interno del lm), dall’altro lato, la telecamera a mano, la luce naturale, le aziende della Germania e gli interni dell’appartamento di Niels che a eriscono alle vicende dei due amici alle prese con la commissione di una sceneggiatura, che

rappresentano il meta- lm. Compare altresì un primo esempio di segmentazione narrativa che sarà cara al regista: la storia, infatti, si divide in cinque giorni: parte dal momento in cui i due protagonisti perdono l’unico manoscritto di una sceneggiatura cinematogra ca (Kommisæren Og Luderen, “Il poliziotto e la puttana”, chiaro rimando a L’elemento del crimine, che è dettaglio, autoreferenziale, di lm nel meta- lm). Da qui l’esigenza per i due di scrivere una nuova sceneggiatura su un’epidemia – lo scoppio di una malattia simile alla peste – da consegnare al committente prima dell’incombente scadenza. Accade forse ciò che ogni regista sogna di realizzare: nei giorni successivi, i fatti della sceneggiatura – ossia del lm nel meta- lm – si uniscono agli eventi ‘reali’ – ossia del meta- lm – ed un’epidemia inizia a di ondersi: attraverso una ragazza ipnotizzata, dalla ‘storia’ la malattia accede alla ‘realtà’, agli stessi scrittori e al produttore a cui i protagonisti stanno proponendo la loro sceneggiatura; la nzione prende dunque vita: le sue conseguenze sono ‘concrete’, le immagini create ripercuotono i propri e etti sulla vita di tutti i giorni. L’ipnosi è quindi una porta attraverso cui la malattia latente esplode, attraverso cui il trauma emerge, attraverso cui, soprattutto, l’immagine massimizza i propri e etti? Signi cative a tal riguardo sono le scene nali. Scalpore tra i produttori ha inoltre destato la sequenza in cui Lars e Niels si recano in Germania, dove incontrano un uomo – Udo Kier – che descrive il bombardamento alleato di Colonia durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa della delicatezza dei temi trattati. Come sopra accennato, Epidemic è, inoltre e più interessantemente, un lm privato in quanto vera e propria dichiarazione sulla loso a cinematogra ca dell’epoca del regista, nonché dei suoi metodi di lavoro e dell’applicazione delle sue teorie. Insomma, è anche un documentario su Lars von Trier stesso(75) ed evidenzia diverse fobie che lo attanaglieranno nel corso della vita (le strutture sotterranee, il viaggiare, le malattie, gli ospedali); può essere l’opera un metodo per esorcizzarle, mentre il

suo autore è già cosciente che la sua mente libera ed anarchica viaggia per territori malsani da cui potrà scaturire solo una alterazione della psiche? Noi spettatori siamo resi partecipi dei suoi metodi di scrittura – linee tracciate sui muri, riferimenti ironici, utilizzo del proprio dolore e di quello degli altri – e della sua estetica, così come della tendenza a mettere consapevolmente elementi in contrapposizione tra loro: la musica di Wagner che accompagna la di usione della peste(76), la sincerità associata al cinismo e viceversa. Lo stile anticipa Il regno, Le onde del destino e i paradigmi di Dogme95. Dopo Epidemic supportato da pochissimo budget, di taglio sotto certi aspetti amatoriale, fu la volta di Europa, costituito da un cast internazionale e fruitore di risorse economiche non di poco conto. I risultati non mancarono: il lm, infatti, vinse tre premi al Festival di Cannes del 1991 (premio per il contributo artistico, premio della giuria e Grand Prix tecnico), attirando l’attenzione del mondo sul nuovo autore. Se da un lato questo, dall’altro lato le controversie: quando si rese conto di non aver vinto la Palma d’Oro, von Trier, chiamato sul palco, additò il presidente della giuria Roman Polanski come “nano” e uscì mostrando il dito medio all’organo giudicante(77); forse perché Europa era stato realizzato “consapevolmente come un capolavoro”(78)? I premi non sono che oggetti. Europa è un omaggio a Kafka, dal cui romanzo America o Il disperso, prende ispirazione. Leo Kessler (Jean-Marc Barr), americano di origini tedesche, compie infatti il viaggio all’inverso di Karl Rossmann: dall’America va in Germania, per o rire il suo contributo alla ricostruzione del paese. L’inquietante discorso diretto al pubblico da parte del narratore, mentre un treno scorre sui binari, ci conduce dentro la storia, ci ipnotizza: lo spettatore e il protagonista, come compagni d’avventura, entrano ed escono da un sogno kafkiano, in una Germania anno zero occupata, lacerata, costituita da macerie, in un mondo dai con ni impercettibili tra ciò che è interiore e ciò che è

esteriore. Leo, grazie all’aiuto dello zio (Ernst-Hugo Järegård), trova lavoro come cuccettista preso la società ferroviaria Zentropa, il cui nome viene tratto dalla compagnia ferroviaria Mitropa realmente esistita, e da cui prenderà il nome la casa di produzione che verrà fondata da Lars von Trier e Peter Aalbæk Jensen(79). Da paci sta ‘non coinvolto’, il protagonista, ancora un idealista, nisce per favorire i piani malvagi di altri con ogni sua mossa: in particolare aiuta la resistenza tedesca nella sua battaglia contro l’occupazione statunitense, supportata da una Chiesa cattolica romana, la stessa a cui von Trier si unirà qualche anno più tardi. Europa utilizza uno stile cinematogra co sperimentale, combinando immagini in bianco e nero con intrusioni di colore, mentre gli attori interagiscono con lmati retroproiettati e immagini diverse si sovrappongono con e etti surreali. Il tono melodrammatico dei personaggi, della musica, dei dialoghi, è ironicamente imitativo delle convenzioni del cinema noir. Girato tra la Danimarca e la Polonia (quest’ultima, per esempio, per le scene della cattedrale), “più che i personaggi, conta l’apparato tecnicoformalistico: colore contrapposto al bianconero, sovrimpressioni, obiettivi deformanti, cinepresa dinamica, scenogra e di taglio espressionistico. Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma”(80). Nel lm, Lars von Trier interpreta l’ebreo che rinnega se stesso, dichiarando falsamente, d’accordo con il colonnello americano Harris (Eddie Constantine), che il proprietario della Zentropa, dal curioso nome di Max Hartmann (Jørgen Reenberg) lo aveva aiutato e gli aveva dato da mangiare, così da evitare che si procedesse ad una sua cattura in quanto ex nazista. All’epoca, Lars von Trier conosceva già la questione del suo vero padre biologico – Fritz Michael Hartmann – che tuttavia non era stata divulgata. È riuscito, come spesso gli capiterà, di trattare il ‘trauma’ personale tra gli interstizi dei suoi lm(81). Con Europa, la trilogia nisce.

Il cambiamento di rotta e la trilogia del Cuore d’Oro

Ogni ne rappresenta un nuovo inizio. Per von Trier fu un nuovo progetto che tarderà a concretizzarsi. Pensato infatti in quegli anni, Le onde del destino – primo tassello della trilogia del Cuore d’Oro (‘Golden Heart Trilogy’), a cui seguirà Gli idioti e, in ne, Dancer in the Dark – verrà realizzato solo nel 1996. Prima è il momento de Il regno – seguito da Il regno 2 – che è atto di profondo cambiamento di tecnica: la serie TV vede infatti von Trier lavorare signi cativamente con la camera condotta a mano, consacrando questa tecnica come suo strumento di fabbrica. In uenzato da I segreti di Twin Peaks e dalla scrittura a mano sinistra di Lynch(82) – ossia in maniera del tutto disinteressata – , la miniserie televisiva tiene incollati gli spettatori danesi – e non solo – alla TV, mostrando le grottesche ed ironiche vicende del Rigshospitalet (ospedale del Regno) braccato da spiriti e questioni irrisolte, con le performance straordinarie dell’attore Ernst-Hugo Järegård , nel personaggio cinico e spassosissimo dello svedese dottor Helmer (che combina egregiamente humour e malignità), e dell’attrice Kirsten Rol es, nella spirituale, ben intenzionata e piena di risorse Sigrid Drusse. È la trasposizione di von Trier da un personaggio cinematogra co a un altro; è un’estesa critica satirica dell’arroganza della scienza e della negazione dello spirituale. La storia combina linearità e sperimentalismo –

oltre alla camera rigorosamente condotta a mano, si registrano tagli di scena improvvisi, montaggio contro ogni regola, immagini sgranate – e l’horror è sormontato dall’umorismo nero alla Vonnegut molto e cace e divertente(83), con accenni strazianti alla ne di entrambe le due stagioni. Ne Il regno, sono presenti gli elementi che caratterizzeranno l’informalismo di Dogme95 e della trilogia successiva. 25 anni dopo, arriva la terza e conclusiva stagione della serie: Il regno Exodus, basato su un trattamento che von Trier e Niels Vørsel prepararono attorno agli anni 2000, segno che già allora l’intenzione era di procedere ad una terza stagione(84): il progetto, infatti, non venne completato – sino ad oggi – a causa della morte di due membri chiave del cast, Ernst-Hugo Järegård e Kirsten Rol es(85). Il caso che bisognasse attendere 25 anni per il suo completamento conferma il parallelismo con Twin Peaks, anche se, a di erenza di David Lynch, von Trier sapeva benissimo come sarebbe andata a nire(86). Il regista ha anche realizzato un’altra serie TV, fatta per TV2 (canale danese), chiamata Lærerværelset (The Teacher’s Room) (1994), che von Trier ha detto di essersi divertito molto a girare: “Amo la televisione dove gli attori parlano allo stesso momento. Sono pazzo per il caos. La televisione ha bisogno di più caos, perchè ne è epurata da ogni sua forma. Nelle trasmissioni giornalistiche c’è sempre qualcuno che ti dice come devi interpretare quello che stai vedendo: prima che tu abbia avuto il tempo di formarti un’opinione tua, ti è stato fatto capire che queste persone si comportano male nei confronti di queste altre persone e bla, bla, bla. Deve sempre esserci un signi cato, un senso, ma Lærerværelset non ha davvero senso”(87).

Dogme95

Il 20 e 21 marzo 1995, a Parigi, si tenne la conferenza ‘Le cinéma vers son deuxième siècle’, in cui si celebrava il primo secolo del cinema e se ne contemplava il futuro incerto. Chiamato a parlare, tra la folla incuriosita, Lars von Trier prese a di ondere opuscoli rossi che annunciavano: ‘Dogme95’. Dogme95 è un collettivo di registi cinematogra ci fondato a Copenaghen qualche giorno prima. Il suo atto fondativo è un manifesto – ‘Manifesto Dogme95’ – contenente un decalogo – il cd. ‘Voto di Castità’ – sul fare cinema scritto in 45 minuti da Lars von Trier e dal regista amico Thomas Vinterberg(88), al quale aderirono subito anche Søren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring(89). Alla base delle dieci regole vi erano una ricerca religiosa (o dreyeriana) della purezza – sintomatico è il lessico utilizzato di chiaro rimando alla religione cristiana: dogma, castità, il decalogo come i dieci comandamenti(90) – e l’adozione di una tecnica cinematogra ca. Concetti che di fatto erano presenti n dagli albori nell’opera di von Trier, che però qui mutavano forma attraverso la cristallizzazione di un metodo. Il Manifesto Dogme95 riprende lo stile di altri scritti di tal genere di von Trier; negli anni precedenti, vennero infatti rilasciate tre dichiarazioni d’artista altrettanto appassionate, una per accompagnare ciascuno dei lm che compongono la trilogia Europa. In particolare, è signi cativo il ‘Manifesto No. 3: Europa’, scritto per l’ultimo atto della triade; nello stesso, il regista spiega la magia del cinema e confessa i suoi peccati carnali. Di seguito un estratto:

“[…] Il nostro rapporto con il cinema può essere descritto in tanti modi e viene spiegato in una miriade di modi diversi: dobbiamo fare lm con uno scopo pedagogico, possiamo desiderare di usare il cinema come una nave che ci porti in un viaggio di scoperta verso terre sconosciute, o possiamo a ermare di voler usare il cinema per in uenzare il nostro pubblico e farlo ridere o piangere – e pagare. Tutto questo può sembrare perfettamente corretto, ma io non ci credo molto. C’è una sola scusa per so rire e far so rire ad altri l’inferno che la genesi di un lm comporta: la grati cazione dei desideri carnali che nascono in una frazione di secondo, quando gli altoparlanti e il proiettore del cinema, in tandem e inspiegabilmente, permettono all’illusione del movimento e della luce di trovare la loro strada come un elettrone che lascia il suo percorso e quindi genera la luce necessaria per creare UNA SINGOLA COSA: una miracolosa esplosione di VITA! Questa è l’unica ricompensa che un cineasta ottiene, l’unica cosa che spera e desidera. Questa esperienza sica, quando la magia del lm si compie e si fa strada nel corpo, no a un’eiaculazione tremante […] NULLA DI PIÙ! Ecco, ora è scritto, ed è una bella sensazione. Quindi dimenticate tutte le scuse: ‘fascino infantile’ e ‘umiltà assoluta’, perché questa è la mia confessione, nero su bianco: LARS VON TRIER, IL VERO ONANISTA DEL GRANDE SCHERMO. Eppure, in Europa, la terza parte della trilogia, non c’è la minima traccia di manovre derivative. Finalmente si raggiungono purezza e chiarezza! Qui non c’è nulla che nasconda la realtà sotto uno strato so ocante di ‘arte’ […] nessun trucco è troppo meschino, nessuna tecnica troppo pacchiana, nessuno sforzo troppo insipido. DATEMI UNA SOLA LACRIMA O UNA SOLA GOCCIA DI SUDORE E LA SCAMBIERÒ VOLENTIERI CON TUTTA L’ARTE DEL MONDO. Finalmente. Che Dio solo mi giudichi per i miei tentativi alchemici di creare la vita dalla celluloide. Ma una cosa è

certa: la vita al di fuori del cinema non potrà mai trovare il suo pari, perché è una Sua creazione, e quindi divina”(91). L’atto fondativo di Dogme95(92) spiega che il movimento è nato con l’intento di essere un’azione di salvataggio contro “una certa tendenza” del cinema “[allora] attuale”. Ispirati dall’azione salvi ca della Nouvelle Vague negli anni ’60(93), che prese consapevolezza di un cinema morto che necessitava della resurrezione, eppur critici contro la stessa per la scelta di mezzi che ne fecero “un’increspatura che nì in nulla sulla spiaggia e si trasformò in mucillagine”, Dogme95 proponeva un’idea di cinema non individuale – in questo, dunque, diversissimo dalla Nouvelle Vague, considerata borghese n dall’inizio per il concetto di autore che propugnava – e puro, spoglio di “illusioni”: un’innocenza perduta(94). “Oggi infuria una tempesta tecnologica, da cui conseguirà la de nitiva democratizzazione del cinema. Per la prima volta chiunque può fare un lm. Ma più i media divengono accessibili, più si fa importante l’avanguardia. Non è un caso che la parola avanguardia abbia connotazioni militaresche. La disciplina è la risposta… dobbiamo mettere un’uniforme ai nostri lm, perché il lm individuale sarà decadente per de nizione! Dogme95 si contrappone al lm individuale presentando un corpo di regole indiscutibili conosciute come IL VOTO DI CASTITÀ”(95). Da un lato, dunque, la tecnologia che conduce alla democratizzazione del cinema; dall’altro la tecnologia stessa che porta a “l’elevazione dei cosmetici a Dio”(96): Dogme95 è una lotta contro le illusioni dei lm hollywoodiani e una ricerca dell’autenticità nella rappresentazione cinematogra ca: questo il nocciolo della ‘nuova politica del bello’. Viene dunque osteggiata la cosmesi illusoria realizzata sia con e etti speciali sensazionalistici sia con la prevedibilità (alias drammaturgia) – il fatto che le vite interiori dei personaggi giusti chino la trama – , attraverso cui gli spettatori sono

soggetti alla libera scelta d’ingannarli dell’artista individuale: “Il risultato è vuoto. Un’illusione di pathos e un’illusione d’amore.”(97) Il Manifesto a erma con forza che per Dogme95 il cinema non è illusione: “Non so se ‘verità’ sia la parola giusta. Per me può essere una rivelazione. Una scena di un lm può arrivare e dire tutto. Valeva la pena di andare a combattere per l’istante del lm piuttosto che per l’insieme, ed era questo che si cercava di trovare. Ed era quello che cercavamo di trovare attraverso tutte queste regole”(98). Da qui l’impegno dei sottoscrittori a rispettare il Voto di Castità: “Io giuro di sottostare al seguente elenco di regole elaborate e confermate dal DOGME95: Le riprese vanno girate sulle location. Non devono essere portate scenogra e ed oggetti di scena (Se esistono delle necessità speci che per la storia, va scelta una location adeguata alle esigenze). Il suono non deve mai essere prodotto a parte dalle immagini e viceversa. (La musica non deve essere usata a meno che non sia presente quando il lm viene girato). La macchina da presa deve essere portata a mano. Ogni movimento o immobilità ottenibile con le riprese a mano è permesso. (Il lm non deve svolgersi davanti alla macchina da presa; le riprese devono essere girate dove il lm si svolge). Il lm deve essere a colori. Luci speciali non sono permesse. (Se c’è troppa poca luce per l’esposizione della scena, la scena va tagliata o si può ssare una sola luce alla macchina da presa stessa). Lavori ottici e ltri non sono permessi. Il lm non deve contenere azione super ciale. (Omicidi, armi, etc. non devono accadere). L’alienazione temporale e geogra ca non è permessa. (Questo per dire che il lm ha luogo qui ed ora). Non sono accettabili lm di genere.

L’opera nale va trasferita su pellicola Academy 35mm, con il formato 4:3, non widescreen(99). Il regista non deve essere accreditato. Inoltre giuro come regista di astenermi dal gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un’‘opera’, perché considero l’istante più importante del complesso. Il mio obiettivo supremo è di trarre fuori la verità dai miei personaggi e dalle mie ambientazioni. Io giuro di far ciò con tutti i mezzi possibili ed al costo di ogni buon gusto ed ogni considerazione estetica. Così io esprimo il mio VOTO DI CASTITÀ. Copenaghen, lunedì 13 marzo 1995 A nome del DOGME95 Lars von Trier, Thomas Vinterberg”(100) Oggetto delle regole è la produzione cinematogra ca e non il contenuto dei lm, se non il divieto di ‘azioni super ciali’ (armi e omicidi) e dei lm di genere convenzionali(101). Come spiega la sezione FAQ del sito web dedicato, il regista era dunque costretto, come in un gioco, “a trovare soluzioni creative” ai problemi posti dalle limitazioni(102). A riguardo, Lars von Trier ha precisato: “Il controllo è un punto chiave nella mia produzione e nella mia vita”(103). Dogme95 e le sue imposizioni derivano infatti da un desiderio di sottoporsi a delle regole e ad un’autorità, elementi che sono mancati a von Trier quando era bambino. L’educazione del regista, avvenuta in un ambiente hippy-marxista e libero, che egli descrive in modo pungente come “umanistico, culturale di sinistra”, lo ha lasciato senza legami e profondamente impaurito. “Essere troppo libero è tanta responsabilità per un bambino. Ti procura tanta ansia”(104). Prima di Dogme, il regista ha confessato di essersi sentito strangolato dalla libertà, dalle opzioni: il colore di un lm doveva sempre essere giusto, le sceneggiature richiedevano anni per essere scritte, gli attori venivano trattati come oggetti di scena da spostare all’interno della metodologia visiva; il regista

desiderava invece l’immediatezza, i momenti succosi e veritieri che nascono dal caos controllato(105). Dunque, il decalogo è il frutto di una necessità egoistica di darsi una cornice entro cui dare spazio alla libertà creativa, senza cadere nell’abisso del vuoto di controllo, per sfuggire alla rigidità e recuperare un’innocenza perduta: le regole dunque “[…] esprimono il desiderio di fare qualcosa di molto semplice”(106). In questi termini, Dogme95 non è che uno sviluppo di istanze cinematogra che già precedentemente presenti, giunte a uno stadio di maturazione ulteriore. Anche sotto Dogme95, infatti, vi è la ricerca di un e etto visivo attraverso il mezzo cinematogra co che non sia illusorio e cosmetico ma sincero, per trarre fuori autenticità da personaggi, da ambientazioni e da suoni, contro ogni convenzione, buon gusto e considerazione estetica. La rivoluzione sta quindi nell’aver messo nero su bianco delle regole ed aver scelto la semplicità al manierismo. Come un dogma religioso che si rispetti, “Dogme95 contiene alcune impossibili, paradossali regole”(107). Ad esempio, la soppressione della drammaturgia che von Trier stesso ha voluto perseguire, andando oltre il Voto di Castità, era più che altro la tensione verso una struttura narrativa priva di ogni elemento super uo, di ogni costrizione abituale ed elemento di rigidità, che sporcasse il raggiungimento della purezza(108). Il Voto di Castità era dunque costituito di linee guida piuttosto che di regole, di cui von Trier stesso dice di aver avuto bisogno all’epoca(109). Il lm ad essere Dogme #1 – ossia certi cato come primo conforme a Dogme95 – è stato il lm Festa in famiglia (Dogme #1 – Festen) di Vinterberg del 1998, acclamato dalla critica e vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes di quell’anno(110). Le onde del destino del 1996, con il quale avrà inizio la nuova trilogia del ‘Cuore d’Oro’ post Dogme95(111) che consacrerà internazionalmente Lars von Trier, sarà fortemente in uenzato dalle regole del movimento ma non le rispetterà in toto – infatti verranno utilizzate scenogra e costruite, musiche non diegetiche e

gra ca computerizzata – e non avrà alcun attestato di conformità: infatti, per essere considerati Dogme95, i lm dovevano ottenere apposita certi cazione con numerazione conseguente (Dogme #[…], in base al posizionamento nella lista dei lm Dogme95) attraverso una richiesta da trasmettere al board del movimento, dapprima autorizzativa; successivamente autocerti cativa – dal 1998 in poi(112) – in cui il regista giurava di aver aderito pienamente al Manifesto Dogme95 e al Voto di Castità e pertanto chiedeva che venisse rilasciato e trasmesso un certi cato di conformità. Il Dogme #2 – Gli idioti di von Trier, scritto in soli 4 giorni(113), girato in 5 settimane per circa il 90% da von Trier stesso con una videocamera portatile per dilettanti(114), venne presentato anch’esso a Cannes nel 1998(115), suscitando polemiche: hanno fatto scalpore le scene dell’orgia che hanno reso il lm il primo di tipo mainstream a includere sesso non simulato(116), così come il fatto che la trama giri attorno a personaggi che si ngono disabili. Tralasciando sterili discussioni, considerando assieme a Pasolini in Comizi d’amore (1965) che chi si scandalizza è psicologicamente incerto e praticamente un conformista, se Epidemic era un lm su von Trier, Gli Idioti è un lm su Dogme95, oltre ad esserne in linea con i dettami: “L’idea base del lm mi è venuta nel momento stesso in cui abbiamo scritto il manifesto. Ho pensato ad un gruppo di persone che scelgono di comportarsi come degli idioti, tutto qui”(117). L’opera infatti è un lm su un collettivo – il gruppo di amici antiborghesi che vive nella villa di Copenaghen ed in cui si imbatterà la protagonista Karen (Bodil Jørgensen) – ed è un lm su un metodo – la tecnica del ngersi disabili in pubblico de nita con il neologismo ‘spassing’, derivante da ‘spasser’ che è l’equivalente danese di spastico; si potrebbe dire che l’idea stessa di ngersi un personaggio di fronte ad un pubblico è elemento fondante del fare cinema(118). In un esperimento sociale che ricorda le prassi e le azioni dei gruppi e dei movimenti di sinistra degli anni ‘60 e ‘70, lo spassing è il metodo per recuperare qualcosa di

autentico, cogliere l’emozione nuda del momento, tanto più scomoda o inquietante quanto meglio: in questo, il lm è un’indagine sul valore delle ‘zone di con ne’ al di là dell’identità socializzata, del ruolo costruito – la psicologia e la spiritualità del liminale e del grottesco esplorate ne Il regno e ne Le onde del destino(119). Inoltre, immaginata e scritta prima del resto, la scena nale è la ragion d’essere del lm e, come spiega Jens Albinus (l’interprete del personaggio centrale ‘Sto er’), il gruppo “doveva spingere il resto del lm verso di essa”(120). Si ripercuoterà sovente nei lavori di Lars von Trier ed è fortemente carica di pathos – simile negli e etti al nale di Epidemic – no a raggiungere l’apice del climax al momento dello schia o: “L’unica cosa che posso dire è che c’è un punto di fascino in cui mi imbatto all’improvviso e quando lo metto insieme ad altre cose – se abbiamo un punto di ispirazione e poi lo bombardiamo da tutti i lati con cose diverse – è lì che lavoro meglio. Ma ci vuole un punto di fascino”(121). Nel cogliere vibrazioni di passione, in termini poetici si direbbe che von Trier abbia l’istinto e i ri essi del poeta: Norman Rosten disse questo sulle virtù artistiche di Marilyn Monroe. Per il regista danese, ciò è vero in termini puramente cinematogra ci, in quanto von Trier è prima di ogni altra cosa regista, diversamente da Pasolini che nasce poeta. Norman Rosten proseguì a ermando che la Monroe, tuttavia, non possedeva le capacità per gestire la sua dote. A di erenza del regista danese che, proprio nel bombardarvi attorno, da ogni angolo, segue un metodo che è tecnica artigiana capace, messa in atto, sperimentata e innovata nel corso del tempo, sottoposta alle s de di ostruzioni mai uguali alle precedenti. Von Trier è infatti in costante sperimentalismo, sconfessando persino se stesso: “Per me è un esperimento, perché faccio sempre qualcosa che non ho mai fatto prima, ma non li chiamerei esperimenti. È solo come vedo… darmi un compito. […] Se ti piace qualcosa, vuoi che si sviluppi. Mi piacciono molto i lm e credo che tutti i lm che mi piacciono davvero abbiano spinto un po’ il mezzo. Se ami una donna, un uomo

o qualsiasi altra cosa, vuoi che questa persona si sviluppi. Vuoi liberare un po’ questa persona. Mi piace pensare di fare questo con il cinema”(122). Karen è l’ultima arrivata, persino non viene inclusa nel gioco della bottiglia che deciderà chi dovrà applicare la tecnica dello spassing nella vita di tutti i giorni. Eppure, Karen sarà l’unica a riuscire nella s da, perché “si può praticare la tecnica – la tecnica del Dogme o la tecnica dell’idiota – da oggi all’altro mondo senza che ne esca nulla, a meno che non si abbia un desiderio profondo e appassionato e la necessità di farlo. Karen scopre di aver bisogno della tecnica, e quindi questa cambia la sua vita”(123). Girati e montati in video (trasferiti su 35mm), i lm Dogme #1 e Dogme #2, entrambi presentati nello stesso anno a Cannes, hanno dimostrato la rivoluzione digitale in atto e hanno contestato la pratica cinematogra ca per la prima volta dagli anni Sessanta(124). Gli idioti in particolare aggredisce lo spettatore con immagini sgranate, apparecchiature sonore a vista, movimenti di macchina discontinui e inquietanti tagli di montaggio. Godard stesso ha chiesto e proiettato il lm: “Penso che no a Gli idioti, [Godard] pensava fosse spazzatura quello che facessi. Ora, forse, ho, beh, […] fatto ritorno a casa”(125). In tutto, i lm certi cati Dogme95 sono stati 35; il movimento si è sciolto nel 2005, dieci anni dopo la sua nascita. Gli idioti è stato l’unico lm di von Trier a ricevere la certi cazione, anche perché nelle intenzioni del movimento, i registi avrebbero dovuto realizzare solo una opera conforme: “una volta che ne hai fatto uno e imparato dalla tua esperienza – disse von Trier – non c’è bisogno tu ne faccia un altro. Questa possibilità esiste laddove nel futuro, la tua creatività ancora una volta necessiti un soggiorno in questa spartana spa cinematogra ca”(126). Nel solco del suo sperimentalismo, nel 2001, inoltre, Lars von Trier pubblicava un nuovo manifesto contenente nove regole per i lm documentari intitolato “Il codice

documentaristico per il ‘Dogumentarismo’”(127), riprendeva molto l’impostazione del Voto di Castità.

che

La tecnologia

Dogme95 ha voluto altresì prendere posizione nei confronti della tecnologia. Il movimento apriva all’utilizzo delle videocamere digitali (con l’obbligo di trasferire il girato su 35mm(128)), in un periodo in cui v’era ancora il culto della pellicola. Anzi, si lodava il fatto che attraverso i nuovi strumenti resi disponibili dallo sviluppo tecnologico, attraverso il Voto di Castità stesso, era possibile per chiunque, non solo ad Hollywood, realizzare un’opera cinematogra ca signi cativa, convincendo gli scettici che la macchina da presa digitale presentava anche speci ci vantaggi estetici. Allo stesso tempo, la democratizzazione doveva pur sempre coniugarsi con l’obiettivo del raggiungimento della autenticità pura e semplice e la nuova tecnica non doveva implicare un trionfo di illusori abbacinamenti visivi: in ciò è racchiuso anche il personale rapporto che nel tempo Lars von Trier ha avuto con le novità della tecnica: “Non direi questo [che sono un grande fan della tecnologia]. Penso che la tecnologia adesso sia grande, perché rende fare lm così semplice, sai. Prima, quando ero giovane, tutti avrebbero detto, No, non puoi fare lm, è troppo di cile fare lm. Che è sempre stato una bugia, è sempre stata una bugia il fatto che sia di cile fare lm. Ma ora nessuno ci crede più, a causa della tecnologia. Questa è la cosa più importante da insegnare a una giovane persona, che non è di cile”(129). La conoscenza, accademica, scienti ca, non è dunque indispensabile. Allo stesso tempo, però, sull’elemento ‘ lmico’ raggiungibile attraverso i nuovi strumenti tecnologici: “Il problema è che ora il lmico è diventato così facile, […] compri un computer e hai l’elemento lmico, non so quanti eserciti che si scatenano su una

montagna e bla bla e dragoni e qualsiasi cosa, e premi un bottone e… io penso che fosse ok essere lmico quando Kubrick dovette aspettare due mesi per questa luce sulla montagna proprio dietro Barry Lyndon quando lui sta cavalcando verso di noi, io penso che questo sia grande, ma se devi solo aspettare due secondi e poi un idiota compra un computer, mettendo solo ombre e bla bla bla, non lo so… è un’altra forma d’arte son sicuro ma non sono interessato a ciò, è come manipolare ad un livello tale a cui io non vorrei essere manipolato e io non vedo questi eserciti andare sulle montagne, io vedo solo qualche giovane al computer con ‘facciamolo, facciamolo con un po’ più di buon gusto, mettiamo un po’ d’ombra qui, togliamo i colori un pochino… è estremamente ben fatto, e non mi commuove per niente ed è perché sono più grande ora, perché quando ero più giovane sono sicuro che mi avrebbe commosso, sarebbe stato fantastico ma ora che sono più grande devo essere ostinato e dire ‘torniamo alle vecchie virtù, ai vecchi valori’”(130). In questo senso, anche l’utilizzo ormai imperante dei droni è fortemente criticato in quanto rende troppo semplice il lavoro, rispetto ad esempio alle inquadrature dall’alto realizzate attraverso l’utilizzo parecchio costoso di elicotteri, con conseguenti frequenti problemi tecnici e operativi: ora invece chiunque mentre fa una passeggiata può portare con sé un drone nella tasca e “lanciarlo in aria, così da fare delle riprese dall’alto: è di cattivo gusto! Non dovrebbe essere troppo semplice”(131). Pure la democratizzazione dei mezzi raggiunta, tanto declamata nel Manifesto Dogme95, non è stata pienamente soddisfacente: “I media sono esplosi. A mio avviso, purtroppo, non succede nulla. Avrei pensato che quando apparecchiature come quelle che state usando e persino un telefono possono produrre immagini in 4k, migliori di quelle dei grandi cinema, ci si sarebbe aspettati un’esplosione di creatività e nuovi sviluppi. Non lo vedo. Non vedo le novità, ma sento parlare di ciò che sta

accadendo. Non ha esattamente sfondato”. Non convince, in ne, la realtà virtuale, che contrasta con uno dei capisaldi del fare arte secondo il regista: “Non vedo un futuro nella realtà virtuale, ma è possibile che arrivi. Ma proprio perché la realtà virtuale dà libertà allo spettatore, non credo che sia il modo di fare arte. Credo che tutta la buona arte venga creata in condizioni dittatoriali. Quindi le persone devono godere di essere guidate. Ho già detto che è una Foresta Nera quella che le persone devono attraversare e loro sono spaventati. Ma se hanno un amico che dice ‘conosco la foresta’ loro lo seguiranno felicemente, e si divertiranno; questo è il mio principio”(132).

Automavision

Lars von Trier ha a suo modo utilizzato i nuovi strumenti o erti dal progresso tecnologico per il raggiungimento dei propri precipui obiettivi. Al Festival di Cannes 2005, Trier annunciò il rinvio di Washington, il capitolo nale della trilogia ‘USA – Terra delle Opportunità’ – susseguente alla trilogia del Cuore d’Oro ed incominciata con Dogville (2003) e proseguita con Manderlay (2005) – , per mancanza della ‘maturità’ necessaria(133) (il lm non verrà mai realizzato, con la conseguenza che la trilogia è divenuta una ‘duologia’). Poco prima di compiere cinquant’anni, nel maggio del 2006 – dopo il marzo 2005 che aveva segnato il primo decennio di Dogme95 nonché lo scioglimento del movimento – il regista danese pubblicava uno “Statement of Revitality”(134) con cui comunicava la sua intenzione di ridimensionarsi nel tentativo di “ritrovare il mio entusiasmo originario per il cinema”, sostenendo di “essersi sentito sempre più oppresso da abitudini e aspettative sterili, mie e altrui”. Questo ha signi cato una riduzione delle pubbliche relazioni e dei lanci in “festival cinematogra ci esotici e prestigiosi”, una routine meno strutturata e il tempo per sviluppare sceneggiature e soddisfare “le mie esigenze in termini di curiosità e gioco”. Rinunciando (anche se temporaneamente) al suo ruolo di provocatore in carica nel mondo del cinema, presentò il suo successivo lm, una commedia di 99 minuti, nella sua terra natale, al Festival Internazionale del Cinema di Copenaghen: Il grande capo (Direktøren for det hele) del 2006, per i temi trattati considerato da alcuni come epilogo nale della trilogia sull’America, in virtù di una coincidenza semantica tra capitalismo e Stati Uniti. Il nuovo lm “non è

politico e mi sono divertito a farlo”, ha tuttavia sottolineato il regista, prima di aggiungere che “naturalmente le buone commedie non sono innocue”(135). Nelle interviste ha citato le ‘screwball comedies’(136) – Susanna! (Bringing Up Baby) (1938), Scandalo a Filadel a (The Philadelphia Story) (1940) e Scrivimi fermo posta (The Shop Around the Corner) (1940) – come ispirazione e il lm è altrettanto ricco di intrecci sessuali farseschi, donne intelligenti e aggressive e uomini passivi-aggressivi(137). Non colpisce il fatto che von Trier si sia cimentato nel genere della commedia, dandone la propria personale variazione, tra le stanze di una multinazionale presidiata da un ‘grande capo’ che, come il mago di Oz, non esiste, o meglio è mascherato dietro l’attore protagonista (Kristo er interpretato da Jens Albinus, lo stesso che comparì in Gli idioti), i cui ambienti freddi e vacui ricordano le scene del documentario The Corporation (2003), con una popolazione di dipendenti parecchio bellicosi e grotteschi. Nella prima inquadratura, accompagnata da una voce fuori campo iniziale, una gru si arrampica su un edi cio di u ci di periferia, no a una nestra che ri ette il regista dietro la macchina da presa con il suo cappello a calza: “Se guardate bene potete vedere il mio ri esso, ma questo lm non vale un attimo di ri essione”, dice con un gioco di parole(138). Al di là dei temi trattati, quello che è particolarmente interessante per Il Grande capo è il modo in cui il lm è stato girato, fatta eccezione per le tre intrusioni narrative segnate dagli zoom: una tecnica innovativa inventata da von Trier stesso, nella prosecuzione all’eccesso – e in senso opposto – di uno dei suoi capisaldi ossia la telecamera condotta a mano: Automavision, una cinepresa ssa gestita da un computer, programmato per scegliere quando e ettuare panoramiche, inclinazioni, zoom e così via: “Avevo bisogno di una forma che si adattasse alla commedia” e di uno stile che non fosse “umano”, che fosse “libero da intenzioni”(139). Descritto come “un principio di ripresa sviluppato con l’intenzione di limitare l’in uenza umana invitando il caso a entrare dal freddo”, Automavision impone la casualità ed

“è stato un sacco di divertimento”(140). Concepito come uno stupido scherzo ne a se stesso, è una ulteriore tappa dell’evoluzione del regista che implica una rottura totale con il passato. In un progetto originariamente annunciato come il suo secondo lm Dogme, segna infatti un’altra svolta di 180 gradi: l’abbandono della macchina da presa condotta a mano, che era il marchio di fabbrica di Dogme95 nonché presenza signi cativa nei lm successivi (Dancer in the Dark, Dogville e Manderlay). Volgendo lo sguardo ancora più indietro, Automavision è stata un’inversione totale dei ‘match cuts’, della codi ca dei colori, delle texture patinate e delle costruzioni intricate e strati cate che il giovane mago della tecnologia aveva applicato in modo ossessivo nei suoi primi anni di attività (in particolare durante la trilogia Europa) e a cui sarebbe ritornato nell’inversione ultima della sua carriera(141). Angoli, colori e livelli sonori saltano in modo irregolare e “quasi ogni taglio sembra un’ellissi”, con la conseguenza che il “ritmo abrasivo dà alla sua commedia un taglio ansioso”(142). Il metodo (o la sua mancanza) aggiunge “uno strato di profondità”, rendendo i personaggi “ingranaggi della macchina aziendale”(143), dato che il loro discorso è spesso bloccato dalle immagini inaspettatamente catturate di macchine del ca è o monitor di computer, e capita che i volti umani vengano lasciati ai margini dello schermo, dimezzati, decapitati o fatti sparire del tutto dall’inquadratura. Nel display subentra dunque l’ansia degli attori di trovare la propria posizione, imponendola agli spettatori che condividono la loro stessa situazione non sapendo dove guardare. L’Automavision ossia la tecnica corrisponde perfettamente al ‘grande capo’ espatriato, al protagonista assente della storia che ci viene rappresentata: un costrutto progettato per assumersi la responsabilità da una distanza astratta, mentre il vero capo Ravn (interpretato da Peter Gantzler) intende fuggire con i pro tti dell’azienda(144). Automavision è una evoluzione di Dogme e forse “ci mostra quanto siamo vicini al momento in cui i lm saranno diretti da macchine invece che da

artisti. Forse ci sta dicendo che ci siamo già arrivati”(145). Il regista, dunque, continua a sperimentare con la forma, nel trovare nuove rotte – dopo Dogville – nell’interazione con il pubblico. Come ipotizzò lo stesso von Trier prima dell’uscita del lm, “il 70% del pubblico non lo vedrà nemmeno”(146) o lo attribuirà a qualche variazione dello stile Dogme; la restante percentuale presumibilmente noterebbe la novità, ne sentirebbe parlare o ne leggerebbe, e imparerebbe a giocare a questo gioco, in cui gli spettatori sono s dati a scoprire (e a creare) la continuità tra le riprese(147). Ne Il grande capo, von Trier usa la macchina da presa come arma paradossale nella sua continua lotta contro la meccanica, una lotta per tornare a ciò che è imperfetto e umano nell’esperienza del cinema – in breve, per rinunciare, interamente, al controllo. Ancora una volta le questioni personali di Lars von Trier vengono astratte dal particolare ad un livello generale di discorso cinematogra co di tipo sociale, addirittura tecnico-formale e, a tratti, meta sico, in un lm con forti accenni ai rapporti di potere sadomasochistici del capitalismo aziendale. Automavision ha reso altresì le cose non ‘semplici’ – dal punto di vista operativo – piuttosto che il contrario. Ciò Lars von Trier lo riconduce al principio delle ostruzioni(148), che è fondamentale nella sua produzione cinematogra ca; difatti, il Voto di Castità di Dogme95 non è stato altro che un’esplicazione dello stesso in uno speci co decalogo.

Il principio delle ostruzioni

Di questo principio se ne dà atto nel lm Le cinque variazioni (De fem benspænd), presentato al Toronto Film Festival l’11 settembre 2003, diretto da Lars von Trier assieme al suo amico e mentore Jørgen Leth, altro rinomato regista danese. Il lm è concepito come un documentario che registra la s da lanciata da von Trier a Leth, che la accoglie: replicare per 5 volte The Perfect Human (in danese Det perfekte menneske) – un cortometraggio cult di Leth del 1967 che viene de nito come il lm preferito di von Trier – ogni volta con una diversa ‘ostruzione’ (o ostacolo) imposta da von Trier stesso. Dunque, delle regole ferree eterodeterminate, che sono volte a modi care la tecnica di Leth, caratterizzata da professionalità e distacco, la quale gli permette di creare lm belli ma gli impedisce di “cadere” come vorrebbe von Trier, esperienza che lascerebbe su di lui dei “segni” e gli consentirebbe di crescere: realizzare dunque lm brutti, in uno scontro fra due modi diversi di pensare e di fare cinema, seppur, a detta dello stesso von Trier, le ‘ostruzioni’ erano in realtà per lui stesso, piuttosto che per Leth: “è uno strano processo”(149); che non deriva unicamente dal bisogno di liberarsi del controllo, che sicuramente è fondamentale. Giuseppe e i suoi fratelli (titolo originale Joseph und seine Brüder), romanzo in quattro parti dello scrittore tedesco Thomas Mann – di cui von Trier è grande ammiratore – , ne è un esempio lampante. Secondo von Trier si tratta di un romanzo eccezionale diverso dagli altri di Mann, di cui è evidente che “gli sia venuto facile” mentre “tutti gli altri libri tendono verso il pesante”(150); ha infatti

una leggerezza che deriva dall’ostruzione ‘Così dice la Bibbia’ in esso contenuta; l’ostruzione, dunque, scarica la tensione del controllo e, allo stesso tempo e in maniera analogamente importante, rende l’opera un gioco piuttosto che un dovere, secondo von Trier. Anche Per Kirkeby odiava la tela bianca e si avvaleva di un assistente che vi pitturasse sopra qualsiasi cosa, in modo da avere un punto di partenza. L’ostruzione, dunque, come necessità e come opportunità, poiché “la totale libertà non è artisticamente interessante, stranamente”(151). Così Tarkovskij ha realizzato i suoi migliori lm quando era in Unione Sovietica, circondato dal pesante ed oppressivo apparato comunista, mentre quando si trovava in Svezia o in Italia le sue opere non raggiunsero le stesse vette. Così come gli atleti o i performer del circo, che rendono le cose gradualmente più di cili per migliorare le prestazioni: bisogna avere “una catena attorno al collo”(152). Anche Il regno, che ebbe un successo incredibile di pubblico, è una serie TV nata da un’ostruzione che von Trier de nisce molto ‘popolare’: il bisogno di soldi dell’artista povero. Un uomo arrabbiato della Danish Broadcasting Corporation chiamò chiedendo il titolo della serie TV a cui il produttore Peter Aalbæk Jensen aveva costretto von Trier e Vørsel a cimentarsi. I locali della compagnia Zentropa all’epoca si trovavano in Ryesgade e si a acciavano con nestre panoramiche davanti al Rigshospitalet di Copenaghen: così – come “l’atterraggio di una bianca colomba”(153) – venne l’idea a von Trier di intitolare la serie Riget (Il Regno), da ambientarsi nello stesso edi cio mastodontico dell’ospedale. I due si divisero le scene e scrissero quanto richiesto, facilmente, senza pensarci troppo, spinti dalla necessità dei soldi e di far sopravvivere la compagnia. Quindi le ostruzioni, che sono volte altresì a permettere la realizzazione di qualcosa che duri, che vada contro i cliché destinati ad annegare nel usso culturale, anche “perché sono un grande oppositore della drammaturgia in generale”(154): “Mi impegno molto, ma è di cile quando sei cresciuto con Paperino, che secondo me ha un grande peso

drammaturgico. Se scomponi le storie di Paperino, sono raccontate come i lm mainstream.” Tra Ibsen e Strindberg, ad esempio, pur riconoscendo ad Ibsen di aver reinventato la drammaturgia rendendola più e ciente(155), von Trier considera Strindberg come “meravigliosamente pazzo e quindi crea cose completamente impreviste […] erano due opposti. Sono sicuro che Strindberg vivrà molto più a lungo di Ibsen, sebbene Ibsen sia stato una pietra fondante dello sviluppo del teatro”(156); “il problema è che le cose diventano cliché perché poi diventano parte dello sviluppo della storia culturale – dice Lars von Trier – e quindi non dureranno”(157). Le ostruzioni possono servire dunque per realizzare lm, da un lato, caratterizzati da immediatezza e leggerezza – così come Mann con Giuseppe e i suoi fratelli(158) – , dall’altro lato, ricercatamente slegati da canoni drammaturgici che impigliano l’espressività: “Spero di riuscire a fare un lm in modo intuitivo. Ma sono bloccato nel pantano. Il pantano della drammaturgia”. Come spiegato da von Trier stesso, non è possibile rifuggire completamente dalla drammaturgia in un lm, poiché sarebbe come per un uomo vivere evitando di respirare: qualsiasi scelta tu faccia in tal senso, “è drammaturgia”(159). Ad ogni modo, guidato dalle ‘ostruzioni’, von Trier ha trovato modi nuovi e sperimentali di fare cinema sbarazzandosi di elementi ritenuti da altri indispensabili e irrinunciabili. I suoi lm sono provocatori non solo nel contenuto, ma anche nella forma: egli quasi s da lo spettatore a non avere una forte reazione a ciò che crea(160). “Uno mi chiese una volta all’università: ‘Come fai a far andare le persone al cinema?’ E io risposi che non è fondamentale come obiettivo far andare le persone al cinema a meno che non li si voglia allontanare dagli angoli delle strade. Perché [l’obiettivo] era fare lm che avrebbero vissuto. E potrebbe essere che vivano solo 20 anni, o che altro ne so, ma in qualche modo ho apportato le risorse per questo”. Fare lm che durino quindi, con la precisazione che: “La mia ambizione con il cinema è stata quella di espandere in qualche modo il mezzo”(161).

Il genere di Lars von Trier

“Le Convenzioni, i Generi, di cui si favoleggiava a scuola che fossero stati liquidati da Benedetto Croce, sono invece come gli dèi: scompaiono, a tratti, ma per migrare e riapparire, camu ati e ringiovaniti, in altre terre. Nel nostro secolo è accaduto questo singolare fenomeno: che i Generi e le Convenzioni, evacuata la letteratura e il teatro, hanno migrato nel cinema. Anzi, più precisamente, si sono impiegati a Hollywood. Ed è anche per questo che oggi un romanzo medio è quasi un a ronto, mentre in un lm medio si potrà (quasi) sempre scoprire qualcosa, e soprattutto lo si seguirà senza rancore. Perché il romanzo medio presuppone scioccamente di fondarsi su una Convenzione vivente, che invece gli è stata sottratta, mentre il lm, anche nella totale inconsapevolezza, è attraversato ancora dalla forza della Convenzione”(162). Che rapporto ha avuto von Trier con le Convenzioni, con i Generi? Nei suoi lm, soprattutto nei più recenti, la pratica del pensiero cinematogra co del regista ha lavorato direttamente attraverso di essi, i quali sono stati rielaborati e interrogati. Il regista ha dimostrato di partire da “convenzioni esistenti nei modelli e nelle strutture di genere e poi si fa qualcosa di nuovo con esse”(163). Per von Trier, si tratta di prendere ciò che è disponibile e renderlo “molto personale”: “Questo è in parte dovuto al fatto che i lm di genere sono ben noti, chi va al cinema li conosce. Il mio pensiero è che se si vuole fare qualcosa di veramente diverso, lo si deve fare in una sola parte del lm. Quindi il fatto che si tratti di un… beh, il nuovo lm parla di un serial

killer [La casa di Jack]. Quindi sei già un po’ calmo e pensi che potrebbe essere divertente. E io quindi lo rendo un po’ di erente.” Per Jenle Hallund – che ha lavorato in maniera signi cativa assieme a von Trier per i suoi due ultimi lungometraggi – , il regista prende “un’idea di genere e poi trova il personaggio su cui vuole fare un lm, e poi è assolutamente fedele al personaggio e non al genere”(164). Lavorare con il genere signi ca dunque decostruirlo ed innovarlo, non completamente, ma in parte soltanto: fornirvi la propria personale variazione, come una fra le molte varianti di un mito. Nei suoi lm post-malattia – ossia Antichrist, Melancholia, Nymphomaniac e La casa di Jack – , ad esempio, è possibile notare come il regista si sia dilettato a snocciolare un genere trito e ritrito e a trasgredire i con ni del gusto attraverso una discordante commistione tra un genere ‘basso’ e il lm d’autore(165). Due esempi sono emblematici di tale approccio: Dancer in the Dark e Antichrist. Dancer in the Dark utilizza e sovverte un genere intrinsecamente americano: il musical(166). Ultimo lm della trilogia del ‘Cuore d’Oro’, dopo Gli idioti anch’esso girato da von Trier come operatore di macchina, Björk interpreta Selma, un’operaia che sta lentamente diventando cieca e il cui unico conforto è rappresentato dagli stravaganti numeri musicali che crea nella sua immaginazione: gli eccentrici intramezzi sonori rappresentano la dissociazione della protagonista, la cui sensazione viene accentuata sia attraverso la texture dell’immagine – il colore cambia improvvisamente in un registro più vibrante – sia attraverso il montaggio, in cui le performance sono sezionate e frammentate dalle cento telecamere sse(167), che dà contestualmente l’idea di un vortice allucinatorio nonché di una felice realtà alternativa in fase di immaginazione(168). Non è dunque uno sfarzoso musical in Technicolor della MGM; non si rinvengono innumerevoli corpi femminili su un palcoscenico che si dilata senza ne: il lm, che alterna la libertà delle telecamere digitali(169)

condotte a mano e lo sperimentalismo rigido e costruito delle scene musicali, combina asprezza e intimità, anche in questo caso in un doppio strato narrativo. Sotto certi aspetti visivamente poco attraente, con alcune recitazioni di supporto piuttosto amatoriali, la trama diventa sempre più ridicola man mano che il lm va avanti e, allo stesso tempo, l’intensità ascende incredibilmente in un climax straziante. Björk ha vinto il premio come miglior attrice a Cannes per questo lm: la donna incarna completamente il ruolo di Selma ed è quasi impossibile non immedesimarsi nella sua lotta man mano che il lm procede e le sue condizioni diventano sempre più terribili. “Questa volta il compito era di fare un musical [Dancer in the Dark]. E questo è ciò che ne è venuto fuori. Forse non sembra un musical convenzionale, ma per me è un musical. Quindi non sto cercando di cambiare nulla. Questo è ciò che ne è venuto fuori”(170). Von Trier gravitava da diversi anni verso il genere horror e nell’autunno del 2006, prima che la sua depressione diventasse così debilitante da indurlo a farsi ricoverare nel reparto psichiatrico del Rigshospitalet(171) – proprio quello in cui è ambientata la saga de Il regno – , aveva in mano una sceneggiatura preliminare – scritta da Anders Thomas Jensen a partire da scarti, appunti e riassunti della trama che von Trier aveva annotato tra il 2004 e l’agosto 2006. Per il regista, l’attrazione al genere horror derivò proprio dall’ansia “con cui ho a che fare ogni giorno o che non ho a che fare e che posso usare in questo lm”, con la consapevolezza che fosse meglio farne uso piuttosto che so rirne. La versione preliminare della sceneggiatura di Antichrist si occupava di un paziente uomo trattato da una terapista donna, in un’impostazione narrativa che venne ribaltata con la seconda bozza risalente al 2008 e, in ne, con la versione de nitiva del lavoro(172). Antichrist è un urlo, come l’urlo di Munch – da cui trae ispirazione – o meglio, per citare il lm, “il pianto di tutte le cose che sono destinate a morire”(173). Scritto e diretto da

von Trier successivamente ad un intenso periodo di depressione, è il primo lm della cd. trilogia della ‘Depressione’ (Antichrist, Melancholia e Nymphomaniac), la quale, tuttavia, è una fantasia creata dai fan e dai critici. Antichrist contiene una rappresentazione visceralmente intensa della depressione e dell’ansia, grazie alle scene di violenza sica e alle interpretazioni impegnate di Charlotte Gainsbourg (‘She’) e Willem Dafoe (‘He’). In particolare, l’interpretazione della Gainsbourg, nei panni della madre in lutto, le è valsa il premio come miglior attrice a Cannes. L’opera si rifà ai lm dell’orrore giapponesi, di cui von Trier ne vide a bizze e all’epoca, in quanto diretti alla rivelazione “perché non hanno una storia ssa. Possono accadere un sacco di cose assurde e non ti importa perché rientrano nel quadro di questo lm di genere. Finché fa paura non ci interessa. È una forma di lm molto più libera, credo, in qualche modo”(174). Ascriverlo al genere horror, sarebbe tuttavia riduttivo: il lm è innovativo perché corre sul doppio binario di realismo e misticismo, le cui traiettorie si intersecano piuttosto che correre parallele, nonché di orrore a ancato da un umorismo inquietante e nero come la pece. Immagini vivide e realistiche del dolore contrastano poi con l’uso massiccio della teologia e del folklore per rappresentare una presenza apparentemente soprannaturale. In ne, momenti brutti ed estremi del lm si contrappongono a scene pittoresche di bellezza e persino a momenti che, intenzionalmente o meno, risultano piuttosto divertenti (e.g. la volpe parlante). In contrasto con i lm horror, “i tropi dell’orrore non sono tanto sovvertiti quanto sono… resi radicalmente ambigui: queste incarnazioni mostruose non reprimono le energie libidinali che alimentano, ma articolano l’orrore sottostante più fondamentale e più terri cante della di erenza sessuale in tutta la sua incommensurabilità”(175). Pieno di un simbolismo tematico così denso e di estremi emotivi apparentemente paradossali, Antichrist sarà una svolta nella produzione cinematogra ca di Lars von Trier: con esso, infatti, il regista e ettua una brusca virata dalle

tematiche di politica culturale che hanno intessuto, consapevolmente o meno, i suoi lm da Dogme95 alla duologia ‘USA: Terra di opportunità’ no ad arrivare a Il grande capo(176). I temi trattati nella duologia appena citata, ad esempio, hanno riguardato il viscido humus gravido di orrori della storia americana, attraverso l’uso di un design di produzione scarno e di architetture assenti, in un gioco di luce che de nisce i corpi seguendo la lezione di Caravaggio: in particolare Manderlay(177), il secondo lm della trilogia mai terminata, vede von Trier tornare al teatro minimalista di ispirazione brechtiana, utilizzato in Dogville, e tratta in maniera schietta la storia della schiavitù in America. Lo stile audace non riesce tuttavia ad evitare che il lm sembri un Dogville meno intenso ed e cace, di fronte al cui carattere magistrale non può che uscirne ridotto; di Manderlay(178) Lars von Trier ne ha parlato come di una delusione, de nendolo troppo “lucido” e troppo “noioso”: all’epoca pensava di essere maturo abbastanza per continuare a fare lm nello stesso stile, ma ammise che questa modalità di lavoro “non funziona” per lui(179). Nonostante i suoi difetti, il lm riesce comunque a rappresentare verità inquietanti e scomode sulla natura umana e sulla storia degli USA con una sfacciataggine intrisa di satira a mo’ di Lars von Trier. L’esperienza di Manderlay è importante perché dimostra le di coltà che il regista sente di aver vissuto nell’incanalarsi in uno schema già tracciato – seppur da lui stesso – , privo dell’apporto innovativo della ‘variazione personale’ al genere. Vari generi, varie tecniche, eppure li conduttori tematici che emergono come creste di onde. E, piuttosto che rappresentare ciò che è qui, ciò che è presente, vi sono sovente riferimenti simbolici e allegorie nelle sue opere, che dirigono gli spettatori verso una dimensione ultronea; ciò è lampante nella saga de Il regno, dove le vicissitudini quotidiane del Rigshospitalet avvengono in corridoi su cui accedono porte verso mondi ultraterreni; sugli elementi simbolici e allegorici, Lars von Trier ha a ermato: “è una sorta di trucco da quattro soldi per far sembrare le cose un

po’ più monumentali […] è come una cornice dorata intorno a un’immagine che la distingue dalla parete su cui è appesa e ri nisce il quadro e diventa più chiara”(180). Il genere è “allegoria o… mitologia… la sua tensione”, spiega Jenle Hallund: “Per Lars è stato sicuramente il con itto tra l’uomo e la donna, indipendentemente da ciò che sta accadendo nella società. È quello che sa, come vede se stesso”(181). Anche per Peter Schepelern, la specialità del regista è il lm d’arte allegorico, una sorta di aba piena di dichiarazioni sia didattiche che ambiguamente ironiche, oltre che accresciuta da stranezze e meta-atteggiamento(182). “Tutto quello che posso dire è che sono stato guidato dalla passione. Prendere un genere e stravolgerlo e lasciare che si contraddica, questo è il mio piccolo marchio di fabbrica. Non direi che ho cambiato qualcosa, ma ho cercato di creare un genere che è una miscela di naturalismo e surrealismo, si potrebbe dire”(183).

Il rapporto con gli attori

È segno di maturità saper cambiare opinione. È stupefacente compiere l’opposto di ciò in cui si credeva, tradendo i propri paradigmi ma non la propria missione. Nell’andare dritto verso est (o ovest – la meta non è importante), Lars von Trier ha sviluppato in senso contrario anche il suo rapporto con gli attori, che in ogni lm, soprattutto nelle crude immagini di Dogme prive di orpelli scenogra ci, rivestono un’importanza fondamentale. Non solo, dunque, la tecnica; anche la relazione con il collaboratore più apparente di un’opera cinematogra ca ha subito una rivoluzione copernicana. Ed è forse inevitabile che il cambiamento sia germogliato in un preciso istante che è vero turning point della sua carriera: la realizzazione de Il regno. Ispirato dall’opera a mano sinistra di Lynch, la serie TV, oltre alla distruzione della regola dei 180°(184) e al macello della continuità(185), è la consacrazione della telecamera condotta a mano da von Trier, suo marchio di fabbrica: “Poi penso che ci sia molto di più da estrarre dalla rottura della regola dei 180° e della regola della continuità e da ciò che può portare. […] Con Il regno, facciamo in modo che almeno la storia sia abbastanza comprensibile e la trama abbastanza interessante, in modo da poterci permettere tutte le libertà immaginabili con il lavoro della macchina da presa”. L’opera disinteressata, limitata da questioni economiche ma libera da pretese artistiche, ha dato sfogo all’estro del regista: colori itterici, angolazioni fuori dagli schemi e un’inquietante sovrapposizione di suoni si miscelano alla sovversione dei cliché delle soap opera. Soprattutto la tecnica del ‘puntare’ vi è esplosa; questo ha

determinato che il regista puntasse, appunto, alle emozioni, con la telecamera portata direttamente sul ‘groppone’; questo ha richiesto che il regista fosse vicino agli attori, sul set, vis-à-vis: “Dato che sono io a tenere in mano la telecamera e a manovrarla, siamo nella stessa stanza, quindi possiamo davvero – è una specie di piccolo gioco. Abbiamo un piccolo testo di due pagine della scena e iniziamo con quello in una mano, poi accendiamo la cinepresa e giriamo per un’ora e dopo un’ora facciamo diversi giochi con questo testo e poi niamo con un sacco di piccoli tagli che posso usare e mettere insieme per un lm. È un puzzle, ma è molto rilassante se lo si confronta con il modo in cui lavoravo prima. Prima lavoravo con uno storyboard e questo signi cava che l’immagine non era buona. C’erano molte cose che dovevano essere rispettate. Qui, lavorando in quest’altro modo, si parte da zero e qualsiasi cosa si ottenga è buona. Se si inizia con un’idea completa di ciò che si vuole, allora si può solo scendere – può solo essere meno buono di quello che si pensava. È un modo molto positivo di girare e di liberare gli attori, perché qualsiasi cosa venga fuori, è il punto di partenza. Quindi partiamo dalle loro interpretazioni. […] è un modo per assicurarsi una buona interpretazione. Forse non vera, ma più autentica”(186). Il risultato è un’intimità inusuale tra colui che dirige e colui che esegue: “La regola della cinepresa a mano, introdotta da Dogme, gli ha permesso di avere un maggiore contatto con gli attori, invece di guardare il monitor e urlare loro contro. Prima le cose passavano dallo storyboard direttamente alla macchina da presa, il che era bello da vedere, ma noioso. E gli attori lo adorano. In questo caso, non c’è altro che gli attori e il loro talento, il regista e la storia. Nessuno può nascondersi dietro qualcosa e non ci sono scuse. Certo, questo lo rende più vulnerabile, ma gli ha anche dato molta libertà di creare”(187). Nella vicendevole vicinanza, Lars von Trier ha maturato un nuovo approccio volto a dare e ricevere ducia dai suoi collaboratori, a nché l’autenticità lmica che è stato

l’obiettivo n dall’inizio della cinematogra ca non venisse disattesa.

sua

produzione

Il von Trier dei tempi de L’elemento del crimine trattava gli attori come marionette: “C’è una ragione per cui gli attori sono gli attori e il regista è il regista. Non credo nell’andare in giro a spiegare approcci psicologici – e si dà il caso che io pensi che gli attori diano il meglio di sé quando non sanno nulla. Se si considerano gli attori come una sorta di strumento per il regista alla ricerca di determinate espressioni, in realtà è a suo vantaggio se non sono sicuri di sé – può usarli” (188). Lo stile adottato con Il regno, invece, richiese necessariamente una diversa profondità di collaborazione: “Ho provato di tutto ai miei tempi, ipnotizzando gli attori e quant’altro. Ma è ovvio che se si vuole un’espressione forte, personale e psicologicamente fondata, non c’è niente di meglio che lavorare davvero con gli attori. Non mi è mai servito prima. Ma devo dire che ho avuto degli attori brillanti sul set. In realtà recitano ragionevolmente bene. Ho avuto buoni attori anche in passato. Ma all’epoca non gli è mai stato permesso di recitare”(189). Da scontroso e di dente ad aperto al dialogo, pronto piuttosto a “stuzzicarli nel modo giusto” mantenendo tuttavia un rapporto di ducia con loro. A tal punto che “una mattina ho accolto il cast nudo sul viale d’ingresso e ho insistito sul fatto che oggi sarebbe stato un giorno di nudità”(190) durante le riprese de Gli idioti: “Solo un pazzo non teme gli attori, ma non puoi batterli e se non puoi batterli, unisciti a loro, come si dice. Con l’età sono diventato molto interessato a questa parte del lavoro”(191). “Sono diventato più interessato alle altre persone. È così semplice. Quando improvvisiamo, è perché voglio prendere alcune delle qualità che ci sono già e usarle, invece di far stare un attore in un angolo, contare no a quattro, fare un passo a sinistra, eccetera, che era il modo in cui ho iniziato. Penso che quando si matura come persona, si cerca di osare e di lasciar andare un po’ di tecnica – parlo di stile e di

super cie, in un certo senso. Si permette alla tecnica di passare in secondo piano. Devo navigare sulla mia curiosità. Qualsiasi cosa mi a ascini, qualsiasi lm abbia in testa, lo seguo no in fondo. Se c’è una cosa che mi piace, sono molto testardo e non mi fermo nché non ho raggiunto la mia visione del lm”(192). Dal disagio di Michael Elphick (interprete di Fisher, il protagonista de L’elemento del crimine), il quale, a detta dello stesso von Trier, nemmeno citò il lm nel suo résumé, alle atmosfere distese e pro cue dei cast de Le onde del destino e Melancholia. Von Trier, tuttavia, ha paragonato il suo approccio agli attori a “come uno chef lavorerebbe con una patata o un pezzo di carne”, chiarendo che il lavoro è stato diverso per ogni lm in base alle condizioni di produzione(193). La sua tendenza è stata di lavorare più volte con gli stessi interpreti e membri di produzione(194), molti dei quali hanno ripetutamente espresso la loro devozione al regista e la loro disponibilità a tornare sul set con lui, anche senza compenso(195). Tra questi sono da citare Jean-Marc Barr, Udo Kier e Stellan Skarsgård. Anche Charlotte Gainsbourg è stata presenza ricorrente, la quale assieme a Kirsten Dunst si è altresì espressa in difesa dell’approccio di von Trier contro le accuse di misoginia(196). Non sono, infatti, mancate le polemiche: sono notorie le di coltà intervenute tra lui e Björk durante le riprese di Dancer in the Dark, al punto che Björk si assentava dalle riprese per giorni interi(197), sfociate in accuse di molestie sessuali, smentite dal regista(198). Dall’altro lato, Stacy Martin, che ha recitato in Nymphomaniac interpretando la giovane Joe, ha dichiarato di non essere mai stata costretta a fare qualcosa che fosse fuori dalla sua zona di comfort, e che il fatto che a volte i suoi personaggi femminili siano stati trattati come problematici o pericolosi o oscuri o addirittura malvagi, non lo rende automaticamente antifemminista: “Penso che Lars ami le donne”(199). Nicole Kidman, la Grace di Dogville, ha con dato di aver tentato di abbandonare il lm più volte

per il carattere molto crudo “quasi come un bambino, in quanto direbbe e farebbe qualsiasi cosa” di von Trier, nonché per il suo rapporto con l’alcol, anche se ha confermato di ammirare l’onestà e l’unicità della sua voce: “Non si è piegato a nessuno degli approcci mainstream nella realizzazione di lm o al denaro, e lo ammiro”(200). Il mutamento del rapporto con gli attori non ha signi cato tuttavia una confusione dei ruoli che è saldamente chiara per il regista danese. “Beh, prima di tutto, [dalla storia d’Europa] ho capito che ci deve essere un regista, o uno scrittore, che decide. E deve decidere cose impopolari. Credo che sia in I Buddenbrook, non ricordo dove, ma da qualche parte in Thomas Mann, dove dice che ora ci sarà un tremendo sconvolgimento. E non c’è, quindi usa 100 pagine per qualcos’altro. Per dire al pubblico: ‘Decido io, faccio vedere io’. Perché questo è il vantaggio di avere un regista, credo, o uno scrittore che si fa vedere. Poi si può anche stuzzicare un po’. Hai già detto che stuzzicare è la cosa più importante nella mia produzione”(201). Oltre ad essere il mezzo di base della sua produzione, la letteratura è così amata da Lars von Trier per essere intrinsecamente una dittatura: vi è un uomo solo al comando! Questo non signi ca che von Trier non creda nella possibilità che in futuro, forse, si riesca a identi care un modo per realizzare opere d’arte collettive nel vero senso del termine(202); il che è stato dimostrato non solo dal suo cambio – anche costretto da circostanze di forza maggiore – di approccio nella composizione di un’opera cinematogra ca (con Nymphomaniac e La casa di Jack), ma anche dalla sua storica collaborazione con Niels Vørsel, ripresa per Il regno Exodus(203), e da suoi precedenti progetti, tra cui Gesamt e D-day(204). Per il primo, Lars von Trier chiese a persone di tutto il mondo di presentare materiale ispirato a una o più delle seguenti sei opere d’arte: Ulisse di James Joyce, il dramma Il padre di Strindberg, il monumento ‘Zeppelinfeld’ di Albert Speer a Norimberga, il dipinto Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? del pittore francese

Paul Gauguin, la Sonata in La maggiore del compositore francese César Franck e la performance di step dance Choreography di Sammy Davis Jr. L’idea era di realizzare un progetto cinematogra co generato dagli utenti, realizzando un ulteriore passo avanti nel concetto di ‘Gesamtkunstwerk’ (opera d’arte totale) di Wagner: un’opera d’arte universale non solo creata da diverse forme d’arte, ma anche da una diversità e da una moltitudine di persone(205). Il capolavoro di comunità che si intendeva realizzare divenne Disaster 501: What Happened to Man?, presentato alla Kunsthal Charlottenborg di Copenaghen, Danimarca, il 12 ottobre 2012 – no al 30 dicembre 2012 – , che combinò 142 contributi da 52 paesi. D-Day (D-Dag) del 2000 fu, invece, una collaborazione consistente di 4 lm di 70 minuti, ciascuno realizzato dai 4 registi fondatori di Dogme95 a Copenaghen, durante la celebrazione del Capodanno, e con la stessa trama(206). La peculiarità era che il 1° gennaio 2000, i quattro lm venivano proiettati in diretta TV su 4 canali di erenti, con la possibilità per gli spettatori a casa di zippare a proprio piacimento potendo dunque editare la propria versione della storia. Ciò nonostante, Lars von Trier sembra continuare a percepire l’opera d’arte come proveniente in particolare dal singolo: “Kubrick ad esempio – chi altro avrebbe potuto realizzare tale collezione di carte?”(207). C’è anche chi non crede che von Trier voglia e ettivamente collaborare con le persone; piuttosto le usa per scopi creativi, secondo la produttrice Louise Vesth (Melancholia, Nymphomaniac, La casa di Jack, Il regno Exodus): “Fa reagire le persone [alle] cose che sa già di voler fare… è anche vero che vuole qualcosa con cui giocare, ma non vuole davvero che loro diano le loro idee. Vuole che ri ettano sulle sue idee per collocarle nel modo giusto in questo quadro, per perfezionarle… [e] se gli dico quello che penso, lui fa il contrario”(208). In ogni caso, fare lm per il regista: “É come suonare la musica. Quando si ha una triade che suona in modo

fantastico, è il più grande calcio che si possa ottenere. Potrei chiamarla triade. Altri potrebbero chiamarla in un altro modo. È un piacere, soprattutto all’inizio della fase di scrittura. E il montaggio è un grande piacere. La regia stessa… è come un atto di guerra. È lì che si corrono dei rischi, si deve riunire una squadra e un gruppo di attori e convincerli a fare qualcosa che si possa usare. Ho sviluppato dei sistemi che credo funzionino bene”(209).

Il trauma e il testamento bifronte

“Non credo che ci siano molte persone che non abbiano fobie in qualche misura, ma parlarne, soprattutto nella misura in cui ne parlo io, non credo sia comune, le fa sembrare delle barzellette. […] Temo che non sia uno scherzo. È solo un modo per cercare di liberarsene”(210). Il trauma è stato il soggetto principale di von Trier dal principio: dal trauma per eccellenza dell’Europa, ossia il nazismo, in Immagini di una liberazione, al trauma dell’artista Jack(211) nel suo ultimo lungometraggio: “Fondamentalmente, ho paura di tutto nella vita, tranne che di fare lm”(212). Per von Trier, come per i suoi eroi Munch, Nietzsche e Strindberg, la malattia mentale, la terapia e i suoi strumenti sono stati motivi importanti sin dai suoi primi sforzi creativi: poiché “la buona arte non è sempre espressione che l’artista si trova in un luogo particolarmente felice. C’è sempre qualcosa di leggermente malato nella grande arte”(213). Forse, i suoi lm e le sue iniziative come Dogme95 hanno avuto, dopotutto, lo scopo di disturbare, indurre un disagio emotivo, etico e intellettuale nel pubblico, negli altri registi e in se stesso. Nymphomaniac (reso gra camente Nymph()maniac) e La casa di Jack sanciscono, al pari di Antichrist e Melancholia, un ritorno al cinema come forma d’arte dopo un periodo punk dedicato a demolire le nozioni convenzionali di bellezza estetica e elevare il brutto. Nei primi come negli ultimi due, von Trier ha confessato di aver guardato ai suoi lm e alle sue ossessioni del principio, in particolare alle ‘malfamate’ in uenze e preoccupazioni della sua giovinezza: nella

letteratura (Strindberg), nella pittura (Munch), nella loso a (Nietzsche e Schopenhauer), nella musica (Wagner) e nell’architettura (Speer)(214). Piuttosto che comunicare attraverso manifesti, messe in scena brechtiane o riferimenti diretti all’imperialismo americano, i lm postmalattia pare abbiano incarnato ed eseguito il trauma personale di von Trier in forme progettate per costringere il pubblico a sperimentare il trauma stesso(215). “Non piani co che tipo di lm fare, faccio ciò che mi diverte. Forse suona autoindulgente, ma è così(216)”, sono in ogni caso le parole del regista. In tale contesto, Nymphomaniac e La casa di Jack nascono, tuttavia, da una ribellione contro quelli che von Trier considerava gli elementi da ‘popcorn movie’ e i fronzoli estetici classici di Melancholia nonché dall’esigenza di sperimentare una nuova forma transmediale e saggistica di fare lm che il regista chiamò ‘Digressionismo’, durante un periodo caratterizzato dal recupero dalla depressione, dalla ricerca della sobrietà e dalle gioie della lettura di lunghi romanzi loso ci (di Marcel Proust, Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann e Hermann Broch)(217) insieme all’inedito metodo collaborativo adottato nelle fasi di ideazione e scrittura. Se Antichrist e Melancholia sono esperimenti transmediali direttamente ispirati al suo lavoro sul ciclo del Ring di Wagner, Nymphomaniac e La casa di Jack trattano, invece, più direttamente di disturbi psicologici (dipendenza dal sesso e psicopatia) e sono forse lm ‘testamento’ sui principi femminili e maschili ai loro limiti estremi, rispettivamente come ipersessualità masochistica e violenza sadica(218). “Forse l’unica di erenza tra me e le altre persone è che ho sempre preteso di più dal tramonto. Colori più spettacolari quando il sole tocca l’orizzonte. Questo è forse il mio unico peccato”: ecco la frase che racchiude molto del senso di Nymphomaniac, magnum opus di cinque ore e mezza, e che dice altrettanto del regista. La sceneggiatura del lm è stata la prima cosa che von

Trier scrisse da sobrio dopo molti anni: “Ma mi ci è voluto anche un anno e mezzo […] Anche perché sono parzialmente depresso e non riesco quasi a tirarmi su per niente”(219). Il cocktail di droghe e alcol che utilizzava come metodo per stimolare l’inventiva aveva due funzioni, al di fuori di ogni scopo ricreativo o utilizzo casuale: generava idee e immagini ma anche, cosa più importante, cancellava l’ansia e sempli cava le scelte. Quando gli venne chiesto se l’uso di sostanze avesse ispirato idee a cui altrimenti non avrebbe avuto accesso, rispose: “Ne sono assolutamente certo. E mi ha aiutato a prendere decisioni… Perché più opzioni sembrano ugualmente invitanti. Ma siccome mi ero organizzato con l’alcol… ero pronto a prendere decisioni e ad andare avanti. E sono i dubbi che richiedono tempo. Quando ti fermi e pensi: ‘Potrei andare anche dall’altra parte’. Per me era solo destra, sinistra, dritto. Ho lasciato tutti i dubbi. Ed è fantastico”(220). Ad ogni modo, Nymphomaniac si sviluppa attraverso la sperimentazione della nuova tecnica del ‘Digressionismo’, che implica un modello e una procedura che possono ‘perdonare’ o addirittura fare virtù dell’indecisione e dell’inclusività(221). Louise Vesth, produttrice del lm, ha spiegato che: “Digressionismo… signi cava che la sceneggiatura non consisteva solamente nel dramma tra questi due ragazzi che parlano in una stanza, era anche… pensare a riguardo [e poi] giungere a qualcosa, che giungeva a qualcosa, che giungeva a qualcos’altro, che giungeva a qualcos’altro”(222). “Con Nymphomaniac desidero trasferire dalla letteratura al cinema qualità che non si sono mai viste prima. La storia è la struttura di base, come sempre, ma le digressioni e le associazioni sono strati cate liberamente su di essa, come nella migliore letteratura”(223). Quindi digressionismo signi ca dipartire dalla trama principale e perdersi in un caleidoscopio di discussioni ra gurate tramite immagini e suoni. Con il lm, von Trier ha dunque adattato cinematogra camente il concetto di memoria involontaria

di Proust, come motivo che mette in primo piano i processi di pensiero, consci e inconsci, mentre la protagonista Joe (Charlotte Gainsbourg) viene stimolata da strani oggetti nell’appartamento di Seligman (interpretato da Stellan Skarsgård) dai quali emergono associazioni che fanno avanzare la sua storia. Se Antichrist(224) – pubblicizzato come il prodotto quasi senza ltri della sua depressione, e della terapia per essa – incarna l’approccio altamente romantico (persino faustiano) al processo creativo che l’autore sostiene di aver utilizzato per anni, in cui scriveva in autoisolamento per una o due settimane di frenesia inebriata, e se Melancholia (2011) è un primo passo verso una metodologia dialogica e dialettica, caratterizzata da esercizi di collaborazione nella scrittura, Nymphomaniac è la svolta verso un processo ‘digressionista’ sia nella narrazione sia nella concezione stessa del lm. Lo stile è, infatti, il ri esso del metodo dialettico alla base del processo di scrittura dell’opera. Dopo aver abbandonato l’alcol successivamente alle riprese per Melancholia, utilizzato come medicamento contro gli attacchi di ansia a partire dai lavori per Le onde del destino, Nymphomaniac è stata l’occasione per consolidare il rapporto di collaborazione con Jenle Hallund e Vinca Wiedemann – già in nuce testato per Melancholia – arricchito da un’importante componente di lettura(225). Con il ‘mondo parallelo’ dell’alterazione dei sensi inaccessibile, von Trier si è a dato a un regime di lettura, contemplazione e discussione di lunghi romanzi classici europei del XIX e XX secolo, insieme a sessioni di brainstorming e scrittura arricchite da ricerche condotte dalle due collaboratrici e da altri assistenti(226). La stessa Hallund ha suggerito che molto del contenuto dei dialoghi fra Joe e Seligman così come dei loro dibattiti derivi dalle discussioni avvenute tra lei e von Trier, con le argomentazioni di von Trier che sono state traslate a Joe mentre quelle di Hallund a Seligman(227). La costruzione narrativa dialogica del lm è stata informata, di fatto, alle attività di brainstorming e scrittura a cui hanno partecipato Hallund e Wiedemann(228).

L’opera, che forse realizza maggiormente la commistione fra il cinema e la letteratura – lo conferma la divisione in due volumi con, rispettivamente, 5 e 3 capitoli – , ha come l rouge – che lega tra loro la pesca a mosca, i numeri di Fibonacci, Johann Sebastian Bach, l’architettura antica e il parcheggio parallelo – il sesso. In una stanza fetida, tra i freddi mattoni di una città inde nita, la telecamera riproduce il dialogo – quasi a replicare la seduta da un analista – tra il personaggio di Seligman e la ninfomane Joe, che racconta la storia della sua vita in tutto il suo splendore libidinoso, tra i cui interstizi emergono come anelli di una catena sconclusionata una ra ca di questioni sociali delicate, diversi stili di ripresa e un serraglio di note a margine e tangenti tematiche, principalmente fornite dal personaggio di Seligman.  Famosa è la scena straniante dello specchio che ri ette il regista dietro la cinepresa, a rompere la quarta parete. Il lm è un grande pasticcio, in cui tutto di von Trier è presente: una storia dal realismo mistico divisa in capitoli, l’umorismo nero come la pece, provocazioni, riferimenti a Tarkovskij, pretenziosità apparentemente autoconsapevole, decostruzione cinematogra ca, montaggio disordinato, mix di sacralità e profanità, una protagonista femminile che so re molto e, soprattutto, emozioni crude e non ltrate. A proposito di Alla ricerca del tempo perduto e di Proust come fonte di ispirazione, Nymphomaniac è autori essivo a un livello mai visto prima in von Trier: è, infatti, una rete di allusioni a svariati momenti dei suoi lm precedenti(229). Joe è una donna che vuole di più dalla vita; in ciò, si scontra con una società ipocrita e patriarcale. La politica di genere, implicita nei lm del regista danese almeno da Medea e consapevolmente a rontata a partire da Le onde del destino, ritorna in forma dialettica, ridotta a dibattiti socratici tra il maschio razionale e la femmina emotiva, intuitiva, e più forte(230). Dall’eroine dal ‘Cuore d’Oro’ (ossia Bess, Karen e Selma), ‘buone’ ma semplici, alle antieroine dell’ultimo von Trier, tra cui Joe in Nymphomaniac, la quale appare tutt’altro che sottomessa o

altruista (mentre la controparte maschile è passata da umanista incapace all’ipocrita autocritico Seligman(231)). Joe è trasgressiva e autodeterminata, sceglie secondo il proprio libero arbitrio: il piacere e il dolore rispetto alle istituzioni della società, in particolare il matrimonio, la famiglia e l’ideale dell’amore. Come Bess, Joe vede oltre, ma la sua ‘follia’ è un prodotto della lucida comprensione del caos al centro delle cose. Nymphomaniac è una decostruzione della sessualità, che lo rende una decostruzione della condizione umana quasi per procura. Il cinema erotico scandinavo(232) potrebbe aver in uenzato la realizzazione del lm, oltre i famosi Salò o le 120 giornate di Sodoma (del 1975 di Pier Paolo Pasolini), Ultimo tango a Parigi (del 1972 di Bernardo Bertolucci), A Venezia… un dicembre rosso shocking, (Don’t Look Now, del 1973 diretto da Nicolas Roeg), Il portiere di notte (del 1974 di Liliana Cavani), Ecco l’impero dei sensi (愛のコリーダ Ai no korīda, lett. ‘Corrida d’amore’, del 1976, di Nagisa Ōshima). I lm scandinavi, infatti, incarnavano i concetti danesi di frisind (liberalismo, libertarismo, apertura mentale) e frig jorthed (‘emancipazione’ in relazione alle norme ‘convenzionali’ di ‘sessualità e politica’), valori oriti negli anni ‘60 e ‘70 e con cui un precoce Lars Trier, nato nel 1956 da genitori radicali, nudisti e femministi, si è fatto le ossa(233). Il lm è espressione del von Trier più impavido, che mette a nudo l’ipocrisia, le contraddizioni e i genitali dell’umanità in un pasticcio umano perfetto, imperfetto, bello e brutto(234). Come leggere de Sade, guardare Nymphomaniac è, e dovrebbe essere, ripetitivo, noioso e doloroso, una questione di so erenza da parte del pubblico(235). Allora perché La casa di Jack, che von Trier considera il suo lm più ‘morale’ e testamentario, torna a una tradizione in cui la sua contro gura è un uomo che tortura letteralmente donne ‘stupide’ – al punto da soprannominare Jacqueline (Riley Keough) ‘Semplice’?(236).

Forse perché il lm non è che l’altra faccia della medaglia di Nymphomaniac; è il retro del testamento del regista. Così come Nymphomaniac ria ronta il trauma dalla prospettiva femminile, specularmente La casa di Jack riavvolge il nastro sul trauma dell’idealista dalla prospettiva maschile – in entrambi i casi con un grado di maturazione diverso rispetto al passato. Tant’è che l’ultimo lungometraggio consiste nelle confessioni di un serial killer a un interlocutore che non vediamo (o quasi), in una replica – in maniera capovolta (ma non del tutto) – della situazione narrativa del primo lungometraggio di von Trier, L’elemento del crimine, in cui il traumatizzato detective Fisher recupera alla memoria un caso che rivela essere lui l’omicida. “Ho fatto un bel po’ di lm sulle brave donne. […] Ora volevo fare un lm su un uomo davvero cattivo”(237), e mandarlo all’inferno: mentre Bess ne Le onde del destino ascende al cielo, circostanza indicata quasi ironicamente nel nale attraverso le campane digitalizzate appese alle nuvole, al contrario, il viaggio di Jack all’inferno è già ben avviato con le battute di apertura su schermo nero, prima che un’elaborata, oscuramente sublime, catabasi(238) di venti minuti circa chiuda il lm: “I tableau sono concepiti a partire dall’idea del ‘buio potenziato’ [enhanced darkness] o tenebrismo, in cui la maggior parte della pittura sarà scura permettendo a un’area più piccola di essere fortemente illuminata, conferendole un senso di monumentalità e di messa a fuoco, che attraverso la fantasia dello spettatore penetra nel buio e riempie il dipinto”; ‘oscurità potenziata’ è anche il termine adoperato per il principio estetico del progetto di Bayreuth mai portato a termine e che von Trier identi ca con il tenebrismo – che richiama l’opera di Caravaggio: è questo il criterio artistico per la realizzazione delle scene sulla discesa agli inferi, che è concretizzazione sia dell’estetica del sublime e della guida iconica propugnata da Jack nel corso del lm sia di quella esplorata e teorizzata da von Trier soprattutto nel periodo successivo alla (239) depressione : è la commistione tra l’arte e la vita. Nella

Casa di Jack, von Trier vive dunque attraverso il suo protagonista, un serial killer di nome Jack (Matt Dillon) che è un fallito architetto, per analizzare il lavoro della sua vita come artista e il suo rapporto con il pubblico. Utilizzando uno stile registico ricco di lmati d’archivio e di narrazione vocale – che è una evoluzione dello stile digressionistico di Nymphomaniac ma anche di quanto realizzato da von Trier nel corso della sua carriera, a partire dagli ‘student lms’ – anche in questo lm c’è tutto, portato al massimo: la misoginia, l’egocentrismo, il nichilismo totale e assoluto. Per la realizzazione del lm, von Trier e Hallund(240) hanno continuato il loro metodo dialettico di brainstorming di concetti e allusioni e di scrittura dei dialoghi, intrapreso dalla loro collaborazione in Nymphomaniac e, in misura minore, in Melancholia, con Von Trier nei panni di Jack e Hallund in quelli di Virgilio e di alcuni personaggi femminili – tra cui Simple.(241) Von Trier ama Patricia Highsmith (ossia Mary Patricia Plangman), il cui principale personaggio (Tom Ripley) è uno psicopatico. Nel lm di cui trattasi, il regista volle andare oltre la scrittrice e rappresentare uno psicopatico che era consapevole di esserlo, piuttosto che incolpare qualcun altro(242) (non come Ripley, dunque, che incolpa Dickie Greenleaf per non aver meritato la sua ricchezza ne Il talento di Mr. Ripley, 1995 ed il quale non uccide per divertimento quanto piuttosto per raggiungere obiettivi personali)(243). Evidenti sono anche gli in ussi di opere come il lm American Psycho (2000) di Mary Harron, così come il libro omonimo di Bret Easton Ellis (1991) da cui è tratto, che evidenziano la mascolinità tossica della cultura occidentale e la nostalgia neofascista(244). American Psycho, in particolare, nisce suggerendo che le scene di torture e uccisioni possano essere fantasie e manie di grandezza di Patrick Bateman, in un’era in cui i serial killer sono divenute delle celebrità. Allo stesso modo il nickname Mr. Sophistication (Signor Ra natezza) di Jack evidenzia uno

scarto tra la realtà e la propria autostima per il protagonista del lm di von Trier, che appare “come un uomo ridicolo e un ridicolo artista che giusti ca la propria malvagità sostenendo che si tratti di arte”(245). Il lm è una decostruzione – in questo caso – dell’arte in maniera quasi accademica, che costringe lo spettatore a interrogarsi sui con ni e sui limiti della creazione artistica attraverso una drammaturgia scheletrica ma crudamente schietta: nell’incidente 4, ad esempio, dopo aver confessato di essere un serial killer di sessanta persone alla polizia – che lo ignora – , e infuriato per il fatto che nessuno si accorge di lui, l’artista fallito Jack si unisce a Simple nel gridare aiuto in una lezione sul fatto che: “in questo inferno di città, in questo inferno di paese, in questo inferno di mondo… nessuno vuole aiutare. Puoi urlare da oggi no alla Vigilia di Natale e l’unica risposta che otterrai sarà il silenzio assordante che senti in questo momento”(246). L’opera, inoltre, abbraccia la comicità della brutalità no al punto in cui umorismo e disagio si fondono insieme. Von Trier aveva promesso che La casa di Jack sarebbe stato il suo lm più brutale in assoluto(247). “Quando l’ho visto sullo schermo, l’ho sentito molto forte. Mi è sembrato una specie di ultimo testamento”(248).

Melancholia (2011) / Le onde del destino (1996)

Melancholia Cosa succede se la vita di una donna che so re di depressione, ricaduta nella crisi dopo un tentativo fallito di matrimonio alla ricerca della felicità, sta per terminare di fronte ad un evento apocalittico degno di ogni disaster movie che si rispetti? Se allo stesso modo sta per compiersi quella della sorella, una madre ‘felice’ che vive in una lussuosissima tenuta (Tjolöholm slott, Svezia) con un marito “ricco sfondato” (cit. dal lm) e un glioletto simpatico e carino? Se la vita degli alberi, cavalli, uccelli, insetti, insomma se la vita della Terra stessa sta per essere spazzata via dall’arrivo ineluttabile di un grosso pianeta blu che squarcia l’orizzonte? Fare lm per Lars von Trier è come stare in un laboratorio e fare piccoli esperimenti: “sai, quando fai degli esperimenti è importante che tu non cambi più di un fatto alla volta, sai cosa voglio dire, se metti troppo di questo, metti un po’ di più di un ingrediente ma non dovresti cambiare tutti gli ingredienti in una volta sola, poi non sai dove ti trovi”(249). Melancholia è stato dunque de nito dallo stesso regista “doppia panna”; aveva forse esagerato con la cremosità?(250). “Il mondo che il lm descrive è qualcosa che è alquanto atipico per me; è alta classe, è gente ricca. Il mio problema con il lm è che improvvisamente quando hai un fantastico castello, un fantastico giardino, persone in smoking e in abiti da sposa, allora tutto tende a sembrare

come una pubblicità”(251).

Ouverture(252) Una donna (Kirsten Dunst, che poi apprendiamo essere Justine nel lm) appare livida, occhi socchiusi, capelli fradici in fasci rappresi contro uno sfondo giallo crema, che dà l’idea decadente dei cieli dorati delle opere sacre medievali del primo periodo, visibili nei vari trittici e pale di altari dell’epoca, prima che Giotto arrivasse e col suo blu iniziasse una rivoluzione. I suoi occhi si aprono in slow motion; uccelli, forse piccioni, forse altro, cadono a peso morto, alcuni con le ali spianate, altri chiuse, roteando i loro corpi in una picchiata inanime. È l’opposto di un’altra immagine memorabile di Lars von Trier: siamo nel 1980, Lars von Trier ha soli 24 anni e realizza il cortometraggio Nocturne(253). La protagonista è una ragazza che si sveglia in piena notte terrorizzata da un incubo: entra un uomo che sembra indossare una tuta anticontaminazione ed essere armato; frantuma i vetri di una porta e, distraendo il suo sonno, viene verso di noi, verso la telecamera. La ragazza forse è bionda: non si riesce a capire poiché il cortometraggio (di 8 minuti circa) è girato in penombra e con un’illuminazione monocromatica che si alterna dal blu notte (gli interni della camera) al giallo itterico (l’incubo iniziale, gli intermezzi forse di sogno forse di ricordo mentre è al telefono e all’arieggiare del piccolo ventilatore, così come la scena nale nello spiazzo di fronte alla cupola di una chiesa). È il Lars von Trier virtuoso del primissimo periodo, i suoi lm minuziosamente strutturati e composti in immagini studiate negli oggetti, nei colori e nelle inquadrature. Dopo una notte insonne, la protagonista si trova in uno spiazzo popolato solo da carcasse di automobili; sullo sfondo una chiesa; e, in una ripresa dall’alto, lo sbu are tiepido di un camino: guarda l’alba in sordina e osserva uno stormo di uccelli che vola sopra di lei, verso destra, verso sinistra, in alto, in basso, in modo concentrico, confuso. Il cielo è di un

giallo piatto e smorzato. In Melancholia la protagonista invece guarda la camera, guarda noi, piuttosto che ‘con noi’ come in Nocturne. E gli uccelli, come detto prima, non volano ma cadono, e dietro di lei, su un cielo anch’esso di un giallo smorzato. È il punto opposto della parabola? O di un’ellisse? Assieme a questa visione si ascoltano note familiari sollevarsi: è il Prelude di Tristan und Isolde (1857-1859) di Richard Wagner(254). È uno strano caso che le stesse note si odano all’incresparsi del ri esso di luna, all’inizio del lm La follia di Almayer (La folie Almayer) di Chantal Akerman, anch’esso del 2011. Sembra di stare a teatro. Ma no, non siamo a teatro! L’immagine successiva si compone di un fantastico prato verde, ai cui lati sorgono allineati arbusti perfettamente piramidali e le cui ombre si proiettano arti ciosamente in diagonale all’indietro. Il lm incute un formalismo solenne, gravido di simboli che alludono ad un signi cato ulteriore. Una meridiana in primo piano, vista leggermente dall’alto, poggiata su una grossa pietra circolare, ha segni misteriosi impressi delicatamente che evocano un’aura di mistero. Verso il fondo, al di là di dislivelli segnati da scalini e di una recinzione muraria, l’acqua di un lago increspata ri ette la luce troppo gialla di un sole in un manto squamoso; al centro, una gura bianca uttua e dà movimento a uno scenario altrimenti statico: soave si comprende – all’intercedere della rotazione – che siamo di fronte ad una donna o a una gura femminile che tenendo per le mani un bambino gira intorno a se stessa: riproduce il moto interstellare? Quel movimento che porterà alla distruzione nale? Lars von Trier ha con dato in relazione al Tjolöholm slott in Halland, Svezia – luogo in cui è stato girato il lm, per gli esterni e per alcuni interni(255) – che mentre i disaster lm generalmente si svolgono in luoghi inquietanti, fogne e peggio ancora, la sua storia invece è ambientata in un meraviglioso castello, evocando immagini mentali come nelle favole, anche se ha sperato che

emergesse un po’ di realtà sottostante ad esso(256), nel tentativo tipico della cinematogra a di von Trier di utilizzare i generi ma allo stesso tempo usurparli nella propria personale variazione. Nel visionare fotogra e della location, l’ha de nita “Superkitsch! Assolutamente perfetta”, e ne ha elogiato le caratteristiche di una scatola tremendamente rustica piena di stili diversi e con un enorme giardino dagli alberi tagliati in forme, un po’ scozzese e con ogni sorta di gure leggendarie (257) tutt’intorno . Elementi che appaiono perfettamente condensati in questo secondo shot dell’‘ouverture’ del lm. Tutto è arti cio, o almeno così sembra, eppure incanta e dà la sensazione di star vivendo un sogno. È la sequenza di un sogno quella a cui stiamo assistendo? Ora appare un’opera pittorica: Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio(258). Opera che viene citata anche in un altro lm di un regista caro a Lars von Trier: Solaris (1972) di Andreij Tarkovskij, regista russo a cui von Trier dedicherà il suo lm Antichrist e su cui non ha mai fatto segreto in merito alla sua grande ammirazione. E ci si accorgerà che Solaris è un lm non molto distante da Melancholia, nonostante gli anni di di erenza; anche la pellicola del regista russo tratta di ‘spazio e pianeti’(259). In Solaris sono inoltre presenti diversi riferimenti ad altre opere artistiche: nella famosa scena della biblioteca, infatti, sono riprodotte altre opere di Bruegel (il ciclo pittorico dei Mesi del 1565); alcune scene trovano il loro contrappunto in creazioni di altri artisti: la scena di Kris Kelvin, il protagonista, inginocchiato davanti al padre che lo abbraccia, sembra alludere a Il ritorno del gliol prodigo (1669) di Rembrandt, così come la scena della levitazione degli amanti sembra fare riferimento a Sulla città (1918) di Marc Chagall; in più, nella colonna sonora di Ėduard Nikolaevič Artem’ev ricorre l’adattamento di un altro preludio, questa volta di Johann Sebastian Bach: si tratta infatti del preludio corale in Fa minore Ich ruf zu Dir, Herr Jesu Christ (BWV 639) dall’Orgelbüchlein.  Analogamente, in Melancholia rinvenviamo il Prelude di Tristan und Isolde di

Wagner e, nel prosieguo, molti saranno i riferimenti e citazioni di opere ulteriori, oltre a Cacciatori nella neve. Quest’ultima opera di Bruegel fu dipinta durante il gelido inverno del 1564-65, ricordato dalle cronache come uno dei più rigidi della storia, con temperature polari in Russia, nelle Fiandre, in Germania e in quasi tutta Europa. Con la sua atmosfera opprimente, il dipinto mostra un essere umano che non domina la Natura ma, al contrario, deve confrontarsi con la sua implacabilità(260). L’immagine del quadro di per sé conferma la sensazione di un sogno; perché scorrono immagini sconnesse, diverse, rallentate. Tuttavia, notiamo come frammenti iniziano a disgregarsi e a scivolare davanti ai nostri occhi; si dissolve e si attorciglia su se stessa la cellulosa in cui è impressa l’immagine di Bruegel. Al sollevarsi della musica del Tristan und Isolde, appare il gigante pianeta blu solo nello spicchio sinistro superiore (visto da noi spettatori) che si insedia davanti al rosso brilluccichio di Antares, la stella più luminosa della costellazione dello Scorpione, mentre in sottofondo udiamo il rumore cosmico del suo movimento ineluttabile. Gli archi della musica si abbassano e appare l’altra protagonista del dramma/disaster movie, di cui ancora forse non capiamo le coordinate tecniche e di genere: Claire, interpretata da Charlotte Gainsbourg, già protagonista come ‘She’ nel precedente lm Antichrist, successivo, come più volte ricordato, al periodo depressivo che ha avvinghiato il regista danese, e che interpreterà Joe in Nymphomaniac. Tiene in braccio un bambino, la bandierina di un campo da golf non molto lontana dai due che sventola in slow motion, il numero 19 della buca la cui area viene ora calpestata. Sembrerebbe la scena di un cartone animato: le sue impronte rimangono profonde e marroni sul prato e lo stesso avviene anche al passo successivo, il volto di Claire in una smor a esagerata e eccentricamente impallidita di giallo, occhi chiusi, proprio come avviene nelle dinamiche iperboliche ed

eccessivamente plastiche degli ultimi prodotti per bambini realizzati in digitale. Anche i vestiti di Claire, del bambino, si conformano in panneggi e pieghe troppo morbidi ai loro corpi nell’atto che compiono. Sembrerebbe davvero un cartone animato, se non fosse per la musica drammatica e per il viso a ranto e sconvolto di Claire: il contrasto, tuttavia, attira l’attenzione e non chiarisce lo sguardo di chi guarda. Chiaro segno della tecnica cinematogra ca di Lars von Trier nel mescolare i generi, nell’aggiungere e nello stravolgere le ‘convenzioni’, nella ricerca di qualcosa di nuovo, mai uguale, sempre diverso; è la provocazione piuttosto che il compiacimento. Cade un cavallo nero, imbrigliato, elegante sul prato ora illuminato a chiazze, contro il rmamento in cui scorrono nuvolaglie di luce che potrebbero essere fasci di aurore boreali, anche se nelle intenzioni dello script, la vicenda si svolge negli Stati Uniti; per Manuel Alberto Claro, direttore della fotogra a, la storia ha luogo in Pennsylvania, come confermato dalla targa della limousine che vedremo subito dopo l’ouverture(261). I cavalli sono un elemento ricorrente nei lm di Lars von Trier, in particolare ne L’elemento del crimine, dove, oltre a carcasse (non solo di cavalli ma anche di vacche) che galleggiano nei liquidi torbidi del paesaggio di macerie e fogne in cui è ambientata la storia del lm, un cavallo appare proprio come prima immagine della sequenza iniziale, mentre si dimena e cerca di svincolarsi anche qui imbrigliato, anzi piuttosto intrappolato, in funi, gli occhi bendati, disteso tra la sabbia di un luogo confuso; subito dopo lo vediamo arrampicarsi per le pendici di un tetto a spiovente, in sottofondo il richiamo del muezzin che ricorda un lamento lontano: in entrambi i lm, paiono evidenti le allusioni a Andrei Rublëv (1966) di Tarkovskij. Con un taglio di ripresa, ci troviamo di fronte di nuovo Justine, o almeno la donna che a breve scopriremo chiamarsi Justine, sempre su un prato, sempre di notte: è come se ci fossimo girati. Sullo sfondo alberi di conifere illuminati da luci a terra; libellule e farfalle e insetti vari

uttuano nell’etere notturno, e Justine al centro, in piedi, le braccia aperte in una posa che rassomiglia al Cristo sulla croce o al gesto di chi recita il padre nostro. Un moto che più che confuso appare delicato, anche grazie all’utilizzo dello slow motion all’intercedere del Tristan und Isolde. Il prologo di Melancholia è stato infatti girato dalla Phantom Cam a 5000 frame al secondo, che ha permesso di realizzare un e etto di rallentamento estremo(262). Siamo lontani, dunque, dalla scena di Antichrist in cui Willem Dafoe, che interpreta He, esce dalla baita(263) dove lui e ‘She’ (Charlotte Gainsbourg) si sono ritirati per decidere di combattere le paure di lei, frutto della sua depressione debilitante, e si ritrova, incorniciato dalla chioma della quercia che si estende dietro di lui, bombardato dalle ghiande che cadono inesorabilmente: He è inghiottito da una vegetazione aggressiva che spunta voracemente dal terreno: ‘Nature is Satan’s Church’, come a erma She in una scena del lm. In Melancholia, invece, il movimento sconclusionato della natura, in questo caso rappresentata da libellule e farfalle, non è spaventoso, è una danza, in sé bella: sarà forse che l’elemento demoniaco della natura non conta nulla di fronte all’imminente schianto con un pianeta gigante? O è proprio questo elemento demoniaco, ora all’atto nale, a esprimersi pacatamente, senza più alcuna funzione terrorizzante, a compiersi disincantatamente ormai prossima la vita al termine? La sequenza onirica continua: di nuovo sul prato all’entrata della residenza principale, ossia il Tjolöholm slott, che rappresenta la casa di John (Kiefer Sutherland), il marito ricco sfondato di Claire. Justine alla nostra sinistra, un bambino ossia Leo (il nome rievoca il protagonista di Europa e di Immagini di una liberazione), il glio di Claire, al centro, e Claire alla nostra destra, con dietro la sagoma ombrata del castello e nel cielo tre inquietanti lune: sopra Justine il blu di Melancholia, sopra Leo una semiluna e sopra Claire un bulbo stellare pieno (è il sole o è la luna?); i tre avanzano solenni vestiti a cerimonia – Justine con l’abito da sposa. Sono coloro che chiuderanno il lm

accucciati nello scheletro di legno di una capanna, che rappresentano le forze principali della storia, in un cerchio di economia narrativa che è segno di un von Trier ancorato, dopotutto, alla drammaturgia di ‘Paperino’. Da un posto da spettatore divino ci spostiamo nello spazio: spaventosamente grande rispetto al nostro pianeta, Melancholia pare allontanarsi come avevano proclamato gli scienziati, i baluardi del sapere umano; e come proclamerà John nel rassicurare le paure di Claire. Forse dopo aver visto un documentario televisivo, Lars von Trier scelse Saturno, un gigante gassoso grande circa dieci volte la Terra, come modello per il pianeta Melancholia(264). Ulteriore riferimento di rilievo è la pittura prera aellita: Justine vestita ancora da sposa scorre sull’acqua di un ume, ripresa dall’alto, frontale, a mezzo busto, tenendo sul petto un bouquet di ori bianchi, mentre il velo traslucido si gon a all’incresparsi del pelo del ume, e la gura della donna scivola via dalla parte inferiore dello schermo. È un’ulteriore citazione artistica: evidente il richiamo al notorio dipinto Ophelia (1851-1852) del pittore prera aellita John Everett Millais che preziosamente ritrae Ofelia, personaggio della tragedia Amleto (1600-1602 circa) di William Shakespeare, distesa a pelo d’acqua, le mani aperte e i ori del mazzo che si sperperano nella corrente. Anche le vesti di Ofelia si gon arono e divennero pesanti, man mano che l’acqua le imbeveva nel suo fruscio inarrestabile, e lei, ormai pazza – o forse conscia – per il dolore, si abbandonò senza opporre resistenza alla sua morte fangosa(265). Adesso è Leo, il glio di Claire, nipote di Justine, a presentarsi in primo piano in questa sequenza epica in cui le immagini ci appaiono simili a dipinti intricati: “Abbiamo visto le immagini di apertura… come dipinti intricati: diverse parti di ogni immagine possono avere prospettive leggermente diverse, ad esempio, il che aggiunge un senso di arti cio e irrealtà, come nella pittura rinascimentale. L’intera sequenza di apertura è composta da moltissime

inquadrature […] volevamo che questa sequenza avesse la libertà espressiva ed emotiva che ha la pittura”(266). La stessa Justine ha in mano un ramo ancora non lavorato; servirà per costruire la ‘grotta magica’ ossia il tipì, il rifugio spoglio, e mero e fragile, costruito con i rami trovati in giardino, che non sarà un rifugio e ettivo contro la catastrofe in arrivo(267). Leo alza lo sguardo, verso la camera. In ne ecco, il catastro co avvicinamento e la collisione planetaria visti dalla prospettiva di un dio(268), accompagnato dal climax musicale del preludio che si coniuga perfettamente con l’evento apocalittico rappresentato, con l’aggiunta di un rimbombo mentre la terra viene consumata dal grosso pianeta blu(269). Prima dello scoppio, si intravedono fumi di atmosfera blu alitare in avanti, ad a errare la terra, seguiti dal punto di contatto annunciato da uno scoppio di luce, e le onde dell’esplosione che si propagano sulla super ce di Melancholia, la terra che scompare. L’espediente del prologo è già stato utilizzato dal regista danese, in termini maggiormente narrativi e teatrali, in Dogville(270); è con Antichrist che si ha un passaggio verso un’ipnotica ed iperstilizzata sequenza introduttiva in bianco e nero, accompagnata dalla celebre aria Lascia ch’io pianga composta da Georg Friedrich Händel(271); nello sperimentalismo sui generis del regista, l’ouverture di Melancholia è il passo successivo(272). Sogno o visione di Justine(273), espressione del suo sapere le cose – come dirà alla sorella Claire – che è forma di una preveggenza che è conoscenza spirituale, oppure sequenza di scene confuse e intricate che non hanno, a tale stadio, alcun signi cato di per sé, le immagini e la musica che si susseguono creano uno scuotimento emotivo che a tratti lascia inebetiti; costituiscono un inizio monumentale per gli abissi estetici e sublimi del ‘Liebestod’ (morte d’amore) nale. “Ma cosa volevo?”, si domanda Lars von Trier; “Partendo

da questo stato d’animo, ho voluto tu armi a capo tto nell’abisso del romanticismo tedesco. Wagner in abbondanza”(274).

Parte 1 Justine La prima parte del lm tratta, ovviamente, di Justine, che è la ragione del lm. Come ogni storia ben scritta, dopo che il prologo ci ha anticipato tutto, le immagini che compaiono per prime sono sapientemente selezionate per raccontare il tema, ossia i tentativi di inserimento della protagonista in una realtà a cui non appartiene. Una limousine non va: troppo lunga per girare la curva di una stretta stradina di montagna. La vediamo dall’alto nella sua forma e nel suo biancore esageratamente contrastante con i colori della natura del luogo. Justine sorride, seduta a anco del neo-marito Michael (Alexander Skarsgård, glio di Stellan Skarsgård, interprete di molti lm di Lars von Trier che lo stesso ha de nito un amico, e che in Melancholia interpreterà a sua volta Jack, il capo spregiudicato di Justine). Non riesce a trattenersi imbellettata con i suoi orecchini di perle; non si preoccupa per quello che accade, mentre l’automobile fa su e giù. Sorride anche Michael, di cui notiamo il suo elegante papillon bianco; si baciano e una luminosa dentatura si imprime nel volto roseo della sposa (accadrà ben due volte). Addirittura, ripresa a mezzo busto sui sedili posteri, in un’inquadratura molto intima e non simmetrica, dà una pacca al sedere di Michael che sta uscendo. Justine pare felice. Tant’è che dopo i tentavi del marito, si cimenta anche lei go amente alla guida, nella vana impresa di superare la curva. Il nome per la protagonista deriva dal romanzo Justine (1791) del marchese de Sade(275). Lars von Trier ha dichiarato come l’idea del lm si sia sviluppata successivamente a una corrispondenza avuta con l’attrice Penélope Cruz, che scrisse al regista danese in quanto

interessata a lavorare con lui(276); in tale scambio, gli con dò di esser rimasta a ascinata dalla commedia Le serve (Les bonnes) (1946) di Jean Genet, che tratta dell’omicidio perpetrato da due cameriere, Claire e Solange, ai danni della loro signora(277). Il germe di Melancholia è nato altresì a seguito di altro scambio avuto da Lars von Trier con il suo analista: “Il mio analista mi ha detto che i malinconici di solito sono più equilibrati delle persone comuni in una situazione disastrosa, in parte perché possono dire: ‘Cosa ti avevo detto?’ […] Ma anche perché non hanno nulla da perdere”(278). Le due cose allora si sono fuse, la collisione interplanetaria inserita, le cameriere trasformate in sorelle e Solange ribattezzata Justine, che è molto più Lars von Trier, il quale infatti non fa nulla che non sia inerente in qualche modo a se stesso: “Credo che Justine sia molto simile a me. Si basa molto sulla mia persona e sulle mie esperienze con le profezie del giorno del giudizio e la depressione”(279). La storia diviene dunque una rappresentazione psicologica della reazione di fronte ad un evento catastro co di due sorelle, due persone legate dal sangue, di cui una rappresenterebbe la ‘normalità’ (i.e. Claire) e l’altra invece la ‘melancholia’ depressiva. Penélope Cruz però non fu più disponibile per altri impegni e von Trier virò su Kirsten Dunst, su suggerimento di Paul Thomas Anderson: la Dunst si rivelò eccezionale e vinse al 64º Festival di Cannes il premio per la miglior interpretazione femminile(280). Il titolo, così come il personaggio di Justine, è ispirato alla depressione di cui Lars von Trier so rì; ed è il nome del pianeta che divorerà la terrà; così come similmente Melancholia I è il titolo di un’incisione a bulino di Albrecht Dürer, siglata e datata 1514 che ritrae una gura alata aggrottata nei suoi pensieri e che è densa di simboli ed elementi enigmatici, tra cui il quadrato magico. Il lm anche si presenta come una vera e propria ‘foresta di simboli’(281). Simboli appaiono n da subito: non solo i gesti ma anche le azioni compiute paiono cariche di signi cato. I due neosposini non riescono nell’impresa di oltrepassare la

curva e decidono di farsela a piedi: arrivano, con Justine che solleva le pesanti vesti, a passo colpevole. Vanno loro incontro Claire e il marito John; ancora luci giallo ocra da terra indorano i muri della bellissima mansion.  Claire appare contrariata, poi cede all’abbraccio con la sorella; è lei che organizza, tiene le redini, si comporta da ‘madre’: “Claire ha sempre dovuto fare da madre alla sua sorellina, e quando ci si deve prendere cura degli altri, si deve essere forti”(282); è stata tutto il ne settimana con l’uomo più noioso della terra, che è anche il più caro organizzatore di matrimoni del pianeta, precisa il marito John: è quest’ultimo, invece, che ‘caccia i soldi’, che, in questo pianeta, egregiamente galleggia; ecco che sapientemente anche i dialoghi subdolamente citano il pianeta terra di cui noi conosciamo già la tragica ne. La camera condotta a mano, marchio di fabbrica del regista danese dal suo ampio utilizzo ne Il regno e una delle regole di castità del manifesto Dogme95, è presente anche in Melancholia, integrata perfettamente col suo opposto – la telecamera ssa – , e combina l’elemento documentaristico con quello ‘monumentale’ che osserviamo nel lm. L’indice di Claire è puntato al centro di una pergamena: i preparativi della cerimonia sono ancora tanti e sono in ritardo! E mentre si avviano all’ingresso, Justine si volta, il suo sguardo va in alto: un puntino rosso sbrilluccica nel cielo grigio-azzurro del vespro e la attrae. John, che oltre ad avere i soldi, è colui che sa tutto, sorpreso che Justine riesca a notarla, conferma che si tratta di Antares, la stella principale della costellazione dello Scorpione. Ma Justine ha ancora un sussulto: la frenesia del movimento della telecamera ripercorre e cacemente la fuga sorridente della donna nella penombra del giardino, la sua veste rigon a per le falcate, a anco la sagoma nera del frac di Michael, per andare a salutare il cavallo Abraham: “Forse, è tutto un tornare indietro allo sguardo ipnotizzante del cavallo nel lm della mia infanzia”, disse von Trier(283). Udo Kier, cara e vecchia conoscenza di Lars von Trier,

solitamente nei panni del cattivo, interpreta il costosissimo wedding planner, nel suo elegante ascot a pois, il quale si lamenta di come la sposina stia mandando all’aria l’evento, mentre in mano tiene una penna e un portablocco, quasi come se fosse il presentatore di un programma TV: è questo in cui è scaduto il cerimoniale del matrimonio? O è lui l’unico ad essere attento ai vari passaggi del rito? ‘Piccolo papà’ – così viene chiamato il governante della mansion ed il nome è già tutto un programma – invita gli sposi a partecipare al gioco dei fagioli: ma Justine non fa alcuna previsione; i fagioli li mette e scappa via, anche in questa occasione. Michael non osa fare una previsione in suo nome e la casella in corrispondenza di Justine rimarrà dunque vuota. Lo stile documentaristico di questa prima parte del lm prosegue mostrandoci la meravigliosa sala adibita per la cena, tra pareti ricoperte di legno pregiato, lampade di cristallo, posate d’argento e vasi di orchidee, frac e tessuti preziosi. Justine incontra tre personaggi molto importanti: la madre, il padre e il nipotino Leo, che le consegna un pugnale che servirà a costruire il tipì della scena nale: gli insegnamenti drammaturgici di Ibsen non sono poi così disprezzati da von Trier. Chi sono i genitori di Justine? Il padre è l’a ronto alla monogamia, paradigma fondante del matrimonio occidentale, poiché presenta a Justine le sue due compagne, entrambe di nome Betty. E la madre annuncia di soppiatto, sottovoce – forse non troppo – che non vuole fare nessun discorso, violando un momento fondamentale del rito. Il padre adesso pensa di fare uno scherzo inserendo i cucchiai nel taschino della giacca, accanto ai ori bianchi avvolti in una verde foglia: sulle note ebili di una tastiera, sono proprio coloro che hanno sperimentato il rito a ra gurarne la dissacrazione; a compiere i primi gesti di un rituale non proprio rispettato. La stessa Justine prova in ogni caso a seguirne i passaggi, seppur poco prima aveva sbagliato il usso della portata, che deve andare da sinistra a destra.

La burla del padre ricorda ciò che avviene in Nymphomaniac Vol. II, quando nel ‘Digressionismo’ del lm, emerge tra i ricordi di Joe la protagonista (Charlotte Gainsbourg, mentre la giovane Joe è interpretata da Stacy Martin), che si racconta al vecchio e saccente Seligman (Stellan Skarsgård), l’episodio dei cucchiai al ristorante, quando per una scommessa con il suo amante Jerôme (Shia LaBeouf) la donna se ne in la all’interno della vagina ben 8; ed anche in questo caso il cameriere (interpretato, guarda caso, da Udo Kier), confuso per la dimenticanza, porta un’ulteriore posata per il gelato. In tale lm, sono le immagini della sessualità ad essere fortemente sterili, a risultare solo mordacemente esilaranti(284). In Melancholia invece è il rito ad essere svuotato di ogni signi cato. Non c’è nessuna Festspiel, nessuna fusione in unità indivisibile di festa e cerimonia(285). “No, non credo nei rituali. anche perché non sono credente. I rituali dipendono molto dalla religione e per me suonano a vuoto. Peccato perché i rituali possono essere fantastici”(286). E ancora: “Un matrimonio, dopo tutto, è un rituale. Ma c’è qualcosa che va oltre il rituale? Non c’è. Non per lei”(287). Si spiega allora perché le persone appaiono a Justine sole e dissennate; appaiono prive di alcun legame con la sacralità, con la forma, con la solennità; ognuna recita la sua parte, persegue il compito connesso al proprio grottesco ruolo nel ‘teatro’ della sala(288), che è sfarzo opposto alle baracche fatiscenti del teatro di Dogville. “All’inizio si prende gioco di tutto questo in modo noncurante, perché si sente così al corrente delle cose da poterle prendere in giro”(289). L’in usso del capitalismo nel rito, così come in ogni interstizio della vita delle persone, è ra gurato da Jack, un uomo baldanzoso, i capelli patinati pettinati all’indietro, gli occhi torvi e la faccia piena di un impeccabile Stellan Skarsgård; parla di come partecipa all’evento in un doppio ruolo, testimone di Michael e datore di lavoro della sposa; è infatti a capo di un’azienda pubblicitaria in cui Justine lavora: il ruolo sacrale del testimone è confuso con il ruolo socioeconomico. Anche la scelta dell’azienda pubblicitaria è

signi cativa: cos’è l’azienda pubblicitaria se non la longa manus del sistema economico capitalista, il braccio operativo che di onde il ‘verbo’ consumista e allo stesso tempo lo attua? “Se dovessi scegliere tra una donna per il mio caro amico Michael e una dipendente… sceglierei sempre la dipendente”, sono d’altronde le sue signi cative parole. Sul telo bianco presente in sala viene presentata un’immagine pubblicitaria: tre donne in tacchi a spillo, sdraiate su un tappeto, esanimi in una posa da servizio fotogra co di moda, rassomigliano a una rivisitazione in chiave moderna del Paese della cuccagna, dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1567: è come se le pubblicità siano gli omologhi odierni delle vecchie opere d’arte e non è chiaro se ciò possa essere un bene o un male. Il documentario sul matrimonio di Justine registra eventi che sono sintomatici della realtà che la circonda. Alla celebrazione si unisce la promozione della protagonista a direttore artistico, tra lo scroscio generale delle mani dei presenti, che conseguentemente comporta un immediato incarico subdolamente assegnatole; d’altronde, il lavoro nobilita l’animo, a maggior ragione in un giorno così solenne, anche se inevitabile è una sensazione di avvinghiamento. Che dire, poi, dei discorsi dei suoi genitori, a cui, dopotutto, non riesce a sfuggire. Il padre (John Vincent Hurt), che ha l’espressione da vecchio ubriacone, pronuncia parole d’a etto, che paiono di circostanza; è un bene che non riesca a capire, invece, la condizione della glia? O crede veramente in ciò che dice? Non può fare a meno di rendere una battuta sulle due Betty che ha al anco, né evitare di chiamare in causa la madre (Charlotte Rampling) la quale, lanciato l’osso, interviene e pronuncia un discorso annichilente, mentre lui esce di scena, con la stessa rapidità con cui vi era entrato. “[…] Non credo nel matrimonio. Claire, io ti considero una ragazza molto sensibile, e hai organizzato una festa spettacolare. Finché morte non ci separi, nei secoli dei secoli… Justine e Michael. Io ho da dirvi soltanto una cosa… Godetevela nché dura. Personalmente odio i matrimoni.”

Una madre vestita non troppo elegantemente, una maglia azzurra con maniche a tre quarti ed al centro una spirale bianca: il suo cinismo forse rievoca la madre del regista danese, Inger Høst, nudista, comunista e atea(290), che confessò su letto di morte a von Trier che il suo padre biologico era in realtà Fritz Michael Hartmann, appartenente a una illustre famiglia danese di compositori, e non l’ebreo Ulf Trier come aveva sino ad allora creduto. Per il regista fu uno shock, no ad allora essendosi sentito a modo suo parte di una comunità: “Fino a quel momento pensavo di avere un background ebraico. Ma in realtà sono più nazista. Credo che la famiglia tedesca del mio padre biologico risalisse ad altre due generazioni. Prima di morire, mia madre mi disse di essere felice che io fossi glio di quest’altro uomo. Diceva che il mio padre adottivo non aveva obiettivi né forza. Ma era un uomo amorevole. E io ero molto triste per questa rivelazione. E poi ci si sente manipolati quando si scopre di essere davvero creativi. Se avessi saputo che mia madre aveva questo progetto, sarei diventato un’altra cosa. Gliel’avrei fatta vedere. La sgualdrina!”(291). Non sarebbe una novità, in quanto la gura della madre ed il rapporto con la stessa appare spesso nell’immagini co cinematogra co del regista. Altro esempio lampante ne è l’esilarante e ben riuscita scena di un episodio de Il regno 2(292) : la moribonda signora Druss si risveglia su un letto di ospedale, dopo aver lottato tra la vita e la morte, al canto dell’Internazionale del glio (Jens Okking), trasformando un momento fortemente drammatico in una esilarante gag dai toni satirici: al contrario della madre di von Trier, è la signora Druss a rimproverare il glio per averla creduta comunista. “Mia madre era presidente dell’Unione delle donne danesi (un sindacato generale rappresentante le lavoratrici danesi). Sono stato molto in uenzato da lei. In linea di principio era contraria alla discriminazione positiva perché pensava che le donne non guadagnassero nulla ottenendo un lavoro solo a causa del loro sesso e non delle loro quali che. Quando invecchi ti accorgi che le tue opinioni stanno

diventando sempre più simili a quelle dei tuoi genitori. Quando sei giovane, ti allontani da loro, ma lentamente e inevitabilmente… Mia madre era comunista e mio padre era un socialdemocratico, quindi è abbastanza chiaro dove andrò a nire. Ho l’Internazionale sul mio telefonino.”(293) “Ma lentamente la malinconia scende come un sipario tra lei e tutte le cose che ha messo in moto”(294). Mentre Katherine, una degli invitati, sorride e tiene in grembo la chitarra, appoggiata al seno, pronta ad allietare i presenti con un po’ di musica, un’inquadratura ssa centrata sull’arcata dell’ingresso principale mostra la sagoma gon ata di Justine varcare la soglia della porta: la musica del Prelude riprende a suonare: la sposa lascia per un attimo la cerimonia. La telecamera condotta a mano vira dall’esterno del palazzo sul campo da golf: l’ambientazione ricorda le ultime scene de La notte (1961) di Antonioni: “rubo tutto da altri lm e ho rubato questa idea da La notte di Michelangelo Antonioni, anch’esso ambientato in un campo da golf. C’è qualcosa di stranamente malinconico nei campi da golf. Si estendono all’in nito e, se si tolgono tutti i gol sti – e qui non ne troverete nemmeno uno – sono paesaggi incredibilmente coltivati. Ho sempre amato i campi da golf e i cimiteri”(295). La golf-car sobbalza tra dune e collinette del terreno, attraversando zone d’ombra e zone illuminate di un giallo ocra proveniente dai fari arti ciali della notte – con e etti molto simili al giallo ocra de L’elemento del crimine e al giallo sabbia de Le onde del destino. In un punto parecchio illuminato del campo, vicino ad una buca segnalata dalla tipica asta in ssa nel prato, Justine si ferma; scende dalla golf-car, strattonando la coda della gonna che si era impigliata; si accovaccia per fare pipì. Le azioni sono stranamente coordinate con il sollevarsi e l’abbassarsi delle note del Prelude. Si sente scorrere il liquido; gli occhi di Justine sono chiusi, come se nalmente si stesse rilassando, nell’atto forse più irrituale possibile. Il suo collo è ora in alto, il viso inondato dalla luce gialla arti ciale; lo vediamo in primo piano, di lato, alla sua

altezza: apre gli occhi. Uno stacco di camera ci mostra ora la volta notturna, cosparsa di stelle; la musica raggiunge il suo climax. Il baluginio rosso di Antares è scomparso; Melancholia è passato davanti e si sta avvicinando alla Terra. Justine continua a guardare e i suoi occhi non appaiono più vuoti, mentre gli archi della musica incalzano nel loro movimento ondoso. La sequenza è bellissima e poetica, è ‘monumentale’! Ci sono le immagini, intensi cate dai colori, dal contrasto tra la notte e la luce arti ciale, dalla bellissima location; c’è la densità delle emozioni che traspare dai gesti di Justine, quando esce dal palazzo a passo felpato, quando trasognata percorre le collinette del campo, quando si ferma, chiude gli occhi e li riapre; c’è la comicità grottesca nell’atto di fare la pipì; ci sono le stelle e il riferimento all’astrologia, a un sapere ulteriore; e c’è la musica di Wagner. È il ‘Gesamtkunstwerk’ (opera d’arte totale) di Lars von Trier(296). “Lo siamo [soli nell’universo]. […] Ma nessuno vuole rendersene conto. Continuano a voler superare i limiti e a volare ovunque”(297). Oltre a Justine, gli altri sono consapevoli di questa condizione? “Gli altri non ci fanno caso, vanno in giro e credono che il rituale sia bello”(298). Il marito Michael, che impacciatamente rende il suo discorso, pare sincero nel suo amore verso Justine: si dichiara l’uomo più fortunato della Terra, la stessa Terra che verrà spazzata via. Dalla scena della pipì sul campo da golf, capiamo che Justine non è poi così felice, anche se i segnali di un suo distacco dal resto avevano incominciato ad accumularsi di fronte ai nostri occhi. Dove la troviamo, dunque, dopo una tale epifania? Sul letto del nipotino Leo, rinnovata la promessa di costruire grotte insieme, Justine si assopisce, come una bambina. È Claire che la fa rinvenire dal suo stato di letargismo: “Io arranco tra tutti quei li di lana grigia che mi si attaccano alle gambe, sono così pesanti da trascinare”; ha un senso ora la corrispondente immagine dell’ouverture: “Vedo un lm che inizia con un’ouverture di

scene liriche, ma anche inquietanti e confuse, sulla partitura del Tristano e Isotta di Wagner. Queste scene non hanno di per sé alcun signi cato, ma nel corso del lm creeranno associazioni e inquietudini man mano che si collocano in una prospettiva più ampia. Dalla sua apertura monumentale, il lm prosegue in uno stile strettamente documentaristico… Alla ne, lo stile del realismo sociale viene sconvolto dagli e etti del pianeta invasore sulla Terra… con fenomeni di luce soprannaturale e una generale sospensione delle leggi siche del nostro pianeta”(299). “[…] lasciatemi in pace con i vostri rituali del cazzo”, è la risposta emblematica della madre Gaby, mentre sta facendo il bagno, al momento del taglio della torta. Tale madre, tale glia, anche Justine fa la stessa cosa. La vasca da bagno è elemento ricorrente nei lm del regista danese; non vi si scorge, tuttavia, alcun “potere consolatore della «liquidità», in quella sfera della «regressione talassale» (Gottfried Benn), che Susan Sontag ha individuato come componente essenziale del wagnerismo”(300), se non nei termini di un tentativo fallimentare. In Epidemic, ad esempio, un Lars von Trier in bianco e nero che interpreta se stesso vi si immerge in un’atmosfera cupa ed inquietante, sotto kafkiani panni stesi come nei solai in cui ha sede il tribunale de Il processo; come non citare, poi, la magistrale scena di Europa, dove tra gli strati di immagini, la commistione ed il passaggio tra elementi a colori ed in bianco e nero, Max Hartmann (Jørgen Reenberg)(301), proprietario della società ferroviaria Zentropa, si suicida(302) mentre fa un bagno caldo, circondato da mattonelle bianche (che ricordano il notorio bagno di Psycho – 1960 – di Alfred Hitchcock), proprio sotto la mansarda dove la glia Katherine (la bellissima Barbara Sukowa) si prodiga in e usioni amorose con il protagonista Leopold Kessler (Jean-Marc Barr), amoreggiando sull’enorme pista per trenini elettrici, forse omaggio a Orson Welles(303). Così in Melancholia, non c’è pace nel liquido per Justine.

Le scene successive continuano nella documentazione della di coltà della sposa a partecipare alla cerimonia, ad essere felice. Lei ci prova; ad ogni tentativo, emerge evidente il vuoto dietro il rituale, che è divenuto esercizio (discutibile) di vanità del singolo: il wedding planner Udo Kier non la vuole più vedere; infatti, le ha rovinato il ‘suo’ matrimonio. Alle foto di rito, Justine sembra inebetita, drogata. Addirittura, l’ideale bucolico del ritorno alla natura delle prime opere di von Trier sembra non funzionare più: è questo forse il senso della foto che rimane sul divano della sala che potremmo de nire della biblioteca (per citare Solaris di Tarkovskij), quando Michael le mostra attraverso di essa il pezzo di terra, gravido di mele imperatore, che ha comprato per lei, in modo che quando si sentirà triste, all’ombra degli alberi tornerà felice. “Dovresti in nitamente essere felice […] hai un’idea di quanto mi costa questa festa, una cifra approssimativa”, è il cinismo di John che prorompe dalla penombra di un angolo della stanza. La felicità per lui è questione di soldi, di contratti: nel lm si parla di un patto fra i due a nché Justine sia felice. I contratti valgono di più in questa vita di ogni rituale che conti: “Le relazioni umane sono considerabilmente più dure e più aspre e hanno molto più a che fare con i contratti che con tutte le idee patinate così tanto presenti nell’attuale complesso dei media”, sono tra l’altro le parole del regista Peter Greenaway(304). Justine allora ringrazia John che si congeda: la festa che le ha regalato è meravigliosa. Lei ci prova ma non ci riesce; lei è bionda, Claire è scura di capelli. Nella rabbia, Justine cambia i libri esposti sugli sca ali della biblioteca, che ra gurano quadri astratti novecenteschi (Malevič), con altri libri che riproducono opere direttamente connesse al lm, sui rintocchi del Prelude che suona in ogni momento cruciale(305): Ophelia e The Woodman’s Daughter (1850) di John Everett Millais(306), i due dipinti di Bruegel (Cacciatori nella neve, Paese della

cuccagna), Davide con la testa di Golia di Caravaggio: può essere in particolare quest’ultimo un’allusione all’autoritratto che Lars von Trier ha realizzato di se stesso tramite Justine e, per alcuni aspetti, tramite Claire?(307) Dove può andare allora Justine? È come se fosse bombardata dal nulla. La madre, che non è stregata da tutto questo, la allontana in ogni caso dalla sua stanza, invitandola a continuare a barcollare: la rassegnazione sembra averla resa incapace di essere madre ed in questo è forse peggiore degli altri. Di nuovo nella sala da ballo, allora beve da una bottiglia di Cognac; Lars von Trier disse: “l’alcol è un’automedicazione e, purtroppo, è incredibilmente e cace. Il problema è che quando il livello di alcol scende, l’ansia ti colpisce ancora più duramente”(308). Sul traghetto per Dover per girare Le onde del destino, von Trier ebbe un attacco d’ansia e consumò mezza bottiglia di vodka e tre benzodiazepine sedative: “L’alcol è la migliore droga del mondo. E io l’ho sempre usato come automedicazione contro tutte le stupide ansie che continuano ad a orare. Sembra del tutto preciso, ma a lungo termine purtroppo negativo. E se un giorno è ansiolitico, il giorno dopo è ansiogeno”(309). Il livello dell’alcol è forse già sceso quando fuori, sul prato del campo da golf, la madre Gaby in disparte ma presente, la folla ben vestita partecipa tra bicchieri di champagne al lancio in cielo delle lanterne cinesi, che si disperdono nel vuoto dell’universo stellato. “Quando si vedono immagini dallo spazio, si rabbrividisce e si sente che siamo terribilmente soli. E quando si immagina di uttuare nello spazio, in un certo senso si è soli”(310); il Prelude accompagna dunque immagini del cosmo in cui galleggiano nebulose blu, rosse e giallo-arancio: “seggo la notte; e sulla mesta landa/ in purissimo azzurro/ veggo dall’alto ammeggiar le stelle,/ cui di lontan fa specchio/ il mare, e tutto di scintille in giro/ per lo vòto Seren brillare il mondo”(311). Persino il bouquet viene lanciato da Claire – che lo toglie

di mano a Justine – dall’alto della balaustrata in legno. Persino il momento della svestizione e del sesso tra i neosposini è silenzioso e non partecipato, meccanico; tant’è che con una scusa, Justine lascia Michael in mutande e, sulla sabbia del campo da golf, al cinguettio che preannuncia l’ormai prossima ne della notte, con foga costringe Tim (Brady Corbet) a fare sesso, inondati dalle luci gialle del campo. Cosa resta, dunque, ad ogni angolo, in ogni posto? Il nulla. Lo stesso nulla che Justine, davanti a una zuppa di cipolle, sotto luci bianche abbaglianti, in un discorso esasperato e nalmente autentico addita al capo Jack e alla sua azienda. Se ne va allora lui, il rombo della macchina tagliato quando è già in corsa, in fondo al viale: sul concetto di tagliare sul suono, Lars von Trier ha dichiarato riguardo proprio a quanto fatto in Melancholia: “Non usavo così tanta musica in un lm dai tempi de L’elemento del crimine… ma qui ci sguazziamo. È piuttosto divertente, in e etti. Per anni, c’è stata una sorta di dogma non u ciale per i lm di non tagliare sulla musica. Non tagliare sul ritmo. È considerato grossolano e volgare. Ma è proprio quello che facciamo in Melancholia. Quando i corni entrano ed escono nell’ouverture di Wagner, tagliamo proprio sul ritmo. In questo senso, è un po’ come un video musicale. Dovrebbe essere volgare. Era la nostra intenzione dichiarata. È una delle cose più piacevoli che ho fatto da molto tempo a questa parte. Non ho dovuto forzarlo, come in Antichrist, per niente. Tagliare sul ritmo è piacevole”(312). “A volte io ti odio con tutta me stessa”, esasperata a erma Claire, contro il cielo grigio-azzurro del mattino; la quale altresì, senza peli sulla lingua, de nisce incredibilmente banale il gioco dei fagioli, il cui risultato (678 fagioli nella bottiglia) le veniva comunicato solennemente, alla presenza del solo piccolo papà, dal puntiglioso wedding planner, l’unico a non essere ancora sazio di vacue cerimonie. Justine allora è sola nel buio di una stanza. La madre è ancora lì e attraverso i vetri di un bovindo compie i suoi

esercizi mattutini, noncurante del resto: è la routine ad aver, per lei, sostituito il rito, così come le meccaniche azioni quotidiane di Jeanne Dielman(313) (a cui peraltro l’attrice somiglia vagamente). Il padre, invece, è andato via e un fogliettino indirizzato alla glia iniziava emblematicamente con: “Alla mia adorata glia Betty”; sarà stata un’innocente svista, per le troppe Betty accanto o per i vari bicchieri buttati giù? La cerimonia nisce con Justine seduta su una la accatastata di sedie, i tacchi penzoloni ai piedi, tra i cristalli, i ori bianchi e il legno della magni ca sala spoglia della festa, davanti a una tenda marrone che ricorda un sipario: un’immagine che parla chiaramente. La scena conclusiva della parte 1 del lm è la presenza di un’assenza: la parabola fallimentare di Justine termina con il segno tangibile della presenza di Melancholia: sul rustico ponticello, dove il cavallo Abraham si è inspiegabilmente fermato, Justine nota come la stella rossa è scomparsa dallo Scorpione: adesso è del tutto chiaro che Antares lì non c’è.

Parte 2 Claire La seconda parte del lm tratta, invece, di Claire, che è il contraltare di Justine, se non l’altra parte di essa, anche se la presenza ingombrante di quest’ultima è di cile per noi spettatori non notare, come la gigante palla blu che sta per schiantarsi contro la terra. Abbandoniamo il giallo ocra delle atmosfere viscontiane di cerimonia: “Devo ammettere che ho avuto felici rapporti d’amore con il cinema romantico… per citare l’ovvio: Visconti! Il romanticismo tedesco che lascia senza ato. Ma in Visconti c’era sempre qualcosa che elevava le cose al di là del banale… le elevava a capolavori! Ora sono confuso e mi sento in colpa. Che cosa ho fatto?” (314); per essere accolti in un bianco grigiore dove il vento è calmo anche se mentitore, perché c’è una densità gravida di eventi, o meglio, di elettricità. Claire è nella ‘turkish room’, osserva il giardino, il lago. Scene di vita familiare, avvolte da cupo silenzio, si susseguono e segnalano l’arrivo di un ospite: piccolo papà che sistema i ori, Leo che gioca con una pallina. Similmente a Tom Hanks in Forrest Gump (1994)(315), Claire ha dinnanzi a sé la scelta del cioccolatino. Lì era sinonimo di vitalità; qui è un gesto vuoto che sa piuttosto di morte (i cioccolatini verranno tutti mangiati da Justine in una scena successiva). La seconda parte tratta di Claire, sì, eppure l’evento che coglie la nostra attenzione è la ‘melancholia’ che cala ineluttabile su Justine, che non è ormai in grado di fare niente: ‘è una persona malata’, proselita addirittura John, preoccupato dei soldi che dovrà sborsare per il taxi che aspetta sotto casa della depressa. Ed è alla notizia dell’arrivo di Justine, la malinconica, che sappiamo indirettamente di Melancholia: il pianeta prima nero, ora blu, che si nascondeva dietro il sole e che ora copre

Antares. Da un lato la preoccupazione di Claire, dall’altro l’entusiasmo ducioso di John: ma che cosa è veramente quest’ammasso che d’improvviso si avvicina alla terra? La depressione della donna è e cacemente ra gurata: Justine è una carcassa, con un ciu o biondo in vetta. I muri della bellissima mansion sono grigi, duri, ormai dimentichi dell’indoratura di una cerimonia fa. Quando costruiranno le grotte magiche? dice Leo, che la abbraccia con la spontaneità che solo i bambini posseggono. È una sapiente scelta narrativa, oltre che di senso, quella di far pronunciare all’ingenuo personaggio la frase che anticipa la ne del lm e l’azione ultima dell’umanità che in esso vi è rappresentata. Ci accorgiamo che Justine assomiglia tanto a Leo che dorme la notte delle nozze: quanto dorme! “Ho sempre so erto di ansia che col tempo si è trasformata in depressione ed il trattamento per uscirne è fare qualcosa ogni giorno. Fare un lm è un’attività che richiede programmazione, quindi usavo il lm come motivo per alzarmi dal letto”(316), sono le parole del regista. Allora Claire, col suo spirito materno, razionale, lei scura di capelli, che “prospera nel mondo”(317), sa come tirar su la sorella. È tempo di un bagno caldo: ancora una volta, in Lars von Trier, non funziona il “potere consolatore della «liquidità»”(318). Gli sforzi per entrare nella vasca fanno venire in mente le scene fortissime di Dancer in the Dark (2000), quando la protagonista Selma (Björk) non riesce a muoversi per raggiungere il patibolo(319). Uno dei pregi di Melancholia sta nel conferire, improvvisamente, solennità al quotidiano: un odore familiare rasserena le labbra contratte di Justine: è il polpettone, un cibo che lei ama così tanto; l’entusiasmo leggermente calato sulla stanza si smorza; il polpettone sa di cenere. Tutto sa di cenere, la materia che resta quando ogni cosa è consumata(320). La seconda parte del lm vede anche la partecipazione importante del piccolo Leo, che compie gesti mai banali.

Finché infatti agiscono i ‘grandi’, paiono non esserci speranze per la malinconica Justine. Sarà lui, invece, a destare in lei interesse, quando spontaneamente le mostra con entusiasmo Melancholia sullo schermo del suo pc, nuovo compagno di giochi di ogni bambino. Claire non fa a meno di dire che non è il momento opportuno per spaventare così la zia. Ma cosa può spaventare chi già di per sé è portato a vedere solo il peggio? A non accontentarsi di un futile prodotto o di una cerimonia ben riuscita? Chi non ha nulla da perdere in questa terra? “[Justine] Desidera qualcosa di vero valore. E i veri valori comportano so erenza. Questo è il nostro modo di pensare. Tutto sommato, tendiamo a considerare la malinconia come più vera. Preferiamo che la musica e l’arte contengano un tocco di malinconia. L’amore infelice e non corrisposto è più romantico dell’amore felice”(321). Justine e Claire sono diverse; lo avevamo visto durante la cerimonia; lo vediamo adesso all’approssimarsi di Melancholia su tutto il pianeta. Una scena in particolare lo evidenzia: fuori a fare giardinaggio, le due sorelle sono vestite dissimilmente, si comportano dissimilmente: Justine raccoglie pochi ori, Claire ne compone un bel mazzo; Justine prende poche bacche, Claire ne riempie una ciotola piena; l’una sceglie pacatamente, l’altra invece è godereccia. I frutti in questione, inoltre, fanno venire in mente Dogville e i celeberrimi arbusti di uva spina coltivati da Ma Ginger (interpretata niente meno che da Lauren Bacall)(322). Quando, poi, nella natura incominciano fenomeni strani (un uccello vola in modo bizzarro; la neve scende inaspettatamente, considerato che le due sorelle sono a maniche corte), sono altrettanto divergenti le loro reazioni: Justine appare nuovamente rosea e Claire, invece, un po’ preoccupata. Narrativamente, Melancholia imprime e cacemente il tema del lm negli spettatori perché contrappone, parallelamente e in senso contrario, le parabole delle protagoniste: durante il cd. ‘midpoint’ della storia, quando

Leo mostra a Justine il volto di Melancholia sul suo pc, si invertono le traiettorie: Justine, giunta al suo punto più basso, torna a salire; Claire inizia a scendere; in ciò, si insinua la tesi, che poi diviene sintesi, per cui i ‘malinconici’, disadattati alla ‘vita’, riescono e cacemente a gestire una catastrofe. D’altronde, Melancholia è altresì un lm di traiettorie interstellari. Per questo durante la colazione, che pare essere il momento di aggregazione clou di questa seconda parte del lm, vediamo Justine a amata fare una scorpacciata, contro qualsiasi sterile etichetta di cerimonia, di una marmellata i cui grumi viola scuro ricordano molto le bacche raccolte nel giardino. Per questo Claire, nella scuderia privata della villa, rimprovera eccessivamente la sorella e tradisce la sua agitazione. La drammaturgia di Paperino (e di Ibsen) è signi cativamente presente in Melancholia, e serve all’atmosfera allegorica della rappresentazione. Tant’è che Melancholia si mostra alle due protagoniste, ad occhio nudo, proprio quando sopraggiungono al ponticello che ‘Abraham’ (un cavallo dallo strano nome) non vuole proprio attraversare: perché questa rustica congiunzione blocca il suo trotto ad ogni occasione? Che ostacolo insormontabile presenta? È il limite del palcoscenico del dramma a due che viene rappresentato o è un semplice espediente narrativo? Non va dimenticato che il lm, dopotutto, è un disaster movie: ecco, allora, che la telecamera riprende cavalli frenetici che nitriscono e ruotano sconclusionatamente nei box all’interno della scuderia. A un certo punto, vediamo Claire appoggiata a un parapetto, sul retro della villa, mentre soprappensiero osserva le due lune contrapposte: l’una gialla, familiare, l’altra blu, agghiacciante, cinte da pressoché simili drappeggi di nuvole. Tutt’a un tratto, Justine percorre la scalinata e si inoltra nel prato: scompare dietro la la di arbusti sotto Melancholia, attratta dalla luce blu dell’astro, in direzione contrapposta alla luna. Le note del Prelude

ripartono e, con esse, il romanticismo ‘von Trieriano’, se è permesso in questa sede un neologismo. La carica romantica riporta alla mente una sequenza altrettanto patetica e gotica, presente in Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula) (1992), diretto e prodotto da Francis Ford Coppola, tratto dal romanzo Dracula (1897) di Bram Stoker appunto(323). Siamo a Londra, Dracula (Gary Oldman) emerge durante un violento temporale notturno; ipnoticamente Lucy Westenra (Sadie Frost), l’amica ricca con la quale Mina (Winona Ryder) soggiorna mentre Jonathan (Keanu Reeves) è in Transilvania, è attratta da una forza possente, immateriale nel suo giardino. La villa ed il giardino sono anche in questo caso altrettanto ‘fantastici’; anzi, il giardino del lm di Coppola è labirintico e addobbato ad hoc, con scale, fontane, statue classiche e pareti verdi di cespugli. Mina segue agitata e confusa l’amica, che non è a letto, mentre fuori imperversa il temporale notturno. Le immagini sono eccessivamente ‘hollywoodiane’ rispetto a Melancholia: le inquadrature, i vestiti (Lucy è avvolta in ammalianti veli rossi, mentre Mina ha indosso una vestaglia lavanda), gli e etti speciali (i lampi che ossessivamente abbagliano la scena). È un altro ‘romanticismo’, un altro cinema, che si conclude con l’atto sessuale/di possesso in cui il lupo mannaro addenta la gola sinuosa di Lucy agli occhi inorriditi di Mina che traspare in vene e sangue. La musica (di Wojciech Kilar)(324) anche in questo caso è ‘monumentale’. Lucy e Mina paiono due parti della stessa persona, attratta e allo stesso tempo spaventata dall’intrusione di un’energia travolgente, che scombussola. Nella simile sequenza di Melancholia, vi corrispondono i pacati ati del Prelude, il kimono di Claire e la semplice veste grigia di Justine. Similmente a Mina, Claire segue Justine e, tra rami e foglie, si fa spazio, adagio, per a orare il volto alla luce blu di Melancholia: i suoi occhi, neri, sono impietriti. Al climax del Prelude si incaglia un’immagine memorabile: Justine, a mo’ di ‘rhinemaiden’, è nuda su un declivio roccioso, immersa nel fascio alieno, ai piedi un rivolo blu profondo, tta vegetazione attorno e contorni di

alberi dipinti su un cielo blu notte. In fondo al ruscello c’è un bagliore azzurrastro; è un ri esso? Il naturalismo della scena, seppur epico, comunica sensazioni drammatiche in un contesto reale, così come di fronte a un dipinto percepiamo la ctio rappresentativa e allo stesso tempo la realità del mezzo. Siamo lontani dalle immagini patinate del cinema di Hollywood. Mentre il pianeta è su, nella volta notturna, e vaga con la sua corolla di aura atmosferica e gravitazionale, Justine lo ssa e si tocca il orido petto: nalmente ecco, il potere consolatorio, non dell’acqua ma di Melancholia. Justine è in serena estasi, i suoi occhi blu come il pianeta. Già nella saga de Il regno, von Trier si era divertito a dissacrare la scienza. Anche se, a dire il vero, l’autorità scienti ca venne messa in discussione in primis in Epidemic; se poi vogliamo allargare ancora di più la discussione, il paradigma del ‘metodo’ conoscitivo impresso sui libri è ridicolizzato altresì nella ‘opera prima’ L’elemento del crimine. In ogni caso, von Trier non si risparmia a riguardo nemmeno in Melancholia; ciò è evidente nella scena in cui John e Leo, padre e glio, entusiasti raggiungono la terrazza per ammirare Melancholia. La scienza elitaria, che non si tocca se non da chi è autorizzato, è rappresentata dal telescopio super attrezzato e dal design invidiabile, gelosamente appostato da John, che ha come contraltare un rustico e nudo pezzetto di legno, o erto da Leo. Nelle opere di Lars von Trier è la scienza a soccombere, di fronte ad un’esperienza conoscitiva diversa. “Il suolo sotto l’ospedale del Regno anticamente era una palude, i tintori vi immergevano i loro grandi teli che poi stendevano per la sbiancatura. L’umidità avvolgeva tutto in una nebbia eterna. Poi venne costruito l’ospedale del Regno, i tintori lasciarono il posto a medici e ricercatori, a geni della scienza e della tecnologia che per coronare il loro lavoro chiamarono questo luogo ‘Il Regno’. Avrebbero spiegato la vita, l’ignoranza non avrebbe più scosso i bastioni della scienza. Forse la loro crescente arroganza li portò a negare la spiritualità e adesso è come se il freddo e l’umidità

fossero tornati. Nessun essere vivente ancora lo sa, ma la porta del Regno sta riaprendosi.”; così recita la voce narrante durante l’intro degli episodi della saga de Il Regno(325). E ancora, gli amministratori e i dirigenti medici del Rigshospitalet in cui si ambientano le vicende, grotteschi e corrotti, sono quanto mai dediti a cancellare ogni sorta di pratica arcana dalla scienza tradizionale, laddove anche l’assunzione di una semplice camomilla è vista come atto esoterico; per farlo, stringono una forte alleanza nel metodo che meglio esprime il senso di scienti cità: una setta segreta con tanto di rituali e spirito massonico(326). La critica all’autorità scienti ca, chiusa nella sua bolla di sapere, continua attraverso la rappresentazione dell’ipocrisia di John, il quale è contrariato che sua moglie Claire cerchi sul web, tramite fonti ulteriori che non siano la sua, informazioni sullo strano pianeta, in questo rivelandosi il lm di estrema attualità. Ironicamente, all’inserimento di ‘Melancholia’, la camera dall’alto verso il basso mostra i risultati consegnati dal motore di ricerca: riguardano tutti la malinconia come ‘malattia’. Claire, allora, aggiunge ‘DEATH’ e, comicamente, compare il cinema: vi è infatti un riferimento al lm Melancholia (2008) del regista lippino Lav Diaz che ha vinto il premio Orizzonti alla 65ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematogra ca di Venezia; e, come primo risultato, una strana pagina sulla ‘Dance of Death’ tra la Terra e Melancholia. Questa danza, per la quale Melancholia dovrebbe girare attorno alla terra per allontanarsi e poi, improvvisamente, virare verso di essa, appare come un movimento astrale del tutto sconclusionato e privo di alcuna logica: un’argomentazione che non può reggere contro i calcoli e le proiezioni degli scienziati. Dogme95 è lontano; siamo nel 2011; von Trier è tornato a una forma di cinema che si accosta al canone e cerca di reinventarlo; di fatto, la drammaturgia tradizionale non era mai stata del tutto abbandonata. La limousine bianca di

inizio lm, impossibilitata a superare la curva sterrata, diviene nella seconda parte del lm la Jeep bianca di Claire, che facilmente si districa tra la vegetazione: la limousine andava verso la celebrazione; la Jeep di Claire ve verso la morte in forma di pillole. A poco a poco, Melancholia stravolge le abitudini della vita consumista della famiglia: prima la fornitura di corrente elettrica di cui i protagonisti dovranno fare a meno; poi piccolo papà, che non va a lavorare; è forse la regressione verso una esistenza delle origini prima della ne? In un campo-controcampo, le due sorelle sedute ad un tavolo, sbiadite dalla confusa luce bianca proveniente dalla nestra, hanno forse il confronto più importante del lm. Justine ha già fatto il bagno – da sola – ed è pulitissima (e sta mangiando tutti i cioccolatini). Claire, così a suo agio durante il ricevimento nuziale, così al comando della situazione – tant’è che era lei a dover guidare la sorella a muoversi tra gli invitati e i corridoi addobbati a festa – è adesso, al di là del piano, agitata e lamentosa per i dubbi e le paure che la a iggono. “La Terra è cattiva”, Justine preme le labbra e scuote leggermente la testa. Non dobbiamo dunque addolorarci per lei, dice con la serenità e la dignità di chi ha raggiunto una verità e l’ha accettata profondamente: “Nessuno ne sentirà la mancanza”. Claire, in un pianto che pre gura disperazione, si preoccupa per Leo, controbatte e chiede dove crescerà allora suo glio. È questa, forse, la di erenza fondamentale tra le due: “Lei [Claire] ha qualcosa da perdere, per esempio un glio. Non desidera nulla. Apprezza ciò che ha”(327). Claire è l’appiglio alla vita. Ma la vita sulla terra è cattiva e non c’è altro posto. Non c’è, dunque, alcun ritorno consolatorio alla natura, come nei lm passati di von Trier; in questo Melancholia è a uno stadio ulteriore di Antichrist, in cui la natura già appariva irrimediabilmente malvagia. “Penso che sia molto crudele metterci qui e farci sapere che moriremo e farci sapere che qualsiasi passo faremo sarà malvagio in un modo o nell’altro e che le piante e gli animali si fanno la guerra l’un l’altro. Ho giocato con l’idea che questa fosse

l’unica vita e che sarebbe stata per sempre l’unica vita e questo l’ha resa non solo malinconica ma anche interessante in modo strano”, ha a ermato il regista(328). Justine è altresì l’emissaria di una conoscenza che non si basa necessariamente sullo studio tramite il metodo scienti co; contrariamente a John, che sa le cose perché ha studiato, lei sa le cose e non ce ne viene dato un motivo. Senza arroganza, Justine pronuncia un numero: 678, il gioco dei fagioli, quanti e ettivamente ce n’erano nella bottiglia. Gli occhi sgranati di Claire tremano al vibrare delle note del Prelude: Justine dice la verità. L’incontro ravvicinato tra Melancholia e la Terra si annuncia come un’alba. Gli uccelli cinguettano alla luce dell’aurora notturna e la testa d’uovo del pianeta emerge all’orizzonte, sopra la linea del lago. L’apparizione di Melancholia ricorda vagamente la grandezza del Rex, atteso da una folla addormentata nella nebbia, nell’indimenticabile Amarcord (1973) di Federico Fellini, con toni decisamente diversi. Cosa propone, allora, John, il miglior rappresentante possibile dell’uomo? Un brindisi, in bicchieri di cristallo con champagne o altro vino pregiato, contenuto in una preziosa glacette. Un gesto – quello del brindisi – che si rivela nella sua vacuità durante il lm(329). John, ossia la scienza, era consapevole del margine di errore dei suoi calcoli ed ha taciuto su questo, nché non è stato vigliaccamente sicuro di avere ragione. Per questo, forse, incoraggia Claire ad a darsi al rude aggeggio di Leo, non al telescopio, per comprendere che Melancholia davvero si sta allontanando, mentre il pianeta prende parte dell’atmosfera della Terra. Gli e etti di luce sono particolarmente utilizzati da von Trier per comunicare svolte narrative nei suoi lm. Sul terrazzo della casa, palcoscenico di vicende signi cative in questa seconda parte, la luce diurna ha cambiato colore: è tornata ad essere gialla, come normale, e il vento scompiglia lievemente i capelli di Claire; si addormenta al sole su una sdraio, in una posa che ricorda e forse si

contrappone a quella di Justine da ‘rhinemaiden’ immersa nel blu alieno. Al risveglio, la sedia di vimini in cui era seduto il marito appare vuota. Lo stormire inquietante degli alberi circonda i gesti di Claire che, istintivamente, prende il legnetto astronomico di Leo e lo punta su Melancholia (non il telescopio!), poggiato contro il petto. Passano i minuti e, attraverso uno zoom con e etto sfocato, Melancholia ora straborda dalla circonferenza storta del lo di ferro, segno che la palla astrale sta tornando indietro, verso la terra. In Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, dopo aver immerso i piedi nella merda di vacca (“vacche piene di latte e merda”), il vecchio possidente terriero Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster) si suicida impiccandosi nella stalla(330); il corpo viene rinvenuto da Leo Dalcò (Sterling Hayden), capostipite della grande famiglia contadina Dalcò, che dirà: “Ah, se poteste vedervi, signor Alfredo, non siete mica morto da padrone! Ma che bisogno c’era di slegare tutte le vacche! Per farmi lavorare di più? Forse la verità è che quando un uomo non fa niente per tutta la vita, ha troppo tempo per pensare e, a forza di pensare, diventa rimbambito”. In Melancholia, in uno dei box della scuderia, Claire intravede le scarpe eleganti del marito. Lo trova disteso di lato, esanime sulla paglia, la bocca inumidita di bava. In Novecento il suicidio di Berlinghieri è un atto che, di primo acchito, si potrebbe con gurare di autocondanna morale(331); in Melancholia pare invece essere la dimostrazione della vigliaccheria come unico atto possibile di un mondo costruito solo sul super uo, una volta giunto al declino. I toni cambiano di nuovo, repentinamente. Il cielo, infatti, è tornato grigio e i colori smorzati. Dalla colazione in terrazza – questa volta l’ultima! – , precipitano i gesti di Claire in un vortice di disperazione. Sotto la pioggia battente contro il parabrezza, la donna gira le chiavi nel cruscotto; prova con un’altra macchina; quasi squittisce all’immobilità dei veicoli, che ricorda la scena in cui il

mondo si fermò in Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still), lm del 1951 diretto da Robert Wise considerato un classico del genere fantascienti co. “Scendo in paese”, la sua voce rotta dalla paura prova a spiegare alla sorella: è per stringersi in social catena contro l’empia natura?(332) “Ma non serve a niente andare in paese”, risponde con un velo di compatimento Justine, che, d’altro canto, è serena di fronte alla ne ineluttabile del pianeta. Il lm ci o re, dunque, immagini sconclusionate eppure immediate circa la fragilità dell’uomo di fronte alle forze della natura. Le note del Prelude si sollevano(333). Sempre sul ponticello, la golf-car – che era unico mezzo funzionante – si blocca, similmente a quanto è avvenuto con Abraham in precedenza: da lì non si può fuggire, il palcoscenico non si può abbandonare. Il movimento instabile della telecamera portata a mano ci proietta nel passo a annoso e disperato di Claire; è raggiunto il climax, con il precipitare ineluttabile ed improvviso della grandine: in quello che appare un sapiente ed impercettibile slow motion, si accascia la madre con il piccolo, mentre la telecamera registra un su e giù dei loro movimenti. Come ne L’elemento del crimine, il luogo esotico è quello in cui i nodi vengono al pettine: “sembra lei torni al Cairo da me ogni volta che ha dei problemi”, dice il terapista al protagonista detective Fisher, che si è rivolto a lui per liberarsi da persistenti mal di testa, sottoponendosi ad ipnosi. Quindi, nella stanza turca, le due sorelle hanno il loro ultimo confronto: “Voglio che stiamo tutti insieme, quando sarà il momento, magari qui fuori, sulla terrazza […] un bicchiere di vino”; “[…] e un po’ di musica no? Beethoven la 9a, […]”, risponde ironica Justine. Dal dialogo capiamo che Claire, seppur rassegnata, è ancora inconsciamente legata alle convenzioni di un mondo denudato nel suo vuoto di signi cato, di fronte all’inevitabile. “Credo che sia una bella stronzata”, a erma Justine, nalmente sincera, così come lo era stata col suo capo Jack, al quale aveva risposto negli stessi termini; qui

però è la prima volta che ciò avviene con la sorella, l’altra parte di sé. “A volte ti odio con tutta me stessa Justine”, è la frase che Claire nuovamente pronuncia e, con essa, si chiude narrativamente il ciclo della relazione fra le due, per accedere all’epilogo nale. La ne, però, non è unicamente distruzione. Mentre in sottofondo udiamo il rombo cosmico in maniera continua che si avvicina, Leo e Justine sono nella foresta a intagliare rami per costruire il tipì ossia ‘la grotta magica’: l’ultimo rifugio, una cosa che tutte le persone possono costruire. Lo sforzo è comune ed entusiasma il piccolo Leo, inda arato con il coltellino che aveva donato alla zia; ed impegna la zia stessa che, proprio alla ne, per la prima volta, vediamo partecipare, in maniera autentica, alla costruzione di qualcosa(334). È, il loro, il tentativo di realizzare uno spazio abitabile con una tecnica che non appartiene alla millanteria tecnologica della modernità? Il tipì, infatti, è la capanna dei nativi americani in cui si rifugiava il popolo indiano prima e durante il proprio sterminio, simbolo di volontà di sopravvivenza contro le forme moderne di convivenza(335). Uno stivale di Justine si alza dal terreno e, nella forma dell’impronta, emergono insetti e vermi vari che strisciano e svolazzano impazziti. In Antichrist, un pulcino caduto da un ramo rotola sulla terra, spiumato, per essere ricoperto da fameliche formiche, mentre apre e chiude lentamente l’occhio e muove indifeso la piccola ala. Le formiche, di cui sentiamo il rumore degli agghiaccianti e laboriosi movimenti, in quella scena appaiono nella loro crudeltà e spietatezza (il pulcino nirà negli artigli di un’aquila, preannunciata dal suo inconfondibile stridio, per essere divorato da quest’ultima nella battaglia non solo tra prede e predatori ma anche tra predatori stessi). In maniera simile, nella sequenza iniziale di Velluto Blu (Blue Velvet) (1986) di David Lynch, sotto lo strato del prato lussureggiante di una tipica casa da sogno americano, le note di Blue Velvet (di Bobby Vinton) retrocedono ai

raccapriccianti e macabri zampettii di neri scarafaggi. Nella scena a cui ora assistiamo in Melancholia, invece, gli stessi famelici e viscidi insetti condividono con l’umano la nefasta sorte e non suscitano terrore quanto piuttosto compassione, impauriti e confusi anche loro. Nella sequenza nale dell’epilogo, il rombo cosmico di Melancholia aumenta gradualmente no quasi a coprire le note del Prelude che si risollevano. Magari l’intuizione del crescente rumore di distruzione è venuta al regista a partire dall’esperienza bellica dello Junkers Ju 87, detto anche ‘Stuka’ (in tedesco Sturzkamp ugzeug, ‘aereo da combattimento in picchiata’), velivolo da combattimento utilizzato dalla Luftwa e, che aveva montate delle sirene azionate dal usso dell’aria – chiamate ‘trombe di Gerico’ – , il cui suono aumentava man mano che il velivolo scendeva in picchiata, con e etti devastanti sul morale dei soldati nemici e della popolazione civile; su di esso, infatti, von Trier ebbe modo di dichiarare la sua fascinazione(336). All’orizzonte la luce del pianeta, come un sole che sta sorgendo, è rifulgente; come per l’incontro ravvicinato, anche per la collisione pare un’alba: l’alba di un giorno che non verrà. È Justine che ora – in un capovolgimento dei ruoli – ha in mano la situazione e protegge la sorella in di coltà e fa accomodare Leo nella nuda capanna. Non c’è infatti nessun rituale spoglio, nessuna nta convenzione che Justine non riesca ad accettare; tutto sta per essere spazzato via e, nell’ormai prossima cenere totale, lei sa come muoversi. È la ne del mondo ed è anche la rivincita dei ‘malinconici’ che hanno, dopotutto, continuato a cercare una verità? Anche se poi non ci dovesse essere alcuna verità, poiché il desiderio di verità è esso stesso verità, rispetto all’abbacinante super uità della società di Claire? “Il desiderio è vero. Può darsi che non ci sia verità da desiderare, ma il desiderio stesso è vero. Proprio come il dolore è vero. Lo sentiamo dentro di noi. Fa parte della realtà”(337). Justine posiziona l’ultimo tronco a chiusura del tipì, sulla

collinetta che ricorda la rotondità della terra. È commovente e signi cativo che, nel nale del lm, Justine per la prima volta dà le spalle al pianeta (verso il quale ha sempre mostrato un attaccamento quasi erotico) per riunire i resti della propria famiglia(338). Chiede infatti la mano a Leo; e, dopo un’iniziale disperata titubanza, la stessa Claire a erra la sua, all’ondeggiare degli archi del Prelude e la perturbazione cosmica in sottofondo. Leo l’unico con gli occhi chiusi; Justine in cerca di quelli della sorella, forse per calmarla, per sostenerla, anche lei inevitabilmente impaurita e pronta; Claire piange e trattiene la disperazione. All’a ermazione circa la relazione molto a ettuosa tra le due protagoniste, von Trier ha risposto: “Sì, alla ne, per esempio. Credo che lì si uniscano. È anche questo che fa pensare a un lieto ne. I due opposti si fondono. Hanno modelli di reazione diversi, naturalmente. Ma sono state due e diventano uno”(339). La luce ora è blu; Claire si volta: Melancholia si avvicina come un occhio gigantesco nella sua immensa brutalità; si copre la testa, le orecchie, si accuccia in un vano tentativo di trovare protezione. Si gira un’ultima volta, guarda la morte in faccia: tutto è cenere. Persino il Prelude, la ‘metamusica’, viene interroto dal fuoco apocalittico che divampa: “Il nale più felice che abbia mai fatto”, ha a ermato von Trier(340).

Le onde del destino “All’inizio non pensavo alle politiche di genere. Poi ho realizzato Le onde del destino, che voleva essere uno scherzo. L’idea era quella di veri care no a che punto ci si potesse spingere in termini di sentimentalismo, soprattutto coinvolgendo la religione. In realtà era molto provocatorio, ma a quanto pare la gente ha accettato la storia”(341). Letteralmente ‘infrangere le onde’, (la traduzione u ciale per la distribuzione del lm in Italia è Le onde del destino), il titolo Breaking the Waves compare a caratteri cubitali come prima immagine della pellicola, sopra le ebili ombre delle bianche letttere che riproducono il nome del regista. L’inquadratura non è stabile; uttua; riproduce il movimento della 35mm Panavision condotta a mano dal direttore della fotogra a Robby Müller(342), tecnica che verrà utilizzata per il resto del lm e già sperimentata in Medea e, ampiamente, nella serie TV Il regno, il cui successo concesse a von Trier i mezzi, soprattutto economici, per realizzare il suo progetto di storia d’amore. Con l’obiettivo di trovare l’equilibro tra stile e trama per Il regno, von Trier discusse a lungo con il montatore Tómas Gislason, prima di cimentarsi signi cativamente nell’uso della camera a mano. All’epoca disse: “È una delle grandi ondate del cinema americano del momento. Woody Allen ha usato questa tecnica, ma esisteva già da prima. Per esempio, John Schlesinger e Ken Russel l’hanno usata, ed era presente nel cinema britannico degli anni ‘60, quando anche il montaggio era molto più libero. Prendiamo ad esempio Help! con i Beatles: in quel lm c’erano sicuramente molti scherzi e scherzetti. Ma ad eccezione di Epidemic, in cui ho lavorato un po’ con la macchina da presa a mano, mi sono sempre preoccupato, in ultima analisi, dell’estetica: panning, dolly shot, soprattutto dei movimenti paralleli”. Cos’è dunque che, come una rivelazione, colpì il regista danese per liberarlo dai

virtuosismi tecnici in cui no ad allora s’era impelagato? “Una serie televisiva americana intitolata Homicide: Life on the Street di Barry Levinson, che veniva inserita nel mezzo del pacchetto di intrattenimento del sabato sera su TV2. Il suo generoso punto di vista sulla regola dei 180 gradi – qualcosa che hanno passato due mesi a sbatterci in testa alla scuola di cinema – era molto interessante. Le regole sui 180 gradi sono l’ABC di tutta l’industria cinematogra ca, ma Barry Levinson ha iniziato a fare tagli trasversali senza preoccuparsi di quale fosse il lato dell’asse su cui si trovavano gli attori. […] Abbiamo usato le cose fatte da Levinson e le abbiamo spinte ancora più in là”(343). Fluttuazioni dell’inquadratura si percepiscono anche quando una donna incappucciata, lo sguardo abbassato, il sorriso fanciullesco, si staglia di fronte ai nostri occhi contro i banchi di legno di una chiesa; le uttuazioni ricordano le onde: su cosa dunque si infrangeranno? “Si chiama Jan”, dice la donna e solleva il volto in alto, verso un interlocutore. Il campo-controcampo rivela il dialogo intercorrente tra lei e un gruppo di anziani canuti in abito nero; chi è questo Jan? Loro non lo conoscono. “Lavora alla piattaforma”, risponde lei con calma sincerità. Il viso arcigno di uno degli uomini, che, in piedi rispetto agli altri seduti, pare essere il capo della vecchia congrega, mostra sfavore al matrimonio con un forestiero. Che poi, lei, questa donna, sa davvero cos’è il matrimonio? Ne può sopportare la responsabilità di fronte a Dio non solo per lei ma anche per un’altra persona? Che cosa, inoltre, hanno mai portato di valido i forestieri lì, da loro? “La loro musica”, prontamente si ode la sua voce femminile e un sorriso mostra la genuina convinzione alla base di ciò che dice. Queste prime immagini rivelano come anche in questo caso la storia sia, narrativamente parlando, solida; infatti dicono già tutto, con pochissimo sforzo, di set e di e etti. Fatta uscire fuori, la camera ci consegna il pro lo in primo piano del volto della donna, la testa appoggiata contro il muro gessoso della chiesa, illuminato dall’alto da una peculiare luce giallo sabbia: le riprese del lm sono

state trasferite da pellicola a video e viceversa, producendo immagini volutamente slavate e granulose(344). Ad un lato dell’inquadratura, appare inoltre il paesaggio verde bruciato di una costa; il lm, infatti, è stato girato al largo delle coste nordoccidentali della Scozia e dell’isola di Skye, durante l’estate e l’autunno del 1995(345). Ancora dunque un matrimonio, ancora dunque una donna; che guarda dritto nella telecamera, rompe il senso dell’inquadratura e crea una complicità con il pubblico. L’attrice Emily Watson che interpreta la protagonista Bess, per il qual ruolo ricevette nel 1997 la sua prima candidatura al premio Oscar come miglior attrice protagonista, ha dichiarato che: “Per un attore guardare nella macchina da presa è un grande privilegio, come guardare nel cuore del lm”(346). Lo farà per almeno quattro volte.

Bess si sposa Filamenti di nubi avanzano con il loro biancore su zolle di monti; in particolare la più vicina appare accesa, come di terra rossa. “Capitolo uno – Bett si sposa”: appare in sovraimpressione una scritta. Un elicottero esce dalla nuvolaglia e attraversa il piano visuale in orizzontale sulle note di All the Way from Memphis, singolo pubblicato dai Mott the Hoople come brano apripista dell’album Mott nel 1973. Questi intramezzi visuali interromperanno la narrazione del lm con esplosioni di musica rock anni Settanta; è forse la stessa musica che i forestieri hanno portato di buono n lì? Gli anni ‘70 sono proprio il periodo temporale in cui la storia si svolge. Sequenze generate al computer, paesaggi da cartolina che si muovono impercettibilmente, con super ci lussuosamente strutturate (dalle pennellate visibili e colori sovrasaturi), esprimono forse ciò che viene prosciugato dal lm vero e proprio? Esprimono il paesaggio interiore, la visione del mondo della protagonista Bess, in questo funzionando come i numeri musicali di Dancer in the Dark?(347) Ispirati ai romantici dipinti di J. M. W. Turner, in cui “i cieli e la massa si muovono in modo interiore”(348), le immagini, disconnesse con il resto della pellicola per colori e inquadrature, introdurranno i sette capitoli – più l’epilogo – in cui si strutturerà la narrazione, per la necessità di schematizzazione che, a modo suo, soggiace ad ogni lm di Lars von Trier, pur per l’eccentricità con cui vi si esprime da caso a caso; saranno inoltre un’anticipazione di quanto avverrà con Dogville e Manderlay in particolare. Le note di produzione li de niscono come una “visione dell’occhio di Dio sul paesaggio in cui si svolge questa storia, come se stesse vegliando sui personaggi”; dunque trattandosi di immagini connesse e funzionali a quanto succede nella storia, sia rappresentando parti di narrazioni altrimenti mancanti (ad esempio l’elicottero che arriva solcando i cieli nel primo intramezzo del capitolo uno) sia o rendo ironici

spoiler attraverso i titoli stessi (“La vita con Jan”, “La vita da sola”, “La malattia di Jan”, “Il dubbio”, “Fede”, “Il sacri cio di Bess”) e altrettanto ironici riferimenti attraverso le canzoni riprodotte (ad esempio All the way from Memphis racconta la storia di un rock and roller la cui chitarra viene spedita a Oriole, Kentucky, invece che a Memphis, Tennessee, e del “lungo cammino sul sentiero polveroso” che ne consegue). Ad ogni modo, o rono allo spettatore momenti di stacco e contemplazione di immagini esteticamente a ascinanti, anche per riposare la mente. Ancora un matrimonio, ancora una sposa avvolta in veli bianchi. E ancora un’altra donna al suo anco, che l’aiuta; cerca di calmarla, di evitare che rovini il bel giorno, perché lei è arrabbiata, il marito è in ritardo. Questa volta, però, dai cieli non sopraggiunge una gigante massa blu: tra il so o sovrastante dell’elica, scende dal velivolo un uomo dai lunghi capelli biondi; è vestito elegantemente, ha una cravatta nera; una giacca di montone salta all’occhio: è Jan Nyman (Stellan Skarsgård), l’uomo che Bess McNeill (Emily Watson) sta per sposare. Nello scambio animalesco di colpi e a etto a cui assistiamo, sarà il senso del loro reciproco trasporto: si baciano e lei continua a menarlo. Nel capitolo uno c’è già, in nuce, l’intera storia, come ogni sceneggiatura che si rispetti: Bess entra accompagnata dal viso lugubre del nonno – sarà assente, infatti, il padre, di cui non si saprà nulla nel corso del lm(349) – , accolta dai canti religiosi della piccola comunità unita nel ristretto mondo del rigido calvinismo, sulle remote coste della Scozia settentrionale(350). Lo sposo, i suoi amici, non hanno nulla a che vedere con il posto: lo certi ca, fra tutti, la cravatta dai motivi particolarmente eccentrici di Terry (Jean-Marc Barr), l’amico dello sposo. Per costoro la solennità della celebrazione non è che una burla; in questa burla percepiamo la complicità che nasce tra Bess e Jan, i quali scambiano sorrisi velati, estranei al resto. Ma la di erenza fondamentale che emerge sta nella musica, la

stessa citata da Bess nelle primissime immagini del lm e che abbiamo udito nell’intramezzo musicale; infatti, dopo il sacramento, all’uscita sul sagrato, nessun rumore di festa si è potuto udire: la chiesa della comunità religiosa non ha campane e la telecamera vira su, in alto, all’apice della facciata triangolare: un vano privo di alcunché si presenta in vetta ad un piccolo campanile. Saranno dirimenti nella storia, le campane. Una pioggia, non apocalittica come in Melancholia, ma altrettanto puntuale, ci conduce, tramite un taglio netto di camera, all’abbraccio tra le due donne. L’altra da Bess è Dodo, sua cognata, moglie del fratello Sam – che scopriremo essere deceduto al momento del toccante discorso che la donna farà per i neosposi, che pare sincero, similmente forse all’unico discorso dello sposo Michael durante la vacua cerimonia nuziale di Melancholia. Come nel disaster movie sui generis di von Trier, il matrimonio è occasione per introdurre il tema della felicità: è Bess, tuttavia, che domanda alla cognata se per caso non fosse felice per lei. È Bess, dunque, ad essere dal lato della felicità, convinta della sua scelta, dissimilmente da Justine sottoposta ad un atto forzato. Il rapporto tra le due donne sarà al centro della narrazione. Von Trier, infatti, aveva concepito il progetto già nell’agosto del 1991, traendo ispirazione da Justine del Marchese de Sade, che sarà riferimento costante nelle opere del regista danese: “[…] per anni ho avuto piani per l’adattamento [del racconto] a lm. È un alquanto piccolo racconto a proposito di una ragazza che è la vittima di una serie di atti malvagi, che è ripetutamente sfruttata, stuprata o frustata da chiunque lei incontri. Ma allo stesso tempo, Justine possiede un certo senso di ipocrisia che la mia protagonista non possiede. Alla ne, Justine ringrazia Dio per la sua bontà nel lasciarla sopravvivere a tutte le calamità – dopo di che viene colpita da un fulmine e muore carbonizzata”(351). L’esame di Peter Schepelern(352) delle bozze della sceneggiatura rivela che il lm si è evoluto da un “melodramma erotico” con risvolti pornogra ci a un “melodramma religioso con sfumature

erotiche” più commerciale (ma fondamentalmente più inquietante); laddove le prime bozze mostravano la protagonista che apprezzava i suoi incarichi e ne chiedeva di più, von Trier porrà in ne in rilievo la sua repulsione rispetto alle azioni che compie, al punto che il con itto tra purezza e sensualità che è costretta a incarnare la porta al martirio; così, quello che era iniziato come un irt con la pornogra a si è trasformato in un esperimento loso co ed estetico in cui la sensualità femminile e le libere emozioni sono state confuse con la trascendenza divina(353). Altre fonti di ispirazione sono state le opere del regista Douglas Sirk degli anni ‘50 e il lm Ordet – La parola (Ordet) del 1955 diretto da Carl Theodor Dreyer(354). Centrale è in ogni caso il contrasto tra l’estraneo, il forestiero, accolto e voluto da Bess, e le rigide tradizioni del suo ambiente natale: sarà una battaglia all’ultimo sangue, così come emblematicamente rappresentato dalla s da tra Terry e il vecchio capo della congrega che, in una delle scene del matrimonio, si a rontano, con il primo che si scola un’intera lattina di birra e, il secondo, un’altra bevanda trasparente versata in un bicchiere: il vecchio spacca il bicchiere attraverso la pressione in itta con la mano, mentre Terry può solo accartocciare la lattina; gocciolano gocce rosse. L’elemento del sangue viene anche anticipato dalla notizia che esso è già scorso, perché dal discorso tradizionale che Dodo, come detto prima, fa per i neosposi, soprattutto per Bess, scopriamo che il marito Sam, nonché fratello di Bess, è deceduto; e lei è rimasta nella remota Scozia unicamente grazie a Bess e alla sua scon nata generosità, proveniente dal cuore più grande che lei abbia mai conosciuto. Le onde del destino è il primo atto della trilogia del Cuore d’Oro: in questi lm, il regista danese crea l’equivalente emotivo della musica e la crescente intensità delle performance delle attrici rappresenta un nuovo tipo di esperienza artistica iperemotiva, paragonabile a quella dalla musica evocata(355).

Dalla forestiera Dodo, che le vuole così bene, ora Bess ha al suo anco un altro forestiero, come amante: Jan. Più che malinconica, le immagini presentateci ra gurano una donna ingenua e curiosamente innamorata. Tant’è che in un bagno tappezzato di rosso, si s laccia frettolosamente scarpe e collant e vuole subito provare l’esperienza del sesso, lì, con lui. Non è dunque osservata alcuna etichetta, che gli altri seguono ma di cui i due sposi francamente se ne in schiano. Per questo Jan si avvolge ai pantaloni lo spago con i barattoli che convenzionalmente si attacca al retro delle macchine, magari con una scritta ‘Just married’: è un forestiero e, tra gli applausi e i saltelli dei suoi amici, si scioglie nalmente i capelli, mostra i muscoli come un gorilla e prende in braccio la sua amata: si va a piedi e a modo suo nella propria casa, seguiti dal gruppo eccentrico di persone e la cognata Dodo. Composti, rimangono de lati gli altri ad applaudire e gli anziani ad osservare.

La vita con Jan Subito dopo il quadretto di paesaggio e le note di Blowin’ in the wind di Bob Dylan, la scoperta dell’altra persona, del corpo dell’uomo, è ciò che viene rappresentato: viene messo in chiaro che la passione carnale sarà un anello di congiunzione fra i due. Il momento ricorda la leggerezza ilare del sesso che trasuda per l’intero Il ore delle Mille e una notte, lm del 1974 di Pasolini che vinse il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes dello stesso anno, lo stesso Grand Prix Speciale che vince Lars von Trier nel 1996 con Le onde del destino. Com’è che Bess non ha ancora mai fatto sesso? Come ha fatto a stare così lontana dai ragazzi? Perché “ti ho aspettato”, risponde la sua voce in tono profondo, privo di comicità o ironia. È un passaggio repentino ed e cace, dallo scherzo alla serietà: sul sentimento Lars von Trier non transige; tant’è che Bess richiama Jan a non ridere, quando questo non le crede. Con chi ha parlato per tutto questo tempo dunque? È un taglio di scena e cace, alla Godard come è stato detto(356); ci porta all’interno della chiesa, in tonalità di luce più rischiarate; Bess con il suo cappellino da fanciulletta è appoggiata ad un banco in legno e guarda al cielo: parla con qualcuno, da sola, ringrazia per il dono dell’amore ricevuto. Il titolo originale dell’opera era inizialmente AMOR OMNIA (l’amore è tutto)(357), l’epita o che Gertrud – nel lm omonimo del 1964 diretto da Carl Theodor Dreyer – voleva porre sopra la propria tomba, lei una donna che dedicò la sua vita intera all’amore. Ed è qui che scopriamo uno sdoppiamento, una doppia anima; come Gollum nella trilogia de Il Signore degli Anelli diretta da Peter Jackson, anche Bess ha un dialogo alternato con se stessa, in cui dalla docile ed ingenua voce passa ad un forte e rude accento che personi cherebbe il tuono della volontà di Dio: è il dogmatismo religioso, è il super-io o il vero comando divino a parlare? Il comandamento che riceve è

‘essere buona’: “Da tempo desideravo concepire un lm in cui tutte le forze motrici fossero ‘buone’. Nel lm dovrebbe esserci solo il ‘bene’, ma poiché il ‘bene’ viene frainteso o confuso con qualcos’altro, perché è una cosa così rara da incontrare, sorgono delle tensioni”(358). Per il bene, Bess ringrazia Jan, ringrazia Dio, per il suo corpo, per il sesso. Le scene di vita quotidiana, a tratti comiche (come quando Bess ride mentre il marito russa), sono cariche di signi cato: sono parte del dono dell’amore. La semplicità di quello che vediamo è lungi, dunque, da qualsiasi considerazione di banalità: i giochi sulla scogliera, il sesso tra i rottami del faro. Anche le scelte di montaggio hanno avuto il loro ruolo nel raggiungere tale intensità rappresentativa. Stilisticamente, infatti, il lm era diverso da qualsiasi cosa von Trier avesse fatto prima: un lm d’arte internazionale nella tradizione drammatica di Dreyer e Bergman, con salti disorientanti e un deliberato dilettantismo più tipico di Godard(359). Il montaggio è stato dunque audace, fuori da ogni regola, basato direttamente sull’emotività ra gurata e diretto a raggiungere il massimo grado di intensività possibile. L’e etto che ne consegue è sì di un certo amatorialismo e di prodotto grezzo, ma allo stesso tempo di sovrastante immediatezza(360). Abbiamo compreso che le campane saranno dirimenti. È importante dunque ssare i momenti del lm in cui vengono citate. Accanto al box rosso del telefono che ricorda tanto un pezzo di Londra trapiantato in quel luogo selvaggio, forse unico contatto col mondo esterno per quella comunità, Jan chiede al parroco perché mai non avessero delle campane; a Bess piacciono le campane e provoca il marito proponendogli di rimetterle al loro posto: una volta dunque le campane c’erano? Ecco che tra i banchi pieni, ordinati dell’edi cio sacro, un uomo barbuto, vecchio, con tono di ammonizione richiama i presenti all’attenzione sul fatto che alcuni di loro stanno preferendo le cose del mondo piuttosto che rifuggirle. Sono i segnali del contrasto che cresce, così come parallelamente matura

l’idillio fra i due neosposi. Altre due traiettorie, che crescono contrapposte e che si scontreranno. Bess, infatti, osa chiedere come mai solo gli uomini possono parlare alla funzione religiosa. L’espediente del lm nel lm è usato in von Trier. Emblematico è Epidemic, che parla della creazione di un lm, che diviene realtà. Emblematico è che ne Le onde del destino, mentre Bess guarda un lm – Lassie forse – incantata dal grande schermo, il marito Jan la osserva compiaciuto ed attratto dalla sua ingenuità: “Il fatto che si innamori e sposi la sempliciotta Bess, che nessun altro vuole, è un esempio della sua fedeltà ai sentimenti, della volontà di fare il ‘bene’ o il ‘giusto’; se si ama qualcuno, non si deve mai permettere alla società o alle opinioni degli altri di interferire”(361). Il lm corre su binari che attraversano stazioni idilliache e cimiteri ostili. L’amore fra Jan e Bess aumenta, eppure più opprimente diviene il contesto. “Anthony Dod Mantle tu sei un peccatore”, pronuncia il ministro religioso, i pochi capelli scompigliati, “e tu meriti il tuo posto all’inferno!”: è la condanna all’inferno che accompagna l’evento catalizzatore del lm: Jan dovrà tornare sulla piattaforma. La sua assenza, seppur temporanea, incrina la stabilità psico sica della protagonista: emerge, allora, che Bess in passato ha dimostrato di non essere ‘giusta nella testa’; emerge altresì il con itto con la madre, che è il con itto con la comunità stessa. Colpisce il disappunto della madre che la redarguisce, senza alcuna pretesa di comprensione. È forse il contrario dell’esperienza vissuta in prima persona da Lars von Trier con la sua gura genitoriale femminile? O la sua rappresentazione da una prospettiva contrapposta – dalla totale libertà concessa ad un’insensata autorità? Jan è il solo a dare una diversa interpretazione di Bess: “è solo che lei vuole tutto”, dice. “Bess è ‘buona’ in senso spirituale… vive per lo più nel mondo della sua immaginazione, non accettando mai veramente che possano esistere cose diverse dal ‘bene’. È una persona

forte che si assume la piena responsabilità della propria vita, anche se gli altri potrebbero pensare che non sia in grado di farlo. Bess è resa forte dalle sue convinzioni e dal suo amore. Così forte da riuscire a ribellarsi alle rigide regole di soppressione della piccola comunità e della chiesa che un tempo le era tanto cara”(362). Che Lars von Trier sia autoreferenziale, non deve essere un mistero. Che Bess incarni Lars von Trier, non deve stupire. Per questo Bess beve una goccia di alcol dalla aschetta che passa di mano in mano tra i ragazzi, indossando il nuovo vestito a righe che suo marito le ha appena regalato. Fa una faccia bu a, dietro l’incresparsi luccicante del mare e la lunga pedana di un pontile. Dura poco, questa felicità forzata. È ancora l’alcol a mostrarsi come una vana via di fuga dalla disperazione(363). Per questo Bess ingoia una pillola per smettere di gemere, quando Jan va via con lo stesso elicottero con cui era arrivato. Jan e Bess si vogliono bene autenticamente: è questa la poesia del lm. Una scena dà il senso del loro amore, prima della partenza: tra i rottami e le macerie, sulla plaga di ciò che resta di un porto che pare quasi dimenticato da Dio, Jan trova Bess che colpisce come una pazza il pilastro metallico di una vecchia trivella o di una gru portuale. Jan colpisce a sua volta in maniera animalesca la carcassa metallica. La comprende, usa il suo stesso linguaggio; per lui lei non è pazza. Si baciano in un toccante abbraccio, sotto la luce smorta di un paesaggio monocolore e rottami umani.

La vita da sola L’isola sospesa sul mare nero del nord, fatta di strani cavi e tubi, che terrà Jan lontano dalla terraferma, non è mai stata raggiunta dal regista danese. Per paura di prendere l’elicottero, mandò al suo posto l’assistente alla regia Morten Arnfred, insieme alla troupe; lui rimase a terra, dove, attraverso la televisione a circuito chiuso, poté seguire gli avvenimenti sul set e dare le sue istruzioni di conseguenza(364). Inaccessibile sarà il luogo anche per Bess (o quasi). Se per Europa la coesione dell’opera era stata rappresentata dalla tecnica complessa utilizzata e dagli aspetti sperimentali(365), ne Le onde del destino la costanza e la forza della storia è da rintracciarsi nel cast, o per meglio dire nell’utilizzo del cast che von Trier ne ha fatto, dovuto anche a un suo rapporto diverso con gli attori, meno autoritario e distaccato e più propenso a delegare loro ampi margini di manovra(366). Secondo Björkman, la stessa tecnica narrativa, che prevedeva l’utilizzo estensivo della telecamera condotta a mano, è stata scelta per focalizzare la storia sul cast. Ogni nuova scena veniva girata sotto nuove condizioni e nessuna scena successiva era la copia della precedente; in tale contesto, gli attori erano lasciati liberi di improvvisare ed introdurre novità nell’espressione, intonazione, azione mentre obiettivo del cameraman era di catturare la maggior espressività possibile di fronte a queste continue e spontanee introduzioni. Dunque, il cast è la ragion d’essere del lm, la cui storia viene portata avanti dall’emotività insita nelle scene e profusa in particolar modo dagli attori. Presupposto dell’approccio era la ducia data ai propri collaboratori, ai quali veniva sì lasciata molta libertà, ma anche loro allocata una buona fetta di responsabilità nella riuscita del lavoro(367). L’allontanamento di Jan permette a noi spettatori di comprendere, da un lato, la natura dell’uomo, dall’altro

lato, l’irrimediabile e etto che ha su Bess. Difatti, Jan ci appare come un compagno di caserma mai cresciuto, ancora puerilmente strafottente. Pare che la sua vita sulla piattaforma alterni manovre pericolose e scherzi nei bagni, assieme a colleghi di cui uno è particolarmente incauto (elemento narrativo inserito in ossequio alla drammaturgia di Ibsen). Bess, sulla terraferma, propende costantemente, dopo aver incontrato Jan, al mondo esterno; passa il suo tempo nella cabina telefonica; poggia contro il suo orecchio la radio rettangolare che trasmette la musica rock che tanto piace a loro. Addirittura, si addormenta mentre aspetta una sua chiamata. Bess, per la troppa emozione, piange mentre dice che lo ama: “Nella notte profonda/ si consumano le stelle./ Un dolore m’inonda:/ un amor di cose belle”(368). La rottura di Bess con il circostante diviene per lei troppo insostenibile e non bastano i li del telefono ed il sesso telefonico. Nonostante l’arrivo anticipato dell’amico Pits (Mikkel Gaup), che ha avuto un piccolo infortunio, preannunci più gravi eventi, è ormai a un punto di non ritorno con la sua vita precedente. L’ambientazione del lm ha un ruolo ben preciso ai ni narrativi. Bess grida contro la spuma del mare, che schizza in ogni direzione, allorquando le onde si abbattono fragorose contro le rocce aguzze della costa: è l’immagine perfetta per rappresentare il suo stato d’animo. Va registrato che Bess, come in ogni rituale che si rispetti, si trova nella stessa posizione di accovacciamento, appoggiata ad un banco, allorquando la telecamera cattura i suoi momenti di intimità religiosa, ossia quando parla con Dio. Gli chiede di riavere Jan a casa. La notte, nel letto, Dodo vicino, non dorme e si rigira tra le coperte; per un attimo guarda dritto nella telecamera e anche noi percepiamo la sua veglia d’attesa. Le gesta pericolose, le disattenzioni, l’infortunio di Pits, non sono che espedienti narrativi per prepararci al midpoint del lm. Sulla piattaforma, la luce giallo ocra

arti ciale non è così dissimile dall’illuminazione della festa in Melancholia. Jan è una buona persona, soccorre il suo amico. Eppure, fare del bene porta a subire del male. Il male è come se venisse attirato da chi chiede e fa del bene; perché il bene a questo mondo è una cosa così rara che viene fraintesa, non solo dalle persone, sembra, ma dalla vita sulla terra stessa. Un pezzo metallico impazzito colpisce Jan dritto in testa. “Percepiamo le tensioni della comunità in cui vivono, ma nulla può nuocere a Bess e Jan nché stanno insieme. Poi arrivano la separazione e l’incidente”(369). L’incidente è, quindi, lo scalino successivo alla separazione. Già sull’elicottero (ancora uno!) notiamo che Jan, no ad allora così buono e comprensivo, ha occhi spiritati, vitrei: è fuori di sé. Comprendiamo, dunque, lo sconcerto nero sul volto della moglie contro le bianche mattonelle d’ospedale. Una bellissima ripresa, fuori le righe, mostra il vetro della porta della sala operatoria: di là, i medici imbacuccati e inguantati compiono i loro peculiari gesti preparatori; di qua, la sagoma ri essa di Bess che si china sconsolata sulla spalla della cognata. Il fascino di von Trier per gli ospedali e per le operazioni mediche di cili, che implicano sangue e tessuti e strani aggeggi, è fresco dell’esperienza de Il regno. Parlando proprio dell’esperienza della serie TV in 35mm, il regista danese ha dichiarato di aver avuto “molto divertimento e quasi zero tempo per ri ettere troppo sulle cose. Ma l’ispirazione è abbastanza seria, perché è basata sulla paura che abbiamo della scienza, dei dipartimenti di pronto soccorso, degli ospedali, del potere che le persone possono avere su di te in questi luoghi”(370). I medici nei lm di von Trier sono tutt’altro che rassicuranti; né, tantomeno, sono impavidi sostenitori della vita. È incredibile che Bess sia l’unica, di fronte a due dottori, a provare entusiasmo per il fatto che Jan vivrà ancora. Per loro, anzi, in alcuni casi è meglio non persistere nell’esistenza. Le onde del destino assume presto le sembianze di una

passione. Come Giovanna d’Arco, come Gesù Cristo, Bess trova la forza a dandosi a Dio, mentre compie gli atti che l’avvicinano al martirio. Qui, però, è una tavola calda a fare da contraltare al Getsemani; siamo pur sempre negli anni ’70. Bess, inoltre, ci guarda dritto negli occhi, singhiozzando; siamo pur sempre in un lm di von Trier.

La malattia di Jan È signi cativo che il capitolo 4 della storia, dal titolo “La malattia di Jan”, ha inizio con lo ‘skyline’ della cittadina scozzese, in cui risalta la punta del campanile, sovrastato da un ammasso di nuvole, alcune dense altre a pecorelle: sarà questo che ispirerà il pennacchio della casa della missione che svetterà sulle baracche di Dogville? Sulle note di A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, uno squarcio di luce lo perfora nché appare un arcobaleno di crescente intensità, che vi rimane impresso. È altrettanto signi cativo che la prima scena si svolge all’interno della chiesa della comunità, le persone irregimentate nei banchi, al monito perentorio che non vi è posto, alla tavola del Signore, per chi disattende i comandamenti religiosi: ecco il contesto in cui Bess vive, in cui dovrà a rontare la sua vita con Jan, ora malato. È l’autorità con cui Bess ha a che fare da quando è nata, così come l’ordine dei medici lo è ne Il regno e le truppe americane lo sono in Europa(371): in questi lm vi è infatti rappresentata una struttura di potere messa sotto tiro(372). “Nelle comunità remote, dove la vita quotidiana è dura – ha ricordato von Trier – un rigido supporto è necessario, mantenendo unita la comunità, persuadendoli che Dio perennemente scruta i loro comportamenti e che ogni misfatto debba essere punito attraverso scomunica per proteggere gli altri”(373). La morti cante congrega, che disapprova l’alcol, la musica, il ballo, che bandisce addirittura le campane dalle proprie chiese e che proclama spregiudicatamente la discesa agli inferi dei corrotti durante le celebrazioni dei loro funerali, doveva essere rappresentata inizialmente da una piccola popolazione di pescatori abitante la costa ovest della Danimarca, il cui territorio è sotto il controllo della rigida chiesa dell’‘Inner Mission’; specularmente, però, le coste ovest della Scozia sono sotto l’egemonia di una simile dottrina religiosa, il cui verbo è di uso dalla ‘Free Church’(374). Il regista danese si è dunque trovato immediatamente a proprio agio di fronte al

duro paesaggio scozzese, caratterizzato da improvvisi cambi del tempo e costanti mutamenti di luce, che combaciano perfettamente con quanto narrato dalla storia(375). Questo nonostante le note di coltà del regista nel viaggiare; non ce la farà, ad esempio, a raggiungere Cannes per la presentazione del lm: “Se devo fare qualcosa di cui ho paura, di solito inizio a preoccuparmi con mesi di anticipo, immaginando nella mia testa tutte le cose che possono andare storte. Per me era impensabile volare a Cannes. Sarei andato in treno perché è il mezzo con cui mi sento più sicuro. Ma quando io e Bente siamo arrivati alla stazione centrale di Copenaghen, si è scoperto che non si trattava di un treno Intercity tedesco, cosa su cui avevo sempre contato. Si trattava di un IC-3 danese, che avrebbe comportato un’esperienza molto claustrofobica per me. Penso che sia un’evoluzione terribile il fatto che non si possa più aprire un nestrino: al loro posto ci sono l’aria condizionata elettronica e le chiusure automatiche. Si è completamente chiusi dentro, a di erenza dei treni tedeschi, dove si possono ancora aprire i nestrini e prendere un po’ d’aria fresca. Sono meravigliosi i treni tedeschi. Così Bente [la compagna di allora] e io ci siamo seduti per un quarto d’ora ad aspettare dentro il treno e a ri ettere sulla situazione. Poco prima che le porte si chiudessero, ho avuto un attacco di panico e mi sono precipitato fuori. In quel momento il viaggio a Cannes fu interrotto, perché i preparativi mentali erano crollati. Noleggiammo comunque un’auto e arrivammo no a Puttgarden, ma quella sera mi resi conto che era inutile. Non ho ansia quando guido in autostrada, nché le cose si muovono, ma immaginavo tutti gli ingorghi che avremmo trovato lungo la strada e anche questo mi rendeva claustrofobico. Quando le cose sono ferme, ho paura della paura”(376). Ma Bess ormai è cambiata. “Sono tornata con Jan”, dice ad un’altra ragazza che l’ha fermata fuori dalla chiesa, per chiederle quando fosse rientrata.

Così come è cambiato Jan, su un rigido letto d’ospedale: “Jan non si è mai ammalato in tutta la sua vita e all’improvviso è prigioniero del suo stesso corpo… quel corpo che lo aveva servito così bene. Nel suo letto di malattia prova amarezza… il sentimento più naturale del mondo nella sua situazione… ma per Jan è un sentimento nuovo e non facilmente conciliabile con la sua loso a di vita – è un sentimento che lo terrorizza…”(377). La malattia è anche metafora del distacco, inevitabile, dall’irrequietezza della vita passata; mentre i suoi amici vanno a nord a trivellare, lui rimane per un po’ “a pancia all’aria”. Jan è buono, anche se in un modo molto più complesso rispetto a Bess, perché lui pragmaticamente vuole fare il bene; “lui vive il mondo reale, dove fare del bene è molto più di cile”(378). Jan, dunque, è un uomo di esperienza, è realistico; anche il suo bene è messo a dura prova. Per questo, in maniera quasi sprezzante, consiglia a Bess di indossare qualcosa di più largo la prossima volta, perché così non può vedere il suo corpo. Per lui, l’amore è anche sico, appartenente al mondo materiale e non solo spirituale, e lo addolora profondamente non potervi partecipare, confuso per le droghe che gli iniettano contro il dolore. Tuttavia, la telecamera ci mostra Bess rientrare e, mentre lui dorme, sdoppiarsi in un dialogo tra i due, proprio come fa quando parla con Dio. L’espediente conferisce un aspetto trascendentale all’episodio. Tu sei l’amore della mia vita, pronuncia con voce bassa; capiamo dunque che Bess crede profondamente in questo amore, per lei elevato a Dio, e niente potrà distoglierla da questo sentimento. Quando va ad incontrare il dott. Richardson (Adrian Rawlins), il volto di Bess metamorfosa da indi erente e scocciato – mentre attende in corridoio – a disperato e in lacrime – nella stanza del medico. “Abbiamo avuto provini con numerose giovani attrici, ma appena ho visto Emily [Watson] sul nastro sapevo che avevamo trovato Bess. Emily ha un volto che esprime un enorme gamma di emozioni; un volto che non ti stanchi mai di guardare”(379):

non possiamo che confermare. Il dott. Richardson è simile agli idealisti dei precedenti lm di von Trier, visto dall’esterno. Il suo non è più il ruolo centrale nella narrazione, ma continua a produrre degli e etti. Difatti, il medico belloccio si presenta come diverso dai suoi predecessori, che avevano internato Bess e che distribuivano pillole. Addirittura, è concorde nel ritenere che non vi sia nulla di male nell’esprimere quello che si prova. Perché, allora, Richardson ride quando nalmente la sua paziente si con da con lui? Risuona come uno schia o la sua risata e produce lo stesso smacco che Karen (Bodil Jørgensen) subisce quando il marito Anders (Hans Henrik Clemensen) le tira un ce one nella scena nale de Gli idioti, in cui il suo ‘spassing’, ossia il comportarsi da disabile, trasgredisce l’ordine simbolico rappresentato dal marito e dal resto della sua famiglia. È curioso notare come nell’epilogo del lm sia Karen, che torna a casa dalla madre, dal nonno – anche qui, come per Bess ne Le onde del destino, nulla è detto sul padre di Karen – e dalle sorelle, ad apparire l’estranea all’interno del gruppo familiare piuttosto che il marito parente acquisito. Sulle note di Hot Love dei T. Rex, la storia va avanti: tra lavare i pavimenti, trivellare al nord sotto i occhi di neve, il ritorno di Jan a casa, Bess che ci guarda negli occhi mentre Dodo massaggia la schiena nuda del marito. Le onde del destino è anche la peculiare sintesi fra due visioni del bene, l’una pragmatica l’altra idealistica, con l’aiutante Dodo che apporta una collaborazione fondamentale. Prima, però, vi è lo scontro, senza il quale il connubio non ha da esserci. Ciò avviene quando le due donne hanno preparato un bel pranzetto per il compleanno di lui, per quello che vuole essere un momento di ilarità genuina. “[Jan] Sa che non sarà mai più l’amante di Bess, che non sarà mai un uomo per lei in quel senso. Lei era così felice, amava per la prima volta. L’amore l’ha fatta crescere. L’amore sico la fece sbocciare. La sua sfortuna è una cosa, ma vedere la sua giovinezza allontanarsi lo tormenta davvero. Quando Jan chiede a Bess di trovarsi un altro

amante, è del tutto sincero e genuino. Vuole fare del ‘bene’”(380). Bess risponde chiamandolo, in uno scatto di rabbia, “brutto storpio”: la rottura è massima. La scena successiva di lei sull’altalena che ondeggia con forza contro il cielo grigio e i tetti delle case, rappresenta e cacemente il turbamento di una fanciulla. Cosa conduce alla riappaci cazione? Da un lato, è la voce delle rigide convenzioni sociali e religiose di cui Bess fa, in ogni caso, ancora parte e da cui il suo bene autentico, ad ogni modo, proviene. È il ministro religioso, difatti, a dirle di fare pace con Jan.  I loro insegnamenti e le loro regole presuppongono che siano il popolo prescelto di Dio, in quanto tale guardiano non solo della propria morale ma anche di quella degli altri(381). Bess ha, dunque, una forza tutta sua: lei è capace di sacri carsi per salvare l’altro. Dall’altro lato, è la disperazione di Jan, che esausto non è riuscito neppure a togliersi la vita, assieme alla determinazione di Dodo. Le due persone che veramente tengono a Bess – due ‘stranieri’ – hanno un confronto che deciderà il prosieguo della storia. Per questo il rimprovero di Dodo rivolto a Bess all’ospedale, con in mano ancora un ore poco prima raccolto, sa di programmato. Per questo adesso Jan ha cambiato leggermente versione, e quando le dice di trovarsi un amante, chiarisce che non è per il suo bene, ma per il bene di Jan stesso: il marito ha compreso che Bess non farebbe mai qualcosa per il bene proprio ma solo per il bene altrui. Pure Jan compie, a suo modo, una prova di sacri cio altrettanto importante; sarà infatti doloroso sentirla parlare dei suoi rapporti con altri uomini(382), ma deve convincerla; lo fa per il suo bene, poiché è sicuro che la mancanza dell’amore sico in lei, secondo quelle che sono le sue convinzioni, la rovinerà. Trasognata, sulle scale, Bess sviene tra le braccia del dott. Richardson, non appena lui raccoglie ai suoi piedi il ore che le era caduto.

Il dubbio La nebbia si dirada e mostra i ruderi grigi di un’abitazione per poi riaddensarvisi attorno. Le immagini nei lm di Lars von Trier non sono mai banali né tantomeno casuali. Bess si sveglia sul lettino in pelle del dott. Richardson; la sua rosa è ora nell’acqua; sembra essersi un po’ ripresa. All’immagine di Jan sotto i ferri, corrisponde subito dopo Bess nella solita posizione accovacciata a colloquio con Dio. Nei dialoghi con la divinità, è udibile l’accento rude della voce di Bess. Sebbene, infatti, la lingua del lm sia l’inglese, gli attori adoperano un distinto ma comprensibile accento scozzese; una specialista in merito, Elspeth MacNaughton, è stata ingaggiata proprio per istruire gli attori a riguardo ed è stata presente sul set durante le riprese(383). L’idealista dott. Richardson trova di fronte a sé un’eccentrica versione di Bess, che ha voglia di ballare, sulle note del rock e del whisky. Mette tutta se stessa a vivere quel surrogato ed è così disperata quando, nuda, distesa sul letto, il dott. Richardson incapace di comprenderla la riporta alla realtà, rovinando i suoi piani. È un’anticipazione evidente circa la portata del suo sacri cio. Bess prova un bene immenso e possiede altrettanta immensa forza; resta un’ingenua fanciulla. La sua puerile innocenza non può ingannare un uomo d’esperienza come Jan, anche se intubato. Una risata appena pronunciata contrae il volto dell’uomo, regalando attimi di distensione ad una scena altrimenti pietosa, quando scrive ‘Not true’ su un foglietto. Bess ha il muso in un broncio, come un bambino che, senza più armi, viene colto impreparato. Un sogno ad occhi aperti, però, inciderà sul sacri cio di Bess per il suo amato. L’avvenimento introduce un elemento apertamente surreale, che non trova riscontro nel

sistema valoriale nora rappresentato nel lm. Anche i colloqui intimi tra Bess e la divinità hanno avuto e avranno e etti tangibili, apportando alla narrazione fattori atti a su ragare la miracolosità degli accadimenti; gli stessi sono tuttavia solidamente ancorati alla sfera del religioso, precisamente all’intimo rapporto fra il singolo (Bess) e la divinità. Il sogno, anzi l’incubo, di Jan pare invece richiamare una spiritualità primordiale, prettamente umana, e sembra più a erire a un misticismo pagano o, addirittura, a un discorso di tipo psicoanalitico. Ciò nonostante, posto in questi termini ed a questo stadio della narrazione, e cacemente punta l’attenzione sull’elemento surreale che avrà valenza decisiva. Liberati i polmoni dai tubi, per permettergli di esercitare temporaneamente il loro uso, sotto l’e etto ancora imperante dei farmaci, le visionarie parole di Jan chiamano Bess verso il fondo di un autobus, dove lui si trova, dove lui l’aspetta. “È drogato e una volta, dopo una notte di sonno drogato, si sveglia da un brutto sogno. Nel sogno non era se stesso. Tutti noi abbiamo avuto questa esperienza… un sogno in cui le nostre azioni e i nostri desideri sono sconosciuti e spaventosi. Per Jan, che vuole fare del ‘bene’, questo è terribile”(384). Le onde del destino è altresì un lm sul rapporto intrecciato tra il bene ed il male nella vita di una persona. Il sacri cio non può che avvenire tra lande di brughiera immerse nella nebbia, su un autobus dalla tipica tappezzeria anni ‘70, nei posti dietro che son sempre vuoti. Gli altri passeggeri, infatti, rimangono seduti avanti – così lontani. Una volta compiuto il sacri cio Bess scende repentina alla prima fermata. Si accascia e vomita sul ciglio umido della strada. Ha fatto del bene per Jan; ha anche peccato; pure Maria Maddalena ha peccato ed è tra le favorite di Dio. Appare un coniglio quasi interamente mimetizzato tra la vegetazione, il cui movimento del muso lei imita divertita. Il cuore d’oro di Bess non viene scal to nemmeno dalle azioni torbide della vita; resta una buona ed ingenua persona che vuole bene a Jan.  La sua bontà

ricorda quella di Cabiria (Giulietta Masina) in Le notti di Cabiria (1958) di Federico Fellini, nell’ultima scena quando guarda dritto verso la telecamera e sorride, il trucco che le cola dagli occhi e le dà l’aspetto di un clown, mentre un gruppo di musicisti, incontrato per caso, suona festante nella notte, per strada, tra i boschi: Cabiria ritorna, nonostante tutto, a credere nello spettacolo, assurdo quanto un circo, della vita. Anche Bess riprende la strada per casa, rincuorata, col suo passo infantile e il suo cappello di lana, tra lo sperduto paesaggio scozzese. È così che Jan si riprende, che il miracolo avviene.

Fede La macchina scorre su una strada che si snoda tra i monti vellutati, coperti di verde, no in paese. Bess e Dodo salgono; sulla costa a strapiombo, pietre squadrate emergono, mentre gli amici di Jan cercano funghi. La luce è gialla come sempre, slavata. Allo scroscio delle onde, Dodo e Bess si confrontano. I confronti fra i due personaggi femminili sono le chiavi per accedere al cuore del racconto. In questo, Bess si mostra convinta: lei parla d’amore e lui si salva. Il regista ha dichiarato di aver voluto trattare nel lm il romanticismo mieloso che era stato bandito in casa sua, quando era piccolo: “I valori che presento ne Le onde del destino sono completamente in con itto con le risposte condizionate della mia infanzia. Morten Korch(385) era solito essere una parolaccia e nella mia famiglia eravamo atei con una convinzione quasi religiosa; quindi, tutto nel cinema con religione e scadenti e etti sentimentali era qualcosa che mi era stato insegnato di evitare”(386). Divenuto di recente cattolico, Le onde del destino ha rappresentato il momento per raccontare di una storia d’amore che implica il miracolo, proprio ciò che era considerato stupidità nella famiglia che lo ha visto crescere. “Sono stato battezzato qualche anno fa insieme a mia glia – cosa che non mi ha reso un buono cattolico, non potresti proprio chiamarmi così. Voglio dire, ho appena divorziato. Ma la religione e il miracolo sono in un certo senso sempre stati presenti nei miei lm, n dall’inizio. Alla ne di Immagini di una liberazione, il protagonista s’innalza sopra le fronde degli alberi, e tutti i lm niscono o con una certa liberazione o dal punto di vista di Dio. Questo vale anche per Europa, dove il protagonista va alla deriva nel ume e fuori in mare”(387). Così come alla deriva sta andando Bess, secondo il punto di vista di Dodo, la parte razionale forse della stessa persona, che la rimprovera di essere stupida, come dicono gli altri: sta scomparendo in un mondo di fantasia ed è preoccupata per lei!

Le due donne sono agli antipodi, eppure connesse. Dodo è straniera; Bess è autoctona. Dodo si adatta; Bess si ribella. Dodo rimane in Scozia; Bess va per la sua strada. Entrambe buone, sono estranee al resto. Paiono davvero, a tratti, due facce della stessa medaglia. Uno schia o, Bess è spalle al muro: “Lavoro molto meglio con le spalle al muro. Una volta lì, combatterò no all’ultima goccia di sangue”(388). Perché Bess accondiscende alle perverse fantasie del marito? Deve onorarlo, come dicono gli anziani, così sfruttando quest’invenzione per servire l’amore. La distanza tra Bess e il suo vecchio mondo di regole religiose è ormai incolmabile: da quanto tempo non la si vedeva passare l’aspirapolvere lì in chiesa, dice il ministro religioso, accompagnato dalla madre di Bess. Non c’è alcun saio per la passione di Bess. Sono gli anni ’70: Bess non viene spogliata e costretta ad indossare vestiti sudici. Nella variazione di von Trier, il sacri cio prende le forme di pantaloncini corti in rosso vinile, calze a rete e tacchi a spillo. È un abito che la esclude irreversibilmente dalla comunità, che è altresì altro dall’ingenua fanciulla che è. Pendenti oscillano alle sue orecchie quando entra nel bar degli uomini. Il contrasto tra l’eccesso del suo rossetto e del suo ombretto è ancora più forte una volta immersa tra i vestiti poco curati e sbiaditi dei presenti. È nella fossa dei leoni e siede di fronte ad uno di loro. “Quanto tesoro?”, le dice l’uomo sovrappeso dopo essersi leccato i ba : è il codice dello scambio. Nel martirio, fondamentali sono i soldi, i 30 denari con cui è stato venduto il glio di Dio. L’anziano con la barba bianca e la bombetta nera che scruta Bess sulla motoretta è l’emissario della comunità: il loro occhio non dà pace nemmeno su questo spiazzo di costa, tra i recinti di campagna. Il montaggio alternato sapientemente rivela la connessione tra l’operazione medica di drenaggio a cui è sottoposto Jan, resa vivida dalla telecamera condotta a mano, e l’atto sessuale che vede coinvolta Bess, stretta

dietro un muro bianco. La scena pare molto simile allo stupro di Grace in Dogville, nelle movenze e nei personaggi. Duro è il paesaggio di Scozia, che ri ette il dolore in itto alla protagonista. Se Dodo rappresenta la parte razionale, la madre è la comunità. “Cast out”, “fatta fuori”, è il rischio che incombe su Bess. In tale momento delicato, la scelta del regista è stata di includere una scena in cui Bess vira i suoi occhi verso di noi, a cercare la complicità del pubblico. Davvero lasceremmo che una minaccia del genere fermi l’amore di Bess per Jan? Dopo Dodo (la parte razionale), la madre (la comunità), è ora il momento del dott. Richardson (l’autorità della scienza). Il salotto sarà anche luogo di resa dei conti ne Gli idioti. Il dott. Richardson è anche un idealista che non è più capace di credere; ed il dramma è che non ne è consapevole, di fronte a una Bess risoluta, i cui capelli sono spettinati come quelli di una bambina. Tuttavia, è la s da più dura, quella della fede. “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” sono parole che è come se sentissimo pronunciare da Bess, quando chiama e Dio rimane in silenzio. Il Golgota ne Le onde del destino è rappresentato da monti arti ciali che stanno in mare. D’altronde, è sulla piattaforma che è avvenuto l’incidente di Jan, che ha dato una svolta decisiva alla storia. Imbarcazioni stanziate in fondo narrano di mistero e anche di morte. Proprio lì vuole andare Bess, sulla barca grande, dove non farebbe del male nessuno. Persino quando è diretta verso l’atto nale, la donna intende fare del bene; purtroppo, abbiamo già avuto esperienza su come fare del bene attiri anche il male. “Nei momenti di lucidità [Jan] è profondamente turbato e piange per l’e etto che può aver avuto su Bess mentre era incosciente. Ben presto si rende conto che la separazione forzata tra lui e Bess è l’unica salvezza per lei”(389): Jan, quindi, anche lui buono, anche lui innamorato di Bess,

striscia tremante la penna sul pezzo di carta, consapevole che in questo modo non la rivedrà più. Bess va internata e così curata. È questa la risposta della scienza a chi dice di avere una connessione spirituale con un altro uomo!

Il sacri cio di Bess Risuona l’organo di Child in Time dei Deep Purple, che parla guarda caso di una linea tracciata tra il bene ed il male. La stessa linea che le nuvole segnano nel cielo, rimarcata dal rosso del tramonto; opposta, una luna gigante irradia il suo crescente pallore e il lembo di porto, con le sue casupole, galleggia nel mezzo del mare. Perché il sacri cio? “Perché è l’azione per eccellenza, su cui ogni altra si modella, da cui ogni altra discende. Così dicevano i veggenti vedici. E il sacri cio, anche se consiste soltanto nello spremere un succo lattescente di una pianta, il soma, è sempre una distruzione. E una distruzione che viene percepita come assassinio.”(390) Bruscamente l’organo della canzone viene sostituito dal rombo del motore di una barca, in un taglio sconnesso del suono e dell’immagine a cui von Trier ci ha ormai abituato. Una luce gialla slavata pervade l’atmosfera e ricorda il colore della scena iniziale di Melancholia, così come le sequenze sbiadite di Nocturne. Il giallo è colore di pericolo, come la campanella che annuncia l’arrivo della ragazza. “Come faccio a tornare?”, è la prima cosa che dice Bess. Questo, lo stretto corridoio, la cabina nel cuore dell’ammasso di ferro, sono chiari elementi di una discesa all’inferno, che verrà pienamente rappresentata ne La casa di Jack. Udo Kier(391) interpreta il cattivo dalle sopracciglia scure e ni e la pistola sul tavolo che vediamo sfocata ci anticipa ciò che avverrà. L’oggetto è molto importante ai ni narrativi perché noi non vedremo, direttamente, il sacri cio compiersi, però lo crederemo. La sequenza, inoltre, evidenzia un personaggio che ricorre nei lm di von Trier: il guardone, che è di fatto il protagonista Leo Mendel in Immagini di una liberazione; anche Seligman (Stellan Skarsgård) in Nymphomaniac pare ricalcare i contorni di un vergine guardone; d’altro canto, ogni amante del cinema è, in n dei conti, un po’ guardone. Che

siamo di fronte alla prospettiva di un sacri cio è confermato dal gesto col quale il coltello viene fatto scivolare sulla schiena di Bess, sfregiandole la camicetta succinta; è proprio simile al gesto dell’o ciante che compie l’atto sacri cale, ma è solo una prova. Bess riesce a fuggire e a chiudere i due nel ventre della nave, fuggendo come dagli antri di una caverna. Il pro lo della chiesa, bianca e solenne, contro il grigio paesaggio scozzese sembra rompere lo schermo e dare un senso di oppressione. Il punto di non ritorno, dopo aver fatto visita all’inferno, prende la forma del messaggio prorompente del Cristo, ripetuto da una donna con i tacchi a spillo in una chiesa scozzese degli anni ’70. Bess, però, non scaraventa i banchi dei mercanti nel tempio; è lei ad essere bandita e lo scandalo perpetrato. Le tappe del martirio si susseguono puntuali; con Le onde del destino, von Trier, da un lato, mostra di essere conoscitore della convenzione; dall’altro lato, vi apporta la propria variazione in qualche punto in particolare, avendo cura di non stravolgerne la struttura. Ecco, dunque, che due agenti l’aspettano all’ospedale, pronti a catturarla prima del patibolo. Come molti altri martiri della storia, Bess è trattata come una criminale, seduta nel retro del furgoncino. Come una criminale che si rispetti, Bess è riuscita a scappare; sta dormendo nel suo abbigliamento profano sui divanetti di un locale. Sono questi gli stracci che indosserà negli atti nali della sua passione. Il Ciao non va più a motore; la combriccola di ragazzini, che, in una scena precedente, la salutava serenamente, la colpisce con pietre; la madre non le apre la porta di casa. È una Via Crucis moderna la strada verso la chiesa – la strada verso il Gòlgota? – che Bess a forza cerca di salire, mentre i ragazzini continuano ad insultarla e a lanciarle sassi. L’arrivo del ministro religioso che la guarda dall’alto verso il basso per poi andarsene, è un’immagine emblematica di ciò che è la comunità religiosa.

Difatti, l’unica che la soccorre è Dodo, lei che è una straniera. La storia di ogni miracolo è fatta di dubbi e di di coltà, che culminano con un’epifania. Nella storia dell’eroina dal cuore d’oro, l’epifania è Dodo, che l’abbraccia. Riacquisita la propria fede, Bess non ha più dubbi; è forte. Ecco che nalmente Dio parla e lei si rincuora, sorride. È Ofelia ne Il labirinto del fauno (El laberinto del fauno – 2006 – diretto da Guillermo del Toro) il cui mondo di fantasia si sovrappone alla realtà? Bess ci guarda negli occhi per l’ultima volta. Alle preghiere di Dodo, segue lo squillo del telefono ospedaliero. Arriva una barella d’ospedale con sopra Bess. Il suo corpo è mutilato, la pelle madida, accentuata dall’illuminazione pallida degli ambienti. Dodo nalmente l’ascolta per davvero e le mostra Jan intubato nell’altra camera. I dubbi a iggono Bess negli ultimi attimi, come di chi umilmente ha agito sperando di aver praticato il bene. È questa sua umanità, accostata alla grandezza del sacri cio appena compiuto – che non abbiamo visto ma che sappiamo esser avvenuto – che colpisce. Nel frattempo, arriva la madre. Bess le chiede scusa per non essere stata abbastanza brava. La telecamera cattura le emozioni: un senso di colpa e una vergogna dell’anziana donna; una bontà estrema, invece, della protagonista, che trova le forze per lasciare detto al nonno – assente – che lei gli vuole bene. “Le emozioni sono da sempre state l’ispirazione. Prima erano più rigide, ora si esprimono con una maggiore estensione”(392). La scena è fortissima e fa ri ettere: potrebbe essere un capovolgimento, in chiave narrativa, di ciò che Lars von Trier visse realmente quando la madre gli rivelò la vera identità del padre? Il regista si è limitato a dire: “Sul letto di morte, Bess dice: ‘Mi dispiace di non aver potuto essere buona, mamma’. Non è altro che un grido al cielo! E dice: ‘Perdonami’, poco prima di morire. No, baciami il culo, non potrebbe essere peggio di così.”(393), lamentandosi delle battute sdolcinate del lm; in realtà,

invece, le scene sono intrise di vividi sentimenti. Ad esempio, l’urlo agghiacciante di Dodo, che ansimando invoca il suo perdono, quando Bess muore. Il suono piatto dell’elettrocardiogramma accompagna la ne del capitolo.

Epilogo Il funerale di Bess In La nestra sul cortile (Rear Window, 1954), diretto da Alfred Hitchcock(394), “previa qualche uccisione, la vita si alleggerisce e si rianima. Gli assassini passano, il cortile resta”(395). Ne Le onde del destino, l’uccisione ossia il sacri cio è necessario perché il miracolo avvenga, con e etti non del tutto dissimili. “Io vedo la religione come i miracoli; non credo in loro ma spero che occorrano […] Per me la religione è anche una ricerca per l’infanzia che non ho mai avuto. E il fondamento è questo libro della mia infanzia, chiamato Golden Heart [Cuore d’Oro], un libro illustrato su una piccola ragazza che va nel bosco con delle briciole di pane nel grembiule e sulla strada dà via sia il suo cibo sia i suoi vestiti. E quando il coniglio o lo scoiattolo le dicono che ora non ha nemmeno indosso una gonna, la sua risposta è sempre la stessa: ‘Starò bene!’. E mio padre ha sempre scimmiottato quelle parole. Per lui, impersoni cavano lo spirito di Morten Korch. Era una specie di martire lei, e questo era la cosa più ridicola nella mia casa d’infanzia”(396). La trilogia del Cuore d’Oro ha preso il nome – ed il contenuto – per l’appunto dal menzionato libro tabù dell’infanzia del regista danese: donne martiri che si sacri cano per il bene, come, dopo Bess, Karen ne Gli idioti(397) e in ne Selma in Dancer in the Dark. Non stupisce che quest’ultime si oppongano alle comunità da cui provengono, replicando narrativamente ciò che von Trier ha fatto, in concreto, proprio attraverso la realizzazione della trilogia. Acqua cheta rompe i ponti! Un ruscello scivola calmo tra le rocce, sotto l’arcata di un ponte di pietra. Incorniciata dentro l’arco vi è una valle, saturizzata di verde e blu,

contro i colori spenti circostanti. “Take a look at the lawman/ Beating up the wrong guy/ Oh man, wonder if he’ll ever know/ He’s in the best selling show/ Is there life on Mars?”(398) canta frattanto David Bowie. Due concili chiudono, dal punto di vista della comunità, la storia di Bess, entrambi di soli uomini. In atmosfere kafkiane, una commissione d’inchiesta lascia scritto in freddi atti che Bess è stata una persona immatura ed instabile, che il trauma della malattia del marito ha condotto in una sessualità perversa e degenerata. È troppo tardi ravvedersi ora; ogni idea di ripensamento cade sorda di fronte al tavolino coperto da un panno bianco, su cui poggiano carte e fascicoli. Che si scriva che Bess era buona non può esser accettato dai dotti. È il fallimento degli uomini sapienti che non sanno riconoscere il miracolo. Dalla commissione d’inchiesta al consiglio degli anziani. Cambia l’ambiente circostante, cambia la procedura – da pubblica a segreta – , ma il risultato è lo stesso, anzi peggiore: sono proprio i religiosi a condannare Bess all’inferno. Lo sperimentalismo di von Trier si percepisce in queste scene nali, in cui dal sole si passa improvvisamente al grigio tempestoso di una bufera. Sono, appunto, i sentimenti che dirigono la narrazione cinematogra ca, anche dal punto di vista meteorologico, e non l’osservanza della regola dei 180°. E la tempesta accompagna sempre le scene girate nel cimitero; soprattutto quando il consiglio degli anziani condanna, come avevamo visto per Anthony Dod Mantle, Bess all’inferno – da notare anche la presenza, de lata, del dott. Richardson e l’assenza, decisiva, di Jan. È come se la morte di Bess avesse incrinato le convenzioni del remoto villaggio, perché Dodo non ci sta e proferisce parola nonostante alle donne fosse vietato di partecipare ai funerali. Eppure, i religiosi continuano con il loro rituale perverso. Ne Le onde del destino, il rito è sinonimo di insensato sadismo; è una sequenza di gesti che mascherano l’incapacità di avere fede. Anche in tale lm, è come se il

rito fosse mutato in cliché che perpetrano, consciamente o meno, il male. Il parallelismo con Jeanne Dielman di Chantal Akerman sovviene inevitabile. Che Bess sia sepolta in mare, trasportata con passo felpato come una criminale nel bel mezzo della notte, è immagine emblematica di come il bene di cilmente possa essere compreso. È l’equivalente – maggiormente e cace – delle guardie poste a controllo del santo sepolcro(399). Nel buio profondo, sentiamo il tonfo del suo corpo cadere in acqua e a ondare. “Cercando di salvarla, lui la perde! Facendo del bene! Cercando di salvarlo, facendo del ‘bene’, il mondo che lei amava le si è rivoltato contro. Ma il ‘bene’ sarà sempre riconosciuto… da qualche parte!”(400). Quando Jan e gli altri aprono la porta d’acciaio e sono sullo spiazzo della piattaforma, un miracolo accade: si odono le campane suonare in festa! Le stesse campane bandite dalla comunità religiosa di Bess. In una prospettiva irrealistica, delle campane riprodotte digitalmente oscillano appese alla volta del cielo, immerse tra lamenti di nuvole. Sono riusciti i due amanti nell’intento di reintrodurle. Il miracolo non può essere riprodotto se non tramite una nzione. C’è chi le campane le ode, chi le vede, chi non se ne accorge a atto; a Lars von Trier il merito di averne dato una mirabile ra gurazione. “Finisce con due grandi campane di chiesa in aria, rubate da un quadro da qualche parte. Ma tutti erano d’accordo sul fatto che dovessero essere rimosse e, naturalmente, non lo furono. La gente deve stare attenta a darmi ordini. Ho la tendenza, molto molto stupida, a fare il contrario”(401). Distendono l’atmosfera le note di Siciliana (Sonata BWV 1031 / 2nd movement) di Johann Sebastian Bach, mentre scorrono, a anco ai nomi degli interpreti, immagini come di videotape del lm, che danno la sensazione, dopotutto, di un piacevole ricordo(402).

Resoconto Melancholia e Le onde del destino presentano elementi a ni. Anche delle divergenze. Entrambi a rontano una celebrazione matrimoniale, che occupa una buona parte della storia in Melancholia, mentre è un momento signi cativo nella costruzione narrativa ne Le onde del destino(403). Entrambi si occupano dell’accoglimento di qualcosa che arriva dal di fuori e che comporta l’emergere di di coltà sottaciute: l’ammasso gigante di Melancholia e l’amore per lo straniero Jan.  Entrambi traggono ispirazione, inter alia, dal romanzo Justine di de Sade. Entrambi hanno al centro la relazione fra due donne, le due sorelle in Melancholia e le due cognate ne Le onde del destino. Cinematogra camente, colpisce la luce giallo ocra che è signi cativamente presente in entrambi i lm – con accenni tendenti verso il giallo sabbia nel precedente. Le onde del destino è il primo atto della trilogia del Cuore d’Oro; quanto a Melancholia, esso è il secondo lm successivo al periodo di depressione so erto dal regista – evoluzione di Antichrist e a cui verrà contrapposto il doppio testamento costituito, da un lato, dai due volumi di Nymphomaniac e, dall’altro lato, dall’ultimo lungometraggio La casa di Jack. È con Le onde del destino che si realizza l’importante passaggio dal personaggio centrale maschile al personaggio centrale femminile, che vedrà impegnata la produzione di Lars von Trier no a Il grande capo, in cui ritornerà protagonista un uomo (Jens Albinus, lo stesso che interpreta Sto er, un personaggio chiave ne Gli idioti), per ritornare protagonista assoluto, dopo Antichrist e Nymphomaniac in cui, rispettivamente, sia l’uomo (‘He’ e Seligman) che la donna (‘She’ e Joe) condivideranno equamente il palco, ne La casa di Jack. L’utilizzo di personaggi femminili fatto da Lars von Trier ha suscitato contrapposte reazioni: da chi lo considerava a sostegno delle battaglie femministe per la parità dei sessi, a

chi invece lo tacciava di un indegno maschilismo a conferma dell’attuale stato di cose nella società(404). Il regista danese ha in realtà risposto che non vi è in lui – e nei suoi lm – alcun intento di lotta politica e che le sue protagoniste femminili, al pari dei suoi protagonisti maschili, rappresentano invero lui stesso. Anzi, il regista non ha mai nascosto come spesso abbia sentito molto forte in lui l’agire di una parte femminile, che ha avuto la necessità di rappresentare attraverso le sue opere, anche parlando del rapporto particolare che ebbe con la madre: “Mia madre era forte. Penso che sia per questo che lo penso [che le donne siano più forti degli uomini]. […] Penso anche che per gli uomini sia più di cile perché l’uomo prova a trovare una soluzione logica alle cose. E se si accorge che un’ideale non va, allora ha una tendenza a fare qualcosa a nché funzioni. Penso che una donna, e questo può essere terribile da dire, proverebbe a trovare una soluzione emotiva. Questo è quello che dicono, e questo è quello che penso, in un certo senso. Ma non parliamo in termini di uomini e donne. Sento di essere una donna io stesso, in qualche misura”(405). Non va dimenticato, inoltre, che l’elemento femminile deriva direttamente dalle opere di altri autori a cui von Trier si è ispirato per le storie messe in scena: per Le onde del destino è Dreyer: “Ho voluto fare un melodramma con una protagonista femminile, come Dreyer, che usa sempre protagoniste femminili. Volevo che ci fosse un vero miracolo e che fosse credibile. Non come Miracolo a Milano”(406); per Melancholia è Le serve (Les bonnes) (1946) di Jean Genet; per entrambi Justine di de Sade. Può essere invece notato come ne Le onde del destino la protagonista sia sostanzialmente una ossia Bess, mentre in Melancholia sono entrambe le sorelle, in virtù delle quali infatti il lm è diviso in due segmenti (Parte 1: Justine e Parte 2: Claire). In tre degli ultimi lungometraggi di von Trier, sembrano essere due i personaggi che sopportano le vicende principali del lm(407): se ciò è indiscutibile per Melancholia, qualche ri essione in più può essere invero svolta sul ruolo signi cativo nella narrazione di She in

Antichrist e di Seligman in Nymphomaniac, a anco dei ruoli propriamente centrali di, rispettivamente, He e Joe. E si può discutere se questo sdoppiamento derivi dalla condensazione in gure del binario tematico che anima, di fatto, ogni lm di von Trier – il documentarismo contro la ction, il realismo contro l’idealismo(408), l’uomo contro la donna. In ogni caso, è una evoluzione che la discesa agli inferi di Jack – in questo caso unico protagonista de La casa di Jack – sia accompagnata dalla guida di Virgilio (Bruno Ganz) (409), rispetto al solitario viaggio che conduce il detective Fisher alla pazzia, tra le macerie di un’Europa acquatica, ne L’elemento del crimine, sotto le parole ipnotiche e lontane dello psicanalista. La parabola dell’opera di von Trier registra dunque il materializzarsi di un binomio. Assonanze e dissonanze emergono anche dal punto di vista prettamente cinematogra co. L’utilizzo della camera a mano è onnipresente ne Le onde del destino; in Melancholia è stata utilizzata anche la macchina da presa ssa. Le immagini volutamente rudimentali del primo lasciano spazio alle immagini ‘monumentali’ del secondo. D’altra parte, la seconda metà degli anni ‘90 per Lars von Trier signi ca soprattutto Dogme95 e le sue regole di ‘castità’ contro ogni eccesso hollywoodiano. Melancholia segue invece il lavoro che il regista danese compì a seguito dell’invito ricevuto nel 2002 a mettere in scena il Ring a Bayreuth, previsto nel 2006, proprio per la sua qualità di autore che auspicava di fondere nel suo lavoro “Film, Theater, Literatur und Musik”(410). Il progetto non venne, purtroppo, mai realizzato, ma è d’obbligo credere che forti in uenze rimasero nell’attività creativa del regista(411). Eppure, i quadretti pittoreschi e romantici che aprono ogni capitolo de Le onde del destino assomigliano molto a dei progenitori delle scene eccessivamente digitalizzate di Melancholia. Inoltre la musica, che è fondamentale in entrambi, a tratti si inserisce eccentrica e distensiva ne Le onde del destino, mentre, in modo continuo, ondeggia tra gli episodi critici di Melancholia, aprendo e chiudendo il lm. Per il primo, poi, il rapporto con gli attori è stato

fondamentale ed ha rappresentato una novità, in termini di spazio creativo che è stato lasciato agli stessi, per poi concentrarsi sull’emotività che fossero in grado di suscitare – e la telecamera di catturare. Per il secondo, fu invece il metodo di scrittura a subire profonde modi che. Per anni, la procedura di von Trier consisteva nello stereotipo dell’artista romantico, creatore solitario che abusa di sostanze stupefacenti per incrementare lo stato di ispirazione. Con Melancholia, questo non fu possibile a causa degli e etti collaterali della depressione, esacerbati dal suo abuso di droghe ed alcool(412). Lars von Trier fu infatti costretto a un metodo collaborativo, in cui il confronto con altre persone divenne inevitabile; n dalla sua depressione iniziò a so rire di un tremore alle mani che non gli permise più di scrivere da solo. Come descritto da Louise Vesth, produttrice del lm, il processo di scrittura per Melancholia consistette in una persona che si sedeva al computer, collegato ad un televisore, il quale mostrava in diretta il testo da inserire nello script che von Trier dettava al suo collaboratore(413). È curioso altresì notare che entrambe le produzioni videro un cast felice nello svolgimento dei lavori. Apprendiamo da Stig Björkman che, dopo tre mesi di estenuante, duro lavoro, l’euforia era ancora il sentimento dominante tra i membri del cast de Le onde del destino, grazie al nuovo approccio lavorativo intrapreso da von Trier che permise il perdurare di un’atmosfera distesa. Analogamente, da Linda Badley apprendiamo che Melancholia è stato scritto e prodotto in tempi relativamente brevi e le riprese, dal 22 luglio all’8 settembre 2010, sono state un piacere. L’assistente alla regia Anders Refn ha spiegato che: “sono state delle riprese felici… una magni ca estate, mite, e noi stavamo girando nel castello dove il lm è ambientato”, e la crew e il cast hanno lavorato così bene ed e cientemente che i lavori sono terminati con tre giorni d’anticipo(414). L’impaziente ed il nervoso ‘ uid close-up reportage’(415) de Le onde del destino, in cui le emozioni sono sovrane, lascia il posto alle riprese di documentarismo misto ad un

espressionismo sentimentale dell’opera transmediale di Melancholia – che combina l’elemento ra gurativo della pittura all’andamento ondoso della musica ed ai riferimenti ipertestuali della letteratura. Pare tuttavia esservi una continuità tra i temi a rontati e le atmosfere circostanti, nonostante le ambientazioni spazio-temporali siano completamente diverse tra i due lm. Tant’è che si potrebbe credere che Stellan Skarsgård si sia trasformato, tristemente, nel corso del tempo, in un arrivista uomo d’a ari se non fosse per il di erente nome che indossa (ossia Jan nel lm del 1996 e Jack nel lm del 2011)(416). È più che altro la tecnica impiegata ad essere diversa, anche se non del tutto: rivoluzionaria e contro ogni regola ne Le onde del destino, più immersa in una concezione di arte totale in Melancholia. Come spiega M. A. Claro(417): “Lars cambia molto da… quello che faceva negli anni Novanta no a Il grande capo… [che era] molto quello che io chiamo distruzione del cinema. E poi con Antichrist e così via, è stato… forse reinventare è una parola grossa, ma è stato molto rispettoso, ed è tornato al… suo grande amore per il cinema. Una reazione alla pomposità del cinema… Ora sta cercando di creare qualcosa che sia… non una reazione al concetto di bellezza e al cinema classico… lo sta prendendo dentro e lo usa a modo suo, per creare qualcosa che è allo stesso tempo interessante e bello e… mescolando tutto”(418). Un cultore del bello, dunque, che è passato dal fare lm ‘col martello’ al produrre un’esperienza cinematogra ca totalizzante, in ogni caso perseguendo una politica estetica dell’estremo. Inoltre, è una prospettiva di erente quella da cui vengono viste le storie narrate: nel ristretto e freddo orizzonte scozzese, il miracolo accade, anche se sulla piattaforma nel lontano mare del nord, probabilmente non udito da tutti, dopo che il corpo inanimato di Bess a onda nel mare: le campane suonano a festa e, da qualche parte, il bene è riconosciuto. In Melancholia, invece, la redenzione non avviene, nemmeno attraverso la morte di qualcuno in particolare; è l’intera umanità a dover perire ed il bene, altra faccia dell’amore, non è che un’umana faccenda che si

consuma nel fuoco cosmico, dentro un tipì scuoiato, tra Justine e la sorella Claire – e il piccolo Leo come ultimo barbaglio di generazione. Sì, dalle campane irrealistiche che oscillano in cielo, giungiamo al buio totale della distruzione cosmica, in cui ogni cosa perisce – persino le note del Tristan und Isolde – ; eppure il bene ossia l’amore in ogni caso accade, anche se spazzato via durante la ne totale; il sentimento umano rimane centrale, sopra qualsiasi tecnicismo e strutturalismo, crudo e violento nell’un caso, sublimato nell’altro.

Dogville (2003) / Medea (1988)

Dogville Dalla vittoria della Palma d’Oro a Cannes nel 2000 con Dancer in the Dark e il rapporto tumultuoso con la protagonista Björk (Selma), che con la sua voce inconfondibile e fanciullesca ha interpretato magistralmente il compito dell’eroina dal ‘Cuore d’Oro’, trascendendo, inevitabilmente, attraverso il suo carisma il ruolo assegnato, restiamo negli Stati Uniti d’America. Tuttavia, qualcosa è cambiato, si potrebbe dire, citando il noto titolo di un lm che vede come due attori protagonisti Jack Nicholson ed Helen Hunt – entrambi premiati con l’Oscar come, rispettivamente, miglior attore e miglior attrice nel 1998. Al posto di Björk abbiamo una bionda meravigliosa che assomiglia davvero a “una principessa”(419), tanto per cominciare. Sopra una U, compare una scritta in sovraimpressione che ci introduce al lm Dogville, come narrato in 9 capitoli e un prologo. La struttura non è del tutto dissimile a precedenti lm (cfr. supra Le onde del destino)(420). Non è questo, dunque, che colpisce: è l’inquadratura iniziale, dall’alto(421), su un pavimento color nero bitume segnato da linee e scritte bianche con qualche sedia, mobile, porta posizionativi sopra(422). “Questa è la triste storia della cittadina di Dogville”, ci annuncia una voce narrante, quasi da cantastorie di abe moraleggianti per bambini, mentre risuonano violini. Siamo di nuovo a teatro? No, o per lo meno deve essere una forma di teatro

diversa perché in una sala tradizionale non esiste una prospettiva del genere, che cala e si avvicina presso una radio che bofonchia sommessamente, sopra le teste (ignare) dei personaggi. Alla domanda se il nome Dogville fosse stata una sua idea, Lars von Trier rispose: “Sì, con l’aiuto di alcuni amici. Mi hanno detto che non era inglese. Sarebbe dovuto essere Dogsville. Penso che sia interessante – un altro errore da un regista non americano”(423).

Prologo Che ci introduce alla città ed ai suoi abitanti Anche in Dogville, già dal prologo, capiamo molte cose, come in ogni sceneggiatura che si rispetti. La riduzione al minimo degli elementi consente di focalizzarsi meglio su parole e personaggi, e colorare tramite di essi il circostante, in maniera lieve, non invadente. Le atmosfere sono, come molti hanno ricordato, brechtiane: “Mia madre era pazza di Brecht e mi trascinava a teatro a vedere le sue opere”(424). La lezione però è di Kafka: “Kafka intuì che del mondo circostante ormai andava nominato il numero minimo di elementi. Un a latissimo rasoio di Occam a ondava nella materia romanzesca. Nominare il minimo e nella sua pura letteralità”(425). Von Trier non ha mai nascosto la sua ammirazione per lo scrittore boemo: “Amo Kafka. È stato una grande in uenza e ho scelto il titolo ‘Europa’ come eco di Amerika. È davvero la stessa storia scritta al contrario. Questa volta è l’innocente americano a giungere in Europa. Entra in un caos di di erenti vite, di erenti tradizioni, fedeltà, e opinioni, che io credo siano il fascino dell’Europa”(426). La mancanza di verosimiglianza cinematogra ca rende necessaria la visione attiva, o la lettura, da parte dell’audience, trasformando il cinema in un’esperienza ‘letteraria’(427). Dunque, ascoltiamo le parole del narratore – non più ipnotizzanti come in Europa: Dogville ‘era’ una cittadina fra le montagne rocciose degli Stati Uniti d’America, le cui costruzioni si a astellavano attorno alla bocca di una miniera d’argento ormai vecchia e abbandonata; le abitazioni erano piuttosto squallide, delle baracche; la strada principale aveva il nome di ‘Elm Street’ e, anche se in realtà nessun olmo fosse mai stato visto da quelle parti, per gli abitanti non c’era motivo di cambiare

alcunché. In sottofondo, la musica da camera allevia quella che altrimenti è una visione agghiacciante. Per fortuna che c’è la casa di un certo Tom Edison (Paul Bettany), che in tempi migliori sarebbe apparsa persino presentabile. E mentre l’inquadratura zooma catastro camente sul diaframma della cassa vibrante di una radio, che annuncia in modo familiare a livello globale niente meno che il Presidente degli Stati Uniti d’America – Franklin D. Roosevelt – , capiamo di essere inevitabilmente negli anni ‘30. Dagli anni ‘70 de Le onde del destino, agli anni ‘60 di Dancer in the Dark, la voce ovattata di un giornalista ci trasporta agli anni successivi al crollo di Wall Street, conferendo una forma documentaristica al lm(428): siamo tornati in un periodo che segue ad una catastrofe! “Ispirato da Bertolt Brecht, il suo tipo di teatro, è molto molto semplice, la cosa buona è che prima di tutto la mia teoria è che ci si dimentica che non ci sono case o cose del genere molto presto e poi cosa c’è di buono è che ti fa inventare questa città da solo, questo è un aspetto, ma più importante fa una specie di zoom sulle persone perché le case non ci sono, quindi non puoi essere distratto da quello e se non lo dimentichi dopo un po’ – perché questo è un po’ l’accordo che hai con il pubblico che non verranno mai fuori queste case – quindi questo zoom in avanti funziona bene penso ed è quello che succede a teatro ovviamente, allora le persone diventano importanti”(429). Ognuno di noi è libero di tracciare il contesto spaziale, dunque, della storia, sulla base di semplici coordinate. Lars von Trier non risparmia nemmeno le solite burle: il vecchio, ormai rimbabito, Tom Edison Senior(430) (Philip Baker Hall) chiede di spegnere la radio al glio, nita la musica leggera, nolente nell’ascoltare la noiosa voce del Presidente, mentre continua a leggere un libro dal titolo noto: Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain; non c’è spazio in Dogville per notizie di altro genere. Poi scopriamo che ‘Elm Street’ è una strada presente nel videogame Silent Hill(431); difatti, la mappa dall’alto della città sembra proprio

del genere dei videogame, che permette di monitorare gli spostamenti e i movimenti dei personaggi visti dall’alto. Aleggia una tetra atmosfera infantile sulla cittadina. L’oscillare di un pendolo scandaglia lo spazio altrimenti vuoto a parte qualche suppellettile; grazie a questo piccolo stratagemma, la mente si sente a proprio agio, come se fosse lì presente, con il giovane e belloccio Tom e suo padre. La giacca sembra un cencio; apprendiamo che fa lo scrittore: e che scrittore! Ha scritto solo ‘grande’ e ‘piccolo’ seguiti da un punto interrogativo, le sue carte archiviate meticolosamente in uno dei cassetti: è l’ideale contro la realtà? Lo scricchiolare di una porta invisibile ci cattura, ci stranisce, eppure appare così credibile, come lo stormire delle foglie, il cinguettio di invisibili uccelli. La scelta scenogra ca del lm funziona egregiamente n da subito. Da un’inquadratura laterale, vediamo la cittadina nella sua interezza, da un punto di vista quasi umano e, in fondo, quattro sassi grigi ammassati. Nel momento in cui scopriamo che Tom Edison Junior(432) ha deciso di occuparsi di un certo riarmo morale, oltre che dei suoi scritti, un personaggio si manifesta sul palcoscenico: è il burbero Chuck (Stellan Skarsgård), chinato dal peso di un carico di legna. Rappresenta la fame di Dogville, che divorerà. Infatti, la sua è un’invettiva contro il glio Giasone (Miles Purinton – nome che sembra preso da Medea) per aver dato al cane un osso con la carne. Le parole del lm sono tutte ricche di signi cato, che andrebbero analizzate ad una ad una: Mosè, così si chiama il cane di cui vi è solo appiccicata la sagoma sul terreno, deve avere fame per fare la guardia a Dogville! La guardia a cosa se non vi sono che baracche? Tom passeggia per la città, su cenni sagaci del narratore delle di lui intenzioni: è molto inda arato e, se qualcuno lo chiedesse, lui risponderebbe che è inda arato a minare, sì, a minare nell’animo umano, no a raggiungere la parte che luccica. Ma, sovviene, subito la domanda: è tutto oro quello che luccica? In Dogville, la vecchia miniera abbandonata è d’argento!

È come se nella prima sequenza fossimo portati a spasso da Tom, per le vie (i.e. la via) della cittadina, a conoscere una buona parte dei suoi abitanti. Un pennacchio è sospeso nel cielo ed è la costruzione più alta: è la punta piramidale del campanile della casa della missione, dove si svolgerà la riunione sul riarmo morale di domani. Ancora una volta il tempio sacro, coi suoi quattro banchi di legno ammu ti, è il luogo di aggregazione sociale della comunità, dove si decidono le regole della convivenza civile (come ne Le onde del destino); d’altronde, “Se l’idea del partito è nata dalla Chiesa, è perché sin dall’inizio la Chiesa si è presentata come un partito che si pre ggeva di sgominare tutti gli altri. Il proselitismo, la vocazione universale della cristianità, è anche la pretesa di riunire l’umanità in una sola milizia”(433). Anche in Dogville la casa della missione è rigida in un proceduralismo freddo: non vi è un consiglio di anziani, seduti in posti riservati, di poco più in alto rispetto all’uditore; vi è però una perpetua non troppo vecchia, vestita di stracci e che non pare troppo sveglia, la quale ricorda come non si possa assolutamente suonare l’organo nché non vi sia l’autorizzazione del direttore regionale: la musica non è permessa nemmeno a Dogville; almeno alle 7 una corda s brata fa risuonare una campana – che non ha nulla di miracoloso. È curioso vedere zappare attorno arbusti di uva spina – questo leggiamo nel disegno impresso al suolo – nientemeno che Lauren Bacall, che interpreta Ma Ginger, la proprietaria dell’unico negozio del villaggio, che pratica prezzi esagerati sfruttando l’assenza di concorrenza: sì, Lauren Bacall che avevamo visto, inter alia, in Come sposare un milionario (How To Marry a Millionaire) di Jean Negulesco, accanto a Marilyn Monroe e Betty Grable nel 1953(434). Lei che fa anche delle ottime crostate e non vuole prendere lezioni da Tom su come zappare la terra; zappare è atto diverso dal minare? Sordo il battipalo riecheggia, nella costruzione di un nuovo penitenziario, analogamente al pendolo

dell’orologio in casa di Tom; la funzione dell’accorgimento è di scandagliare lo spazio; scandisce la distanza nel buio davanti ad una panchina e ad uno sciapo albero di mele: verso la ne di Nymphomaniac, la protagonista Joe trova l’albero dell’anima: solitario, aggrappato ad una roccia, con un tronco biforcato (che indica una rottura) e piegato dal vento contro cui non ha riparo se non le proprie radici ancorate al suolo; due scene di altrettanti lm sono curiosamente simili: l’albero iniziale mosso dal vento del deserto in No Home Movie (2015) di Chantal Akerman e la scena dell’arbusto esso in Petal Dance ( ペ タ ル ダ ン ス , Petaru Dansu, 2013), lm diretto da Hiroshi Ishikawa(435). Il motivo dell’albero è strategicamente autoreferenziale e rimanda ai lm precedenti di von Trier in cui gli alberi, le foglie e la natura sono presenti in modo signi cativo – in particolare nella conclusione di Immagini di una liberazione(436). In Dogville, rimane uno dei pochi elementi visibili, ssi. Il battipalo che risuona rappresenta altresì il lento minare di cui Tom si trastulla di compiere, nella sua mente? Il giovane si avvia con fare spavaldo verso la casa dell’amico di infanzia – nonché stupido, apprendiamo – Bill Henson (Jeremy Davies), per la loro abituale partita a scacchi, in cui lo batterà. La partita a scacchi in cui un giocatore vince in maniera ricorrente non è nuova nel panorama immagini co del regista danese. In Europa, sentiamo: “Abbiamo giocato a scacchi circa 15 volte e ti ho battuto sempre”; così si rivolge il colonello Harris (Eddie Constantine) al prete (Erik Mørk), negli stessi trepidanti momenti del suicidio di Max Hartmann (Jørgen Reenberg) dopo la famigerata menzogna dell’ebreo (interpretato dallo stesso Lars von Trier, ormai conscio di non esserlo). Tom come il colonello Harris – anche quest’ultimo americano – vince ad ogni partita; Bill come il prete, invece, sono destinati a soccombere. Però Tom ha una giusti cazione in più per giungere, ogni giorno, all’ora stabilita, presso la casa degli Henson: la sorella Liz (Chloë Sevigny) e l’orizzonte legato alle sue curve voluttuose: un dolce,

doloroso, seducente abisso! Tom è anche un po’ sadomasochista; non esiste infatti l’ideale perfetto. Nel confronto con l’amico, i cui capelli sono eccessivamente laccati e il viso roseo da adolescente perenne, il pro lo a lato di Tom emette parole che ricorreranno nel corso del lm: dono e accettazione. È la ricetta per gli abitanti di Dogville – la sua ricetta! – : sono i due elementi chiave del lm. La macchina da presa condotta a mano, gli zoom improvvisati, i tagli di immagine sconclusionati anche in Dogville riescono nell’intento di conferire intimità, e etto che è accentuato dalla riduzione al minimo degli elementi di scenogra a. Però tornano le riprese sse, dall’alto, da prospettive poco umane: è nita la trilogia del Cuore d’Oro nonché la castità di Dogme95 (che doveva tra l’altro riguardare un solo lm); ora siamo negli Stati Uniti d’America o, per meglio dire, in un ‘teatro di posa della mente’ situato negli Stati Uniti d’America. Lars von Trier ha forse realizzato la più meta sica delle sue opere, con Dogville; attraverso giochi di prospettive, telecamere mobili e sse, fari arti ciali, lo spettatore è immerso nella storia che pare essere la metafora di un processo mentale. Così ha detto Roberto Calasso su La nestra sul cortile (Rear Window) (1954) di Hitchcock: “Che cosa appare, allora? Non il mondo, ma il cortile: predisposto come un edi cio mnemotecnico, dove la parete di mattoni sbiaditi fa da supporto ai loci, che sono le varie nestre. Qui si manifesta la fondamentale invenzione visiva del lm: le immagini che vediamo all’interno della cornice delle singole nestre […] sono a un altro livello rispetto a quello che vediamo nel cortile o nella stanza del protagonista. […] Hanno la qualità allucinatoria e smaltata delle decalcomanie. […] E si insinua il sospetto: forse la nestra dove sta appostato il fotografo James Stewart […] è una nestra che si apre su ciò che perennemente sta dietro il mondo: il teatro di posa della mente”(437). I loculi disegnati sul terreno di Dogville, abbelliti di un contato mobilio, sono i contorni sfocati di un

viaggio mentale, che nel lm è tradotto in un minare nell’animo umano, un minare continuo, come il battipalo del penitenziario.

Capitolo 1 In cui Tom sente degli spari e incontra Grace Come ne Le onde del destino, i titoli dei capitoli condensano ciò che avverrà. Rispetto ai precedenti, i toni qui paiono irriverenti: il narratore (John Hurt) si burla della storia (di noi?) raccontandola. La sua voce fuori campo “crea automaticamente un doppio strato di commento rispetto alla traccia visiva, è un meccanismo impareggiabile per creare distanza e ironia”(438). Alcuni hanno ravvisato la funzione di coro della voce narrante, rimarcando altresì la letteralità della costruzione narrativa(439). Altri hanno rimarcato: “La sonorità profonda, leggermente roca e dall’accento inglese di Hurt è diventata onnipresente come segnale acustico per l’ascoltatore per associare la gravità morale e l’importanza epica con la storia che si svolge davanti a lui”(440). Altro strato di commento è la sovrimpressione di parole taglienti che aprono ogni capitolo e segmentano la storia. Perché, dunque, gli spari? Tom è fuori, su Elm Street, mentre noi spettatori possiamo assistere alle attività serali degli altri abitanti nel momento di andare a letto; gli uomini (il padre di Bill Henson e Tom Edison Sr.) sono ancora svegli a leggere, le donne prossime ad annegare nel tepore delle lenzuola. Piove, il vento imperversa; in sottofondo la musica di Vivaldi(441): la soundtrack del lm, eccetto per Young Americans di David Bowie udibile sui titoli di coda, è costituita da composizioni musicali barocche, principalmente di Vivaldi, che risuonano nei momenti chiave e danno un tocco di solennità, con il loro senso di ordine ed equilibrio cupo e maestoso(442). Si odono, quindi, sommessi degli spari, in lontananza. Come ne Le onde del destino, nella scena in cui Bess è con i due brutti ce della grande nave, la pistola è simbolo di avvertimento, di

qualcosa di grave che capiterà. Tom, tuttavia, si siede, Dogville intera alle sue spalle, e pensa: i suoi pensieri presto ritornano ad immagini a lui care: romanzi, articoli, folle acclamanti e avvinghiate grazie all’in usso delle sue parole, dei suoi scritti: la nuova novella! È l’idealista; nei lm di Lars von Trier è onnipresente lo scontro tra idealismo e realismo(443). Per ra gurare tale spirito il regista prende in prestito visioni e mezzi tipici di una certa scuola politica: “Mio padre era un socialdemocratico della vecchia scuola e aveva una forte coscienza sociale”(444); sua madre era comunista, lui stesso lo è stato. Il giovane Tom “vuole promuovere il bene di tutti come legge senza limiti, legge sovrana, legge che supera il limite”(445). È importante presentare i personaggi chiave nel modo giusto. Grace (Nicole Kidman) entra in scena in maniera memorabile: con passo felpato, una silhouette elegante in pelliccia si intrufola su Elm Street. Le luci cangianti, pallide e spettrali, forse a replicare il moto delle nuvole nel cielo di luna, evidenziano il momento. “Una forza che andava presa sul serio”: le parole del narratore colpiscono quando spiega a noi spettatori che Tom, sentendo abbaiare Mosè, si rese conto che c’era qualcosa di diverso rispetto al solito: non si trattava di una semplice volpe o coyote. Difatti, trova una bionda inerpicata, pronta a scomparire nella montagna. E la richiama all’attenzione: di lì, infatti, c’è uno strapiombo che porta a morire. Non passa molto tempo che lo sguardo in stato confusionale della donna tramuta in movimenti esagitati: il rumore di una macchina annuncia l’arrivo di qualcuno. Tom la fa nascondere proprio nella vecchia miniera abbandonata (rappresentata da cornici di legno disposte in sequenza, dalla più grande alla più piccola, a riprodurre il cunicolo nella roccia). La Cadillac Series 355 C nera indica chiaramente che siamo di fronte a dei gangster: tra le auto di Al Capone, nota è la Cadillac Town Sedan del 1928. Così come l’abbigliamento dei due uomini ai sedili anteriori, che indossano un emblematico cappello fedora (uno di questi è Udo Kier, spesso in ruoli di uomini cattivi nei lm di von Trier(446)). Non c’è nulla oltre Dogville. Che

poi che nome stupido, Dogville, secondo il guidatore (Lars von Trier che prende in giro se stesso?). Due colpi sordi esprimono la necessità del ‘capo’ di parlare. No, da quelle parti non è passato nessuno, altrimenti Mosè, che è molto sospettoso verso gli estranei, avrebbe abbaiato, risponde Tom Edison; “Molto saggio da parte sua”, commenta il boss invisibile (James Caan). La gura del boss invisibile richiama inevitabilmente un altro lm di von Trier: Il grande capo. Seppur ambientato in terra danese, la vicenda dell’astratto boss di una ‘corporation’ di informatica potrebbe essere facilmente traslata a Cupertino, con le modi che del caso; per questo secondo alcuni, dopotutto, il lm è l’ultimo atto della trilogia sugli USA. Altri, invece, considerano La casa di Jack come suo epilogo: “La trilogia è rimasta a lungo incompiuta e forse lo è ancora. Nel 2003 si apre questo trittico con Dogville, al quale segue Manderlay nel 2005. A seguire, nel 2007 sarebbe dovuto uscire Washington a concludere la trilogia, lm mai stato girato. Nel 2018 esce l’oggi tanto discusso La casa di Jack, avente una notevole a nità tematica con Dogville e Manderlay, motivo per il quale si sospetta che possa essere nalmente la (447) conclusione, il tanto ambito terzo lm” . “Sono ancora convinto che Dogville sia la cosa migliore perché penso che sia scritto dannatamente bene. Tarantino ha detto che se l’avessi fatto per il teatro, avrei vinto un Pulitzer. Ne era sicuro: l’ha de nita una delle migliori sceneggiature”(448). Per questo ogni parola, ogni gesto, vanno presi sul serio nell’analizzare il lm. Dogville fu, inoltre, realizzato durante un contesto politico particolarmente delicato per la Danimarca riguardo al trattamento degli ‘stranieri’: le elezioni del 2001 nel paese hanno visto trionfare i partiti di destra, che per la prima volta hanno ottenuto una maggioranza assoluta in parlamento dal 1901, primo anno del sistema democratico moderno in Danimarca. L’immigrazione ha avuto un ruolo centrale nella campagna elettorale di quell’anno e la

questione del suo incremento è stata una delle cause che hanno contribuito all’ascesa del Partito Popolare Danese, che promise l’applicazione di una dura politica di gestione del fenomeno. Grace, a pensarci su, è una viandante senza bagagli. Lars von Trier stesso ha commentato: “Non ho mai pensato che il lm avesse potuto contribuire al dibattito sull’immigrazione, ma molti parallelismi possono essere tracciati. I miei genitori sono stati rifugiati in Svezia durante la guerra. Penso che lo standing morale di una nazione si possa misurare dalla sua attitudine verso i rifugiati. Non è che la Svezia fosse così speciale a questo riguardo, ma i miei genitori erano molti felici di poter venire qui e io ho sempre sentito un legame con la Svezia. La Danimarca è terribile in questo momento”(449). Stranieri o meno, guanti in pelle nera, contro la pioggia battente che udiamo solo, consegnano al giovane un biglietto da visita: una considerevole ricompensa verrà consegnata a chi aiuti gli uomini a ritrovare la ragazza. Il pelo inzuppato (della pelliccia e dei capelli), Grace appare come un cane bastonato. Dal narratore sappiamo che Tom sentiva che Dogville era il posto per lei, nonostante non avesse proprio scelto volontariamente di capitare lì, quella notte. Seduta nella sua pelliccia a anco lo scrittoio, dopo secondi di titubanza, che nascondono di denza, cede nelle mani del giovane l’osso con la carne che aveva rubato a Mosè, voltandosi dall’altro lato, con vergogna: “Ho rubato quell’osso. Non ho rubato niente prima. Quindi ora devo punirmi. Sono stata cresciuta per essere arrogante. Quindi ho dovuto insegnare a me stessa queste cose”. Pare che Lars von Trier ironizzi sulla sua infanzia libera da ogni comandamento e sull’impulso sadomasochistico che, grottescamente, ne è conseguito. Ad ogni modo, questo è il gesto con cui lei si dona a Tom, si dona a Dogville. Al contempo ri uta il pane che le viene o erto, perché non lo può accettare, perché non lo merita; ha rubato quell’osso, non lo aveva mai fatto e adesso deve punirsi per il peccato che ha commesso. Siamo di fronte ad una Bess molto più esplicita nel pronunciare i suoi

pensieri? E siamo di fronte a Jan – con le sue argomentazioni a contrario per convincere l’interlocutrice – quando Tom rigira la questione dicendo che sarebbe molto scortese ri utare ciò che le viene o erto da mangiare? Nel campo-controcampo del confronto, Grace è girata verso Tom (e la telecamera), per poi essere di pro lo voltata dall’altro lato, per poi tornare, contro ogni regola, nuovamente girata verso il ragazzo: vi è e cacia nel ra gurare per immagini i suoi stati altalenanti di apertura e di denza rispetto agli argomenti trattati; è il sentimento che anche qui regola la narrazione lmica. Difatti, è voltata dall’altro lato quando parla del boss che ha visto in faccia, dei gangster, di come gli hanno portato via il padre(450). E ritorna ben visibile il suo volto pallido all’assurda a ermazione di Tom circa il fatto che lei potrebbe stare lì, aiutata da tutti: sono persone oneste e perbene, i cittadini di Dogville. Però Grace si domanda: cosa potrà o rire in cambio? Rispetto all’ingenua e buona Bess, lei sembra sapere come funziona il mondo. “Era una di quelle bianche giornate ammeggianti a Cabeza de Lobo, non una bollente giornata blu, ma una bollente giornata bianca”(451), così Catherine in Improvvisamente l’estate scorsa (Suddenly Last Summer) di Tennessee Williams; lo stesso potrebbe dire il narratore il giorno dopo, a Dogville, forse omettendo il bollente. Le luci sono cambiate; ora irradiano biancore; verranno utilizzate per annunciare i cambiamenti di tempo (giorno e notte) e di condizioni atmosferiche, nel vasto hangar adiacente alla sede di Film i Väst nella zona industriale di Nohab, Trollhättan, Svezia, dove è stato girato il lm. Nella casa della missione, gli abitanti sono seduti composti nei banchi in assemblea: annoiati mentre Tom utilizza la tecnica di “fustigare a casaccio in tutte le direzioni” per illustrare la propria predica morale sul problema umano dell’accettazione: è l’ironia di von Trier all’ennesima potenza! Ne manca uno, che scopriremo essere il vecchio cieco Jack McKay (Ben Gazzara). Le argomentazioni del giovane non sono e caci nello scal re la convinzione che

in Dogville vi è un bellissimo senso di comunità. Eppure, Tom il pigro (come lo de nisce e cacemente Ma Ginger) ha un asso nella manica: un’argomentazione concreta. La presenza di Grace produce immediatamente reazioni di avversità. Ben l’ubriacone vorrebbe dire qualcosa ma viene zittito da Ma Ginger: tipico esempio di ‘pointing’ (puntare) e montaggio alla von Trier: da Ben che poco poco si alza per parlare, ad un’inquadratura sconnessa in cui lo stesso Ben, desolato, ha la testa rivolta verso il basso. Sotto i fumi dell’alcol, il regista a erma di aver impiegato solo 7 giorni per scrivere la sceneggiatura di Dogville, senza revisioni: “Ed è stato incredibilmente facile scriverla. Anche perché ho scelto persone che ho incontrato nella mia vita e le ho inserite nelle diverse case”. È una bella di erenza rispetto ai 2 anni che sono serviti per Il regno Exodus, la sua ultima fatica: “è un altro modo, solo correre avanti. Quando diventi vecchio, inizi a pensare: dovresti fare questo, dovresti fare quello. In realtà non sono molto orgoglioso di questo, ma si tende a diventare schizzinosi”(452). Dogville pare però perfetta come posto dove nascondersi. L’obiezione di Martha circa il suonare la campana in caso di pericolo è azzeccata metafora della paura dell’animo umano di fronte alla novità: non si creerà confusione? E come darsi di lei, dice Chuck? Gli abitanti della cittadina non sono dei gangster, sono delle persone che pensano solo agli a ari loro, al proprio ‘business’. Due settimane; questo il tempo in cui Grace dovrà acquisire la ducia di ciascuno. Curioso notare come l’unica che si alza avvalorando l’idea di Tom è Olivia (Cleo King), la donna di colore. La macchina da presa ancora dall’alto, dal punto di vista di Dio, mostra i due uscire dalla casa della missione e camminare per Elm Street come due personaggi di un videogioco, per l’appunto. Così, Tom illustra a Grace la combriccola di persone che dovrà convincere nelle due settimane a venire: Olivia e June la storpia; i Benson che

lavorano i bordi dei bicchieri a buon mercato per farli sembrare costosi; Chuck e Vera che si odiano e i loro sette gli; Jack McKay che prova a non far scoprire agli altri di essere cieco; Ben l’ubriacone che va a prostitute; Martha la curatrice della casa della missione – nell’attesa di un nuovo pastore che non arriverà mai – ; e Ma Ginger e Gloria, le proprietarie del negozio costosissimo di Dogville, alias le speculatrici che sfruttano il fatto che nessuno lascia mai la cittadina. Non vanno nemmeno a votare da quando c’è la tassa di registrazione! Ecco un condensato dei democratici Stati Uniti d’America, con la regola dell’unanimità e dell’uno vale uno! Come per Dancer in the Dark, Lars von Trier fu criticato per aver ritratto gli USA senza averci mai messo piede. “Sono stato molto provocato da numerosi giornalisti americani a Cannes. Erano arrabbiati perché avevo fatto un lm sugli U.S.A. [Dancer in the Dark] anche se non c’ero mai stato. Quindi ho pensato: va bene… in fondo… ora farò molti lm sull’America. Ho anche pensato che potesse essere interessante per gli americani, e per altri, scoprire come l’America potesse essere vista da una persona che non vi avesse mai messo piede. Se fosse stata la mia nazione, la Danimarca, a me sarebbe piaciuto conoscere come potesse essere vista da chi non ci sia mai stato. Forse pensano solo alla statua della sirenetta, o che ci siano orsi polari che girano da queste parti. […] Inoltre, è proprio quello che i registi americani hanno sempre fatto […] Non sono mai stati a Casablanca”(453). Oltre la vetrina, sette statuine vengono prese di mira dalle parole sferzanti del giovane Tom, all’apice di un’invettiva contro la sua cittadina. Non era Dogville la città che amava? Che razza di modo era quello per dimostrare il suo amore? È Grace a riconoscere – in maniera molto originale, come ricorda il narratore – che Dogville, dopotutto, è un bel posto, fatto di gente con sogni e speranze, statuine dietro le vetrine nient’a atto orribili. Un lieve cambio di luce allora accade su Dogville, come in un’epifania: questi cambi di luce saranno molto importanti. È davvero ignara delle persone miserabili, sia nei propri

che negli altrui confronti(454), che ha di fronte? Nel gioco che dura due settimane, ‘physical labour’, lavoro sico, è la strategia proposta da Tom; ed è già tutto un programma!

Capitolo 2 In cui Grace segue il piano di Tom e si imbarca nel lavoro manuale Alla domanda sul perché Le onde del destino fosse stata un’esperienza ipnotizzante, rispetto ai precedenti lm della trilogia Europa, che invece lato loro tentano tutti di rappresentare uno stato ipnotico, von Trier rispose: Le onde del destino “è ipnosi, mentre gli altri lm sono sull’ipnosi”(455). Dogville va oltre; penetra di per sé nella mente; pare un’allegoria della psicologia umana moderna, per i ni signi cati che emergono in ogni parola, in ogni gesto, in ogni barbaglio. Le tenere foglie degli arbusti di uva spina si aprono al cinguettio degli uccelli che annunciano il primo giorno di primavera: è un giorno bellissimo, il giorno che è stato scelto, come da un destino superiore, essere il primo di lavoro sico per Grace in Dogville: negli USA, l’idillio è lavorare. “O er you my help”, o rire il mio aiuto: le parole utilizzate mascherano la natura prettamente negoziale dello scambio, che viene invece super cialmente presentato nei termini di una torbida generosità. Nessuno sembra aver bisogno di Grace: né Olivia, né Martha, né Ben, né McKay. Quasi fatalmente, gli arbusti ben curati di uva spina di Ma Ginger e, in particolare, le catene di ferro che li separano, nella deplorevolmente ridotta scorciatoia per la panchina delle signore, attraggono Grace: la recinzione metallica tornerà utile, a Dogville, dove scopriremo che nulla viene sprecato. È proprio nell’emporio di Ma Ginger che nalmente la prima commissione arriva: le mani di ‘alabastro’ della donna sono ingaggiate, infatti, per un lavoro che non è opportuno: un lavoro, dunque, super uo: sarchiare gli arbusti selvatici di uva spina cresciuti tra le erbacce, che nessuno ha piantato e

di cui nessuno ha bisogno. Il surplus è alla base delle speranze di Grace, che per questo dunque può incominciare il suo percorso di integrazione come straniera nella cittadina. Il surplus è anche, in quanto tale, consumabile ed usa e getta, non riducibile a una logica di pro tto cumulativo(456). Mentre Liz prova morbosamente la sua morbida pelliccia, il pallore della sua pelle risalta sulla canottiera nera e il grembiule azzurrino che indossa a mo’ di tuta di lavoro. Il momento diviene di condivisione collettiva; d’un tratto, ci si accorge che in città ci sono diverse cose di cui i residenti di Dogville non hanno proprio bisogno: le faccende domestiche di Ben, il trasporto di June alla toilette. Poi è inutile anche conversare o per meglio dire ascoltare McKay mentre parla della qualità sottovalutata della luce sulla East Coast, nella penombra della stanza coperta da tende funeree; così come girare la pagina degli spartiti per Martha – che, per non logorare i pedali e le canne dell’organo, si esercita suonando senza musica! E poi Bill con i libri, e Tom Edison Sr. con le medicine: tante cose inutili, eppure ben presto apprezzate. Questo giro di vite ci permette di conoscere, a uno a uno, nel denso ma vuoto ambiente di Dogville, i suoi abitanti: persone che studiano invano, che non hanno una casa, che sono storpie, che vivono nell’oscurità per vanità, che rinunciano alla musica per non sprecare! L’export stesso che produce Dogville sono bicchieri dozzinali lavorati in modo da apparire costosi. L’immaginazione di ciascun spettatore è vasta, certo; eppure, pare inequivoco l’orizzonte che emerge attraverso i muri invisibili, tra le rocce selvagge d’America. Grace calza come un guanto alla missione di Tom di educare Dogville all’accettazione. E come un guanto calzò a von Trier uno smoking di Dreyer; forse perché “Con Dreyer, ho un rapporto quasi sacro”(457). Lo smoking in questione fu indossato dal maestro danese a Venezia nel 1955, quando ricevette il Leone d’Oro per Ordet; venne successivamente regalato a Henning Bendtsen, direttore della fotogra a di Ordet – lo fu anche per Europa e Epidemic

di von Trier – e di altri lm di Dreyer nonché suo grande amico. Dreyer era una persona molto generosa e lo smoking – con inciso il nome di un sarto danese che aveva il suo negozio a Parigi, risalente al periodo di massimo successo per Dreyer – non gli andava più. A sua volta Bendtsen lo regalò a von Trier a nché restasse nell’industria. E l’abito gli andò perfettamente(458). L’accettazione riguarda, generalmente, qualcosa di estraneo; però può riguardare anche qualcosa che proviene dall’interno, magari da una miniera, profonda e abbandonata; miniera che è il primo luogo in cui Grace viene nascosta e che è una presenza raramente nominata in Dogville, eppure centrale; la cittadina senza la miniera probabilmente non sarebbe mai esistita. Tom comincia a provare del sentimento per l’insolita e strana creatura, così a ascinante, e su cui prova un senso di supremazia – ci dice il narratore – per averla salvata dal precipizio e averla impegnata nel gioco di piacere ai residenti della cittadina. È lo stesso desiderio di possesso che anima Giasone nelle scene di letto con Glauce, in Medea. È curioso che i gli di Vera e Chuck hanno nomi discendenti dalla mitologia greca: Giasone, Diana, Atena, Pandora, Olimpia – c’è anche Dalia. Vera si emoziona facilmente quando si parla dei suoi gli: le lacrimano gli occhi oltre le lenti a goccia e la vestaglia sudicia: l’esagerato sentimento materno è ancora una volta la tras gurazione – in eccesso – del rapporto di odio e amore che lega von Trier alla madre? “In ogni lm cerco di irritarla, anche se è morta, quindi ha ancora molta in uenza. Ma ogni lm è fondamentalmente per irritarla e provocarla”(459). Come pure sembra una provocazione la scritta, sulla lavagna all’interno della baracca, ‘Eros’ a ancata da una freccia indirizzata verso ‘Psyche’, mentre la telecamera stacca uida e vertiginosa alternativamente su Grace e poi su Ben che hanno un confronto: in tale frangente Ben si lascia scappare un accenno alla signorina Laura – forse altro

riferimento, letterario, alla Laura del Petrarca? – , la quale altro non è che una menade, “come direbbe Ovidio”, suggerisce la colta Vera. Lars von Trier sembra sfoggiare una conoscenza dei classici: “von Trier è molto logico, ma non è molto intellettuale… se dici qualcosa su Nietzsche, in realtà non capirebbe di cosa stai parlando. Oppure lo capirebbe, ma non saprebbe che è quello che ha fatto [Lars]. Perché nel processo di creazione… non si siede con concetti speci ci e pensa ‘farò riferimento a questo e quello e quello’. Voglio dire, in una specie di senso accademico intellettuale esistenziale, è proprio come, ‘Oh, sono davvero interessato a, ehm, Albert Speer, sono davvero interessato all’architettura… amo la pesca’. Quindi [ha]… una miriade di idee, passioni, bisogni e fobie, che sono particolari per lui. E poi ricerca un po’, sai, non tutto, un po’, e prende cose che puoi usare senza pensare al contesto più ampio. E questo è un bene perché se si intellettualizzasse troppo sarebbe insopportabile… quindi penso anche che lo liberi”(460). La somiglianza del piccolo Giasone con Lars von Trier è agghiacciante: è un piccolo lui? La sua sagace irriverenza potrebbe confermarlo: è il primo che parla chiaramente, senza giri di parole. Provoca Grace: a lui non piacciono i ciclopi, preferisce due occhi, come i suoi; e, ancora sagacemente, ammette: se vuole piacere a Vera e rimanere a Dogville, deve prima essere gentile con lui. Tant’è che Grace si abbassa al suo livello, per parlare vis-à-vis, al ne di convincerlo a mettere a posto la casa e così sottrarsi alla scomoda situazione. Le luci sono cambiate, il buio è calato; il confronto fra Chuck e Grace rivela cose importanti. Controluce, le bionde ciocche di Grace sbrilluccicano di riverberi blu e rendono la sua pelle radiosa ed enigmatica; su Nicole Kidman, von Trier ha dichiarato prima dell’inizio delle riprese: “Lei voleva essere in uno dei miei lm. Le ho detto che avrebbe potuto fare questo. Ho scritto il ruolo soprattutto per lei, sebbene non la conoscessi. Credo che

vada bene per la parte, sono molto contento sia dei nostri”. La stessa attrice ha a ermato di essere rimasta profondamente colpita da Le onde del destino e di vedere Lars von Trier come un visionario(461). Similmente a Catherine Deneuve che volle essere in Dancer in the Dark(462). La donna osserva colpita Chuck che declama contro la cittadina, che è marcia no all’osso. Lui non prova alcun fascino; lei sì, e se ancora non è stata conquistata, lo farà la cannella nelle crostate di uva spina (e la macchina da presa, e cacissima, stacca su Ma Ginger e Gloria che cospargono di cannella il dolce appena sfornato, sullo sfondo Grace in piedi che ascolta il monologo di Chuck oltre i muri invisibili). In ussi magici penetrano nella narrazione: l’uva spina e la cannella formano insieme un intruglio stregato. Dogville è stata per l’uomo la dimostrazione che le persone sono le stesse, ovunque, avide come gli animali: “Se li nutri abbastanza, mangeranno no a scoppiare”. Ancora una volta abbiamo la contrapposizione tra un’idealista (Grace) e un disilluso (Chuck). Grace, tuttavia, sembra avere un peccato originale: viene dalla città; le gurine oltre la vetrina di Ma Ginger, che ora le appaiono in qualche modo belle, qualche giorno prima le sarebbero risultate di cattivo gusto. Grace è una “forza che va presa sul serio”; è una forza che ricorda ciò che Chuck era venuto a trovare qui a Dogville; una forza nell’atto del suo conformarsi; che forma assumerà? Intanto, sappiamo che a Mosè Grace non piace.

Capitolo 3 In cui Grace si abbandona a un ambiguo atteggiamento provocatorio Con foga strappa fasce di tessuti, apre i lembi: uno squarcio rivela la nestra nascosta, dietro le tende funeree, nell’abitazione di Jack McKay. Immersa nella luce rossastra dell’enrosadira(463), Grace ha gli occhi strabuzzati, la bocca aperta: che cosa ha visto? Jack McKay aveva appena risposto alla sua indisponenza improvvisa che non c’era nulla da vedere, lì, a parte squallore, mentre declamava sulle di primo acchito deludenti vetrate di una certa chiesa di Saint Bridget a Los Angeles. Il primo piano dello sguardo obliquo di Grace aveva mostrato una sua inso erenza alle fandonie del vecchio; ora v’è morti cazione, nel pulviscolo dorato del tramonto, che rassomiglia al denso uido in cui è immerso il Cristo nell’opera Piss Christ di Andres Serrano. Perché Grace, che nelle due settimane precedenti aveva maturato un amore sincero per il posto, raggrottava le sopracciglia impaziente contro il suo interlocutore? Era forse la tensione del momento, al vaglio del giudizio collettivo ormai imminente? E perché, squarciati i veli, il suo pro lo si avviliva, nella luce bella, persino ammaliante, e chiedeva scusa ad un McKay il quale, le rughe scoperte del viso, non poteva che riconoscere la sua cecità, lui che amava così tanto la luce e che appendeva tende pesanti. Che sia lasciato solo, ad essere cieco. Dall’alto, le pedine digitali degli abitanti si accomodano tra i banchi della casa della missione. È una mattina importante per Dogville, per Grace. Comunque sarebbero andati gli eventi, Grace si era esposta, nuda, a Dogville e qualcosa ne aveva ricavato: degli amici. Lo confermano gli oggetti che rinviene nel suo fagotto, pronto per l’eventuale partenza: una mappa, un libro di inni, il taglierino di

Giasone (che si tramuterà nel coltellino di Leo), un dollaro, una crostata di Ma Ginger. È il feticismo totale, dove il sentire umano si solidi ca in ‘beni’ materiali. È una sensazione strana riuscire a cogliere entrambi i momenti, che la peculiare tecnica del lm permette: la tremante Grace e i confabulanti cittadini riuniti in assemblea (esclusi i bambini, ovviamente, incapaci nel meccanismo democratico di esprimere un voto consapevole). “Le assemblee cittadine che Tom Edison convoca periodicamente sono caricature dell’illuminata deliberazione pubblica che il suo nome evoca e mette in ridicolo. Esse o rono soprattutto l’occasione agli abitanti della città di esprimere – in modo univoco, senza dissenso – le loro pie preoccupazioni, auto-esoneranti, per l’autoconservazione della comunità e i loro sospetti nei confronti dell’estraneo che è entrato in mezzo a loro senza invito. Nell’unico episodio atipico in cui gli abitanti del villaggio esprimono un atteggiamento bene co e umanitario nei confronti di Grace, durante la riunione in cui le concedono il privilegio di restare, le tecniche cinematogra che di von Trier suggeriscono la qualità eccessiva dell’unanimità di pensiero e di sentimento degli abitanti della città. Il regista preclude anche solo l’accenno a un pubblico che potrebbe essere tutt’altro che uniforme, o che potrebbe invocare una disputa vocale, facendoci ascoltare solo la voce narrante e mostrandoci il sorriso di apprezzamento di ciascun abitante della città (parlante ma muto), illuminato dal sole dorato, mentre la campana della chiesa suona, segnalando in modo udibile che Grace, per il momento, deve essere ‘annoverata’ tra ‘il popolo’”(464). Le proiezioni sentimentali di Grace, che è contenta per aver lasciato traccia di sé, dopotutto, nella cittadina, le viviamo assieme al vociare confuso di chi dovrà decidere del suo destino, nell’intimità accentuata dalla camera condotta a mano e dall’assenza di ltri sici (e.g. muri, suppellettili, alberi). Colpisce anche la vastità di Elm Street quando Grace lascia i consociati liberi di decidere e abbandona l’edi cio sacro. Arroccata sulle rocce, in

procinto di lasciare per sempre l’ammasso di baracche, risuona il quindicesimo rintocco di campana: altro cambio di luce, che diventa idilliaca! La musica da opprimente si distende giocosa. In e etti, seduta nella miniera, avvolta nella pelliccia, erano scorse in rassegna le immagini ad e etto seppia dei volti dei cittadini – eccetto quello di Chuck – in corrispondenza dei rintocchi di campana, a testimoniare i pensieri di Grace che si accompagnavano alle vicende della storia. Lo scampanìo torna ad avere un signi cato positivo nella narrazione; però, siamo lungi da qualsiasi grazia miracolosa. L’assenza di scenogra a nel lm ha implicato anche un altro aspetto che potrebbe sfuggire: il lavoro in contemporanea sul set di ciascun attore. Ogni scena vede, oltre i protagonisti, agire sullo sfondo anche gli altri. Per questo, Lars von Trier ha dedicato molto lavoro ad ottenere piena ducia dai suoi interpreti. “Mi risulta molto di cile non decidere troppo in anticipo” – ha dichiarato prima di incominciare le riprese – “Voglio che il lavoro con gli attori sia il più aperto possibile”(465). Inoltre: “Penso anche che quando posso dare loro qualcosa, sono ovviamente migliore quando si dano di me e ultimamente sono diventato più bravo a ottenere questa ducia, ma il modo in cui lavoro richiede questa ducia. Se non hai la ducia è merda quello che faccio, ho bisogno di questa ducia dalle persone, quindi se darsi di me può permettergli di pisciarmi sulla schiena, possono farlo, ho solo bisogno di darmi ed è davvero una grande parte del lavoro questo. Non so perché ho bisogno di questa ducia, forse è perché non mi do di me stesso, ma Nicole mi ha dato molta ducia che ho pensato fosse fantastico e l’ha anche tirata su ma è stato un po’ di cile arrivarci”(466). Durante la conferenza stampa a Cannes, Nicole Kidman ha confermato che il fatto che fosse von Trier ad agire come operatore di macchina, ha aiutato a concedere ducia e a creare un legame emotivo tra l’attore e l’idea del regista, e la condivisione dell’onere della performance ha

contribuito a un’esperienza di produzione intima e speci ca(467). Il regista danese non ha tuttavia nascosto il senso di disagio nel vedere attori di grosso calibro dover star fermi, per ore e ore, durante le riprese del lm, a condividere lo spazio scenico: “Philip Baker Hall, ad esempio, era seduto su questa sedia a dondolo leggendo Mark Twain giorno dopo giorno, molto molto paziente ed è una persona adorabile e mi sono sentito così male per questo, sai, doveva sedersi lì e non fare nulla perché è un attore brillante e questo era uno spreco del suo tempo. Ma erano molto leali e volevano sedersi lì e non è stato carino perché mi sento come un host quando sto girando, sento che tutti dovrebbero divertirsi, è stato un po’ frustrante che Lauren Bacall, gli altri stessero lì nel background.”(468) Dogville è stato dunque anche un grosso esperimento di performance collettiva, di erentemente ad esempio da Dancer in the Dark in cui Lars von Trier ha lavorato soprattutto con i protagonisti principali (con Björk), dovendo qui tutti e 20 gli attori essere presenti sul set simultaneamente(469). Dogville, inoltre, non ebbe alcun manifesto, come von Trier invece aveva abituato l’audience per le sue opere precedenti. Sulla creazione dei personaggi, ha anche a ermato di aver preso ispirazione da gente che ha conosciuto: “Di solito, quando si inventano i personaggi, si prende qualcuno che si conosce e lo si inserisce; quindi, i personaggi sono tutti danesi e poi si prende il proprio personaggio e lo si divide in due o tre persone che portano avanti la storia, più o meno, e che sarebbe a ascinante, il fatto che tu ti dividi in questo. Penso che sia molto interessante lavorare con queste donne, che interpretano bene il mio personaggio, ma questo non signi ca che sia una storia di donne, non la vedo così anche se capisco che possa essere vista in questo modo quando si vede il lm, ma non è così importante per me comunque. Penso che mi rappresentino bene”(470).

Capitolo 4 Tempi felici in Dogville L’arbusto prima dai rami ossei e glaciali ci appare esploso in una miriade di petali rosa. È la primavera, quasi l’inizio dell’estate. Grace è ormai integrata nella cittadina; serve agli abitanti, super uamente: fra le altre cose, sopperisce alla vista di McKay, al cervello di Bill, ai pedali di Martha. Viene pagata; lavora dunque; con i risparmi compra la sua prima statuetta di porcellana all’emporio di Ma Ginger: l’obiettivo è averle tutt’e sette: un obiettivo economico! Ci si rende conto che non molte ‘commodities’ sono presenti in Dogville, forse per via della povertà; oltre le statuette di porcellana, altre sono: i bicchieri scadenti, le mele, le bacche di uva spina. L’argento è scomparso, forse consumato completamente, dalla bocca della miniera. Si trova pure un posto dove farla sistemare: il vecchio mulino, ormai in disuso, dove non rimane che il pesante volano – che tornerà utile – , a dormire in un letto che Laura (la prostituta di cui Ben è innamorato) aveva buttato altrimenti via. Sono gli scarti di una società quelli in cui vive Grace. La presenza di Grace pare aver rallegrato gli animi; gli abitanti sono sorridenti, loquaci, addirittura Martha nalmente suona l’organo senza sentirsi in colpa (è infatti Grace a pigiarne i pedali). Diviene un’amica oltre che di Vera anche di Liz, che le con da di averla votata solo per non aver appresso gli occhi eccitati degli uomini di Dogville (in questo forse celando sentimenti di invidia). Il tempo felice dura solo un mese. Nel bel mezzo dell’estate, scampanacci rimbombano su Elm Street in maniera insolita: di sicuro non è per segnalare l’ora. Le campane assumono quindi un ruolo funesto. Da tempo immemore, i tutori dell’ordine tornano

nella cittadina! Una macchina nera piuttosto sporca e mal concia si arresta nel mezzo della carreggiata; il rottame della legge è l’opposto della Cadillac elegante che guidavano i gangster, chiaro indizio dell’e ettivo rapporto di forza fra le due fazioni. Un uomo panciuto (quasi sembrano esplodergli i bottoni del gilet), cappello alla texana, sbatte la portiera dietro di sé. L’uomo della legge dai toni in acchiti dalla burocrazia è una maschera che si ripete nell’opera di von Trier: l’in usso dell’ispettore Quinlan di Welles è ben visibile nell’autorità altroché candida de L’elemento del crimine (come non pensare al capo della polizia Kramer, interpretato da Jerold Wells; per non parlare del protagonista stesso, il detective Fisher, che diventerà il killer a cui sta dando la caccia, come un serpente che si morde la coda). Nel lm, Osborne – l’autore dell’opera guida L’elemento del crimine e mentore decaduto del protagonista Fisher – a una domanda del pubblico risponde: “Corriamo sempre il rischio di essere corrotti. La moralità della polizia non è diversa da quella della società”. E questo è chiaro. Anche in Europa, il colonnello americano Harris (Eddie Constantine), sotto le spoglie di un’estroversa a abilità, incarna un lato oscuro di opportunismo e pragmatismo. Lo sceri o (lo capiamo forse dalla patacchia di spilla appesa al petto) apparso in Dogville è tuttavia svogliato, quasi sfacciato; Grace nascosta come sempre nella miniera. Appiccicato il volantino con su scritto ‘Scomparsa’ sulle travi di legno della missione, Chuck rimarca il fatto che quindi se qualcuno dovesse vedere la ragazza, dovrebbe andare dalla polizia; l’agente dell’ordine risponde: “Penso che questa sia l’idea”, con una smor a e un colpo di mano inequivocabili; persino il tono è di su cienza; probabilmente non vede l’ora di andare via dal postaccio e sorseggiare la sua birra ghiacciata, magari sotto il portico in legno della sua baracca. Si ammucchiano le teste bionde, grigie, spelacchiate, sormontate da cappelli, attorno allo strano pezzo di carta: ‘Missing’ e un bel faccione che ritrae Grace Margaret Mulligan di pro lo, i capelli essuosi in boccoli. A

contrario, di sera, vediamo ora la folla raggruppata sull’altro lato dello schermo – ogni tanto von Trier si ricorda di qualche regola formale di montaggio – , nella casa della missione, la cui unica lampadina spande un inutile bagliore: hanno davvero paura di una foto di Grace su un pezzo di carta?

Capitolo 5 4 luglio dopotutto Enormi nuvole di polline uttuano per la strada, a prima sera; l’aria è calda, densa: c’è respiro di festeggiamenti: è il 4 luglio. Un lungo tavolo è bandito su quella che altrimenti è la via principale del villaggio. Oltre la vetrina di Ma Ginger, Grace ssa le due statuine di porcellana che mancano al suo obiettivo. La telecamera, di qui e di lì, cattura i momenti della preparazione: addobbi vengono sistemati; mazzi di ori, soprattutto nastrini con i colori americani – blu bianco e rosso – pendono sopra la cartaccia della polizia riproducente l’immagine di Grace: c’è qualcosa di profondamente americano nel vedere la scritta ‘Missing’ sommersa da fronzoli di festa. Tom e Grace hanno un confronto sulla panchina delle vecchiette (lett. come scritto sul set ‘the old lady’s bench’). I occhi di polline continuano a volteggiare imperterriti, a comunicare pacatezza; un lungo contorto discorso agita Tom, che guarda in su, in giù, di lato, contro la ssità del semplice pro lo di Grace diretto verso lui. Tom è l’idealismo tipicamente raziocinante; che cerca di trovare una spiegazione razionale ad ogni cosa, tramite analisi scienti che su analisi scienti che. È divertente come Grace riesca con poche e semplici parole a condensare la go a e vorticosa dissertazione del ragazzo: è innamorato di lei. Qui viene fuori un sorriso di Grace, uno strizzare gli occhi che ricorda tanto Bess ne Le onde del destino. Il montaggio non è uido, ma a scatti; volutamente, le scene sono state girate per poi essere tagliate, contro ogni regola tradizionale, e messe assieme. Il risultato è una maggiore intensità di ciò che vediamo perché la storia è costituita da momenti, in cui v’è anche un sapore documentaristico. Sulla sua tecnica della camera condotta a mano, Lars von

Trier ha a ermato: “Quando usi una camera a mano, la ricerca dell’oggetto diventa parte della storia. Ho provato ad essere preciso ma mi piace anche essere un po’ approssimativo. Quindi quando sento qualcuno dire qualcosa, mi dirigo verso una reazione, o no, è questo fa parte dello storytelling con una camera a mano”. Ciò è ben visibile anche in Dogville, anche in questo confronto, soprattutto con riferimento alle reazioni di Tom. Inoltre, anche se con riferimento a Dancer in the Dark: “La mia tecnica è di lmare ogni scena per un’ora intera, quindi se una scena è due minuti la lmiamo ancora e ancora, e parliamo tra una cosa e l’altra e lasciamo che la telecamera giri, suggerisca cose diverse e giochi. Non facciamo prove, iniziamo semplicemente con gli attori in piedi dove vogliono stare, facendo esattamente quello che pensano sia giusto per il personaggio, e poi giriamo. Già dalla prima ripresa so dove dobbiamo andare o qual è il potenziale e di solito parlo dei diversi colori di cui ho bisogno sulla tavolozza, in modo da poter dipingere la scena. Poi posso dare qualche suggerimento su come mettere in scena le cose o dare un peso diverso alle scene, e quindi il picco emotivo della scena dal mio punto di vista arriva dopo due o tre riprese. Dopodiché parliamo e poi cerco i diversi elementi di cui ho bisogno per la scena. Mi piace molto quando lo sviluppo emotivo di una scena non è completamente logico e non è a uno a uno in tempo reale. Mi piace fare dei tagli temporali in cui saltiamo e tagliamo magari una trasformazione psicologica di qualche tipo – lavoriamo molto con i tagli temporali. Quindi, quando giro, piani co tutto il tempo e corro dei rischi, provando angolazioni strane – si potrebbe dire che sto campionando”(471). Per questo “Lo spettatore vive il movimento della telecamera come una sensazione corporea. Non si tratta di una ‘identi cazione primaria’ con la telecamera, ma di simulazione e mimica corporea. È così che vediamo in generale con i nostri ‘occhi corporei’, non riuscendo a capire dove ‘ nisce’ il nostro corpo e ‘inizia’ la percezione. Inoltre, anche se in Dogville manca

l’ambientazione, tutti i suoni si sentono forte e chiaro: l’apertura e la chiusura delle porte (inesistenti), i passi sulla strada sterrata, il canto degli uccelli, il rumore della pioggia e del vento, l’abbaiare del cane Mosè. Questo invita gli spettatori a creare la città da soli attraverso l’udito. I sensi degli spettatori diventano lo spazio”(472). Grace è anche una donna d’esperienza, rispetto all’ingenua Bess. Quando Tom usa la scusa del richiamo di qualcuno del suo nome, lei decisa dice: “Non li ho sentiti”, con uno sguardo inequivocabile. “Ci vediamo al matrimonio”, tradisce Tom il lapsus freudiano, che avrà del tragico. “America, dolce America, Dio ha sparso la sua grazia [GRACE] su di te”, suona Martha (proprio lei) all’organo mentre gli altri cantano, i bambini posizionati in coro. Il clangore di una forchetta che sbatte su un bicchiere interrompe i presenti: Jack McKay vuole fare un brindisi, per Grace: da quando lei è lì, Dogville è diventato un posto (addirittura) meraviglioso, persino Chuck è stato visto sorridere. E quanto è bella Grace, che nel viso ha tutti i colori che sono rifratti dal prisma più luminoso del mondo. Seppur, da un lato e dall’altro, ha a anco gli uomini che la tradiranno, in una versione peggiorativa dell’Ultima Cena: Tom e Chuck, il cinico idealista e l’inguaribile fatalista(473). La passione di Grace può dunque avere inizio, il 4 luglio: una passione americana. Il telefono, infatti, squilla. Mentre la cabina telefonica ne Le onde del destino era nestra sul mondo, qui l’apparecchio metallico è fonte di sventure. Un’auto della polizia è in arrivo. Di nuovo lo sceri o, svogliato, con la macchina sempre lurida, che sarebbe stato anche lui a festeggiare se non fosse venuta fuori quella roba: quale roba? La donna non è scomparsa, è ricercata! Ha avuto a che fare con rapine in delle banche sulla costa ovest; è lì per cambiare l’avviso: ecco il compito della polizia negli Stati Uniti: andare in giro per le contee ad a ggere e sostituire avvisi. Come una tra le peggiori criminali del Far West, c’è

addirittura una taglia per chi ritrova la pulzella (5.000 e 2.500, probabilmente sulla base dello status di morta o viva della fuggitiva). L’in usso di Brecht su Dogville è noto, esplicitato dallo stesso autore: “La storia è basata su un testo di Bertolt Brecht. È una canzone che sono sicuro conosci, a proposito di una nave che raggiunge un porto. Ha cinquanta cannoni e tanti alberi […]. Parla di una serva di una locanda. Vede arrivare la nave. Attacca la città e l’unica sopravvissuta è la ragazza. È una storia di vendetta. Sebbene sia la più umile abitante della città, la nave viene a vendicarsi dei suoi abitanti perché l’hanno trattata male. Ho scritto il manoscritto prima di decidere la forma”(474). E poi, sul perché degli anni ’30 come periodo temporale: “Nel brano di Brecht ci sono elementi che necessitano di una comunità isolata e la depressione è stata un’ottima ambientazione per questa storia. Inoltre, secondo la mia esperienza, se si sceglie un’epoca diversa dal presente, il lm diventa più realistico”(475). È curioso notare come Brecht stesso scrisse cinque commedie sull’America (prima di andarci nel 1941), sfruttando in Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny) (1927-29) una mitologia hollywoodiana di giungle urbane, gangster e prostitute(476). Oltre Brecht, il teatro lmato di Trevor Nunn con The Life and Adventures of Nicholas Nickleby(477) e Barry Lyndon di Kubrick(478), adattati rispettivamente dai romanzi classici vittoriani di Charles Dickens e William Makepeace Thackeray, hanno in uenzato Dogville, contribuendo alla resa del lm come il più letterario e teatrale di quelli no ad allora realizzati dal regista danese(479). Su Nicholas Nickleby, von Trier ha dichiarato di aver molto apprezzato la lunga performance stilizzata(480). L’arrivo di Grace in Dogville, trasognata, ricorda – forse vagamente – un altro atterraggio improvviso, in un mondo colorato, con delle piccole casette e una stradina dorata, di una ragazza che ne condivide il carattere buono e volenteroso: Dorothy Gale, che dalle grandi ed aride

pianure del Kansas si ritrova nel mondo incantato di Oz. Il mago di Oz (The Wizard of Oz), del 1939 diretto da Victor Fleming, è considerato un classico della storia del cinema; ispirato al romanzo Il meraviglioso mago di Oz del 1900 – il primo dei quattordici libri di Oz dello scrittore statunitense L. Frank Baum – non smette di incantare attraverso i colori saturati dall’utilizzo del Technicolor. Grace però atterra tra baracche fatiscenti di un villaggio monostrada alla bocca di una miniera d’argento vecchia e abbandonata. La scenogra a di Dogville, di cui non vediamo se non i simboli, è plasmata dai colori rifratti di un prisma: alla ne del capitolo uno, un lieve cambio di luce avviene sulla cittadina, come in un’epifania. Oltre le parole malevoli di Tom sui suoi concittadini, oltre i muri invisibili, una luce bianca spande sulle loro teste; adesso, ancora una volta(481), alle parole sconcertanti dello sceri o, la luce cambia di tonalità: da sfumature gialle e calde scivola in accenti bluastri e freddi: lo zoom ci mostra Grace seduta a terra, appoggiata a un pilone della miniera, immersa sotto il ri ettore: sola! L’illuminazione del lm, oltre ad essere utilizzata per suggerire i cambiamenti dell’ora e delle condizioni atmosferiche – un’aggiunta forse necessaria, dato che le riprese sono avvenute in uno studio isolato e spoglio (una vecchia sala macchine nel nord della Svezia) dove non c’era alcuna luce naturale(482) – è strumento che dice molto di più sulla storia che viene rappresentata e sulla condizione emotiva e psicologica in cui è immersa: è un abile trucco, tra l’armamentario del mago di Oz, operante nascosto dietro la tenda verde, per ra gurare la grande menzogna? Dogville è, dunque, il mito del sogno americano capovolto secondo gli occhi di un europeo? In questo Lars von Trier ha dunque un’a nità elettiva con David Lynch, la cui opera cinematogra ca è legata quasi subdolamente al lm di Victor Fleming(483). Che Lars von Trier conosca il lavoro di Lynch è innegabile. Il regno ha un debito incalcolabile con I segreti di Twin Peaks. La serie di David Lynch è un mix simile di immagini inquietanti nonché un melodramma sopra le righe. Per entrambe le serie TV, la

maggior parte degli spettatori si trova incuriosito per le stranezze, ma nisce per rimanere a ascinato per le dinamiche della piccola comunità e le sue inverosimili rivelazioni. Von Trier descrive a ettuosamente Twin Peaks come qualcosa che Lynch ha fatto con la sua ‘mano sinistra’(484) – il che signi ca che se sei destrorso, è una s da a reimparare ciò che sai e, in ne, ad abbracciare i tuoi scarabocchi. In entrambe le opere, infatti, c’è un certo disprezzo per il rigido linguaggio della televisione in serie: musica inappropriata, cambi di tono inaspettati, dialoghi volutamente imbarazzanti, contribuendo a creare una sensazione generale di disagio. Non è chiaro, tuttavia, se questo sia dovuto al fatto che Lynch si sia sottoposto allo stesso tipo di vincoli artistici – per non contare quelli economici – di von Trier. Il destino ha inoltre voluto che, per entrambe le serie, la terza ed ultima stagione (rispettivamente Twin Peaks: The Return – 2017 e Il regno Exodus – 2022) venisse distribuita a distanza di 25 anni dalla seconda. “Ci vedremo ancora tra 25 anni”, è la celebre frase pronunciata da Laura Palmer nella Loggia Nera, che calza a pennello anche per Il regno di Lars von Trier; così come la frase e il gesto delle corna con cui il regista danese era solito chiudere gli episodi della serie TV – “vi chiedo di essere pronti ad accettare il bene con il male” – calza altrettanto a pennello per Twin Peaks – e tanti altri lm di Lynch – , in cui l’idea felice del mito americano anni ’50 si distorce di pari passo – in un gioco di metamorfosi – in immagini oscure e raccapriccianti (per non parlare di come Lars von Trier vestito in frac e papillon, i capelli patinati all’indietro, contro un sipario rosso, potrebbe essere facilmente scambiato con un collega dell’Agente Cooper o qualche altro strampalato di Twin Peaks). I macabri zampettii di neri scarafaggi in una sequenza iniziale di Blue Velvet (1986) si confondono, poi, con le immagini della vegetazione oscura in Antichrist, nella cui natura “[…] del resto è e uso/ solo il fascino della morte”(485). Eppure, von Trier ha altresì confessato, in un’intervista del 2006, dopo aver ribadito di non vedere in realtà molti lm: “Il lm più

recente che ho visto è Mulholland Drive. L’ho trovato molto bello. Ma di solito non vado matto per David Lynch, per qualche motivo”(486); e nel 2020: “David Lynch ha imbrogliato un po’. Siamo stati tutti sconvolti dal primo ‘Twin Peaks’. Ho pensato: ‘Accidenti se è bello’. Ma si basa sul presupposto, a cui non avevo pensato, che ci si aspetta che tutte queste cose particolari alla ne portino a un signi cato più grande. Lui non l’ha mai voluto. Non è il suo approccio, lo so. Il motivo per cui si rimane così impressionati è che si pensa che questo sia uno dei migliori che siano mai stati fatti. Sappiamo solo che ci sono 16 episodi, non ho visto gli ultimi, ma non è una cosa nita. Ha cercato di portarla a termine sia con un lungometraggio che con un’altra serie, ma non è mai stata la sua intenzione o ha fatto in modo che alla ne non venisse completata. Ma è la curiosità: ‘un uomo sale su una scala’, questo è l’inizio; poi scompare. Ci aspettiamo che scenda di nuovo dalla scala o che succeda qualcos’altro. La scala cade o altro, in modo che ci siano piccoli punti nella storia che di per sé hanno la stessa drammaturgia dell’opera completa. La cosa più divertente è stuzzicare e non arrivare a una conclusione. Il problema è che ne sono troppo consapevole, contemplo troppo. Non credo che Lynch faccia così”(487). Esiste anche una storia divertente su Lynch che Lars von Trier racconta: “Alla scuola di cinema doveva tenere una conferenza che si è rivelata essere sulla meditazione trascendentale. Io stesso ho meditato per 15 anni. Mi invitarono a incontrarlo, c’era un corridoio di u ci e vidi che era seduto in una stanza con un paio di uomini in giacca e cravatta che sembravano testimoni di Geova e pensai: ‘Non posso andare no in fondo’. Non posso sopportare di vedere l’alleanza tra qualcosa che ammiro così tanto e qualcosa che ammiro così poco. Così mi precipitai in un u cio dove mi nascosi sotto la scrivania della segretaria. Rimasi lì per un’ora, mentre la riunione era in corso, e riuscii a uscire senza essere visto. Quello fu il mio incontro con David Lynch; all’improvviso si era trasformato in uno che vendeva gelati, era completamente

uscito dall’immagine che avevo di lui”(488). Grace, sotto la luce divenuta glaciale, è pericolosa per i cittadini; chiunque abbia notizie di lei, deve chiamare la polizia: è la legge. Son queste le parole già pronte per la sig.ra Henson da utilizzare. Vero è che nelle ultime due settimane Grace era a Dogville e quindi è impossibile abbia avuto a che fare con le rapine; il saggio Tom Edison Sr., tuttavia, riconosce come sia ad ogni modo uno spiacevole a are! Il gergo è a aristico, il solo autentico per la giovane tradizione americana. Il narratore si lascia sfuggire parole preziose: la città e Grace sono pur sempre gli stessi e la mossa dei potenti gangster, che usano ed abusano della polizia a ssa carte, era, dopotutto, attendibile. Eppure, tutto è cambiato, di nuovo, un po’. La camicetta rosa, la gonna bianca sotto il ginocchio, le mani sui anchi, l’infermiera/accuditrice Grace ascolta con preoccupazione le parole della versione Jr. di Tom Edison.  La sua presenza in Dogville è diventata più rischiosa e quindi più ‘costosa’: c’è bisogno di una compensazione maggiore da parte sua. Adesso, gli abitanti vorrebbero che lei passasse due volte al giorno da ognuno di loro, al suono della campana agitata dalle mani di Martha per scandire la sua giornata e tenere traccia degli impegni. Sono le parole che userebbero i gangster, dice istintivamente Grace, ossia coloro che paiono controllare il territorio da quelle parti, che addirittura usano la polizia: è così che la gente tratta le questioni in USA? Da un punto di vista a aristico? Sono i termini essenziali del discorso americano. Grace, con le lacrime agli occhi, confessa che è sua intenzione darsi da fare; se deve lavorare di più ed essere pagata meno lo accetta: l’importante è che gli altri non desiderino, in realtà, dietro la richiesta, che lei se ne vada. Tom Edison la consola; le dice che non è così; d’altronde, è solo una questione d’a ari, la stessa logica a aristica che porta il giovane idealista a dire a Grace, colta dal dubbio improvviso, che il biglietto da visita dei gangster “l’ha bruciato subito”!

La storia di Dogville mette a nudo un altro e etto grottesco del costrutto sociale americano basato sugli ‘a ari’ e sul consumo: la sopra azione del tempo dell’orologio sul tempo ciclico del corpo. In brevi termini, secondo la lezione di Henri Lefebvre sulla cosiddetta ritmoanalisi (rythmanalyse)(489), la temporalità del corpo può assumere due forme ritmiche: la prima forma è legata ai cicli e ai ritmi della natura e ai ritmi biologici del corpo, organizzati secondo fenomeni come i giorni e le notti, le stagioni e gli anni (‘il tempo ciclico’), mentre la seconda forma è legata alla costruzione seriale e cumulativa del tempo (il ‘tempo dell’orologio’ o ‘lineare’)(490). Nella temporalità della modernità, il tempo lineare ha guadagnato terreno a scapito del ciclico; in Dogville, la scena in cui Grace ‘corre contro il tempo’ può essere vista come una rappresentazione letterale dello scontro tra il ciclico e il lineare, scontro che si manifesta nel corpo di Grace. “I minuti inda arati diventano ore inda arate, e le ore inda arate diventano giorni inda arati”, ci dice il narratore. Nella ripresa e ettuata dall’alto, Grace, in rapido movimento, passa da una baracca all’altra, alle ancate ripetute della campana, che piuttosto che rappresentare un miracolo risuona infernale per l’esile corpo della donna. Queste inquadrature si sovrappongono alle lancette dell’orologio, mente si odono i loro ticchettii non diegetici che esprimono e cacemente il trepidante a anno sico. Questo è chiaramente un esempio del modo in cui il tempo lineare (il ritmo stabilito della città di Dogville) orchestra il tempo ciclico (i bisogni corporei di Grace)(491). La sequenza si conclude con un’inquadratura in cui si vede l’intero set con un solo sguardo: tale ultima scena è composta da ben 156 scatti messi insieme; non era infatti possibile riprendere l’intero spazio in un’unica ripresa, poiché la distanza tra la macchina da presa e il set non era su ciente. L’e etto è stato quindi creato utilizzando una struttura di 30 telecamere che potevano essere spostate sul so tto o che potevano zoomare su un’azione speci ca; in altre parole, l’inquadratura che lo spettatore vede sullo schermo è stata

realizzata con 156 diverse angolazioni(492). La camera atterra nella casa degli Henson, mentre Liz con i piedi sul tavolo legge il giornale, comoda, segno che il lavoro di Grace non ha più tanto a che fare con il super uo quanto con il suo sfruttamento. La tensione, perciò, cresce; incomincia a scricchiolare l’equilibrio sinora raggiunto. Grace, infatti, rompe un bicchiere e viene rimproverata dalla signora Henson, colei che è stata la fautrice della politica sulla riduzione del suo compenso. All’o erta di risarcire il pregiudizio, la Henson, contro ogni logica economica che richiederebbe una contropartita in denaro per chiudere la faccenda, ri uta. Sembra dunque combinarsi la logica a aristica anche con una dose di irrazionalità umana, la stessa che porta a rimproverare qualcuno per un danno, pur dicendo che, in fondo, non si è trattato di nulla. E la campana suona. E Grace corre, Mosè abbaia: è forse il preannuncio di una violenza il cui livello frattanto aumenta? Gli episodi cominciano ad a ollarsi. Strane consuetudini si rivelano in Dogville, sotto una luce dai lievi riverberi aranci che non conforta. Grace non vive lì da tanto tempo, come può pensare di poter passare attraverso gli arbusti di uva spina come gli altri abitanti fanno? Grace promette di rastrellare nuovamente il terreno, come meglio non si potrebbe fare. Anche in questo caso, Ma Ginger lascia correre(493). In un confronto che manca di rispetto a regole e convenzioni cinematogra che – fra tutte la cd. regola dei 180 gradi – , Grace chiede scusa a Chuck per un certo ramo: è un altro errore? Un altro segno del cedimento del suo corpo? La violenza si annida nelle parole dell’uomo, i cui connotati sessuali diventano espliciti. Chuck è la vera anima di Dogville che si mostra o è l’antico spirito della città a cui anch’egli apparteneva? O è entrambe le cose, indissolubilmente collegate, la realtà e l’ideale? Grace, uno straccio a mo’ di bandana in testa, da cui spuntano biondi ciu etti, come negli altri casi chiede scusa e si o re di

riparare. Anche quando Chuck le confessa che era in procinto di denunciarla alla polizia, lei, una contrazione subito inghiottita del viso, gli chiede perdono, perché avrebbe dovuto capire il suo senso di solitudine lassù: la perfetta eroina dal ‘Cuore d’Oro’, che torna a manifestarsi. Eppure, non risulta così convincente la devozione che traspare dai pori del suo viso, resi argentati dal ri esso lunare. Grace ha dato modo di essere diversa, di venire dalla città, per essere così pura: fuggiva infatti dai gangster e in qualche modo li conosceva. Nelle sue parole non c’è sentore di alcun martirio. Dopo Chuck, un altro confronto, questa volta con Tom (l’altro traditore), e la sostanza non cambia. Piove. Grace è distesa a letto, nel vecchio mulino. Un’inquadratura ci mostra le sue cinque statuette ben posizionate su un asse di legno. “C’è molto da fare qui a Dogville considerando che nessuno ha bisogno di niente”, è questo ciò che dice al giovane, la faccia pressata sul cuscino, esausta. Racconta le vicissitudini della giornata: Ma Ginger, Giasone che vuole stare sul suo grembo, McKay che ha cercato di metterle una mano sul ginocchio (a ra gurare una presa di possesso che avanza). E mentre assonnata vediamo Grace prima sul cuscino, poi sul ginocchio di Tom, poi ancora a mezzo busto nel letto, lui stesso non può che stringere ancora di più la tenaglia che le stanno chiudendo attorno al collo: è la violenza che continua ad emergere. Le confessa il suo amore: Tom è forse l’evoluzione – l’eccessiva maturazione (i.e. un frutto marcio) – di Jan de Le onde del destino, conscio solo del sentimento nei suoi connotati sici. Tra le righe le esprime ciò che magari anche gli altri vorrebbero dirle: possederla, come una merce, sessualmente. Gli ultimi aliti assonnati di Grace riescono a dire ciò che la lega a Tom: il fatto che lui non pretende niente da lei! Noi spettatori siamo consapevoli della sottile ironia che si cela dietro tale dialogo. Come ricordato da Gae Aulenti, il teatro gioca con una delle quattro dimensioni dello spazio, ossia il tempo – le

altre sono la larghezza, la lunghezza, la profondità. Che il lm abbia a nità con il teatro, è già stato detto. Dogville, invero, ci permette di giocare con la visione dello spazio stesso, in ognuna delle sue componenti, variando le molteplici prospettive dello spettatore/macchina da presa. Sull’idea: “Mi ci sono imbattuto mentre stavo pescando – non so perché sia successo, ho solo pensato: perché non fare il lm in questo modo? Così ho dipinto gli edi ci sul terreno. Abbiamo scoperto che questo concetto presenta molti vantaggi. Per esempio, dato che ci sono solo pareti simboliche, possiamo vedere attraverso di esse e seguire quello che fanno gli altri abitanti della città per tutto il tempo. Ci concentriamo completamente sui personaggi, perché ci sono pochi altri elementi coinvolti. Dopo aver visto il lm, si dovrebbe sapere di più sulla città che se il lm fosse stato girato in una città reale. L’idea è che la città prenda forma nell’immaginazione del pubblico.”(494) È una percezione cangiante, frammentata, umana ma anche sovraumana. Ad esempio, noi vediamo Dogville soprattutto, anche se non esclusivamente, sintonizzandoci sulla prospettiva di Grace; eppure, Grace stessa è protagonista e a sua volta osservatrice di quanto accade, lei che è la rifugiata proveniente da altrove. “I con ni si presentano in molte forme: possono essere linee tracciate con il righello su carta bianca (spesso invisibili a chi ha la possibilità di visitare i luoghi geogra ci reali). Le linee dei con ni possono essere illustrative, per non dire del tutto ttizie e meschine; possono essere tracciate con un colore rosso tenue, praticamente invisibile, e magari anche con una linea tratteggiata, quasi a indicare le scuse o addirittura la vergogna. Tuttavia, le linee sono appese lì, in numero inconcepibile, e insieme costituiscono quei ‘territori’ che gli abitanti sono abbastanza forti da difendere. L’entrata e l’uscita comportano spesso una violenza, perché, ovviamente, ci si aspetta che ogni visitatore ritorni dopo aver concluso i suoi a ari. Sulla Terra, ‘la Macchina che fa girare tutto (tutta la vita, cioè)’ dipende dai con itti che le linee provocano, come se fosse

un disegno. Se Exodus signi chi e ettivamente ‘entrare’ o ‘uscire’ dipende dall’angolazione da cui si osserva il con ne, ma la parola descrive semplicemente un gran numero di individui che attraversano insieme una linea disegnata a matita. Perché? C’è uno squilibrio tra il bene e il male! Il limite è stato raggiunto, almeno nel Regno… Ma non posso testimoniare che sarà facile e incruento aprire le sette serrature astrali del mondo simultaneamente con il sangue di un medico.” (495), così recita il Director’s statement per Il regno Exodus.

Capitolo 6 In cui Dogville mostra i suoi denti Il capitolo inizia con una lavagna e dei bambini, in un normale giorno di scuola. Uno di loro fa il capriccioso: è Giasone, simile ad un von Trier in miniatura che divide male le parole, strappa le pagine di un libro, fa il disobbediente. Nel grottesco confronto, Grace gioca la parte di madre comprensiva, pronta a capire le irrequietezze del fanciullo. Giasone, invece, dimostra di essere malvagiamente astuto: persino il bambino di Dogville è subdolo, tesse le trame di un piano. Con le mani in tasca e la salopette appesa no ai talloni ricorda vagamente la posa di Tom Edison: è una sua piccola caricatura? Vuole farsi dare una sculacciata, infrangendo il divieto della madre Vera sulle punizioni corporali: è ancora l’esagerazione in termini cinematogra ci del bisogno di un giovane von Trier di punizione? In una comica e surreale scena, il bambino è sdraiato pancia in giù sulle ginocchia di Grace, che lo sculaccia, ma lui dice: “più forte!”. La tensione sale, in maniera sui generis, perché la comicità sconcertante presto si tramuta: il piccolo masochista passa il testimone al padre e la situazione diventa seria, come sottolineato anche dalla musica in sottofondo. C’è l’FBI oltre la polizia; le loro macchine nere – questa volta non tutte luride – sono su Canyon Road; i gangster controllano pure loro. Con gli sbirri alle porte, Grace è esposta come non mai, così come la stessa Dogville è esposta ai venti su una sporgenza di montagna, e così come esposto è l’albero di Nymphomaniac in cui la protagonista Joe si riconosce, in una delle scene nali del lm: una mela dondolante dal suo picciolo, come la mela del giardino dell’Eden, “così gon a che il succo quasi colava”, dice il narratore. Questo succo non può non essere colto da colui

che proprio raccoglie le mele. Di fronte al ricatto di consegnarla agli uomini di legge – che la credono una donna che “Dio solo sa di cosa è capace” – , le si pietri ca d’azzurro lo sguardo terrorizzato contro il bianco dello sfondo. Negli attimi concitati della violenza, Chuck a erra il suo foulard, le strappa la camicetta, la bacia, la butta a terra. L’espressione del volto di Grace assomiglia alla smor a di Jeanne Dielman (la bellissima Delphine Seyrig) nella scena di sesso in Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman: la sionomia universale delle vittime di un sistema. Mentre in Jeanne Dielman la telecamera è ssa, qui si allontana, permettendoci di vedere il resto degli abitanti di Dogville: la famiglia Henson in casa, Tom Edison e le bambine per strada. Lo zoom arretra e, dalla sig.ra Henson, si allarga su Ma Ginger e Martha e Liz nell’emporio; in ne, su Elm Street sovra ollata di uomini di legge e cittadini e bambini. Ci sono tutti i componenti della comunità americana di Dogville e, non appena l’inquadratura si allontana dalla casa del misfatto, non odiamo più i rumori della violenza. Vi è lo stormire sottile del vento, quasi di un vociare sottaciuto: un bisbiglio. La polizia, l’FBI, il resto, è come se partecipassero a quell’atto che continuiamo a vedere sullo sfondo, per terra a anco del letto. Perché, infatti, Tom decide di non aprire la porta ed entrare nella casa di Vera? Cosa lo spinge a tornare sui suoi passi? “Il modo in cui la macchina da presa passa da un campo lungo a un campo lungo estremo (tre volte in totale) è molto particolare; la macchina da presa si allontana così tanto dal centro dell’azione che lo spettatore è costretto a concentrare la sua attenzione sui dettagli dell’evento inquietante. In questo modo, il corpo intenzionalmente vissuto dello spettatore viene attirato nella scena dalla forza di contenimento della macchina da presa, rendendo lo spettatore incapace di smettere di guardare ciò che non vuole più vedere”(496). E ancora: “Omettendo i muri, Trier ha tolto le facciate istituzionali e domestiche che nascondono la violenza dell’economia politica sottostante, evocando al contempo

un’immagine di sorveglianza foucaultiana, invertendo l’immagine dell’ospitalità cittadina in una visione di regolamentazione e repressione in cui la sessualità è convertita in forme sempre più sadomasochistiche”(497). Dopo averla aggredita, Chuck la lascia scon tta in un mucchio di carne e stracci sul pavimento di casa. La telecamera si alza per rivelare Grace nel contesto più ampio della comunità. In questo preciso momento, quando il suo diritto umano fondamentale al proprio corpo è stato completamente decimato, Grace è collassata a terra come una perfetta immagine speculare alla sagoma di gesso del cane Mosè. È un animale da compagnia, spezzato e addomesticato, proprio come il cane della cittadina(498).

Capitolo 7 In cui Grace nalmente ne ha abbastanza di Dogville, lascia la cittadina e vede di nuovo la luce del giorno Cerco sul web – attraverso i motori di ricerca – immagini di Dogville; Nicole Kidman la fa da padrona; curiosamente, mi accorgo che in molti frame catturati nei vari momenti del lm, sovente appare con il capo inclinato, l’occhio di sbieco; verso destra, verso sinistra, in alto, in basso. Lo stesso nella locandina u ciale. È lo sguardo torvo ai cambi di luce? È colui che osserva, in esso, dentro se stesso? O verso l’esterno? È l’occhio scrutatore dell’obiettivo di chi, masochisticamente, cattura la miserabilità del circostante, di una miniera da cui non esce che argento? Nella notte di Dogville, un vento ulula tra le fessure del vecchio mulino. Tom con le braccia sui anchi è deciso; vuole a rontare Chuck per l’accaduto. Il feto di Grace lo ferma; è lei che è venuta nella cittadina con idee e stupidi pregiudizi. Di quali pregiudizi si tratta? Forse l’idea che Dogville fosse, in n dei conti, una bella cittadina? O davvero siamo di fronte a una Bess/Selma volenterosa di so rire, pura nella sua innocenza? Nella misura in cui incarna la grazia cristiana, Grace favorisce, o almeno non ri uta, la sua umiliazione. Come dice proprio all’inizio del lm, tenendo tra le mani l’osso di Mosè, merita di essere punita(499). L’estate è nita; torna il battipalo a scandagliare gli spazi. La seconda nidiata di scoiattoli – invisibili – di Dogville si muove tra le gambe di bambini e adulti, cercando invano gli olmi inesistenti di Elm Street. Il narratore, ancora una volta, ci con da qualcosa di molto prezioso. A Grace non

rimane che il duro lavoro, reso ancora peggiore dal terreno trasformatosi in pietra per il caldo dei mesi precedenti: è felice la donna che ci sia qualcosa che si possa realmente a errare tra le dita. La frase è un indizio, tra le righe, che dell’esperienza di Dogville non vi è nulla di concreto, di valore per la protagonista, se non della terra inaridita. Dopo la violenza perpetrata dagli uomini, è il momento delle donne. In una scena che ricorda Dancer in the Dark, in cui la protagonista Selma verrà condannata a morte per aver ucciso il poliziotto Bill Houston (David Morse), Grace è accusata irrimediabilmente di aver picchiato Giasone. In realtà è stato il bambino – come il poliziotto Houston – a chiederlo. La verità è dunque più complessa da come viene descritta, ma la congiura fra donne non può essere sventata. Anche Martha, assente, vi partecipa, avendo rivelato di aver visto Tom Edison uscire dal suo mulino di mattina presto. Il terreno è diventato pietra, e la nebbia scende dalle montagne, il giorno dopo; questo inevitabilmente cambia la luce su Dogville, che diventa cupa. Tramonti non ce ne sono, né ‘Alpenglow’, e la mano di Jack McKay, su cui la telecamera si avvicina zoomando, è la morsa della miserabilità umana impressa sulla giovane. Nella notte, sotto i cirri evanescenti della nebbia, la sagoma di Grace si aggira come uno spettro per Elm Street, oltre Tom che nemmeno le parla, confuso nei suoi pensieri, forse brumosi come le mutate condizioni climatiche. Il lavoro di Grace è ormai gratuito – le ore nel frutteto con Chuck diventano lunghe, sia per le operazioni del raccolto sia per le prestazioni carnali – forse il rischio è aumentato, troppo alto per alcun compenso. Forse è la logica dello scambio di mercato portata all’eccesso, dove l’elemento umano perde ogni valore. Ci si domanda se lo stadio successivo sia la riduzione di ogni cosa allo scambio stesso, privo a questo punto di alcuna ragione. Eppure, insieme a Tom erano riusciti ad acquistare da Ma Ginger l’ultima delle sette statuette di porcellana esposte in vetrina, che

appare quindi vuota; al contrario è a ollata la mensola del vecchio mulino. Una luna gialla irradia dal suo tondo bulbo raggi spansi e infonde un’atmosfera tetra, similmente alla mezzaluna che in Medea si staglia in mezzo ai rami dell’albero che fungerà da patibolo. La violenza delle donne non è terminata; Martha, Vera e Liz (ancora loro) come una banda si intrufolano nel buio della stanza da letto di Grace: è un a are al femminile. La situazione è inquietante e contrasta con il discorso divertente che viene pronunciato. Vera, infatti, perde tempo in elucubrazioni su come gli antichi maestri hanno sempre amato un bel tema sul raccolto, che richiama alla mente fertilità e sensibilità e per no erotismo: sembrano essere i primi esempi del futuro Digressionismo, il quale informerà il dialogo in Nymphomaniac tra la protagonista Joe e il vecchio Seligman, in cui all’erotismo si legano disquisizioni loso che, scienti che e letterarie; un’anticipazione dunque in nuce di idee sviluppate in un momento successivo dell’attività produttiva del regista. Alla parola ‘eroticism’, una ripresa di spalle ci mostra il capo biondo di Grace, sotto una luce dai riverberi stranamente verdi, nella desolazione della sua situazione. In sostanza, Martha ha visto Grace avere rapporti sessuali con Chuck, dietro una catasta di rami spezzati. L’uomo ha scaricato su di lei tutta la colpa. Chuck e Vera, l’uomo e la donna, danno entrambi prova della spregevolezza di Dogville, l’uno vigliacco, l’altra incapace di a rontare la realtà. Grace controluce ha il viso immerso nella penombra; tra l’altro, l’illuminazione della scena proviene, irritualmente, da punti diversi – e non da uno sso – attraverso i muri invisibili della stanza. È chiaro che le donne sono venute lì per cercare una colpa e assumere i provvedimenti necessari, come le peggiori bande criminali; difatti, Vera si alza in piedi, si avvicina alle statuette e ribadisce di avere ducia nel valore dell’educazione. Come poco prima, la diatriba comicamente si espande a considerazioni ulteriori. Lo stoicismo, quindi, entra nella storia ed è stabilita una prova: Vera distruggerà due delle

statuette e se Grace, in conformità alla dottrina stoica, non piangerà, non procederà a polverizzare al suolo le altre. Mentre la luna piena si staglia a mezzo cielo sullo sfondo, Tom solitario sulla strada, Grace stretta come una prigioniera tra le due scagnozze, un fascio bianco la colpisce obliquamente dall’alto: crolla in un pianto, sconnesso con la scena, e cacissimo per questo, mentre i rumori della porcellana in frantumi acuiscono la brutalità dei colpi, che paiono in itti direttamente sulla sua carne; ce lo suggerisce lo stesso narratore quando ci dice che era come se si disintegrasse del “tessuto umano”! Le statuette erano l’unica cosa di valore che la visita a Dogville aveva prodotto per Grace; non ne rimanevano che brandelli polverizzati. Perché il legame di Grace con esse era così forte? Di primo acchito, perché Grace aveva sviluppato, in ogni caso, dei legami emotivi con la gente del posto, di cui le statuette ne erano il feticcio conseguente. Per alcuni, la donna piange per la presa di coscienza che l’installazione di un sistema simbolico di scambio sulla base della solidarietà, della reciprocità, del ‘do ut des’, della contropartita e dell’amicizia non porta allo sviluppo di una vita comunitaria stabile, ma a risultati grotteschi: il graduale deterioramento del tessuto sociale in una struttura di ritorsione, punizione, vendetta e vera e propria ostilità: più la politica del dono di Dogville si cristallizza in una pratica di scambio condivisa, comunitaria e apparentemente ‘equa’ (e.g. il lavoro di Grace – la sua paga – le statuette di porcellana), più la cittadina si trasforma in una comunità inospitale, ostile e radicalmente ingiusta(500). Per altri, le lacrime che Grace non riesce a trattenere mentre i feticci di persone si frantumano in pezzi, ri ettono non tanto lo strazio per la rottura di solidi legami di reciprocità e di rispetto, quanto piuttosto la desolazione per il fatto che anche questa relazione di mutualità deformata, disuguale e alienata sia terminata(501). L’idea, inoltre, che le statuette abbiano caratteristiche umane suggerisce che, in un certo senso, Grace possa aver percepito questi oggetti come una

modalità di sostegno o di assistenza che un essere umano avrebbe potuto fornire durante il suo di cile periodo; è forse la rappresentazione in chiave comica e drammatica della tendenza attuale di acquistare beni per placare dolore e sentimenti, per sostituire persone? L’oggetto, tuttavia, fornirà solo una quantità temporanea di felicità per la donna che, avendo solo Tom di cui darsi, si a da alle statuette per avere uno scopo(502). Ad ogni modo, da una distanza meta sica Lars von Trier ha e cacemente rappresentato, attraverso un feticcio, la catastrofe interiore di Grace: “Mi capita spesso che le persone siano crudeli con me? È così? Sono sicuramente una persona sensibile. E a volte sento che le persone sono crudeli con me. E questo mi dà fastidio. Più di ogni altra cosa, preferirei avere un buon rapporto con tutti”(503). Grace non piangeva dall’infanzia e mai avrebbe pensato che sarebbe crollata proprio adesso. Abbiamo la prova inconfutabile che l’eroina vontrieriana è di altra natura rispetto al ‘Cuore d’Oro’ di Bess, Karen e Selma, alle quali può essere rimproverato tutto meno che la mancata espressione dei propri sentimenti. La musica non diegetica risuona quando le altre rientrano alle loro case, sotto l’occhio scrutatore della luna gialla; di spalle, Grace è sola, l’intimo da notte e le lacrime. “Grace dà se stessa agli abitanti di Dogville. […] L’idea dietro il trattamento di Grace nelle mani degli abitanti di Dogville era che se tu ti presenti agli altri come un dono, allora questo è pericoloso. Il potere che ciò dà alle persone su un individuo le corrompe”(504). Pure per la fuga, ci vogliono dei soldi, accuratamente quanti cati in 10 dollari dal razionale Tom Edison che, quando vuole, è di acuto senso pratico. Il ragazzo li chiederà in prestito al padre e lei parlerà della cosa a Ben. Grace accetta l’ennesimo scambio, anche se ci tiene ad impegnarsi a restituire l’ammontare, che dunque non è a titolo gratuito. Flebilmente si percepisce un amaro per Tom dopo che il bacio è avvenuto senza seguito; probabilmente

aveva in mente un altro tipo di pagamento, che non è avvenuto. Il capitolo continua. I convenevoli di Ben, che accetta l’incarico e ripete di accettare i soldi per necessità e non per sfruttare le sventure altrui, nascondono la verità: la sua timidezza e insicurezza celano quindi un mostro? Tra le mele, i frutti di Dogville, altro export (peccaminoso) della cittadina, Grace sarebbe fuggita oltre le fetide baracche. Per qualche motivo, lei – che è donna di città – ha la sensazione che non la lasceranno andar via tanto facilmente. Come in una identica scena precedente, corre per Elm Street presa a colpi persino da Olivia, la cameriera: i servigi della straniera sono ormai divenuti necessari. Le parole sono importanti: è Grace che parla di amore nel confronto, durante la sua ultima programmata sera a Dogville, mentre Tom parla di “wanting you” (volerti). La loro distanza di intenti è rappresentata e cacemente dalla telecamera che, dall’alto, inquadra in primo piano i loro pro li appoggiati sul cuscino. La mattina della fuga, il battipalo risuona in lontananza; la frenesia è accentuata dal vortice di persone che si avvicinano alla bionda con in mano il suo fagottino di roba: dell’esperienza non le sono rimaste che le cose con cui era arrivata. Tutti la reclamano: Vera, nonostante la sua pericolosità; Liz, che le rammenta che, se pur quel giorno non verranno spediti i bicchieri, la sua non è una giornata libera. E poi Martha, e poi Chuck: “In realtà c’era un bel po’ di lavoro che Dogville non aveva bisogno di fare che i suoi abitanti avrebbero dovuto svolgere in futuro” (dice il narratore): il super uo (come la cassa extra di bicchieri citata nel dialogo con Liz) è diventato prezioso a Dogville! Grace è sdraiata sul pianale del camion, in mezzo alle cassette piene di mele. Al pari del raccolto, è spedita fuori città, al mercato, ad essere consumata: tutto fuorché l’infernale cittadina di Dogville! La vediamo attraverso un telone trasparente che mostra/nasconde chi c’è sotto. Al serpeggiare verso valle di Canyon Road, si dissolvono

misericordiosamente i suoni, l’abbaiare di Mosè. Finché la vettura si ferma improvvisamente. C’era tanta polizia e il lavoro era diventato estremamente rischioso rispetto alle condizioni iniziali; anche nell’industria dei trasporti il rischio maggiore implica un sovraccarico rispetto al costo ordinario. Ben non fa altro che ripetere lo stesso discorso di Tom Edison e dei suoi concittadini e, nella sua pacata timidezza, rivela la sua mostruosità. Ha già in mente come fare, considerato che la sera sarebbe andato da Miss Laura, cosa di cui la stessa Grace aveva detto che non c’era nulla di cui vergognarsi(505): ancora una volta, una frase di Grace le si ritorce contro(506). L’atto sessuale avviene di fronte alla chiesa di Georgetown, come tiene a precisare Ben, circostanza che dà un tocco di perversione al momento. In Dogville sono diversi gli episodi di stupro, molti dei quali avvengono intorno alle mele, motivo del peccato originale e della caduta dell’uomo. Il frutto è elemento signi cativo nel mediometraggio Menthe – la ragazza felice, in cui le immagini ra gurano il sadomasochismo della relazione tra Menthe e la sua amante. Nel pianale, Grace viene violentata da Ben, circondata appunto da cassette di mele. Ripetutamente Grace viene inoltre violentata nel meleto da Chuck, il suo primo aggressore. Quest’ultimo come lavoro raccoglie le mele e viola la natura, così come raccoglie Grace e viola la sua umanità. L’uso delle mele come simbolo di tentazione ra orza la mancanza di umanità che gli abitanti di Dogville attribuiscono a Grace. Forse, per loro, Grace non è una persona, ma una manifestazione della tentazione e il catalizzatore del peccato nella comunità(507). Grace ha la capacità di sopprimere qualsiasi sgradevolezza capiti intorno a lei. Un Dio generoso l’aveva benedetta con il raro talento di saper guardare avanti e solo avanti, sempre! In questo, è una gura nuova nel panorama immagini co di Lars von Trier, legata, più che alle precedenti gure femminili, al lontano detective Fisher de L’elemento del crimine, il quale, tuttavia, si sforza di ricordare

ciò che ha dimenticato per liberarsi di persistenti mal di testa. Come un incubo, l’abbaiare di un cane l’accoglie al suo risveglio, lo stesso abbaiare che l’aveva accolta al momento del suo arrivo a Dogville: Mosè. Il telone viene scoperto; dall’alto vediamo Grace tra le mele, circondata dagli abitanti di Dogville, sulla familiare Elm Street. Ora un’inquadratura ci mostra Grace sollevarsi dal pianale del camion. Il suo mezzo busto è visibile oltre il telone avvolto sul bordo del mezzo, come se fosse un lenzuolo. Pare proprio che Grace sia stata svegliata nel bel mezzo di un sogno, anzi un incubo. “Qualcuno mi disse – non posso più ricordare chi sia stato – come sia strano che, svegliandoci la mattina, ritroviamo, almeno nel complesso, tutto allo stesso modo in cui era stato la sera. Eppure nel sonno e nel sogno ci si trova, almeno nell’apparenza, in uno stato sostanzialmente diverso dalla veglia e occorre, come qualcuno disse con molta ragione, un’in nta presenza di spirito o meglio di prontezza, per a errare, appena aperti gli occhi, tutte le cose che sono lì allo stesso posto, per così dire in cui si sono lasciate la sera. Per questo il momento del risveglio è anche il momento più rischioso della giornata; una volta superato, senza essere stati trascinati via dal proprio posto, si può stare di buon animo per tutto il giorno”(508), così diceva Kafka. Grace, purtroppo, non potrà stare a atto di buon animo. Lo sguardo torvo, colpevole, di Ben si giusti ca e richiama la riunione della sera precedente in cui era stato palesato – ma da chi? – il rischio di fuga di Grace e loro dell’industria dei trasporti non si schierano: che razza di uomo è chi annega la propria personalità dietro una ‘corporation’? È di cile dire chi sia maggiormente spregevole tra Ben e Chuck; forse non sono che espressioni della stessa natura. Non aiuta Grace che la sua fuga sia avvenuta in concomitanza con il primo furto mai registrato in Dogville, avvenuto proprio la sera prima; si trattava dei 10 dollari mancanti dal mobile delle medicine di Tom Edison Sr. I sospetti caddero inevitabilmente su di lei. Pertanto, per motivi di sicurezza, Grace è attaccata con un

collare e un campanellino ad un volano di ferro che trascina di casa in casa(509). L’aggeggio grottesco e dall’aspetto medievale viene progettato principalmente da Bill Henson, che nalmente mette in atto le proprie capacità ingegneristiche con l’aiuto dei suoi concittadini, in uno strabiliante esempio di economia circolare: viene infatti riutilizzato il volano del vecchio mulino incastonato nel terreno, il collare di ferro di Mosè (che dunque rimane libero e il cui posto viene preso da Grace?), le catene che cingevano la scorciatoia tra gli arbusti di uva spina, il campanello del negozio di Ma Ginger. È in tale occasione che pare risvegliarsi l’inventiva e la passione laboriosa degli abitanti di Dogville, ciascuno dei quali proattivamente mette a disposizione i propri mezzi e la propria disponibilità. Sono tutti presenti al momento dell’incatenazione della martire Grace, che decide di rimanere silente, con la stessa fermezza che caratterizzò Selma in Dancer in the Dark. La sua compostezza ricorda anche la Giovanna d’Arco di Dreyer; eppure, vi è una vena di profonda apatia in lei, piuttosto che di fervore religioso. Sul tozzo che Bill usa per spaccare il legname, viene siglata a martellate l’inizio della sua schiavitù. Non è per punirla, precisa Tom Edison Sr. e, replicando quanto detto in precedenza da Ben al momento dello stupro, ci tiene a chiarire che non hanno a atto piacere a compiere quello che devono compiere per proteggere la loro comunità. Le parole trite e ritrite confermano che Dogville ha un’anima sola, che permea ogni suo abitante, oltre a rendere ancor più estenuante l’a izione perpetrata. In ogni caso, poiché persone perbene, hanno avuto cura di lasciare la catena abbastanza lunga per permettere a Grace di dormire nel suo letto e spostarsi di casa in casa. “Alle 6 in punto”, ricorda in ne la sig.ra Henson; Grace l’incatenata deve continuare ad adempiere al proprio superlfuo u cio.

Capitolo 8 In cui c’è un incontro dove viene detta la verità e Tom se ne va (solo per tornare dopo) I confronti tra Tom e Grace nello squallore del vecchio mulino si metamorferanno nelle disquisizioni ‘digressionistiche’ tra Joe e Seligman in Nymphomaniac, in altrettanto squallida stanza: un uomo vestito di stracci che ascolta e losofeggia con l’interlocutrice donna, esausta e s nita, sdraiata nel letto. In Dogville è come se due idealismi si scontrassero o, meglio, un idealismo che si osserva allo specchio per confutarsi da sé (il che non è probabilmente poi così dissimile dallo scontro tra il razionalismo astratto di Seligman e l’inquietudine pragmatica di Joe in Nymphomaniac). Entriamo nel mezzo della scena, la telecamera che come al solito ‘punta’ piuttosto che inquadrare. Il regista, lato suo, ha infatti due scelte di tecnica fondamentali: può piani care e controllare attentamente le inquadrature all’interno di una cornice calcolata con precisione dalla macchina da presa, oppure può puntare spontaneamente la telecamera su un evento che gli sembra eccitante e rilevante. Il metodo dell’inquadratura, con il suo completo controllo, favorisce il formalismo, mentre il metodo del puntare, con la sua perdita di controllo, favorisce il realismo – ‘il levigato contro il grezzo’(510). Mentre i primi lm di von Trier sono caratterizzati dal metodo dell’inquadratura, nei lm successivi (da Le onde del destino in poi) il metodo del puntare diventa dominante. Tom con da a Grace che ha mentito la sera dell’assemblea cittadina; l’ha dovuto fare anche e soprattutto nel suo interesse, perché, se avesse confessato di aver rubato lui i soldi – ipotesi in primis propugnata dagli altri – , lei non avrebbe avuto risorse per fuggire. Dunque,

ha dovuto, per necessità, così come fece Ben, così come fecero gli altri ingabbiando Grace con quell’aggeggio la cui campanella nerastra si arcigna ad uncino a anco della capigliatura bionda della donna. Sotto i colpi lievi della pioggia, una supplica esce dal corpo di Grace: che non la lasci pure lui, la sua ultima speranza. È davvero preoccupata di perdere Tom la persona o di perdere Tom l’ultimo appiglio che ha dell’idea benevola di Dogville? Il capitolo 8 è anche quello in cui la metamorfosi di Grace da portatrice di splendore ad animale da soma è completata (ciò avviene in breve tempo: dalla primavera, momento in cui Grace arriva in città, all’autunno, momento in cui se ne va). Uno stato di trance si abbatte su di lei, lo stesso che cade sugli animali le cui vite sono minacciate: una condizione in cui il corpo reagisce meccanicamente, con una marcia bassa e dura, senza troppe ri essioni dolorose, come un paziente che passivamente lascia che la sua malattia abbia il sopravvento(511). L’autunno non implica esclusivamente il cadere delle foglie; anche le amicizie di Grace uttuano nell’aria prima di atterrare al suolo, rinsecchite. Le inquadrature si fanno vorticose, fortemente instabili, con angolazioni improprie: mostrano la mano di McKay nelle cosce della donna, atti sessuali su pedine della dama, dentature di bambini spalancate e le loro braccia appese alla catena o al volano che frena il movimento della donna, campane suonate a festa che segnalano molestie. Grace è di nuovo in pelliccia e ciò contrasta con la sua situazione. Gli uomini, infatti, le fanno ormai regolarmente visita, soprattutto col calare delle tenebre; vediamo il sig. Henson con i pantaloni abbassati e mutandoni bianchi, le cui ruvide gambe risaltano accanto al letto in cui Grace è distesa come una morta. Gli atti compiuti non sono neppure paragonabili a dei veri e propri atti sessuali; piuttosto trattasi di episodi imbarazzanti tanto quanto un montanaro che se la fa con una vacca. Al minuto 2:06:15, la telecamera mostra un Tom in mezzo alla strada, con la coppola in testa e il cappotto nero, il cui viso è contratto nello sconcerto. È l’unico che non abusa di lei e vede gli

altri farlo; eppure rimane fermo, nel modo in cui un ragno si sostiene quando è stato aggrovigliato nella sua stessa tela dal vento. Grace è esanime sul letto, l’arcigno di campanella come unico segno di vita e non partecipa alla discussione con Tom. Neppure di fronte alla brutalità della situazione, l’idealista Tom è capace di ravvedersi ed è ancora ducioso delle sue piani cazioni. Riuniti nella casa della missione, così come il primo giorno in cui arrivò, Grace, in catene, argomenta: in questo frangente di evidente vulnerabilità, le è dato u cialmente spazio per esprimersi. Le coscienze dei presenti non sono visibili, stivate sempre più in profondità sotto la paglia, come se fossero fragili similmente ai bicchieri degli Henson dopo la molatura. Proprio mentre Grace parla, la prima delle nevicate di inizio autunno abbraccia la città e i occhi di neve si trastullano sui rami degli alberi su cui prima dondolavano le mele – per fortuna ora al riparo grazie all’industria dei trasporti (chissà in quale grande magazzino!). Quando Grace termina la sua chiara e sincera storia sullo stato di Dogville, l’inquadratura si allarga per farci notare che lo stesso fa la neve, la quale lascia la città nel più candido manto immaginabile. La neve è metafora delle parole di Grace, caduta troppo presto, a nascondere la verità. O, per dirla in altre parole, gli abitanti di Dogville prendono la palla al balzo e nascondono le loro nefandezze sotto i candidi occhi. Il lm si sarebbe potuto concludere di lì a breve: Tom avrebbe potuto percorrere la stessa scia tracciata sulla strada dal giogo di Grace; l’avrebbe abbracciata nel letto, le avrebbe detto ‘Ti amo’, avrebbe scelto lei. Avrebbero fatto l’amore e nel frattempo i cittadini armati di forconi, pale e falci li avrebbero cacciati via o in lzati o uccisi mentre la baracca veniva consumata dal fuoco. Questo, difatti, vuole Tom l’idealista, vogliono i suoi fervidi sogni, pronto coi suoi movimenti sensuali su Grace supina e inerme. Ma non dobbiamo dimenticarci di essere in un lm di von Trier, in

cui tutto può accadere meno che nali sdolcinati in linea con una futile drammaturgia. Lui, infatti, si ferma, lei lo blocca. Le inquadrature, come al solito montate senza il rispetto delle regole canoniche, rendono e cientemente la frizione, le a late parole che si contrappongono: Tom prima è seduto, poi appoggiato contro il supporto della pediera del letto; Grace prima a mezzobusto, poi di nuovo distesa supina. Tom è sconvolto; perché lo è? Grace ha una risposta: forse perché è stato tentato di fare come gli altri? Perché in fondo, sotto la neve, il suo desiderio, al pari delle verità nascoste degli altri, è di sfruttarla, forzarla a compiere atti sessuali con lui, per il suo ‘amore’? Ha paura del fatto che anche lui, come gli altri, potrebbe essere così ‘umano’? Grace ne sembra convinta; eppure, trova del buono nel fatto che lui possa dubitare della propria integrità morale; è l’esserne assolutamente certi, infatti, ad essere spaventoso! Allo stesso modo in cui l’avevamo trovato all’inizio, sulla panchina delle vecchiette immerso nei suoi pensieri, lo troviamo ora, imbacuccato, l’unica di erenza la neve a coprire il nero bitume. L’idealista Tom è diverso dal detective Fisher, dal Dott. Mesmer, da Leo Kessler, perché non accetta che si possa dubitare della sua integrità morale. Rispetto ai suoi predecessori, buoni a nulla che inconsapevolmente perpetravano il male a cui si opponevano, Tom Edison subisce un’evoluzione in negativo poiché consapevolmente è pronto a difendere a tutti i costi la sua idealità. Grace è un rischio enorme sia per gli altri sia per lui, che deve fare della sua assoluta moralità il perno della futura carriera di scrittore e salvatore di anime. Con ironia geniale, il narratore ci comunica che Tom, oltre ad essere idealista, è anche pratico, dopotutto: non avrebbe mai gettato via un documento che avrebbe potuto risultare signi cativo per lui e per le future generazioni, come base per un romanzo o una trilogia (è von Trier che cita se stesso?). Non appena balza fuori la carta azzurrina del bigliettino, la musica non diegetica riprende a suonare, dopo minuti di silenzio sovraccarichi, prima che Tom

ritorni all’assemblea. Tre volte Grace nel corso del lm ha fatto riferimento al bigliettino e alla ricompensa dei gangster, e altrettante volte Tom le ha mentito circa la sua distruzione, come Pietro tre volte ha rinnegato Gesù(512). Il giorno dopo la neve è scomparsa; incredibilmente, il sole risplende; dopo molto tempo, riecheggia di nuovo il battipalo. Sembra che le cose si siano calmate a Dogville. Tra le fessure penetra forte la luce nella marcia stanza di Grace, che si solleva confusa: è mattina inoltrata, o meglio mezzogiorno o l’ora grigia come la de niva McKay, e nessuno l’ha scaraventata giù dal letto né i bambini hanno tirato contro la sua abitazione fango e pietre (i bambini lanciavano pietre anche contro Bess negli atti nali della sua passione). Cosa è successo? Forse le cose erano andate bene, dopotutto? Fuori l’atmosfera è calda, densa, di ottobrata romana. È proprio la sig.ra Henson a comunicarle che può prendersi dei giorni liberi e non pensare al lavoro, lei che tante volte si era mostrata ostile. Anche Olivia la saluta e, amichevolmente, le dice di aver fatto bene a dormire così tanto e, dietro di lei, i bambini giocano tranquilli. È di fronte all’entrata della miniera (su cui è scritto Dictum ac factum, ‘subito detto, subito fatto’) – i colori vividi per l’illuminazione preclara – che Tom le spiega cosa è successo: gli abitanti avevano accettato all’unanimità di darle dei giorni di riposo e il loro approccio era cambiato. L’entusiasmo del ragazzo si scontra con la calma aggrottata dell’interlocutrice che, dopotutto, è una donna di città. Tom è altresì felice perché ha scritto un intero capitolo di una storia su una cittadina che non ha ancora un nome. Perché non chiamarla Dogville? gli suggerisce Grace. È come se il compimento del male da parte del giovane, che nora era rimasto in disparte, abbia avuto l’e etto positivo di sbloccare le sue capacità letterarie. Tom, come i suoi concittadini, si nutre delle nefandezze che attua. Tant’è che Grace decide di trascorrere la sua giornata libera lavando sé e i suoi vestiti, cosa che, a suo avviso, gli abitanti della

cittadina di Dogville, incluso Tom, non avrebbero mai fatto. Diverse immagini ci appaiono in sequenza: i bicchieri degli Henson, il libro di Tom Edison sr., l’abitacolo del furgone di Ben, i pedali dell’organo della chiesa, la panchina, il volano, il telefono. Dogville è in attesa: una stasi intatta, come coperta da un grande coperchio per il formaggio, che si intensi ca nonostante dopo due giorni Grace venga rimessa a lavorare. Ed il quinto giorno, come in un racconto sulle sacre scritture un po’ rimaneggiato, si dilata in una strana atmosfera che porta tutti i cittadini in strada: dal lato opposto, la telecamera li mostra a astellati sullo spiazzo che si a accia sulla valle. Il narratore ci informa che uttuano parole del tipo: “il telefono è ancora giù” o “Ben ha dovuto fare retromarcia per un albero caduto sulla strada”. Tramite Liz che viene verso di noi frettolosa, in ansia, scopriamo che sono state avvistate otto macchine, visibili ora addirittura ad occhio nudo. Olivia si preoccupa di ordinare a Grace di cambiare le lenzuola bagnate di June, mentre veloce corre a raggiungere gli altri. La stessa June zittisce Grace intenta a carpire le ultime novità. Con un cappellino di lana in testa, ad indicare la stagione fredda, mentre la donna si accinge a cambiare quei panni sporchi, un sentimento di star sprecando il suo tempo prorompe in lei e dice: “Nessuno dormirà qui”. Cita le stesse parole che Jenny pronuncia nella canzone di Brecht da cui il lm è tratto: “there’s nobody gonna sleep here”(513). Grace come Jenny sa, dunque, quello che avverrà: perché ne è turbata? Perché la inquieta l’impellenza con cui ha pronunciato la frase? Anche lei, come Tom, è stizzita che si possa dubitare della ‘sua’ integrità morale? Grace fa la strada inversa agli altri, ciascuno di ritorno alle proprie abitazioni: ormai vanno in opposte direzioni. Grace fa una domanda a Tom, il quale è ora visibilmente assieme agli altri e quindi dalla loro parte: non chiede, come in passato, se avesse buttato il biglietto: lo sa, forse lo ha sempre saputo. “Non hai avuto la forza di buttarlo via, vero?”, è questo che dice, retoricamente. Non ha saputo

seguire, Tom, quella forza che andava presa sul serio: ora è nita? Al minuto 2:29:26, un’inquadratura del giovane rischiarato di pro lo da una luce gialla – forse di luna piena già vista in precedenza (la sera che Vera e le altre hanno vessato Grace) – replica in maniera identica lo sbigottimento rappresentato al minuto 2:06:15 (lì per vedere gli altri abusare sessualmente Grace, qui per essere stato scoperto). La telecamera ci mostra allora la testa di Grace incappucciata sul cuscino, volta verso l’alto, irrigidita in una maschera sovrana. Oltre la testiera, sfocate le immagini dei cittadini riuniti in assemblea: è la rappresentazione della distanza incolmabile fra le parti. Lo zoom mette a fuoco il consesso condotto da Tom: mandano Giasone – un bambino! – a chiudere a chiave Grace. Al cigolio della serratura, Grace accucciata sotto le coperte non se ne preoccupa a atto, assorbita com’è da argomenti e ri essioni che aveva altrimenti evitato per buona parte dell’anno. Grace è quindi consapevole di aver fallito nella dimostrazione della sua argomentazione e cerca forse di preparare una strategia a difesa delle sue ragioni.

Capitolo 9 In cui Dogville riceve la visita tanto attesa “Adesso voi gentiluomini potete togliervi quel sorriso dalla faccia perché ogni edi cio in città cadrà questo posto sballato verrà raso al suolo”(514). Alla ne, le macchine arrivano. La processione nera come la notte irrompe tra gli astanti, in attesa. I gangster vengono accolti da un’appropriata delegazione, per mostrare loro l’ospitalità non di certo paragonabile all’abbaiare aggressivo che Mosè riservò a Grace quando questa si presentò la prima volta. Gli abitanti di Dogville paiono sapere perfettamente come va il mondo e come vanno trattate certe persone. I modi si fanno irruenti, catturati dalla telecamera condotta a mano dall’operatore (Lars von Trier stesso, come descritto nei titoli di coda). I gangster non sono interessati al battipalo e al nuovo penitenziario in costruzione(515); vogliono la ragazza. I momenti confusi sono ben descritti dai tagli di immagine repentini. Bill Henson, l’ingegnere che aveva costruito l’aggeggio, con irruenza viene costretto a rimuoverlo. Nel trambusto, Tom trova il momento per chiedere, se possibile, una contropartita: ogni qualvolta qualcuno di nuovo si presenti a Dogville, lo schema è lo stesso: è lo scambio, alla base della storia n dall’inizio. Non esiste per Dogville una generosità per cui il dono non sia inquadrabile in una relazione dono-scambio(516), nell’ambito della quale qualcosa è andato evidentemente storto. Grace, la grazia, il sovrappiù rispetto alla legge(517), poteva essere accolta come dono n tanto quanto oggetto o erto in contropartita.

Il movimento indispettito di Grace, che si discosta velocemente non appena le viene tolto il collare di ferro, è simile a quello di una volpe incatenata; la pelliccia lo indica. Durante il corso del lm, Grace cambia abito: quando Tom la rinviene nascosta nella miniera, è truccata ed indossa il cappotto dall’aspetto costoso col collo di pelliccia, che scomparirà quando Ma Ginger le a derà il suo primo lavoro. In seguito, no a quasi la ne del lm, vediamo Grace con un caratteristico foulard da campagnola e un abito da lavoro di tela semplice. Poi, curiosamente, prima che i gangster ritornino e salvino Grace dalla sua miseria, la vediamo improvvisamente di nuovo con il cappotto con collo di pelliccia e un cappello elegante(518). Su questo Lars von Trier ha dichiarato: “I pochi [costumi] che utilizziamo sono interamente realistici”(519). Uno dei gangster (Udo Kier) l’accompagna verso i sedili posteriori della Cadillac 355 C, il cui suono del motore era inconfondibilmente legato ai due colpi di pistola sparati contro la giovane. Perché allora entra nella macchina così serena? È l’amante del boss? Un vecchio uomo (James Caan) avvolto da una sciarpa bianca la guarda di traverso, il suo viso voltato dal lato opposto, verso il basso. V’è di denza; i movimenti del capo segnalano come sia lui ad essere proteso verso di lei, la quale è rigida, sulle sue, col grosso segno del collare ancora impresso sul collo. Non che non ci avesse abituato a questa di denza, come la sera davanti alla scrivania di Tom, quando alla ne o rì lui l’osso che aveva rubato, dopo qualche titubanza. Le prime parole ci rivelano una storia passata, un astio, il rapporto di genitorialità: l’uomo è suo padre. Il confronto nella macchina è fatto di primi piani, inquadrature frontali (con due strani fanali interni sullo sfondo, ai lati), tagli e inquadrature imprecise. Il discorso che ne segue è stato de nito brechtiano: una lunga (dieci minuti) ma arguta e avvincente discussione loso ca tra Grace e il boss della ma a, che viene ripresa dopo la sua brusca interruzione un anno prima, con Grace che fuggiva sotto colpi di pistola a lei indirizzati(520). Sovviene inevitabile la domanda: è il

mondo da cui proviene Grace altrettanto spregevole? Che razza di padre è quello che per una discussione decide di sparare contro la glia? Non c’è, forse, via di scampo alla miserabilità. In poche parole, in ossequio a quanto a ermato da Nietzsche, il perdono (cristiano) che Grace intende perseguire puzza per suo padre di condiscendenza (arroganza): “Mio Dio, non vedi quanto, quanto sussiego c’è in te quando dici così. Tu hai questo preconcetto assurdo: che nessuno, ascolta, che nessuno possa assolutamente avere lo stesso alto livello etico che hai tu. Così esoneri tutti. Non riesco a pensare a un’altra cosa più arrogante di questa. Tu, la mia cara glia, perdoni gli altri con delle scuse che poi mai al mondo permetteresti a te stessa”: queste le parole del padre, che ra gurano una Grace non molto dissimile da Tom che, orbo, si stizzisce quando viene rivelata la poca integrità morale dei suoi pensieri. Da un lato, dunque, le argomentazioni di Grace, per cui i cani dovrebbero essere perdonati in quanto agiscono secondo la loro natura. Dall’altro lato la posizione del padre, che invece ritiene che l’unico modo per insegnare ai cani di non lappare il proprio vomito è la frusta: non dimentichiamoci infatti che siamo a ‘DOGville’. È l’abitacolo una stanza di un analista? O forse siamo di fronte a un altro progenitore del ‘digressionismo’ approfondito in Nymphomaniac? Non c’è soluzione, entrambi si accusano di arroganza; è un altro scontro tra “illustrations”, tra diverse argomentazioni. Da Grace apprendiamo che le cose a Dogville non le vanno così peggio rispetto alla situazione a casa. Nella penombra della notte, mentre il battipalo scandisce i momenti, i cittadini sono nelle rispettive case, impauriti dietro i muri invisibili e attenti a seguire ogni movimento della (ora) temuta ragazza; in strada solo le macchine e i gangster coi loro fucili in braccio. Nella città quieta sotto controllo, Grace percorre la strada che ormai conosce bene, libera; si avvicina ai cespugli di uva spina, ora spogli per l’inverno, e presto rigogliosi e nuovamente pronti a dare frutti per le fantastiche crostate con cannella di Ma

Ginger (le crostate che, a detta di Chuck, fungono da intruglio magico per incantare gli ignari). D’un tratto si ferma, l’espressione è cambiata. Uno zoom che la inquadra lateralmente si avvicina al volto biondo, avvolto dai pelucchi di pelliccia. Si dilata sul viso serio una luce bianca che cresce di intensità. Nel gioco delle nuvole, uno squarcio rivela la luna piena, un grosso occhio gigante, ancora più grande della palla gialla che aveva ottenebrato la notte della violenza delle donne di Dogville contro Grace. “E un altro di quei piccoli cambiamenti di luce avvenne”, ci dice il narratore: sarà l’ultimo. La chiarezza della luna piena colpisce surrealmente le abitazioni e i loro residenti, mentre Elm Street con i gangster rimane nel buio. La musica non diegetica cresce di intensità, no a risuonare. Sotto il pallore lunare, Dogville si rivela, esposta. L’epifania scon gge ogni intruglio e ogni idealità. Una complessiva dello stage è mostrata, Grace in fondo ssa, con le braccia distese lungo il corpo, come priva di altri strumenti e argomentazioni. Un taglio di inquadratura ci riporta di nuovo al primo piano del viso della donna, voltato di lato: improvvisamente, diventano visibili le spine sugli arbusti, le fessure e le irregolarità delle baracche, e delle persone. Sotto riverberi verdi(521), la sua misericordia incondizionata si trasforma quindi in una ‘giustizia’ altrettanto incondizionata, basata su assoluti morali del Vecchio Testamento(522), “per il bene delle altre città, per il bene dell’umanità e per il bene dell’essere umano che era Grace stessa”. L’idealismo della ‘nuova’ Grace è più rigoroso che mai: presi i pieni poteri concessi dal padre, è decisa a farne uso immediatamente per risolvere il ‘problema’ di Dogville, utilizzando, quasi in modo irriverente, la terminologia stessa di Tom. E no, non è d’accordo sull’idea di sparare ad un cane – guarda caso – ed appenderlo al muro, perché questo non risolverebbe alcunché. È con le lacrime agli occhi che confessa che potrebbe capitare di nuovo, quello che le è successo: una persona fragile che per caso passa di là, rivela se stessa e la sua fragilità: è stata dunque sincera Grace quando ha

rivelato le sue intenzioni? Diversamente da Melancholia, l’idea di un mondo migliore, seppur di poco, è presente in Dogville, rispetto alla situazione attuale. C’è una soluzione al ‘problema’ di Dogville, aumentato disproporzionatamente forse a causa di una cieca osservanza del programma di Tom, come cieca è stata l’osservanza del programma di Creonte da parte di Tebe(523). Diversamente da Tom, Grace dolorosamente decide di risolvere in maniera concreta la questione della malfamata cittadina. L’ultimo discorso di Tom, ossia dannato ragazzo come lo chiamano i gangster (dicono proprio “kid”: forse Tom non è poi così diverso da Giasone) rivela, nella sua ironia, delle informazioni interessanti. Ammette di aver usato Grace come argomentazione per la sua idea. Come ultima spiaggia per salvare le penne, cerca di dimostrare che, dopo tutto, questa argomentazione speci ca – la vicenda di Grace – ha superato ogni aspettativa: dice molto sull’essere umano. Forse, al di là delle molteplici ri essioni di tipo politico, economico, loso co, etico, che sono state condotte, il concetto alla base del lm è, semplicemente, questo: un’e cace argomentazione sull’essere umano. Le tendine dell’auto si abbassano, come misura appropriata. Fuori è un inferno: lo sfondo nero e l’atmosfera blu della notte sono sostituiti dal rosso che si muove ondoso a replicare l’imperversare delle amme. Lo sguardo sso e inumidito di Grace ci appare incorniciato all’interno della macchina, posto privilegiato dove assistere all’Armageddon; è al sicuro, diversamente dall’inutile tipì in cui si ripareranno Justine e company in Melancholia. Spari, urla, pianti; la telecamera traballante, vorticosa, punta in particolare sui gesti, sui volti in primo piano delle persone, sui loro corpi: acrobazie della macchina da presa che riprende lo stile a scatti dello strumento a mano e sposta il punto di vista in maniera drastica, frequente e senza preavviso(524). Si alza anche il fumo a confondere maggiormente la scena. Finché non appare Vera, stretta tra

le mani dei gangster, costretta ad un’analoga prova stoica di guardare l’uccisione dei suoi bambini – persino del piccolo Achille – cercando di non piangere, nell’ottica di una spietata politica retributiva. Questo le è “dovuto”, dice Grace, che non parla più di dono o di o erta né di carità, ma solo di obbligo, perché è insito che Vera non potrà non versare lacrime. E poi c’è Tom, al centro circondato dagli uomini armati, in una scena che dà il sapore dei gangster movie americani: quello che no ad ora poteva sembrare un peculiare melodramma combina altresì elementi di tale inconfondibile genere d’oltreoceano. Si conferma dunque l’inventiva del regista danese nel prendere a riferimento i generi esistenti per giungere a soluzioni innovative e sperimentali, anche attraverso la commistione dei loro elementi tipici. “Devo dire che la tua argomentazione batte di gran lunga la mia”: è stata dunque una battaglia di argomentazioni? Un confronto a due? O di Grace oppure di Tom con se stessi? O Grace e Tom non sono che forze contrapposte all’interno di una unica ‘condizione mentale’? Non ci saranno scritti per Tom, il cui corpo cade in una Dogville fatta solo di cadaveri: pure le linee degli edi ci sono scomparse, mentre la luna rossa della morte tenue si poggia sullo sfondo, sopra le teste dei carne ci. Grace respira profondamente, le lacrime agli occhi: è la troppa emozione o un sospiro di sollievo di qualcuno che, pur crudelmente, si è liberato di una zavorra? Questa punizione apocalittica si percepisce come davvero meritata e si esce dal cinema chiedendosi cosa signi chi sentirsi così sollevati; con tutte quelle persone morte(525). “La canzone di Brecht è sulla vendetta. Il lm ritrae cosa accade prima che la vendetta è scatenata. Questo lm ha un tema simile a quello degli altri miei lm, tranne per il fatto che questa donna non porge l’altra guancia.”(526) Nella misura in cui non porge l’altra guancia, Grace ha dovuto possedere una capacità per qualcos’altro(527): per scatenare l’Armageddon.

All’improvviso un suono: non così persuasivo e potente come la prima volta, che tuttavia si fa sentire attraverso lo scoppiettare della legna che arde: Mosè abbaia, è vivo. Si precipita Grace verso la sua cuccia, attraversando ciò che resta di Dogville che non può de nirsi nemmeno una strada (né tantomeno Elm Street poiché non vi è rimasto alcun albero, guriamoci un olmo). Il cane viene graziato, mentre ringhia alla giovane: è arrabbiato perché all’inizio della storia gli aveva rubato l’osso. Non va dimenticato, infatti, che questo è stato il primo atto della relazione tra Grace e la nefanda cittadina. Così, la telecamera come un occhio divino punta dall’alto su ciò che rimane, ossia nulla se non i corpi in quelle che una volta erano le baracche fatiscenti di Dogville; l’unico rettangolo disegnato è la cuccia di Mosè e su di esso zooma la macchina da presa, mentre i veicoli si allontanano: è Grace a lasciare Dogville o Dogville a lasciare il mondo intero? Mosè si materializza e nel suo occhio il lm nisce: “Qualcuno potrebbe pensarlo [che il cane è sotterrato]. Ma non è seppellito così a fondo”(528). Non del tutto perché partono i titoli di coda al suono di Young Americans di David Bowie: si tratta di un brano che lo spettatore di cilmente si aspetterebbe, a causa della sua dissonanza con l’azione e l’atmosfera del lm che l’ha preceduto, per non parlare delle foto di persone che so rono la povertà che sono proiettate durante la sequenza(529). La canzone di Bowie, dal sound de nito ‘plastic soul’, parla di far festa tutta la notte, mentre scorrono immagini desolate di bambini sporchi semivestiti, tossicodipendenti svenuti per strada, anziani distesi su mobili mangiati dalle tarme, povera gente di campagna che beve birra a buon mercato e personale dell’EMT (Emergency Medical Technician) che raccoglie i resti di qualcuno da un vicolo del ghetto. Il montaggio include foto di Dorothea Lange, Walker Evans e altri rinomati fotogra di americani oppressi durante l’era della Grande depressione. Queste foto furono originariamente commissionate, archiviate e divulgate pubblicamente dalla

Farm Security Administration (FSA) negli anni ‘30 per aumentare il sostegno popolare ai programmi del New Deal(530). A queste, sono state aggiunte foto più recenti (risalenti agli anni ‘70 e ‘80) facenti parte dell’inquietante progetto ‘American Pictures’ del fotografo danese Jacob Holdt(531): vi è ad esempio l’immagine del Presidente Nixon che compare proprio mentre la canzone di Bowie lo cita. Perché queste immagini? Lars von Trier ha a ermato che il lm è “l’immagine di una nazione che non conosco ma di cui ho una sensazione. Non penso che gli americani siano più cattivi di altri, ma non li vedo meno cattivi degli stati banditi”(532). È forse dunque per accentuare il senso della contraddizione americana, tra l’edonismo consumista sfrenato ed imperialista – che si cela dietro il sogno degli USA liberi ed egalitari – e i rottami di vita miserabile che produce? O forse, più profondamente, “mette in guardia dall’identi care troppo frettolosamente una determinata immagine dei ‘poveri’ con una politica autenticamente radicale? Come se von Trier consigliasse: ‘Fate attenzione alla vostra disponibilità a lasciare che immagini come queste facciano la parte propagandistica in una politica del visivo’. Lavorate in modo critico anche con le immagini più familiari: impegnatevi in modo sovversivo nel gioco delle immagini, piuttosto che cadere in equivalenze nette tra pathos visivo e autorità morale”(533). Riprendendo le parole del narratore alla ne di Dogville, “è una domanda così astuta che pochi ne bene cerebbero ponendola e pochissimi nel dare una risposta. Di certo non verrà fornita qui!”. Di sicuro sono immagini e caci che, almeno nei titoli di coda, tornano a riempire interamente lo schermo.

Medea Dalla vendetta di Grace alla vendetta di Medea: il tortuoso viaggio nel cinema di Lars von Trier giunge no alla riscoperta di un classico. Medea è giunto molto prima di Dogville: il lungometraggio è stato realizzato nel 1988 per la TV; come ricordato nell’introduzione, tuttavia, l’opera, seppur realizzata per il mezzo televisivo, è stata scelta per la sua signi catività ai ni di una – almeno ambita – corretta comprensione del regista danese. Gli stessi Pupi e Antonio Avati, i quali si sono cimentati in molti lungometraggi sia per il piccolo che per il grande schermo, ne hanno evidenziato le di erenze e le similitudini: “[Tra] Fare televisione e fare cinema c’è un abisso, innanzitutto; la fruizione cambia veramente la proposta, il modo di fruire la cosa cambia sostanzialmente la proposta. Quando abbiamo fatto televisione come dici giustamente tu, correttamente tu, con la stessa passione… quando siamo sul set certamente non è che lui mi viene a dire guarda che stiamo facendo la televisione” (Pupi Avati); “no è la stessa cosa, noi giriamo un lm, è un lm come se andasse nelle sale, parlo dei TV movie […] quindi la passione è la stessa […]” (Antonio Avati)(534). Film unico nella carriera di von Trier perché per la prima volta adatta la sceneggiatura di un altro, Medea è anche la meno recente delle opere ivi analizzate; nonostante ciò, una ricostruzione in tale sede, a seguito delle altre, ne consente di riallacciare i li conduttori, componenti di una tela tessuta nel corso degli anni, a partire da quando ne aveva solo 8 e ricevette in dono dalla madre la prima 8mm, con cui si cimentò subito nella produzione di amatoriali cortometraggi. Dunque Medea, dunque la Grecia, o meglio, la Danimarca e il mare del nord; dunque la vendetta, dunque un’altra donna, che non è donna se non, come l’uomo(535), componente dell’essere umano scandagliato meta sicamente da Lars von Trier.

La sceneggiatura di Dreyer Medea, anche per il contesto di produzione, non ha una struttura in prologhi, capitoli, parti con cui nora, nella presente analisi, Lars von Trier ci aveva dilettato. La sceneggiatura del lm si basa men che meno su un lavoro di Carl Theodor Dreyer, maestro nonché contenditore con Lars von Trier del titolo di miglior regista della Danimarca di sempre, se si atte onori cenze nazionalpopolari possano valere qualcosa, men che meno con riferimento ai due che forse non ne sarebbero neppure così entusiasti(536). Da Lars von Trier in persona apprendiamo che Medea è “da una sceneggiatura di Carl Th. Dreyer. La scrisse prima di morire, o meglio, dopo Gertrud. Doveva essere il suo primo lm a colori – voleva sperimentare questo processo prima di realizzare il suo grande sogno, il lm su Gesù. Ma non riuscì a realizzare nessuno dei due lm. Tuttavia, è molto interessante che Dreyer volesse Maria Callas nel ruolo di Medea, la stessa Callas che tempo dopo fece la Medea di Pasolini, nella sua unica performance di attrice di un lm. Non ho mai sentito nulla su quest’idea di Dreyer, perché lui è stato il primo a pensarlo, e non Pasolini”. Nel corso della medesima intervista, Lars von Trier non negò di aver visto altresì la versione del regista italiano, la quale potrà dunque essere presa a riferimento, per lo meno in contrapposizione alla personale interpretazione del mito data da von Trier: “Sì, infatti, ma non me la ricordo molto [Medea di Pasolini]. In realtà a me piacciono i lm della trilogia, quelli più solidi, I racconti di Canterbury, Il ore delle mille e una notte, e Salò e anche Teorema. Ma Edipo re e Medea credo siano un po’ confusi”(537). Dreyer scrisse la sceneggiatura nel 1965 in collaborazione con Preben Thomsen e contattò Maria Callas; si spiega così che una copia dattiloscritta della sceneggiatura dreyeriana si trovi fra le carte di Pasolini(538). D’altronde, che Pasolini ne fosse un grande ammiratore non c’è mistero: “Non

appartengo a una corrente, se non in maniera molto vaga. Io non sono un professionista del cinema e quindi non ho fatto il noviziato, non ho fatto l’apprendistato, non ho avuto dei maestri, non mi sono inserito in una corrente, appunto. Sono venuto completamente da un altro campo e quindi ho agito in maniera abbastanza irregolare. Però avevo su di me una costellazione di nomi: prima di tutto direi Charlot, seguito, ma in qualche cosa direi anche superato, da Buster Keaton. L’altra costellazione è quella di Dreyer, direi anzi che è la più importante di tutte. E poi una assolutamente dissueta per un regista italiano, cioè il regista giapponese Mizoguchi.”(539) Dreyer aveva conservato un ritaglio di giornale francese in cui veniva raccontato l’omicidio dei gli ad opera di una madre gelosa: questo era per il regista il segno della ‘urgenza’ interiore del mito di Medea e la spinta per farne un lm(540). Il progetto di Dreyer fallì a causa dello scarso interesse mostrato dai produttori: la sceneggiatura rappresenta quindi la sua ultima opera prima di morire tre anni dopo(541), nel marzo 1968 mentre lavorava al lm su Gesù di Nazareth. “Questa sceneggiatura non è un adattamento della tragedia di Euripide, anche se vi si ispira. Il lm cerca di ricostruire la vera storia che potrebbe aver ispirato il grande poeta greco”(542): queste le parole di Dreyer, che hanno guidato la sua operazione di scarni cazione e riduzione all’essenziale della versione euripidea, seppur rimanendo in linea con essa(543). Sono eliminati, dunque gli elementi magici e soprannaturali nonché gli aspetti demoniaci di Medea, appartenenti alla tradizione senechiana, per una storia realistica in cui viene accentuata la condizione di straniera in terra lontana e di orgoglio barbaro della protagonista. Pubblicato il testo solo nel 1986(544), la versione di Dreyer, così come molte ‘Medee’ moderne (da Corneille ad Alvaro), dà inoltre rilievo autonomo alla rivale Glauce, arsa di gelosia: è descritto l’episodio della prima notte di nozze, qui e ettivamente

presente, in cui la glia del re di Corinto non si concede al neosposo nché Medea rimarrà sul suolo greco. In maniera del tutto originale, invece, l’incontro fra Giasone e Medea è occasione inedita per l’emersione di una nostalgia dell’innamoramento passato; scena che verrà ripresa da Pasolini nel suo lm, culminante tuttavia nella sicità di un rapporto sessuale che, seppur non ripreso direttamente, è ben intuibile (letto, parziale nudità, gesti passionali). La Medea di Dreyer è carica di aspetti simpatetici per la donna in virtù della sua subalternità rispetto al potere costituito degli uomini di Corinto, con cui si confronta e da cui è emarginata; isolata, è quindi molto vicina ad altre eroine dreyeriane vittime del potere (fra tutte Giovanna d’Arco). L’infanticidio stesso è compiuto in una forma ‘morbida’(545), con Medea che canta una ninna nanna mentre avvelena con una pozione zuccherata i suoi bambini. Tuttavia, l’orgoglio combattivo della protagonista l’avvicina soprattutto ad un altro personaggio femminile dell’opera cinematogra ca del maestro danese, ossia Gertrud(546). “Una struttura che vuole essere altra struttura”(547), la sceneggiatura di Dreyer è un’opera drammaturgicamente integra e compiuta in se stessa, che, allo stesso tempo, si proietta di continuo verso il dato visivo, soprattutto nell’incipit e nel nale, in cui vuole ricreare le danze rituali del coro(548). Tale proiezione è colta dall’allievo, per ragioni anche contingenti. “Si è trattato di un caso di ricatto. Ho accettato il progetto perché se non l’avessi fatto io l’avrebbe preso qualcun altro. E sarebbe stato orribile per me se l’avesse preso qualcun altro, vedere che qualcun altro lo faceva”(549). Ma qual è, soprattutto, la ragione della fascinazione di von Trier per Dreyer? “Soprattutto nel suo stile puro e assoluto, che trovo molto bello. C’è un po’ di Hammershøi [pittore danese di ne secolo noto per i suoi ritratti ed interni] in esso, e non solo visivamente: anche i temi e i dialoghi sono molto ridotti al minimo. E poi lo rispetto per essere sempre andato controcorrente rispetto all’epoca. Ho

un enorme rispetto per i ribelli e penso che lui sia stato uno di loro. O, se vogliamo, un martire. Ha so erto in ogni caso come risultato della condanna”(550). E ancora: “Direi che la sua tecnica era molto semplice. Aveva un paio di teorie guida, ma non c’era alcuna tecnica sensazionale”(551). Insomma, Lars von Trier ammira Dreyer per il fatto che fosse un regista molto ‘onesto’: “Non ha mai realizzato nulla in modo calcolato. O, in altre parole, è sempre andato, per così dire, contro ciò che era in voga. Quando ha girato il suo primo lm sonoro, per esempio… aveva già fatto alcuni lm muti, quindi quando ha girato il suo primo lm sonoro, non aveva quasi nessun suono. Era interessante, perché tutti gli altri registi, gli americani e così via, facevano uso di musica ed e etti. Ma Dreyer disse: ‘No, questo è il modo in cui dobbiamo farlo, solo un po’ di suono’. Ci sono solo tre battute, forse – sto pensando a Vampyr – e solo un po’ di musica”(552). L’onestà artistica di Dreyer, dunque, e la sua coerenza nel percorrere la propria linea creativa hanno esercitato un forte ascendente sul giovane allievo che, forse, anche in virtù dell’in usso del maestro, giunse nel 1995 a formulare le 10 regole di Dogme95: il Voto di Castità. L’integrità nel perseguire le proprie idee va di pari passo con la sperimentazione di nuovi sentieri: è anche in ciò che risiede l’ammirazione di von Trier: “Ero a ascinato dalle sue davvero speciali idee sul lm a colori – idee che non ebbe mai la possibilità di realizzare – poiché non realizzò mai un lm a colori.”(553) Dunque dal lavoro di Dreyer si parte, che è il fondamento della Medea in esame(554). Solo questo; perché già all’inizio del lm, dai titoli in sovrimpressione, apprendiamo che: “Questo non è un tentativo di girare il suo lm, ma con il dovuto rispetto, è una personale interpretazione e un omaggio all’autore (Lars von Trier)”.

La Medea di von Trier “Il soggetto in realtà non mi diceva niente! Non mi sono mai interessato al teatro classico, ero però attirato dal fatto che Dreyer lo fosse. Il dipartimento teatrale di Danmark Radio mi aveva commissionato un’opera e gli ho proposto Romeo e Giulietta, ma l’idea non convinceva Brigitte Price, appena nominata direttrice. Volevano tuttavia realizzare qualcosa con me. Brigitte Price aveva già allestito Medea a teatro nella versione classica di Euripide, con Kirsten Olesen nella parte principale. Voleva adattare la pièce per la televisione, questa volta attraverso la sceneggiatura di Dreyer. Esitava però a farlo e mi ha domandato se la cosa poteva interessarmi: altrimenti se ne sarebbe occupata direttamente. Non volevo che mettesse mano alla sceneggiatura di Dreyer! Mi sentivo stranamente vicino a lui e alla sua visione di Medea”(555). Medea nasce per una contingenza, tant’è che “Medea non signi ca più molto, per me”, ha con dato von Trier(556). Eppure, nella contingenza, emerge molto del suo ‘artigianato’, dal punto di vista tecnico e contenutistico. All’epoca, insieme a L’elemento del crimine, Medea fu tra i suoi prodotti di maggior successo, venduto per la distribuzione in diversi paesi, e in Francia – dove von Trier ebbe n da subito molti sostenitori – vinse il premio Jean D’Arcy per il miglior lm per la televisione, fatto che probabilmente ha contribuito a spianare la strada al nanziamento internazionale di Europa(557). Secondo alcuni, i due lm hanno attirato attenzione per le loro so sticate idee visuali, ma hanno di certo avuto i loro limiti, trattandosi soprattutto di esercizi stilistici di talento di un regista alle prime armi(558). Medea è supina, distesa sulla spiaggia; un’inquadratura a piombo si allontana, allentando la presa dello zoom, e ruota impazzita quando la donna inspira forte l’aria, come

dopo un periodo prolungato di apnea. È vestita di nero, a squame, coi capelli raccolti in una cu a, come si confaceva alle donne nella Grecia classica(559). Primo piano di acqua che si versa: è l’alta marea; e poi una mano che stringe la sabbia, e poi l’altra, e l’acqua che avanza: è impossibile non ricondurre il suo corso lieve alla famosa ‘pool sequence’ in Stalker (1979) di Tarkovskij. La successiva inquadratura ci mostra il pelo del mare, forse una soggettiva a testimoniare il sommergimento di Medea in essa. Il suono inquietante di un uccello echeggia sotto il cielo grigio di una consistenza compatta, mentre la super cie del mare si increspa e sommerge ogni cosa. L’elemento acquatico è il primo con cui veniamo a contatto; è altresì fondamentale ne L’elemento del crimine e lo sarà a lungo, in particolare per la trilogia Europa. Una gura emerge e subito passiamo ad una scena in cui obliquamente, dal basso, vediamo Medea spruzzare fuori l’aria; sono le inquadrature tipiche dei lm muti, tra cui i lm di Dreyer(560). E come nel Vampyr di Dreyer, anche qui lo sguardo sembra essere “«una deposizione estrema, un gesto funebre, irreversibile» […] ma poco dopo la protagonista riemerge dall’acqua, ansimando, in una mezza gura angolata dal basso verso l’alto: «una classica forma che la poesia del cinema si dà quando vuol farsi epica e raccontare […] quella che è insieme tragedia e saga di guerrieri vichinghi»”(561). I grani delle immagini sono eccessivi, quasi si confondono i contorni della donna con il circostante grigio-bianco: il lm, infatti, è stato girato in video da tre quarti di pollice, trasferito su 35mm e poi riportato di nuovo in video, in modo da sbiadire il colore e degradare e appiattire l’immagine, producendo qualcosa di crudamente primitivo e arcaico(562). Non bastava la scelta del video, che già di per sé all’epoca voleva dire innovare: “[Medea] è un lm di un’ora e 15 minuti e sarà mostrato solo in televisione – non sarà mostrato nei cinema danesi. E sarà fatto su video – ho pensato che potesse essere interessante esplorare le possibilità di tale formato – combinato con la pellicola, tuttavia, per produrre un certo e etto”(563). Anche

il ‘chroma key’ (il cd. sfondo verde) venne sperimentato dal regista, così come l’attenuazione della gamma di colori no a raggiungere la monocromia in certe inquadrature(564). Le scene furono girate per la maggior parte all’aperto con luce naturale, usando soprattutto campi lunghi e totali sgrandangolati per mettere in evidenza il paesaggio, cosa inusuale in un lm destinato al piccolo schermo e, difatti, il regista danese dichiarò: “Me ne frego. Tra il cinema e la televisione non c’è tutta questa di erenza. La sola cosa che separa i due formati sta nel grado di concentrazione dello spettatore”(565). Una nave è all’orizzonte e nalmente vi è un fascio di luce gialla: “Medea” si sente gridare in lontananza, il trillo di un uccello riecheggiare che dà un senso di desolazione, insieme alla quasi assenza di rumore del mare. La gura di Medea è in acqua no al ginocchio, su uno sfondo di costa fredda che è resa ancora più vasta dall’angolatura utilizzata. È una landa desolata il luogo in cui vive ed Egeo (Baard Owe, che ha recitato anche in Gertrud), il vento, è ciò che ha incontrato poco dopo aver rischiato di venir sommersa. Gli elementi naturali e il paesaggio giocano un ruolo molto importante ai ni narrativi, proprio come avverrà ne Le onde del destino. Colpiscono altresì i lineamenti duri del viso dell’attrice Kirsten Olesen che interpreta la protagonista. Il prologo all’azione termina come era iniziato, con l’acqua in cui a onda persino la telecamera – il nostro occhio – ed appare il titolo del lm in sovrimpressione. Già vien fuori il tema del trovare rifugio. Medea è una rifugiata. La parte della parodo del coro, presente in Dreyer, viene concisa in un racconto condensato, a mo’ dei vecchi lm d’animazione Disney, che iniziano con una serie di scritte a caratteri gotici impresse su fogli di libro, per preparare e cacemente – anche per ragioni di economicità – gli spettatori alla proiezione. È una delle infrazioni di von Trier allo script del maestro danese: è la rinuncia al coro: la dolente parodos della prima scena della sceneggiatura originale viene riassorbita nella anonima scansione della

didascalia di apertura; così, la cornice rituale è rimossa a favore di un registro eminentemente ‘atmosferico’, in cui conta per lo più la suggestione metaforica della natura(566) precedentemente mostrata. Sappiamo che Medea è fuggita, ha lasciato la sua lontana terra natìa. Giasone ha lasciato lei qui, su queste desolate sponde. Risa innocenti accompagnano l’occhio dello spettatore che scende su un corpo nudo, privo di veli. La macchina da presa è condotta a mano, come i lm che saranno, mentre le luci sono ebili ( amma di candela) e gli stracci delle ancelle ricordano più delle serve. Una cortina di fumo sembra infondersi nello spazio: sono i grani delle immagini, che paiono gocce di nebbia e saranno una costante. È come un sogno, un ricordo o un’idea sbiadita della mente. “È tanto che ti aspettiamo”, si ode fuori campo la voce del re Creonte (Henning Jensen), che proviene dietro la porta chiusa. L’ombra gigante di Glauce (Ludmilla Glinska), dei suoi lisci capelli, scompare dalla parete non appena copre la fessura che fa da nestra e getta un po’ di luce. Il palazzo del re di Corinto è in realtà una serie di cunicoli sotterranei, di cui si percepisce l’umidità malsana e il molle suolo (ecco la terra, altro elemento). Contrasta il monologo di Creonte circa la crescita della città con le immagini mostrate: un cane avanza in slow motion e le fattezze si ingrandiscono in ombre inquietanti sul muro granuloso e sgretolato. Non vi è impressione di solidità, anzi, vi è un certo senso di angoscia e di claustrofobia man mano che la telecamera prosegue simulando il passo del re e dei suoi dignitari. Il cane arriva a una specie di falda acquifera all’interno del ventre della terra: siamo forse nella fabbrica degli orchi ne Il Signore degli Anelli – Le due torri (The Lord of the Rings: The Two Towers) (2002) di P.  Jackson? L’acqua è torbida e ripugnante, di gran lunga peggiore rispetto al desolante mare in cui era immersa Medea: eppure qui Giasone (Udo Kier) vi si sciacqua la faccia, che per la prima volta vediamo quando, voltato di

spalle, si gira, il corpo argentato nella maglia dell’armatura da combattente. Ha i capelli unti, è sporco e la sensazione che si riceve è di un personaggio insalubre, losco, al pari del circostante, forse a rappresentare i torbidi a ari del potere. La metafora del timoniere, per il capitano Creonte e il suo equipaggio, di cui vediamo scorrere i visi seri, vecchi e angusti – che sono forse i residui dei dotti teologi condannatori di Giovanna d’Arco (in Dreyer) – risulta patetica di fronte al putrido antro sotterraneo. Glauce è una gura controversa. Il pallore della pelle contrasta fortemente con il contorno sudicio della grotta, eppure la musica non diegetica che risuona dà un segno di cattivo presagio: sicuramente rappresenta una certa purezza, che però non promette nulla di buono. Durante la sequenza, la telecamera si eleva no a riprendere dall’alto la gura della donna verginale ed esprime una tecnica di cinema ancora molto formale. Un primo piano mostra i due futuri sposi, con Creonte che annuncia che saranno altresì i futuri governanti della città; l’abito grigio del re si distingue dai panneggi luridi bordeaux dei dignitari. I dialoghi non sono prolissi, i gesti non sono molti, le immagini però sembrano parlare chiaro seppur confuse. Infatti, Giasone tocca appena il viso di Glauce e sporca il candido incarnato di fanghiglia. La casa di Medea è una vecchia capanna di legno, ricoperta di paglia grigia, sotto un cielo annuvolato che copre la mezzaluna. È stato evidenziato che la provvisorietà di alcune soluzioni scenogra che (per esempio la stessa capanna di Medea o la reggia decisamente rabberciata di Creonte) va ascritta ai limiti produttivi del lm, e non alla super cialità delle scelte della troupe(567). In realtà, tra i primi esempi di applicazione del principio delle ostruzioni, von Trier pare aver consapevolmente optato per alcune soluzioni, nell’ottica di un preciso disegno narrativo da perseguire. Il von Trier dell’epoca, infatti, non lasciava molto al caso. “Rispondimi Medea o ridi, Giasone non merita nient’altro”, dice una voce mentre la straniera gioca

con i due glioletti all’interno di un quadrato di sabbia, vicino al fuoco. Immagini che parlano di una ritualità, di una competenza magica, che si dissolvono. Il montaggio alternato, che è utilizzato molto nel lm, coniuga l’abbandono di Medea alle scene di festa dentro gli stretti cunicoli, claustrofobici per la gente che arriva quasi a toccare il so tto, in onore degli sposi. Quelli di Glauce saranno gli unici capelli di donna ad essere sciolti, no alla ne del lm, segno della sua regalità. Una vecchia matrona, dalla chioma nascosta in un copricapo di saio, ci invita ad addentrarci tra veli uttuanti, appesi. Ricordano molto i panni stesi nei tribunali che Josef K. è costretto, suo malgrado, a frequentare, nelle stanze anguste dei solai in cui si svolge l’as ssiante attività giudiziaria. Abbiamo l’impressione analoga di trovarci in un posto oscuro, che preannuncia un incubo. La vecchia dagli occhi grandi spunta da una fessura, improvvisamente: è un labirinto? Perché so a un vento quasi pronto a spazzare via tutto? Glauce e Giasone non siglano il loro patto d’amore, sul giaciglio intrecciato di verde; non si sente più il vento. La sensualità del momento è acuita dalle due dita mascoline che percorrono il so ce viso di donna. Rimane sospesa la voglia animalesca di Giasone di a errarla: capiamo che è uno abituato a prendere ciò che vuole, senza scrupoli, come tra l’altro è avvenuto con il Vello d’oro. Un gioco poetico di inquadrature e montaggio mostra la gura di Giasone schermato dal velo sottile di tela e Glauce nuda, di là da lui. In barba alla regola dei 180° gradi, l’ombra del volto della giovane si contrappone al pro lo fermo dell’uomo: sono questi i segni di una tecnica virtuosa, a comunicarci che lei non si concederà. Le mani che a errano la donna sono la proiezione del bisogno insaziabile di Giasone: tuttavia, non può che toccare il suo innocente corpo che con dita di tela. Con grande maestria, von Trier rende dunque l’inappagabile desiderio sessuale di Giasone con un gioco di ombre e di veli che separano i due prossimi amanti(568).

Medea e Glauce non possono stare entrambe a Corinto, questo il motivo del suo non concedersi, del velo tra di loro. Anche in von Trier, Glauce gioca un ruolo autonomo nella partita, nel chiedere a Giasone di bandire la sua precedente sposa. La telecamera scende in basso, in un’altra angolazione obliqua: colpisce, contro il panneggio ondoso dei veli, la sproporzione tra il corpo in abiti di guerra di Giasone e quello esile della donna. La dissolvenza ci conduce alla casa di Medea, che dorme tra coperte e pellicce con i due glioletti dai boccoli d’oro, anche qui illuminati da una ebile luce. Il monologo(569) che tiene di fronte alla balia è un precipitato degli elementi ‘protofemministi’ che Dreyer evidenziò nella sua sceneggiatura, già presenti nella Medea di Euripide. Nel declinare il carattere dell’eroina, Dreyer infatti attenuò decisamente gli aspetti demoniaci e barbarici – rinunciando per esempio ai tratti senechiani del mito – e rimarcò invece il discorso sulla condizione della donna, su cui fonda la vendetta del personaggio: Medea, ancor più che nel modello euripideo, maledice l’appartenenza al genere ‘femminile’, la debolezza congenita delle donne di fronte all’uomo, la condanna della maternità. Quali diritti ha una donna? Si chiede la protagonista. L’uomo quando si stanca di una donna va dagli amici, lei invece non ha che lui. “Preferiresti essere un uomo?”, le domanda la balia mentre l’immagine dei bambini retrostante si ingrandisce: si sdoppia dunque lo schermo in due strati di proiezioni: Medea e la balia in primo piano, i bambini sullo sfondo. Le strati cazioni di immagini saranno un elemento formale fondamentale in Europa, il culmine della prima trilogia di von Trier. Sì, Medea preferirebbe essere un uomo, andare in guerra, piuttosto che partorire gli ed essere usata. Il problema di Medea non sembra risiedere tanto e solo in questo; lei è una straniera ed è stata abbandonata; ha tradito la sua famiglia e la sua patria per Giasone ed ora, lì, lontana, non ha che lui, non ha nessuno. Colpisce come la

madre, in questo frangente, non nomina i gli, sui cui visi paciocconi, dietro di lei, la telecamera si avvicina sempre più, come a formare monti umani in cui è incastonato al centro il capo coperto della donna, i suoi pensieri. È e cace la scelta, perché lega indissolubilmente ciò che appare a ciò che viene detto. Medea si vendicherà; lo spettatore inevitabilmente legherà il proposito di sangue ai due piccini. In questo modo, il regista danese compie un passo oltre il suo maestro Dreyer: attraverso la tecnica, crea una dimensione di assolutizzazione meta sica e atemporale, ancestrale e amniotica, che pone in secondo piano i cliché della barbarie di Medea o del suo con itto interiore di straniera e di donna, dominata invece dalla natura selvaggia e dall’animalesco, da un’osmosi di corpo e natura in cui quest’ultima ha sempre la meglio, in cui il dionisiaco trionfa per poi trasformarsi in autodistruzione(570). Giasone, nel sonno, sembra sentirla, perché bruscamente l’immagine di lui che si sveglia di soprassalto, nel mezzo della notte, ci appare, mentre le ombre dei cani si rincorrono e schiamazzano oltre le pareti di veli gettando inquietudine. L’incontro fra Medea e Creonte è altra visione dello scontro fra una gura femminile e l’autorità. In questo caso, il luogo non è la casa della missione o la chiesa o la sede della commissione d’inchiesta: è il re con la sua corte a giungere presso la magione di Medea, che quasi scompare nella nebbia tta tta della palude. Anzi, lei è fuori ad aspettarlo e si incammina tra gli acquitrini; la telecamera (forse un dolly) si alza e mostra la donna sola, un po’ preoccupata, ad a rontare il re di Corinto: seppur maga, è pur sempre umana. Il trillo dell’uccello, che avevamo ascoltato ad inizio lm, ritorna e porta angoscia. Come vuole l’etichetta, la donna è sola, in posizione subalterna rispetto al sovrano e alla sua legge, quando viene bandita. Diversamente da Giovanna d’Arco, Medea però non si ferma, nemmeno si volta, prosegue a scuotere decisamente

arbusti secchi. Le sue mani raccolgono nell’acqua stagnante bacche: sono forse le bacche di uva spina che niranno nelle marmellate di Ma Ginger? L’incontro è dunque dissimile fra gli altri nora analizzati, in quanto è Medea a giocare in casa, ed il re non può che inseguirla. Addirittura, il re scende dal suo trono mobile e, deciso, si inoltra nella palude. I ruoli si invertono e lo capiamo dalle onde di nebbia che si intensi cano e si diradano, consegnandoci un sovrano spaesato, guidato unicamente dal rumore confuso degli arbusti scossi (dalla morte che lo coglierà). È Creonte, impigliato nel terreno fangoso, ad essere in posizione subalterna, su un campo che pare non essere il suo. Pur non conoscendo il mito di Medea, sapremmo, grazie a queste immagini, degli e ettivi ruoli di forza nella storia. Tuttavia, nella sequenza in cui viene bandita, Medea pronuncia una frase chiave: “Non c’è dolore più grande dell’amore”. La sua vittoria si preannuncia amara di consolazioni. La telecamera condotta a mano (dopo una serie di scene in cui è stata assente) punta verso i colpi concitati del pestello in un mortaio. Crucciata, le rughe delle guance nette, Medea continua a impiastricciare un miscuglio; ironicamente, viene citata la buona sorte, mentre appaiono immagini di mani sporche di nero e di una boccetta con dentro un intruglio: l’arma del misfatto. Nella palude, l’immagine rifratta attraverso lo stagno colpisce: la sagoma di Meda si succede alle fronde degli alberi ed è resa nello stesso colore: è essa stessa la palude, eppure è sola, nelle sue fattezze. Non c’è conforto nella natura straniera. Lo zoccolo del cavallo, animale così ricorrente nei lm di von Trier, turba la stasi subacquea e la telecamera, con grande tecnicità, oltrepassa la linea che divide i due mondi (il subacqueo e il sopracqueo): è Giasone. L’incontro fra i due ex amanti avviene anch’esso nel giardino della maga; la luce è di un familiare giallo ocra, la nebbia sostituita dalla pioggia incessante (siamo sempre nell’acqua). Il

manierismo di von Trier dei primi tempi è ben rappresentato dall’immagine di un telaio immerso nella vegetazione, segnato dal fascio di un piccolo arcobaleno. Medea è seduta allo strumento, simbolo, peraltro, del buon mos della donna greca(571); lui, dal lato opposto dell’arnese, le prende la mano attraverso la rete di li imperlata da gocce d’acqua, che li separa. Ancora una volta è del tessuto a dividere l’uomo e la donna. L’ombra di Medea, similmente all’ombra di Glauce, è schermata dal materiale tessile. Sono vicini ma lontani e sono le immagini a dircelo piuttosto che il dialogo. Nel confronto, il futuro re di Corinto ripete una stessa frase di Medea detta in precedenza, letta dal suo punto di vista: se solo gli uomini potessero avere gli senza l’intervento delle donne: il regista, ancora fortemente legato ad una drammaturgia tradizionale, immette un elemento di economia narrativa che in maniera semplice indica la distanza ormai abissale fra i due. Quando Giasone tira a sé Medea, lei urta una barriera interna al telaio e si ferisce. Collocare una tale barriera in uno spazio aperto enfatizza enormemente il nucleo già euripideo dell’incomunicabilità(572). Il cinema di Lars von Trier, in particolare quello dei primi tempi, è imperniato profondamente sul paradigma dell’immagine: già nel 1982, quando gli fu chiesto perché scelse la Seconda guerra mondiale come tema per il suo lavoro Immagini di una liberazione, von Trier rispose: “Quando scelsi questo tema, era perché avevo bisogno di una scusa per creare delle immagini. La prima cosa a cui guardo quando scelgo il mio contesto e la mia epoca storica, è se c’è una possibilità di creare le immagini che io desidero”(573). Ancora, con riferimento a L’elemento del crimine: “Devo ammettere che inizialmente vedevo la cronaca nera come un male necessario. Ma anche se mi sono appassionato sempre di più a questo genere, devo dire che considero la trama come una sorta di scheletro, un alibi per realizzare le immagini. Sebbene il nostro giallo sia indubbiamente molto appassionante, abbiamo deciso di fare un giallo in un modo diverso. Un giallo in cui sono

state inserite altre cose, che potrebbero anche essere più importanti della trama vera e propria. Io stesso credo che abbiamo dato un contributo molto originale al genere”(574). Per Medea, dunque, von Trier segue quasi alla lettera il testo di Dreyer, riservandosi comunque la libertà di concentrare ulteriormente i dialoghi, per lasciare alle immagini il compito di veicolare l’emotività dei personaggi(575). Von Trier, inoltre, estremizza la scarni cazione del progetto dreyeriano, calandolo in contesto primitivo, anzi atemporale. L’e eratezza di Medea diventa così, come detto prima, una dimensione assoluta e meta sica: quasi una metafora della natura e della terra(576). Medea si tampona la ferita e guarda dolorante l’uomo. Due legni a capanna reggono la testa scheletrica di un cavallo morto: il cavallo – e il cane – è l’animale associato a Giasone. Medea appare, dunque, sola; ha dalla sua parte, sotto la pioggia, le arti magiche. I gesti rituali non avranno, tuttavia, valenza a sé; saranno gli estremi rimedi a cui ricorrerà il dolore – umano, troppo umano – della donna. Una lenta carrellata mostra, per immagini, il cambio che, narrativamente, si danno i due uomini della vicenda, Egeo e Giasone, che percorrono, in senso e dal lato opposto, le sponde di un ume. È il ume – dopo il mare – ad essere scenario del secondo incontro tra Egeo e Medea. Il re di Atene, a di erenza di quello di Corinto, garantisce alla straniera l’ospitalità incondizionata. I due sono sulle sponde opposte e non si raggiungono mai; tuttavia, in questo caso, l’incomunicabilità è solo apparente: il ume, infatti, è in periodo di magra (vi è un tronco arenato sul fondo ma al contempo ben sporgente dall’acqua) e può essere facilmente guadato. Difatti, lo scagnozzo che lo attraversa rappresenta la linea che congiunge il presente di Medea (la terra corinzia) al suo futuro (Egeo ed Atene): il ume non è, dunque, vera barriera, ma piuttosto un medium che consente il compiersi certo e sicuro dei propositi di vendetta della donna(577).

Egeo stesso avrà un ruolo fondamentale nello sviluppo del piano di Medea. Se, infatti, l’intenzione di vendicarsi era stata maturata nella notte dopo il matrimonio tra Giasone e Glauce, il come è un percorso graduale; come in Euripide, anche in von Trier non si tratta di un piano deciso n da subito, ma si assiste ad una progressiva concretizzazione che trova la consacrazione solo dopo il secondo incontro con Egeo(578). È Egeo a confermare ed enfatizzare la centralità dei gli nella vita di un uomo – nucleo tematico, questo dei gli, che era già emerso altresì nell’incontro Medea/Creonte precedente e che emerge nel corso del lm attraverso il personaggio di Giasone – ; è Egeo a fornire a Medea la via di fuga o, meglio, la certezza del futuro. Il re di Atene, poi, appare in momenti signi cativi del lm: all’inizio, in mezzo, alla ne(579). Proprio in quegli attimi, arrivano i due gli di Medea, accompagnati dal vecchio tutore, perché banditi dalla città. Due inquadrature dal basso, con i personaggi rivolti in senso opposto, focalizzano le parole del dialogo fra Medea ed il re di Atene. Maggiore intimità e solennità è data dall’immagine sgranata di Egeo su uno sfondo bianco quasi inconsistente e dalla telecamera che, ad ogni stacco su Medea, si avvicina sempre di più al suo volto amareggiato. Va citato lo scenario retrostante di pecore che pascolano su una distesa d’erba, dai colori vividi rispetto a quanto sinora apparso. È come se fosse tornato a splendere il sole per Medea, che promette ad Egeo una cura contro la sterilità se potrà salpare assieme a lui. Dreyer avrebbe voluto fare le riprese in Grecia; il lm ha invece un’ambientazione nordica e spettrale, in una serie di pianure desertiche, paludi e acquitrini, ripresi in frequenti campi totali e in panoramiche dall’alto. Nel lm, v’è come una fascinazione per un paesaggio indistinto e in nito, un gusto per spazi come isole e deserti che caratterizza ad esempio il cinema di Antonioni(580). La Grecia in Technicolor prevista da Dreyer lascia, dunque, il posto ai brumosi scenari dello Jutland, invasi da un’acqua che copre,

nasconde, trascina impietosa(581). I colori leggermente più caldi non evitano che i suoi lineamenti si rabbuino. In una macabra anticipazione di ciò che sarà, la madre ha cura di soccorrere il più giovane dei gli e baciargli dolcemente la ferita. Quando si alza, di nuovo inquadrata dal basso contro il cielo chiazzato di nuvole, il suo pro lo è cupo e la musica non diegetica inquietante: è questo il momento in cui ha forse realizzato la consistenza del suo piano? È in casa sua, si a retta con la balia; la mancanza di fertilità, di gli, è la somma disgrazia per un uomo. Con gusto favolistico tipicamente nordico, la donna pone il veleno sui puntali di una corona: l’inquadratura stretta evidenzia come la vendetta passi anche per le mani, vero punto di forza della donna insieme all’intelletto(582) e al sapere magico. Sono le immagini a parlare chiaramente: quello che vediamo è la disperante visione di una madre abbandonata con la prole contro un muro altissimo di cavalloni, sulla spiaggia deserta, mentre furibondo imperversa il vento. La telecamera da ssa passa a mano e ‘punta’ all’inquietudine ritratta nel volto di Giasone, dei suoi gesti. Sono i primi esperimenti della peculiare tecnica, che diventerà suo marchio di fabbrica. In questa sequenza, ben visibile è l’e etto di scuotimento emotivo che produce, nella stasi della rappresentazione cinematogra ca tradizionale. Ricalcando la sceneggiatura di Dreyer, Lars von Trier porta in scena l’inedito momento dell’ulteriore incontro fra i due ex amanti. Inizialmente, la telecamera è soprattutto puntata su Giasone, di tanto in tanto appare Medea: è lui che deve essere convinto. Finché lei non pronuncia: “Ricordi, Giasone? […] Ora per l’ultima volta. Ricordi, Giasone?” La telecamera, infatti, segue le emozioni; a parlare adesso è l’ultimo rimasuglio d’amore di Medea: “le donne sono sciocche a volte”, come ha detto pure lei. Intenso risulta questo secondo incontro fra i due, ambientato in uno straordinario plen air dalle tinte

fortemente estetizzanti (l’erba è blu, il cielo è verde), attraverso cui il regista visualizza l’astrazione memoriale di un impossibile ritorno di amma(583). Si entra in un mondo parallelo, che le immagini ci comunicano: è il momento intimo che viene vissuto tra i due e che sembra allontanare il resto, che però rimane. Non odiamo più il so o del vento, ma il respiro di Medea che siede al suolo, contro dune dai riverberi blu. Anche Giasone si accomoda a terra, al trillo del solito uccello inquietante, oltre al quale si susseguono le onde in un verde sbiadito che sa di allucinatorio. Questo manierismo ritornerà e sarà sublimato in Europa. Non c’è logica, non c’è coerenza nelle scene mostrate: “Non mi sento obbligato a raccontare cose credibili che devono necessariamente avere un senso logico. Non è importante, è solo un lm”(584). È l’e cacia comunicativa delle immagini che conta. Medea vuole donarsi a lui: abbandona il blu delle sue dune per raggiungere il collo dell’uomo assorto nei suoi pensieri, vicino al verde mare e al gracchiare di un gabbiano. I colori sono sapientemente utilizzati per descrivere le contrapposte fazioni. Supina, su uno sfondo bianco accecante – magari simbolo di campo neutrale – , è lui ad accasciarsi sopra di lei e a baciarle con foga il collo. Il terreno sotto si muove, avanza, forse simbolo del desiderio che cresce; odiamo solo i loro sospiri, l’ansimare crescente. Il gioco di luci e ombre ci mostra una Medea dai lineamenti distesi, quasi soddisfatti, nché non appaiono dei li d’erba e Giasone d’improvviso interrompe le e usioni. Quando sulla spiaggia ritornano ad udirsi il rumore naturale del vento e i colori aridi e crudi, noi spettatori capiamo che la magia del momento è nita. Non per Medea, la quale è ancora rivolta alla gura spoporzionalmente grande di Giasone, colorato di quelle stesse irreali sfumature blu. Medea è abbandonata anche nell’intimità del momento, nelle sue emozioni. E Giasone non può che tirarle uno schia o. È il progenitore dello smacco a Karen che concluderà Gli idioti? Immersi in un paesaggio meta sico, i due personaggi, dunque, inizialmente sono assorti dentro

quadri di so ocante bellezza (in cui la distanza degli sguardi fuori campo contrasta con la reciprocità del desiderio), poi lentamente si accarezzano, no a baciarsi con ritrovata tenerezza. L’emozione di un rinnovato contatto sico viene quindi presto bruciata dalla violenza sprezzante di Giasone, ma il cinema iperrealistico di Lars von Trier ci ha comunque regalato istanti di puro godimento visivo(585). L’inquadratura a piombo ci restituisce una Medea scaraventata, supina a terra, in una pozza d’acqua, con la telecamera che vira sul proprio asse similmente ad una scena iniziale del lm, in ossequio ad un principio di economia narrativa (e forse non solo a questo). Lo stratagemma del pozzo d’acqua, quello in cui si specchia Medea che con la mano ne increspa la stagnante super cie, è segno sia del manierismo di von Trier sia della sua e cace tecnica narrativa. Attraverso di esso, infatti, vediamo, dietro lo sguardo desolato della donna, la distorta prospettiva dell’uomo ingigantito contro il cielo: la telecamera sembra puntare proprio sullo ‘specchio’ d’acqua e, in virtù del principio delle immagini, comunica e cacemente la posizione di subalternità che Medea vive di fronte alla posizione scrutatrice di Giasone, quasi proiettata nella sua mente, nel liquido stillato dei suoi pensieri. Non si volta nemmeno quando porge il contenitore esagonale che contiene il dono per Glauce: sì, il dono che i suoi gli o rono alla futura regina per assicurarsi il futuro a Corinto, almeno loro. Si legge altrove: “Il narcisso tende talvolta o in certe occasioni a donare, a dare… Anche la donna ricca tende a éblouir l’amato, a colmare di doni l’amante. In genere l’amore dona. Poiché il dono è la trasposizione dell’atto d’amore, è la tras gurazione del dono d’amore cioè della prestazione del proprio organo genitale all’organo genitale complementare del sesso opposto. Il dono è nella vivida, spontanea simbologia dell’inconscio il simbolo dell’organo sessuale prestato, o erto”(586). Medea dona la sua corona di sposa; con il

gesto, sembra invertire l’accezione amorosa del donare, o rendo il simbolo e la scaturigine del suo amore passato; adesso è dono di morte. Rimane sola, sulla spiaggia, consapevole. Fortemente suggestiva è la scena successiva, in cui la sagoma di Medea prosegue tagliando in diagonale i lamenti di vento che strisciano sulla liscia e desertica spiaggia; il paesaggio è immenso, l’orizzonte dalle enormi nuvole è lontano: è acuito il senso di solitudine della donna, che dovrà camminare senza nessuno a anco. Come è stato evidenziato, fa dunque la sua comparsa il fuoco, elemento nora assente: “Medea è davanti al focolare e pare emergere dalle amme (ai conoscitori di Dante, la mente vola a Farinata…) no ad esserne oscurata: omaggio di Lars alle tante gurazioni di Medea demoniaca (da Seneca a Corneille no ai primi dell’Ottocento)”(587). Tra le sue amme serpeggianti, è concentrato il volto di Medea, che apprende dai suoi stessi bambini che Glauce li ha baciati ed ha gradito il dono. Resteranno quindi con il padre, a Corinto. “Speravo che mi avrebbero curata da vecchia e mi avrebbero seppellita”, sono i pensieri della donna, che si cuociono adesso al calore della legna che arde, prima che il focolare divampi. Il cavallo grigio bianco sotto le volte del palazzo inizia a dare segni di euforia: è il sopraggiungere della morte, ancora una volta comunicato attraverso l’imbizzarrire dei cavalli, similmente a quello che avverrà in Melancholia. In un montaggio alternato, ampiamente usato anche da Dreyer in La passione di Giovanna d’Arco e in Dies Irae (1943) (588) , dal cavallo passiamo a Glauce, che ammira la corona. È una sequenza concitata, dall’animale che impazzito galoppa per i sotterranei, alla donna verso la quale serpeggia la ne – sotto forma di oggetto – , aumentando la suspense. Finché uno stormo in formazione emerge in sovrimpressione, per poi rubare la scena: gli uccelli fanno anche qui la loro comparsa, nella fabbrica di immagini del regista danese, ogni volta legati ad eventi nefasti.

La tecnica della sovrimpressione era stata usata da Pasolini nelle sue valenze magiche e oniriche, per sottolineare il carattere allucinatorio della visione con cui Medea immagina la propria vendetta. Von Trier usa la stessa tecnica in una forma più radicalmente visionaria e antinaturalista, che può ricordare la pittura di Füssli: con essa, realizza una sequenza quasi horror, genere che von Trier riscriverà liberamente ne Il regno e, successivamente, in Antichrist(589). La morte è resa in termini panici. Starnazzano, infatti, i volatili mentre Glauce è sul punto di indossare il dono mortale; addirittura, la telecamera va oltre lei per mostrare, sulla parete del palazzo, le funeree ombre dei pennuti. Lo stacco di ripresa, poi, ci conduce bruscamente alla carcassa accasciata del cavallo presa da spasmi. È come se un atto di vanità portasse la futura regina alla morte: per sistemarsi bene il prezioso dono, in lza per errore un dito in uno degli spilli acuminati. Lo stormo degli uccelli appare numeroso e chiassoso contro un cielo colorato appena, per scomparire nella dissolvenza. La telecamera vola bassa sul pelo dell’acquitrino, che è vitreo come uno specchio; una gura traina qualcosa: sembra un bue con un aratro. Invece è Medea, ci appare frontale, le corde appese al collo: contro un cielo ora roseo, sta trascinando faticosamente il carrello con su i suoi due bambini. Dal montaggio alternato, alla sovrimpressione: l’avanzare della donna si coniuga con la volta sotterranea del palazzo reale, in cui Creonte grida di dolore. I suoi ultimi guaiti si mescolano al forte respiro della donna. Intensa è la resa della concatenazione tra gli eventi. Il mezzo televisivo richiede, infatti, una maggiore immediatezza comunicativa. Le immagini dissolvono ancora. In atmosfere cupe da lm dell’orrore, che rievocano Vampyr di Dreyer, le nere sagome di rami scheletrici incrociano le braccia della donna, s nita a caricare il peso che si è portata appresso. Il nostro occhio di spettatori ora sorvola sul corteo

funebre dei reali. Le accole della processione sono gli unici bagliori vividi in un paesaggio altrimenti quasi monocromo, caratterizzato dall’alternanza di pallidi bacini d’acqua e scure zolle di terra. L’in uenza di Tarkovskij, in particolare della famosa ‘pool sequence’ in Stalker, è rintracciabile nella scena in cui la telecamera scivola oltre una porta, oltre il buio, a cercare Giasone raggomitolato in un angolo, mentre fuori le grida lo invocano. È identico l’intercedere lento della macchina da presa, che intensi ca il senso di pazzia che sta per avvolgere Giasone. Gli uccelli cinguettano; i colori del giorno sono dolci; i capelli vellutati dei bambini si confondono con la morbida pelliccia: paiono due cuccioli di lupa. La collina dove si trovano Medea e i gli è una sorta di Gòlgota dell’innocenza: ricoperta da bionde spighe come di grano, risplende a tal punto da emanare una luce accecante, quasi innaturale(590). Medea ne risale la china no all’albero secco, dai rami a forma di croce. Rispetto a Dreyer, rispetto alle altre multiformi versioni della storia di Medea succedutesi nel tempo, Lars von Trier innova sia per il metodo attraverso cui avverrà l’uccisione – non un coltello, non una pozione avvelenata, bensì un rude cappio(591) – sia per il supporto consapevole che uno dei piccoli presterà(592), il quale da solo si stringerà il cappio intorno al collo. Dreyer, secondo von Trier, “voleva dare loro del veleno. Pensava che fosse troppo violento farli accoltellare, come avviene nel dramma classico. Pensava che fosse troppo cruento. Voleva solo che morissero nel sonno”, e prosegue: “Ho scelto di renderlo più drammatico. Credo che la mia versione sia più incisiva nel suo complesso. Ho pensato che fosse meglio impiccare i bambini. E più consequenziale. O li uccidi o non li uccidi. L’azione deve essere presentata così com’è. Non c’è motivo di riordinarla e di farla sembrare più innocente di quanto non sia”(593).

Il patibolo è un palo prestato dalla natura stessa, che appare, per la prima volta nel lm, distesa, su cui spira un vento dolce e un cinguettio sereno di uccellini. La scelta è dovuta sia per consentire al pubblico di digerire un’esecuzione altrimenti troppo cruenta, sia per focalizzare l’attenzione degli spettatori sull’‘inferno’ interiore che la protagonista attraversa. Ancora l’uso del montaggio alternato e cacemente contrappone le scene concitate della furia di Giasone a quelle in cui la protagonista, quasi serenamente, avvolge il lo attorno al ramo. Il montaggio è formale e congiunge, ad esempio, inquadrature di Medea vista dall’alto ad altre di Giasone visto dal basso. La sequenza dell’esecuzione è quindi dominata dal silenzio, dai dettagli e dai primissimi piani sul tormentato volto di Medea(594): “Risulta a mio avviso perlomeno curioso, però, – e questo al di là di qualsiasi associazione con l’opera di von Trier – anzitutto il fatto che Hel, la divinità femminile che nelle saghe nordiche per volontà di Odino presiede agli inferi (e ipostasi dell’inferno), dà la morte con lacci e corda, e in seconda istanza che Odino stesso resta impiccato per giorni ai rami di un ‘albero cosmico’”(595). Il piccolo cappio oscilla al vento, mentre il biondo piccoletto si allontana nella sua innocenza di fanciullo, intento a giocare e ad immergersi nel mare di grano. È raccapricciante la novità che apporta il regista danese: il fratello, infatti, scende il dorso di terra a recuperare il fratellino e a riportarlo indietro alla madre, a nché compia ciò che deve compiersi. La telecamera si fa di nuovo mobile per mostrarci i momenti, strazianti, in cui il più piccolo viene impiccato: gli occhi ssi della donna sul bambino in un primo piano molto forte, l’altro ligio a tenere ferme le sue gambe. La telecamera zooma sulla ferita al ginocchio cicatrizzata, la stessa che lei aveva dolcemente curato col suo stesso bacio, come per ironizzare sul macabro evento o forse evidenziare – o confermare,

dopotutto – l’ultimo rimasuglio di sentimento materno della donna. La lentezza impressionante dell’azione non fa che prolungare l’agonia dello spettatore, coinvolto in un gioco al massacro scellerato eppure tenerissimo. Più dell’orrore è la pietà del glio verso la madre a sorprendere, come pure lo strazio con cui questa contempla il cadavere penzolante del più piccolo: non c’è compiacimento nella violenza, ma solo la disperata obbedienza a una ne già scritta. Questa coraggiosa infrazione alla fabula mitologica assegna all’intera sequenza il crisma sacri cale, anche se è con Bess che il cinema di von Trier conoscerà il miracolo della redenzione(596). Le nuvole si divertono col sole a disegnare giochi di luci e ombre. La seconda esecuzione porge alla nostra attenzione il ligio comportamento del più grande, che annoda il lo attorno alla ruvida e secca corteccia, per poi avvolgerlo al collo. Che Medea non provi compiacimento, lo capiamo indiscutibilmente con questo secondo atto. I suoi occhi sono chiusi, forse incapaci di sostenere l’altrettanta orrenda visione. Piuttosto che i gemiti del piccino, udiamo l’ansimare della donna, mentre scivola a terra, si riporta su, riscivola giù: il regista ha voluto puntare sulla sua di so erenza, mentre gli uccelli continuano a cinguettare. Tra dorsi e vallate, l’erba uttua come onde, che sembra un mare dorato. Una lunga dissolvenza incrociata lega e cacemente l’immagine che Giasone ha di fronte – i due gli impiccati – con il momento in cui il corpo dell’uomo va verso di essi. I minuti corrono – è pur sempre un lm per la TV – e, da Giasone giunto ai piedi delle carcasse, l’inquietante trillo dell’uccello, sentito all’inizio del lm e in diverse scene legate all’acqua, ci conduce sulla costa, la nave di Egeo in lontananza. I colori sono tornati freddi, che pare inverno e vi è altrettanta stasi. Però il vento inizia a sollevarsi; l’elemento naturale ci comunica che si è in attesa di partire. Medea a ranta è seduta sull’imbarcazione. Se, da un lato, l’acqua silenziosamente avanza sulla

spiaggia per l’alta marea, come era avvenuto ad inizio lm, dall’altro lato, nella foresta, il usso delle riprese mostra Giasone correre fra i fusti degli alberi, i cani che abbaiano dietro di lui, per ritornare terribilmente al punto in cui i due bambini sono stati impiccati. Il mare quindi avanza, così come avanza la pazzia dell’uomo. Tra la tta vegetazione, nascosti dai rami, vediamo Giasone galoppare, girare intorno, cambiare ancora rotta, ritornare al punto di partenza: metafora di follia. Quella di von Trier, infatti, è un’opera astratta, in cui le passioni dei protagonisti implodono in loro stessi per poi esplodere fenomenicamente ed impressionisticamente nel paesaggio nordico sferzato da un tangibilissimo vento gelido e sommerso da onde violente. Poche parole, pochi contatti, pochissime azioni: sono le immagini a parlare e a staccare la storia di Medea dalla contingenza per immergerla nell’assolutezza del mito (operazione questa totalmente opposta rispetto a quella di Pasolini, che proprio sul contrasto tra episteme arcaico del mito ed episteme moderno della Storia ha fondato la propria Medea del 1969)(597). Sulla nave c’è addirittura un cavallo; è tutto pronto per salpare e pesanti panni di vela rossa cadono due volte a coprire la gura di Meda, ad anticipare il gesto con cui lei si leva la cu a e si scioglie, nalmente, i capelli: sono di un rosso che è accentuato contro lo spento circostante ed il nero dei vestiti. La liberazione acquisita non pare esser per lei segno di consolazione; il suo viso è contratto in una smor a che rivela disperazione. Il moto dei suoi capelli è riprodotto, nella medesima direzione, dal moto dell’erba inclinata dal vento che ci appare subito dopo, visto dall’alto. La musica accompagna i movimenti forsennati e confusi di Giasone, che, di fronte ad un so o che non accenna a fermarsi, si fanno blandi, stanchi, no a che lo zoom progressivo mostra il suo tramortimento a terra, disperato. Proprio con la spada impugnata, simbolo della sua forza, è ormai supino a terra,

esanime. In una dissolvenza incrociata non del tutto completata, metamorfosano i ciu d’erba nel pelo plastico increspato del mare, a indicare forse una contiguità fra il moto della terra e quello dell’acqua, attraversato in diagonale dalla zattera di Egeo. L’acqua avvolge il mito, nella rivisitazione di von Trier: è all’inizio e alla ne, è dove Medea simbolicamente ‘nasce’ emergendo, è il mezzo attraverso cui Medea scappa dalla Corinto nordica: Medea, infatti, dopo l’infanticidio non fugge su un carro alato come nelle versioni classiche del mito, ma fugge sulla nave di Egeo(598). È l’immagine conclusiva prima che appaia il titolo del lm, che riproduce in maniera macabra i due piccoli impiccati sul pilone della D di Medea: la donna è nell’acqua e si allontana, la carcassa dell’uomo resta sulla terra(599); il vento spira nello sconcerto. Von Trier riconosce il debito nei confronti del maestro, sia nella fedeltà alla traccia della sua sceneggiatura sia nell’uso in forma di didascalia, alla ne del lm, delle parole che Dreyer stesso aveva scelto: “La vita dell’uomo è un peregrinare nelle tenebre dove solo un dio può orientarsi. Perché quel che nessuno osa credere, Dio può farlo accadere”(600).

Resoconto Assolutizzando Medea, alcuni hanno a ermato che: “von Trier perde alcuni tratti attualizzanti, come per esempio la trattazione della vicenda di Medea sotto l’ottica di un dramma di una straniera non accettata in una società occidentale (come avevano fatto Alvaro e Pasolini), anche se questo aspetto non pienamente a rontato del mito si ‘irradierà’ (per dirla con lo studioso di mitocritica Pierre Brunel) nella cinematogra a vontrieriana, emergendo nel suo Dogville del 2003 (un vero e proprio dramma della straniera)”(601). Medea e Grace, la madre e la grazia, due straniere nel mondo degli uomini. È questo dunque che le lega? Dalla fascia scura alla fascia di pezza: i capelli sono cinti per le torbiere di Corinto (del nord) e per la cittadina mentale di Dogville. È Medea dunque l’antesignana di Grace, allo stesso modo in cui il detective Fisher (ne L’elemento del crimine) è l’antesignano di Jack (ne La casa di Jack)? O, forse, non sono che facce della stessa medaglia all’interno del panorama immagini co del regista danese? Al di là del mezzo lmico e dei suoi limiti – è indubitabile che un lm per la TV ha limiti diversi rispetto a un lm da proiettare nelle sale – , Medea è concentrato sulla protagonista, sul suo abbandono nelle terre lontane e acquitrinose dello Jutland: è il suo inferno ad essere rappresentato. È stato osservato a riguardo che: “La di erenza sostanziale rispetto a Dreyer sta nel fatto che von Trier non cerchi idealità politiche, ma segua la sua poetica di ‘interpretare il mondo come un inferno’”(602). Dogville invece pare essere una s da tra ‘illustrations’: l’argomentazione del giovane Tom Edison e l’argomentazione di Grace, entrambe fatalmente fallaci. L’idealità simil-comunista del bene universale dell’uno contro l’idealità simil-cristiana della grazia sottomessa dell’altra, che porteranno alla vittoria della vendetta su tutto. Eppure in Dogville, in alcuni momenti, nonostante la

centralità delle vicissitudini del giovane ragazzo che introduce la straniera – così come anche, per loro parte, degli altri residenti della cittadina – , alla ne si ha la sensazione che la macchina da presa non abbia che registrato gli eventi vissuti dalla bionda giunta in pelliccia: gli episodi, dunque, visti attraverso il suo occhio (e di quello di noi spettatori con lei, attraverso lei, proattivamente). Medea poi si concentra sui momenti successivi all’abbandono, o meglio al ri uto della donna; Dogville tratta anche del suo arrivo, del suo tentativo di inserimento, del suo sfruttamento e del suo rigetto. L’epilogo coincide per entrambi con la vendetta e l’allontanamento, lasciando dietro di sé macerie: Corinto senza un re e una regina, a lutto; Dogville spazzata via, con un solo cane rimasto. L’assolutizzazione del mito greco, oltre che a dimostrare la capacità del regista danese di confrontarsi con i classici, dà forse anche una chiave di lettura del lm successivo: è innegabile che in entrambi vi si potrebbero scorgere temi di attualità politica, sociale ed economica; considerazioni sul ruolo della donna; l’accettazione degli stranieri. Ed è giusto che sia così: d’altronde un’opera non vive che attraverso l’occhio di chi vede. “Nonostante la tematica, il lm non ha un rapporto stretto con gli eventi odierni che stanno lacerando l’America”, disse, in ogni caso, a tal proposito il regista su Dogville(603). Forse, in entrambi, la spinta primigenia non è stata che rappresentare l’inferno sulla terra, del male che avanza e il suo contrasto, a nché non prenda il completo sopravvento: “In questo lm, così come nei miei precedenti, non ci sono eroi. Io credo che il bene e il male siano delle componenti basilari nell’essere umano, bisogna sforzarsi di costruire una società dove il male non prenda il sopravvento. È su ciente pochissimo male per corrompere una grande quantità di persone. Per me la cosa più importante è che la società deve possedere sempre pietà nei confronti del singolo individuo”(604). L’atto contro la corruzione delle persone(605), ossia contro il male che prende il sopravvento, in questo ‘gioco’ – volendo citare lo

stesso Tom Edison Jr. in Dogville – piuttosto che dibattito tra argomentazioni, è eclatante, terribile: è lo stesso mezzo per entrambi i lm: il sacri cio; e il modo con cui arrivarci è altresì lo stesso: la vendetta. A di erenza de Le onde del destino, in cui il sacri cio è mosso dall’amore incondizionato, e di Melancholia, in cui il sacri cio è universale dovuto a fenomeni cosmici. Il sacri cio è, ad ogni modo, necessario. Grace spazzerà via sull’altare l’intera cittadina, compresi i bambini di Vera, secondo la formula rituale “per il bene delle altre città, per il bene dell’umanità e per il bene dell’essere umano che era Grace stessa”. All’inferno, dunque, risponde con un altro inferno: l’Apocalisse. Si prova un senso di alleggerimento quando, dall’inquadratura a piombo, scompaiono sul bitume nero del set le linee delle baracche per restarvi tracciato unicamente il rettangolo della cuccia di Mosè, che si materializzerà. L’e etto catartico è meno evidente in Medea, che con di coltà e a anno, quasi che fosse lei a morire so ocata, procede all’esecuzione dei suoi bambini appesi ad un albero a forma di croce. Agli spari, fuochi, inquadrature vorticose dell’Armageddon di Dogville, si contrappone un’intima esecuzione tra il cinguettio degli uccelli e lo spirare di un vento calmo sopra un mare di grano in Medea. In entrambi i casi è la telecamera portata a mano a renderci partecipi delle operazioni: nel primo, tuttavia, gli occhi di Grace sono incorniciati dalla carrozzeria dell’autovettura, in cui è a debita distanza posizionata, mentre il gioco sporco viene svolto dai suoi scagnozzi diretti dal potere di cui ha subito fatto uso; nel secondo, gli occhi di Medea sono colti in primissimo piano, ssi sul volto del primo piccolo, contemplando la sua morte e, per il secondo glio, restano chiusi, nell’atto di sorreggere le sue gambe, non più capace di guardare. A dire il vero, la frenesia folle coglie Giasone, che vediamo fare irruzione nella casa della donna, galoppare a più non posso; alla stasi delle scene che riguardano l’uccisione e poi l’attesa, sulla barca, del vento, si contrappone l’agitazione estenuante di Giasone che gira a vuoto, a cavallo, a terra. Tom, invece, non è che un tipico

abitante di Dogville senza onore e senza vergogna, che tenta invano di salvarsi, circondato dagli scagnozzi. E mentre Grace si allontana non particolarmente turbata dalla cittadina, anche lei appunto alleggerita, ordinando di lasciar vivo Mosè in un a ato di pietà – verso l’unico che ha mostrato sempre sincera rimostranza nei suoi confronti n dall’inizio e che di fatto è stato anche l’unico a non torcerle un capello nonostante l’osso rubato – , Medea scioglie la chioma rossa al vento che nalmente si alza, assieme all’alta marea, pronta per partire: è alleggerita sì, i capelli non più pressati dalla cu a scura; il suo viso tuttavia è contorto in una smor a di inquietudine e sconcerto, seduta sola sulla nave di Egeo verso Atene, verso l’incerto. Il seguito di Dogville verrà trattato in Manderlay, che cercherà dunque di dare una risposta al seguito degli ‘U.S. of A.’ privi della malfamata cittadina; Manderlay a dire il vero non parla di un mondo nuovo, successivo all’Apocalisse, bensì di un mondo altro, di altra cittadina posta sotto l’egida di Grace: non è facile parlare dello stato di cose che succede ad un ‘giudizio nale’(606). I contesti in cui le straniere, la madre e la grazia, sopraggiungono, sono un agglomerato di miserabilità. Gli abitanti di Dogville vivono in delle fatiscenti baracche, che non vediamo e che percepiamo tali, anche su suggerimento delle parole didascaliche del narratore; altrimenti sono i vestiti che indossano a darci indicazioni in tal senso. La miserabilità è poi evidente nelle attitudini e nei loro comportamenti: medici ipocondriaci e avulsi ad ascoltare le notizie del mondo esterno (che leggono ancora Le avventure di Tom Sawyer); ubriaconi frequentatori di bordelli pieni di sensi di colpa; ingegneri stupidi; lavoratori di bicchieri di bassa fattura; organisti che non suonano; ciechi che ngono di non esserlo. La stessa miniera è emblema della miserabilità di Dogville: una vecchia miniera abbandonata d’argento: non oro, dunque, ma argento, che è il metallo secondo per eccellenza. Gli elementi non mancano neppure in Medea: le ancelle di Glauce sono

vestite in stracci di saio; il palazzo reale è un groviglio di cunicoli sotterranei umidi e terrosi; il porto in cui è attraccata la nave di Giasone – gura che verrà utilizzata da lui stesso per indicare metaforicamente lo Stato a cui si porrà come timoniere – è un fetido sbocco sotterraneo tra pareti di mura rocciose friabili; Giasone stesso è sporco, con i capelli unti, anche dopo essersi lavato il viso con l’acqua torbida, tant’è che sporcherà l’incarnato so ce e candido di Glauce; che dire, poi, dei dignitari del re, e del re stesso? Nella miserabilità che li circonda, un gesto pare avere un ruolo fondamentale: il dono. La tematica del dono in Dogville è stata analizzata e approfondita sotto diversi aspetti: politici, economici, loso ci. Anche se la storia di Dogville inizia con un furto, un vulnus primigenio: Grace, a amata, infatti, ruberà l’osso pieno di carne a Mosè, l’ultima ruota del carro della baracca ‘Dogville’. Il primo atto è un’appropriazione, piuttosto che un dono. Questo vulnus sembra ripercuotersi successivamente nel resto delle vicende, anche se Grace restituirà l’oggetto rubato, deciderà di fare un passo avanti verso gli altri per poi, appunto, donare anima e, soprattutto, corpo. Il dono di Grace è atto catalizzatore; la sua corrispondente accettazione da parte degli abitanti di Dogville assume n da subito connotati economici: lavoro sico, che genererà surplus, che verrà poi pagato – piuttosto che accettato – sulla base dunque di un contratto, che genererà ulteriori costi, derivanti da rischi sottesi, e che sarà sottopagato, poi sfruttato, per giungere in ne alla deumanizzazione di Grace, i rapporti sessuali con la quale diverranno non diversi da simpatiche avventure di un montanaro con una mucca. Il dono crea dunque e etti grotteschi, anche perché gli altri abitanti non o riranno nulla, lato loro, in contropartita – a parte i piccoli oggetti messi nel sacco della donna la sera successiva alle sue due prime settimane, durante la quale l’assemblea cittadina doveva decidere del suo destino – : è dunque un contratto con obbligazioni a carico di una sola parte.

In Medea, il dono ha una funzione chiave nell’espletamento della vendetta, nella sua materialità di oggetto: infatti, oltre ai gli, saranno sacri cati anche la futura regina Glauce – ed il re Creonte – : il piano vuole assicurare a Giasone la sterilità completa, nessuna prole. Questo avverrà attraverso un dono portato dai suoi bambini alla giovane neosposa, con la richiesta di graziare loro di restare in città per mascherare le reali intenzioni della donna ripudiata. L’oggetto del dono è la corona di sposa della barbara maga, con sorpresa dello stesso ex amante Giasone: è l’emblema dell’amore passato, il suo feticcio, ora solo causa del suo ripudio. Il dono che a sua volta ricevette come sposa, come compagna d’amore, metamorfosa, prima sotto le vicende della storia, in suppellettile causa di dolore; successivamente, sotto le arti magiche della donna, in dono di vendetta, di morte, per il compimento dell’atto sacri cale necessario. È curioso che l’unguento bitume sparso sulle spille appuntite del diadema, che è il veleno col quale Glauce morirà, è prodotto con delle bacche: come ci ricorda Chuck, le bacche di uva spina sono l’ingrediente delle famose crostate di Ma Ginger, le stesse che hanno stregato l’uomo, proveniente dalla città similmente a Grace, ad amare quel fetido postaccio. Glauce accetta il dono, i bambini possono restare, l’intento è raggiunto. Peccato che, nella vanità, impossessatasi del bel gioiello, la principessa si ferisca nell’indossarlo, provarlo e riprovarlo, allo stesso modo in cui per sbaglio il cavallo nelle stalle viene punto col veleno mortale. Uno stormo di uccelli neri sigla la morte, il compimento del rito. In Dogville e in Medea il dono, dunque, metamorfosa, non si realizza, se non per portare la morte. Medea è immersa in un paesaggio desolato, paludoso. È immersa nell’acqua, n dalla prima scena. Solo una volta è avvolta dalle amme, quando il dono è accettato, quando è iniziato il percorso della vendetta, il suo rito. Il vento, Egeo, la viene a salvare. È come morta, infatti, distesa sulla spiaggia, all’inizio del lm, e nel momento in cui l’acqua la tocca, si rianima. Questo momento si ripeterà, identico,

quando è seduta sulla nave di Egeo, quando l’alta marea arriva e si leva il vento, pronti per salpare. Il vento so erà costante, violento, quando la barca attraverserà in diagonale – e in dissolvenza incrociata non conclusa – lo schermo, mentre Giasone è supino, trapassato su un mare di erba scura, nel nale del lm. I grandangoli e le panoramiche di paesaggi sono frequenti. Emblematica l’immagine della donna con i due gli visti in lontananza, dalla prospettiva di Giasone chiuso nel palazzo, contro i cavalloni insormontabili di un mare gigante, sulla spiaggia. L’aspetto volutamente sgranato delle immagini, quasi amatoriale, per il procedimento particolare con cui sono state ottenute, nonché il fatto di aver girato all’aperto molte scene, dimostrano l’importanza che l’ambiente circostante, atmosferico e paesaggistico, riveste nella storia. Come è stato notato, le parole sono poche, sussurrate, i gesti limitati e solenni: non c’è molta azione. C’è molto pathos, scaricato sulla natura, sui volti, sui suoni attentamente calibrati: inquietante il trillo dell’uccello che si sente sulla costa e nella magione di Medea, contrapposto al cinguettio sereno sul Gòlgota, dove i piccoli saranno in ne impiccati. Le vaste pianure, la spiaggia arida, e cacemente comunicano il sentimento sottostante a ciò che viene rappresentato: lo fanno, appunto, per immagini. Medea, legata alla natura, si confonde nell’acquitrino, come fronda di alberi, lontana dal palazzo reale: sola si staglia la sua sagoma nella vegetazione, parte di essa. In alcuni casi, questo meccanismo comunicativo viene enfatizzato: peculiari sono le scene dell’incontro tra Giasone e Medea, dove la passione e la sicità del momento vengono immersi in uno spazio meta sico – addirittura mobile ed accecante, quasi assente, quando sono l’uno sopra l’altra, a terra – ed ovattato, con l’unico suono dei loro respiri. Da questo punto di vista, quindi, si potrebbe argomentare per l’assoluta diversità con Dogville: difatti, in quest’ultimo mancano proprio gli elementi scenogra ci, se non per pochissimi e studiati dettagli; non abbiamo alcuna panoramica di paesaggio, né alcun grandangolo

confrontabile (seppur diverse scene ci mostrano, dall’alto, l’intero perimetro della città). Eppure, in Dogville, seppur assenti – non del tutto, perché vi sono alcune rocce a astellate e un arbusto di mele – gli elementi naturali hanno la loro importanza: essi sono indotti attraverso i suoni e attraverso i giochi di luce, richiedono la collaborazione attiva e soggettiva dello spettatore a ricrearli nella propria mente, in una delineazione sottile che non turbi l’obiettivo principale di questa scelta: il focus sui personaggi e sulle loro azioni, sui loro discorsi, che in tale lm sono molto più centrali. E non sono da dimenticare gli arbusti di uva spina, le cui sagome sono disegnate al suolo, né i riferimenti agli scoiattoli del narratore, e i occhi di polline che uttuano per strada durante la festa del 4 luglio. Il vento, ad esempio, si sente spesso tra le strade di Dogville, così come il ticchettio della pioggia, e la riproduzione in tali termini li rende ancora più intensi cati. Il battipalo lontano – similmente al pendolo dell’orologio per l’interno – è parte fondamentale del paesaggio della cittadina: il martellare continuo scandaglia lo spazio e dà l’immagine mentale di un agglomerato di baracche isolato, sperduto, nei meandri degli U.S. of A. Così come l’inquietante abbaiare di Mosè(607), in corrispondenza di pochi momenti (in specie, all’arrivo di Grace e al suo ritorno sul camion di Ben). È la luce, in particolare, che in Dogville svolge un ruolo cruciale, non tanto per comunicare l’alternanza del giorno e della notte, quanto piuttosto nel segnalare i momenti di svolta fondamentali nella narrazione. Si potrebbe discutere sull’arti cialità di si atta luce, riprodotta all’interno di un hangar, a tratti contro ogni convenzione; a livello narrativo, tuttavia, si propone di rappresentare proprio la luce naturale e come tale dovrebbe essere considerata. In alcuni punti nodali del lm, il narratore ci suggerisce come la luce abbia delle piccole variazioni di sfumature, che corrispondono altresì alle variazioni di percezioni che la protagonista avrà del contesto: emblematica è la luna piena gigante durante il nale, che col suo pallore argenteo

metterà a nudo per la prima volta e in modo completo lo squallore di Dogville, decretandone la sua ne. Vengono ridotti all’osso gli elementi; questo non signi ca che il paesaggio, atmosferico e naturale, non abbia la sua importanza anche in Dogville. La riduzione degli elementi non è poi concetto del tutto avulso in Medea: non vi sono infatti molti personaggi e, al di là della vastità, le ambientazioni ricorrenti sono limitate, forse anche per il budget non altissimo a disposizione. Da un punto di vista tecnico, è stato già discusso l’obiettivo alla base della scelta fondamentale di Dogville: nel realizzare un’opera cinematogra ca attraverso una tecnica spoglia di alcun elemento scenogra co o spettacolare, von Trier è riuscito nell’intento di creare un lm memorabile ambientato in America, in un modo che non è conciliabile con l’idea stessa di lm che esiste di là dall’oceano; ciò anche grazie a una sceneggiatura da premio Pulitzer, come detto da Tarantino. E grazie anche al lavoro degli attori, alla loro ducia riposta nel e ricevuta dal regista, con gente del calibro di Lauren Bacall, Ben Gazzara e Philip Baker Hall sempre sul set, in ogni scena. Grazie anche al magistrale lavoro del regista stesso, che, ormai pienamente a nata, ha dato pieno sfogo alla tecnica del ‘pointing’ (puntare)(608) piuttosto che del ‘framing’ (inquadrare), lui stesso operatore di macchina, pronto a cogliere le espressioni migliori, le immagini giuste. Il montaggio, inoltre, nel suo taglio di scena irrituale, disconnesso, si attaglia perfettamente agli intenti della narrazione, rendendo il tutto avvincente, straniante forse secondo la lezione di Brecht; allo stesso modo dei suoni diegetici, uno fra tutti il pianto di Grace, quando vede frantumare a terra in mille pezzi le statuette di porcellana: è così scollegato che è perfetto per il contesto e colpisce appieno nell’intento di rappresentare per immagini e suoni vividi. In Dogville, la tecnica è fondamentale, è un lm estremamente ‘stilizzato’ come disse lo stesso von Trier: una tecnica che sembra procedere per sottrazione, salvo alcuni elementi fondamentali.

La tecnica è fondamentale altresì in Medea. Essa appartiene al periodo primo di von Trier, il periodo dei suoi ‘ lmic lms’: è una tecnica che sembra procedere per addizione, in tale caso. È un manierismo, una complessa cura al dettaglio: le stesse immagini sono il frutto di un processo che ha visto il video poi la pellicola e poi di nuovo il video: questo per renderle scarne, quasi amatoriali. Grandangoli e inquadrature oblique dal basso, primi piani e panoramiche, il montaggio qui è formale, segue incroci contrapposti, Medea rivolta verso l’alto, Egeo verso il basso. C’è già il giallo slavato, ocra in alcuni punti – che deriva forse dal precedente cortometraggio Nocturne (1980) – e c’è la macchina da presa portata a mano, nei momenti clou, quando Medea sacri ca i suoi gli, sparge l’unguento velenoso sulla corona, non ancora però onnipresente. Per non parlare della sequenza dell’incontro amoroso, in cui si strati cano le immagini, si sdoppiano i piani visivi e i colori che li pervadono, o la scena in cui si ingigantiscono i volti dei bambini dormienti dietro la protagonista, che pensa alla vendetta: strato su strato. All’epoca von Trier era inoltre schivo con i suoi attori; credeva che per ottenere migliore resa dalle loro performance, non andasse detto tutto, non bisognasse aprirsi completamente con loro sugli intenti perseguiti. L’approccio era il controllo minuzioso, a volte estenuante, su ogni aspetto, sugli attori stessi. Approccio diverso rispetto al periodo di Dogville, in cui per von Trier divenne fondamentale ottenere e dare ducia al cast, con la necessità di una maggiore apertura e condivisione. Le musiche extradiegetiche sono simili, da camera in Dogville, solenni in Medea(609). In ogni caso, l’e etto ricercato in entrambi è quello di raggiungere, nella deposizione lmica, un’autenticità nella rappresentazione, una sincerità nelle immagini.

Filmogra a

Cortometraggi, mediometraggi e lavori accademici Turen til squashland (Viaggio a squashland, 1967) Regia/Scenogra a/Fotogra a/Montaggio: Lars von Trier; Formato: 8mm, animazione; Resa: a colori; Durata: 2 minuti circa

Nat, Skat (Notte, dolcezza, 1968) Regia/Scenogra a/Fotogra a/Montaggio: Lars von Trier; Formato: 8mm; Resa: a colori; Durata: 1 minuto

En Røvsyg Oplevelse (Una botta di vita, 1969) Regia/Scenogra a/Fotogra a/Montaggio: Lars von Trier; Formato: 8mm; Resa: a colori; Durata: 1 minuto

Et Skakspil (Una partita a scacchi, 1969) Regia/Scenogra a/Fotogra a/Montaggio: Lars von Trier; Formato: 8mm; Resa: bianco e nero; Durata: 1 minuto (frammenti)

Hvorfor Flygte Fra Det Du Ved Du Ikke Kan

Flygte Fra? (Perché fuggire da ciò da cui si sa di non poter fuggire?, 1970) Regia/Scenogra a/Fotogra a/Montaggio: Lars von Trier; Formato: 8mm; Resa: a colori; Durata: 7 minuti; Cast: Hans Skriver (il rifugiato), Ole Heberg (la mummia)

En Blomst (Un ore, 1971) Regia/Scenogra a/Fotogra a/Montaggio: Lars von Trier; Formato: 8mm; Resa: bianco e nero; Durata: 7 minuti; Cast: Ole Benzon (il ragazzo); Musica: Hallelujah Chorus dal Messiah di G. F. Händel

Orchidégartneren (Il giardiniere di orchidee, 1977) Formato: 16mm; Durata: 37 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Filmgruppe 16 (Produttore: Lars von Trier); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Hartvig Jensen, Helge Kaj, Peter Nørgaard, Mogens Svane, Lars von Trier; Montaggio: Lars von Trier; Cast: Lars von Trier (Victor Marse), Inger Hivdtfeldt (Eliza), Karen Oksbjerg (amica di Eliza), Brigitte Pelissier (terza ragazza), Martin Drouzy (il giardiniere), Yvonne Levy (donna in bicicletta), Carl-Henrik Trier (vecchio ebreo), Jesper Ho meyer (narratore), Bente Kopp (la donna nel lm), Jakob Moe (il glio di Eliza), Julie Moestrup (la piccola ragazza); Musica: auto solo di Hanne M. Søndergaard

Menthe – la bienheureuse (Menthe – la ragazza felice, 1979) Formato: 16mm; Durata: 31 minuti; Lingua: Francese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Filmgruppe 16 (Produttore: Lars

von Trier); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier, Pauline Réage/Dominique Aury (romanzo Histoire d’O); Fotogra a: Hartvig Jensen, Lars von Trier; Montaggio: Lars von Trier; Cast: Inger Hvidtfeldt (la donna), Annette Linnet (Menthe), Carl-Henrik Trier (il giardiniere), Lars von Trier (guidatore), Jenni Dick (la vecchia donna), Brigitte Pelissier (voce di Inger Hvidtfeldt); Musica: Erik Satie, Gymnopedie #1; Claude Debussy, Des pas sur la neige, La cathédrale englouite

Produktion I (Produzione #1, 1979) Døden 1 – en klinisk oversigt (“Morte 1 – un’indagine clinica”); Døden 2: Jeg ser mig selv på et par meters afstand (“Morte 2: Guardo me stesso da pochi metri di distanza”); Epilog – ringen sluttes (“Epilogo – Tornando al punto di partenza”) Formato: Video (VCR); Durata: 5 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole (scuola di cinema danese); Regia/Sceneggiatura: Lars von Trier; Musica: Alban Berg, adagio da Lyrische Suite (1926, edizione orchestrale del 1929)

Produktion II (Produzione #2, 1979) Formato: Video (VCR); Durata: 10 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia/Sceneggiatura: Lars von Trier; Cast: Åke Sandgren (l’uomo); Musica: Thelonious Monk, Round Midnight, eseguita da Miles Davis Quintet, 1956

Videoøvelse (Monolog) (Esercizio video – Monologo, 1979/1980) Formato: Video (VCR); Durata: 4 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole;

Regia: Lars von Trier

Videoøvelse (Dialog) (Esercizio video – Dialogo, 1979/1980) Formato: Video (VCR); Durata: 6 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia: Lars von Trier; Cast: Claus Strandberg (l’uomo), Lea Brøgger (la donna)

Lars & Oles Danmarks lm (Il lm danese di Lars & Ole, 1979/1980) Formato: Video (VCR); Durata: 24 minuti (non terminato); Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia: Lars von Trier e Ole Schwander

Produktion III: Marsjas Anden Rejse (Produzione #3: il secondo viaggio di Marsja, 1980) Formato: Video (VCR); Durata: 18 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia/Sceneggiatura: Lars von Trier; Cast: Berrit Kvorning (Marsja), Baard Owe (Console Mendel)

Produktion IV: Historien Om De To Ægtemænd Med Alt For Unge Koner (Produzione #4: la storia di due mariti e delle loro troppo giovani mogli, 1980) Formato: Video (VCR); Durata: 12 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia/Sceneggiatura: Lars von Trier; Cast: Baard Owe (Zeppa), Lars Knutzon (Spinelloccio), Gitte Pelle

(Filomena), Natasja (la moglie di Zeppa), Kim Eduard Jensen (giovane uomo nella macchina), Masja Dessau (giovane donna nella macchina)

Dokumentarøvelsen (Lolita) (Esercizio di documentario – Lolita, 1980) Formato: Video (VCR); Durata: 4 minuti; Lingua: Danese; Resa: Bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia/Sceneggiatura: Lars von Trier

Nocturne (1980) Formato: 16mm; Durata: 8 minuti; Lingua: Danese; Resa: a colori e in bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier, Tom Elling; Fotogra a: Tom Elling; Montaggio: Tómas Gislason; Cast: Yvette Weisbacher (la donna), Solbjørg Højfeldt (voce al telefono), Annelise Gabold (voce di Yvette Weisbacher)

Den Sidste Detalje (L’ultimo particolare, 1981) Formato: 35mm; Durata: 31 minuti; Lingua: Danese; Resa: bianco e nero; Produzione: Den Danske Filmskole; Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Rumle Hammerich; Fotogra a: Tom Elling; Montaggio: Tómas Gislason; Cast: Otto Brandenburg (Danny), Torben Zeller (Frank), Gitte Pelle (la donna), Ib Hansen (prepotente), Michael Simpson (scagnozzo)

Befrielsesbilleder (Immagini di una liberazione, 1982) Formato: 35mm; Durata: 57 minuti; Lingua: Danese e Tedesco; Resa: a colori; Produzione: Danmarks Radio (DR), Den Dankst Filmskole; Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura:

Lars von Trier (sceneggiatura per le riprese: Lars von Trier e Tom Elling); Fotogra a: Tom Elling; Montaggio: Tómas Gislason; Cast: Edward Fleming (u ciale nazista Leo Mendel), Kirsten Olesen (Esther, amante), Leif Magnusson (cappellano tedesco che cerca di fare la chiamata telefonica), Niels Vørsel (soldato tedesco nella bianca uniforme di cotone bianco); Musica: Mozart, Quartetto per archi K 465 n.  19 in Do maggiore (primo movimento), eseguito dal Copenaghen String Quartet; Pierre De La Rue, Mass, eseguito dal gruppo Ars Nova, diretto da Bo Holten

Occupations, in Chacun son cinéma ou Ce petit coup au coeur quand la lumière s’éteint et que le lm commence (A ciascuno il suo cinema, 2007) Formato: 35mm; Durata: 3 minuti; Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Cannes Film Festival, Elzévir Films (produttore: Gilles Jacob); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Anthony Dod Mantle; Montaggio: Bodil Kjæhauge; Cast: Lars von Trier (il regista), Jacques Frantz (odioso uomo d’a ari); E etti visivi: Peter Hjort

Dimension (2010) Frammenti di un lungometraggio realizzati nel periodo 1991-1997 Durata: 27 min; Produzione: Fondazione Dimension, Zentropa, SFC, Det Danske Filminstitut (produttore: Peter Aalbæk Jensen); Regia: Lars von Trier; Sinossi: Lars von Trier, Niels Vørsel; Cast: Eddie Constantine, Jean-Marc Barr, Udo Kier, Jens Okking, Baard Owe, Stellan Skarsgård, Katrin Cartlidge

Lungometraggi

Forbrydelsens element (L’elemento del crimine, 1984) Formato: 35mm, widescreen; Durata: 103 minuti; Lingua: Inglese; Resa: colori illuminati al sodio; tinta in bianco e nero; Produzione: Det Danske Filminstitut, Per Holst Filmproduktion (Produttore: Per Holst); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier (sceneggiatura per le riprese: Lars von Trier; Tom Elling, Tómas Gislason); Fotogra a: Tom Elling; Montaggio: Tómas Gislason; Cast: Michael Elphick (Fisher), Esmond Knight (Osborne), Me Me Lai (Kim), Jerold Wells (Kramer), Ahmed El Shenawai (terapista), Astrid Henning-Jensen (domestica di Osborne), Janos Hersko (medico legale), Stig Larson (assistende del medico legale), Harry Harper (receptionist #1), Roman Moszkowicz (receptionist #2), Frederik Casby (poliziotto bianco di pelle), Duke Addabayo (poliziotto scuro di pelle), von Trier (receptionist, “Idiota dei secoli”), Preben Lerdor Rye (il nonno della piccola bambina), Camilla Overby (piccola bambina #1), Maria Behrendt (piccola bambina #2), Mogens Rukov (bibliotecaria), Jon Bang Carlsen (poliziotto arrabbiato), Leif Magnusson (cliente dell’hotel), Gotha Andersen (giudice che spara in udienza), Niels Vørsel (uomo all’udienza), Per Holst (ferroviere); Musica: Bo Holten; Direzione artistica: Peter Høimark

Epidemic (1987) Formato: 16 e 35mm, widescreen (1,66:1); Durata: 106 minuti; Lingua: Danese e Inglese; Resa: bianco e nero con monocolore; Produzione: Det Danske Filminstitut, Element Film I/S (Produttore: Jakob Eriksen); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier e Niels Vørsel (sceneggiatura per le riprese: Lars von Trier, Tom Elling e Tómas Gislason); Fotogra a: Henning Bendtsen (35mm); Lars von Trier, Niels Vørsel, Kristo er Nyholm, Cæcilia Holbek Trier, Susanne Ottesen, Alexander Gruszynski (16mm);

Montaggio: Lars von Trier e Thomas Krag; Cast: Lars von Trier (Lars e Dott. Mesmer), Niels Vørsel (Niels), Claes Kastholm Hansen (il committente del lm), Susanne Ottesen (Susanne), Allan de Waal (narratore), Ole Ernst (dottore nell’episodio di Mesmer), Olaf Ussing (altro dottore nell’episodio di Mesmer), Cæcilia Holbek Trier (infermiera nell’episodio di Mesmer), Ib Hansen (altro dottore nell’episodio di Mesmer), Michael Gelting (archivista), Svend Ali Hamann (ipnotista), Gitte Lind (la donna ipnotizzata), Udo Kier (Udo), Jørgen Christian Krü (specialista di vini), Jan Kornum Larsen (u ciale doganale), Leif Magnusson (ratman nell’episodio di Mesmer), Gert Holbek (voce), Anja Hemmingsen (la ragazza da Atlantic City), Kirsten Hemmingsen (la zia da Atlantic City), Leif Sabro (pilota dell’elicottero), Michael Simpson (il guidatore di pelle scura e il vicario), Mik Skov (cadavere), Thorkild Tønnesen (uomo nell’elicottero), Colin Gilder (voce di Ole Ernst), Tony Shine (voce di Ib Hansen); Musica: Richard Wagner, Tannhäuser Ouverture; canzone Epidemic, We All Fall Down, di Peter Bach, basata su una variazione del Tannhäuser, con testo di Lars von Trier e Niels Vørsel, voce di Pia Cohn; Direzione artistica: Peter Grant

Europa (Zentropa negli Stati Uniti) (1991) Formato: 35mm (formato anamor co); Durata: 113 minuti; Lingua: Inglese e Tedesco; Resa: bianco e nero e a colori; Produzione: Nordisk Film, Det Danske Filminstitut, Svenska Filminstitutet, Eurimages, So nergie 1, So nergie 2, UGC, Institut suisse du lm, Gunnar Obel, WMG, Gérard Mital Productions, Alicéléo (Produttore: Peter Aalbæk Jensen e Bo Christensen); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier e Niels Vørsel (sceneggiatura per le riprese: Lars von Trier e Tómas Gislason); Fotogra a: Henning Bendtsen (Danimarca); Edward Klosinski (Polonia); Jean-Paul Meurisse; Montaggio: Hervé Schneid; Cast: Jean-Marc Barr (Leo Kessler), Barbara Sukowa (Katharina Hartmann),

Ernst-Hugo Järegård (lo zio Kessler), Jørgen Reenberg (Max Hartmann), Udo Kier (Larry Hartmann), Eddie Constantine (colonello Harris), Olaf Ussing (altro dottore nell’episodio di Mesmer), Erik Mørk (il prete), Henning Jensen (Siggy), Leif Magnusson (dott. Magnus), Vera Gebuhr (assistente di deposito), Else Petersen (vecchia assistente), Dietrich Kuhlbrodt (ispettore ferroviario), Holger Perfort (Mr. Ravenstein), Anne Werner Thomsen (Mrs. Ravenstein), Lars von Trier (l’ebreo), Cæcilia Holber Trier (la cameriera), Janos Hersko (l’uomo ebreo), Talia (la donna ebrea), Claus Flygare (padre del giovane assassino), Erno Müller (Seifert), Benny Poulsen (Stelemann), Hardy Rafn (uomo in vestaglia mattutina), Peter Haugstrup (fattorino), Thadee Lokcinski e Ben Zimet (vecchi uomini), Baard Owe (uomo con carte), Michael Simpson e Jon Ledin (soldati americani), Jesper Birch (valletto del colonello Harris), Max von Sydow (il narratore); Musica: Joachim Holbek; Direzione artistica: Henning Bahs

Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996) Formato: 35mm Cinemascope con ulteriori immagini video trasferite su pellicola; Durata: 158 minuti; Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments e Danmarks Radio in coproduzione con Argus Films, Arte, Canal+, CoBo Funds, Eurimages, Det Danske Filminstitut, European Script Fund, Finnish Film Foundation, Icelandic Film, La Sept Cinéma, Mem s Film, Lucky Red, Liberator Productions, Media Investment Group, Nederlands Fonds voor de Film, Nordisk Film & TV Fond, YLE, Northern Lights, Norwegian Films, October Films, Trust Film Svenska, Svenska Filminstitutet, STV Drama, Philippe Bober, ZDF (Produttore: Vibeke Windeløv e Peter Aalbæk Jensen; Produttore esecutivo: Lars Jönsson); Regia: Lars von Trier; Assistente alla regia: Morten Arnfred; Sceneggiatura: Lars von Trier (consulente per la sceneggiatura: Tómas Gislason); Fotogra a: Robby Müller; Montaggio: Anders Refn; Cast: Emily Watson (Bess), Stellan Skarsgård (Jan),

Katrin Cartlidge (Dodo), Adrian Rawlins (Dott. Richardson), Jonathan Hackett (ministro religioso), Sandra Voe (la madre), Jean-Marc Barr (Terry), Udo Kier (l’uomo sul peschereccio), Mikkel Gaup (Pits), Roef Ragas (Pim), Phil McCall (nonno); Musica: All The Way from Memphis, Mott the Hoople/Ian Hunter; Blowin in the Wind, Tom Harboe, Jan Harboe e Ulrik Corlin/Bob Dylan; Pipe Major Donald MacLean, Peter Roderick MacLeod; In a Broken Dream, Python Lee Jackson; Cross Eyed Mary, Jethro Tull/Ian Anderson; Virginia Plain, Roxy Music; Whiter Shade of Pale, Procul Harum/Keith Reid & Gary Brooker; Hot Love, T. Rex/Marc Bolan; Suzanne, Leonard Cohen; Love Lies Bleeding, Elton John/Elton John e Berni Taupin; Whisky in the Jar, Thin Lizzy/Phil Lynott, Eric Bell e Brian Downey; Time, Deep Purple/John Lord, Richie Blackmore, Ian Gillan, Roger Glover e Ian Paice; Life on Mars, David Bowie; Your Song, Elton John; Gay Gordons, Tom Harboe, Jan Harboe e Ulrik Corlin; Happy Landing, P. Harman; Siciliana (Sonata BWV 1031/2nd movement) di Johann Sebastian Bach, arr. Joachim Holbek; Immagini iniziali dei capitoli: Per Kirkeby (immagini in video digitale, trasferite su pellicola)

Dogme #2 – Idioterne (Dogme #2 – Gli idioti, 1998) Formato: 35mm, immagini trasferite da video; Durata: 111 minuti; Lingua: Danese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments e Danmarks Radio, in coproduzione con Liberator Pictures, La Sept Cinéma, Argus Film Produktie, Vrijzinnig Protestantse Radio Omroep, ZDF/ARTE, con il supporto di Nordic Film & Television Fund, Ducth CoBo Fund, Helsinki, in collaborazione con SVT Drama, Canal + (Francia), RAI Cinema Fiction, 3 Emme Cinematogra ca (Produttore: Vibeke Windeløv; Produttore esecutivo: Peter Aalbæk Jensen); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Lars von Trier; Montaggio: Molly Marlene Steensgaard; Cast: Bodil Jørgensen (Karen), Jens Albinus (Sto er), Anne Louise Hassing (Susanne), Troels

Lyby (Henrik), Nikolaj Lie Kaas (Jeppe), Henrik Prip (Ped), Luis Mesonero (Miguel), Louise Mieritz (Josephine), Knud Romer Jørgensen (Axel), Trine Michelsen (Nana), AnneGrethe Bjarup Riis (Katrine), Paprika Steen (Vibeke, la donna che vuole comprare la casa), Albert Wickman (Finn, il marito che vuole comprare la casa), Erik Wedersøe (lo zio di Sto er che è il proprietario della casa), Michael Moritzen (l’uomo del comune), Anders Hove (il padre di Josephine), Jan Elle (cameriere), Claus Strandberg (guida nell’azienda), Jens Jørn Spottag (capo all’agenzia di marketing), John Martinus (uomo nella vestaglia da giorno), Lars Bjarke (motociclista #1), Ewald Larsen (motociclista #2), Christian Friis (motociclista #3), Hans Henrik Clemensen (Anders, il marito di Karen), Lone Lindor (madre di Karen), Erno Müller (nonno di Karen), Regitze Estrup (Louise la sorella di Karen), Lotte Munk (Britta la sorella di Karen), Marina Bouras (moglie di Axel), Julie Wieth (donna con due bambini), Kirsten Vaupel (signora del corso d’arte #1), Lillian Tillegren (signora del corso d’arte #2), Birgit Conradi (signora del corso d’arte #3), Peter Frøge (uomo nella piscina), Bent Sørensen (tassista), Jesper Sønderaas (Svendsen all’agenzia di marketing), Ditlev Weddelsborg (Severin all’agenzia di marketing), Lars von Trier (intervistatore fuori campo); Musica: La cygne, Camille Saint-Säens, eseguita da Kim Kristensen, armonica; Vi er dem de andre ikke må lege med, Kim Larsen e Erik Clausen

Dancer in the Dark (2000) Formato: 35mm, Cinemascope ripreso in video; Durata: 140 minuti; Lingua: inglese; Resa: a colori; Produzione: companies: Zentropa Entertainments in associazione con Film i Väst, Trust Film Svenska, Liberator Productions; in coproduzione con Pain Unlimited GmbH, Cinematograph A/S, What Else? B.V., Icelandic Film, Blind Spot Pictures Oy, Danmarks Radio, STV Drama, Arte France, France 3, Arte Germany, Good Machine; in collaborazione o

associazione con altre compagnie di produzione (produttore: Vibeke Windeløv; produttore esecutivo: Peter Albæk Jensen); Regia: Lars von Trier; Assistente alla regia e regista della seconda unità: Anders Refn; Sceneggiatura: Lars von Trier; Operatore di macchina: Lars von Trier; Fotogra a: Rooby Müller; Montaggio: Molly Marlene Steensgaard e François Gedigier; Cast: Björk Guðmundsdóttir (Selma), Catherine Deneuve (Kathy), David Morse (Bill Houston), Peter Stormare (Je ), Joel Grey (Oldrich Novy), Cara Seymour (Linda Houston), Vladica Kostic (Gene), JeanMarc Barr (Norman), Vincent Paterson (Samuel), Siobhan Fallon Hogan (Brenda), Zeljko Ivanek (procuratore distrettuale), Udo Kier (dott. Pokorny), Jens Albinus (Morty), Reathel Bean (giudice), Mette Berggreen (receptionist), Stellan Skarsgård (dottore), Lars Michael Dinesen (avvocato difensore), Michael Flessas (uomo arrabbiato), Katrine Falkenberg (Suzan); Musica: Björk Guðmundsdóttir; testi di Lars von Trier e Sigurjon B. “Sjón” Sigurdsson; Direzione artistica: Karl Juliussen; Coreogra e: Vincent Paterson; Consulente per le riprese: Tómas Gislason; Dipinti per la sequenza di apertura (versione per gli Stati Uniti e VHS): Per Kirkeby

Dogville (2003) Formato: girato su HD-24 P ingrandito a 35mm, cinemascope; Durata: 178 minuti; Lingua: inglese; Resa: a colori; Produzione: companies: Zentropa Entertainments; in coproduzione con Film i Väst, Trollhättan Film AB, Sigma Films, Pain Unlimited GmbH, Slot Machine, Liberator Pictures, 4 1/2, Arte France, France 3, Trust Film Svenska, Mem s Film & Television, Danmarks Radio, Sveriges Television, Something Else B.V., Isabella Films International B.V., Westdeutscher Rundfunk, Norsk TV2 AS, Filmmek, NPS Television, YLI TV1, Arte; in collaborazione o associazione con altre compagnie di produzione (produttore: Vibeke Windeløv, Lars Jönsson; produttore esecutivo: Peter Albæk Jensen); Regia: Lars von

Trier; Assistente alla regia: Anders Refn; Sceneggiatura: Lars von Trier; Operatore di macchina: Lars von Trier; Fotogra a: Anthony Dod Mantle; Montaggio: Molly Marlene Steensgaard; Cast: Nicole Kidman (Grace), Paul Bettany (Tom Edison, Jr.), James Caan (padre di Grace), John Hurt (narratore), Harriet Andersson (Gloria), Lauren Bacall (Ma Ginger), Jean-Marc Barr (uomo col grandecappello), Blair Brown (sig.ra Henson), Patricia Clarkson (Vera), Jeremy Davies (Bill Henson), Ben Gazzara (Jack McKay), Philip Baker Hall (Tom Edison, Sr.), Siobhan Fallon Hogan (Martha), Zeljko Ivanek (Ben), Udo Kier (gangster), Cleo King (Olivia), Miles Purinton (Giasone), Bill Raymond (sig. Henson), Chloë Sevigny (Liz Henson), Shauna Sim (June), Stellan Skarsgård (Chuck), Kent Vikmo (autista), John Randolph Jones (poliziotto #1), Erik Voge (poliziotto #2), Ingvar Örner (uomo dell’FBI in abito), Thom Ho man (Sig. D.); Direzione artistica: Peter Grant

De Fem benspænd (Le cinque variazioni, 2003) Formato: 35mm; Durata: 90 minuti; Lingua: Danese, Inglese, Spagnolo, Francese; Resa: a colori e in bianco e nero; Produzione: Zentropa Real, Almaz Film Productions S.A., Panic Productions, Wajnbrosse Productions (produttore: Vibeke Windeløv, Carsten Holst); Regia: Lars von Trier e Jørgen Leth; Sceneggiatura: Lars von Trier e Jørgen Leth, con Asger Leth e Sophie Destin; Fotogra a: Kim Hattesen, Dan Holmberg; Montaggio: Daniel Dencik, Morten Højbjerg e Camilla Skousen; Cast: Claus Nissen (l’uomo in The Perfect Human; l’uomo, “Obstruction #4”), Lars von Trier (se stesso/l’ostruttore, “The Conversations”), Jørgen Leth (se stesso/regista; narratore in The Perfect Human, “Obstruction #5”; l’uomo, “Obstruction #2”), Daniel Hernandez Rodriguez (l’uomo, “Obstruction #1”); Jacqueline Arenal (la donna, “Obstruction #1”), Vivien Rosa (seconda donna, “Obstruction #1”), Patrick Bauchau (l’uomo, “Obstruction #3”), Alexandra Vandernoot (la donna, “Obstruction #3”),

Bob Sabiston (se stesso); Animazione: Bob Sabiston

Manderlay (2005) Formato: 35mm; Durata: 139 minuti; Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments; in coproduzione con Isabella Films B.V., Manderlay, Film i Väst, Ognon Pictures, Sigma Films, Pain Unlimited GmbH, Arte France, France 3, Arte, Mem s Film, Danmarks Radio, Sveriges Television, NPS Television, YLE Co-Productions; in collaborazione o associazione con altre compagnie di produzione (produttore: Vibeke Windeløv); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Anthony Dod Mantle; Montaggio: Bodil Kjærhauge, Molly Marlene Stensgaard; Cast: Bryce Dallas Howard (Grace), Isaach De Bankolé (Timothy), Danny Glover (Wilhelm), Willem Dafoe (padre di Grace), John Hurt (narratore), Michael Abiteboul (Thomas), Lauren Bacall (Mam), Jean-Marc Barr (sig. Robinson), Geo rey Bateman (Bertie), Virgile Bramly (Edward), Ruben Brinkman (Bingo), Doña Croll (Venus), Jeremy Davies (Niels), Llewella Gideon (Victoria), Mona Hammond (Vecchia Wilma), Ginny Holder (Elisabeth), Emmanuel Idowu (Jim), Zeljko Ivanek (dott. Hector), Teddy Kempner (Joseph), Udo Kier (signor Kirspe), Rik Launspach (Stanley Mays), Suzette Llewellyn (Flora), Charles Maquignon (Bruno), Joseph Mydell (Mark), Javone Prince (Jack), Clive Rowe (Sammy), Chloë Sevigny (Philomena), Nina Sosanya (Rose); Musica: Joachim Holbek

Dear Wendy (2005) Formato: 35mm; Durata: 105 minuti; Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Nimbus Films, Zentropa Entertainments, Lucky Punch I/S, in coproduzione con TV2 Danmark (produttore: Sisse Graum Jørgensen); Regia: Thomas Vinterberg; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Anthony Dod Mantle; Montaggio: Mikkel E. G.

Nielsen; Cast: Jamie Bell (Dick), Bill Pullman (Krugsby), Michael Angarano (Freddie), Danso Gordon (Sebastian), Novella Nelson (Clarabelle), Chris Owen (Huey), Alison Pill (Susan), Mark Webber (Stevie), Trevor Cooper (padre di Dick)

Direktøren for det hele (Il grande capo, 2006) Formato: 35mm; Durata: 99 minuti; Lingua: Inglese, Islandese, Russo; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments; in coproduzione con Mem s Film, Slot Machine, Lucky Red, Pain Unlimited GmbH, Trollhättan Film AB, Orione Cinematogra ca, Det Danske Filminstitut, Sveriges Television, Film i Väst, Filmstiftung NordrheinWestfalen, Nordisk Film & TV Fond, Icelandic Film Center; in collaborazione o associazione con altre compagnie di produzione (produttore: Meta Louise Foldager); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Claus Rosenløv Jensen; Montaggio: Molly Marlene Steensgaard; Cast: Jens Albinus (Kristo er), Peter Gantzler (Ravn), Friðrik Þór Friðriksson (Finnur), Benedikt Erlingsson (Tolk), Iben Hjejle (Lise), Henrik Prip (Arne), Mia Lyhne (Heidi A.), Casper Christensen (Gorm), Louise Mieritz (Mette), Jean-Marc Barr (Spencer), So e Gråbøl (Kisser), Anders Hove (Jokumsen), Lars von Trier (narratore); E etti visivi: Peter Hjort

De unge år: Nietzsche sagaen del 1 (La saga del giovane Erik Nietzsche, parte 1, 2007) Formato: 35mm; Durata: 100 minuti; Lingua: Danese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments, Det Danske Filminstitut, DR TV International, Eurimages, Sveriges Television, Svenska Filminstitutet, Film i Väst, Lucky Red, Trollhättan Film, Mem s Film, Pappagallo Film, Australian Film Institute, Danmarks Radio, Les Films du Losange, Dor Film Produktionsgesellschaft (produttore: Sesse Graum

Jørgensen); Regia: Jacob Thueson; Sceneggiatura: Lars von Trier (come Erik Nietzsche); Fotogra a: Sebastian Blenkov; Montaggio: Per K. Kierkegaard; Cast: Jonatan Spang (Erik), Jens Albinus (Trois), Troels Lyby (Bent), Nikolaj Coster Waldau (Sammy), David Dencik (Zelko), Søren Pilmark (Mads), Thomas Bendixen (Thorvald), Kristian Boland (Husejer), Marie Brolin Tani (Stine), Hans Henrik Clemensen (Carsten Virén), Lars von Trier (narratore)

Antichrist (2009) Formato: 35mm, Cinemascope; Durata: 104 minuti; Lingua: Inglese; Resa: a colori e in bianco e nero; Produzione: Zentropa Entertainments; in coproduzione con Zentropa International Köln, Zentropa International Poland, Mem s Film, Slot Machine, Arte France Cinéma, ZDF-Arte, STV, Film i Väst, Det Danske Filminstitut, Svenska Filminstitutet, The Polish Film Institute, Nordisk Film & TV-Fond, Trollhättan Film AB, Lucky Red; in collaborazione o associazione con altre compagnie di produzione (produttore: Meta Louise Foldager); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Anthony Dod Mantle; Montaggio: Anders Refn, Åsa Mossberg; Cast: Willem Dafoe (He), Charlotte Gainsbourg (She), Storm Acheche Sahlström (Nic); Suono: Kristen Eidnes Andersen

Melancholia (2011) Formato: 35mm, widescreen; Durata: 130 minuti; Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments; in coproduzione con Zentropa International Köln, Mem s Film, Slot Machine, Trollhättan Film AB, Arte France Cinéma, Liberator Productions, Film i Väst, Danmarks Radio, Sveriges Television, Canal+, Centre National du Cinéma et de l’Image Animée, CinéCinéma, Edition Video, Nordisk Film, Det Danske Filminstitut, Eurimages, Svenska Filminstitutet, Filmstiftung Nordrhein-

Westfalen (produttore: Louise Vesth, Meta Louise Foldager); Regia: Lars von Trier; Assistente alla regia: Anders Refn; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Manuel Alberto Claro; Montaggio: Molly Marlene Steensgaard; Cast: Kiefer Sutherland (John), Alexander Skarsgård (Michael), Kirsten Dunst (Justine), Stellan Skarsgård (Jack), Charlotte Gainsbourg (Claire), Charlotte Rampling (Gaby), Cameron Spurr (Leo), John Hurt (Dexter), Jesper Christensen (piccolo papà), Brady Corbet (Tim), Udo Kier (Wedding Planner); Musica: preludio da Tristan und Isolde (1857–1859) di Richard Wagner

Nymphomaniac Vol. I e Vol. II (reso gra camente Nymph()maniac) (2013) / Nymphomaniac: The Director’s Cut (2014) Formato: 35mm; Durata: rispettivamente 117 e 123 minuti (330 minuti per la Director’s Cut); Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments; Slot Machine, Caviar Films, Zenbelgie, Arte France Cinéma, Film i Väst, Arte GEIE, Det Danske Filminstitut, Film – und Medienstiftung NRW, Eurimages, Deutscher Filmföderfonds, Centre National du Cinéma et de l’Image Animée, Svenska Filminstitutet, Flanders Audiovisual Fund, DR, Nordisk Film, Canal+, Den Vestdanske, Filmpulje, Ciné+, Heimat lm (produttore: Louise Vesth); Regia: Lars von Trier; Assistente alla regia: Anders Refn; Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Manuel Alberto Claro; Montaggio: Volume I, Morten Højbjerg; entrambi i volumi, Molly Marlene Stensgaard; Cast: Charlotte Gainsbourg (Joe età 35–50), Stacy Martin (giovane Joe età 15–31), Stellan Skarsgård (Seligman), Shia LaBeouf (Jerôme Morris), Christian Slater (padre di Joe), Jamie Bell (K), Uma Thurman (Sig.ra H), Willem Dafoe (L), Mia Goth (P), Sophie Kennedy Clark (B), Connie Nielsen (Katherine la madre di Joe), Michaël Pas (Jerôme più grande), Jean-Marc Barr (gentiluomo debitore), Udo Kier (cameriere)

The House That Jack Built (La casa di Jack) (2018) Formato: 35mm; Durata: 155 min; Lingua: Inglese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments, Film i Väst, Eurimages, Nordisk Film, Les lms du losange (produttore: Louise Vesth); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier; Storia: Lars von Trier, Jenle Hallund; Fotogra a: Manuel Alberto Claro; Montaggio: Molly Malene Stensgaard, Jacob Secher Schulsinger; Cast: Matt Dillon (Jack), Emil Tholstrup (giovane Jack), Bruno Ganz (Virgilio), Uma Thurman (donna #1), Siobhan Fallon Hogan (Claire Miller – donna #2), So e Gråbøl (donna #3), Riley Keough (Jacqueline – “Simple”), Jeremy Davies (Al), Jack McKenzie (Sonny), Mathias Hjelm (Glenn), Edward Speleers (Ed – poliziotto #2), Marijana Jankovic (Kelly Miller – studentessa), Carina Skenhede (Susan Hanson – vecchietta), Rocco Day (Grumpy), Cohen Day (George), Robert Jezek (poliziotto #4) Osy Ikhile (militare), Christian Arnold (uomo #1), Yu Ji-tae (uomo #2), Johannes Bah Kuhnke (uomo #3), Jerker Fahlström (uomo #4), David Bailie (S.P.), Robert G. Slade (Rob), Vasilije Mujka (uomo con la falce); Musica: Victor Reyes

Per la TV Medea (1988) Formato: video, trasferito su pellicola, trasferito di nuovo su video; Durata: 75 minuti; Lingua: Danese; Resa: a colori; Produzione: DR, TV-Teaterafdelningen (produttore: Bo Leck Fisher); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier, basata sul precedente lavoro di Carl Th. Dreyer e Preben Thomsen; Fotogra a: Sejr Brockmann; Design di produzione: Ves Harper; Montaggio: Finn Nord Svendsen; Cast: Udo Kier (Giasone), Kirsten Olesen (Medea), Henning Jensen (Creonte), Solbjørg Højfeldt (balia), Preben Lerdor Rye (tutore), Baard Owe (Egeo), Ludmilla Glinska (Glauce), Johnny Kilde ( glio più grande), Richard Kilde ( glio più piccolo); Musica: Joachim Holbek

Lærerværelset (The Teacher’s Room) (1994) Produzione: Zentropa Entertainments for TV2 (produttore: Ib Tardini, Pater Aelbæk Jensen); Regia/Concept: Lars von Trier

Riget (Il regno, 1994) Episodio #1: Den hvide ok (Il gregge bianco); Episodio #2: Alliancen Kalder (L’alleanza sta chiamando); Episodio # 3: (Una parte del corpo estranea); Episodio #4: De levende døde (I morti viventi); Formato: 16mm e video (ingrandito a 35mm per l’uscita nelle sale); Durata: 272 minuti (63+65+69+75) (una versione per l’esportazione leggermente modi cata è stata tagliata per l’uscita nelle sale all’estero); Lingua: Danese; Resa: a colori (manipolati); Produzione: Zentropa Entertainments, Danmarks Radio, Arte, Swedish Television, Greco, The Coproduction O ce,

Westdeutscher Rundfunk, TV Collaboration Fund, Nederlandse Omroepstichting (produttore: Ole Reim; produttore esecutivo: Peter Aalbæk Jensen, Ib Tardini); Regia: Lars von Trier; Assistente alla regia: Morten Arnfred; Sceneggiatura: Lars von Trier, Niels Vørsel (sceneggiatura per le riprese: Lars von Trier, Tómas Gislason); Fotogra a: Eric Kress, Henrik Harpelund (steadycam); Montaggio: Jacob Thuesen, Molly Malene Stensgaard; Cast: Ernst-Hugo Järegård (Helmer), Kirsten Rol es (Sigrid Drusse), Holger Juul Hansen (Moesgaard), Søren Pilmark (Krogshøj), Ghita Nørby (Rigmor), Jens Okking (Bulder), Otto Brandenburg (Hansen), Annevig Schelde Ebbe (Mary), Henning Jensen (direttore dell’ospedale), Baard Owe (Bondo), Birgitte Raabjerg (Judith), Peter Mygind (Mogge), Solbjørg Højfeldt (Camilla), Udo Kier (Aage Krüger), Niels BankMikkelsen (Prete), Ole Boisen (Christian), Lea Risum Brøgger (madre di Mary), Laura Christensen (Mona), Paul Hüttel (Stenbæk), Søren Lenander (giovane uomo), Morten Rotne Le ers (lavapiatti #1), Vita Jensen (lavapiatti #2), Louise Fribo (Sanne), Ulrik Cold (Narratore); Musica: Joachim Holbek

Marathon (1996) Concept: Lars von Trier

Riget II (Il regno 2, 1997) Episodio #5: Mors in Tabula; Episodio #6: Trækfulgene (Gli uccelli migratori); Episodio # 7: Gargantua; Episodio #8: Pandæmonium; Formato: 16mm e video (ingrandito a 35mm per l’uscita nelle sale); Durata: 296 minuti (63+79+76+78); Lingua: Danese; Resa: a colori (manipolati); Produzione: Zentropa Entertainments, DR TV-Drama in coproduzione con Liberator Productions S.a.r.l., con il supporto di Norsk Rikskringkastning, Sveriges Television (Malmö), La Sept Arte Unité de Programmes Fictions, RAI Cinema Fiction,

the Media Programme of the European Union (produttore: Vibeke Windeløv, Svend Abrahamsen; produttore associato: Peter Aalbæk Jensen, Marianne Slot); Regia: Lars von Trier, Morten Arnfred; Sceneggiatura: Lars von Trier, Niels Vørsel; Fotogra a: Eric Kress, Henrik Harpelund (steadycam); Montaggio: Molly Malene Stensgaard, Pernille Bech Christensen; Cast: Ernst-Hugo Järegård (Helmer), Kirsten Rol es (Sigrid Drusse), Holger Juul Hansen (Moesgaard), Søren Pilmark (Krogshøj), Ghita Nørby (Rigmor), Jens Okking (Bulder), Otto Brandenburg (Hansen), Annevig Schelde Ebbe (Mary), Baard Owe (Bondo), Birgitte Raabjerg (Judith), Peter Mygind (Mogge), Solbjørg Højfeldt (Camilla), Udo Kier (Piccolo fratello/Aage Krüger), Henning Jensen (direttore dell’ospedale), Niels Bank-Mikkelsen (Prete), Ole Boisen (Christian), Laura Christensen (Mona), Paul Hüttel (Stenbæk), Morten Rotne Le ers (lavapiatti #1), Vita Jensen (lavapiatti #2), Louise Fribo (Sanne), Birthe Neumann (Svendsen), Thomas Stender (studente), Claus Nissen (Madsen), Ulrik Cold (Narratore); Musica: Joachim Holbek; Direzione artistica: Jette Lehmann, Hans Chr. Lindholm

Stillebækken (Still Brook), a.k.a. Morten Korch (1998 – 1999) Regia: Henrik Sartou, Finn Henriksen, Lone Scher g; Produttore esecutivo: von Trier

D-DAG (D-DAY, 1999-2000) Formato: video; Durata: 70 minuti; Lingua: Danese; Resa: a colori; Produzione: Nimbus Film Productions ApS in associazione con Zentropa Entertainments, DR, TV2, TV3, TV Danmark, e con il supporto del Det Danske Filminstitut (produttore: Bo Erhardt); Registi: Thomas Vinterberg (Niels Henning – TV2), Lars von Trier (Lise – TvDanmark 1), Søren Kragh-Jacobsen (Boris – DR1), Kristian Levring

(Carl – Tv3); Musica: Flemming Nordkrog; Montaggio: Valdis Óskarsdóttir; Episodio: Lise; Regia/Sceneggiatura: Lars von Trier; Fotogra a: Anthony Dod Mantle; Cast: Charlotte Sachs Bostrup (Lise), Stellan Skarsgård (Ulf), Louise Mieritz (sorella di Lise), Dejan Cukic (Boris), Nikolaj Kopernikus (Niels Henning), Bjarne Henriksen (Carl), Aleksander Skarsgård ( gliastro di Lise)

Riget Exodus (Il regno Exodus, 2022) Episodio #9: Halmar; Episodio #10: The Congress Dances; Episodio #11: Big Brother; Episodio #12: Barbarossa; Episodio # 13: Exodus; Durata: 295 minuti; Lingua: Danese, Svedese, Latino, Inglese; Resa: a colori; Produzione: Zentropa Entertainments (produttore: Louise Vesth); Regia: Lars von Trier; Sceneggiatura: Lars von Trier, Niels Vørsel; Fotogra a: Manuel Alberto Claro; Montaggio: Jacob Schulsinger, My Thordal, Olivier Bugge Coutté; Cast: Bodil Jørgensen, Mikael Persbrandt, Tuva Novotny, Lars Mikkelsen, Nikolaj Lie Kaas, Nicolas Bro, Alexander Skarsgård; Musica: Joachim Holbek; E etti visivi: Peter Hjort; Suono: Eddie Simonsen; Scenogra a: Simone Grau Roney; Costumi: Manon Rasmussen

Video musicali Elevator Boy 1983 Produzione: Je Varab, Jacob Stegelmann per Laid Back; Regia: Vladimir Oravsky, Lars von Trier; Artista: Laid Back

Bakerman 1990 Produzione: Fortuna lm (Peter Aalbæk Jensen) per Laid Back e BMS-Ariola; Regia: Lars von Trier; Artista: Laid Back

Highway of Love 1990 Produzione: Fortuna lm (Peter Aalbæk Jensen) per Laid Back e BMS-Ariola; Concept: Lars von Trier; Regia: Åke Sandgren; Artista: Laid Back

Bet It on You 1990 Produzione: Fortuna lm (Peter Aalbæk Jensen) per Laid Back e BMS-Ariola; Regia: Lars von Trier; Artista: Laid Back

Change 1992 Produzione: per Manu Katché; Regia: Lars von Trier; Artista: Manu Katché

Danas Have 1992 Produzione: per Kim Larsen; Regia: Lars von Trier; Artista: Larsen & Bellami

Leningrad 1992

Produzione: per Kim Larsen; Regia: Lars von Trier; Artista: Larsen & Bellami

The Shiver 1994 Produzione: Zentropa; Regia: Lars von Trier; Musica: Joachim Holbek con von Trier e scene da Il regno

You’re a Lady 1998 Produzione: Jesper Jargil; Regia: Lars von Trier; Musica: You’re a Lady (Peter Skellern); Artista: Lars von Trier e Idiot All Stars (gli attori principali de Gli idioti)

Altri lavori Attore: ~ (1968) Hemmelig Sommer (L’estate segreta), serie TV Regia: Thomas Winding ~ (1980) Kaptajn Klyde Og Hans Venner Vender Tilbage (Il ritorno del capitano Klyde), lm Regia: Jesper Klein, Per Holst ~ (1989) En Verden Til Forskel (Un mondo di di erenza), lm Regia: Leif Magnusson ~ (1999) Kopisten (La fotocopiatrice), cortometraggio Regia: Christian Tafdrup

Cantante: ~ (1998) You’re a Lady, singolo ad edizione limitata

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Ringraziamenti

Grazie a Massimo Moscati e Bibliotheka Edizioni per avermi dato questa opportunità. Grazie a mio Zio Salvatore senza il quale non l’avrei neppure colta. Grazie ad Alessandro Pio Greco per avermi supportato nel compirla. Grazie alla mia famiglia, ai miei amici – che non necessitano di essere nominati – per averla, anche inconsapevolmente, sostenuta.

Note

1 La versione completa, di cinque ore e mezza, è stata distribuita solo in pochi territori e nel corso del 2014, per via delle regole di censura vigenti in alcuni paesi. In un primo momento, una versione dei Volumi I e II con 90 minuti in meno fu utilizzata per l’uscita internazionale del lm alla ne del 2013: “Il prossimo Nymphomaniac di Lars von Trier è distribuito in due parti (Volume I e II) e in due versioni (una della durata complessiva di quattro ore, una di cinque ore e mezza). A partire dal 25 dicembre 2013, e con circa quattro mesi di anticipo, il Volume I e II di Nymphomaniac, della durata di quattro ore, viene distribuito in tutto il mondo”, sono le parole della produttrice Louise Vesth, in Nymphomaniac International Press Materials, disponibile al seguente link: https://web.archive.org/web/20140514122655/http://www.nymphomaniacthemovie .com/assets/downloads/docs/INT_press_materials_291113.pdf (ultimo accesso 31 dicembre 2022). Si precisa che la prima mondiale del Volume I, versione integrale, è avvenuta il 16 febbraio 2014 al 64° Festival Internazionale del Cinema di Berlino, mentre il Volume II, versione integrale, è stato presentato in anteprima alla 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematogra ca di Venezia nel settembre 2014. La prima mondiale della Director’s Cut si è svolta, invece, a Copenaghen il 10 settembre 2014. 2 Nei vari corsi e manuali di sceneggiatura, ad esempio, si indica generalmente che la durata di un lm dovrebbe attestarsi attorno ai 90 min.  per rispettare l’equilibrata costruzione aristotelica delle tre parti: tesi, antitesi e sintesi. La pratica sovente ha dimostrato come, anche a livello narrativo, il mancato rispetto dei 90 min.  non comporti poi così gravi destabilizzazioni: si veda ex multis Novecento (1976) – 320 min.  – di Bernardo Bertolucci la cui trama risulta essere avvincente anche nella ‘epicità’ della durata; discorso diverso potrebbe farsi per opere come Solaris (1972) – 160 min. – o Stalker (1979) – 161 min. – di Andrej Tarkovskij, che però disattendono strategicamente la drammaturgia convenzionale. 3 I suoi ultimi lm sono opere in cui gli elementi psicologici sono un interesse primario: un caso di studio in cui l’ansia si trasforma in psicosi: Antichrist è occupato da sedute di terapia; i titoli di Melancholia e Nymphomaniac denotano disturbi psicologici e allo stesso modo si pongono come casi di studio; e La casa di Jack è la narrazione di uno psicopatico autocosciente, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, Wall ower Press, 2022, p. 9. 4 Lars von Trier interviewed by Mark Kermode on The Culture Show, disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=Mav_WGpOLdU (ultimo accesso 9 luglio 2022). 5 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit.,

p. IX, dove si a erma come la pratica delle trilogie sia stata ispirata dal regista Ingmar Bergman, della cui ammirazione von Trier non ne ha mai fatto mistero, nonché si evidenzia come la trilogia della ‘Depressione’ (Antichrist, Melancholia e Nymphomaniac) sia in realtà una fantasia creata dai fan e dai critici: von Trier ne ha riso, a ermando che tale raggruppamento potrebbe includere ogni suo lm; inoltre, in un’intervista fatta dall’autrice, il regista danese ha dichiarato ironicamente di essere l’esperto di “trilogie con soli due lm”, elemento ricordato altresì da M. A. Claro, direttore della fotogra a dei suoi lm dal 2010 in poi, che osserva come il suo approccio sia passato dalle trilogie alle “duologie”. Similmente V. Wiedemann, che conobbe von Trier ai tempi della scuola di cinema e collaborò con lui sia come amanuense sia come consulente di sceneggiatura per Melancholia e Nymphomaniac, ha espresso di aver considerato i lm di von Trier sempre in coppia, “come gemelli”, a partire da Il regno (Riget) (1994) in poi, come se von Trier prendesse un tema, vi realizzasse un lm e poi lo reinventasse, o lo espandesse o, per il semplice fatto di non aver completamente esaurito l’ispirazione, lo replicasse. 6 Lars von Trier ha anche diretto clip musicali: fra gli altri, Laid Back – Bakerman (1989); Laid Back – Highway of Love (1990); Laid Back – Bet It on You (1990); Manu Katché – Change (1992). Ha anche scritto la sceneggiatura del lm Dear Wendy (2005) diretto da Thomas Vinterberg, così come per il lm La saga del giovane Erik Nietzsche (Erik Nietzsche – De unge år) (2007), regia di Jacob Thuesen.  Si annoverano nella sua produzione anche due romanzi mai pubblicati: ‘Dietro le porte dello sfacelo’ (Bag fornedrelsens porte, 1975) e ‘Eliza, o Il piccolo libro sul delizioso e il volgare’ (Eliza eller Den lille bog om det dejlige og det tarvelige, 1976). Lars von Trier ha anche diretto, nei primi anni di carriera, diversi spot pubblicitari in particolare per il tabloid Ekstra Bladet (fra tutti ‘Sauna’ del 1986): “All’inizio della mia carriera ho fatto molti spot pubblicitari e non si ha molta libertà”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), University of Illinois Press, 2011, p. 168. 7 Ove non diversamente speci cato, le traduzioni dall’inglese all’italiano sono a cura dell’autore. 8 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, 2020, disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch? v=pXWcl6OuVw8 (ultimo accesso 29 dicembre 2022). Inoltre, il regista ha altresì a ermato: “Mi sono sentito orribile durante le riprese per questo lm, e la colpa non è che mia. Ero ansioso, ubriaco e così via. Quindi non ce la faccio – almeno per ora – ad a rontare la realizzazione di un altro lm. Ho ideato un piano per realizzare umili lm di dieci minuti chiamati ‘Études’. L’idea di Études è pensata per farmi stare bene. Perché posso dare il 90% in più quando sto bene rispetto a quando sto male. […] ma ora sono in associazioni di tutti i tipi dove sto cercando di raggiungere la completa sobrietà. Ma è dura”, P.  Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, University of Copenhagen (Københavns Universitet), 2018, disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=ZZmAizZgeQU (ultimo accesso 29 dicembre 2022); cfr. C. B. Thomsen, Control and Chaos, 1996, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), University Press of Mississipi, 2003, p. 115, dove il regista però diceva: “Le avversità e le battute d’arresto sono più facili da gestire rispetto alla prosperità e alla fortuna, che sono molto di cili da gestire – e provocano ansia! Lavoro molto meglio con le spalle al muro. Una volta lì, combatterò no all’ultima goccia di sangue.”

9 Le cui prime due stagioni risalgono al 1990-1991, mentre la terza ed ultima è del 2017. 10 ArtyFarty, stagione 1, episodio 4, ‘Er Von Trier Okay?’, DR2, 9 agosto 2020. 11 Anche se le ultime dichiarazioni di von Trier sembrano andare in senso contrario: “Sono assolutamente consapevole del rischio di realizzare quelli che io chiamo ‘i lm degli anziani’, quelli, cioè, che vengono realizzati da chi ha ormai case troppo grandi e prova a ripetere il proprio successo. Al momento, non c’è un lm che ancora non ho fatto che io senta la necessità di dover realizzare. Inoltre, a causa del Parkinson con cui devo convivere, potrei andare avanti nella mia vita senza fare altri lm”, P. Fabi, Lars Von Trier vede vicino il suo ritiro dal cinema a causa del Parkinson, Tag24, 3 dicembre 2022, disponibile al seguente link: https://www.tag24.it/422793-lars-von-trier-ritiro-dal-cinema-a-causadel-parkinson/ (ultimo accesso 27 dicembre 2022). 12 Institut National de l’Audiovisuel (INA), Pages Cannes: Duplex Pascale Deschamps. Lars Von Trier et Björk, 21 maggio 2000, disponibile al seguente link https://www.youtube.com/watch?v=on4dfuYZ_2Y (ultimo accesso 19 agosto 2022). 13 In un’altra intervista Lars von Trier riprende la metafora, indicando in tale occasione come direzione l’ovest piuttosto che l’est: non è la direzione ad essere importante ma il concetto, che rimane lo stesso, cfr. C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 14 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 15 Leggiamo che Steven Spielberg già da adolescente girava lm d’avventura amatoriali in 8mm con i suoi amici (le cui scene sono state incluse nell’edizione in DVD di Salvate il soldato Ryan), cfr. Steven Spielberg Film, in economicexpert.com, disponibile al seguente link: https://web.archive.org/web/20111125000433/http://www.economicexpert.com/a/ Steven:Spielberg.htm (ultimo accesso 5 gennaio 2022). 16 M. Berthelius, R. Narbonne, A conversation with Lars von Trier, 1987 in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 49. 17 Nella serie TV, il padre del ragazzo fu interpretato da Jens Okking il quale riapparirà nel cast de Il regno. 18 Sede della municipalità di Lyngby–Taarbæk, nella periferia nord di Copenaghen, Kongens Lyngby è dove von Trier nacque e trascorse i suoi primi anni di vita. 19 L. Ho mann, He’d Rather Watch a Cop Show Than Himself, 1968, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., pp. 3-4. 20 F. Marchi, Björk e Lars von Trier: Dancer in the dark tra genesi e divenire, cap. III – Il mondo intorno a Lars von Trier e Dogma, 2007, disponibile al seguente link: https://www.islanda.it/articoli/bjork-e-lars-von-trier-dancer-in-the-dark-tragenesi-e-divenire-tesi-di-fabio-marchi (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 21 Il cortometraggio è disponibile sul web. Di questo periodo sono poi le opere amatoriali: Notte, dolcezza (NAT, SKAT), a colori, del 1968; Una botta di vita (EN RØVSYG OPLEVELSE), a colori, del 1969; Una partita a scacchi (ET SKAKSPIL), in bianco e nero, del 1969; Perché fuggire da ciò da cui si sa di non

poter fuggire? (HVORFOR FLYGTE FRA DET DU VED DU IKKE KAN FLYGTE FRA?) del 1970, il quale vede altresì la partecipazione di un cast di due attori (ovviamente non professionisti). 22 F. Marchi, Björk e Lars von Trier: Dancer in the dark tra genesi e divenire, cap. III – Il mondo intorno a Lars Von Trier e Dogma, cit. 23 Quando entrò alla scuola di cinema di Copenaghen, all’inizio degli anni ‘80, “… conosceva tutti i classici del cinema. Li conosceva a memoria”, secondo Gislason in S. Björkman, F. von Krusenstjerna, Tranceformer: A Portrait of Lars von Trier, 1997; cfr. T. Belzter, von Trier, Lars, ottobre 2002, disponibile al seguente link: http://www.sensesofcinema.com/2002/great-directors/vontrier/ (ultimo accesso 19 dicembre 2022). 24 Il Filmgruppe 16 (1964-1980) è un’organizzazione fondata nel 1964 da un gruppo di giovani appassionati di cinema che avevano l’ambizione di creare una ‘nuova onda’ nel mondo del cinema amatoriale. Il numero ‘16’ si riferiva al formato della pellicola da 16mm, che in termini amatoriali era il formato ottimale. L’obiettivo era produrre lm di alta qualità in termini di contenuto e tecnica, senza ni commerciali. 25 T. Belzter, von Trier, Lars, cit. 26 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., pp.  16-17, che cita a sua volta (a cura di) S. Björkman, Trier on von Trier, tradotto in inglese da N. Smith, Londra, Faber & Faber, 2003, p. 24. 27 J. Stevenson, Dogme Uncut: Lars von Trier, Thomas Vinterberg, and the Gang that Took on Hollywood, Santa Monica Press, 2003, p. 16. 28 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 17. 29 Histoire d’O è un romanzo erotico dell’autrice francese Anne Cécile Desclos, pubblicato nel 1954 sotto lo pseudonimo di Pauline Réage. Dell’epoca è anche uno script di 50 pagine scritto da von Trier per un lm basato sul romanzo di Leopold von Sacher-Masoch Venere in Pelliccia (Venus im pelz), dal titolo ‘Verdande – af et oversanseligt menneskes bekendelser’ (Verdande – dalle confessioni di un essere umano troppo sensuale) mai realizzato, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., pp. 3031; al posto di tal ultimo progetto, von Trier produsse un Dokumentarövelse (esercizio di documentario) su un pedo lo nonché scrisse una sceneggiatura basata su La loso a nel boudoir ovvero i precettori immorali (La Philosophie dans le boudoir ou Les instituteurs immoraux, con il sottotitolo Dialogues destinés à l’éducation des jeunes demoiselles – ‘Dialoghi destinati all’educazione delle giovani fanciulle’) del Marchese de Sade (1795), ma fu costretto dal suo istruttore a distruggerli e a realizzare un cortometraggio basato su una storia di Boccaccio, cfr. P.  Schepelern, Lars von Triers lm: Tvang og befrielse, Rosinante [2000], 2018, p. 74. 30 E anche da ‘La chatédrale englouite’ e ‘Des pas sur la neige’ di Claude Debussy. 31 S. Buccinnà, Nocturne: Cortometraggio di Lars von Trier del 1980, 27 novembre 2012, disponibile al seguente link: https://www.cine los.it/cinemanews/2012b/nocturne-cortometraggio-di-lars-von-trier-del-1980-38624 (ultimo accesso 17 novembre 2022); cfr. altresì P. Cowie, Variety International Film Guide 1996, Focal Press, p. 40, secondo cui: “von Trier ha vinto due premi consecutivi

all’European Film School competition di Monaco con Nocturne e L’ultimo particolare”. L’ultimo particolare (Den sidste detalje) è un mediometraggio del 1981 diretto da Lars von Trier. 32 S. Björkman, Trier on von Trier, cit., p. 2. 33 S. Björkman, Trier on von Trier, cit., p. 28. 34 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, 1982, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 9. 35 S. Björkman, Trier on von Trier, cit., p. 2. 36 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, 1982, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 9. 37 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 38 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.  21, che continua: “insieme a un premio televisivo speciale di Channel 4 che ne ha garantito la trasmissione nel Regno Unito”; cfr. C. Resta, Lars von Trier, Ecodelcinema, 15 ottobre 2013, disponibile al seguente link: https://www.ecodelcinema.com/lars-von-trier-biogra a- lmogra a.htm (ultimo accesso 17 novembre 2022), secondo cui Immagini di una liberazione vince “il premio come Miglior Film al Munich Film Festival.” 39 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p. 10. 40 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit. p. 7. 41 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p.  10, dove a erma a riguardo che questa è per lui la de nizione di vera arte. 42 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p. 7. 43 S. Björkman, An Inteview About Kingdom, Reocities, giugno 1997. 44 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p.  11: “Sono ancora legato alla drammaturgia tradizionale, quindi, lascio che il lm nisca come inizia. Ho pensato che sarebbe stata un’idea eccellente farlo a ascinare dagli uccelli della sua infanzia e farlo diventare lui stesso un uccello.” 45 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p. 4. 46 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. XV. 47 “Non si imbarcherà su un aereo. Mai. Quando viaggia, raramente si allontana dalla modesta casa di periferia in cui è nato e in cui ha vissuto, saltuariamente, per tutta la vita”, S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, 1999, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 134. 48 J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. XIII. 49 Un fenomeno poi di usosi e battezzato bungee jumping, è all’epoca anticipato nel lm dalla “scena del salto con la corda”: “Un rituale che viene e ettivamente eseguito a Londra, ho sentito […]”. E alla relativa domanda se il

lm riguardasse correre il rischio, von Trier rispose: “Sì, lo puoi dire forte. Io credo fortemente che un lm riguardi fare un lm. I lm che ho fatto hanno riguardato in larga misura il cinema. Immagini di una liberazione è molto incentrato sul voyeurismo, su quante cose terribili ha dovuto a rontare il protagonista prima di farsi cavare gli occhi.”, J. K. Larsen, A Conversation between Jan Kornum Larsen and Lars von Trier, 1984, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., pp. 33-34. 50 L’elemento del crimine attirò anche l’attenzione di Steven Spielberg, che richiese via telex una copia video del lm: “Se Spielberg vuole rubare le mie idee, può farlo con le buone e vedere il lm in sala”, N.  Matheson, The Lars Frontier, New Musical Express, 22 giugno 1985. 51 Lo farà anche per i successivi Epidemic, Europa e per Il regno, Il regno 2 e Il regno Exodus. 52 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 140. 53 T. Beltze, von Trier, Lars, cit. 54 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., pp. 107-108. 55 J. K. Larsen, A Conversation between Jan Kornum Larsen and Lars von Trier, cit. p. 33. 56 “Non mi piace Quarto Potere […] Mi piace molto Welles, ma Quarto Potere è troppo scontato. Preferisco La signora di Shanghai e L’infernale Quinlan”, N.  Andrews, Maniacal Iconoclast of Film Convention, 1991, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 81. 57 M. Tapper, A Romance in Decomposition, 1990, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 73. 58 T. Beltze, von Trier, Lars, cit. 59 M. Berthelius, R. Narbonne, A conversation with Lars von Trier, cit., p. 49. 60 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 140. 61 P. Schepelern, The Making of an Auteur: Notes on the Auteur Theory and Lars von Trier, in (a cura di) Torben Grodal, Bente Larsen, Ibsen Thorving Laursen, Visual Autorship: Creativity and Intentionality in Media, Museum Tusculanum, 2005, p. 111. 62 Dal sito web www.treccani.it: paratèsto s. m. [comp. di para-2 e testo3, sul modello del fr. paratexte]: in critica letteraria, l’insieme di produzioni, verbali e non verbali, sia nell’ambito del volume stesso (quali il nome dell’autore, il titolo, una o più prefazioni, le illustrazioni, i titoli dei capitoli, le note), sia all’esterno del libro (interviste, conversazioni, corrispondenze, diarî, ecc.), che accompagnano il testo vero e proprio e ne guidano il gradimento da parte del pubblico. 63 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 4. 64 Nella foto, von Trier siede con un corvo disteso morto ai suoi piedi. Con riferimento ad Europa, dichiarò: “Inoltre abbiamo utilizzato un sacco di retroproiezioni, perché amo come Hitchcock le usò nei suoi lm come Vertigo. Le retroproiezioni creano un e etto onirico perché sono così irreali. Dividono

l’immagine in di erenti strati che in Europa abbiamo esagerato usando il colore e il bianco e nero”, N. Andrews, Maniacal Iconoclast of Film Convention, cit., p. 82. 65 T. Elsaesser, The Global Author: Control, Creative Constraints, and Performative Self Contradiction, in (a cura di) Seung-hoon Jeong, Jeremi Szaniawski, The Global Auteur: The Politics of Authorship in Twenty-First-Century Cinema, Bloomsbury, 2016, p. 37. 66 T. Beltze, von Trier, Lars, cit. 67 L. von Trier, S. Björkman, Il cinema come dogma. Conversazioni con Stig Björkman, Mondadori, 2001. 68 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p.  137; nell’intervista Lars von Trier ha a ermato altresì come sia il regista Werner Herzog sia il padre del regista danese Bille August avessero utilizzato tale tecnica, che si distingue dall’approccio americano che è, invece, basato unicamente sul potere che una persona avrebbe su un altro essere umano: rispetto alla prima, il regista danese ha considerato quest’ultima tecnica “normale”, nulla di speciale, molto simile in ciò all’approccio europeo. 69 M. Tapper, A Romance in Decomposition, cit., p. 79. 70 J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. XIII. 71 J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. XIII. 72 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p. 9. 73 Tra l’altro, all’inizio del lm appare in alto a sinistra dello schermo il titolo ‘EPIDEMIC’ insieme al simbolo del copyright – ‘©’ – che permane per tutta la durata del lm. Epidemic è inoltre la prima di una serie di collaborazioni tra Lars von Trier e l’attore Udo Kier. 74 Cfr. supra relativamente a Immagini di una liberazione, in cui il registro documentaristico delle immagini inedite sui tedeschi accompagna lo stile manierista della parte narrativa. 75 T. Beltze, von Trier, Lars, cit. 76 Similmente a La Cavalcata delle Valchirie (Walkürenritt) di R. Wagner nella notoria sequenza di Apocalypse Now, lm del 1979 diretto da Francis Ford Coppola. 77 In precedenza, durante una conferenza stampa, Lars von Trier aveva attaccato Erik Clausen, regista danese di commedie popolari incentrate su tematiche di coscienza sociale, nell’intento dichiarato di volerlo aiutare a migliorare la sua opera, trasformando la sua personalità in lm e trasmettendo attraverso di essi il suo messaggio politico piuttosto che nascondersi dietro tradizioni di comicità comuni, L. Schwander, We Need More Intoxicants in Danish Cinema, 1983, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 22. 78 N.  O. Qvist, J. Grund, Von Trier vil ud til folket, in Morgenavisen JyllandsPosten, 3 febbraio 1991. 79 Zentropa, o Zentropa Entertainments, è una società cinematogra ca danese fondata nel 1992 appunto da Lars von Trier e dal produttore Peter

Aalbæk Jensen.  Ha prodotto oltre 70 lungometraggi ed è diventata la più grande società di produzione cinematogra ca della Scandinavia. Nel 1998, von Trier è entrato nella storia facendo sì che la sua società Zentropa diventasse la prima casa cinematogra ca mainstream al mondo a produrre lm pornogra ci hardcore, sotto la controllata Puzzy Power. Tre di questi lm, Constance (1998), Pink Prison (1999) e All About Anna (2005), sono stati realizzati principalmente per un pubblico femminile e hanno avuto un grande successo in Europa, cfr. V. Windeløv, L. Børglum, G. Winther, L. Hendriksen, C. Loshe, M. Nelund, PUZZY POWER MANIFESTO: THOUGHTS ON WOMEN AND PORNOGRAPHY (Denmark, 1998), in (a cura di) Scott MacKenzie, Film Manifestos and Global Cinema Cultures: A Critical Anthology, 2014, pp. 385-388, disponibile al seguente link: https://doi.org/10.1525/9780520957411-111 80 Laura, Luisa e Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario dei lm e delle serie televisive, Zanichelli, 2021. 81 Del periodo è anche Dimension, cortometraggio scritto e diretto da Lars von Trier, uscito nel 2010. Il lm è stato girato dal 1991 al 1997. L’intenzione originaria era di continuare la produzione in segmenti di tre minuti ogni anno per un periodo di 33 anni – a partire dal 1991 – , per un’uscita nale nel 2024. Tuttavia, von Trier perse interesse nel progetto, che è stato accantonato; il prodotto nale è dunque costituito dalle riprese completate al momento dell’abbandono del lm. Vede la partecipazione degli abituali Jean-Marc Barr, Udo Kier e Stellan Skarsgård. 82 “[…] sono stato ispirato da Twin Peaks. Mi sono proprio piaciuti i primi episodi, nonostante io non sia mai stato un grande fan di David Lynch. All’epoca, pensai che Eraserhead fosse un terribile pezzo di kafkiana schifezza. Ma ero davvero pazzo per Twin Peaks e ho realizzato che era così bello, così di erente, perché era un pezzo di lavoro a mano sinistra: Dio sa che a Lynch non fregava proprio di fare una serie TV, aveva solo bisogno di pagare l’a tto. Bene, quindi facciamolo – Twin Peaks è alquanto evidentemente il lavoro di un regista senza la paura di dover essere all’altezza delle aspettative di un grande lungometraggio. In altre parole, avevo il desiderio di realizzare qualcosa di altrettanto piacevole. E ha funzionato. Sulle altre sceneggiature, ci è voluto un anno e mezzo a me e Niels Vørsel per nire il lavoro. Le onde del destino, quello per cui sto per iniziare le riprese, mi ha preso tre anni per scriverlo. Ma abbiamo fatto Il regno in un mese e mezzo, semplicemente lasciando le cose scorrere. Automatismo e piena libertà. È stato molto divertente”, L. K. Andersen, A Stone-Turner from Lyngby, 1994, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 94. 83 T. Beltze, von Trier, Lars, cit. 84 L. Badley, Lars Von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 197, nota 1, che cita a sua volta Lars von Trier, Niels Vørsel, The Kingdom III: EXODUS. Treatment, Summary., Synopses, Notes and Letters to Zentropa Employees for “Kingdom III”, n.d., T I, D:8, Lars von Trier Collection, Danish Film Institute. Il regista ha di recente dichiarato: “Gli attori di The Kingdom Exodus hanno fatto un ottimo lavoro ma io mi sentivo terribile. Era colpa della malattia [il Parkinson] naturalmente, che io all’epoca non sapevo ancora di avere”, cfr. P. Fabi, Lars Von Trier vede vicino il suo ritiro dal cinema a causa del Parkinson, cit. 85 G. D’Amico, The Kingdom Exodus: l’opening della serie diretta da Lars Von Trier, 24 agosto 2022, disponibile al seguente link

https://www. lmpost.it/news/the-kingdom-exodus-lars-von-trier-serie/ acceso 27 agosto 2022).

(ultimo

86 C. D. Thomsen, Control and Chaos, cit., pp. 112-113. 87 L. K. Andersen, A Stone-Turner from Lyngby, cit., pp. 96-97 88 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p.  139: “Vinterberg, ventinove anni, a ascinante, che si riferisce a Lars come al suo più grande e più intelligente fratello ‘che non ha vinto a Cannes’ […] dice, ‘Sembra che le idee del Dogme spaventino le persone più di quanto le allettino. Lars ha spedito gli inviti per conto di Dogme, e non è umile. Li ha mandati a Kurosawa e a Bergman, a grandi personalità del genere. Quando ero a Cannes, ho chiesto a Scorsese. Abbiamo parlato molto del concetto di Dogme, così gli ho detto: ‘Unisciti al club. Salta le barricate. Lui si è messo a ridere ed è stato trascinato via dalle sue guardie del corpo. Fine della conversazione’”. Tra i registi di maggior successo, Steven Spielberg, in un articolo del Time, mostrò apprezzamento per il movimento, entusiasmandosi per la possibilità di realizzare un lm Dogme95. 89 Ci fu anche Anne Wivel che tuttavia abbandonò immediatamente il progetto. 90 Lars von Trier si convertì al cattolicesimo dopo aver scoperto di non essere ebreo, pur se non così sentitamente su sua stessa ammissione. 91 Il Manifesto è disponibile al seguente link: https://www.criterion.com/current/posts/971-manifesto-no-3-europa (ultimo accesso 20 novembre 2022). 92 Il cui logo fu un didietro di un maiale con al centro, inserito nell’ano, un occhio. 93 Il Manifesto imita la formulazione del saggio di François Tru aut del 1954 ‘Une certaine tendance du cinéma français’, pubblicato nei Cahiers du cinéma; cfr. L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.  54, che cita come riferimenti altresì il cinema rivoluzionario sovietico e il neorealismo italiano; cfr. P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, 1998, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p.  118, con riferimento a Gli idioti, Dogme #2 lm, il regista dice di aver cercato di ritrovare un po’ della leggerezza e del divertimento posseduti dai lm non solo della Nouvelle Vague ma anche del periodo da lui de nito ‘Swinging London’, che include i lm dei Beatles dove correvano per Londra trasportando una gigantesca rete da letto. 94 Dogme fu anche il tentativo di un approccio giocosamente collaborativo al cinema che la sua etica d’ispirazione marxista (contraria ai valori individuali e di mercato) e l’enfasi posta dal manifesto su luoghi, situazioni e attori volevano rendere naturale. 95 Manifesto Dogme95, 13 marzo 1995, disponibile al seguente link: http://www.dogme95.dk/dogma-95/ (ultimo accesso 20 novembre 2022). 96 Manifesto Dogme95, cit. 97 Manifesto Dogme95, cit. 98 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., pp.166-167.

99 Originariamente si richiedeva di girare direttamente in Academy 35mm, ma la regola è stata modi cata per facilitare le produzioni a basso costo. 100 Manifesto Dogme95, cit. 101 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p. 55. 102 Dogme95 FAQ, disponibili al seguente link: http://www.dogme95.dk/faq/ (ultimo accesso 20 novembre 2022). 103 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 137. 104 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 138. 105 “Quando riprendo, mi sento come Albert Speer, che era capace di controllare ogni cosa”, J. R. Jensen, Dogme Is Dead! Long Live Song and Dance!, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 130. 106 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p.  139. In maniera simile, D. Lynch ha dichiarato come le abitudini siano essenziali per liberare la sua vena creativa; sul tema si rimanda a Lynch/Oz (2022), documentario diretto da Alexandre O. Philippe, che, attraverso sei cineasti (Rodney Ascher, John Waters, Karyn Kusama, Justin Benson, Aaron Moorhead e David Lowery), esplora l’in uenza che Il Mago di Oz ha avuto sull’opera di Lynch. 107 P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p. 119. 108 P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p. 119. 109 E. Iversen, Tracing the Inner Idiot, 1998, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 126. 110 Vinterberg ha ‘confessato’ di aver coperto una nestra durante le riprese di una scena del lm, portando un oggetto di scena sul set e utilizzando una ‘illuminazione speciale’. Von Trier è stato accusato di aver utilizzato una musica di sottofondo (Le Cygne di Camille Saint-Saëns) nel lm Gli idioti, quindi in contrasto con la regola #2 del Voto di Castità; lui stesso però ha precisato: “No […] Abbiamo usato un’armonica, di quelle che si potevano comprare ai tempi attraverso il Mickey Mouse Magazine, e abbiamo semplicemente portato l’armonicista quando c’erano scene con la musica. Nella scena della foresta, si trovava lì con un microfono mentre giravamo la scena, e il tecnico del suono mescolava la musica e il parlato mentre giravamo. Quando domani faremo i titoli di coda, suonerà allo stesso modo mentre li giriamo”, C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 121. 111 Che, come sopra ricordato, avrà come secondo epilogo Dancer in the Dark.

lm Gli idioti e come

112 J. R. Jensen, Dogme Is Dead! Long Live Song and Dance!, cit., p. 130. 113 E. Iversen, Tracing the Inner Idiot, cit., p. 127. Nell’intervista, Lars von Trier a erma altresì di aver preso ispirazione dal lm francese Blow-Out e dal lm danese Weekend; il regista si so erma anche sull’uso della camera condotta a mano, tecnica ispirata dalla serie tv americana Homicide: Life on the Street. 114 Più precisamente una Sony VX 1000; von Trier ha dichiarato: “Il vantaggio di girare in video è che puoi registrare scene molto lunghe – abbiamo creato scene che arrivavano no a un’ora e le abbiamo tagliate

successivamente”, E. Iversen, Tracing the Inner Idiot, cit., p. 127. 115 Il regista raggiunse la cittadina francese in un vecchio camper che si ruppe due volte durante il viaggio, S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 135. 116 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p.  65; il lm, infatti, registra venti secondi di e ettiva penetrazione, cfr. S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 140. 117 L. von Trier, S. Björkman, Il cinema come dogma. Conversazioni con Stig Björkman, cit. 118 Questa oscillazione, tra “e etto realtà” e arti cio meta lmico, trasforma Gli idioti in una “indagine sullo status” e sulla “grammatica” del cinema, cfr. L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 63. 119 J. Jargil, The Humiliated, 1998. 120 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 67, che cita L. von Trier, J. Albinus, Commentary. The Idiots (Idioterne). Dogme Kollektion 1-4, Disco 2, DVD, Electric Parc, 2005. 121 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 122 A. Kaufman, Lars von Trier Comes Out of the Dark, 2000, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., pp.  156-157; cfr. M. Tapper, A Romance in Decomposition, cit., p.  79: “La mia soluzione è il fascino, e ho cercato di coltivare il mio fascino per il cinema sviluppando e rinnovando la mia tecnica per ogni nuovo lm che faccio. Come lei stesso ha visto, non ci sono due lm che si assomigliano. In Europa, per esempio, uso molto le proiezioni frontali e posteriori, la doppia esposizione e i movimenti di macchina chiaramente coreografati per rompere l’inquadratura realistica. Naturalmente prendo in prestito, per un momento, la macchina da presa di Hitchcock e poi la colloco in un paesaggio di Tarkovskij, ma in questo processo succede qualcosa”. 123 P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., pp. 117-124. 124 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.  56, che prosegue ricordando come la s da è proseguita con Dogme #3 – Mifune (1999) di Søren Kragh-Jacobsen, acclamato per aver “umanizzato” il movimento, mentre il Dogme #4 – Il re è vivo (The King Is Alive, 2000) di Kristian Levring, feroce e visivamente sorprendente, girato nel deserto della Namibia, ha dimostrato la portata artistica del mezzo digitale. Il Dogme diventa internazionale con il Dogme #5 – Lovers di Jean-Marc Barr (Francia, 1999) – che è stato attore protagonista in Europa –, mentre il primo lm italiano è il Dogme #11 – Diapason (2001) di Antonio Domenici, che racconta, in una Roma notturna e inquietante, le storie parallele di un gruppo di immigrati di diverse nazionalità e di un sessantenne direttore di produzione che deve convincere una giovane attrice a partecipare ad un lm. 125 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 141. 126 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 143. 127 “IL CODICE DOCUMENTARISTICO PER IL “DOGUMENTARISMO”: 1. Tutti i luoghi del lm devono essere rivelati. (Questo deve essere fatto inserendo un testo nell’immagine. Questo costituisce un’eccezione alla regola

numero 5. Tutto il testo deve essere leggibile). 2. L’inizio del lm deve delineare gli obiettivi e le idee del regista. (Questo deve essere mostrato agli ‘attori’ e ai tecnici del lm prima dell’inizio delle riprese). 3. La ne del lm deve consistere in due minuti di parola libera della ‘vittima’ del lm. Questa ‘vittima’ è l’unica a dare consigli sul contenuto e deve approvare questa parte del lm nito. Se non c’è opposizione da parte di nessuno dei collaboratori, non ci saranno né ‘vittima’ né ‘vittime’. Per spiegare questo, verrà inserito un testo alla ne del lm. 4. Tutte le clip devono essere contrassegnate con 6-12 fotogrammi neri. (A meno che non si tratti di clip in tempo reale, cioè di clip dirette in una situazione di ripresa a più telecamere). 5. È vietata la manipolazione del suono e/o delle immagini. Sono assolutamente vietati i ltri, luci creative e/o gli e etti ottici. 6. Il suono non deve mai essere prodotto in modo esclusivo rispetto alla ripresa originale o viceversa. In altre parole, le colonne sonore aggiuntive, come la musica o i dialoghi, non devono essere inserite in un secondo momento. 7. La ricostruzione del concetto o della regia degli attori non è accettabile. È vietato aggiungere elementi come nel caso della scenogra a. 8. È vietato l’uso di telecamere nascoste. 9. Non devono mai essere utilizzate immagini d’archivio o lmati prodotti per altri programmi. Lars von Trier, Zentropa Real, maggio 2001-07-25. © ZENTROPA REAL ApS, 2001” 128 Dogme95 FAQ, cit. 129 A. Kaufman, Lars von Trier Comes out of the Dark, cit., p. 155. 130 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=K1zRrUFhqUM (ultimo accesso 20 novembre 2022). 131 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 132 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit.; “Temo per le prossime generazioni. Ho sia gli che nipoti con tutte le catastro che ci aspettano sulle scale. Corona, populismo di destra. Ma tutte queste forze opposte, soprattutto Internet, Facebook e simili, hanno dimostrato di essere una bestia che non si può tenere a freno […] gran parte del nostro tempo oggi lo passiamo a guardare i display, il mezzo che una volta era il cinema e che è in grado di fare così tante cose. Se si considera tutto questo una nzione, va bene, ma è troppo pericoloso non insegnarlo.”, C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 133 C. Higgins, Lars von Trier Acts as a Slave to Controversy, The Guardian, 17 maggio 2005, disponibile al seguente link: https://www.theguardian.com/world/2005/may/17/usa.cannes2005 (ultimo accesso 30 novembre 2022). 134 Disponibile al seguente link: https:// lmmakermagazine.com/2164revitalized-von-trier/#.Y4e3ky9aYdU (ultimo accesso 30 novembre 2022). 135 G. McNab, Interview with Lars von Trier, in The Boss of It All. Press Booklet, 2006, disponibile al seguente link: https://www.yumpu.com/en/document/view/18385758/the-boss-of-it-all-pressmaterial-trustnordisk (ultimo accesso 30 novembre 2022). 136 Il termine inglese ‘screwball comedy’ (letteralmente commedia svitata o commedia ad e etto) si riferisce alla commedia cinematogra ca statunitense

degli anni Trenta e primi anni Quaranta. 137 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 132. 138 Rassicurando il pubblico che non ci sarà “nessuna predica o in uenza sull’opinione”, la voce fuori campo utilizza una tecnica brechtiana per richiamare l’attenzione sulla presunta mancanza di signi cato del lm, recuperando la memoria dei narratori pomposi e invadenti, degli ipnotizzatori e dei predicatori dei lavori del passato, cfr. L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p. 135. 139 G. McNab, Interview with Lars von Trier, in The Boss of It All. Press Booklet, cit. 140 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit., in cui il regista ha dichiarato altresì: “abbiamo fatto la stessa cosa con il suono. Abbiamo usato ltri controllati dal computer con un randomizzatore.” 141 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.139. 142 D. Bordwell, Another Pebble in Your Shoe, in Observations on Film Art. David Bordwell’s Website on Cinema, 13 dicembre 2006, disponibile al seguente link: http://www.davidbordwell.net/blog/2006/12/13/another-pebble-in-your-shoe/ (ultimo accesso 30 novembre 2022). 143 R. Cline, The Boss of It All, in Shadows on the Wall, 15 ottobre 2006, disponibile al seguente link: http://www.shadowsonthewall.co.uk/06/art-s.htm (ultimo accesso 30 novembre 2022). 144 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p. 138. 145 S. Foundas, Who’s the Boss?, in The Village Voice, 15 maggio 2007, disponibile al seguente link: https://www.villagevoice.com/2007/05/15/whos-theboss-2/ (ultimo accesso 30 novembre 2022). 146 G. McNab, Interview with Lars von Trier, in The Boss of It All. Press Booklet, cit. 147 La casualità che ‘rinfresca’ l’immagine e il suono ogni pochi secondi richiede agli spettatori di andare a caccia del soggetto o del ‘signi cato’ all’interno dell’inquadratura, recuperando continuamente i propri orientamenti e il lm. Per esaltare ulteriormente questa attività, pochi giorni prima dell’uscita de Il grande capo nelle sale danesi, von Trier introudsse un gioco chiamato ‘Lookey’ che s dava gli spettatori a individuare i ‘disturbi visivi’ (piantati) nella speranza di risolvere ‘l’unico grande difetto’ di un lm: “un media unidirezionale con un pubblico passivo. Per quanto mi piaccia dettare la trama e controllare l’esperienza, vorrei che il pubblico potesse partecipare attivamente…”, P.  Lundberg, Von Trier Unveils ‘Lookey’, in Variety, 6 dicembre 2006, disponibile al seguente link: https://variety.com/2006/scene/marketsfestivals/von-trier-unveils-lookey-1117955186/ (ultimo accesso 30 novembre 2022). 148 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 149 Questo è confermato da von Trier sia nel lm stesso, nella versione n. 5 di The Perfect Human, sia nella recente intervista di C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit.

150 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 151 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 152 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 153 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit.; von Trier cita Dostoevskij, che scriveva di venerdì mattina appena prima della consegna, non sapendo invece del metodo di Tolstoj consapevole però che Guerra e Pace fosse uno dei più bei romanzi che avesse mai letto. 154 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 155 “Posso descriverlo così: ho visto una versione svedese di Spettri [Gengångare, 1881] di Ibsen. Ibsen era contemporaneo di Strindberg. Mi piace molto Strindberg. Henrik Ibsen ha quasi reinventato la drammaturgia e l’ha resa più e ciente. Quando senti due/tre volte durante il primo atto che l’assicurazione contro gli incendi dell’orfanotro o non era stata pagata, si può uscire fuori per due ore e portare la testa a zonzo. Poi all’inizio del terzo atto: ‘L’orfanotro o sta bruciando!’. È così semplice. L’ha usato ogni volta […] è stato un successo gigantesco”, C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 156 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit., che prosegue: “a un certo punto [Strindberg] era alchimista e voleva fare l’oro”; “Se dovessi fare il triangolo nordico, sarebbe Strindberg in Svezia, Munch in Norvegia e Dreyer in Danimarca.”, cfr. Kristian Ditlev Jensen, Nordic Nonsense, Nordisk Film & TV Fond, in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 33, nota 56. Tuttavia, è stata notata una connessione evidente tra Il piccolo Eyolf (Lille Eyolf , 1894), un’opera teatrale di Ibsen, e la vicenda che apre Antichrist. Nell’opera citata di Ibsen, si scopre, infatti, che il glio disabile di una coppia è caduto da un tavolo da neonato mentre i due stavano facendo sesso, cfr. S. E. Gullestad, Crippled Feet: Sadism in Lars von Trier’s Antichrist, in The Scandinavian Psychoanalytic Review 34, no. 2, 2011, p.  81; Schepelern sostiene tuttavia che von Trier non conosceva questa opera teatrale, cfr. P.  Schepelern, Antichrist I-V. Unpublished manuscript, Lars von Trier Collection, Danish Film Institute, 2015, capitolo 3, Sessualità, p. 27. 157 “Ammiro molto i registi che lo hanno fatto [rompere con la drammaturgia tradizionale], ma questi sono lm molto esoterici. Lo specchio di Tarkovskij è incomprensibile, per usare un eufemismo”, L. K. Andersen, A Stone-Turner from Lyngby, cit., p. 96. 158 Von Trier cita altresì lo scrittore danese Klaus Rifbjerg. 159 P.  Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p.  119, che continua: “L’essenza delle mie considerazioni drammaturgiche è che io voglio eliminare le costrizioni più super ue e abituali e sfuggire alla rigidità, ma allo stesso tempo il cinema è un mezzo di comunicazione. Anche Joyce voleva sfuggire alla rigidità, ma a poco a poco diventa di cile comunicare con gli altri oltre che con se stessi. L’Ulisse mi è piaciuto molto, ma Il risveglio di Finnegan non è una lettura facile: bisogna padroneggiare almeno quattro o cinque

lingue e avere una notevole conoscenza degli usi e costumi di diversi gruppi culturali.” 160 J. Arnone, Ranked: Lars von Trier’s Filmography, in Under The Radar Magazine, 25 marzo 2021, disponibile al seguente link: https://www.undertheradarmag.com/lists/ranked_lars_von_triers_ lmography (ultimo accesso 13 dicembre 2022). 161 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 162 R. Calasso, Allucinazioni Americane, Adelphi, 2021, p. 103, il quale continua a p.  104: “Se le Convenzioni e i Generi hanno scelto di migrare nel cinema, dev’essere perché la forma del cinema è la più vicina all’essenza di quello che oggi si manifesta. E che cosa si manifesta? Il feticismo totale.” 163 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 164 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 154. 165 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., pp. 159-160. 166 Il titolo del lm è forse un’allusione al duetto Fred Astaire/Cyd Charisse Dancing in the Dark nel lm The Band Wagon del 1953 diretto da Vincente Minnelli. 167 G. Smith, Dance in the Dark, 2000, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 147-148: “Dopo aver realizzato Europa, ne avevo abbastanza dei craning shots. Era così tecnico che ero arrivato alla ne della mia vita. Se fossi tornato allo stile precedente, avrei perso la vita. Pensavo: ‘Che tipo di musical farebbe Selma nella sua testa?’ E pensavo che non sarebbe stato questo genere perfetto. Avevamo molte teorie, che poi non sono state confermate, ma l’idea era quella di prendere le cento videocamere non professionali che potevamo permetterci e di posizionarle tutt’intorno; l’idea era quella di coprire il ballo in una volta sola, in modo che il canto potesse essere in diretta, e di fare tutto una volta sola, accettando tutti gli errori. I ballerini potevano andare praticamente ovunque; il ballo non aveva un frontale e abbiamo scoperto che questa poteva essere una buona idea. Se ne possono vedere piccoli pezzi qua e là. Si percepisce davvero la di erenza tra una transizione fatta tagliando tra le due telecamere che riprendono lo stesso movimento, da una all’altra, e una in cui si tratta di due riprese diverse. È una di erenza enorme. Soprattutto nell’intensità. Ma abbiamo scoperto che cento telecamere non sono su cienti. Il risultato, purtroppo, è una via di mezzo. Un montaggio troppo veloce, perché le immagini non sono durate abbastanza. Avremmo dovuto disporre di un paio di migliaia di telecamere […] La cosa positiva che posso dire è che per il nostro budget abbiamo ottenuto molto. Un ballo come quello che abbiamo fatto sul treno avrebbe normalmente richiesto due settimane di riprese. Noi l’abbiamo fatto in due giorni. Prima avevamo le cento telecamere sul treno, poi le abbiamo spostate a terra. Ma credo ancora che questo modo di pensare abbia un futuro, che vogliamo la performance dal vivo. Sono molto sicuro.” 168 G. Smith, Dance in the Dark, cit., p. 147. 169 G. Smith, Dance in the Dark, cit., p.  200, che continua: “Il video è una

rivoluzione perché tutti possono fare lm con pochi soldi e questo signi ca che possono essere realizzati molti lm che altrimenti non avremmo visto. Ma dirò una cosa: tutti dicono ‘useremo il video quando il video assomiglierà al cinema’. Ma questo non è davvero logico, perché le tecniche del cinema c’erano già prima. Sono sicuro che vedremo lm che non assomigliano né al lm su pellicola né al video di oggi, ma a qualcosa di completamente diverso”. 170 A. Kaufman, Lars von Trier Comes out of the Dark, cit., pp. 156-157. 171 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  16; von Trier rimase in ospedale per un solo giorno: si registrò, smise di pendere pillole e gli venne comunicato che avrebbe dovuto aspettare una settimana per vedere uno psichiatra. Nel frattempo, gli era stata assegnata una terapia di gruppo. Il giorno dopo, il regista lasciò l’ospedale e iniziò a vedere uno psicologo cognitivo, N.  Thorsen, Geniet – Lars von Triers liv, lm og fobier, Politiken, 2011, p.  364; proprio con riferimento ad Antichrist, il regista ha dichiarato: “[…] l’intera faccenda di questa terapia cognitiva è molto sarcastica dal mio punto di vista. Mi sono sottoposto alla stessa per alcuni anni e la terapia che [Dafoe] sta facendo nel lm – in un modo molto brutto – è la terapia cognitiva. La cosa molto moderna di queste persone è che per loro Freud è morto e non ha più signi cato, cosa che non so. So qualcosa di Freud ma non saprei dire se è morto o no”, E. Fanning, Antichrist was Lars’ ‘fun’ way of treating depression, 26 luglio 2009, disponibile al seguente link: https://www.independent.ie/entertainment/movies/antichrist-was-lars-fun-way-oftreating-depression-26553823.html (ultimo accesso 17 dicembre 2022). 172 L Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 26. 173 “Il lm si basa sul fatto che ho osservato le piante e tutto il resto, gli esseri viventi e quanto so rono… che è davvero una brutta idea, la vita. E soprattutto la vita umana, perché… [una cosa] è essere un animale, essere torturato e fatto so rire per tutta la vita e poi morire alla ne, ma essere un uomo è… molto peggio, perché prima di tutto l’uomo sa che morirà, e inoltre… che non è mortalmente giusto uccidere altri esseri – o comunque ci possono essere dei problemi emotivi – e sapere che per ogni passo che facciamo uccidiamo molti animali, o piante, o altro, e per ogni respiro che facciamo uccidiamo. Quindi è… che essere umani è davvero un brutto scherzo. Non c’è niente di nuovo in questo, ma quando si parla di dramma è… è molto [lungo sospiro]. Se fosse un lm – la vita – un lm molto ben scritto, che è… ora, sarebbe… un lm horror di sostanza”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 176. 174 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p. 167. Inoltre gli horror, in particolare quelli giapponesi, sono secondo von Trier “una delle forme più aperte di lm, nel senso che la narrazione non è così importante come negli altri lm. In realtà, se si cambia la musica con una musica non da lm horror, questi lm potrebbero essere visti come lm d’arte, perché possono essere molto lenti”; Lars von Trier ha menzionato di aver visto La nestra di Tarkovskij con una musica horror, il che l’ha reso appunto un lm terri cante, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., 199-200. 175 L. Coulthard, C. Birks, Desublimating Monstrous Desire: The Horror of Gender in New Extremist Cinema, in Journal of Gender Studies 25, n. 4, 2016, p. 463-464.

176 I lm di von Trier dal 1998 al 2006 si sono avvalsi di una critica sempre più palese e multilivello dell’imperialismo culturale americano, a rontando temi come la pena di morte, le ingiustizie del neoliberismo, l’ostilità verso gli immigrati, la violenza delle armi, il razzismo e l’eredità della schiavitù, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 2. 177 Dopo che Dogville fu dedicato a Katrin Juliet Cartlidge (la Dodo ne Le onde del destino), morta prima di poter completare il lm, Manderlay venne dedicato al produttore e attore Humbert Balsan, morto suicida, il quale è stato tra i co-produttori del lm. 178 Su Grace – che in Manderlay sarà interpretata da Bryce Dallas Howard piuttosto che da Nicole Kidman – il regista dirà: “Riesco ancora a seguirla. Credo che sia molto simile a me. Non era tanto me in Dogville, quando ha ucciso l’intera città, ma potevo capirla. Ma in Manderlay la capisco no in fondo”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p. 165. 179 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 180 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 181 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 2. 182 P.  Schepelern, Forget About Love: Sex and Detachment in Lars von Trier’s Nymphomaniac, cit. 183 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 184 La regola dei 180° è una linea guida per le relazioni spaziali tra due personaggi sullo schermo: si imposta un asse immaginario, o linea dell’occhio, tra due personaggi o tra un personaggio e un oggetto e si mantiene la telecamera su un lato di questo asse immaginario, in modo che i personaggi mantengono la stessa relazione sinistra / destra tra loro al ne di garantire ordine e facilità di lettura alle riprese. 185 L. K. Andesen, A Stone-Turner from Lyngby, cit., 1994, p.  93: “Quando si realizza la scena, di solito si ha un’idea ssa di come gli attori interpreteranno la stessa: tutti in piedi nello stesso momento dallo stesso lato della stanza, con il bicchiere in mano nello stesso modo, eccetera. Abbiamo chiesto loro di recitare la stessa scena cinque volte in cinque modi diversi – con allegria, con malinconia, eccetera – e ogni volta in punti diversi della stanza. Abbiamo poi intercalato queste diverse riprese, e chi le guarda le percepisce come riprese perfettamente normali. Creerete i collegamenti mancanti nel vostro cervello. Ma dal punto di vista della performance, ci si addentra in un territorio che rende i personaggi più interessanti.” 186 A. Kaufman, Lars von Trier Comes out of the Dark, cit., p. 154. Questo non signi ca tuttavia non avere alcun piano di partenza: “Ho incoraggiato il cast a inventare le proprie battute. Nel complesso, il mio approccio iniziale era piuttosto da scuola materna: ‘Venite, vediamo cosa sapete fare e come vi sentite’. E naturalmente tutto si è bloccato, come molti sono stati costretti a fare prima di me. Gli attori hanno bisogno di mattoni con cui giocare, e infatti abbiamo scartato tutti i frammenti improvvisati che avevamo realizzato senza un piano. L’improvvisazione senza un piano è come il tennis senza palle da tennis.”, P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p. 119.

187 Così Robby Müller, direttore della fotogra a per Le onde del destino e Dancer in the Dark, in S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 141. 188 T. Alling, Sightseeing with the Holy Ghost, 1994, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p.  29. In maniera molto interessante von Trier ha continuato a spiegare su L’elemento del crimine: “La produzione del suono non viene e ettuata se non dopo aver e ettuato le riprese, il che apre ulteriori possibilità per la creazione di determinate espressioni. Questo in uisce sulla recitazione, in quanto nella fase di post-sincronizzazione siamo in grado di lavorare contro la recitazione nelle immagini. Abbiamo lavorato in questo modo per tutto il processo ed è per questo che Elphick non deve conoscere il prodotto nito. Oltre a questo, c’è anche un monologo interiore che Niels Vørsel e io abbiamo scritto per la prima volta al termine delle riprese. Alla ne della giornata le persone devono superare la loro vanità. Le cose con cui lavoriamo qui sono, a dispetto di tutto il resto, molto più grandi della vanità di una sola persona”. 189 L. K. Andersen, A Stone-Turner from Lyngby, cit., p. 93. 190 P.  Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p.  120, che continua: “Per molti versi, le sei settimane di riprese sono state l’esperienza cinematogra ca più intensa che abbia mai avuto, anche perché ho manovrato io stesso una delle cineprese e le mie riprese costituiscono l’80 o il 90% del lm nito, sono stato freneticamente impegnato per tutto il tempo e praticamente non ho dormito la notte.” 191 P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p. 120. 192 G. Smith, Dance in the Dark, 2000, cit., p. 150. 193 B. Brooks, Lars von Trier: “I think working with actors is a little bit how a chef would work with a potato…”, in IndieWire, 20 ottobre 2009, disponibile al seguente link: https://www.indiewire.com/2009/10/lars-von-trier-i-think-working-with-actorsis-a-little-bit-how-a-chef-would-work-with-a-potato-246359/ (ultimo accesso 16 dicembre 2022). 194 Von Trier stesso ha interpretato tre ruoli diversi per la sua prima trilogia Europa. 195 G. Mohney, Kirsten Dunst on Lars von Trier & Feeling Free, in Elle, 11 novembre 2011, disponibile al seguente link: https://www.elle.com/culture/celebrities/news/a7745/kirsten-dunst-on-lars-von-trierfeeling-free-32465/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022); A. Chitwood, Jean-Marc Barr Talks Lars von Trier’s Nymphomaniac, in Collider, 25 gennaio 2013, disponibile al seguente link: https://collider.com/jean-marc-barr-nymphomaniacinterview/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022); N.  M. Smith, Willem Dafoe on Reuniting With Wes Anderson, Working With Lars von Trier and Why He Doesn’t Want to Be Famous, in IndieWire, 6 marzo 2014, disponibile al seguente link: https://www.indiewire.com/2014/03/willem-dafoe-on-reuniting-with-wes-andersonworking-with-lars-von-trier-and-why-he-doesnt-want-to-be-famous-29310/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 196 C. Heath, Lars and His Real Girls, in GQ, 17 ottobre 2011, disponibile al seguente link: https://www.gq.com/story/lars-von-trier-gq-interview-bjork-john-creilly-kirsten-dunst-nicole-kidman-extras (ultimo accesso 29 dicembre 2022); B. van

Hoeij, Charlotte Gainsbourg On Being Lars von Trier’s ‘Nymphomaniac’: ‘I was disturbed, embarrassed and a little humiliated…’, in IndieWire, 25 marzo 2014, disponibile al seguente link: https://www.indiewire.com/2014/03/charlottegainsbourg-on-being-lars-von-triers-nymphomaniac-i-was-disturbed-embarrassed-and-alittle-humiliated-28659/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 197 R. Fletcher, The 8 most notorious feuds between stars and their directors, in digitalspy.com, 6 maggio 2018, disponibile al seguente link: https://www.digitalspy.com/movies/a818243/movie-feuds-bruce-willis-megan-fox/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022); l’attrice ha dichiarato, a proposito di von Trier, che il regista ha mandato in frantumi un monitor mentre era accanto a lei, nonché “…si possono prendere registi piuttosto sessisti come Woody Allen o Stanley Kubrick e comunque sono loro a dare l’anima ai loro lm. Nel caso di Lars von Trier non è così e lui lo sa. Ha bisogno di una donna per dare l’anima al suo lavoro. E le invidia e le odia per questo. Così deve distruggerle durante le riprese. E nascondere le prove”, C. Heath, Lars and His Real Girls, cit. 198 E. Nyren, Björk Shares Experience of Harassment by Danish Director: He Created ‘an Impressive Net of Illusion’, in Variety, 15 ottobre 2017, disponibile al seguente link: https://variety.com/2017/ lm/news/bjork-sexual-harassment-danishdirector-1202590429/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022); C. Feil, With The Kingdom: Exodus, Lars von Trier Faces His Mortality as Only He Can, in Primetimer, 28 novembre 2022, disponibile al seguente link: https://www.primetimer.com/features/lars-von-trier-the-kingdom-exodus-mortality (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 199 X. Brooks, Nymphomaniac stars: ‘Lars isn’t a misogynist, he loves women’, in The Guardian, 6 febbraio 2014, https://www.theguardian.com/ lm/2014/feb/06/nymphomaniac-charlottegainsbourg-stacy-martin-lars-von-trier (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 200 ABC Radio National, Interview with Nicole Kidman, actor, ‘Margot At The Wedding’, 21 febbraio 2008, disponibile al seguente link: https://www.abc.net.au/radionational/invalid/movietime/interview-with-nicolekidman-actor-margot-at-the/3292346 (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 201 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 202 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 203 Dopo l’esperienza de Il regno ed Il regno 2, da Le onde del destino in poi, von Trier terminò la collaborazione con Niels Vørsel. 204 Verdensuret (Psykomobile #1: The World Clock) fu un altro progetto del genere, de nito “un ‘happening’ drammatico”, in cui venivano assegnati i personaggi a cinquantanove attori in venti stanze che cambiavano umore (rabbia, malinconia, gioia, lussuria) in base a segnali controllati dai movimenti di una colonia di formiche in Messico”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit. p. 114 che cita a sua volta L. von Trier, J. Albinus, Commentary, cit. 205 S. Savage, Lars Von Trier Invites You to Interpret Six Artworks for ‘Gesamt’ Film Project, in IndieWire, 13 agosto 2012, disponibile al seguente link: https://www.indiewire.com/2012/08/lars-von-trier-invites-you-to-interpret-sixartworks-for-gesamt- lm-project-202184/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 206 Quattro persone derubano una banca e sfruttano le celebrazioni del

Capodanno per mascherare l’esplosione. 207 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 208 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., pp. 114-115. 209 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 210 S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 138. 211 Jack è un architetto fallito; Lars von Trier, da bambino, era rimasto colpito da un parente stretto della madre, molto ammirato, che era un architetto, e sognava di diventarlo, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 163, nota 64. 212 J. Burke, Dark days for lm-making world as depression lays Von Trier low, in The Guardian, 13 maggio 2007, disponibile al seguente link: https://www.theguardian.com/world/2007/may/13/ lm. lmnews (ultimo accesso sabato 3 dicembre 2022). 213 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., pp. 35-36. 214 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  14. Ne consegue che il von Trier dell’ultimo periodo a ronta nuovamente l’espressionismo e le in uenze del cinema noir della trilogia Europa infestata dall’Olocausto così come la sua ossessione di lunga data per l’estetica wagneriana e, riavvolgendo ancora di più il nastro, le atmosfere e i temi dei suoi lm studenteschi e dei suoi due romanzi inediti. Gli scritti inediti di von Trier sono rivelatori, in particolare uno dei due romanzi che scrisse, insieme a diversi altri pezzi in prosa tra i diciannove e vent’anni, prima di dedicarsi al cinema: Eliza eller Den lille bog om det dejlige og det tarvelige (Eliza, o Il piccolo libro sul delizioso e il volgare, 1976). Il romanzo, infatti, include il motivo della seduttrice stregonesca, una scena di masturbazione femminile in cui si sente il pianto di un bambino fuori campo, una sequenza in cui il narratore maschile crede di essere stato stregato, un’altra in cui vede del sangue e teme la castrazione durante il rapporto sessuale con una donna seducente e un’altra ancora in cui incontra il giovane glio biondo della seduttrice, i cui piedi, scopre con orrore, sono deformati per essere stato costretto a indossare le scarpe in modo sbagliato, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 31. 215 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 8. 216 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 212. 217 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  X; “Nel percorso di realizzazione di Nymphomaniac, avevo letto molto. Ho letto tutto quello che ha scritto Dostoevskij. Ora sto leggendo Anna Karenina di Leo Tolstoj, di cui mi è piaciuto moltissimo Guerra e pace. C’è una tradizione molto più lunga nella scrittura di libri, e mi ha fatto molto piacere leggere Joyce e Proust. Molte delle cose che gli scrittori usano nei libri sono fantastiche; sto cercando di vedere se riesco a tradurle nei lm”, S. Kemp, The novel that inspired the unique style of Lars von Trier, in Far Out, 19 ottobre 2021, disponibile al

seguente link: https://faroutmagazine.co.uk/the-novel-inspired-the-style-of-lars-vontrier/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 218 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. X. 219 Nils Thorsen, Von Trier tørlagt, nøgen og på røven, in Politiken, 19 novembre 2014, disponibile al seguente link: https://politiken.dk/magasinet/interview/art5555223/Von-trier-tørlagt-nøgen-og-pårøven (ultimo accesso 29 dicembre 2022), come tradotto in inglese in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 104, nota 19. 220 Nils Thorsen, Von Trier tørlagt, nøgen og på røven, cit., come tradotto in inglese in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 105, nota 20. 221 Nils Thorsen, Von Trier tørlagt, nøgen og på røven, cit., come tradotto in inglese in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 105, nota 21. 222 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 111. 223 E ancora: “In Nymphomaniac, ciò avverrà attraverso una storia cornice in cui il personaggio femminile centrale del lm racconta a un ascoltatore la sua vita erotica. In realtà questo signi ca che tutti i personaggi, i commenti e i pensieri della storia principale possono essere sviluppati in immagini. In quanto tale, diventa un elemento stilistico importante, spesso illustrato dall’uso di materiale d’archivio. Il materiale d’archivio, a di erenza dei capitoli del lm – che sono presentati con uno stile adeguato a ciascun capitolo – apparirà nella forma completamente casuale in cui è stato prodotto (in termini di colore, supporto di registrazione, contrasto, ecc.) e quindi si distinguerà dalla parte principale del lm e insieme ad essa creerà una sorta di collage. La mia idea è quella di realizzare un lm molto più libero rispetto, ad esempio, a Melancholia, sia dal punto di vista dinamico che estetico. Quindi, in un certo senso, un lm naturalistico con uno strato poetico nato dalla storia principale del lm, con lo scopo di aggiungere, elaborare e arricchire le immagini, così come i personaggi e la narrazione. Immagino un lm esplosivo! Un lm che, utilizzando gli strumenti dei migliori romanzi, permetta una prospettiva più profonda. Un lm monumentale sul desiderio erotico femminile, con rivendicazioni e controdeduzioni, angolazioni contrastanti e osservazioni morali – o forse immorali. Attraverso la storia principale, diamo spazio alle argomentazioni più stridenti e allestiamo le tesi più selvagge, perché la storia principale lascia spazio alla discussione su tutto: il lm stesso, gli esseri umani, la vita!”, L. von Trier, Nymphomaniac – Director’s Comments, aprile 2012, inedito, in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 103. 224 Come espresso nel ‘Director’s Confession’, Antichrist, il più importante della sua carriera, “è stato una sorta di terapia ma anche una ricerca, un test per vedere se avrei mai fatto un altro lm”, cfr. Lars von Trier, Director’s Confession, in Antichrist o cial website, 18 maggio 2009, disponibile al seguente link: http://www.antichristthemovie.com; con capitoli intitolati ‘Grief’, ‘Pain’ e ‘Despair’, la narrazione ha assunto una forma simile alla confessione psicoanalitica, e i critici hanno suggerito che von Trier avesse sublimato il suo trauma in una sorta di cinema artaudiano di crudeltà inteso come terapia per il

pubblico, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 8. Von Trier si lamentò, inoltre, di aver scritto come prima bozza di Antichrist solo 47 pagine, mentre per il resto dei suoi lm si andava di solito intorno alle 200 (la sceneggiatura nale pubblicata ammontò a 72 pagine); sulla sempli cazione delle sue storie, von Trier però disse: “deriva molto dal lavoro di Carl Th. Dreyer, che ammiro molto. Lavorava anni e anni alle sue sceneggiature, iniziava con cinquecento pagine e niva con venti. Quindi per me questa ricerca dell’essenza si trova lavorando a stretto contatto con gli attori. Quando si improvvisa, bisogna sapere esattamente cosa si sta facendo – non si può andare da una parte o dall’altra, bisogna avere ben chiaro dove si sta andando, quindi si inizia con un’impostazione molto semplice. Questa è la parte del processo che ritengo interessante. La trama si riduce in gran parte alla matematica e il mio compito è quello di riversarvi la mia essenza.”, cfr. G. Smith, Dance in the Dark, cit. pp. 150-151. 225 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 105. 226 Sebbene leggesse voracemente da giovane, era rimasto per trent’anni senza leggere un libro, N. Thorsen, Von Trier tørlagt, nøgen og på røven, cit., come tradotto in inglese in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 105, nota 22. 227 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit. p. 109. 228 In contrasto a J. Hallund, V. Wiedemann ha incominciato come un amanuense per Melancholia, contribuendo progressivamente sempre di più al dialogo e al contenuto, no a diventare supervisore della storia di Nymphomaniac, con il ruolo di controllare la continuità e i dettagli della sceneggiatura. Wiedemann, introdotta per sopperire alla mancanza del metodo ‘stupefacente’ precedentemente adottato, fu una sorta di ‘ostruzione’ al processo creativo del regista, che gli permise in qualche modo di liberarsi di una fetta di controllo sull’opera. Per la Wiedemann, il problema di von Trier è di immaginare il lm come una totalità prima di iniziare a scrivere, di vederlo nella sua costruzione intera, con la conseguenza di voler trovare dei metodi, come la libertà lasciata agli attori o i principi Dogme95, per liberarsi del controllo a favore di altri, seppur poi tentare di recuperarlo. Quindi per la Wiedemann il nuovo metodo dialettico ha rappresentato per von Trier un altro gioco in più per contrastare la sua compulsione a fare lm eccessivamente costruiti e liberarsi dell’ansia. Quindi dopo Melancholia, è nato in von Trier il desiderio di fare un lm come un grande romanzo, in cui scrivere senza sapere necessariamente tutto prima, così da aggiungere novità alla sua arte. Il modo di collaborare è stato dunque avvertito da von Trier come un mezzo per realizzare qualcosa di importante, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 110. 229 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  108, ma soprattutto P.  Schepelern, Forget About Love: Sex and Detachment in Lars von Trier’s Nymphomaniac, in Kosmorama, n. 259, 11 marzo 2015, disponibile al seguente link: https://www.kosmorama.org/en/kosmorama/artikler/forget-aboutlove-sex-and-detachment-lars-von-triers-nymphomaniac (ultimo accesso 17 dicembre 2022). Fra i vari si citano in questa sede: il nome Seligman che deriva da Il giardiniere di orchidee, mentre il fatto che Seligman a ermi che il suo nome

signi ca ‘il felice’ rimanda a Menthe – la ragazza felice; una scena di un uccello su un ramo è identica alla scena di apertura di Immagini di una liberazione; i corridoi della cantina della sequenza dell’ospedale riecheggiano Il regno e un’inquadratura con foglie morte, una porta automatica, e l’insegna OPGANG 2 (Ingresso 2) è ripresa direttamente da lì; i pantaloncini rossi in vinile e le calze a rete nere che Joe indossa sul treno sono più o meno identici all’abbigliamento di Bess alla ne de Le onde del destino. 230 “‘Lui’ è invariabilmente ottuso e ostruttivo, ‘lei’ la veggente della verità il cui tormento deve essere in itto al pubblico”, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit. p. 6. 231 Lo stesso può dirsi di He (Willem Dafoe) in Antichrist e John (Kiefer Sutherland) – anche se non autocritico – in Melancholia. 232 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit. p. 122, che cita, fra gli altri, Ha ballato una sola estate (Hon dansade en sommar) lm del 1951 diretto da Arne Mattsson, e la tetralogia La lingua dell’amore (Ur kärlekens språk) (1969-1972) diretta da Torgny Wickman. 233 P.  Schepelern, Lars von Trier and Cultural Liberalism, Danish Film Institute, 30 gennaio 2014, disponibile al seguente link: https://www.d .dk/en/english/lars-von-trier-and-cultural-liberalism (ultimo accesso 29 dicembre 2022). La Danimarca fu il primo paese ad abolire la censura per la pornogra a (per i testi nel 1967 e per le immagini nel 1969), così come la censura per i lm per adulti. Di questi lm von Trier ha però ammesso di aver visto solo Monica e il desiderio (Sommaren med Monika, Un’estate con Monica) del 1953 diretto da Ingmar Bergman e Io sono curiosa – Un lm in giallo (Jag är ny ken – en lm i gult) del 1967 e Io sono curiosa – Un lm in blu (Jag är ny ken – en lm i blått) del 1968 diretti da Vilgot Sjöman. 234 Chiude il Volume I una magistrale sequenza in cui lo schermo diviso a tre abbraccia un’analogia tra l’esperienza polisessuale e multisensoriale di Joe e la polifonia contrappuntistica di Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ di J. S. Bach da Orgelbüchlein, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 138-139, la quale, tra l’altro, evidenzia come questo pezzo di Bach sia presente in Solaris (1972) di Tarkovskij. 235 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 139; come suggerisce Nicola Evans, nei lm di von Trier lo scorrere del tempo stesso è un’esperienza masochistica, cfr. N.  Evans, How to Make Your Audience Su er: Melodramma, Masochism, and Dead Time in Lars von Trier’s Dogville, in Culture, Theory and Critique 55, no. 3, 2014, 365-382. 236 L. von Trier, The House That Jack Built Director’s Statement, 1 luglio 2016, inedito, presente in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., pp. 6-7. 237 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 7. 238 L’epilogo del lm è stato suggerito dalla collaboratrice di von Trier, Jenle Hallund: “Ho pensato che fosse una buona idea perché è da molto tempo che non visitiamo davvero l’Inferno nei lm. In particolare, il viaggio all’Inferno. L’abbiamo messo insieme partendo da diverse concezioni, o qualunque sia la parola, dell’Inferno. I Campi Elisi sono qualcosa che proviene dalla mitologia

romana. Sono abbastanza sicuro che l’Inferno non assomiglia a quello che abbiamo creato per questo lm”, D. Jenkins, Lars von Trier: ‘I know how to kill’, in Little White Lies, 13 dicembre 2018, disponibile al seguente link: https://lwlies.com/interviews/lars-von-trier-the-house-that-jack-built/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022); riguardo al mulino, von Trier ha riferito: “Non ho letto Blake ma ho parlato con persone che hanno detto che c’era questa cosa con il mulino. Non dice se fosse un mulino ad acqua o che tipo di mulino fosse. Ma siccome mi piace l’acqua che scorre, allora, era ovvio avere un mulino e… è qualcosa che non ti aspetti di trovare all’inferno… in una piccola foresta in una grotta”, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 184, nota 141. 239 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 192. 240 “Ho lavorato con Jenle Hallund; lei ha una parte importante nella concezione di questo lm. E un’altra in Nymphomaniac. Dico questo perché di solito sviluppo il concetto del lm da solo. […] Lei ha fatto ricerche su molte cose mentre io no. Lei ha letto Blake per esempio. L’unica cosa che posso dire è che c’è un punto di fascino in cui mi sono imbattuto all’improvviso”, P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 241 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 51, nota 3. 242 Lars von Trier a ermò di aver visto anche Hannibal di Ridley Scott del 2003, con Anthony Hopkins: “e lì tu provi anche una certa simpatia per quest’uomo. Anche se viene presentato come un cattivo ragazzo in ogni… senso”, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 162. 243 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 152; P. Schepelern, Nine Questions for Lars von Trier Regarding The House That Jack Built, The House That Jack Built, DVD, Curzon Arti cial Eye, 2018. 244 “Penso che ci sia… un po’ dell’inferiorità di Lars nei confronti delle donne espressa in questo lm e il suo sentimento di una sorta di rabbia contro le donne”, intervista a J. Hallund del 2019, in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 168. Questa rabbia, come quella di alcuni serial killer reali e di molti altri di fantasia come Norman Bates (basato sul famigerato Ed Gein), potrebbe aver avuto origine nel rapporto con la madre potente e manipolatrice che trasforma i gli in una sorta di esperimento di eugenetica, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 168, nota 80. 245 J. Hallund in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 169. 246 Lars von Trier, The House That Jack Built, Shooting Draft, 20 gennaio 2017, inedito, presente in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 77. 247 Z. Sharf, Lars von Trier Wants You to Know The House That Jack Built Will Be His Most Brutal Film Ever, in IndieWire, 2 gennaio 2017, disponibile al seguente link: https://www.indiewire.com/2017/03/lars-von-trier-house-that-jack-built-pressconference-matt-dillon-uma-thurman-1201791122/ (ultimo accesso 18 dicembre

2022). 248 X. Brooks, Lars von Trier on lmmaking and fear: ‘Sometimes, alcohol is the only thing that will help’, in The Guardian, 3 dicembre 2018, disponibile al seguente link: https://www.theguardian.com/ lm/2018/dec/03/lars-von-trier-onlmmaking-and-fear-sometimes-alcohol-is-the-only-thing-that-will-help? CMP=share_btn_tw (ultimo accesso 14 dicembre 2022). 249 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, cit. 250 “Quando mi guardo intorno e osservo le opere d’arte che mi piacciono, tutte contengono in qualche modo la malinconia, che descriverei come il sale che si mette nel cibo. Sai, come se devi mettere la malinconia e poi devi avere un po’ di malinconia a tavola per farlo diventare un vero piatto. […] Lo vedo più come un lm su uno stato d’animo o una condizione mentale e poi come un lm catastro co in quel senso e penso che, comunque, la mia esperienza di depressione è stata che tutto il mondo si è depresso, non le persone nel mondo, ma il mondo intero è cambiato”, M. Kermode, Lars von Trier interviewed by Mark Kermode on The Culture Show, cit. 251 M. Kermode, Lars von Trier interviewed by Mark Kermode on The Culture Show, cit. 252 È lo stesso von Trier a parlare del prologo di Melancholia come di una “overture”, cfr. Nils Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), in Production notes, press kit, Melancholia o cial website, Magnolia Films, 2011, disponibile al seguente link: http://www.magpictures.com/presskit.aspx?id=bbcb733d-8d0e-495a-ba6dbe9a79453d1c (ultimo accesso 18 agosto 2022), in cui il regista danese a erma: “Mi è sempre piaciuta l’idea dell’ouverture. In cui si a rontano alcuni temi. E, di solito, avremmo realizzato un’immagine con e etti speciali di qualcosa che pensavamo sarebbe accaduto in una collisione di questo tipo, anche se la trama stessa accenna solo al disastro in dei primi piani. Ho pensato che sarebbe stato divertente estrarre le immagini dal contesto e iniziare con esse […] Questo elimina l’aspetto estetico in un colpo solo”. 253 Con alla fotogra a Tom Elling e al montaggio Tómas Gislason, Nocturne è un’opera dall’atmosfera angosciosa, che racconta di una donna sensibile alla luce e a itta dall’insonnia e che deve partire con un volo di prima mattina per l’Argentina, cfr. L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 17. 254 R. Wagner, Tristano e Isolda, a cura di G. Manacorda, Sansoni, 1966, in precedenza 1922; cfr. P.  C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, in (a cura di) Francesco Fiorentino, Laura Santone, Allegretto Vivace. Omaggio a Bruna Donatelli, Roma TrE-Press, 2021, pp.  43-55, disponibile al seguente link: https://romatrepress.uniroma3.it/libro/allegretto-vivace-omaggio-a-bruna-donatelli/ (ultimo accesso 16 agosto 2022), dove si riporta la dichiarazione di Lars von Trier: “sono certo che Wagner avrebbe fatto cinema”. Il fascino per Wagner è tuttavia di lunga data; durante le riprese per L’elemento del crimine (1984), la musica di Wagner (Parsifal, Tristano e Isotta) veniva suonata per creare la giusta atmosfera, cfr. L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 24; in ciò, utilizzò un metodo già conosciuto ai tempi dei lm muti, per caricare gli attori, attraverso altoparlanti portatili, cfr. T. Alling, Sightseeing with the Holy Ghost, cit., p. 27.

255 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 86, dove si a erma che mentre vari autori menzionano come solo gli esterni siano stati girati in location, in realtà molti interni della splendida mansion sono presenti nel lm, persino in alcune delle scene chiave: l’ingresso principale e la sala grande nelle scene del conteggio dei fagioli, le scene della vasca da bagno, le sequenze del corridoio, il lancio del bouquet e i colloqui intimi di Justine e Claire (la sorella di Justine interpretata da Charlotte Gainsbourg) nella ‘stanza turca’ nell’ultima parte del lm. L’autrice cita a sua volta l’intervista che ha avuto via Skype con Manuel Alberto Claro del 22 novembre 2013, il quale aggiunge che altri interni, il campo da golf, la scuderia e le scene di equitazione, il lancio delle lanterne cinesi, la scena di Justine da ‘rhinemaiden’ e le sequenze esterne nali sono state girate alla Film i Väst di Trollhättan in Svezia. 256 P.  J. Carlsen, The Only Reediming Factor Is the World Ending, FILM #72, Danish Film Institute, 4 maggio 2011, disponibile al seguente link: https://www.d .dk/en/english/only-redeeming-factor-world-ending. 257 Nils Thorsen, Geniet – Lars Von Trier liv, lm og fobier, Politiken, 2011, pp. 386-87. 258 Datata 1565 e conservata nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. 259 Più nel dettaglio, la trama è incentrata su una stazione spaziale in orbita attorno a Solaris, un pianeta extrasolare ricoperto da un misterioso oceano gelatinoso e dalla natura imperscrutabile, dove una missione scienti ca si è bloccata perché il ridotto equipaggio di tre scienziati è caduto in crisi emotiva. Lo psicologo Kris Kelvin (Banionis) si reca sulla stazione per valutare la situazione e nisce per imbattersi negli stessi misteriosi fenomeni degli altri. Solaris, tratto dal romanzo omonimo del 1961 di Stanisław Lem, ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1972 ed è stato candidato alla Palma d’Oro; è stato considerato come la risposta sovietica a 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) di Stanley Kubrick. Tarkovskij ha a ermato, riguardo al romanzo da cui il lm è tratto, che il signi cato profondo dell’opera di Lem non si limita alle categorie della fantascienza e che il libro non parla solo dello scontro tra la mente umana e quella aliena, ma anche del con itto morale legato alle nuove scoperte della scienza, cfr. I. Belov, Lem Vs. Tarkovsky: The Fight Over ‘Solaris’, in culture.pl, 16 giugno 2020, disponibile al seguente link: https://culture.pl/en/article/lem-vstarkovsky-the- ght-over-solaris, (ultimo accesso 14 agosto 2022). 260 S. Ruboni, Solaris e Melancholia: cosa hanno in comune i capolavori di Andrej Tarkovskij e Lars Von Trier, in silenzioinsala.com, 15 marzo 2021, disponibile al seguente link: https://www.silenzioinsala.com/blog/post/115558/solaris-emelancholia-cosa-hanno-il-comune-i-capolavori-di-andrej-tarkovskij-e-lars-von-trier (ultimo accesso 14 agosto 2022). 261 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 86, nota 121. 262 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 66, dove si precisa altresì che è coreografato sulle battute 1-83 del Preludio di Tristan und Isolde. 263 La baita è un chiaro riferimento al lm Lo specchio (1975) di Tarkovskij; cfr. Lars Von Trier – WhatMovesYou? B&O, disponibile al seguente link

https://www.youtube.com/watch?v=JSK0wK6LHVo (ultimo accesso 16 agosto 2022), in cui il regista danese a erma: “Uno dei miei più grandi idoli è Andrej Tarkovskij. Mi ha ispirato molto presto nella mia carriera. Frequentavo la scuola cinematogra ca e non sapevo nulla di lui al tempo. Vidi una clip alla TV dal suo lm Lo specchio che dovrebbe riguardare la sua infanzia, una trama molto complicata. Vediamo una lunga carrellata in avanti verso una baita ai margini di un campo all’interno di una pineta; c’è una misteriosa donna seduta su una staccionata con un brufolo molto sensuale sulla testa. Tarkovskij ha sempre avuto personaggi femminili con qualche difetto e naturalmente sempre arrabbiati. Lei siede su una staccionata e un dottore arriva, per lo meno lui dice di essere un dottore, tutto molto alla Dostoevskij. La telecamera si sposta verso la baita e lui si siede sulla staccionata. La staccionata si spezza e loro cadono a terra. Lui ride e lei è arrabbiata, naturalmente, e lui dice ‘è interessante cadere a terra con una donna interessante’. Non è importante quello che dice ma vivere questa esperienza è stato totalmente pazzesco. Una volta nella vita si sperimenta qualcosa per cui si dice ‘non può essere vero’. Vedere questa piccola baita nella pineta, è di cile dire cosa c’è di speciale a riguardo: era magico. È qualcosa proveniente da Marte, non dalla terra. È quasi come David Bowie, lui era una specie di ‘marziano’. Ho visto questa clip su una piccola TV, nemmeno su una grande. È stato a ascinante. Pensavo: ‘ma cosa sta succedendo qui?’ Erano i piccoli dettagli che catturarono la mia attenzione, ma se ami il mezzo cinematogra co, è stato ipnotico. È stato un fantastico lm, imprevedibile, in tutti i sensi. Non so se erano i colori, se fai una carrellata che non ha un senso in sé, non era uno shot che andava dall’inizio alla ne, non era lo scopo del movimento di camera di avvicinarsi, era un viaggio attraverso la foresta. Sono sicuro ci fosse dello slow motion, lo usa molto nel lm. Sono rimasto ipnotizzato per giorni. Dopo averlo visto 20-30 volte, ancora non riesco a capirlo, non più della prima volta che lo vidi. È stato scioccante, devo ammettere”. 264 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit.; cfr. altresì L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  58, dove si a erma inoltre che, nella ricerca di una crisi di grandi dimensioni, von Trier si è imbattuto altresì in pagine web che parlavano di collisioni interplanetarie come Nibiru. 265 “Le sue vesti si gon arono, e come una sirena per un poco la sorressero, mentre cantava brani di canzoni antiche, come una ignara del suo stesso rischio, o come una creatura nata e formata per quell’elemento. Ma non poté durare a lungo, nché le sue vesti, pesanti dal loro imbeversi, trassero la povera infelice dalle sue melodie alla morte fangosa.”, William Shakespeare, Amleto, a cura di A. Lombardo, Feltrinelli, 2013, Atto IV, scena VII. 266 R. White, Interview with Manuel Albert Claro, in Film Quarterly, vol. 65, no. 4, estate 2012, disponibile al seguente link https:// lmquarterly.org/2012/07/11/interview-with-manuel-alberto-claro/. 267 P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit. 268 D. Larkin, “Indulging in Romance with Wagner”: Tristan in Lars von Trier’s Melancholia (2011), in Music and the Moving Image, vol. 9, no. 1, primavera 2016, p. 51. 269 Il prologo si conclude non con la sezione nale relativamente sommessa

del preludio, ma con un frammento del preludio dell’Atto III del Tristano, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 66. 270 Manca, invece, nel sequel Manderlay. 271 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.  144; in Anitchrist anche l’epilogo si caratterizza per il bianco e nero e lo stile del prologo, accompagnato sempre da Lascia ch’io pianga di G. F. Händel. 272 Un altro prologo sui generis, accompagnato da un ‘Prelude’ composto da Bernard Herrmann, con l’orchestra diretta da Muir Mathieson, si rinviene in Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock, cfr. a riguardo R. Calasso, Allucinazioni Americane, Adelphi, 2021. 273 Secondo M. A. Claro, si tratta di “previsioni che Justine può vedere per quello che è. I primi dieci minuti sono il suo punto di vista”, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 65, nota 36. 274 L. von Trier, Director’s statement – Melancholia, 13 aprile 2011, in Production notes, press kit, Melancholia o cial website, cit. 275 H. Feinstein, Lars von Trier: ‘I will never do a press conference again’, in IndieWire, 20 maggio 2011, disponibile al seguente link: https://www.indiewire.com/2011/05/lars-von-trier-i-will-never-do-a-press-conferenceagain-54069/ (ultimo accesso 18 agosto 2022). 276 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 277 La commedia si basa su un fatto di cronaca nera accaduto realmente, che ha visto coinvolte le due sorelle Christine e Léa Papin, nel 1933 a Le Mans, in Francia. 278 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 279 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 280 Essa stessa ebbe a che fare con la depressione, cfr. N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 281 Pier Carlo Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit., il quale cita a sua volta T. Simon, Melancholia de Lars von Trier. Une œuvre d’art totale?, Connaissances&Savoirs, 2019, posizione 191 del formato ebook. 282 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 283 Cfr. supra nota 54. 284 Alla ne, “poiché il corpo [libertino] è frazionato, meccanizzato e quanti cato, la relazione amorosa non può signi care altro che combinazioni, che possono essere raggiunte solo attraverso la costruzione di un sistema di variazioni destinate a stabilire il maggior numero di articolazioni tra i corpi disponibili”, M. Héna , Sade: The Invention of the Libertine Body, Trad. Xavier Callahan, University of Minnesota Press, 1999, p. 32. 285 P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit., il quale a erma come questo fosse uno degli obiettivi dell’opera di Wagner: “Wagner pensava così di combinare la trascendenza del quotidiano con la volontà di conservare la tradizione in un ordine simbolico dell’agire umano legittimato e rinnovato di continuo. In altri termini Wagner ambiva a ricreare l’unità di dionisiaco e

apollineo presente nel teatro greco dell’età classica, secondo la nota formulazione di Nietzsche (La nascita della tragedia, 1872).” 286 M. Cieutat, M. Ciment, “Entretien avec Lars von Trier: la mélancholie n’est pas une maladie. C’est un état d’esprit”, in Positif, n. 607, 2011, p. 18. 287 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 288 La comunità che festeggia ricorda molto quella di Festa in famiglia (1998) di Thomas Vinterberg, cfr. Carlo Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit., 289 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 290 Il Portale di Kainos – Il cinema visionario di Lars von Trier, disponibile al seguente link: http://www.kainos-portale.com/index.php/cinema-teatro/78-studi-ericerche/233-il-cinema-visionario-di-lars-von-trier (ultimo accesso 19 agosto 2022). 291 K. Nicodemus, “I am an American woman”, An interview with Lars von Trier about sexual fantasies, the Pope, America, slavery and his new lm “Manderlay”, 17 novembre 2005, disponibile al seguente link: http://www.signandsight.com/features/465.html (ultimo accesso sabato 3 dicembre 2022). 292 La versione danese fu distribuita in 4 episodi da un’ora, mentre l’internazionale in 6 episodi di 50 minuti ciascuno. 293 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p.  210. Durante l’intervista, mentre von Trier illustrava come la canzone Pirate Jenny, testo di B. Brecht, fosse alla base dello script del lm, il suo telefono incominciò a squillare e la suoneria apparve familiare: era l’Internazionale, ibid., p. 206. 294 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 295 Dal pro lo Instagram di Lars von Trier, post del 8 dicembre 2020, disponibile al seguente link: https://www.instagram.com/larsvontrier_/ (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 296 “Melancholia è un’opera cinematogra ca sperimentale in cui l’estetica e l’a ettività predominano sulla trama, la colonna sonora e l’immagine sulla narrazione e spesso, in una misura atipica per von Trier, il sonoro sul visivo”, L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 66. 297 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 298 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 299 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  66, nota 39, in cui viene citato un documento inedito, denominato Drectors [sic] Intentions, marzo 2010, Copenaghen, sottoscritto da Lars von Trier, dove viene altresì riportato che lo scopo principale del lm è stato di “portare avanti una sorta di forma del mio precedente lm Antichrist, in cui il livello strettamente narrativo si sottomette in misura maggiore al resto dei mezzi stilistici del lm”. 300 P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit. 301 Nome molto simile a Fritz Michael Hartmann, ossia, come ricordato prima, il padre biologico di Lars von Trier, di cui lui venne a conoscenza nel 1989, anno in cui la madre gli rivelò tale notizia sul letto di morte. All’epoca di

Europa il fatto non era ancora stato reso pubblico. 302 Max Hartmann si suicida dopo aver compilato un questionario sui suoi rapporti con il regime nazista ed esser stato riconosciuto coercitivamente da un ebreo (interpretato da Lars von Trier stesso) come l’uomo che lo aveva aiutato e protetto, in quanto troppo importante per la ricostruzione della Germania sotto il dominio americano. 303 “Il più grande trenino elettrico che un ragazzo abbia mai avuto”, dichiarò Orson Welles nel 1940, osservando il suo nuovo dominio – o, almeno, quell’angolo di esso occupato dalla RKO, lo studio che aveva attirato il giovane ventiquattrenne a Hollywood con la promessa di assoluta libertà di fare il suo debutto alla regia nel modo che riteneva più opportuno, H. Kantilaftis, Orson Welles, 6 giugno 2014, disponibile al seguente link: https://www.nyfa.edu/student-resources/orson-welles/ (ultimo accesso 15 dicembre 2022); similmente von Trier: “Ma mi piacciono i trenini elettrici, questo è vero. Bergman, sono sicuro, amava il potere – io sono molto più sano di lui. Quello che è interessante è creare il proprio mondo. Si avvicina all’idea del trenino elettrico – costruisci le tue montagne, qui dovrebbe esserci una stradina – è emozionante. Molti registi sono persone piuttosto sensibili, hanno paura del mondo e della vita – così, quando li controllano, costruiscono cose enormi con cavalli, polizia, terremoti.”, J. Romney, Euro Paean, 1992, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 85. 304 M. Pally, Cinema as the Total Art Form, An interview with Peter Greenaway, in Cineaste, vol. XVIII, n. 3, 1991, p. 8, che a erma altresì: “So che il mio lavoro è accusato di essere freddo e intellettualmente esibizionista. Ma rifuggo con determinazione dalla reazione manipolata, emotiva, che si ritiene si dovrebbe avere in risposta al cinema di Hollywood”. 305 Il Preludio si ascolta per il 23% della durata complessiva del lm (29 minuti su 130), D. Larkin, “Indulging in Romance with Wagner”: Tristan in Lars von Trier’s Melancholia (2011), cit., p.  43; solo all’inizio s’ode per intero (circa 8 minuti), P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit.; in altre sequenze, la musica di Wagner viene tagliata e manipolata per adattarsi alla narrazione e al momento emotivo. 306 L’opera di Millais, oggi conservata alla Guildhall Gallery di Londra, prende spunto dal poema – molto ammirato dai prera aelliti – di Coventry Patmore The Woodman’s Daughter, pubblicato per la prima volta nel 1844. La storia è incentrata su Maud, la glia di un povero boscaiolo, un tempo soddisfatta della sua innocenza infantile, ma in seguito sedotta dal glio di un ricco signorotto, che alla ne abbandona lei e il loro glio illegittimo. Nella scena ritratta, Maud prende senza malizia le fragole dalla mano del suo futuro amante, mentre il padre lavora sullo sfondo. La posa autoritaria del glio del signorotto, contrastata dalla deferenza di Maud, lascia forse intendere la tragedia che si prospetta. 307 Realizzato tra il 1609 ed il 1610, e conservato nella Galleria Borghese a Roma, già a partire dal ‘600 interpretazioni dell’opera hanno individuato nella sionomia del gigante scon tto un autoritratto di Caravaggio. 308 P.  Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit.

Qualche tempo dopo le riprese di Melancholia, von Trier ha smesso (quasi completamente) di bere alcol, con il quale si era sempre più automedicato per l’ansia dopo le riprese de Le onde del destino in Scozia nel 1995, cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 104. 309 N.  Thorsen, Von Trier tørlagt, nøgen og på røven, cit., come tradotto in inglese in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  104, nota 17. Sul punto, Lars von Trier continuò: “Ora sto per fare un tentativo di mantenermi in vita eliminando tutti i vari intossicanti, ma allo stesso tempo devo cercare di mantenere la linea creativa… e semplicemente non credo che sarà possibile. Perché nessuna iniziativa creativa di valore artistico è mai stata realizzata da ex ubriaconi e tossicodipendenti.” 310 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 311 G. Leopardi, La ginestra, vv. 161-166; canzone composta da Leopardi nel 1836 presso la Villa Carafa d’Andria-Ferrigni (ora Villa delle Ginestre) di Torre del Greco, La ginestra o il ore del deserto viene pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti curata da Antonio Ranieri nel 1845. 312 P. J. Carlsen, The Only Reediming Factor Is the World Ending, cit. 313 La protagonista di Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles, lm del 1975 diretto da Chantal Akerman. 314 L. von Trier, Director’s statement – Melancholia, cit. 315 “Mamma diceva sempre: ‘la vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, Forrest Gump (1994), diretto da Robert Zemeckis. 316 M. Capra, La depressione secondo Lars von Trier – Tra psichiatria e cinema, 21 settembre 2020, disponibile al seguente link: https://birdmenmagazine.com/2020/09/21/depressione-lars-von-trier-cinemapsichiatria/ (ultimo accesso 18 agosto 2022). 317 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 318 Cfr. supra nota 302. 319 Cfr. C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit., dove il regista a erma a proposito: “Spesso do all’attore nuove battute mentre stiamo girando. Quando ero più giovane portavo io stesso la macchina da presa. Ero molto vicino agli attori, era fantastico. Björk, per esempio, quando sta per essere impiccata e sviene. Mi chino e sussurro: Cancellare le righe 2 e 4 e 7. Non vedo alcun cambiamento nel suo volto. Continuiamo a lmare. E lei lo fa.” 320 P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit. il quale altresì a erma: “non sfugge qui allo spettatore, il riferimento alla «vana polvere solare» di cui parla Tristano nel dialogo con Isolda, in cui si trasformano «le menzogne del giorno,/la gloria e l’onore,/la potenza e la ricchezza/[21] quando torna a risplendere la luce”; cfr. altresì R. Wagner, Tristano e Isolda, cit., p. 117 (vv. 12331235). 321 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 322 L’uva spina, forse, deriva a sua volta da Hans Christian Andersen, la cui

immagine era appesa nello studio di lavoro del regista danese, nonostante lo stesso lo de nisse un “segaiolo celibe”, S. Roman, Lars von Trier: The Man Who Would Be Dogme, cit., p. 134. 323 La volontà del regista è stata quella di trasporre nel mezzo cinematogra co più o meno fedelmente la storia raccontata nel famoso romanzo. 324 Nel 1993, il lm vinse l’oscar per il Miglior montaggio sonoro andato a Tom McCarthy e David Stone; vinse altresì l’oscar per i Miglior costumi (a Eiko Ishioka) e il Miglior trucco (a Greg Cannom, Michèle Burke e Matthew W. Mungle). 325 Intro de Il regno (1994), Il regno 2 (1997) e Il regno Exodus (2022), sotto la regia di Lars von Trier, e alla sceneggiatura Lars von Trier e Niels Vørsel. 326 S. Bertollini, The Kingdom, l’eccentrica sovranità del male ideata da Lars Von Trier, 20 dicembre 2016, disponibile al seguente link: https://www.shivaproduzioni.com/?p=1570 (ultimo accesso 27 agosto 2022). 327 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 328 M. Kermode, Lars von Trier interviewed by Mark Kermode on The Culture Show, cit.; “Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di ori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di sou rance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è o esa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle bre delicatissime, senza strage spietata di teneri orellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è o eso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei ori; quello tra tto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. […] In verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere”, G. Leopardi, Zibaldone, Bologna 19 aprile 1826 e Bologna 22 aprile 1826. 329 Un altro brindisi triste e vacuo appare nella parte 1 del lm, al lancio delle lanterne cinesi nel cielo, che vagheranno sole nello scon nato universo. 330 “La dannazione è dentro di noi. La maledizione peggiore sai qual è? (…) È quando non ti tira”, ricorda il vecchio Berlingueri nel lm, cfr. Il Novecento di Bernardo Bertolucci: cronaca di un serial killer, 17 novembre 2014, disponibile al seguente link: http://kinoride.net/il-novecento-di-bernardo-bertolucci-cronaca-di-unserial-killer/ (ultimo accesso 27 agosto 2022). 331 Il Novecento di Bernardo Bertolucci: cronaca di un serial killer, cit. 332 G. Leopardi, La ginestra, vv. 147-148. 333 Il Prelude si sentirà 10 volte nel lm: al momento del prologo; per la parte 1: quando Justine lascia la festa per andare a fare pipì, quando Justine si infuria

nella sala della biblioteca e cambia i libri contenenti riproduzioni di opere d’arte, durante il lancio delle lanterne cinesi e quando Justine e Claire cavalcano nella nebbia; per la parte 2: quando Justine vede ad occhio nudo Melancholia, quando Justine è al ruscello di notte, quando le due sorelle hanno un confronto nella sala della biblioteca e Justine rivela il risultato del gioco dei fagioli, quando Claire cerca di fuggire con Leo verso il paese e alla ne del lm; cfr. però L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 66, secondo cui complessivamente il Preludio viene ascoltato nove volte. 334 Si ha come l’impressione che Justine possa nalmente esprimere le capacità creative sinora inespresse, P.  C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit. 335 P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit., il quale cita altresì l’esperienza dei ‘Tepeeland’ a Berlino; riguardo tale ultimo punto cfr. il sito: https://www.berlino-explorer.com/benvenuti-a-teepeeland/ (ultimo accesso 28 agosto 2022). 336 “Uno Stuka sopravviverà di millenni a uno Spit re britannico nella nostra coscienza… Mentre lo Spit re ha tutte quelle forme arrotondate ed era un aereo molto bello, lo Stuka fu una rivelazione… un bombardiere in picchiata che scendeva e sganciava la sua bomba con grande precisione. Una caratteristica particolare… era che le sue bombe erano dotate di un piccolo schio, il che è sconcertantemente cinico ma anche un segno di eccedenza artistica. Qualcuno pensava: ‘Come possiamo rendere questa bomba ancora peggiore di quanto non sia già?’ I schi dovevano erodere il morale del nemico”, P. J. Carlsen, The Only Reediming Factor Is the World Ending, cit. 337 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit. 338 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p.  81. L’autrice, inoltre, sulla base della connessione tra Wagner e Arthur Schopenhauer, argomenta come Justine abbia sperimentato nel corso del lm le tre forme di attenuazione del dolore dell’esistenza ossia: ascetismo, in quanto la malinconia di Justine la porta ad essere immune ai piaceri carnali e a non provare dolore per l’arrivo della ne; la contemplazione dell’arte (secondo l’estetica di Schopenhauer) che viene nalmente raggiunta quando Justine si infuria con la sorella e sostituisce i dipinti astratti di Malevič con libri che ra gurano opere che hanno ispirato le immagini del prologo e di altri momenti del lm (quindi in linea con il lm e con la sensibilità del lm, che è la sensibilità di Justine) e quando si licenzia dal suo opprimente lavoro che distorce grottescamente il suo estro artistico; in ne, la costruzione del tipì come grotta magica per Leo (che l’autrice riconduce alle molteplici grotte magiche delle opere di Wagner), che dimostra il recupero della moralità da parte di Justine attraverso la compassione o l’empatia, in cui l’io so erente può essere trasceso attraverso la confusione della propria so erenza con quella di un altro (citando l’Etica di Schopenhauer). Alla ne, diventa capace di so rire per qualcuno che non sia lei stessa. In quella fragile costruzione umana, una frazione di secondo prima che lo schermo esploda in amme, ascetismo, arte e compassione si uniscono, cfr. ibid., p. 85. 339 N. Thorsen, Longing for the End of All (interview with Lars von Trier), cit.; inoltre, di fronte alla catastrofe ineluttabile, Justine risponde con il tentativo di

ricostruire una modalità nuova e antica di coabitazione, imparando così anche la di cile arte di aspettare la morte, tenendosi per mano con altri umani, come avviene in cerimonie rituali sentite ancora come valide in alcune comunità religiose, a ciò sottintesa la possibilità di una ‘buona ne’, cfr. P.  C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit., che a riguardo argomenta altresì facendo riferimento a quanto a ermato dal losofo Patrice Maniglier e all’agire senza piegarsi a ricompense materiali o spirituali, ovvero la decisione kantiana di vivere secondo un’etica. 340 L. von Trier, Interview with Lars von Trier, Extras/The Making of Melancholia/The Visual Style, Melancholia, DVD, Curzon Arti cial Eye, 2012; cfr. P. C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit., “E quando alla ne del lm Melancholia si scontra e si congiunge con la Terra, il Preludio ci riporta all’unica salvezza possibile agli occhi di Isolda: «naufragare, a ondare, inconsapevolmente… Suprema letizia!»”; cfr. Wagner, Tristano e Isolda, cit., p. 213, vv. 2341-2344. 341 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 342 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 72. 343 L. K. Andersen, A Stone-Turner from Lyngby, cit., p. 91. Un esempio molto interessante di camera condotta a mano, anche a ni replicativi del vero, è presente nelle scene nali del lm Il processo di Verona (1962) di Carlo Lizzani; inoltre, la tecnica è presente in diversi lm horror, con riferimento a talune scene di maggiore tensione, cfr. La casa dalle nestre che ridono (1976) diretto da Pupi Avati; in ne, la camera condotta a mano è utilizzata magistralmente in Schindler’s List – La lista di Schindler (Schindler’s List), del 1993 diretto da Steven Spielberg. 344 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.  72, che a erma altresì che tale tecnica sia stata poi considerata tipica del movimento Dogme95, per via del suo utilizzo con successo altresì nei lm Festa in famiglia (Festen) di Vinterberg e Gli idioti (Idioterne) di von Trier. L’e etto è molto simile a ciò che è stato realizzato già in precedenza da Lars von Trier nel 1988 con il lm Medea per la TV: in questo caso però il lm è stato dapprima girato in videotape da tre quarti di pollice e poi trasferito su 35mm per sbiadire il colore e degradare e appiattire l’immagine, producendo qualcosa di crudamente primitivo e arcaico, cfr. L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 47. 345 Nel dettaglio, il cimitero è stato costruito per il lm sull’isola di Skye, la chiesa è a Lochailort, il porto a Mallaig e la spiaggia a Morar, cfr. Scotland: The Movie Location Guide, Breaking the Waves, disponibile al seguente link http://www.scotlandthemovie.com/movies/fwaves.html (ultimo accesso 11 settembre 2022). 346 G. Fuller, See Emily Play – Actress Emily Watson – Interview, dicembre 1996. 347 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., pp. 80-81. 348 P. Kirkeby, The Pictures Between the Chapters in Breaking the Waves, in Lars von Trier, Breaking the Waves, Faber & Faber, 1996, pp. 12-14. È

349 È forse un riferimento all’assenza del padre biologico dalla vita del regista? Venuto a conoscenza della sua identità, infatti, von Trier cercò di contattarlo; la risposta fu data attraverso un avvocato: Fritz Michael Hartmann non volle intessere alcun rapporto con il glio. 350 J. Stevenson, A Story about People and Emotions, in Lars von Trier, Breaking the Waves, cit., pp. 15-19. 351 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., pp. 109-110. 352 Docente e autore cinematogra co danese, ha curato la grande opera sul cinema mondiale Filmleksikon. 353 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 73, la quale cita P.  Schepelern e J. Stevenson, Lars von Trier, World Directors, British Film Institute, 2002, pp. 90-93. 354 S. Björkman, Preface, in Lars von Trier, Breaking the Waves, cit., pp. 4-11. 355 J. Rockwell, Von Trier and Wagner, a Bond Sealed in Emotion, in New York Times, 8 aprile 2001, disponibile al seguente link: https://www.nytimes.com/2001/04/08/movies/ lm-von-trier-and-wagner-a-bondsealed-in-emotion.html (ultimo accesso 17 dicembre 2022). 356 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 72. 357 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11. 358 L. von Trier, Director’s Note – This lm is about ‘Good’, in Lars von Trier, Breaking the Waves, cit., pp. 20-22. 359 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 72. 360 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11. 361 L. von Trier, Director’s Note – This lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 362 L. von Trier, Director’s Note – This lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 363 Come sopra ricordato, sul traghetto per Dover per girare Le onde del destino, von Trier ebbe un attacco d’ansia e consumò mezza bottiglia di vodka e tre benzodiazepine sedative; inoltre, di recente, durante il suo collegamento video alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematogra ca di Venezia ha dichiarato: “Ho avuto alti e bassi nella vita, anche per via dell’alcol”, E. Brocardo, Lars von Trier chiude (dopo 25 anni) il suo The Kingdom, in Wired, 3 settembre 2022, disponibile al seguente link: https://www.wired.it/article/thekingdom-exodus-lars-von-trier-recensione/ (ultimo accesso 13 settembre 2022). 364 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 114. 365 Von Trier dichiarò sul lm: “I movimenti di macchina erano così elaborati che abbiamo dovuto piani care e realizzare uno storyboard per quasi tutto il lm. Il copione delle riprese era lungo un migliaio di pagine. L’intero lm è stato girato in studio, ad eccezione di alcune scene in location polacche che abbiamo utilizzato per gli sfondi. Alcune delle inquadrature che sembrano impossibili, come quella della macchina da presa che scende attraverso due piani per arrivare al bagno dove un uomo si taglia i polsi, erano piuttosto facili. Abbiamo usato dissolvenze che il pubblico non può vedere. Ma alcune riprese di cili sono state fatte davvero. Quando la macchina da presa esce dalla mansarda e attraversa il tetto della casa per poi entrare in un treno che passa, l’abbiamo fatto davvero. […] quando abbiamo scritto la sceneggiatura abbiamo

parlato di ‘primi piani’, ‘campi lunghi’ e così via. E ogni volta che usavamo il colore lo chiamavamo ‘super primo piano’. Il cinema è così costoso, ecco perché è così conservatore. […] All’inizio dell’era dei promo pop, ero molto ducioso. Pensavo che il cinema stesse diventando più sperimentale e che questo si sarebbe trasmesso al cinema tradizionale. Non è successo. Oggi si vende ancora un lungometraggio in base alla sua storia, mentre un video rock può essere venduto in base alle sue immagini.”, N. Andrews, Maniacal Iconoclast of Film Convention, cit., pp. 82-83. 366 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11. 367 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11. 368 Poesia di Sandro Penna. 369 Lars von Trier, Director’s Note – This lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 370 W. Hammond, Edge of Darkness, 1995, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 104. 371 Zentropa per la distribuzione negli Stati Uniti, per evitare confusione con il lm Europa Europa del 1990 diretto da Agnieszka Holland. 372 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11. 373 J. Stevenson, A Story about People and Emotions, cit., pp.15-19. 374 J. Stevenson, A Story about People and Emotions, cit., pp.15-19. 375 J. Stevenson, A Story about People and Emotions, cit., pp.15-19. 376 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., pp.  114-115, dove il regista continua: “Credo che le fobie in sé siano in gran parte frutto di autopunizione. Se si lavora per cinque anni a un progetto di cui si ha una buona sensazione e che si prevede sarà ben accolto, ci si punisce quando non ci si permette di godere della buona accoglienza. […] La mia opinione su queste fobie è che ho vissuto troppo a lungo con la loso a che devo passare attraverso un sacco di male prima che le cose diventino buone. Questo ragionamento ha permeato tutta la mia esistenza. È molto di cile fare un lm, ma quando nalmente è completato e posso divertirmi, non mi concedo quel periodo di godimento, non mi concedo la soddisfazione. È come un trauma da parto, una sorta di repressione che devo superare prima di poterne godere. E tutta la mia vita si trasforma in questo grande atto di repressione in cui sono bloccato. Ha anche a che fare con il controllo: ciò che conta in questa vita è la capacità di godersi l’uscita dall’utero materno, perché dopo non c’è più niente da fare. Se riuscissi a raggiungere questo punto, sarebbe un grande passo.” 377 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 378 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 379 J. Stevenson, A Story about People and Emotions, cit., pp.15–19. 380 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 381 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11. 382 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 383 J. Stevenson, A Story about People and Emotions, cit., pp. 15-19. 384 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22.

385 Morten Korch (1876-1954) è stato un romanziere danese, che ha scritto opere popolari su vita rurale e con itti tra contadini e nobiltà terriera. Diversi adattamenti cinematogra ci tratti dalle sue opere sono apparsi durante gli anni ’50 e ’60. 386 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 107. 387 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 108. 388 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 115. 389 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22. 390 R. Calasso, Allucinazioni Americane, cit., p. 89. 391 Che interpreta, inter alia, lo spirito malvagio (i.e. Aage Krüger) così come il mostro appena nato nell’episodio nale de Il regno (1994), S. Björkman, Preface, cit., pp.4-11; seppur interpreterà altresì il ruolo di ‘piccolo fratello’ ne Il regno 2 (1997). 392 P. Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p. 123. 393 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 107. 394 “Era un tale porco, ma ammiro ciò tremendamente” e, alla domanda se si sentisse legato in qualche modo ad Hitchcock, rispose: “Credo di sì, sì. Mi sono appena ripreso e ho letto il libro-intervista di Tru aut. […] Che alla ne abbia sprecato il suo talento è un’altra cosa, ma l’hanno fatto tutti. Quando Bergman e gli altri non riescono più a fare lm, è perché hanno perso la loro infantilità. E allora il mondo dell’infanzia e della fascinazione è chiuso. E una volta chiuso, non è più possibile tornare attraverso quelle porte”, J. K. Larsen, A Conversation between Jan Kornum Larsen and Lars von Trier, cit., pp. 44-45; von Trier ha anche dichiarato di essersi ispirato ad Hitchcock per un ‘ nale classico’ ne La casa di Jack in cui il protagonista viene punito: “In qualche modo mi sono sentito un po’ come Hitchcock alla ne del lm, con Jack che pende sopra le profondità abissali […] Sarebbe stato tipico per me lasciarlo vivere. Ma poi ho pensato al buon vecchio Hitchcock e ho deciso che questo [ lm] richiede un nale classico.”, D. Jenkins, Lars von Trier: ‘I know how to kill’, cit. 395 R. Calasso, Allucinazioni Americane, cit., p. 93. 396 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., pp. 109-110. 397 Lo stesso von Trier disse: “Vibeke Windeløv, il mio produttore, mi ha chiesto se Gli idioti erano il numero due nella mia ‘Trilogia del Cuore d’Oro’ dopo Le onde del destino, e io posso solo confermare che ha ragione”, P.  Ø. Knudsen, The Man Who Would Give Up Control, cit., p. 123. 398 Life on Mars? di David Bowie, pubblicato come 45 giri il 22 giugno 1973, secondo singolo estratto dall’album Hunky Dory. 399 Vangelo secondo Matteo 27, 62-66. 400 L. von Trier, Director’s Note – The lm is about ‘Good’, cit., pp. 20-22 401 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 402 Simile e etto è rinvenibile nelle immagini nali di Philadelphia (1993), diretto da Jonathan Demme e con Tom Hanks, sulle note di Philadelphia di Neil Young.

403 Per entrambi non è a atto un ‘matrimonio del ricordo’ come quello della signora Gradisca (Magali Noël) con il carabiniere alla ne di Amarcord (1973) di Federico Fellini che conclude, in memoria di sogno, l’esperienza di una vita. 404 S. Schultz, Codependency in Breaking the Waves, in (a cura di) M. M. Dalton, S. V. Halliman, Student Essays on Lars von Trier (Critical Media Studies Book 6), Edizione in inglese, Library Partners Press, 2019, capitolo 11, p. 133, in cui si a erma che spesso Lars von Trier viene tacciato di essere misogino con parte della motivazione derivante da una lettura letterale, acritica dei suoi personaggi femminili. 405 G. Smith, Dance in the Dark, cit., p. 149. 406 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 107. 407 Come ricordato sopra, oltre ad He e She in Antichrist e, appunto, a Justine e Claire in Melancholia, abbiamo Joe e Seligman in Nymphomaniac. 408 “Il tema di tutto ciò che ho fatto è stato lo scontro tra la natura e la mente, se così si può dire. Ne L’elemento del crimine era la natura che prendeva di nuovo il sopravvento, e in Europa la stessa cosa,”, W. Hammond, Edge of Darkness, cit., p. 105. 409 Sull’Inferno di Dante, evidente fonte di ispirazione, Lars von Trier ha detto: “È stato divertente scrivere l’Inferno e l’ha scritto perché aveva molti nemici e poi ha potuto metterli dentro e poi decise che avrebbe dovuto giacere nella merda no al collo. Quindi in realtà è stato un lavoro di vendetta. Quando è venuto il turno del Paradiso, non era così divertente esaltare le persone. A parte di quella.. com’era il suo nome? Beatrice, sì.”, P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 410 “Il profondo rapporto di von Trier con Wagner ebbe un momento di consacrazione quando nel 2002 il regista danese ricevette l’invito a mettere in scena il Ring a Bayreuth, previsto nel 2006, proprio per la sua qualità di autore che auspicava di fondere nel suo lavoro «Film, Theater, Literatur und Musik» [5]. Dopo un paio d’anni di intenso lavoro preparatorio dovette rinunciare a quell’impresa considerata troppo faticosa.”, P.  C. Bontempelli, Melancholia di Lars von Trier e il «Preludio» di Tristano e Isolda di Richard Wagner. Una relazione pericolosa?, cit. 411 Cfr. L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 67, secondo cui, ad esempio, il design scenogra co di Melancholia è stato fortemente in uenzato dal ‘Bayreuth Ring Project’, continuando e sviluppando lo stile – in uenzato dalle opere pittoriche del romanticismo tedesco – alla base dell’originale design del set pensato da Wagner; secondo l’autrice, il lm in questione ha permesso a Lars von Trier di combinare monumentali architetture con sublimi paesaggi e manifestazioni inquietanti del clima. 412 N. Thorsen, Von Trier tørlagt, nøgen og på røven, cit. 413 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 59, che riferisce altresì che la procedura implicò la collaborazione del regista danese con Vinca Wiedemann e Jenle Hallund. 414 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 61, che spiega anche che lo stesso non avvenne per Antichrist, le cui riprese si svolsero in un’atmosfera molto tesa a causa delle condizioni precarie del regista

danese, con Anders Refn e il direttore della fotogra a Anthony Dod Mantle pronti a prendere il suo posto in caso di assenza. L’autrice racconta che il fatto che von Trier non potesse maneggiare la camera lo frustrò molto, innescando con itti; von Trier poi accusò principalmente Dod Mantle per la sua insoddisfazione, rivendicando che lo stesso disattendesse o andasse oltre le indicazioni del regista e che il lm fu per questo troppo levigato, senza su ciente contrasto tra il prologo e le sezioni narrative, tra le sequenze girate con macchina da presa a mano – che il regista voleva avessero un e etto più tagliente e irregolare – e le scene ‘monumentali’. 415 S. Björkman, Preface, cit., pp. 4-11, il quale evidenzia altresì il carattere più violento ed estatico delle emozioni rispetto a Ordet – La parola, il dramma della redenzione di Dreyer. 416 Curiosamente, in un’intervista nel 1995, von Trier de nì Le onde del destino un romanzo di “Götterdämmerung”, che altro non è che l’Armageddon del mondo della mitologia nordica, nonché il titolo del quarto e ultimo dei drammi musicali che costituiscono la tetralogia L’anello del Nibelungo di Richard Wagner, W. Hammond, Edge of Darkness, cit., p. 105. 417 Direttore della fotogra a per Melancholia, Nymphomaniac e La casa di Jack. 418 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 13. 419 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 211. 420 Vibeke Windeløv ne è la produttrice; lo è stata anche per Le onde del destino, Il regno 2, Gli idioti, Dancer in the Dark, Le cinque variazioni, Manderlay. 421 Una griglia di luci e telecamere digitali sse, integrate da una Sony CineAlta ad alta de nizione montata su una gru, rivela un cavernoso palcoscenico di 240 metri per 75 su cui la città è disposta come una mappa di gesso, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 103. 422 Nel grande studio, i falegnami hanno costruito un pavimento per il palcoscenico che è stato coperto con una grossolana moquette nera. Su di esso, von Trier ha disegnato edi ci con spesse linee bianche. Oltre a questi segni, non c’è molta scenogra a. Ogni edi cio ha qualche caratteristica simbolica dei set cinematogra ci americani degli anni Trenta: una parete con carta da parati scadente, un vecchio letto con struttura in ferro, il bancone di un negozio e la cima di una guglia sospesa in aria che rappresenta la casa della missione, cfr. M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 206. 423 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 212. 424 J. Merin, Interview: Lars von Trier, New York Press, 1° febbraio 2006, disponibile al seguente link: http://www.nypress.com/. 425 R. Calasso, K., Adelphi, 2005, p. 15. 426 N. Andrews, Maniacal Iconoclast of Film Convention, cit., p.83. 427 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 104. 428 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., pp. 208-209, che continua “‘Era il sei gennaio del diciotto e qualcosa’. In qualche modo diventa più simile a un documentario e assume maggiore autorità”. 429 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, cit.

430 Forse evidente riferimento all’inventore e industriale statunitense Thomas A. Edison, autore di alcune invenzioni fondamentali di ne 19° secolo, come la lampada a incandescenza e la registrazione del suono. Ebbe un ruolo anche nello sviluppo dell’industria cinematogra ca e realizzò il cinetoscopio, primo apparecchio per la visione di pellicole cinematogra che, cfr. la voce Edison, Thomas Alva su https://www.treccani.it/enciclopedia/thomas-alva-edison/ (ultimo accesso 30 ottobre 2022); in L. Mannoni, L’invenzione del cinematografo. Un’invenzione che ‘era nell’aria’: dalla celluloide al Kinetoscopio di Edison, disponibile al seguente link: https://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-ilm/lumiere-la-scoperta-del-cinema/linvenzione-del-cinematografo (ultimo accesso 30 ottobre 2022), si legge: “Dopo aver visto nel 1889 a Parigi gli apparecchi di Marey e di Émile Reynaud (il ‘teatro ottico’ di quest’ultimo permetteva di proiettare immagini dipinte a mano su una lunga striscia di gelatina perforata a intervalli regolari), ritorna nel suo laboratorio di West Orange e dà disposizioni per la messa a punto di una macchina da presa con pellicola perforata. Aveva già lavorato su questo in precedenza, ma le sue ricerche intorno a un ‘fonografo ottico’ si erano arenate. Ora si ritrova una buona soluzione e, grazie a George Eastman, il lm 35mm (dalla pellicola Kodak 70mm tagliata a metà) perforato (quattro buchi rettangolari su ciascun lato dell’immagine) nasce negli Stati Uniti nel 1893, e sarà utilizzato praticamente tale e quale come standard per i centovent’anni successivi. Thomas Edison e il suo geniale assistente, William Kennedy Laurie Dickson, mettono a punto una macchina da presa – il kinetografo – e un visore – il kinetoscopio, che permette di guardare attraverso un oculare un lm 35mm lungo 15 metri contenente un piccolo sketch. Sono i primi lm di genere, vi si possono intravedere gli antenati dei western, con già alcune immagini erotiche. Fra il 1890 e il 1895 centoquarantotto lm vengono realizzati nella Black Maria (il bizzarro teatro di posa bitumato e orientabile costruito a West Orange). Il kinetoscopio si di onde nel mondo nel 1894 e rappresenta un notevole successo nanziario per Edison.” 431 P. Ogden, “Dogmatic.” Interview with Anthony Dod Mantle, in FilmIreland 96, febbraio 2004, disponibile al seguente link: http://www. lmireland.net/ ; cfr. L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, in Film-Philosophy, vol. 11, no. 3, 2007, pp.  1-22, il quale considera Elm Street come un riferimento sia a un celebre luogo di incubi cinematogra ci collettivi sia alla strada di Dallas dove fu assassinato il presidente Kennedy. 432 Cfr. L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit., circa le disavventure del vero Thomas Edison Junior e di quanto siano piuttosto istruttive rispetto a quelle del suo omonimo immaginario. L’autore ricorda che il vero Thomas Edison Junior era molto diverso dall’illustre padre e, a riguardo, osserva che Dogville si apre proprio con una discussione tra Tom e suo padre – un rispettato medico in pensione – che si concentra sul miglior uso possibile della radio. Una vita di notorietà ha alimentato i falsi sentimenti di grandezza del vero Thomas Edison Junior: ha proceduto a fabbricare ogni tipo di idee stravaganti, nessuna delle quali si è realizzata. Nonostante la sua dipendenza dall’alcol, un matrimonio disastroso e il fatto che suo padre gli proibiva legalmente di usare il suo cognome, Junior riuscì a diventare l’apparente capo di industrie come la Thomas Edison Junior Chemicals, produttori di farmaci ‘The Wizard Ink’ e il ‘Magno Electric Vitaliser’, una cura brevettata per tutto, dai reumatismi alla sordità. Junior ha anche creato un carburatore

automobilistico migliorato grazie all’indulgenza dell’amico di famiglia Henry Ford. Purtroppo, quest’ultimo non si è molto interessato al carburatore in questione, un fatto che ha riportato Junior all’alcolismo no alla ne dei suoi giorni. Il seguente dialogo del capitolo 2 di Dogville è quindi forse più signi cativo di quanto possa sembrare inizialmente: “Grace: ‘Scusatemi, vorrei o rire il mio aiuto. C’è qualcosa di cui hai bisogno?› Ben: ‘Hum… non proprio… Un carburatore che non perde’”. Per le informazioni sul vero Thomas Edison Jr., l’autore dichiara di aver fatto riferimento a un sito web dedicato alla sua memoria (http://members.aol.com/taedisonjr/). 433 R. Calasso, Sotto gli occhi dell’Agnello, Adelphi, 2022, p. 96. 434 Lauren Bacall interpreterà altresì la vecchia possidente terriera Mam in Manderlay (2005), secondo episodio della trilogia ‘USA – Terra delle opportunità’, anche se Washington – ultimo atto – non verrà mai realizzato, risultando, dunque, un dittico o duologia come ricordato più volte. 435 “Non ti ricorda lei, quell’albero? Diceva di voler rimanere incrollabile come un tronco d’albero. E anche se ha vacillato un po’, è ancora in piedi. È incredibile come non si sia ancora spezzato in quello stato.”, dal lm Petal Dance. 436 L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 148. 437 R. Calasso, Allucinazioni Americane, cit., pp. 86-87. 438 S. Kozlo , A Defence – and History – of Voice-Over Narration, 2006, citato in T. Laine, Lars von Trier, Dogville and the hodological space of cinema, in Studies in European Cinema 3: 2, 2006, pp. 129-141. 439 “C’è una voce narrante, che svolge un ruolo analogo a quello tradizionalmente assegnato al coro. E il racconto è diviso in nove capitoli ed un prologo, proprio come un libro. Tutto questo al servizio di un esperimento: estetico, e non solo. Un esperimento cui lo spettatore assiste spesso dall’alto, dal posto di Dio o di un entomologo. Gli ingredienti sono ormai chiari. Si prende una piccola comunità. La si isola quanto più possibile. Si fa arrivare una straniera. E si aspetta. Per vedere cosa succede. Tutto qui”, A. Andronico, “Grande piccolo?” Il problema dell’accettazione, in (a cura di), A.C. Mangiameli, G. Saraceni, Lo straniero. Multiculturalismo, identità, diritto, ESI, 2009, pp. 135-146. 440 P. Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, in (a cura di) B. Honig, L. J. Marso, Politics, Theory, and Film. Critical Encounters with Lars von Trier, Oxford press, 2016, p. 198, che continua: “Hurt ha recitato in dozzine di ruoli, ma è forse soprattutto come l’anziano negoziante in Diagon Alley che vende a Harry Potter le sue bacchette, o come la voce dell’antico drago nella serie TV Merlin che consiglia il giovane stregone sui suoi poteri magici […], che il suo personaggio-vocale risuona con Dogville.” 441 Vivaldi Concert in G major. Arr. da Joachim Holbek. 442 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 198 443 “I lm che io ho fatto tutti hanno a che fare con lo scontro tra un ideale e la realtà”, G. Smith, Dance in the Dark, cit., p. 148. 444 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 113.

445 L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit., che intravede altresì una somiglianza con quanto detto su Creonte nella tragedia di Antigone da J. Lacan, The Seminar. Book VII. The Ethics of Psychoanalysis, 1959-1960, Routledge, 1992, p.  259; cfr. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (19591960), Einaudi, 2008. 446 Alcune eccezioni sono il ruolo di ‘piccolo fratello’ ne Il regno 2 e del wedding planner in Melancholia. 447 M. D’Amato, Lars von Trier: Trilogia USA – Terra delle Opportunità, 10 marzo 2019, disponibile al seguente link: https://artesettima.it/2019/03/10/larsvon-trier-trilogia-usa-terra-delle-opportunita/ (ultimo accesso sabato 29 ottobre 2022). 448 P. Schepelern, Lars von Trier Interview: Through the Black Forest, cit. 449 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 209. 450 Da notare che le parole di Grace egregiamente non svelano nulla sul nale pur non contraddicendolo. 451 T. Williams, Suddenly Last Summer, Scene Four, Penguin Classics, 2009, p. 45. 452 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 453 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 208. 454 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 193. 455 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 108. 456 L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit. 457 M. Berthelius, R. Narbonne, A conversation with Lars von Trier, cit., p. 55, in cui a erma di trovare splendido anche Jarmusch, seppur non in maniera religiosa, come invece avvenuto con Bergman anche se non più all’epoca – anzi l’opposto – , nonché la rivelazione de Lo specchio di Tarkovskij. 458 E. A. Geijerstam, A Conversation with Lars von Trier, Henning Bendsten, and Ernst-Hugo Järegård, 1990, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 70. 459 P. Dowell, Lars Von Trier: A Problematic Sort Of Ladies’ Man?, 6 novembre 2011, disponibile al seguente link: https://www.npr.org/2011/11/06/142026288/lars-von-trier-a-problematic-sort-ofladies-man (ultimo accesso 29 dicembre 2022). 460 J. Hallund in L. Badley, Lars von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations, cit., p. 84, nota 113. 461 CloserTV – A Behind the Scenes Channel, Nicole Kidman interview about Dogville & Lars von Trier, disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=aRX9K0P5oW8&t=115s (ultimo accesso 30 ottobre 2022). 462 Che ha dichiarato all’epoca, 36 anni dopo il suo precedente musical Les parapluies de Cherbourg (del 1964 diretto Jacques Demy): “È stato emozionante perché in entrambi i casi si è trattato di lm musicali molto sui generis, con una

valenza politica e sociale precisa. Lars conosceva il mio lavoro di quegli anni. Quando ci siamo incontrati per la prima volta abbiamo parlato de Les Demoiselles de Rochefort [Josephine, del 1967 diretto da Jacques Demy]. Per la verità io nel lm canto pochissimo e la mia voce è appena udibile nella seconda traccia di Selmasongs, la colonna sonora del lm curata da Björk”; sull’esperienza di lavoro con Lars von Trier, l’attrice ha dichiarato: “Speciale, anche perché era la prima volta che giravo un lm in digitale. Lui sul set è sempre da solo. Nessun tecnico se non quello del suono, col quale vive praticamente attaccato. Sono come un mostro a due teste. Sapevo già prima d’incontrarlo che era quel tipo di pazzo che io amo. Uno che odia viaggiare, che so re di claustrofobia, che no a 35 anni non ha mai messo piede in un ristorante. Eppure il suo modo di lavorare, la sua determinazione a perseguire il risultato che ha in mente, mi ha dato una sicurezza straordinaria”, cfr. Deneuve: Von Trier un pazzo che mi piace, 16 ottobre 2000, apparso su La Repubblica, disponibile al seguente link: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2000/10/16/deneuvevon-trier-un-pazzo-che-mi.html (ultimo accesso 29 novembre 2022). 463 O Alpenglow (dal tedesco Alpenglühen), è un fenomeno ottico che appare come un bagliore rossastro che colora i picchi dei monti più alti, opposti al sole, quando il disco solare è appena sotto l’orizzonte. 464 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 196. 465 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 206. 466 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, cit. 467 CloserTV – A Behind the Scenes Channel, Nicole Kidman interview about Dogville & Lars von Trier, cit. 468 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, cit. 469 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 212. 470 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, cit. 471 G. Smith, Dance in the Dark, cit., p. 151. 472 T. Laine, Lars von Trier, Dogville and the hodological space of cinema, cit., pp.  129–141; cfr. altresì M. Serres, B. Latour, Conversations on Science, Culture, and Time, trad. R. Lapidus, University of Michigan Press, 1995, p. 154. 473 L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit., che continua: “Pietro e Giuda, gli unici due Dogvilliani che non sono stati toccati dall’eventuale dono di Grazia, [questa scena] è subito seguita dall’inizio della passione di Grace.” 474 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., pp. 206-207. 475 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 208. 476 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., pp. 101-102. 477 Alla domanda se per caso lui volesse ricondurre l’esperienza del lm al teatro, Lars von Trier rispose: “Si potrebbe paragonare alla moda. Se le gonne lunghe sono di moda, noi ri utiamo le gonne corte. Uno dei miei principi è tentare di essere aperti a quello che può essere il lm, senza preoccuparsi troppo di quello che è ora. Ci sono qualità evidenti nel Nickleby stilizzato che i registi attualmente ignorano. Ecco perché penso che sia divertente riprendere

questa forma.”, M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 208. 478 “Non so cosa fare: non riesco a leggere perché mi fa pensare ad altre cose, e i lm non sono troppo belli da vedere. Il mio problema è che vedere un lm non è così fantastico come quando ero giovane. È stato fantastico vedere un nuovo grande lm [pausa]. È stato fantastico vedere Barry Lyndon, l’ho appena rivisto.”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 160. 479 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 105. 480 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 207; cfr. ibid, in cui viene citato tra le in uenze anche il lm Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), lm muto del 1920 diretto da Robert Wiene del movimento espressionistico tedesco. 481 Un altro momento di cambio di luce è rappresentato dall’‘Alpenglow’ in casa di Jack McKay, cfr. supra il cap.3, pag. 260. 482 T. Laine, Lars von Trier, Dogville and the hodological space of cinema, cit., pp. 129–141. 483 Sul tema si rimanda a Lynch/Oz (2022), documentario diretto da Alexandre O. Philippe. 484 D. Moats, The Original Darkplace: Lars Von Trier’s The Kingdom, in Thequietus, 11 luglio 2011, disponibile al seguente link https://thequietus.com/articles/06550-the-original-garth-marenghi-s-darkplace-larsvon-trier-s-the-kingdom (ultimo accesso 16 ottobre 2022). 485 P.  P.  Pasolini, da La religione del mio tempo, in P.  P.  Pasolini, Poesie, Garzanti, 2016, p. 100. 486 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 160-161. 487 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 488 C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 489 La ritmoanalisi in poche parole descrive le relazioni tra il corpo, i suoi ritmi e il suo spazio. 490 Cfr. H. Lefebvre, The Production of Space, trad. D. Nicholson-Smith, Blackwell, 1991. 491 T. Laine, Lars von Trier, Dogville and the hodological space of cinema, cit., pp. 129-141. 492 T. Laine, Lars von Trier, Dogville and the hodological space of cinema, cit. pp. 129-141. 493 È stato osservato come questo è forse l’unico episodio in cui Grace dubita del rigido protocollo che regola le azioni negli spazi ordinati schematicamente della città, pur chiedendo subito dopo scusa e promettendo di lavorar ancor più duramente, mostrando in ciò di comprendere e accettare il suo in mo status, cfr. P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 202. 494 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 207.

495 Lars von Trier, Director’s statement. Riget Exodus, disponibile al seguente link: https://www.labiennale.org/en/cinema/2022/out-competition/riget-exodus (ultimo accesso 16 ottobre 2022). 496 T. Laine, Lars von Trier, Dogville and the hodological space of cinema, cit., pp. 129-141. 497 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 108. 498 L. Porter, Humanity and Patriarchy: A Study of Grace, in (a cura di) M. M. Dalton, S. V. Halliman, Student Essays on Lars von Trier (Critical Media Studies Book 6), cit., capitolo 4, pp. 52-53; secondo L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit., “l’animalizzazione dell’uomo che sostituisce la dicotomia uomo/animale non è altro che la diretta conseguenza della logica «imprenditoriale» dell’accumulazione che perverte lo scambio di doni, e perversamente «si impadronisce della cintura dell’uomo».” 499 L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit. 500 D. Nobus, The Politics of Gift-Giving and the Provocation of Lars von Trier’s Dogville, in Film-Philosophy 11: 23-37, 2007, p. 37. 501 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 207. 502 C. Browning, Lars von Trier’s American Critique Through Dogville, in (a cura di) M. M. Dalton, S. V. Halliman, Student Essays on Lars von Trier (Critical Media Studies Book 6), cit., capitolo 19, pp. 208-209. 503 K. Koplev, 9 A.M., Thursday, September 7, 2000: Lars von Trier, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 186. 504 L. von Trier, About Dogville, in Dogville O cial Web Site, citato in L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit. 505 Anche Ben come Tom Edison Jr. ha bisogno di rassicurazioni circa i propri piaceri sici. 506 La stessa Liz poco prima le aveva detto di poterle consigliare una crema per il rossore alle mani, causato dal lavoro sui bicchieri, a replicare la frase che Grace, in una scena ad inizio lm, aveva amichevolmente indirizzato alla donna. 507 L. Porter, Humanity and Patriarchy: A Study of Grace, cit., p. 55. 508 F. Kafka, Il processo, Adelphi, 2020, p. 20. 509 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 108. 510 P.  Schepelern, The King of Dogme, in Film #Special Issue/Dogme, Danish Film Institute, 2005, p. 11. 511 Cfr. L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit., che a erma come lo stato di Grace possa essere paragonato a ciò che Primo Levi de nisce Muselmann con riferimento alla sua esperienza ad Auschwitz. 512 L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit. 513 B. Brecht e K. Weill, Pirate Jenny (Seeräuberjenny) (1928). 514 B. Brecht e K. Weill, Pirate Jenny (Seeräuberjenny) (1928).

515 “I riferimenti al rumore di una prigione in costruzione nelle vicinanze si riferiscono a una tendenza iniziata negli anni ‘30 in cui l’industria carceraria sfruttava una forza lavoro pronta nelle aree impoverite e ra orzano l’immagine di Dogville/America come prigione e/o come criminale.”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p.  108, che cita B. M., Goss, Global Auteurs: Politics in the Films of Almodóvar, von Trier, and Winterbottom, Peter Lang Publishing Inc, 2009, p. 156. 516 M. Mauss de nisce questa relazione, nell’ambito dell’economia del dono, come “gli scambi e i contratti [che] avvengono sotto forma di regali […] dati e ricambiati obbligatoriamente […] un fenomeno sociale ‘totale’ [che dà espressione a] tutti i tipi di istituzioni allo stesso tempo – religiose, giuridiche, morali, […] economiche”, M. Mauss, The Gift, Routledge, 1999, p. 3. 517 “Paolo fu in essibile nell’a ermarlo. Erano ciò che mancava all’esistente. Se la legge doveva essere compiuta, questo signi cava che di per sé era insu ciente. E se la legge era insu ciente, questo signi cava che gli uomini non erano in grado di reggere da soli, senza il soccorso di un altro elemento – la grazia – e della gloria che l’accompagna”, R. Calasso, Sotto gli occhi dell’Agnello, Adelphi, 2022, p. 95. 518 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p.  210, il quale inoltre azzarda, con riferimento alla pelliccia, un richiamo al simbolismo erotico che saturava il noto, dai toni surrealisti, fashion-design di Salvador Dalì; la pelliccia è stata ricondotta tuttavia da Lars von Trier all’opera Venere in Pelliccia (Venus im pelz) di Leopold von Sacher-Masoch, su cui nel periodo giovanile aveva lavorato. L’opera è stata adattata cinematogra camente da Polanski nel 2013. 519 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 208. 520 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 110. 521 Su Vertigo di Hitchcock: “Madaleine è un gmentum, una immagine mentale […] Il segnale che manifesta l’entrata in contatto con Madeleine è il colore verde: nello scialle, lungo no a terra, della donna seduta al ristorante con Elster, nel vestito da giorno con colletto di Judy che cammina con le sue colleghe del grande magazzino. Fra l’uno e l’altro, ci sono anche molti verdi, introdotti dalla Jaguar verde chiaro di Madeleine, no al canopy dell’Hotel Empire dove vive Judy e alle tende nella sua stanza, illuminate dall’insegna al neon dell’albergo”, R. Calasso, Allucinazioni Americane, cit., p. 17. 522 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 110. 523 L. Chiesa, What is the Gift of Grace? On Dogville, cit., il quale continua a ermando che ciò che Tom erroneamente ha creduto essere il problema di Dogville, ossia la di coltà – e non l’impossibilità provata dai fatti – dell’accettazione, è stata sostituita dal problema molto più serio di Tom del perseguimento del bene comune. 524 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 197, che prosegue: “[…] Le mosse della macchina da presa di Lars von Trier lamentano al tempo stesso lo s lacciamento del tessuto sociale in Dogville, lo ricompongono visivamente e ci costringono a guardare con sgomento e soggezione la sua catastro ca cancellazione, pur assicurando scrupolosamente che non occupiamo mai un punto di vista genuinamente antagonista. Ora la

macchina da presa e ettua un rapido zoom out per una traballante visione grandangolare della città all’altezza degli occhi; ora improvvisamente zooma di nuovo sull’espressione facciale so erta o arrabbiata di un individuo; ora lo spettatore ottiene una ripresa aerea dell’intero set dall’alto. I primi piani estremi dei singoli volti potrebbero sembrare suggerire l’ine abile distinzione, in senso Arendtiano, di ogni individuo. Tuttavia, il continuo passaggio da un personaggio all’altro genera piuttosto la sensazione che ogni persona viva in un vuoto isolamento, all’interno delle sue so erenze e umiliazioni private, che si tratti di cecità, di un bisogno sessuale tormentato dai sensi di colpa o della fatica di prendersi cura di un parente incontinente. Più in generale, la macchina da presa giustappone, ma non media, la pseudo-aura trita e ritrita dell’inestimabile valore umano e la nta provocazione al rispetto morale emanata da ogni singolo volto con la totalità irreggimentata e risolutamente autoprotettiva della collettività. Un’acuta percezione di quest’ultima emerge attraverso i tableau delle riunioni cittadine e le inquadrature a grandangolo che mostrano il villaggio condurre serenamente i propri a ari mentre Grace viene violentata”. 525 P. A. Brandt, The Political Philosophy of a Dogville: On Dogville by Lars von Trier, in P.O.V. Film and Politics n. 16, 2003, p. 52. 526 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 212. 527 S. Bjorkman, Trier on von Trier, cit., p. 252. 528 M. Kapla, Lars von Trier in Dogville, cit., p. 212. 529 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 192. 530 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p. 199. 531 W. Staat, Dogville Characterized by The Grapes of Wrath: European Identity Construction through American Genre Conventions, in Framework: The Journal of Cinema and Media 48, no. 1, 2007, pp.  79-96, JSTOR, http://www.jstor.org/stable/41552480 (ultimo accesso 29 dicembre 2022); cfr. anche J. Holdt, Holdt Project, disponibile al seguente link: http://www.americanpictures.com (ultimo accesso 29 ottobre 2022). 532 Dogville (2003) – Interview with Director Lars von Trier, cit. 533 P.  Apostolidis, “Young Americans”. Rancière and Bowie in Dogville, cit., p.  204, che richiama a riguardo come le immagini fossero l’emblema del radicalismo operaio degli anni ‘30, così come percepito romanticamente dalla ‘New Left’ e dall’attivismo studentesco durante gli anni ’60. 534 M. Spagnoli, Interno Giorno. Pupi e Antonio Avati. I fratelli irresistibili (disponibile al seguente link: https://open.spotify.com/episode/1qRRcjzcNQxzsJEGCPB3gF? si=22d9f8d8068a46c0, ultimo accesso 9 luglio 2022), che continua: - “quindi la passione è la stessa solo che il risultato cambia completamente, perché il risultato si esaurisce in una serata e l’ascolto di quella serata che viene messo sui giornali, con pochissimo spazio, come se fosse andata in onda una qualunque altra trasmissione, non un lm di un autore importante e poi viene completamente dimenticato. Una volta nella televisione storica, nella televisione in bianco e nero, noi vedevamo un sacco di repliche […] e gli

sceneggiati, si chiamavano così, più importanti venivano replicati e noi non vedevamo l’ora di rivederli […] erano cose che ti davano il piacere del successo, la gloria anche la soddisfazione che in tanti li vedessero, adesso è una cosa […] nella lmogra a di Pupi i lm per la TV credo che non siano dai giornalisti e dai giornali credo che non siano neanche citati […] invece abbiamo girato dei lm, quelli erano dei lm girati interpretati e preparati come se fosse il lm che stiamo per andare a fare adesso” (Antonio Avati). - “E poi la critica stessa televisiva nei riguardi della proposta cinematogra ca TV… a parte che non c’è, numericamente è inesistente, si concentra in una gura sola, nel Corriere della sera che è una sorta di..” (Pupi Avati). - “Santone!” (Antonio Avati). - “Di santone che decide cosa sì e cosa no ma non c’è un dibattito, tu non vedi non ti senti per niente oggetto di attenzione, quindi, è molto frustrante fare la televisione.” (Pupi Avati). 535 Gli uomini di von Trier, soprattutto i protagonisti della trilogia Europa, sono tendenzialmente uomini deboli e sfortunati destinati a un fallimento catastro co, un fallimento preordinato dall’‘Europa’, dai sistemi umani, dalle istituzioni della cultura occidentale e, dopotutto, da se stessi. 536 Si dovrebbe citare anche Thomas Vinterberg, fondatore insieme a von Trier del collettivo Dogme95 e vincitore del premio della giuria a Cannes con Festen – Festa in famiglia (1998), Dogme #1 lm, ossia il primo lm ad essere certi cato in linea con il Voto di Castità, nonché dell’Oscar al miglior lm straniero con Un altro giro (Druk) nel 2021, per il quale aveva anche ricevuto una nomination come miglior regista; in una esilarante intervista in Trespassing Bergman (2013), documentario diretto da Jane Magnusson e Hynek Palla, Lars von Trier scherza sull’indi erenza mostrata verso di lui dal regista svedese Ingmar Bergman, che aveva invece intessuto una corrispondenza con Vinterberg, il quale a detta di von Trier non era nemmeno suo fan. 537 M. Berthelius, R. Narbonne, A conversation with Lars von Trier, cit., p. 47. 538 Segnalazione di Walter Siti riportata da M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, 2009, disponibile al seguente link: https://www.indafondazione.org/una-poetica-dell’estremismo-tragico-la-“medea”di-lars-von-trier/ (ultimo accesso 1 novembre 2022). 539 P. P. Pasolini, Il mio sacro è qui, intervista del 1970, pubblicata su Avvenire, 2014, disponibile al link: https://www.cittapasolini.com/post/pasolini-il-mio-sacrotesto-1970-avvenire (ultimo accesso 1 novembre 2022). 540 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), in Engramma, rivista online, n. 79, aprile 2010, disponibile al seguente link: http://www.engramma.it/eOS/index.php? id_articolo=446 (ultimo accesso 12 novembre 2022). 541 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit. 542 C. T. Dreyer, Jésus de Nazareth-Médée, Le Cerf/Corlet, 1986, p. 251. 543 W. Lapini, L’epitalamio per Glauce nella Medea di Dreyer, «Chaos e Kosmos» 6, 2004-2005, pp.  51-52, il quale a erma che: “Un esempio di questa fedeltà̀ può essere il fatto che Dreyer non volle eliminare dal copione euripideo neppure la scena dell’incontro Medea/Egeo (vv. 663-763), una scena ‘inutile’, scollata, contraddittoria, e che da sempre [5] fa discutere gli interpreti per la sua vera o ̀

presunta incapacità̀ di svolgere un ruolo signi cativo nell’economia dell’intreccio […] Una scena che, si noti, anche Seneca aveva cassato”; lo stesso autore evidenzia come, in modo originale, Dreyer e Probsen avessero preso a riferimento probabilmente anche un epigramma del poeta greco antico Ru no. 544 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit., che ci ricorda tuttavia che il testo fu trattato già prima in un saggio di D. Mimoso-Ruiz, Médée Antique et Moderne: Aspects Rituels et Socio-politiques d’un Mythe, Edition Ophrys, 1982. Da W. Lapini, L’epitalamio per Glauce nella Medea di Dreyer, cit., p.  51, apprendiamo che la sceneggiatura di Dreyer fu tradotta in inglese da Elsa Gress fra il 1966 e il 1967, apparsa in J. Jensen, Carl Theodor Dreyer, New York, 1988, pp. 79-92; è disponibile la traduzione in italiano a cura di V. Merler, Medea: lmogra a ultima e inedita, diss. Genova, 2004. 545 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit., che traccia un parallelismo con l’opera Asie (1931) del drammaturgo francese Henri-René Lenormand, che è una rivisitazione novecentesca del mito di Medea, nonché evidenzia in maniera molto interessante come l’elemento della ninna nanna fosse presente nella sceneggiatura pasoliniana, poi eliminato nel lm, forse perché – spiega l’autore – si volle evitare ogni cenno alla fama di Maria Callas come cantante, ogni presenza della sua voce divina; cfr. ivi, nota 10, l’estratto dalla sceneggiatura pasoliniana “«la madre lo culla, teneramente, e, in ne, per riuscire ad addormentarlo comincia a cantare; una vecchia ninna nanna popolare»”. 546 “Vengono infatti enfatizzati tutti i passaggi ‘protofemministi’ già presenti in Euripide”, B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, 22 giugno 2015, disponibile al link https://www.1977magazine.com/dallagrecia-di-euripide-allo-jutland-di-lars-von-trier/ (ultimo accesso 1 novembre 2022). Su Gertrud, von Trier ha anche avuto modo di osservare quanto segue: “Prendiamo ad esempio l’ultimo lm che ha girato [Gertrud]. Tra l’altro, l’ha girato in Danimarca. Non è piaciuto a nessuno, assolutamente a nessuno. Fu un’enorme battuta d’arresto per lui. Il lm fu completamente bocciato in Danimarca. Nell’ultimo lm non dirigeva i suoi attori, li ipnotizzava. Ma non li ipnotizzava in danese, bensì in una sorta di quasi ebraico che leggeva ad alta voce, perché pensava che questo creasse un legame magico tra gli attori e il regista.”, S. Björkman, L. Nyman, I Am Curious, Film: Lars von Trier, 1995, in (a cura di) J. Lumholdt, Lars von Trier: Interviews (Conversations with Filmmakers Series), cit., p. 101. 547 P.  P.  Pasolini, La sceneggiatura come “struttura che vuol essere un’altra struttura”, 1965. 548 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit., in cui si a erma altresì che Dreyer pensava di a darle a una delle due danzatrici e coreografe Martha Graham o Birgit Cullberg. 549 S. Björkman, L. Nyman, I Am Curious, Film: Lars von Trier, cit., p. 101. 550 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 111. 551 S. Björkman, L. Nyman, I Am Curious, Film: Lars von Trier, cit., p. 101. 552 S. Björkman, L. Nyman, I Am Curious, Film: Lars von Trier, cit., p. 101. 553 M. Tapper, A Romance in Decomposition, cit., p. 78. 554 C. B. Thomsen, Control and Chaos, cit., p. 111.

555 Lars Von Trier, S. Björkman, Il cinema come dogma. Conversazioni con Stig Björkman, cit., p. 114. 556 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 557 M. Tapper, A Romance in Decomposition, cit., p. 78. 558 L. K. Andersen, A Stone-Turner from Lyngby, cit., p. 90. 559 M. Bonasia, La Medea di Lars Von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, 1 agosto 2018, disponibile al seguente link: https://auralcrave.com/2018/08/01/la-medea-di-lars-von-trier-lelemento-acquatico-ela-s da-ai-maestri/ (ultimo accesso 10 novembre 2022). 560 M. Fusillo, Attualizzare/Universalizzare. Medea sullo schermo, in Engramma, vol. 79, aprile 2010, disponibile al seguente link: http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=447. 561 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit., la quale cita rispettivamente C. Thesson, Sotto la parola, lo sguardo, in (a cura di) A. Martini, Il cinema di Dreyer. L’eccentrico e il classico, Marsilio, 1987 e G. Carrara, Medea e la tragedia di avere un destino, in AA.VV., Il dogma della libertà. Conversazioni con Lars von Trier, Edizioni della Battaglia/La luna nel pozzo, 1999. 562 L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 47; cfr. però anche quanto detto B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit., che a erma: “Per cercare di ovviare alla piattezza delle immagini televisive, Medea è stato girato in video, le riprese sono poi state trasposte su pellicola lmando direttamente il monitor e in ne sono state riversate di nuovo su video.” 563 M. Berthelius, R. Narbonne, A conversation with Lars von Trier, p. 48; nella stessa intervista, Lars von Trier conferma che – all’epoca – aveva avuto modo di lavorare con il video solo alla scuola di cinema. 564 B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit. 565 B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit. 566 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 567 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit., la quale a erma altresì che: “A rileggere le dichiarazioni dell’autore il lm sarebbe poco meno di un esercizio di stile, e invece – al di là di qualche ingenuo e etto di cartapesta – si tratta di un testo fortemente espressivo.” 568 M. Bonasia, La Medea di Lars Von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, cit. 569 D. Chiesi, La Medea di Lars Von Trier, 24 Novembre 2009, disponibile al seguente link: https://odusseus.wordpress.com/2009/11/24/la-medea-di-lars-vontrier/ (ultimo accesso 10 novembre 2022), il quale a erma: “Quindi si ritorna su Medea, che in un monologo riprende alla lettera e nella sostanza il primo monologo dell’eroina in Euripide (vv. 214-266), che, dopo la fondamentale legge dell’eunh, si chiude col desiderio di vendetta da parte di Medea e la

promessa del silenzio da parte della donna-coro (legge del sigh, Euripide, Medea, v. 66 nella sua prima enucleazione).” 570 B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit. 571 Cfr. Euripide, Le Baccanti, a cura di D. Susanetti, Carocci, 2010; cfr. D. Chiesi, La Medea di Lars Von Trier, cit., che prosegue evidenziando che l’inquadratura si stringe a tal punto che, se non vi fossero i fotogrammi precedenti, si direbbe senz’altro che la scena si ambienta in uno spazio chiuso, in una buia e opprimente casa. 572 D. Chiesi, La Medea di Lars Von Trier, cit. 573 O. Michelsen, Passion Is the Lifeblood of Cinema, cit., p. 5. 574 T. Alling, Sightseeing with the Holy Ghost, cit., p. 29. 575 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit.; cfr. B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit., che a erma come: “Del maestro rimangono la recitazione ridotta all’osso, il compito di veicolare l’emotività lasciato alle immagini, i primi piani espressivi dal basso – tecniche che ricordano il cinema muto – e la rappresentazione del personaggio femminile (abiti, acconciatura, dettagli delle mani).” 576 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit. 577 D. Chiesi, La Medea di Lars von Trier, cit. 578 D. Chiesi, La Medea di Lars von Trier, cit. 579 D. Chiesi, La Medea di Lars von Trier, cit. 580 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit. 581 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 582 D. Chiesi, La Medea di Lars von Trier, cit., il quale invita a confrontare il gesto altresì con l’iniziale stretta della sabbia e con la preparazione del ‘farmakon’ e che continua a ermando come la dinamica mani-intelletto ri ette anche quella qumos-bouleuma, così importante in Euripide. 583 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 584 F. Marchi, Björk e Lars von Trier: Dancer in the dark tra genesi e divenire, cap. III – Il mondo intorno a Lars Von Trier e Dogma, cit. 585 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 586 C. E. Gadda, Eros e Priapo, come citato in G. Pinotti, Nota al Testo, in C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Adelphi, 2018, p. 318. 587 D. Chiesi, La Medea di Lars von Trier, cit., il quale prosegue con un’interessante ri essione sugli elementi primigeni all’interno del lm: “Essi sono, nell’ordine di comparsa: Acqua, Terra, Aria, Fuoco. L’Acqua è cambiamento, piani cato e atteso (cfr. le scene Egeo-Medea), ma bisogna saperci stare (cfr. Creonte nella palude). La Terra è ssità, una distesa vuota e

inconcludente, e chi sta nella terra (Creonte e Glauce nel palazzo, Giasone nei nascondigli e nel suo errare) è destinato alla rovina. L’Aria è condizione assoluta, sine qua non, che riguarda tutti (anche se in modi di erenti) e pervade il lm: col suo impeto, rappresenta la violenza dell’imminente, l’assenza di stabilità/certezze, il so o (yuch) della disperazione. Il Fuoco, infernale, gura il ferale qumos di Medea ed è simbolo di lutto nei funerali di Glauce.” 588 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit. 589 M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit. 590 D. Chiesi, La Medea di Lars von Trier, cit. 591 Da Lenormand, che immagina un avvelenamento con una marmellata di manghi, a Pasolini, che cala la scena in una calma rituale in cui l’atto non viene mostrato direttamente, ma mediato da gure retoriche, come la metonimia del coltello insanguinato (tecnica usata anche da Dassin), anche nelle versioni in cui l’infanticidio è più diretto ci sono forme di distanziamento: nello spettacolo di Robert Wilson Deafman Glance, poi diventato anche video, l’atto muto è ripetuto all’in nito, con un rallentamento tipico del teatro immagine che elimina ogni crudezza naturalistica; nell’opera di Tony Harrison (Medea: A SexWar Opera), in cui è messo in parallelo con quello di Eracle, è comunque reso con un forte straniamento brechtiano, cfr. M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit. 592 A cambiare tutto (dopo von Trier) sarà il romanzo di Christa Wolf, Medea. Voci (1996), che rilegge, tramite un processo che ricorda i metodi del fondatore del new historicism, Hayden White, il mito di Medea. La Wolf, infatti, vedendo la storiogra a come un discorso che può essere manipolato tramite le direttive culturali della classe egemonica al potere (seguendo Michel Foucault), scopre che Euripide venne corrotto e convinto dagli abitanti di Corinto a cambiare i tratti della sua tragedia, facendo perpetrare alla donna un infanticidio in realtà commesso dalla popolazione greca. La Wolf così elimina incredibilmente l’infanticidio dal mito della straniera della Colchide, cfr. M. Bonasia, La Medea di Lars von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, cit., il quale ricorda anche che la versione dell’infanticidio originale ha subito diversi cambiamenti nel ‘900, prima con Corrado Alvaro, che fa sì commettere l’infanticidio con pugnale da Medea, ma gli fa assumere i tratti di un gesto di protezione nale nei confronti dei gli, per difenderli dall’ira della folla aizzata di Corinto, pronta ad assassinare Medea e i bambini. 593 S. Björkman, Trier on von Trier, cit., p. 118. 594 M. Fusillo, Attualizzare/Universalizzare. Medea sullo schermo, cit. 595 A. Rodighiero, Cinema e tragedia, in Engramma, vol. 79, aprile 2010, disponibile al seguente link: http://www.engramma.it/eOS/index.php? id_articolo=448 (ultimo accesso 12 novembre 2022), il quale prosegue citando Hámavál, strofa 138, in Il Canzoniere eddico, a cura di P. Scardigli, Garzanti, 1982, p.  40: “Lo so che sono stato appeso al tronco scosso dal vento / nove intere notti, / da una lancia ferito e sacri cato a Odino, / io a me stesso, / su quell’albero che nessuno conosce / dove dalle radici s’erga”.

596 S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 597 M. Bonasia, La Medea di Lars von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, cit. 598 Confermando la sua nuova natura da marinaia e togliendosi la cu a, mostrando una meravigliosa chioma rossa fuoco, cfr. M. Bonasia, La Medea di Lars von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, cit., che associa dunque l’elemento acquatico a Medea; cfr. M. Fusillo, Una poetica dell’estremismo tragico: La “Medea” di Lars von Trier, cit., il quale evidenzia che: “L’elemento acquatico, che nel mito è associato da sempre a Giasone e al suo ruolo di conquistatore (Pasolini ha costruito tutto il lm sull’antitesi acqua/fuoco legata ai due protagonisti)”; cfr. altresì S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée». La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit., “Forzando in modo sublime la consueta attribuzione a Giasone del dominio dell’acqua, von Trier fa di Medea una ribelle donna del mare, pronta ad assecondare i sussulti dell’oceano e a perdersi nei suoi abissi. Complice la generosa ospitalità di Egeo, infatti, la madre assassina abbandonerà le sponde uggiose di questa Corinto del Nord a bordo di una nave, mentre Giasone soccomberà simbolicamente, annegando in un mare di erba scura.”; cfr. tuttavia B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit., la quale sembra invece associare Medea al fuoco e Giasone all’acqua: “La contrapposizione tra acqua-Giasone e fuoco-Medea, fondamentale in Pasolini, torna anche qui in modo ossessivo.” 599 M. Bonasia, La Medea di Lars von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, cit., il quale a erma che: “Von Trier è il primo a mettere in scena la morte di Giasone, no a quel momento la ne dell’eroe dell’Argo era stata o totalmente ignorata (quasi sempre nelle versioni in cui Medea viene vista come una maga indemoniata, come in Seneca e Anouilh) oppure accennata tramite profezie di Medea (Euripide e Je ers).” 600 A. Rodighiero, Cinema e tragedia, cit.; “C’è da scommettere che le turbate angosce di Antichrist, l’ossessiva indagine sulla duplice e diabolica natura del femminile derivino da questo lontano lm per la televisione: e allora anche per Medea valgono le note e i versi di Handel su cui si apre Antichrist: «Lascia ch’io pianga/ mia cruda sorte / e che sospiri la libertà”, S. Rimini, Tragedia di una «femme revoltée», La Medea cinematogra ca di Lars von Trier (e Carl Theodor Dreyer), cit. 601 M. Bonasia, La Medea di Lars von Trier: l’elemento acquatico e la s da ai maestri, cit. 602 B. Pini, Dalla Grecia di Euripide allo Jütland di Lars von Trier, cit. 603 G. Bernoni, “Io credo che il bene e il male siano delle componenti basilari nell’essere umano” – Incontro con Lars von Trier, 2003, disponibile al seguente link: https://www.sentieriselvaggi.it/io-credo-che-il-bene-e-il-male-siano-delle-componentibasilari-nellessere-umano-incontro-con-lars-von-trier/ (ultimo accesso 13 novembre 2022). 604 G. Bernoni, “Io credo che il bene e il male siano delle componenti basilari nell’essere umano” – Incontro con Lars von Trier, cit. 605 “…Cosa posso dire dell’America? Il potere corrompe”, L. Badley, Lars von Trier (Contemporary Film Directors), cit., p. 113.

606 R. Calasso, Sotto gli occhi dell’Agnello, cit., p. 65, “Che l’Apocalisse fosse un libro di vendetta era apparso già dai tempi di Aimone di Halberstadt e Berengaudo. Poi, la questione era sempre ria orata sino agli esegeti di oggi. Ma nessuno parlava del nesso sconvolgente fra la distruzione di un mondo in cui si era sviluppata la storia sacra, inclusa la storia di Gesù, e un mondo di cui tutto si ignorava, salvo l’Agnello”. 607 In Medea, i cani sono i compagni dati di Giasone, a cui è altresì associato il cavallo come animale. 608 “Il nostro primo scatto è sempre senza direzione. Grazie a queste telecamere che possono contenere così tanto materiale, le persone fanno esattamente quello che vogliono fare con il personaggio. O re diversi vantaggi. Per esempio, si possono ottenere, magari, tre piccole inquadrature che altrimenti non si otterrebbero mai. Se il cameraman vuole seguire qualcuno, deve seguirlo invece di fare segni sul pavimento, ecc. è stato divertente sviluppare questa tecnica.”, C. Lund, Lars von Trier: The Burden From Donald Duck | Louisiana Channel, cit. 609 La colonna sonora di Medea è di Joachim Holbek, compositore danese, che si occupa anche della soundtrack di Europa, Il regno, Il regno 2, Il regno Exodus, Manderlay (lavora con von Trier anche per Le onde del destino, D-DAY e Dogville stesso).